TRAVEL TALES
STORIE DI VIAGGI E DI VIAGGIATORI
Travel Tales A cura di Simona Ottolenghi On my way Siberia on the road di Alessandro Castiglioni Quel treno Asmara – Arbaroba di Gualtiero Fergnani Carovane del Tigrai di Riccardo Panozzo Dolomiti on the road di Francesco Sammarco Groenlandia: i suoni del silenzio di Jessica Melluso
pag. 7 pagg. 8-17 pagg. 18-27 pagg. 28-37 pagg. 38-47 pagg. 48-57
People’s souls Kupkari di Carmen Garcia Llorens Color Mundi di Laura Pierangeli Eagle’s Festival di Maurizio Trifilidis I colori della luce di Roberto Malagoli Donne del Maramures di Alessandro Zaffonato
pag. 59 pagg. 60-69 pagg. 70-79 pagg. 80-89 pagg. 90-99 pagg. 100-109
Strength to live The shoes factory di Marco Marcone Milot market di Stefano Bianchi Cobra Grande di Pierluigi Ciambra Ebano di Adriana Miani Che ne Saharà di noi di Mario Cucchi
pag. 111 pagg. 112-121 pagg. 122-131 pagg. 132-141 pagg. 142-151 pagg. 152-161
Past and present Guizhou di Maurizio Trifilidis Alla ricerca di Rasputin di Alessandro Castiglioni Nel segno di Evo di Massimiliano Cambuli Iran di Diego Pedemonte Tracce di Blues di Gigi Montali
pag. 163 pagg. 164-173 pagg. 174-183 pagg. 184-193 pagg. 194-203 pagg. 204-213
The Traveler Viaggio in Italia di Vito Raho
pag. 215 pagg. 216-227
TRAVEL TALES AWARDS © 2021 www.traveltalesaward.com Grafica a cura di Daniela De Santis
TRAVEL TALES a cura di Simona Ottolenghi
“Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco” Josef Koudelka TRAVEL TALES AWARD, un ambizioso progetto fotografico dedicato al viaggio e ai viaggiatori, nato tra il 2020 e il 2021 in piena pandemia COVID, un momento storico in cui il solo muoversi anche in regioni diverse dalla propria era diventato impossibile. Ci siamo visti improvvisamente costretti a casa, impossibilitati ad uscire dai nostri confini, sia fisici che mentali per un periodo tremendamente lungo e difficile, che ha modificato le nostre priorità e alimentato le paure, privando di fatto il Viaggiatore dell’ossigeno stesso che lo alimenta. Il Viaggiatore che non può viaggiare è un po’ come un animale chiuso in gabbia, e il desiderio dell’esplorazione, della conoscenza di nuove realtà o il ritorno in posti già conosciuti si fa sempre più forte ed intenso. Viaggiare è un modus vivendi, uno stile di vita, un modo di essere che voglio simbolicamente rappresentare come un abbraccio che unisce, arricchendole, le diversità che ci appartengono e quelle che ci sono molto lontane. L’abbraccio, in questo progetto si è trasformato in sogno, che diventa ricordo, memoria, nostalgia, speranza. Il Sogno: forse è proprio questa la parola chiave da cui è nata l’idea del Travel Tales Award, un premio alle migliori storie di fotografia di viaggio che permettesse ai partecipanti, fotografi/viaggiatori, di ricominciare a sognare da casa, aprendo i propri archivi e condividendo le proprie emozioni ed esperienze attraverso le proprie storie. E’ proprio questo l’humus che ha alimentato la nascita del premio. Alla call sono arrivate oltre 200 storie iscritte in gara, testi e fotografie che raccontano i 6 Continenti (Antartide compreso): un lavoro enorme, una grande voglia di partecipare, raccontare, condividere, di confrontarsi e misurarsi in una cavalleresca disfida fatta di foto e di parole. Il nostro lavoro di selezione è stato interessantissimo: un vero Viaggio Fotografico intorno al Mondo attraverso racconti e fotografie di esperienze che abbiamo fatto nostre, come se le avessimo vissute in prima persona. Perchè un viaggio si può fare anche grazie alle storie di altri senza muoversi da casa, e proprio questo è stato lo spirito di tutta questa esaltante iniziativa del Travel Tales. Le storie arrivate parlano di persone, esperienze, luoghi, festival e culture lontane. Poterle raccogliere in questa pubblicazione è stato per me un lavoro di selezione ed editing molto stimolante ed interessante, almeno quanto è stato per gli Autori produrle. L’imperativo è stata la diversità: ogni autore ha voluto condividere qualcosa che gli appartenesse, che fosse un pezzo della sua vita, la scoperta di qualcosa che sentiva non potesse rimanere solo ne suoi ricordi, stipato negli HD di un PC, ma che occorreva divulgare.
In Travel Tales - Storie di viaggi e di viaggiatori troviamo racconti di autori che si sono spinti a seguire le antiche vie carovaniere del Tigrai e la ferrovia a vapore di Asmara, di chi è andato alla ricerca dei segni di Rasputin in Russia, e di chi si è misurato tra cavalli e cavalieri per raccontare il Kupkari tra le campagne della mitica Samarcanda, in Uzbekistan, lungo la Via della Seta... E ancora racconti della Bolivia sotto il primo presidente di origine indigena, e della fredda Siberia vissuta on the road. Scopriamo inoltre i coloratissimi Festival del Bhutan e la navigazione su un fiume in Amazzonia, il nostalgico Blues degli USA del sud e l’inconsueto Iran in chiave architettonica. E poi l’inesplorata Groenlandia, i popoli Saharawi che vivono in una terra desertica e contesa tra Marocco e Algeria, fino ad arrivare al Festival delle Aquile tra i Monti Altai in Mongolia. Ma abbiamo trovato anche chi ha raccontato posti meno esotici come l’Albania, e chi, sempre sulla Rotta Balcanica si è soffermato tra le campagne del Maramures in Romania a fotografarne le donne che vivono ancora in modo tradizionale nelle loro case di legno. Interessantissimi e originali sono stati i percorsi italiani che ci hanno raccontato viaggi fatti su una sedia a rotelle, e descritto la magia delle Dolomiti con un occhio molto personale. E infine il mondo del lavoro in Myanmar, le popolazioni primitive della Valle dell’Omo in Etiopia, la vita domestica nella Cina tradizionale e chi ha voluto raccontarci il Mondo attraverso i colori della luce. Un libro da leggere e da guardare. Un libro da sfogliare con avidità visiva e curiosità culturale. Un libro fatto per chi sa sognare, per chi sa osservare e ama viaggiare. Un libro per chi sa godere delle cose belle e preziose. Lo abbiamo realizzato grazie al contributo e all’impegno di tutti i nostri Autori che hanno partecipato con entusiasmo a questa grande operazione editoriale. Ed è stato possibile grazie anche al lavoro di tutti i partner che hanno collaborato con noi in questi mesi. Buona lettura e buon viaggio a tutti Simona Ottolenghi
“I don’t know where I’m going, but I’m on my way” “Non so dove sto andando ma sono sulla mia strada” Carl Sandburg
ON MY WAY Siberia on the road di Alessandro Castiglioni Quel treno Asmara - Arbaroba di Gualtiero Fergnani Carovane del Tigrai di Riccardo Panozzo Dolomiti on the road di Francesco Sammarco I suoni del silenzio di Jessica Melluso
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Siberia on the road Alessandro Castiglioni
“Quasi 13000 Km in un mese, questo è stato Siberia on the road. Un raid automobilistico che ci ha portato dall’Italia fino alla Siberia Asiatica. Attraversato Polonia e Bielorussia fino all’entrata in Russia via Mosca. Da qui via verso gli Urali e l’arrivo nella Russia asiatica. Per poi rientrare passando per le repubbliche baltiche. Un paradiso per gli amanti della fotografia, spaccati di vita vera ad ogni angolo. Dai mercati, alle fredde vie delle imponenti città sovietiche, alle soste per un te, lungo la strada. Storie di vita e momenti indimenticabili, questo è quello che in questo viaggio ho raccolto con la mia fidata Contax G e la sua vecchia compagna Canon eos 1n.”
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Quel treno Asmara - Arbaroba Gualtiero Fergnani
In Eritrea si può ancora assaporare la rara emozione di viaggiare su una delle più belle e audaci ferrovie del mondo. Un capolavoro dell’ingegneria italiana. Costruita tra la fine del diciannovesimo secolo e il primo decennio del 1900, la straordinaria strada ferrata collegava la città di Asmara a Massaua, sul Mar Rosso, superando oltre 2.400 metri di dislivello con solo centodiciassette chilometri di rotaie, tuffandosi nei tunnel scavati nella roccia e attraversando ponti sospesi su precipizi e dirupi impressionanti. Di quella mitica ferrovia, oggi rimane percorribile solo il tratto che da Asmara arriva ad Arbaroba. Ad Asmara salgo sul vecchio treno a vapore e ho l’impressione di entrare nella macchina del tempo: è un tuffo nel passato. Oltre alla locomotiva Ansaldo del 1930, ci sono solo due carrozze, hanno i sedili di legno, le pareti dipinte di azzurrino e le traversine sul soffitto. I pochi passeggeri sono alcuni turisti avventurosi e qualche famigliola locale, con appresso l’immancabile braciere per preparare il caffè. Si parte verso un tragitto spettacolare: il treno scivola lento ma sicuro, costeggia strapiombi ricoperti di ficchi d’india, si tuffa in gallerie immerse in un buio totale e attraversa sbuffando minuscoli villaggi con casette di pietra, I bambini sanno quando il treno sta per arrivare, perché a turno qualcuno appoggia un orecchio sulle rotaie per “sentirlo”, e quando attraversa il loro villaggio, torme di ragazzini già si erano radunati per correre a gara con quella macchina fumante. Venti chilometri mozzafiato, colmi di fascino. Viaggiare su quel treno significa avere l’emozionante privilegio di vivere un’esperienza incomparabile. Siamo giunti ad Arbaroba. Il sole è caldissimo, mi riparo nell’ombra di un improbabile bar della piccola stazioncina liberty, una donna mi prepara un caffè: è un rito lungo, meticoloso e carico di magia. Intanto il fuochista carica di nuovo la locomotiva con il carbone e provvede al rifornimento dell’acqua per la caldaia. È arrivato il momento di ripartire e il treno, tra sbuffi di vapore e di fuliggine, torna a inerpicarsi lungo i ripidi crinali della montagna per fare ritorno ad Asmara.
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Carovane del Tigrai Riccardo Panozzo
“Vanno le carovane del Tigrai…” recitava il ritornello di una canzone scritta durante l’invasione italiana dell’Etiopia, che a ritmo di foxtrot descriveva la discesa delle carovane tigrine verso la Piana del Sale, in Dancalia, il deserto Etiope al confine con l’Eritrea. La canzone dipingeva i nostri soldati non come invasori ma come soccorritori di un popolo che “… giammai conobbe libertà …” e che grazie a noi avrebbe potuto “… andare incontro alla civiltà …”. L’unica verità che traspare tra le molte inesattezze del testo, è la descrizione delle durissime condizioni di vita dei raccoglitori e dei trasportatori del sale. Le carovane raggiungono all’alba, dopo essersi messe in movimento il giorno precedente, la Piana del Sale. È l’ampia area pianeggiante formatasi nella depressione dancala per effetto dell’alternanza, governata dai fenomeni di sollevamento tettonico e di variazione del livello del mare, dei periodi di invasione delle acque del Mar Rosso e delle successive fasi di essiccamento. I sedimenti di questa piana, di spessore variabile da 1 a 3 km, sono tuttora teatro dell’estrazione delle lastre di sale destinate al consumo animale. Il sale viene cavato dalla superficie e tagliato in forma di tavolette trasportate dalle carovane di dromedari fino alle alture del Tigrai. È un’attività che viene svolta per un periodo limitato di tempo nell’anno, tra ottobre e marzo: prima e dopo il caldo è insopportabile anche per gli Afar, l’etnia etiope che cava e dà forma alle tavolette. Oltre al caldo i cavatori devono affrontare l’abbacinante luce riflessa dalla superficie salata, motivo per cui gradiscono particolarmente l’omaggio di occhiali da sole. Non si sa quanto potrà ancora durare la loro attività, minacciata dall’avanzare di nuove strade realizzate da imprese cinesi che porteranno sulla piana del sale camion in grado da soli di svolgere il lavoro di più carovane, in una frazione del tempo impiegato dal trasporto animale.
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Dolomiti on the road Francesco Sammarco
Un viaggio in macchina, tra sentieri in alta quota e paesaggi mozzafiato, mentre imperversava la pandemia che ha rivoluzionato le nostre vite. Una scusa per scappare dagli assembramenti all’insegna della scoperta e delle emozioni, fuggendo dai luoghi del turismo di massa. Come ogni anno, accompagnato da Danilo e Antonio, amici e compagni di viaggio da una vita, ho deciso di concedermi qualche giorno lontano dal caldo asfissiante di una Napoli d’agosto, scappando verso luoghi più freschi e soprattutto lontani dalla calca. Mai come questa volta, l’organizzazione dell’itinerario è stata incerta fino all’ultimo, ma dopo mesi di reclusione forzata, venir meno a una tradizione così importante sarebbe stata una delusione difficile da digerire. Così il viaggio è iniziato risalendo il Lago di Garda verso il nostro appoggio in Val Gardena per raggiungere la tappa che si è poi rivelata essere quella più significativa dell’intero on the road: le Tre Cime di Lavaredo. Quel giorno il meteo non era dei migliori. Il cielo non preannunciava niente di buono. Un folto banco di nubi scure avvolgeva completamente le Cime, ma quando facevano capolino mi sembravano ancora più imponenti ed affascinanti di quello che immaginavo. La pioggia non si è fatta attendere e ha iniziato a cadere copiosamente a pochi metri dal Rifugio Lavaredo. Non mi sono fatto scoraggiare, al contrario dei tanti turisti presenti che, abbandonando la loro escursione, hanno liberato velocemente l’intero sentiero, rendendo lo scenario e l’intera esperienza più solitaria e spettrale. La determinazione a proseguire è stata premiata dopo aver superato il dislivello che portava alla Forcella Lavaredo. Pian piano il cielo si è aperto, mostrando in tutta la loro bellezza le Cime, che si sono svelate nella loro iconica vista delle pareti nord. Ho ricominciato a scattare e, una foto dopo l’altra, sono riuscito a catturare la danza delle ultime nuvole che scivolavano tra le facciate verticali delle tre punte. Dopo qualche minuto, totalmente assorto da quello spettacolo, mi sono girato per riprendere il cammino e in quel momento si è composto davanti ai miei occhi uno di quei momenti che si inseguono idealmente da una vita: il sentiero che mi aspettava era incerto e si perdeva allo sguardo, il Rifugio Locatelli non era che un puntino confuso in lontananza e il cielo aveva ripreso a nascondersi dietro ad altre nuvole minacciose. La stanchezza accumulata fino a quel momento era sparita grazie all’adrenalina nel voler proseguire, nella curiosità di scoprire cosa mi aspettava dietro quella svolta celata dalla dorsale ovest del Monte Paterno. Ero consapevole del fatto che quanto osservato e provato lo avrei portato con me per sempre e allora l’ho fotografato con la speranza di trasmettere quelle stesse emozioni a chi avrebbe osservato i miei scatti. Ad oggi, di quel viaggio ricordo la pace che provavo durante le lunghe camminate nella verde Prato Piazza della Valle di Braies, l’architettura monolitica ed aliena di Zaha Hadid che disegna il Messner Mountain Museen sul Plan de Corones, o ancora la bellezza fragile e ferita del Lago di Carezza sotto il Latemer, teatro, suo malgrado, di una violentissima tempesta di vento che, nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 2018, ha abbattuto migliaia di alberi nella zona. Lentamente, è in atto una grande opera di rimboschimento, ma quanto tempo passerà prima del prossimo disastro ambientale? Non possiamo subire questi eventi passivamente: il cambiamento climatico è anche questo. Questo non può lasciarci indifferenti ma, bensì, imporci un profondo ripensamento nel nostro rapporto con l’ambiente, a partire nel nostro piccolo dalla vita quotidiana fino ad auspicare un’adeguata ed efficace programmazione dettata da governi sempre più attenti e sensibili alle tematiche ambientali. Il 2020 è stato un anno assurdo e sfortunato, l’emergenza non è ancora passata, ma questo viaggio ha curato l’insofferenza di quei mesi in quarantena, tra preoccupazione e malinconia.
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I suoni del silenzio Jessica Melluso
Giugno 2012: avevo scelto con cura il periodo sapendo di poter godere al massimo il giorno polare, 24 ore ininterrotte di luce e, spesso, ultimamente mi ero trovata a immaginare un viaggio in solitaria: quale momento migliore. La Groenlandia vista sul mappamondo sembra un cuore di ghiaccio, ma in estate le sue coste si sciolgono lasciando il posto a un tappeto di muschi e licheni…non ci sono alberi, al massimo qualche cespuglio. Kangerlussuaq, la città di arrivo, è un posto surreale, sembra quasi una base militare abbandonata…ma è fuori dal paese che inizia la meraviglia. Dopo una notte di riposo (notte solo in termine orario) risalendo e costeggiando il fiordo in capo al quale sorge la città si arriva nella regione della calotta polare attraversando il circolo polare artico. Il percorso di trekking a piedi è semplice ma non corto e si impiega una giornata intera…ma il paesaggio che si apre davanti riempie gli occhi di silenzi e pacifica solitudine: le acque del fiordo, alimentato dal ghiaccio che si scioglie, le piccole case colorate isolate, una timida natura che fiorisce qua e la.…E poi all’improvviso l’imponente muro bianco del fronte della calotta polare si staglia davanti agli occhi sovrastando la terra sottostante: il tetto del mondo. Arrivata sul bordo si trasforma poi in una distesa bianco-azzurro trasparente di ghiaccio su cui lo sguardo si perde…sembra all’infinito…. verso il polo Nord. Con gli occhi pieni di questa prima meraviglia e la testa che comincia a svuotarsi della frenesia quotidiana un volo interno con i tipici arei rossi della compagnia locale mi trasporta alla volta della Disko Bay, il cuore del mio viaggio. Per la cronaca tutti gli aerei della Greenland Air e molte delle imbarcazioni sono totalmente color rosso per facilitarne il riconoscimento in caso di incidente sul bianco della calotta di ghiaccio. Già sorvolando la baia lo spettacolo degli iceberg galleggianti nel mare sottostante è meraviglioso…ma arrivati a Ilulissat, il cuore si ferma di nuovo. E’ ‘sera’ (per modo di dire:..il massimo dello scuro a mezzanotte somiglia al crepuscolo della nostra estate) e l’acqua della baia è liscia come l’olio. Dovunque galleggiano iceberg da più piccoli a giganti e ti senti come davanti a un quadro in perenne movimento. Le casette in legno colorato del paese sparse e arroccate ognuna con almeno 2-3 cani da slitta in cortile (non è stagione per le slitte adesso ma ovviamente in inverno sono uno dei principali mezzi di trasporto). Gli abitanti del posto, gli Inuit (che tradotto vuol dire semplicemente ‘la gente’) sono persone gentilissime e affabili. Mi fermo ad osservare un ragazzino che a pesca. Il pesce è l’ingrediente principale di tutti i piatti…molti crudi e spesso essiccati…e il pezzo forte è la balena, di cui l’architettura locale fa ampia mostra di sculture create con le loro costole. Navigare tra gli iceberg sotto il sole di mezzanotte è una delle esperienze più poetiche della mia vita. Fa parecchio freddo e non tira un alito di vento. Il mare è piatto e si increspa appena al lento procedere del piccolo peschereccio rosso su cui mi trovo. l motore non fa rumore e ti senti veramente avvolta dal silenzio. Per un attimo la mente fa capolino al pensiero della gelida notte del Titanic. Improvvisamente un rumore….e un altro ancora, sembra un tuono e subito dopo un tonfo fragoroso e uno splash: assistere allo scontro di due grossi iceberg ti lascia stupefatto: emoziona ma non fa paura…ma man mano che la barca procede ti rendi conto che accade di continuo. A volte li vedi avvicinarsi altre no ma senti la collisione delle parti sommerse con un crack, a volte si sfiorano e si sgretolano nel punto di contatto, altre si stacca un pezzo piu grande che cade in mare. Nei giorni a seguire imparerò a riconoscerne il suono anche dal paese, come un sottofondo a volte musicale per la periodicità con cui avviene. Passeggiando lungo un sentiero in cima alla cittadina mi sedevo spesso di fronte al mare nella pace più assoluta e ascoltavo il silenzio rotto solo dagli iceberg che si scontravano. Concludo il mio viaggio qualche giorno sull’isola abbandonata di Ataa a circa 4 ore di navigazione dalla Disko Bay. Del vecchio insediamento locale rimangono solo 4 casette in legno colorato e un minuscolo cimitero di croci bianche dei suoi ultimi abitanti…. e tanta natura: a un’oretta di navigazione da li raggiungiamo l’Eqip Sermia, il ghiacciaio madre da cui originano tutti gli iceberg dalla baia: ci si può avvicinare fino ad un chilometro di distanza. Il mare si copre progressivamente di una coltre di ghiaccio sbriciolato e diventa una distesa bianca…Ci fermiamo al punto di osservazione e rimaniamo a guardare: il profilo del ghiacciaio muta in continuazione nell’ora che stiamo li di fronte…in alcuni punti si sbriciola in altri si staccano enormi blocchi che cadono in mare. Il 2012 è stato l’anno dei miei 40 anni e questo viaggio, il primo da sola, dopo tanti fatti e molti ancora da fare, un po mi ha cambiato. Accompagnata dai suoni del silenzio e da giornate infinite e piacevolmente lente, impari a dare importanza al senso del tempo e a come lo si vive…a come tutto muta continuamente intorno a noi e a come cambiamo noi. 48
The soul should always stand ajar, ready to welcome the ecstatic experience. L’anima dovrebbe sempre stare socchiusa, pronta ad accogliere l’esperienza dell’estasi. Emily Dickinson
PEOPLE’S SOULS Kupkari di Karmen Garcia Llorens Color Mundi di Laura Pierangeli Eagle’s Festival di Maurizio Trifilidis I colori della luce di Roberto Malagoli Donne del Maramures di Alessandro Zaffonato
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Kupkari
Carmen Garcia Llorens Viaggio in Uzbekistan, durante il Navruz, la festa della primavera. Tutto il paese è da raccontare perchè è bellissimo, diverso, antico e moderno allo stesso tempo, la mitica Ruta della Seta... Ma voglio raccontare l’esperienza eccezionale che ho vissuto quando ho assistito, vicino a Samarcanda, alla celebrazione del Kupkari, Ulak o Buzkashi, diversi nomi secondo il paese, un gioco di cavalli tradizionale dei nomadi steppici dell’Asia centrale. Questo antico gioco si svolge quando si celebrano matrimoni o altri eventi familiari, così come durante il Navruz. In questo caso stavano celebrando la circoncisione di un bambino e suo nonno aveva organizzato la festa in suo onore. Il nome del giocco significa “afferrare la capra”. L’obiettivo è semplicemente prendere il guscio di una capra e muoversi in qualsiasi direzione fino ad allontanarsi dagli altri giocatori e portarlo al posto indicato dalle regole del gioco. Nonostante la semplicità delle regole, il giocco è difficile ed estremamente tecnico. I fantini hanno bisogno di molti anni di allenamento lungo e persistente. Il gioco è anche ad alto rischio, ma i giocatori sono preparati. I premi sono sempre diversi, che vanno dai tappeti agli elettrodomestici e anche alle auto e grandi somme di denaro.Ma normalmente, nelle feste di famiglia, i premi sono cose semplici, come una scatola di biscotti. Chi guardava chi? Quando siamo arrivati sul posto centinaia di cavalieri si stavano preparando con i loro cavalli per partecipare alla festa. Una moltitudine di uomini, bambini, cavalli, auto, furgoni, si riunivano in una mattina nuvolosa, povera di colori. Nessuna donna, nessuna bambina, solo le cinque donne del gruppo di turisti occidentali. Vedere tanti cavalieri con i loro vestiti così particolari, montati sui loro cavalli ornati di attrezzi colorati, ci ha trasportati ad un’epoca passata. Sembrava che non ci fossero né regole né ordine, tale era l’ammassamento di cavalieri e cavalli, mescolati a tal punto che non si distinguevano gli uni dagli altri. All’improvviso si vedeva un cavaliere con la capra che scappava dal gruppo e gli altri che cominciavano a inseguirlo frustando i suoi cavalli. La lotta era così intensa che alcuni cavalieri finivano quasi per cadere dai cavalli. C’erano, anche, molti bambini, troppo piccoli per le nostre menti occidentali, montati sul loro cavallo già imparando a cavalcare ed a partecipare al gioco. Noi eravamo stupiti dal panorama che avevamo davanti, ma loro non lo erano meno. La guida ci ha detto che alcuni dei partecipanti non avevano mai visto un occidentale, e meno donne, lì, ad una festa per uomini. Tanto che la polizia ci ha detto di andarcene, troppi uomini, alcuni ubriachi, e non era sicuro. Ci allontaniamo dal cuore della gente e ci mettiamo in un posto isolato da dove guardare la festa. Ma presto si sparse la voce che c’erano dei fotografi stranieri sul posto. Credo che fossero curiosi quanto noi, quindi non smisero di avvicinarsi al gruppo, ci sorridevano, ci salutavano, mettevano la mano sul cuore e non smettevano di guardarci. Un vecchio chiese alla nostra guida: - Di dove sono? - Dall’Italia, rispose Bek, la nostra guida. - Questo è oltre Mosca? Chiede il vecchio uzbeko con la sua innocenza. La gentilezza degli uzbeki si è dimostrata quando, più di una volta, i cavalieri correvano con la capra verso di noi per farci vedere da vicino il gioco, tanto che la faccia del cavallo l’abbiamo tenuta ad una spanna, con il conseguente pericolo. Gli uomini facevano battute, ridevano, mangiavano semi di girasole senza sosta, bevevano, molte volte estranei al gioco. I cavalieri, con la capra, corsa va, corsa viene, finirono esausti, pieni di sudore e polvere. Dopo diverse ore, finito il gioco, tornarono alle loro case, di nuovo a piedi, con i loro cavalli o nelle loro vecchie auto piene di gente. Li abbiamo salutati anche noi con le nostre mani nei cuori. Ci hanno dedicato i loro migliori sorrisi dorati e i loro gesti di rispetto. Se solo avessimo potuto ascoltare le loro storie di vita e conoscere la loro antica tradizione... Un’esperienza inaspettata e indimenticabile. 60
Color Mundi Laura Pierangeli
Sono a Paro (Bhutan) per assistere allo Tsechu 2019, una delle festività religiose più importanti del Buddismo Tibetano. Mi ritrovo catapultata in un mondo fuori dal tempo, inizialmente l’obiettivo è quello di documentare l’esibizione di teatro/danza dei monaci che si svolgerà davanti al Tempio, ma dopo pochi minuti sono talmente assorbita, nel vero senso della parola, dalla calca sugli spalti che finirò per dimenticarmi dello spettacolo. Non è facile muoversi ne’ camminare liberamente, la gente è tanta e tende ad aumentare con il passare delle ore, per lunghi momenti sono bloccata in mezzo ad una folla eccitata e coloratissima in cui a causa del mio abbigliamento scuro non riuscirò mai a mimetizzarmi, non mi resta altro da fare che immergermi in questa colorata umanità. Accade tutto nella maniera più spontanea, ogni gruppo di persone presso le quali mi fermo mi accoglie come una di loro. La caratteristica degli Tsechu è che non ci sono quelli che noi chiamiamo “punti di ristoro” tutto il necessario per la giornata è portato da casa, io sono piuttosto impreparata e ho con me solo la macchina fotografica, così mi ritrovo a condividere snack e succhi di frutta potendo ricambiare solo con un sorriso. Non avrò più modo di guardare l’esibizione dei monaci, un muro umano si frappone tra me e le danze, il mio spettacolo inaspettato sarà la gente, farò parte delle loro risate, dei loro momenti di gioco, delle loro arrabbiature, delle loro preghiere e anche dei loro malori; è una tipica giornata dell’autunno Himalayano, si passa in un attimo dalla pioggia al sole battente ed è facile rimanere storditi senza la possibilità di trovare un riparo. Continuo ad avanzare lentamente tra le famiglie in festa, scattando foto non a tutto quello che vedo ma a tutto quello che vivo, sentendomi parte integrante di questa straordinaria comunità chiamata mondo. Mi piace immaginare che per le persone che ho conosciuto quel giorno, lo Tsechu 2019 verrà ricordato anche per l’incontro con uno strano personaggio che si aggirava sugli spalti con una macchina fotografica, senza cibo ne’ acqua ma che cercava di interagire con tutti attraverso gesti gentili e sorrisi. Mettersi in viaggio in fondo vuol dire entrare per assistere ad una rappresentazione teatrale e ritrovarsi a partecipare ad uno spettacolo di vita.
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Eagle’s Festival Maurizio Trifilidis
Eagle’s Festival: due giorni ad alta intensità emotiva Sui Monti dell’Altaj della Mongolia vivono i pastori dell’etnia kazaca; per motivi tradizionali e culturali profondamente radicati, praticano la caccia con l’aquila, le cui tecniche e conoscenze vengono tramandate con orgoglio tra le diverse generazioni. La caccia si svolge principalmente nel periodo più freddo, quando la terra è coperta di neve e le greggi richiedono meno attenzione. Un periodo in cui la rigidità del clima impedisce la mobilità dei pastori e le poche occasioni di incontro con altre famiglie possono anche essere a ore di viaggio. Le volpi sono la principale preda dei rapaci; il cacciatore trattiene la pelliccia della preda, che usa per il suo vestiario, e ne lascia la carne al rapace. Alla fine di settembre i pastori si radunano per sfidarsi in una serie di gare di abilità e destrezza in un evento per tutti noto con il Festival delle Aquile. Il campo di gara si trova in un altopiano a 2.000 metri, in una area priva di qualsivoglia abitazione, lontana dal più vicino centro abitato, raggiungibile solo in jeep su un percorso sterrato. I cacciatori arrivano a cavallo anche da zone molto distanti, sfoggiando abbigliamento e accessori tradizionali. L’aquila, con la testa protetta da un cappuccio di cuoio, è posata sul braccio o su un bastone legato alla sella. Il rapporto tra il cacciatore e il suo rapace è esclusivo e dura molti anni. Il Festival è una importante, e quasi unica, occasione d’incontro collettivo, l’ultima prima dell’inverno. Alle gare partecipano cacciatori di diverse età. Parenti e amici assistono con passione e forte coinvolgimento. Tra gli spettatori, gli stranieri sono ben accetti. Vicino al campo di gara, si montano le tende pronte a fornire cibo e ospitalità, facilitando la socializzazione tra i presenti. Le gare principali consistono proprio in una simulazione dell’azione di caccia: in una il cacciatore lascia la sua aquila su una collina, le toglie il cappuccio e poi, raggiunto un punto distante un centinaio o più di metri, la richiama, la invita a raggiungerlo e a posarsi sul suo braccio. In una altra l’aquila deve catturare una preda, generalmente un pellicciotto di volpe trascinato dal cavallo del suo cacciatore, e posarsi su di essa. Il cacciatore richiama l’aquila lanciandole una preda e urlando l’ordine con suoni gutturali. Velocità, obbedienza e precisione dell’aquila sono gli elementi di giudizio per vincere. I pastori mongoli sono tutti eccellenti cavallerizzi e tra le gare più spettacolari, vi è quella della raccolta da terra di piccoli oggetti da parte di cavalieri lanciati al galoppo: velocità e numero degli oggetti raccolti sono gli elementi di vittoria. Alla fine della seconda giornata, i cacciatori, sempre a cavallo, tornano a casa; per loro inizia un lungo periodo di solitudine. Anche io devo tornare: ho l’impressione di esser entrato in un altro secolo, per poi uscirne malvolentieri ma certo più ricco di emozioni e suggestioni.
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I colori della luce Roberto Malagoli
“RACCONTARE”….osservando la vita quotidiana della gente comune, esplorando le situazioni socio-culturali e le interconnessioni tra ambiente e persone, inseguendo il desiderio irrefrenabile di scoprire ciò che è diverso e inaspettato. Non per cogliere la fine di un mondo, ma la sua inarrestabile vitalità, con le persone sempre in cammino verso qualche meta dell’umana esistenza, che magari esige durezze e sofferenze. Grazie a tutti i colori della luce, che a noi si rivelano nel manto prezioso che riveste e impregna di sé corpi e volti, abiti e costruzioni umane, cieli e acque…
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Donne del Maramures Alessandro Zaffonato
Il Maramures è una regione a nord della Romania confinante con l’Ucraina. In questa regione vi sono alcuni comuni in cui tutto il sostegno economico viene dall’agricoltura, ed è qui che sono state scattate queste fotografie. In queste comunità, quello più mi ha colpito, è la vita delle donne, a cui è demandato non solo la gestione della casa e degli animali, ma in moltissimi casi accudiscono anche il marito. Molte storie si assomigliano: Maria, che ha lavorato per anni in Italia come badante, è tornata ad accudire il marito molto malato; Ana vive sola dopo la morte del marito e continua ad accudire il bestiame di famiglia; Loana mi invita in casa ad assistere al funerale della loro regina trasmesso dalla televisione e mi parla del marito morto da poco per un tumore alla gola. Tutte queste donne accumunate da una grandissima dignità e dalla voglia di farti sentire a casa. Donne come Gabriela che vive col marito e si prende ancora cura della casa e del figlio che sta tentando di aprire un museo di oggetti tipici e mi invita ad unirmi per pranzo, dopo esseri vestita in abiti tipici per una foto. Questo sarà solamente il primo dei tanti pranzi fatti con diverse famiglie. La cultura contadina è sempre presente e diverse donne mi mostrano orgogliose le loro pecore o le loro mucche ma, alla domenica, tutte in chiesa a pregare e partecipare alla lunga cerimonia ortodossa che a me sembra non finire mai. Come da tradizione possono entrare in chiesa ma devono rimanere nella zona posteriore, possono andare nella zona anteriore solamente per baciare le icone. La vita scorre lenta, al ritmo della vita contadina, ed alla sera, invece di stazionare davanti alla TV, ci si riunisce lungo la strada per scambiare due parole. Dopo una settimana termina il mio viaggio e ne esco arricchito per aver trovato una ospitalità incredibile. Ripensando ai racconti su mio nonno, che di lavoro faceva il contadino, penso di aver visto come poteva essere la sua vita, molto più semplice ma decisamente più ricca della nostra.
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Strength does not come from physical capacity. It comes from an indomitable will. La forza non viene dal vigore fisico. Viene da una volontà indomabile. Mahatma Gandhi
STRENGTH TO LIVE The shoes factory di Marco Marcone Milot Market di Stefano Bianchi Cobra grande di Pierluigi Ciambra Ebano di Adriana Miani Che ne Sahara di noi di Mario Cucchi
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The shoes factory Marco Marcone
Myanmar (Birmania). Un intero villaggio all’estrema periferia di Bagan – un luogo che Marco Polo definì come il più bello mai visitato prima – gravita attorno al business delle calzature. L’odore pungente dei collanti arriva alle narici ben prima di raggiungere lo stabilimento. All’esterno una luce accecante; all’interno solo ombra, tagliata violentemente da alcune lame di luce. Nell’aria il silenzio, misto all’odore di idrocarburi e gomma. Mani giovani e piedi nudi. Gli adulti o i più grandi alle macchine, gli altri dedicati alle restanti mansioni. All’esterno i bimbi piccolissimi a giocare e a guardare dentro, in attesa che arrivi il loro turno. Il lavoro minorile è un fenomeno di dimensioni globali. Secondo le recenti stime dell’ILO, sono ancora 152 milioni i bambini — 68 milioni sono bambine e 88 milioni sono bambini — vittime di lavoro minorile. Metà di essi, 73 milioni, sono costretti in attività di lavoro pericolose che mettono a rischio la salute, la sicurezza e il loro sviluppo morale. Molti di loro vivono in contesti colpiti da guerre e da disastri naturali nei quali lottano per sopravvivere, rovistando nelle macerie o lavorando per strada. Altri vengono reclutati come bambini soldato per combattere nelle guerre volute dagli adulti. La realtà che questi dati ci descrivono è inaccettabile. Le cose da questo punto di vista non sono certo destinate a migliorare in Myanmar: Aung San Suu Kyi, il premio Nobel per la Pace nel 1991, attivista per i diritti umani e fiera oppositrice del regime militare in Birmania, è stata nuovamente arrestata dai militari nel colpo di Stato del 1 febbraio 2021. Per anni è stata considerata un simbolo mondiale della non-violenza, anche se la sua figura è stata al centro delle polemiche per la gestione delle violenze ai danni della minoranza musulmana birmana dei Rohingya. Le foto che seguono sono state scattate a novembre del 2015, durante le storiche elezioni democratiche tenute nel Paese che ha cambiato nome col golpe, guidato dal 1962 da un regime militare attualmente di nuovo al potere.
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Milot Market Stefano Bianchi
Ho sempre preferito fotografare le persone rispetto ai paesaggi. Concentrarti sulle persone ti permette di calarti pienamente nella cultura locale, di capire davvero come si vive in quel posto, di abbattere la barriera turista-fotografato e magari di farti amico, anche solo per qualche minuto, uno dei soggetti che fotografi. La sfida è cercare di farsi accettare in un contesto di vita quotidiana, nel quale si può facilmente essere percepiti come “intrusi”: è quello che ho cercato di fare durante il viaggio in Albania, in occasione della visita al caratteristico mercato di Milot, cittadina situata circa 50 Km a nord di Tirana. Si tratta di un mercato che, dai primi anni del secolo scorso, si svolge ogni domenica mattina e richiama a Milot la popolazione dei paesi e delle campagne circostanti, che sono attratte dalla enorme varietà di mercanzie in vendita. In questo luogo, infatti, è possibile acquistare veramente di tutto: nella zona ovest del mercato, ad esempio, che è la più lontana dal centro della cittadina, vengono venduti animali di diverse specie in condizioni igieniche piuttosto discutibili; nella zona centrale, invece, vengono venduti prevalentemente vestiti, calzature, articoli per la casa ed attrezzi da lavoro/oggettistica di ogni tipo; infine, nella zona nord-est, che è quella più vicina al centro cittadino di Milot, vengono venduti soprattutto prodotti della terra e generi alimentari (in particolare, una grande varietà di mieli, marmellate ecc.), preparati artigianalmente dai venditori stessi. Insomma: il mercato di Milot mi ha permesso di vedere uno spaccato autentico della vita delle persone del luogo, che mi hanno colpito per la loro cordialità e disponibilità verso gli stranieri, in particolare quelli italiani. L’unica difficoltà, in alcuni momenti, è stata data dal fatto che alcune persone non volevano essere fotografate; In questi casi un fotografo può cercare di conquistarsi, con pazienza e perseveranza, ogni singolo scatto ma deve anche riconoscere le situazioni in cui è meglio rinunciare.
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Cobra Grande Pierluigi Ciambra
Manicoré, piccolo Municipio dello Stato dell’Amazonas, centro della foresta pluviale Amazzonica. Si arriva con il battello, o meglio in barco, lungo il Rio Madeira, in due giorni di navigazione da Manaus. Il fiume è infatti l’unica via di comunicazione, oltre a piccoli aerei a 12 posti, molto costosi per la popolazione locale. Varie tonalità di verde intenso e miriadi di fiumi e fiumiciattoli creano un panorama mozzafiato, la natura detta le proprie regole e determina la vita della popolazione, un’esistenza simbiotica tra uomo e natura. Essa ci ricorda che l’ambiente circostante è in costante mutamento e l’uomo non è il solo responsabile di questa trasformazione in corso. A causa della totale mancanza di infrastrutture l’economia locale stenta a decollare. Meno dell’1% delle abitazioni ha i servizi sanitari, poco più del 2% di queste ha rifornimento di acqua potabile e solo poco il 50% della popolazione è alfabetizzata. Le imprese e le industrie si concentrano a Manaus e in altre località più centrali dal punto di vista dei trasporti ma soprattutto più dotate di manodopera qualificata. Si vive per strada, le case sono troppo piccole e le famiglie troppo numerose, molti giovani migrano verso la città. Giunti nel Capoluogo però, questi ragazzi sono costretti a vivere di espedienti e vanno ad aumentare la popolazione delle favela, in costante crescita alla periferia di Manaus. Il più delle volte è ancora più dura e allora si risale sul battello, a fendere la acque del fiume.
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Ebano Adriana Miani
L’Etiopia è una nazione in forte sviluppo e rinnovamento ma l’83% della popolazione, soprattutto nel sud, vive in zone rurali e nel territorio della Valle dell’Omo soprattutto sono insidiati circa 15 tribù più o meno grandi, a rischio di estinzione a causa della modernizzazione e degli interventi perpetrati dalle multinazionali presenti che sostituiscono le coltivazione di sorgo, mais e fagioli e con le aree destinate al pascolo, con coltivazioni di tipo intensivo del tabacco, della palma di olio, del cotone e del mais per la produzione di biocarburanti. Tutto ciò senza tener conto che le tribù utilizzando, il latte, la carne, le pelli ed il sangue, hanno il sostentamento necessario per vivere ed il bestiame viene utilizzato come dote per le giovani spose. Inoltre l’atavica mancanza dell’acqua, causata dalla persistente siccità, è fonte di conflitti con i popoli confinanti e tra le tribù stesse, ma non solo, tutto questo avviene anche per la costruzione di impianti idroelettrici che al momento, essendo utilizzata per la produzione di energia elettrica per i grandi centri distribuiti sul territorio non portano giovamento alla loro vita bensì la peggiorano. Triste è la mancanza di rispetto nei loro confronti che da generazioni vivono e mantengono inalterato il territorio. La tribù degli Hamer, è quella più numerosa e le donne, nonostante abbiano ruoli vitali,debbono sottostare al volere del capo tribù e alle tradizioni radicate e come nelle altre tribù, vengono discriminate, soggette a soprusi e violenze. L’ infibulazione è ancora in uso e questa è la più vergognosa degli obblighi a cui una donna deve sottoporsi rischiando problemi di salute se non la morte. I riti ancestrali portano alla scarnificazione della pelle, ad indossare anelli di cuoio quando contraggono matrimonio o a sottoporsi a frustate per risultare interessanti agli occhi dell’uomo che dovrà decidere chi prendere in sposa. Usano colorare i capelli intrecciandoli con la polvere color ocra, grasso animale, indossano pelli e monili di vario colore e fattezze, campanelli alle caviglie e un grosso anello al collo rivestito di cuoio come segno di fedeltà al marito. Vivono seminude anche se ora le donne hanno scoperto il reggiseno e lo sfoggiano con orgoglio. Sono forti e coraggiose ogni giorno si muovono dai villaggi per fare rifornimento di acqua dai pozzi a volte distanti chilometri dal loro insediamento, raccogliere legna, andare al mercato e non ultimo, mettere al mondo tanti bambini per rafforzare il proprio ruolo all’interno della comunità. Ho realizzato questo reportage perché l’Etiopia, conosciuta come la “culla del genere umano”, ha di fronte a se una grande sfida ;quella dell’emancipazione femminile che se avviata porterà a una svolta propulsiva in tutta la Società , questo è il mio augurio sincero.
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Che ne Sahara di noi Mario Cucchi
Che ne sarà del popolo Saharawi costretto, ad un forzato esilio in una delle zone più inospitali del pianeta? E’ questa la domanda che mi sono fatto quando, nel mio viaggio, ho conosciuto i Saharawi e la loro situazione. Un muro lungo più di 2.700 chilometri nel deserto africano, 10 milioni di mine, una guerra durata 15 anni e mai realmente conclusa, un popolo che vive da più di 45 anni nei campi profughi. Queste le tappe salienti nella storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo e ora occupata dal Marocco. Il mio progetto, organizzato in dittici, vuole esprimere i contrasti, a volte magnifici, più spesso terribili, che il popolo Saharawi vive, contrasti che saltano immediatamente all’occhio a chi come me si è trovato a viaggiare in questo luogo di conflitto e di povertà. Sarà la gioia di poter tornare nella loro terra che leggiamo nella speranza dei bambini a vincere, oppure continuerà la totale indifferenza della comunità internazionale che vediamo nella rassegnazione degli anziani? Il grosso rischio è che la totale assenza di prospettive e la giustificata rabbia dei più giovani porti al suicidio di una nuova guerra. Un viaggio questo che mi porto nel cuore assieme alla speranza di poter tornare un giorno in un “Sahara Libre”.
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If you want the present to be different from the past, study the past. Se vuoi che il presente sia diverso dal passato, studia il passato. Baruch Spinoza
PAST AND PRESENT Guizhou di Maurizio Trifilidis Il mistero di Rasputin di Alessandro Castiglioni Nel segno di Evo di Massimiliano Cambuli Iran di Diego Pedemonte Tracce di Blues di Gigi Montali
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Guizhou Maurizio Trifilidis GUIZHOU, CINA Per un viaggio di incontri e foto in Cina, ho scelto il Guizhou. Non avevo interesse per le grandi citta “modernizzate” e neanche per le antichità più note al turismo. Il Guizhou è una regione rurale, dove tuttora l’agricoltura costituisce la base essenziale dell’economia locale. Una regione che vede la presenza di molti piccoli villaggi le cui tradizioni e abitudini stanno si cambiando ma più lentamente rispetto ad altre parti del paese; si tratta di villaggi con una popolazione media anziana, perché anche qui i giovani, come succede in tutto il mondo, preferiscono trasferirsi nelle grandi città, alla ricerca di modernità e di lavori diversi da quello nei campi. Complessivamente, ciò che più mi ha colpito in questi piccoli villaggi, e che rimane ben evidente nelle foto scattate, è stata la facilità del rapporto umano con chiunque abbiamo incontrato. Superando spesso a gesti o con l’aiuto della guida la barriera della lingua, quando abbiamo bussato a una porta ci è stato sempre aperto e ho potuto fotografare quanto non mai le persone, sempre ospitali e disponibili, pronti a offrirti una sigaretta, un thè o una parte del loro pranzo, all’interno delle loro abitazioni. Le prime foto riguardano i Long Form, una tribù dell’etnia Miao, che si caratterizza per le vesti colorate e, soprattutto, per i tipici copricapi di legno ricoperto da matasse nere. Vivono in un’area remota, lontana dai flussi turistici e mostrano con orgoglio i simboli della propria tradizione, che oramai indossano soprattutto nei giorni di festa. Le altre foto riguardano le attività quotidiane più elementari, spesso legate al pranzo o a un momento di riposo. Ho partecipato anche a un matrimonio, semplice ma incredibilmente rumoroso: di fronte agli sposi un signore accendeva in continuazione batterie di “miccette”, piccole ma in quantità incredibile, e il cui intenso baccano è percepibile anche solo dal fumo ben visibile nella foto e dall’enorme scatola che ne conteneva solo una parte. In nessuno dei miei viaggi precedenti avevo fotografato così tanto in interno e soprattutto persone. Un viaggio che ha cambiato il mio modo di fotografare e che ha trasformato ogni scatto, preceduto e seguito sempre da un partecipato scambio umano, in una testimonianza di comunanza con il soggetto fotografato; ogni foto rappresenta un volto e una storia a sé stante, con l’unica eccezione dell’ultima, il “villaggio”, necessaria a mostrare il contesto esterno dei posti visitati.
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Il mistero di Rasputin Alessandro Castiglioni
URAL, alla ricerca di Rasputin. Trovati gli sponsor, ricevute le Yaris, offerte da Toyota, eccoci al via verso la Russia. Siamo in tre: il grande viaggiatore, io ed il cameramen. Questa volta andiamo alla ricerca di Rasputin. C’è aria di neve quando raggiungiamo Tyumen, siamo poco distanti da Porovoskoe, la nostra meta. Il tempo sembra essersi fermato. Le casette colorate, ma sbiadite, non danno segni di vita. Un piccolo market sembrerebbe essere l’unica cosa nuova. L’emozione è grande. Il sogno è diventato realtà. Siamo a Porovoskoe, il villaggio in cui Rasputin nacque e da cui un giorno partì a piedi per San Pietroburgo, anzi alla sua conquista. Noi abbiamo però un compito, trovare Victor, e lo troviamo. E’ lui il frutto del peccato tra la sua bisnonna e Rasputin, ecco il legame che lo lega e lo fa assomigliare al mitico consigliere mistico russo. Ci accoglie, si traveste e ci racconta la sua storia. Impreca, gesticola, chiede sigarette, ci sfida ma non ha timore delle nostre macchine fotografiche. La strada ci aspetta, dopo questo fantastico incontro il nostro compito è quello però di ripercorrere a tappe il suo percorso verso San Pietroburgo. Raggiungiamo così Kurgan per arrivare a notte fonda a Celjiabinsk. Grande città ricca di palazzoni tristi... Gli Urali ci attendono... il viaggio è ancora lungo. Arriviamo a NiznyNovgorod dopo una tappa di 12 ore di guida, di neve e di ghiaccio. Sembra impossibile, ma in Russia quando la notte cala avvolge tutto: i fari delle macchine sono sempre sporchi, i camion non danno pace e alzano una valanga di fango misto neve, fa freddo. Siamo stanchi ma non molliamo. Ecco all’orizzonte a San Pietroburgo. Visitiamo la città, si respira il Natale. La neve la rende più bella, romantica, misteriosa. Ripercorriamo i luoghi storici a completamento della storia di Rasputin: la casa Jusupov e il fiume Neva dove lo hanno gettato dopo averlo assassinato. Chiediamo di Rasputin a tutti, ma le risposte sono forzatamente poche. Il mistero continua. Santo o avventuriero, profeta o visionario, bandito o gentiluomo, non sapremo mai chi era veramente Rasputin, credo sia giusto così. La storia deve continuare con i suoi segreti, con i suoi dubbi, con le nuove scoperte... A noi rimane il ricordo d’aver toccato la Siberia, la terra che dorme, e forse senza volerlo ci ha cambiati dentro.
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Nel segno di Evo Massimiliano Cambuli
Arrivando in Bolivia per una collaborazione con una ONG locale, ero consapevole di trovarmi di fronte a un laboratorio politico. Una circostanza che non mi sarebbe comunque sfuggita: per scongiurare che il viaggiatore non ne abbia contezza, la ricorrente iconografia ufficiale è lì per ricordarglielo. Nel 2006, Evo – come Morales viene chiamato dai suoi sostenitori - diventa il primo presidente della Bolivia di origine indigena in oltre 500 anni dalla conquista spagnola, dando inizio a una nuova era nella storia del Paese sudamericano. Morales introduce la sua cosmovisione andina nella vita politica e sociale boliviana, a partire dalla riforma costituzionale del 2009 che ha dato al Paese il nome ufficiale di “Stato plurinazionale boliviano”, basato sulla diversità identitaria e culturale del suo popolo e sul riconoscimento dei diritti alle autonomie indigene originarie contadine. Gli anni di Morales sono contrassegnati dalla “evoconomia”, la ricetta economica che ha potenziato il ruolo dello Stato nell’economia e nella vita sociale, producendo una crescita economica senza precedenti accompagnata da politiche di redistribuzione del reddito che hanno fortemente ridotto la povertà. Attraversando la Bolivia dalle piane della regione di Santa Cruz fino alle altezze di La Paz, il mio sguardo fotografico si è lasciato guidare dai simboli semiotici del potere di Morales, così come dalle varie espressioni della composita società boliviana. Popolazioni di lingua ed etnia quechua, aymara, guaraní e di origine europea coesistono nelle contraddizioni della diversità come differenti cromie dell’aguayo, il telo multicolore e multiuso delle popolazioni delle Ande, oscillando tra modernità e tradizione, tra diseguaglianze sociali e ricchezza di dignità, tra povertà materiale e orgoglio andino. In una miscela di evocazioni bolivariane e suggestioni di grandeur, il Paese sudamericano più povero e con la più alta percentuale di popolazione indigena si è incamminato con decisione - in direzione opposta e contraria rispetto al neoliberismo imperante nel nord del mondo - verso una propria via allo sviluppo, in un tempo che sembra non essere il nostro. Dalle vette delle Ande il viaggiatore può osservare la Bolivia guardare al futuro, dove il nostro emisfero e i suoi modelli di modernizzazione appaiono mondi lontani.
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Iran
Diego Pedemonte Primo viaggio in Iran intrapreso nel febbraio del 2020 poco dopo l’uccisione del generale Soleimani e le conseguenti tensioni. Ovunque erano presenti immagini in suo ricordo, sulle facciate degli edifici, nei negozi, nelle automobili, accompagnate da messaggi che promettevano una inevitabile e prossima vendetta. Nonostante qualche iniziale preoccupazione ho avuto la possibilità di immergermi in un mondo affascinante, con una millenaria storia alle spalle. Vista la mia formazione mi sono concentrato in particolare sull’architettura delle città persiane. Kashan e Yazd mostrano le capacità dell’uomo di costruire fin dall’antichità in territori impervi ai confini del deserto, riuscendo a sfruttare i venti e i canali d’acqua sotterranei per raffrescare gli ambienti. Esfahan e Shiraz sono il cuore della cultura persiana e lo si può apprezzare negli edifici di culto, nei giardini dove quotidianamente ci si dedica alla lettura dei grandi poeti e dei mistici, nei laboratori dove si tramandano con orgoglio l’arte calligrafica e la decorazione. Teheran è la città dei forti contrasti, abitata da oltre otto milioni di persone, dove si passa dal traffico assordante delle strade, ai caotici bazar, per poi ritrovarsi in improvvisi angoli di quiete dove sorseggiare un tè e scambiare qualche parola. Io e mia moglie abbiamo scelto di spostarci con bus di linea per entrare maggiormente in contatto con gli iraniani: confermando quanto ci era stato anticipato, abbiamo incontrato persone molto disponibili, fiere della loro cultura e desiderose di farla conoscere al mondo, con un vivo desiderio di riconquistare diritti e libertà. Una cultura che troppo spesso viene messa in secondo piano da un’informazione che si concentra quasi esclusivamente su questioni politiche o sull’integralismo religioso. Per un europeo è difficile comprendere la complessità di un Paese così diverso e rimuovere gli stereotipi che ingabbiano il pensiero. Attraverso questa selezione di fotografie ho voluto trasmettere le atmosfere di questi luoghi e le emozioni che ho provato, sperando di suscitare curiosità e interesse in chi non ha ancora visitato l’Iran.
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Tracce di Blues Gigi Montali
La HW 61 da New Orleans a Saint Louis è un itinerario leggendario che accompagna il fiume Mississippi nel suo sonnacchioso scorrere verso il mare. Evoca nella mente e nell’anima quella fetta di terra Americana intrisa da quel genere musicale che è il blues del Delta. Una strada è una strada, ma a volte è di più… una strada suona e canta. Ho guidato lungo questa pianura spesso simile alla mia terra, alla ricerca della sua musica, ho attraversato questi luoghi accompagnato dal Blues che usciva dalla radio costantemente ed ho raccolto immagini e parole testimoni di questo mondo che trasuda ancora del Blues. Il blues nasce come canzone di protesta, nasce nelle piantagioni di cotone del delta Mississippi, dove le comunità di schiavi afroamericani lavoravano duramente, sottopagati e sfruttati. Nasce al calar del sole nelle calde sere, nelle bettole dove s’incontravano per bere, suonare e cantare insieme. I luoghi del blues sono parte inscindibile della tradizione e a livello storico sono una sorta di atlante, che si apre dinnanzi agli occhi di noi viaggiatori curiosi col suo patrimonio fatto di miti e leggende. In queste contrade sperdute nel nulla, questa musica è nata e cresciuta. Il blues l’ho incontrato ovunque, al “Poor Monkey” al Reed’s o al Ground Zero, dove sul palco si esibivano bluesmen locali, ma anche al Lorraine Motel dove la storia dei diritti civili non si è fermata nemmeno davanti al brutale assassinio del Reverendo Martin Luther King. L’ho incontrato nei cimiteri dove i bianchi sono ancora da una parte e i neri dall’altra, sui murales che colorano le città che ti vedi passare lungo la “61”, L’ho incontrato dal barbiere, perché è lì che lo si incontra veramente, oppure su quei divani sfondati che troviamo davanti alle case di legno, nelle vecchie piantagioni come fantasmi che non se ne vanno o lungo i binari di quella ferrovia che li ha portati via. Questo è stato il mio viaggio e le sue sensazioni sono ancora dentro di me.
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You’re on the road But you’ve got no destination It’s a beautiful day Don’t let it get away Sei sulla strada ma non hai destinazione. È un giorno bellissimo, non lasciartelo sfuggire U2 – Beautiful Day
THE TRAVELER Viaggio in Italia di Vito Raho
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Viaggio in Italia Vito Raho
Rotellando per l’Italia Com’è viaggiare in Italia su una sedia a rotelle? Fabrizio Marta (aka Rotex) viaggiatore rotante e Vito Raho (aka Reflex) guida professionista e fotografo amatoriale, hanno “rotellato” per 40 giorni e per 8400 km su e giù per lo stivale, raccontando storie di disabilità e di normalità, varcandone spesso i confini e a volte restandone intrappolati. Prima di partire si sono chiesti: cosa vedrà la gente in queste foto e come recepiranno questo viaggio? Sarà Fabrizio/uomo il protagonista o sarà invece Fabrizio/ disabile e la sua carrozzina che salteranno subito all’occhio? E Vito sarà l’amico/fotografo o l’accompagnatore benevolo che aiuterà Fabrizio a montare e smontare la carrozzina e superare tutti gli ostacoli? Loro si sono di fatto lasciati alle spalle tutti i dubbi e sono partiti, divertendosi come matti, litigando ferocemente, emozionandosi come bambini o mandandosi a quel paese, semplicemente due amici che hanno deciso di partire insieme all’avventura anche se coscienti di portare avanti un progetto impegnativo. L’Italia, sia quella monumentale che quella minore, li ha accompagnati in un viaggio che non scorderanno facilmente e che, nonostante, o forse proprio per la sua mole fisica e psicologica, li ha portati alla fine a dividersi e proseguire ciascuno il proprio percorso altrove. La scrittrice Marina Cuollo scrive: “Il percorso per arrivare a un concetto di disabilità che sia parte della vita e privo di pregiudizi è un percorso lungo e non è facile. Sono tanti gli stereotipi che dobbiamo decostruire. La narrativa eroica intorno alle persone con disabilità esiste ormai da tempo ed è quella che ci spinge ad essere dei vincenti sempre e comunque. Una delle rappresentazioni mediatiche più frequenti della disabilità è quella del corpo che ce la fa, “nonostante tutto”, il corpo che riesce a performare, il corpo che taglia il traguardo. Questo crea tantissima pressione nelle persone con disabilità che sentono di dover eccellere per poter essere prese in considerazione, per essere considerate valide al pari delle persone non disabili. E in presenza di abilismo interiorizzato tutto questo può essere davvero dannoso, rendendo ancora più difficile il nostro percorso di liberazione. Ci è stata data la possibilità di dimostrare la nostra forza a chi è abituato a vederci come una tragedia vivente ma le pressioni che subiamo per essere sempre al top, per essere sempre dei vincenti, sono innumerevoli; perché di fatto, in una società che non ha mai previsto la nostra esistenza, se non vinci non esisti. Ma noi esistiamo in tutte le forme, in tutte le caratteristiche, in tutte le capacità e continueremo a far sentire la nostra voce.” E Viaggiare vuol dire esistere: in tutte le forme, in tutte le caratteristiche, in tutte le capacità.
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CURATRICE Simona Ottolenghi
Architetto, fotografo, accompagnatore turistico... e da sempre viaggiatrice instancabile. Curiosità, desiderio di conoscenza e di confronto, necessità di sentirsi a casa propria anche nei posti più remoti sia fisicamente che culturalmente, sono gli ingredienti che hanno da sempre spinto Simona in giro per il Mondo ad esplorare luoghi e culture con cui arricchirsi. Nei primi anni 2000 si avvicina al mondo fotografico, e da allora la fotografia è diventata il suo strumento per comunicare e per raccontare la sua personale visione del Mondo, per lo più a colori. Ha seguito corsi, workshop ed esperienze dirette sul campo approfondendo soprattutto le tematiche del Reportage e dell’editing. Dal 2010 è socia della ONG Bambini nel Deserto Onlus con cui è andata più volte in Africa (Marocco e Burkina Faso) a seguirne e documentarne progetti. Con le sue immagini sono stati pubblicati i libri “Dal Sole l’Acqua” e “Il Regno del Moro Naba”. Nel 2013 ha creato assieme a Roberto Gabriele, suo compagno di vita e lavoro, ViaggioFotografico.it che le ha permesso di trasformare le sue passioni nel lavoro più bello del mondo: Insegnare fotografia in viaggio, direttamente sul posto. Nel 2018 ha acquisito l’abilitazione e il tesserino di Accompagnatore Turistico. Dal 2019 gestisce OTTO Rooms, un B&B di lusso nel cuore di Roma, le cui aree comuni sono da lei stessa state studiate e progettate come un vero e proprio spazio espositivo e culturale dedicato alla fotografia, la OTTO Gallery, attraverso l’organizzazione di mostre ed eventi, presentazioni di libri, autori, progetti. Simona cura l’organizzazione e gli allestimenti delle mostre esposte.
“Non chiederti di cosa ha bisogno il mondo, chiediti cosa ti rende felice, e poi fallo, Il mondo ha bisogno di persone felici” Il Piccolo Principe
fotografi Stefano Bianchi
Massimiliano Cambuli
Alessandro Castiglioni
Pierluigi Ciambra
Mario Cucchi
Gualtiero Fergnani
Carmen Garcia Llorens
Roberto Malagoli
Marco Marcone
Jessica Melluso
Gigi Montali
Riccardo Panozzo
Diego Pedemonte
Laura Pierangeli
Vito Raho
Francesco Sammarco
Maurizio Trifilidis
Alessandro Zaffonato
Adriana Miani
TRAVEL TALES AWARD Travel Tales Award è un’iniziativa estesa per la promozione di progetti autoriali legati alla Fotografiadi Viaggio proposta da Photographers.it e Isp in collaborazione con la rivista Il Fotografo, il sito Viaggio Fotografico.it, e OTTO Rooms and Gallery, e con il supporto di NocSensei e di Officine Fotografiche. L’iniziativa si è rivolta a fotografi professionisti e amatoriali che, impossibilitati a partire in questo periodo così difficile a causa della pandemia COVID, volessero “tirare fuori” dai cassetti le migliori storie di viaggio e raccontarle con una visione narrativa fotografica di alto livello. Per “Fotografia di Viaggio” si intendono serie e progetti fotografici personali legati al tema e al fascino del viaggio in sé, al piacere di viaggiare inteso come metafora e stile di vita. La call prevedeva l’invio di storie di viaggi realmente fatti, raccontati con originalità e creatività, e con qualunque modalità e stile. La giuria ha valutato lo spirito e le capacità progettuali, oltre al ritmo e allo stile narrativo fotografico. Si cercavano storie fotografiche ben sviluppate, in grado di raccontare luoghi, incontri, emozioni, e anche il viaggiatore stesso e il suo modo di porsi nella sua situazione di nomade itinerante. L’iniziativa è stata sviluppata come un vero Award Fotografico, con una open call per raccogliere i progetti, aperta dal 8 febbraio al 16 maggio 2021 con una semplice iscrizione e un fee di partecipazione di 30,00 Euro per ogni progetto iscritto sul sito www.traveltalesaward.com. Ogni Fotografo ha potuto inviare una o più storie composte da massimo 15 immagini ed una sinossi, come un vero e proprio “diario di viaggio”. I progetti sono stati vagliati da una commissione di esperti e professionisti così composta: • Angelo Cucchetto, owner di Photographers.it e ISP, editore di CITIES • Giovanni Pelloso, direttore di IL FOTOGRAFO • Roberto Gabriele, owner di ViaggioFotografico.it • Simona Ottolenghi, owner di ViaggioFotografico.it e curatrice volume ISP • Loredana De Pace, Giornalista e curatrice • Paolo Petrignani, fotografo e grande viaggiatore Sono arrivate quasi duecento Storie, il lavoro di preselezione e selezione finale non è stato facile, e il risultato è stato notevole. Molti i premi e le iniziative legate all’Award che potete scoprire su https://traveltalesaward.com/storie-premiate/