Il bosco di Santa Lucia: un regalo dei Partecipanti

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Istituto Comprensivo Sant'Agata Bolognese Scuola secondaria di primo grado G.Mazzini Presenta il progetto Il Bosco di Santa Lucia: un regalo dei partecipanti


A SEGUITO DELL’INIZIATIVA DESTINATA ALLE SCUOLE, IN PARTENARIATO CON I MUSEI E GLI ARCHIVI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA, AVENTI SEDE IN UNO DEI COMUNI COLPITI DAL SISMA NELLE DATE 20 E 29 MAGGIO 2012 NELL’AMBITO DEL CONCORSO DI IDEE “ IO AMO I BENI CULTURALI “, L’ISTITUTO COMPRENSIVO SANT'AGATA BOLOGNESE SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO G.MAZZINI

Presenta il progetto Il Bosco di Santa Lucia: un regalo dei partecipanti HANNO COLLABORATO IN ORDINE ALFABETICO: 1) CERÈ GIORDANO – FOTOGRAFO NATURALISTA DI SAVIGNANO S.P. 2) CREMONINI PATRIZIA – ARCHIVIO DI STATO DI MODENA 3) GARDOSI FABIO – FOTOGRAFO NATURALISTA DI SANT’AGATA BOLOGNESE 4) GARDOSI MARCO – NATURALISTA DI SANT’AGATA BOLOGNESE 5) PIZZI ATTILIO –PARTECIPANZA DI SANT’AGATA BOLOGNESE 6) RAVAGNANI ANDREA – ORNITOLOGO DI SANT’AGATA BOLOGNESE 7) ZAMBELLI RODOLFO – PARTECIPANZA DI SANT’AGATA BOLOGNESE 8) ZAMPIGHI CARLA – CONSOZIO BURANA DI MODENA

SI RINGRAZIANO: - IL DIRETTORE - IBACN - ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI, CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA - VALENTINA GALLONI - REFERENTE DEL PROGETTO PER L'ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI, CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA - IL COMUNE DI SANT’AGATA BOLOGNESE - LA PARTECIPANZA AGRARIA DI SANT’AGATA BOLOGNESE - CLUADIA GASPARINI PER LE FOTO DI COPERTINA


PREMESSA

Il presente opuscolo nasce senza particolari pretese, sfruttando alcune condizioni favorevoli e proponendosi un unico, piccolo obiettivo: far conoscere bene, far conoscere meglio, in alcuni casi far conoscere e basta una realtà presente sul territorio santagatese così vicina al nostro paese che… pochi sanno veramente cosa sia e cosa rappresenti. Un opuscolo che nasce da un momento d’emergenza, come prima cosa. È la realizzazione pratica di un progetto portato avanti dalla scuola media Mazzini e dalla Partecipanza Agraria, entrambe, ma questo sì forse lo sanno tutti, realtà consolidate di Sant’Agata. Un progetto che nasce da un evento triste, spaventoso, che ha sfiorato il nostro paese e colpito, ancora più duramente, alcuni comuni limitrofi. Un evento che ha lasciato segni visibili negli edifici, segni altrettanto visibili nelle coscienze e nella memoria. Un qualcosa che adesso sembra un ricordo

lontano,

un

brutto

ricordo,

ovviamente.

Ma

l’emergenza di quei giorni è svanita; fortunatamente la vita


è

tornata

alla

normalità,

più

velocemente

e

più

serenamente di quanto non potessimo tutti noi pensare in quei giorni tra maggio e giugno del 2012, quando il normale corso delle nostre vite ha subito una brusca interruzione. Chi vive la scuola, chi vive dentro e per la scuola, apprezza il fatto che le preoccupazioni quotidiane siano tornate a essere quelle di un compito da preparare, una nota da firmare, un interrogazione da preparare. Micro avvenimenti “drammatici”

che

danno

la

misura

di

una

ritrovata

normalità, dove tutto viene scandito dal suono delle campanelle di entrata, di fine ora e di fine lezione. Quando il

triplice

suono

dei

segnalatori

acustici

annunciano

solamente prove di evacuazione, testano la funzionalità delle misure di sicurezza, fanno infilare sotto i banchi alunni che eseguono con scrupolo istruzioni impartite e apprese. Con serietà. Con consapevolezza. Con tante altre cose, ma senza l’ansia, la paura, lo smarrimento di un recente passato. Quando la terra, e la scuola, avevano tremato davvero.


Quando per molti le lezioni finirono il 28 maggio; per gli altri, continuarono solo in cortili erbosi, scaldati dal sole quasi estivo che confortava e rassicurava, come a dire: “Coraggio, c’è speranza…” Per il mondo della scuola, poche settimane dopo, sono arrivate le vacanze. Chi ha potuto e già non l’aveva fatto prima, ne ha approfittato per allontanarsi dalla paura e l’inquietudine costantemente rinnovate da quella terra che tremava o che minacciava continuamente di poter tornare a tremare. Molti, invece, preferirono rimanere vicini alle loro case, ai loro affetti, alle loro radici. L’estate per molti ha rappresentato una frattura, un’interruzione dalla quale tornare con la speranza che tutto fosse finito. Sia chi l’ha trascorsa sul posto, sia chi si è allontanato per fare ritorno solo dopo settimane, o mesi, ha imparato a convivere con l’incertezza e poi, gradualmente, a dimenticare. Scordare quanto era accaduto era impossibile; impedire però che diventasse un pensiero fisso, una preoccupazione continua, un condizionamento che pregiudicava la vita di tutti i giorni così come la tranquillità di sonni e sogni era un obbligo. Un po’ alla volta l’incubo si affievoliva e, come anche le esperienze più brutte, diventava un’esperienza in più da


ricordare, da raccontare, facendo tesoro di tutto quanto aveva potuto, nel dolore, insegnare. Settembre ha rappresentato un nuovo inizio. Chiunque abbia vissuto quei mesi a Sant’Agata o nei paesi vicini; chiunque abbia avuto modo di visitarli, avrà notato i progressivi

segnali

di

una

normalità

che,

seppur

lentamente, rivendicava il suo diritto di esserci. Tende che venivano levate, pietre che venivano raccolte, edifici che venivano ristrutturati, altri che tornavano a essere abitati. Persone che si alzavano nuovamente, al mattino, per andare al lavoro e non per metter fine all’incubo di non averlo più. A settembre, anche la scuola ha riaperto cancelli e aule. Il timore che tanti ricordassero la mattina in cui tutti, alunni e insegnanti, avevano lasciato, ordinatamente ma col cuore in gola, quegli edifici dai pavimenti sussultanti e le mura tremanti, era tanto. La sagoma alta del campanile della chiesa parrocchiale, proprio davanti, e sopra, l’entrata della scuola media, era ancora

quello

spauracchio

particolare seppur

che,

probabilmente

comprensibile ragione, era a

senza tutti


sembrato in quegli ultimi giorni di anno scolastico, tra fine maggio e inizio giugno? Il demone che sotto terra si era lamentato per mesi, aveva finalmente cessato di agitarsi e di scagliare la sua furia in superficie? I ragazzi che tornavano o, per la prima volta, facevano il loro ingresso a scuola, avevano dimenticato l’accaduto e soprattutto la paura di quei giorni? Il nemico più grande, ora che quello più incombente sembrava superato, era infatti proprio questo: il timore che non si riuscisse a tornare alla normalità. Credere che i posti della vita quotidiana non fossero più sicuri, soprattutto quando si era lontani dai propri familiari. In casa prima o poi bisognava pur far ritorno. Era normale che fosse così, ci se ne sarebbe presto fatta una ragione. Ma la scuola? Sarebbe stato lo stesso, per la scuola? Tutti gli operatori del settore si erano fatti, durante l’estate, la stessa domanda. Equipe di psicologi e di gestori delle emergenze hanno tenuto incontri proprio perché si potesse affrontare questo momento nel migliore dei modi. Se infatti il terremoto era stato un choc per tutti, oltre che una disgrazia grave o irreparabile per tanti altri, chi ne aveva sofferto di più erano stati i bambini, i ragazzi, che avevano


visto messe in crisi per la prima volta le loro principali sicurezze. Erano anche quelli che, più facilmente e velocemente di altri, avrebbero potuto risollevarsene, avendo dalla loro gli anticorpi principali per far fronte a questo tipo di infezione dello spirito: la giovinezza, l’ottimismo, in una parola, il futuro. Il ritorno a scuola, dunque, è stato tranquillo. Nessuno ha negato quel che era accaduto; nessuno ha cercato di rimuoverlo dalla memoria, tutti si sono adoperati affinché quanto era accaduto rimanesse ben presente, venisse rielaborato e accettato senza ulteriormente condizionare il lavoro e lo studio quotidiano. Sensibile nei confronti di quanto era successo, l’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna ha rinnovato un bando di concorso, denominato “Io amo i Beni Culturali”, che avrebbe premiato le scuole e le istituzioni comunali che avessero

presentato

particolarmente

progetti,

meritevoli

e

legati

tutti

al

territorio,

intenzionati

a

dar

maggior visibilità a realtà particolarmente importanti, spesso

poco

provenienza.

conosciute,

dei

rispettivi

comuni

di


Un’edizione “speciale”, riservata appunto a tutti i comuni colpiti dal terremoto del 2012, di un progetto già esistente e che ancora viene proposto con cadenza annuale. Il progetto presentato congiuntamente dalla scuola media Mazzini e dalla Partecipanza Agraria di Sant’Agata, risultato tra i selezionati e, quindi, vincitori, aveva come obiettivo, e ritorniamo così alle parole iniziali, il focalizzare l’attenzione sul bosco di Santa Lucia. Le pagine che seguono sono quindi il resoconto di quanto è stato fatto, oltre che una raccolta

di

notizie

relative

al

bosco

stesso,

alla

Partecipanza Agraria, alla storia e alle origini dell’uno e dell’altra. Sono la restituzione di quello che i ragazzi della scuola media hanno visto, ascoltato e imparato, attraverso incontri con esperti, mostre fotografiche, visite al bosco, lezioni in classe dei loro insegnanti. La restituzione ai cittadini di Sant’Agata di quello che è stato loro raccontato e mostrato; la chiusura di un cerchio che ha visto degli adulti incontrare dei ragazzi, parlare con loro, in modo tale che quegli stessi ragazzi, attraverso queste pagine, parlino nuovamente al mondo degli adulti. Perché per salvaguardare l’identità di un paese, di una cultura, di tutto quello che di positivo viene realizzato e fatto dalle generazioni precedenti, c’è bisogno di portarle a conoscenza delle generazioni future. Conoscere e ricordare,


per riuscire a costruire e salvaguardare. Non c’è niente di più efficace, per cancellare l’esistenza di qualcuno o di qualcosa, che tacerne l’esistenza o non fare niente per portarla a conoscenza di un numero sempre maggiore di persone. Questo opuscolo, nei limiti della sua realizzazione e della sua diffusione, vuole essere un piccolo gesto fatto in questa direzione. Un modo per ricordare una realtà che esiste,

che

qualcuno

ha

realizzato

e

che

pretende

solamente di poter sussurrare: “Ci sono”. Nel XXI secolo, un bosco di recente ripristino non avrà, forse, lo stesso fascino che potrebbe avere un nuovo centro commerciale, né riscuotere lo stesso interesse. Ma è ancora l’attualità a darci un punto di vista differente, sulla questione. Mentre queste pagine prendono forma, le nostre

terre,

propriamente

chiamate

“d’acqua”,

sono

battute da piogge che hanno provocato l’esondazione di fiumi e l’allagamento di campi e paesi. Sant’Agata è stata appena sfiorata; altrove, a pochi chilometri, l’acqua è arrivata a lambire i centri abitati. Più lontano ancora, ma mai troppo lontano, l’onda ha raggiunto le case, entrandovi senza chiedere permesso.


Come nel caso del terremoto, la natura è responsabile in parte, ma non del tutto. Certi fenomeni non possono essere previsti né evitati. Buona parte delle conseguenze, però, lo sarebbero. La cura del territorio è importante. Fondamentale. Ora leggeremo una breve storia di qualcuno che, del proprio territorio, ha iniziato ad avere cura. Ripristinare una parte di un bosco molto più esteso, che esisteva un tempo e che ora non esiste più, se non nella porzione che ne è stata resuscitata, significa riconoscere che il progresso e le esigenze della vita attuale possono essere conciliabili con il rispetto e la cura del patrimonio ambientale: ne hanno, soprattutto, bisogno. Insegnare

ai

ragazzi

quanto

questo

sia

importante,

attraverso l’esperienza diretta, è stato il lavoro di questi due anni. Cosa crescerà dai semi che sono stati piantati lo si potrà giudicare solo in futuro. Per ora, era importante che i ragazzi lo conoscessero e imparassero qualcosa di più sul loro paese e sul loro territorio. Ora, è arrivato il loro turno per raccontare agli altri quello che hanno imparato.


Come un racconto, o una fiaba, inizia con una vecchia storia, forse vera, forse falsa, sicuramente verosimile. Accaduta, se vogliamo crederci, circa mille anni fa. C’era una volta, quindi‌


LA LEGGENDA DELLA CONTESSA MATILDA

... una contessa che si chiamava Matilda, o Matilde. Quella che leggerete di seguito è una leggenda. Per certi versi, può essere un falso storico che riportiamo per farlo conoscere a tutti e forse per smentirlo subito dopo. È bello però pensare a come la storia del nostro paese si possa legare, anche se solamente sulla base di una storia che scopriremo non avere fondamenti certi di verità, alla Storia con la S maiuscola. La storia di una donna che, in un mondo comandato quasi esclusivamente dagli uomini, seppe governare su terre ereditate dalla madre, svolgendo un ruolo importante come mediatore tra i due poteri più importanti esistenti all’epoca in tutta l’Europa occidentale: l’imperatore e il Papa. Il secolo è l’XI d.C., la contessa è Matilde di Canossa. “Se ricordate, di Matilde abbiamo studiato sul nostro libro di storia, conoscendola attraverso un episodio particolarmente importante di quel periodo che la storia ricorda come della “lotta per le investiture” Qualcuno quindi si faceva male?


“Non

esattamente.

Nessuno

veniva

realmente

investito. In quel tempo poi non c’erano automobili, al massimo potevi finire sotto le ruote di un carro e gli zoccoli di un cavallo. Viene invece definito così quel periodo tra XI e XII secolo nel quale il papa e l’imperatore litigavano continuamente su chi avesse il diritto di nominare i vescovi e investirli (cioè dargli, concedergli) di tutti quei “doni” – terre, ricchezze, potere sui sudditi – che venivano complessivamente chiamati feudo. Da qui l’espressione di età feudale e feudalesimo. Chi riceveva il feudo doveva fedeltà a chi glielo aveva concesso. Anche i vescovi erano signori

feudali,

dall’imperatore,

ma è

se

ricevevano

all’imperatore

che

le

terre

avrebbero

dovuto giurare fedeltà. Non al papa, che pure è il rappresentante di Dio in terra” Ok. Quindi l’investitura era una cosa positiva. “Lo sarebbe stato di più se fossero riusciti a mettersi d’accordo prima. Comunque, questo scontro tra il papa e l’imperatore andò avanti a lungo e, prima di concludersi, vide tra i suoi protagonisti principali un famoso imperatore e un altrettanto famoso papa”.


L’imperatore era Enrico IV,

“Che freddo qua fuori! Quando mi faranno entrare?”


il papa Gregorio VII.

“Che caldo qua dentro! Enrico può star fuori ancora un po’”


Enrico IV continuava a nominare liberamente i propri vescovi, Gregorio VII era infastidito e offeso per questa abitudine. Per questo motivo lo scomunicò. “La scomunica era una specie di marchio infamante che

colpiva

scomunicati

chi

disobbediva

voleva

dire

al

essere

papa. espulsi

Essere dalla

comunità cristiana, in un’epoca in cui la religione era al centro della vita di tutti i cittadini dell’Europa occidentale. chiunque,

Lo

scomunicato

come

un

malato

veniva

schivato

infettivo.

Se

da lo

scomunicato era un re o, come nel caso di Enrico, un imperatore,

i

suoi

sudditi

potevano

rifiutargli

obbedienza” Esatto. Gregorio VII scomunica Enrico IV, il quale, per farsi perdonare, decide di raggiungere il papa per dimostrarsi pentito dell’offesa che gli aveva arrecato. Dove lo raggiunse? A Sant’Agata? “No, purtroppo. Il nostro paese non è stato teatro di un evento così importante. Il papa in quel periodo stava soggiornando presso il castello di Matilde a Canossa,

una

località

sull’Appennino

emiliano,

all’interno dei vasti possedimenti della contessa. Era


pieno inverno eppure Enrico IV rimase tre giorni e tre notti fuori dalle mura, sulla neve, in attesa che il papa si convincesse a riceverlo e, poi, a perdonarlo. Matilde stessa intercedette presso il papa perché assolvesse Enrico, levandogli la scomunica.” Quindi Enrico IV comprese i suoi errori e non li commise più? “No, ottenuto il perdono, Enrico riprese a fare quel che faceva prima. Ma questo non ci interessa… quel che volevamo sottolineare è l’importanza e la fama di cui godeva la contessa Matilde. Una donna che governava vasti territori, strategicamente importanti, che in qualche modo dividevano i possedimenti del Papa nell’Italia centrale da quelli dell’imperatore nell’Italia settentrionale. Questa donna fu una delle prime a concedere parte delle proprie terre in dono alla

comunità,

perché

lavorandole

potessero

ricavarne qualche beneficio e, contemporaneamente, potessero riqualificare terre che, lasciate in uno stato

di

abbandono,

sarebbero

solamente

state

improduttive.” Quindi è stata lei a concedere le terre intorno a Sant’Agata ai santagatesi, dando vita così alla Partecipanza?


“Probabilmente no, ma è quello che i cittadini di Sant’Agata sostennero quando l’abate di Nonantola voleva che le restituissero, dicendo che era stata la sua abbazia, anticamente, a concederle in enfiteusi alla

comunità

santagatesi

di

non

Sant’Agata, avevano

mai

un’enfiteusi né

che

rinnovato,

i né

continuato a pagare.” Fermati un attimo. È tutto interessante, a patto di sapere che cos’è… l’enfi-cosa? “L’enfiteusi, si dice. Sarebbe una specie di affitto. Le terre erano state date da Nonantola a Sant’Agata perché le lavorassero (secondo quanto scritto nella Charta dell' Abate Nonantolano GOTTESCALCO, del 4 gennaio 1058, vivente Matilde di Canossa), pagassero un canone annuale e, prima che il prestito delle terre scadesse, ne chiedessero il rinnovo. Evidentemente, i cittadini di Sant’Agata avevano dimenticato di fare sia l’una, sia l’altra cosa.” Esatto, le cose andarono proprio così. L’abate di Nonantola avanzò le sue probabilmente giuste pretese, i santagatesi risposero sostenendo che le terre erano loro perché donate dalla contessa Matilde. Nessuno poteva né smentire, né


confermare. A questo punto eravamo giĂ nel 1569 e Matilde era morta da oltra quattro secoli.

“Pagatemi il dovuto o restituite tutto!�


Ma ci saranno state delle carte, dei documenti che provavano chi avesse ragione, no? “In effetti c’erano. Erano conservate negli archivi dell’allora comune di Sant’Agata ma, guarda caso, andarono tutti distrutti in un incendio. Il che fa pensare che, tutto sommato, forse l’abate avesse ragione.” Quindi come finisce questa storia? “Finisce che tutti fanno un passo indietro: l’abate accetta di lasciare le terre della partecipanza a quei santagatesi che ne detenevano il possesso da tempo; da parte loro, questi cittadini si impegnarono a pagare

2000

definitivamente,

scudi a

d’oro parte

per 200

acquistarle biolche

che

continuarono a rimanere gravate da una enfiteusi rinnovabile ogni 29 anni, che andava pagata ogni anno.” Mi piaceva più la storia di Matilde… “Certo, la leggenda è sempre più accattivante della realtà. Non si può per questo motivo negare le verità storiche, ma niente impedisce di voler credere ogni tanto anche a quel che dice la leggenda. In fondo Matilde non avrà forse donato le terre direttamente


alla comunità di Sant’Agata, ma aveva fatto una cosa analoga con altre comunità e per lo stesso motivo. Di certo, se non le aveva cedute ai santagatesi, le aveva comunque donate a Nonantola, che poi le aveva a sua volta “affittate”… Quindi è come se la leggenda fosse un po’ vera… “Già, proprio così. Possiamo pensare che, se avesse potuto, avrebbe fatto lo stesso anche con le terre della nostra Partecipanza. In fondo, abbiamo dovuto aspettare poco per ottenerle.” Allora, tutto è bene quel che finisce bene, no? Adesso non potresti raccontarci qualcosa di più di questa Partecipanza? Come funziona, chi ne fa parte, fin dove si estendono le terre dei Partecipanti? “Certo che lo diremo, basterà solo continuare a sfogliare questo libricino”.


LA PARTECIPANZA AGRARIA DI SANT’AGATA

Dunque, che cos’è questa Partecipanza agraria? “La Partecipanza agraria di Sant’Agata è una delle sei Partecipanze che esistono sul territorio emiliano, un territorio che, bonificato nel corso dei secoli, è diventato

il

patrimonio

sul

quale

costruire

la

ricchezza “reale” che da tempo contraddistingue le nostre province. La ricchezza della terra e dei doni che questa può offrire ininterrottamente, se solo si dimostra di sapersene prendere cura”. Ricchezze come le miniere d’oro del Far West o i pozzi petroliferi del Medio Oriente? “Non c’è oro, non c’è petrolio, non ci sono nemmeno quelle altre risorse energetiche che, anzi, qualcuno vorrebbe abbastanza purtroppo

stivare

nel

nostro

sottosuolo

già

provato da fenomeni naturali, come abbiano

avuto

modo

di

sperimentare

recentemente”. Quindi di quale ricchezza parli? “Parlo della ricchezza vera, quella rappresentata dai campi di grano e dai filari degli alberi da frutto, che


producono

continuamente

prodotti

che

siamo

abituati a trovare in negozi e mercati, come se spuntassero direttamente sugli scaffali e non fossero invece il risultato di pazienti mesi di semina, cura e raccolta”. Quindi i ricchi sono le persone che possiedono questi campi, giusto? “Ricchi sono anche tutti coloro che hanno la fortuna di potersi permettere l’acquisto dei prodotti di questi terreni. Terreni che hanno vari proprietari, spesso privati che li hanno acquistati e che li coltivano pazientemente e faticosamente. In altri casi, questi terreni non appartengono a un individuo, o a una famiglia, ma hanno vari proprietari, che li gestiscono in comunione”. Senza litigare? “Senza litigare, perché tutti rispettano le regole che sono

state

fissate.

Le

Partecipanze

agrarie,

comunque, sono una realtà diffusa nelle terre che abitiamo; gestiscono terre comuni, che non hanno un proprietario

fisso,

come

invece

di

solito

capita

quando si tratta di divisioni del territorio. Ogni terreno, sia questo agricolo, edificato o qualsiasi


altra destinazione esso abbia, sappiamo bene che può

avere,

in

pratica,

solamente

due

tipi

di

proprietari: dei privati, che lo hanno comprato o ereditato da familiari e che ne sono in possesso finché non decidono ad esempio di venderlo (nel qual caso diventa proprietario il nuovo compratore), o degli

enti

pubblici

(come

ad

esempio,

nella

stragrande maggioranza di casi, lo Stato; in questo caso si parla di demanio pubblico)”. Le terre della Partecipanza, allora, sono di un privato o dello Stato? “Le

terre

delle

Partecipanze

non

rientrano

in

nessuno di questi due casi. Sono terre che vengono affidate a una comunità di cittadini, quei cittadini discendenti da quelli che abitavano e che ancora abitano nel Comune all’interno del quale queste terre si estendono, che ne detengono il possesso per un numero concordato di anni, avendo l’obbligo, però, di prendersene cura. Perché sono terre che devono avere

una

finalità

comunitaria,

restare

e

rappresentare quindi un bene per tutti, non solo per colui al quale vengono affidate. Le Partecipanze funzionano un po’ come fossero cooperative, dove


ognuno si deve impegnare a rispettare alcuni doveri, godendo anche di alcuni benefici”. Se mi viene affidata, quindi, una terra della Partecipanza, non posso fare, come potrei invece fare con un qualcosa che sia mio e solo mio, quello che “mi pare”? “No, non posso. Quando mi viene affidato qualcosa che non sarà mio per sempre, ma lo è solo per un periodo di tempo, devo ritenermi fortunato. Posso goderne finché è mio; devo restituirlo, perché sia poi di qualcun altro, nelle migliori condizioni. Se faccio così, tutti ci guadagnano. È giusto. È corretto”. Ed è anche bello, no? “Sì, è anche bello”. A

Sant’Agata

omonima,

che

esiste ha

allora origini

una molto

Partecipanza antiche.

Ci

agraria hanno

raccontato della leggenda della contessa Matilde, ma non è che ci sia molto chiaro come sono andate le cose. Quello che abbiamo capito, è che questa contessa forse c’entra, forse no. Quindi, chi ha donato le terre ai partecipanti e quando? “Stabilire una data certa in cui questa consuetudine ha avuto inizio non è molto facile. Più la storia si


allontana dai nostri giorni, più è difficile ricostruirla. Quello che è certo, è che la storia della quale ci interessa parlare risale a tanti secoli fa. Si parla infatti della fine del medioevo, di quegli anni di metà Quattrocento che hanno segnato il passaggio fra epoca medievale e età moderna. E tutti noi sappiamo bene che, convenzionalmente, l’anno che segna il passaggio tra queste due età è il 1492, l’anno in cui avvenne cosa?”. La scoperta dell’America, lo sappiamo. Ma cosa vuol dire “convenzionalmente”? “Convenzionalmente è una parola… Un avverbio… “…un avverbio, sì, che si utilizza quando si decide di accettare, come in questo esempio, una data, un avvenimento

particolarmente

importante

per

segnare il passaggio da un periodo storico all’altro”. Quindi anche il passaggio da un anno all’altro è, per così dire, convenzionale… “In effetti, sì. I giorni si alternano uno dopo l’altro, senza reali differenze tra loro. Per comodità e per


convenzione, si è deciso di dividere i giorni in settimane, poi in mesi, infine in anni”. Insomma, la storia della Partecipanza inizia circa 1000 anni fa… “Sì, circa 1000 ma, come vedremo fra un attimo, la definitiva «transazione» veniva ratificata con Breve di Papa GREGORIO XIII in data 1 Maggio 1577. L’intervento del papa era dovuto al fatto che quelle terre erano allora governate dallo Stato Pontificio. Ricordate che era un’Italia che non era certo unita come quella alla quale siamo abituati noi ora”. Il Regno d’Italia nasce il 17 marzo 1861. “Esatto, e anche allora non era completa come la conosciamo ora. Nel 1500, la situazione era questa: nella nostra penisola c’erano tanti diversi signori, ognuno dei quali aveva il potere quasi assoluto sulle terre che gli appartenevano. I confini di queste terre erano

spesso

ridisegnati,

attraverso

matrimoni,

alleanze, donazioni e, soprattutto, guerre. Anche le terre comuni che, a un certo punto, vengono spartite tra alcune famiglie della comunità di santagatesi avevano prima un altro proprietario. Stabilire quale fosse è ancora oggi materia di discussione”.


È qui che c’entra la contessa, giusto? “Sì, ma procediamo con ordine. Per spiegarci meglio, piuttosto che andare indietro fino a Matilde di Canossa, è meglio invece partire dall’anno 1569 e ricostruire il passato iniziando da questa data. Infatti, nel 1569, l’abate di Nonantola (sapete chi sia l’abate, vero?

Basta

ovviamente,

ricordare

i

monasteri

dovreste

sapere

benedettini…

anche

dove

sia

Nonantola…) cercò di rimpadronirsi di queste terre comuni sostenendo che fosse stata proprio l’abbazia di Nonantola a donarle a Sant’Agata; un dono che non era un vero e proprio regalo e che quindi poteva pretendere di avere restituito indietro”. Questo dono si chiamava enfiteusi, ce l’hanno già detto e anche spiegato cosa vuol dire. “È una parolona difficile tipica del mondo feudale. Una

specie

di

“affitto”

che,

secondo

l’abate,

i

santagatesi non solo non avevano mai rinnovato, ma nemmeno avevano sempre provveduto a pagare regolarmente. Questo li faceva decadere da ogni diritto su quelle terre. La risposta dei santagatesi, che non volevano rinunciarvi, fu di sostenere che quelle terre comuni erano state donate loro non


dall’abbazia di Nonantola, bensì, molti anni prima, dalla contessa Matilde di Canossa. Si retrocede nel tempo, quindi, di alcuni secoli, se pensiamo che Matilde morì nel 1115. Che fosse stata la contessa Matilde a donare quelle terre (e nel suo caso si sostiene fosse stato un vero e proprio dono, quello che viene definito un atto di liberalità) nessuno poteva dimostrarlo”. Ci hanno spiegato che forse non era nemmeno vero. “Forse sì. Ma se c’è un forse, c’è anche la possibilità che

le

cose

invece

siano

andate

proprio

così.

Abbiamo già scritto che non è importante ora sapere quale sia la verità; anzi, per certi aspetti, alcune cose è meglio lasciarle avvolte da un alone leggendario, soprattutto quando è ormai impossibile riuscire a stabilire

la

verità.

Vero

o

no

che

fosse,

se

i

santagatesi non potevano dimostrare la “loro” verità, si poteva quantomeno fare in modo che anche l’abate non potesse dimostrare la “sua”. Voi cosa fareste se trovaste dei documenti che attestano che una

cosa

vostra

non

è

veramente

portereste al legittimo proprietario o…”

vostra?”

Li


Li porteremmo al legittimo proprietario. Così come se trovassimo

un

portafogli

in

terra,

cercheremmo

di

restituirlo alla persona che l’ha perso. In casa e a scuola ci hanno insegnato che si fa così. “Vi

hanno

insegnato

bene,

perché

è

così

che

bisognerebbe fare. I tempi di allora, però, era diversi, difficili, duri. Non era nemmeno facile stabilire chi avesse ragione in una questione come quella della quale stiamo parlando. In quell’occasione, allora, i santagatesi scelsero di comportarsi diversamente. Infatti, bruciarono ogni documento che attestasse che l’abate di Nonantola aveva le sue ragioni. Questo trascinò la questione per alcuni anni, fino a quando il problema non venne risolto con una decisione che doveva

mettere

tutti

d’accordo;

la

transazione,

appunto, prima citata”. I cittadini di Sant’Agata dovettero quindi “scucire” 2000 scudi d’oro… “…che è una moneta…” …che è una moneta, non uno strumento per difendersi, così l’abate riconobbe loro la piena proprietà delle terre contese, tranne duecento biolche… “che sono unità di misura del terreno”…


…che sono unità di misura del terreno e che comunque i santagatesi ricevettero in enfiteusi. Sappiamo tutto, visto? “Da quel momento in poi, queste terre continuarono a

rimanere

gestite

in

comune

da

cittadini

appartenenti alle famiglie storiche di Sant’Agata. Ancora oggi, ogni nove anni, quando si decide come ridistribuire tra i partecipanti (cioè coloro che fanno parte della Partecipanza) le quote delle terre comuni, chi dovrebbe per diritto riceverle deve dimostrare di abitare in forma stabile, vera e continuata nel Comune di Sant’Agata. Oltretutto, l’ultima divisione delle terre della Partecipanza c’è stata proprio pochi mesi fa”. Il bosco di Santa Lucia, che abbiamo visitato nella primavera scorsa, cosa c’entra con la Partecipanza e la sua storia? “Del Bosco parleremo ampiamente più avanti. Per il momento, e grazie per la domanda, aggiungiamo solo che una delle ultime iniziative portate avanti dalla Partecipanza di Sant’Agata è stata quella di riqualificare un’area che si estende tra Sant’Agata e Nonantola

(chissà

cosa

ne

penserebbe

l’abate,

probabilmente sarebbe felice di sapere come sono


state utilizzate parte delle “sue” terre), a pochi chilometri da qui”. È talmente vicino che ci si può andare in bici, volendo… magari quando non piove… “Sapete già che si chiama Bosco di Santa Lucia ed è grande 30 ettari…” …un’altra unità di misura del terreno… “…un’altra unità di misura del terreno. Questo Bosco ne richiama alla memoria un altro, molto più esteso, che esisteva nella nostra zona nei secoli scorsi, quando boschi e foreste, nel pieno dell’epoca feudale, costituivano la riserva di caccia di re e principi, che davano alla cittadinanza - e solo a volte - il semplice diritto

di

potervi

spontaneamente -

prelevare

alcuni

prodotti

nati

e sempre pagando una tassa -.

Quando l’intera zona della Pianura Padana è stata oggetto di bonifica e di nuova destinazione d’uso, principalmente

agricola,

molti

boschi

sono

stati

distrutti o prepotentemente ridimensionati”. Non è stata una cosa molto bella, però… “Non è stata né bella, né brutta. È stata piuttosto una necessità, che ebbe tanti risvolti positivi (molte


persone trovarono nuove terre da lavorare e quindi migliori possibilità di sopravvivere o vivere meglio di prima)

ma

anche

dell’importanza ossigenare

che

l’aria,

inquinamento

alcuni

negativi.

hanno

le

soprattutto

come

quello

aree

in

Sappiamo verdi

periodi

attuale;

per

di

alto

inoltre,

non

bisogna sottovalutare l’importanza storica che ha qualsiasi

testimonianza

che

sia

riuscita

ad

attraversare, più o meno intatta, i secoli passati. Un bosco composto da alberi secolari può dirci cose diverse, ma della stessa importanza, rispetto a quanto

può

dirci

un

vecchio

edificio,

come

ad

esempio un castello. Sono entrambi la testimonianza di un passato che non c’è più, se non nelle poche cose

che

di

quel

passato

sono

sopravvissute.

Testimonianze che possono essere naturali o, come direbbe il vostro testo di geografia, antropiche. Non ce n’è una più importante, lo sono entrambe e lo sono in modo complementare. Un albero abbattuto, però, non si può riparare; se ne può utilizzare il legno per farci qualcosa – la carta dei libri su cui studiate, il legno delle sedie sulle quali sedete - ma non tornerà mai più a vivere e respirare come quando era bello interrato nel suolo. Quello che ha


fatto la Partecipanza, quindi, è stato riportare una parte del territorio allo stato in cui era tanto tempo fa, riseminando specie vegetali, ripopolando il bosco di specie animali che si erano nel frattempo perse, ricostruendo in questo modo sia una importante risorsa

ambientale,

sia

un

tassello

di

memoria

storica che preserva il ricordo delle nostre origini e che ci chiede di preservarlo intatto, per lasciarne traccia alle generazioni che ci seguiranno�.


Durante l’epoca altomedievale, una scena come questa poteva essere assolutamente naturale, anche a Sant’Agata. C’era un bosco, molto esteso, ora parzialmente ricostruito grazie all’opera della Partecipanza agraria. Un bosco con tante specie vegetali e animali, come quelle raffigurate in questa illustrazione.


ACQUA, FUOCHINO, FUOCO! Negli incontri che abbiamo avuto nei mesi scorsi, ci hanno anche spiegato cosa sia e come funziona la Partecipanza Agraria di sant’Agata. Gli stessi incontri, anzi, li abbiamo avuti in una sala conferenze che si trova proprio nei locali della Partecipanza. Abbiamo ammirato la sala spaziosa e i soffitti affrescati con gli stemmi di tutte le famiglie partecipanti‌


… abbiamo ascoltato e preso appunti…

… e adesso possiamo raccontare qualcosa di più preciso.

Prima di farlo, però, vorremmo approfittare dell’occasione per ringraziare tutte le persone che, incontrandoci, ci hanno dedicato parte del loro tempo per spiegarci bene le cose che, meno bene, riassumeremo in queste pagine. Tutti loro, inoltre, hanno ripetuto per ben due volte le loro


lezioni, incontrandoci separatamente, raggruppati in gruppi di due classi ognuna, nell’arco della stessa mattina. La prima persona che abbiamo incontrato è stata la dottoressa Patrizia Cremonini dell’Archivio di Stato di Modena la quale, col supporto di immagini fotocopiate e proiettate, ci ha riassunto in che modo è cambiato il territorio che abitiamo nel corso dei secoli scorsi. È stato curioso

scoprire

come

il

Medioevo

che

conosciamo

solamente studiandolo sui libri sia passato anche di qui. Lo sappiamo, è banale dirlo e anche scontato – è ovvio che tutte le epoche storiche si sono alternate ovunque, quindi anche a Sant’Agata – ma è difficile immaginarsi come potesse essere una volta un paese che noi, ancora così giovani, abbiamo sempre e solo conosciuto per come è oggi. Al massimo, cambia durante il Carnevale o la Fiera di Maggio, quando arrivano giostre e baracconi. Sui libri di scuola è normale vedere disegni e immagini di grandi città del passato, confrontandole con quello che sono diventate oggi. In questa occasione, abbiamo avuto la possibilità di vedere come invece è cambiato il nostro territorio. Immagini di un passato in cui Sant’Agata era un piccolo raggruppamento di


case, completamento circondate da acqua, campi, boschi e foreste. Il nome di Comune di Terre d’Acqua, condiviso con gli altri paesi che confinano con il nostro, ha così acquistato un vero significato. Abbiamo visto l’antica centuriazione romana, un sistema di divisione del territorio in quadrati e rettangoli grazie al quale si ricavavano, appunto, “centurie” che venivano poi assegnate ai coloni perché le lavorassero e vi trovassero il proprio

sostentamento.

Una

ordinata

ripartizione

che

ancora oggi è facile da riscontrare; basta infatti visionare qualche foto aerea o satellitare per vedere come tutta l’area che chiamiamo Terre d’Acqua, compreso quindi il Comune di Sant’Agata, rispetti ancora la vecchia divisione prevista dai romani. Un qualcosa come 2000 anni fa, mica l’anno scorso… Come a confermare che, una volta, certe cose si sapevano fare meglio di adesso… Poi, nei secoli successivi, l’intera zona è stata agitata da alcuni

avvenimenti

storici

importanti,

che

hanno

movimentato un po’ la vita dei nostri antenati. L’Impero Romano occidentale è caduto, sono arrivati i barbari, per ultimi i Longobardi; i Bizantini hanno poi riconquistato,


almeno in parte, questi territori. In un modo o nell’altro, le terre continuavano a tramandarsi e, almeno per quanto si poteva, a essere coltivate. A cavallo dell’anno Mille, c’è stata la donazione di Matilde di Canossa, della quale abbiamo già parlato, delle terre che ora appartengono alla Partecipanza direttamente

Agraria ai

di

Sant’Agata.

santagatesi

o,

Le

come

abbia è

donate

probabile,

all’abbazia di Nonantola che poi le ha concesse in enfiteusi, non importa. Nel corso del Medioevo, poi, come accadeva con qualsiasi altro centro abitato, per paura degli attacchi nemici, il paese di sant’Agata si è dotato di una cerchia difensiva che gli veniva offerta dalla natura stessa, opportunamente sfruttata grazie alla canalizzazione delle acque. Fa un certo effetto

vedere

Sant’Agata

chiamata

Castello,

completamente circondata da una specie di fossato, ergersi sul territorio circostante come fosse una specie di isola.


La cartina è un po’ spiegazzata, ma con i nostri compiti o i comunicati che riceviamo dalla scuola sappiamo fare ben di peggio… La Sant’Agata medievale, insomma, ci ha trasmesso una curiosa sensazione.


Allora come ora, si allevavano e macellavano maiali‌


‌ si mungevano ovini‌


‌ si pescava. Un attimo, si pescava???


Sì, perché Sant’Agata era pressappoco così…


Leggendo

poi

una

fotocopia

con

sopra

riportata

la

trascrizione di un antico documento risalente al 1651, sul quale veniva riportata una registrazione ancora precedente (9 febbraio 1508) che dava notizia della composizione del Corpo della Comunità del Castello di Sant’Agata (una specie di Consiglio Comunale dell’epoca, se abbiamo capito bene…), è stato curioso leggere alcuni nomi, soprattutto cognomi, ancora oggi molto diffusi tra gli abitanti di Sant’Agata. Alcuni di noi, che scriviamo, si chiamano proprio così, infatti… Tra Deputati e Consiglieri abbiamo scorto i nomi di Simon Guizzardo, Antonio Melega, Nicolò Pizzo,

tutti

cognomi

che

è

facile

ritrovare,

magari

leggermente modificati, negli elenchi degli alunni delle scuole, in quelli dei Partecipanti, sui campanelli esterni alle abitazioni. Che non vanno suonati, a meno che tu non sia il postino o qualcuno che va a trovare un amico o un parente. Chiaro? Una delle ultime immagini che ci sono state fatte vedere e che ci sono state commentate, ritrae Sant’Agata come è adesso, anche se un po’ di anni fa. Tanti che ora leggono queste pagine riconosceranno le loro abitazioni. Noi, basandoci sulla posizione del campanile, sappiamo con precisione dove si trovi…


… sigh, la scuola…


Anche se un po’ rapido, questo viaggio nella nostra storia è stato veramente interessante, nonostante lo abbiamo qui riassunto in modo veramente mooolto veloce. Per questo motivo, come si fa ogni volta che si intraprende un viaggio, abbiamo deciso di spedire, durante questa vacanza, una… cartolina!

… che ci ha messo un po’ di tempo per arrivare…


Grazie a questo primo incontro, insomma, abbiamo saputo che anticamente, come avevamo avuto modo di leggere anche nei nostri libri di storia e di geografia, la zona dove abitiamo era in gran parte dominata dalla natura, una natura che, come in tante altre parti d’Italia e d’Europa, alternava zone paludose e poco ospitali con estese aree boschive che ospitavano una fauna e una flora che, ormai, sono andate in gran parte perdute. “Scusate allora se mi intrometto nuovamente. Fino ad ora non ce n’era stato più bisogno, perché ho notato che avete capito e riportato correttamente quello che vi è stato spiegato. Direi, però, che adesso è arrivato il momento di parlare del bosco che c’era, poi non c’era più e che ora c’è nuovamente. Giusto?” Giusto. Prima vorremmo però aggiungere qualcosa, per andare con ordine, a proposito della partecipanza agraria di Sant’Agata. Perché non si può parlare del Bosco di Santa Lucia senza precisare qualcosa di più, e meglio, a proposito di coloro che hanno impiegato tempo, risorse e d energie per riportarne in vita almeno una parte. “Avete

ragione.

Della

Partecipanza

abbiamo

già

scritto che è una istituzione dalle origini molto antiche,

che

amministra

terre

lasciate

in


dono/enfiteusi da molto prima del 1500, che è composta da famiglie che godono dell’utilizzo di queste renderle

terre

impegnandosi

fruttifere,

a

potendo

curarle,

coltivarle,

ovviamente

anche

godere di quanto riescono a raccogliere e produrre” Adesso sappiamo anche come avviene questa spartizione dei terreni, chi ha diritto a ottenerli, cosa bisogna fare per non

perdere

questo

“appartengono”

diritto,

prima

che

per

quanto

vengano

tempo

ti

nuovamente

ridistribuite e riassegnate. “Allora, forza, scrivete…” Prima di tutto, diciamo che Partecipanti sono, ancora oggi, tutti

coloro

che

possono

sostenere

di

essere

diretti

discendenti dei Partecipanti “originali”. Il manoscritto più antico che testimonia chi fossero all’epoca le famiglie Partecipanti e come venissero distribuiti tra loro i terreni risale alla seconda metà del XVI secolo. La consuetudine è sicuramente precedente, ma non c’è al momento modo di stabilire con certezza di quanto, perché manca quella che, studiando storia, abbiamo imparato essere la cosa più importante per stabilire con certezza un qualsiasi tipo di avvenimento. “Sarebbe a dire?”


La presenza di fonti, di testimonianze. “Qualcosa di scritto, insomma…” Esatto, qualcosa di scritto. Solo in questo modo, sarebbe possibile datare con maggior precisione un avvenimento. Per adesso, è possibile solo stabilire, ma non è poco, un’epoca

“minima”

alla

quale

far

risalire

questa

consuetudine. Se in futuro uscirà qualcosa d’altro, si potrà forse essere ancora più precisi. “Ho capito” Dunque, i Partecipanti si tramandano in linea maschile il possesso dei terreni della Partecipanza. Il numero degli aventi diritto può però cambiare, perché qualcuno potrebbe ad esempio perdere il proprio perché non più abitante in maniera continuativa a Sant’Agata (principale prerogativa che ogni Partecipante deve avere per poter, appunto, “partecipare”). “Questo vuol dire che i terreni ripartiti possono variare, giusto?” Sì. Infatti la divisione e la ripartizione dei terreni avviene a intervalli regolari. Un tempo questo periodo era di cinque anni, diventati poi nove nel corso dei secoli successivi. Alcuni anni fa la durata era stata estesa, per motivi di


opportunità, a diciotto anni. Ora è di nuovo di nove, il che ha ripristinato la storica consuetudine dei nove anni. Prima della ripartizione, che avviene da sempre, tradizionalmente, il 29 settembre, giorno di San Michele, tutti coloro che ritengono di avere diritto a una quota possono farne richiesta, iscrivendosi e presentando i titoli in loro possesso che testimonino l’esattezza della loro richiesta. “Sembra il regolamento di un concorso pubblico…” Non è semplicissimo, infatti. Ci abbiamo messo un po’ a capire come funziona, pur avendo semplificato molto. Comunque, per arrivare velocemente a una conclusione, possiamo aggiungere che non tutti i Partecipanti sono “uguali”. Prima di tutto sono Partecipanti alla nascita i legittimi discendenti in linea maschile, ma solo alla morte (ahimè!) del padre si diventa Partecipanti capi, ovvero coloro i quali hanno diritto a una quota intera al momento della divisione (detta cavazione). “Non parlate di cavazione; fa venire in mente il dentista…” Quella si chiama estrazione, fa male ed è pure costosa. Questa no, anzi, ci si guadagna. “Scusate. Era solo una battuta”


Ah, ok. Ora però continuiamo. Detto dei Partecipanti capi, citiamo ora le vedove, che hanno diritto a mezza quota e, per motivi troppo lunghi da spiegare, quelli che vengono chiamati Partecipanti in compartecipazione che, come suggerisce il nome, posseggono una quota

in comunione

per un periodo limitato. Un’altra variante ancora riguarda le figlie che, se il padre partecipante è deceduto dopo una recente modifica dello Statuto del 15 giugno 2008, sono equiparate

ai

figli

maschi.

Se

il

decesso

è

invece

antecedente a questa modifica hanno diritto, purché non sposate, a mezza quota. Se abbiamo capito bene, è proprio così, più o meno, che funziona: ora a un certo punto gli eredi maschi e femmine hanno comunque diritto al riconoscimento di una quota intera, l’unica differenza è che le femmine non trasmettono a loro volta il diritto e quindi il titolo di Partecipante ai figli. “Essere

figlio

maschio,

almeno

in

questo

caso,

conviene…” A prima vista sì. Noi ricordiamo anche della divisione del Sacro Romano Impero di Carlo Magno, quando l’Impero stesso si indebolì dopo che venne diviso tra i tre nipoti del grande

imperatore.

In

questo

caso,

divisione non rappresenta una debolezza.

però,

l’ulteriore


“Perché?” Perché la gestione dei terreni è portata avanti di comune accordo,

seguendo

regole

precise

e

avendo

obiettivi

condivisi. Quando le regole sono precise, chiare, tutti le conoscono e tutti le rispettano, le cose funzionano bene. Non c’è spazio per gli egoismi personali. Tutti concorrono al benessere proprio e, quindi, a quello dell’intera comunità. Fatto sta che, al momento in cui si deve effettuare una nuova ripartizione dei terreni, si vede quanti sono gli aventi diritto, a quanti di loro spettino quote intere e a quanti invece quote minori… “… e poi?..” … poi si assegnano i “fuochi”. “Penso che abbiate sbagliato a scrivere. Avete detto “fuochi”, ma volevate dire?” Volevamo scrivere proprio “fuochi”, perché è così che vengono chiamate le singole parti di terreno che vengono distribuite tra i Partecipanti aventi diritto. “Le vecchie terre donate dall’abate di Nonantola…” …o dalla contessa Matilde…


“…o dalla contessa Matilde, certo, vengono quindi divise e assegnate in parti uguali. Ogni singolo fuoco è uguale a qualsiasi altro, giusto? Come dividere i quadretti di una tavoletta di cioccolata…” Non precisamente. I “fuochi” vengono assegnati in base al loro “valore”, non alla loro grandezza. Conta quello che sono in grado di produrre, non quanto sono estesi, insomma.

Per

evitare

discussioni,

infatti,

vengono

sorteggiati, non attribuiti da qualcuno, né scelti secondo il proprio comodo. “Mi sembra giusto. Quindi, alla fine, ognuno riceve in base a quanto gli spetta, nessuno viene privilegiato, nessuno rimane escluso. In tutto questo, però, il Bosco di Santa Lucia come c’entra?” C’entra perché il Bosco sorge proprio sulle terre della Partecipanza. “Allora direi che è arrivato il momento, finalmente, di parlare un po’ di questo Bosco, no?” Ora che speriamo di aver contestualizzato meglio tutta la situazione, partendo dalla storia e finendo con le regole della Partecipanza, pensiamo anche noi che sia proprio giunto il momento di scrivere qualcosa di più sul…


BOSCO DI SANTA LUCIA

Prima di andare a visitarlo, era giusto che anche a noi venisse spiegato meglio cosa fosse, dove fosse questo bosco. In tutta onestà, pochi di noi lo conoscevano e, anche se qualcuno ne aveva quantomeno sentito parlare, sempre pochini erano coloro che avevano avuto occasione di visitarlo. “Forse non era abbastanza pubblicizzato…” …o forse le persone non sono mai abbastanza attente a quel che il loro territorio può offrire, anche quando potrebbero trovarlo a un palmo dal naso. In ogni caso, speriamo che questa sia l’occasione buona per tante persone in più di imparare a conoscere, o conoscere meglio, qualcosa di cui sapevano poco o nulla. Quando il progetto è partito, abbiamo iniziato a incontrare persone che, come già detto, hanno portato la loro esperienza e le loro conoscenze, illustrandoci aspetti di storia e geografia locale a noi poco note. Se la dottoressa Cremonini ci ha informato delle origini di Sant’Agata, di come fosse la natura che la circondava e che caratterizzava


tutte le terre circostanti, la dottoressa Carla Zampighi, del Consorzio Burana di Modena, ci ha invece informato meglio sulle modalità con cui si è intervenuti per riportare in vita quella parte del bosco originario che ora conosciamo come Bosco di Santa Lucia. Quali specie vegetali sono state impiantate, quali specie animali si sono riprodotte; come sono stati studiati gli equilibri che dovevano essere rispettati perché fauna e flora prosperassero. Era l’anno 1998 quando la Partecipanza Agraria iniziò le fasi lavorative delle terre di cui detiene il possesso (inutile ripetere ancora una volta da quando e perché, no?) per riportare in vita almeno una parte di quel bosco che esisteva un tempo e che, allora, non esisteva più. Una porzione

di

terreno

dell’estensione

di

30

ettari

che

venivano così “sottratti” alla divisione tra i partecipanti ma che componevano parte di quel bene comune gestito e utilizzato, relativamente ai terreni coltivabili, come risorsa per il finanziamento delle attività della Partecipanza stessa. A proposito di soldi, poi, è ovvio che ne servivano, anche tanti, per iniziare e portare avanti i lavori. Inizialmente venne identificata quale parte di terreno fosse più adatta alla semina e quanto grande dovesse essere. Non tutti, infatti, sono particolarmente adatti a questo scopo. Infatti, la maggior parte delle zone boschive si trovano in


montagna o comunque in altura, pur non scarseggiando certo anche in campagna. L’importanza dei boschi, poco conosciuta per noi che ormai siamo abituati a essere circondati da edifici piuttosto che da alberi, è enorme e vale la pena ricordarne alcuni motivi: - boschi e foreste forniscono il legname utile per mobili e carta. Ora che abbiamo studiato i paesi del nord Europa, ad esempio, abbiamo visto come per alcuni di questi i boschi rappresentino una delle risorse del primario più importanti e sviluppate. La silvicultura, negli stati della penisola scandinava, così come per quelli del nord America, è diffusa quanto da noi l’agricoltura. Chiunque di noi abbia mobili di legno in casa (e difficilmente qualcuno può non averne, pensiamo), sa bene che tavoli, sedie, armadi un tempo erano alberi che si sono gentilmente sacrificati per la nostra maggiore comodità. Altrettanto gentilmente, anche se non sempre apprezziamo, ci garantiscono la carta dei libri sui quali studiamo e dei quaderni sui quali scriviamo. Almeno qualcuno di noi… - sono importanti riserve d’ossigeno, che garantiscono la respirabilità dell’aria, bilanciando così gli effetti nocivi che il cosiddetto progresso sta invece provocando e di cui tutti possiamo renderci conto, anche non abitando in città, purtroppo ancora più inquinate. Sfogliando il libro di


geografia, infatti, tutti noi abbiamo potuto leggere come le grandi foreste pluviali, ad esempio quella amazzonica, vengano chiamate i polmoni del mondo. Viceversa, le grandi città industriali, come la Londra di metà Ottocento o certe

grandi

metropoli

dei

giorni

nostri,

vengono

rappresentate grigie, sporche, quasi invivibili. Certo, come abbiamo detto è il progresso, ma non è che ora stiamo messi molto meglio… - hanno un’influenza positiva sul clima, impedendo o riducendo il rischio di fenomeni atmosferici di particolare gravità.

Al

loro

interno,

poi,

ospitano

una

grande

biodiversità, garantendo le condizioni migliori perché tutte le specie che lo abitano possano vivere senza rischiare l’estinzione. Dove l’uomo costruisce, invece, le altre specie viventi un po’ alla volta diminuiscono; alcune, purtroppo, spariscono per sempre. Non mosche e zanzare, però… - le radici delle specie arboree e arbustive rinsaldano il terreno, rendendolo meno franoso e friabile. La nostra penisola, negli ultimi anni, ha conosciuto più volte episodi spiacevoli o addirittura drammatici quando la natura è parsa ribellarsi all’azione dell’uomo, che senza troppo curarsi delle conseguenze ha costruito dove sarebbe stato meglio non farlo, non considerando che un albero ha più stabilità di una casa. Ecco quindi spiegate frane, valanghe,


esondazioni che, anche se non sempre hanno cause che vanno

tutte

attribuite

all’uomo,

sicuramente

hanno

conseguenze più gravi proprio per la poca lungimiranza che appunto

l’uomo

ha

dimostrato

quando

ha deciso

di

costruire e, prima ancora, di tagliare, abbattere, disboscare, certe zone. “Scusate un attimo se vi fermo. Non ero ancora intervenuto perché l’esposizione era chiara e quello che stavate scrivendo interessante. Forse però è il caso di spiegare la parola lungimiranza. Non è che la si senta usare così spesso…” Effettivamente,

anche

noi

non

l’abbiamo

quasi

mai

utilizzata. Diremmo, anzi, quasi mai sentita prima. Ora però sappiamo che significa più o meno qualcosa che potremmo “tradurre” col termine un po’ dialettale “usta”. “Una persona lungimirante, quindi, è una persona accorta…” …previdente, sensata. Che pensa alle conseguenze di ciò che sta per fare e, se capisce che possono essere anche negative, trova un’alternativa, una rinuncia. Usa l’usta, insomma…

soluzione. Oppure


“Continuate

pure…

Stavate

parlando

dei

tanti

benefici che un’area boschiva può garantire e non solamente a chi ci abita vicino…” Avevamo detto tutto ed era comunque tanto. Quel che invece vogliamo aggiungere, che abbiamo lasciato in sospeso, è raccontare meglio come il bosco di Santa Lucia sia stato creato. Ricostruirlo dal nulla non è impresa semplice… “…e nemmeno economica, vero?” No, non è nemmeno economica. Infatti sono serviti tra i 6 e i 7 mila euro a ettaro all’inizio, a cui ne vanno aggiunti altri 2 o 3 mila all’anno, sempre per ettaro, per la manutenzione. Non basta stare lì e aspettare che la natura ricresca dove non ce n’è rimasta traccia. Ci hanno detto che un bosco può anche essere semplicemente piantato per poi aspettare che cresca spontaneamente, senza ulteriori, particolari cure. Questo però è un metodo più lungo e non è nemmeno detto che ottenga i risultati sperati, anche

perché

le

specie

vegetali

vanno

preservate,

soprattutto all’inizio della loro vita, dall’aggressione di agenti che possono pregiudicarne l’esistenza. Lo stesso bosco di Santa Lucia, ad esempio, nel 2003 è stato teatro di un’invasione di grilli che, frinendo e saltellando, si


nutrivano

della

provocando

corteccia

danni

che

e

della

poterono

linfa essere

degli

alberi,

scongiurati

solamente segando alla base gli esemplari danneggiati, per impedirne

la

morte

ma,

contemporaneamente,

ritardandone la crescita. Costantemente, poi, gli alberi e gli arbusti vanno controllati, sistemati, se ce n’è la necessità curati, proprio per evitare la possibilità che qualche esemplare si “ammali”, magari provocando una epidemia che, come capita tra gli esseri umani quando scoppia un virus influenzale, si estenda a macchia d’olio. Premure che vengono

portate

avanti

solamente

con

accorgimenti

culturali… “Che significa…?” …che significa “combattere” agenti infestanti come insetti nocivi o funghi senza ricorrere a pesticidi o prodotti simili, ma intervenendo direttamente sulle piante, ad esempio, potando le specie infestate per eliminare le larve dei parassiti. Oppure lavorare il terreno al momento più opportuno, limitando la nascita e la moltiplicazione degli insetti pericolosi per le piante e favorendo invece quella degli insetti utili. Cioè “buoni”.


“Gli

alberi,

poi,

immagino

non

possano

essere

piantati a caso, un po’ qua e un po’ là, senza tener conto di dove sorgeranno…” Non se si vogliono fare le cose perbene. Come avviene per le case, anche se sarebbe meglio dire come dovrebbe avvenire per le case, bisogna intanto prestare attenzione al terreno sul quale sorgeranno e cercare di dare un ordine che poi renderà più semplice prendersene cura. Come ci hanno

insegnato

gli

antichi

romani,

le

città

vanno

progettate secondo un piano che deve prima essere studiato, poi messo in atto. Ordinatamente. Non è che uno può costruire dove gli pare… “Invece, qui in Italia, qualcuno in passato l’ha fatto. Per poi molto spesso pentirsene, però. Ci sono state abitazioni che sono crollate perché costruite male, ma soprattutto perché costruite dove era meglio non farlo. Oppure sono state abbattute prima, per ordine delle autorità, proprio perché era rischioso abitarvi” Infatti

avevamo

usato

il

condizionale…

le

case

“dovrebbero” essere costruite rispettando la legge e, ancor di più, il buon senso. “Usando, ancora una volta, dell’usta…” Non costruire dove il terreno è troppo friabile, ad esempio.


“E il terreno che è stato scelto per fare il bosco, dunque, com’era?” Era, anzi è, un terreno molto argilloso. Il 60% circa è infatti composto da argilla. Prima di poter procedere alla semina è stata allora praticata l’inzaffadatura, che consiste nel piantare gli alberi in un composto che, oltre all’argilla, contiene anche acqua e letame, al fine di velocizzare la crescita delle radici e, quindi, il nutrimento della pianta. Le stesse piante, inoltre, sono state disposte in filari, come quelli in cui sono organizzati i frutteti,

scavando il terreno con un attrezzo chiamato ripper, ugualmente distanziate una dall’altra, per dare al bosco un aspetto più ordinato ma soprattutto per un motivo pratico: in questo modo è più semplice prendersene cura ed effettuare la necessaria manutenzione. Questa disposizione


ha anche permesso di ricavare dei camminamenti, chiamati cavedagne, che permettono ai visitatori di addentrarsi nel bosco e, contemporaneamente, possono servire come sbarramento all’avanzare delle fiamme nel caso dovesse mai, speriamo certo di no, scoppiare un incendio. “Insomma, è stato fatto un lavoro impegnativo e, sentendo quel che raccontate, è stato fatto molto bene” Più che bene. Sono state piantate, tra alberi e arbusti, circa 25.000 piantine. Quel che non abbiamo ancora detto, è che non si poteva pensare di interrare qualsiasi tipo di pianta. Si doveva infatti aver cura di quel che il terreno poteva ospitare e quel che invece non avrebbe potuto trovare condizioni sufficienti per sopravvivere. Il terreno argilloso, che prima abbiamo ricordato costituire circa il 60% della zona destinata al bosco, ha caratteristiche che lo rendono inadatto ad alcune specie vegetali in quanto può seccarsi durante i mesi estivi, ritenere troppa acqua durante quelli piovosi. Quindi sono serviti i necessari accorgimenti di selezione delle specie da piantare. “Allora, quali sono gli alberi e gli arbusti che oggi si possono vedere se, come avete fatto voi, uno visita il bosco?”


Sono tante. Tra gli alberi, quelli più importanti sono frassini, ciliegi, noci e pioppi. Come arbusti, invece, si possono trovare rosa canina e sanguinella. Poi ci sono le specie animali, che non sono poche. Soprattutto uccelli. Sai qual è però la cosa più importante che vogliamo dirti? “No. Quale?” Adesso,

invece

di

fare

tante

domande,

perché

non

approfitti della bella stagione e vai da solo a vedere quali altre curiosità nasconde il bosco? L’hai detto tu: “Cosa può vedere

chi

lo

visita?”

La

miglior

risposta

è

farlo,

ricordandosi di rispettarlo e rispettare il lavoro di chi da anni lavora per tenerlo nell’ottimo stato in cui si trova. Per orientarti, guarda la cartina della pagina seguente. In giallo, puoi vedere il percorso attrezzato. Cosa sia il resto, lo trovi scritto qua sotto: 1 Bosco con farnia

6 Filari di gelso

2 Bosco con ciliegio

7 Filari di pioppo cipressino

3 Bosco con noce

8 Filari di farnia

4 Bosco con pioppo Bianco e frassino 5 Bosco misto a gruppi

9 Area umida 10 Prati e boschetti



Dopo tutto quello che ci è stato raccontato e che noi abbiamo qui scritto a nostra volta, e prima di visitare il parco, abbiamo potuto partecipare a un ultimo incontro nei locali della Partecipanza. Questa volta l’occasione è stata data dalla possibilità di ammirare una esposizione di fotografie,

chiamata

“Bàin

Cmòun”

(beni

comuni,

in

dialetto), accompagnata anche dalla visione di un filmato che raccoglieva parte delle foto esposte raccolte in un Power Point che ingrandiva le immagini rendendole più suggestive. Per tutti noi questa è stata la possibilità di gettare uno sguardo su alcuni abitanti del bosco in anteprima, senza doverci spostare dalla sedia.


Gli autori di molte delle foto esposte erano presenti in sala e disponibili a rispondere alle nostre domande e chiarire i contenuti delle immagini, che ritraevano soprattutto varie specie

animali,

uccelli

in

primis,

tra

quelle

presenti

nell’area del Bosco di Santa Lucia. Ci hanno anche detto che non tutte le foto erano state scattate per la precisione all’interno

del

bosco,

ma

che

erano

comunque

rappresentazione della fauna e della flora locale. Questo per farci capire che non c’è bisogno di andare chissà dove per poter ammirare spettacoli naturali anche di un certo rilievo. Sapendo che di lì a poco avremmo finalmente avuto l’occasione di recarci in visita, tutti assieme, all’interno del Bosco, qualcuno di noi si è informato sulla possibilità di poter immortalare con la propria macchina fotografica (o telefono cellulare) alcuni esemplari di quelle specie animali di cui stavamo vedendo le foto in bella mostra. Qui il nostro entusiasmo è stato un po’ smorzato, per quanto gentilmente. Ci è stato detto, infatti, che ogni singolo scatto, eccezion fatta forse per alcuni rarissimi casi fortunati, è frutto di ore di paziente attesa, così come di giorni di inutili appostamenti. Gli animali non sono modelli pronti a mettersi in posa… serve conoscerne le abitudini, rispettarne

i

tempi,

sapersi

ben

nascondere

o

non


mostrarsi come un pericolo. Allora, forse, si riesce anche a realizzare qualche bella inquadratura.

Quel che serve per attirare gli uccelli e poterli poi “comodamente” fotografare… Certo, serve anche essere bravi fotografi… più avanti vedrete che, se forse non siamo bravi in quello, siamo sicuramente dei bei modelli! Ringraziamo allora i signori Andrea Ravagnani, Giordano Cerè, Fabio e Marco Gardosi , che sono coloro che hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro foto per illustrarci meglio e al meglio la natura presente nel bosco.


MATTINATA AL BOSCO Il coronamento, insomma, di tutto il nostro percorso. Un momento atteso più del dovuto, oltretutto, in quanto abbiamo dovuto rimandare più volte la partenza perché il tempo non è che fosse particolarmente bello. Infatti le uscite erano state programmate per svolgersi già durante il mese di aprile, un mese che, però, è stato praticamente piovoso dal primo all’ultimo giorno. Di

settimana

in

settimana,

quindi,

abbiamo

dovuto

aspettare che smettesse di piovere, che il bosco si asciugasse quel minimo da permetterci di camminarci senza sprofondare nel fango. Ma intanto che il terreno si seccava, poi pioveva di nuovo, e così via. Finalmente, però, ma già eravamo a maggio inoltrato, il tempo è tornato clemente, il sole si è fatto vedere con maggior frequenza e così, in giorni diversi e accompagnati classe per classe in pulmino, siamo riusciti ad andare. Molto

opportunamente,

ci

è

stato

consigliato

un

abbigliamento comodo… “Niente giacca e cravatta, dunque…” No, infatti. Anche se qualcuno avrebbe voluto rinnovare, o riciclare, il vestito della cresima, tutti invece ci siamo


presentati con la classica mise da campeggiatore (o da picnic) che si può anche ammirare nella ricca raccolta fotografica delle pagine seguenti. “A me sembra che siate vestiti più o meno allo stesso modo in cui andate a scuola tutti i giorni…” Effettivamente è così. Ma se si guarda bene, si noterà un particolare che ci accomuna tutti e che di solito non indossiamo. “I copri scarpe azzurri?” Proprio quelli. Sembrano quelli che di solito si usano in piscina. Questi però sono più lunghi e resistenti; servono e ci sono infatti serviti per non sporcarci troppo di fango scarpe, calzini, caviglie e pantaloni. Come dicevamo, nei giorni precedenti era piovuto parecchio, quindi il fondo era ancora abbastanza… molliccio. Chi ci ha accolto ha fatto in modo di farceli trovare e indossare prima che iniziassimo la nostra mattinata di esplorazione. “Ho dato un’occhiata alle foto. Direi che non è l’unica cosa che vi è stata fatta trovare, no?” Dopo la camminata, abbastanza stancante per noi abituati a trascorrere le mattine pigramente adagiati sulle sedie e con le gambe sotto i banchi di scuola, per ritemprarci e


recuperare parte delle energie perdute ci è stata offerta, dalla Partecipanza che ha organizzato l’intera uscita, una merenda a base di pizza e crescente. Soprattutto, però, ci sono state mostrate dal vivo e indicate tutte quelle cose che ci erano state spiegate nel corso degli incontri avuti nei mesi precedenti. Vedere il bosco, dopo averne conosciuto le origini, scoperto come

è

stato

piantato,

capito

quanta

utilità

abbia,

compreso la sua importanza ambientale e culturale è stata la chiusura di un percorso. Un percorso che per molti di noi ha rappresentato una vera e propria scoperta che questo opuscolo ha ripercorso dall’inizio alla fine, senza particolari pretese se non quella di suscitare in chi lo legge la curiosità di voler approfondire magari meglio gli aspetti che l’hanno incuriosito di più o che non siamo stati in grado di spiegare sufficientemente bene. Niente più di un piccolo seme che, come succede per le piante del bosco, possa attecchire, crescere e germogliare. Il nostro, di seme, lo abbiamo ricevuto e questo è quello che abbiamo saputo farne crescere. Il futuro dirà quanto altro saremo riusciti a ricavarne.


ALBUM RICORDO

Qualche dubbio prima della partenza‌

Direttamente da scuola, divisi in classi sul pulmino che ha fatto piĂš giri per poterci accompagnare tutti, siamo finalmente partiti in direzione del Bosco.


Collezione calzature primavera/estate 2013‌

Anche se la giornata era bella, riscaldata finalmente da un bel sole ormai quasi estivo, ci siamo dovuti proteggere dal fango provocato dalle abbondanti piogge delle settimane precedenti.


Ho sentito qualcosa muoversi, là dietro‌

Curiosi, abbiamo guardato quanto ci veniva mostrato e ascoltato attentamente ogni cosa che ci veniva spiegata, distratti ogni tanto da tutto quello che ci circondava.


‌andiamo un po’ a vedere!

Abbiamo camminato attraverso i sentieri tracciati nel bosco, facendoci largo anche nell’erba a volte alta, diretti verso macchie di vegetazione che quasi nessuno di noi aveva mai visto prima dal vivo.


M’ama, non m’ama…

Chi già ci aveva illustrato alcune specie vegetali e animali presenti nel Bosco durante gli incontri nelle Sale della Partecipanza, è stato altrettanto paziente nel farlo anche dal “vivo”.


Fateci largo che passiamo noi…

La nostra escursione è stata anche un po’ stancante, soprattutto perché non siamo molto abituati a farne, ma sicuramente divertente e istruttiva.


Immagini di un’esperienza che è stata cibo per la mente…

Abbiamo imparato cose che non conoscevamo e l’abbiamo fatto, per una volta tanto, senza leggerne solo sui libri di testo ma anche avendo la possibilità di vederle e toccarle (con attenzione!).


‌ ma non solo‌

Soprattutto, finita la passeggiata, abbiamo accolto con notevole piacere la possibilitĂ di recuperare parte delle energie disperse facendo una provvidenziale merenda.


… e dopo un po’ di meritato riposo…

Dopo la passeggiata, la merenda, un’ultima sosta prima di fare ritorno al pulmino e, di lì, a scuola. La nostra mattinata didattica diversa dalle altre stava per volgere al termine. Prima di andarcene, però…


‌ foto di gruppo, prima del rientro.

‌ ci siamo raccolti un’ultima volta tutti assieme per immortalare il ricordo della giornata. Coloro che appaiono in questa e in altre foto, sono solamente alcuni degli alunni che hanno partecipato al progetto. Immaginiamo che questa ci raffiguri tutti, li raffiguri tutti e, tutti assieme, vi salutiamo.


SENZA FARE NOMI IN PARTICOLARE, RINGRAZIAMO TUTTI COLORO CHE NELLA SCUOLA MEDIA MAZZINI, UNITAMENTE AI PARTNERS CITATI IN SECONDA DI COPERTINA, HANNO COLLABORATO ALLA REALIZZAZIONE DEL PRESENTE OPUSCOLO E A TUTTO IL PROGETTO DI CUI LO STESSO OPUSCOLO RAPPRESENTA LA SINTESI E IL RISULTATO FINALE. GRAZIE QUINDI AL DIRIGENTE SCOLASTICO, AGLI INSEGNANTI, AL PERSONALE DI SEGRETERIA, AI COLLABORATORI SCOLASTICI. GRAZIE SOPRATTUTTO AGLI ALUNNI DELLE CLASSI PRIME E SECONDE, CHE NEL FRATTEMPO SONO DIVENTATI ALUNNI DI CLASSI SECONDE E TERZE. GRAZIE ALLORA A CHI HA SCRITTO, A CHI HA ASCOLTATO, A CHI HA CAMMINATO, A CHI HA PARTECIPATO, A CHI E’ STATO ATTENTO, A CHI SI E’ DISTRATTO E A CHI SI E’ ANNOIATO. OGNUNO HA DATO IL SUO CONTRIBUTO.


Partecipanza Agraria di Sant’ Agata Bolognese


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