musei civici di imola istituto per i beni artistici culturali e naturali
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istituto per i beni artistici, culturali e naturali della regione emilia-romagna musei civici di imola palazzo tozzoni
In tutto simile a lei. Giorgio Barbato e Orsola in palazzo Tozzoni a cura di Marta Cuoghi Costantini e Claudia Pedrini
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Sommario
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Introduzione Marta Cuoghi Costantini, Claudia Pedrini
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In tutto simile a lei Carlo Lucarelli
15 Giorgio Barbato e Orsola: le nozze e il nuovo quartiere Claudia Pedrini 51 Orsola e il suo doppio Oriana Orsi 71 Il guardaroba di Orsola fra moda neoclassica e romantica Marta Cuoghi Costantini 87 Il manichino di Orsola Tozzoni Angela Lusvarghi (R.T. Restauro Tessile) e Roberta Notari
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Fig. 1 - Camera da letto, 1818, Imola, palazzo Tozzoni
a collaborazione fra l’Istituto beni culturali, che ha messo a disposizione risorse della L.R. 18/2000, e i Musei civici di Imola ha permesso di raggiungere un risultato davvero importante con il restauro e l’esposizione permanente in palazzo Tozzoni dell’ottocentesco manichino a grandezza naturale della contessa Orsola Tozzoni che da anni versava in condizioni precarie, tali da mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza. Aggregato di materiali diversi come il legno, il crine, i capelli, le fibre tessili, ciascuno dei quali già di per sè fragile e soggetto ad un degrado rapido e irreversibile, l’originale ritratto era afflitto da ogni sorta di problemi indotti dalla presenza di polvere, microrganismi, oltre che da lacerazioni e vere e proprie lacune. Non è stato dunque facile individuare i metodi più confacenti per affrontare l’intervento conservativo e pianificare l’azione dei diversi specialisti chiamati a realizzarlo: restauratori del tessile e delle superfici dipinte, ma anche artigiani del legno e parrucchieri. Le operazioni di restauro di un oggetto così particolare hanno sollevato problemi di metodo, ma inevitabilMarta Cuoghi Costantini Claudia Pedrini
Introduzione
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mente anche interrogativi relativi alle motivazioni che indussero il conte Giorgio Barbato Tozzoni a duplicare in modo davvero irrituale l’immagine della moglie, all’artefice ancora sconosciuto dell’opera, ai numerosi capi d’abbigliamento che la rivestono, non tutti omogenei fra loro. A questi interrogativi cercano di dare risposta i contributi raccolti in questo Album, ciascuno dei quali affronta il tema del manichino da un punto di vista diverso, ma che nel loro insieme tentano di comporre in un quadro unitario le vicende umane, artistiche, di costume in cui prende forma l’eccezionale ritratto. L’intervento è stato anche occasione di studio e di un riordino museografico, più fedele all’originale situazione del 1818, del cosiddetto appartamento impero di palazzo Tozzoni, le tre stanze cioè che vennero realizzate e arredate in occasione delle nozze di Giorgio Barbato e di Orsola e che accolsero la vita degli sposi: una camera da letto tutt’ora perfettamente conservata, un salotto di dimensioni e arredi di gusto già borghese, una più ampia sala a pianta ovale per ricevere e dedicarsi agli amati passatempi del canto e della musica. Dopo un soggiorno abbastanza lungo in laboratorio di restauro, il ritorno del manichino della contessa Orsola a palazzo è stato accompagnato da alcune scelte museografiche riguardanti la sua ricollocazione, scelte non facili volendo da un lato consentirne la fruizione pubblica e dovendo dall’altro ottemperare agli attuali standard conservativi. La soluzione abbracciata è stata quella di esporre il raro e peculiare manufatto nel locale che per tanti anni lo aveva ospitato, la sala dell’archivio, e ricomprendere, con adeguati accorgimenti espositivi, anche questo ambiente suggestivo fino ad ora non visibile nel percorso di visita del palazzo. Uno spazio peraltro fortemente legato alle nostre vicende, essendo stato proprio Giorgio Barbato, nel corso della sua lunga vita dopo la prematura scomparsa della moglie, a riordinare il ricco archivio di famiglia e a curare la sistemazione della sala che lo accoglie ponendovi
gli stemmi e i ritratti dell’antico casato. Orsola torna così ad abitare il palazzo che fu il suo e ci racconta di sentimenti, affetti e volontà di memoria, elementi sempre presenti nella “grande storia” come nelle vicende più piccole che ne costituiscono i tasselli. E nella volontà di memoria si inserisce anche la dedica di questo volume e dei lavori di restauro e di riallestimento museografico a Mario Cherici, che dell’archivio e dell’intero palazzo è stato intelligente custode e ne ha curato il delicato passaggio da dimora privata a museo pubblico. Un museo, o meglio una casa-museo, in cui ancora è possibile seguire le storie, gli amori, le passioni politiche, il gusto dell’abitare, l’attenzione per le arti, “gli affari intricatissimi” e le quotidiane “contrarietà” vissuti dai suoi antichi abitanti.
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Fig. 1 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, particolare, Imola, palazzo Tozzoni
avanti a me, sul tavolo dello studio del conte Giorgio Barbato Tozzoni, c’era un grosso sacco di tela bianchissima. Il conte era seduto dall’altra parte dello scrittoio e faticava a parlare. Quando mi aveva mandato a chiamare avevo pensato che fosse per un monumento funebre. Sapevo che la moglie, la contessa Orsola, era recentemente deceduta e mi ero convinto che mi avrebbe chiesto di realizzare una statua in suo ricordo, da porre nell’arca della famiglia Tozzoni al cimitero del Piratello. “Ho avuto modo di vedere molte delle vostre opere nelle chiese di Imola” mi aveva detto. Io gli chiesi ingenuamente se avesse già in mente qualche soggetto particolare, un angelo, un putto o qualcosa di più complesso, e se il marmo bianco andasse bene. Lui sembrò non ascoltarmi, prese il sacco bianco tra le mani e dopo averlo aperto estrasse un involto di stoffa blu, e poi una specie di stola di pizzo candida e pregiata. A quel punto cominciai ad avere qualche dubbio, ma non osavo chiedere. Infine estrasse un ultimo involto di tela grezza e quando la aprì mi accorsi Carlo Lucarelli
In tutto simile a lei
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che conteneva delle grosse ciocche di capelli castani, lunghi e lucenti. “Avete mai costruito una bambola?” mi chiese quasi sottovoce. Confesso che cominciai a sentire un po’ di inquietudine, ma cercai di essere accondiscendente, davanti a me avevo un uomo segnato dal dolore, i suoi occhi erano persi e gli tremavano le mani. Allora gli dissi che non avevo mai costruito bambole, ma che sì, potevo farlo. Il conte si alzò dalla sua sedia e mi chiese di seguirlo. Mi mostrò il ritratto di una donna che io riconobbi subito, era la contessa Orsola, sua moglie. “La dovete realizzare in tutto simile a lei” mi disse staccando dalla parete il ritratto e porgendomelo. Io presi tra le mani il dipinto. “Era alta circa un metro e sessanta centimetri, la vestirete con l’abito blu che ho preparato. Userete capelli veri, quelli che vi ho mostrato. La testa e il busto dovranno essere di stucco. Il corpo, come quello delle bambole, in stoppa. Mi fido di voi”, mi disse prima di salutarmi. Io presi il ritratto e il sacco bianco, e me ne andai. Il giorno dopo mi misi a lavorare. La mia testa era piena di pensieri, continuavo a chiedermi perché il conte volesse una bambola a grandezza naturale della moglie che non c’era più. Mi sembrava che ci fosse qualcosa di strano in tutto questo, qualcosa di morboso, e solo ad immaginarmela, quella bambola di una donna morta, in tutto simile a lei, mi faceva venire i brividi. Arrivai al punto di rifiutare la commissione e riportare tutto al conte, ma poi non lo feci. A farmi cambiare idea, più che il prezzo del lavoro promessomi dal conte -ed era parecchio- fu il lavoro stesso, come sempre mi accadeva. Sono un artigiano che ama quello che fa e lo fa con passione, e se ogni volta è una nuova sfida tra me e la materia, figuriamoci in questo caso. Avevo cominciato così, tanto per provare e ne rimasi invischiato come una mosca in una ragnatela, perché più modellavo il
viso, più mi sembrava che lo sguardo della contessa fosse assente, come velato da una rassegnazione senza speranza. Decisi di ammorbidirne un po’ l’espressione, di darle un po’ di serenità. E intanto avevo trovato un artigiano che si sarebbe occupato del corpo della bambola. Qualche tempo dopo, senza preavviso, il conte apparve nella mia bottega. Voleva vedere come procedeva il mio lavoro. Rimase per qualche istante a guardare la testa che stavo ultimando e poi mi disse che non andava bene. “Vi avevo chiesto di farla in tutto simile a lei. Questa non è mia moglie. Vi manderò un altro ritratto”, mi disse prima di uscire. Io rimasi a guardarlo mentre si allontanava, di nuovo in preda a quella strana sensazione. Cosa stavo facendo? Davo un corpo alla morte? E perché? Per una sfida? C’era qualcosa di morboso in tutto questo, di tetro, e non so se appartenesse più al conte e al suo dolore di vedovo o a me e alla mia ossessione di artigiano. Nel pomeriggio si presentò una giovane con un grande quadro avvolto in una tela, mi disse di chiamarsi Emma e che la mandava il conte. Mi porse il dipinto e poi fece per andarsene, ma io la fermai. “Voi la conoscevate la contessa Orsola?”, le chiesi. La ragazza mi disse di essere stata la sua cameriera. La feci accomodare, sebbene fosse un po’ reticente, e le dissi che avevo bisogno di capire. “Quando la contessa è deceduta, il conte mi ha chiesto di tagliarle i capelli, di lavarli e di lucidarli” si limitò a dire Emma guardando sul mio tavolo i capelli che il conte mi aveva dato. “La contessa non era una donna felice”, le dissi cercando di sapere qualcosa di più. La giovane cameriera, dopo un po’ di esitazione, mi disse che no, non era una donna felice. Non poteva esserlo. “Non amava il conte?” le chiesi a bruciapelo. “Io penso che si siano amati moltissimo. Quando la conobbi, tanti anni fa, era una donna piena di energia, sorridente. Ma la vita è
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stata troppo dura con lei. Ha perso due bambini e non è più stata la stessa. Quell’energia è diventata rabbia. Tutto l’amore che c’era stato si è trasformato piano piano in una specie di guerra fatta per lo più di silenzi, interrotti solo dalle parole taglienti che la contessa rivolgeva al signor conte, che, distrutto, non replicava. Lo minacciava di andarsene, avrebbe potuto tornare a Faenza, dalla madre. Ma poi non lo fece”, mi disse con qualche tentennamento, come se stesse violando un segreto. Lasciai andare la giovane cameriera e mi rimisi a modellare il volto della contessa Orsola da capo. Ripensando al dolore che avevo visto negli occhi del conte, al tremore delle sue mani e da quella piccola confidenza, capii come dovevo fare. Per ultimare la bambola il prima possibile lavorai anche le notti successive, doveva essere perfetta. Mi feci aiutare da Emma per vestirla e per pettinarla in modo che il conte potesse essere soddisfatto. Quando la portai a palazzo Tozzoni, il conte mi fece aspettare più di un’ora. Rimasi seduto in anticamera a lungo, a fianco a me avevo il grande involucro che copriva la bambola. La servitù mi passava a fianco in silenzio, gettava un’occhiata e proseguiva. Alla fine arrivò Emma e mi disse che il conte aveva chiesto che la bambola fosse portata nella camera da letto Impero, quella che diversi anni prima aveva fatto arredare per il loro matrimonio. Con l’aiuto della giovane, sistemai Orsola su un divano, sembrava vera, con quello sguardo fiero, anche se velato di tristezza. Le mettemmo delle piccole scarpe bianche e dei guanti sottili. Prima di uscire dalla stanza le diedi un ultimo sguardo. Mi risuonarono nella mente le parole del conte: “In tutto simile a lei”. “In tutto”, perché di lei aveva amato ogni cosa, la sua vitalità giovanile, ma anche la sua rabbia. E infine aveva amato il suo non essersene andata, il suo essere rimasta, nonostante tutto. Ed era proprio questo che avevo capito mentre ne studiavo il ritratto,
mentre scolpivo e plasmavo i suoi lineamenti e anche quando la vestivo. Che per quanto strano potesse sembrare non si trattava affatto di qualcosa di tetro o morboso. Perché questa non è una storia di morte. E’ una storia d’amore. Una grande storia d’amore. 15
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l conte Giorgio Barbato Tozzoni (1781–1873) e la contessina Orsola Bandini (1797–1836) si sposano il 26 gennaio 1819 nella chiesa di San Domenico a Faenza, poi una breve sosta ad Imola nel palazzo di famiglia per far vedere alla sposa “il quartiere tutto a nuovo preparatole”, per proseguire infine per Firenze, la città amata da Giorgio Barbato e da poco lasciata (1). Giorgio Barbato e Orsola appartengono entrambi a famiglie filofrancesi e il loro matrimonio, se pur celebrato in epoca ormai di restaurazione, si inserisce ancora in questo quadro di simpatie politiche (2).
Fig. 1 - Pasquale Saviotti, Amorino, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, camera da letto, soffitto
Gli anni rivoluzionari (1797 – 1815) I Tozzoni sono una famiglia nobile di antica tradizione tra le maggiori della città e fondano il proprio potere, come è proprio dell’ Ancien Règime, sui vasti possedimenti terrieri (3). Al momento però dell’arrivo del ciclone rivoluzionario e nel periodo della dominazione francese non si schierano dalla parte dell’aristocrazia più reazionaria e conservatrice, ma aderiscono – come altri nobili in quegli anni – alle nuove idee e partecipano da protagonisti alla vita Claudia Pedrini
Giorgio Barbato e Orsola: le nozze e il nuovo quartiere
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Fig. 2 - Tricolore della Guardia nazionale cisalpina legione imolese, 1798, Imola, palazzo Tozzoni
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pubblica sotto il nuovo governo. Quando il primo febbraio 1797 Imola è conquistata dai francesi, il conte Alessandro, zio di Giorgio Barbato, fa subito parte della prima Municipalità del Provvisorio governo democratico e poi della nuova Municipalità quando la città entra a far parte della Repubblica cisalpina (4). Ed anche Francesco Tozzoni mostra una sollecita adesione al cosiddetto triennio giacobino (1797–1799) firmando nel marzo del 1798 il manifesto per l’inaugurazione del Circolo costituzionale d’Imola e ricoprendo insieme ad Alessandro cariche nelle istituzioni repubblicane locali (5). Due testimonianze dal forte valore simbolico mostrano le
simpatie politiche dei Tozzoni in quegli anni: nel palazzo si conserva ancora una rara bandiera tricolore della Guardia nazionale cisalpina legione imolese del 1798 con i simboli della Repubblica rivoluzionaria, il fascio e il berretto frigio, e le iniziali di Libertà e Eguaglianza (fig. 2); inoltre le cronache riportano che la sera del 15 aprile 1798 il salone del palazzo di famiglia si aprì per accogliere il ballo che concluse la festa patriottica tenutasi in città. Le feste patriottiche furono il principale spettacolo pubblico del triennio giacobino, strumenti di diffusione dei nuovi principi rivoluzionari e dello spirito patriottico nella cittadinanza. Quel giorno a Imola la festa si era aperta con il pranzo in piazza e il vino che sgorgava da una fontana nel palazzo comunale, poi la distribuzione di pane ai poveri, la musica della banda militare, la recita di composizioni e la corsa del palio, per concludersi la sera con i fuochi artificiali e il ballo a palazzo Tozzoni (6). Furono comunque anni di rapidi sconvolgimenti e di grande complessità in cui convivevano simpatie antiche e nuove ed in cui era difficile orientarsi. Ne è un esempio la vicenda umana di Giorgio Cristiano, il padre di Giorgio Barbato, che sotto il governo pontificio è sorvegliato a causa delle sue simpatie giacobine, ma all’arrivo dei francesi rifiuta un posto di comando nelle truppe cispadane e collabora col governo austriaco nel breve periodo della restaurazione (1799–1800), per finire poi liberato dal carcere per interessamento di Gioacchino Murat (7). Giorgio Barbato, avviato alla carriera militare, esordisce brevemente nel 1799 a fianco del padre nelle truppe controrivoluzionarie e al ritorno dei francesi si rifugia a Firenze dove milita dal 1801 nel reggimento delle guardie del corpo reale della regina reggente d’Etruria e poi nei reggimenti del nuovo governo francese fino alla caduta di Napoleone. Un piccolo ritratto del 1801 ce lo mostra ventenne in divisa della guardia del corpo della regina reggente (fig. 3). E’ un disegno di discreta qualità, incisivo nel restituire il nobile carattere del viso e i tratti distintivi del naso aquilino e del taglio allungato degli
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Fig. 3 - Ritratto di Giorgio Barbato Tozzoni in divisa della guardia del corpo della regina reggente d’Etruria, 1801, Imola, palazzo Tozzoni
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Fig. 4 - Felice Giani, Ritratto delle sorelle Caldesi e di Rosa Caldesi Bandini, Imola, palazzo Tozzoni
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occhi e richiama le parole di una donna di servizio della casa che ricorda quando il giovane conte poco più che ventenne veniva da Firenze ad Imola “in elegante uniforme d’ufficiale, bello di persona e di svelto portamento” (8). Giorgio Barbato entra quindi a Firenze a far parte dell’armata napoleonica respirando appieno e facendo propria la cultura napoleonica a cui rimarrà sempre legato e proseguendo nel solco delle
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simpatie politiche filofrancesi espresse già dalla sua famiglia nei primi anni rivoluzionari (9). Il suo stesso matrimonio con Orsola nel 1819 avverrà per l’interessamento di Giovanni Battista Angeli, medico imolese di fede repubblicana, e di Maddalena Caldesi, zia di Orsola (10). La giovane faentina è infatti imparentata, tramite la madre Rosa, con la famiglia Caldesi i cui membri erano tra i più noti esponenti della fazione giacobina in città. Due disegni conservati nel palazzo, e che possiamo immaginare Orsola porti con sé al momento di lasciare la casa paterna, restituiscono quei legami e quel clima storico e culturale. Si tratta di due schizzi di Felice Giani (figg. 4-5) da datarsi all’ultimo quinquennio del settecento, l’uno ritrae le sorelle Caldesi, tra cui Rosa già sposata con Bandini, e l’altro Antonio, Domenico e Clemente Caldesi, lo scenografo amico di Giani, e Carlo Bandini, padre di Orsola (11). L’ambientazione è appena accennata in entrambi i disegni: un interno per le tre figure femminili ritratte in pose un po’ rigide e impersonali, abbigliate con abiti che non seguono ancora la moda delle vesti con vita alta sotto il seno; un esterno per l’altro
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5 Fig. 5 - Felice Giani, Ritratto di Antonio, Domenico, Clemente Caldesi e di Carlo Bandini, Imola, palazzo Tozzoni
foglio, probabilmente un cortile, come indicano il cancelletto e la vegetazione che si intravedono dall’arco alle spalle dei quattro uomini. Le pose in questo secondo schizzo sono più informali, specie quella di Clemente colto in un momento di riposo con la camicia slacciata, il braccio abbandonato sulla gamba, la testa dai folti capelli scomposti e lo sguardo intenso volto a intercettare lo spettatore. I due fogli imolesi sono da avvicinare ad altri disegni del Giani con ritratti e scene dal vivo, a volte con intenti caricaturali e sempre con un’adesione al naturale. E’ il caso del noto gruppo di ritratti del Museo civico di Torino, o di alcuni fogli con istantanee di vita in
città, o di quello che ritrae gli amici artisti intenti a disegnare nella casa del Giani a Brisighella (12). Anche i ritratti Caldesi-Bandini sono da ricondursi al contesto dell’amicizia e delle frequentazioni quotidiane di famiglie e case faentine. La città aveva accolto più volte l’artista dal 1786 al 1820 e molti esponenti della classe dirigente filofrancese gli avevano commissionato il rinnovamento e le nuove decorazioni delle proprie dimore. Tra questi anche Carlo Bandini che nel 1802, subito prima che Giani iniziasse i lavori a palazzo Milzetti, gli affida la decorazione di un gabinetto nella sua residenza e Clemente Caldesi che lavora insieme a Giani e a Pietro Piani per decorare nel 1820 gli interni della sua stessa casa (13). Negli schizzi imolesi l’artista non fa uso del suo segno più sintetico e veloce, ma cura la resa del reale con l’uso dell’acquerello e restituisce con discrezione quel senso di confidenza e condivisione che lo lega ai committenti-amici. A questo ambito culturale faentino si rivolgeranno ancora Orsola e Giorgio Barbato nel 1818 per la creazione del loro nuovo appartamento. La “socievole educazione” di Giorgio Barbato Ma prima di giungere, ormai all’età di trentasette anni, alle nozze, Giorgio Barbato vive a Firenze, dal 1800 al 1815, una lunga stagione decisiva per la sua formazione e per l’inserimento in società. Nel capoluogo toscano sono gli anni del Regno d’Etruria (1801-1807) con la sfarzosa corte di Ludovico e Maria Luisa di Borbone, poi reggente per il figlio minorenne, e del Granducato di Toscana (1807-1814) con Elisa Bonaparte il cui mecenatismo e amore per le arti segna un momento di grande ripresa culturale e richiama a Firenze musicisti, scultori e artisti come Canova, Bartolini, Benvenuti e Ugo Foscolo che qui compone Le grazie. Nel contesto di questa città, ricca di occasioni di incontri, di intensa vita sociale e con una forte presenza di stranieri, il giovane conte imolese si dedica oltre che alla carriera militare “a completare sempre più la socievole sua educazione” e nelle sue memorie elenca
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con orgoglio le numerose conoscenze e le amicizie strette con nobili italiani e stranieri di “accuratissima educazione e amabilità”, con signore che parlano il francese, suonano l’arpa e sono intelligenti coltivatrici di fiori e creatrici di giardini, con poetesse improvvisatrici, banchieri, mercanti e militari, con nobildonne di alto rango con “educazione del mondo e della scelta società” che tengono colti salotti, con signore di cui diviene il cavalier servente, secondo una consuetudine che di lì a breve cadrà in disuso (14). Giorgio Barbato frequenta quindi assiduamente i salotti, quei ritrovi di conversazione che furono i luoghi privilegiati di aggregazione delle élite borghesi e aristocratiche per tutto l’Ottocento, dove si intrecciavano vita privata, civile, politica e culturale, retti per lo più dalla figura femminile della padrona di casa e dove era diffusa la presenza di intellettuali e la consuetudine di letture condivise (15). A fianco delle frequentazioni mondane, occasioni di riconoscimento sociale e di affinamento culturale, Giorgio Barbato prende lezioni in svariate discipline, dall’equitazione alla sciabola, alle lingue straniere, alla letteratura, alla matematica e anatomia, al canto ecc. (16). Nel suo percorso di formazione non emergono particolari interessi per le arti figurative, anche se potè certamente recepire il rinnovamento artistico in atto in quegli anni a Firenze e il pieno affermarsi del neoclassicismo. Il giovane conte infatti frequenta alcune lezioni di disegno all’Accademia delle Belle Arti, istituzione allora risorta, com’egli scrive, per opera di Pietro Benvenuti, uno dei protagonisti del primo neoclassicismo toscano e personaggio chiave del clima artistico della Firenze napoleonica. Giorgio Barbato lo aveva conosciuto nel salotto di Eugenia Cocchi Bellini dove aveva avuto la possibilità di incontrare anche Ugo Foscolo “severo ma amabilissimo purchè non si trovasse a fronte coi letterati”. Tra i suoi contatti con il mondo della letteratura contemporanea anche la lettura delle tragedie dell’Alfieri, scoperte per la prima volta a casa del medico
Fig. 6 - Giorgio Barbato Tozzoni, Paesaggio, Imola, palazzo Tozzoni
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Alessandro Violani, “le quali sebbene non intendessi del tutto, pure mi sorpresero”. Ma come si addice all’educazione di un giovane aristocratico, Giorgio Barbato prende anche lezioni di miniatura da Tommaso Nistri, miniatore di corte “bravo nell’arte sua e ancor più eccellente persona (…) colto e istruito della Storia Patria” con cui condivise una vera amicizia e a fianco del quale paiono nascere nell’imolese anche i primi sentimenti patriottici e il desiderio di riscatto della nazione (17). Altri studi e passioni coltivati negli anni fiorentini accompagneranno Giorgio Barbato anche nell’età adulta, una volta rientrato ad Imola. E’ il caso, per noi abbastanza
Fig. 7 - Ritratto di Giorgio Barbato Tozzoni di profilo, Imola, palazzo Tozzoni. Il conte è ritratto all’età di circa quarant’anni.
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sorprendente, dell’esecuzione di miniature in capelli per cui Giorgio Barbato prende lezioni da un capitano belga dell’esercito francese. Di queste “miniature e piccoli paesaggetti in capelli incollati sull’avorio, sia per spilli, o per quadretti” (18) se ne trovano tutt’ora sette esemplari in palazzo Tozzoni raffiguranti paesaggi campestri (fig. 6) conservati insieme ad altri piccoli saggi delle sue attività artistiche. Più forte e assai duraturo dovette essere l’amore per la musica che lo porta a prendere lezioni
di chitarra francese, di contrapunto, di canto e di canto spianato italiano. Nel salotto ovale dell’appartamento rinnovato per le sue nozze trovavano posto nel 1821 un pianoforte a tavolino, una cassetta per musica e una chitarra francese tanto da far pensare per questo ambiente, la cui forma ellittica assicura una buona acustica, ad una destinazione di sala per la musica e il canto (19). Ancora nel 1868 l’ormai vecchio conte scrive a proposito della musica che “questa bell’arte, arte incantatrice al primo ascoltarla, vi rallegra, vi conforta, vi rapisce, vi comove e vi ecita infine a quanto vi ha di virtuoso, e di gloria: pure non parla, non argomenta, non obbliga con ragionamenti, ma agisce rapidamente come la scintilla elettrica” e ricorda di aver studiato a lungo canto, essendo dotato di una bella voce, rimpiangendo di aver per questo trascurato lo studio del pianoforte (20). Il matrimonio e il nuovo quartiere di Giorgio Barbato e Orsola Gli anni, intensi e piacevoli, vissuti a Firenze vengono però bruscamente interrotti nel 1815 dal richiamo dell’anziano zio Alessandro: è tempo che il nipote rientri ad Imola e si assuma la responsabilità e il governo degli affari di famiglia. A malincuore Giorgio Barbato (fig. 7) abbandona la capitale toscana, la carriera militare e quello che sentiva essere il suo mondo per far ritorno alla piccola Imola e alle questioni famigliari. Come egli stesso scrive “Dura cosa sembrava (…) il lasciar più che le delizie di Toscana, la quiete e gli amici che molti e distinti (…) aveva colà, per venire ad Imola ad ingerirsi in un caos di affari intricatissimi, e debiti, e sostenervi le contrarietà” (21). E naturalmente questa nuova fase della sua vita prevede anche il matrimonio. Dopo alcune trattative non andate a buon fine, la scelta cade, come si è detto, sulla ventunenne Orsola Bandini. A differenza di Giorgio Barbato, e come quasi sempre accade per le figure femminili, di lei e della sua giovinezza sappiamo poco, se non che, figlia unica e ricca, fu educata presso il prestigioso istituto delle Salesiane di
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Modena e che doveva condividere col marito la pratica della musica, peraltro assai consueta nella buona società , dato che porta in dote un pianoforte e che un fascio di spartiti si trova tra i suoi oggetti personali al momento della morte (22). Anche dei pensieri e sentimenti dei promessi sposi non sappiamo nulla, essendo molto impersonale la corrispondenza che Orsola e Giorgio Barbato si scambiano nei mesi che precedono le nozze (23). Sui preparativi per il matrimonio e le relative spese si conserva invece una minuziosa documentazione. Il conte attinge alle sue conoscenze fiorentine e fa dono alla sposa di un orologio d’oro,
Fig. 8 - Salotto tondo, 1818, Imola, palazzo Tozzoni Fig. 9 - Salotto, 1818, Imola, palazzo Tozzoni Fig. 10 - Camera da letto, 1818, Imola, palazzo Tozzoni
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di gioielli in corallo e in mosaico di pietre dure di Firenze e di un prezioso pettine del gioielliere Pietro Sarti con bottega sul Ponte vecchio, realizzato da Antonio Merciai in lapislazzuli con intarsi in pietre dure e montato in oro che purtroppo non si è conservato (24). E specialmente nel breve volgere di alcuni mesi, dall’estate del 1818 al gennaio 1819, Giorgio Barbato fa realizzare il nuovo quartiere, il cosiddetto appartamento impero (figg. 8-9-10), tutt’ora perfettamente conservato con quasi tutti gli arredi originari, come ci conferma l’inventario redatto nel 1821 che lo “fotografa” a pochi anni dalla sua realizzazione (25). Grazie ai contatti della famiglia Caldesi-Bandini, che certamente svolse un ruolo importante nelle scelte artistiche, Giorgio Barbato fa rinnovare per sé e la sposa alcuni ambienti dell’antico palazzo di famiglia recependo le novità dello stile impero nella particolare declinazione affermatasi a Faenza. La città in quegli anni aveva raggiunto una qualità artistica molto alta che si esprimeva al meglio negli interni degli edifici, e specialmente delle dimore private, con le decorazioni pittoriche e plastiche di soffitti e pareti e i raffinati pezzi di ebanisteria e ceramica. E’ quella stagione eccezionale che Faenza conosce a partire dalla fine del XVIII secolo fino agli anni trenta dell’Ottocento e di cui è protagonista indiscusso Felice Giani. Il suo linguaggio si afferma e si diffonde grazie ai numerosi collaboratori e seguaci ed al ruolo svolto dalla Scuola di Disegno da lui fondata a Faenza, e poi diretta da Giuseppe Zauli (1763-1822) e Pasquale Saviotti (1791-1855), che seppe formare artisti e artigiani altamente specializzati. La peculiarità del nuovo modello di dimora creato da Giani e dalla sua scuola è l’unitarietà dell’intera progettazione che va dalla definizione degli spazi fino ai più piccoli particolari e arredi, tutti perfettamente integrati. Altro elemento che contribuisce alla bellezza e particolarità della casa faentina neoclassica è la personalizzazione di ogni progetto che nasce e si sviluppa in uno stretto rapporto tra gli artisti e il proprietario che di solito è un
committente molto attento e presente, così da imprimere un tratto specifico e non ripetitivo alle singole realizzazioni (26). Il caso di palazzo Tozzoni si inserisce pienamente in questa tradizione della casa decorata faentina. Giorgio Barbato non sceglie i rappresentanti della gloriosa, ma ormai superata, scuola imolese di pittura d’interni di cui era stato principale e prolifico protagonista Alessandro Dalla Nave (dal 1732 al 1736-1821), ancora attivo fino a pochi anni prima. Le ampie vedute di paesaggi che dilatano lo spazio, il gusto della rovina, le scene mitologiche o di vita quotidiana ambientate in una lussureggiante natura ricca di acque e fronde, propri del Dalla Nave e della sua equipe di frescanti, rientrano ancora nella tradizione settecentesca della boschereccia (27); mentre il conte Tozzoni sceglie di realizzare il proprio appartamento con una aggiornata veste “all’antica”, creando spazi alla moda e per questo si rivolge ad un giovane artista faentino, Pasquale Saviotti allora ventisettenne. Anche nel caso dell’ebanisteria Giorgio Barbato fa la scelta più aggiornata e di qualità rivolgendosi a Faenza, città che a quelle date detiene il primato dell’ebanisteria in Romagna, avendolo sottratto ad Imola. I bravissimi fratelli imolesi Andrea e Giuseppe Bagnara, abili specialmente nelle tarsie, attivi ben oltre i confini cittadini ed apprezzati anche da Napoleone, erano infatti scomparsi da una decina di anni e Faenza ora eccelleva grazie alle famiglie Sangiorgi, Mingozzi e Bassi a cui apparteneva appunto l’ebanista Angelo Bassi chiamato a palazzo Tozzoni (28). Le soluzioni individuate per il nuovo appartamento prevedono la divisione della settecentesca grande sala “degli arazzi” in due ambienti più piccoli, un salotto raccolto e una camera da letto, e la creazione di un salotto ellittico ottenuto scantonando gli angoli dell’antica stanza detta “dei Cardinali” a pianta rettangolare (29). In quest’ultimo caso il risultato è un ambiente armonioso ed elegante in cui fare musica e ricevere, ritmato da porte simmetriche e finte
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11 Fig. 11 - Angelo Bassi, Specchio a bilico e comodino a tronco di colonna, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, camera da letto
lesene, mentre negli angoli vengono ricavati spazi funzionali per armadiature e disimpegni. L’impianto decorativo delle nuove stanze, che investe unitariamente pareti e soffitti, propone la rivisitazione dei modelli classici con un ampio spazio riservato all’ornato a monocromo e una più ridotta presenza delle scene narrative storiche o mitologiche, coerentemente con quanto già affermatosi negli interventi della piena maturità del Giani in epoca napoleonica. I mobili, secondo il gusto neoclassico, si fondono con la decorazione delle stanze grazie alla presenza di numerose consoles e divani da addossarsi obbligatoriamente alle pareti, come è il caso della coppia di divani del salotto e del divano ad angolo della camera da letto. Le forme architettoniche, sottolineate da elementi ebanizzati e arricchite unicamente dalla luce dei bronzi e delle applicazioni dorate, rispondono alle esigenze di sobrietà ed eleganza non disgiunte da attenzione per la funzionalità. Ne sono espressione alcuni arredi presenti nell’appartamento di palazzo Tozzoni, esempi dei nuovi tipi di mobili introdotti in epoca impero: lo specchio a bilico, o “psiche”, con colonne laterali usato per specchiarsi a figura intera, i comodini a tronco di colonna con cassetti e ripiani interni (fig. 11) e piccoli tavolini
per usi specifici come il tavolino da lavoro (fig. 9), il tavolino per la toelette mattutina e il tavolino con il ripiano a vassoio (fig. 10). Come si è detto, nei mesi precedenti le nozze, accanto all’attento Giorgio Barbato che personalmente si incarica di acquistare le decorazioni in bronzo per i mobili, vaglia i disegni degli arredi e degli ambienti da realizzare e sollecita gli artigiani a rispettare le scadenze, il Saviotti esegue le decorazioni parietali e molto probabilmente si occupa anche della progettazione complessiva dell’appartamento, consigliando e guidando il lavoro degli altri artigiani presenti sul cantiere: il capomastro Luigi Rossi che esegue i lavori murari, il falegname Enea Emiliani di Castel Bolognese che fornisce tutte le porte, finestre e armadi dell’appartamento nonché il camino e paracamino della sala ovale e l’ebanista Angelo Bassi che realizza i mobili. Secondo la consuetudine e data la velocità dell’esecuzione delle pitture, che risultano iniziate a novembre inoltrato e terminate poco dopo la metà del dicembre 1818, si può ipotizzare che Saviotti si faccia affiancare da collaboratori di cui però non c’è traccia nella pur ricca documentazione (30). Delle tre stanze realizzate, la camera da letto è la più organica e meglio conservata nella sua integrità, presentando ancora tutti i mobili realizzati da Bassi e finanche la coperta del letto, descritta nell’inventario del 1821, in leggera mussola bianca che lascia trasparire la fodera celeste. La camera è caratterizzata da uno spiccato effetto illusionistico, infatti sulle quattro pareti si sviluppa senza interruzione un finto tendaggio in un leggero tessuto bianco su uno sfondo azzurro. Si tratta di un motivo decorativo che compare più volte nelle case faentine a partire da quello che ne è forse il più antico esempio, la ricca sala di Bacco di palazzo Naldi dipinta con eleganti bracieri e tendaggi dalla bottega di Giani nel 1802, e che si mantiene a lungo fin oltre la metà del secolo specialmente ad opera di Antonio Liverani (1795-1878) poi affiancato dal fratello Romolo.
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E proprio un giovane Antonio Liverani, qui collaboratore del Saviotti, potrebbe essere l’autore dei finti tendaggi di palazzo Tozzoni che mostrano quella freschezza e leggerezza proprie delle sue realizzazioni più antiche. Al di sopra delle sottili cortine corre un raffinato fregio monocromo ad imitazione degli stucchi con putti che reggono ghirlande e corone (fig. 12). Il decoro a monocromo ad imitazione degli stucchi continua nel soffitto che ospita riquadri figurati di Saviotti (fig. 13) e che presenta affinità con il soffitto della sala di Apollo di palazzo Cavina di Faenza realizzato da Giani e bottega pochissimi anni prima, nel 1816. Pur essendo l’esempio
Fig. 12 - Pasquale Saviotti e aiuti, Fregio con putti, ghirlande e corone, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, camera da letto Fig. 13 - Pasquale Saviotti e aiuti, Decorazione del soffitto, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, camera da letto Fig. 14 - Pasquale Saviotti, Latona e i pastori della Licia, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, camera da letto, soffitto
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15 Fig. 15 - Disegno di due specchiere, Imola, palazzo Tozzoni
faentino molto più ricco, assai simile è la partizione della superficie realizzata con cornici e fasce in delicato monocromo, con il motivo delle candelabre ai quattro angoli e l’inserimento dei tondi lungo i lati e dello scomparto rettangolare centrale con le figure policrome. In palazzo Cavina i tondi ospitano bellissime vittorie alate su fondo azzurro, qui su un medesimo fondo azzurro sono dipinti amorini, ciascuno con un emblema legato alla tematica dell’amore, come si addice ad una camera nuziale (fig. 1). Il valore simbolico della decorazione è presente anche nel riquadro centrale dove troviamo Latona e i pastori della Licia, soggetto allusivo dell’amore materno (fig. 14). Saviotti, che fu anche incisore e
17 Fig. 16 - Disegno del letto con baldacchino e comodini, Imola, palazzo Tozzoni
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Fig. 17 - Disegno del cespo di papaveri, Imola, palazzo Tozzoni
plasticatore, diventerà nel decennio successivo il maggior protagonista della scuola di decorazione parietale faentina, succedendo al binomio Giani-Bertolani e da questo differenziandosi per una più rigorosa adesione ai modelli classici e per una maggior saldezza delle forme, finite e tornite, come già mostra nelle sale di palazzo Tozzoni (31). Sull’intonazione chiara della stanza, data dalle decorazione e dai tessuti, spiccano i mobili, realizzati da Bassi, impiallacciati in scuro legno di noce, dalle linee architettoniche molto severe e senza ricchezza di intaglio. In epoca napoleonica e fino al quarto decennio dell’Ottocento l’ebanisteria faentina abbandona la lavorazione a tarsia di gusto ancora settecentesco – che poi riprenderà in epoca successiva – e privilegia il mobile intagliato dipinto in bianco e in parte dorato, o più semplicemente impiallacciato in noce o ciliegio con decorazioni in pastiglia o metallo dorati. Su quest’ultimo tipo di mobile, meno ricco e sfarzoso, cade la scelta di Giorgio Barbato che scarta, per esempio, il progetto di due specchiere in legno dipinto e dorato (fig. 15), l’una da porsi su di una console e l’altra su di un
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camino molto probabilmente per una sala da ricevere (32). Viene invece realizzato il progetto del letto con baldacchino, affiancato dai due comodini a tronco di colonna, così come ce lo mostra un disegno (fig. 16) che riporta sul retro la scritta “1819-1820 Bandini e Caldesi” a conferma del ruolo svolto dalla famiglia di Orsola nella realizzazione del nuovo quartiere. Del letto si è perso unicamente il coronamento che reggeva il baldacchino e che l’inventario del 1821 descrive come una “ghirlanda di papaveri”. Un altro schizzo (fig. 17) ci fa conoscere nel dettaglio questo elemento, forse in metallo dorato, che certamente aggiungeva ricchezza ed enfasi all’insieme e che proponeva il motivo del cespo di papaveri in uso nell’ebanisteria faentina coeva, come testimonia lo schienale intagliato con questo decoro delle poltroncine di una dispersa camera da letto faentina (33). Di intonazione più scura doveva essere il salotto a fianco della camera da letto, dominato da una stufa in muratura coronata da un grande vaso biansato di forme neoclassiche e arredato con un
Fig. 18 - Pasquale Saviotti, La Prudenza, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, salotto Fig. 19 - Pasquale Saviotti, La Temperanza, 1818, Imola palazzo Tozzoni, salotto
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insieme, realizzato da Bassi, composto da due divani a muro e dodici sedie e una poltrona, tutti con le sedute ricoperte di un raro tessuto di crine nero, in buona parte conservatosi. Gli schienali di questi mobili, a tre fasce con quella centrale sagomata e arricchita da borchie in metallo dorato, sono molto simili a quelli di una coppia di divanetti a due posti in collezione privata faentina tanto da far pensare che anche questi ultimi possano essere usciti dalla bottega dei Bassi (34). Si tratta di tipici prodotti dell’ebanisteria faentina intorno al 1820 che sapeva coniugare l’estrema semplicità di linee e decori con l’eleganza. A completare l’arredo fornito da Bassi una console retta da quattro colonne ebanizzate e
Fig. 20 - Domenico Gallamini (?), Decorazione del soffitto, 1818, Imola palazzo Tozzoni, salotto tondo
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due piccoli tavolini, uno da gioco andato perduto e uno da lavoro, che dovette appartenere ad Orsola, con il piano estraibile e un sacchetto in seta verde in cui riporre il lavoro di cucito (35). Nel soffitto Saviotti propone una sua tipica ripartizione della superficie con motivi monocromi di trecce e ghirlande, ventagli a fianco del riquadro centrale ed esagoni con motivi alla raffaellesca. L’elemento cromatico è dato da piccoli riquadri colorati in rosso e blu con rosette aggettanti dorate e dai riquadri figurati: al centro una Scena storica, forse raffigurante Lucrezia esempio di virtù antica, e ai lati le quattro virtù cardinali, la Prudenza (fig. 18), la Giustizia, la Fortezza, mentre la quarta, la Temperanza (fig. 19), è in effetti raffigurata con gli attributi della Confidenza. Come è stato notato, Saviotti mostra chiaramente le sue doti in questa pittura veloce e sapiente e manifesta i suoi interessi culturali in certo modo antitetici alla libertà formale di Giani, preferendo una fermezza plastica delle figure di matrice cinquecentesca (36). La terza stanza del nuovo quartiere di Giorgio Barbato e Orsola è il “salotto tondo”, come viene chiamato la sala a pianta ellittica nell’inventario del 1821. Il soffitto è dedicato ad Ercole (fig. 20), a cui il mito attribuisce le duplici virtù della forza e della saggezza, con la scena centrale che raffigura Ercole accolto nell’Olimpo. Attorno una partitura architettonica a monocromo a formelle esagonali con motivi vegetali, candelabre, emblemi e lacunari quadrangolari con amorini e divinità. La lettura del riquadro centrale è però compromessa dai danni subiti dalla superficie pittorica e dalle numerose ridipinture. La qualità pittorica, che comunque pare inferiore a quella della precedente stanza, ed il particolare allungamento delle figure potrebbero far avanzare il nome di Domenico Gallamini (1774-1846), artista più anziano di Saviotti, ricercato decoratore di figura del primo quarto dell’Ottocento faentino, che solitamente propone con fedeltà assoluta e modeste capacità il repertorio di Giani (37). Di questa stanza oggi possiamo apprezzare specialmente i risultati di unitarietà, armonia
Fig. 21 - Vaso in alabastro e fiori in stoffa, 1818, Imola, palazzo Tozzoni, salotto Fig. 22 - Busto di Orsola Tozzoni, Imola, palazzo Tozzoni
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ed eleganza dello spazio, ottenuti con la trasformazione della pianta da rettangolare ad ovale, essendosi conservata degli arredi originari solo la console in noce. L’ambiente era comunque meno strutturato rispetto al precedente salotto e alla camera da letto, vi prevalevano le sedute – diciannove tra sedie e poltrone – che evidentemente venivano spostate per creare circoli più intimi per la conversazione, il gioco – sulla console si trovava una scacchiera – e l’ascolto della musica, come suggeriscono i vari strumenti musicali che qui si trovavano. Completavano l’arredo del nuovo appartamento pochi quadri (38), scelti da Giorgio Barbato tra quelli presenti nella quadreria di famiglia, vasi in alabastro di Firenze e in porcellana di Ginori
Fig. 23 - Ritratto del piccolo Alessandro, Imola, palazzo Tozzoni
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con fiori di stoffa e uccelli impagliati e una tazza da brodo, sempre di Ginori, posti su comò e consoles sotto campane di cristallo (38) (fig. 21). Mentre non è possibile individuare i dipinti che ornavano l’appartamento, è ancora rintracciabile nel palazzo un gruppo di vasi in alabastro in stile impero a motivi vegetali intagliati e in parte a rilievo, molto probabilmente provenienti dalle manifatture di Volterra, come conferma il confronto tra la coppia di versatoi presenti nel salotto e vasi in alabastro di produzione volterrana di pieno Ottocento che, pur piÚ ricchi, presentano un simile mazzetto di fiori e il medesimo
Fig. 24 - Alessandro Guardassoni, Il Conte Giorgio Barbato Tozzoni d’Imola, Imola, palazzo Tozzoni
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modello di manico (39). A questi oggetti, certamente acquistati da Giorgio Barbato grazie alle sue frequentazioni fiorentine, si aggiunse ben presto il gruppo scultoreo con Venere che placa Marte, copia dal Canova dell’imolese Cincinnato Baruzzi, giovane artista sostenuto negli studi dal conte Tozzoni (40). Il nuovo quartiere era così completato per le nozze secondo il più aggiornato stile “all’antica”, proponendo un neoclassicismo di tono antieroico che non ricerca la magnificenza e l’aulicità, né la foga fantastica delle pitture di Giani. E’ un neoclassicismo più domestico che si adatta all’urbanità e all’intimità di una vita di tono
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quasi borghese che privilegia spazi interni alleggeriti e di modeste dimensioni e che ricerca l’eleganza non disgiunta dalla sobrietà e dalla praticità. Giorgio Barbato e Orsola (fig. 22) sono pronti per intraprendere la loro nuova vita che purtroppo non sarà felice (41). Già dai primi anni di matrimonio la salute di Orsola si manifesta precaria con ripercussioni sul carattere. Anche la vita di società che i due sposi conducono ad Imola, ma pure in Toscana e a Bologna, frequentando i teatri, partecipando a feste, facendo villeggiatura al mare a Livorno non sono sufficienti a sollevare la giovane e Orsola manifesta “un carattere sommamente irritabile e inquieto, da porre in non poca apprensione” (42). Un parto prematuro mentre si trovano al carnevale di Bologna nell’inverno del 1820 non agevola certo la situazione che si aggrava definitivamente con la vicenda del secondo figlio, Alessandro, che, nato nel settembre 1823, muore a neanche due anni (fig. 23). Orsola cade in una profonda e prolungata tristezza e si accentua il suo temperamento nervoso ed eccitabile. Fino alla sua morte, avvenuta a trentanove anni il 29 ottobre 1836, saranno anni molto difficili per lei e per Giorgio Barbato che, con profondo dolore, in una lettera indirizzata alla suocera pochi mesi dopo la scomparsa di Orsola, definisce il carattere della moglie “oltre ogni credere stravagante, irrequieto, collerico”(43). Il conte Tozzoni (fig. 24) ha ancora una lunga vita davanti a sé, vivrà infatti fino a novantadue anni, si risposerà ed avrà nipoti che continueranno la discendenza del casato e farà in tempo a vedere l’unità d’Italia. Abiterà sempre nel palazzo di famiglia e sceglierà, per ragioni troppo intime per essere da noi conosciute, di avere accanto a sé un’immagine assai originale di Orsola. Fa infatti realizzare un manichino (44) a grandezza naturale con le sembianze della moglie, vestito degli abiti che solitamente indossava e con i capelli acconciati come lei usava, come se la sua prima e sfortunata moglie fosse ancora viva.
1. Vedi Vite di Giorgio Cristiano e Giorgio Barbato Tozzoni 1745-1873, Imola 1993, p. 216. Si tratta della trascrizione a cura di L. Vivoli di un manoscritto di inizio XX secolo conservato nell’archivio di palazzo Tozzoni ad Imola (Archivio Tozzoni Imola - d’ora in poi ATI - tit. 55, ass. 3) che riprende con fedeltà il materiale biografico raccolto e ordinato dallo stesso Giorgio Barbato (ATI, tit. 6, cart. II, ff.1/d e 1/e) e che risulta pertanto particolarmente utile per le nostre vicende. 2. Tale aspetto era già stato evidenziato in A. Mazza, Pasquale Saviotti e Angelo Bassi nell’appartamento “Impero” di palazzo Tozzoni, in “Il Carrobbio”, a.VIII, 1982, pp. 219-230. 3. Sulle proprietà terriere si veda L. Berti Ceroni, Nascita e sviluppo dell’azienda agricola Tozzoni nelle carte dell’archivio di famiglia, in Palazzo Tozzoni: spazi domestici e sotterranei, Bologna 2003, pp. 9-23. 4. G. Alberghetti, Compendio della storia civile, ecclesiastica e letteraria della città d’Imola, parte I, Imola 1810, p. 329. Sulle vicende in città in questo intenso periodo storico, con riferimento anche ai Tozzoni, si veda Fra due rivoluzioni. Città e cittadini a Imola dal 1797 al 1831, cat. della mostra a cura di R. Balzani, M. Baruzzi, P. Mita, C. Sabattani, Imola 1998 e A. Ferri, Il profilo di una città: Imola tra due secoli (1750–1830), in Alessandro Dalla Nave imolensis “pittore di molto merito”, cat. della mostra a cura di G. Asioli Martini, Imola 2013, pp. 25-55. 5. I circoli costituzionali furono centri di discussione e confronto politico a cui diedero vita intellettuali e notabili che aderivano alle nuove idee rivoluzionarie. Una copia del manifesto si conserva in ATI, tit. 45, cart. XV, f. 68, n. 7. 6. La descrizione della festa patriottica è nella cronaca I. N. Filippini, Memorie quotidiane degli anni 1797-1801, a cura di A. Ferri, Imola 2002, p. 160. Per le numerose feste patriottiche che si tennero in Romagna durante la dominazione francese e il ruolo di propaganda politica che esse svolgevano si veda F. Dell’Amore, Teatro, musica e feste nella Romagna giacobina (17971801), in “Romagna arte e storia”, a. XIII, 38, maggio-agosto 1993, pp. 71-94 e E. Ricca Rossellini, Gli “Evviva” in teatro e la pubblica tranquillità. Feste, compagnie e spettacoli nella Forlì dei Governi Transitori (1797-1805), in “Romagna arte e storia”, a. XVII, 50, maggio-agosto 1997, pp. 79-114. 7. La turbolenta vita di Giorgio Cristiano, di temperamento irrequieto e liti-
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gioso, è narrata in Vite…, cit., pp. 19-91. 8. Il disegno è inserito alla p. 5 del manoscritto sulle vite di Giorgio Cristiano e Giorgio Barbato Tozzoni citato alla nota 1 (ATI, tit. 55, ass. 3) e porta la didascalia Conte Giorgio Barbato Tozzoni d’anni 20, Cadetto nelle Regie Guardie del Corpo della Regina Reggente d’Etruria l’Infanta Maria Luisa de Borbone. Il disegno è stato probabilmente il modello per successivi e più modesti ritratti che si conservano a palazzo Tozzoni, tra cui un dipinto ovale (olio su tela, inv. n. 228) di minor freschezza e incisività che porta la data del 1810 quando il Regno d’Etruria era già caduto. La descrizione della donna di servizio si trova in Vite…, cit., p. 236. 9. Ibidem, pp. 144-187. Giorgio Barbato, a conferma del suo legame con l’esperienza napoleonica, ancora nel 1858 rivendicava di potersi fregiare della medaglia di S. Elena istituita per chi aveva servito nell’esercito francese o negli eserciti degli stati facenti parte dell’impero napoleonico, come il Regno d’Etruria, e mantenne a lungo legami d’amicizia con la famiglia di Gioacchino Murat, in particolare con la figlia Luisa sposata col conte Rasponi di Ravenna. Ibidem, pp.185-187 e pp. 248-250. 10. Ibidem, pp. 214-215. Per la sua fede politica Giovanni Battista Angeli, che nel 1798 tenne discorsi sotto l’albero della libertà durante una festa patriottica, venne incarcerato nel 1799 dal governo austriaco controrivoluzionario. Vedi I. N. Filippini, Memorie quotidiane…, cit., pp. 173-238. 11. I due disegni sono stati resi noti in La collezione di Palazzo Tozzoni a Imola. Ipotesi per un catalogo, a cura di A. Mazza, Bologna 1981, pp.14 e 16 e in A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit., p. 229, nota 9. La scritta in alto a destra non è autografa del Giani. Carlo Bandini morirà piuttosto presto nel marzo 1804 (in ATI, t. IV, cart. 4, ff. 22 e 23 sono presenti il suo testamento ed eredità). Clemente Caldesi dedica un sonetto ai novelli sposi nel carnevale del 1819 e a palazzo Tozzoni se ne conservano varie copie stampate su carta e su seta. Su Clemente Caldesi vedi le note biografiche in E. Golfieri, L’arte a Faenza dal neoclassicismo ai nostri giorni, parte I, Faenza 1975, pp. 56-57 e in A. Mazza, Pasquale Saviotti..., cit., p. 229, nota 9. Domenico Caldesi, che insieme alla moglie Maddalena accompagna Orsola e Giorgio Barbato a palazzo Tozzoni subito dopo le nozze (Vite…, cit., p. 216), è committente dell’architetto di fede repubblicana Giuseppe Pistocchi. Si ringraziano Marcella Vitali per il parere circa i due disegni di Giani e Marta
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Cuoghi Costantini per le informazioni sulla foggia degli abiti dei CaldesiBandini. Si veda A. Ottani Cavina, Felice Giani 1758-1823 e la cultura di fine secolo, Milano 1999, pp. 31, 927-930 e F. Leone, L’officina neoclassica: anelito alla sintesi, ricerca dell’archetipo, in L’officina neoclassica. Dall’Accademia de’ Pensieri all’Accademia d’Italia, cat. della mostra a cura di F. Leone e F. Mazzocca, Cinisello Balsamo 2009, p. 31. La commissione a Giani da parte di Bandini è documentata da una nota di pagamento riportata nel Taccuino dell’artista. Vedi A. Ottani Cavina, Felice Giani…, cit., pp. 336 e 952. Purtroppo la decorazione è andata distrutta. Per l’intervento nella casa di Clemente Caldesi si veda L’età neoclassica a Faenza. Dalla rivoluzione giacobina al periodo napoleonico, a cura di F. Bertoni e M. Vitali, Milano 2013, pp. 386-391. Vedi Vite…, cit., pp. 146, 156-161. Sulle caratteristiche di questi luoghi di incontro e sul loro importante ruolo nella formazione della società civile ottocentesca si veda M. T. Mori, Salotti. La sociabilità delle élite nell’Italia dell’Ottocento, Roma 2000 che dedica alcune pagine anche alla realtà fiorentina. Vedi Vite…, cit., pp. 146-147. Ibidem, pp. 131, 141-142, 166. Ibidem, pp. 146, 220. A palazzo Tozzoni si conserva anche un raccoglitore con buste numerate che contengono capelli con caratteristiche diverse, evidentemente la materia prima per realizzare le miniature. L’uso di capelli per creare gioielli, ricami e miniature era assai diffuso nell’Ottocento, in particolare in Inghilterra, Francia ed Europa centrale – non a caso Giorgio Barbato prende lezioni da un capitano belga- ed anche in Italia è documentata tale pratica, come attesta un’enciclopedia di lavori femminili edita nel 1826. Ci stupisce maggiormente il fatto che anche uomini e di carriera militare si dedichino a questa attività, ciò testimonia una sensibilità ottocentesca assai diversa da quella attuale che considera insignificanti e imbarazzanti manufatti in capelli. Si veda in proposito E. Gulli Grigioni, Il cuore e la treccia. Il simbolismo del cuore nella produzione europea ottocentesca di ornamenti e manufatti in capelli, in “Quaderni. Arte Letteratura Storia”, a.XI, 1995. Studi dedicati ad Alfredo Belletti per il suo settantesimo compleanno, a cura di G. Bellosi, Ravenna 1995, pp. 127-152. Ringrazio Paola
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Goretti per le generose segnalazioni bibliografiche. 19. Vedi Inventario generale di tutti i Mobili esistenti nel Palazzo del conte Giorgio Tozzoni in Imola compilato nell’ottobre 1821, ATI, tit. 21, cart. II, f. 13, pp. 85-89. Il pianoforte a tavolo, detto anche pianoforte rettangolare, era uno strumento di dimensioni più contenute rispetto al pianoforte a coda o mezza coda. La chitarra alla francese o chitarra barocca o arciliuto è l’antenata della chitarra classica moderna; è uno strumento a cinque corde dal timbro chiaro e ricco, perfetto per accompagnare la voce diffuso in Italia, Spagna e Francia e che proprio a fine Settecento-inizio Ottocento ebbe in Italia il momento di massima diffusione. La cassetta per musica ricordata dall’inventario è di più difficile riconoscimento: potrebbe trattarsi di un semplice contenitore per spartiti, ma potrebbe anche trattarsi di una “scatola musicale” molto in uso ai primi del XIX secolo, cioè di una scatola contenente uno strumento meccanico di riproduzione musicale. Ringrazio Alfredo Vitolo, bibliotecario del Museo della musica di Bologna, per le informazioni sugli strumenti posseduti da Giorgio Barbato e Oriana Orsi per il contributo nella ricerca. A ulteriore conferma dell’interesse del conte Tozzoni per la musica, si ricorda che uno dei primi incarichi pubblici assunti ad Imola nel 1821 da Giorgio Barbato fu quello di presidente della appena costituita Deputazione per la cultura della musica, deperita negli anni degli sconvolgimenti politici (Vite…, cit., pp. 193-194). 20. Ibidem, pp. 248-249. L’interesse di Giorgio Barbato per il mondo delle arti è confermato nei primi anni del suo matrimonio anche dal ruolo di sostenitore che egli assunse nei confronti di giovani e promettenti imolesi: lo scultore Cincinnato Baruzzi, allievo a Roma del Canova e di cui il conte conservava una Venere che placa Marte nel suo appartamento, il fratello Tito Baruzzi e Giulio Fossani che si dedicavano allo studio della musica, Francesco Bizzi e Carlo Xella studenti di pittura (vedi A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit., p. 220). Giorgio Barbato avviò in età avanzata anche una collezione di monete e medaglie che ancora si conserva nel palazzo (Vite…, cit., p. 220). 21. Ibidem, p. 210. 22. Ibidem, p. 215. Documenti relativi alla dote e agli oggetti posseduti da Orsola si trovano in 1818 settembre 30. Capitoli matrimoniali fra la Sig.ra Orsola Bandini ed il Conte Giorgio Tozzoni, ATI, tit. IV, cart. 4, f. 25/a e 1836 e 1837.
Note e ricevute di suppellettili e corredo…, ATI, tit. 4, cart. IV, f. 30/e. 23. Le lettere si trovano in 1814 1818 1823. Domestiche tribolazioni, ATI, tit. 4, cart. IV, suppl. 1. Il tono dimesso della corrispondenza tra i due promessi sposi era già stata notata da A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit., p. 226. 24. Vedi 1818. Matrimonio Bandini e Tozzoni. Spese occorse alla Casa Tozzoni per tale circostanza. Bilanci su la dote percetta, ATI, tit. 4, cart. IV, f. 24. 25. Vedi Inventario… 1821, cit. 26. Numerosi sono gli studi, a partire da quelli di Ennio Golfieri, su questo periodo artistico faentino. Si rimanda unicamente al recente testo che riporta ampia bibliografia L’età neoclassica a Faenza.., cit. 27. Sulla scuola imolese di decorazione si veda O. Orsi, Una quieta Arcadia di provincia: Alessandro Dalla Nave e la pittura decorativa imolese del Settecento, in Alessandro Dalla Nave…, cit., pp. 57-111. 28. I due fratelli Bagnara muoiono piuttosto giovani, Andrea il 31 ottobre 1805 a 41 anni e Giuseppe il 15 ottobre 1808 a 33 anni (Archivio parrocchiale di San Nicolò, Imola, Liber mortuorum 1728-1810, nn. 715 e 766). Non è corretta pertanto l’informazione data da Colle secondo cui i Bagnara sono attivi ancora nel 1838 (E. Colle, Il mobile impero in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1800 al 1843, Milano 1998, p. 332). Di Giuseppe Bagnara danno notizie il contemporaneo Meloni (P. A. Meloni, Memorie delli pittori, scultori ed architetti della città e diocesi d’Imola (manoscritto del 1834), Imola 1992, pp.7-8) e Golfieri che pubblica un suo cassettone datato 1802 (E. Golfieri, La casa faentina dell’Ottocento, II. Arredamenti interni, Faenza 1970, scheda n. 17). Di Angelo Bassi non si conosce molto. Golfieri (E. Golfieri, L’ebanisteria Casalini e l’arte del legno a Faenza, Faenza 1987, pp.145146) ipotizza che privilegiasse la lavorazione ad intarsio, il caso di palazzo Tozzoni però attesta una diversa produzione. 29. Giorgio Barbato utilizza una porzione del palazzo già assegnata a suo padre nel 1772. Vedi 1772 Divisione di mobili tra li fratelli Tozzoni, ATI, tit. 21, cart. I, f. 3/d e Com’era arredato nel 1774 il Palazzo Tozzoni in Imola estratto d’inventari dell’epoca. 1908 Relazione fatta dal Conte Francesco Tozzoni, ATI, tit. 21, cart. I, f. 6, pp. 7-8. 30. La documentazione circa la realizzazione dell’appartamento impero e gli artigiani che vi lavorarono si trova in 1818. Mobili in occasione dello sposalizio con la S. Orsola Bandini. Emiliani Enea di C. Bolognese, Bassi Angelo di Faenza,
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Dall’Oglio, Disegni etc, ATI, tit. 21, cart. II, f. 11; 1818 Matrimonio Bandini e Tozzoni…, cit.; Fabbriche. Disegni per camera tonda ed altro circa l’attuale casa Guatteri. Lavori di Giorgio Barbato Tozzoni, ATI, tit. 20, cart. 1, f. 4. A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit. ripercorre dettagliatamente sulla base dei documenti lo svolgersi dei lavori, i rapporti di Giorgio Barbato con Saviotti e gli artigiani. Su Antonio Liverani e Pasquale Saviotti si veda E. Golfieri, La casa faentina dell’Ottocento, I. Architettura e decorazioni, Faenza 1969, pp. non numerate e E. Golfieri, L’arte a Faenza dal neoclassicismo ai nostri giorni, vol. I, Imola 1975, p. 51 e pp. 55-56. Su Saviotti si veda anche A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit., che allarga il discorso alla sua attività di incisore e di plasticatore. Il disegno si conserva in un fascicolo con documenti relativi ai lavori per l’arredamento dell’appartamento impero ATI, tit. 21, cart. II, f. 11, doc. 22. Il disegno del letto, che presenta difformità rispetto al mobile realizzato solo nel profilo della pediera, si trova in ATI, tit. 48, cart. XIX, f. 1, carta non numerata. Il disegno col particolare del cespo di papaveri si trova in ATI, tit. 21, cart. II, f. 11, carta non numerata. L’arredo della camera da letto faentina già della famiglia Rondinini, poi a palazzo Milzetti e ora dispersa è noto attraverso una foto storica pubblicata in E. Golfieri, L’ebanisteria Casalini…, cit., p. 192. I divanetti a due posti sono pubblicati in L’età neoclassica a Faenza 17801820, cat. della mostra a cura di A. Ottani Cavina, F. Bertoni, A. M. Matteucci et al., Bologna 1979, p. 216, scheda n. 458. La dormeuse ora presente nel salotto mostra una fattura più povera e dozzinale ed è probabilmente posteriore, non comparendo tra i mobili consegnati da Bassi, né è presente nell’inventario del 1821. A. Mazza, Pasquale Saviotti…, cit., p. 224. A. Ottani Cavina, Felice Giani…, cit., pp. 209-215, che non pare conoscere l’intervento documentato di Saviotti, avanza il nome di Gallamini per due soffitti non precisati di palazzo Tozzoni. Ringrazio Marcella Vitali per le informazioni e i pareri circa i decoratori faentini di età neoclassica. Vedi Inventario… 1821, cit. e 1818 Matrimonio Bandini e Tozzoni…, cit. Per il confronto con la produzione di alabastro di Volterra si veda M. Cozzi, Alabastro. Volterra dal Settecento all’art deco, Firenze 1986, p. 86, fig. 78.
40. Vedi nota 20. 41. Sulla vita coniugale e la personalità di Orsola si veda Vite…, cit., pp. 216218. 42. Vedi Rimpatrio di Giorgio Barbato Baldasarre Tozzoni in Imola …, ATI, tit. 6, cart. II, f. I/e, c. 10 r. 43. Vedi 1837 9 febbraio. Lettera diretta alla signora Rosa Caldesi …, ATI, tit. 4, cart. IV, f. 30/g. 44. Il manichino, di cui non si conosce l’autore, è perfettamente descritto in Vite…, cit., pp. 218-219.
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A noi Olympia faceva paura, non volevamo aver a che fare con lei, ci sembrava che facesse finta di essere una creatura viva e che sotto ci fosse qualche mistero. E.A.T. Hoffmann, L’uomo della sabbia
O
Fig. 1 - lI manichino di Orsola in una foto scattata tra la fine del secolo XIX e l’inizio del secolo XX, fondo fotografico Tozzoni, Imola
gni palazzo storico, ogni edificio all’interno del quale si è svolta la vita di più generazioni e dov’è riconoscibile il respiro della Storia intrecciato al normale avvicendarsi di matrimoni, nascite e lutti, conserva uno o più oggetti che sono un unicum e che solo in quel luogo potevano avere vita, frutto di una somma di coincidenze che a partire da un orizzonte epocale e culturale vasto, si declinano nei rivoli sommessi di singoli episodi. Palazzo Tozzoni non fa eccezione a questa legge non scritta. Nella dimora abitata dai conti tosco-romagnoli, che in Firenze avevano un’altra patria non meno sentita di quella imolese, tra le suppellettili, i dipinti, gli arredi, i libri, spicca un oggetto molto particolare che a tutt’oggi sembra essere un episodio peculiare; il manichino della contessa Orsola Bandini Tozzoni, realizzato dopo la sua morte, avvenuta nel 1836. Oriana Orsi
Orsola e il suo doppio
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Nel 1963, un gruppo di intellettuali coordinati dallo storico dell’arte Andrea Emiliani e dal filologo Manara Valgimigli, si dedicarono ad una grande opera nella quale collazionare frammenti, ricordi, immagini e suggestioni che riuscissero a raccontare la complessità della terra di Romagna e a stabilirne, al di là di un facile e pittoresco folclore, le profonde coordinate geografico-sentimentali; le tante suggestioni raccolte nei due poderosi volumi che furono il risultato di quel lavoro, compare per la prima volta e al di fuori del ricordo di pochi, la riproduzione fotografica dell’effige tridimensionale di Orsola ieratica e vagamente tenebrosa (1). La foto proveniva da un album della famiglia Tozzoni e il suo inserimento, nei corpus dei ricordi della casata la dice lunga sull’avvenuto riconoscimento del simulacro della contessa all’ interno della storia famigliare, come un’ava della quale si mantiene vivo il ricordo (fig. 1). La vicenda biografica di Orsola, già descritta in queste pagine, ci racconta del destino di una giovane donna che nella sua breve vita sperimentò il grave lutto per la perdita del figlio e una precipitosa dissoluzione nel disagio esistenziale fino alla morte, avvenuta all’età di 39 anni (2). Al conte Tozzoni parve insufficiente onorare la defunta con ritratti dipinti e ne desiderò un manichino a grandezza naturale quasi a perpetuarne l’impossibile presenza. Questo aveva le fattezze di Orsola e per collocarlo all’interno del palazzo, il conte Giorgio realizzò un set teatrale o forse è meglio dire un setting clinico posizionandolo “(...) nelle stanze solite essa di abitare, ora ritta, ora assisa, e bene spesso presso d’una Culla, ove giacente pose lo stesso Loro Sandrino, riprodotto dormiente in terra cotta”(3). Benché insolita la scelta del conte è profondamente legata a quel percorso della cultura occidentale che vede nella riproduzione del sembiante l’incrocio tra la fascinazione magica, l’ebbrezza della duplicazione della vita e il bisogno cultuale di onorare chi non c’è più. E, in questo caso, in maniera lampante, senza voler dare vita ad una facile lettura psicologica, anche la necessità di decantare il senso
Fig. 2 - Busto in gesso di Orsola, palazzo Tozzoni, salotto
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di colpa per non aver saputo o potuto consegnare l’Orsola vivente ad una vita serena. Ripetere il passato per correggerlo è l’impresa titanica e impossibile alla quale sono votate molte nevrosi che, nel caso di Giorgio Barbato Tozzoni, assunse i toni di ritualità sostitutiva e riparatoria propria dell’elaborazione del lutto (4). Il conte volle che il simulacro fosse uguale alla defunta tanto da fargli indossare gli abiti che questa portava in vita e ponendogli sul capo
Fig. 3 - Spilla in argento traforato, diamanti, brillante, rubini, oro smaltato e capelli, 1754, Londra, Victoria & Albert Museum
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realizzato in stucco dipinto “(…) una bella parrucca formata con gli stessi capelli (di lei), e pettinata conforme la moda del tempo, ricci ai lati, e uscenti dietro, da una treccia ad uso cestino posto nel mezzo della nuca”(5). Era una delle pettinature abituali della contessa e ce lo conferma un busto della stessa, che si trova ancora nell’appartamento Impero e dove l’intreccio “a cestino” dell’acconciatura viene riprodotto con perizia (fig. 2). Che i capelli fossero elemento d’interesse per Giorgio Barbato lo sottolineano una serie di quadretti conservati a palazzo e realizzati dal conte utilizzando come materia prima proprio i capelli, attività che se oggi ci appare curiosa, al tempo era pratica, se non diffusa, almeno abbastanza consueta (6) (fig. 3).
Può sembrare che l’attenzione maniacale alle chiome fosse frutto di un’insania del conte ma se ci fu una personale predilezione di Giorgio Barbato, fu plasmata su quanto andava accadendo nel clima culturale generale. I capelli esercitavano un forte potere evocativo ed intrecciati in maniera elaborata con l’oro e incastonati di pietre preziose, spesso diventavano gioielli-feticcio dell’amata o dell’amato che continuava in forma sublimata il dialogo con chi era in vita (7). Del resto tutto l’Ottocento era percorso da un sentimento intenso di colloquio con le ombre, da un rapporto ad alta densità psichica con il soprannaturale tanto da partorire la moda diffusa delle sedute spiritiche ed una delle più fertili stagioni di letteratura fantastica dove apparizioni, revenant, figure fantasmatiche ed evocative sono le protagoniste dei racconti di Edgar Allan Poe, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Oscar Wilde, Jan Potocki, Joseph Sheridan Le Fanu, Prosper Mérimée, fino agli italiani Antonio Fogazzaro, Igino Ugo Tarchetti e Giacomo Leopardi che nelle Operette Morali (1835) mette in scena un dialogo venato di sottile ironia tra il dottor Federico Ruysch e un coro di mummie. Sono decisamente umoristiche le parodie di Oscar Wilde ne Il fantasma di Canterville (1887) e di Jerome K. Jerome che nelle sue Storie di fantasmi per il dopocena racconta di spettri stravaganti e decisamente pasticcioni (1885) (8). Nel corso del secolo furono sempre più diffuse le apparizioni, possessioni, allucinazioni e i medium vissero un periodo di vivace popolarità conquistando teatri e assemblee dove davano prova delle loro capacità. Accanto ad una cultura che sperimentava le “magnifiche sorti e progressive” trovava legittimità anche il suo lato oscuro che non fu una frangia eretica del positivismo ma a questo potentemente innervato, incuriosendo e conquistando scienziati del calibro di Pierre e Marie Curie, Charles Darwin, Cesare Lombroso. Basti pensare che sarà proprio l’Ottocento, compenetrando invenzione, scienza e volontà narrativa, a dare vita alle più potenti tra le “allucinazioni
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visive”: la fotografia e il cinematografo (9). Nell’esercizio del rimpianto e dell’elaborazione del distacco, l’effige della persona amata è lo strumento utilizzato per afferrarne l’ombra, il potenziatore e propiziatore del dialogo sentimentale tra la sfera dei vivi e quella dei morti, tra realtà e sopra-realtà (10). Vale la pena 58 citare, come completezza di un panorama culturale dove il dialogo con la morte era diversamente ritualizzato da come accade nella contemporaneità, l’abitudine diffusasi 4 con l’arrivo della fotografia, di scattare foto dei defunti accanto ai parenti, atteggiando i corpi inanimati così da sembrare ancora in vita. Foto nelle quali il simulacro era il corpo stesso del defunto, fissato per sempre in un’immagine dalla quale in forma edulcorata discende l’attuale prassi della fotografia tombale (11) (figg. 4 e 5). Così alla morte della moglie, Giorgio Barbato non si limitò a realizzare un monumento funebre, magari dotato di una scultura giacente come voleva la tradizione classica, oppure astrattamente evocativo come Antonio Canova andava facendo in quegli stessi 5 anni (12) ma realizzò, tra le quiete mura Fig. 4 - Ritratto fotografico d’epoca domestiche dell’appartamento Impero, una vittoriana di una delle ossessioni che il secolo decimonono fanciulla morta con i genitori andava coltivando con rinnovato vigore: un doppio, un’immagine tridimensionale. Fig. 5 - Ritratto fotografico di un giovane uomo defunto
In letteratura, poesia, arti plastiche e meccaniche, la creazione di un simulacro umano riprende un tema che a partire dal racconto di Plinio sul vasaio Butade che creò in argilla, una statua, un eidolon, con la figura dell’innamorato della figlia, attraversa in maniera più o meno carsica tutta la cultura visivo-letteraria dall’antichità ai giorni nostri, travalicando campi e tecniche rendendo complesso circoscriverne l’analisi (13). Nella sua accezione più consueta l’eidolon è inteso come “realtà esterna al soggetto, inscritta nel mondo visibile ma che pur nella sua conformità a ciò che simula, col suo carattere insolito spicca sugli oggetti familiari, sulla scena consueta della vita” (14). Volendo restringere il focus del nostro interesse alla modernità e in un momento più o meno coevo alla cultura del conte Tozzoni, vediamo come all’antico concetto greco va riferita la statua del commendatore nel Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte, musicato da Mozart (1787) dove la connessione tra doppio e senso di colpa appare in tutta chiarezza; un doppio tormentato dal mal d’amore quello che Heinrich Heine mette in poesia in Doppelgänger (1815); automa è la bellissima Olympia creata da Hoffmann (Il mago della Sabbia, 1816) e portata sulla scena da Offenbach nel 1881 (Les contes d’Hoffmann, libretto di Jules Barbier); è un dipinto il doppio nell’inquietante Ritratto di Dorian Gray (1890) dove Oscar Wilde da’ vita ad una figura di libertino al quale il doppio sarà fatale così come accade in William Wilson (1839) di Edgar Allan Poe mentre mister Hyde rivela al dottor Jekyil un doppio particolarmente violento (Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyil e del signor Hyde, 1886). C’è un doppio particolare che segue ovunque ciascuno di noi ed è l’ombra che, come tutti i doppi, è foriera di inquietudini: Peter Schlemil nella Storia straordinaria di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso (1813) la vende al diavolo per una borsa di denaro ma la sua amata vedendolo senza ombra lo rifugge per paura mentre Peter Pan nell’omonimo romanzo di James Barrie (1904) la perde ed egli rimane nel limbo dell’infanzia,
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senza varcare mai la soglia dell’adolescenza, con la sola compagnia dei “bambini sperduti”(15). Uno scandaglio ancor più profondo dell’animo umano è quello usato da Dostoevskij ne Il sosia (1846) dove il doppio altro non è che il manifestarsi di un disturbo paranoico che attanaglia il consigliere Gòljadkin, consapevole è quello del Fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello ma quasi tutti gli scrittori, nell’arco del XIX ed inizio XX secolo, sembrano cavalcare il tema del doppio rivelandone la profonda connessione con lo spirito del tempo (16). Al di fuori del campo letterario, il tema del doppio diventa motivo spettacolare e pubblica attrazione con la nascita dei musei delle cere, dove al virtuosismo tecnico, si mescola la curiosità popolare per le grandi figure della storia e dell’attualità. Primo fra tutti il museo londinese di Madame Tussaud, aperto dalla ceroplasta francese nel 1835 in Baker Street, la strada poi resa celebre dalle avventure di Sherlock Holmes. Ma la ceroplastica ha una storia che si perde nell’antichità, trionfando nel pieno barocco e conservando sempre il rapporto privilegiato con il culto dei defunti. Come dice con ineguagliabile chiarezza Mario Praz “Fin da quando gli uomini si resero conto della qualità della materia, si servirono della cera come tramite per i loro rapporti colla divinità e colle ombre dei defunti (…) dominava l’idea che la cera ritenesse qualcosa dell’anima dell’uomo (…)”(17). Come tramite tra umano e sfera celeste il manichino indossa le vesti dei santi, dei profeti e delle Madonne e fa mostra di sé nelle nicchie degli altari così come nel fulgore delle processioni quando non diventa un ex voto a dimensione umana come nel santuario della Madonna delle Grazie di Curtatone, vicino Mantova, dove nelle pareti della chiesa si aprono decine di nicchie che ospitano manichini che mimano gli eventi miracolosi che la salvifica Madonna mantovana ha prodigato ai suoi devoti nel corso del Cinque e del Seicento (18). Con un’ardita fuga in avanti fino alla contemporaneità per sottolineare come anche la nostra epoca non sia esente dal tema del doppio,
Fig. 6 - Il manifesto disegnato da Saul Bass nel 1958 per il film di Hitchock, Vertigo (La donna che visse due volte)
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anzi lo amplifichi e non solo tramite la letteratura e l’arte (basti pensare ai doppi serigrafati di Andy Wahrol oppure a quelli davvero perturbanti realizzati in resina da Duane Hanson) ma anche grazie al cinema, a partire dal robot avveniristico che Fritz Lang immagina in Metropolis (1927), fino al film cult di Ridley Scott, Blade Runner (1982). Alfred Hitchcoch sceglie un romanzo di Thomas Narcejac e Pierre Boileau (D’entre les morts, 1954) per trattare il tema del doppio nel film Vertigo – La donna che visse due volte
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(1958) ma qui si tratta di un doppio molto particolare, in carne ed ossa mentre ne L’invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956), gli alieni realizzavano eidolon degli abitanti di una cittadina della California, eliminando gli originali e sostituendoli ad essi (fig. 6). Ancora androidi sono i protagonisti del romanzo I simulacri (1964) di Philip Dick dove in un tetro ventunesimo secolo il mondo è ostaggio di una multinazionale che costruisce robot che prendono il posto perfino del presidente degli Stati Uniti; tema caro a Dick che nel suo Gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) dal quale Ridley Scott ha tratto il già citato Blade Runner, traccia un “confine incerto e ambiguo tra gli umani e i replicanti, tra l’originale e la copia, tra la vita e la vita programmata” (19). L’universalità del tema ci trasporta fino alla contemporaneità, al romanzo di successo del giapponese Murakami, 1Q84, dove in un tempo doppio e parallelo a quello reale e alla doppia e vigile luce di due lune, si muovono alcuni personaggi e i loro eidolon, in un complesso intreccio di avvenimenti (20). Non sfugge al tema del doppio nemmeno l’attualità scientifica più stringente quella della duplicazione del DNA e della possibile ed eticamente controversa clonazione di un essere vivente; cosa sono gli attuali profili dei social network se non un doppio virtuale che noi stessi creiamo secondo il nostro desiderio e che facciamo vivere nello spazio immateriale della rete? Sembra in questo avverarsi quanto scrisse il filosofo francese Jean Baudrillard : “L’astrazione oggi non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale o una sostanza. È piuttosto la generazione di modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale” (21). Ma questa è un’altra storia. Nel suo importante studio sul doppio, il filologo e antropologo Maurizio Bettini ne individua due tipi: il simulacro che sostituisce un assente, come necessità nata dal colmare una
mancanza e il doppio che replica una persona vivente. Nel secondo caso, e quasi tutti i doppi letterari e cinematografici che abbiamo ricordato ne fanno parte, il doppio cercherà sempre di sostituirsi all’originale: “Nata come sostituto, una volta in presenza del suo referente l’immagine tenderà appunto a sostituirlo, segnando o provocando la morte dell’ego che ha di fronte” (22). Il rapporto tra originale in vita e la sua copia si accende di note drammatiche mentre la funzione del simulacro è autenticamente tale solo se catartica e solo quando colui o colei al quale si riferisce non c’è più. Come Orsola, il cui manichino il marito fece costruire per ricorrere al suo potere consolatorio e riparatorio. C’è un altro elemento che finora abbiamo volutamente trascurato ma che invece fa parte integrante dell’eidolon fin dal suo primo apparire: quello del simulacro come dispositivo del desiderio, oggetto erotico di cui la vicenda di Pigmalione che scolpisce una statua femminile di cui s’innamora e per la quale implora la vita agli Dei per congiungervisi carnalmente, ne è la più conosciuta esemplificazione (23). Al di fuori dello spazio del mito i manichini realizzati per “compagnia amorosa” sono documentati sin dal XVII secolo; i marinai li portavano nei loro lunghi viaggi con il nome gentile di dames de voyages (24). Nel suo Casanova (1976), Fellini, seppure con la consueta vena grottesca, mette in scena un amplesso tra Giacomo Casanova - Donald Sutherland ed una bambola meccanica che proprio grazie alla sua impassibile alterità suscitava il desiderio del libertino veneziano (25). La pratica della dame de voyage ha una continuità che si spinge fino ai giorni nostri con esiti che sconfinano nel patologico: ne fa testo un recente articolo di costume che segnala come in Cina un particolare tipo di “fidanzata gonfiabile” sia diventato uno status symbol e che i suoi possessori non di rado se ne innamorino, ricoprendola di regali e vestiti costosi (26). Un esempio alto del doppio come oggetto dell’appagamento erotico e sicuramente
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Fig. 7 - Oscar Kokoscka, ritratto di Alma Mahler, Tokyo, The National Museum of Modern Art
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passionale, fu una vera e propria “creatura del desiderio” cioè il simulacro fatto realizzare da Oscar Kokoschka con le fattezze dell’ex amante Alma Mahler (fig.7). La donna, nel 1914, aveva interrotto bruscamente la relazione con il pittore che, tre anni dopo, ancor preso di passione mista a rancorosa ossessione, fece costruire una bambola a grandezza naturale con le fattezze di Alma. Il fantoccio visse con lui per tre anni ed ebbe una cameriera, vestiti eleganti, seguendo il pittore anche in pubblico. La fine è nota: Kokoschka, durante una riunione tra amici, prese a dileggiare la bambola ed in preda ad una
Fig. 8 - Max Halberstadt, ritratto di Sigmund Freud, 1921 ca., New York, archivio Life
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crisi di furia e sostituzione proiettiva la decapitò, inzuppandone la testa nel vino. Nel caso di Kokoschka è l’immagine sostitutiva di Alma a fare le spese del desiderio di vendetta a lungo covato dal pittore; sacrificio inverso (per fortuna solo letterario!) è quello descritto da Poe ne Il ritratto ovale dove si assiste al progressivo languire e infine alla morte della moglie e modella del pittore mentre costui ne dipinge il ritratto trasferendo sulla tela la vita stessa della donna (27). Una storia meno drammatica è quella del simulacro in cera fatto costruire a propria immagine alla ceroplasta francese
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Catherine Bariansky nel 1908, dall’eccentrica contessa Luisa Casati e del quale parla D’Annunzio nel suo Libro Segreto, in particolare nel racconto intitolato Figure de cir; la Contessa amava far cucire al sarto Poiret due abiti identici, uno per lei e uno per la figura in cera così da coinvolgere lo scrittore in un raffinato gioco eroticosentimentale (28). Tutti gli episodi sopra citati a partire dai più lontani nel tempo, fino a quelli più vicini a noi, vivono anche alla luce di un’interpretazione, che è quella del Das Unheimliche, il perturbante. Lo stato d’animo del perturbamento è quello che ci confina nella titubanza e nello straniamento quando una situazione o un oggetto presentano elementi familiari così da farci dubitare dei nostri sensi. Il primo a coniare il termine fu Ernst Jensch che lo definiva come quel particolare stato nel quale per esempio si può provare “il dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato”(29). Frase particolarmente calzante per un manichino. Sigmund Freud riprende il tema del perturbante in un saggio del 1919 e approfondisce il concetto alla luce della sua personale elaborazione clinica: il perturbamento è una sensazione di spavento legata a ciò che ci era familiare e che noi stessi abbiamo negato e rimosso; evocato da una parola, da un’immagine, da un oggetto, ritorna a noi come elemento della nostra passata vita psichica, stabilendo i termini di quello che nella disciplina freudiana prende il nome di “ritorno del rimosso” (fig. 8). Sia Jentsch che Freud per rendere chiaro il sentimento del perturbamento, portano ad esempio la replica del corpo umano, ciò che finge la vita ma che vita non è. In particolare le statue di cera ma soprattutto gli automi, le bambole meccaniche che vennero realizzate dal Medioevo in poi ma che nei secoli XVIII e XIX conobbero maggiore diffusione grazie al progredire della civiltà delle macchine. Il rimosso che ricorrentemente viene evocato dal manichino o dall’automa secondo
Freud non è altro che l’idea onnipotente, infantile e primaria che un nostro doppio ci renda immortali e ci faccia sfuggire al comune destino della finitezza umana. La vista di un simulacro del corpo umano, fa riaffiorare confusamente alla nostra coscienza la rimozione del pensiero della morte e ci consegna al perturbamento (30). Torniamo a palazzo Tozzoni, in particolare all’archivio che si trova al piano nobile del palazzo dove sono raccolti tutti i documenti che hanno riguardato la vita della famiglia ma nei faldoni nulla compare relativamente alla realizzazione del manichino. La pulsione psichica riparatoria di Giorgio Barbato dovette essere assistita da capaci artigiani che realizzarono materialmente l’oggetto; forse il conte seguì i dettagli del lavoro con maniacale attenzione oppure delegò ad un team di fiducia l’esecuzione ma fatture, annotazioni, biglietti non compaiono ma la privatezza e la particolarità dell’episodio giustificano questa lacuna. A noi rimane il manichino di Orsola che racconta la vicenda di una storia sfortunata e ci ricorda come “L’eternità dei morti dura finché con la memoria viene pagata” (31).
1. Vedi Questa Romagna. documenti di storia, costumi e tradizioni, Bologna, a cura di A. Emiliani, volume II, pp. 222-224. La più recente citazione del manichino di Orsola è in V. E. Genovese, Statue vestite e snodate. Un percorso, Pisa, 2011, pp.13-14. Il libro di V. Genovese benché riservato quasi esclusivamente allo studio delle statue vestite dedicate alla liturgia, per la ricchezza di suggestioni, riferimenti e bibliografia è fonte imprescindibile. 2. Vedi Vite di Giorgio Cristiano e Giorgio Barbato Tozzoni, Archivio Tozzoni Imola, Tit. 55, ass. 3.Qui se ne utilizza la trascrizione pubblicata nel 1993 a cura di L.Vivoli: Vite di Giorgio Cristiano e Giorgio Barbato Tozzoni 1745-1873, Imola 1993, p. 218. 3. Ibidem, p. 219. 4. Scrive E. Pommier a pagina 10 de Il ritratto. Storia e teoria dal Rinascimento all’Età dei Lumi, Torino 2003: “Ecco quindi il ritratto sottratto all’ombra della notte,
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della separazione e della morte e sgorgato dall’incontro tra la Natura, che lo ha prefigurato come con l’ombra sul muro e l’ispirazione divina che ha visto l’opera della Natura (...) il ritratto è il segno di un’assenza, espressione di una nostalgia, risposta alla morte”. Vedi Vite…, cit., 1993, pp. 218-219 Vedi Vite…, cit, p. 146. “Nonostante le Militari mie occupazioni potei prendere regolarmente le seguenti mie lezioni di cui abbisognavo (…) Di lavori in Capelli da M.r Romainè Belga Capitano nel 112 Fanteria Francese (...)” M. Mauss ricordava nel suo Teoria generale della magia come “la parte equivale alla cosa intera (…) La personalità di un essere è indivisa e risiede intera in ciascuna delle sue parti”, Milano 1975, p. 65. Paola Goretti mi segnala: un paio di magnifici esemplari di bracciali in oro e capelli intrecciati, entrambi conservati al Museo Glauco Lombardi di Parma, riprodotti in Gioielli. Moda, magia, sentimento, a cura di M. T. Balboni Brizza, G. Butazzi, A. Mottola Molfino, A. Zanni, Milano 1986, pp. 61-64 e schede corrispondenti. Si veda anche P. Goretti, En crinière: parrucche, cornici, maestà, in Un diavolo per capello dalla Sfinge a Wharol. Arte Acconciature, società, cat. della mostra a cura di P. Bellasi e T. Sparagni, Milano 2006, pp.107-112. Patrizia D’Andrea, Le spiritisme dans la littérature de 1865 à 1913. Perspectives européennes sur un imaginaire fin-de-siècle, Paris, 2015 Non è questa la sede per approfondire le tematiche dell’esoterico nel secolo XIX. Ricordiamo almeno le medium più note come le sorelle Fox e l’italiana Eusapia Palladino. Al proposito esiste una ricca saggistica; ci limitiamo a citare S. Cigliana, La seduta spiritica. Dove si racconta come e perché i fantasmi hanno invaso la modernità, Roma 2007, con apparato bibliografico di riferimento. Per il rapporto tra cinema e soprannaturale si veda: S. Natale, Un dispositivo fantasmatico: cinema e spiritismo, in “Bianco e Nero”, 573 (2012), 82-91. M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino 2008, pp. 15 e segg. Il testo di Bettini, sostenuto da una puntale ricostruzione attraverso la letteratura classica, offre una disamina importante del rapporto che s’instaura tra il simulacro o colui che se ne avvale per tenere vivo un sentimento amoroso. Si veda G. M. Vidor, La photographie post-mortem dans l’Italie du XIXe et XXe siècle. Une introduction in A. Carol, I. Renaudet, La mort à l’oeuvre. Usages et représentations du cadavre dans l’art, Aix-en-Provence 2013 Nel monumento a Maria Cristina d’Austria, (1805, Augustinerkirche, Vienna) Canova limita la raffigurazione della morta al profilo retto da un angelo mentre tutta la scultura è occupata da una piramide che funge da tomba e da una teoria di figure dolenti.
13. Narra Plinio che la figlia del vasaio Butade aveva un innamorato costretto a lasciarla per recarsi in guerra; la fanciulla era triste e una notte mentre l’innamorato dormiva, tracciò sul muro, seguendo l’ombra, il profilo dell’amato come le appariva al riverbero di una lampada. Butade, impietosito dal dolore della figlia, ricavò da quella silhouette una copia in argilla (Plinio, Naturalis Historia XXXV, 151). Il rapporto tra originale, ombra ed eidolon è ancor più complesso e non viene affrontato in queste poche pagine. La saggistica è sterminata. Citiamo per brevità: V. I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Milano 2006; La maschera, il doppio e il ritratto, a cura di M. Bettini, Bari 1991; M. Bettini, Il ritratto ..., cit.; M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Modena 2012. 14. J.P. Vernant in Psichè: simulacro del corpo o immagine del divino? citato in La maschera..., cit., pp. 3-11, da pag. 4 è tratta la citazione nel testo; ancora sull’eidolon: J.P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Roma 1993. 15. Si veda: R. Casati, La scoperta dell’ombra. Da Platone a Galileo la storia di un enigma che ha affascinato le grandi menti dell’umanità, Milano 2000. 16. Non è possibile dare conto in questa sede di un tema così vasto. Un’ efficace raccolta dei “doppi” letterari è nel testo di O. Rank, Il doppio. Uno studio psicoanalitico (1914), Milano 2001, dove egli cita anche i racconti di Gohete, Chamisso, Andersen, Lenau, Kipling. Lo studio di Rank, per ovvia scelta disciplinare, tende ad evidenziare gli elementi patologici dell’esperienza del doppio, lasciando in ombra l’aspetto storico-mitologico. 17. Vedi La ceroplastica nella scienza e nell’arte, Atti del I Congresso Internazionale, (Firenze, 3-7 giugno 1975 ), Firenze, 1977; la citazione è tratta da M. Praz, Bellezza e bizzaria, Milano 2002, p. 957. 18. cfr. Vestire il sacro. Percorsi di conoscenza, restauro e tutela di Madonne, Bambini e Santi abbigliati, a cura di L. Bortolotti, Bologna, 2011; Virgo Mater Regina. Percorsi per una conoscenza dei simulacri vestiti in Diocesi di Imola, a cura di M. Violi, Imola 2008; L. Mazzoni, I manichini votivi di Santa Maria delle Grazie, a cura di M. Violi, in L. Mazzoni -V. Bolgan, Il manichino e i suoi paesaggi, Mantova 2014, pp.58-61. 19. C. Mengozzi Io è/e un altro, tesi di laurea università di Trieste, consultata on line al sito: http://www2.units.it/clettere/doppio.htm (in data 19 novembre 2014). 20. H. Murakami, 1Q84, Torino 2011. 21. J. Baudrillard, Simulacres et simulations, Parigi 1981. M. Monaldi, Tutto doppio. Mondi virtuali e clonazione umana, Napoli 2005. Dalla teoria dell’iperrealtà di Baudrillard prende le mosse anche un altro film cult: Matrix dei fratelli Wachowski (1999).
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22. M. Bettini, Il ritratto..., cit., p. 265. Si veda anche M. Fusillo, L’altro e lo stesso..., cit. 2012, che identifica tre situazioni del doppio narrativo: l’identità rubata, la somiglianza perturbante, la duplicazione dell’Io. O. Rank, Il doppio..., cit., 1914, definisce la compresenza di simulacro e originale “la maledetta doppità”. 23. V. J. Stoichita, L’effetto Pigmalione..., cit., , pp. 15-68; M. Bettini, Il ritratto..., cit., pp. 72-90. 24. L. Mazzoni, Come fosse una bambola in L. Mazzoni,V. Bolgan, Il manichino e i suoi paesaggi, Mantova 2014, pp. 138-139. L’autrice riporta la descrizione ottocentesca di un quartiere di Anversa, il Rydeck, dedicato alla prostituzione, dove erano molte botteghe di bambole erotiche realizzate in maniera sorprendentemente verisimile, fin nei minimi particolari anatomici. 25. La bambola meccanica era la ballerina e coreografa Leda Lojodice che con grande abilità rese i movimenti a scatti dell’automa. 26. S. Piersanti, I cinesi danno i numeri per la 156: una fidanzata gonfiabile, in “Il Venerdì di Repubblica”, 4 settembre 2015. 27. L’ultimo libro in ordine di apparizione sulla vicenda di Alma Mahler e Kokoschka è A. Camilleri La creatura del desiderio, Milano 2014, che ricostruisce dettagliatamente i fatti. E. A. Poe, Il ritratto ovale (1842), Milano 1970, pp. 231-234. In questo caso al rapporto amante-simulacro si aggiunge lo sdoppiamento dell’amante nell’artista che materialmente esegue l’opera. 28. G. D’Annunzio, Notes pour la figure de cire, in Libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, Milano 2010. Interessante anche il libro di memorie della Barjansky dove racconta nei particolari la creazione della bambola e i rapporti con la contessa Casati; C. Barjansky, Portrtaits with background, New York, 1947; il libro è consultabile online: https://archive.org/stream/portraitswithbac009075mbp#page/n7/mode/2up. La bambola in cera venne donata dalla Marchesa a D’Annunzio che la portava con se’ anche durante i viaggi; è ancora conservata al Vittoriale. E’ stata esposta per la prima volta recentemente a Venezia in palazzo Fortuny nella mostra La Divina Marchesa. Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Epoque agli anni folli, dal 4 ottobre 2014 all’8 marzo 2015. Si veda anche il saggio in catalogo dove viene analizzato il rapporto tra D’Annunzio, la marchesa e la figura di cera: R. Castagnola, Inafferrabile come un’ ombra nell’Ade, in La Divina Marchesa. Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Epoque agli anni folli,Venezia 2014, pp. 195-201; per una lettura meno approfondita ma ugualmente significativa: L. Scarlini, Memorie di un’opera d’arte. La marchesa Casati, Milano 2014. 29. E. Jensch, Sulla psicologia del perturbante, in “Psychiatrigen - Neurologische
Wochenschrift” 8.22 (25 Aug 1906). La frase è citata in S. Freud, Il perturbante (1919) in Saggi sulla psicologia, l’arte e il linguaggio, Torino 1969, p. 277. 30. Per forza di cose sia la definizione di perturbante, sia una cronologica e attenta disamina della storia delle statue di cera e degli automi tra XVIII e XIX secolo non può essere svolta che in maniera schematica in queste pagine. Ricordiamo solo come lo stesso Freud per rendere chiaro il concetto di perturbante, propone una lettura critica de Il mago della sabbia di Hoffman, dove il ruolo centrale è quello dell’automa di Olympia. Per le statue di cera: J. von Schlosser, Storia del ritratto in cera (1911), Macerata 2011 e anche P. Conte, Unheimlich. Dalle figure di cera alla Uncanny Valley, in “PsicoArt”. Rivista on line di Psicologia dell’Arte, http://psicoart.unibo.it/article/view/2473, vol. 2, n. 2 (2011-2012), consultata il 21 novembre 2014; per una storia filosofica degli automi: H. Bredekamp, Nostalgia dell’antico e fascino della macchina. La storia della kunstkammer e il futuro della storia dell’arte, (993), Milano 2006; G. P. Ceserani, Gli automi. Storia e mito, Roma-Bari, 1983; per gli automi nell’antichità classica: M. Pugliara, Il mirabile e l’artificio. Creature animate nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma 2003. 31. W. Szymborska, Riabilitazione, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Milano 2009.
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Il corredo di matrimonio
I
Fig. 1 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Dopo il restauro.
l 26 gennaio 1819, di buon mattino, Orsola Bandini varcava la soglia della chiesa di San Domenico a Faenza per andare sposa al conte Giorgio Barbato Tozzoni. Non ci sono pervenute immagini della cerimonia, ricordata molto succintamente anche nelle memorie scritte. Ci piace però immaginare che la giovane ventiduenne, figlia di una facoltosa famiglia locale di idee progressiste, per quell’occasione importante vestisse un abito di colore chiaro, ispirato alle linee morbide e slanciate introdotte dalla moda francese nei primi anni dell’Ottocento. Così come al repertorio di forme elaborato nella stagione dell’Impero furono improntate le opere di ammodernamento realizzate nell’ala est del palazzo imolese che l’avrebbe accolta e che lei giudicò di suo gradimento dopo averlo visitato il giorno stesso delle nozze (1). Nata nel 1797, ovvero nel medesimo anno in cui l’esercito napoleonico sconfiggeva le milizie pontificie proprio nei pressi di Faenza, la giovinezza di Orsola trascorse in un’epoca di profonde e radicali trasformazioni che interessarono ogni aspetto della vita sociale toccando inevitabilmente anche Marta Cuoghi Costantini
Il guardaroba di Orsola fra moda neoclassica e romantica
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Fig. 2 - Inventario del corredo di matrimonio di Orsola Tozzoni, 1818, Imola, palazzo Tozzoni
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quel complesso sistema di segni che è l’abbigliamento. Gli ingombranti e scomodi abiti ancien regime che per tanto tempo avevano ingabbiato il corpo femminile, vennero rimpiazzati, seppure per un periodo assai breve, da indumenti improntati a criteri di maggior praticità e libertà della persona. E l’ambiente faentino, compreso quello della sua famiglia, dovettero essere sensibili alle novità che venivano dalla Francia come pare di ravvisare anche nell’inventario del corredo redatto in
prossimità della data del matrimonio, completo delle stime dei periti e comprensivo di tutto ciò che necessitava a una giovane sposa (2) (fig.2). Il linguaggio scarno ed asciutto di norma utilizzato in questo genere di documenti, redatti essenzialmente per fini contabili e amministrativi, non ci consente di individuare con esattezza le fogge sartoriali, le tipologie tessili e tutti quei particolari che caratterizzano i singoli indumenti. Le poche pagine che lo compongono forniscono però indicazioni interessanti come quella relativa alla presenza di due “abiti candi con gran ricamo di ultimo gusto” che fa pensare alle fogge elaborate fra Direttorio e Impero ma la cui voga si protrasse ancora nei primi anni della Restaurazione (3). Si tratta dei cosiddetti habits-chemise, confezionati rigorosamente in tessuti leggeri, mussole e batiste di lino o cotone, caratterizzati dal taglio vita molto alto, proprio sotto il seno, che lasciava scendere la gonna in un morbido e fluente panneggio ispirato a quello delle statue antiche. Così come ai marmi statuari si ispirava anche il colore bianco, che ricorre ripetutamente nel corredo di Orsola, e che fu un elemento caratterizzante della moda di quegli anni al pari dei ricami spesso eseguiti tono su tono (4). Fra i capi elencati nell’inventario e più facilmente identificabili figurano poi due “spenser di mussola ricamati” ovvero corti giacchettini aderenti al corpo che si arrestavano alla vita e che presentavano per lo più maniche lunghe ed attillate. Indispensabili per proteggere le ampie scollature degli abiti, le loro fogge si ispiravano all’abbigliamento maschile, ed in particolare alle giacche amate dal lord inglese John Charles Spencer da cui derivarono anche il nome (5). Venivano indossati in alternativa agli intramontabili scialli, complementi indispensabili degli abiti “all’antica” di fine Settecento ma anche dei modelli di più complessa costruzione sartoriale elaborati negli anni dell’ Impero. Vera e propria mania di tutte le dame alla moda erano quelli tessuti con le costosissime lane cachemire provenienti dal Tibet, decorati con il caratteristico motivo indiano della palmetta bothet; erano però apprezzate anche le imitazioni francesi e le numeose varianti realizzate in seta ed altri materiali (6). Il corredo di Orsola ne contava due di lana
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merinos, nei colori bianco e rosso, uno lavorato a maglia ed uno leggero per la stagione estiva cui si aggiungevano due manti da testa, uno bianco ed uno nero. Una menzione particolare merita poi la biancheria personale, richiamo di pratiche igieniche e consuetudini quotidiane ma anche elemento da esibire, rappresentativo di una precisa appartenenza sociale cui l’inventario di matrimonio dedica un’ intera pagina. Camicie da giorno di “tela battista guarnite di pizzo fino”o di semplice ”tela con l’orlo a giorno”, camicie da notte e da bagno di “perchal guernite di frappe sbeccate” o di semplice “mussola”, corsetti di “mussola guerniti con frappe” e ricamati, sottanini di “dobletto sbeccati”, con “frappa” o “guerniti di pizzo”, cuffie da notte con “guarnizioni, pizzi e ricami”, “pantaloni” ovvero mutandoni “ guerniti di frappe ricamate”, facevano tutti parte dell’abbigliamento della giovane Orsola e ne accompagnavano i diversi momenti in cui era scandita la sua giornata (7). La presenza di un numero davvero rilevante di fazzoletti, l’inventario ne elenca oltre centocinquanta, rende infine conto dell’importanza che in quegli anni aveva assunto questo accessorio la cui voga pare fosse stata rilanciata già nei primissimi anni del secolo dalla futura imperatrice di Francia Giuseppina Beauharnais che li esibiva in tutte le occasioni. Dimensione, forma, composizione si differenziavano in relazione alla destinazione d’uso: quelli da naso e da notte impiegavano materiali comuni come la semplice tela, la “scorza d’albero” o il “panno marzolo”; quelli da mano, invece, erano realizzati in “perchal” o in “tela battista finissima” e potevano essere ricamati (8). L’inventario post mortem Orsola morì il 29 settembre 1836 a soli 39 anni. Di lei e della breve vita trascorsa a Palazzo Tozzoni, al di là dei semplici dati biografici e del grave lutto che la colpì con la perdita del figlioletto di appena due anni, si conosce molto poco. Ci soccorre solo parzialmente un secondo importante documento notarile redatto subito dopo il decesso, contenente un meticoloso elenco di tutti gli effetti personali rinvenuti presso di lei
Fig. 3 - Inventario post mortem degli effetti personali di Orsola, 1836, Imola, palazzo Tozzoni
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(9) (fig. 3). Fra questi figurano libri di devozione, una corona con un Cristo d’argento, diversi panieri e cassette contenenti gli utensili e i materiali per i lavori di cucito e di ricamo, carte e biglietti da visita, fogli di musica per pianoforte, l’occhialino e il binocolo per il teatro, il canarino con la sua gabbia, oggetti la cui semplice menzione rievoca un mondo prettamente femminile: abitudini, interessi, occupazioni domestiche che Orsola condivideva con molte donne del suo stesso ceto
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sociale (10). La parte più consistente del lungo elenco, molto simile nella stesura all’inventario di matrimonio, riguarda i capi d’abbigliamento e gli accessori. Il raffronto fra i due documenti, redatti a distanza di poco più di quindici anni, ci consente di affermare che nel corso della pur breve permanenza a Palazzo Tozzoni Orsola aveva rinnovato e notevolmente arricchito il proprio guardaroba adeguandolo alle novità che il mutato clima della Restaurazione aveva introdotto anche nella sfera della moda femminile. Nell’inventario redatto a seguito della morte acquistano infatti rilevanza gli abiti confezionati con tessuti di seta, “raso unito” ed “operato”, “raso turco”, “gros liscio” e “ondato”, quasi del tutto assenti in quello precedente (11). La gamma cromatica si amplia notevolmente ed include, oltre al bianco e al nero, sfumature inedite ed intense come i colori “giugiola”, “ingranata”, “acciaio”, “amaranto”, “salvia”. Per diversi abiti viene sottolineata la presenza di grandi maniche, fisse o da riporto, elementi chiave della nuova immagine femminile che si va definendo fra gli anni venti e trenta dell’Ottocento. Per altri se ne precisa la destinazione d’uso come ad esempio per l’abito “a dominò da maschera” confezionato in “gros nero guernito color di rosa e foderato di verde” che sembra riferirsi al classico mantello con cappuccio utilizzato durante il carnevale. Cospicua è poi la presenza di capi invernali fra i quali figurano due “ferraioli” con finiture in velluto e fodere di seta, un “mantello di raso di lana operato”, una “pellegrina con coda di petit gris”, una di lupo cerviero e diversi manicotti, anch’essi di pelliccia oppure di “raso e felpa” (12). La dotazione di scialli comprende capi comuni ma anche pregiati esemplari in cachemire, vero e proprio status symbol, cui si aggiungono svariate sciarpe, manti da testa, veli, velette. L’inventario infine elenca numerosi capi di biancheria, calze, guanti, cinture, cappellini, cuffie, colli, polsini ed altre guarnizioni in gran quantità, elementi funzionali a proteggere la persona ma soprattutto indicatori di un rapido trascorrere dei cambiamenti del gusto e delle mode. Acquista interesse a questo riguardo la presenza di “tre paia maniche di velo”
citate nella prima pagina del nostro inventario. Si trattava presumibilmente di un tipo di maniche molto particolare, divenuto di moda con la Restaurazione: confezionate con tessuti leggerissimi e trasparenti ed indossate al di sopra delle maniche del sottostante abito che lasciavano intravedere, costituivano un elemento di grande attualità, una nota aristocratica ed originale comune alle toilette di numerose nobildonne (13). La ricca gamma di capi d’abbigliamento e di accessori elencati nell’inventario post mortem presupponeva una vasta rete di fornitori - sarti, ricamatori, calzolai, commercianti, produttori di stoffe, nastri, passamanerie e decorazioni varie - che purtroppo non siamo in grado di ricostruire in assenza di una ricerca sistematica, espressamente finalizzata a questo scopo, nel ponderoso archivio familiare. Da una rapida indagine a campione effettuata sulle carte di amministrazione relative agli anni 1829/1831 emerge che i conti Tozzoni commissionavano con frequenza lavori di sartoria per la confezione di nuovi capi o per rimodernarne di vecchi. Si avvalevano soprattutto di artigiani bolognesi ed in particolare dei sarti Pierina Comastri, Francesco Bini e Carlo Zappi , i cui nomi ricorrono più volte nel corso del 1829. In gennaio ad esempio viene saldato un conto alla Comastri per la fattura di vari abiti e per quella di due spenser, mentre a giugno vengono addebitati i costi per la fattura di un abito blu e la fornitura dei tessuti necessari (fig. 4). A febbraio viene pagato il Bini per la “rimontatura” di un mantelllo e la confezione di un “baverino di pelo” ed in luglio vengono pagati a Zappi diversi lavori di sartoria (14). Priva di data precisa , ma compresa in un plico di carte relative al quarto trimestre 1829 è infine una lista a firma Caterina Stanzani per la fornitura di un “cappellino di gros di Napoli celeste”, di uno “bianco di velo gretto di Francia” e di un “bonettino color di rosa” (15) (fig.5). L’acquisto di tessuti avveniva preferibilmente presso commercianti fiorentini, come il setaiolo Agostino Pieri che nel dicembre 1829 fornì loro un taglio di “gros de Naple” nero come attesta una ricevuta di pagamento corredata da un piccolo frammento tes-
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sile (16) (fig. 6). A giudicare da queste pur scarse e sporadiche informazioni la contessa Tozzoni curava e rinnovava continuamente il proprio guardaroba adeguandolo alle novità che una moda sempre più rapida ed effimera introduceva stagione dopo stagione. Difficile però stabilire quali fossero i suoi riferimenti nella scelta dei modelli, dei colori, nell’abbinamento dei capi e dei numerosi accessori che li completavano. E’ assai probabile che conoscesse qualche rivista di moda visto il grande sviluppo che questi formidabili strumenti di diffusione e promozione ebbero anche in Italia nei primi trent’anni dell’Ottocento. La testata più famosa fu il milanese “Corriere delle Dame” ma molte altre città si dotarono di analoghe riviste. E non è da escludere che Orsola ne conoscesse qualcuna come ad esempio il “Giornale delle Dame” edito a partire dal 1822 a Firenze dove i conti Tozzoni soggiornavano con frequenza, grazie anche ai legami familiari, per partecipare a feste ed altri eventi mondani (17).
Fig. 4 - Ricevuta di pagamento della sarta bolognese Pierina Comastri per la confezione di un abito blu, 5 giugno 1829, Imola, palazzo Tozzoni. Fig. 5 - Ricevuta di pagamento per la fornitura di alcuni cappellini, privo di data ma compreso fra ottobre e dicembre 1829, Imola, palazzo Tozzoni.
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Il manichino Alla morte di Orsola tutti i suoi effetti personali furono consegnati alla madre come attestano le ricevute sottoscritte in qualità di erede da Rosa Caldesi fra il dicembre 1836 e il febbraio 1837 (18). Unica sopravvivenza del suo guardaroba sono purtroppo gli indumenti che rivestono il manichino, commissionato dal conte Giorgio Tozzoni per mantenere vivo il ricordo della moglie. Il corredo è pressoché completo e comprende diversi capi di biancheria intima, un abito da giorno, calze, scarpe e guanti, una piccola borsa, un ombrellino e, infine, una sorta di piccola sciarpa o fichu (19). Il capo più significativo è certamente l’abito, confezionato con due differenti tessuti uniti di un in-
Fig. 6 - Ricevuta di pagamento del setaiolo fiorentino Agostino Pieri per la fornitura di un taglio di “gros de Naple” nero, 23 dicembre 1829, Imola, palazzo Tozzoni
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Fig. 7 - Particolare dell’abito del manichino di Orsola Tozzoni, Imola, palazzo Tozzoni.
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tenso colore blu oltremare: cannellato semplice per la gonna, il corpetto e le maniche, raso per la balza , gli inserti decorativi e le profilature di finitura. Pur impiegando filati di seta dello stesso colore, cannellato e raso si differenziano per la tonalità cromatica e il loro accostamento nella confezione sartoriale dà luogo ad un evidente contrasto fra la superficie ruvida e opaca del primo e quella liscia e brillante del secondo. L’abito si compone di una gonna dalla forma leggermente
a campana arricchita nella parte inferiore da una balza e da una doppia profilatura lungo il bordo; di un corpetto aderente al corpo con scollatura a barca decorato anteriormente da inserti orizzontali e profilature in raso; di maniche lunghe, strette al polso, ma esageratamente ampie nella parte superiore, della tipologia a gigot (20). La loro foggia, ispirata a modelli di ascendenza cinque-seicentesca, assume un carattere marcatamente decorativo ed evidenzia la dimensione orizzontale della figura in netto contrasto con l’andameto verticale peculiare degli abiti degli anni dell’ Impero. E’ senz’altro questo l’elemento più caratterizzante, insieme alle lavorazioni ad inserti del corpetto il cui taglio vita, ricondotto alla naturale altezza, è dissimulato da un alto fascione di raso blu (fig. 7). L’osservazione dell’abito nel corso del suo restauro ha messo in evidenza alcune particolarità che tradiscono successivi interventi di adattamento, come la presenza di vari tipi di fodere e rinforzi al suo interno, di finiture sartoriali poco accurate, o la diversa composizione del tessuto impiegato nella confezione delle maniche rispetto a quello di sottana e corpetto (21). Ciò nonostante la foggia dell’abito nel suo complesso, ispirandosi ai modelli e alle lavorazioni di un vago e generico Rinascimento, è riconducibile al revivalismo storicistico caro alla cultura romantica e trova riscontro nella ritrattistica e nei giornali di moda del periodo che sta a cavallo fra la fine degli anni venti dell’Ottocento e i primi del decennio successivo. Non era passato molto tempo dal matrimonio del conte Giorgio Barbato e di Orsola ma l’immagine della donna era profondamente cambiata. La semplicità degli abiti neoclassici aveva lasciato il posto a modelli più rigidi che implicavano l’uso del busto per assotigliare il punto vita e quello di sottovesti inamidate per tenere in forma le sottane la cui ampiezza era controbilanciata dalle dilatate dimensioni delle maniche, gonfie a dismisura ed arricchite da numerosi particolari decorativi (22). Il manichino, così particolare nella sua postura un po’ goffa, e il complesso di abiti ed accessori che lo rivestono, ci restituiscono un’immagine dimessa e quasi sofferente di Orsola che rappresenta assai bene la sua condizione di infelicità, ma
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non il rango che i conti Tozzoni rivestivano. Le ragioni di questo esito poco brillante sono forse da addebitare alla scarsa abilità dell’artigiano che confezionò il singolare ritratto avvalendosi principalmente di stoppa e maglia di seta, materiali deperibili e difficili da mantenere in forma. Ma certamente vi contribuì la scelta di un abbigliamento costituito da capi comuni, forse obbligata dal fatto che quando fu realizzato l’inusuale ritratto l’intero guardaroba di Orsola fosse già stato riconsegnato alla madre, erede di tutti gli effetti personali della figlia. Non possiamo però escludere che l’abito blu dalle grandi maniche a gigot sia stato scelto fra quelli che Orsola usava indossare con più frequenza negli ultimi anni di vita e che il conte Tozzoni abbia voluto ricordare la giovane e sfortunata moglie attraverso una immagine familiare e consueta, legata alla loro vita quotidiana, ulteriore riprova del profondo legame affettivo che lo legava a lei. Ed è per questa sua valenza di testimonianza storica e familiare che ci sembra importante l’aver realizzato il restauro del singolare manufatto, privo di qualità artistiche o di pregio ma che forse meglio di altri oggetti interpreta la vocazione museografica di palazzo Tozzoni, prossima alla dimensione raccolta e intima della casa piuttosto che a quella fredda e distaccata del museo tradizionale.
1. Le scarne notizie sulla cerimonia nuziale si trovano in Vite di Giorgio Cristiano e Giorgio Barbato Tozzoni 1745-1873, Imola 1993, p. 216; cfr. inoltre in questo stesso volume il contributo di Claudia Pedrini che ringrazio per avermi segnalato lo studio e i documenti d’archivio che sono stati alla base del mio lavoro. 2. L’importante documento, titolato Nota del parafreno e corredo dell’ill.ma sig.ra Orsola Bandini sposa promessa col nobil homo sig.r conte Giorgio Tozzoni è conservato nell’Archivio di palazzo Tozzoni a Imola (Archivio Tozzoni Imola – d’ora in poi ATI - tit. 4, cart. IV, f. 25). 3. Il loro valore stimato 50 scudi è abbastanza elevato e supera, seppure di poco ,
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quello di due abiti da ballo valutati 43; solo il costo di un abito di velluto blu pari a 36 scudi è superiore Cfr. Nota del parafreno e corredo..., cit. Su questo affascinante momento della storia della moda femminile e sulla stagione neoclassica che l’aveva preceduto esiste una ricca bibliografia. Oltre allo studio, ancora fondamentale, di R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, vol V: L’Ottocento, Milano 1969 segnalo E. Morini, Storia della moda. XVIII-XXI secolo, Milano 2010 pp. 43-62 ; G. Butazzi, La caduta del busto, in Idee di moda, vol 8: Classicismo e libertà, a cura di G. Butazzie e A. Mottola Molfino, Milano 1992, pp.26-40; e sempre di G. Butazzi, Trasformazioni e significati del sistema vestimentario tra Antico Regime e Regno d’Italia: abbigliamento quotidiano e costume di corte, in Il tessuto nell’età del Canova, a cura di M. Cuoghi Costantini, Milano 1992, pp.55-77. L’evoluzione dell’ habit-chemise trova inoltre puntuale documentazione nel catalogo della mostra Napoleone e l’Impero della Moda 1795-1815, a cura di C. Barreto e M. Lancaster, Milano 2010. Rara testimonianza sull’abbigliamento femminile in ambito faentino negli anni che qui interessano è la grande tela di Alessandro Ricciardelli, La famiglia Ricciardelli a San Ruffillo, pubblicata nel volume L’età neoclassica a Faenza, a cura di F. Bertoni e M. Vitali, Milano 2013, pag. 56. Alcuni interessanti esempi di questi corti giacchettini, il cui uso in Francia è documentato a partire dagli anni ‘90 del XVIII secolo sino a tutti gli anni ‘20 di quello successivo si trovano in La moda dal XVIII al XX secolo, Vol.I: XVIII e XIX secolo, Kyoto 2008, pp.174 -175 e in Napoleone e l’Impero della moda, cit., pp.172-173. Nonostante i costi elevatissimi l’uso degli scialli cachemire e delle loro imitazioni fu davvero generalizzato nei primi decenni dell’Ottocento come attesta la vasta documentazione pervenuta. Su queste particolari creazioni dell’arte tessile, rimaste comunque in voga sino a tutta la prima metà del secolo, si vedano gli studi di M. Levi Stauss, Collezione Antonio Ratti. Il cachemire. Scialli indiani ed europei, Como 1995; Cachemire: arte e storia degli scialli nel XIX secolo, Milano 1986 e Le chale cachemire en France au XIX siècle, Lione 1983. Per una analisi sociologica della bianchera cfr. D. Roche, Il linguaggio della moda, Torino 1991 in particolare il capitolo dedicato a L’invenzione della biancheria, pp.153182. Sulla storia, l’uso e i significati del fazzoletto si vedano A. Cantagallo, I segreti del fazzoletto, s.l., 1992; P. Peri, Mouchoir d’amour, amour de mouchoir, in In viaggio con Penelope, catalogo della mostra a cura di M. L. Buseghin, Perugia 1989, pp.203224; M. Carmignani, Il piacere del fazzoletto, in Eleganza e civetteria: merletti e ricami a Palazzo Davanzati, catalogo della mostra a cura di Marina Carmignani, Firenze 1987, pp.50-66; Merletti dalle collezioni di Palazzo Madama, a cura di M.Carmignani, M.Rizzini, M.P.Ruffino, Cinisello Balsamo 2013, pp. 188-193; Il fazzoletto, a cura
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di M. L. Rizzini e S. Ponzoni, s.l. s.d. (Modena 2013). 9. Vedi Nota degli effetti trovati presso la fu s.a cont.a Orsola Bandini Tozzoni all’atto della sua morte accaduta li 29 settembre 1836, ATI, tit. 4, cart. IV, f. 30. 10. Purtroppo dei lavori e degli oggetti citati nell’inventario nulla ci è pervenuto. Possiamo però farci un’idea del mondo domestico del ricamo, dell’uncinetto, del cucito attraverso la coeva documentazione conservata nel Museo Glauco Lombardi di Parma e nella collezione Caprai. Si vedano i cataloghi delle mostre Le piccole ed operose mani della Duchessa, a cura di F. Sandrini, Parma 2002, figg. pp. 15, 16 e 17 e “In quelle trine morbide”. Merletti dell’Ottocento della Collezione Arnaldo Caprai, a cura di W. Capezzali, Roma 2008, cat. nn. 47-49. 11. Molti capi poi utilizzano tipologie di non facile identificazione, indicate con una terminologia di uso commerciale come “madras”, “circas”, “tibet”, “zefir”, “ giaconetta”. 12. Sulla varietà e composizione dei capi invernali cfr. R.Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino 1985, pp. 296-297 13. L’uso di queste singolari maniche di velo è attestato in varie aree geografiche. Maria Brignole Sale duchessa di Galliera le indossa sopra un elegante abito nero nel bel ritratto eseguito da M. Ricasso nel 1828, conservato a Genova nella Galleria di Palazzo Rosso (cfr. C. Cavelli Traverso, Moda neoclassica romantica in Liguria, Torino 2011, fig. 51); analoghe maniche su abiti di colore avorio e ocra vestono rispettivamente Maria Antonia e Maria Amalia, le due figlie maggiori di Francesco I, ritratte da V. D’Auria nel 1830 in un acquerello conservato a Napoli nel Museo Nazionale di San Martino mentre si esibiscono in un saggio musicale insieme ai fratelli ( cfr. G. Brevetti, Tra-Volti dalla Restaurazione. La ritrattistica dei Borbone delle Due Sicilie da Ferdinando I a Francesco II, in “TeCLa”, n. 8, fig.27) . Maniche trasparenti completano infine un figurino in “Le Petite Courier des Dames”, 25 marzo 1833 (E. Morini, Storia della moda...cit., fig.57) e l’abito di donna Francesca Majnoni d’Intignano dell’Acquafredda nel bellissimo ritratto di F. Hayez del 1829 (Francesco Hayez, catalogo della mostra a cura di F. Marzocca, Cinisello Balsamo, 2015, pp. 154 - 155). 14. Vedi Amministrazione corrente. Ricevute 1829-1830-1831, ATI, tit. 29 cart. XI. 15. Vedi Amministrazione corrente. Ricevute 1829-1830-1831, ATI, tit. 29 cart. XI. 16. La ricevuta di Agostino Pieri è molto dettagliata: il taglio di “gros de Naple” a 8 peli, misurava 11 braccia di lunghezza ed era alto 2 . E’ interessante notare che il pagamento di 89 paoli e ¼ a saldo della fornitura avvenne tramite Cecilia Carlotta Gatteschi nata Tozzoni, sorella del conte Giorgio Barbato (Amministrazione corrente. Ricevute 1829-1830-1831, ATI, tit. 29 cart., XI). 17. Cfr. E. Morato, La stampa di moda dal Settecento all’unità, in La moda, a cura di C. M.
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Belfanti e F. Giusberti, Storia d’Italia, Annali 19, Torino 2003, pp. 770-771. Sull’editoria di moda a cavallo fra Sette e Ottocento si vedano anche S. Franchini, Editori, lettrici e stampe di moda, Milano 2002; G. Sergio, Parole di moda. Il corriere delle Dame e il lessico della moda nell’Ottocento, Milano 2010. Una prima dichiarazione dell’11 dicembre 1836 è posta al termine della Nota degli effetti...cit. ; ne seguono altre due in data 31 gennaio 1837( ATI, tit. 4, cart. IV, f. 30). La biancheria comprende un’ampia camicia aderente al corpo, in sottile tela di lino, con margini smerlati a taglio vivo e iniziali G.T. in filo rosso a punto croce; un busto corredato di stecca metallica e lacci posteriori per regolarne la misura; una sottoveste in tela di cotone avorio con profilature a smerlo ricamate; una sottogonna in tela avorio necessaria per dare volume alla sottana. Particolare interesse rivestono poi le calze e i guanti in fine maglia di seta operata e le scarpe a tacco piano in tessuto operato di seta avorio su suola di cuoio, purtroppo molto danneggiate. Le maniche cosiddette a gigot sono ampiamente documentate nella pittura del secondo e terzo decennio dell’Ottocento. Per alcuni confronti con il nostro abito si vedano i ritratti di Giuseppe Tominz tavv. XVI-XVII-XVIII in M. Malni Pascoletti, Aureo Ottocento. La collezione di gioielli dei Musei Provinciali di Gorizia, Udine 1989 e la Damigella con arpa in un interno di U.Griffon 1832-33 della collezione Praz in Le stanze della memoria , catalogo della mostra a cura di S. Susinno e E. di Majo, Milano 1988, cat. n. 40, pp-70-71. Le fodere interne dell’abito sono in garza di lino ecrue alla base della gonna e lungo lo scollo, in tela di lino naturale a tessitura rada nella parte anteriore del corpetto, in taffetas di seta avorio in quella posteriore e in tela di cotone e diagonale di canapa lungo il giro vita. Il tessuto nelle maniche è del tutto affine a quello impiegato per le restanti parti dell’abito salvo il colore della trama, in seta turchese anziché blu. Sulla moda romantica cfr. C. Giorgetti, Manuale di Storia del Costume e della Moda, Firenze 1992, pp. 282-291; E. Morini, Storia della moda..,cit., pp.63-74; G. Butazzi, Nostalgie del passato in Idee di moda, vol 9: La moda e il revival, a cura di G. Butazzi e A. Mottola Molfino, Milano 1992, pp. 22-35.
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Fig. 1 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. La vestizione dopo il restauro
l manichino con le sembianze della contessa Orsola Bandini Tozzoni, i capelli scomposti e gli indumenti lacerati, ci si presentò davanti, aperta l’anta di un armadio, in occasione del primo sopralluogo nell’archivio di palazzo Tozzoni. (fig. 2). Al naturale stupore si aggiunse subito un senso di sgomento: eravamo certamente alla presenza di un oggetto particolare e affascinante, ma anche di un caso di restauro complesso ed unico nel suo genere. I materiali costituenti il manichino e gli abiti che indossava, aprivano problematiche di intervento molto diverse tra loro ed i lacerti spesso sovrapposti dei vari strati tessili non ci permettevano di capire subito, a colpo d’occhio, le reali possibilità di recupero dell’opera originaria. Il corpo, con struttura di legno molto instabile, era ricoperto da un’imbottitura di crine rivestita da una “pelle” in maglina rosa di seta (fig.3) e sorreggeva una testa in stucco dipinto con occhi di vetro e capelli veri molto disidratati e gran parte spezzati e cadenti. Difficile comunque sapere se ci trovavamo di fronte ai capelli originali di Orsola, preservati a suo tempo dalla contessa, come usavano Angela Lusvarghi e Roberta Notari
Il manichino di Orsola Tozzoni
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2 Fig. 2 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Le condizioni iniziali
fare le dame per creare trecce e toupet di completamento per l’acconciatura. Gli arti e le mani , creati con appositi snodi per atteggiare le membra a piacimento, sono stati elementi di ulteriore sorpresa. Veniva spontaneo ripensare al momento della sua creazione e all’artigiano che l’aveva progettata e realizzata. Una struttura così mobile aveva assolutamente bisogno di una “pelle” elastica e aderente che contenesse le imbottiture e la ricoprisse per intero: ed ecco la soluzione della maglina di seta, che permetteva libertà di movimento fin nelle piccole falangi delle mani. Maglina già molto in uso per la realizzazione delle calze delle signore, ma qui scelta liscia, uniforme e rosata come una vera pelle. Le calze e i guanti lunghi fino al gomito che il manichino indossava, purtroppo fortemente danneggiati e in parte mancanti, sono in tricot di seta, materiale fine e delicato, minutamente decorato a traforo, lavorazione che rendeva più elegante ma anche più fragile la struttura dell’intreccio serico. Tolti i guanti, sotto lo strato “pelle”, forse per avere un rivestimento più durevole a copertura delle articolazioni delle mani e delle loro imbottiture, trovammo un paio di guanti in morbido capretto in parte scuciti lungo le dita (fig. 4). Lo stato di conservazione dei guanti in tricot di seta si
presentava particolarmente preoccupante, i lacerti ricadenti dalle dita dovevano essere ricomposti e fissati in modo da ridare il più possibile un’immagine di integrità alle mani. Anche le calze di seta apparivano molto frammentate, la sinistra soprattutto nel piede e nel polpaccio, mentre della destra rimaneva solo la parte superiore da sotto il ginocchio in su (fig. 5). Una coppia di graziose scarpette basse ricoprivano i piedi, ma apparivano a loro volta mancanti sul calcagno e con tracce di sporco, come fossero consunte dall’uso, o forse l’impiego di queste calzature come parte dell’abbigliamento del manichino, aveva finito per peggiorare la situazione conservativa di un paio di pianelle probabilmente usate, non sappiamo se da Orsola. Era presente anche una terza pianella spaiata ma in buone condizioni. Questi segni di utilizzo da parte di una persona in carne ed ossa, non sono gli unici presenti sugli indumenti del singolare manichino femminile: altre tracce sono sull’abito di velluto, in corrispondenza dei giromanica. Osservandole meglio, si nota come l’usura si interrompa nettamente e in maniera innaturale in coincidenza con la cucitura che unisce il corpetto alla manica. Dunque le maniche sono state sostituite? Una conferma a sostegno di questa ipotesi
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3 Fig. 3- Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Prima dell’intervento
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ci è venuta in seguito all’analisi dei tessuti: le maniche sono di un tessuto molto simile per effetto e per colore, ma tecnicamente diverso da quello del corpetto e della gonna. Si tratta di una modifica un poco affrettata per ammodernarne la foggia al momento della vestizione, come la mancanza dei polsini e di finiture adeguate farebbe ipotizzare? Anche le cuciture di filo azzurro piuttosto approssimative trovate sul corpetto indicherebbero un riadattamento dell’abito originale alle forme forse meno prosperose del manichino. Una volta analizzata la situazione conservativa del manichino vestito e degli accessori, e osservati i diversi livelli di degrado nei vari strati dell’abbigliamento, si trattava di definire una procedura d’intervento che
Fig. 4 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. La mano prima del restauro Fig. 5 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Condizioni di degrado di una calza Fig. 6 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. La testa durante il restauro Fig. 7 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. La testa e la capigliatura dopo il restauro
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puntasse alla sua conservazione complessiva e al recupero di una visione estetica il più possibile vicina all’ opera originale. Trattandosi di un manufatto multimaterico e stratificato, bisognava separare i vari livelli costitutivi e di abbigliamento; occorreva recuperarli singolarmente con diverse metodologie di restauro per poi abbigliare nuovamente il manichino, ricreando l’immagine unitaria finale. Una volta tolti delicatamente abito, calze, guanti, sottabiti e corsetto, finalmente saremmo potute intervenire sull’armatura che si presentava instabile e danneggiata soprattutto nelle articolazioni di una mano, nel viso e sul collo. Il viso di Orsola è stato realizzato con grande realismo dal suo esecutore: il materiale usato è il gesso, la testa è cava, con gli occhi di vetro inseriti dall’interno (fig. 6). Dalla nuca fuoriesce una cordicella che serve per fissare la parrucca di capelli castani. L’incarnato è roseo dipinto con colori ad olio, il viso ovale con gli zigomi alti che rivelano un accenno di belletto, il sorriso appena accennato con le labbra truccate e gli occhi grandi. Bella nei suoi tratti somatici e perfino nei suoi difetti, sembra essere aderente con quello che era il suo viso, così come ci è tramandato dai busti ottocenteschi dell’appartamento Impero. La fragilità della testa ha fatto si che per incuria o per danno accidentale venisse danneggiata procurando perdita di materiale, fessurazioni, parti staccate, ad esempio nella nuca. Anche le mani costruite in maniera così dettagliata, vedevano qualche danno nelle falangi snodabili, tutte precarie ed alcune danneggiate. Il lavoro di restauro eseguito in maniera mimetica ha riportato la funzionalità delle dita e il viso alla sua bellezza originaria. Il restauro si è concluso col ripristino della capigliatura. Non essendo possibile recuperare ciò che restava dei capelli sciolti originali, troppo degradati e fragili, si è deciso per la sostituzione con una nuova parrucca, dello stesso colore e in capelli veri. La treccia dello chignon è stata invece recuperata: dopo la pulitura tra due veli protettivi è stata asciugata in posizione e poi applicata sulla parrucca nuova
Fig. 8 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola palazzo Tozzoni. Inizia la vestizione
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tenendo presente i modelli a disposizione: una vecchia foto del manichino scattata a fine ottocento e i busti in gesso conservati sempre a palazzo Tozzoni. La messa in forma della nuova parrucca, modellata con boccoli ricadenti, è stata eseguita da un parrucchiere professionista (fig.7). Il momento del montaggio della capigliatura ricomposta sulla testa restaurata è stato
Fig. 9 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. La vestizione in fase di completamento
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davvero emozionante: le sembianze della contessa Orsola, vivificate dal restauro, erano ora davanti a noi. Strato dopo strato, anche gli indumenti sono stati ricollocati sul manichino (fig. 8), secondo l’ordine originale, completando la biancheria con l’abito blu, il fisciÚ e le scarpette, fino a ricostituire l’insieme in tutta la sua completezza (figg. 9, 10).
10 Fig. 10 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Il manichino della contessa a restauro ultimato
Il restauro L’impegno di restauro va distinto in due momenti: quello della parte strutturale in legno e gesso e quello relativo al materiale tessile che comprende la maglina di seta che trattiene l’imbottitura del corpo e l’abbigliamento. La parte in legno e in gesso, in particolare le mani e la testa in gesso dipinto, sono state oggetto di intervento specialistico da parte di Roberta Notari. Questa parte dell’intervento è iniziata con la separazione della testa dal corpo slacciando i cordini di fissaggio, così da poter intervenire con più facilità; dapprima sono stati realizzati alcuni tasselli di pulitura che sono serviti per verificare la policromia originale. Quindi si è proceduto con la spolveratura a pennello e la pulitura con solventi idonei; le fessurazioni della testa sono state saldate con iniezioni localizzate di collante. Le lacune sono state stuccate con gesso di Bologna e colla animale e sono poi state portate a livello con il bisturi. Si è passati quindi al ritocco mimetico per rendere uniforme l’incarnato di viso e collo. La superficie così resa omogenea, è stata protetta da una finitura a vernice. La falange rotta nella struttura lignea di una mano è stata consolidata e quindi ricollocata controllando poi la mobilità di tutte le dita, fino alle minime articolazioni. Contemporaneamente si procedeva con il restauro tessile a partire dalla maglina
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Fig. 11 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Una mano e il guanto dopo il restauro
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di seta rosa incarnato, che come una vera pelle ricopre perfettamente tutto il corpo; questa si presentava lacunosa in più parti e da queste mancanze fuoriusciva l’imbottitura in crine che avvolge lo scheletro ligneo del manichino, per arrotondarlo in forme femminili. Dopo l’ aspirazione protetta e la pulitura a vapore della “pelle” di seta, queste lacune sono state richiuse con innesti di maglina della stessa natura, appositamente tinta in tono e fissata a sottopunto. Per gli strappi e le lacune più piccole la chiusura è stata realizzata con termoadesione reversibile tramite veli di seta appositamente tinti. Sono state ripristinate tutte le cuciture aperte presenti in più punti, anche sui guanti in capretto, mentre i lacerti di maglina (“pelle” di seta) che pendevano dalle articolazioni delle mani, sono stati fissati in
posizione corretta alla pelle sottostante con piccoli punti di poliammide, richiudendoli il più possibile intorno alle dita. L’abito presentava gore di varia natura e diverse scuciture concentrate sul giro vita, nel mezzo dietro e nel volant del fondo. Segni di consunzione come piccole lacune e abrasioni erano visibili in particolare nella zona in raso di seta dello scollo e del cintone, ma complessivamente il tessuto appariva in condizioni conservative buone. Molto degradata risultava invece la sottile fodera interna che, essendo probabilmente un materiale più fragile e poco pregiato, non aveva retto nel tempo quanto il tessuto anteriore, un cannellato di seta blu ad effetto vellutino, più corposo e di qualità decisamente migliore. Altri accessori completano il corredo del manichino di Orsola: un fisciù in mussola di cotone, bordato di pizzo, un ombrellino con manico in avorio e una sacchetta in cuoio. A parte lo sporco depositato, comune a tutti gli accessori, lacune e strappi erano presenti soprattutto nel piccolo e fragile scialletto di forma rettangolare. Dopo i rilievi fotografici, le misurazioni e la spolveratura, tutti i pezzi dell’abbigliamento sono stati puliti a vapore (abito, corpetto, fascia in vita) o per immersione in soluzione acquosa idonea (calze, guanti, camiciola, sottogonna, sottoveste e fisciù) spesso seguita da trattamenti puntuali sulle macchie; si è quindi proceduto in modo da posizionarli riducendo le deformazioni e ricollocando i frammenti in modo corretto. Per la sola tomaia in seta delle tre scarpette, si è adottata la tecnica del lavaggio localizzato su tavolo aspirante, evitando così di bagnare le suole, trattate poi a parte con prodotto pulente apposito e crema nutriente per pelli. La sacchetta in cuoio è stata pulita a secco tramite frizioni con polvere di gomma, mentre l’ombrellino è stato pulito con passaggi di tamponi in microfibra inumiditi e il manico è stato trattato con detergente specifico per il legno. Nell’abito blu sono state ripristinate alcune cuciture aperte su fianco, girovita e volant, mentre le piccole lacune presenti sul cintone e lungo lo scollo sono state richiuse con innesti simili all’originale migliorandone il mimetismo con veli di seta
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Fig. 12 - Manichino di Orsola Tozzoni, post 1836, Imola, palazzo Tozzoni. Particolare della calza dopo il restauro
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appositamente tinti e fissati a sottopunto. La fodera in più punti compromessa e fragile è stata restaurata su velo di seta termoadesivo reversibile in tinta. Piccole fermature a cucito con l’aiuto di veli sono state fatte su scuciture e strappi di dimensioni limitate presenti sulla biancheria intima (corpetto, camiciola, sottogonna e sottoveste) e sull’ombrellino. Le lacerazioni del fisciù, ricomposte dopo il lavaggio, sono state restaurate a cucito su velo di seta di Lione in tinta, integrando quelle di grandi dimensioni con innesti in lino simile all’originale fermati a sottopunto. Sulle lacune del pizzo gli innesti sono stati realizzati in velo maline, più trasparente e mimetico con l’originale. Le scuciture lungo il pizzo sono state ripristinate. I lunghi guanti in seta a trafori che
presentavano numerosi lacerti, soprattutto in corrispondenza delle dita, sono stati restaurati su velo di seta di Lione in tinta trattato con leggero film termoadesivo reversibile, poi montati allo strato di copertura in maglina rosa, precedentemente restaurato, e fissati a cucito con sottopunto lungo i margini delle lacune (fig. 11). Similmente si è proceduto per le calze fermando in posizione corretta i frammenti rimasti sulle gambe già restaurate, ma senza ricostruire le parti mancanti (fig. 12). Nel paio di scarpe completo, il restauro delle consunzioni e l’integrazione della porzione mancante (tallone di una scarpa) sono stati realizzati mediante velo di Lione in tinta e sottopunto, mentre le piccole lacune sono state richiuse a cucito con innesti di taffetas appositamente tinto. I nastri perduti sono stati ricostruiti e applicati sulle tracce originali. Quindi le scarpette restaurate e rimesse in forma sono state nuovamente calzate ai piedi del manichino, mentre quella spaiata è stata conservata a parte.
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Restauri: L’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna ha curato il restauro del manichino di Orsola Tozzoni, eseguito da R.T. Restauro Tessile, Albinea (Re) e Roberta Notari. I Musei civici di Imola hanno curato l’intervento di manutenzione conservativa della stanza dell’archivio di palazzo Tozzoni, eseguito da Doriano Dall’Osso e Mirco Luminasi Segreteria: Giuseppina Catanese, Paola Manghi, Maria Angela Poletti, Musei civici di Imola Promozione: Valeria Cicala, Vittorio Ferorelli, Beatrice Orsini, Carlo Tovoli, Ibc e Brunetta Barbieri, Claudia Baroncini, Musei civici di Imola Referenze fotografiche: Costantino Ferlauto, Ibc; Sergio Orselli, Conselice (Ra); Marcello Rossini, Bologna; Archivio fotografico Musei civici di Imola; Archivio fotografico Fondo Tozzoni, Imola; Wikimedia commons Allestimento sala archivio palazzo Tozzoni: progetto di [mu] design, Imola, realizzazione di Allestimenti e pubblicità, Imola (Bo) Apparati didascalici: Claudia Baroncini, Musei civici di Imola Editoria: Isabella Fabbri, Ibc Redazione: Oriana Orsi Grafica e impaginazione: Beatrice Orsini, Ibc Si ringrazia: Cristina Gallingani, Imola; Zena i parrucchieri, Imola Un ringraziamento particolare a Laura Carlini Fanfogna per il sostegno all’intero progetto ISBN 9788897281528 Finito di stampare nel febbraio 2016 dal Centro Stampa Regione Emilia-Romagna, Bologna con il contributo di