le Bologne possibili

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ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

le A cura di M. Beatrice Bettazzi, Piero Orlandi, Simone Garagnani, Matteo Sintini,


Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna Alma Mater Studiorum - Dipartimento di Architettura Le Bologne possibili Progetti non realizzati per la cittĂ

Fotografie di Luciano Leonotti Collaborazione alle ricerche storiche Luca Arcangeli Modellazione 3D Andrea Carecci e Riccardo Raimondi, con la consulenza tecnica di Giovanni Bacci Progetto grafico di Beatrice Orsini Organizzazione Oriana Bordoni Comunicazione Valeria Cicala, Vittorio Ferorelli, Carlo Tovoli Fonti Archivio Storico Comunale, Bologna; Archivio Piero Bottoni – DAStU Politecnico di Milano; Archivio privato


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OMMARIO

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Presentazione Angelo Varni

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Disegno e fotografia per immaginare i luoghi urbani Piero Orlandi

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Tra fantasia e utopia: i progetti interrotti per Bologna Carlo De Angelis

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La Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri a Porta San Mamolo M. Beatrice Bettazzi

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Da via Roma a via Marconi. La difficile ricerca di una forma Matteo Sintini

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Mondi digitali paralleli. Rappresentare la Bologna che sarebbe stata nella Bologna che è Simone Garagnani

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Narrazioni urbane attraverso il mezzo cinematografico. Architettura, spazio e scenari dell’immaginario collettivo Luisa Bravo



PRESENTAZIONE Il lavoro che viene presentato in questo libro deriva da una convenzione sottoscritta nel 2013 tra l’Istituto Beni Culturali e il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, il cui obiettivo ha riguardato la prosecuzione di diverse attività avviate ormai da un decennio dall’IBC sul tema della qualità architettonica. Nel 2014 si è proceduto con un ulteriore accordo di ricerca, “L’architettura in Emilia Romagna dal 1945 ad oggi. Selezione delle opere di rilevante interesse storico-artistico”, tra l’Istituto per i Beni Culturali, la Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte Contemporanee del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna, e lo stesso Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna. L’accordo ha consentito la catalogazione delle opere di qualità del secondo Novecento in Emilia-Romagna, completando così di fatto l’iter avviato già nel 2005 con Quale e Quanta, il primo censimento eseguito dall’IBC sull’argomento. La ricerca sulle Bologne possibili è un’altra azione che è parso utile avviare in questa direzione grazie agli accordi sottoscritti; è un lavoro generato dalla riflessione sul progetto urbano inteso come strumento di creazione della forma della città. Le Bologne possibili indaga infatti sulle vicende di vari progetti non realizzati nella città di Bologna, li rende noti e comprensibili attraverso la modellazione assistita al computer e li sottopone al nostro giudizio di cittadini e osservatori. Il Dipartimento di Architettura di Unibo ha collaborato sia alle ricerche storiche che alle ricostruzioni digitali degli edifici non realizzati, ambientandole all’interno di fotografie della città attuale. Questo volume fa seguito alla mostra allestita dal 25 ottobre al 15 novembre 2015 presso l’Urban Center di Bologna, e si propone di avviare una possibile serie di indagini ricostruttive di proposte progettuali non realizzate che – come si legge nelle pagine che seguono – attraversano tutti i secoli e non sono un carattere tipico soltanto dei nostri tempi. Angelo Varni Presidente dell’Istituto Beni Culturali


Paolo Monti, Bologna, 1969


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Disegno e fotografia per immaginare i luoghi urbani Piero Orlandi

Le descrizioni dei caratteri tipici di un luogo, di un’area geografica, e persino di un intero popolo sono innumerevoli, basti ricordare il fotolibro di Robert Frank The Americans, uscito nel 1958 con una introduzione di Jack Kerouac. Da noi sono molto noti il Viaggio in Italia di Piovene, con i resoconti svolti per la RAI tra il 1953 e il 1956, e Gli italiani di Luigi Barzini jr del 1965. Alcuni fotografi dedicano l’intera vita a eseguire un ritratto interminabile della stessa città, pensiamo a Fulvio Roiter con Venezia o a Gabriele Basilico con Milano. Se parliamo di Bologna non mancano gli esempi, a partire dalle prime guide per il forestiere edite nel Seicento, come Le pitture di Bologna del Canonico Malvasia, opere racchiuse all’interno di una visione specialistica, che aprono però la strada alle vere descrizoni della città fisica. Fin dai tempi del Malvasia, la forma urbis di Bologna è una descrizione seriale, basata su alcune ricorrenze di luoghi tipici che da soli riescono a condensare i significati di tutta la città. Nelle trenta stampe più note, da quella del Blaeu del 1663 a quella di Sauer-Barigazzi dei primi del Novecento, questi luoghi restano stabili e ordinati con una rigida gerarchia che vede nell’ordine le torri, la Fontana del Nettuno con la relativa piazza, la Piazza Maggiore con il Palazzo pubblico in faccia, il Foro dei Mercanti, la Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà in faccia, il Convento della Certosa, la Seliciata di San Francesco, e via decrescendo. La serie passa con pochi cambiamenti nei prodotti della prima fotografia.


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E’ sempre questo infatti il “grappolo di immagini” che compone le prime raccolte fotografiche nella seconda metà dell’Ottocento1. Che città descrivono? Qual è la natura profonda e però visibile della città raffigurata nella tradizione iconografica? Che ruolo esprime Bologna? E’ capitale, capoluogo, o semplice città? Sappiamo che essa è da sempre un capoluogo regionale senza essere la capitale di uno stato, come invece sono state Milano o Napoli, Venezia o Genova, e perfino Ravenna, Ferrara o Modena, che pure sono situate nella stessa regione. Nonostante la mancanza di un territorio di vera appartenenza che non sia quello provinciale, Bologna è stata una grande città europea. Lo era nel XVI e nel XVII secolo, quando la sua popolazione di 4550.000 abitanti la poneva tra le prime venti del continente, con Parigi, Napoli, Londra, Lisbona, Siviglia, Venezia, Praga. Un rango conferitole dall’industria della seta, favorita dalla rete dei canali esistente; una città d’acque, Bologna, che le acque poi rifiutò, coprendole alla vista come una vergogna nel secondo dopoguerra del Novecento. Bologna è città di traffico e commercio per collocazione geografica; il fatto di giacere in una grande pianura ne fa una metropoli agricola; le tradizioni universitarie pretendono una aspirazione internazionale. Dunque, molte vocazioni, che mescolandosi tra loro e con un generale sentimento di conservazione dell’esistente producono però poche ambizioni, una concretezza piuttosto cauta che proiettiva. Oggi, i ventisei comuni che stanno sulla via Emilia dal piacentino alla costa contano circa 1,8 milioni di abitanti, una “conurbazione con coesione insediativa variabile”, secondo una definizione di Lucio Gambi. Se negli anni recenti la via Emilia fosse stata promossa e sostenuta, dai soggetti titolari della potestà di una pianificazione d’area vasta, come una città lineare; se si fossero colti i potenziali insiti nel disegno territoriale romano, di una strada con una decina di centri di media grandezza a distanza di venti-trenta chilometri l’uno dall’altro, e Bologna ne fosse stato riconosciuto il centro principale, immerso in una conurbazione più vasta e quasi continua, forse oggi la troveremmo nel gruppo delle città It al o Zannier, Fotografia e immagine della città, in Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1839-1980, a cura di Andrea Emiliani e Italo Zannier, Torino, SEAT, 1993. 1


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non capitali europee, con Amburgo, Barcellona e Monaco di Baviera. Invece, la popolazione della città oggi vale all’incirca la centotrentacinquesima posizione in Europa, alla stregua di Brno e Tirana. La volontà di decrescita la espresse il Comune negli anni Sessanta, quando si volle invertire la previsione del piano regolatore del ‘55, con la sua aspirazione al milione di abitanti. Bologna in quel momento era se non altro la capitale di una specie di Svizzera rossa – redditi alti, servizi e lavoro per tutti - e decise di rifiutare l’idea che la quantità fosse sinonimo di benessere, ma anzi la combatté in nome di una qualità di vita diffusa ma in qualche modo anche elitaria. Il picco della popolazione arrivò poi nel 1973, si arrestò a un pelo dal mezzo milione (493.933), e poi iniziò a regredire, in conseguenza delle decisioni prese. Sappiamo quanto conta la comunicazione, e quanto possa esser decisiva l’immagine giusta nel marketing urbano. Qual è l’immagine più nota di di Bologna, più radicata? Non c’è dubbio che l’impronta più durevole e ancor oggi evidente nel centro antico della città è data dai quasi quaranta chilometri di portici e dai palazzi senatori, espressione del potere suddiviso tra molte famiglie prima e dopo la signoria effimera dei Bentivoglio. Ma vi sono anche, forti, i segni del moderno. In primo luogo, l’Ottocento post-unitario è il primo, con i suoi interventi haussmanniani (comincia da qui l’amore bolognese per Parigi) e i tagli netti nel tessuto urbano portati dalla realizzazione della via Indipendenza - per dare un congruo accesso dalla stazione alla piazza maggiore - e dalla creazione dell’asse est-ovest alternativo alla via Emilia, con un sistema di piazze molto parigine. C’è poi il periodo neo-medievale, carducciano, esemplificato dai restauri inventivi di Alfonso Rubbiani e della sua scuola, a lungo criticati come fantasiosi, ma comunque meritevoli dell’aver salvato dalla distruzione monumenti insigni, tra i primi la chiesa medievale dei francescani. Gli inizi del secolo XIX hanno lasciato segni persistenti sul volto della città, con vaste demolizioni igienico-sanitarie: delle mura anzitutto (con la conseguenza tra l’altro di quell’isolamento delle antiche porte che


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in alto Gabriele Basilico, Casalecchio di Reno, La Chiusa, 2001

a sinistra Nunzio Battaglia, Bologna, Galleria Cavour, 2005


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le rende ancor oggi mostri deformi e amputati, rinchiusi in trasparenti gabbie come fossero degli elephant-men o delle Veneri ottentotte da sfruttare e mostrare nelle fiere dietro compenso), ma poi anche di tante torri nel centro; e con la realizzazione di una noiosa strada tardoumbertina, la via Rizzoli, per allargare il tratto di via Emilia tra la piazza e le due torri. E infine ecco gli anni Trenta, quando si costruirono campus universitari ed ospedalieri, le residenze per i poveri (queste in verità già avviate con larghezza da cooperative edilizie come la Risanamento, una delle prime e più grandi d’Italia, sin dalla fine del secolo precedente), oltre che grandi strade, come la via Ugo Bassi (altro tratto di via Emilia allargato) e la via Roma, anche questa per facilitare, in raddoppio rispetto alla via dell’Indipendenza, l’accesso al centro dalla ferrovia. Questi periodi hanno modellato la forma della città per precise volontà di stile e di progetto; ma naturalmente essa è poi ancor più segnata dagli esiti della grande ricostruzione post-bellica, quando si realizza il lato orientale della via Marconi e si tirano su edifici di sei-sette piani nelle aree bombardate a tappeto in vicinanza degli obiettivi strategici: l’ospedale Maggiore, le officine della Fiat, la Manifattura dei tabacchi. Alla fine degli anni Sessanta si cercò di congelare l’immagine di Bologna, avviluppando la città in una sfera di cristallo contenente tutto il centro antico e la collina. I piani urbanistici di conservazione, di cui le celebri fotografie di Paolo Monti, fotografo novarese di nascita ma milanese d’adozione, diedero un ritratto formidabile e di lunga durata, produssero una salvaguardia rigorosa e però richiesero un’attenzione quasi esclusiva, e molta ne fu distolta dall’osservare e dal modellare il territorio extra-urbano. Che soprattutto a partire dagli anni Ottanta, trascorsa la fase degli studi per lo sviluppo a nord della città con il piano di Kenzo Tange, fu lasciato un po’ al suo destino, mentre da almeno un secolo era stato invece molto governato: già dal 1889, con il piano regolatore che creò a nord la seconda Bologna, la Bolognina, come città dei ferrovieri, degli operai, dei commercianti; poi negli anni Trenta, con la costruzione dell’area ospedaliera del S.Orsola, con i quartieri operai in


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a sinistra Nunzio Battaglia, Bologna, Le gocce, 2005

in basso Fabio Mantovani, Bologna, Parco del Mambo, 2015


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via Libia, con il Villaggio della rivoluzione fascista di Francesco Santini in zona stadio; negli anni Cinquanta, con i villaggi-satellite operai, come l’INA CASA del Borgo Panigale, quello delle Due Madonne, quello della Barca; negli anni Settanta con i quartieri sovietici delle cooperative e con l’ampliamento a nord, la terza Bologna, attraverso il piano di Kenzo Tange per il Fiera District. Poi, dalla fine degli anni Settanta ad oggi, il territorio fuori dal centro storico si cominciò a trattarlo come un hicsunt-leones, apponendovi un solo cartello: qui c’è l’espansione, dei PEEP, dei quartieri di edilizia sovvenzionata, delle cooperative agevolate o dell’iniziativa privata pura e semplice. Come è stata descritta visivamente questa storia anche recente, che reca con sé i segni di quella precedente; esprimendo quale volontà, con quali indicazioni? Sappiamo infatti che ogni statistica è orientata, e così lo è ogni immagine, nulla è davvero neutro. Questa è una città che ha sempre amato le stampe di Antonio Basoli, vere e proprie “cartoline spedite da un paese che non c’è più”2. Mentre l’immagine urbana di Pio Panfili è quella di un illuminismo elegante, quella di Basoli introduce la visione romantica, mostra con i suoi colori vivi anche il paesaggio problematico della vita dura, popolato non più di operai operosi ma di rovine e casupole, lavandaie e monelli. Dopo Basoli vengono i primi fotografi, Pietro Poppi, gli Alinari, Giuseppe Romagnoli, Giuseppe Michelini, lo studio Villani. Michelini rappresenta Bologna nuova: la via Irnerio, la scalea del Pincio, viale Carducci, i giardini Margherita. Però si vede la situazione in atto, non la si commenta, tanto meno per ipotizzare soluzioni alternative. Poppi, unica eccezione, documenta i progetti in corso di Rubbiani, ma più per ambientarvi l’autore che per sottolineare pregi o difetti delle sue realizzazioni. Il nesso più stretto, prima di Monti, tra fotografia e progetto è a Bologna la documentazione della nascita della “Città degli studi”, a partire da quando il rettore Francesco Magni (1877-85) avviò i primi ampliamenti dei laboratori e degli istituti, poi da che il rettore Vittorio Puntoni nel 1899 sottoscrisse la convenzione tra il Comune, la Provincia e lo Stato

2 Anna Ot t ani Cavina, I paesaggi perduti di Antonio Basoli, in Antonio Basoli. Vedute di Bologna, Firenze, Vallecchi, 1984.


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che consentì la costruzione di istituti, musei, cliniche universitarie nel quartiere di San Giacomo. Fu poi il consorzio costituito nel 1930 dal rettore Alessandro Ghigi a sviluppare le campagne fotografiche documentarie, condotte soprattutto da Alberto Rabbi e da Villani. Ed è soprattutto Villani a documentare le distruzioni belliche del secondo conflitto mondiale, ispirandosi ad Alinari e a Brogi, con foto oggettive e mute; mentre era stato Camera (dal nome del fondatore Giovanni Battista, iscritto fin dal 1865 alla Camera di Commercio) a documentare gli abbattimenti eseguiti tra il 1915 e il 1935 per le trasformazioni urbane. Poi vengono Pasquali e Masotti. Le bolognesi di Antonio Masotti è un libro del 1963. Non esattamente un libro sulla città, ma con la città molto presente nello sfondo3. A fine anni Sessanta Monti esegue 80.000 immagini di centri storici, 8.000 delle quali a Bologna. Ugo Mulas nel 1965 fu chiamato dal Soprintendente Cesare Gnudi a fotografare il lavoro di Leone Pancaldi per la ristrutturazione della Pinacoteca bolognese. E negli anni ‘70 e ‘80 lavorano a Bologna Ghirri, Fontana, Leonotti, Migliori, Gigli. Infine, c’è il grande lavoro documentativo promosso da Renzo Renzi. Renzi aveva progettato degli “Incontri internazionali di fotografia”, pensando di invitare Henri Cartier Bresson, Gisèle Freund, William Klein. Chiamò invece Romano Cagnoni (nel 1978), Joan Fontcuberta (nel 1981), Sam Haskins (nel 1983). Renzi sentiva bene in città “un certo spirito di chiusura odierno” che tendeva (ma tende tuttora) a creare una realtà provinciale che certo non fu di Carducci e Pascoli, Murri, Rizzoli, Putti, Righi, Enriques, Marconi (quella che lui chiama borghesia marciante), e dello stesso proletariato, socialista e internazionalista. Per questo scriveva che Bologna nel “non finito” ha trovato il suo carattere. Cagnoni vide la città antica, un po’ clericale, popolata di anziani. Lesse bene la minaccia del nuovo (fuori le mura) sull’antico (dentro), che è un sentimento molto forte dei bolognesi di oggi come di allora. Fontcuberta catalano fotografò mostri e incubi, ombre e relitti in una città piovosa,

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Le bolognesi. 150 fotografie di Antonio Masotti. 7 ritratti femminili di Riccardo Bacchelli. Con una prefazione di Massimo Dursi, Bologna, Nuova Abes editrice, 1963.


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invernale. Il sudafricano Haskins stette in città 15 giorni, fece delle sovrimpressioni, dei collages, lesse le stratificazioni che sono in effetti il corpo della città: San Pietro, ad esempio, da romanica a settecentesca. In quegli stessi anni ebbe vita un caso molto interessante di uso della fotografia nella indagine urbana, quello della XVII Triennale di Milano. Venne affidata una campagna fotografica a Giovanni Chiaramonte, Paolo Rosselli, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Roberto Collovà, Mario Ciampi, con lo scopo di “avviare nuovi piani di lettura dei nostri scenari urbani, rompendo codici figurativi inveterati”, e per avere “un reale contributo anticipatore nei confronti dei progetti veri e propri”.4 Un modo molto condivisibile di usare la fotografia in rapporto con l’urbanistica. La fotografia non di rado è anche uno strumento di smascheramento dei luoghi comuni e delle tradizioni che a volte generano tabù. Soprattutto a Bologna, città degli “esperimenti cauti”, come la definiva Vittorio Savi, storico dell’architettura che indicava città emiliana come una “virtuale storia dell’architettura non costruita, un luogo dove molte cose non sono accadute”. I tabù urbanistici a Bologna sono molto radicati e frequenti. Basti ricordare il caso delle Gocce, come furono chiamati i due padiglioni in vetro e plexiglas progettati da Mario Cucinella come accesso al primo Urban Center bolognese, sistemato in un tratto di un ex sottopassaggio. Costruiti a ridosso del palazzo del Podestà e di piazza Maggiore, avevano ottenuto autorizzazione dalla Soprintendenza per un periodo limitato a due anni. Furono rimossi a furor di popolo perché ritenuti lesivi dell’ambiente storico. Le Bologne possibili, ossia i progetti che non sono stati eseguiti, mai partiti, affossati sono a Bologna come e più che altrove un numero notevole: molti sono i concorsi di architettura che non hanno mai prodotto realizzazioni concrete, da quelli degli anni Ottanta per la Manifattura dei Tabacchi nel centro della città e per la stazione ferroviaria, fino al nuovo concorso per la stazione bandito nel 2007 e vinto da Arata Isozaki, di cui però poco ormai si sa. Molti anche i progetti per la mobilità che

Pierluigi Nicolin, Saranno veri questi progetti?, in Le città immaginate. Un viaggio in Italia. Nove progetti per nove città, XVII Triennale di Milano, Milano, Electa, 1987.

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sono rimasti al palo e progressivamente cancellati: dalla metropolitana, di cui si parlò a lungo sotto l’amministrazione Guazzaloca, al Civis, il bus a guida ottica che poi è stato affossato dopo code giudiziarie tuttora pendenti. Con il progetto delle Bologne possibili che ha generato questo volume, la storia, l’urbanistica, il disegno e la fotografia cercano e trovano argomenti di comune interesse e uniscono le loro competenze. L’idea è questa: prendiamo la storia della città di Bologna e in particolar modo alcuni episodi, quelli – tutt’altro che pochi – dei progetti non realizzati. Cerchiamo i documenti grafici negli archivi - naturalmente troveremo quelli più recenti, diciamo a partire dal Cinquecento. Cerchiamo il luogo dove avrebbe dovuto sorgere il cantiere e fotografiamolo così com’è oggi, uno spazio contemporaneo, con la gente che passa, il traffico quotidiano, le forme attuali. Modelliamo, prendendo spunto dai vecchi disegni, le forme delle costruzioni non realizzate, e inseriamole, grazie all’ausilio degli strumenti e dei programmi digitali, nella città odierna. Ne avremo alcune Bologne possibili, quasi sempre sorprendenti, perché non immediatamente riconoscibili. La sorpresa dovrebbe essere la prima reazione; solo in un secondo momento saremo in grado, secondo i nostri gusti, i nostri orientamenti culturali, la nostra formazione, secondo la nostra qualità di cittadini, di distinguere se la sopresa è positiva o negativa, se quel progetto avrebbe reso – o no – Bologna migliore, più bella o più funzionante. Bisogna dichiarare un debito non da poco. Nell’Ala Napoleonica del Museo Correr, a Venezia, tra il 4 maggio e il 28 luglio 1985 si svolse la mostra “Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier”. Lionello Puppi e Manfredo Tafuri, uno storico dell’arte e uno dell’architettura, lavorarono insieme per produrre una lettura della città veneta tra reale e possibile, tra storia e progetto, tra cartografia e urbanistica. Naturalmente le Venezie possibili sono di più e più importanti di altre città possibili. Una gerarchia urbana italiana pone il capoluogo veneto molto al di sopra di quasi tutti gli altri. Confrontata a Bologna, la vitalità della storia politica, culturale, economica veneziana è certamente


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superiore. Ma pur riconosciute le debite differenze è lecito osservare con la stessa lente il caso bolognese. E spingersi oltre: ricostruire i progetti nel tessuto della città, cosa che trent’anni fa era assai più complesso fare, con gli strumenti di allora. Forma urbis e spiritus civium si affrontano e generano a Venezia i rifiuti opposti ad alcuni clamorosi progetti cinquecenteschi, il palazzo Grimani sul Canal Grande del Sansovino, i due progetti palladiani per il ponte di Rialto, o il progetto del 1560 di Alvise Cornaro che prevede la creazione di due isole artificiali tra la Giudecca, la punta della Dogana e San Marco, per installarvi un teatro e una loggia in cima a un monticello alberato. Un inizio di progetti non eseguiti, di Venezie impossibili, che nel Novecento avranno epigoni notissimi, come l’ospedale di Le Corbusier o il memorial Masieri di Wright. E a Bologna? Quante Bologne possibili sono restate impossibili? Nel testo di Carlo De Angelis che è ospitato in questo volume si fa un elenco, forse il primo mai tentato, di tutti gli insuccessi urbanistici bolognesi. Quali e quante sono le incompiute di Bologna? Dalla chiesa di San Petronio al progetto di Kenzo Tange, alla stazione, al people mover, alla metropolitana, se mettessimo insieme tutti questi progetti vivremmo in una città diversa. Migliore? E’ lecito pensarlo, se si parte dal concetto che un progetto nasce per ragioni fondate. O al contrario, peggiore, se stiamo dalla parte di chi pensa che dopo tutto i progetti sbagliati sono un’inutile spesa, e spesso abbruttiscono la città. La tesi che questo libro sposa è che il progetto è un’azione ad alto tasso etico, o almeno dovrebbe esserlo. Segue a una visione politica, sociale, alla constatazione di un bisogno. Realizzarlo è un successo della comunità. Rinunciare è una sconfitta, a volte grave. Mostrare - questo è l’obiettivo dell’ iniziativa - alcuni dei progetti non realizzati nel corso del Novecento è un modo per rilanciare la discussione, per tenere sempre aperta la porta verso l’alternativo, il possibile. Nella parola “possibile” sta il germe del progetto, del desiderio di cambiare. La città è la risultante di una oscillazione continua tra possibile e reale, cambiamento e persistenza, volontà e caso. Sono stati scelti alcuni


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progetti bolognesi non realizzati negli anni ‘20 e ‘30, ricostruendoli e ambientandoli nella città odierna attraverso modellazioni grafiche inserite in gigantografie della città attuale.

Questo lavoro ha avuto esito in una mostra, tenutasi a Urban Center Bologna dal 25 ottobre al 15 novembre 2015. La ricerca, partita nel 2013, si è sviluppata, grazie anche all’impegno di Giovanni Leoni, già direttore del Dipartimento di Architettura di Unibo, in attuazione di una convenzione tra IBC e DA sottoscritta nel 2014. Ci piace pensare che potrà essere replicata con altri casi di studio negli anni seguenti.


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Luciano Leonotti, Bologna, via Marconi, 2015

Luciano Leonotti, Bologna, Porta San Mamolo, 2015


Antonio da Sangallo, disegno. Foglio n. 727 r. Gabinetto Disegni e Stampe, Uffizi, Firenze


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Tra fantasia e utopia: i progetti interrotti per Bologna Carlo De Angelis

Un progetto per la città, o anche per una sola sua parte, introducendo nel contesto elementi innovativi ha sempre una componente utopica. Il progettista-demiurgo può (e vuole) decidere per sé e per gli altri situazioni alternative: col nuovo disegno pone in gioco il modello della vita di relazione per esprimere una diversa realtà. Il progettista chiamato a seguire o correggere l’evolversi delle esigenze impone la sua concezione, la sua idea che nella piena realizzazione di tutti gli aspetti costruttivi ed estetici diventa realtà condizionante. Tra la forma e i comportamenti indotti si stabilisce un cortocircuito che interessa e coinvolge tutti. Il disegno di progetto è semplice prefigurazione, ma solo col compimento dell’opera, si possono valutare i pregi o i limiti delle intenzioni. E’ la verifica che conta. E’ storia nota: l’espressione politica, quale essa sia, tende a dare alla città un volto; deve lasciare un segno distintivo di sé perché è solo nelle nuove immagini che si possono fissare i simboli delle forme del controllo del vivere. Partecipazione o imposizione portano ad un disegno complessivo che caratterizza il momento storico, la maturità di scelte o, all’opposto, il caos della casualità. I progetti non realizzati sono un’occasione per valutare le possibili conseguenze dell’espressione architettonica mancata. I concorsi di idee falliti o subito disattesi sono esemplari: se si osservano i disegni e le soluzioni formali proposte, e più le motivazioni di fondo, ci si trova ad esplorare campi imbarazzanti dove le scelte non sono sempre


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definibili. Prevale spesso, specie quando le tendenze architettoniche sono volte a provocare lo stupore con forme esasperate, il nuovo per il nuovo e la razionalità non può essere certo il solo criterio valutativo. In più, a distanza di tempo, se si cerca di verificare che cosa abbia portato alle rinunce, alle architetture interrotte, non sempre si trovano risposte convincenti: prevalsero contingenze economiche sfavorevoli o piuttosto crisi di ideali pratico-politici? E le resistenze, le opposizioni, furono espressioni di valide motivazioni, di considerazioni ponderate sufficientemente argomentate e giustificate? Le reazioni di rifiuto verso le proposte individuarono effettive scarse qualità? Molte opere mancate pur vantando importanti autori, hanno storie complesse: Venezia1 tra le cose non fatte annovera opere di progettisti di fama, come Wright, Le Corbusier, Louis Kahn… Occasioni perdute o pericolo scongiurato? E così è avvenuto in tante altre città. E Bologna non è da meno. Se non è riuscita ad avere una chiesa di Le Corbusier in anni recenti, nel passato trovò motivi per respingere Palladio… Ci si può rammaricare che non sia mai giunto il progetto di Le Corbusier per la chiesa di Beverara, ma se alcuni progetti non sono stati portati a compimento ci si può solo compiacere: si guardino, ad esempio, i disegni per l’arco di ingresso al Sacrario dei Caduti della Grande Guerra incastonato nel fianco del Complesso di Santo Stefano… A Bologna quali e quanti sono i progetti rimasti solo intenzioni? Si va da temi molto discussi e sempre riproposti nel tempo come quello del completamento della facciata per la basilica mai finita di San Petronio, ai progetti per la Stazione ferroviaria con i suoi reiterati concorsi. Altri casi suscitano interrogativi sospetti: per la città storica si possono ricordare altre omissioni, fallimenti o colpevoli connivenze come quelle espresse nella demolizione delle tre torri, Artenisi, Guidozagni e Riccadonna presso le torri Asinelli e Garisenda, nonostante le proteste appassionate e inutili difese di tanti. Si trattò sempre di rifiuto ad innovazioni o piuttosto di resistenze contro il mantenimento di immagini urbane ormai logorate? LIONELLO PUPPI, GIANDOMENICO ROMANELLI, Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, Electa, Milano, 1985. Catalogo della mostra, Ala Napoleonica, Museo Correr, maggio-luglio 1985. Nell’introduzione a cura del Comitato Scientifico si legge: «Le strutture logiche del rifiuto … paiono una sorta di costante che governa il possibile e il non possibile della storia veneziana: continuità storica e innovazione, classicismo e anticlassicismo, diacronia e puntualità, capacità decisionali e inefficienza politica e amministrativa, cultura indigena e modelli di importazione e così via.»

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Un discorso a parte è dato dalle ricerche formali delle proposte a scala territoriale. La stagione dei grandi centri direzionali è passata non senza lasciare segni indelebili in diverse città: per Bologna era iniziata con un progetto megalomane. I disegni-schema di Carlo Aymonino, sovrapposti al tessuto territoriale con una scala di impianto decisamente sproporzionata, sono una interessante testimonianza. Anche il grande progetto di Kenzo Tange per il centro direzionale a nord è rimasto una bella intenzione. Solo una parte, stralciata e riprogettata, il Fiera District, è sorta lentamente e con tante modifiche. I disegni di grande fascino di Nannelli, Capponcelli e Mattioli per la zona Stalingrado avrebbero retto ad una verifica di fruibilità con quei percorsi porticati lunghi, in linea retta, per più di un chilometro? Il racconto delle Bologne possibili può partire dalla forma urbis che la città assunse nei primi decenni del Duecento. I bolognesi per difendersi dall’incombente minaccia delle schiere dell’imperatore Federico II, tracciarono, nel territorio circostante la città, un circuito amplissimo, più che un raddoppio dello spazio occupato da quella esistente: un perimetro con forma poligonale irregolare, difeso in origine solo da un fossato e da una palizzata, che restò praticamente immutato fino alla fine dell’Ottocento. Ma nel tempo ci furono progetti di modifica? Per trovare una risposta bisogna rifarsi ad un periodo tra i più turbolenti della storia bolognese, quello della cacciata dei Bentivoglio, e della successiva riconquista della città da parte del potere papale. Le mura cittadine Nel 1511, durante un tentativo di riprendere la città di nuovo caduta in mano bentivolesca da parte dell’armata spagnolo-pontificia, guidata da Raimondo Cardona, avvenne un episodio straordinario. Una mina praticata sotto le mura vicino alla Porta Santo Stefano, nei pressi di un baraccano che ospitava una cappellina con l’immagine della Madonna,


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Jacopo Barozzi, il Vignola, Progetto di facciata per la Basilica di San Petronio, 1543, Museo di San Petronio, n.4

Andrea Palladio, proposta di facciata con portico per la Basilica di San Petronio, Museo di San Petronio


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Ricostruzione del progetto di Palladio per San Petronio di Bologna fatta da J.S. Ackerman, S. Schiamberg con M. Kane

Restituzione grafica del prospetto della nuova facciata dei Banchi secondo il disegno di Vignola conservato a Berlino


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esplose poderosamente ma non produsse alcuna breccia: addirittura si tramanda che le mura si sollevarono e ricaddero intatte. A fronte delle nuove armi e della potenza degli esplosivi, le mura erano vulnerabili! 2 Giulio II, dopo aver definitivamente preso possesso di Bologna, si trovò ad affrontare il problema di riconsiderare tutte le strutture difensive nei suoi possedimenti. Una preoccupazione che si presentò anche per i successori, per tutto il secolo e oltre. Un’ipotesi di nuovi assetti difensivi per Bologna è stata commentata da R. J. Tuttle3 esaminando gli studi di Antonio da Sangallo il giovane, redatti in occasione di un passaggio a Bologna nel 1526, come inviato di Clemente VII, insieme a Michele Sanmicheli, per studiare le modifiche da apportare alle fortificazioni delle città di Piacenza e Parma. Gli schizzi appaiono impostati correttamente alla luce dei più aggiornati espedienti di difesa basati su cortine murarie a linee spezzate con il sistema dei rientranti e dei salienti e intervallate da bastioni sporgenti, per consentire il tiro di fiancheggiamento. Riunendo i diversi appunti si ha la rappresentazione dell’insieme delle correzioni per le mura ad ovest, a nord e, parzialmente, ad est. Era prevista la conservazione di alcuni tratti e la creazione di nuovi allineamenti più arretrati con il sacrificio di parti costruite in zone scarsamente abitate presso la Porta San Felice e la Porta Saragozza, ma per correggere il filo delle mura troppo a ridosso delle pendici collinari si sarebbero dovuti abbattere gran parte dei popolosi isolati delle vie Miramonte e Mirasole, nei pressi di Porta San Mamolo. Vi era inoltre l’indicazione di costruire un punto alto all’interno. La proposta non ebbe seguito e così fu per altri tentativi nel corso dell’acceso dibattito circa l’opportunità di rivedere integralmente il sistema difensivo bolognese5. 2 Il primo Cinquecento segna l’inizio dei tanti studi teorico-pratici sulle fortificazione per le città: si sperimentarono nuove forme di baluardi e Michelangelo stesso, tra gli altri, si applicò per definire i profili di mura, di bastioni poligonali a sporgere, gli orecchioni. 3 RICHARD J. TUTTLE, Contro le fortificazioni. La difesa di Bologna, Cap. III, in Piazza Maggiore. Studi su Bologna nel Cinquecento. Venezia, 2001, pp. 55-77. 4 Antonio di Bartolomeo Cordini (Firenze 1483-Terni 1546) lavorò agli adeguamenti delle cinte murarie di Parma, di Piacenza e di Firenze. Operò anche alla Fortezza da Basso di Firenze, alla Rocca Paolina di Perugia, alla Cittadella di Ancona e alla cinta leonina di Roma. I due fogli con gli schizzi delle mura di Bologna sono conservati nella raccolta dei disegni agli Uffizi in Firenze: in uno, il 728A vi è una serie di rilievi altimetrici, nell’altro, 727 r-v, vi sono proposte di modifiche per alcuni tratti di mura non ordinatamente connessi. 5 Provvedimenti opportuni furono quelli dell’abbattimento delle merlature, divenute una minaccia per i difensori e del rinterro all’interno delle archeggiature, le cancella, per offrire una massa resistente ai colpi delle bombarde.


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Ma la città ha avuto nel tempo altri temi irrisolti, e tanti cantieri intrapresi e mai finiti. Il fatto più eclatante è dato dal cantiere della basilica di San Petronio, l’eterno cantiere6 sempre occasione di confronto di idee. Per la facciata della basilica di S. Petronio Nonostante il continuo avvicendarsi di architetti alla direzione della fabbrica si era giunti alla seconda metà del Cinquecento con la basilica incompleta, con una facciata appena iniziata e con l’interno privo delle volte e della grande cupola. Gli architetti chiamati dalla Fabbriceria a risolvere i temi dovettero prodursi in differenti soluzioni soprattutto dopo la perdita del modello di Antonio di Vincenzo, distrutto da un incendio. Mancando il riferimento basilare occorreva provvedere con nuovi disegni e nuove soluzioni anche stilistiche. Ma di fatto nessuna proposta venne accolta, soprattutto se alternativa. Tuttle, in un suo saggio7, mette in evidenza anche il motivo politico di fondo del mancato completamento: «La lunga, dolorosa e, alla fine, perdente battaglia per completare la facciata di San Petronio in stile gotico è un fatto ben noto. La basilica era l’orgoglioso simbolo dell’indipendenza comunale nei confronti delle forze esterne, specialmente quelle papali. L’abbandono dell’originario progetto gotico veniva visto come tradimento della fede politica, un atto di inganno.»8 Negli archivi della Fabbriceria sono conservati numerosi documenti che testimoniano l’intenso lavoro di coinvolgimento degli architetti più capaci: anche Michelangelo, nel 1522, fu interpellato. Già nel 1518, su progetto di Domenico Aimo da Varignana, si era iniziato a rivestire il basamento con il motivo a grandi riquadri in marmi policromi, ma nel 1540 l’opera aveva raggiunto soltanto il livello che ancor oggi vediamo. Per Baldassarre Peruzzi la soluzione era ancora coerentemente gotica, pur con una griglia di riferimento molto schematica (il disegno è MARIO FANTI, La facciata di San Petronio. La secolare storia di un’opera incompiuta, in AA.VV. La Piazza Maggiore di Bologna. Storia. Arte. Costume. Bologna, 1984. CARLO DE ANGELIS, Il cantiere di S. Petronio nei disegni della Fabbriceria, in AA.VV. Sesto centenario di Fondazione della Basilica di San Petronio 1390-1990. Bologna, 1990. Si veda anche La basilica incompiuta. Progetti antichi per la facciata di S. Petronio. Catalogo della mostra. Bologna. Museo Civico Medievale. 4 ottobre 2001 6 gennnaio 2002. R. J. TUTTLE, La facciata dei Banchi di Vignola, Cap. X, in Piazza Maggiore. Studi … cit. pp 203-227. 8 Tuttle, richiama una affermazione di Achille Angelelli contenuta in un memoriale diretto al legato card. Angelo Capranica nel 1463: «E così prego la R.V. S. voia ordenare che sempre selli lavori perché questa giexia serà la più magna e bella de crestianitade : e chi ve conseia che non se li debbia lavorare e seguire lo disegno vecchio non è vero cittadino e Dio lo sconfonda lui e tutti quelli che sono dello suo sangue e abia quelle maledicioni che seguirono», citata in: M. FANTI, La fabbrica di S. Petronio in Bologna dal XIV al XX secolo, storia di una istituzione, Roma 1980, nel Cap. Quadro economico e politico. pag 117 6 7


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Dettaglio del progetto di Vignola per la facciata del palazzo dei Banchi: il varco delle strade sulla piazza con il fastigio e l'orologio

Le case Arrigoni, Ariosti e Scala antistanti la cattedrale in costruzione. Biblioteca Comunale Archiginnasio. Cart. Gozzadini 23. N. 105


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L’iter in voltis in un disegno di ambientazione della proposta ricostruttiva

In un disegno di Pontoni la proposta di mantenimento e restauro delle torri: il resto di una, la Guidozagni, era stato giĂ abbattuto perchĂŠ pericolante


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del 1522 circa), per altri si potevano tentare diverse soluzioni. L’esigenza fondamentale era quella di non dover ricorrere ad alcun abbattimento o sostituzione: andavano conservate le parti già realizzate, soprattutto gli imponenti ed elegantissimi portali con le statue e bassorilievi di Jacopo della Quercia. Vignola, che nel 1543 era stato nominato architetto della fabbrica, propose una facciata ancora coerentemente gotica ma che si perdeva in alto in un delirio di cuspidi e gattoni. Giulio Romano nel 1544 propose invece un disegno di compromesso. Un momento di intensa progettazione si ebbe quando nel 1555 Giovanni Pepoli subentrò al padre Filippo nella carica di fabbriciere. Pepoli invitò Andrea Palladio per consigli. E’ certa la presenza nel cantiere di Palladio nel 1572, fra giugno e luglio, in compagnia del figlio Silla per prendere in esame il tema. Il 27 gennaio1579. Palladio fornì un disegno, seguito poi da altri con maggiori dettagli, inviati il 5 febbraio e il 25 aprile. Di questa attività resta un progetto di facciata, disegnato in collaborazione con Francesco Terribilia, che si inserisce nel novero delle soluzioni ancora goticheggianti, ma la successiva proposta appare decisamente innovativa: due soluzioni progettuali9 che prevedevano una sovrapposizione di un fronte classico ritmato da un colonnato gigante sulla facciata esistente. Un deciso salto di scala rispetto ai fronti dei palazzi circostanti… L’idea provocò accese reazioni espresse con argomentazioni critiche molto pertinenti che dimostrano quanto, da parte di alcuni componenti la nobiltà bolognese, vi fosse una partecipazione informata. In particolare si vedano i concetti espressi in una lettera inviata il 10 dicembre 1578 da Roma da Camillo Bolognini, dove si trovava come rappresentante del Senato, in risposta alla richiesta del Confaloniere di Giustizia circa la proposta «A fabricare un portico davanti alla chiesa di S. Petronio” 10…» Bolognini espose in questi termini il suo pensiero: …Dico dunque che o volemo considerar la chiesa di S. Petronio come fabrica a sé, overo come parte del loco dove si trova. Nel primo caso se ben si possano allegar raggioni per l’una et per l’altra parte, essendo che il far li portici alli

9 JAMES SLOSS ACKERMAN, Palladio, Michelangelo and «publica magnificentia», in «Annali di Architettura, Rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza». n. 22. 2010. 10 GIANGIORGIO ZORZI, Le chiese e i ponti di Andrea Palladio, Vicenza, 1967. pp. 111-112


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tempii sia stato a compiacenza delli architetti, poiché da essi non ne vien data regola ferma, et trovandosene de’ fatti nell’uno e nell’altro modo; non di meno a questo tempio si potria tollerar quando non vi concorressero altre ragioni ; ma non dovendo servir al caso nostro il ragionar di questo, per hora dirò della chiesa considerata nel secondo caso, cioè posta nel sito dove è, nel qual si deve vedere, se giungendovi il portico è per vantaggiar in bellezza e comodità di lei e del suo sito, che è la piazza; et se per comodità della chiesa si deve causar bruttezza et incomodità della piazza, la qual se ben nel piano di essa si trova in quella parte posta dinanzi alla chiesa impedita dalle scale, et in quella parte più ellevata, non è per questo che l’occhio, che è quello che gode quella ampiezza, non termini nella facciata, qual resta assai più lontana che non sarà quando vi sia il portico, che all’hora verrà a terminar tanto più avanti quanto sarà la sua larghezza… e più avanti aggiungeva: L’altra incomodità et insieme bruttezza che ne risultaria sarà il restringere la piazza, la qual si possa dir veramente ristretta per la raggion della veduta, la quale è quella che fa apparire l’ampiezza sua, et non la larghezza del piano per il quale si passeggia si’ come ho detto, et come si vede chiaramente per tutte le strade della città, le quali se ben son larghe, comparatovi seco li piani delli portici che vi son dalle bande, quali pur servino per strada, non di meno guardandole si presentano all’occhio così stretti, che non li giova punto quella larghezza del portico; et questo esempio serve facilmente per far apparer come minchina (meschina) in fatto il portico nanti la chiesa. L’anno dopo Palladio morì. Nell’incertezza si scelse ancora una volta il partito di conservare, senza sacrificare nulla11. Poi l’interesse fu rivolto al completamento interno per la costruzione delle volte12. Già si era rinunciato alle imponenti dimensioni e soprattutto alla cupola, ma il tempio andava completato in qualche modo e fu deciso di concludere la navata principale con un abside poligonale: una soluzione spoglia, certamente inadeguata al progetto ambizioso di Antonio di Vincenzo. Una nuova piazza nell’area del cantiere di San Petronio Pochi mesi dopo la sua elezione Pio IV destinò come Legato di Bologna e della Romagna il nipote, il cardinale Carlo Borromeo, ma questi come Della sollecitudine di Giovanni Pepoli per il tema restano anche le disposizioni estreme, dettate nel 1585 sotto l’incombere della condanna capitale. Lasciò disposizioni che prevedevano di destinare somme per «pagare alla fabbrica di S. Petronio le trecento migliara di pietre (mattoni)» che aveva procurato. 12 Le due prime volte realizzate da Francesco Morandi nel 1554 risultarono troppo basse per le proporzioni della navata. Si risolse di abbatterle per procedere col progetto inviato da Roma, nel 1625, da Girolamo Rainaldi. Solo dal 1646 al 1665 si riuscì a completare l’intero sistema voltato. 11


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Il Portale della Vittoria secondo il progetto di Guido Zucchini con tutti gli elementi simbolici. Archivio BSA

Cleto Capri (1934), Progetto di facciata per la Basilica di San Petronio, Museo di San Petronio


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Planimetria attuale con indicazione del tracciato della via non realizzata tra via De' Chiari e il sagrato della Chiesa di Santa Lucia

in basso: I progetti per l’area di Porta Saragozza nella pubblicazione di Mengoni (1861): in alto la soluzione di Mengoni, in basso quella di Monti


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consuetudine ormai radicata non si insediò in città pur seguendo da Roma le vicende della legazione. Come vicelegato venne nominato Pietro Donato Cesi, vescovo di Narni13. Dell’intensa attività di Cesi resta una minuziosa descrizione14, indirizzata a Pio IV, redatta sul finire del 1564. Uno degli interventi più significativi fu la creazione dell’Archiginnasio, la nuova sede dello Studio. Fin dall’inizio della sua costruzione, nel 1563, con un atto di grande lungimiranza e senso della città, volendo assicurare una più ampia prospettiva all’Archiginnasio, il vicelegato aveva imposto la demolizione di una serie di edifici appartenenti alla Fabbriceria di San Petronio15 per creare una piazza. A completamento era prevista la collocazione di una statua celebrativa del pontefice, giusto di fronte all’ingresso dell’Archiginnasio, praticamente nello stesso luogo dove ora si trova la statua di Luigi Galvani. Con una forte carica simbolica il Papa doveva essere rappresentato come trionfatore sull’eresia, un’idra a sette teste. Ma la statua non fu mai realizzata. La piazza Maggiore e la facciata del Palazzo dei Banchi Sempre durante il governo di Cesi fu affrontato lo spazio pubblico per eccellenza, la piazza Maggiore. Il lato orientale con i suoi fronti di modesta altezza male si accordava con l’altissimo fronte della Basilica di S. Petronio, con la facciata del palazzo del Podestà e con la mole del Palazzo pubblico. Gli edifici in quel lato si presentavano spezzati nella continuità, dagli innesti delle vie Pescherie e Clavature. Era necessario costruire un fabbricato di nuovo disegno più vicino ai concetti di decoro e rappresentatività che la piazza era chiamata ad assumere nei momenti di solennità cittadina. Sino a quel momento si era dovuto ricorrere ad apparati di addobbo con funzione di mascheratura. Venne chiamato 13 Cesi giunse a Bologna con una fama positiva, avendo guadagnato il favore della popolazione, quando era stato dal 1556 al 1559 governatore delle Romagne, per aver promosso molte opere pubbliche in Ravenna e Faenza. Aveva inoltre sostenuto il ruolo di vicario papale durante il processo, celebrato a Roma, contro il vicelegato cardinale Tommaso Conturberio, rimosso da Bologna nell’estate del 1559, travolto da gravi scandali e accusato di corruzione. 14 Nel manoscritto conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano sono elencate le dieci principali e imprese: per ognuna Cesi stesso fece coniare allo zecchiere di Bologna una medaglia celebrativa. 15 Per assicurare la più ampia visibilità furono comprese nell’abbattimento anche alcune case di privati. Il costo della piazza venne coperto con un prelievo annuale di 150 scudi d’oro dalle somme comminate per le condanne criminali per non gravare sugli abitanti delle case circostanti che avrebbero dovuto dare un contributo in cambio del vantaggio di prospettare su una piazza ben sistemata. Già alla fine del 1564 la piazza risultò interamente selciata.


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Vignola, l’architetto più capace che già operava per il Papa a Roma. Il tema venne affrontato da Vignola con grande semplicità architettonica, resa ancora più scarna dall’esecuzione che non realizzò alcuni elementi, come si può notare osservando i disegni originali, oggi conservati a Berlino16. Non si trattò di una sostituzione globale bensì una placcatura estesa per 96 metri, sovrapposta ai preesistenti edifici porticati, alti un sol piano e ornati con bifore archiacute e conclusi da merlature17. Il progetto prevedeva una sopraelevazione di un piano per portare il fronte ad assumere l’imponenza e l’altezza del vicino Palazzo del Podestà che costituiva il riferimento obbligatorio con la sua mole fortemente segnata dallo stacco tra le archeggiature del portico alla base e il piano della grande sala18. La marcata orizzontalità del Palazzo dei Banchi è frutto di una modifica esecutiva introdotta in assenza di Vignola. I disegni progettuali, in corrispondenza dei due grandi fornici di ingresso alle vie Pescherie e Clavature, prevedevano due variazioni compositive. Per sottolineare i passaggi, oltre alla maggiore altezza delle arcate, Vignola aveva introdotto un balcone aggettante sorretto da pilastri risaltati rispetto al filo facciata, e, a conclusione in alto, un fastigio a quinta con quadranti d’orologio decorato con vasi e pinnacoli. La realizzazione difforme ha comportato la perdita della coerenza compositiva. Una piazza non realizzata davanti alla Cattedrale di San Pietro L’attenzione agli spazi pubblici nel passato non fu rivolta solo alla Piazza Maggiore e ai luoghi contermini, ma vi fu un tentativo di rimodellare anche il tessuto costruito antistante la Cattedrale per garantire una visione prospettica adeguata: si voleva creare una piazza… I disegni sono presso: Kupferstichkabinett. Staatliche Museen zu Berlin. Preussicher Kulturbesitz. Inv. K.. d. Z. 16721. Lotz, Vignola Zeichnungen, 105 - 106. Per un approfondimento si vedano i saggi: R. J. TUTTLE, Vignola’s Facciata dei Banchi in Bologna, in «Journal of the Society of Architectural Historians», Vol. LII, n. 1, march 1993. e LUCA CIPRIANI, L’eccezione che inventa la regola / Il Palazzo dei Banchi, in «Parametro», n. 198, settembre - ottobre 1993. Pp. 18 – 39. 17 Vignola conservò totalmente la struttura del portico e parte dell’edificio sovrastante (sono visibili ancora le volte a crociera nervate e i pilastri originali sono inglobati nella nuova struttura rivestita con conci d’arenaria). 18 Vignola con un attento controllo proporzionale ricorse ad una scelta compositiva unificante il portico e il primo piano con grandi paraste corinzie a doppia altezza ma di ridotto aggetto, e creando un secondo livello al disopra di una fascia marcapiano non troppo sporgente. La sopraelevazione rivela la maestria progettuale: c’è l’iterazione di un partito architettonico che segue il ritmo sottostante con semplici riquadrature che incorniciano le finestre a serliana. Un forte cornicione conclude e unifica tutto il fronte. E’ un disegno di spiccata consonanza col Palazzo del Podestà, più evidente al tempo quando era privo del parapetto, un’aggiunta di Pietro Fiorini nel 1604: « perché io feci anco fare il parapetto con li balaustri di masegna ala Sala del Podestà perché prima non 16


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Il palazzo Dall’Ara negli anni ’60 con ancora il corpo di fabbrica di spalla all’arco non realizzato

Il piano Regolatore generale del 1889


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Il concorso per l'area della Manifattura Tabacchi del 1983: il progetto vincente del gruppo di Lodovico Quaroni

Progetto Quaroni. Dettagli delle varie costruzioni e sistemazioni del parco


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Il cardinale Ludovico Ludovisi nel 1624 venne in possesso delle case degli Arrigoni, antistanti la Cattedrale19 con l’intento di abbatterle. Successivamente acquisì anche le case degli Ariosti e degli Scala ed ebbe l’intero fronte dell’isolato. Ma le case, non immediatamente demolite, furono utilizzate in altro modo: a partire dal 1630 ospitarono temporaneamente i seminaristi. Solo nei primi anni del Settecento si procedette ad una demolizione di ridotta profondità20 non per ottenere il previsto spazio vuoto ma per costruire il nuovo Seminario, su progetto di Alfonso Torreggiani. Della piazza non se ne parlò più ma, curiosamente, in alcune piante del tempo e successive l’esiguo slargo è citato come piazza. La questione della conservazione delle mura nel piano regolatore del 1889 Bologna era giunta alla fine dell’Ottocento con la cerchia di mura intatta, inalterata nella sua consistenza originaria a parte la demolizione della merlatura e di qualche varco aggiuntivo (a fianco della Porta San Mamolo, ad esempio)21. La relazione del piano regolatore del 1885-89 aveva indicato nell’abbattimento della cerchia un segno di moderna concezione supportato da considerazioni igieniste. Per comprendere il motivo di quelle indicazioni bisogna rifarsi allo stato igienico precario delle città al tempo. A seguito delle reiterate epidemie occorse in Italia negli anni 1884- 1885, venne promulgato nel 1888, con valore di legge nazionale, un Codice di igiene e sanità pubblica22 che costituì la base per il controllo sanitario23. vi era cosa alcuna in modo che le persone potevano cascarci in piazza quando si facevano le giostre et li spetacoli», come ricorda lo stesso Fiorini nel suo manoscritto conservato nella Biblioteca Arcivescovile di Bologna, Biblioteca Breventani, Scansia G (1), cart, VIII. 19 Con l’acquisto per lire 10.287 si concluse una trattativa quasi decennale, iniziata forse dall’arcivescovo Alessandro Ludovisi, poi divenuto Papa nel 1621 col nome di Gregorio XV. Il rogito (Archivio di Stato di Bologna, Archivio Notarile, Notaio Fabrizio Ferlini, 22 maggio 1624) specifica che si tratta di «duas domos... contiguas muratas cuppatas tassellatas et balchionatas... cum puteo officinibus... cantinibus et quam domos sunt modo... ecclesia Sancti Petri majoris et in loco vulgariter pietraficta». La via Pietrafitta prendeva nome da uno spezzone di colonna romana scanalata, qui affiorante, considerata segnale del punto centrale, ombelico di Bologna. 20 Scomparvero così definitivamente la torre Ariosti e la torre degli Scala. 21 Solo Porta Galliera aveva mutato la sua posizione fissata nel tracciato originario del 1226. Con la costruzione in muratura del circuito nel corso del Trecento la porta e i tratti di mura contermini furono traslati verso il centro città per lasciare all’esterno la confluenza dell’Aposa con il Canale delle Moline. 22 GUIDO ZUCCONI, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (19551942). Milano 1999. 23 Il controllo sanitario nelle città era affidato al personale tecnico e sanitario nella struttura amministrativa dei comuni. Ogni comune con più di ventimila abitanti era obbligato ad avere un Ufficio d’Igiene con un Ufficiale Sanitario, un Medico Capo e un Veterinario Comunale.


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Le mura dovevano essere quindi abbattute? Certamente! Con pretestuosa sicurezza veniva affermato che, una volta eliminata l’alta cortina, il movimento dell’aria avrebbe evitato il ristagno dei perniciosi miasmi. Inutilmente Alfonso Rubbiani si prodigò per impedire la demolizione sia delle mura che delle porte (solo alcune sarebbero state conservate per testimonianza…), invocando un ripensamento. L’appassionato discorso che tenne presso la Deputazione di Storia Patria non ebbe alcun risultato24. Rubbiani, partendo dalla contestazione dell’assurda giustificazione igienica aveva individuato la vera ragione della operazione, quella speculativa: Non è vero che le mura impediscano lo arieggiamento della città. Una città come Bologna, sopra un pendio di oltre 30 metri di dislivello. Le arie di nord la investono tutta passando sopra la minuscola siepe di sei metri; le arie che balzano giù dai colli, balzano non strisciano giù per la china come fuochi fatui, e balzano entro la città. Non è davvero ciò che il cielo invia che può essere arrestato dalle mura… Più che la buona aria del cielo, sono i piccoli aliti miasmatici che forse strisciano dietro terra. D’altronde è facile pensare che alle mura alte poco più o poco meno di sette metri, si verrà sostituendo col tempo una ghirlanda di fabbriche ben altrimenti più alte. Giacché si dica in contrario quello che vuolsi, resta vero come l’area fabbricabile che residuerà dalla demolizione delle mura non sia che una zona appena più profonda di otto dieci metri, tale però da non prestarsi che a costruzioni di sviluppo concentrico alla circonvallazione e quindi con tendenza a recludere l’interno con una quasi continuità di edifizii certo più elevati delle vecchie mura. E allora, che cosa diranno gli igienisti improvvisati che sentono l’oppressione della mura girando Bologna…infuocata dal sole di luglio? Ditemi che il concetto nuovo della città deve essere, e tutti lo dicono, non più a grandi caravanserragli pieni di inquilini, ma a case e casine isolate tra gli alberi25. E più avanti proponeva che «un bel viale alberato possa aprirsi sul tracciato stesso della piccola strada interna di circonvallazione. Un viale che concentrico o parallelo si svolgesse al viale esterno e comunicasse con esso mercé una serie di aperture nei cancella delle mura pur rispettando la continuità del corridoio merlato»26 Trovatosi in netta minoranza non si rassegnò e rese pubblico il suo intervento pubblicando integralmente il suo discorso: ALFONSO RUBBIANI, Per le mura di Bologna. Discorso letto alla R. Deputazione di Storia Patria per le Romagne. Adunanza del XVI febbraio MCMII. 25 ALFONSO RUBBIANI, Per le mura …cit. p. 17-18. 26 ALFONSO RUBBIANI, Per le mura … cit. p. 20-21. 24


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Rubbiani terminò il suo intervento con una proposta di totale conservazione, articolata per punti27, che venne posta ai voti. Una laconica nota, tratta dal verbale dell’adunanza della R. Deputazione di Storia Patria del 16 febbraio 1902, riporta: «Il voto proposto dal socio Rubbiani non è approvato». Contemporaneamente, negli stessi mesi, vennero iniziati gli abbattimenti. A proposito di restauri interrotti e di immagini rifiutate Rubbiani va ricordato, tra l’altro, come promotore del grande restauro dei Palazzi Re Enzo e Podestà, dopo l’abbattimento delle costruzioni addossate. Un brano superstite dell’antico tessuto medievale era stato riproposto con la ricerca attenta delle bifore e trifore occultate, e per il palazzo Re Enzo era stata ricollocata la probabile merlatura. Rubbiani si occupò poi del tratto del Palazzo del Podestà prospettante la fontana del Nettuno dove era citato nei documenti un Iter in voltis, un elemento di collegamento tra i due palazzi di cui non vi era più alcuna traccia. Della proposta resta un disegno prospettico… Prese poi in considerazione il cornicione e i grandi finestroni che apparivano incompiuti. Nel 1889 fece fare all’impresario Eugenio Guazzaloca28 un modello al vero di una imponente merlatura al disopra di un potente cornicione e delle decorazione dei finestroni con due diverse versioni. L’aver predisposto un modello reale fu un atto di grande onestà intellettuale per coinvolgere nelle scelte tutti, estimatori e detrattori. Era il 1910: ben presto si accesero roventi polemiche. L’avvocato Giuseppe Bacchelli29 decisamente contrario ai restauri troppo interpretativi, pubblicò un opuscolo, Giù le mani dai nostri monumenti antichi, che divenne una sorta di manifesto contro i modi restaurativi di Rubbiani. Nello «Per tutte le quali cose, o signori della Deputazione, vi presento, sperando che esso meriti di diventare vostro, il mio voto: 1° perché il Municipio di Bologna sospenda le demolizioni delle mura e delle porte della cinta medievale; 2° perché oltre l’attuale progetto di sistemazione periferica della città faccia studiarne un altro che… sembri meglio conciliare la detta sistemazione periferica colla conservazione di tutte le porte e delle mura …3° perché nell’attesa di un provvedimento, implorato già da tutte parti…, il Municipio di Bologna dia l’illuminato esempio di una spontanea iniziativa che gli assicuri un primato… che le trasformazioni edilizie nelle città storiche e monumentali si compiano appunto senza sperpero della loro apparenza monumentale e pittoresca». 28 Il fornitore delle pietre, macigno di Marradi, fu Callisto Neri. 29 Giuseppe Bacchelli, (Bologna 1849, Bologna 1914), come presidente della Società Francesco Francia avversò Rubbiani, pur condividendo tanti aspetti dei suoi restauri, solo quando dimostrò di eccedere nei completamenti e nelle interpretazioni. Politicamente fu negoziatore di intese tra cattolici e liberali rifiutando ogni apertura verso i socialisti. E’ il padre dello scrittore Riccardo Bacchelli. 27


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scritto si legge: «Il solitario Rubbiani de’ bei primi tempi del San Francesco ora è accompagnato, come egli stesso scrive, da una gilda o ghilda di artefici, che lo sospinge fuori dai confini del ristauro. Al rigore della storia e della scienza si sostituisce il proprio intuito. All’esame obbiettivo si sostituisce la propria fantasia. Si procede per divinazioni, per analogie, per confronti. Il restauratore diventa un’esteta e un ricostruttore. La precisione storica è sostituita dalla visione arbitraria di una bellezza romantica e scenografica!» Prevalse quindi l’opinione di lasciare incompiuto il monumento … Il progetto alternativo all’allargamento di Via Rizzoli (Mercato di mezzo) Un altro interessante progetto di disegno urbano era stato proposto da Rubbiani, nel 1904, quale correttivo alle previsioni del Piano Regolatore di allargamento della via Mercato di Mezzo: Rubbiani lasciava invariata la antica strada preferendo un ritocco della parallela via Orefici, il tutto con splendidi disegni di ambientazione di Gualtiero Pontoni. Il progetto30 portava a correggere l’assetto viario col «minimo delle demolizioni e col massimo degli espedienti». Nella relazione di accompagnamento si legge: Facciamo delle strade comode ma che sembri abbiano sempre esistito per l’affacciarsi lungo il loro studiato sviluppo di quanto ricorda la vita stessa degli avi, facciamo delle strade in cui si rispecchi la vita sociale qual è, cioè non un reggimento di granatieri al presentat arm e ricordi un poco l’adorabile modo di disporsi delle cose nel paesaggio naturale, dove tutto è sinfonia senza uniformità, tutto è armonia in una vittoria de l’assimetrico (sic), dove tutto è bellezza in un continuo predominio di curve, di flessioni, di angoli sopra la monotonia del parallelismo». Nel 1909 la mancata attuazione del progetto comunale indusse il Sindaco Tanari a sottoporre al Consiglio Comunale una proposta che prevedeva la totale demolizione dell’antico tessuto degli isolati sul fronte sud. Dopo prevedibili polemiche, il 25 novembre 1910 il progetto di allargamento fu ripresentato in Consiglio Comunale, ma questa volta con un piano finanziario dettagliato e con la sicurezza di un pronto avvio, visto che il cavaliere Camillo Ronzani aveva già un’opzione per realizzare il primo lotto. Le demolizioni iniziarono subito dopo l’approvazione consiliare

ALFONSO RUBBIANI, GUALTIERO PUNTONI, Di una via fra le piazze centrali e le due torri e di un’altra fra le due torri e la stazione ferroviaria. Bologna, 1904.

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Area dell’Ex Manifattura Tabacchi: l’Auditorium di Renzo Piano (2011)

Progetto di ampliamento della Manifattura Tabacchi (1930-36)


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Progetto di ampliamento della Manifattura Tabacchi (1930-36). Vista prospettica

La stazione di testa progettata da Fortunato Lodi. 1857


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(42 consiglieri a favore, 2 astenuti, 7 contrari), e fu così intrapresa la costruzione del primo palazzo in struttura di cemento armato in Bologna, e con disegno di Puntoni! Per colmo di ironia nel 1931 l’Assessore all’edilizia Ugo Melloni, in un articolo celebrativo31 del completamento delle riedificazioni, affermò che l’intera operazione era stato: «Un fatto che non può seriamente criticarsi quale operazione vandalica perché nulla, proprio nulla di quel che fu demolito meritava di essere conservati.» Erano scomparsi invece il palazzo Lambertini, il sistema dei voltoni dell’antico mercato, molti edifici ricchi di stratificazioni dal Duecento al Quattrocento e alcune torri… Per tre di queste, prossime allo slargo di Porta Ravegnana, non fu un’operazione priva di difficoltà viste le accese polemiche alla notizia che sarebbero state abbattute. L’abbattimento delle torri nel trivio di Porta Ravegnana Nell’immediato dopoguerra, nel 1919, fu ripreso il programma di risanamento dell’antico Mercato di Mezzo interrotto per il periodo bellico. Come si è detto, fin dal 1904 Rubbiani aveva proposto una soluzione alternativa rispetto a quella del piano comunale … del tutto inascoltata. Nel 1913 il grande difensore dei monumenti cittadini morì. Già da tempo non era più seguito e la sua scomparsa fece prevalere le idee di rinnovamento a tutti i costi: a nulla valsero le accese richieste in difesa dei tronconi delle torri Artenisi, Guidozagni e Riccadonna, emerse durante le demolizioni e poi mantenute per anni isolate in attesa di decisioni. Si erano schierati a favore per la conservazione il Comitato per Bologna Storica e Artistica, la Commissione per la conservazione dei monumenti dell’Emilia, la Società Francesco Francia ed era stata lanciata anche una petizione popolare da parte di un professore di filosofia, Giorgio Del Vecchio, che riscosse il forte sostegno di Gabriele D’Annunzio. In una sua lettera, indirizzata a Del Vecchio, si legge: «Ed ecco Bologna minacciata di sacrilegio. Uomini mercantili, ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina, vogliono diroccare le testimonianze dell’antica libertà UGO MELLONI, L’allargamento di via Rizzoli, in «Il Comune di Bologna». 1931 Gennaio. pp 8-12. ANNA TADDEI, L’allargamento di via Rizzoli. I temi del dibattito, in Norma e arbitrio. Architetti e Ingegneri a Bologna 1850-1950. Bologna, 2003. pp. 145-161. 31


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armata per ridurre al valore venale il suolo e per gettarvi le fondamenta di chi sa quale enorme ingiuria.» Ma gli abbattimenti erano stati già decisi visto che la Provincia aveva proposto in quegli spazi la costruzione della propria sede su progetto degli ingegneri Ugo Cantalamessa ed Emiliano Boselli, in stile quattrocentesco bolognese: sembra che fosse stata offerta per l’area l’ingente cifra di un milione di lire. Per arrivare ad una conclusione il sindaco Zanardi giustificò l’operazione di abbattimento con la motivazione di aver voluto garantire del lavoro ai numerosi disoccupati. La Provincia scelse poi un’altra localizzazione per la sede, in Strada San Donato nel Palazzo Magnani e sorsero così nell’area resa libera due palazzi uniti da una galleria, quella del Leone32. Un’altra occasione persa. A proposito dell’allargamento di via Rizzoli Per comprendere il controverso clima culturale della prima metà del secolo scorso c’è l’articolo di Francesco Malaguzzi Valeri, Contro il piccone33, alla vigilia dei nuovi interventi di rimodellazione di ampie zone del centro antico: è una sorta di manifesto che termina con un invito politico che ebbe tiepida accoglienza vista l’esaltazione propagandistica del piccone demolitore che il regime stava adottando. «Il mio grido di allarme in queste stesse colonne in favore della incolumità della bella e vecchia Bologna e un po’ della nuova non ha avuto, come si suol dire, buona stampa. E poiché, nonostante le mie cinquanta e più primavere, mi sento ben giovane e non vorrei proprio passare per un querimonioso nemico di tutte le novità… e poiché chiudevo il mio articolo – forse un po’ draconiano perché ispirato al vecchio adagio che bisogna chiedere molto per ottenere qualcosa - con queste parole: “Bologna vuol ripulirsi e allargarsi ma non a scapito delle sue glorie, più avanti, dichiarava: «L’ideale sarebbe di poter conservare intatte le città italiane e rifabbricare al di fuori le nuove…». Il tema era di grande attualità visti gli interventi che in quel momento venivano intrapresi: si stava procedendo all’allargamento della via dei Vetturini per farla diventare la nuova via 32 Un tema tutto da meditare è quello del rifiuto dei bolognesi ai percorsi suggeriti diversi dai portici. La Galleria del Leone, la Galleria Acquaderni, la Galleria del Toro e soprattutto la più recente Galleria Falcone–Borsellino che dovevano diventare luoghi attrattivi con negozi ed esercizi pubblici sulla falsariga dei passages parigini non sono mai entrati nelle frequentazioni abituali. A queste vanno aggiunti i sottopassaggi di via Ugo Bassi e via Rizzoli previsti anche come spazi commerciali e che ben presto furono abbandonati dagli esercenti per fenomeni legati a presenze poco rassicuranti. 33 FRANCESCO MALAGUZZI VALERI, Contro il piccone, in «Il Resto del Carlino», 24 marzo 1926.


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Ugo Bassi (con l’abbattimento della antica Zecca e relativa traslazione della facciata ricomposta) mentre altri sventramenti venivano annunciati nella zona di via Marchesana, proposti come soluzione razionale per la circolazione del traffico: Gioverà sì- ammettiamolo- alla circolazione abbattere il bel Palazzo della Zecca e le torri e le case dei Caccianemici e quella mezza dozzina fra archi acuti e porte in cotto, angiporti, cortili del leggiadro Rinascimento tutte di prossima demolizione in via Marchesana, ma aiuterà davvero a ridestare l’orgoglio artistico che animò l’antica Bologna? Malaguzzi concludeva con un augurio molto enfatico e politicamente ossequiente: …che il Regime Fascista instauratore di un nuovo ordine e di una nuova dignità nel campo della politica porti la sua disciplina ed il suo stile anche in quello delle arti- lodando, con l’occasione - l’intervento dell’On. Arpinati (Podestà di Bologna) che ha saputo egregiamente raggiungere nel ripristinare il bel Palazzo quattrocentesco del Fascio di Bologna, nel ridarvi alla luce e all’arte saloni, soffitti originali, decorazioni…34 Il Monumento ai Caduti della Grande guerra In quegli stessi anni si volle erigere un monumento ai caduti della grande guerra, ma per Bologna fu un’impresa che ebbe un esito particolare. E’ una storia che merita essere ricordata. In città non campeggia alcun monumento alla memoria. Nel 1925, alla presenza del re Vittorio Emanuele III era stato inaugurato nel chiostro romanico di S. Stefano il Lapidario in memoria dei Caduti nel conflitto mondiale 1915-1918, voluto dalla Associazione Nazionale Madri Vedove Famiglie dei Caduti e Dispersi in guerra. Composto da 64 grandi lapidi rettangolari ricorda i nomi e le date di morte dei 2530 caduti bolognesi. Restava tuttavia da erigere un monumento che testimoniasse il sacrificio di tante vite. Ci fu intenzione di collocare nel cuore della città, e più precisamente nel cortile del Palazzo Re Enzo una memoria monumentale: venne addirittura indetto un concorso che prevedeva la consegna degli elaborati entro il 31 34 L’ architetto Giulio Ulisse Arata fu impegnato nell’adattamento del palazzo Ghisilardi, poi fornì i progetti per il risanamento e restauro degli isolati compresi tra le vie Marchesana, Toschi, Clavature (al tempo chiamata via Piave) e Foscherari. Negli stessi anni progettò la Torre di Maratona per lo stadio, il Littoriale e disegnò la fontana di fronte alla Stazione.


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marzo 1924. Parteciparono 31 artisti. La giuria, composta da Leonardo Bistolfi, Marcello Piacentini, Giulio Ulisse Arata e Augusto Sezanne, non proclamò alcun vincitore ma selezionò sei progetti in vista di un secondo grado. Nonostante che tra i selezionati vi fossero nomi importanti e giovani molto promettenti35, non se ne fece nulla. Se si osserva il disegno del prescelto, Giuseppe Vaccaro, si comprendono le ragioni del veto espresso da parte del Ministero delle Belle Arti che dispose di non consentire un intervento in un contesto appena terminato di restaurare… Il portale monumentale della Vittoria nel Complesso Stefaniano Prevalse allora l’idea di erigere un Portale della Vittoria simbolico di accesso al Lapidario36. Per realizzare il progetto dovevano essere abbattute tutte le costruzioni addossate alla chiesa per creare un’area che consentisse un’opportuna visibilità. L’idea, sorta nei primi mesi del 1925, ebbe subito larghi consensi: oltre ad essere un degno accesso all’atmosfera raccolta del Lapidario avrebbe consentito ai promotori di realizzare «un’opera monumentale che rimanga nei secoli a testimoniare di quella Vittoria in campo che consacrò l’unità e la grandezza della Nazione» Alfredo Baruffi disegnò una serie di vedute di ambientazione che servirono a giustificare da parte del sindaco Umberto Puppini, l’incarico conferito ad un gruppo qualificato. Era il 20 gennaio 192637. I disegni e la relazione, approvati dalla Commissione esecutiva del Monumento ai Caduti, presieduto dalla Contessa Laura AcquaderniZavagli, furono inviati alla Giunta Superiore delle BB. AA. per il necessario nulla osta. Nella relazione si leggono enfatici accenti: «L’esistenza del Lapidarium, mistico e solenne ad un tempo nella sua austera semplicità, l’insieme delle chiese stefaniane, ricche di arte e di ricordi storici, la singolare piazza di S. Stefano abbellita da preziose architetture, formano come un sacro e mirabile teatro, dove il canto nuovo, che glorificherà la grande Vittoria, si espanderà sonoro e maestoso.»

Tra gli altri, Giovanni Michelucci, Giuseppe Vaccaro, agli esordi della carriera, accanto a Ercole Drei, Felice Nori, Silverio Montaguti. GIORGIO GALEAZZI,Un progetto non realizzato dell’ing. Guido Zucchini: il Portale della Vittoria in piazza S. Stefano (1926-27), in «La Torre della Magione», Anno XLII. N. 1 (Gennaio-Aprile 2015). e PAOLA MONARI, Il sagrato delle Sette chiese e il Monumento ai Caduti. in «Il Carrobbio», 1987. pp 268-274. 37 Il gruppo era formato dall’Ing. Guido Zucchini, consulente del Comitato per Bologna storica e artistica, dal Prof. Luigi Corsini, Soprintendente all’Arte Medievale e Moderna per l’Emilia e Romagna e dallo stesso Alfredo Baruffi. 35

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Il pasticciatissimo arco non fu fatto: doveva avere tutti i simboli possibili della retorica celebrativa della vittoria, dei fasti della nazione, comprese le aquile dei grandi destini38… Ma un danno ci fu: per realizzare il giardinetto furono abbattute le antiche case a ridosso della chiesa di S. Stefano e si perse così un frammento interessante del tessuto antico. La piazza di Santo Stefano richiama ancora un altro intervento ventilato in tempi ancora più recenti. Le case Tacconi con le irregolarissime facciate attirarono l’attenzione: nel 1912 fu proposto dal Comitato per Bologna Storica e Artistica un progetto, da parte di Guido Zucchini, di completamento in stile dei diversi fronti. Nel 1956 fu fatto il restauro ad una delle case (il num. 15) «dovuta ad architetto ferrarese del Cinquecento», ma anche, aggiungeva Zucchini, «Le ricche terrecotte del num. 17 intagliate nel gusto del Fioravanti (1420 c.) reclamano ad alta voce il ripristino totale onde abbellire maggiormente la suggestiva a storica piazza di S. Stefano39». Ma, ancora una volta e con ragione, non si proseguì l’opera e l’insieme dei fronti consente una lettura selettiva delle varie trasformazioni. Ancora la facciata di San Petronio Dopo l’esperienza di Carlo Francesco Dotti che si cimentò nel 1752 in un progetto del tutto nuovo con reminiscenze borrominiane, si ebbe una sequela di progetti verso la metà del secolo XIX con richiami romantici per un ritrovato Medioevo. Coerenza allora ? Certo, ma con motivi stilistici rivisitati, neomedievali, tratti dalle contemporanee esperienze restaurative francesi. La facciata di Mauro Tesi (1730 - 1766) è esemplare, poi a cascata si moltiplicarono le proposte 40. E’ del 1847 il progetto di Giuseppe Modonesi: un completamento che estendeva il motivo delle riquadrature di Varignana all’intera facciata, conclusa da un arco con rosone e pinnacoli…Poi nel 1857, avendo Pio IX promesso l’erogazione di 75.000 scudi romani, fu la volta di Enrico Il progetto non realizzato di Guido Zucchini è conservato negli Archivi del Comitato per Bologna Storica e Artistica. 39 GUIDO ZUCCHINI, La verità sui restauri bolognesi, Bologna, 1959. pp. 164-166. 40 Una scelta di disegni e documenti è stata oggetto nel 1990 di una mostra “Sesto centenario della fondazione della Basilica”. Il catalogo ha riprodotto per la prima volta numerosi materiali importanti per la storia della costruzione della chiesa con saggi di Rosalba D’Amico, Carlo De Angelis, Mario Fanti, Paola Foschi, Euride Fregni, Oscar Mischiati e un’introduzione di Gina Fasoli. Successivamente, dal 4 ottobre 2001 al 6 gennaio 2002, al Museo Civico Medievale venne allestita un’altra mostra La Basilica incompiuta. Progetti antichi per la facciata di San Petronio, con un catalogo a cura di Marzia Faietti e Massimo Medica con la collaborazione di Silvia Battistini, Edisai, Ferrara, 2002. 38


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Brunetti Rodati che, l’anno dopo, produsse una rivisitazione semplificata della soluzione di Modonesi. L’iniziativa non ebbe seguito per il cambio del governo nella città. uccessivamente Giuseppe Ceri si cimentò in un progetto che nel 1879 Rubbiani commentò con entusiasmo: «Oggi , come ognun sa, il progetto di compiere la facciata di S. Petronio è di nuovo all’ordine del giorno nella vita nostra municipale. Ve lo pose un giovane architetto, pieno d’ardimento, il Sig. Ceri, il quale per sua serietà abituale, seppe trovare le risorse preventive a sfidare ciò che costituisce il pericolo primo delle grandi imprese, e si facilmente le soffoca in sul nascere, vale a dire il ridicolo41.» La questione fu ripresa nel 1881 con la costituzione di un Comitato Esecutivo dell’Opera della facciata di San Petronio voluto da Giuseppe Ceri. Nel 1887 fu indetto un concorso che non ebbe vincitori. La giuria conferì però due premi di incoraggiamento al progetto di Ceri e a quello di Collamarini. Tra gli oppositori al completamento figurano i membri della Deputazione di Storia Patria che ritenevano «opportuno e lecito lasciare l’insigne monumento nello stato suo presente, che risulta dalle vicende della storia, del pensiero e dell’arte italiana». Posizione questa condivisa con forza anche da Carducci. Il Concorso del 1934 per la facciata di San Petronio Nel 1933 ritornò l’idea di bandire un concorso per il completamento della facciata nonostante le pronte proteste di molti. Guido Zucchini aveva appena pubblicato una serie di disegni, trenta tavole, di progetto che illustravano il lungo iter di secoli42. E’ interessante la posizione espressa da Marcello Piacentini43, contrario al concorso: Tempo fa… ebbi occasione di esprimere replicatamente la mia disapprovazione per l’iniziativa44 . Sostenevo che nel momento attuale, ancor più che nel passato, ogni tentativo di condurre a termine la facciata incompiuta, a qualsivoglia possibile criterio, tradizionalista o moderno, non poteva avere che esito negativo… Mi richiamo a quanto ho detto allora circa il valore puramente accademico di ALFONSO RUBBIANI, La Basilica di San Petronio. Alcune riflessioni di un nuovo progetto per il completamento della sua facciata. Ripubblicato nella raccolta di scritti Bologna sacra e profana con prefazione di Claudio Marabini, Bologna. 1982. 42 GUIDO ZUCCHINI, Disegni antichi e moderni per la facciata di San Petronio, Zanichelli, Bologna 1933. 43 MARCELLO PIACENTINI, Il concorso nazionale per la facciata di San Petronio a Bologna in «Architettura», fascicolo VII, luglio 1935 XIII. pp 399-408. 44 M. PIACENTINI, Commenti e polemiche. Ancora per la facciata di San Petronio, in «Architettura», fascicolo I, gennaio 1934 XII, pag 58. 41


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tali progetti, nei quali riuscirono impari a se stessi artisti anche sommi, del 500 e del 600, ai quali i Fabbriceri, che li avevano chiamati a consiglio, tenacemente imponevano di usare quello stile gotico, nel quale maestro Antonio di Vincenzo aveva concepito la chiesa ed in parte costruita alla fine del 300. Palladio invece aveva combattuto la tesi dei Fabbriceri, facendo un disegno moderno secondo ilo tempo suo…Ma anche Palladio, pur liberatosi dai vincoli di stile, non riusciva a fare che un progetto freddo e formalistico, del tutto privo di quella grande forza di cui egli era capace quando architettava organismi tutti suoi. Evidentemente l’infelicità di tutti questi progetti aveva dovuto risultare chiara ai contemporanei, se mai ad essi si era osato por mano. Ebbene, forseché le difficoltà del tema sono oggi diminuite? Forseché non sono invece di gran lunga aumentate… mentre siamo oggi tutti impegnati in questa affannosa ricerca di caratterizzare la nostra epoca?» Il concorso fu indetto ed ebbe un’ampia partecipazione di concorrenti45. Tante le soluzioni pervenute, alcune ancora di completamento, come quella di Cleto Capri, altre veramente bizzarre e decisamente improponibili. La giuria, composta da Antonio Maraini, Gaetano Moretti ed Ezio Cerpi, risolse di ricorrere ad un secondo grado di giudizio per sei progetti, e scelse infine tre progetti eseguibili, quelli di Guido Cirilli di Venezia, di Domenico Sandri di Roma e di Duilio Torres di Venezia caratterizzati tutti da motivi pacati medieval-gotici. Fu addirittura indetto un referendum popolare che vide vincitore il progetto di Cirilli…poi nessuno fu portato a compimento. La mancata via nuova campetto di Santa Lucia. Alcuni episodi di eliminazione di vie o vicoli non appaiono voluti ma furono il risultato di interventi irrisolti nel tempo per l’incapacità di trovare soluzioni adeguate o per l’inerzia di far rispettare gli impegni assunti. E’ il caso della scomparsa della antica strada detta campetto di S. Lucia durante la costruzione della chiesa di Santa Lucia e del Collegio dei Gesuiti in strada Castiglione. Con progressive acquisizioni i Gesuiti erano riusciti ad avere a disposizione un’estesa area attigua e retrostante all’antica chiesa parrocchiale. Il progetto per la nuova chiesa pur avendo un così ampio spazio, creò seri problemi dato che la parte absidale andava a lambire l’antica via di collegamento tra strada Castiglione e via de’ Chiari, il campetto. Dai

M. FANTI, Il concorso per la facciata di S. Petronio nel 1933-35, in « Il Carrobbio», 1976. pp. 45


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disegni di progetto del 1673 emerge chiaramente che era necessario occupare anche parte della via. Il Senato, sentito il parere favorevole dell’Assunteria d’Ornato, acconsentì alla richiesta di inglobamento dello spazio pubblico a patto che fosse realizzata ex novo una strada porticata, spostata più ad occidente oltre la chiesa. Nella chiesa erano state predisposte uscite laterali sulla nuova strada che da via de’ Chiari doveva sfociare poi nell’area del sagrato, a fianco della facciata. Nonostante che per soddisfare l’impegno fosse stato fissato il tempo di un anno, la via non venne mai alla luce. Piazza di Porta Saragozza Al completamento della sostituzione della Porta Saragozza, secondo il disegno neoromanico di Enrico Brunetti Rodati, nel 1860-61 furono avanzate proposte diverse per lo spazio interno. L’intento era quello di valorizzare l’ambito per creare una degna cornice architettonica per accogliere la processione della Madonna di San Luca nel suo ingresso in città. Giuseppe Mengoni succeduto a Brunetti Rodati, scomparso prima che la porta fosse completata, portò a termine l’opera (suo è il disegno delle cancellate) e presentò un progetto per una piazza subito all’interno46. Vi fu uno scontro con Coriolano Monti che volendo ribadire il suo insindacabile ruolo decisionale di direttore capo dell’Amministrazione, fornì a sua volta un disegno alternativo47. Mengoni si difese pubblicando i numerosi pareri espressi a sostegno della sua proposta48. Uno dei più autorevoli fu quello di Pietro Selvatico il maggior teorico dell’architettura di quegli anni: «Davvero che rimango meravigliato come, non dirò architetti, ma semplicemente uomini di buon senso, abbiano potuto dar preferenza al progetto Monti, in confronto di lei veduto savio ed ingegnosa da senno. Se ella non me lo dicesse nol crederei; santo cielo! Non v’è una linea accettabile, non un tracciamento che sia da architetto. Un ottaedro a lati disegnati irregolari (odiosissima cosa) con un latuccio stretto a due campate, e un altro di riscontro a tre: un lato maggiore a pilastri semplici, e un altro opposto a binati nel centro. Chi ne ha mai vedute di peggiori? In una parola quello sgorbio farebbe torto alla bella, cara Bologna …» Restano i disegni anche di una terza soluzione, quella dell’ingegnere Mario ELENA GOTTARELLI, Urbanistica e Architettura a Bologna agli esordi dell’unità d’Italia, Bologna, 1978. pag 73. 48 GIUSEPPE MENGONI, Pareri di celebri architetti sulla sistemazione ed ornamento della piazza interna presso le mura di Porta Saragozza ed allargamento di strada. Bologna, 1861. 47


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Gaetano Ratti. La stazione centrale di Bologna: progetto del 1875

Il fronte della stazione semidistrutto dai bombardamenti. Della pensilina in ferro e ghisa resta solo la struttura. Foto Camera Bologna. ProprietĂ Franco Manaresi


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in alto: Concorso per la nuova stazione di Bologna. Gruppo Zacchiroli.Vista dall’alto (198283) in basso: Stazione di Bologna. Gruppo Zacchiroli. Profili e sezioni


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Mannini, ispettore governativo, che proponeva una piazza contornata da portici con un disegno avvolgente. La sua soluzione prevedeva una irregolarità nella profondità del portico nei pressi del lato orientale della porta per non intaccare le mura. Visto il tono delle reazioni il Sindaco Luigi Pizzardi sospese i lavori, e lo spazio è rimasto senza alcuna struttura. Un banalissimo giardinetto con aiuole. Monti contemporaneamente aveva progettato una operazione di vasta portata: l’ampliamento della strada con un grande fabbricato multifunzionale in tre corpi, in sostituzione di una congerie di case seriali con criteri di risanamento igienico ambientale anticipatore di tanti analoghi interventi che vennero compiuti in diverse realtà49. Il concorso per la sistemazione di via Roma e alcune appendici Le interessanti soluzioni proposte dai diversi gruppi partecipanti offrono un panorama vario dello stato dell’arte alla fine degli anni ’30. Un esempio è dato dalle visualizzazioni elaborate in altra parte del volume. Ma una particolarità va sottolineata: all’estremo opposto dell’asse di via Roma (attuale via Boldrini), oltre la piazza Umberto I° (poi, dei Martiri) venne progettato un arco che univa due palazzi gemelli: un arco celebrativo per il regime o dedicato a Mussolini. Il solo palazzo Dall’Ara, realizzato in pietra bianca e grigia dall’ing. Galliano Rabbi, fu completato con il raccordo per l’imposta dell’arco, l’altro per l’interruzione dovuta alle cause belliche non venne nemmeno iniziato. Nel dopoguerra l’idea fu abbandonata ma si dovette aspettare l’inizio degli anni ’70 per abbattere l’avancorpo che, tra l’altro, era stato danneggiato dai bombardamenti. A proposito di altre piazze Va ricordato che nel disegno di espansione del piano regolatore del 1889 erano previste numerose piazze e piazze – giardino, simili alle piazze Cavour e Minghetti. La quasi totalità non fu realizzata: solo Piazza dell’Unità nel quartiere Bolognina e Piazza Trento e Trieste restano a testimoniare le previsioni

Nel complesso fu eretta anche una chiesa, S. Sofia della Confraternita dei Domenichini che nell’allargamento della strada avevano vista abbattuta la loro chiesa: oggi non esiste più (fu trasformata in appartamenti simili ai contermini). 49


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di carattere urbanistico ispirato ai criteri igienici: tutte le altre furono sacrificate per consentire di realizzare un più intenso tessuto abitativo. In tempi più recenti, parziali ridisegni di piazze furono proposti in città: Piazza S. Stefano è stata rimodellata e ripavimentata e modificata nella configurazione altimetrica per raggiungere il livello dell’accesso al Complesso Stefaniano senza gradini a scendere. Ma anche la piazzetta antistante la chiesa della Madonna della Vita fu oggetto dell’attenzione di Luigi Caccia Dominioni, per arricchire lo stretto spazio con una forma plastico-cromatica in contrasto col contesto. « E’ prevista una nuova pavimentazione in cubetti di porfido priva di marciapiedi laterali. Una “stuoia lapidea” in granito rosa si allarga dalla Chiesa fino alla scalinata dell’Ospedale della Morte, riproponendo un simbolico collegamento fra le due Confraternite che qui ebbero sede. Una fila di ”bottoni” in granito sono incastonati lungo il bordo granitico che divide la Piazza da Via Clavature. Un “cammeo” ellittico lievemente convesso in marmo verde serpentino funziona come raccordo fra materiali e forme diverse nel punto in cui la “storia lapidea” tocca il limite tra piazza e strada. Una grande “fioriera a cratere”, piantumata a bosso, se assunta fra gli altri elementi del progetto (ma ciò potrebbe anche non avvenire senza che l’idea abbia a esserne soverchiamente indebolita o stravolta), riconfigurerebbe l’orizzontamento della Piazza inclinata sia longitudinalmente che trasversalmente nel disegno…50» Va considerato un progetto poetico che esula dal campo architettonico per entrare in quello dell’espressione minimale del design territoriale o si trattò di una mera esercitazione intellettuale? Il piccolo frammento di arredo urbano restò solo una proposta. Il concorso per un parco nella zona della Manifattura Tabacchi Nel 1983 non appena l’Amministrazione comunale (dopo decenni di estenuanti trattative col Demanio) riuscì ad acquisire l’intera area della Manifattura (oltre 83.000 mq) fu indetto un concorso di idee. Si registrò un’altissima partecipazione, 138 gruppi. Venne prescelto il progetto di Lodovico Quaroni51. Uno degli elementi qualificanti, come si legge nella relazione, era la “Rotonda degli alberi alti, una costruzione: 50 LUIGI CACCIA DOMINIONI, Sistemazione di Piazza della Vita. Un’idea per la definizione di un progetto, in AA.VV. Bologna. Immagine urbana e flussi della città. Istituto Nazionale dell’Arredo Urbano. Roma, 1992. pag 100. 51 Il gruppo di Lodovico Quaroni era composto da Aldo Aymonino. Claudio Baldisserri, Giuseppe Cicognani, Giampiero Cuppini, Claudia De Lorenzi, Stefano Piazzi, Lorenzo Sarti, Luigi Tundo, con i consulenti Gianni Luigi Bragadin, Pier Luigi Malagoli, Ippolito Pizzetti.


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« costituita da uno spesso muro circolare di mattoni aperto sul basso da quindici archi a tre centri, semplici asole verso terra, e rinforzato, fra un arco e l’altro, da uno sperone anch’esso di mattoni che si restringe, con una risega, ad un certo punto. Questa rotonda racchiude un folto gruppo di alberi alti, e rappresenta il fulcro di tutta la composizione. Il suo raggio esterno è 100 metri, e come tale è visibile da ogni punto ed è percorribile in tutte le direzioni…» Anche in questo caso, nonostante l’ampia pubblicità data alla proposta, non si passò alla realizzazione: restano i due volumi del catalogo52 che vanno sfogliati con attenzione per cogliere il dato di fondo, cioè la crisi di progettualità. Pochi, pochissimi gruppi sembrano aver colto il tema di parco che doveva sorgere all’interno della città costruita. Oggi è uno spazio non definito dove una timida sistemazione ha portato al disegno di qualche viale sinuoso con la totale conservazione delle piante esistenti, di quelle piante sorte subito dopo la completa demolizione dei corpi di fabbrica della Manifattura nell’immediato dopoguerra. Più recentemente, al posto del fabbricato silos tabacchi, lesionato ma superstite, è stato ricavato il parcheggio interrato. Ora c’è un progetto che prevede la sostituzione dei volumi del dismesso cinema Embassy (a sua volta un adattamento di una villa ottocentesca) con un Auditorium disegnato da Renzo Piano: sarà ancora una proposta interrotta…? L’area della Manifattura non ebbe mai tregua con diverse vicende costruttive attuate o solo programmate. Già ai primi del’900 si pensò di collegare i capannoni con un ramo ferroviario, ma non se ne fece nulla perché il passaggio dei convogli merci avrebbe interessato una zona abitativa in pieno sviluppo. Nel 1905 il Direttore, ing. Gaetano de Napoli, ridisegnò il fronte su via Riva di Reno che comportò la definitiva scomparsa delle costruzioni del complesso monastico e chiesa di S. Maria Nuova adattate fin dall’epoca napoleonica a opificio. Non bastando più gli spazi lavorativi coll’intensificarsi della produzione, grazie alla nascente meccanizzazione, negli anni 1930-36, venne avanzata la proposta di un cospicuo ampliamento dal lato verso la nuova via Roma (ora Marconi) con un disegno in pretto stile ‘900, con l’angolo smussato Nel 1985, a cura dell’Assessorato alla Progettazione e Attuazione, sono stati pubblicati tutti progetti pervenuti in due volumi col titolo Il Labirinto, un catalogo della mostra degli elaborati che si tenne presso la sede comunale. Nel primo vi sono articoli di presentazione e i 138 progetti, nel secondo sono illustrati i quindici selezionati tra i quali quello vincente del gruppo di Lodovico Quaroni

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con torre, con corpi stereometrici in sostituzione anche della facciata pre-liberty su via riva Reno. Un altro progetto rimasto sulla carta. Le difficoltà connesse all’acquisizione dell’area e le estese demolizioni del periodo bellico portarono poi, nel dopoguerra, alla localizzazione della nuova Manifattura nell’asta di via Stalingrado, fuori città, con la splendida e funzionalissima sede progettata da Luigi Nervi. Ferrovia e stazione L’accenno al ramo ferroviario per la Manifattura Tabacchi porta naturalmente a ricordare i tanti progetti per la modernizzazione e localizzazione della Stazione. Ancora occasioni di esercitazione architettonica e non solo, sino ai più recenti esiti dei diversi concorsi. Già il problema della posizione della stazione ottocentesca era stata oggetto di contrastanti decisioni. Fin dal 1857, quando cioè il ramo ferroviario per Bologna non era ancora completato, un architetto, Fortunato Lodi, aveva proposto una stazione di testa, portata verso il cuore della città dopo aver attraversato tutta la Montagnola53. Doveva occupare il campo delle esercitazioni militari, l’attuale piazza otto Agosto. Il progetto non riscosse gradimento e fu scelta, dopo l’annessione al Regno Sabaudo, una più modesta localizzazione lungo l’asta ferroviaria che lambiva la città, ancora murata, con un disegno dovuto all’architetto parigino Lagout. L’edificio fu poi modificato e ampliato da Gaetano Ratti54, un collaboratore del mitico ingegnere Jean Louis Protche. La stazione realizzata in stile neorinascimentale nel 1875 resistette con poche modifiche interne sino alla seconda guerra mondiale. Alla fine della guerra furono riparati gli ingenti danni dovuti ai reiterati bombardamenti e venne sostituita la struttura in ferro e ghisa del porticato affacciato sulla piazza con altra con colonne di marmo. A rafforzare le idee di ammodernamento e di effettiva razionalizzazione contribuì la reazione al brutale attentato del 2 agosto 1980 che provocò tante vittime e feriti. Il sindaco Renato Zangheri pochi giorni dopo, l’8

53 GIULIANO GRESLERI, Fortunato Lodi e la metafora della stazione “antimeccanica”, in «Architetti Emilia Romagna», Anno 6° n. I, gennaio-febbraio 1995. Pag. 2. 54 G. GRESLERI, Gaetano Ratti: chi era costui?, in «Architetti Emilia Romagna» , Anno 7° n. 6, luglio 1996. pp. 2-3.


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agosto, propose un concorso internazionale di concerto con la Regione Emilia Romagna, della Provincia e del Comune stesso e della Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato «per rilanciare il ruolo e la presenza della stazione e del nodo ferroviario nella città e nel più ampio quadro nazionale». Zangheri auspicava che le idee progettuali e i dibattiti sarebbero stati una risposta significativa al disegno involutivo che aveva ispirato i mandanti ed esecutori della strage. Il bando fu redatto nell’aprile del 1981 da una commissione di cui facevano parte Thomas Maldonado, Pierluigi Cervellati, Bernardo Secchi, Paolo Portoghesi. La giuria scelse sui centodieci presentati cinque progetti ex-aequo per dar luogo ad una gara di secondo grado. I gruppi erano quelli di Sergio Crotti, Osvaldo Piacentini, Gian Ugo Polesello, Marco Porta ed Enzo Zacchiroli. Il progetto Zacchiroli fu il vincitore: si basava su diversi motivi, tutti di meditata razionalità. Un leggero arretramento verso ovest, il mantenimento della stazione esistente pur inglobata in una piastra librata al di sopra del fascio dei binari, pochi elementi monumentali con l’eccezione di una torre a traliccio per l’orologio 55… Un buon progetto che non ebbe alcuna realizzazione: oltre dieci anni dopo si profilò l’esigenza di mettere a punto un progetto aggiornato che nelle grandi linee ricalcò le scelte del gruppo Zacchiroli. La stazione di Ricardo Bofill: motivi e reazioni Il sindaco Walter Vitali56 nel 1994, definite le linee generali del nodo ferroviario, dove nel frattempo era emersa l’esigenza di far passare i quattro binari dell’Alta Velocità a venti metri di profondità, ricorse all’opera di un architetto di grande fama Ricardo Bofill. Il 15 dicembre 1994 Bofill presentò il progetto di una stazione molto complessa per rispondere alle esigenze e richieste. La stazione andava intesa soprattutto, aveva affermato Walter Vitali, come «il punto di interscambio completo dove si incontrano i servizi di tutti i livelli», quando fornì a Bofill, incaricato del progetto, i dati e la «disponibilità ferroviaria, motivata da fattori tecnici ed economici». 55

FABRIZIO BRUNETTI, PAOLO MILANI, Progetto per il concorso di idee per la ristrutturazione del nodo ferroviario bolognese e per la costruzione di una nuova stazione centrale di Bologna 1982-1983, in Enzo Zacchiroli. Bologna … pp. 184189. 56 WALTER VITALI, Al centro della città, in «Il Mosaico», n. 8 (sett-dic 1996). Dossier: Il treno in città.


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Vitali aveva osservato che la stazione: «non poteva essere decentrata o smembrata… né si poteva allungarla o dilatarla pena un interscambio lungo e faticoso, motivo di disaffezione e riduzione del grado di competitività…Inoltre, la massa di passeggeri giornalieri (oltre 150.000) ha suggerito una dotazione di livelli europeo di servizi di viaggi, spazi d’incontro ed esercizi commerciali…». Più avanti aggiungeva: «Bofill ha interpretato l’esigenza di dare al grande spazio funzionale della stazione i connotati di uno spazio urbano con forte carica simbolica. Una piazza coperta, un luogo di passaggio e di incontro attrattivo e stimolante per le migliaia di persone che, grazie all’alto grado di mobilità offerto dal nodo, useranno i treni». Ma Bofill, nei disegni, aveva anche collocato oltre ad un auditorium, due torri per uffici, alte e snelle, verso via Carracci. Quelle torri scatenarono violente reazioni, e si giunse addirittura ad un referendum popolare, indetto nel febbraio 1997, che vide 130.000 votanti con la vittoria (66%) degli oppositori alle torri e contrari al contempo alla demolizione della stazione. Il progetto fu affossato. Più recentemente fu indetto un ulteriore concorso che ha visto vincitore Arata Isozaki, autore di un progetto intenso, una sorta di grande piattaforma forata da numerose prese di luce ancora posta al disopra del livello dei binari con zone di accoglienza, spazi commerciali, mediati da quelli ormai tutti uguali e presenti in ogni parte del mondo nei terminal degli aeroporti… Il traffico e la mobilità Uno dei temi più appassionanti per la città negli anni ’70 e ‘80 è stato quello dei parcheggi e delle soluzioni del traffico: fu interpellato il massimo esperto, Bernard Winkler, ma non si giunse ad alcun risultato apprezzabile e le zone congestionate rimasero tali. Nel 1985 da parte del gruppo consiliare D.C. furono proposti parcheggi sotterranei lungo i viali di circonvallazione, lato sud, con progetti elaborati da un gruppo coordinato dall’ing. Giovanni Salizzoni. E il tunnel sotto la collina che fine ha fatto?


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in alto: Concorso per la nuova stazione di Bologna. Gruppo Zacchiroli. Planimetria generale in basso: Ricardo Bofill. La nuova stazione. Il disegno rappresenta il fabbricato della zona funzionale, atrio e binari. Per consentire la visione dell’intero fronte non è disegnato l’Auditorium in primo piano


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in alto: Ricardo Bofill. La nuova stazione. Vista prospettica da Ovest con il volume dell’auditorium in basso: Arata Isozaki. Concorso per la nuova stazione di Bologna (2008). Particolare del plastico


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Il tanto discusso tunnel avrebbe garantito, secondo i proponenti, lo snellimento del traffico e il più rapido collegamento tra la Croce di Casalecchio e la zona a monte di via Murri, evitando la strettoia dei viali di circonvallazione. Il tema di difficile realizzazione, avrebbe richiesto uno studio attento per le uscite intermedie nelle valli intercettate (Ravone, San Mamolo, Castiglione). Il piano Capellini per l’Università Visto che il Piano Regolatore del 1889 non aveva previsto uno sviluppo per l’Università il Rettore Giovanni Capellini propose un riassetto della zona in prossimità del Palazzo Poggi. Oltre alla localizzazione sull’asta della nuova via Irnerio di alcuni Istituti a partire da Mineralogia in angolo con via Zamboni, (dopo una ventilata ipotesi di sua localizzazione nell’area di Piazza Minghetti, dove poi sorse il Palazzo delle Poste), il Piano Capellini aveva un suo fulcro in una piazza di fronte al Palazzo Poggi. Mentre si trovarono spazi opportuni per gli Istituti di Chimica e Scienze Naturali attraverso estese demolizioni che annullarono il popoloso Borgo San Giacomo, restava da localizzare la Scuola di Ingegneria che era costretta negli spazi del ex convento dei Celestini. Il progetto di localizzazione in un’area alle pendici del colle di San Michele in Bosco di Attilio Muggia fu una proposta che non ebbe seguito, come è documentato in altra parte del volume: bisognò aspettare il bellissimo edificio di Vaccaro per trovare una risposta adeguata alle nuove esigenze. I piani particolareggiati rimasti solo sulla carta Intorno al 1917 Achille Casanova ed Attilio Evangelisti, entrambi impegnati nei progetti del Comitato per Bologna Storica e Artistica, produssero un piano per l’ammodernamento del centro di Bologna, in particolare della zona attorno alla chiesa della Madonna della Vita. Lo scopo era quello di mettere in miglior luce e in più alto valore le bellezze artistiche e monumentali della città unitamente ad una previsione di carattere filantropico-assistenziale per dare lavoro agli operai al loro rientro dalla guerra.


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Pontoni disegnò delle vedute di ambientamento…57 Varie difficoltà, non ultime quelle finanziarie, impedirono la realizzazione. Anni dopo fu Ulisse Giulio Arata che fu interessato al riassetto limitatamente agli isolati compresi tra via Marchesana e De’Toschi. Negli anni 1939-40 fu indetto un Concorso per il Progetto di Massima del Piano Regolatore, un piano che non vide mai la luce per lo scoppio della guerra58. Tra i tanti elaborati sono significativi quelli redatti dal gruppo Della Rocca, Calza Bini, Guidi, Lenti, Sterbini, Zella Milillo (secondi classificati) perché ancora mostrano l’atteggiamento del ridisegno delle zone con ampi sventramenti pur proponendo soluzioni mimetiche, non in contrasto architettonicamente col contesto. La nuova piazza dell’Arcivescovado proponeva la messa in evidenza delle torri Altabella e Coronata poste ad inquadrare un porticato pensato in continuità (in angolo) con l’antico alto portico duecentesco. Simili progetti, dove realizzati, hanno stravolto i tessuti urbani di numerose città… La proposta di “recupero” della zona universitaria di Cervellati Un’altra proposta di modifica sostanziale, in tempi più recenti, fu avanzata da Pierluigi Cervellati a parziale correzione degli effetti provocati dalla realizzazione del tracciato di via Irnerio che di fatto ha separato la zona universitaria di via Zamboni e via Belle Arti dal parco-giardino della Viola59. Partendo da un disegno ottocentesco, che documentava la situazione di stretta connessione tra il borgo San Giacomo e via Zamboni con il verde del giardino della palazzina bentivolesca della Viola, era previsto l’interramento di via Irnerio nel tratto coincidente con le direttrici delle vie della zona più centrale, realizzando una riconquistata continuità. I bagni pubblici La presenza di Bagni pubblici lungo la riva del Canale di Reno risale al G. GRESLERI, Il piano perduto di Achille Casanova, in «Architetti Emilia Romagna», Anno 6° n. 6, luglio-agosto 1994. pag. 2. 58 ARMANDO MELIS, Concorso per il progetto di massima del Piano Regolatore della città di Bologna. Relazione della Commissione giudicatrice, in «Urbanistica», n. 1. Gennaio-febbraio 1940-XVIII 59 PIERLUIGI CERVELLATI, CESARE MARI, L’Università di Bologna da ieri a domani, in AA.VV., Lo Studio e la città. Bologna 1888-1988, Nuova Alfa Editoriale, 1987. pp. 263-273 57


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1804, come appare nelle note di Guidicini nel suo diario60: «Li 12 giugno il cittadino Giuseppe Bergonzoni, chirurgo Bolognese ha istituito in un suo locale al ponte della Carità uno stabilimento di bagni e docciature. Per quattro anni vi saranno ammessi gratis dodici poveri d’ambo sessi. Si deve lode al Bergonzoni per tale utile stabilimento, di cui questa città mancava affatto». Diversi furono i progetti di miglioramento dello stabilimento ma veramente grandioso fu quello proposto dal Conte Ottavio Tubertini nel 1861 come appare nell’opuscolo descrittivo: «Progetto per un grandioso stabilimento in Bologna di bagni chiusi, e ad acqua corrente, scuola di nuoto, lavanderia a vapore, e tiro al bersaglio, con adiacenze per feste, e giuochi pubblici suscettibile anche di una Cavallerizza, e sale per Ginnastica da istituirsi in luogo detto - La Grada - con uso della corrente del canale di Reno». Vista la complessità dei luoghi e delle attrezzature rimase sulla carta. Il tema delle schede progettuali Le schede progettuali compilate a più mani nel periodo degli studi preliminari per la formulazione della variante di piano del 1985-89 sono un esempio che va ricordato. Il pool di consulenti chiamati ad avanzare e precisare le linee culturali della nuova pianificazione (Giuseppe Campos Venuti, Ferdinando Clemente, Paolo Portoghesi) si trovarono a dover discutere alcune proposte espresse come anticipazioni grafiche dei temi progettuali connessi alle zone di espansione e/o riqualificazione. Una sorta di anticipazione di come sarebbero state concretizzate le previsioni di piano. All’interno degli uffici comunali furono redatte delle esemplificazioni per alcune zone, presentate in un album con tavole nel luglio del 1984. Le schede provocarono immediate reazioni da parte degli architetti e ingegneri. La cosa spiacque a tal punto che vi fu un rifiuto totale a quella che apparve una coercizione sia sul piano delle tipologie suggerite sia sul piani compositivo e del linguaggio adottato. Gli esperti e responsabili della variante di piano esclusero poi dagli elaborati ufficiali le vedute esemplificative e più classicamente per ogni zona fu introdotto il più normale sistema di indici di fabbricabilità, a prescindere da un disegno di riferimento.

60 GIUSEPPE GUIDICINI, Diario Bolognese, Bologna, 1886. Redizione anastatica di Arnaldo Forni Editore, 1976. e ANNA MARIA CAPOFERRO CENCETTI, Bologna: Via San Felice-Via della Grada. Dai Bagni della Carità ai Bagni del Reno. in «Il Carrobbio» XXXII, 2007. pp. 137-172


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La fantasia e la carica compositiva espresse nelle schede, redatte prevalentemente a cura di Paolo Nannelli e Paolo Capponcelli sono rimaste nelle immagini pubblicate in parte a cura di Roberto Scannavini61: sono disegni interessanti, elaborati studi tipologici a volte un po’ inquietanti, ma che rappresentano una interessante collezione di temi. Il progetto dell’Asse di Via Stalingrado Una sorta di esito, di diretta conseguenza di quelle esercitazioni può essere considerata la partecipazione alla iniziativa Le città immaginate. Un viaggio in Italia: nove progetti per nove città, in occasione della XVII Triennale di Milano, del gruppo composto da Giancarlo Mattioli e Paolo Nannelli e Paolo Capponcelli per l’elaborazione di un pezzo di città, l’Asse di Via Stalingrado62. Come tutte le proposte di quegli anni la scala di intervento è molto estesa ma qui si ritrova l’idea del portico o percorso comunque pedonale come spina di collegamento continuo. Il gruppo propose un disegno avanzato che, partendo dalle previsioni del PRG ’85, doveva coinvolgere l’intero quadrante nord della città anche oltre i limiti di piano. Le linee del progetto furono di completare il disegno dell’antico piano del 1889 che ha caratterizzato l’impianto dell’intera zona e di stabilire un nuovo assetto del sistema ferroviario spostando la stazione passante all’estremità nord di via Stalingrado: si sarebbero così potute utilizzare le aree ad est del ponte di Galliera eliminando la frattura tra centro storico e periferia. A queste condizioni specifici interventi interstiziali e/o con il rinnovo dell’edilizia esistente avrebbero contribuito a ridefinire la fascia a ridosso del centro storico, con lo spostamento dell’Autostazione e il recupero della visuale delle mura e delle porte. Le idee progettuali si articolavano poi in diversi nuovi assetti: un grande asse viario di milleottocento metri, con separazione tra traffico pedonale e meccanizzato, con percorsi pedonali sopraelevati entro grandi gallerie vetrate superiormente. Il tutto corredato da splendidi disegni.

61 ROBERTO SCANNAVINI, Bologna. Una città per gli anni ‘90. Marsilio Editore. Padova, 1985. 62 R. SCANNAVINI, “Abitare Bologna. La qualità ricercata. Marsilio Editore. Padova, 1987.pag 165-170.


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in alto: Il Piano Capellini per la zona universitaria

in basso: Piano Capellini per la zona universitaria. La nuova piazza antistante Palazzo Poggi


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Achille Casanova: interventi di riassetto attorno alla chiesa della Madonna della Vita. Vista prospettica della loggia a fianco della chiesa

in basso: Elaborati del secondo classificato per il concorso di idee del nuovo piano regolatore di Bologna (1939 – 40). Nuova piazza nei pressi dell’Arcivescovado. Vista prospettica: la piazza proposta presupponeva l’abbattimento di ampie porzioni del tessuto costruito tra via Altabella e via del Monte, secondo i canoni tipici della operazione piÚ frequente in quel periodo: lo sventramento


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Altre cose… sventate Di come si siano maturate le convinzioni circa l’esigenza di conservare gli aspetti monumentali della città vanno ricordate le polemiche suscitate alla metà degli anni ’60 dall’intenzione di abbattere la chiesa di San Giorgio con il pretesto della sua precaria situazione statica dovuta dai gravi danni subiti dai bombardamenti. Interessava l’area per uno sfruttamento commerciale… Per cercare di tacitare le proteste ci fu anche una proposta, incredibile, di smontare la facciata di Martelli per rimontarla sul fronte incompleto della chiesa della Visitazione in via Lame. Un trapianto. Fu uno dei primi casi di sollevazione in favore della conservazione… Il tema dei Centri Direzionali Carlo Aymonino nel 1967 presentò in un volume illustrante i centri direzionali63 un Progetto di massima per un sistema direzionale nella città di Bologna, dopo aver riportato diversi esempi e un’analisi della situazione. E’ una proposta inquietante per la scala dell’intervento: di fatto si presuppone il ridisegno di tutta la zona nord ovest. Pensiamo … che tale tipo di intervento (centro direzionale nord + centro funzionale ovest non possa trovare piena validità espressiva e funzionale se viene semplicemente “collocato” nei ritagli della casuale città moderna. La validità può essere trovata appieno se i due centri vengono interpretati come parti di un sistema architettonico integrato che, con i necessari rapporti con la città storica, con le infrastrutture e con il paesaggio, formi nel suo insieme la città contemporanea, riconoscibile sia nelle sue parti che nel suo insieme …. L’architettura che deve loro corrispondere non può che essere alla scala delle nuove infrastrutture, cioè un’architettura complessa nelle sue varie parti; ma semplice e identificabile nel suo disegno d’insieme, che ha un inizio e una fine. Tale disegno può oggi apparire utopistico …Utopistico ma possibile: riteniamo infatti che il progetto non sia “al di fuori” di una dimensione architettonica, cioè di quella dimensione controllabile mediante un’invenzione e una progettazione unitarie, sia pure di larga massima. Il piano di Kenzo Tange presentato il 27 febbraio 1970 al Consiglio

63 CARLO AIMONINO E PIERLUIGI GIORDANI, I centri direzionali. La teoria e la pratica. Gli esempi italiani e stranieri. Il sistema direzionale della città di Bologna. De Donato editore,Bari, 1967. Capitolo settimo: Progetto di massima per un sistema direzionale della città di Bologna. pp. 125 – 137.


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Comunale per il decentramento delle attività direzionali, Bologna 1984, è altrettanto fuori scala… Il progetto aveva come titolo: Proposte ed ipotesi di studio per le nuove quote di sviluppo a Nord e di Piano Particolareggiato del polo corrispondente al quartiere fieristico. Tange nella presentazione fece l’elogio della partecipazione dei cittadini attraverso i Quartieri e soprattutto trovò parole di alto apprezzamento per le politiche conservative per il centro storico. Rilevato poi che la città a nord aveva due barriere invalicabili illustrò il tema cardine del suo progetto: Per superare queste barriere abbiamo proposto una struttura sopraelevata che abbiamo chiamato CIRCUS …direttamente collegata alla tangenziale in tre punti, sarà in grado di permettere un facile accesso alla tangenziale, al nuovo centro affari e, inoltre, permetterà una scorrevole accessibilità per i veicoli separati dai percorsi pedonali previsti nell’ambito dello sviluppo… Il disegno prevedeva una vasta espansione in forma di U che, scavalcando le ferrovia e il nastro della tangenziale invadeva la zona nord… Giuseppe Campos Venuti ricorda64: …nel 1967 sulla scena bolognese irruppe improvvisamente Kenzo Tange, l’architetto giapponese allora non ancora ben conosciuto in Europa: a lui l’arcivescovo di Bologna Lercaro aveva appena affidato la cura del centro religioso della zona direzionale. Al nuovo sindaco comunista Fanti si prospettò allora l’idea di stabilire un particolare rapporto con l’arcivescovo – al quale poi avrebbe conferito la cittadinanza onoraria della città – attraverso un incarico a Tange dell’intera direzionalità bolognese… Tange si impegnò a fondo e riuscì a far approvare un progetto di massima della nuova direzionalità, che si sovrapponeva pesantemente al nuovo PRG, ormai quasi ultimato65. Poi aggiunge: Credo di essere stato l’unico che allora abbia manifestato una forte contrarietà per una operazione che,nata da fattori esogeni, minacciava di far saltare l’intera faticosa costruzione della nuova urbanistica bolognese. E ancor oggi sono, invece, pieno di ammirazione per l’abilità con cui Sarti, l’assessore all’Urbanistica che mi aveva sostituito, pur senza opporsi formalmente al progetto… riuscì a ridurne il dimensionamento a proporzioni ragionevoli; GIUSEPPE CAMPOS VENUTI, Un bolognese con accento trasteverino: autobiografia di un urbanista. Edizioni Pendragon. Bologna, 2011. 65 Campos Venuti fa rilevare che Tange partiva: «…da un’ipotesi di crescita demografica che quasi riproponeva per Bologna il milione di abitanti del vecchio piano, faticosamente cancellato». 64


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facendo poi approvare nel 1970 il nuovo PRG, nel quale le previsioni direzionali – da lui ribattezzate “nuove quote di sviluppo urbano” – non erano esplicitate, né quantificate. Di tutto il grande progetto fu poi realizzata solo una piccola porzione, il Fiera District che risolse solo in parte le funzioni del terziario decentrato: le tipologie a torre costruite si rivelarono adatte solo per ad enti pubblici o privati di grandi dimensioni e non per studi professionali… Le chiese mancate di Le Corbusier e di Kenzo Tange Bologna non ha visto realizzati due progetti che lo stesso Cardinale Lercaro avrebbe voluto fortemente. L’interessante carteggio tra Le Corbusier e il Centro di Studio e Informazione per l’Architettura Sacra fondato da Lercaro dimostra le difficoltà dovute a diversi fattori. Per la chiesa di Le Corbusier la situazione fu molto complessa: per un certo momento si pensò addirittura di trasferire il progetto pensato per la chiesa parrocchiale di St. Pierre di Firminy e la cosa non parve inattuabile … visto che il Vescovo di Lione nel 1963 aveva rifiutato l’opera. Nel marzo del 1965 Le Corbusier volle che gli fosse inviato materiale per meglio conoscere la situazione dei luoghi dove dovrà sorgere la chiesa. Poi nell’estate l’architetto tragicamente scomparve in mare e tutto si arrestò66. Ma dieci anni dopo a Firminy si iniziò a costruire... Del progetto restano alcuni disegni e la foto di un plastico. Per Kenzo Tange il discorso è diverso: effettivamente nello stralcio progettuale e nel plastico relativo figura al centro di un insieme di alti palazzi un corpo parallelepipedo sostenuto da un pilastro centrale, il centro ecumenico raggiungibile solo con passerelle pedonali. Giancarlo Mattioli in proposito osserva: Un polo di attività significativo nel contesto insediativo. Esso comunica con gli edifici circostanti mediante quattro lunghi flussi pedonali, nord, est, sud, ovest, lanciati a ponte nel vuoto. Le attività del polo dipendono,sono sorrette, materialmente e simbolicamente, dalla comunicazione che viaggia con i flussi. Fin qui è tutto immateriale. Ma, i flussi assumono valore spaziale, nel linguaggio di Tange, materializzandosi in passerelle, che oltre a svolgerla comunicano GIOVANNI DENTI, ANDREA SAVIO, GIANNI CALZÀ, Le Corbusier in Italia, Maggioli editore, 2007. pp 80-83. GLAUCO GRESLERI, Le Corbusier a Firminy, in « Parametro» , n. 27 giugno 1974. pp 16-32

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simbolicamente, la loro funzione, mediante la loro stessa immagine. Infine le passerelle, ed è qui l’iperbole metaforica, si trasformano, con la loro sezione a C, in strutture che sorreggono materialmente (staticamente e architettonicamente) la sede sospesa delle attività67. Una curiosa concezione che mostra una intenzionalità molto distante da una facile fruibilità: naturalmente restò solo il dettaglio nel plastico e nei disegni. Il progetto Podrecca per via Indipendenza Nel 1990 il Comune conferì l’incarico all’architetto Boris Podrecca di stilare un progetto per una sistemazione ed arredo della storica via Indipendenza, con la collaborazione di Mirna Drabeni, alla luce di attenti studi storici di un’équipe coordinata da Giuliano Gresleri e sulla scorta di rilievi accuratissimi68. Presentando poi gli elaborati Podrecca precisò: «La stesura finale è stata preceduta dalla realizzazione di una variante “ideale” della texture urbana che sviluppa un iter gestaltico della pavimentazione e riflette ritmi e gerarchie degli edificio che si affacciano su via Indipendenza, proiettandone la lettura sulla strada che diviene così un altro prospetto». Trattandosi di una soluzione molto elaborata e costosa a Podrecca fu richiesta una diversa soluzione, più contenuta. La proposta riduttiva prevedeva «il mantenimento della pavimentazione esistente, accentuata nell’asse stradale però dall’inserimento di una fascia metallica (una striscia di bronzo posta al centro) lungo tutta la via sulla quale viene iscritta con caratteri in rilievo la storia del luogo. Questa fascia si solleverà fisicamente facendo nascere dal pavimento uno stelo verticale atto a sostenere un corpo illuminante che marcherà gli incroci stradali più importanti…». E per concludere… lo strano caso Passeri Una particolare proposta per il Santuario della Madonna di San Luca fu avanzata da Giovanni Battista Passeri, un Uditore di Rota, poco oltre la GIANCARLO MATTIOLI, Una valutazione soggettiva sull’operazione Tange, in Kenzo Tange e l’utopia di Bologna. Bologna Nord , Centro Ecumenico, Fiera District a cura di Giuliano Gresleri e Glauco Gresleri . Atti del Convegno in occasione del 40° anniversario della consegna del piano per Bologna Nord. Oratorio di San Filippo Neri. Bologna, 22 ottobre 2010. pag.174. L’articolo termina con una amara constatazione: « Certo, anche con il caso Tange, per ragioni varie, soggettive e oggettive, Bologna ha perso una grande opportunità urbanistica: quella di far crescere la propria periferia in una città d’autore». 68 BORIS PODRECCA, MIRNA DRABENI, Via dell’indipendenza a Bologna. Studio per la sistemazione e la riqualificazione degli spazi pubblici, in AA.VV. Bologna. Immagine urbana e flussi della città. Istituto Nazionale dell’Arredo Urbano. Roma, 1992. pp. 82-89. 67


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a destra: Giovanni Battista Martinetti. Pianta generale dei Reali Stabilimenti della Bottanica, dell’Agraria, della Chimica. (1800 circa). Tratto da: Lo Studio e la città. op. cit. pag. 265

in basso: Progetto preliminare PRG’84. Organigramma funzionale e distributivo del sistema interstiziale (mercato ortofrutticolo). Esemplificazione progettuale e schizzi e spunti architettonici. Tratto da R. SCANNAVINI, Bologna, una città… op. cit pag.119


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Gruppo Paolo Capponcelli, Giancarlo Mattioli, Paolo Nannelli. Il “Disegno avanzato”: nuova proposta per la Stalingrado – Fiera


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metà del Settecento69. Al tempo era ancora in costruzione lo snodo tra il portico e la chiesa secondo la soluzione geniale di Carlo Francesco Dotti. L’arrivo laterale e sghembo del ripido portico rispetto alla chiesa esigeva un raccordo per collegare il pronao e Dotti aveva risolto il tema in modo elegante, con l’impiego di una figura geometrica raramente utilizzata in architettura, il pentagono. Dopo aver impostato le ampie curve del colonnato sul fronte, Dotti per completare il disegno ricorse alla simmetria e trovò una logica collocazione, all’interno della medesima figura, al lato opposto, per la scala circolare che consentiva di scendere al livello della base del santuario. Un trionfo del barocco che nella molteplicità delle percezioni spaziali trovava la sua più alta espressione. Passeri colto, con molteplici interessi, si cimentò nel redigere un progetto per migliorare l’accessibilità del Santuario70. Il suo gusto per la composizione e la disposizione lo portò a formulare un assetto alternativo che forse i contemporanei non ebbero la possibilità di valutare in modo completo visto che le migliorie restarono per sempre all’interno di un fascicolo di disegni, ora conservato nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro71. Per Passeri, educato alla classicità e alla figuratività pacata degli elementi architettonici impiegati secondo i precisi canoni dei trattatisti, l’inseguirsi di curve e spigoli del disegno di Dotti appariva bizzarro: bisognava ritrovare assi rettilinei, stabilire precise visuali con la città, e soprattutto, in via molto teorica, trovare un collegamento diretto, senza particolari contorcimenti…: L’insigne Basilica… opera magnifica e dispendiosissima ha però due gran difetti. Il primo, che contro ogni Legge di congruenza in vece di rivolgere la Giovanni Battista Passeri , nacque a Farnese il 10 novembre 1694 dove il padre, medico, esercitava la professione. Ancora ragazzo, ad Orvieto compì le prime osservazioni sui fossili presenti nelle campagne. Giunto a Roma si interessò ad altri campi di conoscenza, l’antiquaria, l’architettura. Fu anche discepolo per breve tempo di Filippo Juvara e pur dilettante pubblicò, nel 1772, una breve dissertazione: I discorsi della ragione architettonica. Laureatosi in giurisprudenza a Perugia nel 1716, svolse la sua attività tutta nel campo del diritto e della pubblica amministrazione sia da laico che da membro del clero (nel 1741 alla morte della moglie Margherita Giovannelli, aveva preso gli ordini sacri). Morì a Pesaro, nel 1780, per una rovinosa caduta in un burrone. 70 ALESSANDRO GAMBUTI, Per un’architettura secondo ragione: disegni e testi di Giambattista Passeri (1694-1780), in Architettura e Prospettiva tra inediti e rari, Dipartimento di Storia dell’Architettura e Restauro delle Strutture Architettoniche della Facoltà di Architettura di Firenze. 1987. 71 La biblioteca, voluta da Annibale degli Abati Olivieri Giordani (1708-1799), è attualmente ospitata presso il seicentesco Palazzo Almerici. Conserva oltre 300.000 volumi, 1000 cinquecentine e 2040 manoscritti e il rarissimo mappamondo di Pesaro del XVI secolo. 69


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faccia e l’ingresso alla sua Città, le volge le spalle, ed ha l’aspetto primario verso Modena… L’altro difetto è, che la direzione del diametro maggiore di questa Basilica sebben rivolto alla Città colla linea A. B. C. D. H. passa sopra della città verso S. Michele in Bosco, talmente che a tirare una linea retta dalla porta di Saragozza alla nuova porta del Santuario, per aprirvi uno stradone diritto, il che potrebbe farsi rialzando con terrapieni, o con archi la valletta del Meloncello, ad ogni modo questa linea retta, che bellissima cosa sarebbe, pure anderebbe a trovare in obliquo la porta della Basilica, onde il prospetto principale di questa grand’opera verrebbe a restare in falso. In que due anni, ne quali io colà dimorai Uditor di camera di quel Legato, portandomi molto spesso a quel sacro luogo, consideravo come si fosse potuto fare per costruirvi un prospetto proporzionato alla dignità di quel sacro edificio, e che nascondesse il difetto di questa declinazione cosicché questo nuovo prospetto formasse giustamente il punto della veduta in faccia alla porta Saragozza colla linea D. E. Pertanto formate due ale di portici F. I. , K. G. piantavo nel mezzo un Panteo con due ale di colonne, che servisse di vestibolo all’ingresso della Basilica B. Per nasconder poi il falso di questo ingresso, che verebbe a rimanere in fianco di questa nuova linea di direzione, io vorrei che dalle due ale de portici si salisse dentro il vestibolo per due scale cavate frà mezzo ai due giri di colonne, una più curta, e senza ripiani framezzo, l’altra più lunga, e con molti ripiani frà scalini, sebbene ambedue dell’istessa altezza, e queste scale venissero a metter capo in L appunto in faccia all’ingresso, servendo così all’antica direzione del diametro della Chiesa, tantoche chiunque ascendesse nel vestibolo o per l’una, o per l’altra scala si ritrovasse appunto in faccia all’ingresso. L’uniformità della figura del vestibolo piantato sopra di un giro di semplici colonne, non lascerebbe distinguere qual sia il vero punto della linea diretta alla porta della Città, bastando all’occhio che l’ingresso dentro il vestibolo sia appunto in faccia alla porta del Santuario, né senza un esame della diversa lunghezza delle scale si verebbe in cognizione dell’ingegnoso inganno usato per ripiego da ricoprire il difetto del sito. Nel punto M, che sta nel mezzo della gran piazza tre scalini sotto al piano del vestibolo vi sarebbe un comodo ripiano per quindi benedire colla Sacra Immagine il popolo in occasione di solennità. Una soluzione quindi non solo formale ma anche funzionale visto che accenna alla possibilità di avere un ripiano per benedire i fedeli dall’alto, cosa che effettivamente manca nella realizzazione del portico di Dotti antistante la chiesa. La biblioteca, voluta da Annibale degli Abati Olivieri Giordani (1708-1799), è attualmente ospitata presso il seicentesco Palazzo Almerici. Conserva oltre 300.000 volumi, 1000 cinquecentine e 2040 manoscritti e il rarissimo mappamondo di Pesaro del XVI secolo. 71


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1. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 10732/1925, Attilio Muggia, Progetto di trasformazione del Convento dell’Annunziata in Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Piano terra, scala 1:100, 1925.


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La Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri a Porta San Mamolo M. Beatrice Bettazzi

L’obiettivo che ci poniamo nella redazione di queste note è di illustrare l’importanza del progetto di Attilio Muggia per la trasformazione della chiesa e del convento dell’Annunziata in Scuola per gli Ingegneri. Nella lunga e accidentata ricerca di una sede adeguata, tale soluzione, poco conosciuta (come del resto anche le altre), si rivela un nodo fondamentale, prima vera riflessione sistematica che evidenzia diversi ordini di problemi. Se è senza dubbio centrale il tema del recupero e del riuso di edifici storici per fini diversi da quelli per cui sono stati costruiti2, in questa sede dedicheremo particolare attenzione alla sfera delle forme e delle funzioni, nello specifico caso, in dialogo con preesistenze, senza comunque tralasciare il travaso importante di idee e di acquisizioni che confluiranno nel progetto della nuova costruzione. Per le vicende della sede si veda il mio Tra Attilio Muggia, Remigio Mirri e Giuseppe Vaccaro: dal progetto per la Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri alla Facoltà di Ingegneria, in Giuseppe Vaccaro. Architetture per Bologna, a cura di M. Casciato e G. Gresleri, Bologna, Editrice Compositori, 2006, pp. 47-70. Brevemente: Nel 1875 un Regio Decreto dichiara cessato il Corso pratico per gli Ingegneri e, al contempo, istituisce il primo anno della Scuola di Applicazione per gli Ingegneri e gli Architetti. Nel 1876 un altro Regio Decreto stabilisce l’iter in cinque anni: due da seguire presso la Facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali e almeno tre di discipline ingegneristiche e architettoniche. A Bologna viene istituito un Consorzio fra Comune, Provincia e altri enti per fare fronte agli oneri dell’operazione, fra cui rientra la ricerca e la messa in funzione di una sede consona. Nel gennaio 1877 il Direttore della Scuola, Cesare Razzaboni, fa un sopralluogo ai locali del convento di S. Lucia in via Castiglione, ma gli spazi non sono adeguati e di lì a poco si prende in considerazione il convento dei Celestini dove, fatti i necessari lavori, le lezioni cominceranno nel novembre dello stesso anno. L’Archivio comunale e la Caserma delle guardie di pubblica sicurezza, ospitate in quel sito, sono costretti a trovarsi una nuova casa. Già nel 1908 i locali del convento dei Celestini sono al limite della capienza e l’ingegnere Attilio Muggia, incaricato di trovare soluzioni, suggerisce l’acquisto di proprietà contigue. Vengono prese in considerazioni varie alternative fino al 1914, quando il conflitto mondiale blocca ogni azione. 2 Per un inquadramento su questo tema si veda Nuove funzionalità per la città ottocentesca. Il riuso degli edifici ecclesiastici dopo l’Unità, a cura di A. Varni, Bologna, Bononia University Press, 2004. 1


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2. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 10732/1925, Attilio Muggia, Progetto di trasformazione del Convento dell’Annunziata in Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Piano primo, scala 1:100, 1925.


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3. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 10732/1925, Attilio Muggia, Progetto di trasformazione del Convento dell’Annunziata in Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Piano secondo, scala 1:100, 1925.


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Nella relazione presentata alla Società degli Ingegneri in data 20 gennaio 1920, Attilio Muggia spiega con estrema chiarezza la situazione. La sede della Scuola, ospitata nel convento dei Celestini non è più adeguata: “Lo sviluppo industriale ed edilizio che indubbiamente avrà il nostro Paese, e la nostra Regione specialmente, dopo superato il periodo di difficile assestamento attuale, richiamerà molti giovani agli studi di Ingegneria, sicché non è certo una previsione esagerata quella che la Scuola d’Applicazione possa raggiungere complessivamente mille allievi, tanto più se si pone mente che oggigiorno gli iscritti sono circa ottocento3”. Quindi anche gli sforzi tentati per addivenire, con grandi difficoltà e costi, ad un ampliamento delle metrature attuali sono di fatto inutili, poiché non sarebbero sufficienti nemmeno a fare fronte ai bisogni del momento. Sembra dunque più opportuno pensare ad una sede alternativa, tanto più che si potrebbero vendere quegli spazi all’Amministrazione Provinciale che, per i propri uffici, ha appena rinunciato a costruire un edificio ex novo. Anche per gli Ingegneri, d’altronde, sarebbe eccessivamente oneroso costruire dal nulla uno stabile apposito, magari nella zona universitaria. Si cercano soluzioni alternative, più economiche. In quegli stessi anni, siamo nel primo dopoguerra, ci si comincia a rendere conto che una delle zone più belle, salubri ed amene della città è stabilmente occupata da un amplissimo complesso di edifici a scopo militare che comprende l’Arsenale, la Direzione di Artiglieria, il Pirotecnico e la Caserma per un totale di 180.000 metri quadrati, esposti a sud, ai piedi dell’Acropoli bolognese4 di S. Michele in Bosco e a ridosso del centro storico. Mentre Muggia scrive, l’Arsenale e una parte della caserma occupano l’antico Chiostro e la Chiesa della SS. Annunziata, oltre che altre costruzioni limitrofe fra cui alcuni edifici rinascimentali; il resto delle funzioni militari è invece ospitato in fabbricati di servizio di recente costruzione. La proposta che Muggia espone prevede di utilizzare l’edilizia storica per la sede della Scuola degli Ingegneri, mentre le costruzioni più nuove potrebbero ospitare la neonata Scuola di Chimica 3 A. Muggia, Relazione sui provvedimenti per l’ampliamento, o per una nuova Sede, della Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna, [22 gennaio 1920], in Atti della Società degli Ingegneri di Bologna. Fascicolo unico, Bologna, Tipografia Mareggiani, 1921, p. 57. 4 Devo questa definizione a Giuliano Gresleri.


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Industriale, patrocinata dallo stesso Muggia, per un totale di circa 30-40.000 metri quadrati (a seconda che si includano o meno edifici minori destinati ad accogliere una nuova branca dell’Ingegneria, quella Industriale). Tutto il restante terreno, secondo l’ingegnere bolognese, vedrebbe la realizzazione di un “ameno quartiere, da lungo tempo desiderato dalla cittadinanza” e composto di abitazioni per il ceto medio e villini con giardino. A questo punto vi sarebbe da curare il passaggio di proprietà dal Governo al consorzio fra Provincia, Comune e Università per la cessione dell’area fra Porta Castiglione e Porta S. Mamolo e, al contempo, la vendita del complesso dei Celestini all’Amministrazione Provinciale. Possiamo già anticipare che, al di là di tale tortuoso iter burocratico, il vero problema risiede nella difficoltà di traslocare le funzioni militari ospitate nel sito pedecollinare, difficoltà che diventeranno insormontabili obbligando le parti in causa a trovare soluzioni alternative. In realtà, il progetto di Muggia per la sede dell’Annunziata era stato da subito studiato in tutti i dettagli anche perché l’estensione degli spazi permetteva, fra le altre cose, di riunire il triennio della Scuola di Applicazione col biennio propedeutico che, ancora, si divideva fra diversi istituti scientifici e il Gabinetto di Disegno ospitato in Largo Trombetti. Dunque si prevedeva che il corpo della chiesa sfruttabile per la sua ingente altezza potesse essere diviso in due livelli che prevedevano, al piano terra, un museo o un laboratorio per l’insegnamento delle macchine o delle costruzioni, al piano superiore, invece, la biblioteca. L’andamento a semicerchio dell’abside, poi, si prestava opportunamente per la funzione di Aula Magna. Nei locali del convento al primo piano, in ottime condizioni statiche, si potevano, al bisogno, aprire finestre per aumentare la quantità di luce in quelle che sarebbero diventate aule, mentre gli ambienti più piccoli erano destinati ad aumentare la loro metratura grazie all’abbattimento di tramezzi, in modo alternato per non compromettere le strutture. Veniva così garantita la dotazione standard Ho approfondito questi aspetti in M. B. Bettazzi, “Primitivismo toscano” a Bologna in absentia. (Medioevismo primitivo, Eclettismo e Novecentismo a Bologna fra Otto e Novecento), in «Bollettino della Società di Studi Fiorentini» nn. 20/2011-21/2012: Firenze Primitivismo e Italianità. Problemi di stile nazionale tra Italia e Oltremare (1861-1961), da Giuseppe Poggi e Cesare Spighi alla Mostra di F.L.Wright, a cura di F. Canali e V. Galati, Firenze, Emmebi Edizioni, 2012, pp. 230-234.

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4. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 10732/1925, Attilio Muggia, Progetto di trasformazione del Convento dell’Annunziata in Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Sezione, scala 1:100, 1925.

5. Archivio Privato, Attilio Muggia, Progetto di trasformazione del Convento dell’Annunziata in Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, Dettaglio del corpo centrale, scala 1:25, [1925].


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6. Archivio Storico del Comune di Bologna, Carteggio Amministrativo, Tit. XIV, rub. 1, 1924, Attilio Muggia, Regia Scuola di Ingegneria e di Chimica Industriale in Bologna, Progetto previsto per la zona di piazza XX Settembre, Planimetria generale, scala 1:500, 1926.

7. Archivio Storico del Comune di Bologna, Carteggio Amministrativo, Tit. XIV, rub. 1, 1924, Attilio Muggia, Regia Scuola di Ingegneria e di Chimica Industriale in Bologna, Prospetto sulla piazza XX Settembre, scala 1:500, 1926.


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sia di aule, come di uffici e laboratori a servizio delle varie cattedre. Un’attenzione particolare di Muggia è dedicata alle aule per il disegno che egli intende, con un intervento radicale, costruire ex novo “demolendo gli impalcati in legno che coprono le attuali camerate, o dormitori, mentre potrebbero utilizzarsi i muri esterni esistenti e il tetto”. Egli pensa proprio a tutto: il campanile, sfruttando la sua altezza, diventa l’ideale per le operazioni geodetiche e per le osservazioni metereologiche; persino il torrente Aposa, che si trova a traversare la zona a est, viene ‘cooptato’ per la didattica, in questo caso, di materie idrauliche. Nonostante la precisione nelle questioni tecniche e logistiche, leggiamo in Muggia una certa attenzione anche all’estetica del luogo: “il ristauro e il ripristino delle parti artistiche originarie, ed i partiti architettonici di stilistica affine da adottarsi nelle parti che sono rustiche od in quelle da costruirsi ex novo, le piantagioni di alberi e di aiuole erbose, da disporsi nei cortili e negli spiazzi liberi di contorno, contribuirebbero a dare un aspetto assai decoroso e pittoresco agli edifici, cui si aggiungerebbe la bellezza del panorama di S. Michele in Bosco”. Quanto al linguaggio utilizzato, non vi sono grandi sorprese considerando che l’autore della proposta Attilio Muggia, come i suoi omologhi e coevi ingegneri architetti, è un fervente sostenitore del partito degli stili storici fra cui predilige il neo-Rinascimento in quanto stile al massimo grado adeguato ad interpretare le istanze dell’architettura a lui contemporanea. Egli è consapevole di vivere in un periodo di cerniera in cui si va a tentoni alla ricerca di un linguaggio adeguato alle nuove tecniche e ai nuovi materiali. Nel 1892 scriveva: “Nel tempo nostro la scienza e l’industria hanno gettato le basi sulle quali l’arte può stabilire delle nuove creazioni… ma occorre un periodo di tempo abbastanza notevole perché queste nuove forme estetiche si elaborino, si provino, si trasformino, si migliorino e siano poi debitamente apprezzate dalla generalità… anche nell’applicazione del metallo alle costruzioni, nell’associazione di esso con le pietre si va a


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tentoni, si prova, si sperimenta; ma non si è ancora trovata la buona via per il raggiungimento del bello. Non è più la scienza costruttiva, non è più l’industria che fanno tentativi nuovi… esse hanno già tracciato il loro cammino, conoscono già la loro meta; ma è l’arte che la cerca, che, sollecitata da una trasformazione così potente di mezzi, si trova smarrita, è l’arte che deve adoprarsi per raggiungere il suo ideale, la nuova forma ornamentale, la nuova estetica corrispondente al progresso scientifico e industriale”6. L’anno dopo, Victor Horta firma l’Hotel Tassel, manifesto dell’Art Nouveau. Ma sono anche gli anni dei primi brevetti Hennebique per l’utilizzo del conglomerato cementizio armato e Muggia fiuta che lì sta il futuro della costruzione e, da imprenditore, si getta nell’agone, acquisendo il brevetto per Emilia Romagna, Toscana e Marche. Se poi, spostandoci più avanti nel tempo, andiamo a leggere gli scritti per la didattica del periodo attorno al progetto dell’Annunziata, quando a Weimar è appena partita l’esperienza del Bauhaus e, di lì a poco, nel 1923, uscirà in Francia Vers une Architecture di Le Corbusier, Muggia, docente ultrasessantenne, pur comprendendo le infinite potenzialità di questo nuovo materiale, non riesce a sintetizzare forme in grado di valorizzarlo, delegando alla ricerca paziente degli artisti il raggiungimento di un sì alto ardimento7. Per quanto concerne lui, l’ultimo suo scritto teorico, la Storia dell’Architettura, uscita in prima edizione nel 1933, non conterrà ancora una risposta adeguata ai tempi moderni, le cui architetture sono da lui criticate spesso anche aspramente. Fedele alla linea degli esordi, la sua proposta non sembra confluire in un manifesto estetico sistematico, ma in indicazioni di buon senso ove il Rinascimento, per la sua razionalità costruttiva, si pone come lo stile che meglio può interpretare la struttura e le funzioni moderne. A. Muggia, Le costruzioni architettoniche e la loro ornamentazione in rapporto con la natura dei materiali, Bologna, Tipografia Gamberini e Parmeggiani, 1892, p. 77 7 “Forse il cemento armato quando sarà divenuto famigliare alla generalità degli artisti specialmente, potrà per le sue caratteristiche di plasticità, di monolitismo svelto e ardito (di ardimenti anche costruttivamente nuovi) portare ad una manifestazione stilistica del nostro tempo. I suoi requisiti di plasticità, di adattabilità maggiori di quelli del ferro, richiedenti dimensioni meno esili, proporzioni e forme meno dure di quelle proprie del metallo, non dissimili da quelle del legno, e non tanto distanti da quelle delle opere murarie, sono tali da far presumere la possibilità di un risultato stilistico dai tentativi che anche in questo campo si stanno facendo” in A. Muggia, Lezioni di Architettura Tecnica, Anno Accademico 1923-24, Bologna, Arti grafiche Minarelli, 1924, p. 45. 6


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8. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 5635/1932, Giuseppe Vaccaro, Bologna, Scuola di Ingegneria, Assonometria generale, scala 1:200, 1° agosto 1932

9. Archivio Storico del Comune di Bologna, PUT 5635/1932, Consorzio per gli Edifici universitari, Scuola di Ingegneria, Prospettiva, 1° agosto 1932


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10. Dettaglio di una grande planimetria della zona del Laboratorio pirotecnico, caserma D’Azeglio e Direzione d’Artiglieria, 1920 circa, Fondo Muggia, Archivio dell’Ordine degli Architetti di Bologna.

11. Foto aerea del Complesso dell’Istituto di Scienze Naturali di Berna, 1928-31, Otto Rudolf Salvisberg e Otto Brechbühl


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Per l’Annunziata dobbiamo parlare allora di un progetto passatista, come spesso si è fatto? Riteniamo, in verità, che non sia costruttivo impostare il tema in questi termini, ma è assai più utile analizzare l’efficacia e il funzionamento della proposta che rivela invece numerosi punti di forza che di fatto anticipano soluzioni praticate nei progetti successivi, compreso quello realizzato. Anzitutto l’organizzazione dello spazio è concepito per blocchi coerenti disciplinarmente: ad ogni insegnamento sono destinati spazi per gli studi dei docenti e una capiente aula per la didattica; le aule da disegno, tutte esposte a nord, non hanno ovviamente la struttura consueta ad anfiteatro, ma sono ampi ambienti rettangolari ricchi di abbondante illuminazione garantita da un gran numero di finestre poste su entrambe i lati lunghi; tre sistemi di scale disimpegnano i tre grandi cortili; gruppi di latrine, ricavate nella struttura esistente o inserite in appositi corpi aggettanti dal quadriloggiato di nordest8, assicurano servizi igienici a tutte le zone dell’esteso complesso. In aggiunta a quanto detto, dulcis in fundo, vi è un dettaglio che, sfuggito a molti, porta il progetto muggiano all’avanguardia della ricerca funzionale9. In una serie di planimetrie conservate all’Ordine degli Architetti di Bologna, dunque provenienti dall’archivio personale di Muggia, resta memoria della trasformazione di uno degli edifici di servizio del complesso militare per gli usi della Scuola: un braccio perpendicolare al viale da cui si dipartono corpi in aggetto a formare una struttura ‘a pettine’. Il primo pensiero sembra accennato con pochi e sommari segni di matita sulla planimetria gemella di quella conservata all’Archivio Storico Comunale, ma l’idea iniziale si sviluppa in altri disegni più completi e rifiniti. Come si è accennato, il trasloco della Scuola all’Annunziata risulta impossibile a realizzarsi e nel 1926 Muggia riformula un progetto, questa volta completamente ex novo, per l’area in fondo a via Indipendenza, subito oltre il suo stesso Pincio. La validità della soluzione a pettine A dire il vero questi corpi ‘a fiore’ compaiono nel progetto licenziato e si intravvedono nella nota veduta a volo d’uccello molto pubblicata, ma invece non compaiono in altra versione non datata. 9 Su tale argomento ho brevemente accennato nel volume Giuseppe Vaccaro a Bologna, cit., p. 49. 8


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è ribadita al punto da diventare lo schema definitivo e risolutivo distributivamente della nuova scuola, schema che nemmeno Vaccaro e gli ingegneri del Consorzio per l’edilizia universitaria si sentiranno di abbandonare. La letteratura critica ed, in specifico, lo stimato collega Stefano Zagnoni10 hanno cercato riferimenti per tale conformazione planimetrica. Questa, infatti, evidentemente si pone con efficacia nella risoluzione dei problemi di organizzazione degli spazi destinati alle varie discipline, senza perdere l’unitarietà dell’insieme, garantendo, al contempo, aule adeguate per numero, forma e dimensioni. Sono stati fatti i nomi di alcuni siti universitari europei ma il bandolo della matassa, come vedremo, si trova in Italia. Dunque a parte il Dudok di numerose costruzioni anche fra le meno conosciute11, viene citato l’Istituto di Scienze Naturali di Berna opera di Otto Rudolf Salvisberg (1882-1940) che esegue assieme al suo socio Otto Brechbühl (1889-1984). Opera attribuita tramite un concorso aperto nel 1928, viene realizzata fra il 1929 e il 1931. L’edificio può ricordare volumetricamente l’omologo vaccariano, più complesso nell’articolazione delle masse che a nord formano un cortile aperto. Vi è poi un altro esempio, in terra tedesca in questo caso: il centro universitario di Colonia che Adolf Abel (1882-1968) inaugura quasi in contemporanea con la Facoltà bolognese, nel 1935. La posa della prima pietra risaliva al 1929. Mentre nel primo caso il trattamento del cemento sembrerebbe, dalle foto d’epoca consultate, brutalmente lasciato a vista, nell’edificio di Colonia il rivestimento si arricchisce, come in parte a Bologna, del calore cromatico del laterizio. A completamento degli esempi citati, coevi al progetto finale per l’edificio degli ingegneri, può essere citata la Scuola Superiore Aeronautica di Firenze di Raffaello Fagnoni (1901-1966) ove uno degli stabili, presenta struttura a corpi aggettanti. L’opera è datata 1937-38: siamo già oltre. Tuttavia, i loci similes che sono stati individuati come modelli possibili di un Vaccaro che si approccia a quel tema edilizio per la prima volta, sono Si veda in particolare il suo L’insediamento universitario a Bologna fra il 1910 e il 1945: costruzione di un settore urbano specializzato, in “Storia urbana”, Anno XII, n. 44, luglio-settembre 1988, p. 109. 11 Si veda P. Jappelli e G. Menna, Willem Marinus Dudok. Architetture e città 1884/1974, Napoli, CLEAN, 1997: più che il celebre Municipio (1923-31) meglio sembrano ispirare i nostri progettisti bolognesi diverse scuole a Hilversum risalenti ai primi anni Venti. 10


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pertinenti e autorevoli forse solo se si tiene conto dell’ultimo progetto per la Facoltà a cui effettivamente possono essere avvicinati. Ma con forza va ribadito che di struttura a pettine si ragiona già dal 1920, ben prima dunque degli esempi citati. Muggia è dunque il primo? E’ colui a cui va ascritto il merito di aver ottimizzato conformazione planimetrica e funzioni didattiche e scientifiche in uno schema che avrà grande fortuna negli anni a venire? Non crediamo. Abbiamo infatti trovato un antecedente che avanziamo forse con qualche perplessità, non avendo ancora potuto trovare un valido sostegno documentario. Si tratta di un ampliamento ottocentesco del Castello del Valentino, divenuto nel 1861 sede della Scuola d’Applicazione torinese e fin da subito bisognoso di spazi ulteriori. I primi ampliamenti proseguono verso sud il corpo principale del complesso, ma a partire dal 1885 si comincia a discutere di un nuovo edificio da costruirsi a ovest, nel sito dell’orto-giardino. Oggi questa fase non è ormai più leggibile essendo stata inglobata in addizioni successive, ma la letteratura critica la descrive come “una lunga manica ad un piano con le testate laterali equidistanti dai corpi di fabbrica prospicienti (cioè centrata rispetto al lotto e alle preesistenze), e su questa si innestarono tre maniche ortogonali, due sempre ad un piano e la terza centrale rispetto allo schema compositivo dell’insieme, più alta e atta a contenere un aula ad anfiteatro12” . Tale opera si avvia nel 1895 ma solo nel 1897 si cominciano i lavori. Mentre l’aspetto esterno si raccomanda sia conforme alle pertinenze storiche del Castello, la realizzazione di solai in cemento armato sarà affidata all’ingegnere Porcheddu, l’omologo di Muggia nel nord Italia. Esiste una corrispondenza fra i due, risalente proprio a questi anni, testimoniata da alcune lettere conservate presso l’Archivio Storico dell’Università di Bologna, Sezione Architettura, ove però il tema dell’edificio torinese non viene trattato.

Cfr. Castello del Valentino Facoltà di Architettura. Progetti a confronto, a cura d S. Geriodi e L. Mamino, Torino, Celid, 1988, pp. 119 e ss.

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Ciò che importa sottolineare è che Torino, la sede che meglio rappresenta l’istituzione delle Scuole di Applicazione, guardata senz’altro come esempio e modello da tutte le altre, introduca tale tipologia. Sebbene non vi siano prove di una discendenza diretta delle idee muggiane da questo primo esempio, pensiamo non improbabile che il professionista bolognese si sia rivolto ad esso come caso autorevole ed efficace di sperimentazione spaziale.

12. Foto d’epoca del prospetto del Complesso dell’Istituto di Scienze Naturali di Berna, 1928-31, Otto Rudolf Salvisberg e Otto Brechbühl


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13. Foto d’epoca del prospetto posteriore del Centro Universitario di Colonia, 1929-1934, Adolf Abel


14. Il complesso del Valentino a Torino con l’edificio a pettine. Rielaborazione tratta dal volume Castello del Valentino Facoltà di Architettura. Progetti a confronto, a cura d S. Geriodi e L. Mamino, Torino, Celid, 1988, p. 120.


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Felsina 1937 (Arch. A. Pini, Arch. A. Susini , Arch. A. Vitellozzi, Ing. G. Rabbi). Vista prospettica.


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Da via Roma a via Marconi. La difficile ricerca di una forma. 1936-19581 Matteo Sintini

La vicenda della costituzione dell’asse di via Roma, dal concorso del 1937 fino al piano regolatore del 1958 mette in luce la difficoltà della pianificazione del periodo, non solo bolognese, di risolvere i nodi centrali dello sviluppo urbano. Difficoltà da far risalire, forse, alla metà del secolo precedente, se consideriamo per analogia, volendo istituire un utile confronto con un altro ben noto episodio della storia della città, le vicissitudini della parallela via Indipendenza. In quel caso, come sarà anche per via Roma, il tracciato della strada non rispecchia l’esito del concorso, che viene vanificato dall’affidamento del progetto a Coriolano Monti, mostrando come la realizzazione della strada segua logiche tutte interne all’ufficio tecnico comunale e non l’espressione di una cultura urbanistica del tempo. L’idea di un’arteria che congiunga la stazione, con il punto più a ovest di via Ugo Bassi, nasce dalle stesse ragioni di collegamento della ferrovia con il centro storico, che avevano indotto allo sventramento delle preesistenze costruite sul tracciato dell’odierna via Indipendenza, prescritte nel Piano Regolatore del 1889. Nel 1936, quando viene bandito il concorso per la realizzazione di via Roma, le soluzioni previste per l’area, dallo stesso Piano Regolatore, sono ancora inattuate e solo si era proceduto alla demolizione di parte di via delle Casse. La scadenza per la presentazione dei progetti, rigorosamente da consegnare in forma anonima, è fissata in data 15 1 Ulteriori riflessioni e ragionamenti su questa vicenda, già sufficientemente trattata nella letteratura, sono scaturite e qui raccolte, a integrazione, soprattutto iconografica, delle ricerche già esistenti, da un lavoro condotto all’interno del laboratorio di Storia dell’Architettura II, del corso di Laurea in Ingegneria Edile – Architettura di Bologna, nell’anno accademico 2012-2013. Si ringrazia in particolare: Bruni Enrico, Bruno Guido, Marchesani Davide, Pagani Francesco, Ramini Giacomo, Sargenti Elia, Ungaro Fabrizio.


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febbraio 1937. Com’è noto,1 tra i 19 gruppi partecipanti non viene selezionato nessun vincitore, ma vengono premiati ex aequo tre gruppi: motto Porta Stiera 6 (Ing. Bertocchi N., Arch. Bottoni P., Arch. Giordani G.L., Arch. Legnani A., Ing. Pucci M., Ing. Ramponi G.), motto Felsina 1937 (Arch. Pini A., Arch. Susini A., Arch. Vitellozzi A., Ing. Rabbi G.), motto K. 12 (Arch. Degli Innocenti A.M.). E selezionati altri tre: motto G.M.P.S. 1937 A. XV (Ing. Graziani P., Arch. Marabini A., Prof. Parolini B., Stanzani A.), motto Impero III (Dr. Ing. Tornelli C.), motto Bologna 6.9.12 (Arch. Torres D., Ing. Tabarroni I., Arch. Marini G.W). Oltre alle ragioni di viabilità, igiene e salubrità, indicate come gli obbiettivi essenziali da risolvere in fase di progettazione, il concorso mostra precise volontà architettoniche, non richieste2 ma che tutti i partecipanti propongono, segno di come il disegno della città non sia solamente interpretato in pianta o si limiti ad assecondare dati tecnici e quantitativi, ma voglia proporre una precisa immagine della città, oscillante, come si vedrà qui di seguito, tra lo stile littorio e il modernismo europeo (visibile in special modo nello sviluppo delle varie proposte del gruppo Bottoni). Due in particolare i nodi da definire anche in chiave architettonica: il punto di confluenza di via Ugo Bassi, del tridente via delle Lame, via del Pratello, via San Felice (l’equivalente sul lato opposto della via Emilia di quello di piazza Ravegnana) con la nuova strada, con il possibile raccordo dello spazio così creato con Piazza Malpighi e la presenza del Palazzo del Gas, realizzato da Alberto Legnani nel 1936, e di Palazzo Lancia, sul lotto adiacente, progettato da Paolo Graziani nel 1936-37. Il rapporto della nuova sistemazione urbana con il primo dei due edifici è, in particolare, al centro delle riflessioni dei progettisti, nella definizione dello spazio pubblico all’imbocco di via Ugo Bassi con via Roma. In alcuni casi, come in quello del gruppo “Felsina 1937”, il fronte del lato nord lascia libera la vista del Palazzo del Gas, che entra in questo modo all’interno della nuova piazza, costituendo una quinta di fondo. Una variante dello stesso progetto presenta nuovamente un 1

Si rimanda per una trattazione più esaustiva delle vicende del concorso a: Paola Legnani, Via Roma, 1936-1937, in Norma e arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna. 1850-1950, a cura di Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 286-297; Stefano Zironi, Fulvi Branchetta (a cura di), Alberto Legnani, Sala Bolognese, Arnaldo Forni editore, 1994, pp. 19-32; Concorso per la sistemazione di via Roma, «Parametro» LXLIV-LXLV, 1981, pp. 72-73. 2

P. Legnani, Via Roma, 1936-1937, cit., p. 288.


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elemento alto, una torre dell’Arengario,3 tema “littorio” e bolognese al tempo stesso, proposto anche dal gruppo “Ordine e Gerarchia”, notevolmente arretrata rispetto a via Roma, posta sul sedime triangolare degli isolati demoliti tra via San Felice e del Pratello. L’idea di isolamento di quest’ultimo nei confronti dello spazio pubblico riprogettato e della messa in relazione con altri corpi alti, è confermata anche dal gruppo “K12” che prevede, in una variante, un passaggio ad arco lungo via Roma, proprio in corrispondenza del Palazzo del Gas, come dai gruppi Impero III, G.M.P.S. 1937. Significativa la proposta del gruppo “Le 5 torri”, che utilizzano il segno formale della curva della facciata concava dell’edificio di Legnani per disegnare una grande esedra che conforma tutto il lato settentrionale della piazza. Sul tema concavo e convesso si sviluppa anche una delle proposte più interessanti, quella proposta da Enrico de Angeli (motto “Cardo 37”). Qui i nuovi edifici pensati per occupare gli isolati tra via Lame e via San Felice e tra via Roma e via Ugo Bassi sono plasticamente studiati4 accentuando la convessità dei fronti, per fare da contrappunto alla massa scavata del Palazzo del Gas. In particolare, l’edificio5 posto sul lato opposto di via Roma rispetto a quest’ultimo, presenta un’immagine riconducibile all’espressionismo di E. Mendelshon che conferisce a questo brano di città un aspetto di modernità europea, laddove le soluzioni precedenti, sembrano, al contrario, esercitarsi sul tema “classico” del portico, secondo declinazioni a volte più astratte, a volte più monumentali. In questa chiave si possono leggere anche i progetti del gruppo “Beta 2” e “Alaima”, che duplicano il palazzo del Gas, segnando l’imbocco di via Roma mediante due torri con funzione di propilei, secondo un modello già presente in molti esempi dell’epoca, si pensi ai coevi progetti di via Vittor Pisani, a Milano. Da ultimo affrontiamo il progetto del gruppo “Porta Stiera” di Piero Bottoni,6 quello che maggiormente influenzerà le soluzioni per la 3

Ivi, p. 292. I materiali sono conservati presso l’Archivio dell’Ordine degli architetti della provincia di Bologna, fondo De Angeli (buste: 5R - 12M/51; 7R - 12M/37, 1R BV/852; 1C - 11 M).

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5 6

P. Legnani, Via Roma, 1936-1937, cit., p. 293.

Per il progetto si veda Giancarlo Consonni, Piero Bottoni a Bologna e a Imola: casa, città, monumento: 1934-1969, Cremona, Ronca, 2003, pp. 13-19, ripreso poi in Giancarlo Consonni, Bottoni a Bologna. 1934-1941, Norma e arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna. 1850-1950, a cura di Giuliano Gresleri e Pier Giorgio Massaretti,


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo K12 (Arch. A.M. Degli Innocenti). Viste prospettiche.

Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Impero III (Dr. Ing. C. Tornelli). Vista prospettica.


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo GMPS 1937 ANNO XV (Ing. P. Graziani, Arch. A. Marabini, Prof. B. Parolini, A. Stanzani). Vista prospettica.


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sistemazione di via Roma, a seguito del concorso. Anche in questo caso, la presenza del Palazzo del Gas, influisce notevolmente sull’assetto urbano della piazza, chiusa sui lati nord e sud da edifici perpendicolari, uno dei quali, maschera la vista del palazzo di Legnani, membro del gruppo, proponendo un’idea che verrà mantenuta anche negli sviluppi successivi che si vedranno a breve, soprattutto in relazione alle soluzioni per l’edificazione del fronte est di via Roma. Per questo lato, da ricostruire a seguito degli sventramenti, Bottoni presenta due proposte. La prima impostata su una serie di tre edifici rettangolari a corte, mentre la seconda, definita “a quartiere giardino”, prevede la costruzioni di tre torri alte 60 m. unificate da un portico, sul fronte strada, con cortili interni ad occupare lo spazio tra un edificio puntuale e l’altro, secondo uno schema che cerca di adattare alcuni fondamenti dell’urbanistica razionalista alle preesistenze e al tessuto della città consolidata, anche se viene prevista la demolizione dell’edificio dell’Ospedaletto. Il progetto, infatti, risponde alle richieste di salubrità della zona, quasi utilizzando schemi lecorbuseriani. Aree verdi in un’area totalmente priva, massima ventilazione e esposizione solare, sono gli aspetti proposti dal progetto. Se, come afferma G. Consonni, questa soluzione non «si fa rimpiangere»,7 e sottolinea come la vera originalità stia, piuttosto, nella prima proposta con i blocchi a corte, è indubbio che la chiarezza del disegno urbano e il rigore dei volumi, costituiscano una non consueta soluzione per l’urbanistica italiana8 e che le torri di Bottoni rappresentino quel carattere di modernità che in quegli anni in città trova forti resistenze, come dimostrano le vicende dei due anni successivi, che confermano la difficoltà, citata inizialmente in questo testo, di pervenire a una soluzione e a una definizione dell’assetto della nuova via, a causa di logiche politiche interne, ed esterne, all’amministrazione e a una debolezza del panorama professionale locale, che non riesce a concretizzare il dibattito, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 261-261-278; Giancarlo Consonni, Graziella Tonon, Ludovico Mereghetti, Piero Bottoni. Opera completa, Milano, Fabbri, 1990, pp. 255-258; Giancarlo Consonni, Corpo a corpo: il progetto razionalista per via Roma a Bologna, 1936-38, in Per una storia del Restauro Urbano. Piani, strumenti e progetti per i Centri storici, a cura di Mariacristina Giambruno, Novara, Cittàstudi, 2007, pp. 6780; Nino Bertocchi, Piero Bottoni, Gian Luigi Giordani, Alberto Legnani, Mario Pucci, Giorgio Ramponi, Concorso per la sistemazione di via Roma e zone adiacenti. Motto: Porta Stiera 6, Bologna, Grafiche Nerozzi, 1937. 7 G. Consonni, Piero Bottoni a Bologna e a Imola: casa, città, monumento: 1934-1969, cit., p. 16. 8 Ibidem


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che si avvita solo sulle questioni tecniche relative alla viabilità, all’igiene e all’estetica,9 nemmeno con la presenza nella giuria, di due delle personalità più importanti come Vaccaro e Bega. Vale la pena sottolineare come proprio il dato estetico, così diversamente ricercato dai progettisti, come si è visto in precedenza, sia quello a non convincere la giuria, mentre vengono apprezzate alcune proposte in merito alla circolazione. Prevale, infatti, il coordinamento dalle alte sfere del governo fascista e una soluzione di compromesso che suggerisce la costituzione di un gruppo composto dai tre premiati e segnalati, sotto il coordinamento di Marcello Piacentini. La presenza dell’architetto più vicino al regime, oltre a confermare la risonanza nazionale del caso bolognese, testimonia, una volta ancora, come le scelte urbane avvengano, come nel già citato caso di via Indipendenza, fuori dalla cultura del progetto. Il 9 gennaio 1939, il comune approva un nuovo progetto redatto dall’ufficio tecnico, recependo i suggerimenti del gruppo di lavoro, definendo una variante10 al piano regolatore del 1889 con carattere di urgenza, per risolvere il problema della sistemazione dell’area, allargata fino alla stazione. A conferma della mancanza di una generale chiarezza nell’impostazione degli strumenti urbanistici, si sottolinea l’osservazione, presente nella stessa Relazione Tecnica del piano,11 che un problema di così vasta importanza e dimensione sia oggetto di una semplice variante al precedente strumento, e non di un ragionamento complessivo alla scala urbana e territoriale, dibattito per altro già in atto, in quanto al momento dell’approvazione del piano è già stato bandito da un anno il concorso per la progettazione del Piano Regolatore dell’intera città (7 gennaio 1938). 9 Si vedano gli interventi del podestà: sulla pubblicistica locale: Cesare Colliva, I progetti, «Il Comune di Bologna», febbraio-marzo 1937, pp. 4-10; Cesare Colliva, La sistemazione di via Roma nella relazione di Marcello Piacentini, «Il Comune di Bologna», gennaio-febbraio 1939, pp. 9-13; Cesare Colliva, Dopo il concorso per l’imbocco di via Roma, la relazione della giuria, «Il Comune di Bologna», maggio 1937, pp. 4-8; Alfonso Gatto, La sistemazione urbanistica di via Roma a Bologna, «Casabella», CXIV giugno 1937, pp. 22-23; Armando Melis, Concorso per un progetto di sistemazione della nuova via Roma e della zona adiacente a Bologna, «Urbanistica», IV luglio-agosto 1937, pp. 223-240. 10 Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. 11 Ibidem, Relazione Tecnica al piano particolareggiato di esecuzione della variante al piano regolatore del 1899, p. 4. Alla fine il piano, nonostante proponga una planimetria comprendente il tratto viario fino alla stazione, si interesserà solamente delle vie: San Gervasio, Maggia, Otto Colonne, Nazario Sauro, Belvedere, oltre che del Pratello, San Felice e Lame.


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Le 5 torri. Planimetria, scala 1: 1000.

Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Le 5 torri. Vista prospettica.


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Cardo 27. Vista prospettica.

Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Beta 2. Vista prospettica.


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Tale sovrapposizione, unitamente allo scoppio della guerra, sarà alla base della mancata realizzazione di un progetto organico, favorendo la crescita individuale dei vari lotti, secondo una generale frammentazione, riscontrabile anche oggi. La variante ripropone per la ricostruzione del fronte est, il progetto Bottoni, presentato anche alla gara per il piano regolatore12, dallo stesso, insieme agli altri membri del gruppo. Rispetto alla soluzione del concorso del 1937, viene aggiunta una torre nell’isolato a nord, posto dopo via Riva di Reno, mentre viene abbandonata la proposta della piazza del Mercato, inizialmente presente nella testata a sud degli isolati delle torri. Questo fatto sancisce la forza del progetto, che resiste alle revisioni successive, tuttavia, esso si presenta come un frammento di modernità, non organicamente integrato nel progetto complessivo, in quanto per il nodo di via Roma e via Ugo Bassi, il piano presenta ancora deboli soluzioni di edifici porticati in stile littorio, che tengono conto, fatto significativo, delle preesistenze del mercato coperto e dell’Hotel Brun, e precise indicazioni di ornamento e decoro per l’edificio posto di fronte alla seconda. Non sono dunque bastati due concorsi di progettazione in tre anni e la redazione di un piano particolareggiato in variante per giungere a una sistemazione dell’area. Il piano di Ricostruzione del 1946 e il nuovo Piano Regolatore del 195558, redatto con la collaborazione di alcuni protagonisti delle vicende precedenti: P. Bottoni, G. Vaccaro, A. Legnani, G. Ramponi e P. Marconi, vincitore del concorso del 1938, non fanno che confermare la generale assenza di pianificazione, lasciando all’iniziativa privata l’edificazione del fronte est di via Roma, poi denominata Marconi, la cui ricostruzione del lato orientale, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, sarà operata in gran parte, ancora da Alberto Legnani.13

Concorso per il piano regolatore della città di Bologna anno 1938-XVII: progetto degli architetti ingegneri Piero Bottoni, G. Luigi Giordani, Alberto Legnani, Mario Pucci, Bologna, Calderini, 1938. 13 Stefano Zironi, Fulvio Branchetta (a cura di), Alberto Legnani, cit., pp. 93-103. 12


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Ailama 10. Vista prospettica.


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Comune di Bologna. Archivio storico, U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Concorso per la sistemazione dell’imbocco di via Roma e adiacenze, 1937. Gruppo Porta Stiera (Ing. N. Bertocchi, Arch. P. Bottoni, Arch. G.L. Giordani, Arch. A. Legnani, Ing. M. Pucci, Ing. G. Ramponi). Vista prospettica.

Comune di Bologna. Archivio storico,U.I. pianificazione Attuativa Settore Piani e Progetti Urbanistici. Variante al Piano Regolatore del 1889 per la sistemazione di via Roma. Vista prospettica della zona d’angolo tra via Roma e San Felice, 1937-38.


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Concorso per il Piano Regolatore della cittĂ di Bologna, 1938. Piero Bottoni, Gian Luigi Giordani, Alberto Legnani, Mario Pucci. Planimetrie e planivolumetrici della sistemazione della zona di via Roma.


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MONDI DIGITALI PARALLELI. Rappresentare la Bologna che sarebbe stata nella Bologna che è. Simone Garagnani

Il progetto ‘Le Bologne possibili’, nato da un’idea di Piero Orlandi e realizzato nelle sue componenti digitali presso il laboratorio Silab del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna sotto il coordinamento di Simone Garagnani e la pianificazione di Luisa Bravo, ha costituito un tentativo concreto di avvicinare la rappresentazione del tessuto storico bolognese reale alla simulazione di due ipotesi urbane di rilievo e mai realizzate: la Regia Scuola degli Ingegneri all’Annunziata, di Attilio Muggia, e il complesso di via Roma, oggi via Marconi, di Piero Bottoni. Dopo un’attenta e minuziosa ricostruzione delle forme e dei materiali, i modelli digitali sono stati inseriti all’interno di immagini della Bologna reale, per produrre visualizzazioni realistiche dei contesti specifici di riferimento. Le attività di computer grafica sono state sviluppate secondo un percorso formativo facente capo alle proposte di tirocinio curriculare che si svolgono presso il laboratorio Silab ed hanno impegnato due allievi per circa cinque mesi, spaziando dal disegno tradizionale alla modellazione 3D, dalla fotogrammetria digitale alla computer art.


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Dal modello fisico a quello digitale Il più semplice e disambiguo sistema di comunicazione in architettura, dopo il disegno, è da sempre stato il modello, sia fisico che schematico: già nel termine stesso infatti, che si può far derivare dal latino modellus diminutivo di modulus, si ritrova il concetto di forma, stampo, ad indicare la matrice di un’idea. Non è un caso che, soprattutto nella terminologia utilizzata in alcuni documenti scritti di epoca rinascimentale, l’utilizzo della parola modello talvolta si sovrapponga a quello del termine disegno1. Sempre in epoca classica, la forte connessione esistente tra modellazione e realtà viene ascritta ai termini greci tùpos e paràdeigma, traducibili come oggetti da riprodurre, modelli di costruzione, simulacri o prototipi. Anche Vitruvio affronta il tema, seppure nel suo De architectura non faccia esplicito riferimento a modelli destinati alla pratica costruttiva o alla rappresentazione; già in questo scritto però alcuni traduttori hanno individuato nel termine scaenografia un possibile significato di riproduzione in scala di realtà non ancora realizzate. E’ significativo rilevare come Vitruvio faccia invece menzione dell’uso di modelli nella parte conclusiva del suo trattato, quando vi si riferisce descrivendo le cosiddette macchine per la guerra, congegni riprodotti per trarre il nemico in inganno2. Il modello è quindi una rappresentazione verosimile del reale, ancora una volta importante per raccontare lo spazio simulandolo. Da allora, la rivoluzione informatica ha consentito solo di recente al calcolatore di interagire fattivamente con la rappresentazione del mondo costruito, affiancando architetti e ingegneri con strumenti versatili come il prototipo di ambiente CAD Sketchpad di Ivan E. Sutherland del 19643, per arrivare ai sofisticati algoritmi generativi dei modellatori parametrici contemporanei. Con la maturazione progressiva di apparati e strumenti digitali, il modello è divenuto sempre più un mezzo utile, se non addirittura necessario, per la trasmissione del progetto, a tutti i suoi livelli di sviluppo.

1 Richard A. Goldthwaite, La costruzione della Firenze rinascimentale, Bologna, il Mulino, 1984. 2 Vitruvio, De Architectura, Libro X, cap. XVI. 3 Ivan Edward Sutherland, Sketchpad: A Man-Machine Graphical Communication System, New York, Garland Publishers, 1980,


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Figura 1 Il disegno a schizzo, rappresentazione immediata dello spazio urbano: una vista di studio dell’attuale via Marconi, nei luoghi dove avrebbe dovuto sorgere il piano residenziale di Piero Bottoni del 1938 (disegno a matita su carta da spolvero di Simone Garagnani, 2015).

Così come il disegno tecnico tradizionale, anche la modellazione digitale segue delle regole ben precise basate su vari livelli di astrazione ed analisi, i quali concentrano l’attenzione su valori estetici sviluppati attraverso il mezzo dell’espressione grafica4. La ricostruzione di una realtà architettonica ed urbana che non è, ma che avrebbe potuto essere ne ‘Le Bologne possibili’, basa la sua struttura proprio sul principio del modello, questa volta digitale, in continuità logica con una tradizione della rappresentazione che ha pertanto delle radici storiche profonde. Lo spazio dei bit: i modelli informatici e il racconto dell’architettura Già in epoca Barocca si è ricercata nei modelli d’architettura una profonda verosimiglianza con il reale, come espressione efficace del carattere volumetrico e compositivo degli edifici, 4

Brian Edwards, Understanding architecture through drawing. Abingdon, Oxon, England and New York, Taylor & Francis, 2008.


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riprodotti nel rispetto della più completa declinazione di ogni elemento spaziale, sia esso cromatico, materico o decorativo. Proprio nel Seicento il disegno non pare più essere adeguato a raffigurare la complessità delle forme e degli spazi: per questo numerosi architetti ricorrono a plastici dimostrativi che divengono componenti fondamentali del loro modo di fare architettura, in particolare per lo studio degli aspetti problematici della progettazione, delle interferenze e delle pratiche di posa in opera. Numerose fonti5 indicano che Francesco Borromini e Gian Lorenzo Bernini, ad esempio, fecero in questo periodo grandissimo uso di modelli fisici, anche se purtroppo non se ne sono conservati gli originali. Vale anche la pena menzionare una lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano nella quale l’architetto, famoso per la realizzazione della Reggia di Caserta, afferma che i modelli fanno «molto meglio effetto che i disegni», riferendosi alla presentazione del plastico ai sovrani Carlo di Borbone e Maria Amalia. Continuando nella lettura della corrispondenza è egli stesso a meravigliarsi di come con il modello si va «facendo l’architettura seria più vista in opera che in disegno»6. Durante il XIX secolo invece la pratica di costruire modelli declina, contemporaneamente all’avvento degli studi di ingegneria per le grandi opere, che da questo momento in poi prediligeranno prototipi improntati allo studio delle caratteristiche statiche delle costruzioni, come ad esempio quelli fatti assemblare da Alessandro Antonelli per la cupola della chiesa di San Gaudenzio a Novara, dove il sistema strutturale degli archi è replicato in scala 1:20 per simularne il comportamento alla deformazione quando sottoposto a carichi. Ma sul finire dello stesso secolo, con grande anticipo sulla modernità, appare la figura di Antoni Gaudì, per il quale il modello diviene il momento principale di controllo delle caratteristiche plastiche del proprio repertorio formale; in particolare, il cantiere della celeberrima Sagrada Familia a Barcellona richiede la continua verifica con modelli di alta complessità figurativa, che continueranno ad essere prodotti anche dopo la morte del progettista, accompagnando ancor oggi il proseguimento dei lavori con moderni sistemi di prototipazione grafica digitale. La figura di Gaudì, architetto di confine, apre l’età della 5

Nicolò Sardo, La figurazione plastica dell’architettura. Modelli e rappresentazione, Roma, Edizioni Kappa, 2004. 6 Franco Strazzullo, Le lettere di Luigina Vitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, Galatina, Congedo, 1976.


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sperimentazione e delle avanguardie dell’architettura moderna7. Opponendosi all’atteggiamento del secolo precedente in cui l’utilizzo compositivo dei modelli era stato un poco posto in secondo piano, i protagonisti della modernità riscoprono la fisicità dello spazio. L’allontanamento dalle espressioni eclettiche ottocentesche, con il loro insito retaggio di consuetudini, fa del modello il luogo della sintesi per le spinte innovative dell’architettura nuova. E’ in questi anni che l’utilizzo della modellistica vede il cambiamento delle scale di rappresentazione: dalla riproduzione dell’edificio singolo si passa alla raffigurazione di intere città. Esemplari sono, a questo riguardo, i plastici di Le Corbusier per la Ville Contemporaine del 1922 e del Plan Voisin per Parigi, del 1925. Per Ludwig Mies van der Rohe, i modelli testimoniano la transizione dalle prime esperienze espressionistiche verso il successivo approccio minimalista: si cita ad esempio il plastico per il grattacielo di Friedrichstrasse a Berlino, del 19228. In Italia la modellistica diviene manifesto, come nel caso dei progetti del Novocomum o l’Officina del Gas presentati nel 1928 alla mostra di arti decorative di Monza da Giuseppe Terragni9. Il periodo tra le due guerre mondiali è forse il più fecondo, giacché numerosi concorsi di architettura spingono le più note firme del momento a produrre modelli fisici per presentare al mondo le proprie idee. Le competizioni più importanti in questo senso sono quelle per il Palazzo del Littorio del 1934, per il Ponte Duca d’Aosta (1935) o per i vari edifici dell’E42 (19371938) dove le personalità che emergono sono principalmente quelle di Adalberto Libera, dello stesso Giuseppe Terragni, di Luigi Moretti, di Mario Ridolfi, di Luigi Figini e di Gino Pollini, per citare alcuni nomi. Il secondo dopoguerra incoraggia occasioni di sperimentazione ulteriore, quando i modelli trovano un fondamentale nuovo momento di popolarità nella definizione di proposte urbane d’avanguardia: non si possono non citare le opere di Frei Otto, di Arata Isozaki, di Archigram, o di Aldo Rossi, dove formalismi e culture differenti si incontrano nell’utilizzo del modello come strumento declinante i cambiamenti linguistici rivolti alla la tecnologia più spinta. L’architettura contemporanea è anch’essa espressa da modelli a scale 7 8 9

Giovanna Digovic, Gaudí: un genio del modernismo, Melegnano, Montedit, 2003. Giovanni Leoni, Ludwig Mies van der Rohe, Milano, Motta Editore, 2008. Andrea Di Franco, Giuseppe Terragni, Novocomum, Maggioli Editore, 2008.


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differenti, spaziando dal contesto architettonico che si amplia verso l’urbano. Tuttavia non si può oggi più prescindere dall’utilizzo del plastico attraverso il suo duale digitale, ottenuto mediante l’applicazione della computer grafica, seguendo flussi di lavoro consolidati per trasferire il senso più profondo del progetto nel dominio dell’universo informatico.

Figura 2 Il plastico digitale come alternativa della raffigurazione materica tradizionale: la tecnologia informatica offre oggi grandi possibilità, compresa la stampa tridimensionale dei modelli 3D, prodotti in questo caso con un altissimo livello di dettaglio (modelli 3D, acquisizioni fotogrammetriche e grafiche di Riccardo Raimondi per lo studio del modello per la Regia Scuola degli Ingegneri all’Annunziata di Attilio Muggia, 2015).

Le possibilità offerte dai calcolatori sono infatti divenute tanto pervasive da essere quasi considerate naturali, soprattutto nel campo conoscitivo dell’architettura storica. Visualizzare l’assente, attraverso immagini così reali da confondere l’osservatore persuaso di ammirare scenari veritieri, è un obiettivo divenuto ampiamente perseguibile10. Il progetto della ricostruzione virtuale di due scenari de ‘Le Bologne

10 Riccardo Migliari, Geometria descrittiva - Metodi e costruzioni, Novara, CittàStudi - De Agostini, 2009.


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possibili’, quelli che avrebbero potuto esistere realmente se fossero stati realizzati gli edifici della Regia Scuola degli Ingegneri all’Annunziata di Attilio Muggia e il progetto di Piero Bottoni per il complesso delle tre torri di via Roma (l’attuale via Marconi), sfrutta la computer grafica per proporre una visione verosimile di una realtà diversa, dove tecnica fotografica e modelli digitali si combinano insieme per dare luogo ad una possibile, se non probabile, configurazione dei luoghi, nel rispetto di una tradizione d’utilizzo del modello architettonico che, come è stato esposto, si perde nel tempo. Le Bologne possibili: dalla fotografia al rendering Ad oggi, la fotografia offre indubbiamente un sistema rapido e semplice per catturare l’essenza di un luogo. Scrive Stefano Benni nella prefazione di ‘Un paese, tanti paesi’ di Gianni Berengo Gardin: «Alla fotografia si chiede di testimoniare la purezza di un attimo e nel contempo di farlo durare, conservando geologicamente come una crepa o un fossile ciò che la storia rapidissima degli eventi reali o artistici sembra trascinare a una velocità indifferente»11. E’ possibile che ciò accada anche con la fotografia meno nobile, quella di tutti i giorni, quella dei telefoni intelligenti in mano ad utenti che, in virtù dei loro diversi interessi, catturano brani di città eterogenei. L’ubiquitous computing, vale a dire l’utilizzo di apparati digitali di calcolo in mobilità come gli smartphone, i tablet o le comuni macchine fotografiche digitali, è alla portata di una vasta gamma d’individui che popolano l’ambiente urbano. Per questo motivo, vedere la città di Bologna attraverso la fotografia, dal punto di vista fisico del passante che ne inquadra i tratti riconoscendola ogni giorno, è stato il primo riferimento culturale nel lavoro di ricostruzione. Sicuramente operazione non banale, dacché si è voluto interpretare un sentimento vicino al sentire comune del cittadino, immaginandone le sfaccettature emotive. Afferma in proposito il maestro Gabriele Basilico, presentando il suo lavoro Scattered City: «Le città si assomigliano, ma non sono ovviamente tutte uguali: ci sono differenze di storia, di dimensione, di latitudine, di nord e sud del mondo. La fotografia ci permette di addentrare lo sguardo all’interno di questo arcipelago, di questo immane corpo fisico, ci permette infine di vedere oltre l’apparenza del reale»12. Seguendo questo approccio, lo scenario fotografico riconosciuto e 11 Stefano Benni, in Gianni Berengo Gardin, Un paese, tanti paesi, Milano, Motta editore, 1999. 12 Stefania Rössl, Massimo Sordi (a cura di), Lo spazio visivo della città, Firenze, Alinea Editrice, 2006.


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riconoscibile è stato adattato alle proposte virtuali dei due luoghi urbani selezionati, profondamente differenti dagli odierni se le scelte architettoniche e funzionali fossero state altre, in tempi diversi. L’immagine del reale è stata affiancata, se non addirittura scambiata, dalla rappresentazione digitale. Ma quanti modi di svolgere con efficacia questo compito di rappresentazione dell’architettura esistono oggi, in ragione del potenziale fornito dal calcolatore? In linea generale, il disegno digitale può fare affidamento su processi di render (vale a dire resa pittorica o grafica) che appartengono essenzialmente a due diverse categorie. Esistono le visualizzazioni non foto-realistiche (dette NPR - NonPhotorealistic Render), ossia quelle che permettono di ricreare al computer il tratto caratteristico di una penna, i colori di un pastello o l’emotività di un pennello. Grazie alle tavolette grafiche sempre più sensibili in commercio, o alle nuove generazioni di tablet che consentono l’utilizzo di penne utilizzabili come se si scrivesse su un foglio di carta, questo approccio ha riscosso diversi consensi in architettura13. Vi sono poi i render realistici, quelli che cercano di rappresentare scene sintetiche non reali come se lo fossero, per mezzo della simulazione fisica della luminosità diretta e diffusa. Negli ultimi anni validi artifici matematici sono riusciti a trasferire il comportamento elettromagnetico della luce in algoritmi ben definiti all’interno dei motori di render, permettendo la visualizzazione assolutamente credibile di scenari del tutto irreali, frutto di svariate ore di calcolo. Quest’ultimo metodo è quello utilizzato nell’esplicamento delle attività di ricostruzione digitale esposte in questo lavoro, sviluppate all’interno del laboratorio Silab del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, una struttura dove si studiano ed applicano da tempo i metodi più moderni di rappresentazione e modellazione mediante l’utilizzo di calcolatori, programmi professionali di modellazione digitale, stampanti tridimensionali e sistemi di visualizzazione avanzati. L’occasione di attivare presso il Silab un modulo di tirocinio curriculare per gli studenti dei corsi di laurea specialistica in Ingegneria Edile/Architettura ha costituito l’avvio delle attività di modellazione per ‘Le Bologne possibili’, che sono così diventate il progetto nel quale gli allievi Andrea Carecci e Riccardo Raimondi hanno potuto esprimere ed affinare il loro talento di progettisti digitali. 13

Simone Garagnani, Dal pixel all’acquerello: la tecnologia NPR nelle illustrazioni di architettura, in IN_BO. Ricerche e progetti per il territorio, la città e l’architettura, Dip. di Architettura Università di Bologna, Vol 0, n.0, 2008, pp. 60-67.


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Figura 3 Ricostruzione fotorealistica del piano di Piero Bottoni per via Roma, oggi via Marconi, in una vista dall’attuale via Riva di Reno a Bologna (modello 3D e fotoinserimento professionale di Andrea Carecci su immagine di Luciano Leonotti, 2015).

La successione di operazioni e procedure che i ragazzi hanno seguito durante il loro lavoro è stata, infatti, attentamente pianificata, come in un vero progetto della rappresentazione; il percorso intrapreso, a partire dall’acquisizione delle immagini fotografiche trasmesse al laboratorio, non ha potuto prescindere dalla produzione di modelli tridimensionali complessi, completamente auto-prodotti. Nel caso della Regia Scuola di Ingegneria, dove Riccardo Raimondi ha riportato in vita il progetto originale di Attilio Muggia, sono stati di fondamentale importanza i disegni dell’epoca, dapprima trasposti in formato digitale utilizzando un software CAD, poi importati in un modellatore digitale in grado di gestire le geometrie e le morfologie nelle tre dimensioni. Per quanto riguarda invece l’intervento non realizzato su via Roma, l’attuale via Marconi, il materiale del concorso


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originale ha costituito una base molto meno particolareggiata: Andrea Carecci ha dovuto procedere con pazienza certosina nella generazione di modelli geometrici, dove molto del dettaglio è stato ipotizzato sulla base delle opere realizzate e coeve di Piero Bottoni. Per questo scopo Carecci è stato chiamato ad interpretare e analizzare le viste prospettiche e gli elaborati in grande scala reperibili dagli archivi e fornite dagli studiosi di storia dell’architettura che hanno seguito il progetto. Figura 4

Ricostruzione fotorealistica del piano di Piero Bottoni per via Roma, in una vista dall’attuale via Marconi, all’incrocio con via delle Lame a Bologna (modello 3D e foto-inserimento professionale di Andrea Carecci su immagine di Luciano Leonotti, 2015).

In entrambi i casi di studio proposti la resa geometrica, di grande importanza per definire visualizzazioni verosimili all’interno delle immagini originali, è stata curata fino al massimo dettaglio raggiungibile, in ragione delle fonti e delle invarianti stilistiche degli autori dei progetti originali. Durante il progetto di simulazione fotorealistica si è fatto largo uso delle


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tecniche classiche di computer grafica, riconducibili alla modellazione B-Rep (Boundary Representation) e CSG (Constructive Solid Geometry), vale a dire rappresentando i componenti con le loro superfici perimetrali e ottenendo i volumi per operazioni di sottrazione e addizione di masse, così che la topologia dei modelli prodotti ha garantito coerenza e adeguatezza per la successiva rappresentazione in render. La correttezza geometrica dei modelli ha permesso in tal modo anche la realizzazione di stampe tridimensionali di porzioni dei complessi edilizi, agevolate dall’accurata modellazione dei componenti sia locali che globali.

Figura 5 Ricostruzione fotorealistica del complesso per la Regia Scuola degli Ingegneri all’Annunziata, in una vista da Porta San Mamolo a Bologna (modello 3D e fotoinserimento professionale di Riccardo Raimondi su immagine di Luciano Leonotti, 2015).

Le abilità espresse dagli allievi durante il tirocinio, hanno consentito di ottenere un prodotto finale di livello professionale, dove i


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modelli digitali sono stati sovrapposti alle riprese fotografiche fornite, seguendo regole proiettive per coniugare le caratteristiche ottiche fotografiche con quelle della camera virtuale del rendering. Una volta ottenuto il quadro finale sovrapposto, i modelli sono stati trattati per simulare un invecchiamento atmosferico, così da renderli più aderenti al contesto reale costruito. Conclusioni Scrive Antoine Picon che gli uomini contemporanei sono dotati di due tipi di fisicità, per rispondere a due diverse nature: quella del corpo reale, a contatto con il mondo fisico, e quella del corpo virtuale, connesso al mondo digitale attraverso i flussi della comunicazione14. Il progetto de ‘Le Bologne possibili’ ha volutamente avviato un percorso di esplorazione sulle potenzialità percettive di queste due nature.

Figura 6 Ricostruzione fotorealistica del complesso per la Regia Scuola degli Ingegneri all’Annunziata, in una vista da Viale Aldini a Bologna (modello 3D e fotoinserimento professionale di Riccardo Raimondi su immagine di Luciano Leonotti, 2015). Antoine Picon, Architectural and the virtual. Towards a new materiality, in Amanda Reeser, Ashley Schafer, (a cura di), Praxis - Journal of Writing + Building, Boston, 6 (1), 2004, pp.114-121. 14


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Presentare diacronicamente lo sviluppo di un tessuto urbano differente, comparandolo nella maniera più diretta con quello vero, esperibile nella quotidianità da tutti, è stato un compito impegnativo. Gli allievi Carecci e Raimondi, che l’autore ha avuto modo di seguire in questo percorso e ai quali va un doveroso e sentito ringraziamento per la passione e gli sforzi profusi, si sono dimostrati in grado di raccogliere la sfida e dominarla con successo, trasformando un’attività formativa, quella del tirocinio, in un’esperienza di più ampio respiro, nella quale l’uso specialistico degli strumenti della loro professione di domani è stato declinato a contenuti culturali profondi. Corre l’obbligo di riflettere sulla valenza formativa di questo progetto: il tirocinio curriculare proposto nel laboratorio Silab, che l’autore ha avviato con Luisa Bravo, è stato espressione applicata di un sapere tecnico e urbanistico coniugato alla storia della città, prima che dell’architettura. Il progetto immaginato da Piero Orlandi è dunque maturato nella configurazione di un ponte ideale tra la Bologna concreta e l’effimero universo digitale; è divenuto espressione di un dualismo reale/virtuale che sta in questi anni sfumando in contorni indefiniti, mentre il confine si perde tra le pieghe di un tessuto sempre più interconnesso tra chi abita il dominio urbano e chi lo racconta a modo proprio, attraverso un’immagine o un disegno.


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Narrazioni urbane attraverso il mezzo cinematografico. Architettura, spazio e scenari dell’immaginario collettivo Luisa Bravo

La storia delle nostre città è un racconto fatto dagli uomini per gli uomini, costruito attraverso progetti, architetture e spazi di vita sociale. La creazione e trasformazione dell’urbano è come un film lungo decenni, a volte secoli. Il mezzo cinematografico ha spesso influenzato l’urbanistica, come strumento di documentazione di un processo evolutivo e come sapere diverso capace di fornire riflessioni, di sedurre e coinvolgere emozionalmente. Non solo, il cinema, come coscienza dell’occhio umano, ha avuto a volte la capacità di diventare linguaggio diretto con contenuti educativi, perché in grado di spostare il punto di vista dalla visione d’insieme propria degli urbanisti alla percezione personale e soggettiva propria dei singoli osservatori. La camera inquadra architetture e spazi, interpreta storie, evoluzioni e trasformazioni, coglie dettagli e propone nuovi punti di vista. La città, vista attraverso il cinema, diventa racconto aperto a multiple interpretazioni, diventa visione, scenario dell’immaginario collettivo, capace di descrivere e divulgare le mutevoli identità urbane, attraverso lo spazio e il tempo.


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La città contemporanea è una sommatoria di città sovrapposte: quella delle dinamiche economiche, degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici; quella delle infrastrutture, della tecnologia e del funzionalismo; quella dei mercati globali e dell’immigrazione di massa. Parallelamente la società contemporanea è la più segmentata e differenziata che sia mai apparsa nella storia. Tante diverse immagini, dunque, tante diverse espressioni di complessità e frammentazione. Nell’età contemporanea, tuttavia, cresce il desiderio di città, di usarla, di viverla, di gestirla, di sperimentarla, cresce la domanda di città espressa dai suoi abitanti. L’imperativo di progettare la città with people in mind1, richiede di fare i conti con i desideri degli individui oltre che con i bisogni della collettività. Quando pensiamo alla città in cui viviamo pensiamo a luoghi o edifici specifici, costruiamo nella nostra mente una rappresentazione dello spazio edificato, spesso associata a situazioni, incontri, eventi o particolari emozioni, che deriva dalle immagini che sono depositate nella nostra memoria: strade, palazzi, monumenti, vetrine, insegne si saldano senza soluzione di continuità creando quella che Amendola definisce mindscape2, vale a dire la rappresentazione dell’ambiente urbano secondo le mille e una città possibili - panorama simbolico e mentale liberamente assemblate sulla base di specifici bisogni e desideri espressi dai suoi abitanti. Ciascuno di noi ogni giorno vive, attraversa, utilizza gli spazi e i luoghi della città. Ma ciascuno di noi, in modo del tutto unico, compone e sperimenta ogni giorno la propria città, definendo la maglia dei percorsi e dei collegamenti, sulla base del proprio luogo di residenza, dei propri tempi di lavoro e di vita, e scegliendo i luoghi del divertimento, del piacere e del loisir sulla base delle proprie abitudini e necessità. Calvino, nelle sue descrizioni affabulatorie delle città invisibili, dice: «Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra…le città credono di essere 1

Rachel Kaplan, Stephen Kaplan, Robert L. Ryan, With People in Mind. Design and Management of Everyday Nature. Island Press, Washington, D. C.,1998. Si veda inoltre: D. Quinn Mills, Planning with people in mind, Harvard Business Review, 1985, https://hbr.org/1985/07/planning-with-people-in-mind, accesso 20 ottobre 2015. 2 Giandomenico Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Torino, 2005


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opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altra bastano a tener su le loro mura. Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie ma la risposta che dà alla tua domanda»3. La cultura urbanistica è oggi più che mai impegnata a curare l’immagine della città, nel tentativo di renderla più bella e attraente, sia nella sua dimensione fisica che in quella morfologica: da un lato, a livello di gestione e amministrazione del territorio, cercando di dare risposta al sempre più crescente interesse ai temi dell’ambiente e della mobilità, sulla spinta dell’informazione mediatica degli ultimi anni; dall’altro, a livello di progetto urbano, proponendo modelli accattivanti di trasformazione dei luoghi e grandi, avveniristiche, potenti architetture-simbolo, espressione autoreferenziale di uno specifico linguaggio progettuale e forte segno visivo nel paesaggio urbano. Il cityscape - panorama fisico della città - assume così nuovi connotati, più avveniristici e tecnologicamente funzionali, proiettati verso il futuro prossimo venturo. In questo senso più che la città stessa importa il look and feel, l’immagine e il sentimento della città. La sfida per progettisti e amministratori sembra essere oggi quella di creare una città secondo i desideri, una città che rispecchia l’idea che la gente si è fatta della città, cercando di raggiungere la convergenza e, possibilmente, la sovrapposizione fra cityscape e mindscape, attraverso un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline che pure contribuiscono a costruire l’immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. Il cinema, come arte del narrare luoghi, storie e sentimenti, è spesso usato come strumento altro per la lettura della città: a volte è la città stessa che genera il film, non solo da un punto di vista architettonico, ma anche sociologico, geografico, storico oppure pittorico. Sotto l’aspetto espressivo infatti il cinema rappresenta la città fondamentalmente secondo due aspetti dialettici: come elemento formale-scenografico e come contenitore sociale, quindi, in sostanza,

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Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972


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come luogo rituale4. Come chiarisce Costa5, il cinema rappresenta della città «non solo architetture, strutture e infrastrutture, luoghi e quinte, strade e piazze, tetti e sotterranei, luci e ombre, colori e movimento, ma anche, attraverso le storie che nelle città si svolgono, benessere e malessere, odio e amore, allegria e tristezza, successi e delusioni, ambizioni individuali e collettive, felicità e infelicità». Il cinema racconta la vita all’interno della città, i luoghi in cui è facile incontrarsi, l’accendersi e lo spegnersi dei rapporti umani e allo stesso tempo il degrado delle periferie, l’emarginazione, la violenza e il disagio sociale. Ma accanto al cinema cosiddetto narrativo, cioè il cinema di ampia diffusione che ha contribuito a costruire l’immaginario collettivo del XX secolo, c’è il cinema degli urbanisti, degli architetti e dei critici che occasionalmente hanno assunto il ruolo di soggettisti, sceneggiatori o registi, al fine di partecipare al dibattito sul destino della città attraverso l’illustrazione della loro idea di città, risultato di una specifica interpretazione della storia dei sistemi urbani. Normalmente si tratta di film-documentario prodotti in occasione di convegni, rassegne ed esposizioni il cui scopo è di convincere il pubblico della bontà e delle potenzialità della nuova progettazione urbanistica e di presentare un progetto urbano che si faccia interprete delle paure e delle speranze della società, in grado quindi di raccogliere una partecipazione emozionale, non razionale, collettiva6. Studiare la città attraverso il cinema significa anche assistere alla rappresentazione dell’immaginario, entrando in qualche modo nella dimensione del sogno che è la dimensione propria del mezzo espressivo: il cinema offre visioni o visions e prefigura scenari futuri, innescando riflessioni sulla città progettata e su quella da progettare, su quella dimenticata o mai esistita, come nel caso de “Le Bologne possibili, mostrando nuovi significati.

Antonella Licata, Elisa Mariani Travi, La città e il cinema, Dedalo, Bari, 1993 Enrico Costa, Il paradigma cinematografico per una nuova dimensione dello spazio del tempo e dell’identità urbana in Francesca Moraci, Riflessioni sull’urbanistica per la città contemporanea, Gangemi, Roma, 2002. 6 Leonardo Ciacci, Progetti di città sullo schermo. Il cinema degli urbanisti, Marsilio, Venezia, 2001. 4 5


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Il cortometraggio “Le Bologne possibili. Progetti non realizzati per la città”. “Le Bologne possibili. Progetti non realizzati per la città”. Cortometraggio Ideazione e regia: Luisa Bravo Assistenza alla regia e montaggio: Mattia Santi e Carlo Bergonzini Supporto tecnico alla realizzazione: City Space Architecture Mattia Santi intervista Luisa Bravo. Giovedì 24 settembre 2015. Interno. Giorno. Silab Università di Bologna. Che cosa racconta “Le Bologne possibili”? Raccontiamo la città come sarebbe potuta essere. Deve trasparire in questo cortometraggio la voglia di raccontare Bologna, di parlare di Bologna. Abbiamo scelto due progetti, dopo due anni di lavoro, ma l’ambizione è di lavorare su altri progetti, perché ce ne sono veramente tanti, senza tornare indietro al 1500, ma parlando della storia recente, del secolo scorso. E’ chiaro che questo richiede uno sforzo, un impegno di tempo, di persone e di risorse, noi abbiamo fatto quanto possibile, con un budget assolutamente limitato, che è quello servito per allestire la mostra e pubblicare il libro, niente di più, contando sull’innamoramento per Bologna di tutte le persone che ci hanno lavorato. L’idea della narrazione attraverso un cortometraggio sviluppa il punto di vista sia dell’architetto, che è interessato alla progettazione degli spazi dell’architettura, nella sua fisicità visiva e volumetrica, sia dello storico, interessato a leggere i documenti di archivio, sia dello specialista in computer grafica, interessato alla rappresentazione dell’architettura attraverso la tecnologia, e quindi alla capacità di simulare la città, sia dell’urbanista che in queste rappresentazioni legge come poteva essere la città e quali opportunità ci sarebbero state, ad esempio per lo sviluppo


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di una via commerciale o di uno spazio pubblico oppure di edifici in altezza, in riferimento allo skyline urbano.

Figura 1 Le diverse letture della città e della sua trasformazione: l’architetto, lo storico, l’esperto di computer grafica, l’urbanista (nell’ordine, Piero Orlandi, M. Beatrice Bettazzi, Simone Garagnani, Luisa Bravo). Foto di scena tratte dal ortometraggio “Le Bologne possibili”.

Però, secondo me, questo progetto deve andare più al cuore delle persone, dobbiamo chiederci: perché un bolognese deve venire a visitare


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la mostra all’Urban Center? Tu sei di Bologna? No io sono venuta a studiare a Bologna e poi sono rimasta a Bologna. Perché? ti sei innamorata di Bologna? Ma sì, in un certo senso sì. Mi ricordo quando studiavo a Bologna, mi sentivo in una dimensione nuova, diversa per me. Avevo un senso di grande attrazione tutte le volte che mi affacciavo su Piazza Maggiore, magari in un’atmosfera di tramonto, con le luci che si accendevano e le ultime ombre che scendevano sulla piazza. Mi ricordo questo senso di grande coinvolgimento emozionale, che chiaramente uno spazio come Piazza Maggiore dà a molti, se non a tutti. Quindi, sì è vero che la città per come è ti restituisce tanto, in termini di emozione, ti fa innamorare, ti fa sentire che sei lì in quel momento e che vivi quel preciso istante in quel luogo e appartieni a qualcosa. E’ una città che vive! Esatto! Quello che secondo me questo progetto restituisce molto bene è che a volte noi siamo troppo veloci nel consumare la città, invece dovremmo fermarci ogni tanto, fermarci e guardare. Infatti, vedi, queste prospettive, da queste foto scattate da Luciano Leonotti, sono generalmente impostate all’altezza del punto di vista di una persona che cammina all’interno della città. Questa [via Marconi] ha una prospettiva diversa perché vuole accentuare l’enfasi un po’ monumentale degli edifici in altezza e l’importanza di un intervento che è un ripensamento globale della strada. Però fondamentalmente io, quando guardo queste foto, mi vedo come se fossi io a guardare la città in questo modo, come un qualunque cittadino bolognese che un giorno si ferma a porta San Mamolo o in via Marconi e guarda in quella prospettiva. Immagina di vedere questa foto in un grande formato nella mostra


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all’Urban Center: ad un bolognese che viene alla mostra noi diciamo “Guarda Bologna!”, perché forse ci sono cose che non hai visto, cose che potresti scoprire, cose che non ci sono mai state e che non ci saranno mai e che però è importante conoscere della città. Perché il dinamismo della trasformazione dà qualcosa al cittadino, anche se il cittadino non se ne accorge. E’ una ricchezza, in questo caso dell’architettura e dell’urbanistica, che trasforma l’esperienza urbana anche per il cittadino più inconsapevole. Come può essere utilizzato il lavoro prodotto con “Le Bologne possibili”? Noi ci siamo soffermati solo su due progetti, ma pensando che la ricerca vada avanti, vorremmo lavorare su tutti i luoghi della trasformazione degli ultimi cento anni, per ricostruire una Bologna “sognata” con l’inserimento di tutti i progetti non realizzati al posto di quelli che invece hanno costruito la città come la vediamo oggi. In questo senso, credo che questo lavoro possa essere anche uno strumento per gli architetti, gli ingegneri e gli urbanisti che lavorano al Comune di Bologna. E’ come se noi lavorassimo in una timeline della città di Bologna, noi ci siamo fermati ad esplorare un momento di questa timeline e a quel punto c’erano due strade: la città ha preso una strada, che è quella che corrisponde a Bologna come è adesso. Noi stiamo esplorando l’altra strada perché la qualità della città, della sua trasformazione, che è poi una ricaduta per i cittadini, per gli utenti finali, dipende anche da queste decisioni, cioè il fatto che il Comune di Bologna decida di fare un progetto piuttosto che un altro. Questo cortometraggio contiene dentro tante cose e vorrei che, questa è un’ambizione, il cittadino si fermasse un attimo e avesse gli strumenti, tramite queste foto, le ricerche di archivio, così come i modelli e la stampa 3D e poi il libro che sarà pubblicato, vorrei insomma che il cittadino cogliesse questa complessità. Deve capire perché noi ci siamo dati tanto da fare!


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Ma a te piace di più la città sognata o la città presente? Le due cose esistono sempre insieme, secondo me, bisogna soltanto fare lo sforzo di entrare dentro ad una città che ha molti livelli di interpretazione. Quando io vivo la città vado alla ricerca del desiderio della città, di quello che io vorrei che fosse la città, per me, quindi la città sognata, per come ognuno la vive, già esiste. Qual è la traiettoria che mi porta da un luogo ad un altro all’interno della città, qual è il percorso che io seguo per raggiungere la mia destinazione finale? Quali sono i luoghi che preferisco? La città ha all’interno un menu, di piazze, di strade, di negozi, di architetture, che mentre tu ti muovi da A a B scopri o vuoi rivedere, magari ti puoi anche fermare, anche solo per un attimo. Io scelgo sempre il mio percorso, soprattutto se sono a piedi. La città sognata, quindi, contiene una parte di desiderio, cioè quella parte piuttosto intangibile della città, ma è come se ognuno la potesse percepire, in un certo senso. La città del sogno c’è sempre dentro la città reale. Ma quindi è una città che diviene, quindi che si trasforma, oppure è una città che rimane immutabile? Come costruisco il senso di appartenenza, legato anche alla familiarità dei luoghi? Il senso di appartenenza è piuttosto difficile da definire come concetto statico. Certo in buona parte deriva dal patrimonio, dall’identità culturale, quindi dai monumenti, dai palazzi, dagli spazi pubblici, noi ci riconosciamo in questa storia. Questi oggetti sono frammenti che noi abbiamo come immaginario collettivo, interiorizzati nella nostra cultura. Ma nella vita di tutti i giorni noi associamo alla città anche cose che invece sono estremamente mutevoli. E’ un esercizio che faccio sempre, anche con i miei studenti: se io ti dico “Bologna”, qual è la prima immagine che ti viene in mente?


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Le torri, le piazze… Esatto, quella è la parte immutabile, un’immagine molto chiara che tutti sono in grado di riconoscere e a cui tutti si sentono di appartenere. Ma nell’esperienza comune, reale, di tutti i giorni, il flusso attraverso cui ti muovi e vivi la città è legata a fattori estremamente mutevoli. Basta pensare a negozi che aprono e chiudono, si rinnovano, si allargano, nuove centralità che fanno parte di una pedonalità a livello zero della città. Quindi è difficile dire che il senso di appartenenza è legato solo al patrimonio, alla storia, e solo quello contribuisce all’identità culturale. In realtà c’è molto di più, soprattutto adesso che la tecnologia, lo vediamo anche in questo progetto, ti aiuta a godere la città molto più velocemente, quindi a costruirti una tua capacità di cercare, sognare, desiderare la città, in determinate occasioni, momenti, incontri, anche pensando a pratiche sociale che si svolgono nella città, tutti quei movimenti spontanei che sono sempre più forti e presenti, che nascono dal basso, che animano le strade, che diventano un trend sociale che poi caratterizza la città dal punto di vista urbano. Anche adesso il progetto di chiusura al traffico delle aree centrali di Bologna, con il rifacimento della pavimentazione e l’apertura del centro storico nel weekend per provare a tornare in centro, anche quello è stata una scelta ambiziosa che ha prodotto un nuovo modo di pensare e di trasformare la città e quindi anche un nuovo modo per i cittadini di Bologna di tornare nei luoghi che fanno parte di quelle immaginario fisso che definisce l’identità e il senso di appartenenza. Quelle immagini nella memoria collettiva dei cittadini bolognesi rimangono fisse, ma oggi il modo in cui vengono usate è totalmente diverso da come avveniva prima. La città quindi è fissa ma tutto il resto si muove. Questo dinamismo contiene anche le architetture sognate. Ma da queste foto come posso capire che la città di cui parliamo è Bologna? Il cittadino non vede le torri… Questo cortometraggio non contiene le solite immagini che vanno ad


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intercettare quella memoria fissa che dicevo prima, noi dobbiamo quasi mettere a confronto quelle immagini fisse, che sono la rappresentazione più conosciuta di Bologna, con altre immagini: è come se tu ti fermassi a guardare le immagini che riconosci, che ti sono più familiari, e poi ti sposti, sposti lo sguardo ed entri in questa dimensione di Bologna reale, vissuta, sognata, anche un po’ dimenticata. Vorrei che questo cortometraggio, che è un esperimento, faccia nascere la voglia di sapere di più, di interessarsi di più della storia più recente di Bologna. Quando parliamo di storia non dobbiamo necessariamente tornare indietro di cinque secoli, anche questa che rappresentiamo ne “Le Bologne possibili” è storia, è la nostra storia più recente, il nostro io contemporaneo. Negli ultimi cento anni i valori, gli ideali, i riferimenti culturali sono cambiati, addirittura negli ultimi dieci anni sono cambiati ad una velocità incredibile. Noi dobbiamo essere legati al nostro momento storico, al presente, questo è un passaggio fondamentale. Tutti amano la storia: tornare indietro, vedere com’era Piazza Maggiore e sfogliare tutti i progetti di completamento della facciata è un’operazione certamente interessante che affascina il grande pubblico. Ma la storia più recente ha un impatto sul presente e sul nostro vissuto quotidiano. Forse anche più forte, che tutti ignorano. Certo. Dobbiamo dire che il moderno in architettura e urbanistica è un tema molto sviluppato in ambito accademico, quindi ci inseriamo in un filone di ricerca già molto ben consolidato, su cui anche il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna ha lavorato molto. Ma questo progetto in realtà vuole dare di più, non è semplicemente riscoprire l’edificio, fare una scheda di catalogo, raccogliere materiali storici, questo progetto entra nel concetto di dinamismo urbano, anche nei suoi risultati, quindi oltre alla documentazione che viene dalla storia propone modelli, stampe tridimensionali e un cortometraggio.


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Quindi questo cortometraggio è un ritorno al passato (recente), impiantato nel presente per dire ai cittadini bolognesi che la città può evolvere, trasformarsi, cambiare aspetto? Questo cortometraggio vorrebbe aprire una prospettiva nella dimensione dell’immaginario. Ma solo dell’immaginario o anche della trasformazione reale? Forse entrare nella dimensione della trasformazione urbana significa avere la capacità di capire, leggere la trasformazione in se stessa, cosa che è più rivolta agli esperti del settore, non parla a tutti. Ma il cortometraggio invece vuole parlare all’utente finale, a quello che passa per via Marconi tutti i giorni o che possiede un negozio in via Marconi, perché sono loro, le persone che vivono questi luoghi, che fanno Bologna. Noi quando parliamo dell’architettura o della trasformazione, del progetto, della qualità del progetto urbano, rimaniamo sempre in una posizione che è un po’ “alta”, rivolta agli addetti ai lavori, ma io vorrei che si abbassasse leggermente, senza perdere di qualità e di rilevanza di contenuti e che chi deve leggere e capire faccia lo sforzo di salire un po’, in modo che ci sia come una fase intermedia in cui inizia un dialogo. E noi questo dialogo lo abbiamo già avviato con gli addetti ai lavori coinvolti in questo progetto, mettendo insieme gli storici, i modellatori tridimensionali, i fotografi, i video-makers, gli urbanisti. Ecco, l’urbanistica. Da anni non si fa altro che parlare della crisi dell’urbanistica, e ogni volta che c’è un progetto che va male, tra scandali, appalti e tangenti, ritorna periodicamente il dibattito, perché l’urbanistica è legata ai poteri forti, quelli economici. Ma io vorrei che l’urbanistica fosse legata al suo vero senso, cioè costruire le città per le persone. Sembrerà veramente molto banale questa cosa, ma la città è delle persone, lo hanno scritto molti autori negli ultimi quarant’anni. E come facciamo noi, noi che lavoriamo in questa posizione un po’ “alta”


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a costruire una città per le persone se non riusciamo a dialogare, a raggiungere le persone per cui stiamo lavorando? Come è possibile che ogni volta che viene presentato un progetto di trasformazione urbana c’è sempre una rivolta sociale? Perché manca questo dialogo, anche se c’è uno sforzo enorme sulla partecipazione e il coinvolgimento, Bologna lavora tantissimo su questo, ed è un esempio di Smart City a livello nazionale sul tema del sociale, a vari livelli. E’ vero che sono stati fatti tantissimi passi avanti, la partecipazione oggi è veramente un processo, non è solo un momento nell’approvazione di un piano urbanistico, deciso per legge. La partecipazione oggi è laboratorio, coinvolgimento dei cittadini, progetti rivolti ad una socialità urbana, ad una fruizione sempre più legata alle attività quotidiane del cittadino. Però secondo me c’è ancora un problema, forse anche nel linguaggio. Questo progetto, “Le Bologne possibili”, è una occasione straordinaria per utilizzare tutte le risorse che oggi abbiamo a disposizione per lavorare su questo linguaggio, per creare questo momento intermedio di incontro. Quindi il fine del cortometraggio è di stimolare la partecipazione delle persone per renderli partecipi e protagonisti nel proprio presente. Tutto questo fatto da te, un addetto al lavoro. Certo, ma io, che sono un addetto al lavoro, sono anche cittadino, perché anch’io cammino in questi luoghi, da cittadino. C’è una distanza, in effetti, con le istituzioni che i cittadini avvertono. Sì, infatti, sempre più spesso si parla di questa distanza, mentre invece ci dovrebbe essere un patto di solidarietà tra le istituzioni e il cittadino. Ma come si costruisce questo patto? Ci sono sempre state, e ci sono tuttora, occasioni pubbliche di confronto e di dibattito, che inevitabilmente però, soprattutto oggi, si trasformano in contestazione. Io partecipo a volte a queste occasioni pubbliche, anche da uditore, e mi accorgo sempre di più che c’è un’esigenza di contestazione, che viene dal basso.


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Quindi è sempre più difficile oggi fare l’urbanistica: da una parte, come amministratore, tu devi costruire e gestire un consenso, che ti permette di lavorare, dall’altra parte c’è un senso di insofferenza dal basso che di fatto crea difficoltà affinché questo consenso si concretizzi. Potrebbe essere un problema di chiarezza di linguaggio? E’ possibile stabilire un linguaggio in cui il cittadino può riconoscersi? Forse il cittadino è molto disilluso dalla politica in generale, oggi c’è una diffidenza non verso la persona che fa il politico in quel mandato ma verso le istituzioni, nella loro incapacità di entrare veramente nella città, di essere cittadini anche loro. Questo succede anche a Bologna. Rispetto al passato, le amministrazioni più recenti, compresa quella attuale, hanno lavorato tantissimo in questa direzione. Anche l’Università di Bologna ha lavorato per tanti anni sulla città, facendo progetti anche bellissimi, che poi però, purtroppo, rimangono nel cassetto o che diventano un libro. Secondo me il ruolo principale di un’istituzione è quello di lavorare per la città, per cui il progetto che l’istituzione fa per la città dovrebbe, non dico donarlo, ma quantomeno condividerlo. Invece l’impressione è che si fanno i progetti per i progetti. Proviamo a fare un progetto che è un vero progetto per la città, come in questo caso, con un’istituzione, come l’Istituto Beni Culturali che lo promuove, insieme all’Università di Bologna. E anch’io, che attualmente non lavoro più all’Università di Bologna, per via dell’innamoramento per Bologna di cui parlavo prima, lavoro affinché questo progetto diventi un progetto condiviso con la città. Ecco perché anche la mostra all’Urban Center, che è lo strumento di dialogo con la città. Ecco perché un cortometraggio che viva anche dopo che il progetto sarà finito, dopo che anche la mostra sarà finita e tutto verrà raccolto in un libro, che finirà in un cassetto.


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* Il contributo contiene parte degli esiti di ricerca della tesi di dottorato dell’autore, discussa nel 2008 presso l’Università di Bologna, Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale. In particolare il tema del rapporto tra città e cinema è stato presentato al VII Convegno Interdottorato in Pianificazione Urbana e Territoriale tenutosi nel 2007 all’Università di Palermo e pubblicato nel volume “Fare ricerca”, edito da Alinea, nel contributo dal titolo “Vivere in città: esperienze, immagini e visioni”. L’autore ha poi ulteriormente sviluppato il tema di ricerca, in Italia e all’estero, i cui esiti sono confluiti nel concorso per cortometraggi “Visioni Urbane”, sezione del Festival “Visioni Italiane” della Cineteca di Bologna, attualmente alla sua seconda edizione. “Visioni Urbane” è un progetto promosso da City Space Architecture, associazione culturale senza scopo di lucro con sede a Bologna, di cui l’autore è coordinatore, in qualità di Presidente dell’associazione.


Finito di stampare in Marzo 2016 Centro stampa Regione Emilia-Romagna



ISBN 9788897281528


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