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NUM ERO VI I

WORLDWIDE Alain Schroeder Bojan “Chibsterr” Nikolic Streetmax21 Diana Cheren Nygren STORIE DEL B E L PA E S E Giacomo Infantino Gianmarco Maraviglia Fabio Moscatelli Lorenzo Zoppolato

INSIDE PROGETTI IN QUARANTENA Fabio Itri Loredana Celano Lisa Sorgini Simone Raeli




Introduzione

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Wo r ldw i d e a cura di Attilio Lauria e della redazione social FIAF testi di Susanna Bertoni, Antonio Desideri, Irene Vitrano e Debora Valentini

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Thruthiness - Bojan “Chibsterr� Nikolic Urban visions - Streetmax21 Upper East Side Story - Alain Schroeder When the trees are gone - Diana Cheren Nygren

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S t o r i e da l B elpa e s e a cura di Vanni Pandolfi

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Unreal - Giacomo Infantino Glitch - Gianmarco Maraviglia Fronte del Porto - Fabio Moscatelli Cronache Immaginarie di un Domatore di cavalli - Lorenzo Zoppolato

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I N S IDE Progetti in quarantena, a cura di Sonia Pampuri

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Circus Quarantine - Fabio Itri Condominium - Loredana Celano Behind Glass - Lisa Sorgini Il tappeto Volante - Simone Raeli

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Postfazione

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N U M ERO V II

Cities Vol. VII Prodotto e distribuito da Concept Copertina Photo editor Editing finale Grafica

Ottobre 2020 ISP - Italian Street Photography Angelo Cucchetto Fabio Itri Graziano Perotti Angelo Cucchetto e Graziano Perotti Studio grafico Stefano Ambroset Š Tutte le foto appartengono ai rispettivi autori

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E siamo giunti al settimo numero di CITIES! Più di tre anni di vita, ormai è quasi un adulto (parafrasando la scala canina…) e si presenta come una realizzazione matura. Abbiamo spesso guardato a zine e mag stranieri come fonte di ispirazione per le tendenze in fotografia, e ci sentiamo ora autorizzati a considerare CITIES come una di queste, un magazine semestrale di qualità dedicato alla fotografia urbana, in tutte le sue numerose eccezioni. Questo numero, messo insieme nelle sue scelte fotografiche finali da me e dal nostro photoeditor Graziano Perotti, raccoglie tre sezioni con 12 storie di bravissimi autori: La prima sezione è Worldwide, dedicata agli autori stranieri e curata da Attilio Lauria con la redazione Social di FIAF, con testi di Susanna Bertoni, Antonio Desideri, Debora Valentini e Irene Vitrano. Quattro le storie che compongono quella sezione, che offre uno spaccato sulla moderna fotografia Urbana internazionale: Upper East Side Story di Alain Schroeder, Thruthiness di Bojan “Chibsterr” Nikolic, Urban visions di Streetmax21, When the trees are gone di Diana Cheren Nygren. Segue una sezione dedicata alle Storie del Bel Paese, curata da questo numero da Vanni Pandolfi, che dal 2012 porta avanti un progetto editoriale per monitorare lo stato della Fotografia ai tempi dei social, Bestselected. Vanni ha selezionato 4 storie di autori Italiani molto interessanti: Unreal di Giacomo Infantino, Glitch di Gianmarco Maraviglia, Fronte del Porto di Fabio Moscatelli e Cronache Immaginarie di un Domatore di cavalli di Lorenzo Zoppolato. Infine una sezione dedicata a Inside, progetti realizzati in quarantena “virale”, curata da Sonia Pampuri, giornalista poliedrica ed attenta osservatrice del panorama artistico. Ecco i quattro progetti selezionati: Circus Quarantine di Fabio Itri, Condominium di Loredana Celano, Behind Glass di Lisa Sorgini, Il tappeto volante di Simone Raeli. Mentre scrivo questa introduzione mi giungono news su alcuni degli Autori presenti e mi sento orgoglioso delle scelte fatte, 12 storie e serie di 12 bravissimi autori, tra cui vincitori del wordpress, di altri premi importanti e di mostre personali in partenza. Grazie a tutti loro per esserci. E grazie a voi per continuare ad apprezzare CITIES! Angelo Cucchetto

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Presentando l’avvio della partnership fra CITIES e la FIAF, la maggiore e più longeva realtà associativa fotografica italiana, nel numero scorso si tracciava la rotta delle nostre esplorazioni fra le declinazioni contemporanee della fotografia che si muove per strade e contesti urbani. Un percorso da dribblatori del consueto, alla ricerca di quel sussulto di meraviglia che impedisca magneticamente di scorrere oltre. E nonostante un diffuso manierismo, ingabbiato ormai nel loop delle codificazioni di genere, le nicchie del web non mancano mai di dare soddisfazione a chi è dotato della pazienza del tempo, con vitalissime sperimentazioni linguistiche in cerca di nuovi modi di interpretare e raccontare il contemporaneo. Così anche per questo numero siamo partiti da un lavoro linguisticamente più “classico”, per poi proporre delle declinazioni maggiormente concettuali, fino alla provocazione di un interrogativo in grado di disorientare quanti fanno dell’ortodossia delle regole una questione di appartenenza di genere, ancor prima di qualsiasi altra lettura. Muovendosi su quel confine fra realtà e apparenza che Debora Valentini definisce il verosimile, Thruthiness, di Bojan “Chibsterr” Nikolic, coglie gli effetti stranianti delle sovrapposizioni dei diversi piani creati da riflessi, contrapposizioni e punti di vista inusuali sulla superficie fotografica. Un illusionismo che dalla strada vale come invito esistenziale a coltivare il dubbio, antidoto sempre utile di cui fare scorta per la vita. Accanto allo scatto singolo, dove l’ambiente urbano è lo scenario di situazioni più o meno ripetibili al di là del contesto, riconoscibile genericamente nei segni che caratterizzano la metropolitanità, ci sono lavori che viceversa si concentrano proprio sulla relazione fra i luoghi e le persone, nel tentativo di cogliere le dinamiche secondo cui tendono a plasmarsi a vicenda. È un modo di raccontare che necessita ovviamente di quell’articolazione in serie che ritroviamo nei portfolio di Streetmax21 e Alain Schroeder, proposti da Antonio Desideri e Susanna Bertoni. “Le visioni fotografiche di StreetMax 21 - rileva Desideri - sono percorse da nude linee di forza, sono organizzazioni spaziali che confliggono”, e il “non avere quasi mai un orizzonte, una linea di fuga o una scappatoia verso un qualsiasi altrove accentua quel senso di superficie piatta. In definitiva, una forma sofisticata e straniante di geometria piana.” Secondo tale declinazione, che traduce lo straniamento nella sensazione di separazione e isolamento di un’umanità per altri versi iperconnessa, le città dell’Autore scozzese appaiono la propagazione surmoderna del concetto originariamente circoscritto di “non luogo”, ponendoci di fronte all’interrogativo se il superamento di quel concetto sia dovuto all’agire del tempo, che ha reso abituali quei luoghi, o se non siano piuttosto le nuove progettazioni cittadine ad avvolgerci in un “non luogo” ormai diffuso e pertanto impercettibile, che ne svuota la fortunata efficacia definitoria. Nel rapporto con il luogo c’è poi in Alain Schroeder un passaggio ulteriore, che gioca con il concetto di luogo comune e la sua retorica: se l’Upper East Side è conosciuto come “il quartiere che meglio esprime lo spirito raffinato e chic del life style newyorchese”, scrive Bertoni, “l’identità del quartiere, in realtà assai composita, è rivelata attraverso la parte meno conosciuta, ma ugualmente importante, della comunità residente”, che sfugge al ritratto stereotipato fissato nell’immaginario collettivo. Dunque, sebbene con modalità diverse rispetto a “Chibsterr”, ancora un invito ad andare oltre la superficie. Irene Vitrano ci porta infine in altri “non-luoghi”, questa volta “dal delicato tratto kafkiano”, come definisce i paesaggi immaginari di Diana Cheren Nygren, che in When the trees are gone prefigura “cosa potrebbe accadere se nelle grandi metropoli, ormai densamente edificate, la vegetazione dovesse venir meno; se quegli alberi che danno il titolo al progetto scomparissero per davvero”. A ciascuno legittimamente il suo futuro, ma ciò che a noi qui interessa è mettere in campo una riflessione sulla compatibilità della fotografia urbana con un paesaggio ricreato artificialmente. Ancor prima della diatriba fra spontaneità ed elaborazione da fine art, e dunque fra puristi e possibilisti, la questione attiene evidentemente ad un’etica di genere: a prescindere dalla platealità dichiarata dei collages della Cheren Nygren, la loro comprensione entro i confini di genere potrebbe legittimare cioè interventi meno espliciti, aprendo le porte al sospetto. Un po’ come dire che per urban & street potrebbe essere l’inizio della fine. Attilio Lauria


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Thruthiness

Bojan “Chibsterr” Nikolic


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Thruthiness

Bojan “Chibsterr” Nikolic “Thruthiness” è il titolo del lavoro on going che raccoglie inconsuete visioni della realtà per come viene percepita da Bojan Nikolic, alias “Chibsterr”, mostrandoci ciò che “sembra vero”, il “verosimile”. Un modo per interrogarci su quale sia, in fondo, la verità. In strada può accadere di ritrovarsi in bilico tra realtà e irrealtà, di percorrerle entrambe divenendo testimone unico di “un possibile reale” che, come affermava Aristotele, “appare agli occhi di coloro che sanno”. Ed è quel verosimile che secondo il filosofo e saggista Cvetan Todorov “riempie il vuoto aperto tra le leggi del linguaggio” grazie anche alla fotografia, che dall’innesco della visione amplifica i sensi. Sono scatti decisamente originali, in cui l’Autore restituisce la prospettiva personale di una realtà che allo spettatore può sembrare indubbiamente “surreale”, costringendolo a “sospendere l’incredulità,” come sosteneva Coleridge, per poi accettare l’opera per “vera”. Dobbiamo fidarci, o meglio affidarci allo sguardo autoriale per superare il limite, il confine. “Nell’approccio fotografico” - spiega Bojan Nikolic - “sento che ci sono diversi strati di realtà e quelli che vediamo immediatamente sono limitati dai recettori che abbiamo. Alla ricerca di situazioni che risuonino e siano di impatto emotivo per me”. Situazioni che riescono oltremodo ad intrigare e coinvolgere noi fruitori. Un sentire che lo accomuna ad alcuni fotografi della penisola balcanica, dove è nato, e dove ritorna nel suo peregrinare; sono Dirty Harry, ovvero Charalampos Kydonakis, e Stavrous Stamatiou: ne apprezza le visioni uniche del mondo e “come riescano a mettersi nelle foto, sia in senso figurato che in senso letterale”. Ecco ritornare come eco antico dalla Grecia, l’eikos iniziale invocato, le verità verosimili. È lo stesso Bojan Nikolic a guidarci nel suo mondo, dal quale, a volte, ci osserva o pare osservarci. Sceglie l’autoritratto. Qui due piani spezzati, due presenze si incontrano, si fondono. Il suo sguardo indaga, è sorpreso, allucinato. Oppure a fissarci è l’occhio della donna ritratta nel quadro, come in un transfer con l’uomo senza volto che ci rivolge le spalle. O le turchesi pupille di un cane. Londra è per lo più il suo mondo: presenze inquietanti fluttuano su di noi, sembrano essere una nostra proiezione cupa, un incubo che si fa reale. La metropolitana può riservare incontri inaspettati, e nella normalità offrire l’inverosimile, come un arto bianco tenuto tra le mani di un uomo addormentato. “La gamba di plastica sembrava far parte del suo corpo contro i vestiti. Mentre l’autobus si avvicinava alla mia fermata, la donna iniziò a sfregarsi vigorosamente le mani e io scorsi due colpi del gesto. Alla fine sapevo di avere qualcosa”. “Una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto”, ricordando Cartier-Bresson; alla fermata successiva era già sceso. Spesso è proprio l’istinto a guidarlo, lasciandosi coinvolgere appieno da ciò che accade, vivendo il momento, cogliendo la luce. Eccola allora oscillare, prendere vita, ferirci gli occhi. Mentre i colori diventano squillanti proprio come vuole il “cinema al neon” di Gaspar Noé (Climax) e di Nicolas Winding Refn (Collyrium). Nei timpani sento risuonare le stesse forti sonorità elettroniche. Ritorna la musica sua compagna. Anche l’arte cinematografica ha su Bojan Nikolic grande fascinazione. Ricorda di aver passato tanto tempo a “mettere in pausa le scene dei film di Andrej Tarkovskij e a studiare l’atmosfera visiva di Stanley Kubrick e David Lynch”. Quella visione rossa sulla spiaggia, un’effimera eppure vitale presenza umana, la palma al centro dell’inquadratura, sarebbe piaciuta certamente a David Lynch di “Inland Empire”, perché i confini tra sogno e realtà tornano in foto di nuovo ad annullarsi. Sospesi a fili invisibili, ci ancoriamo a ciò che ci risulta più credibile, quel mondo possibile, “verosimile” per ciascuno di noi, ma diverso ogni volta. Debora Valentini

Nasce a Sarajevo 38 anni fa, nella ex Jugoslavia. Vi farà ritorno solo dopo 15 anni. L’arte e soprattutto la musica hanno sempre segnato il suo sentire. Insegnante, tre anni fa in Colombia scopre un nuovo modo di esprimersi oltre la musica. “Ho iniziato a vedere momenti intorno a me, ed ero entusiasta di poter catturare e interagire con essi usando una fotocamera”. Da allora non esce senza di essa. Ama viaggiare, quando gli è possibile, e percorrere quelle ex repubbliche jugoslave che non ha visitato da piccolo. Aveva solo otto anni, infatti, quando la sua famiglia si trasferì a Londra, dove tuttora vive. Finalista all’edizione 2018, 2019 e 2020 dell’ “Italian Street Photography Festival Finalista all’edizione 2018, 2019 del “Miami Street Photography Festival” e del “London Street Photography Festival” Vincitore dell’”Aussie Street Photo Festival” 2019 Finalista edizione 2018 del “Brussels Street Photography Festival” e del “Bangkok Street Photograpy Festival”. www.chibsterrphoto.com - www.instagram.com/chibsterr

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Urban Visions Streetmax 21


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Urban Visions Streetmax 21

Non c’è visione che non presupponga una distanza. Sia essa quella propriamente tecnica del campo di ripresa e della sua profondità oppure quella forse più partecipata del rapporto, per così dire, emotivo, con l’oggetto della nostra osservazione. Che si guardi la fotografia (in quanto manufatto tecnico) oppure il luogo-oggetto che lo riempie e lo compie è sempre come un’eco che ci ritorna, il nostro personale sonar di spettatori. Certo, a distanza di decenni dalle visioni utopiche di Lewis Mumford o Colin Ward, la città sembra aver tradito ogni aspettativa di quel tipo e il lavoro di StreetMax 21, fotografo di origine scozzese, sta qui a dimostrarlo in maniera quasi sfacciata. O almeno senza possibilità di appello. Le sue riprese sono uno spettacolo algido, volutamente senza profondità. Un palcoscenico che non ha spazio per alcuna recita ma si presenta piuttosto come una lastra, più piatta di qualsiasi sguardo. E’ una superficie che sembra aver schiacciato ogni piano su un unico livello, assolutamente liscio, levigato. Quindi, a mio avviso, la distanza di cui si diceva all’inizio è tutta sostanziale: sta cioè nel mettere fuori dalla nostra portata qualsiasi forma di partecipazione visiva. A noi spettatori tocca assistere, guardare da quest’altra parte del vetro, subire passivamene quanto la città fa ai suoi abitanti, ai suoi clienti, a chi la usa e si fa usare. Il rapporto che StreetMax ci dà da guardare va anche oltre il suo dichiarato intento di considerare gli esseri umani come robot nella catena di montaggio urbana, tra affari, ruoli imposti, ripetizioni. Siamo noi (intesi stavolta come gli abitanti) a rispondere all’algoritmo che sta alla base di questo modello di vita, siamo noi l’icona da cliccare e il nostro posizionamento nello spazio piatto è come quello dentro una homepage. Provate a guardare queste foto allungando le braccia davanti a voi: vi sembrerà uno schema grafico quello che avrete davanti, un plot, quasi una matrice dove a contare non sono le persone ma le direzioni che stanno percorrendo. Le visioni fotografiche di StreetMax sono percorse da nude linee di forza, sono organizzazioni spaziali che confliggono e, fateci caso ancora, il fatto di non avere quasi mai un orizzonte, una linea di fuga o una scappatoia verso un qualsiasi altrove accentua quel senso di superficie piatta. In definitiva, una forma sofisticata e straniante di geometria piana. Così, se volessimo cominciare a tirare le fila potremmo riferirci ai nonluoghi dell’omonimo, celeberrimo libro di Marc Augé ovvero a quelle strutture dove le persone/merci semplicemente accelerano la loro circolazione. Ci si sposta senza contatto, senza relazioni, senza curiosità o interesse ma soltanto come mere funzioni. Abbiamo finito col perderci dentro la giostra che noi stessi ci siamo costruiti. La questione quindi non è più dove stiamo andando o cosa stiamo facendo. La rappresentazione del mondo proposta da StreetMax va oltre e, non potendo/volendo seguire alcuna compiutezza tridimensionale, sembra ammiccare piuttosto a un «quando» ovvero una sospensione estrema, una forma di congelamento del mondo. Insomma, una faccenda tremendamente seria. Antonio Desideri

Streetmax 21 è un fotografo scozzese nato a Dundee (dove si è diplomato al Jordanstone College of Art), oggi vive tra Norfolk e Londra. E’ stato fotogiornalista e fotografo di architettura prima di dedicarsi alla street, il genere che gli ha dato notorietà e diversi riconoscimenti internazionali a cominciare dal 2016 quanto è stato finalista dello Street Awards di LensCulture. Tra gli altri, nel 2017 è stato finalista al Miami Street Festival e allo Streetfoto di S. Francisco e vincitore al PhoS di Atene mentre l’anno successivo la sua partecipazione all’Italian Street Photography di Roma si è risolta con la conquista dell’ennesima finale. Sempre nel 2018 è stato ospite al Circuito Off di Arles. Nel 2019 ha vinto lo Streetfoto di S. Francisco e continuato a raccogliere riconoscimenti in varie parti del mondo. Le sue immagini sono state pubblicate in libri e riviste. Su Instagram è streetmax21.

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Upper East Side Story Alain Schroeder

La psicologia dell’abitare… L’Upper East Side di Manhattan è il quartiere che meglio esprime lo spirito raffinato e chic del life style newyorchese. La sua fama, però, va ben oltre: è “l’isola nell’isola” per essere, in assoluto, la zona residenziale più esclusiva e lussuosa della Grande Mela, quella dei politici, degli artisti di fama internazionale e dei capitani d’industria capaci di spostare l’asse dell’economia mondiale con alleanze commerciali strette in incontri per pochi. Ma questa è storia nota. Il fotografo belga Alain Schroeder racconta, invece, un’altra Upper East Side, più umana, più viva, più colorata, quella dei suoi amici e dei loro conoscenti. Di gente che abita lì da sempre, affezionata al quartiere, che mai vorrebbero lasciare, e di quelli che solo recentemente vi hanno traslocato, attratti da uno stile di vita più sereno, da buone scuole per i figli e dai grandi parchi. Non VIP dell’high society ma persone che, indipendentemente dallo status sociale, vivono da comuni mortali. Schroeder entra nelle loro case, lasciandoli liberi di mostrarsi e di mostrare. Colpiscono la dignità, la fierezza e l’orgoglio di questi strani soggetti, perfettamente a loro agio davanti all’obiettivo, desiderosi di raccontarsi e di aprire il loro regno al resto del mondo. Se la psicologia dell’abitare afferma che la casa è l’estensione architettonica di chi la abita, gli spazi privati dei ritratti ambientati dell’”Upper East Side” di Alain Schroeder sono la cartina di tornasole del vissuto e del presente dei personaggi oggetto dell’indagine, vero e proprio spaccato del melting pot culturale e razziale, del vivi e lascia vivere di quell’ombelico del mondo che è New York. Un “urban” complesso e stratificato, che necessita di essere lentamente decodificato per riuscire a farsi apprezzare oltre il visibile: l’identità del quartiere, in realtà assai composita, è rivelata attraverso la parte meno conosciuta, ma ugualmente importante, della comunità residente. Il titolo del progetto fotografico è determinante nel richiamare alla mente il “già conosciuto” legato all’immaginario collettivo, mentre il corpo di lavoro, in apparente controsenso, indaga aspetti meno noti ma pure fortemente caratterizzanti della società del luogo. L’Upper East Side si svela, quindi, non direttamente ma per deduzione, attraverso un percorso concettuale tra ciò che è ampiamente conosciuto, dunque retorico, e ciò che è qui rappresentato. Occorre affiancare questi due aspetti per avere l’interezza del quadro sociale, operazione non usuale ma necessaria per contestualizzare l’opera, conferendole un respiro più ampio. Susanna Bertoni

Il fotografo belga Alain Schroeder, classe 1955, lavora nel settore da oltre tre decenni. Durante il suo incarico come fotografo sportivo negli anni ‘80, i suoi scatti sono apparsi su più di 500 copertine di riviste. Sono seguiti incarichi per pubblicazioni con argomenti diversi come viaggi, arte, cultura e interessi umani. Nel 1989 ha co-fondato l’agenzia fotografica belga Reporter. Nel 2013, decide di cambiare la sua vita per dedicarsi al reportage e da allora gira il mondo con la sua macchina fotografica narrando storie incentrate su questioni sociali, persone e ambiente. “Non sono un fotografo da scatto singolo. Penso in serie sforzandomi di raccontare una storia in 10-15 immagini, catturando l’essenza di un istante con un senso di luce e un’inquadratura perfetta” dice do sé. Le sue foto hanno vinto numerosi premi, tra cui il World Press Photo nel 2018 e 2020, rispettivamente nelle categorie “Sport - Storie” e “Natura”, sia per scatto singolo che per racconto.

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When the trees are gone Diana Cheren Nygren


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When the trees are gone Diana Cheren Nygren

All’inizio sembra un miraggio davanti al quale ci si interroga. Poi, la rivelazione di un’accurata elaborazione con la tecnica del collage. La serie When the trees are gone, della fotografa statunitense Diana Cheren Nygren, ci apre una curiosa successione prospettica di paesaggio urbano. Cosa ci fanno delle figure umane in tenuta prettamente marittima, stagliate contro gli skyline dei grattacieli americani? La risposta è racchiusa nella necessità e nel senso di questo lavoro, enfatizzato dalla grande passione di Diana per la fotografia paesaggistica che la stessa autrice annovera nella categoria del ritratto, al pari di quella rivolta all’individuo. Secondo Diana, infatti, anche i luoghi e le città posseggono il loro carattere, talmente distinto e definito da sostenere quegli archetipi che ne rivelano la reale condizione. Abituata a contemplare i paesaggi quieti e incontaminati della sua infanzia a Cape Cod, istruita dagli stessi genitori alla meraviglia degli elementi naturali, l’autrice trasferisce il medesimo trasporto nella street photography e nella ritrattistica ed è probabilmente questo il motivo che rende la serie fortemente realistica ed equilibrata. In un tempo come quello attuale, in cui l’ambiente naturale è costantemente minacciato dagli stravolgimenti climatici, Diana prova a immaginare cosa potrebbe accadere se nelle grandi metropoli, ormai densamente edificate, la vegetazione dovesse venir meno; se quegli alberi che danno il titolo al progetto scomparissero per davvero: con molta probabilità i mari lambirebbero gli edifici, i tetti dei grattacieli si trasformerebbero in piscine e molti elementi urbani troverebbero un’altra collocazione e un rinnovato utilizzo. Senza più spazi verdi e oasi naturali, il cui posto é continuamente a favore di nuove costruzioni, le persone utilizzerebbero questi nuovi assetti come spazio di ritrovo sociale, di relax, di sospensione, il tutto con lo stesso atteggiamento immobile che caratterizza questi “non-luoghi” dal delicato tratto kafkiano. Persino, con l’inerzia fisica e psicologica dei suoi abitanti, dimentichi delle cause che hanno generato questi nuovi panorami, concentrati piuttosto nella loro superficiale esaminazione: bagnanti in acque paludose o immersi in piscine ricavate tra rooftops, vecchi distributori di servizio e aree industriali, individui intenti a scattarsi selfie o a passeggiare sui tetti con sdraio e teli da mare in mano in cerca di un confort ben lontano dalle aspettative. Per quanto adattati alla nuova condizione, si legge, nella loro postura, un senso di frustrazione e di scarso sollievo e si riconosce, all’interno dei nuovi scenari, la precarietà degli stessi; come un trascinarsi perpetuo dell’eterno conflitto uomo-ambiente, affrontato da Diana. Siamo nuovamente davanti a un presentimento che l’autrice, inconsciamente, scongiura. Lei, una meravigliosa sognatrice che con questo lavoro surreale e visionario ci rende spettatori del suo desiderio di riscatto per il continuo disequilibrio al quale il nostro pianeta è irrimediabilmente sottoposto. Così mi piace accostarle una frase di Thomas Edward Lawrence: “Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire le vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti, per renderli possibili”. Allo stesso modo di Diana, anche noi desideriamo credere al possibile sogno di riequilibrio del nostro ecosistema, confidando per questo anche nella forza persuasiva dell’arte e nel suo innegabile potere educativo al rispetto e alla bellezza. Irene Vitrano Diana Cheren Nygren è un’affermata fotografa di Boston, Massachusetts. Ha conseguito la Laurea in Belle Arti presso l’Università di Harvard con una tesi sulla fotografia di Diane Arbus e un master in Storia dell’Arte presso l’Università di Berkeley. Da sempre interessata e dedita all’arte moderna e contemporanea, annovera nel suo curriculum numerosi premi e riconoscimenti. La fotografia “Water Bottle”, tratta dalla serie “When the trees are gone”, si è classificata al primo posto della sezione fotografia all’evento “Art saves Humanity” edizione 2020, mentre “Gas Station” ha avuto una menzione d’onore al “10° Annual International Photography Competition” FMoPA 2020.

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Giacomo Infantino, Gianmarco Maraviglia, Fabio Moscatelli, Lorenzo Zoppolato. La loro Fotografia, le loro 4 storie sono come 4 splendenti isole in quel vastissimo Oceano che è la Fotografia. Un viaggio per immagini ed emozioni esaltante che si compie all’interno delle pagine di Cities giunto con inebriante bellezza alla settima edizione. La sezione “Storie dal Belpaese” immergerà lo spettatore in una Fotografia di grande carattere e altissima qualità. Sono storie assolutamente straordinarie quelle narrate da i 4 autori; racconti legati tra loro da un sottile filo conduttore. Partiamo quindi, immergendosi in una profonda riflessione sulla precaria e combattuta condizione esistenziale dell’uomo mentre ci muoviamo tra i misteriosi territori notturni della provincia lombarda, catturati ed “alterati” dalla visione e dalle luci di Giacomo Infantino, vero e proprio “radiografo” dell’anima. Si continua poi fino al capoluogo, Milano, metropoli ormai sconvolta dall’emergenza Covid. Una città che si trasforma in proiezione mentale, sconquassata, modificata, schizofrenica generata da una collettività colpita duramente e nel profondo dalla pandemia di Coronavirus. E’ Gianmarco che ci fa da guida tra le strade e gli ambienti difettati, sconosciuti, da ricomporre; come quella normalità ormai perduta, finita in mille pezzi. E’ per questo allora che dal Nord procediamo in fuga fino alla Capitale alla ricerca di punto di riferimento, un luogo protettivo e accogliente dopo le storie fortemente destabilizzanti di “Unreal” e “Glitch”. E’ Fabio Moscatelli a condurci così in luoghi chiusi ma non con l’obbiettivo di rincuorarci ma per sbatterci in faccia una scomoda verità: il dramma delle persone senza un’abitazione. Una storia che racconta un’umanità sofferente ed in difficoltà che con straordinaria tenacia resiste e combatte una battaglia di sopravvivenza contro un presente crudele, all’interno di una ex Caserma fatiscente, luogo che protegge dall’esterno e carcere in cui si è condannati. L’ultima storia poi, quella di Lorenzo, segna il passaggio in una dimensione onirica, altra. Da un’attualità e un presente ben definito si vola così nel regno del sogno, una realtà alternativa; come se si volesse sfuggire da un tempo troppo pesante e incerto. Seguendo le orme del fantomatico domatore di cavalli ci ritroviamo in una comunità speciale in bilico tra realtà e immaginazione. Un progetto fotografico che pare una lucida visione, ad occhi aperti, di un futuro nuovo, possibile e concretizzabile; una via quindi assolutamente da imboccare. La Fotografia è una cosa meravigliosa, è un linguaggio straordinario che esprime l’uomo e il suo vivere; che dà forma tangibile al suo pensiero e alla sua storia, ne documenta il suo progredire ed anche il retrocedere, la sua condotta nel tempo. Quello che si compie in “Storie dal Belpaese” è un formidabile viaggio che partendo da una dimensione individuale (autoriflessione sulla condizione umana in “Unreal”) e mentale ( l’analisi dell’aspetto psichico alterato in “Glitch”) conduce alla collettività, alla sua presa di coscienza ( la resilienza e la necessità di combattere uniti in “Fronte del Porto”) per sognare un nuovo Mondo e una nuova vita ( “Cronache immaginarie di un domatore di cavalli”). Un percorso che ci conduce ad una migliore comprensione di noi stessi; di quello che siamo, di quello che diventeremo ma anche di quello che è impossibile per noi essere e divenire. Vanni Pandolfi


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Giacomo Infantino Giacomo Infantino è un fotografo dotato di estrema sensibilità e profondità di analisi straordinaria. Concentrandosi sul territorio della provincia lombarda la sua ricerca artistica è la dimostrazione di una capacità sopraffina di valicare apparenze e consuetudini proprie di quella realtà ordinaria e familiare che giornalmente si presenta ai nostri sensi. E’ una Fotografia quindi che si inoltra in quelle dimensioni sottese, presenti ma osservabili e percepibili soltanto da animi sensibili e poetici capaci di raccoglierne segni e metafore disseminate nella natura e nel Mondo circostante. La provincia quindi è il luogo scelto da Giacomo per la sua investigazione artistica e fotografica. Luogo urbano dotato di “carica di urbanizzazione“ inferiore rispetto alla città e alle grandi metropoli ma tuttavia sempre popolato e organizzato artificialmente, in scala ridotta, dall’intervento dell’uomo. E’ proprio in relazione alla città, luogo artificiale, progettato e costruito, luogo nel quale è esasperata quella attorialità caratteristica degli individui che la popolano, che si contrappongono i luoghi semplici della provincia; spesso noiosi ed essenzialmente isolati e disabitati. Qui l’uomo non ha distrazioni effimere ma tempo da riempire. La provincia quindi, luogo che si colloca ai margini della modernità, delle metropoli globali del caos, si configura come un non luogo, una specie di limbo nel quale riflettere e confrontarsi con se stessi. Le presenze anonime che sono immerse in un tempo sospeso, immobile, appaiono naturale prosecuzione di questa dimensione, smarrite e disumanizzate nelle espressioni e negli atteggiamenti, prive di un senso di speranza che le pervade sembrano concentrate su un’autoriflessione profonda e sofferta. Gli ambienti notturni, freddi, disabitati assumono le sembianze di veri e propri set cinematografici nei quali i pochi esseri ritratti si ritrovano immersi in oscuri scenari che contribuiscono alla formazione e alla percezione di una densa atmosfera spersonalizzante e di estrema solitudine. Qui i personaggi si trovano allora a fare i conti con la propria parte oscura, con i propri fantasmi, in un confronto solitario, senza l’aiuto di nessuno, in un ambiente vivo, illuminato da luci “aliene” che sembrano preannunciare incontri con “nuovi messaggeri” e rivelazioni di altri mondi. Attraverso l’utilizzo di installazioni luminose che rischiarano e colorano gli ambienti esterni Giacomo investe, inonda quei luoghi tradizionalmente e convenzionalmente banali e non interessanti di una nuova e affascinante luce trasformando così il mondo consuetudinario in un mondo onirico e misterioso nel quale l’uomo si percepisce e si ritrova in assoluta solitudine. Si potrebbe anche dire che la Fotografia di Giacomo sia quindi una fotografia tutta rivolta all’interno capace di umanizzare quei grandi interrogativi esistenziali che tutti si pongono in certi momenti particolari. L’uomo postmoderno, stretto nel conflitto tra locale e globale (provincia e metropoli) che si percepisce come cittadino del mondo, vacilla nelle sue deboli certezze generate da una società contemporanea creatrice di falsi miti, profeti bugiardi e illusioni di massa. Il risultato è quindi un cortocircuito esplosivo tra realtà e finzione, tra quello che un individuo realmente è e quello che vorrebbe e crede di essere. La crisi delle certezze, un mondo che non è quello che sperimentiamo giornalmente ma qualcosa di diverso, magico e assolutamente autentico che si disvela soltanto a chi è dotato di una predisposizione d’animo in grado di mettersi all’ascolto. Un mondo semplice che cancella qualsiasi falso orpello creato dalla società umana e che riporta l’uomo ad un confronto decisivo con se stesso. Un mondo silenzioso, desolato, lontano dal frastuono e dalle sirene ingannatrici delle città che diviene una porta per l’ingresso in un regno di nuova e superiore consapevolezza.

La pratica di Giacomo Infantino parte da un profondo legame con il territorio in cui vive che lo indurrà a focalizzare la sua attenzione su diverse località di confine e periferiche del Nord Italia e centro Europa. Attraverso la fotografia e il video compie operazioni sul paesaggio intente a creare nuove forme di letture interiori e personali sulla percezione del paesaggio con l’obiettivo di trasformarle in una narrazione partecipativa in grado di esternare alcuni aspetti della contemporaneità legati al senso di vita. Utilizzando molteplici linguaggi, come l’installazione site specific sul territorio, spesso costituita da sorgenti luminose, schermi, materiali effimeri, ma anche video e cinema, si propone di sensibilizzare l’educazione alla conservazione e alla ricerca di un paesaggio che siamo Nato a Varese nel 1993, si laurea in Nuove Tecnologie dell’Arte - Arte e Media - presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, con una tesi sugli incarichi pubblici in Italia. Successivamente prosegue, nella stessa istituzione, il Master in Photography and Visual Arts che lo porterà a trasferirsi all’estero per completare i suoi studi presso la Hochschule Für Grafik Und Buchkunst di Lipsia, in Germania. Da gennaio 2020 è collaboratore di Zone Magazine.

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Gianmarco Maraviglia




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Gianmarco Maraviglia Quando la nostra esistenza viene colpita da un evento sconosciuto, di carattere eccezionale e di enorme rilevanza in termini di stravolgimento di quella che consideriamo “vita normale” e del suo ordinario corso, accade che la mente, con molta piu’ forza del corpo, risulta investita di una responsabilità fondamentale ovvero riuscire ad elaborare e comprendere tramite la ragione quel particolare evento che è comparso improvvisamente all’orizzonte. La mente deve necessariamente reggere il colpo; deve accendere le tenebre sconosciute, nel tentativo di assicurare all’individuo sicurezza e tranquillità. Deve operare allo scopo di garantire all’individuo colpito dal funesto episodio la stessa o la piu’ vicina condizione esistenziale possibile che questo possedeva prima della manifestazione “dell’incidente”. La mente deve quindi riportare “normalità”. Nonostante però il grande impegno nel cercare di tornare ad imporre una parvenza di quotidianità se l’evento logorante continua nel suo perdurare è altamente probabile che si manifestino tutta una serie di errori e cortocircuiti piu’ o meno profondi all’interno di quello che è il regolare flusso del pensiero. La pandemia da Coronavirus ha colpito violentemente in Italia nei mesi scorsi e sta continuando a farlo in tutto il resto del Mondo. Una minaccia di dimensioni globali, un evento imprevisto e dirompente che piano piano si è insinuato furiosamente in ogni paese e cultura. Nonostante una differenza specifica variabile nel livello di intensità con la quale questa pandemia si è distribuita tra la popolazione, le conseguenze a livello sociale, economico, psicologico sono per lo piu’ le stesse. Interessantissimo quindi Il lavoro proposto da Gianmarco Maraviglia che tende a concentrarsi specificatamente sull’ aspetto prettamente mentale del problema Coronavirus e di come le persone e la società lo affrontino a livello psicologico, rivolgendo l’attenzione verso quelle procedure con le quali oggi noi tutti ci confrontiamo contro questa realtà trasformata. “Glitch”, l’errore casuale e imprevedibile che si verifica durante un trasferimento di file digitali si è avverato e manifestato travolgente nella realtà degli umani. Un errore che sottende tutto il presente ordinario, percepibile ormai indistintamente da tutti. Nell’alterare le immagini di una Milano colpita dal virus Gianmarco Maraviglia esprime con intelligente creatività un qualcosa di assolutamente anormale presente ormai nelle vite di tutti: un errore che minaccia lo svolgimento della quotidianità, frapponendosi tra gli individui e le loro esistenze, alterando inevitabilmente le percezioni che questi possiedono riguardo il rapporto con gli altri e con l’ambiente che li circonda. Così luoghi familiari, accoglienti e sicuri improvvisamente cambiano connotati apparendo sotto la veste nuova di potenziali minacce verso la nostra salute e per questo da vivere in maniera completamente diversa rispetto a come avveniva prima. Si configurano quindi nuovi luoghi e ambienti alterati che sono quasi impossibili da riconoscere. Non si vive piu’ la normalità a cui eravamo abituati ma una “nuova normalità” che ha ristrutturato tutto l’esistente generando inesorabilmente “errori” all’interno, nelle menti e cuori delle persone; ed oltre, fuori, nello spazio fisico delle Città. La nuova realtà costruita da scienziati e politici è quindi soltanto parvenza di quello che c’era prima. Tutto è stato in gran parte rimodellato, modificato, problematizzato ed in ogni luogo è presente ormai la traccia dell’errore, esperibile chiaramente con i nostri sensi.

Gianmarco Maraviglia è un fotogiornalista, autore e narratore italiano. Il suo linguaggio e la costante attenzione agli aspetti emotivi delle sue storie,lo hanno portato a lavorare con alcuni dei piu` autorevoli ed importanti media internazionali, come Der Spiegel, National Geographic, Washington Post, Wired, Vanity Fair, Newsweek e decine di altri. Ha lavorato in tutto il mondo, raccontando sia grandi storie di drammi umani, come la rotta dei migranti, la guerra per il controllo del Nagorno Karabak, la rivoluzione in Egitto, ma anche storie positive e di riscatto sociale, come la situazione femminile in Rwanda, o la polizia del Finnmark che si occupa di rispetto del’ambiente, sino ad arrivare, ad una complessa e articolata narrazione di questo difficile momento storico, attraverso diverse storie legate al Covid-19. Le sue immagini sono state esposte in numerose mostre personali e sono in alcune collezioni private.

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Fronte del Porto Fabio Moscatelli

Esistono storie e situazioni particolari, di grande difficoltà e sofferenza che vengono spesso relegate ai margini del discorso pubblico salvo poi venir prese in considerazione soltanto in alcuni periodi dell’anno particolari. Sono storie che finiscono così per diventare troppo spesso strumenti politici e mezzi “programmati” per il raggiungimento di precise finalità come quelle ad esempio che riguardano l’aumento di consenso per un particolare candidato o il colpire l’avversario politico di turno. E di frequente poi, raggiunto l’obbiettivo, il sipario dell’attenzione “a comando” si abbassa di nuovo inesorabilmente. Accade infatti che queste situazioni sociali così complesse e tragiche vengono per lo piu’ dimenticate e censurate per la maggior parte del tempo, nascoste sotto il tappeto, perché esigenti di impegno costante e prolungato. Necessitano infatti di investimenti economici e di welfare a fondo perduto ma piu’ di tutto presuppongono solidarietà, empatia ed amore, termini che il sistema molto spesso ignora e non riconosce piu’. Fabio Moscatelli ci guida proprio all’interno di una di queste situazioni “particolari”. Il suo racconto è ambientato infatti in una ex caserma militare abbandonata da decenni, divenuta rifugio e abitazione di centinaia di famiglie in gravi difficoltà economiche. Famiglie immigrate da paesi stranieri che vivono insieme con famiglie italiane erranti in patria; senza una casa nel proprio Paese. Nonostante il lavoro di Fabio risalga al 2014 si tratta tuttavia di un tema molto attuale, irrisolto ed in continua espansione, aggravato sempre piu’ dalle varie crisi economiche e sanitarie che il mondo sta attualmente affrontando. Quando un fotografo entra in luoghi così delicati e complessi deve innanzitutto lavorare sulla propria persona, cercando di stabilire nel modo piu’ intenso possibile una relazione empatica verso gli individui protagonisti ritratti. Osservando le splendide fotografie che compongono il progetto sembra proprio che il fotografo abbia lavorato in totale sintonia di emozioni e sentimenti rispetto le persone e gli ambienti raffigurati. La sensazione che si percepisce osservando tutto il progetto è quella di una Fotografia che pare essere entrata dentro quei luoghi con assoluto rispetto e delicatezza. E’ uno sguardo che osserva e cattura momenti intimi da dietro le quinte senza affermarsi mai in modo preminente al centro della scena scongiurando quindi il rischio dell’imposizione di pose e situazioni studiate ed artefatte. Tutto scorre in modo naturalissimo; la vita all’interno della grande caserma segue i suoi ritmi ed i suoi riti, tra feste religiose, compleanni e nuove nascite. La caserma si fa viva , come se tutti i suoi inquilini le avessero donato un’anima e loro, atomi e particelle di essa, danzino energici di vita propria. La caserma diviene quindi organismo, un essere totale e omnicomprensivo. La vicinanza di Fabio con i soggetti si avverte in ogni singola fotografia; lo si percepisce chiaramente quando ci ritroviamo ad “ascoltare” una canzone sul finire del giorno, nella stanza di uno dei protagonisti della storia che suona ispirato una chitarra a corde; oppure lo percepiamo a tavola insieme ad una famiglia musulmana che sta festeggiando una ricorrenza particolare o allo stesso modo nel salotto di un’altra dove un padre fa le coccole al proprio piccolo nato da poco.

Nato a Roma, vive nella sua città natale. Inizia a fotografare a 25 anni, come assistente di studio e cerimonia, per poi avvicinarsi alla fotografia di reportage sociale ed etnologico. Consegue il primo attestato in Reportage presso la Graffiti di Roma. Nel 2012 vince il secondo premio della borsa di studio intitolata a Rolando Fava e, sempre nello stesso anno, la Scuola Romana di Fotografia gli assegna, dopo aver presentato il progetto “Fronte del Porto“, una borsa di studio per un Master di Reportage. Nel 2013 è finalista del Leica Award e vincitore del Concorso National Geographic nella categoria Ritratti. Nel 2014 partecipa alla realizzazione della campagna fotografica “Chiedilo a Loro” per la CEI. Sempre nel 2014 è vincitore del Moscow International Foto Awards’14 nella categoria Book : Documentry. Nel 2015 pubblica il suo primo libro Gioele Quaderno del tempo libero,che viene presentato in anteprima al Photlux Festival. Il progetto The Right Place è tra i vincitori del concorso Oltre le Mura ed esposto al Macro di Roma. Nel 2016 è tra i vincitori della Slideluck Napoli con il progetto ‘Gioele Quaderno del tempo libero’. Finalista al premio Streamers 2017 con il progetto Work in progress Without Us, esposto a Officine Fotografiche. Ha pubblicato su Lens Culture, Phom Magazine, The Post Internazionale, Private International Review Of Photography e Gup Magazine. E’ contributor di Echo Agency.

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Cronache immaginarie di un domatore di Cavalli Lorenzo Zoppolato

Come è ben noto la realtà costituisce il punto di partenza ed il materiale costituente del sogno. Quando sogniamo ci lanciamo in una fuga verso un altro territorio, un altrove alternativo che molto spesso si costituisce come rifugio, modellato dalla mente a suo piacimento. Il sogno, l’immaginazione, il fantasticare rappresentano processi magici e misteriosi che paiono metterci in collegamento con un qualcosa che ancora non riusciamo a spiegare ma che siamo in grado di conoscere benissimo tramite il nostro cuore e le emozioni che ne derivano. Perché la materia del sogno sono le emozioni, gli impulsi irrazionali che si formano e prendono vita in immagini. E così proprio di un’emozione particolare e seducente è costituita la storia narrata da Lorenzo Zoppolato. E’ un racconto di uomini, cavalli e di vita in bilico tra realtà e sogno. Ci troviamo catapultati in un luogo non definito, in un tempo sospeso e magico insieme a personaggi usciti da dimensioni sconosciute e fiabesche. Lorenzo Zoppolato conduce la Fotografia in territori di inebriante incanto nei quali la vita acquista una dimensione affascinante generando una profonda sinergia di meraviglia tra l’uomo e la Natura. Un legame così forte e misterioso che pare in grado di annullare le differenze tra uomini e animali permettendo sorprendentemente un dialogo armonioso tra loro. Così sulle tracce del fantomatico domatore di cavalli, sognato, fantasticato durante notti insonne, Lorenzo trova un Mondo complesso e straordinario; il sentiero percorso sulle tracce del domatore conduce quindi ad una realtà nuova, altra, parallela e per questo prettamente “borghesiana”. E dunque anche la Fotografia e lo sguardo di Lorenzo giunti in questi luoghi appaiono incantati, meravigliati ad osservare rapiti i protagonisti nelle loro danze e giochi, nel loro dialogo con gli animali, nelle riflessioni in riva al mare. Indubbiamente il grande fascino della Fotografia di Lorenzo risiede proprio nel narrarci un Mondo agli antipodi del nostro vivere quotidiano. Un Mondo nel quale l’uomo vive a stretto contatto con l’ambiente e la Natura, baciato dal sole e accarezzato dal vento, rinfrescato dal mare e rispettando la Terra. Un mondo quindi che pare indicarci una nuova via, di salvezza individuale e collettiva. A questo proposito non pare difficile rintracciare una certa atmosfera di sacralità indirizzata tutta alla dimensione naturale, alla Natura, al Cosmo; si avverte una certa sensazione che superando quell’aspetto specificamente surreale che appartiene al progetto rivela un nucleo o sostanza di carattere ribelle, rivoluzionario, alludendo ad un cambiamento possibile del nostro modo di vivere. Sembra essere presente quindi una forza manifestamente poetica che sembra indicare quella via per il rinnovamento che in molti di noi stanno cercando ed aspettando. In accordo con il Mondo magico narrato, anche lo stile fotografico di Lorenzo si struttura in modo assolutamente funzionale dal punto di vista estetico: inquadrature non perfettamente bilanciate con sovente riprese sia dall’alto che dal basso; tagli netti di figure. Uno stile studiato e cercato per dare enfasi e dinamismo al racconto e per creare quella sensazione e atmosfera non ordinaria, diversa, alternativa come il Mondo mostrato. Vestito di un bianco e nero avvolgente composto di neri scurissimi e ombre tenebrose lo sguardo di Lorenzo si fa strada nella scena in modo sicuro e ispirato. Sono nato a Udine nel 1990. Nel 2014 decido di dedicarmi in maniera esclusiva alla fotografia. Vinco una borsa di studio presso la Nuova Accademia delle belle Arti di Milano e comincio a lavorare come fotografo professionista. Negli anni immediatamente successivi, oltre a numerosi errori e a molte porte in faccia, ricevo anche alcuni premi e riconoscimenti che vado elencando: 2015: vinco il primo premio all’International Black&White Photographer of the Year nella “Emerging Talent category” e sono finalista al concorso internazionale Lens Culture “Street Photography Award”. 2017: Vinco la borsa di studio “Ernesto Bazan Scholarship Fund for Young Photographers”. 2018: Vinco il 1° premio “Portfolio Italia Fiaf ”. 2019: Vinco il primo premio per il miglior portfolio all’ “International Month of Photojournalism” di Padova e sono finalista al premio “Voglino Italy Photo Award”. 2020: vinco il primo premio all’Italian Street Photofestival e il primo premio come miglior portfolio al festival SiFest di Savignano sul Rubicone. Espongo in mostre personali e collettive in gallerie private e spazi pubblici, tra cui SpazioForma a Milano e Museo MACRO a Roma. Cities 7 |

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Non uscire da te stesso, rientra in te stesso: nell’intimo dell’uomo risiede la verità. (Sant’Agostino) Le care intime cose di mirabile gusto! L’intimità è lo spauracchio, l’uomo nero, il tallone d’Achille dell’uomo contemporaneo. Vagheggiamo tutti l’intimità, ne ricerchiamo ansiosamente la più pura qualità ma appena sfioriamo i confini del suo cerchio fuggiamo. Eppure ci sono circostanze in cui fuggire da questa esperienza tanto essenziale per il nostro equilibrio eppure così potente e a tratti dura , non è davvero possibile: la Pandemia e il conseguente Lockdown sono state in questo tempo le Colonne d’Ercole dell’Intimità. Il confine al di là del quale, novelli Ulisse, è stato necessario spingersi per sopravvivere, come documentano tutti i lavori autoriali che animano la sezione Insides di Cities 7. Il fil rouge che lega questi lavori è l’esplorazione attenta e poetica delle intime cose umane , siano esse declinate in un legame di comunità come in Condominium di Loredana Celano o Circus Quarantine di Fabio Itri oppure in un vincolo essenziale come quello genitoriale raccontato da Lia Sorgini nel suo Behind Glass o ancora si manifestino nell’attività intima per eccellenza il gioco infantile come nel magico Tappeto Volante di Simone Raeli. Vi invito a seguire lo sguardo dei fotografi e ad esplorare con la loro guida una delle conseguenze felici della Quarantena , il recupero del valore liberatorio dell’intimità! Buon Viaggio ! Sonia Pampuri


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Circus Quarantine Fabio Itri

La gente del circo è qualcosa che va al di là del dato fisico: è una categoria dello spirito, un riflesso dell’anima. (Moira Orfei) Il circo si sa è, tradizionalmente e simbolicamente, il locus dell’immaginifico, la sede del sogno, la patria del fantastico. E cosa accade al sogno quando gli viene detto STOP? La risposta è negli scatti della storia, scelta per la sezione Inside di Cities 7, realizzata da Fabio Itri. Lo sguardo del fotografo esplora i giorni sospesi di un Circo bloccato dal lockdown in una sperduta area della costa del basso Jonio calabrese. Ne racconta la quotidianità rarefatta e ritualizzata negli allenamenti e nell’accudimento degli animali. Si sofferma sui volti attraversati a tratti da un’angoscia del futuro ingiusta data la giovane età dei protagonisti. L’atmosfera è surreale, mai completamente triste mai davvero gioiosa. Sospesa come il tempo e i giorni dei circensi. Colpiscono due cose nelle scelte operate da Fabio per raccontare questa storia “magica” nella sua insolita familiarità: la luce vivida, calda, potente che inonda di vita scene che altrimenti sembrerebbero cristallizzate in un senza tempo privo di anima. E i bambini che NON si arrendono: si arrampicano sulle spalle degli adulti o si avvinghiano a pali pur di guardare oltre, pur di cercare l’orizzonte e continuare, almeno loro, a credere nelle favole!

Fabio Itri è un fotografo documentarista con base in Calabria. Lavora a progetti personali e collabora con diversi media e magazine. È membro del collettivo di ricerca e documentazione fotografica Ulixes Picture con base a Roma. Le sue storie e le sue immagini sono state pubblicate su Le Monde, Internazionale, Der Spiegel, Stern Crime, L’Espresso, National Geographic Traveler, Robinson - la Repubblica, LensCulture, Amnesty International, il Manifesto, Left e altre testate.

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Condominium Loredana Celano

Oggi la gente di uno stesso condominio non si conosce e, se si incontra in ascensore, non si parla. Poi sui social pubblica tutte le sue foto e racconta di tutto a tutto il mondo. Enrico Brignano

La pandemia ha cambiato, almeno per il tempo del lockdown (ed in alcuni casi ci sarebbe da augurarsi in via definitiva) le abitudini sociali degli italiani. Tra queste in prima linea “I rapporti condominiali”. Quelli che, appunto, indaga con sguardo poetico ma profondo Loredana Celano in questo suo ultimo lavoro. Rapporti superficiali spesso inesistenti e molto più spesso degeneranti facilmente in conflittualità intense quando non violente. Il girone infernale delle riunioni condominiali è qualcosa che ognuno di noi nel corso della sua vita ha dovuto sperimentare e a cui ha cercato di sottrarsi con ogni mezzo. La Pandemia ha spezzato questo circolo vizioso di percezioni superficiali e ci ha costretto, come le immagini di Loredana potentemente rivelano, a toccare con mano la realtà quotidiana dei nostri vicini di casa. Ci ha proiettato nella loro intimità e ci ha spinto ad una condivisione fatta di piccoli gesti: dalle chiacchiere sui ballatoi o sui balconi a rigorosa distanza di sicurezza, alla pasta fatta in casa condivisa, fino ai libri scambiati. E così nel Condominium tratteggiato dalla sguardo potentemente intimista e poetico dell’autrice si respira un’aria di attesa solidale, di solidarietà reale …finalmente di condivisione!

Sono Fotografa Freelance, Vivo e lavoro prevalentemente a Milano anche se la mia ricerca mi porta a viaggiare spesso. Collaboro con agenzie fotografiche e testate giornalistiche. Il mio approccio alla fotografia nasce dal desiderio di raccontare una storia, sia essa sociale, istituzionale o di corporate, attraverso la narrazione per immagini. Faccio parte del Collettivo Donne Fotografe.

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Behind Glass Lisa Sorgini



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Behind Glass Lisa Sorgini

La maternità è un’esperienza complessa, fisica ed emotiva. Ma solo nella madre possiamo trovare la salvezza dal senso di vuoto. Massimo Recalcati ‘Behind Glass’ è appunto una esplorazione del mistero ancestrale del legame tra madre e figlio. Una serie di ritratti che vogliono documentare ed in senso lieve anche indagare nelle intenzioni della autrice madri e bambini che vivono l’isolamento nelle loro case durante un periodo di forzato allontanamento sociale, per controllare la trasmissione del COVID-19 in Australia. Lisa Sorgini ha scelto di aprire il proprio diaframma su un diaframma fisico, i vetri delle finestre al di là delle quali i soggetti si muovono e vivono, che sfuma i confini annulla le certezze e trasforma nell’ombre i dettagli. Quello che arriva prepotente e intenso, quasi vibrante in modo musicale a chi osserva gli scatti dell’autrice sono le emozioni dei soggetti, la forza di quel legame, la potenza assoluta di una cura che anche quando si fa faticosa o dolorosa rimane pervasa di un’intima convinzione istintiva. Una necessità imperativa quasi kantiana. In questo il taglio obliquo della luce, che cela e rivela contemporaneamente, chiaramente influenzata da riminescienze pittoriche di taglio Caravaggesco, ha rappresentato una scelta tecnica davvero vincente per esaltare la forza ontologica del legame col materno. La genitorialità è un’esperienza fondante che muta in tempi normali in modo significativo la percezione che abbiamo di noi come individui e quella dei nostri figli. Quello che gli scatti di Lisa raccontano è come questo mutamento sia diventato, in tempi di Quarantena, quasi una muta. Un cambio di pelle intenso, totale, in parte doloroso e vibrante ma fondamentalmente salvifico. La quotidianità dei gesti, dal bagno ai compiti, dal giardinaggio alla cucina, fissa la scelta di ciascun genitore sul come diluire e rendere comprensibile l’angoscia dell’isolamento e l’incertezza del futuro ai propri figli. Dietro il vetro, madre e figlio appaiono come capolavori viventi: commedie divine di vita domestica. Attraverso questo lavoro lo sguardo di Lia rende visibile il ruolo invisibile dei genitori isolati dalla Quarantena: la tenerezza più profonda, la noia, la quiete, l’amore, la frustrazione, la paura e la disperazione emergono vive e potenti dietro il muro liquido del vetro che sfuma e rende tutto poesia!

Lisa Sorgini (nata nel 1980, Adelaide, Australia) è un’artista fotografa che attualmente vive nel nord del New South Wales (Bundjalung Country), in Australia. Lisa è interessata a realizzare un lavoro che sia autentico per l’esperienza umana e un ritratto che sia un’indagine sulla complessità e vulnerabilità del rapporto tra artista e soggetto, legati per sempre dall’opera finale. Lavorando con la luce naturale, crea ritratti sensibili con trame ricche e un’estetica pittorica. La “candida” natura del suo lavoro le permette di comunicare con sincerità, rivelando commoventi intuizioni sui nostri rapporti con i nostri cari, il nostro ambiente e la nostra società. Madre di due figli, Lisa ha costruito un grande lavoro intorno all’esplorazione della relazione materna. Avendo perso sua madre a causa di un cancro solo pochi mesi dopo la nascita del suo primo figlio ha trovato questa esplorazione fotografica un’esperienza catartica per aiutare a gestire la sua perdita e rendere visibile e onorare ciò che significa essere madre. Per il suo lavoro, Lisa è stata selezionata come finalista agli Olive Cotton and Iris Awards 2019 e semifinalista all’Head On Portrait Prize (2020, 2019) e al Moran Portrait Prize (2016). Le sue osservazioni fotografiche e i suoi progetti ponderati sono stati pubblicati in tutto il mondo, con recenti importanti articoli su The New Yorker, TIME Magazine e National Geographic. Il suo portafoglio diversificato comprende anche una vasta gamma di progetti commissionati per marchi, pubblicazioni e collaborazioni selezionati.

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Il tappeto volante Simone Raeli

La speranza è il tappeto magico che ci trasporta dal momento presente nel regno delle infinite possibilità. (H. Jackson Brown) I bambini e la Quarantena. Ovvero, l’impossibilità declinata in ognuna delle sue accezioni più complesse e dolorose. L’impossibilità di abbracciare, l’impossibilità di condividere, l’impossibilità di arrampicarsi, saltare, correre e giocare. Ma i bambini hanno un’arma di difesa potentissima, la loro inesausta immaginazione. Ed è quella che esplora sui tetti del suo terrazzo condominiale Simone Reali, osservando gli unici 3 bambini residenti dispiegare a piene mani la loro fantasia e trasformare il terrazzo in un Tappeto Volante. Il tappeto volante, secondo le fiabe, ti permette di raggiungere qualsiasi posto tu desideri. il terrazzo è diventato una base per una nuova partenza. Così i bambini hanno generato mondi con pochi oggetti: tre carte sono diventate un magnifico trucco di un potente mago, una vecchia scopa di saggina lo straordinario mezzo di trasporto di una potente strega bionda. Una chitarra di cartone e un piccolo microfono senza cassa un palco di due rock –star. L’occhio dell’autore ha accarezzato questo delicato e insieme potente dispiegarsi del fantastico davanti al mondo adulto e ce lo ha saputo raccontare con profondo rispetto e autentica fascinazione in modo da restituircene intatto il prezioso incanto.

Simone Raeli (classe 1982) è un fotografo documentarista, vive e lavora a Roma. Ha frequentato un master in Fotografia Documentaria Contemporanea presso Officine Fotografiche di Roma nel 2014. Dal 2015 collabora con l’agenzia fotografica Parallelo Zero. Le sue fotografie sono state pubblicate su riviste e siti di informazione, tra i quali Marie Claire (Corea e Thailanda), Panorama, Corriere della Sera, Nzz. Negli ultimi due anni ha lavorato al suo primo libro.

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ISP – Italian Street Photography é un incubatore/gestore di progetti ed eventi di Street Photography in Italia. Era partito come una vetrina autofinanziata per autori coinvolti, ma grazie alle attività promozionali e al confronto con il pubblico (Isp Review) e tra gli autori stessi è cresciuta la consapevolezza della persistente difficoltà nel realizzare Fotografia di Strada localizzata ed attualizzata nel nostro paese, con un territorio Urbano così diverso dai tipici scenari Americani e dei paesi del nord europa. Si era deciso quindi di puntare allo sviluppo della fotografia Street Italiana in ottica autoriale, ma ci si è resi conto che è possibile coinvolgere Autori Italiani in singoli progetti adatti alle loro specifiche capacità, e che quindi non ha molto senso mantenere chiusa la partecipazione ai progetti ISP ad un ristretto gruppo di Autori. Ecco quindi che nel 2017 Isp si evolve, aprendo di fatto la partecipazione ai progetti sviluppati ad Autori che abbiano una forte connotazione stilistica e know how per poter rappresentare punti di riferimento in operazioni b2b e b2c che riguardino la street photography. Il progetto, ideato da Angelo Cucchetto e promosso da www.photographers.it e URBAN Photo Awards, è partito a gennaio 2015, e in quell’anno stata prodotta una grande mostra collettiva di quasi un centinaio di fotografie, inaugurata in occasione del Trieste Photo Day 2015, ed un ciclo itinerante di incontri, tavole rotonde e letture portfolio – fra Trieste, Roma, Firenze, Milano e Torino – in collaborazione con prestigiosi partner del settore: Officine Fotografiche, Deaphoto, Phlibero e altri. Il 2016 vede nascere il primo progetto editoriale, un libro curato da Benedetta Donato con i lavori di Street realizzati ad aprile dai 15 autori all’epoca partecipanti nelle maggiori città Italiane usando come mezzo tecnico le nuove fotocamere di Fujifilm, partner e sostenitore del progetto. Il Libro The Italians è stato presentato anche durante le tappe di Isp Review 2016. Nel 2017 viene lanciato il primo progetto editoriale Italiano sulla Street con una produzione condivisa, il Magazine CITIES. - http://www.italianstreetphotography.com/cities il 22 e 23 Aprile si è svolta la prima produzione aperta a tutti, ISP EXPERIENCE, che ha permesso a 110 fotografi seguiti e coordinati dagli undici Autori ISP la realizzazione di scatti in ottica street in sei città Italiane, Catania, Genova, Milano, Roma, Torino, Venezia. Il magazine viene presentato in anteprima al Treviso Street Festival a fine maggio, e successivamente in alcune tappe del Fujifilm X Vision Tour 2017. A settembre 2017 è stata realizzata la produzione del secondo numero, presentato in anteprima al Trieste Photo Days a fine ottobre, ufficialmente alla tappa Romana del Fujifilm X Vision l’11 novembre, poi a Milano da Officine Fotografiche. A Milano è stata prodotta una grande Mostra collettiva di Cities, con 85 opere presentate da 75 Fotografi scelte tra le immagini pubblicate sui primi due numeri di CITIES. Mostra allestita in uno spazio prestigioso, Spazio Tadini Casa Museo, curata da Federicapaola Capecchi ed Agata Petralia, con un affollato opening il 24 novembre ed aperta fino al 21 dicembre 2017. Ad inizio 2018 sono state attivate partnership su interessanti e specifici progetti, come Street Sans Frontiere e Firenze in Foto, ed altre seguiranno. nel 2018 sono stati realizzati il terzo ed il quarto numero di Cities, con un’edizione Speciale prodotta in occasione del Festival Street Photo Milano. Il 2019 segna una svolta per Cities: ai workshop di produzione vengono affiancate le prime storie Autoriali, ed il magazine si arricchisce di altri contributi: dai portfolio ai focus su Autori internazionali, come le serie: “Snow in Tokio” di Tadashi Onishi, “Americana” di Alex Coghe, “Wedding Moments” di Adam Riley. E siamo arrivati al 2020, e piombati in “pandemia time”. In febbraio esce Cities 6, con le storie internazionali a cura di Attilio Lauria e redazione Fiaf e la nuova sezione dedicata alle “storie dal Belpaese”. Durante il lockdown va in produzione il terzo volume della collana autoriale, Urbanscape, dedicato alla fotografia Urbana documentale e concettuale, pronto per ottobre 2020, stesso mese in cui esce questo nuovo numero di Cities, il 7, con l’ingresso di Vanni Pandolfi in squadra come curatore della sezione dedicata agli autori Italiani e la presenza di uno speciale curato da Sonia Pampuri con 4 progetti “inside”, storie al tempo del virus. E noi ci prepariamo al 2021, con un nuovo libro da pensare ed il numero 8 di Cities da preparare... Stay tuned!

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