NUMERO IX
WORLDWIDE
THE ITALIANS
FOCUS AUTORI
TRAVEL TALES
Joseph Ford
Gabriele Lopez
Tadashi Onishi
Mario Cucchi
Jeffrey Stockbride Liu Tao
Maude Bardet
Umberto Verdoliva Gabriele Croppi Lorenzo Pesce
Fabio Moscatelli
Nadia Cianelli
Daniela Giannangeli Fabio Magara
Introduzione
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Wo r ldw i d e
Storie di autori stranieri a cura di Attilio Lauria
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Jeffrey Stockbridge - Kensington Blues / testo di Giovanni Ruggiero Joseph Ford - Invisible Jumpers / testo di Debora Valentini Liu Tao - Documentary streets / testo di Susanna Bertoni Maude Bardet - Cairo views / testo di Antonio Desideri
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T H E I TA LI A N S
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Umberto Verdoliva - La via della Bellezza Gabriele Lopez - Subway Zen Gabriele Croppi - Metaphlsics of the Urban landscape Lorenzo Pesce - Tunnel
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Storie di autori italiani a cura di Vanni Pandolfi, testi di Vanni Pandolfi
F o c u s Au t o r i
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Fabio Moscatelli Tadashi Onishi
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T R AV EL TA LE S
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Nadia Cianelli - Destino Mario Cucchi - Che ne Saharà di noi Daniela Giannangeli - Cara Fabio Magara - Like a Monet
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Postfazione
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Interviste a cura di Sonia Pampuri
a cura di Simona Ottolenghi
N U M ERO I X
Cities Vol. IX Prodotto e distribuito da Concept Copertina e Photo editing Grafica
Ottobre 2021 ISP - Italian Street Photography Angelo Cucchetto Graziano Perotti Studio grafico Stefano Ambroset © Tutte le foto appartengono ai rispettivi autori
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Nono numero di CITIES, un numero molto interessante… In questo numero, oltre alle quattro storie di autori stranieri e le quattro di autori italiani abbiamo due focus d’autore con interviste e una sezione con quattro storie premiate al Travel Tales Award, il premio sulla fotografia di viaggio lanciato da Starring a febbraio (www.traveltalesaward.com). Il magazine apre come solito con la sezione Worldwide, dedicata agli autori stranieri e curata da Attilio Lauria con testi di Giovanni Ruggiero, Debora Valentini, Susanna Bertoni e Antonio Desideri. Quattro le storie che compongono quella sezione, storie di autori che rappresentano bene tutto il mondo della moderna fotografia Urbana internazionale: Jeffrey Stockbridge, Joseph Ford, Liu Tao, Maude Bardet. Segue la sezione The Italians, dedicata agli autori italiani e curata da Vanni Pandolfi anche nei testi, che ha selezionato quattro storie di autori italiani com forti personalità: Umberto Verdoliva, Gabriele Lopez, Gabriele Croppi e Lorenzo Pesce. Poi la sezione Focus Autori, curata da Sonia Pampuri, con due interviste con portofolio a Fabio Moscatelli e Tadashi Onishi. Ad ogni autore viene dedicato ampio spazio, con immagini dei suoi diversi lavori e Sonia ci aiuta a conoscerli meglio attraverso i loro lavori. Infine la sezione speciale Travel Tales a cura di Simona Ottolenghi con quattro storie premiate al Travel Tales Award di Nadia Cianelli, Mario Cucchi, Daniela Giannangeli e Fabio Magara. Anche questo numero è stato messo insieme nelle sue scelte fotografiche finali da me e dal nostro photoeditor Graziano Perotti, che firma anche la copertina del magazine, con una splendida immagine emblematica ed iconica. Grazie a tutti questi ottimi Autori, e grazie a voi per continuare ad apprezzare CITIES :-) Angelo Cucchetto
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Come sa bene chi ci segue, la selezione autoriale di questo magazine è ispirata alla proposta di una riflessione sul genere street/urban, a partire dalla messa in discussione delle stesse definizioni. Poiché se definire è un’operazione destinata ad escludere piuttosto che aprire alle contaminazioni, ai mixaggi, alle ibridazioni e via allargando, l’effetto è fatalmente l’avvitamento sui propri stilemi. E dunque la perdita progressiva della carica rappresentativa e comunicativa. A volte poi questi approfondimenti di genere riescono ad essere articolati anche in una chiave tematica che consente di evidenziare le diversità di declinazione e di approccio, come per questo numero di worldwide in cui ci siamo occupati di un concetto estremamente stimolante come l’invisibilità, da quella immediatamente fisica, alla sua dimensione concettuale. Protagonisti di “Kensington Blues” di Jeffrey Stockbridge, americano di Philadelphia dove è ambientato questo lavoro, sono i residenti di Kensington Avenue, un tempo quartiere operaio ed oggi famoso per le condizioni di degrado, fra povertà, abuso di droghe e prostituzione. Una comunità emblematica di quella umanità generalmente etichettata come invisibile per la propria marginalità sociale e territoriale, confinata in quartieri ghetto delle periferie. E proprio a questa sorta di trasparenza degli ultimi è legata la scelta linguistica di Stockbridge, che nel realizzare dei ritratti ambientati ha inteso restituire ai propri soggetti una dignità altrimenti negata: “la droga ha i suoi volti, il drogato è qualcuno” scrive Giovanni Ruggiero, e per questa ragione l’Autore “non ruba volti, ma cerca la collaborazione del soggetto nel farsi immagine, testimoniando di esistere.” Una scelta sottolineata dall’uso di un banco ottico 4x5, attrezzatura che non è certamente in cima ai must dei manuali del perfetto streepher. Altro apparente ossimoro rispetto all’ortodossia dell’attimo fuggente, propria del genere street/urban, è il lavoro di Joseph Ford, anche questo uno staged, ma dal carattere diametralmente opposto rispetto all’umanesimo sociale di Stockbridge. Insieme alla dimensione concettuale relativa allo smascheramento di un illusionismo ontologico della fotografia, ben lontana dall’essere quello specchio della realtà dei tempi del realismo ingenuo - come rileva Debora Valentini nel ricordare il manifesto futurista -, in “Invisible Jumpers” è possibile rintracciare una diversa accezione dell’invisibilità. Ovvero il suo essere uno strumento di difesa o di resilienza, secondo un termine molto in voga di questi tempi: mimetizzarsi, passare inosservati, come insegna la natura, talvolta è una strategia sottile quanto efficace. Nell’epoca social di un apparire che tenta di rendere quanto mai reale la finzione, ecco un lavoro che gioca sulla camaleonticità della realtà del mondo, dove a volte è più conveniente sparire che apparire. Il lavoro di Liu Tao, che come scrive Susanna Bertoni appare ripercorrere stilemi noti della street photography, mette poi in relazione il “già visto” con ciò che è invisibile, in un rapporto che potremmo definire di causa ed effetto. Una sua corretta lettura necessita infatti di inquadrare la fotografia nel più ampio ambito del sistema della comunicazione cinese, sul quale viene esercitato un controllo che prevede la limitazione dell’uso sia di internet che dei social planetari più diffusi, con la contemporanea imposizione di piattaforme di ricerca e condivisione nazionali. Queste barriere alla libera circolazione delle informazioni hanno inevitabilmente mantenuto la Cina nel suo isolamento, per cui è solo da pochi anni che gli streepher cinesi hanno avuto accesso alla street internazionale. Dunque ciò che a noi appare da “antologia”, per la Cina – come del resto per chiunque si approcci alla street per la prima volta - è un “classico” fin qui invisibile, da scoprire e sperimentare attraverso la pratica. E poi c’è Maude Bardet, che ci conduce in un viaggio a caccia dell’invisibile inteso come inesplorato, “lontano da certi stereotipi che ci mostrano l’esotico come un qualcosa di sempre uguale a se stesso”, scrive Antonio Desideri. Riscattare dall’invisibilità è sempre l’esito di un lungo percorso dalla dimensione essenzialmente interiore, di quel viaggio esperienziale che nella vita ci fa nient’altro che viandanti, per dirla con Nietzsche, e che tradotto fotograficamente significa capacità di uscire dal proprio punto di vista, sia esso canonico che di visione occidentale. Perché è l’abitudine che alla fine ci fa smettere di fare fotografia mentre ancora facciamo clickclick. Attilio Lauria
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Kensington Blues Jeffrey Stockbridge
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Kensington Blues Jeffrey Stockbridge
Stockbridge ci porta a Kensington Avenue, una città nella città di Philadelphia, dove si è aggirato per anni a caccia di volti e sofferenze. È un immenso quartiere degradato, da quando le fabbriche tessili l’hanno abbandonato. Oggi, in luogo degli operai, l’Avenue – detta semplicemente così – si è riempita di tossicodipendenti e prostitute. Sopra le case di Kensington passa la ferrovia sopraelevata che ha anch’essa un diminutivo: è soltanto L’El. Sulle due strade principali del quartiere, l’Avenue e Front Street, è una continua trattativa di droga e di sesso spicciolo. Poi tutto, amore e acidi, si consuma in case e baracche abbandonate lungo le strade laterali del quartiere. Le chiamano abandos, usate come rifugio da tante anime perse. La scrittrice Liz Moore ha ambientato il suo romanzo, I cieli di Philadelphia, in questo quartiere bagnato da fiumi di alcol, di droga e dal Delaware che proprio qui attraversa la città. Nelle sue pagine si muove quell’umanità dolente che Jeffrey Stockbridge per anni ha ritratto sull’Avenue. Per questo, in una nota, l’autrice ringrazia il fotografo. Omaggio che la letteratura fa alla fotografia. Ecco ad esempio le sorelle Tic Tac e Tootsie oppure Mary, riprese nel lavoro che Stockbridge ha chiamato, come un canto, Kensington Blues: «L’eroina – scrive Liz Moore – rende il corpo più affusolato. Lo smagrisce; in assenza di carne, fa spiccare nettamente i lineamenti. Occhi lucidi, velati di lacrime, una vampata di rossore che altera i toni del viso». Stockbridge, che capitò qui per caso, ha dato esattamente questo volto a queste anime disperate. Iniziò a fotografare le case abbandonate del quartiere che conservavano tracce di vite vissute. Decise poi di incontrare personaggi che potevano aver avuto una sorta di connessione con questi spazi trascurati. «Alla fine – dice il fotografo – decisi di distogliere il mio obiettivo dagli interni delle case e di puntarlo sulle persone.» Sul drogato, ad esempio, al quale non è stata data dignità e al quale è negato anche un volto. Stockbridge, al contrario, vuole dire che la droga ha il volto di questa gente che, senza chiedere pietà, vuole mostrare di esserci, rivendicando la sua esistenza e il diritto di continuare ad esistere. La droga ha i suoi volti. Il drogato è qualcuno. Stockbridge ricorre a un verso di Robert W. Service per introdurre il suo lavoro: «Fai solo un altro tentativo – è facile morire. È il continuare a vivere che è difficile.» Per fissare questa difficoltà di vivere il fotografo sceglie un mezzo fotografico per così dire insolito e solenne: un banco ottico 4x5. Non ruba volti, ma cerca la collaborazione del soggetto nel farsi immagine, testimoniando di esistere. Chiede anche di scrivere qualcosa sul suo taccuino. «Perché queste fotografie funzionino – ha detto – ci deve essere il consenso! I miei soggetti devono restare fermi. Il banco ottico richiede tempo. Ci vogliono almeno cinque minuti prima che io possa scattare.» Nel frattempo, il soggetto, restando fermo, dice che c’è, dice che esiste con la sua dignità sia pure nell’eroina. Lo dice anzi gridando, perché la fotografia di Stockbridge è livida e spietata. Non fa sconti, non lusinga. Nulla da abbellire e nessuno da impietosire. Giovanni Ruggiero
Jeffrey Stockbridge è nato nel 1982 a Philadelphia dove vive ed opera. Si è laureato nel 2005 in fotografia alla Drexel University. Il suo progetto Kensington Blues è stato pubblicato nel 2017 ed è stato esposto al Philadelphia Museum of Art, alla National Portrait Gallery di Londra e alla Technische Sammlugen di Dreda. Nel 2019, Stockbridge è stata insignita della John Simon Guggenheim Foundation Memorial Fellowship in Photography. Stockbridge ha ricevuto in passato un Pennsylvania Council on the Arts Grant, un’Independence Foundation Fellowship Grant e una CFEVA Fellowship. I suoi lavori sono stati pubblicati dal New York Times, dal Times Magazine e dal Telegraph. A Philadelphia è anche stampatore fine-art.
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Invisible Jumpers Joseph Ford
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Invisible Jumpers Joseph Ford
L’artista visivo inglese Joseph Ford utilizza il medium fotografico per trattare dell’invisibilità. Grazie alle maglie create dall’artigiana Nina Dodd fonde i suoi soggetti con gli elementi della città. Il mascheramento messo in atto in “Invisible Jumpers” unisce la fotografia all’arte tessile, in una performance in cui, gli attori (scelti tra modelli, skater, street artists o in incontri casuali) sembrano accidentalmente prendere le sembianze del contesto urbano - dei muri, delle scale della metropolitana, del murales - o gli oggetti, la frutta e gli animali diventare altro (un cagnolino camuffato da cespuglio). Le texture create alterano la nostra percezione visiva. Finché, non ci accorgiamo dell’inganno, del “fumo soffiato negli occhi”, ricordando una delle possibili derivazioni etimologiche settecentesche della parola francese “camouflage”. Ford ripropone nel lavoro comportamenti finalizzati all’invisibilità, attinti dalla natura e permeati dall’arte, ma i “Knitted Camouflage” non seguono l’occultamento proprio delle uniformi militari. Diventano muro, piastrelle, alberi di ciliegio, piste da corsa. Il dispositivo comunicativo del camouflage è stato più volte utilizzato in fotografia. Ricordiamo gli autoritratti-indagine di Lucia Fainzilber ma soprattutto la “dissoluzione immersiva nell’ambiente” attuata dall’uomo invisibile per eccellenza, Liu Bolin. La scelta delle rosse trame mimetiche dei coprisedili di un autobus (foto del 2014 da cui prese vita il progetto) richiama le lussuose poltrone alla Scala di Milano di “Hiding in Italy (2010) dell’artista cinese. Ford usa l’artificio, però, con l’intento di sorprenderci con le illusioni ottiche, di strapparci un sorriso. Una leggerezza che connota i suoi progetti personali e le campagne di advertising realizzate, supportate da creatività e da una lunga progettualità. Ecco che la fotografia può essere finzione. Il camuffamento - come fu teorizzato nel manifesto della fotografia futurista - “è l’idea che l’oggettività di sguardo della fotografia potesse essere contrastata con un ribaltamento identitario solo dalla capacità di inganno della fotografia stessa”. Ford lo riconosce: “Mi piace creare immagini che mettono in discussione la nostra percezione iniziale”. Ma cercando una chiave di lettura più profonda alla figurazione/defigurazione ottenuta dall’artista, possiamo forse trovarla nel forte legame dei soggetti con il proprio luogo “elettivo”. Attraverso la mímesis, arrivano a farne parte, assumendone forme e colori. L’allevatore ritratto ama così tanto le sue vacche da indossare una camicia maculata. Rispetto a Liu Bolin, Ford lascia riconoscibili i soggetti, permettendo lo svelamento. Anche nel lavoro precedente, “Sidebyside” (2011-2013) opera una fusion, in questo caso di mondi apparentemente distanti. Ricerca un unicum indistinguibile pattern geometrico tra gli elementi fotografati che vanno a comporre i dittici, e lo fa ricorrendo all’ibridazione di forme e attraverso punti di vista inaspettati. Le linee e i colori dei paesaggi aerei, da una parte, si ritrovano armoniosamente nei close up di capi di abbigliamento alla moda dall’altra, creando un “Aerial Fashion”. La visione si fa più attenta a cogliere i particolari: la linea ferroviaria continua in una cerniera, le dune del deserto si perdono nelle pieghe di una maglia. Il travestimento, però, può essere usato non solo per celare. In “Paperboy” (apparso su Schon Magazine) Ford ne ribalta la finalità. Il ragazzo di carta, uno speciale antieroe, incarna la difficoltà di accettazione del diverso. L’invisibile, grazie alla fotografia, diventa visibile. Perché, come affermava negli anni ‘50 lo zoologo Portman “il camuffamento è sempre da indagare secondo immagini.” E Ford, nella sua produzione artistica, lo fa in modo insolito e gioioso. Debora Valentini
Joseph Ford ha iniziato la sua vita adulta in modo abbastanza “razionale”. studiando francese e italiano all’Università di Cambridge e all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, poi ha inorridito i suoi genitori trasferendosi a Parigi per fare il fotografo. Il suo lavoro personale gli è valso numerosi premi e lo ha ispirato a realizzare film e campagne per LVMH, Missoni, Lacoste e molti altri. È regolarmente presente su Colossal, Fubiz, PDN, Design Boom e altri blog di arte/design. Il suo lavoro si concentra sulle illusioni ottiche. Sue opere sono conservate in varie collezioni private e nella collezione permanente del Museo d’Arte e Design di Amburgo e del Musée d’Art Urbain & Street Art in Francia, ed è stato esposto nell’ambito di numerosi festival, tra cui i Rencontres de la Photographie d’Arles, Zürich Aufsehen festival e Andorra Land Art Biennale. Joseph vive nel Regno Unito. www.josephford.net
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Documentary Streets Liu Tao
Quando la street diventa documento La fotografia degli autori cinesi sta conquistando consensi internazionali sempre più ampi grazie agli irreversibili e profondi cambiamenti economici, sociali e culturali che hanno portato il Paese da una chiusura politica pressoché totale ad una interattività con il resto del mondo impensabile solo fino a pochi decenni fa. Se una volta caduto il governo comunista di Mao Tse Tung durato sino al 1976, il linguaggio documentario e quello concettuale sono stati ampiamente utilizzati per dare voce al profondo disagio in cui la popolazione era sprofondata durante gli anni del regime e della sua Rivoluzione Culturale, non è stato così per altri linguaggi ritenuti meno immediati e consoni ad esprimere il dissenso di una nazione sofferente. Lontana ormai anni luce dalle pur straordinarie immagini del secolo scorso di Fan Ho, universalmente ritenuto un maestro della fotografia di strada, solo da pochi anni in Cina viene praticata ed apprezzata una street photography rispondente ad una visione più contemporanea. Proprio l’improvviso mutamento dei tempi, ha spinto una nuova generazione di streephers a rivendicare con forza una propria specifica identità, riscattandosi dagli anni bui del passato. Ed è proprio la complessa ed irreversibile metamorfosi delle odierne condizioni di vita ad essere fonte di ispirazione per Liu Tao, di professione “lettore di contatori di acqua” ad Hefei, capoluogo della provincia dell’Anhui, ma irriducibile street photographer nel tempio libero. La sua è una fotografia alla ricerca della gente, che mostra spaccati di un tessuto sociale per certi aspetti sempre più globalizzato, catturando personaggi e momenti improbabili, spesso al limite del caricaturale. Tutto assume un senso agli occhi dell’autore, tutto diventa interessante, si lascia irretire dalla vivacità della strada, dall’umanità che la popola, con i suoi eccessi ed i suoi desideri, pronto a coglierla. La sua passione è accomunabile alla voglia di vita che obbliga ad affrontare e valicare la barriera tra il sé e gli altri, tra il privato ed il pubblico, ma con quel sottile cinismo nel riprendere le scene che si rivelano solo ad un occhio attento e per certi versi, appunto, spietato. Un tipo di scatti che, anno dopo anno, costituiranno un lento “time lapse” dei cambiamenti del territorio e dei costumi: la fotografia di strada assurge, in questo caso, a valore documentale di innegabile importanza, incrementando il patrimonio della memoria collettiva di un luogo e dei suoi abitanti. Censurando il libero uso di internet e dei maggiori social, imponendo, per contro, piattaforme di ricerca e condivisione a carattere nazionale, la Cina ha determinato, di fatto, una pesante limitazione alla libera circolazione delle informazioni. Se è pur vero che l’autore ripercorre stilemi noti della street photography, occorre tenere conto che il “già visto”, in Cina, è comunque un qualcosa di relativamente nuovo da indagare e da vedere per la platea del pubblico interno. Liu Tao deve proprio la sua improvvisa popolarità all’aver postato alcuni suoi scatti sul social Sina Weibo, subito condivisi oltre 50.000 volte dai media cinesi e finanche all’estero. Da quel momento, alcuni suoi lavori sono stati pubblicati su siti quali Time, BBC China, CCTV ed esposti in mostre in ambito internazionale. Susanna Bertoni
Mi chiamo Liu Tao. Vengo da Hefei, Cina. Realizzo street photography qui da 10 anni. Sono ossessionato dal girare per le strade con la mia macchina fotografica dal giorno alla notte. Cerco alla fine ogni indizio della vita, come lo spaventapasseri nel campo, e sono alla ricerca di indizi nella realtà del cambiamento ripetitivo del ciclo della vita. Raramente comunico con i soggetti fotografati, voglio guardare con i miei occhi e mantenere una distanza familiare e lontana con loro. Mi piace spaziare in una vasta gamma di fotografia di strada. Ha per me una valenza pratica ed anche un lampo di ispirazione. Con il passare del tempo la fotografia di strada mi fa sentire la mia stessa vitalità. Una volta non sapevo nulla del mondo intorno a me, era come vivere nel mio mondo per sempre. La fotografia di strada mi ha aperto una finestra e le mie immagini di fotografia di strada sono come un messaggio inviato da me e dal mondo. Ci sono molti problemi nella vita, ma quando vado in strada, dimentico tutto. Sono ansioso di trovare di più e sentire di più.
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I tedeschi dicono fernweh e noi potremmo tradurla come “nostalgia del lontano”, del mondo distante da noi. Voglia di andare, di conoscere ciò che è più diverso possibile dal nostro quotidiano. Voglia di scoperta, detta in breve. Così Maude Bardet lascia il confortevole (!) tran-tran occidentale per tuffarsi nell’affascinante caos di città come Il Cairo, come Dacca oppure nell’universo indiano dove la sua street trova un respiro a metà tra gli stilemi che (ri)conosciamo e la sorpresa di una vita che pulsa con grande energia, molto distante da certi stereotipi che ci mostrano l’esotico come un qualcosa di sempre uguale a se stesso, in scatti troppo spesso aiutati più dalla post-produzione che non dalla qualità della situazione ripresa. Bardet si ingegna a rispettare la sua sensibilità di donna occidentale e trovare, in essa, il linguaggio che sappia tradurre le differenze. L’autrice parla della difficoltà di abbandonare il punto di vista tradizionale a cui ogni fotografo è abituato (per suo stile autoriale, per necessità, per “abitudine”, ecc) e cercare non un’originalità fine a se stessa ma uno sguardo nuovo, rispettoso dei luoghi che si affrontano di volta in volta, quando si viaggia. Lasciare gli angoli del consueto, con i loro limiti e le loro ripetizioni, per affrontare spazi e situazioni differenti con esseri umani che pensano, si muovono, “sono” qualcosa d’altro. Si tratta di “interpretare”, trovare il tono giusto che ci spinga, è l’autrice stessa a suggerirlo, a non avere aspettative preordinate ma a cogliere i momenti mentre si svolgono. Banale, si dirà, eppure non è facile mantenere la mente aperta: troppe volte si va alla ricerca di qualcosa che sta solo nella nostra testa rischiando di perdere ciò che realmente accade. Sembra la poetica dell’istante decisivo e invece è la capacità di lasciarsi stupire dalle cose che ci vengono incontro, così come ci appaiono. Costruire l’inquadratura e, con essa, la storia di una foto è lo scopo ultimo, la capacità essenziale del buon fotografo di urban. Ecco allora che il lavoro su cui ci concentriamo qui, quello realizzato per l’esattezza al Cairo, respira di una originalità davvero interessante da scandagliare: senza indugiare nemmeno un attimo nel cliché turistico che al massimo fa da quinta teatrale, la fotografa francese si concentra sugli spazi urbani, sulle finestre che si aprono come trompe-l’oeil quando un cammello (oppure è un dromedario?...) fa capolino da un pertugio oppure quando un’automobile in apparente disuso insieme a bambini e palloncini forma lo scenario continuo della vita d’ogni giorno. Si vive ancora a contatto diretto, in queste società (o almeno in alcuni luoghi di esse), in una vicinanza tutta esposta all’esterno, dove le persone sono parte attiva di una condivisione fatta di sentimenti forti, di vere e proprie emozioni. Per ora, il nefasto assioma di Thatcher – “la società non esiste, esistono solo gli individui” che tanti danni ha fatto in Occidente – qui sembra non aver preso piede. Tra questi sguardi diretti sembrano danzare i sentimenti o le parole che li descrivono, il senso di “comune” che abbraccia ogni momento ed ogni evento. Questo mondo complesso, rumoroso, pieno di polvere a cui non siamo più abituati, raggiunge l’occhio di chi guarda: un’umanità ancora piena di vita ci viene incontro, ci blandisce forse o sembra persino invitarci a condividere non un destino filosofico ma le piccolo cose di cui è fatta, da sempre, l’esistenza umana. Gioia, dolore, abbandono, forza, semplicità, tutto convive in questo caleidoscopio allo stesso tempo delicato e divertente che Bardet realizza partendo come è ovvio dalla grammatica standard di questo tipo di fotografia ma andando poi a cogliere le differenze, lo straordinario, la distanza che ci lega (mi sia permesso l’ossimoro apparente) quando siamo di fronte a realtà tanto diverse da quelle che frequentiamo ogni giorno. Ecco allora che torniamo, come in ogni viaggio, al punto di partenza: fernweh dicono i tedeschi («In weiter Ferne, so nah!», così lontano così vicino, si chiamava il seguito del «Cielo sopra Berlino» che Wenders girò nel 1993) e Bardet traduce il concetto nel migliore dei modi, senza scorciatoie. Perché il viaggio vale sempre la pena, qualunque sia la distanza, e la nostalgia, da percorrere. Antonio Desideri
Maude Bardet è una fotografa francese che attualmente vive nei Paesi Bassi. Dopo aver studiato ingegneria, ha lavorato prima a Berlino e poi si è trasferita in Olanda. Ha sempre avuto la fernweh, come dicono i tedeschi, e invariabilmente interpretava i suoi lavori come semplici strumenti per finanziare i suoi viaggi. Ha scoperto la fotografia di strada nel 2017 durante un workshop con Nikos Economopoulos in Ghana e sentiva che era esattamente quello che stava cercando. Guidata dalla luce e dalle trame, cerca di ritrarre una fetta della condizione umana. Le piace usare colori forti per enfatizzare gli elementi compositivi nelle sue immagini. Ha partecipato al Miami Street Photography festival nel 2019 e 2020, al Brussels Street Photography festival nel 2019, a OpenWalls ad Arles nel 2020, alla mostra Women In Street ‘Two Way Street’ a San Francisco (2019) e ‘Double Trouble’ in Sydney (2020), e nelle mostre Women Street Photographers a New York (2018, 2019, 2020), Kuala Lumpur (2019, 2020), Bruxelles (2019), Trieste (2020), Chelyabinsk (2020) e Hyderabad (2020). E’ la vincitrice di un Remarkable Reward a Trieste 2020 e del concorso di Fotografo Indipendente “street photography” 2020. Cities 9 |
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Con immenso piacere vado a presentare in queste pagine i lavori di quattro interessantissimi autori appartenenti al panorama della Fotografia italiana contemporanea. Quattro sguardi che spiegano attraverso le immagini prodotte lo straordinario potere della Fotografia. A tal proposito ecco quindi che le fotografie di Umberto Verdoliva ci insegnano nell’affinarci nel ricercare bellezza e poesia intorno a noi, riconoscendola primariamente al nostro interno e riflettendola successivamente sulla realtà e sul Mondo nel quale viviamo. Il fotografo Gabriele Lopez, invece, tramite le sue opere ci offre una visione molto piu’ approfondita e incisiva di un territorio che viene attraversato quotidianamente da milioni di persone ma verso il quale in realtà è dedicata da loro scarsissima attenzione. Eppure anche quel Mondo parla di noi, in modo sincero, restituendoci informazioni importanti sulla nostra vita. Il terzo autore, Gabriele Croppi, col suo affascinante linguaggio ci induce a riflettere sul concetto di realtà e l’annessa possibilità di suggerire una visione alternativa all’ordinario. Sappiamo infatti che anch’esso, in fin dei conti, non è costitutivo di verità assoluta ma emerge soltanto come una conformazione di questa, generata da una rappresentazione mentale dell’uomo. Infine Lorenzo Pesce ed il suo progetto si sforzano di denunciare in modo artistico un problema sociale non affrontato e mai preso in considerazione nel discorso pubblico. Un problema di estrema e delicata importanza di cui invece bisognerebbe prendere coscienza e affrontare immediatamente. La Fotografia quindi racconta, parla di noi, delle nostre questioni, del nostro Mondo esprimendo il nostro pensiero ed il funzionamento di esso. Ogni progetto fotografico costituisce un piccolo passo per comprenderci meglio. Dalla sua nascita la Fotografia ha compiuto un entusiasmante percorso, incantando e conquistando cuori. Questo viaggio per fortuna non è ancora terminato ma anzi sempre piu’ vie si dipanano dalla strada principale pur sempre accompagnandola parallelamente, seguitando ad arricchire i pellegrini che si trovano sulla via di nuove emozioni ed esperienze. E’ fondamentale quindi continuare con impegno e passione nel fare Fotografia. Con ogni mezzo, in qualsiasi circostanza. Sempre. La Fotografia è un mezzo di espressione del pensiero umano, è un oceano dove perdersi e naufragare felici per conoscere meglio il nostro Mondo, la nostra epoca. Vanni Pandolfi
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La via della bellezza Umberto Verdoliva
Osservando le fotografie di Umberto Verdoliva appare subito evidente di trovarci al cospetto di uno sguardo sensibile e straordinario. Il nucleo, la sostanza fondamentale della ricerca portata avanti dall’autore, consiste nella volontà di rintracciare e catturare momenti di vita dotati di impareggiabile bellezza e assoluto livello poetico. Per far ciò allora è necessario osservare la realtà che ci circonda con grande attenzione ed essere dotati allo stesso tempo della capacità di riconoscere celermente la meraviglia all’interno dell’evento manifestato davanti ai nostri occhi. Lo sguardo di Umberto riesce sicuro nel rintracciare così quelle particolari connessioni e significati universali sovrastanti l’evento particolare. Ci troviamo quindi a fare i conti con una Fotografia costellata di elementi metaforici e simbolici ricorrenti, simile un testo poetico, nella quale è facile ritrovare una sete di bellezza che nobilita tutto e trascenda l’ordinario. La lezione che scaturisce così dalle Fotografie di Umberto è assolutamente importante. Osservando ed indagando il tutto attraverso una certa predisposizione mentale ed interiore, sembrerebbe esistere la possibilità di scoprire nella realtà elementi in connessioni “nuove”, magiche e seducenti, capaci di disvelarsi in tutta la loro poesia. Questa la cifra che caratterizza lo sguardo dell’autore. Abile nel penetrare in profondità, dentro quel materiale di base chiamato realtà, grazie al proprio delicato sentire, lo riscopre e lo organizza in nuove forme. La Fotografia di Umberto non si accontenta del banale, del manifesto, dell’ordinario ma procede invece sicura nell’elaborazione di un qualcosa dotato di maggior incanto, emozione e sublimità. Per accorgersi della meraviglia e della bellezza che ci circonda bisogna necessariamente possederla all’interno. Umberto Verdoliva è così una persona innamorata della vita che vuole sottolinearne il piu’ possibile il prodigio, utilizzando la Fotografia come strumento decisivo. Tutto nasce da una predisposizione d’animo specifica, con l’obbiettivo di rintracciare nel Mondo esterno un’armonia e una grazia presenti prima di tutto nel proprio cuore. Siamo di fronte ad una coscienza del bello che si specchia, si riconosce poi al di fuori e che si avvale infine della Fotografia come mezzo per raccontarsi forse nel modo piu’ chiaro e lucido possibile. Come un poema, le Fotografie divengono pagine che via via sempre piu’ con forza ed evidenza dichiarano quelle intenzioni dell’autore descritte sopra, esprimendo quella volontà che lo spinge nella sua ricerca disvelatrice. “…Perché viene spontaneo raccogliere sulla spiaggia del mare le conchiglie e i sassolini più belli? È lo stesso processo mentale che metto in atto con la fotografia; raccogliere semplici attimi dal quotidiano per conservarli nel tempo con la speranza che qualcun altro veda con i tuoi occhi. Una lunga passeggiata incantato da volti, gesti, forme, luci che attraverso una fotocamera, mi piace trasformare in armonia, fascino, poesia. La via della bellezza è una questione di sguardi, è il potere degli occhi che tentano di vedere fuori il riflesso di ciò che è dentro per spiegarlo a sé stessi, forse la bellezza come celebrazione della vita dove un pensiero unico e costante sottrae attimi al divenire rendendoli inattaccabili e resistenti al tempo stesso che li ha generati.” Vanni Pandolfi
Sono nato nel 1961 a Castellammare di Stabia in provincia di Napoli. Vivo a Treviso. Ho amato immediatamente la fotografia di strada, questa consapevolezza nel tempo mi ha spinto ad indagare con profondità il mio “quotidiano”, fino alla ricerca costante della poesia e della bellezza come qualità essenziali da evidenziare dell’uomo. Nel 2013 ho fondato “Spontanea” un collettivo italiano dedicato alla street photography. La fotografia è uno strumento parallelo alla mia vita professionale e personale che utilizzo per entrare in un mondo tutto mio in cui raccontare, incontrare, sognare, ricaricarmi, stare bene con me stesso e con gli altri. Cerco di narrare attraverso le immagini, tutto ciò che vivo giorno dopo giorno, dalle strade sotto casa, all’ambiente di lavoro, dalla famiglia ai luoghi in cui vivo, indagando con attenzione e profonda sensibilità, il mio vissuto per lasciare tracce e memoria di me, ma anche di altri. In questi anni ho realizzato numerosi progetti fotografici che, sebbene siano ben distinti, rappresentano il mio progetto unico, la mia storia di uomo, la memoria e il mio pensiero sulla vita. Mi piace, oltre a fotografare, trasmettere la mia passione curando laboratori, mostre, letture di portfolio, presentazioni, scrivere articoli ed approfondimenti sulla fotografia.
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Subway Zen Gabriele Lopez
Gabriel Lopez ci trascina giu’, dove la luce del Sole non esiste, dove la notte regna perenne. Guardandosi attorno, ci rendiamo conto così di trovarsi in un “non luogo” immerso in un tempo sospeso; uno spazio artificiale, illuminato dai soli neon elettrizzati, dove la luce del sole è bandita, sbarrata fuori, lassu’, nel “Mondo di Sopra”. Siamo scesi così sottoterra, perforata e bucata da tunnel lugubri che consentono di spostarsi piu’ velocemente rispetto alla superficie, realizzati con l’unico scopo di evitare lo “spreco” di quel tempo prezioso dedicato prevalentemente alla produttività, allo svago e al divertimento, lassu’, nel Mondo Di sopra. Frotte di esseri umani si ritrovano così accalcati tra loro, in uno spazio angusto, buio, pregno di odori pungenti. Lo sguardo di Gabriele Lopez ha scrutato e indagato per molti anni questa particolare dimensione. Il meraviglioso bianco e nero dalle tinte foschi e tenebrose descrive in immagini un luogo essenzialmente di passaggio, una specie di wormhole sotterraneo. L’ambiente e l’essere umano, protagonisti, vengono scandagliati con grande attenzione e cura, catturando quegli atteggiamenti rituali caratteristici. La discesa in profondità, simile ad una processione sacra, le lunghe file indiane di persone in prossimità dei binari, l’attesa dell’arrivo a destinazione, scandita da gesti e attività che sembrano adottati molto piu’ per “proteggersi” dagli altri piuttosto che per ingannare il tempo. Un viaggio interessantissimo, compiuto attraversando un ambiente affascinante e misterioso, nel quale l’uomo pare smarrito, indifeso , fuori luogo e fuori dal luogo; dove tutto viene amplificato e drammatizzato dal linguaggio fotografico di Gabriele, molto vicino allo stile dei grandi maestri giapponesi della seconda metà del ‘900. Un linguaggio fotografico caratterizzato in larga parte dall’uso sapiente e funzionale della tecnica del mosso in relazione al tema della fragilità e insicurezza umana che procede di pari passo con l’accentuarsi dell’attenzione su alcuni dettagli significativi della condizione del viaggiatore/pendolare. Molto ben riusciti inoltre i ritratti di volti, dominati da espressioni stanche e stressate , avvolti da un nero profondo che toglie il fiato; un nero che è oscurità del sottosuolo nel quale è notte eterna. Quello della metro è un territorio assolutamente particolare, dinamico, iper affolato, nel quale le persone si muovono velocemente e dal quale sembrano voler scappare con grande desiderio ed immediatezza. Questa energica sfuggevolezza viene quindi colta e messa in risalto attraverso il “mosso” che scontorna le figure fino quasi a farle dileguare, trasformandole in fantasmi, in entità erranti che vagano in gruppo nell’oscurità ma consapevoli in verità della loro profonda solitudine. Sembra risaltare allora, in modo del tutto evidente e tragico, un senso di solitudine e di incomunicabilità tra viaggiatori e persone che lascia l’osservatore a specchiarsi nei propri fantasmi. “Subway zen” è un lavoro molto curato, intenso, realizzato con attenzione e pazienza che sembra venire ad assumere le sembianze di una vera e propria discesa nel profondo, spiazzante e senza punti di riferimenti certi. Una catarsi urbana contemporanea. Vanni Pandolfi
Gabriele Lopez, classe 1974. Ho incominciato a prendere le prime fotografie da bambino, come spesso accade con una Polaroid ricevuta in regalo per un occasione che non ricordo. Con quella semplice macchina ho iniziato a registrare quello che mi accadeva attorno. Costretto dai costi delle pellicole mi sono rivolto ad una semplice fotocamera 35mm compatta automatica, che ho ancora e con cui ho documentato molte cose. Oggi non molte cose sono mutate sotto questo aspetto, e continuo a documentare e a comprendere in parte la mia vita e ciò che mi circonda. La fotografia che amo è un diario quotidiano, immagini come frammenti, che una volta messe assieme formano e mi aiutano a comprendere il senso delle esperienze, è un modo di esprimermi, capire e vivere la vita stessa, fissando quello che voglio poter rivivere. É principalmente una memoria. La stampa è di importanza massima in questo processo e mettere queste memorie sotto forma di libri, progetti auto-prodotti a volte anche in modo totalmente artigianale è la più normale e naturale conclusione per questo percorso fotografico. Assieme con alcuni cari amici seguiamo un progetto con un’associazione (Associazione DIY) che si occupa proprio di questo. www.gabrielelopez.me
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Metaphlsics of the Urban Landscape Gabriele Croppi
è appurato ormai che Fotografia ha la facoltà di reinterpretare la realtà, il Mondo sperimentato e nel quale siamo immersi. Una singola Fotografia infatti reca in sé la possibilità di mostrarci qualcosa di assolutamente nuovo e mai osservato prima, facendoci vivere un’esperienza unica di scoperta. Se il Mondo è soltanto una nostra rappresentazione, quello mostrato da Gabriele Croppi, nel suo lavoro “In Italia”, sgorga e prende forma da una volontà esigente di ricerca incessante. Le città metafisiche che si generano e sviluppano poderose si presentano quindi come possibilità di “visione nuova”, generata da uno sguardo che procede in una trasformazione e comprensione ristrutturata del concetto di realtà. Passeggiando così tra gli scenari urbani “edificati” dal fotografo, ci avventuriamo in una dimensione nella quale la luce pare costituire il principale punto di riferimento. Una luce forte, netta che impedisce così di perdersi in quel nero assoluto generato dalle ombre e capace di inghiottire tutto. Procedendo nel tour, restiamo totalmente rapiti nell’osservare le architetture urbane disegnare forme irrazionali e scenari ambigui tutti da decifrare. La Città sembra indossare così un nuovo abito. Ne viene riorganizzato lo spazio in un modo del tutto insolito e a noi sconosciuto mentre quel nero impenetrabile impedisce di prendere atto di cosa si celi e racchiuda in sé. Tutti quegli elementi cittadini di familiare esperienza vi si perdono e scompaiono dentro, fagocitati ed annullati. Le flebili presenze umane danno l’impressione di voler restare ancorate nelle zone di luce come se avessero un certo timore di addentrarsi nelle tenebre per venir poi così annullate. Siamo di fronte ad un nuovo Mondo, completamente da esplorare, che esige un rinnovato sguardo, soprattutto mentale. Come un elegante proscenio di sublime bellezza, il patrimonio italiano artistico/architettonico svetta maestoso, finendo per mettere in risalto la piccolezza della figura umana e di conseguenza un evidente e tragico squilibrio. Così l’attore, il protagonista Uomo, forse animato dal desiderio di resistere immortale, nella Storia, e allo scorrere del tempo, si fa statua fondendosi con i palazzi, le piazze ed i monumenti antichi. Se la conformazione del Paesaggio, nella Fotografia di Gabriele Croppi, seppur nella sua estetica poetica formale appare caratterizzato nei volumi da pesantezza e rigidità evidenti, dall’altro concede un’agile libertà di interpretazione e immaginazione che porta a distaccarsi da punti di riferimento e significati conosciuti, per procedere infine nella ricerca e nell’attribuzione di nuovi. E forse, proprio in questo conflitto, contrasto, risiede tutto il magnetismo ed il fascino di queste fotografie. Così la luce, la materia, le forme delle architetture urbane diventano segni che elaborati dall’intelletto trascendono il rappresentato, costituendosi idea e puro pensiero. Passeggiando all’interno di queste Città fantastiche, ritrovandosi in una piazza italiana, quando il sole disegna lunghe ombre, al cospetto di una imponente costruzione del passato e notando in lontananza silhoutte di statue classiche che ci osservano solenni, può rivelarsi estremamente naturale l’essere colpiti da un senso di vertigine molto intenso. E forse per un attimo, vivendo questa straniante situazione, la mente potrebbe perfino arrivare a comprendere, in un frangente di lucidità illuminante, quel “molto di piu’”, a noi ancora sconosciuto ma presente che si cela sotto la realtà ordinaria. Vanni Pandolfi
Gabriele Croppi (1974) si diploma in Fotografia presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano e si laurea in lettere moderne con una tesi dal titolo “Fernando Pessoa, eroe tragico dei due mondi”. La sua ricerca è incentrata sul rapporto tra fotografia ed altre arti, come la pittura, la letteratura, il cinema e l’architettura. La sua serie Metafisica del Paesaggio Urbano ha ricevuto numerosi premi e menzioni. Nel 2015, in seguito alla pubblicazione del suo libro “New York, Metaphysics of the Urban Landcsape” (Ed. SIME Books), la rivista Black & White American Magazine gli dedica un lungo articolo (“Gabriele Croppi and the Modern Metaphysical Landscape”) a cui seguiranno altre interviste e pubblicazioni (The Guardian, Forbes, Photographie Magazine, Surface China Magazine, Azart France, Blow magazine, ecc.) che contribuiranno alla diffusione della sua ricerca oltre i confini nazionali. Parallelamente alla fotografia, coltiva la passione per i grandi viaggi, in particolare per l’Amazzonia, in cui compie 3 diverse spedizioni, l’ultima delle quali lo porterà a risalire l’intero corso del Rio delle Amazzoni, in collaborazione con la casa editrice Editrice Bonelli, rievocando lo storico personaggio di fumetti Mister No. “In Italia” è il titolo della sua ultima mostra, estensione della sua decennale ricerca sul paesaggio urbano, tutt’ora in progress. Recentemente è diventato professore di Fotografia per i Beni Culturali presso L’accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. www.croppishop.com Cities 9 |
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Lorenzo Pesce Venir isolati, essere rinchiusi senza un contatto reale con i propri simili. Cambiare le proprie abitudini in un attimo. I giovani, gli adolescenti, non hanno avuto una vita serena durante quest’ultimo periodo caratterizzato dal virus e dai relativi periodi di lockdown. Hanno subito perdite importanti. Il termine perdita si riferisce in questo caso ad una privazione di un qualcosa che prima dell’emergenza sanitaria costituiva la normalità. Per un adolescente, questo, ha riguardato soprattutto l’impossibilità di realizzare nuove esperienze e “scoperte” di vita. Sappiamo infatti intensissima in quello specifico periodo dell’età, la volontà di desiderare, agire, vivere ed iniziare un percorso individuale verso la maturità. Vengono compiuti i primi passi tremolanti verso l’indipendenza e gli hobby, le passioni, sono in questa fase di vita assolutamente fondamentali perché facilitano l’ingresso da parte dell’individuo in società e la “messa in scena” di una socializzazione piu’ matura. Gli adolescenti di oggi però sono diversi. Hanno visti tutti i loro programmi sociali andare in fumo, tutti i loro sogni svanire. Il lavoro di Lorenzo Pesce è rivolto nell’osservare quella capacità di adattamento che i giovani hanno dovuto applicare inesorabilmente alle proprie esistenze colpite dalle misure restrittive dei lockdown. Ritratti all’interno di una location, simile ad una cella di una prigione, ecco che li vediamo dedicarsi alle proprie passioni divenute quasi impossibili adesso da sviluppare e portare avanti all’interno dello spazio sociale. Dentro un tunnel in pietra, spazio angusto, non consono, che limitata e soffoca quella strabordante energia vitale propria di un adolescente, osserviamo dei giovani dediti nel simulare, con i pochi oggetti a disposizione, quelle attività negate e perdute appartenenti alle loro vite fino a poco tempo fa. Negli scatti di Lorenzo Pesce si materializzano così quei sogni e desideri di un’intera generazione trovatasi a subire un evento epocale che segnerà implacabilmente per sempre le loro esistenze. Molto piu’ che ricostruzioni di uno spazio reale, le fotografie del progetto sembrano divenire ricostruzioni di veri e propri spazi mentali nel quale l’io individuale, di ogni ragazzo, cerca di sopravvivere alla funesta realtà, seguitando a portare avanti quelle attività svolte prima dell’avvento del virus. Un modo quindi per restare attaccati a quella normalità ormai svanita e che ognuno desidera ardentemente tornasse. Un lavoro assolutamente prezioso e importante, dotato di una vibrante empatia verso i giovani protagonisti e che si fa testimonianza artistica di un momento storico assolutamente incredibile. Si mettono in risalto tutte le fragilità e frustrazioni di coloro che saranno i cittadini di domani; uomini e donne che porteranno inesorabilmente al loro interno i segni e le cicatrici di questa terribile situazione. Ma l’isolamento, la reclusione, vengono anche combattute ed esorcizzate, vivendo lo stesso con passione, continuando a impegnarsi in quello che dava gioia, spensieratezza e piacere. E se poi è davvero impossibile proseguire nelle occupazioni di prima allora ci si dedica ad altro, a qualcosa di nuovo, cercando sempre di colmare quell’enorme vuoto causato dalla mancanza di socialità e contatto umano. Un vuoto smisurato da riempire entro un minuscolo spazio, una cella che opprime. Resistere e continuare ad avere speranza. Vivere con gioia anche i momenti difficili. Essere pronti per quando tutto passerà. Lorenzo sembra partecipare molto intensamente ed essere vicino al malessere dei giovani, denunciando una situazione a cui purtroppo viene dedicata scarsa attenzione ed importanza da parte dell’opinione pubblica ma che senza dubbio è assolutamente necessario affrontare. Se vogliamo che il futuro di quei ragazzi, compreso il nostro, sia sereno e sgombro da nubi minacciose non possiamo fare finta di niente, non possiamo gettare la polvere sotto il tappeto, ignorare l’elefante dentro la stanza. E’ vitale coinvolgere quei ragazzi, comunicare con loro e soprattutto ascoltarli. E la Fotografia di Lorenzo può insegnarci davvero come farlo. Vanni Pandolfi
Lorenzo Pesce cresce fotograficamente tra Londra, Los Angeles e New York, laureandosi in fotografia all’Art center College of Design di Pasadena. Vincitore di numerosi premi, il suo lavoro è stato pubblicato ed esposto in tutto il mondo, ed ha firmato campagne pubblicitarie per clienti di alto profilo sia in Italia che all’estero. Insegna ritratto allo IED alla RUFA e in altri istituti. Trovate questo e altri lavori sul suo sito www.lorenzopesce.com
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Io, Vagabondo… “Prova a meditare sul sentiero, devi solo camminare fissando la strada sotto i piedi senza guardarti intorno e così cadi in trance mentre la terra scorre sotto di te.“ Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma Le interviste inserite in questo numero nella sezione Focus Autori raccontano di due “Vagabondi del Dharma” con l’obiettivo sempre al collo. Kerouac contemporanei che con l’anima aperta cercano di fissare storie nella loro e nella nostra memoria attraverso scatti che sono, a modo loro, un tentativo di dire all’Universo: “Hey grazie di esistere insieme a noi!” Il grazie del primo dei due protagonisti di questo 9 numero, Fabio Moscatelli, è un grazie “marginale” nel senso che cerca gli interstizi, esplora i confini del Dharma e ci racconta con profonda empatia i suoi divergenti abitanti! Il grazie del secondo dei due protagonisti, Tadashi Onishi, è un grazie “centrato” nel senso che esplora il nucleo fondante la sua personale esperienza di vita. Cattura i particolari del suo viaggio quotidiano in un ambiente consueto e mai uguale però a se stesso come la sua Tokio. Venite dunque a vagabondare con noi alla ricerca del vostro personale Dharma! Sonia Pampuri
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Un testimone del suo tempo. Un testimone in cammino nel suo tempo e tra gli uomini del suo tempo. Questo è a mio avviso in modo straordinariamente efficace Fabio Moscatelli. Un testimone dell’oggi. Il suo è uno sguardo limpido quanto può esserlo quello di chi non vede attraverso una lente o un obiettivo ma col cuore e l’anima. Uno sguardo però inesorabile nella sua empatia. Uno sguardo che ci restituisce la magia del reale nelle sue pieghe più nascoste. La fotografia di Moscatelli è una fotografia in limine. Esplora i margini e si imbeve della marginalità che racconta fino a diventare quasi parte della stessa: margine del margine. Non è un caso se uno dei lavori a mio avviso più interessanti di Moscatelli è proprio su uno di questi margini, di questi confini : la cecità! In Blin Dream Chapter One/Two e Three, il fotografo concentra la sua attenzione sui sogni arcobaleno degli anziani privi di vista dell’Istituto Sant’Alessio di Roma. Cammina nelle memorie con il suo obiettivo al collo.
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Il lavoro più noto di Moscatelli, invece, parte da una domanda sulla natura di un confine, l’autismo, che è un confine che rima con l’incomunicabilità, la chiusura, il silenzio la differenza e invece Giole ( il bambino neurodivergente protagonista di questo vibrante lavoro) va incontro con gioiosa spontaneità a quell’uomo con un obiettivo al collo e le scarpe impolverate e quello che nasce non è una storia d’immagini ma la testimonianza della magia di un incontro. La cifra dunque caratteristica del lavoro di Moscatelli è la ricerca della magia nascosta nei confini: la magia che scaturisce dal limite come in Qui vive Jeeg, il lavoro che restituisce ai nostri occhi la magnifica resilienza di una periferia degradata come TorbellaMonaca, la sua ineusaribile vitalità! L’invito è quello di seguire i passi di questo cantastorie per immagini e di esplorare con lui i confini del nostro esistere. Ora…Buon viaggio !
Fabio Moscatelli
ovvero un fotografo in cammino
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Fabio Moscatelli
ovvero un fotografo in cammino di Sonia Pampuri
La Terra è arte, il fotografo è solo un testimone. Yann Arthus-Bertrand
Su quali riferimenti culturali, biografici o esperienziali si basano le radici del suo modus di fare fotografia? I miei primi riferimenti sono stati i docenti fotografi che ho avuto la fortuna di incontrare durante il mio percorso di formazione; poi chiaramente ho autori di riferimento che ispirano la mia fotografia; e sottolineo ispirano perchè non amo copiare, col tempo ed ancora oggi, cerco di maturare e costruire un mio linguaggio. Amo guardare e riguardare libri fotografici, cogliere ogni sfumatura che si arricchisce ad ogni nuovo sfoglio; non voglio citare uno o più nomi in particolare, ma approfondisco molto il sottobosco fotografico in cui germogliano autori ancor prima che fotografi, senza nulla togliere ai grandi Maestri. Le mie influenze non sono solo fotografiche, ma anche e soprattutto provenienti dalla letteratura e naturalmente dal cinema. Il particolare periodo storico che stiamo attraversando e l’esperienza della pandemia in che misura hanno influenzato la sua fotografia? Sinceramente molto poco; paradossalmente è stato un periodo molto produttivo a dispetto di quella che era la mia aspettativa, e forse non solo la mia. Per un po’ sono tornato ad un taglio reportagistico che oggi poco mi appartiene, tanto che il lavoro più intenso realizzato durante la pandemia è The Long Road, una fiaba noir in immagini per spiegare a mia figlia cosa sia il Covid.Per il resto ho continuato a lavorare sui miei progetti a lungo termine inserendo immagini che raccontano questo particolare periodo storico.C’è stata una sovrabbondanza di foto, anche se questa è ormai la normalità; ho visto tanti, forse troppi lavori sulla pandemia, ma pochi saranno quelli che effettivamente ricorderò tra qualche anno. Quali ritiene saranno l’evoluzione e il ruolo della fotografia nell’attuale contesto comunicativo molto affollato e variegato? Come dicevo poco fa l’iperproduzione delle immagini si è accentuato in questo spero irripetibile periodo storico, ma la nostra quotidianità già da prima era scandita da milioni di immagini che confluiscono nelle varie piattaforme social e non solo.
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Tutto questo a discapito della qualità; come possiamo riconoscerla in questa marea che ci sommerge ogni giorno? Ho da poco riletto l’interessantissimo testo di Joan Fontcuberta ‘La Furia delle immagini’ che spiega benissimo questo fenomeno che l’autore definisce postfotografia. E’ lecito allora chiedersi davvero quale sia il ruolo della fotografia nel momento che oggi è accessibile a tutti, perchè tutti siamo potenzialmente fotografi nel momento in cui possediamo uno smartphone. Tutti possiamo diventare testimoni del nostro tempo, a scapito della figura del fotografo, almeno per come lo intendevamo fino a qualche anno fa. La fotografia resterà sempre, assumerà nuovi linguaggi, si evolverà, come ha sempre fatto, ma il suo ruolo sarà molto diverso e difficile da interpretare da qui a qualche anno. Credo sia davvero impossibile poter fare una previsione. La fotografia per lei è un dato culturale? Un linguaggio? Una visione artistica? Un’espressione creativa? La fotografia per me è un’esigenza vitale. La vivo in maniera totale, viscerale; è certamente un linguaggio, il mio modo di raccontare, la mia interpretazione del quotidiano.
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Sono grato alla fotografia perchè mi ha salvato in un momento molto delicato della mia esistenza, è stata un’ancora di salvezza senza la quale forse oggi sarei un individuo diverso. Io provo a raccontare con la fotografia, non sta certo a me dire se vi riesca o meno, ma non potrei mai smettere di farlo. Come sarà la sua fotografia tra 5 anni? In quale direzione crede sia necessario per lei evolvere a livello di stile e di contenuto? Interessante domanda, chi può dirlo? A me piace sperimentare, provare nuovi forme narrative, ma fondamentalmente non mi snaturo, non corro appresso a linguaggi che fanno tendenza. Per me è importante il significato di quello che fotografo e non fotografare per poi trovare a tutti i costi un senso; questa è la mia fotografia. Sono ‘miope’ , mi piace guardarmi intorno e mai lontano, amo quella fotografia che definisco a kilometri 0; racconto storie a cui posso arrivare semplicemente camminando. E credo che almeno questo aspetto tra 5 anni sarà immutato.
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Sono nato a Roma dove vivo e lavoro. Diplomato presso la Scuola Romana di Fotografia e Cinema, negli anni mi sono specializzato nel reportage sociale e nel racconto di storie personali, spesso confinate ai margini della nostra società. Tra le mie pubblicazioni “Gioele, Quaderno del tempo libero” in collaborazione con Gioele, ragazzo autistico con cui ho intrapreso un percorso che dura da ormai 6 anni; “The Last Exit”, pubblicazione indipendente dedicata alla memoria di mio padre. “Nostos”, pubblicato nel 2020 come self publishing, è un viaggio nella mia infanzia attraverso la rivisitazione dei luoghi del Centro Italia colpiti dal sisma di tre anni fa.
La fotografia di Tadashi Onishi ha una cifra stilistica così contemporanea che se non fosse facile nei suoi scatti riconoscere vari scorci di Tokio sarebbe semplicissimo collocarli in una autunnale Parigi o in una Frenetica Londra di inizio Estate. E questo genera stupore come molte altre caratteristiche della fotografia di Onishi. Il senso del tempo nello scatto ad esempio. Lo sguardo di questo straordinario osservatore del contemporaneo sembra
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infatti in grado di cogliere in modo del tutto neutro nello stesso istante il movimento che anima la vita e il suo essere eternamente uguale a se stessa istante dopo istante. La fotografia di Onishi è mutevole eternità! I luoghi quotidiani sono sempre gli stessi: il suo quartiere alla periferia di Tokio nei lavori fatti durante la pandemia e il viaggio in treno verso la stazione di Shinjuku nel centro della
Tadashi Onishi
Il Giapponese Europeo
metropoli nipponica. Eppure… in ogni scatto lo sguardo del fotografo muta e il senso di ciò, che il drammatico bianco e nero caratteristico di Onishi comunica a noi spettatori, diventa altro. Le immagini della serie Covid Story rappresentano in questo senso una svolta, lo sguardo di Onishi si fa per una volta meno neutro e sembra voler scegliere un punto di vista intimo. La Tokio provata dalla pandemia ci viene mostrata attraverso il
diaframma di un’intima empatia che rende ancora più carichi di pathos molti degli scatti che ci troviamo a guardare! Lo stile di questo artista dello sguardo sembra volerci dire, coi suo bianchi e neri assoluti , con le sue prospettive deformate, con il sapiente uso del mosso, che la vita nella sua intima essenza è dramma e accettare questo fatto è l’unica scelta che abbiamo per trovare la pace. Molto Giapponese almeno questo!
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Tadashi Onishi
Il Giapponese Europeo di Sonia Pampuri
Se una foto è buona racconta molte storie diverse. Josef Koudelka
Su quali riferimenti culturali, biografici o esperienziali poggiano le radici del tuo modo di fotografare? Immagino che tutta la mia vita, sono nata/cresciuta a Tokyo e vivendo in una vita da salariato con mia moglie e i miei figli, siano i riferimenti per la mia fotografia. Per quanto riguarda il lato visivo/editoriale, Shoji Ueda e Josef Koudelka fanno parte delle mie radici fotografiche. Come e quanto il particolare periodo storico che stiamo attraversando e l’esperienza della pandemia hanno influenzato la tua fotografia? La maggior parte delle mie fotografie sono state scattate durante i miei spostamenti. Dall’anno scorso per lo più lavoro a casa. Quindi i miei soggetti sono leggermente cambiati. Recentemente ho fotografato il mio quartiere con attenzione. Ovviamente a volte fotografo il mio tragitto giornaliero come ho fatto prima. È molto interessante per me perché la nostra vita è cambiata. Quale pensi sarà l’evoluzione e il ruolo della fotografia nell’attuale contesto comunicativo molto affollato e variegato? Per registrare, il video è più adatto oggi. SNS è stato ottimizzato per questo. Tuttavia, come strumento espressivo, la fotografia è ancora molto potente. Perché è molto utile per mettere a fuoco i contenuti di ogni forma di comunicazione come testi, musiche e così via. Quindi possiamo
evolvere nella modalità di utilizzo/espressione delle nostre fotografie per le prossime generazioni. La fotografia è per te un fatto culturale? Una lingua? Una visione artistica? Un’espressione creativa? Per me la fotografia è solo una fotografia. Mostra solo il fatto. La mia fotografia mostra cosa è successo intorno a me. Tuttavia i lettori possono trovare qualcosa in uno dei miei scatti che di fatto non c’è ma dal loro punto di vista è evidente. La magia della fotografia è proprio questa: possiamo proiettare i nostri pensieri su uno scatto modificandone in modo soggettivo il significato. Come sarà la tua fotografia tra 5 anni? In quale direzione pensi sia necessario per te evolvere in termini di stile e contenuti? Sono entusiasta di pensarci. Perché non lo so. So solo che si evolverà come io continuo a cambiare me stesso. La mia fotografia è parte di me e dunque cambia con me.
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Tadashi Onishi è nato a Tokio nel 1973. Fotografa la città e la vita urbana giapponese combinate con la natura sociale, per trovare un terreno comune tra la strada e la fotografia documentaria. Fotografa le strade e il paesaggio urbano affollate dalla vita sociale, cercando il terreno comune tra Street e fotografia documentale. E’ un membro di “VoidTokyo” (www.voidtokyo.media).
Un ambizioso Award sulle storie di viaggio nato tra il 2020 e il 2021 in piena pandemia Covid. Un periodo in cui la sola idea di uscire dalle nostre case, dalle nostre città e dai nostri confini sembrava a dir poco trasgressiva. La sfida del lancio dell’iniziativa proprio in quel periodo è stata vincente: abbiamo ricevuto più di 200 lavori da autori italiani, ma non solo; il livello è stato mediamente molto alto, in linea con le nostre aspettative e con quanto richiesto dal regolamento. L’idea era quella di far riaprire gli archivi al fotografo viaggiatore, e far sì che potesse rivivere il sogno e le esperienze vissute con un portfolio di 10-15 fotografie ed un testo scritto. Ci interessava ricevere lavori che trasmettessero il mood emozionale del viaggiatore e il senso stesso del viaggio effettuato, che non fossero solo tecnicamente perfetti ma che in qualche modo ci raccontassero qualcosa dell’autore e del suo vissuto. Sono arrivati lavori molto diversi tra loro, tra viaggi on the road, storie di vita quotidiana all’interno delle case o in palestre di boxe, racconti di festival e manifestazioni tradizionali… Non sono mancati lavori su popolazioni a noi remote, ma anche sul nostro Belpaese, prevalentemente a colori, ma anche in bianco e nero. Molto diverse e personali sono state anche le interpretazioni ed il linguaggio utilizzato. In particolare mi soffermo sulle quattro storie pubblicate in questo numero di Cities, che hanno la scelta del dittico come comune denominatore: Destino di Nadia Cianelli Che ne Saharà di noi di Mario Cucchi Cara di Daniela Gannangeli Like a Monet di Fabio Magara Tutti e quattro hanno saputo districarsi molto bene e in modo assolutamente originale in questo linguaggio non sempre facile da gestire. Nadia Cianelli ha avuto un’intuizione geniale. Il suo Destino crea una rete sottile ed invisibile tra perfetti sconosciuti. Protagonista una busta da consegnare a “el Capitan del barco Barracuda - Ushuaia” al capo più estremo del Mondo, fotografata nelle mani della gente incontrata per caso sulla strada, ed accostata al paesaggio che caratterizza il luogo dello scatto. Mario Cucchi intende il suo lavoro come focus sulle condizioni del popolo Saharawi che vive in un territorio conteso tra scontri ed interessi internazionali. I dittici di Mario Cucchi raccontano i forti contrasti della loro vita quotidiana con un linguaggio delicato, mai aggressivo e con una forte empatia che risulta evidente nei suoi scatti. Daniela Giannangeli, con i suoi accostamenti, crea un legame chiarissimo tra testo e fotografia. Un diario di viaggio intimo e personale nelle terre nostalgiche dell’Islanda, concepito come cartoline dei luoghi visitati, rappresentati da scatti dall’atmosfera appesa, malinconica. Si percepisce in modo molto evidente la sua ricerca di connessione con sé stessa e con il viaggio intrapreso. Fabio Magara ci porta a conoscere i territori di Bretagna e Normandia, spesso ricordati solo per le tristi vicende storiche, con un’idea decisamente originale. Nei suoi dittici il protagonista è il colore. Ci accompagna infatti nel suo viaggio gettandoci nella tavolozza dei quadri di Claude Monet, che in quei posti ci ha vissuto, seguendo fortemente il legame cromatico all’interno delle sue composizioni. Simona Ottolenghi
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ta l e s
Destino
Nadia Cianelli Ho attraversato la Patagonia in autobus, accompagnata dall’interminabile linea retta dell’orizzonte, la macchina fotografica e una busta: di quelle gialle, con stampato in alto a sinistra “Poste Italiane” e scritto a mano un improbabile indirizzo: “Por el Capitan del barco Barracuda – Ushuaia”. Una persona incontrata per caso pochi giorni prima di partire mi aveva chiesto la “cortesia”. Non era quello il motivo del mio viaggio, ma da allora recapitare quella busta è diventata la mia missione. Man mano che si scende verso sud la presenza umana si fa sempre più rarefatta. Le distanze tra le cittadine sono enormi, lungo il percorso di tanto in tanto si vede una estancia, o la carcassa di un guanaco rimasto intrappolato nel filo spinato delle recinzioni. Un gaucho a cavallo galoppa verso casa seguito dai suoi cani. Puerto Madryn, la Peninsula Valdés, Puerto Piramides, Punta Ninfas, pinguini e leoni marini. Rio Gallegos, Cabo Virgenes e quel faro che guarda verso il Cile, fino a giungere alla fine del mondo: la Terra del Fuoco. Il mio istinto di fotografa mi aveva suggerito un’intenzione: ad ogni tappa ho fermato persone e le ho fotografate chiedendo loro di posare con la busta gialla in mano. “Cosa c’è dentro?” mi chiedevano stupiti. “Non lo so, decidi tu” rispondevo, allora si facevano seri, concentrati in qualche pensiero. E io scattavo. Giorno dopo giorno quella busta diventava sempre più pesante nell’accogliere i pensieri di tutte le persone ritratte, e per me sempre più importante. Fino a pochi chilometri da Ushuaia non mi era mai venuto in mente che quel Capitano del barco Barracuda avrei potuto anche non trovarlo. Una volta arrivata in città vengo assalita da una frenetica urgenza. Consegnare quella busta ormai sgualcita per i passaggi in troppe mani ha assunto un’importanza vitale. Ho il vento in faccia e la percezione quasi fisica di essere veramente alla fine del mondo, nell’ultimo lembo di terra abitato all’estremo sud del pianeta, più avanti solo i ghiacci dell’Antartide. Al porto scopro subito che il Barracuda è ormeggiato sulla banchina, ma ormai non naviga più da tempo. “E il Capitano? Cosa ne è stato del Capitano?” chiedo all’uomo cui mi sono rivolta per avere informazioni. “Chi, Danilo?” Sono fortunata, lo conosce ed è disposto ad aiutarmi. “Danilo? Ciao” non so spiegare la sensazione che provo quando comprendo che ci sta parlando al telefono. “C’è qui una signora che viene dall’Italia, ti cerca, ti deve consegnare una busta. Prendiamo un appuntamento per il pomeriggio seguente. Temo fino all’ultimo momento che non venga, ma si presenta puntuale. Dopo un saluto imbarazzato saliamo sul relitto, impolverato e arrugginito, e finalmente gli consegno quel messaggio scritto solo per lui. Di nuovo a terra lo invito a bere qualcosa insieme, Lui resta in silenzio per un poco, poi mi si rivolge con il volto serio: “La ringrazio, ma devo proprio andare. Ho un volo per il Cile tra poco più di un’ora. Lascio per sempre questo paese”. Avevo consegnato quella busta appena un’ora prima che il destinatario scomparisse per sempre. La Patagonia è terra di magie, e con me non si è risparmiata.
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Che ne Sahara di noi Mario Cucchi
Che ne sarà del popolo Saharawi costretto ad un forzato esilio in una delle zone più inospitali del pianeta? • Un muro lungo più di 2.700 chilometri nel deserto africano. • 10 milioni di mine. • Una guerra di 15 anni che si è conclusa ma un conflitto che ancora non ha fine. • Un referendum per l’indipendenza richiesto dall’Onu che non è mai stato fatto. • E un popolo che vive da più di 45 anni nei campi profughi. E’ la storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo e ora occupata dal Marocco. Sarà la gioia di poter tornare nella loro terra che leggiamo nella speranza dei bambini, oppure continuerà la totale indifferenza della comunità internazionale che vediamo nella rassegnazione degli anziani? Il rischio è che la giustificata rabbia dei giovani porti al suicidio di una nuova guerra. Il progetto, organizzato in dittici, vuole sottolineare i contrasti, a volte magnifici, più spesso terribili, che il popolo Saharawi vive.
Mario Cucchi Nato a Milano nel 1958, ha studiato Visual design IED Milano. Dal 1982 ad oggi si occupa di pubblicità. Ha lavorato come art director e direttore creativo per numerose agenzie pubblicitarie di Milano. Attualmente al lavoro in pubblicità affianca quello come fotografo professionista. Premi • Fine Art Photography Awards, Nomination in Amateur Conceptual categor y, 2021 • Fine Art Photography Awards, Nomination in P0r trait Nominees category, 2020 • Premio MIA RAM S arteano, 2019 • Eisa Maestro, Selezione italiana, 2018 • 2nd Photo Award RDV•I, Strasburgo Francia, 2018 • Vincitore Circuito Off Photoluxfestival, Lucca, 2017 • LICC London C reative Competition, London, 2015, F inalista • Metro Photo Challenge, 2013, Primo Premio della Giuria nella categoria “ View” • IMAFestival, International Migration Art Festival, Museo della Scienza e della Tecnologia, Milan, 2012, Primo Premio • XXX Concorso Fotografico Nazionale Vittorio Bachelet, F.I.A.F., Roma, 2009, Premio Speciale TINA MODOTTI • Premio Chatwin, Un viaggio in 5 immagini, Genova, 2009, Primo Premio della sezione Fotografia www.mariocucchi.it
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Cara
Daniela Giannangeli “Cara” è il racconto di un viaggio nello spazio della selvaggia Islanda e nel tempo della memoria; il viaggio come occasione per perdersi, ritrovarsi e ridisegnare la propria identità. In questo percorso, fotografia e scrittura si contaminano per mezzo di alcune cartoline scritte a me stessa per ricordare piccoli o grandi momenti della mia vita, per percorrere idee semplici o complesse ed esplorare nuovi orizzonti.
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Like a Monet Fabio Magara
“Il colore è la mia ossessione quotidiana, gioia e tormento.” Claude Monet “Like a Monet” è un diario di viaggio realizzato lungo le strade di Bretagna e Normandia. Il percorso di questo racconto non segue dinamiche spazio/tempo ma viene tracciato dal colore, elemento chiave proprio come nella tavolozza del pittore Monet, che in questi luoghi ha vissuto e in cui ha creato alcune delle sue opere. La narrazione è realizzata attraverso dei dittici. Ogni dittico vuole essere una storia a se ma allo stesso tempo contribuire al racconto del viaggio e alla scoperta di questi territori solcati dalla storia recente come pochi in Europa ma gentili, raffinati e profondamente legati alle proprie tradizioni. La sequenza si apre e si chiude con due omaggi. Nel dittico di apertura l’omaggio è proprio al pittore impressionista e a tutto l’impressionismo in generale, una corrente pittorica che amo profondamente. Nel dittico di chiusura l’omaggio è invece a Robert Capa e alla sua celebre foto “mossa” del DDay del 6 giugno 1944. Nel mezzo si gioca con fare ironico e concettuale con molte delle cromie presenti nei quadri di Monet che ho opportunamente campionato e che diventano perciò il pretesto per la struttura di questo racconto realizzato in un periodo dove l’unico viaggio consentito è quello della fantasia. “Chi beve nero guadagna colore” Proverbio umbro Fabio Magara Fotografo professionista umbro nato nel 1981 e conosciuto per le sue foto di reportage nei matrimoni con cui ha vinto numerosi premi. Negli ultimi anni ha realizzato alcuni progetti fotografici personali come Star-Off Kosovo e Like a Monet che hanno avuto riconoscimenti e pubblicazioni.
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CI T IE S
S T OR Y
ISP – Italian Street Photography é un incubatore/gestore di progetti ed eventi di Street Photography in Italia. Era partito come una vetrina autofinanziata per autori coinvolti, ma grazie alle attività promozionali e al confronto con il pubblico (Isp Review) e tra gli autori stessi è cresciuta la consapevolezza della persistente difficoltà nel realizzare Fotografia di Strada localizzata ed attualizzata nel nostro paese, con un territorio Urbano così diverso dai tipici scenari Americani e dei paesi del nord Europa. Si era deciso quindi di puntare allo sviluppo della fotografia Street Italiana in ottica autoriale, ma ci si è resi conto che è possibile coinvolgere Autori Italiani in singoli progetti adatti alle loro specifiche capacità, e che quindi non ha molto senso mantenere chiusa la partecipazione ai progetti ISP ad un ristretto gruppo di Autori. Ecco quindi che nel 2017 Isp si evolve, aprendo di fatto la partecipazione ai progetti sviluppati ad Autori che abbiano una forte connotazione stilistica e know how per poter rappresentare punti di riferimento in operazioni b2b e b2c che riguardino la street photography. Il progetto, ideato da Angelo Cucchetto e promosso da www.photographers.it e www.urban.dotart.it, è partito a gennaio 2015, e in quell’anno stata prodotta una grande mostra collettiva di quasi un centinaio di fotografie, inaugurata in occasione del Trieste Photo Day 2015, ed un ciclo itinerante di incontri, tavole rotonde e letture portfolio – fra Trieste, Roma, Firenze, Milano e Torino – in collaborazione con prestigiosi partner del settore: Officine Fotografiche, Deaphoto, Phlibero e altri Il 2016 vede nascere il primo progetto editoriale, un libro curato da Benedetta Donato con i lavori di Street realizzati ad aprile dai 15 autori all’epoca partecipanti nelle maggiori città Italiane usando come mezzo tecnico le nuove fotocamere di Fujifilm, partner e sostenitore del progetto. Il Libro The Italians è stato presentato anche durante le tappe di Isp Review 2016 Nel 2017 viene lanciato il primo progetto editoriale Italiano sulla Street con una produzione condivisa, il Magazine CITIES. - http://www.italianstreetphotography.com/cities il 22 e 23 Aprile si è svolta la prima produzione aperta a tutti, ISP EXPERIENCE, che ha permesso a 110 fotografi seguiti e coordinati dagli undici Autori ISP la realizzazione di scatti in ottica street in sei città Italiane, Catania, Genova, Milano, Roma, Torino, Venezia. Il magazine viene presentato in anteprima al Treviso Street Festival a fine maggio, e sucessivamente in alcune tappe del Fujifilm X Vision Tour 2017. A settembre 2017 è stata realizzata la produzione del secondo numero, presentato in anteprima al Trieste Photo Days a fine ottobre, ufficialmente alla tappa Romana del Fujifilm X Vision l’11 novembre, poi a Milano da Officine Fotografiche. A Milano è stata prodotta una grande Mostra collettiva di Cities, con 85 opere presentate da 75 Fotografi scelte tra le immagini pubblicate sui primi due numeri di CITIES. Mostra allestita in uno spazio prestigioso, Spazio Tadini Casa Museo, curata da Federicapaola Capecchi ed Agata Petralia, con un affollato opening il 24 novembre ed aperta fino al 21 dicembre 2017. Ad inizio 2018 sono state attivate partnership su interessanti e specifici progetti, come Street Sans Frontiere e Firenze in Foto. nel 2018 sono stati realizzati il terzo ed il quarto numero di Cities, con un’edizione Speciale prodotta in occasione del Festival Street Photo Milano. Il 2019 segna una svolta per Cities: ai workshop di produzione vengono affiancate le prime storie Autoriali, ed il magazine si arricchisce di altri contributi: dai portfolio ai focus su Autori internazionali, come le serie: “Snow in Tokio” di Tadashi Onishi, “Americana” di Alex Coghe, “Wedding Moments” di Adam Riley. Nel 2020 siamo piombati in pandemia time: in febbraio esce CITIES 6, con le storie internazionali a cura di Attilio Lauria e redazione Fiaf e la nuova sezione dedicata alle “storie dal Belpaese”. Durante il lockdown va in produzione il terzo volume della collana autoriale, Urbanscape, dedicato alla fotografia Urbana documentale e concettuale, pronto per ottobre 2020, stesso mese in cui esce il numero di Cities, il 7, con l’ingresso di Vanni Pandolfi come curatore della sezione dedicata agli autori Italiani e la presenza di uno speciale curato da Sonia Pampuri con 4 progetti “inside”, storie al tempo del virus. Ed eccoci nel 2021, con un nuovo libro prodotto (Dreamlands), il numero 8 di Cities e il libro speciale Travel Tales Book prodotto come output dal premio lanciato a febbraio TTA - TRAVEL TALES AWARD (www.traveltalesaward.com) con 21 bellissime storie di viaggio e di viaggiatori. E siamo a CITIES 9! Con 4+4 storie d’autore, 2 interviste con portofolio, e una sezione Travel Tales con 4 belle storie premiate al TTA. Che dire…. Ci vediamo nel 2022 con il numero 10 di Cities, che ovviamente sarà molto, molto speciale Stay tuned
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