Anatomia del sacro Il crocefisso in cera del Museo di San Martino in Rio
Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale
Anatomia del sacro. Il crocefisso in cera del Museo di San Martino in Rio Rocca Estense di San Martino in Rio (RE), 20 ottobre 2013 - gennaio 2014
Promotori Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale di San Martino in Rio Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, Ufficio Beni Culturali e Nuova Edilizia di Culto Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (UNIMORE), Musei Anatomici di Modena Biblioteca Panizzi Reggio Emilia Catalogo a cura di Milena Semellini e Iolanda Silvestri Testi di Federica Dal Forno, Iolanda Silvestri (apparati didattici) Redazione Isabella Fabbri e Iolanda Silvestri (IBC) Progetto espositivo Milena Semellini, Marco Vergnani Progetto grafico Beatrice Orsini, Iolanda Silvestri (IBC) Realizzazione grafica Beatrice Orsini (IBC) Allestimento Milena Semellini, Marco Vergnani e Squadra operaia del Comune di San Martino in Rio Crediti fotografici Biblioteca Panizzi - Reggio Emilia, Federica Dal Forno, Costantino Ferlauto (IBC) Ufficio stampa Valeria Cicala, Isabella Fabbri, Carlo Tovoli (IBC) Restauri Impresa Antonio De Feo Restauri. Restauro e Conservazione di Monumenti e Opere D’Arte - Roma (Direzione tecnica e progettazione vetrina) Federica Dal Forno - Roma (esecutrice del restauro) Ringraziamenti Un ringraziamento particolare a Raffaella Bertani per aver donato il crocefisso in cera al Comune di San Martino in Rio. Si ringraziano inoltre: Stefano Casciu (Soprintendente per i Beni Storici Artistici e Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia), Mons. Tiziano Ghirelli (Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla), Aldo Tomasi, (Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia), Elena Corradini (UNIMORE, referente per i Musei Anatomici), Laura Bedini e Federico Fischetti (Soprintendenza per i Beni Storici Artistici e Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia) Giordano Gasparini (Direttore della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia), Chiara Panizzi (Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia), Don Pietro Paterlini, (Parroco della Collegiata dei Santi Martino e Venerio), Mauro Severi (Progettista del recupero della Rocca Estense di San Martino in Rio), Alfonso Garuti Stampa Centro Stampa Regione Emilia-Romagna
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Per il Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale di San Martino in Rio non ci sono dubbi, la scultura del Crocefisso in cera, proveniente da una preziosa donazione di Raffaella Bertani, arricchisce la già cospicua collezione locale, da sempre indirizzata verso le eccellenze della tradizione agricola del territorio, di un manufatto di enorme rilevanza storico-artistica e di grande interesse per la comunità. Lo studio attento condotto dall’esperta Federica Dal Forno in collaborazione con l’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, ente finanziatore del restauro dell’opera e della teca espositiva, hanno dato un’identità, se non certa, almeno documentata al “Cristo”, arricchendo di un fascino particolare l’indagine storica e filologica che lo coinvolge. Se ne riscopre e si valorizza l’aspetto artistico, evidenziato nel percorso di studio, si percepiscono le passioni intime e sentimentali del donatore che, unitamente a tradizioni e credenze generalizzate, materializzano conoscenze nuove, nel nostro caso esempio di verità e di peculiarità di un certo tempo e di una certa cultura. E il tutto si connette con un’altra storia, quella del nostro Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale, una collezione straordinaria, le cui vicende e i cui contenuti sono vissuti negli ultimi anni con grande vivacità culturale, grazie ad una didattica più attiva supportata dalla tecnologia, al ricorso ad attività e materiali decontestualizzati, a nuovi mezzi di comunicazione interna ed esterna. Una sfida formidabile che l’istituzione museale come museo di qualità riconosciuto dalla Regione Emilia-Romagna, con gli oggetti e le storie che racconta, ha vinto. Nella multiforme realtà agricola del museo, dal secolo XIX ai giorni nostri, rappresentata con dovizia di documenti, acume di analisi e di contrasti, lo “straordinario” crocefisso in cera trova una sua collocazione, non accessoria né puramente illustrativa, che segue una specifica volontà della direzione museale. La teca conservativa è collocata in un’area strategica quale splendido documento che per l’epoca, per la fattura, per ciò che rappresenta come “testimonianza della religiosità popolare” e per l’aspetto “scientifico legato all’anatomia”, fa crescere in numero e qualità le esclusività della collezione sammartinese. L’evento pubblico di presentazione, la mostra e questa brochure, rappresentano un’ottima occasione di promozione del nostro territorio e delle sue bellezze. L’affiancamento ad altre sculture di ceroplastica nell’esposizione Anatomia del sacro. Il crocefisso in cera del Museo di San Martino in Rio, alle sale nobili della Rocca estense, consacra il nostro “Cristo” come bene della comunità, dando lustro anche alla nostra cittadina e alla collezione del Museo Civico. Ringrazio, in particolare, per la piena collaborazione alla riuscita dell’evento Stefano Casciu, Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia; Mons. Tiziano Ghirelli, Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla; Don Pietro Paterlini, Parroco della Collegiata dei Santi Martino e Venerio; Aldo Tomasi, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia; Elena Corradini, Referente dei Musei Anatomici e Giordanio Gasparini, Direttore della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Giulia Luppi Assessore alla Cultura del Comune di San Martino in Rio
Chi l’avrebbe mai detto che un piccolo museo di provincia come quello di San Martino in Rio potesse conservare un manufatto così singolare e unico nel suo genere come il piccolo Cristo in cera. Un’opera decisamente fuori norma e intrigante per la chiesa come per il museo e per la stessa studiosa Federica Dal Forno che ha cercato di sciogliere l’enigma fornendo risposte diverse e tutte plausibili in assenza di documenti certi. Intrigante perchè non si tratta di un normale crocefisso, senza croce, ma di una figura sacra anatomizzata nelle sue viscere. Al di là del significato espresso dall’oggetto, sicuramente nato come risposta cristiana alle istanze continue di eresia dell’epoca, ciò che più colpisce in questo piccolo Cristo, di cui non si conosce né la committenza né il ceroplasta, è la qualità del prodotto. La sofferenza del corpo e dell’anima di Cristo sono resi da una plastica talmente espressiva e ben modellata in così poco spazio da essere considerata opera di notevole pregio artistico. Ed è il valore complessivo del manufatto che ha convinto il museo sammartinese e l’Istituto dei Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna a studiarlo, a restaurarlo, a costruire una teca per proteggerlo e a presentarlo in un evento a lui dedicato, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia. La celebrazione oggi del Cristo rilancia a San Martino in Rio una storia pregressa di restauri e corsi formativi nella conservazione promossi e finanziati dall’IBC e dal Fondo Sociale Europeo tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso che hanno restituito la Rocca estense ai fasti di un tempo, ma pone anche l’attenzione su un tema ritornato di moda di recente, quello delle cere figurate e del loro impatto straniante e paradossale con la realtà. Ad una anno da una mostra veneziana dedicata all’argomento al Museo Fortuny e alla recente traduzione dello scritto di Julius Von Schlosser Storia del ritratto in cera (1911), l’impatto con questo genere di plastica, ritenuta secondaria, pone da sempre domande sul desiderio dell’uomo di voler immortalare in eterno l’immagine delle persone amate o idolatrate, affidandola ad una materia poco durevole come la cera, ma mirabilmente plasmabile che ne simula le sembianze così alla perfezione da diventare di un realismo eccessivo quasi iperreale .
Laura Carlini Fanfogna Responsabile del Servizio Musei e Beni Culturali dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna
Fin dalle sue origini, il Museo ha posto al centro dei propri interessi l’uomo quale produttore di oggetti, riti, simboli, parole e saperi in risposta ai propri bisogni, fissando precise coordinate spazio-temporali. Il campo di indagine del Museo, infatti, interessa la media pianura delimitata a est dal fiume Secchia, a ovest dal Crostolo, a Nord dalla linea immaginaria che va da Carpi a Novellara, a Sud dalla strada pedemontana Reggio-Sassuolo. Si tratta di un territorio che presenta una notevole omogeneità di caratteri (dialetto, usi, credenze, coltivazioni) e che ha condiviso la presenza, su larga scala, della conduzione agricola a mezzadria; un territorio ben più vasto del solo Comune di San Martino in Rio, citato nella denominazione del Museo come riferimento alla sede fisica del centro di documentazione e delle sale espositive. La società che ha abitato questo territorio, fino alla seconda guerra mondiale, era tutta imperniata intorno alla vita agricola: famiglie contadine che vivevano dei prodotti della terra che lavoravano; famiglie di artigiani (falegnami, bottai, calzolai, sarti, maniscalchi) la cui attività era strettamente connessa al lavoro dei campi, all’arredo della casa e alla cura della persona; famiglie borghesi o possidenti la cui ricchezza derivava dalla terra posseduta o dalla attività di trasformazione dei prodotti agricoli (cantine, caseifici, ecc.) e dall’allevamento di bestiame. L’esposizione museale descrive la complessità di questa società, alternando sezioni dedicate al mondo contadino a sezioni dedicate all’artigianato e alla famiglia padronale. Il Museo raccoglie, conserva, studia e valorizza le testimonianze materiali e immateriali di questa società (oggetti, documenti, tradizioni, riti, gestualità, credenze): ogni bene culturale prodotto da questo territorio può entrare a far parte del patrimonio museale, un patrimonio che negli anni è diventato ricco ed eterogeneo. Perchè, dunque, un crocefisso in cera al Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale di San Martino in Rio? La statua in cera, raffigurante il Cristo Crocefisso, fa parte della copiosa donazione fatta da Raffaella Bertani. Nata a San Martino in Rio e sposata con il pittore Uber Coppelli, Raffaella ha donato quadri del marito, arredi della casa, documenti della famiglia e oggetti che hanno reso unico il nostro Museo e che hanno permesso di arricchire diverse sezioni e di documentare la vita del padrone agricolo con l’apertura della sezione dedicata proprio alla Famiglia Bertani. Il crocefisso sei-settecentesco, di cui non si conosce la provenienza (acquistato, ricevuto in dono da amici o ereditato dalla famiglia Bertani), sebbene non sia un oggetto nato in ambito locale rimane comunque legato a questo territorio e al Museo a cui è pervenuto come bene della comunità da conservare e valorizzare. Il crocefisso documenta le modalità di celebrazione del culto cattolico; è testimonianza della religiosità popolare, del bisogno atavico dell’uomo di rapportarsi con il divino, del bisogno di porsi sotto la protezione di entità superiori, delle modalità con cui il divino è stato concepito e rappresentato. Si spiega quindi il significato antropologico che, insieme al valore artistico e scientifico, lo integra perfettamente nel nostro Museo, offrendo nuovi spunti di ricerca.
Milena Semellini Responsabile del Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale di San Martino in Rio
Fig. 1 Autore ignoto, Cristo anatomico in cera policroma, fine XVII secolo - inizi XVIII secolo. Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale di San Martino in Rio (RE)
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Arte, scienza e religione: come nasce la ceroplastica anatomica Federica Dal Forno
L’immagine peculiarissima di quest’opera in cera raffigurante un Cristo crocefisso “anatomico” (Fig. 1), ovvero mostrante le proprie interiora, d’impatto non può che sbigottire, persino raccapricciare, non tanto per l’orrore del corpo già martoriato e ancor più offeso da un’ulteriore inaspettata ferita, quanto per l’atrocità di osservare ridotto in tali condizioni il corpo di Dio. Per chi è cristiano, è questo un orrore che inizia con il pensiero di un oggetto blasfemo, di un’immagine sacrilega. Eppure, in verità, sia pur con mille giustificate riserve, quest’immagine potrebbe essere un’imponente affermazione del credo cristiano, sia pur minutamente espressa nelle contenute dimensioni dell’opera. Per giungere a capire come possa essere nata quest’opera e quali ragioni possano aver spinto un artista a cimentarsi in una tale rappresentazione, è indispensabile calarsi per un momento nell’epoca in cui fu creata e, ancor più, comprendere quale bagaglio di conoscenze ideologiche, scientifiche e artistiche l’autore ebbe a disposizione. Non è certo questa la sede per cimentarsi in articolate dissertazioni sulla ceroplastica, sulla storia dell’anatomia e della medicina, tanto meno sulla teologia. Cercherò quindi di riportare qui pochi punti fondamentali che possano aiutare la lettura di questa opera così insolita e complessa. Quando si parla di manufatti in cera le prime immagini che sovvengono appartengono probabilmente alla collezione di ritratti di Madame Toussauds a Londra o probabilmente a qualche Bambinello racchiuso in una piccola teca sommerso da piccoli fiori di stoffa. In realtà l’arte ceroplastica ha origini ben più antiche e composite: dagli egizi venne impiegata per realizzare piccole figure a carattere magico-religioso; i romani la utilizzarono per raffigurare i propri antenati con singolari ritratti portati in processione durante i funerali gentilizi, affinché accanto ad ogni defunto fosse presente la folla dei suoi avi. Inoltre, nelle case della Roma antica, non mancavano mai le immagini in cera dei “lares” (divinità tutelari) che, all’ascesa del Cristianesimo vennero prontamente
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Fig. 2 Clemente Susini (1754 - 1814), Venere De Medici, 1781 - 82. Firenze, Museo della Specola
Fig. 3 Abraham Bosse (1604 - 1676), La SaignĂŠe, incisione. Parigi, Biblioteca Nazionale
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sostituite con immagini della Sacra Famiglia e di Santi protettori. Un altro importante utilizzo di tale materiale riguarda la rappresentazione in cera di organi malati o sani quali offerte votive (ex-voto): si passa dalle prime testimonianze pervenuteci dalla civiltà etrusca ad imponenti esempi di ritrattistica a dimensione naturale quali i “boti” che adornarono le chiese di Or San Michele e della SS. Annunziata di Firenze. Alcuni di questi “boti” raggiunsero dimensioni e fattura considerevoli, ne vennero realizzati addirittura di equestri, con ritratti a dimensione reale indossanti gli abiti propri del supplice; a tale pratica si adeguò lo stesso Lorenzo il Magnifico che fece commissionare ben tre effigi da collocare in tre chiese differenti a ringraziamento del fallito attentato ad opera della famiglia Pazzi. A partire dalla seconda metà del diciassettesimo secolo, la cera trova un nuovo inaspettato utilizzo, ovvero la riproduzione in forma plastica dell’anatomia umana (Fig. 2). Per comprendere le ragioni di una tale applicazione dovremo fare un piccolo salto indietro nella Storia della Medicina e dell’Anatomia. Tutti conosciamo i celebri disegni di Leonardo Da Vinci che narrano le sue dissezioni segrete, in realtà la morfologia del corpo umano era già stata principiata da molto tempo, senza una ferma posizione della Chiesa come si suole immaginare. Lo studio dell’anatomia umana iniziò addirittura nell’antico Egitto e la sua stessa etimologia (“anatomé” in greco antico da “anà” = “attraverso” e “temno” = “tagliare”, con il significato proprio di “dissezionare”) non lascia dubbi sulla sua pratica in un passato ben più remoto del più noto ‘500. L’indagine della struttura del corpo umano ebbe diversi periodi di “successo” seguiti da altrettanti periodi di veti e astensioni. Le cognizioni che tale pratica forniva non furono sempre correttamente comprese, soprattutto, apparve assai difficile l’interpretazione dei meccanismi che regolavano i vari organi, la loro interrelazione e, soprattutto, la loro funzione. Per fornire un banale esempio, basti pensare a come il grande medico romano Galeno, affermando che la parte più importante dell’anima risiedeva nel cervello, applicava unguenti, impiastri, bagni di vapore alla testa e non all’organo concernente il male dichiarato. Teorie simili, cosiddette “umorali”, si protrassero fino al Seicento inoltrato e si dovette attendere Stenone (1638-1686) affinché il cuore fosse chiaramente definito come muscolo e non come la sede dell’anima. Tralasciando per il momento il primo millennio, diamo uno sguardo alle figure che si dedicarono alla cura del corpo umano tra il ‘400 ed il ‘700. Dobbiamo immaginare che il medico, così come lo intendiamo ora, ovviamente non esisteva. Egli, quando veniva chiamato al capezzale del malato, si limitava ad osservarne l’aspetto, ne tastava il polso contandone i battiti, ne esaminava l’urina. A questo punto forniva la propria diagnosi e ne individuava la terapia idonea che risultava essere prevalentemente un salasso (Fig. 3) o la somministrazione di rimedi di vario genere, molti dei quali consistevano in un considerevole miscuglio di ingredienti blandamente o per nulla terapeutici. Certamente lo studio dell’anatomia
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era parte della formazione dei medici, tuttavia essi non si dedicavano mai ad operare chirurgicamente sul paziente, infatti, qualora si fosse ravvisata una simile necessità, colui che avrebbe messo mano ai ferri sarebbe stato il barbiere. I primi chirurghi infatti nascono proprio da tale professione, in sostanza, dopo aver curato barba e capelli, magari del paziente medesimo, lo stesso rasoio (primo bisturi della storia) avrebbe inciso la cute per estrarne il male sospettato, chiaramente senza nessuna cognizione di asepsi, di medicina e di anatomia. Con il passare del tempo, si comprese l’importanza dello studio anatomico anche per i chirurghi, tuttavia le dissezioni pubbliche, le uniche alle quali potessero assistere, erano assai rare e la loro frequentazione era limitata. I medici, che si dedicavano alla pratica dissettoria con maggiore libertà potendo frequentare gli ospedali, disponevano inoltre del sussidio didattico dei volumi di medicina contenenti le tavole anatomiche disegnate dai più valenti artisti del momento. Infatti, pittori, scultori e modellatori, a loro volta, assistevano puntualmente alle anatomie per impadronirsi delle nozioni utili alla rappresentazione della figura umana nella maniera più corretta e verosimile. I dati contenuti nei trattati di anatomia erano infine redatti dai più importanti medici e studiosi del tempo, rigorosamente in lingua latina (Fig 4). Tuttavia il corredo di spiegazioni inintelleggibile, per chi non avesse compiuto studi classici, nonché il costo elevato di queste pubblicazioni non impedì la diffusione di questi testi e dei loro contenuti anche tra i barbieri-chirurghi, la cui estrazione era ben inferiore e decisamente meno acculturata degli appartenenti alla classe medica. Non appena apparvero sulla scena i primi modelli anatomici in cera, perfettamente rispondenti e verosimili ai corpi sezionati, si comprese come fosse indispensabile realizzare delle collezioni ceroplastiche che riproducessero fedelmente il corpo umano, una sorta di atlante anatomico tridimensionale a disposizione di tutti gli studiosi, più o meno preparati. Nacquero così le officine ceroplastiche di Firenze e Bologna; in particolare le cere fiorentine, per la loro facile replicazione, trovarono grande successo e diffusione in Italia e all’estero. Ecco quindi, in estrema sintesi, la ragione della creazione di opere in cera raffiguranti l’anatomia umana, ovvero lo stretto legame fra arte, medicina e ceroplastica nello studio del corpo umano. Tuttavia, le ceroplastiche anatomiche finora conosciute mai avevano riproposto un’immagine come quella del Cristo qui presentato. Non rimane quindi che esaminare un po’ più da vicino il rapporto tra religione e medicina, tra Chiesa e scienza, ovvero il tassello mancante che può spiegare, in parte, l’inaspettata unione fra la rappresentazione della dissezione anatomica ed il Corpo di Cristo. Una figura emblematica del rapporto religione-medicina è proprio quella di Giulio Gaetano Zumbo (Fig. 5), primo ceroplasta anatomico nonché abate gesuita, nato nel 1656 a Siracusa. Numerosi studiosi hanno cercato di ricostruire le sue tappe, possiamo sintetizzarle affermando che egli risalì la penisola sostando lungamente a Firenze,
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Fig. 4 Charles Estienne (1504 – 1564), De humani corporis dissectione Partium Libri tres, Parisiis: Apud Simonem Colinaeum, 1545. Esempio di atlante anatomico corredato da illustrazioni e testi esplicativi in lingua latina
Fig. 5 Giulio Gaetano Zumbo (1656 - 1701), testa anatomica. Museo della Specola, Firenze
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alla Corte di Cosimo III, dove pare abbia realizzato la sua prima anatomia in cera consistente in una testa di vecchio ricostruita sulla base di un cranio autentico. Alcune testimonianze dell’epoca vogliono invece far risalire la sua prima ceroplastica anatomica a un soggiorno successivo che egli fece a Genova, presso un medico dissettore. Proprio quest’ultimo, un certo Guillaume Desnoues, sostenne che Zumbo arrivò presso di lui quasi completamente digiuno di studi anatomici, portando con sé delle piccole statuine in cera molto ben modellate. Il medico pensò quindi di ingaggiarlo affinché il ceroplasta potesse realizzare delle copie dei propri preparati anatomici, in cambio lo avrebbe ospitato insegnandoli l’anatomia che tanto bramava conoscere. Sempre secondo questa testimonianza, smentita pochi anni dopo da altri scritti coevi, da questo soggiorno nacque una disputa che si dipanò sin dopo la morte dello Zumbo e che vide il medico contrapporsi all’abate nel rivendicare la paternità della prima ceroplastica anatomica. Al di là delle vicende singolari di questo artista, come è possibile che un abate gesuita, in pieno Seicento, possa dedicarsi in tutta serenità alle dissezioni anatomiche? Ebbene, il legame fra religione e scienza, ancora una volta, ha origine in tempi ben più antichi. La stessa medicina, come tutti sapranno, nasce come branca della filosofia, ovvero, i primi medici furono proprio i filosofi, essi decisero di curare il corpo iniziando a sanare l’anima. Con la nascita del Cristianesimo si ha un nuovo interessante binomio, non più filosofia-medicina ma bensì religione-medicina, ovvero Cristo assurge al ruolo di sommo medico e, al contempo, sommo medicamento egli medesimo, per antonomasia (S. Girolamo lo definì: “Christ verus medicus, solus medicus, ipse et medicus et medicamentum, verus archiater”). La figura del filosofo ora viene dunque sostituita da quella dell’ecclesiastico; infatti per lungo tempo la Chiesa fu l’unica detentrice dei segreti della guarigione e dei medicamenti. Si pensi all’odierna attività dei monasteri che ancora si dedicano alla farmacopea e ai preparati erboristici, questa eredità deriva in parte proprio da quei tempi. Tuttavia, non è corretto considerare soltanto gli ordini monastici maschili e femminili dediti alla pratica medica, anche i preti ed i vescovi si dedicarono alla cura dei corpi oltre che a quella delle anime, incluso lo
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Fig. 6 Jens Peter Trap (1810 - 1885), Niccolò Stenone, 1868
studio anatomico. Non dimentichiamo che pochi decenni prima di Zumbo, il già citato Stenone (Fig. 6), celebre anatomista, fu anch’egli ospitato presso la Corte de Medici - famiglia nota per aver fortemente appoggiato e incoraggiato lo studio dissettorio e medico - e di lì a poco fu ordinato addirittura vescovo. Ecco quindi come il legame fra medicina e religione appare molto stretto al momento della nascita della ceroplastica anatomica, nonostante oggi non abbia più questa connotazione. Ecco come sia possibile guardare al Seicento e trovarvi un abate gesuita dedito allo studio dissettorio e intento a realizzare perfette riproduzioni in cera del corpo umano e dei suoi più remoti segreti.
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Fig. 1 Consegna della legge, mosaico (part.), IV secolo. Roma, Santa Costanza
Fig. 2 Monogramma di Cristo, bassorilievo, IV secolo. Roma, CittĂ del Vaticano, Museo Pio Cristiano
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La carne di Cristo, l’umanità rivelata. I misteri del crocefisso di San Martino in Rio Federica Dal Forno
La lettura del crocefisso sammartinese richiede una parentesi sull’iconografia del Cristo morto e, conseguentemente, sulle diverse dottrine teologiche che, nel corso dei secoli, ne hanno condizionato i temi e si sono dibattute sull’effettiva natura dell’Uomo-Dio nel momento topico della sua crocifissione e morte. Per comprendere infatti il significato dell’immagine del corpo di Cristo anatomizzato è indispensabile chiarire le ragioni che possono aver spinto il nostro autore ad una tale rappresentazione, ragioni indotte dal clima religioso di un dato periodo storico. Affronteremo tale argomento partendo dai primi secoli della Cristianità, quando i dogmi non erano ancora stati del tutto definiti e l’incertezza lasciò spazio alla nascita di molteplici eresie. Potrebbe sembrare questo un salto temporale troppo azzardato guardando ad un’opera datata Sei-Settecento, tuttavia si deve tener presente che le correnti di pensiero nate in quei lontani secoli protrassero la loro influenza addirittura ben oltre la supposta data della creazione del piccolo Cristo in cera. La scena della crocifissione e della morte di Gesù Cristo (“Gesù” identifica ”l’uomoDio”, “Cristo” invece “il Messia”) fu, sin dal principio, un tema piuttosto problematico da rappresentare. Per simboleggiare il Figlio di Dio, fin dal principio si preferì utilizzare la forma stilizzata di un pesce (“pesce” in greco antico corrisponde a ἰχθύς: le lettere di questa parola formano un acronimo, Ἰησοῦς Χριστός Θεοῦ Ὑιός Σωτήρ, letteralmente “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”) oppure rappresentare il Figlio di Dio come un fanciullo che assomigliasse molto ai “geni” pagani (Fig. 1) che non conoscono né nascita né morte. Sui sarcofagi, Cristo non veniva rappresentato bensì indicato tramite un segno, una croce sormontata da una corona, l’evento della sua morte e resurrezione veniva celato in una composizione costituita dai segni XP (iniziali di Χριστός’,“Cristo”), mentre la corona di spine diventava corona di Gloria, segno di Vittoria (Fig. 2).
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Nei secoli successivi la teologia cristiana sembrò rifiutarsi di far morire Gesù Cristo della medesima morte dei due ladroni, quella comune a tutti gli uomini. Nacquero così diverse teorie, tutte atte a spiegare come Cristo sia morto “volontariamente”, come se la sua morte non fosse causata da un processo organico ma da un atto della volontà divina. Il problema fondamentale fu stabilire se Gesù Cristo, grazie alla presenza in lui del Divino, fosse in grado di sfuggire alla croce, se egli stesso avesse stabilito di sottoporvisi e di decidere l’esatto momento del suo decesso, se la sua morte fosse realmente avvenuta partecipando Egli dell’essenza divina e immortale del Verbo. Cristo decise “dunque” di prendere soltanto le sembianze della morte, perché questo potesse essere funzionale al disegno divino, oppure perì veramente sulla croce? E quale senso dare alle sue ultime parole: “Deus, Deus meus, utquid me derelinquisti?” Si stabilì che la persona di Gesù Cristo era composta da tre entità, due umane ed una divina, ovvero il corpo, l’anima (entrambi propri e comuni a tutti gli uomini) ed il Verbo divino. Quando Gesù perì sulla croce, il Verbo (immortale) non poté rimanere con lui, condusse invece con sé la sua anima nella discesa agli Inferi, lasciando il corpo, la parte più terrena del Figlio di Dio, solo sulla croce a morire. In quel preciso momento, Gesù, la sua parte corporale, simbolo dell’umanità intera, vittima del peccato e della morte, accorgendosi di questa dipartita, urlò “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” É dunque questo il grido dell’umanità tutta che grida la propria disperazione per la lontananza da Dio imposta dal peccato di Adamo. Questa assenza si sarebbe dunque protratta fino al terzo giorno, in cui la Resurrezione avrebbe ricomposto l’unitarietà del corpo di Gesù Cristo con il Verbo. La stessa ortodossia non sempre é riuscita a scappare dal pericolo di farsi trascinare verso le eresie che tali riflessioni inducevano, infatti, alcune di queste dottrine negavano la natura divina di Gesù, altre ne abiuravano invece la natura umana. Il dogma principe della religione cristiana veniva dunque messo in discussione proprio lì, sulla croce: Gesù Cristo era veramente fino in fondo sia Uomo che Dio? Le teorie eretiche incombevano: l’Arianesimo si rifiutava di vedere il Verbo sulla croce considerando Cristo non “della stessa sostanza del Padre” ma come una sorta di “intermediario” tra divinità e umanità, senza che appartenesse né all’una né all’altra; il Manicheismo negava la realtà fisica della crocifissione; l’Eutichianesimo, negando la natura umana di Gesù, ne proclamava una sorta di “trasformazione
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divina”; il Catarismo, con il suo docetismo, affermava che Cristo avrebbe avuto soltanto in apparenza un corpo mortale e che le sue sofferenze furono soltanto illusorie (sostenendo una natura angelica sia di Gesù che della Vergine Maria), compromettendo così tutto il disegno salvifico su cui poggia il cristianesimo … . A questo punto la Chiesa non sembrò trovare altro modo di spiegare la rivolta di Gesù contro la sua sorte terrestre (espressa nel grido cruciale), che ammettere che l’unione delle due nature, umana e divina, fosse in qualche modo sospesa, ovvero, che il corpo, da quel momento, non godesse più del soccorso confortante del Verbo, pur essendo quest’ultimo ancora presente in lui. Ma se la realtà fisica di Gesù Cristo al momento della sua morte non conteneva più in sé l’entità divina, non restava dunque soltanto un corpo come tutti gli altri? Carne appesa ad una croce? Era dunque ancora lecito rappresentare Gesù morto come Dio e accostarvisi in preghiera? Finché tale enigma rimase senza soluzione, gli artisti si astennero a lungo dall’affrontare il tema della morte del Salvatore. Sant’Agostino annuncia quello che sarà la credenza futura, ovvero che non vi fu la separazione del corpo dal Verbo nella morte o la sua sospensione tra la morte e la resurrezione, ma sorgono al contempo altri dubbi: quale spiegazione dare al grido di Gesù Cristo? Dunque, il Verbo in quel momento si astenne dall’accordargli la sua assistenza senza tuttavia rifiutare la sua presenza, cessò di dargli la sua protezione ma non ruppe l’Unione… l’artista nella rappresentazione del Crocefisso si sentirà franare la terra da sotto i piedi. Un esempio di come gli artisti avessero scrupoli nell’addentrarsi nei particolari della morte di Gesù la si trova nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (inizi VI secolo). La Passione si ferma alla salita al Calvario, nessuna scena della crocifissione viene rappresentata, le scene narrative riprendono solo con la Resurrezione. Nello stesso periodo il Cristo viene rappresentato con gli occhi chiusi ma già glorificato, senza nessuna traccia di ferita alle mani, ai piedi, ai fianchi. Quando, un po’ più tardi, la Chiesa decise di tornare a rappresentare il crocefisso, eviterà comunque il periodo critico dell’agonia. Per sei secoli, dal VI al XI secolo, il Figlio di Dio verrà rappresentato soltanto durante il breve periodo in cui il corpo inchiodato sulla croce era considerato ancora unito al Verbo e non poteva conseguentemente mostrare alcuna espressione di dolore violenta o l’avvicinarsi della morte. In questa rappresentazione si può distinguere, a seconda che si voglia porre l’accento sulla dominazione del Verbo o sulla passività del corpo, due varianti: il Christus triumphans (Fig. 3), dall’espressione severa che guarda lo spettatore dritto negli occhi, oppure il Christus patiens (Fig. 4), con la testa leggermente china, gli occhi chiusi e un’aria triste, più prossima alla melanconia e
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Fig. 3 Maestro italiano, Christus triumphans, olio su tavola, 1190. Pisa, Museo di San Matteo
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Fig. 5 Tiziano (1485 ca. - 1576) , Crocefissione, olio su tela, 1555. Spagna, Monastero di San Lorenzo dell’Escorial
Fig. 4 Maestro bizantino, Christus patiens, olio su tavola, primo decennio XIII secolo. Pisa, Museo di San Matteo
Fig. 6 Guido Reni (1575 - 1642), Crocefissione, olio su tela, 1619. Modena, Galleria Estense
alla rassegnazione che non alla sofferenza. Nel XI secolo a Bisanzio nasce un nuovo tipo di rappresentazione, dopo tanta assenza torna all’improvviso la raffigurazione di Gesù Cristo morto sulla croce: il corpo ha perso le sue connotazioni regali ed è sospeso, leggermente deformato dal proprio peso e con le braccia in estensione. Questo nuovo tipo di crocefissione si estende rapidamente in Asia Minore, nei Balcani, in Russia, nei paesi germanici e, nel XIII secolo, giunge anche in Italia. Questa è l’espressione di una nuova concezione del ruolo e della forma terrestre di Gesù ed a questa mistica è legato il nome di S. Francesco. Nelle dottrine che qui prenderanno l’avvio, si affermerà che Cristo è morto diversamente rispetto ai due ladroni, infatti, dopo aver esalato l’ultimo respiro, il Verbo rimase vivo nel suo corpo, da quel momento l’ultima obiezione alla rappresentazione di Gesù morto sulla croce avrebbe perso la sua forza. Durante il periodo della Riforma abbiamo prevalentemente tre tipi di rappresentazione della crocefissione: • Gesù morto immerso in un’infinita solitudine una volta separato dal Padre (Fig. 5), • la rappresentazione del grido “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Fig. 6), • Cristo ridotto a un punto fra la folla che poco o niente prende in considerazione il suo messaggio diventando quasi una caricatura (Fig. 7). Vi sono molti esempi fra questi che ripropongono il corpo di Gesù Cristo non solo morto, ma addirittura prossimo alla decomposizione. Un esempio eclatante è la crocefissione di Grunewald (Fig. 8), realizzata per ornare l’altare della Chiesa interna al monastero di Issenheim e rivolta ai malati accuditi in tal luogo dai monaci di Sant’Antonio. Il ricoverato orante era portato a identificare le proprie piaghe con quelle di Gesù, la morte del Signore appare vivida nel verde delle sue estremità prossime alla putrefazione. Nel mondo occidentale vi è dunque una ricerca, per l’immagine di Gesù Cristo, di un’espressività così fedele alla realtà, più o meno estremizzata, da permettere al singolo credente l’incontro individuale con Cristo. Questo tipo di arte, soprattutto al di fuori di un contesto ecclesiale, apre sempre più lo spazio spirituale dell’individuo, ed ecco quindi che il piano di incontro con Cristo subisce un ribaltamento dal piano della contemplazione a quello dell’immedesimazione nella sofferenza e nella disperazione: l’identificazione del credente avviene ora nell’urlo di Gesù, nella sua solitudine, nel suo abbandono sulla croce. La Fede nella Resurrezione è dunque l’unico rimedio allo sconforto dell’umanità dolente. Torniamo dunque al Cristo anatomico. Dopo quanto finora narrato, appare evidente
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Fig. 7 Pieter Bruegel il Giovane (1564 - 1638), Crocefissione, 1617. Budapest, Museo delle Belle Arti
Fig. 8 Matthias Grunewald (1480 - 1528), Crocefissione, 1512-1516, Pala di Issenheim. Colmar, MusÊe d’Unterlinden
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quanto sia dirompente, coraggiosa l’immagine proposta. Il Cristo qui rappresentato non è soltanto morente, non presenta solamente i segni della passione incluse, le ferite riportate alle ginocchia dalla salita al calvario, egli mostra un’ulteriore violazione del proprio corpo, un’apertura che rivela le sue interiora. É l’affermazione più brutale e sconvolgente della cruda realtà umana, la vivida rappresentazione del corpo di Cristo indagato fino ai visceri, è l’urlo della carne che chiede al nascente illuminismo di identificare l’uomo nelle sue interiora e impone agli eretici di riconoscere Dio quale uomo. E’ infatti possibile che si tratti dell’opposizione più sbalorditiva, mai vista, alle istanze che negarono la realtà umana del Salvatore. In Grunewald, l’unica cosa che identifica il corpo martoriato con l’essenza salvifica di Cristo è la scritta “INRI” sul capo. Purtroppo, la croce che sostenne questa ceroplastica è andata perduta con tutte le sue informazioni. Tuttavia, ritengo che l’artista, consapevole della difficoltà di leggere in questa immagine l’eternità di Dio, ne abbia fatto una sorta di atto di fede in forma plastica, affermando il supremo sacrificio di Dio nel farsi uomo fin nelle sue viscere e nel perire sulla Croce per l’umanità intera. I temi iconografici in quest’opera si intrecciano tra loro senza pervenire a perfetta soluzione, vi sono caratteristiche riconducibili per significato a rappresentazioni diverse del Cristo, il tutto senza un manifesto prevalere dell’una sull’altra, in grado di condurre ad una chiara lettura iconologica. É dunque il crocefisso abbandonato sulla croce dalle cui labbra esce il grido “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Fig. 6) ma, al medesimo tempo, vi si può riconoscere un richiamo alla raffigurazione di “Gesù Cristo come uomo di dolori” (Fig. 9), che mostra in tutta la sua interezza i segni della passione e della propria sofferenza. E’ infine una sorta di traslazione in chiave anatomica del tema del Figlio di Dio che porge il costato a Tommaso mostrando al contempo la propria essenza salvifica divina nonché quella più tangibile e terrena. In particolare, l’iconografia di “Gesù Cristo come uomo di dolori” (abbastanza frequente proprio tra Quattrocento e fine Seicento) presenta un’analogia che va oltre la presentazione delle ferite. Questo tipo di rappresentazione, infatti, vede Cristo che, con aria sofferta, mostra le proprie piaghe non appena disceso dalla croce, come se, in realtà, fosse già risorto all’atto stesso della deposizione, con l’annullamento dei tempi della narrazione evangelica. Questa affinità potrebbe trovare un riscontro anche nel fatto che il viso del Crocefisso é ritratto al momento del lamento, ancora vivente (oppure già risorto, se non vogliamo leggervi l’urlo ma soltanto un’espressione di sofferenza), e non come uomo morto quale ci si aspetterebbe da un ventre sezionato. La parte anatomica non è precisa e, per l’autore, forse non è nemmeno essenziale che lo sia, invece é fondamentale
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Fig. 9 Colijn de Coter (1444 ca. - 1532 ca.), Cristo come uomo dei dolori, olio su tela,1500 ca., Collezione privata
il messaggio. Intorno alla completa partecipazione di Dio alla natura dell’uomo, infatti, ruota tutto il disegno salvifico della religione cristiana. L’analisi iconografica ed iconologica di quest’opera, come abbiamo visto, non risparmia insolite contraddizioni, difficili da interpretare. Se limitiamo la nostra analisi alla rappresentazione fisica del Cristo, escludendo dunque la parte anatomica, l’insieme delle sue caratteristiche ci porta a considerare come probabile una datazione a cavallo tra Sei e Settecento. Nel duomo di Modena, città peraltro legata alle vicende dei precedenti proprietari dell’opera, è conservato un Crocefisso in avorio che può molto bene servire a una comparazione stilistica essendo appunto settecentesco (Figg. 10, 11). Il capo, pur seguendo una differente torsione, è incredibilmente simile: le due figure presentano entrambe gli occhi rivolti al cielo, mostranti il bianco delle orbite, i riccioli del capo sono ben composti, la barba è curata e la bocca rimane aperta nell’ormai ben noto appello
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Fig. 10 Autore ignoto, Cristo anatomico, ceroplastica policroma, fine XVII - inizi XVIII secolo. San Martino io Rio (RE), Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale
Fig. 11 Autore italiano, Cristo crocefisso, avorio, XVII secolo. Modena, Museo del Duomo
(Figg. 12, 13). Le sopracciglia sono entrambe fortemente inclinate a sottolineare il lamento e la supplica. A rimarcare tale situazione dolorosa non sono soltanto le copiose gocce di sangue ma anche le lacrime che sgorgano dagli occhi di entrambi i volti; infine, la corona di spine è chiaramente un intreccio di grossi rovi dall’andamento piuttosto regolare in ambedue i casi. La posizione del corpo è molto simile, pur con chiare differenze nella resa dei volumi, identica la posa delle mani racchiuse sui chiodi, analogo il cordoncino che sostiene il perizoma. La resa drammatica del corpo Crocefisso, carico dei segni della passione, porta a collo care questo tipo di rappresentazione in un ambito nordico. Tale constatazione entra già in collisione con la materia con cui è stato realizzato il Cristo anatomico, infatti, la produzione ceroplastica, soprattutto se di minute dimensioni e di carattere votivo, è da sempre maggiormente legata al Sud d’Italia.
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Fig. 12 Particolare del Cristo anatomico del Museo di San Martino in Rio (RE)
Fig. 13 Particolare del Cristo crocefisso del Museo del Duomo di Modena
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Considerando ora la parte anatomica dell’opera, si nota immediatamente come i visceri e gli organi rappresentati siano piuttosto approssimativi nella loro collocazione e nella loro conformazione. In particolare gli intestini hanno un andamento ordinato a serpentina, decisamente non rispondente alla realtà. Una tale raffigurazione va in netto contrasto con la datazione fin qui proposta, infatti, se facciamo riferimento alle stampe riportate sui libri di anatomia del Sei-Settecento, ci accorgiamo che la conformazione delle viscere era decisamente chiara e corretta (Fig. 14), perfettamente rispondente al vero. Per ritrovare una simile stilizzazione degli intestini dobbiamo arretrare nel tempo e arrivare perlomeno agli inizi del Cinquecento, al Liber de arti distillandi compositis di Brunschwig (Fig. 15) ad esempio. Come è possibile una tale contraddizione? Sicuramente l’autore non deve aver avuto la possibilità di assistere a delle dissezioni, forse ha tratto le informazioni di cui necessitava proprio da un libro di anatomia un po’ datato per la sua epoca? Non ci è dato dirlo. Certamente una figura quale Giulio Gaetano Zumbo, apparentemente, potrebbe colmare molte lacune: •era un abate, quindi con una conoscenza approfondita dei significati intrinseci a una tale rappresentazione, probabilmente sensibile anche al problema delle istanze eretiche, • nativo di Siracusa percorre tutta l’Italia con i suoi modellini in cera, passa per Bologna e, secondo alcune fonti, vi transita digiuno di anatomia ma con un forte interesse per la materia (il Sud incontra il Nord, la cera incontra la rappresentazione del Cristo tipica dei paesi nordici, l’anatomia non è corretta). Tuttavia vi sono altrettanti indizi che confutano questa teoria: • lo stile e la tecnica non sono riconducibili alle opere di lui note, • le fonti più attendibili lo descrivono quale perito anatomico già ben prima del suo supposto passaggio per le terre bolognesi. Inoltre, i noti “teatrini”, universalmente riconosciuti fra le sue prime produzioni, ne attestano la perizia nella resa anatomica ed evidenziano la distanza stilistica dal crocefisso in esame (Fig. 10), • date le notizie storiche di lui pervenute, per quanto lacunose, appare assai strano che un’opera così singolare non venga mai menzionata in alcuno scritto, • le date che potrebbero giustificare una sua produzione giovanile, non anatomicamente corretta, non collimano con la rappresentazione fisica del Cristo che parrebbe appartenere ad un’epoca più tarda. Per il momento, non rimane dunque che rivolgere altrove lo sguardo, probabilmente a un autore simile allo Zumbo, magari anch’egli appartenente al clero, dedito allo studio delle scienze e della medicina. Tuttavia, al di là di ogni indagine, interpretazione e quesito ancora irrisolto, nulla potrà mai scalfire la considerazione che siamo innanzi a un’opera eccezionale, insolita e sbalorditiva, che con la sua forza comunicativa costringe la nostra mente, almeno per un momento, ad un’impellente ricerca di significato. Un punto interrogativo lasciato aperto ai nostri giorni, un tesoro di inestimabile valore.
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Fig. 14 Juan Valverde de Amusco, Anatomia del corpo Humano‌Roma, incisione su rame, 1559. Bethesda (Maryland), National Library of Medicine
Fig. 15 Hieronymus Brunschwig, Liber de arti distillandi compositis, 1512. Strassburg, Johann GrĂźninger. Bethesda (Maryland), National Library of Medicine
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Fig. 16 Giulio Gaetano Zumbo (1656 - 1701), Il trionfo del Tempo, particolare. Firenze, Museo della Specola
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Fig. 1 Il Cristo prima del restauro
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Anatomia di un restauro Federica Dal Forno
La ceroplastica antica rientra tra le categorie di manufatti ad alta deperibilità, surclassata solo dai manufatti costituiti da materiali organici di natura vegetale o proteica, in assoluto i più delicati (carta, pellami, impagliature di animali, piumaggi, mummie, piante, anatomie essiccate, ecc.). Se ormai testata è la tecnica del recupero come pure i parametri ambientali per la conservazione di questo materiale, solo di recente è stata messa a punto una metodica di intervento all’avanguardia che ne ha migliorato le modalità operative consentendo di preservarla più a lungo nel tempo. Proprio un intervento di questo tipo, che applica la migliore tradizione coniugandola alle nuove tecnologie d’indagine, è stato il restauro eseguito nel 2012 dalla sottoscritta, a nome dell’Impresa Antonio de Feo Restauri di Roma, sul Crocefisso di San Martino in Rio grazie al finanziamento dell’ Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, condotto sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici e Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia. L’opera, entrata in Museo in grave stato di degrado (Fig. 1), era fortemente alterata nella cromia e nella materia prima, presentando uno strato di particolato di varia natura e grado di adesione, oltre a gravi fratture, tentativi pregressi di ricomposizione dei distacchi, nonché integrazioni grossolane delle lacune eseguiti mediante: • fusione a caldo della cera originale nel tentativo di ricongiungere le parti rotte e compromesse (Fig. 2); • inserimento di perni metallici all’interno degli arti, in corrispondenza delle fratture, fissati a caldo con pece greca (Fig. 3); •ricostruzione delle lacune mediante cera caratterizzata da un’alta percentuale di resina e pigmenti a base di piombo (biacca, carbonato basico di piombo) eseguita a mezzo di cera bianca colata a rinforzo nelle parti più fragili dell’opera. La mappatura del degrado e degli interventi non originali, prima del restauro, era la seguente:
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Fig. 2 Piedi non originali
• arti fratturati all’altezza delle spalle, di un polso, delle ginocchia e delle caviglie (Figg. 1, 3); • piedi non originali (Fig. 2), ricostruzione evidenziata anche dall’esame tomografico computerizzato/TC (Fig. 3); • alterazione della cera nella cromia e nel modellato; • ridipinture delle gocce di sangue con colori acrilici eseguite su quasi tutto il corpo (Figg 4, 5), ben distinguibili dalle originali caratterizzate da un rosso vermiglio più caldo steso su una base di modellato in cera a rilievo (Fig. 6); • inserti di stoffa presenti all’interno del costato sinistro e all’esterno del tassello di chiusura del torace/ventre (Fig. 7), con l’inserimento, nel secondo, di una sorta di impugnatura per facilitarne la movimentazione (Fig. 8); • rifacimento di parte del costato sinistro e del tassello di chiusura confermato dall’esame TC (Figg. 9, 10); • fratture e lacune, oggetto di interventi precedenti di ricostruzione e integrazione non idonei all’estetica dell’opera; • inserimento di una reticella di sostegno a nido d’ape di cera in un tratto d’intestino (Fig. 11); • innesto di perni metallici alle spalle, ad una mano, alle ginocchia e ai piedi - inseriti dopo il 1850 - (Fig. 3) e di uno spillo nel torace a sinistra sotto al cuore, quasi sicuramente messo per regolare il posizionamento dello “sportello” a chiusura del ventre/torace (Fig. 12). Interventi • La pulitura. Si è iniziata la delicatissima fase di pulitura con uno spolvero mediante pennello morbido munito di soffietto. Si sono effettuati dei campioni di pulitura (Fig. 13) per valutare la risposta del deposito bruno di superficie. Le varie applicazioni si sono susseguite in ordine crescente per concentrazione e proprietà tensioattiva dei solventi: acqua deionizzata, acqua e benzalconio cloruro in soluzione, essenza di petrolio (limitata alle zone che
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Fig. 3 Esame tomografico computerizzato (TC) del Cristo. In bianco sono evidenziati: la ricostruzione con perni degli arti, i ritocchi e i rifacimenti
Figg. 4 - 5 Gocce del sangue non originali dipinte in rosso chiaro con colori acrilici
Fig. 6 Gocce originali del sangue dipinte in rosso piĂš scuro su base rilevata in cera
Fig. 8 Segno dell’impugnatura Fig. 7 Inserti di stoffa nel tassello di chiusura del ventre nel tassello interno di chiusura del ventre
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Fig. 9 Rifacimento parziale del costato rilevato dalla TC Fig .10 Rifacimento parziale del tassello di chiusura del ventre rilevato dalla TC
non rispondevano alle soluzioni precedenti). • La vernice protettiva. Terminata la pulitura, dopo attento esame si è appurato come, su tutta la superficie dell’opera, fosse presente uno strato considerevole di gommalacca compatibile con una verniciatura abbastanza recente e, con tutta probabilità, relativa al restauro novecentesco dell’opera. A seguito del processo d’invecchiamento e dello spessore eccessivo di tale apposizione, quest’ultimo strato protettivo aveva virato verso i toni del giallo intenso offuscando la reale gamma cromatica del manufatto. Si è quindi giunti alla risoluzione di alleggerire lo strato di gommalacca novecentesco al fine di restituire all’opera l’originale delicata varietà cromatica degli incarnati dai toni diafani e striati di verde e rosso, propri della condizione del morituro. In buona parte dell’opera si è ritrovata la vernice originale. • I perni non originali. Il pezzo non presentava, all’atto della creazione, perni di alcun
Fig. 11 Inserimento di reticella di sostegno in cera a nido d’ape Fig. 12 Innesto di uno spillo nel torace per regolare lo sportello di chiusura e apertura del ventre
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Fig. 13 Prove graduali di pulitura sulle braccia
genere all’interno delle giunture: si tratta infatti di una fusione unica degli arti. Tale ipotesi è stata avallata ancora una volta dall’esame TC che ha confermato come, all’interno del polso ancora integro, non fosse presente alcuna struttura di rinforzo. Si è provveduto quindi alla loro rimozione unitamente ai composti di cera resinosa scura apposti intorno ai perni durante i pregressi tentativi di ricomporre le fratture agli arti (Figg. 14, 15). Le inserzioni, non solo penalizzavano fortemente l’estetica dell’opera, ma risultavano oltremodo d’impedimento per la corretta ricollocazione, ricomposizione e fissaggio degli arti nella sede loro propria. • L’integrazione reversibile delle lacune. Per questa operazione, si è passati alla realizzazione di due differenti tipi di composto ceroso, nel pieno rispetto della tipologia dell’impasto originale, mantenendo nello strato più interno del manufatto un amalgama maggiormente addizionato di resine affinché risultasse funzionale nel sostenere il peso degli arti; nello strato più esterno si è invece optato per l’utilizzo di una cera più pura e trasparente, compatibile con gli strati superficiali del manufatto in esame. Entrambi i composti sono stati studiati affinché il punto di fusione si aggirasse intorno ai 40°- 45° C contro i 60°-70° C previsti per l’impasto di cera originale. La soluzione adottata ha permesso innanzitutto di lavorare “a freddo” dal momento che la cera di reintegro diventa duttile già a 35°C. Inoltre, nell’ipotesi di un intervento futuro, sarà possibile attuare la completa rimozione delle integrazioni senza arrecare alcun danno alle parti originali dell’opera. Sarà sufficiente, infatti, innalzare la temperatura della zona d’intervento a 35°-37° C mediante un getto mirato e direzionato di aria calda, affinché l’amalgama torni malleabile e asportabile. Per salvaguardare la perfetta reversibilità
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dell’intervento, è stata verniciata in modo leggero, con gommalacca molto diluita, la zona frammentata
a cui si andava ad apporre la cera di reintegro, per facilitarne la futura rimozione anche solo mediante un bagno in alcool. La compatibilità chimica dei nuovi composti cerosi è garantita dall’utilizzo di materiali naturali che appartengono ai ricettari delle officine ceroplastiche da secoli. Il diverso grado di reversibilità è stato ottenuto studiando le addizioni di resine con elementi plastificanti. L’amalgama è stato volutamente apposto senza l’aggiunta di pigmenti affinché fosse chiaramente distinguibile. La mimesi pressoché completa si é ottenuta solo in un secondo momento mediante un’accurata integrazione pittorica. • Le integrazioni pregresse. Sono state rimosse le colate incoerenti di cera aggiunte durante i vari tentativi di restauro, convogliate in gran parte all’interno dei sottosquadri del perizoma (Fig. 16). Con solventi e bisturi si è provveduto a eliminare le macchie rosse di tonalità differenti non originali, nonché le colate di cera incongrue all’opera (Figg. 16, 19). Rimossa mediante bisturi la reticella a nido d’ape, apposta alle circonvoluzioni intestinali, si è potuta constatare la presenza di gran parte del modellato originale. Sono state ricomposte le piccole lacune, procedendo come descritto in precedenza (Fig. 17). Illustrare ogni dettaglio dell’intervento diviene pressoché impossibile, sia per le infiltrazioni di cera bituminosa che erano in numero ragguardevole, sia per la rimozione dei depositi bruni all’interno delle piccole scalfitture, che per la loro successiva integrazione. Molte le lacune rilevate a cui, durante i pregressi restauri, fu posto rimedio aggiungendo cera all’interno delle cavità, senza eseguire una pulizia preventiva della zona. Non è stato dunque infrequente dover procedere alla rimozione della cera apposta e quindi alla pulitura delle superfici originali sottostanti, per poi procedere a una nuova e integrazione più verosimile. • La striscia di stoffa. E’ stata rimossa la striscia di stoffa dall’interno del costato e dal tassello dell’addome (Fig.
Figg. 14-15 Inserimenti di composti cerosi scuri aggiunti in epoca posteriore nelle giunzioni degli arti
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18), una volta stabilita la sua non originalità, l’incompatibilità estetica e l’approssimativa ricostruzione. Si è effettuata l’integrazione con il composto reversibile mediante lavorazione a freddo (Fig. 17), accostandosi il più possibile al modellato della parte destra del costato ancora integro. Per contro, si é optato per il mantenimento in loco della striscia di tela più piccola inserita sul verso del tassello, sia perché non precludeva la leggibilità dell’opera (a differenza del brandello più grande di cui sopra), trovandosi in una zona non esposta, sia perché l’impugnatura presente sul lato sinistro del tassello, risulta effettivamente utile alla sua movimentazione e al suo posizionamento nel costato. • La rimozione di una grande macchia resinosa sul retro del perizoma asportata tramite bisturi (Figg. 19, 20). La ragione di tale danno è da ricercarsi nella presenza di un perno ligneo infisso in profondità nella cera (Fig. 21); infatti si ritiene che questo fosse l’unico sistema di ancoraggio dell’opera a una croce probabilmente lignea. Il trasporto della resina, dalla croce al Cristo, dev’essere avvenuto in occasione di un riverniciamento di tale supporto e/o di un tentativo di incollare i due oggetti a seguito della rottura del perno. • La ricostruzione dei piedi. Mantenendo la tecnica della lavorazione a freddo del composto resinoso di Fig. 16 Integrazioni posteriori di cera reintegro, si sono modellati i piedi relazionandoli all’andamento effettivo della struttura anatomica delle nei sottosquadri del perizoma gambe, una volta riposizionate come previsto dall’autore. La ricostruzione è stata motivata dalla constatazione che i piedi pervenuti non erano ricollocabili in sede per la loro postura inadeguata, per il colore e la materia non originali (fortissima presenza di biacca mischiata alla cera di peso specifico assai superiore a quello previsto dall’autore, con conseguente pericolo di una reiterata destabilizzazione dell’opera e rottura degli arti). Inoltre la mancanza delle estremità inferiori era fortemente penalizzante per un’armonica lettura dell’opera. Si è optato quindi per una nuova ricostruzione delle parti mancanti lavorando a freddo la cera nuova per poter modellare i piedi direttamente sui monconi delle caviglie senza recare danno a quella originale Fig. 17 Reintegrazione delle lacune con innesti di cera a freddo reversibile, particolare del torace
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e per posizionare con maggior esattezza e precisione le parti anatomiche. I piedi sono stati ricostruiti in modo esteticamente compatibile mantenendo un modellato non troppo definito e manierista, al fine di facilitare il riconoscimento dell’integrazione. • L’Integrazione pittorica delle parti ricostruite. Ricomposto il Cristo nella sua interezza (Fig. 22), la cera di reintegro è stata protetta con un velo di gommalacca ampiamente dispersa in alcool. Sono state eseguite, infine, le integrazioni pittoriche ad acquerello disperso in fiele di bue (Fig. 23 prima dell’integrazione pittorica, Fig. 24 a integrazione avvenuta) con un microscopico puntinismo, visibile solo a distanza ravvicinata. Questa tecnica ha permesso di riportare la cera alterata dalle bruciature ai colori originali e di tonalizzare al contempo il composto di reintegro. L’intervento pertanto é perfettamente riconoscibile e del tutto reversibile, in quanto i colori non verniciati possono essere rimossi con semplice acqua deionizzata. Il restauro così concluso ha imposto la necessità di conservare l’opera all’interno di precisi range di Temperatura (18°-20°) e Umidità Relativa (55%), evitando il più possibile forti escursioni termiche e l’esposizione diretta alla luce solare e artificiale.
Fig. 18 Rimozione della stoffa nel tassello del ventre
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Fig.19 Presenza di una grande macchia di cera resinosa rossa sul retro del perizoma
Fig. 20 Rimozione a bisturi della macchia sul retro del perizoma
Fig. 21 Perno ligneo di ancoraggio del Cristo alla croce infisso sul retro del perizoma ed evidenziato dalla TC
La scheda del restauro del crocefisso Ê consultabile all’indirizzo: http://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/samira/v2fe/index.do (Banca Dati Interventi di Restauro IBC) 37
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Fig. 22 Il Cristo restaurato con le integrazioni pittoriche
Fig. 23 Particolare del Cristo restaurato senza integrazioni pittoriche
Fig. 24 Particolare del Cristo restaurato con le integrazioni pittoriche eseguite ad acquarello con la tecnica del puntinismo
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OPERE E APPARATI IN MOSTRA
Italia, Autore ignoto, Cristo anatomico, fine XVII - inizi XVIII secolo, ceroplastica policroma (cm 20x29x7). San Martino in Rio (RE), Museo dell’Agricoltura e del Mondo Rurale
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Italia, Autore ignoto, Testa maschile con rappresentati i muscoli del cranio e della faccia, XVIII-XIX secolo, ceroplastica anatomica (cm 20x20x25). Modena, Musei Anatomici dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Italia (ambito emiliano), Autore ignoto, Gesù Bambino in fasce, XVII secolo, ceroplastica policroma (cm 57x22x9). San Martino in Rio (RE). Chiesa Collegiata dei Santi Martino e Venerio, cappella di San Venerio
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Tavole raffiguranti scheletri umani incise all’acquaforte e bulino da Jan Wandelaar (1690 - 1759) per l’Atlante Anatomico di Bernhard Siegfried Albinus, Tabulae sceleti et musculorum corporis humani. Lugduni Batavorum, apud Johannem & Hermannum Verbeek, 1747 (cm 30x50 cad.). Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Raccolta di stampe sciolte
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Anatomia del sacro
Il crocefisso in cera del Museo di San Martino in Rio SEDE e ORARI Rocca Estense, Sala del Teatro e delle Aquile Corso Umberto I, 22 – 42018 San Martino in Rio (RE) 20 ottobre 2013 - 12 gennaio 2014 sabato 10 - 12.30 domenica 10 - 12.30 e 15.30 - 18.30 giorni feriali su appuntamento
INFORMAZIONI Tel +39 0522 636726 Fax + 39 0522 695986 museo@comune.sanmartinoinrio.re.it www.comune.sanmartinoinrio.re.it
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ISBN 9788897281160