Vintage, La memoria della moda

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Dossier

ER MUSEI E TERRITORIO

Dossier 9 IBC

Vintage

€ 18,00

ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

Vintage La memoria della moda


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ER MUSEI E TERRITORIO

Dossier ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA


Art direction Lisa Marzari Progetto grafico e impaginazione Francesca Frenda In copertina Elaborazione grafica. In quarta di copertina Pochette Magazine, inizi anni Settanta, in plastica rigida stampata con rivista femminile dell’epoca. © 2010 Dossier Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna Via Galliera 21 - 40121 Bologna www.ibc.regione.emilia-romagna.it © 2010 Editrice Compositori via Stalingrado 97/2 - 40128 Bologna tel. 051 3540111 - fax 051 327877 info@compositori.it www.compositori.it ISBN 978-88-7794-702-4 L’Istituto per i beni culturali si dichiara pienamente disponibile, nel caso di involontari errori, a regolare eventuali pendenze con gli aventi diritto che non sia stato possibile contattare.


ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

Vintage La memoria della moda a cura di Iolanda Silvestri


Pubblicazione promossa e realizzata dall’Istituto per i Beni Artistici Cuturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna a seguito del convegno ‘La moda che vive due volte: il vintage. Come conservarlo?’ tenutosi a Ferrara il 4 aprile 2008, in occasione del Salone Internazionale dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali. Comitato scientifico promotore del convegno e della pubblicazione Laura Carlini, Marta Cuoghi Costantini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Iolanda Silvestri Testi di Moira Brunori Angelo Caroli Federica Fornaciari Enrica Morini Thessy Schoenolzer Nichols Iolanda Silvestri Elisa Tosi Brandi Referenze fotografiche Le immagini a illustrazione dei saggi sono state fornite dagli autori ed eseguite dai fotografi di loro riferimento citati nelle rispettive didascalie. Le immagini dei capi e degli accessori dell’Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O. e dell’Archivio d’impresa Max Mara sono state realizzate da Costantino Ferlauto dell’IBC. Coordinamento editoriale Isabella Fabbri, Carlo Tovoli Ringraziamenti È con sincera e doverosa riconoscenza che Laura Carlini, Iolanda Silvestri e Marta Cuoghi Costantini ringraziano Maria Giuseppina Muzzarelli, ideatrice del convegno promosso dall’IBC a Ferrara nel 2008, ‘La moda che vive due volte: il vintage. Come conservarlo?’, dal quale questa pubblicazione è nata. Un ringraziamento particolare va esteso inoltre a Valeria Cicala dell’Uffico Stampa dell’IBC per la cura dedicata alla promozione dell’evento ferrarese. Sempre in riferimento al convegno del 2008 si ringraziano anche Lidia Bortolotti, Beatrice Orsini e Antonella Salvi per aver fattivamente collaborato alla sua realizzazione. Si ringraziano infine Max Mara e Angelo Caroli per aver consentito l’accesso agli Archivi dei loro materiali.


Indice

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Presentazioni Laura Carlini Maria Giuseppina Muzzarelli

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Comprendere e conservare il vintage e la sua riproposta nella moda contemporanea Iolanda Silvestri

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Uno stile della moda di oggi: il vintage Enrica Morini

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Collezionare il collezionabile per un museo della moda Thessy Schoenholzer Nichols

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Riconoscere e conservare gli abiti del Novecento Moira Brunori

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Sartorie del Novecento in Emilia-Romagna: l’abito su misura nell’epoca del prêt-à-porter Elisa Tosi Brandi

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L’industria della moda: la produzione e gli archivi d’impresa Federica Fornaciari

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Perché collezionare il vintage Angelo Caroli

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Gli archivi del vintage

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Bibliografia generale



L’impegno nello studio e l’attenzione alla conservazione dedicati ai tessili antichi conservati nei musei della regione coincidono con la nascita stessa dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna nel 1974. Il tessile in ogni sua espressione multiforme, dal tessuto all’abito, dalla tappezzeria all’arazzo, dagli ornamenti agli accessori, è stato recuperato alla memoria storica con criteri di studio sistematici solo negli anni Settanta del secolo scorso. La conoscenza rinnovata della storia e della tecnica di questo prodotto dell’artigianato, come di tante altre espressioni ‘minori’ della nostra tradizione artistica altrimenti intese come arti applicate, è progressivamente cresciuta sulla scia della fortuna storica di cui il patrimonio artistico e culturale italiano ha iniziato a godere in quel periodo. Patrimonio che era allora l’obiettivo privilegiato di una politica culturale lungimirante e ottimista che investiva fondi e alta progettualità nello studio, nella conservazione e nella valorizzazione. Nulla sfuggiva ai responsabili della salvaguardia statale e regionale così come ai referenti degli istituti museali che negli anni hanno destinato risorse per questa categoria di beni culturali, sebbene talora distribuite in modo limitato, frazionato e discontinuo. Da questo vento a favore anche il tessuto antico ha tratto lo slancio vitale per sopravvivere a una perdita sicura favorita dall’alta deperibilità dei suoi materiali. Sostanziali sono state negli anni le campagne di studio, di censimento e di conservazione condotte su fondi tessili regionali di forte evidenza storica che hanno por-

tato sia alla conoscenza e al recupero integrale dei materiali, sia a riallestimenti museali importanti. Tale sforzo si è rinnovato di recente con l’avvio di nuovi percorsi di ricerca sulla moda del Novecento e contemporanea, nel tentativo di offrire uno spunto di riflessione critica sulle ragioni e sulle dinamiche di sviluppo di questo settore, oggi investito da una preoccupante crisi che ne mette in discussione l’identità e che impone una revisione profonda del suo ruolo non solo di carattere economico. L’indagine sulle sartorie storiche attive nella nostra regione nel secolo scorso, condotta tra il 2008 e il 2009, e il convegno dedicato al vintage nell’ambito del Salone del Restauro di Ferrara nel 2008 sono state le prime occasioni in cui abbiamo puntato i riflettori sul mondo della moda, voce primaria della nostra economia e bandiera indiscussa del nostro migliore made in Italy. Nel primo caso si è cercato di ricostruire la storia di un artigianato di tradizione – la sartoria – e di capirne i cambiamenti in un’epoca di ricostruzione come quella del secondo dopoguerra, segnata dalla trasformazione dell’abito fatto a mano in prodotto industriale del pronto moda di firma o in quello destinato alla grande distribuzione. Nel secondo caso invece ci si è avventurati con un approccio interlocutorio, senza pretese di rigore sistemico, nell’attualità del fashion, cercando di capire quel fenomeno di riproposta neo-revivalistica di capi e accessori d’epoca che meglio lo rappresenta: il vintage. Nel gioco secolare tra vecchio e nuovo le carte della moda si confondono a tal punto da rendere difficile in alcuni casi distinguere l’originale dalla copia rivisitata: solo nella scelta e negli abbinamenti di colori, materiali e det-

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tagli della confezione, è possibile rintracciare il segno della contemporaneità. Per tali corsi e ricorsi diviene necessario conoscere a fondo e conservare i capi della moda, sia quelli del vintage d’epoca che quelli dell’odierno vintage

style, non solo per chi opera nella moda, come i produttori e i venditori, ma anche per chi li raccoglie, per i musei e le raccolte di moda, o per chi semplicemente li colleziona o li acquista per scopi diversi. Laura Carlini Responsabile del Servizio Musei e Beni Culturali dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna

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La moda ha un doppio segno e un unico sogno: il sogno è quello dell’inedito, unico, caratterizzante, esclusivo e il segno è quello della novità e insieme del recupero. Nuove voghe, voga nel senso di movimento del remo per andare avanti, prendono sostanza da ideazioni originali ma anche da rivisitazioni di oggetti, forme e stili del passato. Si tratta di riprese consapevoli e rielaborate, usi della storia, diciamo così, che si presentano come novità solo agli occhi di chi non conosce la storia, appunto. Recuperi del genere sono indice di più fenomeni: di cultura storica sapientemente messa a disposizione di creatori del nuovo ma anche di carenza di ideazioni originali vicariate dal citazionismo. Sta di fatto che almeno fin dall’ultimo Ottocento ci sono note reviviscenze nel campo della moda che ha presentato come novità forme e accostamenti in uso nel passato. Dietro a simili revivals, che rimettevano in circolo stili ma non oggetti del passato, si celavano sapienti costruzioni politiche e culturali legate a specifici ambienti e ai loro interessi. Gli usi della storia hanno sempre una loro storia. Da allora quasi a fasi fisse hanno avuto luogo revivals compresi revivals di revivals: basta esserne avvertiti. Rimettere in circolazione abiti e accessori del passato, come oggi si usa, implica conoscenze specifiche anche di materiali e di tecniche per eventuali interventi di restauro. Sì il restauro si applica anche a capi in orbace d’epoca fascista o a vaporosi corpetti di pizzo sintetico di metà XX secolo. Per rimetterli in sesto ed esibirli ser-

vono conoscenze e abilità. Sia che si pensi a musei della moda sia che si pongano sul mercato abiti belli e preziosi di decenni fa desiderati come e ancor più delle esclusive creazioni dell’ultim’ora serve conoscere la storia della moda e sapersene valere per distinguere e intervenire al fine di catalogare, conservare e valorizzare. L’abito usato ha una sua lunga storia fatta in buona misura di necessità e di tempi lunghi della moda che consentivano alle figlie di portare gli abiti delle madri e a molti uomini e donne, non miserabili, di indossare capi carichi di anni ma non perciò spregiati e anzi accettati con favore come dono o comprati anche a caro prezzo da sarti-rigattieri. Si tratta di una storia che ha avuto e ha attori di diverso profilo sociale. Oggi molte raffinate protagoniste dell’apparire scelgono abiti che hanno una storia per dare spessore alla propria identità. Ciò contribuisce a rivalutare la conservazione e a rendere importante saper riconoscere e saper fare: cuciture o restauri. Nuove mani si posano sui manufatti di sapienti artisti o artiste del quotidiano, sarti e sarte oggi celebrati e stimati anche più di un tempo da chi ha piena consapevolezza che molto si è conquistato con i decenni ma si è anche perduto. Il restauro, anche in questo campo, è un omaggio al passato, un tentativo di non perderlo e insieme un modo per costruire il futuro. A tutto ciò ha teso il convegno, promosso e organizzato dall’Istituto Beni Culturali, al Salone del Restauro di Ferrara del 2008. Maria Giuseppina Muzzarelli Docente di Storia medioevale e Presidente del corso di laurea in “Culture e tecniche del costume e della moda” dell’Università di Bologna

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Comprendere e conservare il vintage e la sua riproposta nella moda contemporanea Iolanda Silvestri

Che cos’è il vintage? La moda abita dentro le solide incertezze della contemporaneità. Di più: intesa come logica degli spostamenti della sensibilità, del gusto e degli stili della propria epoca è una rappresentazione forte della contemporaneità, uno dei nodi importanti della sua rete. E addirittura la moda per certi versi si identifica con la contemporaneità e ne è quasi una tautologia. È “temporanea” per statuto, si declina sempre al presente e al plurale, ha un carattere simultaneo, ubiquo e asistematico, vago quanto a origine e destino. Ma in questa sua contradditorietà è anche un campo di tensioni: la moda è insoddisfatta, insofferente e beffarda del presente che già sente passato, è esclusiva e prefigurante, pretende sempre di essere lei e solo lei il presente del futuro.1

In riferimento a questa concezione tautologica e pienamente condivisibile della moda come espressione della contemporaneità, come si qualifica il fenomeno recente e contraddittorio del vintage? Si potrebbe rispondere che ne è parte integrante e controversa in quanto espressione di un suo momento particolare che ne ha modificato sensibilmente i contenuti, introducendo un modo nuovo e diverso di pensare al passato che coniuga insieme, in uno scambio inedito di ruoli, il recupero del passato con la ricerca del nuovo. Introdotto nel sistema moda solo circa sette anni fa con questa denominazione, risultato della felice contaminazione di due vocaboli francesi, l’age du vin (vino d’annata) e vendange (vendemmia), il vintage è un fenomeno, entrato in realtà molto prima nel sistema moda, del tutto nuovo e complesso, che fa riferimento a un modo di porsi critico e

vagamente rétro nei confronti di una storia relativamente recente e delle sue icone più rappresentative, di cui si vuole riappropriare.2 Comparso già negli anni Sessanta del Novecento come interesse per le cose di seconda mano, negli anni Settanta fu espressione di critica sociale verso il consumismo imperante, sia da parte degli strati alti della società che della massa, uniti nonostante le contrapposizioni esistenti. Negli anni Novanta è diventato memoria sistematica del passato di qualità, modificando radicalmente la mentalità del compratore e del venditore, rappresentato dal collezionista, dal rivenditore dell’usato selezionato e dal produttore industriale, tutti alla ricerca di nuovi modelli da proporre. Dalla fine del secolo scorso a oggi, come autorevolmente indica Angelo Caroli, uno dei più importanti collezionisti d’Europa nel settore, il vintage ha assunto una ulteriore connotazione che riassume le precedenti.3 Indica uno stile di vita da parte di un’utenza sofisticata e chic che rifugge l’omologazione forzata del mercato per imporre una propria identità attraverso capi e oggetti ‘d’epoca’ unici ed esclusivi, preferibilmente selezionati tra quei prodotti del Novecento che

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Vedi LUIGI SETTEMBRINI, La Biennale di Firenze: un progetto culturale sulla contemporaneità, in Il tempo e la moda, catalogo della mostra (Firenze 1996), a cura di Germano Celant, Luigi Settembrini, Ingrid Sischy, Milano, Skira, 1996. 2 Sull’origine del termine vintage, ancor oggi molto controversa, e sulla comprensione di questo fenomeno della moda contemporanea, cfr. VITTORIO LINFANTE, Refashioning. Dal collezionismo al vintage, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2008; CAROLINE COX, Vintage Shoes. Le scarpe che hanno segnato il ventesimo secolo, Novara, De Agostini, 2009. 3 Si rimanda al testo di Angelo Caroli in questo volume.

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hanno avuto una storia particolare: fin dalle loro origini sono stati, infatti, espressione feticistica di una moda o di un suo periodo particolare, a cui l’uomo comune ha affidato la propria immagine di riconoscibiltà sociale e culturale. Vintage non è dunque un oggetto semplicemente vecchio e di seconda mano, casualmente ritrovato nel negozio di un rigattiere o nel solaio di casa, oppure ripescato su un banchetto di robivecchi nei mercatini dell’usato, ma rimanda piuttosto a un’ampia casistica di materiali del Novecento di confezione artigianale ma anche industriale, consacrati dalla storia per essere stati, fin dal momento in cui sono nati, prodotti speciali il cui valore aggiunto, universalmente conferito loro dal mercato, è rimasto inalterato nel tempo, trasformandoli in veri e propri oggetti cult. Recuperato a nuova vita, un prodotto vintage può essere indossato se si tratta di un abito o di un suo accessorio, oppure vissuto come componente dell’arredo (una lampada, un divano …), o usato come mezzo di trasporto (un’auto, una Vespa …) e di comunicazione sociale (un juke-box, una radio, una chitarra), o quant’altro ancora. Circoscrivendo l’esame del fenomeno all’ambito specifico della moda intesa come abbigliamento e volendo azzardare un confronto con il passato storico, il vintage nel suo portato più innovativo e radicale di ricerca di libertà espressiva ripropone logiche simili a quelle che investirono la moda nel corso del XVIII secolo. Alcuni esponenti dell’aristocrazia, ma soprattutto dell’alta borghesia colta e raffinata dell’epoca, scelsero fogge e tessuti di gusto esotico (zimarre, turbanti e caftani confezionati con sete dai decori di gusto orientale), estranei allo stile dell’establishment ufficiale,

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per esprimere la propria distinzione sociale, in nome della riscoperta della libertà individuale. Due sono le differenze sostanziali che emergono tra allora e oggi. La prima è d’ordine estetico. La moda del XVIII secolo attinge indistintamente dal repertorio decorativo orientale tradizionale e contemporaneo, il vintage, invece, recupera esclusivamente dal passato alcune immagini selezionate di forte richiamo simbolico. La seconda differenza è d’ordine sociale. Il vintage nasce da esigenze di rinnovamento e di protesta provenienti da parti contrapposte della società e non solo da un unico ambito ristretto, colto e progressista, come fu nel secolo dei lumi. Non nasce quindi solo ed esclusivamente dall’alto, come sempre tutto è avvenuto nel mondo e nella storia della moda, ma è stato alimentato anche dal basso. Possiamo identificarlo, quindi, come il risultato della contaminazione imprevista di esigenze culturali diverse e in opposizione tra loro. Da un lato, una élite colta ed eccentrica, composta da collezionisti e stilisti di grido delle case di moda che hanno inteso la ricerca di nuove linee e modelli come pura creazione estetica, giocata sulla contaminazione continua tra passato e presente, fuori dalla rigide regole del sistema. Dall’altro, una protesta giovanile che, istintivamente stanca di omologazioni formali imposte dal mercato, ha voluto liberarsi dal consumismo estremo e impositivo della moda, creando una propria immagine autonoma e alternativa con ‘look fai da te’ costruiti per la maggior parte con il riassemblaggio creativo e personalizzato di capi usati e fuori moda. Istanze diverse e contrapposte, dunque, ma unite nella contestazione del sistema, che hanno determinato cambiamenti radicali nella moda e nel suo modo di concepirla, co-


stringendo l’industria ad adeguarsi e a mutare le proprie strategie aziendali. Le collezioni, prima elaborate in completa autonomia dagli stilisti in base a scelte creative decise ‘a tavolino’, ora invece, grazie anche all’intermediazione di nuove figure di professionisti della moda (i cool e i costume hunter), riflettono spunti e stimoli tratti dagli eventi più significativi e dallo stile di vita della gente, con un’attenzione speciale rivolta al mondo giovanile, osservatorio privilegiato del contemporaneo. Si può asserire, in sintesi, che il vintage è l’espressione più profonda e radicale del cambiamento intervenuto nella moda contemporanea: attinge linfa ‘dal basso’ per rielaborarla ‘dall’alto’ in una circuitazione del prodotto moda che si auto rigenera con proposte create ex novo, avendo comunque sempre il passato come punto di riferimento privilegiato. Come ha ben affermato Enrica Morini, acuta osservatrice dei cambiamenti della moda contemporanea, il vintage, nato in risposta all’entrata in crisi del sistema moda e dei suoi principi fondati sul dominio assoluto della griffe per la griffe, ha determinato la sostituzione del marchio imposto con «un modo di vestire più vicino al costume che alla moda» che desse forma estetica allo stile personale.4 ‘Not style, but my style’ questo è il motto che pian piano ha portato alla crescita esponenziale del fenomeno vintage e alla proliferazione di un mercato della moda, ibrido e multiforme, di più lunga durata, fatto di proposte che coniugano insieme capi e accessori classici con capi e accessori vintage, d’epoca e non, dove il nuovo è la rielaborazione creativa e aggiornata del passato. Spiega la studiosa che se, fino alla fine del secolo scorso, era imperativo il cambiamento veloce della moda, da allora in avanti «il recupero della me-

moria e la sua permanenza», reinterpretata in modo libero e autonomo, diventano la nuova tendenza da seguire. Il riciclaggio creativo e aggiornato del passato è la nuova regola della moda di oggi. Lo dimostra bene il caso Lagerfeld che nel 1983 ha mutato radicalmente le sorti della Maison Chanel, ormai appannate, rilanciando il marchio e reinventando il mito della stilista francese. Il caso è davvero emblematico perché ha fatto scuola fino ai nostri giorni per la rinascita di altri noti marchi stranieri, come Louis Vuitton, Dior e Lacoste, e italiani, come Gucci, Pucci e Roberta di Camerino.5 L’operazione di restyling della mitica griffe francese se da un lato ha fatto sì che le case di moda si attivassero per recuperare la memoria delle diverse storie aziendali, realizzando ex novo archivi storici di materiali e investendo molto nel campo della comunicazione, ha permesso dall’altro al consumatore di scegliere liberamente dove orientare la propria scelta: verso la firma di prestigio, oppure, in senso opposto, verso gli outlets e gli stores e i mercatini dell’usato, punti appositamente ideati per riacquistare il capo vintage d’epoca o comprarne uno nuovo anche per pochi euro. Come rileva Franca Sozzani, direttrice di «Vogue Italia», questo modo inedito di fare moda, dominato dal prodotto vintage d’epoca, che si omologa a quello nuovo senza troppe sostanziali differenze, ha finito oggi per mettere in crisi l’intero mercato della moda, anche quello più avanzato della ricerca innovativa: non si vedono in prospettiva strategie convincenti

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Si rimanda al testo di Enrica Morini in questo volume. Ibidem.

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di rilancio, se non quelle di affidarsi, per ora, alla variabile incontrollata della sensibilità individuale e collettiva del consumatore, unico vero catalizzatore del cambiamento estetico.6 In sintesi si può rilevare che il fenomento vintage è a tutt’oggi oggetto di osservazione attenta da parte degli studiosi del settore che lo classificano in due modi: nella sua accezione più alta, come la banca dati visiva da cui attinge e su cui lavora la parte migliore, più creativa e selettiva, della nostra contemporaneità non solo della moda, ma anche dell’arte, dell’architettura e del design industriale; nella sua versione più globale, invece, come l’espressione di una mercificazione consumistica della memoria, dove il repêchage del passato è pura operazione mediatica, indotta e imposta dalla circuitazione continua e massificata di prodotti vecchi e nuovi del mercato. Di questi argomenti e di altro si è discusso nel seminario svoltosi al Salone del Restauro 2008.7 In questa occasione il fenomeno vintage è stato affrontato non solo nel suo portato culturale più generale, ma anche nella sue diverse ricadute pratiche: sul fronte produttivo con gli aspetti legati al riassetto organizzativo e strategico dell’industria della moda tramite la creazione degli archivi di impresa; sul fronte del collezionismo con un mercato differenziato che, insieme all’antiquariato di tradizione, propone oggi una genia di nuovi collezionisti fornitori dell’industria e dei mass-media; sul fronte museale con l’acquisizione, lo studio, la conservazione e la presentazione di nuovi materiali ‘d’epoca’, non sempre facili da selezionare tra quelli storici più tradizionali. Vediamo ora qualche esempio di queste ricadute. Sul fronte produttivo è stato preso in esame il caso di

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un’azienda locale tra le più qualificate nel settore, come Max Mara, che ha recepito il nuovo orientamento della moda con un adeguamento industriale moderno e avanzato. Da quanto riferisce la portavoce del prestigioso marchio, Federica Fornaciari, l’industria emiliana con lungimiranza, fin dal 1964, ha avvertito la necessità di dar vita a una serie di servizi aggiuntivi, essenziali per la strategia aziendale futura: una biblioteca e un archivio d’impresa per la memoria storica dell’azienda, un archivio dedicato alla ricerca stile con capi e accessori non aziendali che spaziano dal passato all’oggi e una sezione di ricerca applicata al futuro, dove le nuove proposte vengono create a partire dallo studio dei materiali selezionati nei due archivi e nella biblioteca.8 Il riassetto organizzativo ha portato l’azienda reggiana,

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La riflessione è stata fatta dalla direttrice di «Vogue Italia» durante l’intervista televisiva condotta da Daria Bignardi in una puntata di ‘L’Era Glaciale’, edizione 2008. 7 Il convegno ‘La moda che vive due volte: il vintage. Come conservarlo?’, promosso dall’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, si è tenuto il 4 aprile 2008 al Salone del Restauro di Ferrara (2-5 aprile 2008). 8 Si rimanda al testo di Federica Fornaciari in questo volume. Si menzionano, inoltre, gli incontri che si sono tenuti a livello nazionale sull’argomento: la conferenza generale ‘Twintex Museums’ promossa dal Museo del Tessuto di Prato, il 30-31 marzo 2007; il seminario di studi ‘Archivi della Moda del ’900’, promosso dal MIBAC e dall’A.N.A.I., a Firenze il 4-5 giugno 2009; il workshop sugli Archivi della Moda svoltosi a Bologna il 20 novembre 2009, in occasione del convegno ‘Fare sistema: la Conferenza Nazionale degli Archivi’, promosso dal MIBAC, dalla Conferenza della Regioni e delle Province Autonome e dall’IBC della Regione Emilia-Romagna, il 19-21 novembre 2009; il convegno ‘Archivi della Moda del ’900. La memoria della moda e della sua storia a Roma e nel Lazio’, promosso dall’A.N.A.I. a Roma il 1° gennaio 2010.


dal dopoguerra a oggi, a crescere nel tempo e a vedere la creatività sartoriale di una piccola attività familiare trasformarsi in una realtà industriale, conservando integri i caratteri della qualità artigianale della sua produzione d’origine, costituita dall’abito su misura: il capo Max Mara, riconfezionato in un prodotto seriale di qualità, punta a rimanere, nelle sue espressioni più alte e ricercate, moda senza tempo che va oltre se stessa per diventare ‘arte applicata’. Sul fronte del collezionismo, il vintage ha aperto, invece, nuovi ambiti di ricerca su materiali che spaziano a 360 gradi su ogni tipo di prodotto cult dell’industria e dell’artigianato, attivando di riflesso professioni inedite della moda che rispondono alle esigenze dei cultori della moda e dei musei che intendono creare ex novo o arricchire le loro raccolte, ma che, soprattutto, offrono un servizio all’industria e al mondo dello spettacolo, dell’entertainment in genere, a cui vendono o danno in affitto abiti e accessori per scopi diversi: nel primo caso, per creare le nuove linee del prêt-à-porter e dell’alta moda, nel secondo, per le loro performances teatrali, cinematografiche e televisive. Sono espressioni nuove del mercato della moda che concentrano in una figura unica professionalità diverse come il collezionista puro, l’antiquario e il commerciante, il cool e il costume hunter, il produttore creativo di nuove linee alternative e un po’ understatement, di cui uno dei paradigmi più compiuti è rappresentato da Angelo con il suo Vintage Palace.9 Anche sul fronte museale, il vintage ha costretto gli operatori del settore a prendere atto della opportunità di implementare le raccolte storiche esistenti o di creare ex novo collezioni dal Novecento a oggi, con una progettualità nuova di

selezione e riproposizione del prodotto moda. Cosa questa che trova la maggior parte degli addetti al lavoro impreparati sulla materia, la quale richiede professionalità formate sull’aggiornamento continuo e sulla conoscenza del mondo contemporaneo e dei complessi meccanismi produttivi, commerciali, sociali e culturali che lo governano. Un museo della moda contemporanea «… non vive della collezione precedente, di antichi capolavori da conservare …», precisa al riguardo Schoenholzer Nichols: la collezione permanente di un museo «… va creata, rinnovata e aggiornata sempre in un continuo work in progress» in cui un ruolo decisivo deve essere svolto dal collezionista o dall’antiquario nella scelta dei materiali giusti da acquistare, in riferimento a un’offerta di mercato estremamente ampia e variegata, oltreché spesso molto costosa.10 Il recupero di capi e accessori del passato è stato poi implementato a livello locale da una ricerca condotta di recente sulle sartorie storiche attive in ambito emiliano-romagnolo nel corso del Novecento, i cui risultati, recuperati oggi alla memoria storica, sono dovuti più ai modelli in voga, ovvero ai figurini e al tipo di organizzazione del lavoro femminile, che ai capi prodotti, andati dispersi e difficilmente recuperabili, se non risalendo alle famiglie dei committenti. La ricognizione, promossa dall’Università di Bologna in collaborazione con l’Istituto dei Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, a cura di Maria

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Si rimanda nuovamente al testo di Angelo Caroli in questo volume. Si rimanda al testo di Thessy Schoenholzer Nichols in questo volume.

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Giuseppina Muzzarelli ed Elisa Tosi Brandi,11 ci ha messo a disposizione un sommerso sartoriale pressoché sconosciuto fino ad ora, documentato da una ricca produzione di abiti e accessori femminili e maschili che va a costituire l’anello mancante che collega l’alta sartoria artigianale e l’industria del pronto moda, qualificandosi come una rielaborazione periferica di ‘modelli guida’ ideati altrove, nelle capitali della moda dell’epoca (Parigi, Roma e Milano), di cui fornisce un’interpretazione personalizzata spesso creativa, ma talvolta provinciale. Tutto questo per sottolineare, in ultima analisi, come anche il recupero della moda dal Novecento in tutte le sue espressioni, internazionali e locali, costituisca un patrimonio visivo di forme e colori particolarmente amato dai cultori del vintage che ad esso fanno riferimento continuo. In una valutazione complessiva di questo fenomeno singolare della moda contemporanea si può asserire che, da quando ha fatto la sua comparsa negli anni Sessanta, la cultura di riciclare il passato da iniziale espressione di revanscismo culturale di poche élites sociali ha finito con l’investire l’intero sistema moda, diventando un punto di forza e di identità progettuale imprescindibile per la creazione e la commercializzazione di nuove linee e collezioni. C’è da chiedersi a questo punto se possa mai esistere, d’ora in avanti, una ricerca nella moda contemporanea assolutamente affrancata dal passato con proposte davvero innovative e inedite, frutto di sperimentazioni di design, di tecniche di confezione e di materiali che poco hanno a che fare con il revisionismo e il recupero di prodotti obsoleti: penso al riguardo a ciò che rappresentò l’ultima vera icona

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di quel nuovo modo di vestire e pensare moderno che fu la moda dei mitici anni Sessanta, costruita su volumi e geometrie essenziali che segnarono davvero una svolta radicale e rivoluzionaria rispetto alla tradizione e al suo ormai sterile revivalismo storico. Come si conserva il vintage? L’altro grande tema legato a questo fenomeno, di particolare interesse nell’ambito museale e degli archivi d’impresa, è quello della conservazione dei suoi prodotti. Gran parte di questi (specie a partire dagli anni Sessanta) sono fabbricati, integralmente o parzialmente, con materiali artificiali e sintetici di nuova generazione come le tecnofibre, di cui non si può prevedere ancora bene né il comportamento, né l’alterazione nel tempo. La conoscenza dei componenti costituivi di queste fibre, come rileva Moira Brunori, «… facilitata ma non risolta con le etichette di composizione imposte per legge a partire dal 1974, è sicuramente una buona base di partenza per l’elaborazione di protocolli di monitoraggio adatti a controllare lo stato di salute di manufatti così complessi».12 Conoscere in modo sistematico la composizione chimica delle tecnofibre, i trattamenti dei filati e dei tessuti durante e a fine lavorazione, come per esempio la spalmatura con film adesivi, incluse le manipolazioni sartoriali con

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Si rimanda al contributo di Elisa Tosi Brandi per il convegno e alla pubblicazione che ne è seguita, Artisti del quotidiano. Sarti e sartorie storiche in Emilia-Romagna, Bologna, Clueb, 2009 (ER Musei e Territorio - Dossier, 6). 12 Cfr. Brunori in questo volume a p. 50.


cuciture non più realizzate ad ago o a macchina, ma incollate con trattamenti a base di adesivi sintetici a caldo, è un punto di partenza imprescindibile per la scelta e l’applicazione di una metodica e di una tecnologia conservativa più adeguata a questi nuovi materiali, comparsi sul mercato della moda già a partire dalla fine del XIX secolo. Se la merceologia dei nuovi filati e dei prodotti tecnologici immessi sul mercato dall’industria tessile è oggi facilmente recuperabile, molto scarse, invece, sono le conoscenze acquisite sul fronte conservativo.13 È solo infatti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso che la ricerca in questo ambito è stata avviata dall’azione congiunta e interdisciplinare di centri speciliazzati nella ricerca scientifica applicata alla conservazione come il Canadian Conservation Institute di Ottawa, il Textile Conservation Centre dell’Università di Southampton, in collaborazione con i dipartimenti conservativi dei più importanti musei internazionali quali il Metropolitan Musem di New York, il Philadelphia Museum of Art, il Victoria and Albert Museum e il British Museum di Londra e il National Museum of Scotland. A parte iniziative isolate e di natura ancora pionieristica avviate da questi centri che hanno prodotto negli anni, spinti dalla necessità da parte dei musei di intervenire su questo genere di manufatti che mostravano segni di un preoccupante degrado in atto, convegni, seminari e casi di studio su singoli materiali, il quadro generale degli studi nel settore è a tutt’oggi molto carente e allarmante.14 Si menziona qui, uno per tutti, lo storico seminario del 1991 promosso dal Canadian Conservation Institute dedicato alla conservazione degli abiti moderni del XX secolo

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Ampia e documentata è la bibliografia sulla morfologia e sulle proprietà fisiche, chimiche e meccaniche delle fibre tessili in generale, sia di quelle naturali, come di quelle artificiali e sintetiche. Sulla varietà delle tecnofibre di ultima generazione si cita per tutti il testo esausitivo e aggiornato di SARAH E. BRADDOCK, MARIE O’MAHONY, Techno Textiles. Tessuti rivoluzionari per la moda e il design, Milano, Ascontex Editoriale, 2002, insieme a quello di taglio storico critico di DORETTA DAVANZO POLI, Tessuti del Novecento. Designer e manifatture d’Europa e d’America, Milano, Skira, 2007. 14 Si menzionano di seguito i più importanti contributi scientifici internazionali e i relativi simposi sulla conservazione dei nuovi materiali tessili. Il primo, ‘Saving the twentieth century; the degradation and conservation of modern materials’, fu promosso nel 1991 dal Canadian Conservation Institute di Ottawa e dall’ICCROM (Textile and Costume Conservation). In questo seminario fu presentato il caso storico già citato del restauro del cappotto di Mary Quant del 1967, oggetto di una tesi di laurea promossa dal Courtauld Institute di Londra. Il secondo simposio si tenne al Metropolitan Museum di New York nel febbraio del 1998 a cura di William Scott, scienziato della conservazione del Canadian Conservation Institute. Il terzo simposio fu promosso dalla North American Textile Conservation Conference di Philadelphia nel 2002. Per l’occasione una relazione importante, dedicata alla collaborazione interdisciplinare tra scienziati e conservatori museali fu tenuta da Chris Paulocik (USA) e William Scott (Canada). Un’altra significativa relazione dal titolo Tackling the Conservation Issues Posed by Tomorrow’s Fabrics fu tenuta da Capucine Korenberg e Mary M. Brooks, alla ‘First International Textile Design and Engineering Conference’ di Edinburgo nel 2003. Un altro contributo interessante fu quello presentato da Leonidas Dokos della Scuola di Ingengeria dell’Università inglese di Southampton all’undicesima Conferenza Internazionale sull’Ingegneria dei nano materiali (International Conference on Composites Engineering) a Hilton-Head Island, nel 2004, in cui indicò l’opportunità di studiare anche a fini conservativi le proprietà dei materiali d’avanguardia come le nanofibre. Un aggiornamento recente sul vintage è venuto, infine, dal seminario promosso dal Victoria and Albert Museum, ‘Craving Collecting and Caring: 20th Century Vintage Fashion’, curato da Sonnet Stanfill (responsabile del settore Tessili e Moda del V&A) e da Poppy Singer (conservatore tessile del V&A), che seguì di poco il convegno sul vintage promosso dall’IBC al Salone del Restauro di Ferrara dell’aprile 2008. Quanto alla bibliografia si cita qui quella essenziale dedicata all’argomento: SILVIA VALUSSI (conservatore del V&A), Review of ‘Care and Preservation of Mod-

Comprendere e conservare il vintage e la sua riproposta nella moda contemporanea

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confezionati con materiali plastificati, i cui atti, pubblicati nel 1993, hanno avuto come punto di riferimento esemplare il recupero di un cappotto di Mary Quant del 1967, conservato nella English Costume Gallery di Manchester, composto di materiale misto in lana, cotone, acrilico, rayon viscosa, rayon acetato di cellulosa, con finiture gommate in neoprene e gomma naturale, bottoni di caseina plastificata, cerniere di metallo, oltre ad adesivi vari. Recupero che, in assenza di protocolli nuovi, ha visto l’applicazione della tradizionale metodica conservativa seguita nella conservazione dei tessili antichi: è stata effettuata una pulitura leggera e controllata in acqua deionizzata potenziata da solventi organici (alcool e acetone), che ha permesso di rimuovere lo sporco di superficie e di evitare nel contempo la perdita integrale del trattamento plastificante finale, parzialmente solubile all’acqua, agevolando nel contempo il rimodellamento del capo nella sua forma sartoriale originale. Questo history-case, ampiamente documentato,15 insieme a pochissimi altri restauri effettuati su abiti in fibre artificiali e sintetiche, sono diventati oggi i soli punti di riferimento accreditati per l’avvio di una metodologia conservativa da seguire per questo genere di capi, basata innanzitutto sull’identificazione precisa dei nuovi materiali con cui sono confezionati e del diverso degrado che subiscono nel tempo. A tale scopo, va ricordato che la scienza ha messo a disposizione, presso i centri internazionali sopra menzionati di conservazione tessile, una strumentazione avanzata, costituita da tre tipi diversi di spettroscopio elettronico, il Fourier Transform Infrared Spectroscopy (FTIR), il Perkin-Elmer

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FTIR e l’Energy Dispersive X-Ray Fluorescence Spectroscopy (EDXRF), la cui azione identificativa, combinata a una serie di test meccanici di resistenza alla luce, al calore e alla trazione meccanica, ha portato a soddisfacenti risultati per la

ern Materials in Costume Collections’. New-York 2-3 February 1998, «V&A Conservation Journal», 28, 1998. La ricercatrice, che ha studiato le fibre sintetiche in poliuretano (elastene), esprime le sue considerazioni in merito al simposio tenuto dal MET di New York sulle nuove modalità di conservazione dei materiali moderni. LEONIDAS DOKOS, MARY M. BROOKS (conservatori tessili alla Winchester School of Art dell’Università di Southampton), Smart and Techno Fabrics: fundamental properties of new fibres and their future, «V&A Conservation Journal», 51, 2005; ELIZABETH-ANNE HALDANE (conservatore tessile del V&A), Surreal semi-synthetics, «V&A Conservation Journal», 55, 2007; CAPUCINE KORENBERG (ricercatrice sezione scientifica del V&A), How fast do polyester fabrics age in the museum environment?, «V&A Conservation Journal», 44, 2003. I risultati di questa ricerca condotta su alcuni capi in poliestere ha evidenziato la stabilità nel tempo di questi materiali con resistenza sia alle alte temperature (60 e 80 °C) che alle lunghe esposizioni alla luce anche dopo 80 anni di illuminazione continua. FRANCES HARTOG (conservatore tessile del V&A), Costume cleaning conundrums, «V&A Conservation Journal», 56, 2008, dedicato al restauro di un capo della Maison Dior del 1954, confezionato con un raso in acetato di cellulosa, uno dei primi filati sintetici naturali sensibili all’azione dell’acqua, la cui pulitura ha visto l’impiego calibrato di solventi tradizionali, come il PERC e il citrato di trisodio, in acqua deionizzata. Interessanti sono, infine, le osservazioni sulla buona tenuta degli abiti di carta confezionati in cellulosa mista a nylon o rayon, introdotti nella moda tra il 1950 e il 1960, espresse da KRISTINA HARRIS in un articolo, Paper Dresses of the 1960s, circuitato su Internet nel 1997-2001. 15 Cfr. CLARE STOUGHTON-HARRIS (Canadian Conservation Institute), Treatment of the 20th-century rubberized multimedia costume: conservation of a Mary Quant raincoat (ca. 1967), in AGNES TIMAR-BALAZSY, DINAH EASTOP, Chemical Principles of Textiles Conservation, Oxford, Butterworth-Heinemann, 1998, pp. 139-146. Sui pochi altri casi di studio condotti sui nuovi materiali si rimanda alla nota precedente.


conoscenza del comportamento di questi materiali e l’individuazione delle azioni conservative da intraprendere su di essi.16 Si sa tuttavia che, essendo molto recente, la ricerca in questo campo trova il suo punto di forza in un work in progress che va aggiornato di continuo con indagini e sperimentazioni che necessariamente devono veder interagire, in modo interdisciplinare, il mondo della scienza e quello dell’industria. In attesa quindi di acquisire conoscenze sull’argomento più testate sotto il profilo tecnico e scientifico, si può asserire in generale che, rispetto alle fibre naturali a base proteica (lana e seta) e cellulosica (lino, cotone, canapa), la tenuta conservativa delle fibre artificiali e di quelle sintetiche, genericamente definite plastiche, è superiore in quanto queste ultime presentano caratteristiche di maggior tenuta chimica, fisica e meccanica. Va rilevato tuttavia che, essendo la categoria delle fibre tessili artificiali e sintetiche molto ampia e in continua evoluzione, il distinguo fondamentale deve essere fatto tra le fibre artificiali costituite da polimeri organici di origine naturale e quelle sintetiche costituite da polimeri inorganici.17 Le fibre artificiali a base organica come la viscosa o il rayon, il modal, il cupro, l’acetato e il triacetato di cellulosa, il lyocell e la gomma di caucciù, comparse sul mercato a partire dal 1846 e commercializzate con denominazioni diverse, tendono a degenerare più rapidamente delle seconde in quanto sono costituite da polimeri naturali, in parte derivati dal petrolio e dal carbone, i cui legami molecolari, nel tempo, a contatto con la luce (naturale e artificiale) e il calore, tendono a rompersi inglobando sporco, a modificarsi

nella consistenza e a infragilirsi, specie in superficie, oltreché a virare nel colore: per esempio, i filati in viscosa e acetato si sgretolano, mentre quelli in gomma naturale si scuriscono, diventando appiccicosi al tatto. Nel novero delle fibre artificiali di base organica, soggette a un analogo tipo di degrado, va compresa anche un’altra nutrita categoria costituita da materiali in plastica di derivazione naturale, ma di sintesi chimica, immessi nel mercato tra fine Ottocento e inizio Novecento, utilizzati come componenti dei ricami e in genere delle finiture ornamentali degli abiti e degli accessori di moda (borse, cappelli, guanti, scarpe), come la celluloide, l’ebanite (nitrato di cellulosa) e la bachelite (fenolo di formaldeide). In contrapposizione a queste, le fibre sintetiche a base inorganica introdotte agli inizi del XX secolo e diversamente commercializzate, come l’acrilico, il modacrilico, la poliammide (nylon, delfron, lilion, perlon, grilon), il poliestere (terital, trevira, dracon), il propilene (meraklon), il polietilene, il polivinilcloruro (PVC), il polivinile e il clorovinile (movil), il poliuretano (elastam, perlon U), il teflon (gore-tex) e l’aramidiche (kevlar), ovvero in sintesi tutti i polimeri fluorurati e i policarbonati, integrati o meno da agenti chimici di vario tipo come i plasticizzanti, i rinforzanti, gli stabilizzanti, gli antifiamma, i biocidi, gli antiossidanti, i coloranti

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Sulla strumentazione di rilevamento delle fibre sintetiche in poliuretano, poliestere e poliammide, cfr. gli articoli già citati in questa pubblicazione di VALUSSI (1998) e DOKOS (2005) alla nota 14. 17 Sulle fibre artificiali di prima generazione e su quelle sintetiche di seconda generazione si rimanda alla nota 13.

Comprendere e conservare il vintage e la sua riproposta nella moda contemporanea

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prodotti dall’industria chimica tessile con una sperimentazione sempre nuova e aggiornata di prodotti, sono molto più resistenti dei filati artificiali di base organica. Rispetto ai filati tradizionali, le cosiddette ‘plastiche’ moderne hanno infatti maggior ‘tenuta’, oltre a essere in genere più economiche e a offrire maggiori performances, sia estetiche che funzionali: non si scoloriscono, sono ingualcibili, ignifughe, duttili, elastiche, termoadattabili, più resistenti e rapide ad asciugarsi, oltre a essere più facilmente assemblabili fra loro e a sopportare trattamenti di colore e finiture estetiche tra i più vari. Tutte questa proprietà consentono loro di conservarsi meglio e più a lungo nel tempo. Risultano quindi meno sensibili alla luce naturale (ai raggi infrarossi e UVA), all’acqua, agli attacchi biodeteriogeni di insetti e microrganismi, agli agenti inquinanti dell’atmosfera, ai solventi chimici contenuti nei prodotti del restauro e, in genere, presenti nei detergenti commerciali, oltre a resistere alle alte temperature, all’umidità e ai traumi meccanici, anche dopo esposizioni prolungate nel tempo. Pensiamo, per esempio, alla grande prestazione tecnica di un filato sintetico di ultima generazione come il lurex che, rispetto al filato metallico naturale che vuole imitare, risulta ben più malleabile, leggero e robusto di questo, oltre ad avere proprietà antiossidanti e di scarso viraggio cromatico. Ciò non significa, tuttavia, che le materie plastiche non subiscano con il passare del tempo alterazioni chimiche e fisiche sensibili dovute all’azione combinata di agenti atmosferici (luce, calore, acqua) e di microrganismi. In condizioni ambientali inadeguate, con parametri di temperatura e umidità fuori misura, abbinati a una scarsa

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ventilazione, i materiali costituiti da polimeri di carbonio, per esempio, sono soggetti agli attacchi di microrganismi (funghi) e, in condizioni estreme, sono esposti agli attacchi di batteri. Molto dipende, dicono gli scienziati, dalla loro struttura e dal legame intermolecolare che determina anche il diverso grado di solubilità in acqua. Ecco perché diventa prioritario identificare la composizione chimica dei singoli materiali sintetici, in modo da poter intervenire con un’efficace azione conservativa. Quando poi questi materiali sono combinati in mischia tra loro, insieme ai filati naturali, come succede di frequente nei capi vintage d’epoca come pure nella moda di oggi, sempre più sperimentale e promiscua nella contaminazione di prodotti vecchi e nuovi, la conservazione diventa ancora più difficile e complessa. Non sappiamo nulla, infatti, su come si comportano a breve, medio e lungo termine i prodotti ultimi della tecnologia tessile che sconfinano nell’universo infinito della biologia molecolare come le nanofibre, i cosiddetti tessuti intelligenti, che interagiscono con l’uomo e l’ambiente, rispondendo alle esigenze di entrambi con prestazioni sorprendenti e impensabili fino a ieri. In attesa, quindi, di nuove conoscenze e di nuove regole, l’azione conservativa da intraprendere, come osserva giustamente Moira Brunori, deve essere quella meno invasiva possibile che, per ora, non si discosta molto, nei criteri base, da quella tradizionale applicata ai tessuti in fibre naturali.18

18

Cfr. Brunori in questo volume a p. 39.


A questa considerazione si ritiene opportuno aggiungere che, in assenza di metodiche conservative sicure e certificate per questi nuovi generi tessili, occorre intervenire con azioni di tipo preventivo come l’ispezione sanitaria preliminare e l’identificazione chimica dei materiali al loro ingresso nel museo, oltre al controllo periodico dei parametri ambientali indoor (T, UR, Lux, QA) a musealizzazione avvenuta. Si dovrà avere cura di mantere il più possibile stabili questi ultimi indicatori che, per i materiali tradizionali con filati naturali come per quelli artificiali, si collocano tra i 19-24 gradi di temperatura e tra il 30-50% di umidità relativa,

con un’estensione tra il 40-50% per le fibre sintetiche, mentre per l’illuminamento si dovrà rispettare la soglia dei 50 lux, con l’esclusione totale della luce naturale per tutte le tipologie di materiali.19

19 Sui parametri ambientali di riferimento per i materiali tessili tradizionali e per le fibre sintetiche, come sui principi base della conservazione preventiva di questi materiali, cfr. Oggetti nel tempo. Principi e tecniche di conservazione preventiva, a cura dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna, Clueb, 2007 (ER Musei e Territorio - Materiali e ricerche, 7), pp. 18-29, 23, 32, 33, 38, 39, 44-49, 56, 57, 59-66.

Comprendere e conservare il vintage e la sua riproposta nella moda contemporanea

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Uno stile della moda di oggi: il vintage Enrica Morini

Il passato è di moda. Non si tratta però solo di uno degli innumerevoli revival che si sono succeduti nel corso del tempo. C’è anche quello, come si vede dall’aria anni Settanta che serpeggia in molte delle proposte per l’inverno 2008, resa ancora più palpabile dalle fotografie pubblicitarie, ma non è il fenomeno più rilevante e neppure così vistoso. Più stupefacente è il fatto che nelle vetrine e sulle riviste si vedono, con frequenza sempre maggiore, accessori, disegni per tessuti e motivi decorativi che sembrano tornare dal passato, identici nella forma o con qualche variazione che non ne muta la sostanza. Anche i marchi che li propongono sono spesso risorti da lunghi periodi di silenzio e di oblio a rinverdire fasti e successi commerciali ormai dimenticati dai più. Oggetti di vintage, ma nuovi, che mettono in dubbio l’idea che la moda risponda a una logica di eterno mutamento, di costante superamento e distruzione di ciò che è passato. La cosa merita di essere presa in considerazione e in qualche modo collegata con il modernariato di abbigliamento, anche se molto probabilmente fra i due fatti non esiste un legame diretto. Entrambi, però, sono conseguenza di un mutamento della concezione e del consumo della moda che è avvenuto nella seconda parte del Novecento. L’acquisto di indumenti usati non per necessità, ma per ricerca della curiosità da indossare è una tipologia di consumo nata negli anni Sessanta ed è legata ai nuovi modi di vestire adottati dai giovani frutto del baby boom del dopoguerra. Il desiderio di apparire diversi dagli adulti, la scelta di modelli culturali alternativi e di uno stile di

vita meno formale di quello tradizionale provocarono una sorta di rivoluzione nelle abitudini e nei canoni vestimentari. Tutto questo mise in discussione il primato dell’haute couture e aprì la strada alla diffusione di un abbigliamento confezionato di gusto giovanile che fu all’origine del prêt-à-porter griffato dei decenni successivi. Insieme alle minigonne di Mary Quant e alle camicie fiorate di Cacharel, però, i ragazzi si misero addosso indumenti di provenienze diverse, attraverso i quali era possibile comunicare una scelta culturale, l’appartenenza a un mondo o il puro divertimento. Furono gli abiti etnici degli hippy o l’eskimo dei più politicizzati, ma fu anche un’enorme varietà di capi di abbigliamento di varie epoche e funzioni che uscivano dagli armadi di famiglia o che si trovavano in quei luoghi di meraviglie che erano i charity shops, i mercati delle pulci o i negozi di seconda mano. Così la biancheria delle bisnonne, le colorate e gallonate divise militari o civili, le giacche, i giubbotti e i pantaloni dismessi dall’esercito americano entrarono nei guardaroba dei ragazzi dell’era pop. L’usato diventò una moda e di conseguenza i negozi cominciarono a selezionare la merce in funzione di una domanda del tutto nuova. Per tutti gli anni Settanta la loro fedele clientela fu composta di femministe, di cultrici delle mode revival che si imposero in quel periodo, di alternativi di ogni natura. Il successo strepitoso del prêt-à-porter firmato degli anni Ottanta segnò una battuta d’arresto per questa moda, con il risultato di ridurre e selezionare la clientela che continuava a conservare il gusto per la ricerca del pezzo d’epoca. I negozi che sopravvissero si specializzarono ulterior-

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mente, proponendo solo pezzi haute couture quasi d’antiquariato, o dedicandosi a poche tipologie di oggetti, oppure circoscrivendo l’offerta a epoche precise, oppure ancora trasformandosi in luoghi di collezionismo. Stava nascendo una sorta di antiquariato dell’abbigliamento. In anni recenti il gusto dell’usato, che nel frattempo ha cambiato il nome nel più internazionale ‘vintage’, è tornato in voga trasformando ancora una volta il panorama. Gli epifenomeni di questo nuovo trend sono probabilmente il fatto che i media abbiano cominciato a segnalare casi di personaggi famosi vestiti di abiti d’epoca (magari scelti da qualche famosa stylist) in occasioni pubbliche importanti o che le vendite di modelli di haute couture organizzate da case d’aste internazionali non siano più rare come un tempo. In entrambi i casi si tratta di eventi eccezionali e circoscritti, ma sono comunque segnali di un mutamento di gusto cui il sistema commerciale del vintage, ormai raffinato e differenziato, risponde a vari livelli, indirizzando la propria offerta a target abbastanza precisi. Ovviamente, esiste ancora il semplice mercato dell’usato indifferenziato e a basso prezzo, ma è marginale e molto meno diffuso di quanto non fosse in passato (anche se continua ad avere un proprio pubblico sempre più composto da immigrati). Il vero vintage ha i suoi specialisti, ormai entrati nelle guide turistiche dello shopping, che propongono pezzi accuratamente scelti e che servono clientele anche estremamente difficili. A Parigi c’è Didier Ludot che, come le marchandes de modes di un tempo, apre le sue vetrine sotto i portici del Palais Royal, ma anche in Italia ci sono casi

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Enrica Morini

importanti, come Quinto e Tinarelli (Creativitalia) a Roma, A.N.G.E.L.O. a Lugo di Romagna, Cavalli & Nastri e Franco Jacassi a Milano.1 E sono solo gli esempi più noti. Più nascoste ed esclusive, senza negozi o vetrine su strada o magazzini aperti al pubblico, ci sono poi altre figure, che stanno tra l’esperto e il collezionista, che forniscono abiti e servizi, ricercano pezzi su commissione, offrono consulenze e prestiti. Ma da chi è formata la clientela del vintage? Esistono pubblici diversi con intenzioni e finalità differenti. Un’importante categoria di acquirenti è quella dei collezionisti, molto variegata al proprio interno. Ci sono amatori che si specializzano in un periodo storico, in una marca, in un designer particolare, in una tipologia di oggetti, ma anche quelli che scelgono gli abiti per il loro valore estetico e storico, come si fa con le opere d’arte o gli oggetti di antiquariato. E se un quadro antico si appende al muro della propria casa, in qualche caso un vestito eccezionale può essere indossato. Caso emblematico di questo tipo di collezionismo è certamente Tina Chow, cui nel 1991 Richard Martin e Harold Koda dedicarono un libro.2 Alla sua morte,

1

Per gli Stati Uniti, cfr. ALEXANDRA PALMER, Vintage Whores and Vintage Virgins: Second Hand Fashion in the Twenty-first Century, in Old Clothes, New Looks. Second Hand Fashion, edited by Alexandra Palmer, Hazel Clark, Oxford-New York, Berg, 2005, pp. 197-213; DANA THOMAS, Deluxe. Come i grandi marchi hanno spento il lusso, Novara, De Agostini, 2008, pp. 336-337. 2 RICHARD MARTIN, HAROLD KODA, Flair. Fashion Collected by Tina Chow, New York, Rizzoli International Publications, 1991.


Boutique Emilio Pucci, via de’ Tornabuoni 20/r, Firenze, 6 febbraio 2008.

la raccolta fu messa all’asta da Christie’s East e andò ad arricchire i fondi di alcuni musei. Assimilabili ai collezionisti sono poi coloro che esprimono la propria individualità attraverso un modo di vestire personale ed eccentrico, mescolando indumenti non co-

muni in modo inusuale e accumulando poliedrici guardaroba. In questi ultimi anni diversi musei hanno dedicato mostre a questi veri e propri protagonisti della moda e al loro modo creativo di combinare abiti di epoche e provenienze diverse per inventare uno stile inimitabile. Nel 2005 il Co-

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Boutique Roberta di Camerino, via Del Parione 16/20, Firenze, 6 febbraio 2008.

stume Institute del Metropolitan Museum di New York ha organizzato un’esposizione su Iris Apfel,3 l’anno dopo il Victoria and Albert Museum di Londra ha reso omaggio ad Anna Piaggi4 e la Galleria del Costume di Firenze ha esposto pezzi del guardaroba di Cecilia Matteucci Lavarini.5 In questi casi il mercato del vintage è una risorsa per trovare oggetti particolari, capi e accessori con cui costruire i look più esclusivi. Il grande pubblico dei mercatini e dei negozi vintage è però composto da quelli che comprano semplicemente per indossare. C’è chi acquista modelli haute couture, pezzi a volte eccezionali, ma anche tanto connotati che devono essere mescolati con accessori diversi per evitare che chi li indossa sembri in maschera, ma c’è soprattutto un pubblico vasto di giovani e meno giovani che cercano il capo o l’oggetto particolare, non necessariamente importante o prezioso. Quello che attrae è da un lato la sua diversità da ciò che propone la moda e che si trova normalmente nei negozi, dall’altro la sua capacità di conferire una nota personale a una maniera di vestire sempre più omologata dalla confezione industriale. L’oggetto viene normalmente scelto in modo istintivo, utilizzando quelle categorie estetiche e di piacere che guidano di solito l’acquisto di un abito, e quindi può essere modificato e adattato alla persona. Questo tipo di consumo ha preso la forma di una moda, non nel senso dirompente che spesso viene attribuito al termine e neppure in quello che ogni tanto viene enfatizzato dalla stampa che cerca di dare un senso trendy o radical chic al fenomeno. Si tratta in realtà di una sorta di abitudine accettata e condivisa, di un uso

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che coinvolge persone di diversa età, cultura e condizione sociale e che si è andato consolidando negli ultimi anni. Tutti gli acquirenti sporadici o abituali di vintage con-

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‘Rara Avis: Selections from the Iris Barrel Apfel Collection’, 13 settembre 2005-22 gennaio 2006. 4 ‘Anna Piaggi: Fashion-ology’, 2 febbraio 2006-23 aprile 2006. 5 Cfr. Il guardaroba di Cecilia Matteucci Lavarini dalla sua collezione privata, in Moda e stile. Interpretazioni personali nella storia dell’abbigliamento, catalogo della mostra (Firenze, 2006), a cura di Caterina Chiarelli, Roberta Orsi Landini, Galleria del Costume di Palazzo Pitti. Le collezioni, Livorno, Sillabe, 2006, pp. 88-93.


Particolare di una vetrina della Boutique Roberta di Camerino, via Del Parione 16/20, Firenze, 6 febbraio 2008.

tinuano a comprare, contemporaneamente, abiti e accessori nuovi attraverso i canali commerciali normali. Il capo vintage è l’oggetto unico che, magari a poco prezzo, dà un tocco particolare a tutto il resto. Forse, come sostiene Claudia Jesi, è anche un modo per ridare valore a un mondo ormai svalutato. La terza categoria di clienti è la gente della moda in cerca di idee. Prendere spunto dal passato è un fenomeno sempre esistito, ma dagli anni Novanta sembra aver preso una forma differente. Stilisti e uffici stile hanno cominciare a ricercare

e acquistare sistematicamente capi vintage su cui lavorare, tanto da costruire piccoli o grandi archivi aziendali e da mettere in atto dei riconoscibili comportamenti professionali di approccio all’universo dell’abbigliamento usato. C’è chi frequenta mercatini e negozi, c’è chi si rivolge a esperti che conoscono i modi e i canali per trovare i pezzi più adatti o per costruire repertori (di pizzi, di ricami, di immagini, ecc.). Si può acquistare o prendere in prestito. Alcuni cominciano la ricerca dopo aver elaborato il tema della collezione, altri, al contrario, si lasciano condurre da ciò che trovano per avere suggestioni (partono cercando un plissé poi restano affascinati dalle piume di un cappello). Alcuni inseguono un periodo, altri uno stile, altri ancora particolari di materiali, disegni, effetti sartoriali, oppure una precisa categoria di indumenti. E nella maggior parte dei casi l’esperienza del venditore o del collezionista è fondamentale per guidare, indirizzare, trovare e proporre la cosa giusta. E questo vale sia nel caso dello stilista esperto che ha bisogno di esempi materiali per dare forma a un’idea già elaborata, sia in quello dei giovani che affollano gli uffici stile e che spesso mancano della cultura specifica necessaria per chiedere o identificare esattamente quello che potrebbe dare una risposta alle loro esigenze. Ciò che viene trovato si traduce poi nella moda in mille maniere diverse. Si va dal caso limite in cui il capo vintage viene fatto sfilare insieme alla collezione (Marc Jacobs, ma anche Ferré), alla riedizione di vecchie tipologie di indumenti (tute da aviatore, indumenti da lavoro, divise militari, scarpe, ecc.). Il metodo ancora più diffuso è quello di

Uno stile della moda di oggi: il vintage

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prendere spunto da linee, stili e soprattutto materiali e lavorazioni (ricami, tessuti, soluzioni sartoriali di alta moda). C’è poi l’estetica del riciclaggio, a partire da Lamine Kouyaté6 fino a Martin Margiela. L’ormai famosissimo stilista belga, che ha influenzato una generazione di giovani creativi, ha iniziato negli anni Novanta a proporre capi unici confezionati riutilizzando indumenti o oggetti vecchi. Sono stati vestiti, smontati e poi riassemblati con parti nuove, etichette staccate da capi destinati al macero e cucite in grandi quantità su giacche e giubbetti, fino ad arrivare agli abiti fatti di papillon maschili, alle giacche di cinture, valige o sandali, al top di guanti bianchi in disuso e al gilet maschile di vere carte da gioco. Un fervore di proposte che vanno al di là del semplice spunto revival e che danno la sensazione di una moda che non insegue il nuovo, ma che al contrario si rivolge all’indietro anche quando sta lavorando in modo irriverente, eccentrico e innovativo. Le due ultime categorie di clienti, coloro che cercano una cosa da indossare e i professionisti della moda, raccontano di fatto la stessa storia: quella di una maniera di vestire che va alla ricerca di elementi presi dal passato. In un libro recente,7 i ricercatori del Future Concept Lab hanno provato a spiegare questo fenomeno identificando diversi comportamenti di consumo e osservando il percorso che la moda ha seguito negli ultimi decenni. La loro analisi coincide con le affermazioni dei venditori/collezionisti di vintage, collocando il momento in cui il rapporto con l’abito usato o vecchio ha mutato segno e creato (o rivalutato) un canale alternativo per l’acquisto di abbigliamento.

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Tutto ha avuto inizio negli anni Novanta, quando la festosa ubriacatura di moda che aveva caratterizzato il decennio precedente cominciò a dissolversi. Come si sostiene in Real Fashion Trends, fu in quel momento che si affermò «un modo di vestire più vicino al costume che alla moda», conseguenza di «un bisogno sempre minore di “sentirsi alla moda” e di look superficiale». Allo stesso tempo si fecero sentire anche «una certa stanchezza per la griffe “facile” e la decisa decelerazione dei ritmi di moda». Decelerazione della moda e rifiuto dell’effimero leggibili sia attraverso l’analisi dei guardaroba individuali, in cui la durata dei capi tese ad allungarsi, sia nella crescente richiesta di “classici”, di capi di qualità. Tutto ciò avvenne nel quadro di «una nuova estetica e cultura dell’abbigliamento all’insegna dello stile essenziale e del dettaglio, o della “biografia storico-poetica” dell’abito» e la composizione del guardaroba assunse sempre più la forma di una sorta di «collezionismo privato». Anche i cicli della moda, che avevano subito una vorticosa accelerazione negli anni Ottanta, s’indebolirono o addirittura persero di significato, sostituiti dalla ricerca di uno stile personale che ognuno iniziò a progettare per sé, combinando i modelli griffati con quelli della grande distribuzione (Zara, H&M ad esempio), ma soprattutto con capi classici e anche vintage.

6 VICTORIA L. ROVINE, Working the Edge: XULY.Bët’s Recycled Clothing, in Old Clothes, New Looks. Second Hand Fashion, edited by Alexandra Palmer, Hazel Clark, Oxford-New York, Berg, 2005, pp. 215-227. 7 Real Fashion Trends. Il manuale del cool hunter, a cura di Francesco Morace, Milano, Libri Scheiwiller, 2007.


Negozio Salvatore Ferragamo, via de’ Tornabuoni 4r/14r, Firenze, 6 febbraio 2008. «Modello Holly; ballerine di camoscio create da Salvatore Ferragamo per Audrey Hepburn nel 1959».

Negozio Salvatore Ferragamo, via de’ Tornabuoni 4r/14r, Firenze, 6 febbraio 2008. «Modello IRA; scarpa con suola a conchiglia. Modello originale creato da Salvatore Ferragamo nel 1959».

Risultato finale di questo processo è stato quel «recupero della memoria in cui sembra contare di più la permanenza, la durata: la moda come sistema di permanenza piuttosto che come sistema di cambiamenti veloci» che persiste tuttora. Questo è il contesto in cui il vintage si è fatto strada e ha trovato una nuova clientela, pronta a elaborare il pro-

prio stile mescolando al nuovo qualche segno di nostalgia. Ma non è stato solo il mercato dell’usato a beneficiare di questi nuovi comportamenti: il sistema della moda, che negli ultimi decenni ha velocemente e tumultuosamente mutato i propri contenuti strutturali, ha colto per primo questa voglia di passato, di segni certi e rassicuranti, di status symbol evidenti nella loro classicità e soprat-

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Negozio Cavalli & Nastri, via Gian Giacomo Mora 4, Milano.

tutto di un presente che si giustifichi trovando le proprie radici nel passato, magari anche mitico. A indicare la strada era stato Karl Lagerfeld quando, nel 1983, era stato chiamato dalla Maison Chanel per rilanciare una griffe che stava risentendo fortemente di dieci anni di ombra. L’operazione dello stilista tedesco fu innanzitutto culturale: ripercorse la storia di Coco Chanel, studiando gli archivi aziendali e quello che nel corso del tempo era stato scritto, pubblicato e filmato, per identificare quei segni che distinguevano la sua moda da quella di tutti gli altri. Il sistema permise di costruire una sorta di simbologia destinata a caratterizzare tutte le proposte nuove.8 Il secondo passo fu la creazione del mito: con una tanto abile quanto martellante comunicazione pubblicitaria Lagerfeld reinventò e reimpose il personaggio Chanel, elaborando una vera leggenda fatta di messaggi semplici, ma incisivi. Tutto questo fu la base su cui fondare una nuova logica produttiva e commerciale: all’haute couture fu attribuito il compito di comunicare, con sfilate spettacolari e ricche di provocazioni, la rinascita della griffe, ma anche di attirare l’attenzione su ciò che avrebbe potuto trovare una reale collocazione sul mercato di massa. Furono reinventati il prêt-à-porter e le linee di accessori, ma anche i profumi e i cosmetici, sempre facendo in modo che conservassero una precisa coerenza con quell’immaginario simbolico che costituiva il mondo creativo della grande sarta. Una pubblicità capillare e sapiente fu lo strumento per imporre tutto ciò. A metà anni Ottanta i clienti della moda di lusso, ma anche quelli delle profumerie cominciarono a incontrare nel loro percorso abiti e oggetti che, pur essendo nuovi, con-

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8 Cfr. JEAN-MARIE FLOCH, L’intramontabile total-look di Coco Chanel, in Moda: regole e rappresentazioni. Il cambiamento, il sistema, la comunicazione, a cura di Giulia Ceriani, Roberto Grandi, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 154170; J.M. FLOCH, L’indémodable total look de Chanel, Paris, Éd. du Regard, 2004.


Particolare del negozio Cavalli & Nastri, con borse Gucci e Louis Vuitton, via Gian Giacomo Mora 4, Milano.

servavano memoria di un illustre e magico passato, tanto che diventava difficile capire se si stava acquistando un nuovo modello di Lagerfeld o il mito della grande Mademoiselle. La differenza abissale tra le creazioni dei due è risultata emblematicamente evidente nella mostra organiz-

zata nel 2005 dal Metropolitan Museum di New York, ma non poteva essere percepita dalle vetrine delle boutique Chanel che cominciavano ad aprire nel mondo. La lezione di Lagerfeld ha fatto scuola: nel giro di due decenni questo tipo di percorso ha segnato il lancio o il ri-

Uno stile della moda di oggi: il vintage

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lancio di quasi tutte le griffe che in questo momento sono sulla cresta dell’onda,9 dai casi indicativi di Vuitton e Gucci, fino a Pucci. A questo paradigma si rifanno anche i tentativi condotti su Roberta di Camerino che, pur se non con il successo globale degli altri, sta vivendo una seconda stagione di affermazione. Persino l’ondivago comportamento della Maison Dior, che oscilla fra le riprese New Look e lo sfrenato e spettacolare eclettismo di Galliano, trova giustificazione e autorità nel periodico ricordo degli ‘antichi’ fasti e della figura ormai leggendaria del fondatore. Alla base di tutte queste operazioni c’è un ben fornito archivio di modelli del passato da rivisitare e riproporre con più o meno modifiche, una storia personale o aziendale attorno cui costruire un mito fatto di successi, lussi impossibili, nomi di divi, principesse o regine da rispolverare dall’oblio, una fama fatta di lavorazioni artigianali o materiali da sogno (spesso lontanissimi dalla realtà dei nuovi prodotti che vengono messi in vendita) e un investimento quasi illimitato in comunicazione. Pubblicità, ma soprattutto flagship stores, collocati nelle strade dello shopping di tutte le cosiddette città della moda, costruiti e arredati con uno sfarzo principesco a fare da cornice a oggetti che del lusso esclusivo del passato conservano solo l’aspetto o alcuni di quei segni distintivi che fanno l’identità di marca. L’esito di tutto ciò è che il consumatore può facilmente costruire il proprio stile venato di nostalgia scegliendo fra le diverse possibilità che gli offre il mercato. Può optare per i

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Enrica Morini

pezzi autentici infilandosi in modelli di haute couture, di sartoria o di prêt-à-porter vecchi o appena passati di moda, ma anche in indumenti tecnici, come tute da lavoro o giacche militari. Può acquistare raffinati bijoux o accessori di pelletteria dismessi dalla nonna in quei negozi pieni di affascinanti cianfrusaglie che si trovano ormai dappertutto o nei mercatini che, con calendari fissi ed espositori affezionati, occupano strade, piazze, fiere, castelli. Può però ottenere un risultato non così diverso orientando la propria scelta verso la produzione più attuale e fashion, verso quelle strade della moda su cui si affacciano i sontuosi palazzi dei marchi del lusso diventato abbordabile. E per risparmiare, può dirigersi in qualche elegante outlet in cui trovare i modelli dell’anno precedente. In ogni caso, fra un abito di Pucci degli anni Sessanta e uno attuale la differenza non è poi così sensibile, ma anche le borse proposte nelle linee chiamate di volta in volta ‘Classici’, ‘Les Classiques’ o ‘Les Essentiels’ conservano molto dell’aspetto esteriore delle Gucci, Chanel o Louis Vuitton d’epoca. Persino Ferragamo ha inventato la linea ‘Creations’ in cui riproporre esemplari da museo. Tutto questo ha avuto una conseguenza inaspettata per il mercato del vintage che ha visto una parte del suo tradizionale collezionismo entrare in crisi: perché ricercare, acquistare (magari a caro prezzo), raccogliere ordinatamente e conservare con cura i vecchi modelli di Emilio Pucci se lo stesso marchio li rifà nuovi e altrettanto autentici?

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Cfr. D. THOMAS, Deluxe cit.


Collezionare il collezionabile per un museo della moda Thessy Schoenholzer Nichols

‘Vintage’, già la parola inglese, ci dà un flair di moda e di tendenza. In effetti, solo cinque anni fa la parola era pressoché sconosciuta in Italia. La parola sì, ma non il contenuto di riferimento, con cui si rimandava allora semplicemente agli abiti di ‘seconda mano’ o più genericamente ‘all’usato’. Un fenomeno questo, già ben conosciuto nel lontano Settecento, come mercato dell’abito dismesso. Infatti anche nei secoli passati che un abito potesse avere una seconda vita era per alcuni un elemento di pura necessità, in quanto impossibilitati a commissionare abiti fatti su misura. Questo permetteva di risparmiare sui costi, ma c’erano allora anche altre motivazioni: quella di impersonificare un ceto sociale superiore al proprio, indossando indumenti che erano appartenuti a personalità dell’alta società oppure della nobiltà, sperando forse di avanzare così nella ‘comunità dell’apparire’. Immaginiamoci l’equivoco che poteva crearsi quando una qualsiasi nobildonna, contessa o baronessa, vendeva o dava via i suoi abiti indossati per feste e ricevimenti, abiti che donne di ceti più bassi, forse delle parvenues, potevano acquistare e indossare, vantandosi non poco in società. Impersonare qualcuno o rivivere un periodo ci sembra storia del passato, ma ai nostri giorni accade ancora, magari per altri ragioni. Mi ricordo quando, negli anni Ottanta, lavoravo al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art a New York, le signore ricchissime compravano abiti del passato sul mercato antiquario, soprattutto degli anni Venti (all’epoca Mariano Fortuny era di tendenza), per indossarli a una festa o a un ricevimento e per farsi fotografare. Dopo di che li regalavano a un museo, arricchi-

ti da una nuova dose di profumi e sudori e da qualche strappo in più. Così i musei accrescevano le loro collezioni a costo zero, anche se dovevano investire spesso in onerosi restauri: ci si può interrogare se questo modo di procurarsi capi storici fosse giustificato. Tutto questo costituiva un gioco al raddoppio perché fra le donne facoltose esisteva una sorta di gara per donare il proprio abito a quel museo piuttosto che a un altro. La competizione era accelerata in parte dalle grandi mostre di moda che in quegli anni avevano luogo al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art e soprattutto grazie a Diane Vreeland, ideatrice e curatrice delle stesse, mitico ex direttore di «Vogue». A lei dobbiamo in parte la responsabilità del fatto che oggi l’abito del Novecento e contemporaneo sia diventato un bene ambito dai musei. Le esposizioni facevano allora e fanno ancora oggi furore e tendenza nell’ambiente della moda e nella società newyorkese: nessuno, per nulla al mondo, voleva o vuole mancare all’inaugurazione dell’anno al Costume Institute. Esiste tuttavia un’altra usanza sempre più seguita, anche in Italia, quella del re-enacting, cioè i giochi di ruolo, dove l’abbigliamento rappresenta una parte importantissima. Per far rivivere un periodo storico o un singolo evento in un’occasione sociale di gruppo bisogna non solo conoscere quella storia particolare, ma anche il quotidiano, i movimenti e i linguaggi espressivi, sia formali che materiali, delle persone di quell’epoca e per farlo cosa c’è di meglio dell’abito che fa il monaco? Molti di questi costumi sono rifatti quando si tratta di un periodo storico lontano, ma se il periodo in questione dovesse essere, ad esempio, il ven-

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tesimo secolo, sappiamo che molto spesso gli abiti provengono dal mercato dell’usato o dal vintage. L’abitudine di comprare roba usata va e viene come la moda stessa, ma oggi ha ripreso un impulso particolare. Gli acquisti oggi sono molto più semplici che in passato grazie a Internet, dove l’abbondanza di abiti bellissimi in vendita nei siti vintage invoglia chiunque a comprare, mentre un tempo il mercato di riferimento era rappresentato solo dalle aste e dal mercato antiquariale. La gente sceglie e compra per indossare abiti bellissimi di un passato lontano o più recente, attratta dal fascino di sempre, quello di rivivere un momento storico o impersonare una diva del passato. Non è stato forse un museo a comprare all’asta i bellissimi abiti di Maria Callas che, dalla morte della cantante fino ad allora, erano stati reindossati o semplicemente collezionati per gusto personale in modo più o meno serio? Altri ancora, come Umberto Tirelli, che tutti ricordiamo con grande ammirazione, ha comprato e collezionato capi d’abbigliamento sia per studiarne la confezione che, soprattutto, per utilizzarli nel cinema e nel teatro, cioè per affittarli. Infatti le produzioni cinematografiche e teatrali da sempre tendono a comprare o affittare costumi ‘veri’ per le rappresentazioni1 d’epoca. Una buona parte degli abiti più belli della collezione Tirelli oggi, come sapete, è stata donata alla Galleria del Costume di Firenze.2 Da qualche anno è nata anche una nuova tendenza, quella di creare partendo dall’usato. Non si tratta di risistemare un capo vintage, ma di dare vita a nuove collezioni, partendo da capi usati o incorporando nelle nuove creazioni parti di questi. In molti realizzano moda senza grande sa-

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Thessy Schoenholzer Nichols

voir faire, altri invece fanno capi unici e raffinati. Ma questo materiale, ripensato e ricreato, potrà diventare un giorno collezionabile? Se l’abito di partenza proveniva dal pronto moda e diventa nella sua seconda vita un abito importante si prediligerà il secondo, se invece già all’inizio l’abito era di alto design, quale è il creatore o l’operazione creativa da privilegiare e riconoscere? E tutti gli altri vestiti del Novecento comprati usati, ripuliti forse, ma certamente riaggiustati per renderli indossabili, un giorno saranno collezionabili e si saprà riconoscerne i cambiamenti? Inoltre siamo sicuri che già oggi molti di questi rilavorati non esistono nelle collezioni museali senza che il loro segreto sia stato scoperto? Potrei continuare a enumerare tanti altri casi e porre altri quesiti, ma devo riprendere il discorso sul come collezionare oggi moda del Novecento per un museo, statale o privato che sia. Per capire bene quello che offre attualmente il mercato vintage ho creato una mostra virtuale di abiti degli anni Trenta; come budget mi sono data la somma di 10.000 euro per l’acquisto dei materiali, ho trovato anche dei manichini per 50 euro il pezzo. Si tratta di abiti molto belli, in alcuni casi di pezzi eccellenti, ma soprattutto documentano bene gli anni in questione di cui mostrano la va-

1 MICHELA FOSSI, Adelaide Ristori veste le tre regine, tesi di Laurea Primaria in ‘Progettazione e realizzazione della moda: il tessuto’, Università degli Studi di Trieste, a.a. 2006-2007, p. 90. 2 Donazione Tirelli: la vita nel costume, il costume nella vita, catalogo della mostra (Firenze, 1986-1987), a cura di Umberto Tirelli e Maria Cristina Poma, Milano, Mondadori, 1986.


rietà di fogge e tecniche creative, dando così vita a una mostra plausibile, con un percorso più che sensato. Ciò nonostante, mi chiedo se questa piccola raccolta sia veramente ‘stoffa’ da collezionare. Fanno davvero parte di quegli oggetti indimenticabili che creano lo stile di un’epoca? Se fossero regalati a un museo in buono stato di conservazione varrebbe senz’altro la pena di accettarli per integrarli nella collezione esistente. Spendere somme ingenti per avere pezzi sicuramente belli, ma in fondo mediocri e ancora reperibili nei siti migliori del vintage, non è un’operazione valida a giustificarne l’acquisto per un museo. Come si deve muovere quindi il curatore di un museo del costume o della moda che desidera acquistare capi per la sua collezione? Intanto va detto che gli abiti sono presenti in numerosi musei italiani e che mostre a tema sul costume e sulla moda se ne organizzano non poche, si sottolinea poi che i musei permanenti di questo genere sono purtroppo rari: tra questi la Galleria del Costume di Firenze, voluta da Cristina Piacenti nel 1983, il Museo della Moda di Gorizia, creato alcuni anni fa da Raffaella Sgubin, e la Fondazione Capucci di Firenze di recente costituzione, insieme a pochi altri. Ci sono poi musei che espongono moda, tra questi il Castello Sforzesco a Milano e altri. Eppure questo tema attira tantissimo pubblico, basta vedere il numero di visitatori che hanno fatto registrare tante mostre belle, sia a tema storico che contemporaneo. Per ricordare una mostra recente posso citare ‘Abitare il Settecento’ a Gorizia, (novembre 2007 - marzo 2008), che, pur essendo stata allestita in una lontana sede di confine, ha avuto un flusso di pubblico enorme. Allora perché non c’è

un numero maggiore di musei che si dedicano a questo argomento? Per trovare risposte a questa domanda ho fatto un’indagine in Italia e all’estero, parlando con curatori, antiquari e collezionisti. In questa sede tratterò esclusivamente il tema del collezionare per un museo della moda e non per musei locali, né per musei storici, o per musei di grandi centri urbani. Una delle domande poste era quale immagine professionale dovesse avere un curatore di museo della moda contemporanea. Per diventare conservatore o curatore (figura in Italia spesso equiparata al direttore di museo) un candidato deve essere laureato in Storia dell’arte, preferibilmente antica o moderna. Se lavora nell’ambiente statale, visto che da anni non ci sono più concorsi, procederà nella carriera per livelli sino ad arrivare per anzianità alla meritata ricompensa, ottenendo la nomina a direttore. Ma se questo museo è un museo del costume e della moda che autorevolezza avrà questa persona, senz’altro non preparata alla specificità del settore? Si potrebbe far aiutare da un consulente che non dovrebbe essere solo un costume hunter, ma anche un money hunter capace di procurare fondi per acquisti da privati, società, ecc., ma dove reperire questa persona e, se esiste, quale è il suo costo? In ogni caso la responsabilità finale rimane comunque del responsabile in carica che in questo caso è il direttore del museo. Quali conoscenze deve avere quindi questa figura direttiva per fare delle mostre adatte al nostro tempo che possano ispirare la gente comune, gli stilisti, i creativi? Ecco la risposta: deve conoscere bene la moda contemporanea come quella passata, sia recente che lontana, oltre ad avere un’ottima padronanza della storia

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e dei grandi eventi legati all’evoluzione del costume e dello stile di vita della società. Deve essere uno storico, padroneggiare le conoscenze artistiche, possibilmente avere conoscenze di antropologia (tutto questo insieme e non separatamente!) e studiare con attenzione i giornali sulla e alla moda, capire ciò che è avvenuto, chi era lo stilista che ha creato una moda, vedere le sfilate e studiarne i contenuti: non è difficile oggi con tutti i siti Internet a disposizione. Deve inoltre conoscere gli stilisti, ricavandone tutte le informazioni possibili. Ma anche questo non basta, deve viaggiare, seguire le sfilate e conoscere di persona i designer, entrando così a pieno titolo nel mondo della moda. Ma il nostro personaggio esiste in Italia? È preparato? Direi di no. In diverse università italiane sono attivi corsi di moda e di ricerca sulla moda, ma sono sufficienti? E che fine fanno i laureati usciti da questi corsi se non ci sono concorsi, in che modo si rapportano poi con il mondo del lavoro? E soprattutto, quando potranno interagire attivando collaborazioni con i musei della moda? La New York University e il Metropolitan Museum of Art da tre decenni hanno istituito un corso di laurea specifico, i laureati che sono usciti da questi corsi oggi dirigono musei o collezioni private e pubbliche di grande importanza. Va finalmente affermato che, se non ci saranno le università o le istituzioni museali pubbliche e private a sostenere il settore con personalità fortemente rappresentative della moda e del giornalismo impegnate costantemente, il lavoro in questo ambito resterà debole e il sogno di avere musei importanti della moda si allontanerà sempre di più. Insisto molto su questo punto, perché l’abito e con esso ogni forma espres-

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siva della moda fanno davvero parte della nostra storia come una qualsiasi opera d’arte, dipinto, mobile, scultura o libro che sia. Quindi ribadisco che, senza adeguata preparazione, è difficile sapere che cosa debba essere scelto in una possibile asta per implementare le collezioni di un museo. Come si può capire il perché dell’importanza di un abito e della sua influenza nello sviluppo della moda, se non si conosce la moda? Non essendo preparati non si può nemmeno giustificare un eventuale prezzo alto per un possibile acquisto. Con tutto ciò, non dico che intraprendere questa strada da soli non sia possibile, al contrario, si può fare (e ci sono ottimi curatori a provarlo), ma bisogna avere tanta passione e preparazione per poter arrivare all’alto livello di conoscenza necessaria a svolgere questo tipo di lavoro. Per fare crescere un museo con lungimiranza bisogna anche saper creare una collezione ex novo e, come abbiamo visto, non sarà certo e solo il mercato vintage ad assicurare un’incomparabile raccolta. Un museo della moda non vive della collezione precedente, di antichi capolavori da conservare, come è già documentato nei musei italiani, ma la collezione va creata, rinnovata e aggiornata sempre, in un continuo work in progress. A questo punto entra in azione una figura che negli ultimi anni ha fatto la differenza per l’arricchimento delle più importanti collezioni museali: il collezionista-antiquario che appunto individua e seleziona con gli occhi di un curatore. È proprio questa nuova professionalità che propone al museo collezioni specifiche, a volte monotematiche, costituite da abiti e accessori precisi e pezzi rari: questa figura, unica o distinta nei ruoli, spesso complementari, del conoscitore-col-


lezionista e dell’antiquario, opera alla ricerca dei pezzi giusti, ne cura l’acquisto e la conservazione in attesa di proporli a un ipotetico compratore. Purtroppo però, poiché i costi sul mercato dei capi selezionati spesso sono alti, molto alti, il loro acquisto diventa davvero inaccessibile e non sempre facile da motivare. Ma, se si entra nell’ottica che questi abiti di forte richiamo estetico sono unici ed esclusivi, la gente verrà comunque a vederli da qualsiasi parte del mondo in cui essa si trovi, in quanto riconoscerà oggi, come in futuro, il valore della raccolta. Se per i costumi del Settecento, per esempio, la scelta è più facile, quasi scontata dal momento che pochissimi sono ormai gli esemplari in circolazione, già per l’Ottocento diventa importante saper scegliere bene e non solo in base allo stato di conservazione dell’abito. Per quanto concerne il Novecento, invece, diventa veramente difficile selezionare i capi giusti, perché ne esiste una gran varietà sul mercato ancora da ‘collezionare’ per le raccolte museali. Inoltre, vivendo in un momento dove tutto è marketable, persino i figurini all’interno degli ovetti Kinder e le carte scadute del telefono, come ci si può orientare? Basta forse

comprare grande firme? Sì, ma solo quando è davvero significativo, occorre anche qui distinguere: un capo con etichetta Dior non è la stessa cosa di un capo creato da Christian Dior. Oppure: avere un esemplare qualsiasi di Issey Miyake pleats please, pur essendo un capo particolare, dal design riconoscibile, non è forse troppo inflazionato? So di aver qui sollevato un problema già ampiamente dibattuto e ancora irrisolto, a cui ho cercato di dare un senso nuovo con queste mie considerazioni. Problema a cui rispondo in parte con un’osservazione relativa alla mostra ‘Contro Moda’ tenutasi a Firenze nell’autunno del 2007, i cui capi esposti, tutti provenienti dal Los Angeles County Museum, per la maggior parte non sono stati affatto comprati, bensì regalati da privati. E da chi in particolare? Da singoli donatori, da appassionati, da facoltosi proprietari, ma ciò che sorprende di più, in quanto rappresenta un’autentica novità, è che una buona parte di essi è stata donata dagli stilisti stessi con conseguente costo zero per i musei. Allora che cosa dobbiamo fare per non perdere i modelli unici e più significativi del nostro made in Italy?

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Riconoscere e conservare gli abiti del Novecento Moira Brunori

Le problematiche conservative che i manufatti tessili pongono sono argomento ben noto, dibattuto e, per certi aspetti, ancora irrisolto. Gestire una collezione tessile impone un confronto continuo con la fragilità della materia, da considerare elemento di valutazione imprescindibile per stabilire tempi e modalità espositive, trasferimenti, campagne fotografiche, depositi e restauri. Le problematiche si moltiplicano quando ci si trova a dover curare nello specifico una raccolta di abiti e, ancora di più, un museo del costume; le competenze da mettere in atto sono molteplici e richiedono una conoscenza approfondita degli aspetti culturali, storici e tecnici della materia. Gli abiti sono manufatti complessi nei quali le istanze conservative proprie dei tessili si sommano ad altre necessità specifiche legate al rispetto delle peculiarità sartoriali e del valore tridimensionale dell’opera. Conservare un abito vuol dire riconoscerne la progettualità, comprenderne il taglio, le tecniche di confezione, saper valutare le caratteristiche dei materiali, le sostituzioni e l’entità delle modifiche. Un corretto approccio conservativo non può limitarsi allo stoccaggio in ambienti climatizzati (una rarità per i musei italiani!) né al consolidamento dei materiali tessili, ma deve concretizzarsi in un percorso di conoscenza ideale che è per certi aspetti unico e irripetibile. Allo stato attuale in Italia non esiste alcun iter formativo, di base o specialistico, che preveda la preparazione di figure professionali nel campo della conservazione e del restauro del costume.1 Una mancanza che si fa doppiamente sentire, tanto da apparire contraddittoria, in un contesto culturale che considera l’abito come documento imprescin-

dibile della propria storia sociale e ha un sistema produttivo che concretizza nel settore moda una delle più importanti affermazioni del made in Italy. Questo vuoto si evidenzia ancora di più nel momento in cui si parla di tessile contemporaneo e si promuovono importanti eventi espositivi incentrati sulle collezioni di moda degli ultimi decenni. Essere pronti ad accogliere le problematiche conservative del tessile contemporaneo, non farsi cogliere impreparati dalle istanze emergenti potrebbe fare la differenza per la salvaguardia di un patrimonio attuale preziosissimo, il cui potenziale innovativo, costantemente aggiornato dall’esperienza di nuove applicazioni, continuerà ad alimentare lo sviluppo della produzione di moda. Se l’interesse per il tessile antico si è primariamente concretizzato nella raccolta compulsiva tipica del collezionismo aristocratico di fine Ottocento, l’approfondimento storicoscientifico della materia, si è subito incentrato sullo studio della costruzione tecnica riconosciuta come elemento connotante il progetto creativo e formale. Questo tipo di approccio critico, basato sul confronto diretto con il manufatto – patrimonio di cultura – modello di riferimento, non può prescindere dall’esperienza di tutela intesa nell’accezione più ampia e condivisibile del termine.

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La conservazione e il restauro dell’abito storico sono materia di studio presso alcune università straniere che recentemente hanno attivato anche settori di ricerca nel campo della conservazione del tessile contemporaneo come il FIT – Fashion Institute of Technology di New York, la Technische Universitat di Monaco (sotto la direzione di Hermann Emmerling) e l’Università di Colonia (sotto la direzione di Annemarie Stauffer).

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Decorazioni ‘fantasia’ degli anni Trenta realizzate in legno, pelle, paglia e materiale plastico, Raccolte Venturino Vintage, Asti.

Particolare di ricamo ad applicazione eseguito con perle e paillettes in materiale plastico, depositi Centro Restauri Tessili di Pisa.

A partire dagli anni Settanta del Novecento importanti contributi allo studio dell’arte tessile e sperimentazioni nel settore del restauro hanno consentito di acquisire conoscenze fondamentali per la messa a punto delle metodologie di conservazione. Qualcosa dunque sappiamo delle esigenze conservative proprie degli abiti sei-settecenteschi … qualcosa anche di quelle dei rarissimi abiti cinquecenteschi: dell’Ottocento conosciamo le tante problematiche legate alla fragilità dei materiali. Ma è il XX secolo che ci riserva oggi i quesiti più pressanti, il secolo che dopo la grande guerra rivoluziona lo stile di vita e il modo di abbigliarsi, che vede l’affermarsi dei nuovi materiali, l’avvio dell’industria della moda e del design contemporaneo. Questi anni di epocali cambiamenti ci hanno consegnato un vero e proprio giacimento di

documenti tessili, abiti e accessori: segni di un passato talmente recente da risultare per certi versi indecifrabile. È a partire dagli inizi di questo secolo che accanto ai filati e alle tecniche tradizionali si impiegano, in maniera sempre più consistente e decisiva, le fibre chimiche e le nuove macchine per la confezione consentono di realizzare tessiture e decorazioni raffinatissime a costi contenuti. Si afferma prepotentemente l’uso di filati ottenuti dalla lavorazione della cellulosa, assai simili alla seta per lucentezza e resistenza. Frutto di una ricerca intrapresa nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, questi filati rivoluzionano il modo di vestire operando una vera e propria democratizzazione del guardaroba e un’accelerazione della creatività e del cambiamento delle mode. Rayon, bemberg, viscosa, albene sono i nomi fantasiosi di questi pro-

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dotti che imitano i filati serici trovando largo impiego nell’industria del tessile.2 Le prime applicazioni delle fibre artificiali nel settore moda si attestano già tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento per far fronte alla massiccia richiesta di nastri e passamanerie della moda Belle Epoque. Con gli anni Trenta l’uso delle fibre chimiche nelle produzioni tessili si consolida e diventa oggetto di sperimentazioni sempre più ardite; obbligata a fare i conti con la crisi economica internazionale e con le restrizioni imposte dall’autarchia di regime, la moda accoglie, ormai senza più riserve, il miracolo delle fibre artificiali: collezioni di abiti dalle linee aderenti e sinuose sono realizzati interamente in rayon, albene e viscosa.3 Le difficoltà di approvvigionamento stimolano per certi versi la creatività dei maestri artigiani e dei couturiers che sperimentano l’uso di materiali naturali poveri e facilmente reperibili come il sughero, la corda e la raffia. Nel secondo dopoguerra l’affidabilità crescente delle fibre artificiali e la messa a punto dei primi filati sintetici sostengono fortemente la ripresa della produzione di moda. L’impiego del nylon, prima fibra sintetica della storia, rivoluziona le sorti dell’industria tessile finalmente in grado di fornire un filato lucente, resistente ed elastico, destinato a cambiare le abitudini delle donne in fatto di comfort ed eleganza.4 Significativo è il fatto che negli anni Cinquanta molte delle più famose creazioni di Dior, Schubert e delle Sorelle Fontana siano realizzate con pizzi e tessuti in nylon particolarmente apprezzati per gli abiti da sera in quanto naturalmente vaporosi, ingualcibili e assai adatti a comporre volumetrie importanti senza la spinta di sottogonne e crinoline. Con gli anni Sessanta si supera il punto di non ritorno per l’impiego delle fibre sintetiche sia nell’alta moda che

nel prêt-à-porter, l’alta qualità raggiunta da questi filati, grazie alla ricerca industriale e al progresso delle tecnologie di trasformazione, li rende ormai insostituibili, tanto da essere addizionati alle fibre naturali per migliorarne caratteristiche e prestazioni. Il ‘sintetico firmato’ si esprime in questi anni attraverso le creazioni in poliestere, acrilico, vinile,5

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Fibre artificiali ottenute dalla lavorazione della cellulosa opportunamente disciolta con solventi. Fanno la loro comparsa a partire dalla fine del XIX secolo quando vengono genericamente chiamate sete artificiali per sottolinearne le caratteristiche di luminosità e brillantezza. L’appellativo di seta artificiale fu ben presto sostituito da quello di rayon (raggio) per fronteggiare le proteste avanzate dai commercianti di seta a proposito degli equivoci ingenerati dal nome. Esistono vari tipi di rayon: rayon nitro, rayon cupro o seta bemberg, rayon viscosa o semplicemente viscosa. L’albene è una viscosa opacizzata che viene messa a punto intorno agli anni Trenta, si afferma per la particolare eleganza che l’aspetto opaco gli conferisce, distinguendola dal rayon fortemente lucido e brillante. 3 Elsa Schiaparelli, geniale creatrice degli anni Trenta, è stata la prima grande sperimentatrice delle fibre chimiche selezionando per i suoi abiti surreali, oltre al rayon, materiali totalmente innovativi come il rhodophane e il cellophane (fogli totalmente trasparenti, messi a punto a partire dalla lavorazione della viscosa). 4 Il nylon è una fibra poliammidica ottenuta a partire da composti di natura organica (petrolio e derivati) mediante polimerizzazione per condensazione. È la prima fibra sintetica della storia destinata a cambiare totalmente il modo di vestire delle donne che, a partire dal 1938, possono indossare calze trasparenti e biancheria intima elastica e confortevole. 5 Poliestere: fibra sintetica ottenuta con processo di polimerizzazione per condensazione. Si caratterizza per l’elevata resistenza e per l’ottima resa estetica, è indeformabile e non teme la luce. Resiste all’umidità, al calore e ai comuni solventi organici, non teme l’attacco delle tarme. Viene largamente impiegato in mischia per migliorare le prestazioni delle fibre naturali. Acrilico: fibra sintetica ottenuta con processo di polimerizzazione per addizione. Morbido e resistente al lavaggio, viene normalmente impiegato nella produzione di maglieria. Vinile: monomero usato per la produzione di resine e fibre.

Riconoscere e conservare gli abiti del Novecento

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Sorelle Fontana, abito in cotone blu e bianco con applicazioni a contrasto in plastica blu e bianca, 1967, Archivi Mazzini, Massa Lombarda.

alla ricerca di soluzioni innovative di comfort che spesso sfociano nella sperimentazione totale e dirompente. Si mescolano i materiali più disparati in accostamenti che comprendono plastiche, pellicce, paglia, pellami trattati con vernici metallizzanti. La creatività dei designer più audaci raccoglie a pieno le potenzialità tecniche dei nuovi tessili dando origine a collezioni sbalorditive e controverse: Roberto Capucci realizza abiti in plastica e cotone, tessuti intrecciati con raffia, applicazioni in bambù e pietre di fiume, Paco Rabanne presenta abiti interamente in plastica e metallo, spingendo al limite la sperimentazione dei materiali incongrui fino a escludere totalmente il tessuto dalle proprie creazioni. Con l’affermarsi del poliestere le performances delle fibre chimiche compiono un salto di qualità rendendo disponibile sul mercato del tessile un filato che somma in sé caratteristiche di resa estetica, stabilità e comfort. Indeformabili, resistenti e refrattari all’attacco di tarme e microrganismi, i tessuti in poliestere sono versatili e si trasformano a seconda delle finiture: variamente impiegato il poliestere è il filato in grado di rispondere più di ogni altro alle aspettative degli stilisti a partire dagli anni Settanta sino ai giorni nostri. Usato in mischia con altre fibre o da solo trova impiego nell’alta moda sotto forma di voile e di tele setose dal grande fascino cromatico e dall’ottima resa sartoriale, il pronto moda ne fa la fibra di riferimento per la versatilità d’impiego nella realizzazione di capi invernali, estivi e nelle linee sportive. I tessuti in poliestere hanno la prerogativa di cambiare totalmente aspetto e consistenza se spalmati con mate-

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Abito in lycra, 1975, collezione privata e particolare delle etichette.

riali plastici che conferiscono alle superfici finiture effetto pelle, gommature lucide, opache o metallizzate.6 Le caratteristiche termoplastiche della fibra semplificano lavorazioni assai complesse come quella della plissettatura, rendendola stabile e resistente come nel caso delle creazioni di Issey Miyake. Negli ultimi decenni il progredire della tecnologia nel campo dei lavorati tessili ha assecondato e in parte ispirato i grandi cambiamenti del design di moda: se da una parte i nuovi materiali e le nuove tecniche di lavorazione hanno reso possibile la produzione seriale di capi di qualità a prezzi contenuti, dall’altra hanno anche contribuito a liberare il lavoro di ricerca di molti stilisti, avvicinandolo sempre più al modus operandi proprio dell’arte contemporanea. Stilisti come Yohji Yamamoyo, Issey Miyake, Martin Margiela, Rei Kawakubo, Vivienne Westwood, Hussein Chalayan e altri ancora hanno sovvertito le regole e le convenzioni della moda con creazioni dal design concettuale audace e visionario, identificabili più come opere d’arte contemporanea che come prodotti da indossare. Gli abiti di questi stilisti sfidano la tradizione sartoriale ripensando il concetto di forma, struttura e materia attraverso un processo di approfondimento critico che propone nuove chiavi di lettura per l’indumento. La tecnica sartoriale prova sistemi di saldatura alternativi alle cuciture; per le decorazione si speri-

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Spalmatura: procedimento mediante il quale si applica materiale semiliquido (mescola) di PVC (polivinilcloride) o di poliuretano in soluzione con DMF (dimetilformammide). Il processo di spalmatura viene utilizzato per la produzione di tessuti gommati, tessuti effetto pelle, opachi o lucidi.

Riconoscere e conservare gli abiti del Novecento

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Roberto Capucci, abito da sera, 1992, taffetas e shantung verde, ventagli in taffetas plissĂŠ in vari toni di verde, Archivio Storico Capucci 49. La conservazione e lo stoccaggio di abiti

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dalle volumetrie complesse costituiscono una problematica aperta di non facile soluzione. (foto Gianluca Baronchelli, courtesy Musei Provinciali di Gorizia).

Roberto Capucci, abito in cotone bianco e plastica trasparente con ricamo ad applicazione di elementi in plastica, primavera/estate 1966, Archivio Storico Capucci 146.

(foto Gianluca Baronchelli, courtesy Musei Provinciali di Gorizia).


Issey Miyake, abito modello Zig-Zag, autunno/inverno 1995-96, tessuto poliestere pieghettato e fissato a caldo, Archivi Mazzini, Massa Lombarda.

con la scarsa disponibilità di dati utili a valutarne nello specifico le vulnerabilità. Poco si sa sulle modalità di invecchiamento dei nuovi materiali tessili e sulla stabilità dei trattamenti e delle tecniche di costruzione elaborati dagli stilisti, tuttavia l’esperienza maturata nel campo della conservazione e del restauro ci impone di non sottovalutare le articolate dinamiche che governano la vita di un manufatto fragile e complesso come l’abito, la cui esistenza può essere compromessa più dalla mancanza di comprensione che di attenzione.

mentano le superfici scolpite di tessuti tridimensionali progettati al computer, la bollatura chimica e i trattamenti con il calore, ma si recuperano anche lavorazioni antichissime come quella dello sfilato, dell’impuntura a mano e della carta artigianale, nonché l’inserimento e la rielaborazione di tessuti d’epoca e capi vintage. La complessità materica e strutturale che caratterizza questi abiti, in equilibrio tra tecnologia e tradizione, richiede di essere prestamente considerata e analizzata anche dal punto di vista conservativo. La volontà di preservare un patrimonio così vivo e presente, già compiutamente espressa nell’opera di raccolta e selezione messa in atto da alcuni importanti musei, si trova quotidianamente a fare i conti con la novità della materia e

Note conservative su alcuni history-cases Il confronto con le esigenze conservative degli abiti novecenteschi, particolarmente serrato nell’arco degli ultimi anni di attività professionale, mi ha portato a verificare problematiche ricorrenti per alcune categorie di abiti. Le vesti femminili, da sera o da cerimonia, costituiscono generalmente la categoria più a rischio in quanto confezionate con stoffe leggere, spesso arricchite da ricami polimaterici più o meno pesanti.7 Nella moda Belle Epoque il ‘ricamo fantasia’ acquisisce un valore fondamentale nel decoro dell’abito, caratterizzandolo fortemente con l’impiego di ogni sorta di materiale e delle più svariate tecniche di lavorazione: elaborate applicazioni in jais, perle di vetro, ciniglia e legno vengono

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Nel corso di un intervento di restauro conservativo su un abito in tulle rachel, con applicazioni in seta ricamata, paillettes metalliche e cannucce di vetro, si è potuto misurare un allungamento di ben 30 cm prodotto nel tempo dal peso del ricamo (intervento condotto presso il Centro Restauri Tessili di Pisa).

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realizzate sperimentando anche seta, paglia e crine artificiali.8 Queste decorazioni, che possono raggiungere, e a volte superare, il chilo di peso, si concentrano in zone specifiche di abiti e mantelli (corpetti, scollature, orli, spalle), producendo sui tessuti forti sollecitazioni meccaniche che spesso coinvolgono anche la tenuta della struttura sartoriale. La coesistenza di materiali eterogenei, fermati a cucito su supporti tessili fragili e inconsistenti, costituisce un importante fattore di rischio per la conservazione di questi abiti, spesso compromessi anche dalla scarsa tenuta dei tessuti in seta caricata.9 I ricami con inserti metallici di paillettes, canutiglia e marcassite possono produrre abrasioni e tagli sui tessuti di fondo e innescare processi di ossidazione irreversibili: legno, paglia e carta trattengono l’umidità e si deformano attirando muffe e parassiti, mentre la seta artificiale, molto utilizzata nelle passamanerie perché lucida e facile da tingere (ma meno resistente della seta naturale), si scolorisce precocemente e si spezza con facilità. Analoghe problematiche presentano gli abiti da sera anni Venti della moda Charleston dove il ricamo in paillettes, strass e perline si espande sino a ricoprire l’intera superficie tessile. L’applicazione di materiali pesanti come il metallo e il vetro su stoffe leggerissime e trasparenti (tulle, crêpe, voile) costituisce indubbiamente il fascino e al tempo stesso il limite di queste fragili creazioni. In queste vesti dove il rapporto tra la tenuta meccanica dei tessuti e il peso delle lavorazioni a ricamo è del tutto inesistente o addirittura invertito, sono riscontrabili danni ricorrenti quali la sgranatura e la lacerazione dei tessuti, lo stiramento dei filati, il distacco e la perdita del ricamo e la deformazione del mo-

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dello sartoriale. È stata inoltre in più casi rilevata la scarsa tenuta delle cuciture di confezione spesso eseguite con filati di cotone assai fragili, caratterizzati da viraggi di colore. In questi casi sia l’esposizione in verticale su manichino che lo stoccaggio orizzontale in deposito presentano numerosi inconvenienti sempre dovuti al peso e alla facilità con la quale gli elementi del ricamo, muovendosi, si agganciano tra loro strappando i tessuti. Le vesti anni Trenta e Quaranta si caratterizzano per l’impiego fantasioso dei materiali poveri che tuttavia rivelano nella confezione grandi limiti di qualità: scompare quasi del tutto la seta, sostituita dal rayon che, mescolato a lana e cotone o da solo, ne diventa l’irrinunciabile surrogato. Le problematiche conservative legate a questi abiti, dalle li-

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L’impiego delle prime fibre artificiali nella produzione di nastri e passamanerie costituisce un’importante fase di sperimentazione che consente all’industria di perfezionare la messa a punto dei nuovi materiali non ancora pronti per essere impiegati su vasta scala. 9 Il procedimento di sgommatura applicato nella lavorazione della seta produce una perdita della sericina che può incidere sino a ridurre del 25% il peso del filato. Il bagno di carica è il trattamento mediante il quale si restituisce alla seta consistenza e peso, sfruttando le proprietà della fibroina di assorbire alcuni sali metallici. L’immersione in una soluzione a base di sali di stagno (ma anche di zinco o alluminio), di norma eseguita per migliorare le caratteristiche tecniche della fibra, se ripetuta può maggiorare il peso del filato anche del 400% (carica sopra alla pari), innalzando dolosamente il margine di guadagno del venditore. La seta così trattata risulta però molto più sensibile all’azione di luce e calore e produce nel tempo una caratteristica patina cristallina che rende le fibre friabili e determina la frantumazione del tessuto. Analoghe problematiche si riscontrano anche nelle sete di colore nero, rese friabili dai tannini vegetali e dai sali ferrosi impiegati nelle tinture di colore molto scuro.


Paillettes di gelatina animale a contatto con l’acqua viste al microscopio.

nee aderenti e sinuose, evidenziano in pieno le carenze strutturali dei tessuti che risultano molto cedevoli e lacerati in corrispondenza delle cuciture. Alcune decorazioni realizzate con materie plastiche o resinose, come la lucite e la bachelite (spesso trattate a imitazione di materiali nobili) possono presentare scoloriture e patine con screpolature superficiali dovute all’ossidazione.10 Le decorazioni in celluloide risultano molto sensibili al calore e si deformano facilmente, mentre quelle in gelatina animale assorbono l’umidità e si gonfiano, disciogliendosi al contatto con l’acqua. Particolarmente sensibili all’ossidazione sono i materiali gommosi che si deteriorano perdendo l’elasticità sino all’indurimento con patine superficiali di vario tipo. La moda degli anni Cinquanta propone abiti importanti che generalmente si caratterizzano per l’alta qualità degli standard sartoriali di modellistica e confezione. Nell’alta sartoria, come nella confezione pronta, ricorre in maniera determinante l’impiego di tessuti artificiali e sintetici che presentano finalmente un alto livello di affidabilità e una buona resa estetica. Si tratta di vesti con volumetrie strutturate che concentrano l’attenzione nella parte bassa dell’abito, caratterizzata da ampie gonne con panneggi e ricami. Questi abiti, generalmente ben conservati, risultano assai problematici in fase di magazzinaggio proprio a causa delle imponenti volumetrie sartoriali; la conservazione in orizzontale presenta dei limiti obiettivi che riguardano l’impiego di contenitori adeguati alle dimensioni delle vesti e il corretto posizionamento dei tessuti. Lo stoccaggio in verticale può rappresentare una soluzione praticabile se si adottano alcuni accorgimenti come l’inserimento di ‘sottogon-

ne’ in materiale inerte e flessibile, in grado di costituire un appoggio per le grandi gonne: un sistema di cordelle applicate nei punti strategici della sottostruttura potrà completare la corretta distribuzione dei pesi. Con la fine degli anni Cinquanta la produzione di moda rompe con la tradizione e avvia un percorso di ricerca e di innovazione che coinvolge tutti i settori manifatturieri. Dei

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Materiali resinosi sintetici resistenti e colorabili che trovano largo impiego nella realizzazione di accessori e oggettistica. Caratterizzata da una lunga e complessa lavorazione, la bachelite è stata in breve sostituita da plastiche più economiche, diventando ben presto materiale di culto per i collezionisti di modernariato. La lucite, perfezionata nella produzione, è l’equivalente dell’attuale plexiglass.

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Corpetto femminile in raso di seta caricata con sali minerali.

Interno di corpetto femminile in voile di seta caricata con sali minerali.

nuovi materiali tessili che caratterizzano le sperimentazioni a partire dagli anni Sessanta si può dire ancora poco dal punto di vista conservativo e quel poco è comunque materia di approfondimenti occasionali e di sporadici passa pa-

rola. Alcune verifiche condotte sullo stato di conservazione degli abiti dell’Archivio Storico Capucci hanno fatto apprezzare la buona tenuta dei materiali sperimentali utilizzati da Roberto Capucci alla metà degli anni Sessanta (plasti-

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Fili di seta caricata visti al microscopio.


che trasparenti e colorate), mettendo per contro in evidenza i problemi di stabilità presentati dalle costruzioni a ventaglio e dalle monumentali volute plissé delle sue creazioni in seta.11 Importanti punti di osservazione possono essere identificati nelle raccolte di abiti di seconda mano che selezionano e commercializzano capi vintage, veri e propri archivi di ricerca presso i quali è possibile approfondire la conoscenza di molti stilisti contemporanei e toccare con mano le problematiche conservative sviluppate nel tempo dai materiali.12 La possibilità di attingere a questo patrimonio di informazioni mi ha permesso di verificare le ‘patologie’ che affliggono alcuni capi cult della moda contemporanea a partire dagli anni Sessanta. Nelle plastiche cromate e colorate, ricorrenti nei lavori di Paco Rabanne, sono state riscontrate opacizzazioni localizzate, deformazioni e scollamenti delle pellicole di rivestimento; i materiali vinilici, simili a quelli impiegati da Courrèges e Cardin, sono molto fragili e si deteriorano producendo patine appiccicose o l’irrigidimento e la screpolatura della superficie lucida. Nei tessuti spalmati con mescole in PVC o poliuretano, sensibili alle variazioni di temperatura e al calore, si è potuto verificare il distacco e la degenerazione delle lamine superficiali.13 Una segnalazione a parte merita la gommapiuma, prodotto gommoso di origine vegetale, largamente utilizzato per le imbottiture: è risultato fotosensibile e si deteriora rapidamente polverizzandosi. La varietà molteplice della materia impiegata e l’applicazione di tecniche di lavorazione sperimentali e improprie ci portano inevitabilmente ad aprire il confronto con le problematiche conservative espresse dall’arte contemporanea.14, 15

Gli approfondimenti in questo settore, resi urgenti dalla precoce deperibilità dei materiali impiegati nelle opere degli artisti contemporanei, possono fornire indicazioni interessanti

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Dati sullo stato di conservazione di alcuni abiti dell’Archivio Storico Capucci sono stati rilevati grazie alla disponibilità della Fondazione Capucci. 12 Gli Archivi Mazzini Second Hand anni 1940-90 di Massa Lombarda hanno contribuito all’approfondimento delle problematiche conservative degli abiti contemporanei, aprendo le proprie raccolte di capi firmati. Di particolare interesse documentativo il settore dedicato ai designer giapponesi degli anni Novanta. Interessanti considerazioni sui materiali eterogenei degli anni Trenta e Quaranta sono scaturite dall’analisi di una cospicua raccolta di accessori (fermagli, bottoni e finiture varie in plastica, crine, pelle, metallo, legno, ecc.) messa a disposizione da Venturino Vintage di Asti. 13 Il processo di spalmatura viene utilizzato per la produzione di finte pelli e tessuti gommati per l’industria tessile. Una mescola semiliquida di PVC (polivinilcloride) o di poliuretano in soluzione con DMF (dimetilformammide) viene stesa o applicata sul supporto tessile a formare uno strato continuo di materiale gommoso che può avere varie finiture. 14 La conservazione dell’arte contemporanea è argomento attuale di grande interesse per le problematiche urgenti che coinvolgono i molteplici aspetti della materia. Tra le iniziative di approfondimento più recenti si segnalano: ‘Conservazione e Restauro dell’Arte Contemporanea’, workshop internazionale promosso nel 1996 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia; ‘L’Arte Contemporanea: tecniche di Conservazione e Restauro’, giornata di studi promossa da Mart Rovereto, Rovereto, 5 febbraio 2007; ‘La Conservazione del Presente. Giornate di studio sulla conservazione e il restauro dell’arte contemporanea’, Palazzo di Brera, Milano, 31 marzo, 7, 14 e 21 aprile 2008. 15 In quest’ottica sono da valutare anche le problematiche conservative del costume teatrale, manufatto che somma in sé, elevate all’ennesima potenza, tutte le fragilità proprie dell’abito contemporaneo. La costumistica sperimentale contemporanea, in particolare, ha dato vita a opere complesse per costruzione e materia, spesso realizzate con materiali effimeri pensati ad uso e consumo della scena, frutto della creatività di artisti di fama internazionale. La complessità e la specificità dell’argomento richiedono un approfondimento particolare e urgente che possa tenere conto delle molteplici sfaccettature di questi manufatti.

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sull’invecchiamento dei prodotti chimici e sulle dinamiche di interazione che nel tempo possono scaturire. La produzione di sostanze volatili derivanti dall’invecchiamento spontaneo dei materiali può determinare esiti devastanti se avviene in ambienti ristretti e non areati: le sostanze possono reagire tra loro e con l’ambiente, innescando processi di deterioramento rapidi e irreversibili. Può accadere così che abiti integri subiscano danni irreparabili se stipati in ambienti ermetici, a contatto con materiali di imballaggio non idonei, dove la concentrazione delle sostanze volatili e l’incidenza degli agenti biodeterogeni possono raggiungere valori altissimi. La catalogazione tecnica dei materiali, facilitata ma non risolta con le etichette di composizione imposte per legge a partire dal 1974, è sicuramente una buona base di partenza per l’elaborazione di protocolli di monitoraggio adatti a controllare lo stato di salute di manufatti così complessi. L’applicazione di metodologie standardizzate, basate su procedure e tecniche di intervento controllate e certe, costituisce un punto di riferimento fondamentale per l’attuazione di un efficace intervento conservativo di tipo preventivo. Il percorso analitico di controllo previsto per la messa in sicurezza di un abito da collezione si articola in pochi fondamentali punti. In fase di acquisizione ogni capo (abito o accessorio che sia) deve essere preventivamente sottoposto a trattamento di profilassi in ambiente anaerobico al fine di scongiurare l’immissione di parassiti, batteri e tarme, un periodo di stazionamento in camera di quarantena consente di verificare l’efficacia del trattamento e in caso di necessità di ripeterlo. La

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pulitura meccanica per aspirazione deve infine assicurare la rimozione di polvere e scorie dai tessuti con particolare attenzione a fodere, cuciture interne e tasche. Sono da considerare elementi di rischio pellicce e piume, ma anche lane grasse non trattate, poiché facilmente aggredibili da parassiti e microrganismi a causa dell’alto contenuto di cheratina. Al fine di limitare le interazioni fra i materiali, spesso incongrui e antagonisti (metalli, legno, plastica, ecc.) può essere utile procedere alla copertura di alcuni elementi della confezione con carta velina non acida (bottoni, fibbie, ricami in materiale vario). La presenza di patine superficiali, muffe o efflorescenze sui materiali plastici deve essere esaminata e rimossa (in molti casi è sufficiente una pulitura con tamponature di acqua demineralizzata e un’asciugatura accurata). Le decorazioni complesse con pendenti, nastri e altro materiale possono essere protette e trattenute con una sorta di fasciature in tessuto e carta velina in grado di bloccarne il movimento e lo sfregamento accidentale. Le vesti nelle quali si riscontra una buona tenuta meccanica dei tessuti e della struttura sartoriale possono essere stoccate in verticale su grucce imbottite di misura e conformazione adeguata, coperte con una custodia in cotone fine non trattato, dotata di tutti gli elementi necessari a una rapida identificazione del manufatto (tasca trasparente con foto a colori, numero di inventario, eventuali annotazioni).16

16 Cfr. FABIENNE VANDENBROUCK, Le stockage vertical: une question de cintres, in La Conservation des Textiles Anciens, journées d’études de la SFIIC (Angers 20-22 octobre 1994), Champs-sur-Marne, SFIIC, 1994, pp. 141-147.


Trattamento preventivo di disinfestazione in ambiente controllato, Centro Restauri Tessili, Pisa (gli interventi sono stati realizzati per i Musei Provinciali di Gorizia).

Gli abiti puliti, fotografati e schedati dovranno essere conservati in ambienti asciutti non soggetti a forti escursioni termiche, a temperature comprese tra i 19° e i 24°C, con un valore di UR tra il 30 e il 50%, dove sia assicurata la pro-

Stoccaggio in verticale e magazzinaggio in deposito, Centro Restauri Tessili, Pisa (gli interventi sono stati realizzati per i Musei Provinciali di Gorizia).

Grucce modellabili in materiale inerte e custodie in cotone necessarie per lo stoccaggio in verticale degli abiti, Centro Restauri Tessili, Pisa.

tezione integrale dalle fonti luminose naturali, con l’utilizzo solo delle fonti luminose artificiali, il cui illuminamento dovrà essere sempre indiretto e controllato nelle emissioni di radiazioni UVA e infrarossi, testandosi nei valori ambientali

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dei lux consentiti (entro il 50-55%). I parametri indicati, tarati sulle esigenze conservative proprie dei materiali tessili tout court, risultano estendibili anche alle fibre sintetiche e alle materie plastiche, assicurando i quali si può pensare di stabilizzare, o almeno rallentare, i processi degenerativi innescati dagli agenti esterni. Particolarmente delicata è da considerarsi anche la fase espositiva poiché prevede la movimentazione e il posizionamento degli abiti su strutture o manichini verticali per un periodo di tempo più o meno lungo. È importante ribadire a questo proposito quanto la corretta presentazione di ciascuna veste dipenda in maniera determinante dal tipo di manichino selezionato e dalla messa a punto di sottostrutture in grado di sostenere e valorizzare le volumetrie sartoriali: una struttura portante ben calibrata è fondamentale anche per la conservazione di un abito, tanto da poter affermare che, in molti casi, basterebbe da sola a preservarlo.17 Le modalità d’intervento per la gestione museale della moda contemporanea non si discostano dunque di molto da quelle già collaudate per gli abiti antichi, l’attualità della materia non deve indurre a sottovalutare gli elementi di rischio insiti in questi manufatti, bensì costituire un fattore di vantaggio per approfondirne la conoscenza. Allo stato attuale le tecniche collaudate ci consentono di mettere a punto un attento piano di monitoraggio con l’obiettivo di ottimizzare gli interventi di prevenzione per la conservazione e la cura dei materiali acquisiti. Tuttavia il rag-

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gio d’azione in un settore così vasto e dinamico è destinato necessariamente a estendersi per comprendere sempre più i nuovi prodotti della tecnologia tessile: dalle fibre artificiali a quelle sintetiche, dalle microfibre alle nanofibre si è giunti, in tempi strettissimi, alla messa a punto di tessuti capaci di interagire con l’ambiente e con le esigenze del corpo umano, aprendo nuove prospettive di sicurezza e comfort. Tessuti ‘intelligenti’ ad alto contenuto tecnologico, ma anche stoffe naturali riproposte con finiture e colorazioni ecologiche dagli effetti terapeutici certificati sono i sofisticati prodotti dell’ingegno umano che alimentano la creatività dei designer e moltiplicano le potenzialità dell’industria della moda, perpetuando quella tradizione di eccellenza che da sempre ha contraddistinto il tessile italiano.

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Grande è l’incidenza dei danni procurati a un tessuto da una cattiva esposizione su supporti di forma e materiali inadeguati. Il problema del manichino espositivo e, più in generale, della struttura di supporto è di grande rilevanza in ambito conservativo e rappresenta un campo di ricerca in continua evoluzione che comprende, non ultima, la problematica relativa alla riproduzione fotografica di abiti e costumi. Cfr. VÉRONIQUE MONIER, Mannequins et mannequinage: leur incoutournable nécessité, in La Conservation des Textiles Anciens, journées d’études de la SFIIC (Angers 20-22 octobre 1994), Champssur-Marne, SFIIC, 1994, pp. 131-141; Propositions pour lignes de conduite pour une photographie plus sure des costumes, ICOM, Comité International du Costume, Nouvelles du Costume, Helsinki, febbraio 1993; JOHANNES PIETCSH, Restaurierung und Konservierung, in EADEM, Kolner Patrizier- und Burgerkleidung des 17. Jahrhunderts, Riggisberg, Abegg Stiftung, 2008.


Sartorie del Novecento in Emilia-Romagna: l’abito su misura nell’epoca del prêt-à-porter Elisa Tosi Brandi

La ricerca sulle sartorie storiche che qui si presenta è frutto di una più vasta ricerca sui ‘Mestieri della moda’ svolta nell’ambito dell’insegnamento di Storia del costume e della moda del corso di laurea in Culture e Tecniche della Moda, Facoltà di Lettere e Filosofia, dell’Università di Bologna, Polo Scientifico Didattico di Rimini, ed è stata condotta con la collaborazione dell’Istituto Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna. Obiettivo della ricerca è stato quello di identificare le sartorie storiche della regione che rispondevano ai criteri individuati, al fine di catalogare e documentare, attraverso la raccolta di dati e testimonianze, le attività più significative di cui si stava perdendo memoria. Negli ultimi decenni in Italia si è infatti assistito alla lenta e progressiva scomparsa di attività artigianali che, fin dal Medioevo, erano state alla base della produzione degli oggetti di moda. Il processo di trasmissione del sapere, frutto della sedimentazione di esperienza e innovazioni avvenute in quasi cinque secoli di evoluzione, rischia di essere inesorabilmente interrotto. La ricerca sulle sartorie storiche emiliano-romagnole tenta di contenere la dispersione del ricco patrimonio elaborato nell’ambito di questo mestiere, costituito da competenze tecniche e cultura sartoriale, che purtroppo nessun tipo di studio potrà mai restituire appieno alla pari dell’apprendimento in bottega. Il metodo di ricerca Fin da subito si è reso necessario definire una ‘sartoria storica’, individuando il metodo di ricerca e i parametri sulla base dei quali effettuare la selezione. La maggior

parte delle sartorie storiche indagate risale a un periodo compreso tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, decennio che ha segnato nella nostra regione e in Italia il periodo di massimo sviluppo per la confezione su misura. A un primo sondaggio, infatti, è risultato evidente come la maggior parte dei titolari delle sartorie individuate abbia iniziato la propria attività in questo periodo, formandosi presso altre sartorie ora scomparse. Grazie a questa indagine è stato possibile risalire anche ad alcune di queste ultime, documentate perfino negli anni Venti e Trenta del Novecento. Le informazioni reperite su queste antiche sartorie, oggi scomparse, si sono rivelate molto utili allo studio, poiché hanno consentito di recuperare dati e storie che rischiavano di scomparire con le stesse sartorie. Una volta circoscritto l’arco cronologico di indagine si è proceduto a individuare le sartorie più rinomate che sono state selezionate mediante il target della clientela, la presenza di un metodo di lavoro originale e di un’eventuale scuola di taglio, i riconoscimenti ufficiali conferiti ai sarti da parte di enti o istituzioni. Sono poi state elaborate una serie di domande da porre ai referenti di ciascuna di queste sartorie, al fine di ricostruire la loro storia, con particolare riferimento alla formazione del titolare, per tentare di recuperare la memoria storica di sartorie precedenti; al metodo di lavoro adottato per verificare se variava da sartoria a sartoria e se, nel corso del tempo, era stato modificato e, in caso affermativo, in quale modo; e infine alla collaborazione con aziende tessili e con altri laboratori artigianali.

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Poggioli, figurino per sartoria Policardi, anni Venti, Archivio famiglia Conti (foto Costantino Ferlauto, IBC).

In occasione dei sopralluoghi particolare attenzione è stata posta al materiale archiviato dalle sartorie che è risultato particolarmente scarso, poiché, tranne rare eccezioni, una volta cessata la carriera di un sarto, la sua eredità è stata consegnata all’oblio. La maggior parte dei sarti intervistati, infatti, non ha conservato un archivio completo della propria attività: alcuni hanno dichiarato di essersi resi conto dell’importanza dell’archivio soltanto in tempi recenti, cominciando a conservare con cura il proprio materiale, altri invece lo hanno custodito solo in parte e in maniera confusa e disordinata. Il materiale consta in primo luogo di fotografie e attestati di premi e sfilate, cartamodelli, riviste, articoli di giornali, in minor misura abiti, in alcuni casi custoditi dai clienti. Il censimento ha consentito l’individuazione di una cinquantina di sartorie disseminate nelle principali città della regione, dalle quali sono emersi casi molto interessanti, nonché due scuole fondate negli anni Trenta e divenute in breve tempo importanti a livello nazionale dal punto di vista didattico. Si tratta della scuola fondata da Giulia Maramotti a Reggio Emilia e dell’Istituto Florentia fondato prima a Firenze e portato a Modena nel 1942 da Sergio Testi. Il censimento non è purtroppo completo, poiché non è stato possibile censire e catalogare tutte le sartorie della regione: la scomparsa delle persone, la reperibilità e la disponibilità da parte di queste ultime ha inciso sul risultato finale del lavoro. Il ruolo delle sartorie nella storia della moda Non potendo in questa sede prendere in rassegna la storia di tutte le sartorie censite e per le quali si rimanda alla pub-

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Poggioli, figurino per sartoria Policardi, anni Venti, Archivio famiglia Conti (foto Costantino Ferlauto, IBC).

blicazione della ricerca,1 si propone un tema di estremo interesse emerso dalla raccolta e comparazione dei dati, quello del ruolo svolto dalle sartorie italiane nell’elaborazione e diffusione di una moda nazionale. È noto come, a partire dalla seconda metà del XIX secolo e, soprattutto, agli inizi del Novecento, le sartorie italiane ed europee che si occupavano di moda femminile copiassero i modelli elaborati dalle maisons parigine, acquistando il diritto di copia dei modelli presentati durante le sfilate. Mentre le sartorie maschili avevano continuato ad adottare metodi e tecniche sartoriali rimasti immutati dagli anni Venti fino ad oggi,2 le sartorie femminili erano quelle più soggette alla mutevolezza della moda. Le sarte e i sarti che si occupavano di moda femminile dovevano essere sempre aggiornati e avere una grande pazienza e spirito di inventiva per accontentare una clientela in genere molto esigente. Nel periodo in cui ci si preoccupava di sviluppare e incentivare una moda italiana in alternativa a quella francese, alcune sartorie italiane si sono sforzate di trovare un proprio stile, rielaborando i modelli provenienti d’Oltralpe. I primi tentativi in questo senso risalgono agli inizi del XX secolo con Rosa Genoni,3 per divenire sistematicamente organizzati in epoca fascista, quando il regi-

1 ELISA TOSI BRANDI, Artisti del quotidiano. Sarti e sartorie storiche in Emilia-Romagna, Bologna, Clueb, 2009 (ER Musei e Territorio - Dossier, 6). 2 Ciò ha riguardato soprattutto gli abiti classici, anche se qualche novità è stata introdotta a partire dagli anni Sessanta. 3 SOFIA GNOLI, La donna, l’eleganza, il fascismo. La moda Italiana dalle origini all’Ente nazionale della Moda, Catania, Edizioni del Prisma, 2000, pp. 23 ss.

Sartorie del Novecento in Emilia-Romagna: l’abito su misura nell’epoca del prêt-à-porter

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Abito della sartoria Policardi, Archivio famiglia Conti (foto Costantino Ferlauto, IBC).

me, attraverso una serie di iniziative e l’istituzione di un ente deputato alla diffusione della moda nazionale, tenta di incentivare una produzione interamente italiana.4 Tra gli anni Venti e Trenta, nel momento in cui l’haute couture parigina continuava a esercitare il suo fascino e a imporre il proprio stile – anche grazie a un ‘sistema moda’ sconosciuto altrove – in Italia, le sartorie, che bene conoscevano quello stile e al quale continuavano a riferirsi, incominciano a prendere coscienza delle proprie capacità, introducendo elementi nuovi in grado di rielaborare il modello. Nonostante le sartorie italiane più prestigiose avessero a disposizione nel proprio laboratorio gli ultimi modelli parigini, i sarti e le sarte erano soliti apportare a questi modifiche. Le continue variazioni effettuate per rendere gli abiti esclusivi o adattarli ai corpi delle clienti o, ancora, per rispondere a esigenze specifiche, determinarono un costante esercizio di stile che ebbe come conseguenza quella di giungere, da parte delle sartorie più creative, a una propria produzione. Se, da un lato, si datano almeno al Settecento gli espedienti dei sarti di spacciare per francesi modelli di pura invenzione italiana che in Francia non si erano mai visti,5 dall’altro, tali variazioni non avevano l’intento di ingannare le clienti. Queste ultime infatti erano ben liete di affidarsi al consiglio e al buon gusto del sarto o della sarta di fiducia per avere un abito impeccabile, che era il risultato delle competenze tecniche, dell’abilità e del talento dell’artigiano, pronto alle nuove sfide che ogni corpo da vestire quotidianamente poneva.

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Ivi; EUGENIA PAULICELLI, Fashion under Fascism. Beyond the Black Shirt, OxfordNew York, Berg, 2004. 5 DORETTA DAVANZO POLI, Il sarto, in Storia d’Italia, Annali, 19, La moda, a cura di Carlo Marco Belfanti, Fabio Giusberti, Torino, Einaudi, 2003, pp. 523-560, in part. p. 548.


Abito della sartoria Policardi, Archivio famiglia Conti (foto Costantino Ferlauto, IBC).

Nel ridisegnare e approfondire il tema delle origini e dell’elaborazione di una moda italiana può essere dunque utile tenere in considerazione altre città oltre a quelle che, per tradizione, si considerano punti di riferimento

per la nascita della moda nazionale e cioè Roma, Firenze, Milano. Dalla ricerca condotta sulle sartorie emiliano-romagnole si ha l’impressione che l’interesse per uno stile indipendente da quello francese sia avvenuto contemporaneamente in numerosi centri italiani, anche in quelli dove il dibattito sull’esigenza di una moda nazionale era rimasto soltanto ai margini. È difficile capire in quale misura ciò sia dipeso dalle richieste della clientela, oppure dal desiderio di affermazione dei singoli artigiani, tuttavia questo è un dato di fatto, stando almeno al racconto delle persone intervistate e alle testimonianze materiali conservatesi. Il caso di Bologna in tal senso è piuttosto significativo. Nel periodo compreso tra le due guerre la città felsinea vantava nella regione la concentrazione più alta di sartorie prestigiose e, su impulso del Comitato bolognese dell’Ente Nazionale della Moda, queste ultime presentano nel 1937, presso il Palazzo del Podestà, una delle prime sfilate di moda con capi d’abbigliamento e accessori interamente ideati e realizzati in Italia. Dalla lettura di articoli pubblicati nel corso degli anni Trenta su una rivista comunale, infatti, risulta che, grazie alle sue sartorie d’alta moda, Bologna sia stata tra le prime città in Italia a realizzare e promuovere una moda italiana. Il Comitato bolognese dell’Ente Nazionale della Moda, animato come altrove da alcune signore dell’aristocrazia cittadina, è risultato infatti molto attivo, riuscendo a stimolare la creatività delle sartorie bolognesi più rinomate. Al di là dei campanilismi e dei toni elogiativi che emergono dagli articoli pubblicati nella citata ri-

Sartorie del Novecento in Emilia-Romagna: l’abito su misura nell’epoca del prêt-à-porter

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Abito del sarto Dario Giuseppe Bugli, anni Settanta, Collezione Anna Scardovi (foto Costantino Ferlauto, IBC).

vista cittadina, questo caso dimostra non tanto che la moda italiana sia nata a Bologna, quanto invece che la cultura locale fosse qui, forse più che in altre città della regione almeno, predisposta a scelte e modelli nuovi nel settore dell’abbigliamento, dovuti verosimilmente anche alla presenza di sarte e sarti dotati di talento. Nella ricerca sulle sartorie storiche compiuta per l’Emilia-Romagna, Bologna vanta comunque un primato, quello di aver concesso di rintracciare e documentare la sartoria più antica della regione, la sartoria Policardi. Fondata alla fine dell’Ottocento da Giovanni Maria Policardi come negozio di mode femminili con ricco ed esclusivo magazzino di stoffe, venne ingrandita dal figlio Lorenzo, cui si deve l’incremento del lavoro del settore sartoriale, tra il 1899 e il 1952. Di questa sartoria è rimasto un archivio piuttosto ricco e interessante, conservato dagli eredi che si sono dimostrati estremamente generosi nel mettere a disposizione le memorie familiari. Tra il materiale conservato emergono figurini acquerellati datati tra gli anni Venti e Quaranta e disegnati dall’illustratore Poggioli, fotografie degli anni Venti della sede, scattate dal fotografo Villani e ora facenti parte dell’Archivio Alinari, documenti relativi all’attività dal XIX secolo al 1952, anno della sua cessazione.6

6 Per gli approfondimenti sui singoli temi e sulla bibliografia si rimanda al volume di Elisa Tosi Brandi, Artisti del quotidiano cit.

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Elisa Tosi Brandi


L’industria della moda: la produzione e gli archivi di impresa Federica Fornaciari

La storia dell’azienda Max Mara inizia nel 1951. Quando Achille Maramotti fonda a Reggio Emilia la società, anticipando l’idea di prêt-à-porter in un’epoca in cui la moda è ancora sartoriale. La prima collezione del 1951 è costituita inizialmente da ‘cappotti e tailleurs’, caratterizzati da tagli puliti, linee rigorose e qualità sartoriali, ispirati allo stile francese e rielaborati con gusto italiano. Nel 1969 nasce la seconda linea Sportmax destinata a giovani donne, secondo le tendenze dell’epoca provenienti da Londra. Oggi, il Gruppo Max Mara, con sede a Reggio Emilia, rappresenta un modello italiano e un punto di riferimento per il prêt-à-porter internazionale, con una rete di oltre 2.000 negozi distribuiti in 105 paesi, oltre 4.000 dipendenti e produce una trentina di linee differenziate rivolte a consumatrici eterogenee, basti ricordare Marina Rinaldi e Persona per le taglie comode, Marella, i Blues, Lato B, Max & Co, PennyBlack, SportMax Code per le giovanissime. L’archivio d’impresa Max Mara nasce nel 2003, quale parte del progetto BAI (Biblioteca Archivio Impresa) avente come finalità principale la conservazione e la valorizzazione del patrimonio documentale raccolto in oltre cinquant’anni di attività produttiva. Conservazione e valorizzazione sono intesi come output strettamente connessi al processo produttivo. La comprensione dei processi ideativi e produttivi che concorrono alla realizzazione di un oggetto – il capo di abbigliamento – sono fondamentali per immaginare un contenitore documentale e dinamico al servizio dell’impresa, l’archivio. Nel dicembre del 2005 è stata ultimata la realizzazione e l’attivazione dei servizi della biblioteca, specializzata nel

settore moda e nelle arti visive. Essa raccoglie principalmente periodici, monografie, tendenze e si rivolge all’area creativa del gruppo con la funzione principale di supportare lo sviluppo di nuovi prodotti. La biblioteca raccoglie un patrimonio di oltre 4.000 volumi, 350 testate di periodici correnti e oltre 20.000 periodici storici, dagli inizi del Novecento a oggi. Questo patrimonio costituisce un mezzo di ricerca continua finalizzato a sviluppare nuove idee attraverso la documentazione e le testimonianze iconografiche. La biblioteca mette a disposizione da un lato le informazioni contenute all’interno delle proprie raccolte rendendole fruibili, dall’altro implementando la ricerca attraverso i cataloghi informatizzati, come quello che raccoglie il fondo capi vintage, chiamato ‘archivio di ricerca stile’. L’archivio di ricerca stile è costituito dalla raccolta di oltre 4.600 pezzi tra capi e accessori vintage, non prodotti dall’azienda, ma acquisiti attraverso ricerche mirate e donazioni volte a supportare la creazione stilistica. L’archivio d’impresa è ubicato in una delle sedi storiche del Gruppo Max Mara, un edificio dei primi anni del Novecento, oggi ancora in fase di ristrutturazione, e attualmente occupa un’area di oltre 2.000 metri quadrati. Funzioni principali dell’archivio sono l’ordinamento, la conservazione, la selezione, la ricerca e la valorizzazione. Nel 2003 è iniziato il riordino di tutto il patrimonio aziendale destinato a confluire nell’archivio, stimato in oltre 150.000 oggetti. A oggi, a conclusione della prima fase, sono stati inventariati più di 50.000 oggetti dei quali è ancora in corso la catalogazione. In ragione della mole dei documenti e in attesa della definitiva ristrutturazione dei locali che ospi-

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Periodici storici, Biblioteca Max Mara (foto Carlo Vannini).

Libri campionatura tessuto Max Mara, anni Sessanta, Archivio d’impresa Max Mara (foto Carlo Vannini).

teranno i materiali, l’archivio è fruibile solo in parte agli utenti aziendali, la messa in regime del progetto BAI è infatti prevista nei prossimi anni. Il patrimonio documentale raccolto include capi e accessori d’abbigliamento, oltre a schizzi, tessuti, materiale pubblicitario, multimediale, nonché arredi, dalla fondazione a oggi.

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Federica Fornaciari

L’archivio d’impresa è costituito dai fondi provenienti dagli ‘archivi correnti’ e dagli ‘archivi di deposito’ delle diverse aree aziendali che qui assumono nuova veste sotto forma di archivio storico. I principali materiali conservati in archivio sono i capi e gli accessori storici (dei vari marchi Max Mara) che ne costituiscono il nucleo principale con oltre 20.000 pezzi; ci sono poi gli schizzi, realizzati nel corso degli anni da importanti stilisti come Karl Lagerfeld, Jean Charles de Castelbajac, Nanni Strada, Luciano Soprani e Anne Marie Beretta; i libri tessuti, alcuni risalenti ai primi anni Sessanta, che rappresentano un’importante testimonianza della tessitoria italiana dell’epoca; l’archivio tessuti, raccolto in scatole e suddiviso per tipologia tessile, fornitore ed epoca; i cartamodelli; le fotografie realizzate da importanti fotografi di moda (Richard Avedon, Peter Lindberg, Steven Maisel); i manifesti e i filmati. La creazione dell’archivio testimonia non solo un approccio culturale del fare impresa, ma anche la convinzione di quanto l’innovazione sia sintesi di un percorso dialettico tra ricerca e tradizione. Tramandare le arti di bottega, costituenti il patrimonio culturale di questa azienda, diviene la principale finalità del fare ‘archivio’. Patrimonio costituito da oggetti, memorie visive e memorie orali, cuore dello sviluppo aziendale. Il progetto della biblioteca e dell’archivio e la raccolta dei relativi materiali in tanti anni di attività dell’azienda si devono a una conservatrice d’avanguardia, Laura Lusuardi, Fashion Coordinator del Gruppo Max Mara, che ha iniziato la sua attività in Max Mara nel 1964 e tuttora vi lavora. Parte del patrimonio da lei raccolto – ed ereditato da Achille Maramotti – è confluito


Coco Chanel, completo proveniente dal guardaroba personale della stilista, 1954, Archivio d’impresa Max Mara (foto Matteo Consolini).

nella biblioteca e nell’archivio e ne costituisce il patrimonio principale. In Max Mara l’archivio d’impresa, pur nella parziale riorganizzazione documentale, svolge un duplice funzione. La prima è quella di raccogliere, conservare, divulgare il materiale, sia all’interno che all’esterno, del proprio patrimonio storico. Questa prima funzione è rappresentata dal nucleo principale dell’archivio, la raccolta di capi e accessori storici. La conservazione permette l’elaborazione di nuovi processi creativi e produttivi che consentono lo sviluppo dell’innovazione aziendale. La memoria d’impresa è intesa come memoria selettiva degli aspetti salienti, per ricostruire il patrimonio non più disponibile delle collezioni, mentre la selezione consente una ciclica rielaborazione degli output produttivi, apportando elementi di innovazione sul piano stilistico. La seconda funzione, è quella denominata archivio di ricerca stile, con la principale finalità di supportare la ricerca stilistica dei creativi attraverso la biblioteca e l’archivio. Nel patrimonio dell’archivio di ricerca stile i capi e gli accessori risalgono a diverse epoche e sono di diversa natura, dai capi preziosi della metà dell’Ottocento ai pezzi dei primi anni del Novecento, dai capi ‘contemporanei’ significativi per la storia della moda ai capi commerciali. Tra questi un importante nucleo è costituito da una raccolta di cappotti degli anni Cinquanta e Sessanta di diversi stilisti: Coco Chanel, Cristòbal Balenciaga, Christian Dior, André Courrège, Pierre Cardin e Madame Grès. Di particolare rilievo il completo di Coco Chanel del 1954, proveniente dal suo guardaroba personale, costituito da un cappotto foderato in tweed bianco e pelliccia di agnellino con bordi di co-

L’industria della moda: la produzione e gli archivi di impresa

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Accessori vintage, Archivio d’impresa Max Mara (foto Carlo Vannini).

lore rosso e blu, con gonna, camicia e borsa. Inoltre alcune importanti testimonianze di abiti da sera, un Jeanne Lanvin del 1935 acquistato da un designer durante un viaggio studio; un abito azzurro appartenuto al soprano Renata Tebaldi e un abito cipria in tulle e raso proveniente dal guardaroba del soprano Margherita Carosio. L’Archivio completa-

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mente informatizzato consente inoltre di studiare la raccolta e di richiederne la consultazione per il prestito. L’archivio e la conservazione La conservazione dei capi e degli accessori vintage è stata realizzata seguendo diverse modalità. In alcuni casi si


Capi fondo vintage, Archivio d’impresa Max Mara (foto Carlo Vannini).

è optato per la collocazione in scatole di carta non acida, in cui i capi sono avvolti nella carta velina. Questo criterio è stato adottato per i capi più preziosi e che presentano caratteristiche tali da non permettere una loro conservazione su appendiabiti. Molti capi degli anni Venti e Trenta sono invece conservati avvolti nella carta velina,

come quelli in seta e raso e quelli ‘pesanti’, con ricami e applicazioni particolari. La maggior parte dei capi è conservata in appeso attraverso l’utilizzo di appendiabiti ricoperti con carta velina non acida, protetti da luce e polvere attraverso coperture in cotone. I capi sono stati organizzati per classe di prodotto, suddivisione standard aziendale utilizzata già nella prassi produttiva (ad esempio mantello, giacca, tailleur gonna, camicia) e successivamente suddivisi al loro interno per epoche storiche. Per la maglieria, nel rispetto della naturale forma e per non deformare gli intrecci si è scelto il criterio di organizzare il patrimonio piegando il capo e inserendolo in buste di plastica. Questo criterio da un lato preserva il capo dalla polvere, dall’altro lo isola contro gli attacchi di tarme o altri agenti e ne permette la facile consultazione. I criteri di suddivisione adottati sono stati quelli della classe di prodotto (ad esempio maglia, cardigan) e della cromia (dal bianco al nero e le fantasie). Per la protezione dalla polvere degli accessori, si è scelta la collocazione in armadi, seguendo criteri allestitivi dell’‘arte del display’, utilizzati dai negozi per le vetrine. I pezzi preziosi e rilevanti sono conservati in armadi storici, in parte in appeso e in parte piegati in scatole e collocati in cassettiere, avvolti nella carta velina o coperti da tende. Le modalità di archiviazione adottate per la conservazione dei capi, in parte già anticipate precedentemente sono: - la suddivisione dei capi per epoca e classe di prodotto; - la suddivisione al loro interno tra preziosi e contemporanei.

L’industria della moda: la produzione e gli archivi di impresa

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Max Mara, completo composto da abito e giacca, 1958 ca., Archivio d’impresa Max Mara (foto Dhyan Bodha d’Erasmo).

Queste modalità sono state individuate dalla duplice funzione che svolgono l’archivio e la biblioteca: fruibilità (accesso al materiale originale), gli stilisti possono accedere all’archivio capi liberamente per le loro ricerche e possono consultare i materiali in autonomia; accessibilità (attraverso l’informatizzazione di ogni singolo capo e accessorio), è possibile ricercare a distanza l’oggetto e fare una pre-ricerca, oppure richiederne il prestito, anche senza accedere al materiale originale. Pur mantenendo le funzioni principali, si è cercato di adottare le buone pratiche per il loro mantenimento e la conservazione nel tempo: sterilizzazione, trattamenti antitarme, restauri. Altresì di operare al fine di proteggerli dai principali fattori di rischio: luce, polvere, temperatura e umidità. Archivio e impresa, due termini che richiamano al contempo storia, esperienza viva e innovazione, fondamenta imprenditoriali. Conservare e produrre sono processi fortemente interconnessi e portati a sintesi nel capo. Idea astratta o ispirata a fenomeni culturali, trasformandosi in segno grafico, lo schizzo, diviene il capo che dovrà essere indossato. Queste fasi esemplificano numerosi processi ideativi mediati dalla tradizione artigianale e applicati in campo industriale. Ma qual è propriamente la funzione dell’archivio in un’azienda del settore moda? Raccogliere nel tempo le testimonianze del processo produttivo, attraverso le fasi di raccolta, conservazione, divulgazione, ossia conoscenza, tutela attiva e diffusione.

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Un capo lascia nel tempo tracce diverse, in ognuna delle fasi che hanno concorso alla sua realizzazione. La successiva conservazione le documenta costruendone di fatto una riproduzione, reinserita nel ciclo produttivo, metabolizzata, raffinata e rielaborata in una gamma di variazioni consone al carattere senza tempo, oltremoda, proprio delle creazioni Max Mara. È possibile ricostruire un mosaico spazio temporale, i luoghi di creazione produzione e distribuzione, o fisico, le caratteristiche dei materiali e il loro invecchiamento, o relazioni, chi lo ha ideato e chi ha scelto di rappresentarlo attraverso il capo e tale mosaico si compone all’interno del processo di archiviazione inteso come ricerca nella tradizione. La conservazione permette l’elaborazione di nuovi processi creativi, la creatività d’impresa, consentendo di sviluppare processi imprenditoriali innovativi. I nuovi scenari produttivi portano a ripensare in modo nuovo gli sviluppi futuri. Questo modo di creare e organizzare un archivio permette di ripensare le scelte e le strategie aziendali realizzate, per ridisegnarle e adattarle a nuove metodologie produttive, nuovi utenti e consumatori.

La creatività è un fattore importante nella realizzazione del prodotto moda, non solo da intendersi come qualità individuale dei creativi, ma una creatività diffusa che coinvolge tutti i livelli della produzione, da chi sceglie il tessuto a chi realizza uno schizzo, a chi crea il cartamodello a chi cuce il capo, in ogni fase è presente la creatività, ossia quell’insieme di saperi che concorrono a sviluppare e a ricercare sempre nuove soluzioni, accomunate da un fine comune. La storia di Max Mara attraverso gli oggetti rappresenta nitidamente la trasformazione della creatività sartoriale in creatività d’impresa, conservando nel prodotto in serie i caratteri distintivi della qualità del prodotto su misura. Un paradosso esemplare per un prodotto di successo: trasformarsi da prodotto a oggetto alla moda sino a divenire oggetto al di là del tempo – oltremoda. Biblioteca come ricerca nell’attuale, archivio d’impresa come ricerca nella tradizione, Max Mara ricerca applicata al futuro.

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Perché collezionare il vintage Angelo Caroli

«L’intuizione e la passione sono il criterio e il movente del mio lavoro». Mi era chiaro già a 17 anni quando lavoravo in una radio locale, offrendo agli ascoltatori consigli di stile. Dopo 30 anni passati nel vintage, posso ancora sottoscrivere con sicurezza questa dichiarazione. L’amore per il vintage non ha tardato a emergere, dapprima come attrazione estetica poi come idea per il recupero e il riciclo. Coltivavo un estremo interesse per gli abiti usati, soprattutto quelli che provenivano dall’America: i jeans, le t-shirt, le camicie hawaiane, i giubbotti militari. Capi che vendevo a poco prezzo in un piccolo negozio al centro di Lugo, tutti rigorosamente selezionati, ripuliti ed etichettati. Pian piano la curiosità per questo mondo ha iniziato a rivestire una valenza più significativa: la voglia di salvare una memoria, il recupero e di pari passo quel piccolo magazzino che si trasformava diventando quasi magicamente, il ‘Vintage Palace’. Oggi il Vintage Palace è considerato un tempio per i cultori del vintage, non solo per le caratteristiche dell’edificio in stile neoclassico, ma perché raccoglie una tra le più ricche collezioni a livello europeo di capi storici: oltre 120.000 pezzi esposti ripropongono un passato, una storia, infiniti ricordi ed emozioni. Un lungo percorso quello dell’‘abito usato’ dagli anni Sessanta ad oggi in cui è cambiato in maniera sostanziale il modo della gente di rapportarsi con il vintage. Negli anni Sessanta il ‘second hand’ nasce come fenomeno di moda in cui il risparmio rappresenta solo uno degli aspetti. Uno

stile di contestazione, soprattutto negli Stati Uniti, adottato da chi si opponeva ai fenomeni di consumo di massa. Sbarcato in Italia, l’‘usato’ ha rappresentato per i giovani un modo per coniugare voglia di stile a prezzi accessibili. Negli anni Settanta il vintage è cool. Vestire esclusivamente abiti usati come rifiuto di un sistema politico e sociale destinato a promuovere, secondo il pensiero rivoluzionario di allora, bisogni indotti di beni di consumo capitalistici. È solo dagli anni Ottanta che emerge un approccio molto più aperto verso questa realtà, testimoniato anche dal fatto che molte aziende di moda cominciano non solo ad acquistare, ma anche ad affittare molti capi dal mio archivio storico, attività oggi sviluppata in maniera più completa e organizzata. Il vintage assurge a ruolo di custode della memoria negli anni Novanta. Non a caso l’etimologia discende in linea diretta dal linguaggio enologico e dalla fonetica anglo-francese ‘vintage’ cioè vendemmia o anche vino d’annata. Da qui a indicare auto e abiti d’annata e di qualità, il passo è breve. Oggi il vintage è un fenomeno diverso, frutto, indubbiamente, di questi passaggi storici; chi lo compra è un pubblico sofisticato che cerca un modo per sfuggire all’omologazione degli stili, per affermare la propria identità attraverso capi che abbiano un passato, che raccontino una storia. Essere fan dell’abbigliamento vintage vuol dire sentirsi libero, giocare con i vestiti: è una sfida divertente trovare il capo più adatto senza che nessuno ci dica quale colore indossare quest’anno o quanto deve essere lunga la gonna il prossimo.

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Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O. (foto Roberto Manzotti).

Anche la mia linea Recycled, realizzata con capi di riciclo in collaborazione con Stefania Bertoni, non segue la moda e non è omologazione.

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Angelo Caroli

Si pone l’attenzione su alcuni pezzi oggi interessanti, da elaborare, recuperare e salvare. L’intervento consiste nel modificare la struttura originale e gli eventuali danni


Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O. (foto Roberto Manzotti).

con un intento etico e creativo che dona nuova vita al capo. Il vintage dell’esterno può sembrare ‘solo’ tendenza, ma per chi ama questo genere è di più: è stile!

È questa l’indiscussa filosofia di A.N.G.E.L.O. Nella mia sede principale a Lugo di Romagna, il Vintage Palace, ho cercato di riunire tutti gli aspetti di questo mondo. Una

Perché collezionare il vintage

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Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O. (foto Roberto Manzotti).

struttura che risponde alle varie esigenze del pubblico amante del vintage. Al piano terra il negozio propone per uomo, donna, bambino un abbigliamento veloce, giovane e più sportivo, dove curiosare e sbizzarrirsi a reinventare look in base alla propria personalità. L’area adiacente della serra è un mercatino, economicamente molto conveniente, ed è dedicata soprattutto a un pubblico giovane che ama giocare con abiti e accessori. Il primo piano risponde alle esigenze di un pubblico più raffinato, che è maturato negli anni: una fascia di clientela che ama la ricercatezza e sa apprezzare il gusto rétro. Questo spazio, infatti, ospita i capi più preziosi e datati: alcuni modelli storici di jeans Levi’s, pezzi importanti in tessuti pregiati, come cachemire e sete, e capi originali ‘di paternità autorevole’ come Pucci, YSL, Camerino, Chanel, Hermès, ecc. L’ultimo piano lascia spazio alla memoria per eccellenza: l’archivio. Circa 80.000 capi, frutto di una continua e instancabile opera di ricerca. Provengono da antiquari, mercati, guardaroba privati e grandi centri di distribuzione dei paesi più ricchi. Non a caso, infatti, è notevole la presenza di abiti di indiscussa rarità e peculiarità, capi da metà Ottocento a metà anni Ottanta del Novecento. Abiti, accessori e calzature sono catalogati e divisi per epoca, genere e tema. Il soppalco, infine, è custode di una vastissima collezione di borse, dalle più originali alle più pregiate, e dei capi firmati più rari e unici. La preziosità qualitativa, la ricchezza quantitativa della collezione e soprattutto la volontà di custodire la memoria spiegano perché tutti i capi d’archivio siano disponibili solo a noleggio e non siano in vendita.

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Angelo Caroli


Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O. (foto Roberto Manzotti).

A questo punto è necessario fare un discorso a proposito della conservazione dei capi. Vista la grandissima quantità e la varietà è fondamen-

tale un criterio conservativo dei capi di base, come prevenzione per eventuali interventi successivi. Gli agenti comunemente più pericolosi per gli abiti da me custoditi so-

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no: luce, polvere e deterioramento dovuto alla conservazione su gruccia, ai vari lavaggi e all’uso. Per contrastare questi fattori si opera una manutenzione ciclica che consiste nella sostituzione periodica delle buste che ricoprono i capi, nel cambio delle grucce e nello spostamento dei medesimi per evitare lo scolorimento causato dalla luce. Il nucleo più antico della mia collezione è composto da abiti che vanno dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, pezzi unici che non possono essere utilizzati per il noleggio per ovvie ragioni di preziosità e delicatezza. La conservazione di questi capi è particolarmente complessa. Sono avvolti singolarmente in fogli di carta velina, non acida, per assorbire eventuale umidità e proteggerli da infiltrazioni di polvere e/o parassiti. Così trattati, vengono successivamente riposti in posizione orizzontale all’interno di scatole di cartone. Questi capi, come tutti gli altri, richiedono regolare monitoraggio e periodici trattamenti con prodotti specifici. Tutti i materiali successivi agli anni Venti ricevono un processo di pulitura e di igienizzazione a secco o in acqua prima del loro ingresso in archivio, a tutela del patrimonio tessile con cui entreranno in contatto. La composizione del tessuto e la lavorazione del capo decretano l’utilizzo degli specifici trattamenti. Per il noleggio non si richiedono particolari precauzioni, salvo il buon senso. Gli abiti sono incartati e spediti singolarmente. Trattandosi di capi preziosi, ad ogni noleggio, richiediamo una cauzione. Nel caso di capi scelti per le mostre è invece necessaria un’assicurazione. Normalmente ci occupiamo personalmente del trasporto e dell’imballaggio, cercando di non delegare mai il compi-

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to a terzi, se non molto competenti. La tutela dell’archivio è fondamentale, oggi più che mai. Sono centinaia i nomi della moda italiana e internazionale che si fanno ispirare e affascinare dalla creatività del passato e hanno fatto del mio archivio un punto di riferimento per prendere in prestito un’idea, curiosare e farsi rapire da tutte le emozioni che sprigiona la moda trascorsa, infatti i capi diventano quotidianamente oggetto di consultazioni e ricerche. L’archivio, nelle sue epoche storiche più recenti e nei suoi esemplari non facilmente deteriorabili, è a disposizione a volte anche per produzioni cinematografiche, realizzazioni di video, spettacoli teatrali e televisivi. Lo testimoniano film come ‘Jack Frusciante è uscito dal gruppo’, ‘RadioFreccia’, ‘Gli Struzzi’ e videoclip musicali di artisti importanti come Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi, Laura Pausini e Cesare Cremonini. L’archivio è anche una fonte inesauribile per redazionali di moda di importanti testate italiane e straniere. Redattori e stylist possono contare anche sulla consulenza di un team interno per la realizzazione di outfit corrispondenti a temi o periodi storici. La combinazione tra il fascino del Vintage Palace, la magia che emana dai suoi materiali, l’entusiasmo e la voglia di far conoscere il mio lavoro e le sue potenzialità, insieme a collaborazioni importanti hanno reso possibile la realizzazione di tantissime esposizioni. Una tra tutte, la mostra dedicata al jeans: ‘Jeans! Le origini, il mito americano, il made in Italy’, aperta per sei mesi al Museo del Tessuto di Prato nel 2005.


Collaborazioni, esposizioni e ricerca segnano la direzione dei miei prossimi progetti, animato dalla consapevolezza di non sentirmi mai arrivato e dallo scopo di cercarne sempre uno nuovo. Come quello di organizzare e partecipare alle numerose fiere di vintage e proporre lo spirito e l’atmosfera di A.N.G.E.L.O. Vintage Palace. Promozione e distribuzione sono le parole chiave per il futuro: aprire altri punti vendita A.N.G.E.L.O. in franchising o

shop in shop servirà a far conoscere meglio la mia filosofia e la mia ricerca a un pubblico sempre più vasto. Parallelamente sto esplorando e sviluppando nuovi canali di distribuzione, tra i quali la rete, cercando poi risorse per creare un nuovo tipo di museo dove conservare tutto il mio lavoro, rendendolo fruibile e accessibile nel tempo. Un’instancabile ricerca e dedizione alla moda del passato e alla sua diffusione che resta la mia più grande passione.

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Gli archivi del vintage


Gli archivi del vintage come quelli della moda sono diventati oggi strumenti indispensabili per orientarsi e operare nel mondo del fashion, non solo da parte delle imprese e dei collezionisti, ma anche da parte degli operatori museali interessati a costruire ex novo o a implementare raccolte storiche e contemporanee di moda già esistenti. L’interesse per l’argomento è così avvertito dagli addetti ai lavori che si è dato vita di recente a una sinergia di iniziative pubbliche e private volte a recuperare alla conoscenza collettiva, facendo sistema, sia i materiali campionati dalle imprese di moda e dai collezionisti (tessuti, abiti, accessori, modelli, schizzi, riviste, libri e filmati d’epoca), come anche i materiali documentari cartacei conservati negli archivi storici. Si propone qui di seguito una selezione esemplificativa di abiti e accessori dell’Archivio Vintage Palace di A.N.G.E.L.O. con un’integrazione di capi dell’Archivio Max Mara. La campionatura di abiti, borse e cappelli dell’archivio di materiali collezionati da Angelo Caroli, gentilmente messa a disposizione dal titolare, permette di comprendere meglio il

fenomeno del vintage. I capi e gli accessori selezionati in un arco temporale compreso tra gli inizi del Novecento e gli anni Novanta documentano solo una minima parte di quel ben più ampio repertorio di modelli, disegni, colori e materiali che la moda del XX secolo ci ha lasciato e che costituisce una delle principali fonti di riferimento a cui attinge chi opera oggi nel settore a vari livelli, a partire dalle imprese del prêt-à-porter e dell’haute couture impegnate nella creazione delle nuove collezioni. La maggior parte sono capi e accessori griffati delle più note case di moda italiane e straniere, alcuni sono articoli della sartoria italiana, altri sono prodotti industriali e artigianali di paternità sconosciuta. Preme segnalare su tutti la presenza di alcuni oggetti cult che hanno ‘fatto epoca’ e che, da quando sono nati, continuano a rivivere, riproposti dalle maisons uguali a se stessi come un classico senza tempo, oppure con variazioni sul tema, come la fantasia stampata degli abiti e accessori Emilio Pucci, le borse di Chanel, di Roberta di Camerino e di Gucci fino alla mitica ‘passe-partout’ Kelly di Hermés.

Le fotografie dell’Archivio A.N.G.E.L.O. e dell’Archivio d’impresa Max Mara sono state realizzate da Costantino Ferlauto, IBC. Le didascalie delle immagini sono state redatte da Simona Gieri, responsabile Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O., con la collaborazione di Margherita Carletti e Silvia Melatti.


Abito da sera, inizio anni Dieci, in tulle di seta nero, con ricami di paillettes a motivo floreale.

Archivio Vintage Palace A.N.G.E.L.O.

Abito da pomeriggio, anni Venti, in georgette di seta a righe nere, panna e grigie.

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Abito da pomeriggio di ‘Gabriella Gulp Milano’, anni Venti, in tulle color crema con applicazioni in raso e pizzo.

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Abito da pomeriggio, anni Venti, in crĂŞpe di seta color rosa con ricami in perline a motivo floreale.


Abito da pomeriggio ‘Original by Peggy Hunt’, anni Trenta, in twill di seta bianco, stampato a motivo floreale.

Abito da pomeriggio, anni Trenta, in seta stampata a motivo floreale.

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Abito da sera, anni Trenta, in tulle di seta bianco, con corpetto in raso nero e applicazioni in pizzo bianco.

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Abito da sera, anni Trenta, in crĂŞpe di seta color ocra, con maniche e corpetto impreziositi da paillettes e perle.


Abito da sera, anni Trenta, in crêpe di rayon blu, motivi a traforo sulle spalle.

Abito da pomeriggio, anni Quaranta, in viscosa bianca stampata a motivo floreale ‘spennellato’ sui toni del nero.

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Abito da pomeriggio, anni Quaranta, composto da nastrini intrecciati color cremisi.

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Abito di ‘Devalle Torino’, anni Quaranta, in crĂŞpe blu stampato a fiocchi rosa, con pettorina in pizzo crema.


Abito da sera, anni Quaranta, in crĂŞpe di seta nero, con decorazione di paillettes.

Abito da cocktail, a corolla, inizio anni Cinquanta, in organza di seta bianca con applicazioni di bande in velluto blu alla balza e al corpetto.

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Abito bustier da cocktail a corolla, anni Cinquanta, in seta celeste rivestito in tulle operato di seta bianca con applicazioni in organza bianca e paillettes.

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Abito bustier da cocktail a corolla, di ‘Fernanda Pancani Roma’ haute couture, anni Cinquanta, in raso bianco a pois e fiorellini nella balza e nel corpetto.


Abito da sera, a palloncino, di ‘Fanucchi Roma’, anni Cinquanta, in tulle di seta blu con ricami a mano in paillettes a motivi floreali.

Impermeabile, anni Sessanta, in PVC con motivo a quadri colorati e borsa ‘Fendi’ in vernice rossa, primi anni Ottanta.

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Ensemble, gonna e borsa a tracolla, anni Sessanta, composto da borsa e gonna in ecopelle bianca, stampate a foglio di giornale; la borsa degli stessi anni è di Jean Paul Gaultier.

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Abito da pomeriggio a portafoglio ‘Courrèges’, in cotone giallo, con zip decorative bianche.


Abito ‘Pierre Cardin’ a trapezio, anni Sessanta, in lana blu con intreccio di moduli nei colori rosso e bianco.

Cappotto ‘Balenciaga’, anni Sessanta, in tartan policromo.

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Ensemble ‘Ken Scott’, anni Sessanta, composto da prendisole in jersey, stampato a motivo floreale, e reggipetto ricamato con paillettes.

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Ensemble ‘Emilio Pucci’, fine anni Sessanta, in velluto stampato sui toni del rosa con borsa di ‘Roberta di Camerino’, anni Sessanta, in raffia color avorio, disegno a trompe-l’œil a bottoni.


Giacca ‘Emilio Pucci’, anni Settanta, in velluto stampato sui toni del celeste con borsa di ‘Roberta di Camerino’, anni Sessanta, in seta color avorio e fantasia geometrica nei toni del blu.

Abito ‘Emilio Pucci’, anni Settanta, in jersey elasticizzato lurex.

89


Ensemble da pomeriggio con borsa ‘Roberta di Camerino’, anni Settanta, composto da gonna svasata in lana, dolcevita in jersey, entrambi neri a righe rosse e bianche.

90

Abito da sera, anni Settanta, in velluto arancione con maniche e tasche impreziosite da perle.


Gonna ‘Lanvin’ a portafoglio, anni Settanta, in vinile blu a motivi floreali.

Abito da sera ‘Krizia’, anni Ottanta, in acetato metallico di cellulosa nero stropicciato.

91


Giacca, anni Ottanta, in ecopelle, gomma, maglia di lana nera e pelliccia sintetica.

92

Ensemble ‘Paul Smith’, anni Novanta, composto da giacca e gonna svasata, in tela di cotone écru, stampata a colori con motivo di labbra e scritta «kiss me».


Borsa ‘Rialto of New York’, anni Trenta, in plastica ambrata con coperchio in lucite intagliata.

Borsa ‘Chanel’, anni QuarantaCinquanta, in pelle matelassé color nero, con catena dorata.

Borsa a scrigno, anni Cinquanta, in legno, coperchio con inserto di farfalle.

Borsa ‘Hermés’, modello Kelly, 1956, in tela di cotone e pelle, nei colori avana e blu.

93


Borsa ‘Emilio Pucci’, anni Sessanta, in seta stampata a fantasia geometrica nei toni del blu.

94

Borsa ‘Roberta di Camerino’, modello Bagonghi, tipica degli anni Sessanta, in velluto, nei colori rosso e nero.

Borsa ‘Gucci’, modello Baiadera, anni Sessanta, in tela di cotone a fasce colorate e manico in bambù.

Pochette ‘Mary Quant’, fine anni Sessanta, in cotone bianco, stampato ‘logato’.


Borsa anni Sessanta, composta da perle in plastica bianca disposte a motivo floreale.

Borsa di manifattura italiana, anni Sessanta, in stile ‘Paco Rabanne’, composta da placche metalliche unite da anelli.

Borsa anni Sessanta, in stile ‘Paco Rabanne’, composta da placche in plastica marrone unite da anelli dorati.

Borsa ‘Dior’, anni Settanta, in vernice nera, con manico a oblò in metallo dorato.

95


Cappello, fine anni Quaranta, in raffia con decorazione in velluto nero.

96

Basco da cerimonia, anni Cinquanta, in velluto, rete, piume e organza rosa.


Basco da cerimonia di sartoria italiana, modello anni Cinquanta, in crêpe di seta rossa a balze.

Basco con doppia etichetta ‘Christian Dior Paris Luciana Nanni Bologna’, anni Sessanta, in cannellato di seta rossa con tesa bianca a pois blu e applicazione di un fiocco nero.

97


Basco, anni Sessanta, in lana e fasce di PVC intrecciate color nero.

98

Cappello a tesa ampia, anni Settanta, in panno di lana color tortora, con inserti di nastri colorati.


Abito da sera ‘Jeanne Lanvin’, inverno1934-1935, in crêpe di seta rosa fucsia con risvolto della scollatura e alette in lamé d’oro.

Archivio d’impresa Max Mara

Abito da sera, anni Trenta, in chiffon di seta verde acqua.

99


Abito da sera del soprano Renata Tebaldi, anni Cinquanta-Settanta, della sartoria Rosita Contreras Milano-Firenze, in taffetas di seta azzurro chiaro con corpetto ricamato in strass e perle in nuance.

100

Mantello, disegnato da Cristรณbal Balenciaga per Max Mara, autunno-inverno 1950, con maniche sette ottavi, in lana di cammello dello stesso colore.


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