Veli di seta, venti di guerra - Il restauro dello stendardo della Beata Vergine di Fontanellato

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Veli di seta, venti di guerra Il restauro dello stendardo della Beata Vergine di Fontanellato a cura di Marta Cuoghi Costantini


Veli di seta, venti di guerra

Il restauro dello stendardo della Beata Vergine di Fontanellato a cura di Marta Cuoghi Costantini

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La scelta di restaurare un manufatto straordinario Laura Carlini Fanfogna, Marta Cuoghi Costantini

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Il Mediterraneo e la guerra di corsa Davide Gnola

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Lo stendardo di Fontanellato: contesto e committenza Mario Calidoni

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Una bandiera per la Beata Vergine del Rosario Mariangela Giusto

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Nuova vita allo stendardo: storia di un restauro Elisabetta Bertani, Stellina Cherubini, Angela Lusvarghi

AUTORI Elisabetta Bertani, restauratrice, “B Restauro Dorature”, Reggio Emilia; Stellina Cherubini, restauratrice, “R.T. Restauro Tessile”, Albinea (Reggio Emilia); Mario Calidoni, presidente dell’Associazione culturale “Jacopo Sanvitale”; Laura Carlini Fanfogna, responsabile del Servizio musei e beni culturali dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna; Marta Cuoghi Costantini, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna; Mariangela Giusto, funzionario storico dell’arte, Galleria Nazionale di Parma Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza; Davide Gnola, direttore del Museo della Marineria di Cesenatico (Forlì-Cesena); Angela Lusvarghi, restauratrice, “R.T. Restauro Tessile”, Albinea (Reggio Emilia). in copertina: un particolare dello stendardo della Beata Vergine di Fontanellato


La scelta di restaurare un manufatto straordinario

Laura Carlini Fanfogna Marta Cuoghi Costantini

Il restauro non è solo uno strumento per prolungare la conservazione nel tempo di un’opera d’arte o d’artigianato artistico ma rappresenta anche una formidabile occasione per approfondirne lo studio e la conoscenza. È nel corso dei lavori di restauro, infatti, che si creano le occasioni più propizie per esaminare con attenzione tutti gli elementi, eseguire analisi di laboratorio e intraprendere ricerche storiche e documentarie approfondite. Ogni restauro implica dunque necessariamente un percorso lungo e complesso, che coinvolge diverse figure e rappresenta un vero e proprio banco di prova per le maestranze che lo realizzano e gli esperti che ne indirizzano le scelte metodologiche, tenuti a trovare, insieme, specifiche soluzioni, anche di là dalle prassi consuete e collaudate. Questo percorso rappresenta anche un’occasione unica per gli studiosi, ai quali è consentita un’osservazione diretta e ravvicinata dell’opera, osservazione da cui si possono dedurre informazioni preziose. Tutte queste competenze sono rappresentate nel gruppo di esperti che ha promosso e seguito il complesso intervento conservativo realizzato sul grande stendardo da nave del Museo della Rocca di Fontanellato. Restauratori del tessile e delle superfici dipinte, storici, storici dell’arte e rappresentanti di tutte le istituzioni coinvolte hanno collaborato per diversi mesi, animati dallo stesso identico scopo: salvare un manufatto davvero raro ed eccezionale, assicurarne il godimento pubblico e promuoverne la conoscenza. Realizzata con ogni probabilità per la galera di Stefano Sanvitale a metà degli anni Cinquanta del Seicento, la grande bandiera di Fontanellato rappresenta, infatti, una testimonianza storica importante, raffrontabile con i rari esemplari antichi conservati in Italia, come per esempio lo stendardo della Lega Santa sopravvissuto alla battaglia di Lepanto, oggi a Gaeta, e in ambito locale i grandi vessilli del Castello dei conti Zanardi Landi di Rivalta, anch’essi contrassegnati dalla presenza di immagini religiose e simboli araldici eseguiti con tecniche pittoriche. Quando nel 2013 ebbero inizio le prime verifiche preliminari per accertare le reali condizioni di salute della grande bandiera, essa giaceva da anni in un ambiente non idoneo, in una soluzione espositiva che ne metteva a rischio la sicurezza. L’avvio tempestivo di un intervento conservativo, giudicato urgente e improrogabile, fu possibile grazie a un finanziamento dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), che ne ha anche coordinato i lavori in stretta

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Lo stendardo della Beata Vergine di Fontanellato dopo il restauro

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collaborazione con l’amministrazione comunale di Fontanellato e la Soprintendenza per i beni storici artistici ed etnoantropologici di Parma e Piacenza, avvalendosi della partecipazione dell’Associazione culturale “Jacopo Sanvitale”. I brevi saggi ospitati in questo dossier illustrano in modo sintetico ma efficace i momenti salienti del lavoro che si è protratto per diversi mesi ed è stato presentato pubblicamente il 7 marzo 2015 a Fontanellato, nell’ambito di “Prima del museo”, un’iniziativa di sviluppo della rete regionale dei musei a cura dell’IBC. Il contributo di Davide Gnola contestualizza l’eccezionale manufatto nel complesso panorama storico del Mediterraneo della prima metà del XVII secolo, quelli di Mario Calidoni e Mariangela Giusto, a loro volta, ne evidenziano i legami con il territorio parmense e in particolare con la figura di Stefano Sanvitale, formulando inoltre interessanti ipotesi sui modelli iconografici che hanno ispirato l’ignoto autore delle immagini pittoriche presenti su entrambi i lati del vessillo. Infine l’accurata relazione di Stellina Cherubini e Angela Lusvarghi (“R.T. Restauro Tessile” di Albinea) ed Elisabetta Bertani (“B Restauro Dorature” di Reggio Emilia) ripercorre passo dopo passo le fasi più importanti del restauro: dalla rimozione dell’incongrua cornice lignea che bloccava i bordi della bandiera, sottoponendola a dannosissime tensioni, al successivo trasporto in laboratorio, al consolidamento del prezioso damasco di seta cremisi utilizzato come sfondo, al ripristino, là dove necessario, della superficie pittorica nel rispetto delle tecniche originali, sino alla restituzione del manufatto restaurato e al suo ritorno in Rocca. È stata senz’altro questa la fase più delicata e impegnativa di tutto l’intervento, poiché l’intrinseca fragilità dell’oggetto, acuita dalle sue dimensioni eccezionali, ha reso indispensabile la progettazione di una grande teca dotata di un piano inclinato e l’individuazione di un nuovo spazio espositivo dedicato, che coniugasse il rispetto degli standard conservativi a un’esposizione ottimale dell’opera. Il recupero della bandiera si è rivelato dunque un’impresa articolata, che ha implicato scelte impegnative non solo in tema di conservazione e restauro, ma anche in campo museografico. Con l’inserimento di questo manufatto davvero straordinario nel percorso di visita della Rocca, la realtà di Fontanellato, pur così ricca di arte e di storia, si accresce di ulteriore attrattiva per le numerose e interessanti relazioni che la bandiera evoca e che certamente vanno oltre l’ambito del territorio parmense e dell’interesse locale.

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Tommaso Porcacchi, La battaglia di Lepanto, 1576 (Museo navale di Pegli, Genova)

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Il Mediterraneo e la guerra di corsa

Davide Gnola

Lo stendardo conservato nella Rocca di Fontanellato, aldilà della sua effettiva appartenenza alla galea dei Cavalieri di Malta capitanata da Stefano Sanvitale, ha il potere di condurci per richiami e suggestioni nel cuore della storia del Mediterraneo in epoca moderna: un universo estremamente ricco e articolato in cui le “macrostorie” – i movimenti e le tendenze di lungo periodo – si intrecciano con le “microstorie” personali e cittadine; e che ha come teatro il mare, un luogo ancora molto poco esplorato nella sua dimensione culturale.1 Può essere quindi interessante, a contorno dell’importante intervento di recupero e riallestimento di questo manufatto, gettare uno sguardo sul contesto storico evocato dalla sua presenza e dalla sua committenza, che rimanda appunto al ruolo svolto dai Cavalieri di Malta nel secolo centrale di quella contrapposizione che caratterizzò il Mediterraneo tra la fine del XVI e l’inizio del XIX secolo. La battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571, insieme alla definitiva conquista musulmana di Tunisi nel 1574, consolida un nuovo ordine nel quale le coste del Mediterraneo sono suddivise tra gli “stati cristiani” a nord-ovest e l’Impero Ottomano a sud-est, con l’isola di Malta in mano agli omonimi Cavalieri. La vittoria cristiana a Lepanto, nonostante il suo enorme valore simbolico, non provoca tuttavia la cessazione delle ostilità, ma le trasforma in qualcosa di diverso. È una “guerra inferiore”, secondo la definizione di Fernand Braudel,2 che si svolge in modo esteso ed endemico con attacchi e incursioni ai danni dei commerci marittimi e di siti e popolazioni costiere, attacchi che avvengono da parte di navi provenienti da porti sotto il dominio Ottomano, che da quel governo ottengono una legittimazione in grado di trasformare le loro azioni da rapine in mare a opera di “pirati” in atti di guerra condotti da “corsari”, nonostante la confusione tra questi due termini.3 In questa guerra hanno un ruolo primario le cosiddette “Reggenze Barbaresche”, cioè Tripoli, Tunisi e soprattutto Algeri (il Nord Africa era un tempo chiamato Barberia), reggenze di fatto autonome anche se sottoposte all’autorità del Sultano; ma nel conflitto sono molto attivi anche i corsari di base nei porti e nei rifugi naturali della costa adriatica sudorientale, come Valona o Dulcigno. Anche prima del periodo considerato, comunque, il Mediterraneo aveva visto le azioni di corsari famosi come Khayr al-Din Barbarossa e suo fratello Aruj, Dragut, Kemal Raìs detto

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Kamalì, Gaddalì, Kurdoglu, ampiamente presenti nelle cronache e nel folclore: corsari che a volte concludono la loro carriera come ammiragli del Sultano. La guerra di corsa, a ogni modo, non è prerogativa esclusiva dello schieramento ottomano: in un periodo in cui, dopo Lepanto, nessuno sente più l’esigenza di un confronto diretto e risolutivo, questa diventa la modalità “normale” della contrapposizione, affiancata peraltro da molteplici e complicati accordi che i singoli stati stringono con il Sultano per garantire i propri commerci, e che fanno meritare per esempio ai veneziani, da parte di Braudel, la qualifica di “mezzi Turchi” proprio per la loro politica di alleanze. È un’ambiguità che, in definitiva, investe il “motore” stesso dello scambio economico: sono sempre i diplomatici veneziani, molto ben informati e molto spregiudicati nelle loro analisi, a notare come “il dispaccio delle prede è il vero fomite del corso, altrimenti le robbe predate marcirebbero in Barbaria, et il Corsaro, in bottini inutili, si raffredderebbe. [...] Però in Algeri et in Tunesi risiedono mercanti Livornesi, Còrsi, Genovesi, Francesi, Fiaminghi, Inglesi, Giudei, Venetiani e d’altri stati [...]. Questi comperano tutte le robbe predate”. Sono le parole di una corrispondenza scritta nel 1625 dal veneziano Gabriele Salvago, che conclude poi squadernando un campionario della varietà di merci mediterranee: “succheri, droghe, spetiere, stagni, piombi, ferri, vettovaglie, munitioni, legnami, telami, lane, cotoni, sete, pannine, et altre merci preziose: oro, argento, gioie [...] et in somma quanto naviga è, una volta o l’altra, trasportato in Barbaria”. È questo il contesto nel quale agiscono anche le galee dei Cavalieri di Malta, per svolgere un’attività di pattugliamento e repressione in mare che si confonde con una guerra di corsa speculare a quella della controparte. A loro si aggiungono i Cavalieri di Santo Stefano, che hanno la loro base a Livorno, e le navi armate da altri importanti attori del gioco mediterraneo, come Genova e naturalmente Venezia, lo Stato Pontificio (che avrà propri guardacoste) e addirittura, nell’ultimissimo periodo, anche gli Stati Uniti d’America, che proprio contro i corsari barbareschi impiegarono per la prima volta i loro Marines. Stefano Sanvitale ebbe il comando di una galea dei Cavalieri di Malta, conseguendo tra l’altro una vittoria su alcune navi turche, e la galea è appunto la nave che – in varianti cronologiche e locali ma in una costanza tipologica di fondo – frequenta il Mediterraneo dall’età antica, per tutto il Medioevo e l’età moderna, sino alle soglie dell’età contemporanea. Una nave che ha le massime dimensioni compatibili con il suo mare e i suoi marinai (ogni tipologia navale tradizionale è come una creatura vivente originata e condizionata dal suo habitat e dalle sue funzioni): lunga circa 40-50 metri; uno scafo semplice e sottile; un apparato propulsore che condiziona tutto l’aspetto esterno con la sovrastruttura che deve ospitare remi, Sforzati, xilografia da Cesare Vecellio (Degli habiti antichi e moderni rematori, banchi, corsie, aguzzini, e quant’altro; e di diverse parti del mondo, 1590) una vela latina enorme, con un pennone ancora più

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grande, una vela utilizzata però solo per i trasferimenti, lasciando la parola ai remi nelle fasi in cui doveva essere garantita la massima manovrabilità e velocità. La galea non è tuttavia l’unico tipo navale presente in questo periodo in Mediterraneo, e soprattutto non è quello più utilizzato dai corsari, che preferiscono versioni più piccole e agili, semplificate sia nel remeggio che nell’armamento velico, come le galeotte e le fuste: quest’ultimo termine è spesso usato dai contemporanei per definire le navi corsare. Sono anzi spesso proprio i corsari a sperimentare e fare evolvere i tipi navali nella direzione della semplificazione e del frazionamento velico, sino all’abbandono della propulsione a remi, potendo ormai contare su veri e propri piccoli velieri, come gli sciabecchi, in grado di sfruttare al meglio i venti variabili del Mediterraneo.4 Come si è accennato all’inizio, l’effettiva appartenenza dello stendardo di Fontanellato a una galea è allo stato attuale un’ipotesi suggestiva, ma da verificare. Non mancano specialisti in materia di storia navale che si sono occupati in particolare delle galee e degli apparati di bordo, che assumevano un ruolo centrale in un periodo in cui la nave era non solo un veicolo di commercio o uno strumento di guerra, ma anche e soprattutto la visibile rappresentazione del potere dello stato che la armava e del rango del suo comandante. Basti pensare al Bucintoro della Repubblica di Venezia, ma anche alla magnifica peota di rappresentanza dei Savoia, ora esposta alla Reggia di Venaria Reale, o alla galea e all’ampia varietà di caicchi e barche di rappresentanza del Sultano, visibili al Museo navale Deniz di Istanbul. Aldilà del dato storico, è interessante notare i riflessi profondi che questa plurisecolare vicenda ha provocato nella cultura dei contemporanei e soprattutto delle popolazioni costiere. Riflessi che sono ora in gran parte dimenticati nella percezione comune, nonostante siano ancora presenti ampie testimonianze materiali e immateriali di questa storia del mare nostrum (anche se il termine “corsaro”, confuso con quello di “pirata”, evoca ai più reminescenze romanzesche o cinematografiche di ascendenza caraibica o salgariana). Gli archivi di tutte le città costiere, comprese quelle dell’Emilia-Romagna, sono infatti ricchi di serie dedicate a “Fuste barbaresche e contagio”, ed è significativo che venissero riuniti insieme i due maggiori pericoli provenienti dal mare. Queste serie contengono notizie delle incursioni e delle azioni per prevenirle; gli archivi diocesani conservano inoltre la documentazione sulle attività svolte per il riscatto degli schiavi, come lettere di supplica, libretti dove sono annotate le elemosine, bandi e manifesti con i nomi delle persone catturate. Un’ulteriore e suggestiva traccia è quella degli ex voto presenti nei santuari costieri del Mediterraneo, testimonianze che insieme a tempeste, naufragi e altre disavventure mostrano spesso inseguimenti e abbordaggi di navi corsare, o persone “liberate da galera”: una variante, questa, che si ritrova anche negli omaggi votivi delle catene (vere o rifatte) appartenute agli schiavi, corredate dall’indicazione del nome del riscattato, dell’anno, del luogo e della cifra pagata, come si può notare anche nella chiesa di San Girolamo alla Certosa di Bologna.5 Testimonianze del genere dovevano essere un tempo numerose e pervasive, adatte a suscitare nei contemporanei ulteriori elemosine e a rafforzare la percezione dell’azione della Chiesa e delle sue organizzazioni nel non abbandonare i corpi e soprattutto le anime delle persone in schiavitù. Le torri che sorgono pressoché ovunque, caratterizzando il panorama costiero mediterraneo, segnano l’evidenza materiale di quella frontiera che delimita il mare come spazio “ingovernabile” e pericoloso, dal quale occorre difendersi. Torri di guardia e fortezze sono presenti sulle coste sin dall’epoca medievale e anche da prima, ma nel periodo che stiamo considerando, in particolare sul litorale che appartiene allo Stato della Chiesa, divengono l’infrastruttura materiale di articolate e codificate procedure di avvistamento e di allerta.

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Le tracce però più interessanti e suggestive di queste vicende appartengono alla dimensione “intangibile” di una produzione amplissima, che spazia dalle arti “ufficiali” sino a quelle popolari e al folclore. L’italiana in Algeri di Rossini è l’esempio più noto, ma non certo l’unico, di rappresentazione lirica o teatrale ispirata alle vicende corsare e alla schiavitù, una rappresentazione che, in questo caso, tra l’altro, è giocata su un tema, l’harem, capace di solleticare una forte curiosità, com’ è testimoniato anche da un’ampia fortuna pittorica. Il tema degli usi e costumi turchi nutre di suggestioni figurative orientaleggianti il gusto dell’epoca, confluendo abbondantemente anche nelle stampe popolari, nella narrativa, nelle arti decorative. Nel folclore, oltre ad alcuni proverbi (in Sicilia si dice “mentr’hai bon ventu, navica, cursali”), esistono in tutte le regioni che si affacciano sul Mediterraneo molte canzoni popolari che raccontano la paura dell’arrivo “dei Turchi”: fra queste la più nota è senz’altro quella che inizia “all’armi all’armi la campana sona / li Turchi so’ arrivati alla marina”. Risulta curioso, però, vedere come vengano esplorate tutte le possibili articolazioni del tema, riflettendo una realtà ben più complessa della semplice contrapposizione, una realtà in cui l’ipotesi di “farsi Turco” può anche essere l’estremo atto di ribellione verso una vita grama o una delusione d’amore. In definitiva, anche lo stendardo di Stefano Sanvitale a Fontanellato è l’ennesima prova che l’interesse del bene culturale non risiede mai esclusivamente nella sua materialità e nelle sue caratteristiche tecniche e artistiche, per quanto pregevoli, ma si estende all’universo ben più ampio e “immateriale” delle relazioni culturali che esso testimonia ed evoca: in questo caso, una pagina della nostra storia mediterranea suggestiva e interessante, ma non del tutto conosciuta al grande pubblico. Note (1) Questo intervento riprende temi che sono stati oggetto, nell’estate 2014, della mostra “Corsari nel nostro mare”, allestita al Museo della Marineria di Cesenatico, curata dall’autore con la collaborazione di Veronica Pari per la parte archivistica, di Marco Asta per la cartografia nautica, e di Marco Bonino per le tipologie navali: si veda in proposito il volume Corsari nel nostro mare (a cura di D. Gnola, Argelato, Minerva Edizioni, 2014), a cui si rinvia per una bibliografia sull’argomento. (2) F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, volume II, p. 919. (3) “Corsaro” – secondo il Vocabolario marino e militare (1889) di Alberto Guglielmotti, testo di riferimento del lessico navale storico – è il “capitano di bastimento privato che, in tempo di guerra, per patente lettera sovrana, scorre il mare a suo rischio contro navi, merci, e persone del nemico. Termine del diritto internazionale, che distingue il Corsaro dal Pirata, a dispetto di tutti quei sacciuti che han tentato di confondere i due concetti e le due voci, mettendo in un fascio la buona e la mala presa”. (4) Sulle tipologie navali si veda: M. Bonino, Tipi navali usati per la guerra di corsa e per la pirateria in Adriatico, in Corsari nel nostro mare, cit., pp. 51-61, con varie illustrazioni e disegni. (5) Si veda: G. Ricci, Catene, figure e reperti della redenzione degli schiavi, in L’iconografia della solidarietà. La mediazione delle immagini (secoli XIII-XVIII), a cura di M. Carboni e G. Muzzarelli, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 209-217.

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Ex voto degli inizi del secolo XVIII: la figura orante offre le sue catene alla Madonna, mentre una scritta illustra il motivo del voto: “liberato da galera� (Santuario di Santa Maria del Monte, Cesena)

Vendita di una schiava, incisione attribuita a Giuseppe Maria Mitelli, secolo XVIII (Archivio fotografico Giancarlo Costa, Milano)

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Lo stendardo di Fontanellato: contesto e committenza Mario Calidoni

Nel 1600 quella dei Sanvitale è una famiglia potente all’interno del Ducato di Parma e Piacenza, nato nel 1545 per volere di papa Paolo III e governato dai Farnese.1 I suoi feudi nel territorio parmense e i suoi possedimenti in città sono numerosi; contrasta il potere centrale farnesiano con un’accorta politica di espansione e nel contempo di servizio, così da poter essere considerata, come dice lo storico Giorgio Chittolini, una delle piccole corti padane che punteggiano il contesto parmense. Le piccole corti dei Sanvitale sono diffuse sul territorio e manifestano la loro forza ed eleganza nei castelli di monte, di collina e di pianura, con dinastie ramificate da Sala Baganza a Belforte, sino ai Sanvitale di Fontanellato che sono il ramo estinto nel 1951. Alessandro Sanvitale (1573-1635) – il padre di Stefano, che è il committente dello stendardo della Vergine – ha i titoli di conte di Fontanellato (il feudo rurale più importante della pianura), ambasciatore della Casa Farnese a Firenze e governatore delle armi del Ducato a Piacenza. È altresì il primo proprietario del Palazzo Sanvitale, ancora oggi uno dei palazzi più prestigiosi di Parma, che ha ospitato tra gli altri Napoleone e il papa Pio VII. Alessandro è anche colui che, grazie alle sue benemerenze per la devozione alla Casa Farnese, poté riacquistare dalla Camera Ducale la metà del castello di Fontanellato che era stata confiscata al cugino Alfonso nel 1612 per la “gran giustizia”, riunendo così, in questo luogo, l’intera signoria dei Sanvitale. Alfonso era il cugino di quella Barbara Sanseverino, sposa di Giberto IV Sanvitale, che era stata considerata a capo di una congiura di nobili tesa a togliere di mezzo il duca Ranuccio. L’ira del duca, una volta scoperta la trama, fu terribile: il 4 maggio 1612 il processo terminava con la condanna a morte di tutti i presunti colpevoli e la confisca dei loro beni, e il 19 maggio Barbara e altri nove cospiratori furono decapitati nella pubblica piazza di Parma, su un palco montato a ridosso del Palazzo dell’Uditore Criminale, oggi all’angolo fra piazza Garibaldi e strada della Repubblica. Passata questa burrasca di inizio secolo, i Sanvitale non solo tornarono alla loro potenza ma la aumentarono, grazie a una duplice strategia. Capirono che l’autorevolezza e la forza potevano essere conseguiti non solo in loco, proseguendo nei servizi ai Farnese, ma anche con l’assunzione di cariche nella Chiesa Romana e rivestendo un ruolo rilevante nel cavalierato di Malta, ritenuto un importante presidio contro l’espansione ottomana dopo la grande vittoria di Lepanto che,

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“grazie alla protezione della Vergine”, aveva salvato dal pericolo turco l’intera Europa. Così, due figli di Alessandro, Stefano (1627-1709) e Giovanni (1631-1678) divengono cavalieri di Malta, il nipote Antonio Francesco (1660-1714) viene fatto vescovo di Urbino e cardinale di San Pietro in Montorio, e lo zio Galeazzo Sanvitale (1589-1622) è referendario di segnatura di Clemente VIII e muore appena prima di essere creato cardinale da Gregorio XV. Entro questo ambito familiare e storico si colloca dunque la figura del cavaliere di Malta Stefano Sanvitale, che è la figura chiave per capire come mai uno stendardo da nave possa essere finito in un castello di pianura, rappresentando, in questo ambiente, un oggetto solo apparentemente fuori contesto. Luigi Alessandro Tirelli, in un manoscritto inedito del 1764 in cui racconta “genealogia e gesta dell’eccellentissima Casa de’ Conti Stefano II Sanvitale, Cavaliere di Malta, anonimo del XVIII secolo, Sanvitale”, così descrive il personaggio: olio su tela (Rocca Sanvitale, Fontanellato, Parma) “Steffano di Sanvitale, cavagliere di Malta, professò li 9 giugno 1651, fu Capitano della Galera San Nicola nel 1654, ebbe la commenda dei santissimi Guglielmo e Damiano in Pavia con altra di San Giovanni in Capo di ponte a Parma nel 1676”. Il 16 luglio dello stesso anno “fu eletto dal Gran Priore di Venezia per suo luogotenente in detto Priorato”. Il 7 settembre “ottenne un’altra commenda de’ Santi Simone e Giuda sul Parmeggiano”. Si prosegue con un elenco di altre commende, tra cui quella di “Ricevidore della Religione del Priorato di Venezia li 16 dicembre 1671”. Quindi “conseguì il Priorato e il Bailaggio di Sant’Eufemia li 12 ottobre 1699 e li 13 fu creato Cavagliere Gran Croce”. Infine, “carico d’anni e di meriti cessò di vivere nel 1709 li 23 luglio.” Come si vede, un’intera vita dedicata all’Ordine, con impegni anche in mare, a capo di una galera da combattimento dove forse lo stendardo della Vergine aveva garrito al vento, in battaglia o in parata al momento del rientro in porto. Abbiamo notizia dell’aspetto strettamente militare delle sue missioni nella “Marina del Sovrano militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta”, dove si ricorda il ruolo della galera “San Nicola” nella guerra di Candia. Questo conflitto, la “Quinta guerra turcoveneziana”, vide in campo dal 1645 al 1669 la Repubblica di Venezia e i suoi alleati – i cavalieri di Malta, lo Stato della Chiesa e la Francia – contro l’Impero ottomano per il possesso dell’isola di Creta (in veneziano chiamata Candia). Nonostante la maggior parte di Creta fosse in mano agli ottomani nei primi anni di guerra, Candia (la moderna Iraklion), capitale dell’isola, resistette con successo. Il suo prolungato assedio comportò l’invio di rifornimenti e diversi momenti di scontro. In particolare si ricorda come il 23 giugno 1656, all’uscita dai Dardanelli, la flotta ottomana – composta da 70 galere,

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9 maone (un tipo di nave turca a tre alberi) e 29 navi da trasporto – si fronteggiò per alcuni giorni con la flotta cristiana, sino allo scontro finale, durante il quale la galera capitanata da Fra Carlo Gattola catturò 4 galere, la “Lascara”, galera magistrale, capitanata da Fra Baldassarre Demandols, prese una maona, e la “San Nicola”, capitano Fra Stefano, conte Sanvitale, una galera. Il Gran Maestro dell’Ordine di quel periodo era appunto Fra Giovanni Paolo Lascaris e nella sua flotta era il conte Stefano. Lo stendardo, per questo, accanto al grande stemma dell’Ordine di Malta e a quello della famiglia Sanvitale, riporta lo stemma del Gran Maestro Lascaris, inquartato con due croci e due aquile bicipiti. Ma il documento più significativo che lega Stefano allo stendardo è una nota spese del 1654, conservata all’Archivio di Stato di Parma: “nota delle spese fatte in Parma dall’Illustrissimo Conte Stefano San Vitale in diverse cose in servizio per la Galera”, dove si dice Biografia di Stefano II Sanvitale, particolare del ritratto esplicitamente che furono “spesi nello stendardo da conservato nella Rocca Sanvitale, Fontanellato, Parma Galera da combattere 150 soldi di Parma”. Il documento poi prosegue con l’elenco dettagliato di tutti gli approvvigionamenti necessari per la nave, che probabilmente salpava verso l’isola di Creta. Così, anche in una nota dell’anno successivo, si specifica di spese “per servizio della Galera San Nicola dell’Illustrissimo Conte San Vitale capitano”, a indicare il fatto che il suo impegno militare si realizzò con diverse missioni. Una volta cessato l’impegno militare, come si è detto, il coinvolgimento nell’Ordine continuò con diversi incarichi di priorato. A Parma si deve al conte Stefano Sanvitale l’erezione, nel 1688, della grande facciata della chiesa di San Francesco di Paola, allora spettante ai Cavalieri di Malta, oggi sede della Biblioteca Universitaria. Il suo ritratto, nella “Galleria degli antenati” del castello di Fontanellato, lo raffigura con la croce del cavalierato in primo piano; la breve biografia che lo affianca dice, tra l’altro, che “conquistò navi e insegne turchesche, poi fu ricevitor di Malta in Venezia”. Quindi “possedè commende di grazia e giustizia” e infine “fu sepolto in Santa Croce di Fontanellato nella sepoltura di sua casa”. Se quindi lo stendardo della Vergine di Fontanellato sventolò su una galera nel Mediterraneo, in battaglia o in parata, lo si deve proprio a Stefano Sanvitale. Si pone ora il problema di capire se e come fosse effettivamente adoperato a bordo di una nave, esposto alle intemperie, e poi di appurare come si sia conservato e in che modo sia arrivato nel castello di Fontanellato. Non sono stati sinora stati trovati documenti specifici su questi suoi viaggi per mare e per terra; si sa per certo che al momento del passaggio della Rocca alla proprietà pubblica, nel 1948, lo stendardo era esposto in tutta la sua maestosità nel salone delle armi, abbinato quindi alla famosa raccolta di armi del conte Ottavio (1548-1589), che rappresentava sin dal 1500 un motivo di orgoglio per i Sanvitale: segno che, evidentemente, anche lo stendardo veniva considerato come parte delle memorie di guerra della famiglia. Successivamente venne collocato nell’oratorio, in una posizione che lo rendeva quasi del tutto invisibile e che lo ha portato a un degrado tale che, se non si fosse intervenuti con il restauro, il rischio di perdita era concreto. Ma è proprio l’oratorio, probabilmente, il luogo cruciale per

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capire il senso di questo fragile tessuto di seta cremisi. Il conte Alessandro (1645-1727), nipote di Stefano, aveva trasformato un’antica legnaia del castello in cappella e nel 1678 l’aveva dedicata a San Carlo Borromeo. Il cronista Carlo Giuseppe Fontana, nel 1696, descrive nel dettaglio questo luogo ma non fa cenno ad alcuno stendardo; meraviglia, comunque, il fatto che la figura di San Carlo ricorra sia nella pala d’altare che nello stendardo, come nei drappi cremisi e negli addobbi in tessuto: “Il suo altare” – scrive Fontana a proposito dell’oratorio – “è costrutto di fini marmi con vaga architettura sull’ordine corinzio. Nel mezzo stavvi raccolto in liscio cordone un quadro esprimente il santo Borromeo [...]. Accresce la maestà dell’altare un baldacchino di vago dommasco chermisi, e dorato, da cui pendono i drappelloni guarniti di serica frangia ben accordata col drappo”.

Nota delle spese fatte in Parma dal Conte Stefano Sanvitale in diverse cose a seguito dalla Galera 1654: “Spesi nel stendardo da Galera da combattere 150 soldi di Parma” (Archivio di Stato di Parma, Archivio Sanvitale, busta 742)

Una volta arrivato a Fontanellato, lo stendardo sarà certamente stato collegato a questo luogo di devozione, probabilmente dopo le avventure in mare, anche solo come grande stendardo di parata. Forse fu prima conservato nella sede cittadina dell’Ordine di Malta, che aveva un ospedale a fianco della chiesa di spettanza dell’Ordine già dal XIII secolo, poi passata ai frati Minimi nel 1600. In ogni modo, la sua “messa a dimora” nel castello Sanvitale di Fontanellato, oltre che per la committenza, ha piena legittimità anche per gli aspetti simbolici e iconografici della parte dipinta. San Carlo Borromeo è titolare della cappella di cui si è detto e, per il santo, la famiglia aveva una devozione particolare; la Madonna del Rosario del vicino santuario a lei dedicato – “a un tiro di balestra dalla Rocca”, dicono i documenti – è raffigurata con l’abito della sua prima incoronazione nel 1660, ma era venerata in questo luogo dal 1615; infine – come dimenticarlo? – San Giovanni, che è raffigurato nel lato non visibile dello stendardo, è patrono dei cavalieri dell’Ordine di Malta. Nota (1) Sulla famiglia Sanvitale sono numerose le pubblicazioni, a partire da quella di Pompeo Litta sulle Famiglie celebri d’Italia (Milano, 18191853). Sui Farnese e sui loro rapporti con i Sanvitale è fondamentale il recentissimo quarto volume della Storia di Parma (Parma, Monte Università Parma Editore, 2014). Per le ricerche su Stefano Sanvitale cavaliere di Malta sono risultate fondamentali le indicazioni di padre Costantino Gilardi, che ha fornito informazioni attinte dall’Archivio e dalla Biblioteca Granmagistrali dell’Ordine di Malta di Roma. Immagine della Vergine di Fontanellato (stampa, 1682)

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Una bandiera per la Beata Vergine del Rosario Mariangela Giusto

Grazie al finanziamento dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, è stato finalmente possibile avviare il complesso restauro del grande drappo di damasco in seta rossa, lacerato in molte parti, conservato nella cappella del castello di Fontanellato, già maniero dei conti Sanvitale. Il restauro è stato affidato alla ditta “R.T. Restauro Tessile” di Albinea (Reggio Emilia), mani esperte in materia di patrimonio tessile, e, per la parte pittorica, alla competenza di Elisabetta Bertani, della ditta “B Restauro Dorature” di Reggio Emilia. La delicata operazione di recupero ha svelato un oggetto unico nel suo genere per la particolarità delle dimensioni e per i caratteri figurativi delle immagini dipinte a tempera su entrambi i lati, che ha suscitato curiosità sulla destinazione originale dell’opera e della sua committenza, ascrivibile senza dubbi a un personaggio della famiglia Sanvitale vissuto alla metà del XVII secolo. Indubbiamente si tratta di uno stendardo, o bandiera a fiamma, simile a quelli posti sugli alberi delle galere. Siamo stati persuasi che servisse a quell’uso grazie alla collaborazione del domenicano padre Costantino Gilardi di Genova,1 che ha reperito documenti storici permettendoci di individuare gli stemmi dipinti sullo stendardo, in posizione privilegiata al centro di ogni lato; in particolare quello inquartato con due aquile nere e due croci bianche su campo rosso, riconosciuto senza alcun equivoco come appartenente a Fra Giovanni Paolo Lascaris di Castellar, Grande Maestro dell’Ordine di Malta dal 1636 al 1657, al comando della flotta cristiana nella lunga guerra di Candia. Il Gran Maestro Lascaris apparteneva al ramo dei conti di Ventimiglia e nel suo monumento sepolcrale, conservato nella cattedrale di San Giovanni alla Valletta, è possibile ritrovare l’identico stemma araldico.2 Oltre a questo blasone, nello stendardo troviamo “la croce d’argento su campo rosso” dell’ordine dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi e di Malta, e in basso anche lo scudo gentilizio dei Sanvitale, riferibile a Fra Stefano, figlio del conte Alessandro e di Margherita dei Rossi di San Secondo, accettato tra i cavalieri dell’Ordine di San Giovanni nel 1651 e nominato nell’agosto del 1654 capitano della galea di “San Nicola”, che si scontrò con la flotta turca presso i Dardanelli.3 Un illustre personaggio della nobile casata, di cui possiamo ammirare le sembianze nella galleria dei ritratti degli antenati, in un ritratto di anonimo di discreta qualità; dopo il ruolo di capitano

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Lo stendardo della Beata Vergine di Fontanellato: in alto, l’immagine della Beata Vergine del Rosario con il GesÚ Bambino sulle nubi; in basso, in atto di venerazione, San Carlo Borromeo, con un putto che regge il cappello cardinalizio

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della galea, nel 1657 fu fatto “Ricevitore della Religione” del priorato di Venezia e nella sua lunga vita (morì nel 1709) ricevette molte commende e assolse importati incarichi in seno all’ordine dei Gerosolimitani. Lo stendardo, verosimilmente, apparteneva a lui, anche se sembra poco probabile che questa bandiera abbia solcato i mari e sia stata esposta al vento e alle intemperie. Sembra più uno stendardo da parata, destinato a essere visto su entrambi i lati, fissato a un’asta in corrispondenza della zona in cui sono state dipinte le figure, mentre la “punta” della fiamma, forse di dimensioni maggiori di quelle attuali, era libera di sventolare. Durante la lunga permanenza dello stendardo nella cappella del castello, almeno dagli anni Ottanta del XX secolo, la bandiera era stata ingabbiata in una cornice lignea e addossata al muro, tanto da permetterne la lettura di un solo lato: quello in cui troviamo, alla sommità, l’immagine della Beata Vergine del Rosario con il Gesù Bambino sulle nubi, ai cui piedi, in atto di venerazione, compare in una posa elegante San Carlo Borromeo, con un putto che regge il cappello cardinalizio. Sul lato non visibile, svelatosi solamente dopo che lo stendardo è stato collocato a terra per il restauro, in corrispondenza dell’immagine della Vergine, in un cono di putti, è apparsa la raffigurazione di Dio Padre sulle nubi che dall’alto apre le braccia verso l’umanità; nello spazio speculare rispetto a quello occupato dal San Carlo, l’anonimo pittore ha dipinto la figura seminginocchiata di San Giovanni Battista, con la croce e l’agnello. Una bandiera che, quindi, fa riferimento all’ordine dei Cavalieri di Malta e alla venerazione che Fra Stefano aveva verso l’immagine della Beata Vergine del Rosario di Fontanellato, il cui culto era stato da sempre sostenuto dalla famiglia Sanvitale.4 Era stata la contessa Veronica Sanvitale a far costruire, nel 1512, una chiesa dedicata a San Giuseppe per sviluppare la pietà mariana grazie all’arrivo a Fontanellato di un piccolo nucleo di Domenicani; dopo la Controriforma, nel 1592, l’ordine decretò la creazione di confraternite del Rosario e la chiesa di Fontanellato fu una delle prime a essere ampliata e rinnovata nel culto. Nel 1615 era stato realizzato un nuovo simulacro della Vergine, con abiti di stoffa: ancora oggi viene venerata nel Santuario a lei dedicato, meta di continui pellegrinaggi; con il tempo, anche per i miracoli che la fede popolare le ha riconosciuto, la comunità parmense ne ha diffuso il culto, mantenendone viva la venerazione. La Vergine regge sul braccio sinistro il Gesù Bambino ed è stata intagliata nel legno come se fosse una statua a tutto tondo. Il forte impatto realistico è dovuto all’acconciatura di capelli veri e all’abbigliamento creato con tessuti preziosi, ora prevalentemente chiari, con sontuosi ricami in sete policrome e d’oro. In passato questa sacra icona dovette avere invece un abito rosso con ricami dorati, come testimoniano le antiche immagini dipinte di centinaia di ex voti conservati nel Santuario e questa preziosa raffigurazione in grande “scala” dipinta nello stendardo, da ritenersi indubbiamente l’iconografia più antica, resa come immagine celestiale, sospesa sulle nubi, con ai piedi alcuni piccoli cherubini.5 L’abito che indossa nello stendardo è di foggia barocca, sia per il disegno delle maniche gonfie e larghe ai polsi, sia per il disegno minuto a carattere vegetale del tessuto rosso e sia per il motivo a più bande dorate della bordura sull’orlo, che prosegue in verticale anche al centro della gonna. Dal capo della Vergine scende un velo di colore blu fermato da una corona dorata, simile a quella posta sul capo del Bambino Gesù, abbigliato con veste bianca. Alla sommità, due angeli in volo reggono una corona di fiori. Durante la grande peste del 1630, la statua della Beata Vergine di Fontanellato fu temporaneamente trasferita a Parma, a protezione della città, e nel 1670 nella piazza del Duomo venne rinnovata solennemente la sua incoronazione a Regina alla presenza dei duchi Farnese.

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Interessante è l’accostamento dell’immagine di San Carlo Borromeo, dipinta ai piedi della Madonna del Rosario, in uno spazio che sarebbe stato più destinato a un santo domenicano: una scelta che testimonia indubbiamente la particolare venerazione che i Sanvitale ebbero per “San Carlone”, così particolare da intitolargli anche la cappella del Castello, sul cui altare collocarono nel 1688 un pregevole dipinto del senese Antonio Nasini raffigurante San Carlo Borromeo che unge gli appestati. San Carlo Borromeo era stato canonizzato nel 1610 e il suo culto si era ben presto propagato anche in Emilia, dove aveva più volte sostato, anzi forse i Sanvitale ne rivendicavano una lontana relazione di parentela, in quanto la sorella del santo, Camilla Borromeo, aveva sposato Cesare Gonzaga, signore di Guastalla, che discendeva dal ramo di Paola Gonzaga, contessa di Fontanellato. Il modello iconografico adottato nello stendardo dall’anonimo pittore, tuttavia, è copiato, nella posa e nel dettaglio del putto che regge il cappello cardinalizio, dalla figura di santo dipinta da Carlo Francesco Nuvolone nella tela del 1647 realizzata per la chiesa di Santa Maria della Neve in Parma, appartenente alle Cappuccine vecchie;6 la tela, raffigurante L’immacolata con ai piedi San Carlo Borromeo e San Felice da Cantalice, dopo le soppressioni napoleoniche è stata conservata presso la Galleria Nazionale di Parma.7 Era un quadro pubblico, che doveva aver suscitato curiosità per la bellezza dei colori e la vivacità delle pennellate ed è probabile che la scelta di riprenderne la posa fosse dettata da semplici motivi devozionali. Nello stendardo, l’immagine di San Carlo ha tutt’altro carattere e la resa pittorica è costruita su volumi più plastici e levigati. Non possiamo pensare che lo stendardo sia il frutto della stessa bottega dei Nuvolone, maestri di origine cremonese, ma è comunque interessante avvertire, anche nelle figure di Dio Padre e di San Giovanni Battista dipinte sul retro, alcune componenti di gusto lombardo. Anzi, il gruppo compatto del Padre ha ancora caratteri tardocinquecenteschi, di un artista che ha l’esigenza di rispettare lo spazio dipinto occupato dalla Madonna sull’altro lato e, dovendo riempiere la stessa superficie, adotta una soluzione figurativa “antica”, senza fare “passare” i colori sul tessuto, non avendo preparato la tela, per non appesantire il damasco. Più moderna è la figura del San Giovanni Battista, forse anch’essa copiata da un dipinto non noto o forse tratta da una stampa, tuttavia condotta con serenità ed eleganza, nel disegno “ritagliato” sul rosso del tessuto di base della bandiera. A quando risale questo stendardo? È verosimile che sia stato eseguito intorno al 1654, come si evince tra le note di spese fatte a Parma dal conte Stefano rintracciate nell’Archivio di Stato (“spesi nello stendardo da Galera da combattere 150 soldi di Parma”), sempre che sia questo l’oggetto in questione, e in ogni caso rimangono i dubbi su una sua effettiva esposizione ai venti marini. Il Gran Maestro Lascaris morì comunque nel 1657 e quindi sembra poco probabile che la bandiera possa risalire a una data posteriore. Durante il restauro, come già accennato, lo stendardo ha rivelato anche un’altra particolarità, purtroppo conservata solo in minima parte: su tutto il margine della bandiera era dipinta in oro una bordura a caratteri vegetali, conservatasi solo nelle parti che erano state ripiegate e montate dentro alla cornice lignea adottata in anni relativamente recenti. Il gusto della decorazione richiama i ricami barocchi in uso anche nell’abbigliamento civile e, cosa curiosa, ritroviamo un motivo molto simile nel costume indossato da Giulia Bonfanti, moglie di Carlo Beccaria, tesoriere dei Farnese, nel ritratto che le fece Carlo Francesco Nuvolone, conservato presso la Galleria Nazionale di Parma.8 Forse un altro tassello stilistico utile per ricercare l’anonimo autore dello stendardo tra le maestranze padane sensibili alle esperienze lombarde.

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Note (1) Nell’ottobre del 2006, durante una visita al Castello di Fontanellato, padre Gilardi rimase colpito dall’iconografia della bandiera e si impegnò a cercare notizie in merito agli stemmi e a Stefano Sanvitale nell’Archivio e nella Biblioteca Granmagistrali dell’Ordine di Malta a Roma. Ricerche che diedero frutto: la documentazione derivata fu poi trasmessa al Comune di Fontanellato, che gentilmente ne diede notizia a colei che scrive. (2) U. Mori Ubaldini, La marina del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, Roma, Regionale editrice, 1971, pp. 401-403. (3) U. Mori Ubaldini, La marina del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, cit., pp. 402, 407, 576. (4) Sul culto della statua di Fontanellato e sulla tradizione delle Madonne con abiti di stoffa a Parma e Piacenza, si rimanda a un’ampia ricerca condotta da chi scrive e raccolta in un volume di contributi vari: Vestire il sacro. Percorsi di conoscenza, restauro e tutela di Madonne, Bambini e Santi Abbigliati, a cura di Lidia Bortolotti, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna - Editrice Compositori, 2011, pp. 103-116. (5) M. Calidoni, Regina Coeli Laetare. Antichi ex voto: immagini di vita e di fede tra il 1600 e il 1700, 2006 (catalogo della mostra allestita nella Pinacoteca della Rocca dei Sanvitale a Fontanellato, 30 settembre - 29 ottobre 2006). (6) Una chiesa che esisteva un tempo in strada San Michele e che fu demolita per fare poi spazio all’ospizio di maternità. Nel 1653 la chiesa era stata rinnovata dall’architetto Giovan Battista Magnani ed era stata arricchita da tre dipinti: oltre a quello del Nuvolone, conservava la tela del Guercino raffigurante La Madonna con i Santi Francesco e Chiara, anch’essa in Galleria a Parma, e una Santa Maria Maddalena del Bolognini. (7) Per il dipinto si rimanda al volume: Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Seicento, a cura di L. Fornari Schianchi, Milano, Franco Maria Ricci, 1999, pp. 88-90; F. M. Ferro, Nuvolone, una famiglia di pittori del ’600, Soncino (Cremona), Edizioni dei Soncino, 2003, pp. 199200. (8) M. Giusto, Il ritratto pubblico e privato nel Seicento a Parma e a Piacenza, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, a cura di J. Bentini e L. Fornari Schianchi, tomo II, Bologna, Credito Romagnolo, 1993, pp. 183-193.

Lo stendardo della Beata Vergine di Fontanellato: un particolare con il putto che regge il cappello cardinalizio

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Carlo Francesco Nuvolone, L’immacolata con ai piedi San Carlo Borromeo e San Felice da Cantalice (olio su tela, 1647) – su concessione del Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo - Galleria Nazionale di Parma

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Lo stendardo della Beata Vergine di Fontanellato inizia il suo viaggio verso il laboratorio di restauro

Stellina Cherubini risarcisce una vistosa lacuna del fondo dello stendardo, con inserto in taffetas tono su tono

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Nuova vita allo stendardo ritrovato: storia di un restauro

Elisabetta Bertani Stellina Cherubini Angela Lusvarghi

Descrizione dello stendardo Lo stendardo della Beata Vergine conservato nella Rocca di Fontanellato misura centimetri 314 x 480 ed è formato dall’unione di 6 teli di damasco di seta cremisi con disegno a piccole “mazze” e melagrane stilizzate. Sulle due facce della bandiera sono presenti immagini sacre, dipinte con tecnica mista a tempera rinforzata a olio nei panneggi e negli incarnati e priva di preparazione. Sul fronte: la Madonna di Fontanellato (con la veste rossa corrispondente alla prima iconografia con cui è rappresentata), San Carlo Borromeo con angeli e cherubini. Sul retro: Dio Padre con trionfo di angeli e cherubini e San Giovanni Battista con l’agnello. In entrambi i lati sono presenti gli stemmi della famiglia Sanvitale, dell’ordine di Malta e del Gran Maestro Lascaris. Le dorature presenti nelle aureole, nelle corone e nel motivo floreale del perimetro sono eseguite a ”missione” con posa di foglia d’oro zecchino. Analisi accurate della superficie pittorica hanno evidenziato alcune particolarità esecutive. L’artista, per realizzare i dipinti, si è avvalso di cartoni preparatori e ha tracciato il profilo delle figure con una vernice oleo-resinosa (trasparente), visibile solo a illuminazione con raggi ultravioletti. Nel contorno di alcuni soggetti, infatti, si nota una “bordatura” priva di colore, causata dall’incompatibilità della vernice, utilizzata come traccia, con la pittura stessa, incompatibilità che con il tempo ne ha provocato il progressivo distacco. Le sagome dipinte sul fronte ricalcano perfettamente quelle sul retro: l’autore, infatti, ha rigorosamente rispettato i medesimi spazi tra tessuto a vista e tessuto dipinto, in entrambi i lati. Questo accorgimento permetteva la corretta visione delle immagini anche in controluce ed eliminava eventuali fastidiosi effetti di ombre in trasparenza quando lo stendardo veniva esposto per essere visto sui due lati. Stato di conservazione Il restauro dello Stendardo della Vergine presentava difficoltà d’intervento molto particolari, sia per lo stato di conservazione decisamente critico, che per le sue caratteristiche costitutive: un supporto di seta molto fragile, pesantemente penalizzato da grossolani interventi precedenti,

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con tensioni localizzate non uniformi, dovute all’alternanza del damasco a vista con le aree dipinte; una pittura a tecnica mista, priva di preparazione, eseguita nel fronte e nel retro utilizzando la stessa sagoma ma dipingendo due differenti scene sacre: quindi l’impossibilità, durante le fasi di lavoro, di verificare contemporaneamente lo stato del dipinto sottostante e di supportarlo dal retro, come si fa tradizionalmente; le notevoli dimensioni dell’oggetto, che rendevano molto difficoltosa la sua movimentazione. Il metodo espositivo dello stendardo, trattenuto da chiodi e colla vinilica entro doppia cornice lignea, realizzata per rispettarne l’originaria visibilità su due lati, aveva lungamente bloccato sui margini il naturale adattamento della seta sottoposta a escursioni termiche e variazioni di umidità. Le dannose tensioni generali così accumulate hanno provocato o accentuato nel tempo le lacerazioni della superficie tessile e di quella pittorica, già indebolite da umidità, polvere, esposizione alla luce e urti accidentali. La natura polimaterica del manufatto ha costituito un’occasione preziosa di studio e collaborazione tra due diverse competenze tecniche e manuali specialistiche: restauro pittorico e restauro tessile. L’intervento, fin dalla sua progettazione, si è svolto nel rispetto reciproco dei tempi e delle modalità operative delle maestranze coinvolte, divenendo un fattivo lavoro di équipe. Queste diverse figure professionali, operando in sinergia, hanno perseguito gli obiettivi finali: riparare i numerosi danni (tagli, deformazioni, cuciture, incollaggi), prolungare il più possibile la vita dei materiali costitutivi, restituire nel contempo una migliore integrità visiva all’opera.

Elisabetta Bertani esegue il ritocco pittorico sull’immagine di San Carlo Borromeo con colori a pastello

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Intervento di restauro L’intervento – realizzato dalle ditte “R.T. Restauro Tessile” di Albinea (www.restaurotessile.it) e “B Restauro Dorature” di Reggio Emilia (www.brestauro.it) – si è proposto di restituire solidità al tessuto di seta, molto fragile e disidratato, e di ricrearne la continuità estetica, garantendo alle immagini dipinte un supporto resistente ma al contempo non intrusivo, vista la natura bifacciale del dipinto. Questo ha comportato una ricerca specifica per individuare un intervento idoneo a mantenere la piena visibilità di entrambe le figurazioni sacre presenti sui due lati: l’applicazione sul retro di supporti trasparenti in velo di seta, adeguatamente tinti e ritoccati è stata la soluzione individuata per rinforzare gli innesti in maniera mimetica, conciliando le esigenze tecniche delle due diverse discipline di restauro. Dopo le operazioni di eliminazioni delle toppe incongrue, la pulitura e distensione del tessuto, le parti lacunose presenti su tutta la superficie dello stendardo sono state risarcite mediante applicazione di supporti locali in taffetas opportunamente tinti e sagomati. Nella parte dipinta gli innesti sono stati precedentemente trattati con appretto di colla per meglio accogliere il ritocco pittorico. L’applicazione di veli di seta tinti nelle diverse gradazioni cromatiche, in tono sia con il fondo che con le parti del dipinto compromesso, ha consentito di adeguare gli innesti alle differenti zone di applicazione. Con la medesima tecnica sono stati risarciti tutti i punti frammentati della cornice floreale realizzati con doratura a missione. I tagli presenti sulla superficie dipinta sono stati innestati con fili in seta dello stesso colore dell’originale, inseriti a riempimento delle fessurazioni per creare una base continua, adeguata a ricevere il successivo ritocco pittorico. È stata riservata una particolare attenzione allo stemma della famiglia Sanvitale, il cui scudo appariva mancante della parte inferiore: studiando fonti iconografiche specifiche, in accordo con la direzione dei lavori, si è voluto suggerire il completamento della forma mediante veli sottotono, poi ritoccati a pastello nei dettagli. L’ottima esecuzione della tecnica pittorica ha assicurato nel tempo una buona adesione al supporto in seta, consentendo di ridurre al minimo l’invasività dell’intervento, nonostante la superficie dipinta fosse estremamente discontinua a seguito delle numerose sollecitazioni meccaniche subite, causa di lacerazioni e graffiature. L’autore dell’intervento ha infatti evitato di appesantire il delicato tessuto di seta con la tradizionale preparazione a base di gesso di Bologna e colla animale, ma ha solamente apprettato la superficie con colletta per poi dipingevi direttamente. Questo accorgimento ha permesso di ridurre al minimo le differenti tensioni tra tessuto dipinto e tessuto a vista; inoltre ha mantenuto la pittura più elastica, consentendole di seguire le numerose sollecitazioni subite durante l’esposizione. In accordo con la direzione dei lavori, il risarcimento pittorico con pastelli specifici è sembrato il metodo più adeguato per restituire continuità visiva. Non era infatti possibile intervenire con alcun medium acquoso impossibile da controllare sul retro. Problemi espositivi Anche dopo il delicato intervento di restauro, lo stendardo rimaneva un manufatto estremamente fragile e pesante, da non esporre in verticale ma su pannello inclinato a 45 gradi: un accorgimento necessario per evitare danni futuri. Questa opzione ha comportato la visione finale di uno solo dei due lati: per l’importanza e la valenza devozionale di vessillo mariano è stata scelta l’immagine della Madonna. Il piano di appoggio è costituito da una superficie forata rivestita di tessuto ignifugo che consente la traspirazione anche nella parte retrostante, con l’effigie di Dio Padre e San Giovanni Battista.

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Alcune fasi dell’intervento di restauro sullo stendardo della Beata Vergine di Fontanellato: in alto, un particolare dell’immagine di San Giovanni Battista: l’agnello prima del restauro, dopo la rimozione dei materiali sovrammessi e dopo il ritocco pittorico a destra, lo stemma Sanvitale prima del restauro, dopo l’innesto e le velature e a ritocco pittorico ultimato

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“IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali” (XXIII, 2015, 1) Registrazione del Tribunale di Bologna, n. 4677 del 31 ottobre 1978 ISSN 1125-9876 Direttore responsabile Angelo Varni Capiredattori Valeria Cicala, Vittorio Ferorelli Redattori Laura Carlini Fanfogna, Isabella Fabbri, Maria Pia Guermandi, Piero Orlandi, Carlo Tovoli Sede di redazione Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna via Galliera 21 - 40121 Bologna tel.: (+39) 051.527.6610 rivistaibc@regione.emilia-romagna.it www.ibc.regione.emilia-romagna.it/rivista.htm Progetto grafico e impaginazione Beatrice Orsini Stampa Centro Stampa della Regione Emilia-Romagna

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