Il filo della storia. Tessuti antichi in Emilia-Romagna

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ISTITUTO

PER

I

BENI

ARTISTICI

CULTURALI

E

NATURALI

DELLA

REGIONE

Tessuti antichi in Emilia-Romagna

EMILIA-ROMAGNA



In copertina Paliotto. Putte di Santa Marta, XVII secolo. Bologna, Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini ©2005 Testi e immagini Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna Via Galliera 21 – 40121 Bologna www.ibc.regione.emilia-romagna.it ©2005 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna – Via Marsala 31 tel. 051 220736 – fax 051 237758 www.clueb.com ISBN 88-491-2520-8 ISSN 1724-1324


ISTITUTO

PER

I

BENI

ARTISTICI

CULTURALI

E

NATURALI

DELLA

Il filo della storia Tessuti antichi in Emilia-Romagna

a cura di

Marta Cuoghi Costantini Iolanda Silvestri

REGIONE

EMILIA-ROMAGNA


IL FILO DELLA STORIA Tessuti antichi in Emilia-Romagna a cura di Marta Cuoghi Costantini Iolanda Silvestri Redazione Marta Cuoghi Costantini Isabella Fabbri Iolanda Silvestri Testi Carlotta Bendi Carla Bernardini Marta Cuoghi Costantini Donata Devoti Patrizia Von Eles Riccardo Fangarezzi Elisabetta Farioli Francesca Ghiggini Nicoletta Giordani Lorenzo Lorenzini Luciana Martini Vincenza Maugeri Giulia Meucci Beatrice Orsini Paolo Peri Francesca Piccinini Ilaria Pulini Lise Raeder Knudsen Iolanda Silvestri Annemarie Stauffer Stefano Zironi Schede del Repertorio Museale Lidia Bortolotti Giorgio Cervetti Barbara Corradi Francesca Ghiggini Maura Grandi Elisabetta Landi Lorenzo Lorenzini Vincenza Maugeri Alessandra Mordacci Beatrice Orsini Antonella Salvi Le schede non siglate sono state redatte dalle curatrici

Referenze Fotografiche La campagna fotografica a corredo dei saggi di Marta Cuoghi Costantini e Iolanda Silvestri è stata realizzata da Costantino Ferlauto, con integrazioni di Riccardo Vlahov e materiali dell’Archivio Fotografico dell’Istituto per i Beni Culturali. Le restanti immagini che corredano i testi sono state gentilmente fornite dagli Archivi Fotografici dei Musei e delle Soprintendenze Statali dell’Emilia-Romagna, che qui si ringraziano nelle persone di: Umberto Fornasari (Collegio Alberoni, Piacenza), Chiara Burgio (Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico per le provincie di Parma e Piacenza), Francesca Sandrini (Museo Glauco Lombardi, Parma), Rina Aleotti (Musei Civici, Reggio Emilia) e il fotografo Vincenzo Negro su concessione della stessa istituzione, Elena Ghidini (Museo Civico Gonzaga, Novellara), Manuela Bertolini, Fernando Miele (Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici della Curia Vescovile di Reggio Emilia-Guastalla) e i fotografi Pietro Parmeggiani e Marco Ravenna su concessione della stessa istituzione, Maria Canova (Museo Civico D’Arte, Modena) e il fotografo Ghigo Roli su concessione della stessa istituzione, Elena Righi (Museo Civico Archeologico Etnologico , Modena), Giovanna Paolozzi Strozzi (Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico di Modena e Reggio Emilia) e il fotografo Luciano Romano su concessione della stessa istituzione, Don Riccardo Fangarezzi e Chiara Ciaravello (Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici della Curia Vescovile di Modena e Nonantola) e il fotografo Pietro Parmeggiani su concessione della stessa istituzione, Luisa Chiavelli (Musei Civici d’Arte Antica, Bologna), Corinna Giudici e Sergio Pasquesi (Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico per le provincie di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini), Maura Grandi (Museo del Patrimonio Industriale, Bologna), Giovanni Sassu (Museo della Cattedrale, Ferrara), Angela Fontemaggi, Orietta Piolanti (Museo della Città, Rimini), Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna

Coordinamento editoriale Isabella Fabbri Grafica e impaginazione Oriano Sportelli Ringraziamenti È con sincera e doverosa riconoscenza che le curatrici ringraziano tutte le Soprintendenze Statali e le Istituzioni Museali coinvolte della nostra regione, compresi gli Uffici per i Beni Culturali Ecclesiastici delle Curie Vescovili e i Parroci delle rispettive chiese, l’Archivio di Stato di Bologna, le Comunità Ebraiche dell’Emilia-Romagna, insieme a tutti coloro che, con la loro preziosa e solerte collaborazione, hanno consentito la realizzazione del volume. In particolare il ringraziamento va a Jadranka Bentini, Maria Bernabò Brea, Maria Grazia Bernardini, Andrea Buzzoni, Giovanna Damiani, Franco Faranda, Lucia Fornari Schianchi, Pier Luigi Foschi, Anna Maria Iannucci, Luigi Malnati, Massimo Medica, Cristiana Morigi Govi, Filippo Trevisani, Monsignor Aldo Amati, Don Rino Annovi, Don Giuseppe Bertozzi, Don Gianfranco Gazzotti, Don Tiziano Ghirelli E inoltre a Aurora Ancarani, Carmela Baldino, Laura Baroni, Vincenzo Bazzocchi, Argia Bertoni, Carmela Binchi, Maurizio Biordi, Luisa Bitelli, Anna Maria Braghieri, Piero Cammarota, Sergio Ciroldi, Katja Del Baldo, Anna Dore, Gabriele Fabbrici, Anna Colombi Ferretti, Maurizio Festanti, Angela Fontemaggi, Umberto Fornasari, Raffaella Gattiani, Antonella Gigli, Corinna Giudici, Lorella Grossi, Fiamma Lenzi, Angela Lusvarghi, Roberto Macellari, Attilio Marchesini, Rita Marchi, Graziella Martinelli Braglia, Ivana Micheletti, Laura Minarini, Vito Paticchia, Silvia Pellegrini, Orietta Piolanti, Manuela Rossi, Francesca Sandrini, Otello Sangiorgi, Simonetta Santucci, Anna Stanzani, Paolo Turrini, Cristiana Zanasi. Si è grati inoltre a Maria Giuseppina Muzzarelli, consigliere del nostro Istituto, che ha sostenuto con preziosi suggerimenti questo lavoro. Un ricordo sentito e speciale va a Luciana Martini per l’incolmabile vuoto che ha lasciato la sua figura umana e professionale.


Indice

7 Presentazioni

Alberto Ronchi Ezio Raimondi Laura Carlini

67 Il piviale di San Moderanno

Alla scoperta del patrimonio tessile in Emilia-Romagna 21 Alle origini del tessuto

Beatrice Orsini 29 I rinvenimenti di tessuti e strumenti

per tessere e filare nelle necropoli villanoviane di Verucchio Patrizia Von Eles Carlotta Bendi Annemarie Stauffer Lise Raeder Knudsen 39 Decori, colori e filati di Roma antica

Beatrice Orsini 48 Nota su alcune fibre minerali di scavo

ritrovate nel modenese Nicoletta Giordani 51 Sulla via della seta. Testimonianze

del Medioevo tra Oriente e Occidente Marta Cuoghi Costantini 63 Un tesoro ritrovato a Nonantola

Riccardo Fangarezzi Paolo Peri

pittore di storia nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia Elisabetta Farioli

72 PERCORSO ICONOGRAFICO

11 Conoscere conservare e valorizzare

il patrimonio tessile regionale Marta Cuoghi Costantini Iolanda Silvestri

207 Velluti e costumi dall’atelier di un

Donata Devoti Giulia Meucci

211 Una raccolta bolognese 97 Seta, oro e argento:

per la storia della tappezzeria Stefano Zironi Francesca Ghiggini

lussuose vesti e magnifici apparati dal Rinascimento all’Impero Iolanda Silvestri

215 Vesti e arredi per la liturgia nei Musei 117 Impalpabili orpelli della moda:

d’Arte Sacra Lorenzo Lorenzini

i veli di seta bolognesi Marta Cuoghi Costantini 121 Nuove sete per la borghesia:

la manifattura Trivelli e Spalletti di Reggio Emilia Iolanda Silvestri

219 I tessili della cultura ebraica

Vincenza Maugeri 227 Corredi tessili del Nuovo Mondo nei

Musei dell’Emilia-Romagna Ilaria Pulini

124 PERCORSO ICONOGRAFICO

233 La grande stagione dell’arazzo

Marta Cuoghi Costantini

Il collezionismo tessile nelle raccolte pubbliche 247 187 Antichi tessuti nel Museo Nazionale

di Ravenna: dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco Luciana Martini 193 Una raccolta per l’artigianato e

l’industria: la collezione Gandini del Museo Civico d’Arte di Modena Francesca Piccinini 199 Per le raccolte tessili dei musei civici

di arte antica di Bologna, e oltre Carla Bernardini

Repertorio delle raccolte tessili in Emilia-Romagna

307 Bibliografia



el più vasto insieme dei beni culturali presenti nella nostra regione, i tessuti antichi costituiscono un corpus tanto affascinante quanto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli specialisti e degli addetti ai lavori. Una buona occasione per colmare possibili lacune ci viene dal volume che presentiamo e che propone, anche attraverso un ricco repertorio iconografico, una ricognizione puntuale del patrimonio tessile conservato nelle istituzioni museali pubbliche e private presenti sul territorio regionale, dai manufatti in lana rinvenuti nelle tombe villanoviane agli arredi e paramenti liturgici di epoca medievale, dagli abiti e dalle tappezzerie delle corti rinascimentali fino a produzioni protoindustriali un tempo famose come quella delle sete e dei veli che tanta parte ha avuto nella storia non solo economica di Bologna. Alla schedatura delle raccolte e dei singoli oggetti si accompagnano nel volume saggi di inquadramento e di approfondimento storico e tecnico che coprono un arco temporale che va dall’antichità all’Ottocento, quando l’introduzione del telaio meccanico ha radicalmente trasformato i modi di produzione e realizzazione dei tessuti. La tessitura, a lungo considerata un’arte minore, rappresenta a pieno titolo un capitolo importante non so-

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lo delle espressioni artistiche, ma anche della storia del lavoro e della storia sociale nel suo complesso. Ciascun tessuto ci restituisce palpabilmente, nella ricchezza e sapienza della sua materialità, molte e importanti informazioni sui saperi tecnici, ma anche sui gusti, gli usi quotidiani, le mode, la cultura di un determinato periodo storico. Fin dalla sua costituzione l’Istituto per i Beni Culturali ha dedicato a questi beni preziosi e intrinsecamente fragili un’attenzione particolare che si è concretizzata, in un confronto costante con altre figure istituzionali e tecnici ed esperti del settore, sui piani complementari della conoscenza e della conservazione. La ricerca e lo studio applicati a ciascun manufatto hanno permesso infatti di mettere in campo metodologie e tecniche di conservazione sempre più aggiornate, puntando sulla conservazione preventiva e limitando gli interventi di restauro più invasivi e traumatici soltanto ai casi di reale necessità. Quanto alla valorizzazione, terzo momento teoricopratico delle politiche regionali applicate ai beni culturali, questo volume ne è, io credo, un ottimo esempio. Valorizzare il proprio patrimonio culturale significa infatti stimolare la curiosità e l’interesse su di esso e fornire a tutti chiavi di accesso e opportunità di effettiva fruizione.

ALBERTO RONCHI Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna


MARTA CUOGHI COSTANTINI - IOLANDA SILVESTRI

n libro come il presente intorno a quella che il vecchio Semper considerava l’“arte primigenia” delle forme e del colore ha più di una ragione per risultare interessante, non solo perché dà conto della provvida attività di uno dei settori primari dell’Istituto per i Beni Culturali, quello addetto al restauro, ma più ancora per la qualità sorprendente e preziosa dell’oggetto indagato. Che è per l’appunto il patrimonio tessile che si conserva nella nostra regione Emilia-Romagna, dai frammenti della cultura villanoviana ai decori romani, dagli arredi e tessuti religiosi medievali alle vesti e agli apparati sontuosi del Rinascimento, sino ai primi esempi di produzione industriale, quale quella, un tempo giustamente famosa, delle sete bolognesi. Vero è che un patrimonio tanto dovizioso ed esteso quanto intimamente fragile richiede un lavoro continuo di affinamento e adeguamento delle procedure di restauro e dei saperi tecnico-scientifici che le supportano, affinché siano possibili interventi di conservazione non più impropri o traumatici, ma duttili e rispettosi di un materiale delicatissimo, esposto più di altri alle insidie corrosive del tempo. Non per nulla la tessitura può rappresentare anche un simbolo, quasi un archetipo della temporalità del vivere umano. E per questo restaurare significa insieme conoscenza, ricerca, collaborazione quotidiana fra figure professionali e istituzionali differenti, in un sistema complesso e sedimentato di cognizioni e relazioni, a cui rimandano anche, con consapevole misura, i saggi del nostro rendiconto critico e del suo lungo, paziente, ingegnoso laboratorio. Ma è un dialogo, ora, che non si rivolge soltanto allo specialista. A parte una doverosa terminologia tecnico-setto-

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riale (è il linguaggio dei “pratici” caro a uno scrittore come Gadda), il ragguaglio a più voci invita anche il lettore comune a un viaggio curioso e affascinante, sia che si resti all’evidenza immediata di una superficie fulgida e palpabile, sia che si cerchi di rintracciarne il “filo della storia”, se è vero, come osserva una delle valenti curatrici, che la storia dell’arte tessile “è soprattutto storia di scambi e traffici commerciali, circolazione di materie prime e prodotti finiti, diffusione di modelli decorativi e di tecniche esecutive, migrazione di artigiani e del loro sapere”. Solo in apparenza minore, soprattutto dopo la lezione di Riegl e del suo Kunstwollen, l’arte tessile ha in effetti molte storie da raccontare e intrecciare: da quella più strettamente tecnica che ha i suoi emblemi pragmatici nelle fusaiole e nei pesi da telaio, corredo delle tombe di antiche gentildonne, alla storia del lavoro, in primis femminile, alla storia sociale ed economica. Un mantello di lana, un piviale, un abito di gala, un arazzo, un velo di seta sono per noi altrettanti microcosmi in cui si rispecchia per l’occhio della mente un mondo più vasto di eventi e significati: gusto, costume, rito, prestigio, stile di vita. Ma intanto il lettore può affidarsi, guardando, al museo virtuale del nostro libro di immagini, tra velluti e damaschi, sete e lampassi, ricami e intrecci, ori e argenti, abilità manuale e tramandi culturali, fedeltà alla tradizione e innovazioni creative. Sono, come avrebbe detto Hofmannsthal, le sfumature infinite dell’esperienza umana; e anche da esse esce un’immagine plurima del tempo, un passato che si fa racconto e forse interrogazione comparativa sul presente. L’importante è poi di non perderne il filo.

EZIO RAIMONDI Presidente dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna


Presentazione

a conoscenza, la conservazione, il restauro e la valorizzazione del patrimonio presente nei musei e nei contenitori storici di pertinenza degli enti locali sono il fondamento del lavoro dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali dal momento della sua costituzione. Gli interventi realizzati nel corso di trent’anni hanno riguardato una cospicua mole di beni attribuibili alle più diverse tipologie, come ad esempio dipinti, reperti archeologici, sculture e materiali tessili. In quest’ultimo settore, in particolare, è stato avviato, negli anni ’70, un progetto mirato allo studio ed alla valorizzazione delle collezioni e dei fondi tessili regionali più significativi, esteso in seguito a molte altre raccolte, anche di minor entità. In parallelo, si è ritenuto necessario studiare a fondo l’aspetto della conservazione di questi delicati artefatti e, di conseguenza, organizzare momenti di confronto relativi alle tecniche da adottare per il restauro dei materiali ed alla formazione degli operatori del settore. I risultati raggiunti sono testimoniati nel cospicuo numero di pubblicazioni curate dall’Istituto sul tema, ed altresì nei numerosi incontri di studio, convegni e seminari d’approfondimento. La storia del lungo e paziente lavoro di ricerca e di tutela dell’Istituto è narrata nel testo introduttivo redatto dalle curatrici del volume, cui seguono i saggi sulla storia del patrimonio tessile in Emilia-Romagna ripartiti in due sezioni: una che delinea l’itinerario storico-critico tra i materiali più rilevanti conservati nel nostro territorio e l’altra che documenta la trama del collezionismo tessile nelle raccolte pubbliche della regione, entrambe corredate da un ricco apparato iconografico.

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La lettura si dipana attraverso i secoli e le diverse culture nella prima sezione, nella quale i diversi contributi degli autori spaziano dal mantello d’epoca protostorica conservato nel Museo Archeologico di Verucchio, appartenente alla cultura villanoviana, ai ricami bizantini, dalle reliquie di Nonantola al piviale di Berceto, dagli abiti sontuosi e dagli apparati rinascimentali fino alle eleganze neoclassiche, per giungere infine alla produzione ottocentesca per il mercato borghese. I saggi della seconda sezione ci restituiscono invece una vivida immagine dello sviluppo delle raccolte di tessuti e della loro musealizzazione, non trascurando né gli aspetti di ricca e varia accumulazione, come nel caso Gandini di Modena, né di dar conto di esperienze che intrecciano le vicende di vesti e arredi liturgici conservati nei numerosi musei d’arte sacra, con materiali appartenenti alla cultura ebraica, oppure con i corredi tessili provenienti dal Nuovo Mondo. Il volume è infine completato dal nutrito repertorio delle istituzioni che conservano materiali tessili, che consente uno stimolante viaggio virtuale in circa 160 musei della regione, ordinato in base a una divisione geografica che segue la via Emilia da Piacenza a Rimini. La pubblicazione è stata concepita con il fine di diffondere la conoscenza dell’arte tessile in Emilia-Romagna e di promuovere la sua valorizzazione, perseguite attraverso la collaborazione di studiosi ed esperti responsabili delle istituzioni museali, che con la pluralità delle loro voci hanno contribuito alla completezza ed alla varietà del volume ed ai quali va il ringraziamento dell’Istituto per il loro qualificante apporto.

LAURA CARLINI Responsabile del Servizio Musei e Beni Culturali dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna



Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale MARTA CUOGHI COSTANTINI IOLANDA SILVESTRI

Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna dalla sua nascita ad oggi ha attuato un’azione di tutela e di valorizzazione del patrimonio tessile antico conservato nel proprio territorio di competenza, incentrata principalmente sulle questioni di metodo e nel pieno rispetto delle suo mandato istitutivo, in quanto strumento consultivo e propositivo della Regione in materia di beni culturali. Rispetto ad altre realtà nazionali, l’operato regionale si è sviluppato di preferenza più sul dibattito culturale avanzato che su quello operativo, nei confronti del quale, ha comunque svolto un’azione di sostegno rivolta agli enti locali e alle istituzioni pubbliche con interventi diretti sui tessili antichi ivi conservati in forma di vere proprie raccolte o di singoli manufatti. In questa direzione, come peraltro nei confronti di qualsiasi altra categoria di beni, non ha mai disgiunto i diversi modi di affrontare la materia, come la conoscenza, la tutela e la promozione di questo singolare artigianato artistico, tanto antico quanto ancora così poco conosciuto, promuovendo azioni parallele e correlate all’interno di una logica di sistema. Ha proceduto quindi sui binari complementari e imprescindibili della conoscenza e della conservazione che hanno portato come naturale conseguenza a interventi mirati di valorizzazione delle collezioni e dei fondi tessili più significativi. Innanzitutto ha privilegiato come principio guida, quello di studiare analiticamente ogni singolo reperto per poi preventivare ed eseguire su di esso, se necessario, il recupero più adeguato, riconfermando la validità culturale della formula storica ormai collaudata “conoscere per

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conservare” coniata a suo tempo dal rinnovato impulso impresso alla politica dei beni culturali in Italia negli anni ’70 del secolo scorso.

Modelli e percorsi conoscitivi Fra tutte la raccolte tessili regionali la collezione Gandini del Museo Civico di Modena, per sua configurazione storica e consistenza di materiali, si è configurata fin da subito come il cantiere ideale per dare avvio e corpo a questo progetto che, iniziato negli anni ’80 in stretta collaborazione con l’amministrazione locale, ha portato allo studio e al recupero congiunto e graduale di sezioni distinte della raccolta, segnando il passo oggi verso la sua definitiva conclusione. Sul fronte conoscitivo ha prodotto ben tre cataloghi sistematici di cui due dedicati a più di mille esemplari fra tessuti e ricami del XVII, XVIII e XIX secolo (1984, 1993) e il terzo (2003) al nucleo integrale di pizzi e passamanerie (novecento pezzi in tutto tra merletti, galloni, frange e fiocchi). Per il 2006 e il 2007 è prevista l’uscita delle ultime due pubblicazioni relative alla sezione di tessuti medioevali e rinascimentali e a quella di tessuti etnografici di provenienza extraeuropea. La specificità del lavoro condotto sul fondo modenese è consistita nell’aver catalogato ogni singolo manufatto ricorrendo a un unico modello di scheda esemplata sui parametri codificati a livello internazionale dal centro di studi sui tessili antichi più accreditato su scala mondiale, il Centre d’Etudes des Textiles Anciens di Lione. In particolare è stata elaborata una scheda museale ad hoc incentrata soprattutto sui dati tecnici, ovvero su quelli che più di tutti identificano ogni esemplare (per tipo di tessitura, filato, colore e disegno) ritenuti, rispetto agli elementi


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storico-critici, essenziali per una lettura coerente e completa della natura del manufatto. La lettura tecnica di ogni reperto formulata comunque in modo sintetico è stata corredata da una campagna fotografica mirata a documentare in modo esaustivo ed appropriato lo stato dei materiali. Il lavoro ha previsto la ripresa a colori e in bianco e nero dell’intero (recto/verso) di ciascun frammento, realizzata in due momenti, prima e dopo il restauro e integrata, quando necessario, da particolari ingranditi del disegno o della tecnica di lavorazione. Il primo lotto di tessili pubblicato nel catalogo del 1984, corrispondente alla sezione sette-ottocentesca, è stato fotografato a luce naturale proponendo la sperimentazione, allora pioneristica, della ripresa a luce naturale, abbandonata in seguito per motivi di praticità operativa e definitivamente sostituita da quella a luce artificiale, più accattivante ma sicuramente meno attendibile quanto a fedeltà cromatica e a restituzione del dato tecnico. L’esperienza pilota condotta, sulla raccolta modenese e perfezionata negli anni dall’Istituto, ha delineato una metodologia di studio e catalogazione del settore applicata da schedatori e studiosi istruiti ad hoc anche al resto delle collezioni tessili presenti sul nostro territorio, conservate nei diversi musei pubblici e privati, ivi comprese le raccolte diocesane e di arte sacra senza escludere anche gli arredi sacri della cultura ebraica. Ricordiamo per importanza dei fondi studiati, la schedatura delle raccolte tessili conservate nei musei civici reggiani (Museo d’Arte Industriale e Galleria Parmeggiani) e quella condotta sui materiali delle sinagoghe, oltre ai cataloghi di paramenti e arredi liturgici della Collegiata di Castell’Arquato a Piacenza, dei Santuari della Steccata a Parma e della Ghiara a Reggio Emilia, promossi dalle Soprintendenze competenti. L’indagine sul patrimonio tessile regionale ha affrontato anche lo studio di fondi particolari rappresentati dalle raccolte di costumi teatrali come quella donata dall’attore Gandusio alla Casa di Riposo Lyda Borelli per Artisti Drammatici di Bologna e dai fondi di ventagli storici conservati nelle raccolte dei Museo Civico di Carpi e presso famiglie ferraresi presentati in mostra nelle rispettive località nel 1999 e nel 1994, fino a indagare il mondo della strumentazione tecnica come quello delle macchine tessili (orditoi e telai da seta) conservate nel Museo del Patrimonio Industriale di Bologna (su tutti questi fondi si rimanda ai saggi della seconda sezione e alla consultazione del repertorio museale finale con la bibliografia di riferimento).

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Durante il lungo percorso ricognitivo intrapreso dall’Istituto per i Beni Culturali in questo ambito dalla sua istituzione ad oggi non sono mancati, inoltre, momenti di approfondimento critico e di confronto sull’argomento con le più importanti realtà museali nazionali e internazionali che conservano raccolte tessili antiche di rilievo. In proposito ricordiamo tre importanti appuntamenti modenesi promossi dai Musei Civici in collaborazione con questo Istituto, il convegno del 1990 sulle Collezioni Civiche di Tessuti e i due seminari di formazione, rivolti, il primo nel 1989, a informare il personale direttivo, il secondo nel 1991, a istruire ex novo personale tecnico nel ruolo di schedatori in forza presso musei e soprintendenze statali. La necessità di promuovere iniziative di questo genere da parte degli operatori museali nasceva dalla necessità di ovviare ad una ignoranza del settore colmata per anni con approcci critici mediati di riflesso dalla storia dell’arte, affrontando ora la materia con metodi e criteri suoi propri. Tra questi la conoscenza del dato tecnico storicizzato rappresenta senza dubbio l’aspetto più caratterizzante e distintivo dello studio dei tessuti antichi e quello da cui non si può prescindere per formularne l’attribuzione, indicando il periodo d’esecuzione, il luogo di provenienza e la qualità del manufatto. Lo studio tecnico del tessuto antico, infatti, anche se è disciplina recente (è nata nel dopoguerra del secolo scorso in alcuni musei d’Europa) non è certo materia facile da apprendere perché facendo riferimento prima al mondo dell’artigianato poi a quello dell’industria ha visto sedimentare nei secoli tecniche, strumenti e sistemi di lavorazione molto antichi e in continua evoluzione che hanno condizionato da sempre la creazione di questo prodotto dell’artigianato artistico. In buona sostanza e semplificando al massimo, si può dire che il tessuto nella sua essenza materiale è un intreccio ortogonale di fili verticali (orditi) e orizzontali (trame), tessuto da una macchina fissa (il telaio azionato dall’uomo), le cui modalità diverse di intersecazione dei fili danno luogo a tanti decori quante sono le varianti tecniche. Fermo restando poi che il disegno di una stoffa può essere ottenuto comunque anche dopo la tessitura con altre tecniche che intervengono direttamente sull’intreccio di base, come la stampa che lo colora o come l’impressione a caldo e l’ondatura che lo schiaccia nei punti voluti corrispondenti al motivo che si vuole ottenere, non v’è dubbio alcuno che proprio sul sistema di intreccio più o meno semplice dei fili di ordito con quelli di trama che danno origine a tessuti uniti (senza deco-


Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale

ro) ed operati (con decoro), si concentra l’interesse primario dello studioso in questo campo.

Criteri e modi del conservare In parallelo anche sul fronte complementare della conservazione, dal 1976 ad oggi, l’Istituto per i Beni Culturali ha promosso progetti specifici sulle diverse tematiche del settore. L’ambito operativo indagato è iniziato con il restauro e la discussione critica sui metodi e sulle tecniche del recupero, per spostarsi ai problemi della formazione degli operatori fino a giungere, più di recente, a individuare i contenuti conservativi degli standards museali, con particolare attenzione ai problemi della manutenzione e della prevenzione, all’avanguardia nel dibattito internazionale, in quanto segnano il passo di un’azione di tutela lungimirante volta a limitare il più possibile l’azione traumatica connaturata al restauro. Su quest’ultima tipologia di interventi l’attenzione si è focalizzata sul recupero di raccolte museali e su manufatti tecnicamente complessi come gli arazzi e gli abiti. Sui primi si è intervenuti sempre sul “fondo campione” modenese della collezione Gandini, avviando dal 1978 una campagna sistematica di restauro di ben duemila frammenti fra stoffe, pizzi e passamanerie di varie forme, dimensioni e tipo di degrado, relativi alle sezioni studiate. Negli anni il recupero ha messo a punto un sistema sempre più ottimizzato di criteri, tecniche e soluzioni che hanno privilegiato oltre al restauro dei singoli materiali anche la conservazione dell’antico allestimento museografico tardo ottocentesco con la riesposizione parziale e a rotazione dei materiali. All’interno dei contenitori originali, opportunamente ripristinati nei supporti interni e nella struttura portante in ferro e vetro, ora assicurata da sigillature tali da garantire comunque l’aerazione controllata e filtrata dell’aria, ogni frammento, dopo essere stato sottoposto ad un regolare intervento di manutenzione o di restauro, è stato riposizionato in modo corretto nelle vetrine, ovvero disteso e fissato con fettucce di sostegno ai supporti lignei di fondo delle stesse rivestite ex novo con tessuto idoneo. Ben diverso era infatti lo stato in cui si presentava il manufatto all’entrata in museo, piegato, arricciato, incollato su carta e cosparso di chiodi, puntine e spilli arrugginiti. Solo per quei frammenti che per ragioni conservative sono stati rivestiti al retro da protezioni integrali in tessuto idoneo, si sono create su di esse delle apposite aperture dette “finestrelle”, per consentire la visione e lo studio del tessuto altrimenti impedita. Il progetto conservativo ha contemplato, oltre al recupe-

ro dell’impianto museografico originale e dei manufatti, anche il ripristino ambientale della sala che li ospita entrambi sin dalle sue origini. Grazie a un monitoraggio costante seguito negli anni dalla direzione museale con la consulenza dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il coordinamento dell’Istituto per i Beni Culturali, la stanza è stata adeguata ai parametri ambientali richiesti per i tessili antichi, quanto a luce, umidità relativa e qualità dell’aria, quindi schermata integralmente dalla luce naturale e rinnovata nell’illuminazione artificiale con fari alogeni, sperimentando di recente l’inserimento di fibre ottiche solo nella vetrina centrale dei pizzi. Quanto poi a interventi conservativi esemplari condotti su manufatti “eccellenti” presenti nel territorio regionale, ricordiamo i restauri conclusi sull’arazzo fiammingo d’inizio Cinquecento del Collegio Alberoni di Piacenza (“Il Corteo regale di Nozze”, della serie cosiddetta di Priamo) e su uno straordinario quanto fragile abito di gala indossato dalla figlia di Maria Luigia Duchessa di Parma, Albertina, ed esposto al Museo Glauco Lombardi di Parma. Se per il primo lo sforzo è stato concentrato sul ripristino della lettura estetica d’insieme, curando ogni dettaglio, dal reinserimento degli orditi mancanti con il fissaggio delle trame originali su supporti locali adeguati, alla ritessitura delle cimose mancanti, per il secondo, ci si è misurati senza timore, dopo il restauro delicato del ricamo d’argento sull’impalpabile garza di seta di fondo, con il difficile problema sartoriale legato al recupero della foggia storica, aspetto quest’ultimo poco praticato in quanto scarsamente conosciuto. Ci si è concentrati sulla parte meglio documentata dell’abito, che non era quella Impero, bensì quella più tarda della Restaurazione, inserendo nella ricostruzione della veste un corpetto ritrovato nel guardaroba della duchessa. Gli esiti sicuramente positivi raggiunti da questi due cases histories dimostrano, tuttavia, quanta ricerca tecnologica e interdisciplinare occorra ancora fare in questo campo. Come si è accennato poc’anzi, l’interesse per il recupero dei tessili antichi si è manifestato purtroppo in epoca tarda, prima in Europa nel dopo guerra del Novecento, ad opera di alcune tra le sue istituzioni museali più sensibili (tedesche, svizzere, inglesi, belghe, polacche e olandesi), poi anche in Italia tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Pur avendo compiuto sensibili progressi, questa disciplina denuncia, tuttavia, ritardi piuttosto pesanti nella ricerca avanzata, oltreché carenze ancora più penalizzanti nell’inquadramento sistematico d’insieme della materia, oggi certamente meno sviluppata rispetto ad altri settori più avanzati del restauro.

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Nonostante tutto però non sono mancate le occasioni promosse dall’Istituto per i Beni Culturali per dibattere l’argomento con iniziative di respiro nazionale e internazionale, sviluppando istanze già intraprese dal benemerito e pionieristico C.I.S.S.T. (Centro Italiano per lo Studio della Storia del Tessuto) negli anni ’80 del secolo scorso. In ordine di tempo e al riguardo, ricordiamo due eventi importanti: il già citato convegno modenese del 1990 dedicato alle Collezioni Civiche dei Tessuti che diede ampio spazio ai problemi conservativi ed espositivi di questi materiali e la mostra “Capolavori Restaurati dell’Arte Tessile” allestita nel 1991 nella suggestiva cornice rinascimentale di Casa Romei a Ferrara, che segnò l’occasione per fare il punto della situazione su questo fronte. Attraverso una selezione di manufatti eterogenei, tanto rari quanto preziosi, compresi tra il IV e il XIX secolo (frammenti, pizzi, parati liturgici, abiti civili e arredi), la rassegna ferrarese diede conto, infatti, dei risultati più recenti e avanzati raggiunti in Italia dalla politica museale più aggiornata in materia. A questi eventi ne seguirono altri non meno significativi come le due giornate di convegno dedicate ai temi conservativi specifici degli arazzi (Piacenza, 2001) e delle tappezzerie delle dimore storiche (Ferrara, Salone del Restauro, 2000). Argomenti questi in genere che, già poco dibattuti sia in ambito nazionale che internazionale, sono sempre stati però fortemente sentiti, invece, dagli operatori museali che da tempo hanno avvertito la necessità di affrontarli, soprattutto per quanto riguarda il recupero delle tappezzerie antiche, tematica questa che implica soluzioni conservative complesse, quando si entra nella logica del mantenimento delle stoffe restaurate in situ o del loro rifacimento. Va rilevato tuttavia con piacere che da qualche tempo a questa parte il dibattito scientifico sul restauro dei beni storico-artistici ha portato fortunatamente alla maturazione critica del problema anche in quest’ambito di intervento, convincendo gli addetti ai lavori ad optare sempre meno per interventi radicali e strutturalmente alteranti come il tradizionale restauro (relegato a scelte estreme e obbligate) e preferendo invece soluzioni meno traumatiche e invasive, come una buona conservazione dei manufatti, attuata di solito con la manutenzione e il monitoraggio degli stessi, e talvolta anticipata anche da un’azione preventiva sull’ambiente che li conserva. Gli interventi condotti sugli arazzi del Duomo di Ferrara oggi esposti in modo permanente nell’attigua chiesa di

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San Romano divenuta il nuovo Museo d’Arte Sacra della Cattedrale, su quelli del Duomo di Modena, per ora visibili solo parzialmente nel Museo omonimo, come pure sugli arredi tessili della Casa Museo Carducci a Bologna, solo per citare tre casi esemplari, vanno proprio in questa direzione, nel senso che propongono scelte metodologiche volte al rispetto dell’integrità storica dell’opera e al mantenimento di ogni suo valore documentale ed estetico, senza ricorrere a operazioni intrusive e demolitive, di cui non sempre è garantita la reversibilità. Se poi si aggiunge che sono operazioni tecnicamente più blande e meno costose del restauro, si comprende meglio la validità dell’assunto iniziale. A dare sostegno a questi nuovi orientamenti del settore, interviene anche la più recente deontologia conservativa espressa dalle istituzioni statali competenti in merito alla definizione degli standards museali di cui ogni Regione dal 2002 è stata chiamata a dotarsi, alla luce dei nuovi orientamenti imposti dalla legge Merloni nel 1999. L’enunciazione dei requisiti necessari alla corretta gestione ordinaria e straordinaria di ogni museo, dal raggiungimento graduale degli obiettivi minimi fino alle performances più alte, assunti con la deliberazione della Giunta Regionale n.309 del 3 marzo 2003, prevede alla voce Musei (punto 7, con specifico riferimento al sottopunto 7.7 dedicato alla “Gestione e cura delle collezioni e del patrimonio museale”) una serie di regole generali sulla conservazione che danno una valenza prioritaria alla prevenzione e ad alcune misure di base da assumere riguardo ai materiali organici e non. In questa categoria sono stati inseriti di proposito i tessili, per i quali, nello specifico, sono state dichiarate come misure obbligatorie: l’esclusione totale dai danni della luce naturale diretta o indiretta (utilizzando coperture apposite alle finestre: scuri interni, tende, vernici antispettro solare sui vetri), l’uso sostitutivo di fonti d’illuminazione fredde sempre poste al di fuori dalle vetrine (ad eccezione delle fibre ottiche) e il mantenimento dei parametri tradizionali di Lux (L) artificiali, Umidità Relativa (UR), Temperatura (T) e Qualità dell’Aria (QA), sia nell’ambiente museo (spazi espositivi e depositi) che all’interno delle vetrine. Riguardo poi a queste ultime si è sconsigliato vivamente il ricorso abituale a contenitori senza aria e climatizzati da limitarsi solo a casi eccezionali come possono essere i manufatti tombali e di scavo. Va da sé comunque che l’osservanza delle misure minime indicate negli standards, insieme ai suggerimenti tecnici e operativi forniti nel dettaglio dai restauratori qualificati nel settore in merito a qualsiasi tipo di manipolazione museale (dall’esposi-


Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale

zione alla movimentazione allo stivaggio fino al restauro vero e proprio), assicurano lo stato di buona salute del manufatto e la sua migliore conservazione nel tempo. Il riferimento costante all’esperto di provata esperienza in un confronto comunque sempre interdisciplinare con lo storico del settore e la direzione musei, diventa poi l’altro punto di forza della tutela pubblica quando si affronta un qualsiasi problema d’ordine conservativo. Anche in questa direzione, l’Istituto per i Beni Culturali si è fatto parte attiva, promuovendo due corsi di formazione rivolti a restauratori di tessuti antichi a Modena nel 1992 e di arazzi a Piacenza nel 1999/2000. Nella strutturazione dei corsi, formulati a numero chiuso nell’ambito dei canali istituzionali previsti dal Fondo Sociale Europeo e realizzati in collaborazione con le amministrazioni locali e le organizzazioni di categoria, l’attenzione si è concentrata su due obiettivi primari: l’immissione nel mercato del lavoro di neo-restauratori e la qualità scientifica del programma formativo, monitorata da referenti tecnici ministeriali dell’OPD (Opificio delle Pietre Dure) e dell’ICR (Istituto Centrale del Restauro) e sviluppata con lezioni teorico-pratiche e periodi di stages presso laboratori privati validati dalle suddette istituzioni.

Trasmettere il sapere e il conservare Pur nel quadro generale di precarietà asistematica in cui ancor oggi si muovono le istituzioni pubbliche e private, sia in ambito nazionale che internazionale sul fronte della conservazione come su quello dello studio dei tessili antichi, si può essere certi, tuttavia, che la Regione Emilia-Romagna ha dato un contributo significativo in ciascuno degli ambiti indicati, potenziando la conoscenza e la tutela di uno dei prodotti più antichi e tecnicamente complessi del suo artigianato artistico storico e senza dubbio quello fra tutti meno conosciuto e apprezzato, nonostante la cospicua messe di manufatti a noi pervenuta e il ruolo fondamentale espletato da sempre da questi prodotti sia nell’uso che nel significato simbolico e culturale conferito loro dall’uomo. Ecco perché ci è sembrato doveroso rendere conto in questa pubblicazione dei risultati conseguiti dall’Istituto per i Beni Culturali in quasi un trentennio di lavoro sui tessili antichi. La ricognizione e lo studio di questi materiali conservati nel territorio regionale trovano ora più completa visibilità in una sintesi dell’esistente che ha portato a delineare una sorta di carta geografica della loro distribuzione territoriale all’interno di istituzioni museali sia pubbliche che private.

Restano esclusi da questi beni solo quelli del patrimonio liturgico dismesso e custodito in sagrestie di chiese e oratori, i cui canali di accesso per la conoscenza sono affidati, da sempre e in primis, alle campagne di rilevamento e all’opera di valorizzazione promosse dalle Soprintendenze statali e dalla Cei, essendo manufatti giuridicamente sottoposti alla tutela diretta di queste istituzioni. Ciò però non ha dissuaso dal valutarli nella loro valenza storica complessiva, essendo questa la parte di patrimonio tessile antico più consistente e importante a noi pervenuta. In questo contesto generale l’attenzione regionale, forte del suo mandato di ente preposto al governo degli enti locali, si è concentrata in particolare sulle raccolte tessili pubbliche di tradizione civica in quanto nate come espressione di un collezionismo privato colto e illuminato, che, per volontà stessa dei loro proprietari, convinti assertori del bene culturale come bene della collettività e imprescindibile strumento di crescità della società, confluirono in epoca post-unitaria nelle Raccolte d’Arte dei nascenti Musei Civici a imitazione dei grandi musei europei di Arti Industriali e Applicate. Le raccolte, concentrate nei più importanti Musei Civici della nostra regione e in un solo Museo Nazionale (quello di Ravenna), a cui furono donate da personaggi di spicco della cultura locale, come Gandini per Modena, Campanini e Parmeggiani per Reggio Emilia, Malaguzzi Valeri per Bologna e Ricci per Ravenna, sono documentate da un corpus consistente costituito per lo più da frammenti ma anche da indumenti, accessori e arredi civili e liturgici, di cui preme qui menzionare i manufatti di maggior pregio e valore storico, come lo straordinario abito maschile di gentiluomo tardo cinquecentesco, un’autentica rarità, conservato insieme alle vesti femminili e maschili settecentesche nel Museo Parmeggiani di Reggio Emilia, la serie di campionari della fabbrica di seta reggiana Trivelli-Spalletti del Museo Civico locale e il nucleo di tessuti bizantini e copti del Museo Nazionale di Ravenna. Tra i paramenti sacri ivi attestati non vanno dimenticate anche due eccellenze bolognesi come il piviale medievale ricamato di San Domenico del Museo Civico e la pianeta seicentesca con scene della Creazione ricamata a Bologna su modello raffaellesco, oggi esposta al Davia Bargellini. Ben più cospicua invece è la messe di vesti e arredi sacri conservata nei musei ecclesiastici, fra cui spiccano per unicità e pregio il velo bizantino della Collegiata di Castell’Arquato, le due pianete in pizzo d’oro del cardinale Rinaldo d’Este del Museo Arcivescovile di Reggio Emilia, oltre ai sontuosi ricami in oro e argento di insigni papi e

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cardinali bolognesi conservati nel Tesoro della Basilica di San San Pietro e nel Museo di San Petronio. In testa a tutti si pone comunque il rinvenimento più sensazionale compiuto in questi ultimi anni nell’Abbazia di Nonantola: si tratta di due sete antichissime, una bizantina risalente al VIII-IX secolo con aquile imperiali e una più tarda palermitana o fatimita dell’XI-XII secolo ricamata con animali affrontati (cervi, leoni e lepri), che rivestivano le reliquie di Santi o di Abati benedettini a cui appartenevano. Tra gli arredi sacri non vanno esclusi, come si è già accennato, anche quelli di provenienza ebraica distribuiti nelle diverse sinagoghe del territorio, come i rivestimenti (i meillin e i mappah) dei rotoli da preghiera (le torah) e le tende di accesso ai sacri testi (i parokot), di cui una sintesi significativa è documentata nel Museo multimediale della cultura ebraica di Bologna (il MEB). All’interno del repertorio tessile regionale un posto di rilievo e a sé stante è ricoperto dagli arazzi attestati, oltreché da pochi esemplari e da qualche frammento isolato nelle collezioni civiche, da importanti raccolte tessute in varie repliche dette “serie” da arazzieri fiamminghi attivi in Italia tra il XVI e il XVIII secolo: tra queste citiamo gli arazzi estensi del Duomo di Ferrara oggi riallestiti nel Museo attiguo della Chiesa di San Romano, quelli bolognesi della Basilica Metropolitana, quelli modenesi purtroppo apprezzabili solo in due esemplari visibili nel Museo della Cattedrale della città e infine quelli piacentini del Collegio Alberoni, il cui arazziere, solo per due di essi, i più antichi a noi pervenuti d’inizio Cinquecento e sicuramente due capolavori, fu lo stesso che eseguì gli arazzi Vaticani disegnati da Raffaello. C’è da dire infine che non sono state trascurate tutte quelle altre numerose e insospettabili testimonianze ritrovate in realtà museali “minori” e più periferiche della nostra regione afferenti a produzioni legate ad ambiti diversi. Ben rappresentata è la categoria dei cosiddetti “militaria” con i patriottici cimeli risorgimentali come la bandiera reggiana del Tricolore esposta nel museo a lei dedicato, di recente inaugurazione, gli abiti appartenuti a Garibaldi e ad Anita della Classense di Ravenna, quelli indossati da Silvio Pellico del Museo del Risorgimento modenese, le uniformi storiche dei cadetti dell’Accademia di Modena, insieme alle divise indossate dai partigiani della Repubblica di Montefiorino e dai militari italiani e stranieri nelle ricostruzioni multimediali dei due conflitti mondiali allestite nel Museo della Guerra di Bologna e nel Museo Memoriale della Libertà di Castel del Rio. Meno nutrita, ma comunque interessante, è anche la documentazione teatrale con gli abiti di scena dell’attore

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Gandusio e le due vesti esposte a Gualtieri, realizzate dalla rinomata sartoria Tirelli per il Ludwig di Visconti e l’Enrico IV di Pier Luigi Pizzi. Testimoniata invece da un variegato repertorio di manufatti integrati da relativa strumentazione tecnica è la produzione tessile della civiltà contadina con corredi di vestiario e biancheria intima e domestica molto povera lavorati con i filati di canapa e lana, di cui i musei di Villa Sorra nel modenese, di San Marino in Bentivoglio nel bolognese e quelli romagnoli di Santarcangelo e di Russi ci restituiscono un’idea esauriente dei modi del vivere e dell’abitare di questa cultura. La ricognizione sull’intero patrimonio tessile regionale ha trovato infine una sua configurazione appropriata all’interno di un percorso storico che ne ricomprendesse la funzione e il significato. Per l’età antica si è partiti dalle attestazioni preistoriche del primi insediamenti terramaricoli di Castione dei Marchesi nel parmense fino ad arrivare ai reperti villanoviani di Verucchio e a quelli rivenuti in due necropoli della Mutina tardo romana e nei resti della nave romana di Comacchio, mentre per l’età moderna lo scenario si fa via via più documentato e ricco per essere identificato in prevalenza dall’eccellenza dei suoi manufatti, ovvero da quelli lavorati con il più nobile dei filati, la seta. Si inizia con il messaggio iconico e sacrale delle sete medioevali documentate nell’ambito parmense (piviale di Berceto), nel reggiano (mitria di Marola), nel modenese (reliquie dell’abbazia di Nonantola), a Bologna (telo di San Procolo e mitria di Santo Stefano), per transitare poi nel mondo elegante e artistocratico del Rinascimento evocato dai velluti della Galleria Parmeggiani e dal rivestimento dello scrittoio da viaggio estense della Galleria Nazionale di Modena, passando poi attraverso l’iperbole barocca declamata dagli sfavillanti ricami dorati delle chiese bolognesi di San Pietro e di San Petronio, per finire con la riproposizione nuova della classicità romana discretamente ostentata dalle tappezzerie Impero di Palazzo Milzetti a Faenza. All’interno di questo itinerario che lega virtualmente tra loro generi tessili di epoche diverse, non sono mancati affondi interessanti nella tessitura locale come quelli effettuati sulla storia della lavorazione dei veli bolognesi, ornamenti eterei della moda aristocratica dal Rinascimento all’Ottocento, e sulla produzione, già di tipo seriale, di sete operate a piccoli decori geometrici e floreali rococò, destinata all’alta borghesia e intrapresa nel corso del Settecento dalla mercatura reggiana Trivelli-Spalletti. La scelta infine ambiziosa di affrontare un ampio arco


Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale

temporale dalla Preistoria all’Impero ha trovato una sua spiegazione plausibile non solo nell’avvertita necessità di ricomporre un quadro sintetico e il più possibile esaustivo dell’esistente, ma anche nel fatto che la storia tessile antica, dalle sue origini agli inzi dell’Ottocento, è stata profondamente segnata da cambiamenti tecnologici determinati dall’interazione ancora manuale e diretta del-

l’uomo sulla macchina, mentre con l’introduzione del telaio meccanico nel 1810 e la comparsa dei primi filati artificiali nel corso avanzato di quel secolo, si aprono scenari nuovi che modificheranno radicalmente la costruzione del manufatto nell’iter completo della sua filiera produttiva, dalla creazione alla realizzazione, ponendo le basi dell’industria tessile contemporanea.

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Alla scoperta del patrimonio tessile in Emilia-Romagna



Alle origini del tessuto BEATRICE ORSINI

Vestirsi, una necessità e un’arte nata con l’uomo in dalle origini gli uomini hanno sentito l’esigenza di coprire il loro corpo per difendersi dalle rigide temperature invernali. Nel Paleolitico, epoca delle grandi glaciazioni, l’uomo cacciava gli animali per sfamarsi con la loro carne e, grazie a strumenti in pietra scheggiata come grattatoi e raschiatoi, tagliava, scarnificava e raschiava le pelli per realizzare abiti o costruire ripari. In base agli studi effettuati, sembra che l’abbigliamento utilizzato da gruppi di cacciatori-raccoglitori mesolitici che abitavano l’appennino bolognese, fosse costituito da una veste in pelle e un mantello a intreccio di erbe palustri, chiuso a rotolo sulle spalle, utile in caso di pioggia1 (Fig. 1). I rinvenimenti archeologici indicano che la tecnica a intreccio, considerata l’antecedente della produzione di tessuti a telaio, era già conosciuta nel Paleolitico2. Si eseguiva con il solo ausilio delle mani, sfruttando la flora locale come erbe palustri, graminacee, giunchi, fibre di tiglio, rametti di salice e altri. I fili semplici erano ottenuti mediante torsione di fibre elementari, mentre il filo ritorto consisteva nell’unione di più fili semplici sottoposti a ulteriore torsione, tecnica con cui si realizzavano corde impiegate nella costruzione di capanne e palizzate, immanicature di strumenti, cinture o bisacce3. Il tipo di intreccio più antico è sicuramente la rete connessa con le attività di pesca o impiegata per suppellettili di uso quotidiano come cesti per il trasporto di derrate e stuoie. Durante il Neolitico le fibre adatte alla filatura e alla tessitura venivano ricavate da molte specie vegetali. I rinvenimenti archeologici mostrano che le più utilizzate sono state quelle ottenute da libro di pianta (tiglio, quercia, olmo)4, così chiamate perché estratte da una pellico-

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la posta fra il legno e la corteccia di alberi o arbusti e le fibre da stelo quali lino, canapa e ortica, ottenute invece dalla parte periferica dei tessuti di conduzione della linfa. Dal libro di pianta si ricavavano fili di spessore diverso: i più grossi dalla corteccia, mentre quelli più sottili dal legno. Fra il Neolitico e l’età del Bronzo è inoltre documentato l’impiego di molte piante erbacee come le graminacee, i giunchi, la stipa, la ginestra e l’ortica, molto utile anche per la produzione di fili da cucitura. La canapa, dal cui fusto si ricavavano fibre per realizzare corde, tele e stuoie, sembra essersi diffusa in Italia solo a partire dall’età del Ferro. Un ulteriore approfondimento relativo all’utilizzo delle fibre vegetali è stato possibile grazie alla scoperta della mummia sul ghiacciaio del Similaun, rinvenuta con i resti degli indumenti che indossava al momento del suo decesso (fine del IV millennio a.C.)5. Egli aveva una tunica lunga fino al ginocchio e gambali di pelle (capra, orso bruno o cervo) uniti a un perizoma, che costituivano una sorta di pantaloni simili ai lessins degli Indiani del Nord-America. Gli abiti presentavano riparazioni e cuciture eseguite con tendini di animali (soprattutto bue) e con fibre vegetali. Attorno alla vita era legata una cintura in cuoio di vitello che conteneva strumenti per cacciare. Si deduce quindi che i capi base dell’abbigliamento di un uomo dell’età del Rame erano costituiti da un mantello, una tunica e una cintura. L’uomo di Similaun portava inoltre con sé numerose corde lavorate prevalentemente a rete di fibre vegetali e alcuni contenitori in corteccia di betulla. Le scarpe avevano una suola in cuoio di bue e un’imbottitura in paglia, mentre il capo era coperto da un berretto di forma ovale realizzato con pelli di camoscio, utile per affrontare le rigide temperature di montagna. Sulle spalle aveva un mantello a in-


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treccio di fibre vegetali, tecnica con cui erano realizzati anche il fodero di un pugnaletto in selce e una rete connessa con l’attività venatoria. La conservazione di tessuti e intrecci è possibile solo in presenza di particolari condizioni climatiche o in seguito al processo di mineralizzazione della fibra a contatto con strumenti in metallo. Si tratta però solo di piccole impronte6 dalle quali è difficile risalire alla foggia dell’abito o all’eventuale decorazione. I tessuti realizzati con fibre vegetali possono essere rinvenuti solo in terreni basici di ambiente umido come torbiere e laghi o in seguito alla distruzione di un villaggio a causa di un incendio. Il processo di carbonizzazione favorisce infatti la conservazione delle fibre vegetali mentre induce la fusione di quelle animali7. Queste particolari condizioni hanno permesso la conservazione di manufatti tessili in lino in alcuni siti del Neolitico finale (IV-III millennio a.C.) dell’Italia settentrionale connessi a strumenti in legno per la filatura e la tessitura (fusaiole e pesi da telaio)8. Le ricerche testimoniano infatti una notevole diffusione della coltivazione di questa pianta, nonostante la sua lavorazione preveda un ciclo abbastanza complesso che comprende: estrazione del seme, macerazione, gramolatura, scotolatura e pettinatura. La fibra che si ottiene è però molto robusta e in grado di essere sottoposta a filatura e tessitura. Lo strumento più diffuso in epoca neolitica è sicuramente la fusaiola9, piccolo peso in terracotta forato che, applicato all’estremità inferiore di un fusto in legno o metallo sul quale veniva avvolta la fibra (fuso), serviva a renderne regolare il movimento rotatorio impresso dalla mano della filatrice (Fig. 2). La sua forma più antica era a disco piatto, mentre quella biconica o piramidale a volte decorata con incisioni sembra essere più tarda. Il consistente aumento di questi strumenti in siti di epoca neolitica testimonia forse un cambiamento nel modo di vestire dovuto al progressivo abbandono dell’uso della pelle a favore dei tessuti di origine vegetale e animale. Questa evoluzione potrebbe essere confermata dalle statue-stele altoatesine10 databili al Neolitico finale. Si tratta di sculture antropomorfe in pietra sulle quali sono riprodotte più versioni di uno stesso capo di abbigliamento in modo molto particolareggiato. Questo aspetto sembra connesso a una funzione socio-culturale attribuita all’abito, che mostrava l’appartenenza dell’individuo a un determinato gruppo etnico. Le statue-stele maschili presentano un mantello realizzato con un materiale più consistente rispetto a quello dell’uomo del Similaun, identificabile con la lana. Due sembrano le tipologie decorative rappresentate: motivi a scacchiera e bande verticali,

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entrambi con aggiunta di frange, accennate da scanalature oblique incise sui fianchi delle statue. L’abito femminile è costituito da un indumento ad ampio panneggio molto sottile, forse in lino, che ne vela i seni, identificabile con una tunica o piuttosto con uno scialle appoggiato intorno al collo o sul capo a scopo ornamentale (Lagundo A e Arco III). L’abbigliamento era inoltre arricchito da monili quali collari e collane, pendagli a spirale e conchiglie, testimoniati nello stesso periodo anche nel nostro territorio11. A partire dal III millennio a.C. la lavorazione del lino sembra subire una battuta d’arresto in relazione all’incremento della lavorazione della lana, come rivela il cambiamento della forma dei pesi da telaio. L’aumento delle ossa di capre e pecore in molti siti testimonia inoltre che la lana in questo periodo era ottenuta dal vello di ovini. Questa fibra offriva una maggiore protezione dalle intemperie rispetto a quelle vegetali ed era facile da filare. Il vello della pecora infatti è composto da due tipi di pelo: la giarra che impermeabilizza l’animale e la borra più sottile che ha lo scopo di isolarlo dal freddo. Nel nostro territorio la presenza di fibre animali è documentata solo a partire dalla successiva età del Bronzo, sia per fattori climatici che per la particolare composizione dei terreni (paludosi e acidi)12. Queste furono probabilmente le condizioni che permisero la conservazione del frammento in lana databile fra il bronzo medio e recente, rinvenuto durante gli scavi ottocenteschi nel villaggio terramaricolo di Castione dei Marchesi in territorio parmense (Fig. 3). L’analisi delle fibre ha rivelato una grande quantità di peli (giarra) e una lanugine (borra) molto sottile, caratteristica della lana di questo periodo che non permetteva la realizzazione di tessuti morbidi. I fili di trama e di ordito presentano una debole torsione a Z e i peli più sottili, originariamente bianchi o grigi per assenza di pigmentazione, mostrano ora una colorazione bruna dovuta al prolungato contatto con il terreno13. Data l’esiguità e l’unicità del frammento, non è stato possibile ricostruire la foggia degli abiti diffusi durante l’età del Bronzo nel territorio emiliano-romagnolo. Si é ipotizzato che non dovessero discostarsi molto da quelli coevi rinvenuti nel nord Europa, con l’aggiunta di ornamenti e accessori di foggia locale. Il mantello, elemento tipico dell’abbigliamento maschile durante l’età del Rame viene ora chiuso sul petto da alamari o bottoni in osso e corno levigati, decorati con cerchi o triangoli tratteggiati14. Allo stesso modo la tunica lunga, simile al peplo greco, continua a far parte dell’abbigliamento femminile, come mostra la rappresentazione schematica incisa su di un cippo funerario (metà VIII a.C.) rinvenuto a Marzabot-


Alle origini del tessuto

to15. Una variante era costituita da gonna lunga, blusa e scialle fermato da due spilloni grandi, mentre quelli di dimensioni più piccole chiudevano la cintura in vita, entrata ormai a far parte anche del vestiario femminile. Ad essa si potevano appendere monili o numerosi pettinini in osso e corno con decorazione a incisione, rinvenuti nei siti terramaricoli emiliani 16. Una ricostruzione dell’abito tipico delle donne durante l’età del Bronzo è esposta accanto al telaio collocato all’interno di una delle capanne (abitazione B) del Parco archeologico di Montale17.

Gli abiti etruschi Per l’epoca etrusca l’abbigliamento si può ricostruire grazie alle pitture che decorano le pareti delle tombe e ai monumenti figurati. La produzione plastica del periodo arcaico ci restituisce molti esempi di nudità sia maschile che femminile, anche se non è certo che si trattasse di una consuetudine nella vita quotidiana. Il costume “eroico” del defunto banchettante scolpito sui coperchi dei sarcofagi e delle urne di epoca ellenistica indica che, fra il VI e il V secolo a.C., gli uomini avevano il torso nudo, con calzari ai piedi e berretti a punta sul capo. Nella maggior parte dei casi solo servi e atleti vengono rappresentati completamente nudi. Verso la fine del VI secolo a.C. il perizoma che copriva solo i fianchi viene ampliato divenendo un vero e proprio giubbotto, sostituito più tardi dalla tunica derivata dal chitone greco, anche in una versione corta fino al ginocchio, indossata da uomini e donne. Il mantello di forma rettangolare, utilizzato nelle epoche precedenti, viene ora confezionato con stoffe pesanti e colorate18 anche nella forma semicircolare che lasciava una spalla scoperta. Divenuto col tempo un capo unisex, acquisterà un’importanza sempre maggiore nell’abbigliamento etrusco, fino a diventare la veste per eccellenza, il cosiddetto tèbennos, da cui in epoca romana discenderà la toga. Come mostrano le raffigurazioni del tintinnabulo di Bologna (VIII-VII a.C.)19 e della Situla della Certosa (VII-VI)20, le donne continuano a indossare, come nel periodo arcaico, tuniche lunghe fino ai piedi, arricchite da pieghe o ricami, coperte da cappe o mantelli più o meno lunghi a volte con cappuccio. Questi erano fermati sulla spalla da fibule, tipo particolare di spille diffuse dalla fine dell’età del Bronzo sia in sepolture maschili che femminili. Oggetti simili dovevano essere, secondo la descrizione omerica, il “fermaglio d’oro con doppia scanalatura” decorato con un cane che tratteneva fra le zampe anteriori un cerbiatto screziato, a chiusura del “mantello purpureo di lana” indossato da Ulisse o le “dodici spille d’oro chiuse con ganci ricurvi” che ornavano il “peplo

bellissimo” donato a Penelope da Antinoo21. Varie sono le tipologie delle fibule realizzate in epoca villanoviana22; i corredi della prima fase testimoniano che la forma ad arco serpeggiante era riservata al sesso maschile, mentre quella elicoidale o a cordicella al sesso femminile, contraddistinto inoltre dalla presenza di oggetti distintivi (conocchie, rocchetti e fusaiole) del ruolo svolto dalla donna all’interno della casa (Fig. 4). Con la specializzazione della produzione metallurgica, gli oggetti si arricchirono in quantità e qualità. Nei corredi femminili di epoca orientalizzante compaiono conocchie con fusto in bronzo ricoperto da elementi in vetro, osso e ambra23 (Fig. 5) e fusaiole in pasta vitrea24. La loro fragilità aggiunta alla scarsa funzionalità denotano un uso assolutamente rituale e simbolico, come allusione all’antica arte della filatura e al controllo dei lavori domestici esercitati dalla padrona di casa di rango elevato. Le fibule possono avere l’arco rivestito con perle di vetro colorato (giallo, blu, ecc.) o con castoni di ambra e osso o semplicemente ingrossato e decorato a incisione25. Altri elementi indicano lo status sociale dell’individuo come le placche di cinturone a losanga con decorazione a sbalzo rinvenute in alcune tombe femminili di Verucchio e Bologna. Un unico esemplare in corno di cervo con decorazione a incisione proviene dal sepolcreto di San Vitale di Bologna26. Fra i modelli bronzei rinvenuti nel sepolcreto Benacci (Bologna), meritano invece particolare menzione due esemplari27: uno di forma rettangolare con catenelle pendule e l’altro con ricca decorazione a volute e motivi che rimandano a culti solari (dischi e teste di cigno). L’abbigliamento era completato infine da zoccoli28 e stivaletti, ma le calzature etrusche più famose furono sicuramente quelle che i Romani chiameranno calcei repandi. Si trattava di babbucce curve e colorate, forse di panno, con le punte rivolte in alto e la parte posteriore molto rialzata, indossate ad esempio dalla donna scolpita sul sarcofago degli Sposi29. Il capo era coperto da un berretto a cupola di stoffa ricamata di origine orientale, chiamato tutulus30, comune sia agli uomini che alle donne. Altre forme di copricapi erano il berretto a punta rigida o a cappuccio indossato da personaggi importanti (tomba degli Auguri); il berretto di lana o di pelle con base larga e punta cilindrica portato dagli aruspici e infine il cappello a larghe falde alla greca (pètasos) che sembra particolarmente diffuso nell’Etruria settentrionale (figure di terracotta della decorazione architettonica di Poggio Civitate di Murlo; flautista della tomba della Scimmia di Chiusi) e nell’Italia del nord (arte delle situle). L’abbigliamento era inoltre impreziosito da gioielli (diademi, orecchini in oro,

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BEATRICE ORSINI

collane, braccialetti, anelli) o ganci di cintura decorati a incisione o con inclusioni in ambra32 e pettorali.

Filare e tessere nell’antichità: una prerogativa femminile Nell’antichità filatura e tessitura erano considerate occupazioni tipicamente femminili e, in quanto tali affidate alla padrona di casa, mentre all’uomo spettava il compito di combattere. Le evidenze archeologiche indicano spesso una differenziazione fra filatrici e filatrici-tessitrici che riflette probabilmente un diverso status sociale. L’arte della tessitura era infatti compito della mater familias, cioé della padrona di casa, come confermano le raffigurazioni del trono di Verucchio33 (VIII-VII secolo a.C.) e del tintinnabulo di Bologna (ultimo quarto del VII secolo a.C.) sulle quali la domina tesse stando seduta su di un piccolo trono mentre soprintende le ancelle. Sia fonti scritte (poemi omerici), che raffigurazioni su vari tipi di oggetti, mostrano donne aristocratiche e dee impegnate in queste attività. La regina Elena confeziona nel palazzo di Priamo una tela con scene di combattimento fra Greci e Troiani, funesta anticipazione degli eventi successivi34, mentre Andromaca, moglie di Ettore, “tesseva una tela grande doppia del colore della porpora e vi ricamava sopra fiori variopinti”35. Numerosi sono inoltre i doni di tessuti: come il peplo offerto dalla regina Elena a Telemaco per la sua sposa o il mantello (laena) in porpora fenicia con fili d’oro donato da Didone a Enea36. Famosa è inoltre la tela che Penelope tesseva “finché il giorno splendea” e disfaceva di notte37 aspettando il ritorno del marito. Omero sembra collegare inoltre la tessitura al canto riferendosi alla maga Circe che “cantava con bella voce all’interno mentre lavorava al telaio una tela grande e divina”38 e alla ninfa Calipso che “con bella voce cantando muovendosi davanti al telaio tesseva con l’aurea spola”39. L’abito aveva inoltre una valenza sacrale, come dimostra il peplo realizzato in occasione delle Arreforie per la dea Atena lei stessa tessitrice. L’attività tessile si lega anche alla mitologia: ben noto è il mito della fanciulla Aracne40, abile in quest’arte che, non volendo riconoscere di aver ricevuto dalla dea le sue doti straordinarie, osò sfidarla in una gara e fu vinta. La fanciulla, trasformata in ragno, fu condannata a trarre da sé stessa il filo con il quale “ritesse l’antica tela”. Nella Roma dei primi re la donna continua a essere indicata come domina lanifica, caratteristica con cui Plinio41 descrive Tanaquilla, moglie etrusca di Tarquinio Prisco.

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Fusi, pesi e telai La realizzazione dei tessuti avveniva attraverso la filatura, durante la quale si producevano i fili e la tessitura a telaio, con cui si intrecciavano i fili in modo da ottenere la stoffa. La materia prima era fornita in buona parte dal pelame degli animali da allevamento, soprattutto ovini, che l’uomo provvedeva a tosare. Le operazioni preliminari consistevano nel lavaggio della fibra che eliminava le impurità e nella successiva cardatura eseguita con un pettine che serviva a porre tutte le fibre nella stessa direzione, eliminando contemporaneamente le materie eterogenee, per formare una specie di nastro con spessore uniforme42. A questo punto il filato poteva essere tinto con le piante disponibili nel territorio circostante. Le analisi archeobotaniche condotte nel sito della terramara di Montale hanno confermato la presenza nel territorio di corniolo, sambuco e vite selvatica da cui si potevano ricavare colori che andavano dal giallo al bruno fino al violetto43. Il filato, avvolto su di un fusto in legno o metallo (conocchia)44, era pronto per la filatura con fuso e fusaiola. Tale operazione viene sapientemente descritta da Catullo45 in un passo relativo alle Parche: “La sinistra teneva la conocchia coperta di morbida lana, la destra, leggermente tirando i fili, li formava con le dita supine, mentre col pollice supino torceva le fibre e faceva ruotare il fuso librato in aria dalla fusaiola. Al tempo stesso i loro denti, staccando le asperità, senza posa rendevano uniforme il filo e alle labbra disseccate aderivano le fibre della lana che dianzi fuoriuscivano dalla superficie compatta del filo; ai loro piedi i flosci bioccoli di candida lana empivano corbe di vimini”. La filatrice teneva dunque la conocchia nella mano sinistra e cominciava a tirare una piccola quantità di materia da filare con indice e pollice. La arrotolava poi con le dita, fissandola all’estremità superiore del fuso mediante un nodo e, tenendo lo strumento tra il pollice e l’indice della mano destra, vi imprimeva un rapido movimento rotatorio, operazione che ripeteva ogni qual volta esso tendeva a fermarsi. Quando il fuso era pieno, la filatrice avvolgeva il filato attorno a un rocchetto, strumento d’impasto con corpo cilindrico leggermente concavo, estremità espanse a profilo convesso e capocchia a volte decorata, per facilitare il riconoscimento delle lunghezze e degli spessori dei fili. L’operazione successiva era la tessitura realizzata a telaio. Le ricerche hanno dimostrato che il modello più antico è quello verticale a pesi, la cui struttura in legno non si è conservata, ma é ricostruibile grazie al rinvenimento di strumenti (pesi) ad esso collegati, allo studio delle tecni-


Alle origini del tessuto

che di esecuzione dei frammenti tessili rinvenuti e alle iconografie. I pesi avevano generalmente forma di piramide tronca, più frequentemente cilindrica o a disco ingrossato, con la superficie inferiore piana e la superiore leggermente convessa. La loro disposizione a volte su due file parallele ne ha indicato l’ubicazione esatta all’interno della casa, permettendo inoltre di risalire alla sua larghezza. Il telaio solitamente era appoggiato a una parete nei pressi del focolare, luogo in cui si svolgevano le principali attività domestiche. In base agli studi sembra che la sua larghezza da montante a montante variasse dal metro e mezzo ai due metri, come ha evidenziato ad esempio la distanza fra i pesi rinvenuti nella terramara di S. Rosa a Fodico di Poviglio (Reggio Emilia). Il villaggio piccolo ne ha restituiti sette disposti su due file (Bronzo Medio), che hanno rivelato la presenza di un telaio di m 1,70 ca., mentre l’allineamento dei dodici pesi (Bronzo Recente) del villaggio grande ha suggerito la presenza di un secondo telaio largo m 1,60 ca46. Due ricostruzioni larghe rispettivamente m. 1,20 e cm 1,6047sono esposte a titolo esemplificativo all’interno delle abitazioni del Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale (Modena). Il telaio dell’abitazione A, datata alla fase iniziale dell’insediamento (bronzo medio), è stato armato con un tessuto di lana a tela di fondo di colore bruno e trama supplementare in rosso-arancio. Il secondo, esposto nell’abitazione B, databile a una fase più recente (fine del bronzo medio), ha invece un ordito di lino naturale con trama supplementare in rosso e azzurro (Fig. 6). Fra le prime immagini di telai verticali ricordiamo le schematiche incisioni di epoca preistorica48 e le rappresentazioni più particolareggiate di epoca villanoviana (tintinnabulo di Bologna e trono di Verucchio) e classica (vasi a figure nere e rosse)49. Si tratta di rappresentazioni fedeli di tutti gli elementi che compongono il telaio: le due barre laterali, la barra trasversale di aggancio dell’ordito, la barra dei licci, il bastone separatore e i pesi. La sua struttura era quindi costituita da un’intelaiatura in legno sulla quale si fissavano i fili verticali (ordito) tenuti in tensione da pesi. Il lavoro della tessitrice consisteva nel tenere separati alternativamente i fili pari da quelli dispari con una stecca (il liccio). Nel varco che ogni volta si apriva fra le due serie (pari e dispari), venivano passati bastoncini e spolette con il filo orizzontale (trama) che in questo modo intrecciava perpendicolarmente l’ordito, formando la parte trasversale del tessuto. Tra un passaggio e l’altro la tessitrice usava probabilmente un pettine in osso o corno per spingere le fibre le une vicine alle altre e dare consistenza alla stoffa50.

La rappresentazione del ciclo di lavorazione della lana é rappresentata sul tintinnabulo di Bologna, che esalta l’attività principale della padrona di casa. L’oggetto, in lamina di bronzo sbalzata (altezza cm 11,5) è stato rinvenuto in una ricca sepoltura femminile nella necropoli dell’Arsenale Militare di Bologna (Fig. 7). Il registro inferiore del lato A raffigura due donne elegantemente vestite, sedute su piccoli troni, nell’atto di avvolgere il filato sulle conocchie da affidare alla filatrice rappresentata nel riquadro superiore. Nella parte inferiore del lato B altre donne preparano l’ordito su di un orditoio formato da sei pioli verticali, allo scopo di ottenere fili di uguale lunghezza. Nel registro superiore è rappresentata invece la tessitura vera e propria: una donna seduta su di un piccolo trono lavora a un alto telaio verticale assistita da un’ancella. La decorazione é arricchita da motivi ornamentali come palmette e rosette secondo un gusto tipicamente orientalizzante. I tessuti così ottenuti venivano cuciti per creare abiti con aghi in legno o più spesso in osso, ricavati da mammiferi domestici come il bue, il maiale, la capra o la pecora, che avevano il pregio di essere molto resistenti ai processi di usura51. Gli abiti indossati dalle donne rappresentate sul tintinnabulo di Bologna (VIII-VII a.C.) e sulla Situla della Certosa (VII-V a.C.), testimoniano inoltre la diffusione di stoffe con disegno a rete realizzato probabilmente a ricamo, con cui si confezionarono almeno fino al V secolo a.C. sia tuniche che mantelli. Le evidenze archeologiche di epoca villanoviana dimostrano inoltre che i tessuti erano arricchiti con perle in pasta vitrea e ambra rinvenute in molti corredi femminili particolarmente ricchi52. Probabilmente servivano allo stesso scopo le otto placchette in argento dorato provenienti dalla necropoli Aureli di Bologna. Esse raffigurano teste umane dal volto triangolare con acconciature di tipo egiziano, assimilabili ad alcuni pendagli vetuloniesi (fine VII- inizi VI) come dimostrerebbero le terminazioni a gancio di due esemplari. Le altre invece dovevano essere cucite sull’abito come indicano le perforazioni presenti lungo i bordi53. Da questa ricostruzione si comprende come fin dall’età del Bronzo le tecniche di filatura con fuso e rocca (conocchia) e tessitura a telaio abbiano raggiunto un livello molto avanzato, gettando le basi per quello che in epoche recenti diventerà il vero e proprio artigianato tessile. Nel corso del tempo il telaio fu modernizzato divenendo meccanico; nonostante questo le antiche tecniche per la fabbricazione dei tessuti continuarono a essere praticate nelle campagne all’interno dell’ambiente domestico, almeno fino al secolo scorso.

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BEATRICE ORSINI

NOTE 1

Ricostruzione di un cacciatore-raccoglitore di epoca mesolitica, San Lazzaro di Savena (BO), Museo della preistoria “Luigi Donini”.

2 Frammento di corda mineralizzata rinvenuto nelle grotte di Lascaux (Paleolitico francese). 3 M. Bazzanella, A. Mayr, L. Moser, A. Rast-Eicher, Textiles, Intrecci e tessuti dalla preistoria europea, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Archeologici, 2003 Trento, pp. 79-86. 4

Per estrarre le fibre dal libro della pianta si sceglieva un albero con tronco dritto e privo di rami bassi. Un intaglio nella parte bassa facilitava l’asportazione della corteccia. Questa veniva poi immersa nell’acqua per separare la fibra (macerazione). In base agli studi risulta che la più sfruttata fosse la pianta del tiglio, impiegata anche in epoca romana come ha dimostrato il cordolo di stagnatura dello scafo della nave romana di Comacchio (I a.C.). 5

La mummia fu scoperta casualmente nel 1991 e ora è conservata nel Museo Archeologico dell’Alto Adige, Bolzano/Südtiroler, Archäologiemuseum, Bozen. 6 La collezione “Gaetano Chierici” dei Musei Civici di Reggio Emilia con-

serva un pugnale triangolare in rame (Bronzo Recente) con tracce di mineralizzazione di un tessuto, probabilmente lino, proveniente dalla tomba 78 della necropoli del Remedello Sotto (Brescia). Il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena conserva invece due coppie di fibule con arco a navicella (VII a.C.) provenienti da Chiusi, tre delle quali presentano tracce di tessuto mineralizzato, (in corso di studio). Altri oggetti con tracce di tessuto mineralizzato sono stati rinvenuti in alcune sepolture della necropoli di Monte Tamburino a Monte Bibele (V-IV sec.a.C.). 7 Op. cit., 2003, pp. 47-53. 8

Il ritrovamento di questi strumenti tessili aumenta a partire dal Neolitico finale: (Lagozza (VA), Isolino di Varese (VA) e Settefonti (PN).

9 Numerose fusaiole fittili provengono dai siti terramaricoli di Montale

(MO) e Castione dei Marchesi (PR). 10 Le statue stele di Lagundo sono conservate al Museo Archeologico del-

l’Alto Adige, Bolzano/Südtiroler, Archäologiemuseum, Bozen. 11

La Grotta del Farneto nella valle dello Zena ha restituito denti di carnivori forati e conchiglie fossili di Cardium, Pectunculus e Dentalium, utilizzati come ornamenti, Bologna, Museo Civico Archeologico.

20 La situla della Certosa fu rinvenuta nella tomba 68 della necropoli del-

la Certosa e raffigura su più registri una processione di donne velate e uomini con cappello a larga tesa che portano oggetti di vario tipo. Bologna, Museo Civico Archeologico. 21 Hom., Od. XIX; XVIII, 292-294. 22 Le fibule di epoca villanoviana sono di varie tipologie: ad arco ritorto, ad arco serpeggiante, con staffa a disco, con arco rivestito, con arco ingrossato o ribassato, a sanguisuga, a navicella, con arco configurato 23 La conocchia in bronzo con fusto ricoperto da elementi in ambra pro-

viene da molti corredi di Bologna e Verucchio (RN). 24

Ricordiamo ad esempio cinque fusaiole in vetro blu o bruno con decorazione in giallo (VII secolo a.C.), tombe 15, 38,90 necropoli De Luca e necropoli dell’Arsenale militare, Bologna, Museo Civico Archeologico.

25 Le fibule a castoni in osso e ambra sono state rinvenute in varie sepolture di Bologna e Verucchio (RN). 26

Un unico esemplare di placca di cintura in osso decorato proviene dalla tomba 491 del sepolcreto di via San Vitale (BO), Bologna, Museo Civico Archeologico.

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Tre sepolture (tomba 543, 907, 801) del sepolcreto Benacci (BO) hanno restituito tre placche di cintura a losanga in bronzo, Bologna, Museo Civico Archeologico. 28 Le tombe arcaiche di Bisenzio hanno restituito sandali in forma di zoccolo ligneo snodato con rinforzi di bronzo. 29

Il Sarcofago cosiddetto “degli Sposi” risalente al VI a.C. è stato rinvenuto a Cerveteri, Museo Etrusco di Valle Giulia. Rappresenta due coniugi sdraiati sul letto coniugale: la dama porta ai piedi le scarpe a punta dette “calcei repandi” e in testa il “tutulus”, caratteristici capi di abbigliamento di origine orientale. Ha lunghe trecce che le scendono anche sul petto ed è vestita di tunica e manto.

30 Il tutulus è un berretto o sacchetto a cupola di stoffa ricamata. 31 Il petasos viene indossato da figure di terracotta della decorazione ar-

12 Op. cit., 2003, pp. 47-53.

chitettonica di Poggio Civitate di Murlo, dal flautista della tomba della Scimmia di Chiusi e dalle figure maschili della situla della Certosa.

13 Op. cit., 2003, p. 200.

32

14 Il sito di Montale ha restituito alcuni alamari in corno con decorazio-

Quattro ganci di cintura sono stati rinvenuti nella necropoli Arnoaldi di Bologna, Bologna, Museo Civico Archeologico.

ne a cerchietti o lisci e un bottone in osso con decorazione a denti di lupo; alcuni alamari sono stati rinvenuti anche nella terramara di S. Rosa a Fodico di Poviglio (RE).

33 Un particolare della decorazione del trono ligneo di Verucchio (tomba 89) raffigura scene di filatura e tessitura, Verucchio (RN), Museo Civico Archeologico.

15

34 Hom., Il., III, 125-128.

Il segnacolo appartiene alla tomba E di Pian di Venola, Marzabotto (BO), Museo Nazionale Etrusco “Pompeo Aria”. 16

Numerosi pettinini in corno di cervo con decorazioni geometriche sono stati ritrovati in molti siti terramaricoli emiliani: Castione Marchesi (38), Montale (11) e Poviglio (8). 17

Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale, Modena, Comune di Modena Museo Civico Archeologico Etnologico, 2004, pp. 88-93

18 Mantelli ricamati compaiono sulla Situla della Certosa, Bologna, Mu-

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dell’Arsenale Militare, Bologna. Il nome deriva dalla convinzione che si trattasse di piccoli gong poiché rinvenuti accanto a piccoli mazzuoli. In realtà si tratta di pendagli cerimoniali che per la preziosità del materiale e la forma, dovevano essere un segno di particolare prestigio per le donne che li indossavano. Bologna, Museo Civico Archeologico.

35 Hom., Il, XXII. 36 Verg., Aen., IV, 261-264. 37 Hom., Od., II. 38 Hom., Od. X, 220-224. 39 Hom., Od. V, 61-62. 40 Ov., met. VI 1-145. 41 Plin. nat.VIII, 94.

seo Civico Archeologico.

42 Op. cit., 2003, pp. 79-95.

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43 Op. cit., 2004, pp. 62-65.

Il tintinnabulo proviene dalla tomba 5 detta “degli Ori”, necropoli


Alle origini del tessuto

44 La conocchia è uno strumento in legno o metallo con la cima larga. Il

49 Skyphos attico a figure rosse di Chiusi, conservato al Metropolitan Mu-

modello con fusto in lamina di bronzo e capocchia conica a ombrellino contraddistingue a partire dall’VIII sec. a.C. le sepolture femminili di ceto elevato.

seum, raffigurante Penelope al telaio (metà V sec. a.C.); skyphos beotico a figure nere con Circe e Odisseo (fine V sec. a.C.); il lekythos a figure nere del “pittore di Amasis” con scene di produzione dei tessuti (seconda metà VI sec. a.C.).

45 Catull., LXIV, 311-319 “Laeva colum molli lana retinebat amictum dex-

tera tum leviter deducens fila supinis formabat digitis: tum prono pollice torquens Libratum tereti versabat turbine fusum: Atque ita decerpens aequabat semper opus dens Lanaeque aridulis haerebant morsa labellis, quae prius in leni fuerant extantia filo: ante pedes autem candentis mollia lanae vellera virgati custodiebant calathisci”. 46 M. Bernabò Brea, L. Bronzoni, M. Cremaschi, S. Costa, Gli scavi nella ter-

50 Oggetti in legno a forma di spada costituiti da una tavola sottile terminante a punta smussata (cm 40-50) e manico corto collegati alle attività tessili rinvenuti a Castione dei Marchesi (PR). 51 La terramara di S. Rosa di Poviglio (RE) ha restituito un ago d’osso sot-

tile e ben levigato di cm 8,6; il sito di Montale ha restituito un esempio ricavato da una scheggia in osso.

ramara Santa Rosa a Fodico di Poviglio: guida all’esposizione, Castelnovo di Sotto, 1999.

52

47 Op. cit., 2004, pp. 88-93.

53 Si tratta di uno dei rari esempi di oreficeria testimoniati nelle tombe

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orientalizzanti bolognesi proveniente da un corredo femminile di particolare ricchezza.

Si tratta di incisioni sulle rocce di Naquane (media età del Bronzo), Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri Naquane (BS).

Perline in pasta vitrea e ambra provengono da molti corredi di Verucchio (RN).

FONTI Homerus, Odyssea, Ilias Q. Horatius Flaccus, Satirae P. Ovidius Naso, Ars Amatoria C. Plinius Secundus, Naturalis Historia P. Vergilius Maro, Aeneidos libri XII

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I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle necropoli villanoviane di Verucchio PATRIZIA VON ELES (a cura di)

Premessa e necropoli villanoviane di Verucchio, note fin dalla fine del secolo diciannovesimo ed esplorate in modo relativamente esteso da G.V. Gentili tra il 1969 e il 19721, oltre a rappresentare uno dei maggiori centri villanoviani dell’Italia Settentrionale, sono ben note per l’eccezionale conservazione degli oggetti in sostanze organiche: legno, vimini, resti di offerte alimentari, tessuti. L’importanza di questi rinvenimenti non risiede solo nella conoscenza sia morfologica che tecnologica di classi di materiali fin qui noti per lo più solo da rappresentazioni figurate, in gran parte di periodi successivi, ma anche nella possibilità di indagare aspetti culturali e rituali, che di norma, specie in assenza di modalità di scavo estremamente complesse, sfuggono all’indagine o nella migliore delle ipotesi possono solo essere indirettamente ipotizzati. È il caso, ad esempio, della “vestizione del cinerario” che rappresenta simbolicamente il corpo del defunto distrutto dal fuoco sulla pira, e che pertanto viene vestito e adornato di gioielli o armi. In particolare lo studio analitico di una delle più ricche sepolture della Necropoli Lippi, la tomba 89/1972, detta anche “Tomba del Trono”, primo risultato di un progetto di documentazione sistematica delle necropoli verucchiesi2, ha permesso di affrontare in modo approfondito alcuni di questi aspetti, e a quella pubblicazione si rimanda anche per l’analisi dettagliata dei tessuti finora studiati. In questa sede ci si limita a riproporre i dati essenziali emersi dallo studio degli abiti e dei resti tessili rinvenuti nella tomba cui sopra si accennava e a proporre alcune considerazioni e spunti di lavoro suggeriti dalla ricerca sistematica in corso sulle necropoli di Verucchio: spunti che riguardano sia le tecniche e gli strumenti di lavora-

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zione che i ruoli sociali legati ai diversi tipi di attività. La diversa distribuzione degli strumenti rispetto alla loro funzione, alla quantità, e ancora alla loro realizzazione in materiali di prestigio, talvolta non concretamente utilizzabili, lascia intravedere la possibilità di operare distinzioni significative, specie se le indicazioni archeologiche vengono messe in relazione ai risultati delle analisi antropologiche riguardanti l’età. Un altro aspetto emerso nello studio dei tessuti e legato agli aspetti tecnici è quello degli “strumenti” utilizzati nei processi di lavorazione: telai, fusaiole e rocchetti, fusi e conocchie e altro. Poco è stato fatto finora per comprendere esattamente la funzionalità di questi strumenti al punto che non vi è certezza sulle modalità d’uso e quindi non si dà spiegazione per differenze che pure evidentemente non sono solo formali. Di seguito proponiamo alcune considerazioni riguardanti l’uso dei diversi strumenti da filatura e tessitura anche in relazione a rango e ruoli. Patrizia von Eles

Gli strumenti per tessere e filare: telaio verticale, telaio a tavolette, telaio a tensione, rocchetti e fusaiole. Alcune considerazioni Il telaio più noto per il mondo antico, fin dalla preistoria, è il tipo verticale, coi pesi collegati al filo di ordito, documentato da fonti archeologiche e iconografiche in tutto il bacino del Mediterraneo3. Nella cultura villanoviana, il suo utilizzo in ambito domestico è testimoniato dal ritrovamento, in contesti abitativi (Acquarossa, Murlo, Roselle, Lago dell’Accesa), dei caratteristici pesi fittili tron-


PATRIZIA VON ELES

copiramidali. È probabile che, pur nella sostanziale omogeneità della struttura generale, esistessero diversi generi di telai verticali, per la produzione di tessuti molto differenti sia per il tipo di fibre utilizzate (di origine animale o vegetale), che per le tecniche di realizzazione. Tuttavia, come ha fatto notare Marjatta Nielsen4, nella pubblicazione di questi materiali si trascura spesso di riportare il peso dei singoli esemplari, che risulterebbe fondamentale per stabilire con maggiore precisione l’esistenza di differenti tipi di tessuti e delle relative tecniche produttive. È noto infatti che, accanto alla realizzazione di abiti (che già di per sé potevano essere di qualità molto varia), esistevano produzioni legate agli usi più disparati: ad esempio tessuti per vele, per tende o per libri lintei, alcuni dei quali avranno probabilmente richiesto telai più robusti e pesi più massicci di quelli utilizzati per i tessuti raffinati destinati all’abbigliamento aristocratico.5 A questi dati, che già presuppongono un’ampia articolazione della produzione tessile ordinaria, si aggiungono ulteriori informazioni, provenienti prevalentemente dalla documentazione iconografica. Nonostante dovesse essere il tipo più diffuso anche nel mondo villanoviano per la produzione tessile domestica (o forse proprio per questo motivo), il tradizionale telaio verticale non è presente nelle scene di tessitura a noi note, contrariamente a quello che accade in Grecia, dove le sue rappresentazioni, conosciute fin dalla metà del secondo millennio, sono ampiamente attestate nella pittura vascolare dal VII al IV secolo a.C.. Sia sul tintinnabulo di Bologna che sul trono della tomba Lippi 89/1972 di Verucchio, infatti, ci troviamo in presenza di telai verticali di tipo particolare (molto alti, utilizzati da una sola persona seduta su un piano rialzato o da due persone che lavorano contemporaneamente su tessuti diversi), che hanno fatto ipotizzare una loro destinazione cultuale e un utilizzo fuori dall’ordinario6 (Fig. 9). Sempre a Verucchio, la tomba Moroni-Semprini 24 ha restituito un piccolo telaio di legno in cui, al momento del ritrovamento, erano ancora presenti resti di fibre di lana dell’ordito7. La tomba, eccezionale per la ricchezza e la peculiarità del corredo, doveva appartenere a una tessitrice di rango, che utilizzava uno strumento particolare, probabilmente preposto alla produzione di tessuti piuttosto elaborati, forse secondo speciali tecniche (per le quali si veda infra). La documentazione nota, già a questo primo livello di analisi, permette dunque di identificare una complessa articolazione all’interno di quella che viene normalmente definita “filatura e tessitura”.

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Queste due attività, infatti, in quanto principali occupazioni delle donne, attraversavano tutti i livelli sociali, articolandosi su piani differenti sia per le tecniche esecutive che per l’importanza sociale e il significato simbolico che tali operazioni potevano acquisire in determinati contesti. Per cercare di comprenderli, occorre analizzare, sulla base dei dati in nostri possesso, ruolo e rango delle filatrici/tessitrici da una parte, tecniche e modalità della filatura/tessitura dall’altra. All’interno della “produzione ordinaria” di tessuti, in ambito domestico, dovevano esistere diversi livelli di competenze e specializzazioni, probabilmente articolati secondo una precisa gerarchia familiare (es. la mater familias sovrintendeva all’attività delle altre donne della casa, forse le giovani, che, secondo alcune ipotesi8, erano le più adatte alla tessitura, molto impegnativa anche dal punto di vista fisico. Non si esclude naturalmente, in questo contesto, anche la presenza di manodopera servile9). In ambito aristocratico, la stessa mater familias, oltre a sovrintendere alla produzione domestica, fondava la propria immagine sociale e familiare anche sulla superiorità tecnica rispetto alle altre donne, dedicandosi ad una produzione tessile di altissimo livello, che, nei corredi funerari, viene indicata con l’esibizione di uno strumentario prezioso, quali fusaiole, fusi o conocchie di metallo e di ambra. Per questi ultimi utensili, in particolare, si pone il problema di una corretta identificazione dal punto di vista funzionale. Nella identificazione delle conocchie infatti non si tiene in considerazione il fatto che, per essere utilizzate come tali, esse devono poter sostenere la fibra da filare e nello stesso tempo devono lasciare spazio per la mano che le impugna. Ciò significa che le cosiddette “conocchie a ombrellino” in bronzo10, caratterizzate da uno stelo estremamente corto, sono probabilmente fusi, mentre vanno interpretati come conocchie altri oggetti spesso non identificati o finora ritenuti spilloni11. Similmente sono da collegare alla presenza di fusi anche i cosiddetti “spilloni a rotella” presenti in tombe femminili12. Altri strumenti, più rari, sono stati ricondotti da Lise Ræder Knudsen alla tessitura a tavolette e da lei stessa sperimentalmente testati (si veda infra). Oltre a essere deposti nei corredi tombali come indicatori di rango, questi strumenti, o alcuni di essi, potevano forse essere utilizzati realmente per operazioni di estrema raffinatezza tecnica e qualitativa come ad esempio la “seconda filatura”13. All’interno di questa produzione di altissimo livello, appannaggio delle aristocrazie, si può attuare un’ulteriore distinzione tra le tecniche e le modalità di esecuzione, in


I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle necropoli villanoviane di Verucchio

base al significato che si voleva conferire a quanto realizzato. Come precedentemente accennato, esistevano forme di tessitura “rituale”, riservate esclusivamente ad alcune figure femminili, di indubbia ascendenza aristocratica, la cui attività si connotava di implicazioni religiose e sacrali. Se dal punto di vista puramente tecnico, la produzione di “tessuti sacri” non doveva discostarsi molto da quella dei raffinati tessuti realizzati dalle donne aristocratiche, ciò che la contraddistingueva erano le particolari modalità di esecuzione, dettate non tanto da esigenze pratiche, quanto da motivazioni rituali. Alcune di queste modalità, come ad esempio la scelta delle fibre da utilizzare, che doveva avere certamente un’importanza fondamentale, sono per noi impossibili da verificare14. Per altri dettagli più propriamente operativi, invece, le fonti iconografiche e le analisi sui tessuti superstiti possono fornire alcune informazioni: ad esempio la necessità che il tessuto, anche di grandi dimensioni, fosse realizzato da una sola persona, a costo di soluzioni decisamente “scomode” e artificiose, come gli altissimi telai cui si è fatto cenno. Può sembrare strano, a questo punto, che nei corredi tombali femminili di Verucchio, mentre sono ampiamente presenti gli strumenti tradizionalmente legati alla filatura (fusaiole, conocchie e fusi), manchino quasi completamente i pesi da telaio, unica testimonianza materiale dell’uso di questo strumento da parte della defunta (se si esclude un telaietto della necropoli Moroni). A Verucchio, si conosce un solo esemplare di peso troncopiramidale da un contesto tombale15. A questo proposito è stato avanzata da più parti16 l’ipotesi che la stessa funzione potesse essere svolta, in alternativa, dai rocchetti, che, al contrario, sono ampiamente diffusi nei corredi. In tal caso, rispetto ai pesi troncopiramidali, essi avrebbero offerto il vantaggio di potere svolgere il filo in modo progressivo, man mano che veniva utilizzato nella tessitura17. Sembrerebbero particolarmente adatti a questo scopo alcuni esemplari, presenti a Verucchio, che hanno un foro pervio trasversale al fusto. A questo proposito va ricordato che simili oggetti sono presenti anche in ambito piceno, ma con un foro che, partendo dal centro di una capocchia, scende obliquamente e fuoriesce lateralmente sul fusto18. Anche in questo caso bisogna ipotizzare che i telai con i rocchetti e i telai con i pesi troncopiramidali non dovessero essere preposti alla produzione degli stessi tessuti (i pesi, mediamente, sono più grandi e pesanti dei rocchetti), così come è lecito pensare che i rocchetti verucchiesi, con foro trasversale, avessero forse un uso differente rispetto a quelli di Novilara, con foro longitudinale obliquo.

Non si può poi neppure escludere che le fusaiole potessero avere un ruolo anche nella tessitura19, forse come piccoli pesi per telai. A questo proposito, va notato che alcuni esemplari hanno fori estremamente ristretti, che sembrerebbero più adatti all’inserimento di un filo, piuttosto che a quello di un fuso. Per la tessitura a tavolette si rimanda all’intervento di Lise Ræder Knudsen, infra. Il telaio a tensione ha una struttura molto semplice e poco ingombrante, di origine antica, ma tuttora utilizzato in Asia, Africa, America e Nuova Zelanda20. La tensione dell’ordito è assicurata, anziché dal fissaggio di pesi, dal corpo stesso della tessitrice, mediante una fascia che le avvolge la vita, mentre l’altro capo del telaio viene assicurato a un elemento fisso come un albero, un palo o semplicemente ai piedi. Talvolta questo tipo di telaio può presentare delle “bacchette portamaglie” per la realizzazione di tessuti con struttura complessa. Per la semplicità del suo impianto, esso non lascia in genere tracce archeologiche, né, a quanto pare, risulta attestato nell’iconografia dell’Europa Occidentale. Il suo utilizzo è stato tuttavia di recente dimostrato per la fabbricazione della fascia decorata di Molina di Ledro21, datata al Bronzo antico. È dunque ipotizzabile che il suo uso fosse diffuso anche in ambito villanoviano. A questo proposito, si può anche pensare che il citato telaietto della tomba Moroni-Semprini, piuttosto che una versione miniaturizzata del tipo verticale, sia ciò che rimane di un vero e proprio telaio a tensione. Carlotta Bendi

I tessuti della tomba Lippi 89/1972 I tessuti rivestono in molte culture il significato di status symbol sia nell’ambito quotidiano che in quello funerario: in questa prospettiva i numerosi reperti tessili provenienti da diverse tombe di Verucchio ci forniscono una prima chiave di interpretazione sul significato e l’uso dei tessuti in Italia nella fase orientalizzante. Poter analizzare concretamente tessuti originali e parati cerimoniali ci permette di vedere come sia effettivamente avvenuta la realizzazione dei tessuti, quali materiali, colori e tecniche siano stati usati ed in quale contesto si trovino determinate qualità di tessuti. Tra i materiali organici, i tessuti, avendo un’estrema caducità, non hanno quasi alcuna chance di sopravvivenza nell’ambito sepolcrale. Fra i resti tessili della t. 89/1972 un primo gruppo include i tessuti bruciati con il defunto sul rogo, rinvenuti nell’urna, assieme a ceneri, resti di carbone e ossa. Si tratta di

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circa 160 frammenti classificabili in 12 tipi diversi tutti in lana e quasi tutti tinti in rosso o blu. I tessuti dovevano essere stati piegati ordinatamente prima di venire posti sul rogo ma non è stato possibile trovare indicazioni più concrete sulla loro funzione originale; l’uso del colore, la finezza e la qualità del filato indicano che si tratta di tessuti preziosi pertinenti sia ad abiti che a teli e coperte. Molto particolare la presenza di tessuti con pelo: si tratta di una tecnica conosciuta soprattutto in Medio Oriente ed in Egitto dove era usata per tessuti relativamente spessi pertinenti ad abiti, coperte e cuscini. A Verucchio sono stati ritrovati parti di abiti con tessuto con il pelo, molto fini, sia in tombe maschili, sia in tombe femminili. Un secondo gruppo di tessuti nella tomba è composto da tre indumenti, due dei quali pressoché interamente conservati, e da un quarto frammento di forma rettangolare. Gli indumenti che vennero posti nella tomba dopo la cremazione segnalano, come gli altri oggetti ritrovati nel cassone ligneo, il rango e il ruolo del defunto: vengono quindi denominati “abiti cerimoniali”. Purtroppo oggi non è più possibile determinarne esattamente la posizione nel contesto tombale. Come risulta dai diari di scavo, un abito era posto sopra l’urna e allo stesso tempo copriva parzialmente l’interno del cassone di legno. Gli altri due abiti non vennero identificati, probabilmente perché erano posti sotto il primo. Tra le pieghe dei tessuti menzionati vennero ritrovate delle fibule22. Sopra l’urna poggiavano dunque uno o più abiti cerimoniali. I partecipanti al rito visualizzavano quindi il defunto nel suo costume23. Il frammento del quarto tessuto poteva servire per ricoprire un oggetto. L’analisi dettagliata degli abiti cerimoniali, soprattutto dei due mantelli, mette in evidenza come, nella loro realizzazione, nulla venisse lasciato al caso, dalle misure per la realizzazione ed inserimento del bordo, fino ai più minuti dettagli. Se da un lato si osserva quindi l’alto livello qualitativo della produzione tessile, dall’altro è accertato il suo assoggettarsi a precise regole canoniche. Considerando la finezza e la qualità del filato che venne impiegato per gli abiti cerimoniali della t. 89, si può pensare che già nella preparazione dei materiali ci sia stata una cura particolare. Lo stesso concetto si deve applicare alla tessitura. Se ne può concludere che certi abiti non erano soltanto un oggetto di valore per il portatore bensì uno status symbol anche per chi sapeva e poteva realizzarli.

I mantelli Combinando le informazioni derivate dall’analisi dei due abiti simili risulta che entrambi presentano la forma di un mantello con l’orlo a mezzo tondo delimitato da un

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bordo e l’altro margine rettilineo, le misure originali dovevano essere di circa cm 260 per un un’altezza di poco inferiore ai 90 cm. (Fig. 10). I mantelli sono tessuti in finissima lana di pecora in saia regolare 2 lega 2. La trama24 è più ritorta rispetto all’ordito, al contrario di quanto avviene di solito. Il filato, molto sottile, con una filatura regolare, venne tinto con del tannino. L’armatura in saia presenta come ulteriore motivo un sottile effetto a quadretti ottenuto dall’intreccio di strisce in entrambe le direzioni di tessitura. L’effetto a strisce (Fig. 11) non è ottenuto con una variazione del colore bensì con l’alternarsi della torsione del filato in direzione ‘s’ e in direzione ‘z’. È difficile identificare trama ed ordito; si osserva tuttavia che i fili paralleli al lato diritto attraversano ben tesi il tessuto mentre su di essi si accavallano i fili perpendicolari; poiché i fili d’ordito vengono tenuti in posizione da pesi mentre gli altri, per la flessibilità della trama, sono più mobili è possibile dedurne che l’ordito scorre parallelo al lato diritto e la trama parallela all’altezza: questo comporta l’uso di un telaio molto alto, di almeno 260 cm25. Il bordo decorativo si distingue dal tessuto di fondo sia per il motivo sia per le caratteristiche tecniche che conferiscono ai mantelli una particolare importanza. Il bordo mostra un disegno a triangoli equilateri su tre linee orizzontali. Venne realizzato con la tecnica a tavolette (36 tavolette a 4 fori) lungo il perimetro del mantello quando il tessuto di fondo era già stato terminato. Il margine, si suppone di circa 6 cm, venne quindi tagliato e sfrangiato; i fili tagliati del tessuto di fondo, ritorti a due a due e utilizzati come trame, vennero tirati tra i fili d’ordito del bordo. Sul lato esterno vennero reinseriti e di nuovo lavorati col fondo, questo fa sì che non si notino le parti terminali che rimangono nel bordo26. Per i fili d’ordito del bordo, tessuto con le tavolette, i fili marrone scuro vennero ulteriormente tinti con una tintura blu27, così che il bordo si distacca dal fondo anche cromaticamente. Le analisi tecniche mostrano che questo tipo di bordo si può realizzare solo su un telaio verticale molto alto28. Le analisi del colore rivelano che il primo mantello era stato tinto con tannino così che il mantello in origine aveva un colore da chiaro a marrone scuro mentre per i fili d’ordito del bordo, i fili marrone scuro vennero ulteriormente tinti con una tintura blu, così che il bordo si distaccava dal fondo anche cromaticamente. Il secondo mantello era rosso con il bordo in porpora, più precisamente per l’ordito venne utilizzato un filato rosso acceso e per la trama uno rosso arancione. I bordi sono tessuti con 36 tavolette a 4 fori e sono alti 2,2 cm.


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La forma e il decoro del primo e del secondo mantello della t. 89 indicano chiaramente come il mantello semicircolare, contrariamente a quanto si riteneva fino ad oggi, esistesse già intorno alla fine dell’VIII secolo a.C., con misure probabilmente codificate e con tutte le caratteristiche della successiva toga praetexta anche nella perfezione della tessitura. La ricercatezza e la qualità dei due mantelli della t. 89 inducono a ritenere che le tecniche di realizzazione fossero il risultato di una lunga tradizione radicata nel periodo pre-etrusco. La statua dell’Arringatore29 mostra le differenze tra i mantelli di Verucchio e la toga del periodo repubblicano, essenzialmente per quanto riguarda la forma: minore altezza ed estremità più allungate; queste ultime in entrambi i mantelli non presentano un andamento diagonale ma seguono una linea quasi perpendicolare alla lunghezza del mantello stesso. In entrambi i mantelli della t. 89 il bordo si distacca dal fondo per la tecnica, il motivo ed il colore, ciò che conferisce un particolare valore non solo dal punto di vista tecnico ma anche sotto il profilo simbolico. Il bordo diventa un elemento caratterizzante, una sorta di insegna, così come posteriormente per la tunica i lati clavi e gli augusti clavi o, piú tardi, il tablion e i paragaude dorati negli abiti aristocratici ed imperiali tardo antichi30. La scarsità di rappresentazioni figurate dell’VIII-VII secolo a.C. rende difficile avanzare ipotesi sul modo di indossare i mantelli. Diverse erano le possibilità: poggiarlo su una o su entrambe le spalle oppure avvolgerlo attorno alle reni31. Entrambi i mantelli della t. 89 presentano nel lato a destra della linea mediana posteriore numerose impunture dovute a spilli. Questi fori sono presenti solo su un lato e quindi non sono dovuti ad una chiusura del mantello ma piuttosto all’applicazione di elementi ornamentali; nel secondo mantello, i forellini a coppie contrapposte fanno pensare ad una fibula a doppio ago, del tipo ritrovato nella tomba stessa. Nel primo mantello a causa della perdita del bordo superiore non si rilevano indizi di una chiusura, ma la parte superiore a sinistra della linea mediana presenta numerose impunture; la stessa cosa si verifica anche nel secondo mantello, di cui purtroppo manca la parte destra contrapposta. È comunque probabile che i mantelli venissero, talvolta, chiusi sul davanti32. Oltre all’utilizzo di materiali pregiati e all’uso di una particolare tecnica di produzione per il bordo, i mantelli presentavano probabilmente ancora altre decorazioni sotto forma di applicazioni. Si notano infatti numerosi piccoli fori nel tessuto di fondo la cui posizione non può essere casuale. L’analisi al tecnoscopio indica chiaramente che

non può trattarsi di danneggiamenti dovuti ad insetti33; uno dei mantelli presenta coppie di fori regolarmente disposti lungo il bordo arrotondato. Il fatto che si trovino sempre a coppie lascia pensare a tracce di una cucitura continua che nelle posizioni citate non avrebbe molto senso; è più probabile che si tratti di punti singoli utilizzati per fissare un decoro supplementare, anche se si potrebbero identificare delle linee ondulate; l’ampiezza di queste impunture fa ritenere che sia stato adoperato un filo di notevole spessore o addirittura un filo metallico34, il che rimanda all’uso di applicazioni in materiale prezioso di un certo peso35. È molto probabile che lungo il lato arrotondato, soprattutto nelle parti visibili sul davanti, fossero applicati bottoni o pendagli. Nella t. 89 sono stati rinvenuti dei bottoni in ambra di forma conica, di misure diverse, con foro a “V” sulla faccia inferiore. (Fig. 12); bottoni di questo tipo36 applicati ad un tessuto dovevano dare immagine di preziosità analoga a quella delle borchie in bronzo sul trono. I bottoni sono stati ritrovati sparsi nella tomba, probabilmente perché il peso stesso ha spezzato il filato o perché questo, essendo in fibra vegetale, non si è conservato. L’ipotesi di una decorazione aggiuntiva in materiali preziosi applicati al tessuto viene confermata non solo dai reperti di altri corredi tombali a Verucchio, dove si sono ritrovate numerose perle, bottoni e pendagli, ma anche da reperti in altri contesti, dove è documentata l’applicazione di elementi decorativi in bronzo, ambra, avorio e, talvolta, in lamine d’oro e d’argento37.

L’abito Si tratta di un indumento che si distingue nettamente dagli altri due mantelli già citati per forma e decorazione. La mancanza della parte centrale rende impossibile, allo stato attuale, una chiara identificazione della funzione dell’abito. Probabilmente le due parti conservate formavano un mantello corto o una specie di camicia38 in cui le maniche non sono cucite a posteriori ma realizzate durante la tessitura; la questione tuttavia dovrà essere ripresa dopo lo studio degli abiti conservati in altre sepolture e non ancora studiati. Il tessuto di fondo è in lana rosso scuro, in saia regolare 2 lega 2, tessuto con il cambiamento della direzione della torsione del filo in trama e ordito; la densità dei fili d’ordito è più alta rispetto a quella di trama. In entrambi i sistemi, comunque, la densità dei fili risulta minore rispetto a quella del primo e secondo mantello. Come nel secondo mantello, nell’ordito si possono riscontrare numerose variazioni allo schema di fondo con 6 fili ritorti a

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‘s’ e 6 fili ritorti a ‘z’; per quanto riguarda la trama, invece, l’alternarsi dello schema è eseguito rigorosamente, e si può riscontrare solamente un errore. La sequenza irregolare delle strisce nell’ordito permette di riordinare i singoli frammenti con una certa sicurezza. Si determina così la linea di contorno di un indumento di forma ovale, con almeno 100 x 130 cm di superficie. L’orlo dell’abito è evidenziato da un bordo tessuto a tavolette che si distingue da quello degli altri mantelli. Il bordo fu realizzato infatti con 13 tavolette a 4 fori. Come di consueto, il bordo fu aggiunto al termine della tessitura dell’abito utilizzando i fili del tessuto di fondo, arrotolati a coppie, come trama del bordo stesso. Il bordo non è decorato ma si notano delle strisce nel senso della lunghezza, create dal cambiamento regolare dell’orientamento delle tavolette. Si distingue dal rosso del tessuto di fondo per il suo colore purpureo. Come per gli altri due abiti le caratteristiche impunture (forellini) lasciano supporre l’applicazione di decori aggiuntivi. Al contrario degli altri abiti, si sono conservate su questo indumento tracce di cuciture e di filati. La loro irregolarità, in confronto con la perfezione tecnica nella realizzazione del tessuto, porta anche ad escludere che si tratti di cuciture decorative; è probabile che questi punti siano da considerare in relazione ai resti di un tessuto in lana blu, sempre in saia, di cui sono rimasti solo piccoli resti sulla superficie del tessuto. Anche il terzo abito, pur con molte differenze rispetto ai due mantelli, è un oggetto di grande valore, la cui importanza è legata alla finezza dei materiali, al colore e all’inserimento successivo del bordo in color porpora. Il bordo non presenta alcun disegno ma un motivo a righe; nonostante la sua semplicità venne utilizzata una tecnica talmente dispendiosa da conferire all’abito stesso un particolare significato. Non si può supporre l’uso per questo abito di elementi decorativi e applicazioni perché i fori doppi sono pochi e non chiari. Nell’insieme quindi, tutti i tessuti, sia gli abiti cerimoniali,che quelli provenienti dal rogo, presentano delle particolari caratteristiche. A prescindere dalla straordinaria finezza delle applicazioni e dal decoro Soumak, che ancor oggi tecnicamente sarebbero difficilmente riproducibili, è sbalorditivo quale dispendio fosse necessario per raggiungere determinati effetti decorativi. Vennero, infatti, utilizzati appositamente applicazioni e Soumak per ottenere dei rilievi, ed è incredibile che il decoro non sia ricamato ma tessuto. Come per il bordo tessuto con le tavolette è stata necessaria spesso una grande applicazione tecnica nel dettaglio più minuto, che visivamente non

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appare neppure, così come il decoro ottenuto con la variazione della torsione del filo nei tessuti con il pelo. Nonostante fosse possibile semplificare tecnicamente certi passaggi, non fu evitato il lavoro più lungo, che conferiva all’oggetto un alto valore emotivo: infatti dettagli anche non necessariamente visibili sono stati realizzati con estrema cura. Gli abiti cerimoniali indicavano quindi il rango e lo stato tanto di coloro che li indossavano, quanto di coloro che li avevano realizzati. Annemarie Stauffer

La tecnica della tessitura a tavolette La tessitura a tavolette è una antica tecnica utilizzata per realizzare fasce e bordi. L’attrezzatura necessaria è molto semplice: piccole tavolette, per lo più di legno, di circa 5 X 5 cm., con un foro presso ogni angolo, costituiscono il passo per l’ordito. Attraverso ciascuno di questi quattro fori viene fatto passare un filo di ordito. Le tavolette, con i fili così inseriti, si girano immediatamente con i piani paralleli ai fili dell’ordito quando questi vengono tirati fortemente. Le tavolette vengono riunite in un gruppo, come un mazzo di carte da gioco appoggiate sul bordo di fronte al tessitore, l’estremità distante dell’ordito viene fissata. Spesso l’estremità dell’ordito dalla parte del tessitore viene fissata alla cintura del tessitore medesimo. Una diversa procedura vede l’ordito sospeso verticalmente. A questo punto il lavoro di tessitura può cominciare. Il pacchetto di tavolette subisce un quarto di giro in avanti e un filo di trama attraversa il passo che si crea tra i fili di ordito dei due fori superiori delle tavolette e i due fori inferiori. Il filo di trama viene battuto (accostato agli altri) e le tavolette possono subire un nuovo quarto di giro in avanti.

La tessitura a tavolette a Verucchio Su telai verticali come quelli probabilmente usati per tessere i mantelli di Verucchio viene frequentemente predisposto un bordo di avvio, per costruire l’ordito. Il famoso tintinnabulo dall’Arsenale Militare di Bologna, datato al VII secolo a.C.39, potrebbe mostrare precisamente la preparazione dell’ordito per un telaio verticale, tuttavia nessuno dei bordi dai tre abiti della t. 89 è stato identificato come un bordo di inizio. Ai margini dei mantelli (laddove sono conservati), si riconoscono bordi tessuti a tavoletta. In età preistorica i bordi iniziali sono talvolta tessuti a tavolette. I fili della trama del bordo a tavoletta diventano i


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a a. Rappresentazione grafica della tecnica di tessitura del bordo del mantello della tomba Lippi 89/1972. b. Rappresentazione grafica della tecnica di tessitura a tavolette.

fili dell’ordito del telaio: preparare l’ordito è relativamente semplice poiché i fili della trama del bordo a tavoletta vengono lasciati sufficientemente lunghi per essere utilizzati come ordito sul telaio. Il bordo a tavoletta è molto consistente, può essere fissato al telaio e aiuta altresì nel conteggio dei fili di ordito, consentendo di utilizzare senza errori un numero elevato di fili. Nel tessuto completato è facile riconoscere che si tratta di un bordo di avvio poiché i fili della trama del bordo a tavoletta passano due volte nel passo e non vengono tagliati. Il bordo non è cucito al margine del mantello: l’unione è ottenuta a tessitura. A prima vista questi bordi paiono realizzati contemporaneamente al tessuto, poiché si osserva il filo della trama che entra nel passo del bordo e ritorna indietro, dopo un quarto di giro delle tavolette. Si tratta tuttavia di un procedimento concretamente impossibile

quando il margine è curvo. L’unica possibilità è utilizzare le frange di un tessuto completo, come trama per il bordo a tavoletta, come è stato fatto nei mantelli. Per utilizzare questo sistema è necessario tagliare o tessere il tessuto nella forma desiderata lasciando un po’ di spazio per le frange. Poiché la trama è completamente nascosta dall’ordito del bordo a tavoletta questi dettagli tecnici non sarebbero visibili se il mantello fosse perfettamente conservato; il deterioramento permette di individuare dettagli che non sarebbero stati visibili nell’abito nuovo. I bordi dei mantelli della tomba Lippi 89/1972 sono stati realizzati usando 36 tavolette a quattro fori. Un filato a due capi, notevolmente più sottile di quello usato per il tessuto di fondo, e ritorto in direzioni alterne, è stato usato per l’ordito del bordo a tavoletta; le frange del mantello sono quindi state usate come trama per il bordo (v. grafico a, b).

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Il conteggio dei fili di trama nel bordo è pari a circa 14 fili per centimetro. Le rotazione delle tavolette e la direzione dei fili sono tali da dar luogo ad un motivo triangolare. Le analisi dei pigmenti indicano che il mantello aveva originariamente un colore giallo-bruno mentre il bordo era in una tonalità di blu: i punti dove le tavolette cambiavano direzione davano quindi luogo a una sottile linea di colore giallo sul margine dei triangoli blu. Non vi è traccia di cambiamento di direzione per le 19 tavolette che non servono a formare il motivo a triangoli. Questo modo di realizzare il bordo ha diverse funzioni: il margine del mantello diventa molto robusto, le frange del tessuto vengono fissate e il mantello viene decorato con un bordo con motivi e colori differenti; si tratta di una realizzazione di notevole difficoltà, certamente opera di una persona molto esperta e attenta ai minimi dettagli. Il bordo del frammento di abito con margini arrotondati lungo i quali si conservano molti frammenti del bordo a tavolette, è ottenuto con una lavorazione più semplice ma che tuttavia rivela una notevole abilità. Sono infatti state usate 13 tavolette in cui l’ordito è inserito a coppie alternate. Per l’ordito sono stati usati alternativamente fili con torsione a ‘S’ e a ‘Z’. Il filato dell’ordito è ad un solo capo; si tratta di elemento da sottolineare in quanto il filato ad un solo capo tende a srotolarsi se usato nella tessitura a tavolette. Per evitare tale inconveniente occorre girare le tavolette nella stessa direzione durante tutto il lavoro e scegliere filato ritorto a ‘S’ o a ‘Z’ in corrispondenza della direzione del giro dei singoli fili nel bordo a tavoletta. Alcuni accorgimenti tecnici rivelano che nella realizzazione dei bordi di Verucchio è stata posta particolare attenzione alla qualità della lavorazione: la scelta è stata quella di eseguire un lavoro più lungo e complesso per ottenere un abito della migliore qualità possibile piuttosto che, accorciando i tempi di lavorazione, lasciare visibile una imperfezione su un bordo perfettamente realizzato. Poiché tali particolari possono essere notati solo da persone esperte e a conoscenza di tutti i dettagli delle tecniche di tessitura, si può presumere che il mantello dovesse essere usato in un ambito in cui erano note tutte le particolarità di tali processi. È del pari evidente che, nella produzione di questi abiti, il fattore tempo doveva essere assolutamente irrilevante.

La tessitura a tavolette, documentazione, strumenti e sperimentazione Per lo studio dei bordi di Verucchio è stata effettuata anche una esperienza pratica. L’analisi dei resti tessili del-

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l’antichità, allo scopo di comprendere le tecniche di realizzazione, è infatti una disciplina complessa. Sul piano teorico molti metodi sono possibili ma quando si tenta di metterli in pratica si scoprono difficoltà insospettate. A volte invece la lavorazione stessa risolve problemi posti dall’analisi teorica e dal lavoro pratico emerge una profonda conoscenza del processo lavorativo. Nella sperimentazione sono state usate 13 tavolette e dei rocchetti per avvolgere i fili provenienti dalle tavolette (quindi 13 rocchetti). Con questo numero limitato di rocchetti il lavoro procede facilmente senza che i fili si aggroviglino, ma l’uso di un numero maggiore (nei bordi del mantello ne sono stati usati 36) presenta certamente maggiori difficoltà. La manifattura del bordo è semplice e veloce; usando solo le mani è possibile “battere” la trama in modo sufficientemente stretto e l’uso di una piccola “spada da tessitore” o “battitoio” non pare necessario. Sullo schienale del trono dalla t. 89, nel registro superiore sono rappresentate due scene di tessitura ad un telaio verticale (Fig. 9). Si notano i fili verticali dell’ordito, il tessuto mostra un motivo a linee oblique e che somiglia a quello del bordo dei mantelli n. 1 e n. 2, in fondo al bordo di riconosce un breve tratto di ordito che attraversa un elemento orizzontale e infine degli ingrossamenti triangolari. L’elemento orizzontale attraversato dall’ordito rappresenta probabilmente un attrezzo usato per separare i fili dell’ordito e mantenerli a distanza regolare uno dall’altro. Questo “distanziatore” potrebbe essere stato realizzato in osso con fori passanti vicini l’uno all’altro. L’osso, l’avorio o un legno duro sono tutti materiali possibili poiché l’attrezzo doveva essere liscio per garantire lo scorrimento del filato. Se le scene di tessitura mostrano l’esecuzione del bordo a tavolette è notevole che l’ordito sia mostrato in verticale. Se i fili dell’ordito di ogni tavoletta fossero stati avvolti intorno ad un rocchetto troveremmo qui la soluzione al problema della realizzazione di un bordo così lungo senza cambiamenti di direzione nel giro delle tavolette: poiché l’ordito al di sotto delle tavolette gira mentre si lavora, i rocchetti srotolano automaticamente l’ordito. In molte tombe di Verucchio, come del resto in quasi tutti i contesti dell’età del ferro italiana, è stato rinvenuto un numero notevole di rocchetti. È possibile che questi rocchetti, il cui peso varia tra 5 e 55 grammi (con una prevalenza intorno ai 20-30 e ai 35-45 grammi), e che sono quindi troppo piccoli e leggeri per servire come pesi per un telaio verticale, servissero come pesi per la tessitura a tavolette, per tenere in tensione i fili dell’ordito. I quattro fili di una tavoletta avrebbero richiesto un rocchetto di


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peso variabile a seconda dello spessore del filato. Usare un rocchetto per ogni tavoletta avrebbe dato inoltre la possibilità di farli ruotare indipendentemente e di srotolare l’ordito, qualora la tessitura avvenisse in verticale (o in orizzontale ma con i rocchetti sospesi oltre il bordo di un piano). L’ipotesi che i rocchetti fossero utilizzati come pesi nella tessitura a tavolette rappresenta una nuova interpretazione sulla quale sono in programma ulteriori approfondimenti. Nelle tt. 55 e 102 /1972 Lippi sono stati rinvenuti tre oggetti di uso ignoto, uno completo, l’altro pressoché completo ma in tre frammenti e il terzo lacunoso. Lo strumento ha un margine piatto lungo il quale sono stati aperti dei fori passanti. L’esemplare completo ha 11 fori, il pezzo in tre frammenti ne ha almeno 15. Ad ogni estremo dello strumento c’è una piccola appendice come se lo strumento avesse dovuto essere fissato a qualcosa. Come già osservato nella rappresentazione sul trono un elemento trasversale è visibile appena sopra i pesi/rocchetti. Una spiegazione possibile per questi strumenti potrebbe essere appunto che si tratti di “distanziatori” necessari a mantenere la equidistanza tra i fili dell’ordito per impedirne l’aggrovigliamento. Se l’interpretazione è corretta, i fili di una tavoletta passerebbero tutti attraverso uno dei fori, per essere, successivamente, avvolti sul rocchetto. Le “impugnature” potrebbero aver avuto una funzione pratica nel tenere fermo l’attrezzo. Dalla stessa t. 102 provengono piccoli elementi fusiformi in osso, con incisioni traversali al centro: le loro dimensioni si adattano ai fori nel “distanziatore” e il numero totale corrisponde. Servivano forse a fermare i fili dell’ordito, per poter “battere” la trama sufficientemente stretta verso l’alto, ma anche in questo, caso tale ipotesi di utilizzo dovrà essere ulteriormente verificata. Le stesse tt. 55 e 102/1972 Lippi hanno restituito frammenti di un altro tipo di attrezzo in osso, a forma di piccolo coltello, ma con margine arrotondato. Entrambi gli strumenti sono decorati a cerchielli (Fig. 13); la forma originale non è nota poiché i pezzi sono incompleti, ma ciò che resta sembra molto simile a piccole “spade da tessitore”, strumento indispensabile per “battere” la trama durante la tessitura orizzontale di un bordo a tavolette. La possibilità che si tratti di uno strumento di questo ge-

nere è accentuata dalla sezione dell’oggetto, più spessa su un lato e assottigliata sull’altro: una forma molto funzionale per “battere” la trama in modo molto sostenuto. Ancora nella t. 102/Lippi, che ha restituito gli oggetti precedentemente descritti e interpretati come distanziatore e battitoio, era presente un altro strumento incompleto di uso ignoto. Pare probabile che fosse usato per il lavoro tessile in quanto la superficie è molto liscia e i fori sono lisci e consumati. Suggerimenti su possibili modalità di utilizzo saranno benvenuti. In vari contesti dell’età del ferro dell’Italia centrale strumenti a forma di “barchetta”, costituiti da due lamine rettangolari con ganci ad entrambe le estremità. Gli strumenti sono stati messi in relazione ad attività di tessitura poiché intorno ad uno di essi furono trovate tracce di filato ed è stato suggerito, fornendo un disegno illustrativo, che rappresentassero “fermi” per tessere orizzontalmente fasce. Se lo strumento fosse stato usato come suggerito il tessuto sarebbe scivolato attraverso le due piastre metalliche poiché la trazione durante la tessitura è piuttosto forte. Uno strumento usato ancora di recente in Algeria e Marocco ci indica tuttavia un uso funzionale per attrezzi di forma analoga. Anche in questo caso vengono usate piastre di metallo e ganci ma in un modo diverso. Attualmente strumenti per tessere simili a questi utilizzati per vari tipi di strisce sono normalmente prodotti in legno e metallo. In Danimarca vi è una lunga tradizione di archeologia sperimentale ed era quindi automatico pensare alla realizzazione di una copia sperimentale di questi oggetti per provare a utilizzarli come fermi per tessitura di strisce e tentare una risposta alle possibilità d’uso. Da una lamina di bronzo dello spessore di 2 mm. sono quindi state ritagliate due placchette con ganci, della forma di quelle documentate in Etruria, e sono state unite alle quattro estremità. Si è potuto constatare che questi strumenti sono effettivamente pratici e facili da usare come attrezzi ferma tessuto; le placchette di metallo sono robuste e tengono ferma l’estremità del tessuto quando vengono girate. I ganci sono fondamentali per tenere i fermi nella posizione giusta e impedire la controrotazione. Uno spago girato intorno all’attrezzo tiene unite le due placche, tiene stretta la fascia e la collega alla cintura del tessitore. Lise Raeder Knudsen

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NOTE G.V. Gentili, Verucchio Villanoviana. Il sepolcreto in località Le Pegge e la necropoli al piede della Rocca Malatestiana, in Monumenti Antichi dei Lincei, Serie Monografica, Vol. VI (LIX della Serie Generale), Roma 2003.

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2 P. von Eles, (a cura di), Guerriero e Sacerdote. Autorità e comunità a Verucchio

20 Per una descrizione dettagliata della sua struttura, anche sulla base di

nell’età del ferro. La Tomba del Trono, in Quaderni di Archeologia dell’Emilia-Romagna 6, Firenze 2002.

riproduzioni sperimentali, si veda M. Bazzanella, R. Belli, A. Mayr, Analisi sperimentali condotte sulla fascia decorata della palafitta di Molina di Ledro, cit., pp. 273-279.

1

3 Per una rassegna delle rappresentazioni, dall’età del bronzo al IV seco-

lo a.C., si veda, da ultimo, M. Bazzanella, R. Belli, A. Mayr, Analisi sperimentali condotte sulla fascia decorata della palafitta di Molina di Ledro, in P. Bellintani, L. Moser (a cura di), “Archeologie sperimentali”, Trento 2003, p. 280 nota 13. 4

Etruscan Women: a cross-cultural perspective, in L. Larsoson Lovèn, A. Strömberg (a cura di), “Aspects of women in Antiquity”, Jonsered 1998, p. 73 nota 15. 5 Per le varie tipologie di tessuto, con alcune considerazioni anche sulla

divisione dei ruoli nella loro produzione, A. Rallo, Classi sociali e manodopera femminile, in A. Rallo (a cura di), “Le donne in Etruria”, p. 152; per i libri lintei, in specifico, F. Roncalli, Osservazioni sui libri lintei etruschi, in “Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Rendiconti”, vol. 5152, 1982, pp. 3-21. 6 A. Boiardi, P. von Eles, in P. von Eles, (a cura di), Guerriero e Sacerdote. Au-

19 A. Bietti Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, cit., pp. 309-310.

21 Per la bibliografia, si veda nota precedente. 22

Diari di scavo S. Sani e G.V. Gentili, cfr. pp.9-10; anche Gentili 1987a, pp. 207, 217, 247.

23

Guerriero e Sacerdote, p. 16; anche Gentili 1985 pp. 55, 77; Peroni 1994, p. 303; Boiardi 1994, pp. 137-152, con bibliografia recente; inoltre Bonfante 1987, p. 11 e fig. 3; Principi Etruschi 2000, p. 231, n. 258.

24 Per l’identificazione di trama ed ordito cfr. p 109.. 25

È insolita e particolare una torsione lievemente maggiore della trama. Questo si riscontra comunque anche nel tessuto con la cimosa della t. 26/1969 Moroni.

26 Guerriero e Sacerdote, p. 131 e Fig. 94. 27 Cfr. la tabella in Guerriero e Sacerdote, p. 129. 28 Guerriero e Sacerdote, p. 135. 29

7 P. von Eles, Verucchio, Museo Civico Archeologico, Verucchio 1996, p. 74.

Dohrn 1968; Goette 1990, pp. 21, 106, cat. 2 tav. 1.1, 13.4 con bibliografia. A proposito dell’abbigliamento dell’Arringatore cfr. Granger Taylor 1982, con la valutazione critica della letteratura precedente.

8

30 Cfr. Steigerwald 1999.

torità e comunità a Verucchio nell’età del ferro. La Tomba del Trono, in Quaderni di Archeologia dell’Emilia-Romagna 6, Firenze 2002, p. 265. A. Bietti-Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, Roma 1992, pp. 309-314.

9 Cfr. A. Rallo, (a cura di) Le donne in Etruria, Roma 1989, p. 150. 10

G. Bartoloni, Marriage Sale and Gift. A proposito di alcuni corredi femminili dalle necropoli populoniesi della Prima Età del Ferro, in A. Rallo, a cura di, Le donne in Etruria, Roma 1989, pp. 35-54.

31

Esempi più recenti in Richardson 1983, tav. 165, figg. 546-548; tav. 167, fig. 552-554; Bonfante Warren 1973, tav. 40. 3; Bonfante 1986, p. 254.

32 Non è comunque ancora chiaro come venissero drappeggiate le lunghe parti laterali.

11 G. V. Gentili, La necropoli sotto la Rocca Malatestiana (Fondo Lippi). La tomba 47, in M. Forte, P. von Eles (a cura di), “Il dono delle Eliadi. Ambre e oreficerie dei principi etruschi di Verucchio”, Rimini 1994, p. 80 n. 89, tav. XVII, 89.

33

12 P. von Eles, Verucchio, Museo Civico Archeologico, cit., p. 74, fig. 75.

34 Guerriero e Sacerdote, p. 95.

13

35 Non all’applicazione di altri tessuti.

14

36 Nell’insieme almeno 145 bottoncini conici di ambra di dimensioni diverse, con due forellini alla base e tre piccoli cilindri perforati; cfr. p. 95; anche Gentili 1994d, pp. 163, 165, nn. 553, 558-560, tav. LXII.

In particolare per l’uso dei fusi in bronzo, si veda M. Nielsen, Etruscan Women: a cross-cultural perspective. cit., p. 74 nota 23. È difficile non pensare che dovesse trattarsi di fibre provenienti da animali (o piante) particolari, destinati fin dall’origine a questo scopo e sottoposti a trattamenti non privi di valenze simboliche e rituali. 15

Tomba Comunale 2, si veda A. Boiardi, La tomba 2, in M. Forte, P. von Eles (a cura di), “Il dono delle Eliadi. Ambre e oreficerie dei principi etruschi di Verucchio”, Rimini 1994, p. 142 n. 398, tav. LI, 398; un secondo esemplare, da Campo del Tesoro, è fuori contesto.

38

G. Baldelli, in “Piceni popolo d’Europa”, Roma 1999, pp. 218-219 n. 22123.

Questi “fori” non sono dovuti ad un disgregamento della fibra come venne invece appurato nel caso del tessuto di Hochdorf; Banck Burgess 1999, tav. 1.

37

Per Verucchio cfr. Saltini 1994, pp. 131-132, nn. 370-371 (5000 perline); Boiardi 1994, pp. 151-152, nn. 470-474 (ca. 1500 perline di materiali vari). Per Casale Marittimo cfr. Esposito 1999, p. 51 (pendagli, anelli, anche ganci); per altri posti cfr. Bonfante 1975, p. 11, nota 1; Bonfante 1989, pp. 159-160.

16

A. M. Bietti Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, cit., pp. 314315; per una rassegna si veda G. Bagnasco Gianni, L’acquisizione della scrittura in Etruria: materiali a confronto per la ricostruzione del quadro storico e culturale, in G. Bagnasco Gianni, F. Cordano (a cura di), “Scritture mediterranee tra IX e VII secolo a.C.”, Milano 1999, p. 86 nota 4.

38 Potrebbero anche essere due perizoma, che vennero tessuti parallelamente sullo stesso telaio (=> errori in trama). Per contro l’altezza del tessuto di cm. 50 è superiore a quella usuale del perizoma, vedi per esempio entrambe le sculture di Casale Marittimo, Esposito 1999, p. 35.

17 Per l’uso dei rocchetti come pesi nella tessitura a tavolette si veda L. R. Knudsen, infra.

39

C. Morigi Govi, Il Tintinnabulo della “Tomba degli ori” dell’Arsenale Militare di Bologna., in ArchCl XXIII1, 1971, pp. 212-235.


Decori, colori e filati di Roma antica BEATRICE ORSINI

er una conoscenza completa dell’abbigliamento di epoca romana non si può prescindere da un’attenta indagine iconografica sulle vesti indossate dai personaggi rappresentati sui monumenti scultorei, pittorici e musivi. A questi dati vanno aggiunte le notizie ricavate dalle fonti letterarie dalle quali si desume l’abbigliamento in voga nelle varie epoche. La produzione tessile nel mondo antico era svolta in ambito domestico e affidata alla padrona di casa poiché considerata un’occupazione tipicamente femminile. La donna virtuosa per eccellenza non doveva essere istruita ma dedita alla famiglia e ai lavori domestici. I documenti epigrafici ci danno un’immagine stereotipata della donna romana, tra le cui virtù spicca il lanificium, tradizionale funzione della matrona, che consisteva nell’occuparsi della filatura e della tessitura della lana per realizzare vestiti all’intera famiglia. Racconta Svetonio che Augusto “indossò quasi sempre abiti fatti in casa, confezionati dalla sorella, dalla moglie, dalla figlia o dalle nipoti, e portò delle toghe non troppo strette né troppo ampie, e il clavio non largo ma nemmeno stretto...”1. La frase domum servavit, lanam fecit si trova in molte iscrizioni funebri femminili anche d’età tardo repubblicana e imperiale, quando ormai la donna romana “badava a ben altro che a filare o a rassettare la casa”2. A questa funzione si legano altri epiteti come lanifica riferito all’attività femminile svolta all’interno della casa e domiseda, cioé seduta in casa a filare, come la Lucrezia descritta da Livio3, donna virtuosa per eccellenza (deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem). A partire dall’età imperiale il numero dei figli diminuisce, le matrone si occupano sempre di meno della loro educazione e soprattutto rifuggono dalle operazioni di filatura e tessitura4. Col tempo la produ-

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Fig. 1 – Suddivisione del vello di pecora secondo la qualità della lana che decresce con il progredire della numerazione: dalla zona 1 si ricava la fibra più pregiata, mentre dalla 14 la più scadente (da Bazzanella, Mayr 1996).

zione fu affidata alle botteghe di artigiani specializzati come hanno dimostrato i rinvenimenti effettuati a Pompei. In un unico edificio lavoravano più persone, ognuna con competenze ben precise. Questi artigiani spesso ebbero parte attiva nella vita economica riunendosi in associazioni come quella dei lanariorum carminatorum (produttori e cardatori di lana), la cui presenza è attestata a Brescello5 (RE). La principale fibra utilizzata in epoca romana fu sicuramente la lana, mentre la seta, più pregiata, era importata dall’Oriente e veniva lavorata secondo Plinio6 sull’isola greca di Cos. La coltivazione del lino invece si sviluppò nel nord Italia, in Gallia, negli attuali Paesi Bassi e in Spa-


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gna7. La lana era ricavata dal manto di ovini accuratamente selezionati dai Romani per ottenere una fibra di ottima qualità. Il loro vello è composto da due tipi di pelo: la giarra che ha la funzione di impermeabilizzare l’animale e la borra, pelo più sottile che ha lo scopo di isolarlo dal freddo (Fig. 1). Plinio individua diversi tipi di lana fra le quali una morbida (molle), una ruvida a pelo lungo (hirsutum) e una terza di qualità più scadente (colonicum)8. Le operazioni successive erano la tosatura, la tintura, la filatura, la tessitura, la cardatura e la follatura. La tosatura dell’animale veniva praticata dal tonsor (Fig. 20) la cui professione sembra fosse abbastanza considerata se, grazie ad essa, Lucius Rubrius Stabilio Primus poté accedere alla corporazione degli Apollinares di Mutina, importante collegio addetto al culto imperiale in ambito municipale, come riporta l’iscrizione incisa sulla stele funeraria che egli dedicò ai suoi genitori, a sé stesso e alla liberta Methena9. Si procedeva poi alla sgrassatura in vasche di acqua calda con un mordente che in epoca arcaica doveva essere di origine organica (olio di ricino o di oliva, caseina, albumina, acido lattico o tannino) e successivamente veniva messa ad asciugare. A questo punto si tingeva il tessuto utilizzando sia sostanze di tipo vegetale che animale. Per ottenere il colore nero ad esempio si aggiungeva all’atramentum (liquido nero) l’estratto di noci di galla; per l’azzurro si utilizzava l’indaco, ottenuto tritando i rami di una pianta leguminosa proveniente dall’India e dall’Africa, fino a ridurli in polvere, per poi mescolarli con acqua e calce; il giallo si estraeva dall’erba guada, dallo scotano o dal croco, mentre il verde si otteneva tingendo il tessuto prima con il giallo e poi con l’indaco. I rossi si ricavavano dalla robbia, erba della famiglia delle rubiacee diffusa sulle coste del Mediterraneo o dall’oricello ricavato da licheni marini trattati con urina fermentata e calce. Il colore più pregiato fu sicuramente la porpora estratta dalla secrezione di due molluschi, il murex e la purpura, che a contatto con la luce esterna, cambiava tonalità virando dal giallo-biancastro al rosso-violaceo. Si faceva poi bollire e vi si immergeva il tessuto da tingere. Data la quantità esigua del liquido emesso da questi animaletti, ne serviva una grande quantità per un solo abito. I maggiori centri di produzione nell’antichità furono Tiro e Sidone in Fenicia che esportarono questa tecnica di estrazione in tutto il mondo10. I toni più chiari erano invece ottenuti diluendo la tinta con acqua e urina, nonostante “la lana tinta due volte con il murice emanava cattivo odore”11. Con questi procedimenti si ottenevano varie sfumature di colore, come ricorda Ovidio che, riferendosi ai tessuti dice: “...questa ha il colore di un cielo

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senza nubi… quella imita le onde… quest’altra simula il croco… questa le ametiste color di viola… quella le pallide rose… come la terra a primavera fa sbocciare mille fiori… così altrettanti e più colori prende la lana”12. In base alle parole di Plauto13 sembra che ogni tintore fosse specializzato in un colore ben preciso con il quale veniva identificato: i flammari tingevano in arancione, i violarii in viola, i crocei in giallo, gli spadicarii in bruno e i purpurarii in porpora. Gli strumenti tipici di questa attività quali matasse di lana da tingere, ampolle (balsamari) per contenere e conservare il colore e bilance a due bracci con contrappeso cursore per dosare la tintura, furono fatti scolpire dal purpurarius Caius Pupius Amicus14 sulla sua stele funeraria, a ricordo della professione svolta in vita. Nel caso di C. Purpurarius Nicephor15, che dedicò una stele funeraria a tutta la sua la famiglia nella necropoli di Modena, il riferimento al suo lavoro sembra essere testimoniato dal gentilizio. L’operazione successiva alla tintura era la cardatura che eliminava i nodi, per la quale anticamente ci si serviva del cardo spinoso da cui prese il nome, sostituito più tardi da pettini16. A questo punto la lana poteva essere filata e tessuta o ancora utilizzata nelle officinae coactiliariae per produrre feltro, un tipo di stoffa non tessuta, semi-impermeabile e molto resistente, ottenuta compattando peli di animali di specie diversa. Veniva impiegata per confezionare vestiti, guanti, copricapi, pantofole, mantelli, coperte per cavalli o corazze semi rigide per i militari. Diversamente si procedeva alla filatura durante la quale si preparavano le matasse e alla tessitura con il telaio verticale a pesi. Questo rimase in uso almeno fino al I - II secolo d.C., quando fu sostituito da quello verticale a due assi trasversali e dal telaio orizzontale a pedali (Fig. 2). Si potevano realizzare diverse tipologie di tessuti (Fig. 3), da quelli semplici a quelli con strisce, in cui il numero dei fili di ordito era uguale a quello dei fili di trama; da quelli ricamati con vari motivi grazie all’uso di fili di colore diverso, ad altri con motivi emergenti o disegno su ambedue i lati a colori invertiti; da tessuti con andamento diagonale, in cui il filo di trama si faceva passare sopra e sotto uno o più fili, a quelli rete, ad avvolgimento che si otteneva avvolgendo il filo di trama sui fili di ordito e a intreccio, nel quale i fili di ordito venivano intrecciati con due fili di trama avvolti attorno a uno o più fili di ordito come per stuoie, contenitori di uso quotidiano, tappi e cordami di varia grandezza. Era possibile realizzare due diversi tipi di intrecciatura: a “stuoia” e a “treccia” testimoniati entrambi dagli oggetti e dall’attrezzatura di bordo rinvenuti nella nave romana di Comacchio (FE)17. La prima, comportava una lavorazione


Decori, colori e filati di Roma antica

Fig. 2 – Tipi di telai utilizzati nella Roma antica: telaio orizzontale a terra (A), telaio verticale a due rulli (B), telaio verticale con ordito tenuto teso da pesi (C) (da Forbes 1964).

molto simile alla tessitura, infatti a volte era effettuata a telaio con una serie di corde o di giunchi tesi (ordito) e un’altra serie (trama) intrecciata di traverso. La tecnica a treccia prevedeva invece la preparazione a parte di trecce cucite fra loro in modo da ottenere la forma voluta. Venivano inoltre prodotti semplici tessuti a tela poco morbidi e poco elastici, ma resistenti all’usura e alla trazione, adatti ad usi non strettamente connessi con l’abbigliamento (fabbricazione di sacchi, fasce, vele, lenzuola, ecc.). Le analisi condotte sul corpo interno del cordolo di stagnatura dell’imbarcazione di Comacchio ha rivelato che era stato fabbricato con fibre da libro di tiglio (strato fibroso compreso fra la corteccia e il tronco) e rivestito di stoffa. Si trattava di una tela realizzata con fili di lana molto grandi che sigillava la giunzione fra due tavole fungendo da guarnizione. Per procedere alla realizzazione degli abiti subito dopo la tessitura, la pezza di lana doveva essere sottoposta a follatura che includeva una serie di operazioni svolte nella fullonicae (Fig. 18), utili a rendere il tessuto più morbido (follatura, garzatura e cimatura, candeggio e pressatura). Il famoso pilastro dei fullones a intonaco dipinto rinvenuto nella fullonica di Veranio Ipseo18 a Pompei, illustra in maniera puntuale le diverse fasi delle attività svolte al suo interno (Fig. 19). La stoffa era immersa in ampi bacini contenenti acqua e soda e pestata con i piedi dai fullones, come mostra una delle scene.

Nel registro superiore un giovane carda la pezza sospesa a un asse, servendosi di una larga spazzola in metallo con punte acuminate, mentre da destra un altro giovane avanza, portando una sorta di gabbia in vimini (viminea cavea), decorata da una civetta protettrice dei fulloni, sulla quale si stendeva il tessuto da sottoporre ai vapori dello zolfo. Sul lato adiacente, in alto è raffigurata la pressa con il piano in legno sul quale venivano “stirate” le stoffe con la pressione esercitata da due grosse viti. Dopo la follatura il prodotto poteva essere venduto direttamente nell’officina, dove peraltro venivano anche lavati e smacchiati i panni usati. Il risultato doveva essere pregevole se Strabone19 e Columella20 esaltano ad esempio la morbidezza della lana prodotta nei luoghi intorno a Mutina e al fiume Scotenna (Panaro) e Marziale21 ricorda i fullones modenesi. La zona fra Parma e Mutina era infatti famosa anche per la fiera-mercato degli ovini che si svolgeva annualmente nella vicina località denominata Campi Macri, uno dei più importanti mercati di bestiame dell’antichità. La manifattura delle vesti era affidata ai vestitores o vestifici, mentre i negotiatores vestiarii come L. Lucretius Primus (I secolo d.C.) e L. Lucretius Romanus (I secolo d.C.)22, ricordati da alcune iscrizioni rinvenute a Modena, erano mercanti di stoffe. È testimoniata anche l’esistenza di negoziatores lanarii (commercianti di lane) come il liberto Quintus Alfidius Hyla che ricoprì23 la carica di seviro a Forum

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Fig. 3 – Grafici di alcuni intrecci di tessuto documentati in età romana (da Forbes 1964).

Sempronii (Fossombrone, PS). I tessuti confezionati a Modena sono ancora menzionati come beni di lusso nell’Edictum de pretiis24 emanato da Diocleziano nel 301 d.C..

L’abbigliamento maschile Per una conoscenza completa dell’abbigliamento di epoca romana non si può prescindere da un’attenta indagine iconografica sulle vesti indossate dai personaggi rappresentati sui monumenti scultorei, pittorici e musivi. A questi dati vanno aggiunte le notizie ricavate dalle fonti letterarie dalle quali si desume l’abbigliamento in voga nelle varie epoche. L’indumento tipico era costituito da una sopravveste drappeggiata intorno alla persona (amictus) e dalla veste vera e propria (indumentum) che avvolgeva il corpo. In epoca arcaica, sotto la sopravveste, si indossava il subligar o subligaculum. L’abito romano caratteristico del civis fu sicuramente la toga come ricorda anche Virgilio: “Ecco i Romani signori del mondo, gente togata” 25. Il termine toga deriva da tegere, cioè coprire che ha la stessa radice di “tetto”. Originariamente era un drappo di lana tessuta alto come la persona e largo il doppio che, portato trasversalmente sulle spalle, copriva il perizoma. Il giro con cui si indossava la toga (remeatio) seguì le variazioni dovute ai cambiamenti della moda. Si faceva passare un lembo sotto l’ascella destra in modo da lasciare libero il braccio,

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mentre l’altro si gettava sulla spalla sinistra come nella statua dell’Arringatore (fine II secolo a.C.); in alternativa si poteva far passare sulle due spalle lasciando pendere i lembi sul davanti. In epoca repubblicana aumentò la grandezza della stoffa e si modificò il modo di indossarla (toga restrincta). Si sistemava un lembo della toga sulla spalla destra in modo da avvolgere anche il braccio fino alla mano che rimaneva libera; veniva poi rovesciato sulla spalla sinistra dove continuava il giro per essere raccolto sul davanti e trattenuto dal braccio sinistro. Durante le cerimonie un tratto della toga saliva a velare la testa (velato capite) come si nota nelle statue del ciclo giulioclaudio che decoravano la basilica di Velleia (I secolo d.C.) (Fig. 14). In estate il tessuto era più leggero (toga rasa), mentre in inverno di lana pesante (toga pexa o pinguis), di cui fece largo uso l’imperatore Augusto notoriamente freddoloso26. Gradualmente i colori con cui veniva tessuta la toga iniziarono a distinguere la classe e la professione: la toga candida, in lana bianchissima, era indossata da coloro che aspiravano alle cariche pubbliche chiamati per questo “candidati”27, mentre quella dei magistrati curiali, dei sacerdoti e dei fanciulli nobili era bordata da una fascia di porpora ottenuta con un filo di lana colorata tessuto insieme alla stoffa (toga praetexta). La trabea era un’ampia toga bianca che arrivava alle ginocchia, decorata con strisce di porpora o interamente di color porpora, a indicare la personalità semidivina di chi la indossava. Le spalle potevano essere coperte dal pallium, mantello di origine greca, più corto della toga che consentiva maggiore libertà nei movimenti e per questo ebbe grande diffusione presso i Romani. Durante la prima età imperiale all’uso del pallio si affiancò quello della paenula, mantello in lana pesante o cuoio senza maniche la cui lunghezza variava dai fianchi alle caviglie. Era a forma di campana con un foro centrale, attraverso il quale si infilava la testa come un poncho; se era aperta sul davanti veniva fermata con un fermaglio o dei cordoncini. Per la sua forma e la consistenza della lana isolava molto bene dall’umidità e dal freddo e veniva portata sopra la tunica. Vi erano poi i mantelli infibulati importati dalla Tessaglia e dalla Macedonia di forma rettangolare più o meno ampi, ai quali si aggiungevano due triangoli laterali in modo da formare un mantello trapezoidale con la base maggiore curvilinea. Il lato corto era appoggiato sulle spalle, mentre i lembi laterali cadevano simmetricamente sul davanti come due ali e venivano trattenuti sul petto da una fibula, che, nelle raffigurazioni si trova frequentemente fissata all’altezza della spalla destra. Il sagum comunemente indossato dai legionari, dalle truppe di cavalleria


Decori, colori e filati di Roma antica

e dagli ufficiali di rango inferiore era il mantello militare per eccellenza. Espressioni latine come saga sumere o ire ad saga significavano proprio “andare in guerra”, mentre saga ponere voleva dire deporre le armi. Il modello era di origine gallica e si discostava dalla clamide per tipo di tessuto e forma. La stoffa di forma rettangolare, era realizzata con una lana spessa lavorata con peli di capra, più corta della clamide, veniva appuntata sulla spalla da una fibula che la fissava a circa due terzi della sua lunghezza, lasciando scoperti il fianco e il braccio destro, mentre tutto il lato sinistro rimaneva coperto. La lacerna era invece un ampio mantello di taglio rettangolare, confezionato in lana pesante e di colore scuro, fermato da una fibula sul petto o su una spalla e corredato di cappuccio. Era considerata una sopravveste di grande praticità poiché lasciava libere le braccia e, avvolgendo il corpo, lo riparava dal freddo e dalla pioggia. Giovenale ribadendone l’origine informa che “...talvolta lacerne di lana spessa noi riceviamo, quali coperture della toga, di qualità dura e grossolana, malamente battute dal pettine del tessitore gallico...”29. A Roma si diffuse alla fine dell’età repubblicana quando, in seguito alle vicende politiche, anche nella moda civile invalse l’uso di vesti militari. In età imperiale la lacerna era indossata dagli uomini di tutte le classi sociali: i civili la mettevano sopra la toga mentre i militari sull’armatura. La laena, altro tipo di mantello infibulato simile alla clamide per forma e colore, tuttavia si differenziava per la presenza di un’ampia frangia sull’orlo inferiore. Si tratta di un manto ampio e rotondeggiante, lungo fino a metà polpaccio e fermato sulla spalla destra da una fibula. La tunica fu sicuramente la veste per eccellenza indossata in tutte le occasioni della vita pubblica e privata da uomini e donne di ogni estrazione sociale. Il modello classico, bianco o del colore naturale della lana, era una rielaborazione del chitone greco formato da un unico rettangolo di stoffa e adattato intorno al corpo nel senso della lunghezza, in modo tale da rimanere aperto sul fianco; veniva chiuso sulle spalle con fibule o nastri e stretto alla vita da una fascia o cordone di stoffa annodato (cinctum). Si portavano più tuniche contemporaneamente: la tunica interior o intima a contatto con la pelle, detta anche subucula e una tunica pesante o, come ricorda Orazio30, modelli più confortevoli e raffinati, in lino o seta di vari colori. La tunica recto o rigilla era semplice e derivava il suo nome dal fatto che aveva la caratteristica di essere tessuta dal basso verso l’alto. Secondo quanto riporta Plinio riferendosi a Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, simbolo della virtù domestica “Essa per prima ha tessuto una tunica recta...”31. La toga virile veniva indossata

dai fanciulli al momento di diventare adulti e dalle fanciulle, per la cerimonia nuziale. Secondo l’organizzazione gerarchica della società romana, la confezione stessa della tunica rivelava immediatamente la classe sociale di chi la portava. Su di essa si potevano infatti cucire strisce, dette clavii, che scendevano in linea retta dalle spalle fino all’orlo inferiore e variavano per larghezza e colore. Questo era un segno di privilegio riservato esclusivamente a senatori e cavalieri. In età augustea la tunica indossata da senatori (laticlavio) e tribuni militari delle prime quattro legioni aveva il clavio più ampio di quella dei cavalieri (augusticlavia). Nello stesso periodo l’uso del laticlavio fu esteso a tutti i membri delle famiglie senatorie: il giovane prendeva il iuvenis laticlavius insieme alla toga virile, entrando così nella maggiore età. Altri ornamenti erano costituiti da segmenta ricamati con fili di lana colorata, di forme e dimensioni diverse, che assolvevano anche allo scopo pratico di dare maggiore consistenza ai bordi. Le tuniche più eleganti, in lino o seta, erano impreziosite da applicazioni di galloni intessuti con fili d’oro e d’argento. Giovenale descrive: “Un abito di stoffa lavorata a rombi e a quadrati di colore ceruleo, oppure di stoffa ben rasata di colore verde pallido”. La tunica palmata, ornata di ricchi ricami a forma di foglia di palma, veniva indossata dai consoli insieme alla toga picta per celebrare il loro trionfo o per comparire in pubblico durante una cerimonia ufficiale. Le maniche giungevano di solito fino al gomito nel modello maschile, mentre erano più lunghe in quello femminile (manicata o manuleata). Nel VI secolo d.C. i mosaici di Ravenna ci mostrano come l’abbigliamento “civile” del sovrano fosse distinto da quello militare e consolare indossato in altre circostanze. Giustiniano porta brache di porpora (tibialia) e una tunica bianca con liste d’oro lunga fino al ginocchio (divitision), fermata da una cintura (cingulum). Indossa inoltre una clamide di porpora, simbolo della regalità, sulla quale è applicato un riquadro di stoffa, cucito solitamente sulla clamide dei sovrani e dei dignitari (tablion), decorato con disegni di uccelli verdi entro cerchi rossi, che prosegue nella parte posteriore in modo da formare un disegno continuo quando questa veniva chiusa. È fermata da una fibbia (fibula) d’oro con una pietra rossa al centro; sul capo porta una corona (stemma) composta da un cerchio rigido di perle e pietre preziose da cui scendono quattro pendagli e uno scettro (scipio eburneus), simboli della regalità. Ai piedi calza sandali color porpora (kampàgia) ornati con pietre preziose. I due personaggi a destra di Giustiniano vestono un abito ufficiale con tunica, brache, clamide bianca, tablion porpora e kampagia neri. Sulla spalla destra porta-

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no inoltre una sorta di spallina con un disegno che potrebbe corrispondere a un grado33.

Abbigliamento militare Diverso era l’abbigliamento militare ricostruibile sulla base di raffigurazioni scultoree e dei pochi reperti tessili che ci sono pervenuti. I legionari indossavano una tunica lunga sopra al ginocchio originariamente di forma rettangolare, spesso priva di maniche e stretta in vita da una cintura. Per questi motivi il tessuto che eccedeva poteva essere trattenuto con un nodo sulla schiena o sotto il collo, in modo da lasciare più libertà nei movimenti durante i lavori campali dei soldati. Nel tardo impero anche la tunica, come l’armamento, seguì le mode straniere, infatti le rappresentazioni scultoree e musive mostrano tuniche a maniche lunghe non conformi al gusto tradizionale. Le tinte più probabili sembrano quelle del tessuto grezzo, quindi bianco sporco o beige o del rosso ruggine. Dopo il periodo di influenza greco-etrusca, le tuniche dei soldati repubblicani sono sempre raffigurate del tutto disadorne fino al primo impero, quando comparvero strisce e rosoni colorati (III sec. d.C.). I soldati romani adoperavano mantelli di foggia diversa di cui il più semplice era il sagum, indumento militare per eccellenza di forma rettangolare, fermato con una spilla sopra la spalla destra. La paenula di forma semicircolare e abbottonata sul petto era indossata soprattutto da legionari e pretoriani, ma anche da ausiliari. Il paludamentum di forma rettangolare era riservato agli ufficiali, ed essendo fissato sulla spalla sinistra, si portava elegantemente drappeggiato attorno al braccio sinistro. Componente essenziale dell’abbigliamento del militare era il cinturone (cingulum), cui veniva appesa la daga e, fino al I sec. d.C. anche il gladio, portato in seguito a tracolla. Solitamente in cuoio era a volte impreziosito da borchie metalliche in bronzo o in argento sbalzato, smaltate o decorate a niello. Il cingulum, associato alla spada, costituiva un segno distintivo dello status di militare, in quanto veniva indossato dal soldato come uniforme di servizio. Nella necropoli di Classe (Ravenna) è stata rinvenuta recentemente una stele (metà I d.C.) che ritrae un soldato della flotta (classis) di Ravenna in abbigliamento militare. Egli indossa una corazza anatomica con spallacci decorati a squame e gonnellino con elementi di protezione per il ventre, fermato da una cintura da cui pende il gladio, inguainato in un fodero con decorazione. Per proteggere le gambe si utilizzarono inizialmente fasce di tessuto fino all’introduzione dei pantaloni da parte dei Celti, che ebbero una rapida diffusione soprattutto nel periodo tardo-imperiale. Le calzature

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tipiche dei militari erano le caligae, come mostra anche la stele ravennate. Si trattava di scarponcini chiodati abbastanza comodi poiché indossati sopra a calzini di lana e dotati di molte aperture. Rimasero in uso almeno fino alla fine del II sec. d.C., quando vennero soppiantati da altri tipi di calzature.

L’abbigliamento femminile Nella prima fase dell’età repubblicana, l’abbigliamento della matrona romana fu sobrio e rigoroso, in osservanza allo status sociale della donna e al sistema di valori che doveva rispettare, non erano infatti concessi lussi né frivolezze. Questa situazione, tuttavia, mutò progressivamente a partire dal III secolo a.C., quando, con l’inizio dell’espansione romana nel Mediterraneo, a Roma si diffusero nuovi costumi e nuovi stili di vita di origine orientale, facendo rapidamente presa soprattutto sugli esponenti delle classi sociali più elevate. Anche le donne furono attratte da queste innovazioni e iniziarono poco a poco a modificare le proprie abitudini. Un’interessante testimonianza sull’evoluzione dei costumi delle matrone è fornita dall’episodio della Lex Oppia (215 a.C.), una legge che imponeva alle donne vari divieti, tra cui quello di indossare abiti di colori diversi e di possedere più di mezz’oncia d’oro, per ripristinare i valori matronali di sobrietà e parsimonia e limitare inoltre la crisi economica dovuta alla seconda guerra punica (218202 a.C.). Rimase in vigore per circa vent’anni, finché le donne con una celebre protesta ne ottennero l’abrogazione. Le più grandi innovazioni si ebbero, soprattutto a partire dall’età imperiale, quando dilagò il lusso e la ricerca del bello e del raffinato divenne quasi esasperata. Gli autori romani disapprovavano la vanità e lo sfarzo delle donne poiché li identificavano come segno della decadenza dei costumi. La costante cura del corpo e dell’abbigliamento era la prova evidente che la donna romana aveva abbandonato gli antichi valori matronali della pudicitia e della modestia a favore della seduzione e della ricerca del piacere amoroso. Nel periodo più antico gli indumenti femminili e quelli maschili erano molto simili, infatti un’unica toga poteva essere usata indifferentemente da entrambi i coniugi. In seguito la moda femminile si differenziò seguendo il continuo evolversi del gusto e dei costumi sempre più raffinati. Secondo Orazio34: “Ci sono quelli che non vorrebbero aver contatto se non con donne coperte sino al tallone con l’orlatura (instita) che allunga la veste”. Nella prima età repubblicana le matrone, per uscire in pubblico, indossavano il pallio femminile (palla) derivato dal peplo greco, di forma rettan-


Decori, colori e filati di Roma antica

golare drappeggiato liberamente e lasciato cadere in pieghe morbide, oppure portato come un moderno scialle in modo da avvolgere più strettamente la persona. Durante le cerimonie sopra la tunica si indossava una palla lunga fino ai piedi con un lembo che saliva fino a coprire la testa. La stola era una lunga veste di origine greca che si infilava sulla tunica intima, di stoffa piuttosto spessa e stretta in vita dalla cintura. Era senza maniche, con spalline decorate da strisce ricamate e il lembo inferiore ornato da una balza (insila) ricamata o a frange, cucita o tessuta sull’orlo. Le matrone romane dell’età repubblicana evitavano in ogni modo di mettersi in mostra, per questo la stola, realizzata con un tessuto pesante, era indossata anche in casa su tuniche leggere e trasparenti, divenendo il simbolo della virtù e del pudore femminile. Properzio35, nell’elegia per la morte di Cornelia, le fa dire “meritai il nobile vanto della stola”. Dal III secolo d.C. la stola fu sostituita da una tunica più ampia e con maniche, stretta in vita da una cintura decorata, a volte munita di cappuccio. A contatto diretto con il corpo veniva indossata la tunica interior o subucula, simile alla sottoveste, stretta con cordoncini sotto il seno. Per coprire le parti più intime le donne usavano il subligar, una fascia annodata intorno ai fianchi e un’altra detta mamillare che aveva la funzione di sostenere ed evidenziare il seno come raffigura il mosaico nella “sala delle dieci ragazze” della Villa del Casale di Piazza Armerina. La tunica della cerimonia nuziale era una tunica recta simbolo di verginità, di colore bianco, lunga fino ai piedi e stretta alla vita da una cintura (zona) chiusa da un doppio nodo (flerculeus), che doveva essere slacciato solamente dallo sposo, come ricorda l’espressione zonam solvere (“sciogliere la cintura” che indica l’inizio della vita coniugale). Alla vigilia delle nozze, la sposa consacrava i giocattoli della sua infanzia a una divinità, deponeva la toga praetexta per indossare quella nuziale, copriva il capo con una cuffia arancione e si coricava. Il volto era coperto da un velo rosso fuoco (flammeum) e portava sul capo una corona di mirto. I capelli della sposa erano divisi in sei trecce (sex crines) con una specie di spillone a punta di lancia (hasta caelibaris). Le tuniche venivano indossate a seconda dell’occasione e della stagione e per questo erano realizzate con tessuti diversi (lana, cotone, lino e seta) tinti in una vastissima gamma di colori. Le stoffe erano arricchite inoltre da ricami e applicazioni di vario genere: i segmenta, fili d’oro o d’argento cuciti o tessuti sugli orli orizzontali; il patagium, una striscia verticale, più o meno larga, applicata su entrambi i lati della tunica; i clavii che scendevano dalle spalle e gli orbicula, tondi applicati sulla parte inferiore della tunica e

sulla parte alta delle maniche. Questi ornati erano generalmente in tessuto prezioso, di colore diverso da quello della tunica e a disegno geometrico (quadrati, losanghe intrecciate, cerchi concentrici, disegni di ispirazione floreale o vegetale). Più tardi, in base al gusto orientale, furono adottate anche decorazioni con figure di animali reali o fantastici dai colori vivissimi e figure umane. Tra i motivi più ricorrenti vi era quello del meandro, dal nome del fiume ricco di anse sinuose, di cui parla Virgilio: “...al vincitore una clamide tessuta d’oro, listata con un doppio meandro di porpora melibea”36. Molto spesso i fili d’oro funzionavano da ordito, invenzione attribuita al re di Pergamo, Attalo III (138-133 a.C.), famoso per il suo ricchissimo regno e per i suoi tesori. L’imperatore Caligola che si mostrava in pubblico con abiti femminili “...sfoggiava abiti di seta e vesti cicladiche”, cioè lunghe gonne decorate in oro e porpora37. Col tempo la trama delle stoffe divenne sempre più sottile, quasi trasparente, tale da far intravedere le forme del corpo; i colori si diversificarono nelle più varie sfumature e iniziarono importazioni di tessuti ricamati e delle pregiatissime sete dall’Oriente. Orazio38, in una satira, descrive l’abbigliamento delle matrone contrapponendolo a quello delle donne di liberi costumi che indossavano vesti molto trasparenti: “...di una matrona, all’infuori del viso, non potresti vedere nulla, giacché, a meno che non sia Cazia, con una veste lunga ricopre tutto il resto. Se cercherai le parti vietate, ben munite di difesa, e proprio questo ti farà impazzire, molte cose allora ti si opporranno... stole che scendono sino ai talloni e mantelli che avvolgono, impedimenti infiniti, che ti negano l’apparir della cosa al naturale. L’altra, invece, non frappone ostacoli, attraverso una veste sottile di Coo, quasi ti è possibile vederla come nuda, se hai timore che abbia brutte gambe, piede volgare; con un colpo d’occhio potresti misurarle i fianchi”. Le meretrici vestivano con abiti trasparenti solo all’interno dei postriboli, per alimentare fantasie e desideri; quando uscivano, erano invece obbligate a indossare una toga di tipo maschile, essendo loro tassativamente proibito l’uso della stola e a coprire i capelli, in modo tale da non lasciar sfuggire neanche una ciocca. Ovidio39 invita le donne che vogliono seguire l’arte di amare a “liberarsi delle tenui bende, insegne del pudore ed ogni stola lunga sino a metà piede”. Più ricco è l’abbigliamento con cui viene rappresentata l’imperatrice Teodora sui mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo d.C.). Indossa una tunica talare bianca a maniche lunghe e un mantello color porpora, il cui orlo inferiore è ornato dalla scena dei tre magi che offrono doni. Le spalle sono coperte da un ricco maniakis (col-

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lare) di origine persiana in oro, pietre preziose e perle. Dalla corona scendono lunghe file di perle che ricadono sulle spalle e sul petto. Le dame di corte accanto a lei indossano la “dalmatica”, simile alla tunica, ma senza cintura, generalmente a fondo bianco con fasce o dischi di porpora intessuti, applicati o ricamati e il pallium40.

I bambini Le vesti dei bambini non si differenziavano molto da quelle degli adulti poiché essi vestivano semplici tuniche con o senza cintura e maniche lunghe, corte o al gomito; se ne erano prive si fermavano su entrambe le spalle con fibbie. Nell’età dell’adolescenza, fino ai diciassette anni, i fanciulli e le fanciulle indossavano, sopra la tunica, la toga praetexta, ornata da una balza color porpora lungo il bordo inferiore. I fanciulli, diventati adulti, portavano la toga vera e propria, mentre le fanciulle, che generalmente si maritavano prima di aver compiuto i diciassette anni, avevano prima la tunica nuziale, poi gli abiti matronali.

Gli accessori In età imperiale si moltiplicò il numero di accessori che completavano l’abbigliamento femminile. Le donne per variare il loro aspetto, puntavano soprattutto su elaborate acconciature e gioielli piuttosto che sugli abiti. Gli ornamenti più diffusi erano fibbie (fibulae), aghi per i capelli (acus crinales), bende ornate d’oro e di pietre preziose (vittae, mitrae), abilmente inserite nelle complicate acconciature, grossi anelli alle caviglie del piede, orecchini (inaures), braccialetti (armillae), collane (monilia) e i crotalia, orecchini costituiti da più pendenti che terminavano con una perla molto grande. Derivavano il loro nome dal sonaglio situato all’estremità della coda di alcuni serpenti velenosi del Sud America, formato da anelli cornei che producono un suono caratteristico. Una parure completa comprendeva orecchini, collane, pendagli, bracciali, anelli d’oro, gemme e cammei. I figli maschi dei nobili portavano al collo le bullae, il cui uso assieme a quello del-

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la praetexta, era di origine etrusca, da cui il nome aurum etruscum indicato da Giovenale41. Ai figli dei liberti era concesso indossare un ornamento simile, ma fatto di cuoio. Le calzature romane per eccellenza erano i sandali (soleae, sandali), tenuti fermi da striscioline di cuoio (habenae, amenta, obstragula) che si facevano passare fra un dito e l’altro. Il calceus, del quale si conoscono due modelli, era tipica del cittadino romano e indossata con la toga; II calceus patricius, originariamente rosso, era legato con quattro strisce di cuoio (corrìgiae) e chiuso da una lingua di pelle (ligula) ornata da una fìbbia lunata in avorio (lunula). Altre calzature erano il pero, una pelle non conciata avvolta intorno al piede, la caliga, sandalo militare e la sculponea, zoccolo con suola di legno utilizzato da schiavi e contadini. Le calzature femminili erano in pelle più morbida e colori più vivaci, in particolare rosso e oro, ornate con monili preziosi, come ad esempio perle. Diffusi erano i sandali con la suola rialzata, solitamente di color porpora, che lasciavano il piede scoperto (coturni). Notevole importanza rivestivano le acconciature che durante l’età repubblicana erano molto semplici sia per le donne che per gli uomini. Questi ultimi portavano i capelli lunghi e folte barbe; solo col passare del tempo iniziarono a tagliare i capelli corti, mentre verso il I secolo d.C. li acconciarono mantenendo la barba. La pettinatura tradizionale della matrona era la crocchia sulla nuca formata da treccine e un ciuffo sulla fronte, adottata in versione più elegante da Ottavia sorella dell’imperatore Augusto. Più tardi si diffuse la moda di incorniciare il volto con riccioli posti su più file e due boccoli che pendevano dietro le orecchie mentre il resto della capigliatura era raccolto sulla nuca. Questo tipo di pettinatura culminerà in età flavia, quando si farà ricorso a veri e propri toupet, che rimarranno in uso durante tutto l’impero di Traiano. La complessità di tali acconciature richiedeva ore di lavoro per le schiave addette alla capigliatura delle padrone (ornatrices).


Decori, colori e filati di Roma antica

NOTE 1 Suet., Aug., LXXIII.

20 Colum.,7.

2 Plut., III,1.

21 Mart., III,59 (Sutor cerdo dedit tibi, culta Bononia, munus, fullo dedit

3 Liv., I, 57-58.

Mutinae: nunc ubi copo dabit?).

4 Tac., dial., 28; Colum., 12, 9.

22 CIL, XI, 868; 869.

5 CIL, XI, I, 1031.

23 CIL, XI, 862.

6 Plin., nat., XI, 26-27.

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7 Plin, nat., XIX, 3, 17. 8 Plin., nat., VIII, 72, 189; 73, 190-191. 9 Al padre Lucio Rubrio Stabilione (e) alla madre Giulia Grata fece ancor vivo Lucio Rubrio Stabilione Primo, figlio di Lucio, tonsore, Apollinare in Modena, per sé e per la liberta Methena. Alla sorella Giulia Prisca (fece). Al fratello Caio Giulio Terzo, figlio di Spurio (fece). L(ucio) Ru[brio] Stabil(ioni) [pat]ri / Iuliae Gratae matri/ L(ucius) [Ru]brius L(uci) [f(ilius)]/ Stabilio/ Primus tonsor/ Mutin(ae) Apol(linaris)/ sibi et Methen(ae)/ libert(ae)/ et suis v(ivus) f(ecit)/ p(edes) q(uoquoversus) XII; Sul fianco destro, per chi guarda: Iuliae Prisc/ae soror(i) Sul fianco sinistro, per chi guarda: C(aio) Iulio Sp(urii) f(ilio)/ Tertio fratri).

L’editto aveva il compito di limitare la costante crescita dei prezzi. Si trattava di una sorta di calmiere, ossia di un lungo elenco di merci o di prestazioni, al quale seguiva l’unità di misura e il relativo prezzo massimo di vendita. L’editto è noto grazie ad una lunga serie di frammenti trovati nei diversi luoghi in cui era esposto al pubblico.

25 Verg., Aen., I, 282. 26 Suet., Aug., LXXXII, “d’inverno si riparava dal freddo con una grossa to-

ga e quattro tuniche portava la camicia e la maglia di lana e delle fasce intorno alle cosce e ai polpacci”. 27 Pol., “Quando un illustre personaggio muore, la famiglia porta le sue

11 Mart., IV, 4.

maschere al funerale e le fa indossare ad attori che vestono una toga con il bordo color porpora se il loro personaggio era un console o un pretore, una toga interamente color porpora se era un censore, e una toga ricamata d’oro se aveva celebrato un trionfo”.

12 Ov., Ars, III, 173-187.

28 Cic., Att., I, 1, 2.

13 Plaut., Aul., 505-510.

29 Iuv., IX, 28-31.

14

Lapide funeraria del purpurarius Caius Pupius Amicus. Parma, Museo Archeologico Nazionale.

30 Hor., Sat., I, 1, 95.

15 (V(ivus) f(ecit)/ C(aius) Purpura/rius Nicephor/ sibi et uxoribus /filis filiabus/ liber-

32 Iuv., II, 97.

10 Plin., nat., IX, 127.

tis liber/tab(us) servis ser/vab(us)/ in fr(onte) p(edes) XV in a(gro) p(edes) XXX Ancor vivo fece Caio Porporario Niceforo, per sé e per le mogli, per i figli e le figlie, per i liberti e le liberte, per i servi e le serve. Modena, Lapidario Estense. 16 Plin, nat., VIII, 73-191. 17 Il relitto fu rinvenuto a Valle ponti presso Comacchio ed è databile al

I secolo a.C. 18

Pilastro in muratura con intonaco dipinto, Pompei, Fullonica di Veranio Ipseo (Seconda metà I sec. d.C.), Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

19 Strab., V, 1, 12, 218.

31 Plin., nat., VIII, 74, 194.

33 Ravenna, basilica di San Vitale. 34 Hor., Sat., I, 2, 28-29. 35 Prop., IV, 11, 60-61. 36 Verg., Aen., V, 250-251. 37 Suet., Cal., LII. 38 Hor, Sat., I, 2, 94-103. 39 Ov, Ars, I, 46-48. 40 Ravenna, basilica di San Vitale (VI secolo d.C.). 41 Iuv., V, 164.

FONTI Q. Horatius Flaccus, Satirae D. Iunius Iuvenalis, Saturarum Libri V P. Ovidius Naso, Ars Amatoria M. Valerius Martialis, Epigrammaton libri XIV M. Tullius Cicero, Epistularum ad Atticum libri I-XVI

C. Plinius Secundus, Naturalis Historia C. Suetonius Tranquillus, De vita Caesarum Libri VIII Sextus Propertius, Elegiarum libri IV C. Suetonius Tranquillus, De vita Caesarum Libri VIII P. Cornelius Tacitus, Dialogus de oratoribus

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Nota su alcune fibre minerali di scavo ritrovate nel modenese Nicoletta Giordani Lo studio dei tessuti prodotti nell’Antichità romana ha seguito in Italia un percorso di ricerca eminentemente umanistico, consolidato da studi storici che hanno utilizzato fonti documentarie – storiche, letterarie, iconografiche, epigrafiche – per classificare lo sviluppo dell’abbigliamento nei diversi contesti sociali. Lo stesso modello di ricerca è stato applicato alle fonti archeologiche per definire le fasi del ciclo produttivo e le tecniche di lavorazione, dalla materia prima al manufatto fino alla sua commercializzazione. Un diverso approccio metodologico al tema, che estende il campo di indagine all’analisi delle fibre tessili e alle modalità della loro lavorazione, rientra in un settore specialistico a connotazione fortemente interdisciplinare. Questo indirizzo dell’“archeologia del tessuto”, si è sviluppato in particolare nei paesi, come l’Egitto o il Nord Europa, dove le condizioni climatiche di umidità, aridità, congelamento o impregnazione d’acqua, hanno maggiormente favorito la conservazione di reperti tessili1. In Italia un analogo orientamento della ricerca è maturato a partire dalla metà degli anni ’80 ad opera del Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como, diretto da Lanfredo Castelletti. L’intervento del Laboratorio ha interessato contesti di età romana, tra cui i frammenti di tessuto recuperati nello scafo della nave datata rinvenuta a Valle Ponti in comune di Comacchio e datata alla fine del I secolo a.C.2, ma in particolare su fibre conservate su oggetti metallici che costituivano gli elementi di corredo di sepolture longobarde rinvenute in Italia settentrionale. Questi ultimi si riferiscono soprattutto a residui di fibre minerali in metallo prezioso che venivano tessute nell’abito e costituivano il broccato. Tuttavia nel territorio italiano il reperimento in scavo di questa categoria di documento archeologico, estremamente labile e deperibile, è tuttora infrequente, condizionato dalle condizioni climatiche, dalla natura del terreno e da metodi di indagine che consentono l’individuazione di fibre residue. Per quanto riguarda le attestazioni documentate nell’octava regio augustea, i resti di tessuto noti sono limitati a pochi esemplari. Alcuni elementi furono recuperati nel

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contesto della nave romana scoperta nel 1980 a Valle Ponti, in comune di Comacchio (Ferrara). Le analisi condotte dal laboratorio di paletnobotanica del Museo Civico di Como su alcuni campioni che si trovavano a bordo dello scafo hanno consentito l’identificazione delle fibre in base alle loro caratteristiche morfologiche e l’individuazione delle tecniche delle stoffe (tipo di intreccio, legatura) e dei filati (torsione, diametri approssimativi). Si trattava di tessuti di cui non è stato possibile stabilire l’esatta funzione e che furono utilizzati per sigillare le fessure dello scafo. Dai parametri tessili individuati risulta che la trama e l’ordito presentano entrambi la stessa torsione a Z, ma una diversa intensità. Una maggiore torsione dell’ordito aumenta la resistenza e la rigidità al tessuto. Un frammento della dimensione di pochi centimetri è stato recuperato nel 1997 a Modena, in piazza XX Settembre in un contesto funerario tardoromano ubicato lungo il limite occidentale della città antica, presso il luogo deputato in età medievale a centro religioso e politico3. Risulta più comune, per le più agevoli modalità di conservazione delle fibre minerali, il rinvenimento di porzioni di tessuto o di fili in metallo prezioso, che venivano intrecciati come ricamo ai tessuti. A Ercolano sono state recuperati rari esemplari di trame auree, tra cui un frammento di nastro proveniente dall’antica marina, in un contesto del I secolo d.C. Il reperto era costituito da sottilissimi fili che presumibilmente rifinivano ed orlavano i bordi del tessuto di una veste o di accessori (Fig. 15). Forse la medesima funzione si può attribuire agli elementi di fili d’oro rinvenuti, intorno agli anni ’40 del Novecento, a Modena in Piazza Matteotti, all’interno di un sarcofago romano riutilizzato tra il IV ed il V secolo d.C. Al riuso della sepoltura si riferiscono alcuni individui adulti che erano adagiati su cuscini di foglie ed avvolti in stoffe (Fig. 16). Le analisi stabilirono che si trattava di tessuti di seta4. Un più recente rinvenimento riguarda alcune laminette in oro che costituivano parte di un ricamo su tessuto (Fig. 17), rinvenute nei resti di una necropoli longobarda databile tra seconda metà VI – metà VII secolo d.C., importante documento storico che ci documenta la presenza longobarda in Emilia nella prima fase dell’invasione5.


Decori, colori e filati di Roma antica

NOTE 1

V. H. Di Giuseppe, Archeologia del tessuto, in R. Francovich, D. Manacorda, Dizionario di archeologia. Temi, concetti e metodi, Roma-Bari 2004, pp. 339-340. 2 V.L. Castelletti, A. Maspero, S. Motella, M. Rottoli, Analisi tecnologiche del

tessuti, in “Fortuna maris”. La nave romana di Comacchio, cat. mostra, a cura di F. Berti, Bologna 1990, pp. 157-162.

3

Lo scavo inedito è stato diretto da Enzo Lippolis e condotto da Silvia Pellegrini. 4

V. Modena dalle origini all’anno Mille. Studi di archeologia e storia, cat. Mostra, Modena 1988, II, pp. 377-381. 5 Lo scavo inedito è stato diretto da Nicoletta Giordani e condotto da Sil-

via Marchi.

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Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente MARTA CUOGHI COSTANTINI

Tessuti di seta nel Medioevo n generale possiamo affermare che la vita nell’età medievale fu caratterizzata da modelli improntati alla semplicità, che la quotidianità non comportava molte esigenze e nell’ambito dei nuclei familiari c’era scarsa disponibilità di beni, tutti di prima necessità. Ovviamente occorre operare le opportune distinzioni all’interno della piramide sociale tenendo conto che ai gradi più alti era d’obbligo assumere comportamenti distintivi ed in contrasto con la diffusa condizione di povertà in cui viveva la maggioranza della popolazione ci fu da parte di pochi, pochissimi, un’ostentazione di generi suntuari davvero straordinaria. Merci rare e costose che comportavano complessi e articolati procedimenti di lavorazione, spesso gelosamente custoditi come segreti, i tessuti di seta esercitarono un potere d’attrazione eccezionale su re, imperatori, dignitari, cortigiani e su quanti dovevano emulare il comportamento del signore. Nelle dinamiche del lusso e della sua rappresentazione la seta nel medioevo svolse un ruolo primario paragonabile a quello dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose1. Le conoscenze necessarie per la produzione e la lavorazione del prodigioso filato le cui origini antichissime, anteriori al Mille a.C., si situano nella lontana Cina, impiegarono molti secoli per raggiungere i paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo. Non è chiaro se furono dei monaci nestoriani di ritorno da un viaggio in India oppure un persiano che proveniva dalla Cina a portare a Bisanzio all’epoca dell’imperatore Giustiniano (527-565) i bachi da seta2. Certo è che l’arte della tessitura venne praticata con esiti di altissimo livello nel mondo bizantino dove raggiunse dimensioni sino ad allora sconosciute, strutturata in una complessa e articolata organizzazione

I

produttiva comprendente varie corporazioni di mestiere. Impiegati nell’abbigliamento, nell’addobbo e nell’arredo dei palazzi, funzionali ai complessi cerimoniali che disciplinavano la vita della corte e le apparizioni in pubblico dei sovrani, i tessuti di seta non furono una semplice ostentazione di ricchezza ma divennero espressioni di precise gerarchie sociali, veicolo di contenuti politici e religiosi, espressione dell’ideologia su cui si fondava il potere dell’imperatore3. Anche nell’Islam la seta e i tessuti di seta rappresentarono fin dall’epoca dei primi califfi un importantissimo prodotto di scambio, utilizzato per la confezione di vesti lussuose, come dono ad ambasciatori o regnanti stranieri, premio a cortigiani particolarmente meritevoli o ricompensa di imprese militari. La rapidissima espansione di questa civiltà fra VII e VIII secolo su di un territorio vastissimo che raggiungeva la Spagna in Europa e i confini della Cina in Asia, mise in contatto terre e popoli di antica tradizione tessile rappresentando un fattore unificante nel processo di diffusione dell’arte della seta, delle sue tecniche e del suo peculiare repertorio iconografico4. Nell’Occidente europeo la diffusione dei tessuti di seta, inizialmente conosciuti grazie agli omaggi inviati da sovrani bizantini ed arabi, si accompagnò al processo di crescita economica che ne interessò i paesi all’indomani delle grandi migrazioni barbariche, fra IX e XII secolo. Posta al centro del Mediterraneo, e quindi in posizione strategica fra est e ovest, prima ancora di sviluppare localmente il complesso insieme di conoscenze necessario alla lavorazione della seta, l’Italia contribuì alla diffusione dei ricercati prodotti orientali attraverso le intense e proficue attività commerciali svolte da Venezia, Genova, Amalfi, Gaeta, Napoli, Bari che pur con scalature crono-


MARTA CUOGHI COSTANTINI

logiche e rotte geografiche differenti importavano quantità ingenti di drappi immettendoli sugli importanti mercati di Ferrara e Pavia da dove poi le merci raggiungevano la Francia e la Germania5. Né i commerci si interruppero quando fra XII e XIII secolo si sviluppò l’industria locale a Lucca e Venezia. Ancora nel tardo Trecento si importavano “panni tartarici” documentati in numerosi dipinti ma anche in alcuni importanti corredi tombali come ad esempio quello di Can Grande I della Scala o quelli dei reali di Spagna a Burgos6. L’impiego di manufatti serici importanti e costosi infatti non riguardava solo la vita dei personaggi d’alto rango ma anche la loro morte: era consuetudine nelle pratiche funebri vestire pontefici, vescovi, re e dignitari con suntuosi abiti di rappresentanza, foderarne il sarcofago e coprirne il corpo con preziosi drappi di seta che nei casi più fortunati la ricognizione delle tombe ci ha restituito offrendosi come occasione importante per la conoscenza e lo studio dei tessili. I ricchi prodotti dell’arte della seta trovarono largo e diversificato impiego anche nello spazio sacro della chiesa dove l’ostentazione del lusso era giustificata dalla necessità di glorificare e magnificare il Signore. Le caratteristiche intrinseche di queste stoffe, la loro brillante e intensa cromia, la possibilità di decorarne la superficie con ricami di perle, pietre preziose, filati d’oro e d’argento, le rendeva particolarmente adatte ad ornare gli edifici di culto sotto forma di dossali d’altare, teli da parato, tendaggi con esiti di luminosità e suggestione paragonabili a quelli di smalti e vetrate7. Per esprimere in modo efficace la distinzione tra il laico e il sacerdote, anche le vesti liturgiche fecero ampio ricorso alla nobile seta. Dalmatiche, casule, mitre, spesso donate da re, pontefici o altri importanti personaggi arricchivano i tesori di chiese e cattedrali come attestano i numerosi inventari conservati, oggi fonti di informazioni importantissime per noi. Ma è soprattutto grazie al fenomeno della venerazione delle reliquie che ci sono pervenuti la maggior parte dei tessuti medievali a noi noti. Per il suo intrinseco valore la seta fu di regola utilizzata per avvolgere, proteggere e magnificare le reliquie. La sacralità dell’oggetto custodito si trasmetteva all’involucro trasformando la seta in reliquia secondaria, a sua volta venerata e attentamente conservata. Il fenomeno, peculiare dell’età medievale, ebbe dimensioni geografiche vastissime e disegnò una fitta trama di percorsi lungo i quali si muovevano gli uomini ma anche le merci e i manufatti d’arte legati al culto. Fra gli esempi più noti in Italia si ricordano i frammenti tessili provenienti dalla cappella vaticana dei Sancta Sanc-

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torum ma sono numerosi i reperti provenienti dai reliquiari di tutta Europa8. Il tema dei tessuti medievali spazia dunque in un ambito storico e geografico molto vasto che va grosso modo dal V secolo al XV e che spazia dall’Est asiatico all’Europa registrando l’avvicendarsi di civiltà e culture molto diverse: dal declino del mondo romano all’affermazione del dominio bizantino, dall’espansione dell’Islam nei paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo alla ripresa dei centri urbani italiani dopo le grandi migrazioni barbariche sino allo sviluppo degli stati nazionali europei. Di contro va rilevata la frammentarietà delle testimonianze pervenute e conseguentemente le difficoltà incontrate dagli studiosi nell’interpretare tecniche e motivi decorativi, nel ricostruire cronologie e formulare ipotesi attributive anche se negli ultimi decenni si sono intensificate le indagini storiche. Nello studio di questo lungo periodo, al di là di affermazioni di carattere generale, permangono ancora molti quesiti irrisolti sia in relazione alle peculiarità di lavorazione sviluppate nei diversi centri manifatturieri, sia sui tempi e sui canali di trasmissione delle tecniche e dei modelli iconografici, sia sulla precisa cronologia dei materiali pervenuti. Scopo di queste pagine non è tracciare un profilo storico della tessitura in epoca medioevale quanto più semplicemente presentare i reperti che si conservano nel territorio dell’Emilia-Romagna. Si tratta ora di grandi teli, ora di piccoli frammenti, alcuni dei quali legati al territorio e alla sua storia, al culto dei santi e delle reliquie, altri privi di riferimenti documentari circa la loro provenienza: in ogni caso essi costituiscono presenze sporadiche ed eccezionali, pezzi unici che non trovano facili raffronti. Ma poiché le testimonianze materiali pervenute sino a noi sono estremamente esigue rispetto alla molteplicità e alla ricchezza del panorama merceologico che doveva circolare anche sul nostro territorio in epoca medievale, ciascuno di essi, per quanto incompleto e frammentario, rappresenta una tessera preziosa ed insostituibile per la ricostruzione di un quadro generale di riferimento.

Il corredo funebre di San Giuliano A conferma di una storia che ha consacrato la città come importante capitale, unico centro urbano sfuggito al generale declino della penisola italiana a seguito della disgregazione dell’Impero Romano, è a Ravenna, e precisamente al Museo Nazionale, che si conserva uno dei nuclei più cospicui di tessuti medievali di tutta l’Emilia Romagna. Nell’ambito di questa collezione, hanno particolare rilievo i materiali provenienti dalla tomba di San Giuliano, dall’omonima chiesa di Rimini. Allorché, nel 1910 si


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procedette alla ricognizione dell’urna marmorea che per secoli aveva custodito le spoglie del santo, insieme a monete e diversi altri oggetti, furono rinvenute tele di lino di varia grandezza, lacerti di grossolana tela di lana, due grandi drappi di seta ed altri frammenti anch’essi in seta: un complesso di grande interesse storico e documentario, frutto di un processo di sedimentazione protrattosi per secoli all’interno del quale si possono distinguere grosso modo due gruppi di materiali riconducibili rispettivamente alla tarda antichità, fra IV e VI secolo, e al periodo compreso fra X e XIII secolo9. Fra i documenti più antichi e affascinanti figurano due raffinate stoffe di seta eseguite con la tecnica del taqueté operato, un intreccio complesso basato sull’armatura tela o taffetas ottenuto mediante l’utilizzo di due orditi e di un numero variabile di trame documentato soprattutto in reperti di lana tardo antichi e altomedievali. Benché composto da lacerti di piccole dimensioni, nel disegno del primo tessuto si riconosce una scena di caccia (Fig. 21): tracciati in avorio su fondo verde, piccoli putti nudi accompagnati da un cane ed incorniciati da volute vegetali, si alternano a cavalli, leoni, cervidi. Il motivo, che nonostante le piccole dimensioni, è descritto con estrema precisione e accentuato gusto naturalistico richiama quello di altri noti reperti, in particolare i frammenti della cattedrale di Sion, quello del Royal Museum of Scotlad di Edimburgo, quello della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, già considerati da vari studiosi che hanno avanzato ipotesi discordanti circa la loro provenienza riconducendoli ora a Bisanzio, ora alla Siria, ora all’Egitto e circoscrivendone la datazione fra IV e VI secolo10. Ad uno dei frammenti del tessuto dei putti è cucita la seconda stoffa, anch’essa composta da diversi frammenti, decorata da un minuto motivo a piccoli ottagoni di colore bruno (in origine porpora) su fondo avorio e da un naturalistico tralcio di foglie di quercia che si snoda lungo il bordo del frammento maggiore (Fig. 22). Il disegno geometrico trova un preciso riscontro nei mosaici della basilica ravennate di San Vitale, testimonianza eccezionale sull’abbigliamento e il costume della corte bizantina la cui caratteristica principale fu la ricchissima ornamentazione11. Accanto alle sete porpora, riservate all’impertore e agli alti dignitari, alle stoffe decorate da uccelli ed altri animali disposti in ordinate teorie o racchiusi entro orbicoli, vi è raffigurato un tessuto a minuti disegni geometrici assai simili al nostro, perfettamente riconoscibile sia nella clamide indossata da San Vitale, sia nel corto mantello che copre la tunica porpora di Antonina, moglie di Belisario, la prima delle dame a sinistra dell’impe-

ratrice Teodora (Fig. 23). Benché i tessuti riprodotti dai mosaicisti abbiano disegni di dimensioni maggiori e di maggior evidenza rispetto a quelli dei reperti tombali, il modello di riferimento fu certamente il medesimo e dunque la datazione di questi ultimi può approssimarsi al VI secolo, epoca appunto cui risalgono i mosaici ravennati12. Tuttavia di recente le stoffe sono state studiate da Annemarie Stauffer che ne ha esaminato con attenzione i filati e la tecnica di tessitura ricomponendo inoltre il probabile andamento del motivo della caccia. Secondo la sua ipotesi di ricostruzione i frammenti costituiscono i resti di una tunica tardo antica, databile al V secolo13 e dunque facente parte del corredo funebre più antico di San Giuliano. Per quanto le notizie siano scarse e confuse il santo venerato a Rimini con questo nome è infatti identificabile con un giovane istriano morto agli inizi del IV secolo. La leggenda vuole che la cassa lignea in cui originariamente fu sepolto fosse poi sospinta da un maremoto sin sulla spiaggia di Rimini dove fu rinvenuta nel X secolo e verosimilmente aperta dal vescovo Giovanni di cui si hanno notizie appunto verso il 967-96814. Proprio in questa occasione potrebbe essere stato introdotto il reperto più noto di tutto corredo funebre: il “drappo di tessuto in seta di color celeste antico con fondo marrone simboleggiato in sei leoni” che sosteneva il capo del santo, ripiegato più volte a formare una sorta di cuscino, documento di interesse eccezionale sia per il discreto stato conservativo che per le notevoli dimensioni (Figg. 24-25)15. Organizzato secondo uno schema ricorrente nella tessitura medievale, il disegno di questo tessuto si articola in grandi ruote tangenti che racchiudono al loro interno leoni itineranti rivolti alternativamente a destra e a sinistra. Colti di profilo, tranne il capo rivolto verso l’osservatore, gli animali incedono con passo maestoso esibendo possenti muscoli e criniere finemente tratteggiate mentre sotto il loro ventre si colloca una piccola pianta trifogliata, ricordo dell’albero della vita. Il sistema delle ruote presenta un’ornamentazione complessa. Ordinate in file parallele e strette le une alle altre da dischi contenenti rosette stilizzate, sono decorate da file di grosse perle all’interno e da una doppia cornice di perle più piccole lungo i bordi. Negli interspazi si dispongono stelle a otto punte. Un motivo perlinato definisce anche il margine superiore del tessuto che coincide verosimilmente con la fine della pezza. Lavorata in un solo telo con la tecnica dello sciamito operato, la stoffa impiega filati di grande pregio e una ricercata cromia: seta color bruno – porpora in origine – per gli

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Fig. 1 – Ricostruzione grafica del disegno del telo con grifi entro orbicoli proveniente dalla tomba di San Giuliano (vedi Fig. 26).

orditi, seta porpora, giallo ocra e verde acqua per le trame che definiscono l’elaborato disegno. Ovvie ragioni di simmetria inducono a pensare che le tre ruote che si allineano orizzontalmente su di essa fossero completate da un quarto elemento e che agli attuali centoquaranta centimetri di larghezza se ne aggiungessero almeno altri cinquanta. Secondo questa ipotesi la ‘pezza’ in origine raggiungeva e forse superava i due metri di larghezza, dimensioni comuni ad altri i importanti manufatti di epoca medievale anteriori al Mille16. Il telo a leoni è stato oggetto di ripetute segnalazioni da parte della critica, grosso modo concorde nell’assegnarne la lavorazione ad un opificio bizantino17. A quest’ambito culturale sono riferibili sia la preziosa tecnica di esecuzione dello sciamito, sia la ricercata ed efficace iconografia dei leoni la cui originalità deriva dalla rara qualità del disegno, qui associata ad insoliti accostamenti cromatici18. Quanto al motivo delle ruote, permane molto evidente, nell’insistente presenza di perle grandi e piccole, il riferimento ai modelli della tradizione sassanide, da cui i tessitori bizantini mutuarono il loro repertorio. La grandiosità e la potenza della formula decorativa del telo di San Giuliano, oggi apprezzabile solo parzialmente per il sensibile degrado cromatico, non trova facili riscontri nella documentazione tessile pervenuta. Le possenti immagini dei leoni andanti hanno l’incedere maestoso e i tratti fortemente umanizzati riscontrabili anche nelle figure solitarie dello sciamito a fondo porpora di S. Eriberto, dono imperiale recante i nomi di Basilio II e Costantino e pertanto databile fra 976 e 1025; di rilevante interesse è poi il raffronto con l’eccezionale telo proveniente dal sepolcro di Carlo Magno, dove

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pare sia stato posato da Ottone III verso il 1000 in occasione di una sua visita ad Aquisgrana19. Benché la decorazione in questo caso sia molto più elaborata e le figure racchiuse nelle grandi ruote siano elefanti, vi si riscontra un analogo fondo porpora e una doppia fila di perline lungo il bordo inferiore, inizio della pezza, del tutto simile a quelle che nel telo di San Giuliano segnano la fine della pezza. Tenendo conto anche delle scarse ma importanti indicazioni che emergono dall’agiografia di San Giuliano, della data di arrivo della cassa lignea che ne conteneva i resti e della successiva traslazione delle reliquie, si può ragionevolmente presumere che la tessitura del telo coi leoni sia avvenuta in un opificio bizantino fra X e XI secolo. Il verbale riguardante la ricognizione del 1910 precisa che i resti del santo erano coperti da un “manto di seta di color rosa pallido con bordura gialla bleu”20 identificabile con un grande telo di oltre due metri di lunghezza, pervenuto in condizioni decisamente buone, ancora provvisto di entrambe le cimosse e dell’inizio della pezza (Fig. 26). Eseguito anch’esso con la tecnica dello sciamito operato, il tessuto impiega sottilissimi fili di seta marrone per gli orditi e seta più consistente per le trame che si alternano su fondo e disegno: una gialla variante nel colore avorio e azzurro, l’altra rosa pallido. Il disegno ripropone in scala ridotta elementi peculiari della tessitura bizantina: teorie parallele e tangenti di orbicoli che racchiudono figure di uccelli-grifone disposti singolarmente all’interno delle ruote ed affrontati a coppie. Decorati da minuti tralci sinuosi e profilati ai margini da una sottile perlinatura, gli orbicoli sono stretti gli uni agli altri da piccoli medaglioni circolari contenenti


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un motivo geometrico mentre analoghi dischi con stelle a otto punte campiscono gli interspazi. Complessivamente questo grande telo rappresenta una semplificazione della formula osservata nel reperto coi leoni: l’intreccio, piuttosto discontinuo e irregolare, non ha la compattezza e la finezza d’esecuzione del primo, il motivo delle ruote, ripetuto in scala ridotta numerose volte sulla larghezza della pezza, ha perso ogni carattere di monumentalità, mentre le figure collocate al loro interno, fortemente stilizzate, semplificate ed ormai prive di ogni valenza simbolica, appaiono come semplici sigle decorative. Accentua queste caratteristiche il gioco cromatico a righe orizzontali che si sovrappone senza interromperlo al motivo figurato e che al prevalente colore giallo alterna l’avorio, il rosa pallido e il blu. Assegnato in passato all’ambito bizantino con indicazioni cronologiche a mio giudizio troppo anticipate, in realtà il telo si apparenta più strettamente con la produzione peninsulare italiana del Duecento ed in particolare con manufatti riconducibili a Venezia come il grande telo rinvenuto all’interno dell’urna di San Secondo ubicata proprio nel capoluogo veneto, nella chiesa dei Gesuati o i due teli conservati nel nostro territorio, a Bologna e Forlì, di cui tratteremo in modo diffuso nelle pagine seguenti21. Questa ipotesi è per altro confortata da alcuni dati storici riguardanti l’urna di San Giuliano, che venne verosimilmente riaperta fra il 1229 e il 1234, cronologia perfettamente compatibile con le caratteristiche tecniche e formali del grande telo giallo che potrebbe essere stato posizionato come copertura dei sacri resti proprio in quell’occasione22.

Un prezioso tessuto siciliano L’altissima tradizione artistico-artigianale peculiare della tessitura sassanide e bizantina, giunse in Europa per tramite islamico. Dopo aver conquistato nel corso del VII secolo i territori della Siria, della Palestina, dell’Egitto, dell’Iran, gli arabi perseguirono una politica espansionistica che garantì loro il controllo di tutto il bacino Mediterraneo, compresa la Spagna e la Sicilia. Ispirata dalla volontà di unificare terre e popoli, la conquista islamica mise in contatto civiltà di antica tradizione tessile favorendo in questo modo più di ogni altro fattore lo sviluppo della tessitura. La Sicilia, insieme alla Spagna, ha rappresentato un anello importantissimo nel processo di diffusione in Europa del gusto per le ricche stoffe istoriate23. Benché numerose fonti letterarie parlino della produzione di suntuosi drappi di seta in Sicilia già nel corso del X secolo, fu solo dopo la conquista normanna dell’isola, avvenuta nel 1091, che l’antico tiraz musulmano di Palermo

conobbe un pieno sviluppo. Il termine, di origine persiana, si riferisce ad una istituzione tipica del mondo arabo, ovvero al laboratorio che lavorava per il sovrano e la sua corte e deteneva il monopolio dei tessuti di lusso. Letteralmente significava ricamo, ma per espansione di significato indicava anche i bordi decorati da iscrizioni ricamate e successivamente l’opificio dove venivano eseguiti. Insieme agli arsenali e alle fabbriche di carta queste erano le uniche manifatture reali controllate dal sovrano. Ciò è comprensibile non solo per gli elevati capitali che la produzione di stoffe di seta comportava, ma anche perché le scritte eseguite sulle vesti dei sultani erano una sorta di propaganda politica per la dinastia al potere. Se prima dell’islamismo i re sassanidi inserivano nelle stoffe i loro ritratti o i simboli figurati della loro potenza sotto forma di animali simbolici, i principi musulmani sostituirono queste figure con i loro nomi accompagnandoli con frasi augurali di buon auspicio24. Dall’opificio reale di Palermo, che in epoca normanna si arricchì di maestranze greche fatte prigioniere, uscirono i più insigni capolavori dell’arte tessile medievale: i parati che per secoli servirono all’incoronazione degli imperatori del Sacro Romano Impero, ora conservati nella Camera del Tesoro a Vienna. Primeggia fra questi il grande mantello decorato da un preziosissimo ricamo in oro, perle, smalti e sete colorate raffigurante due leoni che abbattono un cammello affrontati a lato dell’albero della vita, attestazione pressoché unica nella storia dell’arte tessile e doppiamente importante per l’iscrizione in caratteri cufici che ne profila il bordo documentandone l’esecuzione a Palermo nel 1133 dell’era cristiana, sotto Ruggero II re normanno di Sicilia25. A questo stesso ambito di origine si può ricondurre un piccolo quanto prezioso frammento conservato nel Museo Civico di Modena, ma proveniente dalla locale chiesa di San Pietro, già importante abbazia benedettina, dove fu rinvenuto nel 1902 dal parroco don Ernesto Antonioli, frammisto alle reliquie dei Santi Abdon, Gaudenzio, Rodolfo e Cesario, allorché procedette al trasferimento dei sacri resti nell’altar maggiore (Fig. 27)26. Il tessuto, eseguito con tecnica ad arazzo, impiega materiali raffinati: seta rossa e finissimo oro membranaceo rispettivamente per l’ordito e la trama di fondo, sete colorate – bianca, nera, celeste – per le trame che delineano il disegno e ne profilano i contorni. La decorazione, purtroppo incompleta stante le piccole dimensioni del frammento, si articola in una sorta di reticolo a maglie romboidali all’interno delle quali si dispongono coppie affrontate di piccole lepri e testine di rapaci sormontate da medaglioni a forma di pigna contenenti ora motivi geo-

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metrici ora busti umani. Il disegno è descritto in tinte chiare e luminose con profilature nere che si stagliano con precisione sul brillante fondo rosso-oro. La lunga vicenda critica relativa al prezioso reperto ha inizio nel 1902 quando il conte Luigi Alberto Gandini lo acquistò per il Museo di Modena designando la felice acquisizione come opera bizantina del X secolo27. Ma gli studiosi che se ne sono occupati successivamente, hanno da subito avvicinato il tessuto di Modena, oltre che ad altri analoghi reperti conservati in Europa, ai più antichi frammenti della fodera del manto di Ruggero II sottolineando le affinità fra i manufatti: la tecnica esecutiva ad arazzo, l’andamento complessivo del disegno secondo una griglia a losanghe il cui contorno è sottolineato da una sorta di nastri, l’impiego di nette righe orizzontali in seta rossa a delimitarne lo sviluppo in alto e in basso, la presenza di piccoli animali e di figure umane disposti con apparente ordine libero sul brillante fondo rossooro. In occasione della recente mostra viennese dedicata al complesso delle vesti imperiali è stato riesaminato anche il gruppo di questi tessuti, ed in particolare il frammento di Modena ricondotto ad un laboratorio siciliano, verosimilmente palermitano, e datato tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo28. Certamente questi tessuti non hanno la grandiosità e la perfezione della decorazione esterna del manto di Ruggero II ma come osserva Donata Devoti ne condividono a pieno la cultura figurativa che “risulta essere una sintesi di soluzioni bizantine e copte, operata da maestranze arabe non a caso in Sicilia, al centro del Mediterraneo”29. Non sappiamo con precisione quando e attraverso quali vie il prezioso tessuto sia giunto nella chiesa modenese, verosimilmente non molto tempo dopo la fondazione nel X secolo dell’abbazia benedettina di San Pietro che nel corso dei secoli successivi attraversò periodi di particolare prosperità30.

Venezia e il problema delle “mezze sete” Insieme alla tecnica dello sciamito, il motivo degli animali racchiusi entro ruote, singoli, in posizione frontale o di profilo, a coppie affrontate o poste di dorso, rappresentarono una formula di eccezionale durata. Dopo aver dato visibilità all’immagine pubblica dei re sassanidi e a quella degli imperatori bizantini, aquile, leoni, grifi ed altri animali simbolici, semplificati nelle forme e ridotti nelle dimensioni, caratterizzarono anche gli esordi della tessitura peninsulare italiana. Due rari e preziosi manufatti conservati nella nostra regione offrono una testimonianza eccezionale a questo riguardo: si tratta del telo

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che proteggeva le reliquie di San Procolo, estratto dall’arca marmorea che le conteneva in occasione della ricognizione effettuata nel 1943 ed ancora oggi conservato nell’omonima chiesa bolognese (Figg. 28-29) e del telo proveniente dal corredo funebre del beato Giacomo Salomoni, attualmente conservato nel Duomo di Forlì ma proveniente dalla locale chiesa di San Domenico (Figg. 30-32)31. I due tessuti, già messi a confronto in occasione della recente mostra bolognese dedicata alla cultura del Duecento32, presentano un impaginato a ruote tangenti ordinate in file parallele raffrontabile a quello riscontrato sul telo giallo del corredo di San Giuliano. Delimitate da un doppio contorno e separate negli interspazi da motivi stilizzati a rosetta, i cerchi racchiudono coppie affrontate di animali, rispettivamente grifi e draghi rampanti, cui si sovrappone una decorazione a righe orizzontali che pur arricchendo l’esito complessivo della decorazione disturba la leggibilità dei singoli elementi. Comune ai teli di Bologna e Forlì è anche la tecnica esecutiva dello sciamito operato e l’utilizzo congiunto di raffinati fili di seta per trame e ordito di legatura e grossolani fili di lino per ordito di fondo, peculiarità che li accomuna entrambi ad un nutrito gruppo di tessuti sparsi per i musei e le chiese di tutta Europa, definiti per l’appunto “mezze sete”. La storiografia riguardante questa tipologia, pur concordando nel circoscriverne grosso modo la datazione al Duecento, ha ipotizzato dapprima un centro di produzione a Regensburg in Germania, quindi in Spagna a Burgos, infine a Venezia basando tali ipotesi sulla presenza in loco di simili manufatti33. Per la verità sotto l’etichetta di “mezze sete” si raggruppa un nutrito gruppo di tessuti stilisticamente assai diversi, sparsi per i musei e le chiese di tutta Europa. Mentre in alcuni domina l’impianto geometrico della composizione a orbicoli, in altri acquistano evidenza le figure araldiche di grifi, aquile e leoni che vi si dispongono, in altri ancora le elaborate decorazioni a foglie e racemi delle cornici circolari e degli interspazi; altre varianti riguardano i colori, di regola due a toni contrastanti, le dimensioni delle ruote che vanno dai dieci ai trenta centimetri circa, il grado di raffinatezza dell’esecuzione34. L’eterogeneità della documentazione pervenuta induce piuttosto a pensare che la presenza di un ordito di lino non debba considerarsi come elemento indicativo del luogo di provenienza e che nel corso del XIII secolo la tessitura di “mezze sete” abbia avuto non solo una progressiva evoluzione stilistica ma sia stata praticata nei centri tessili più attivi del Mediterraneo, in area bizantina, in Spagna, in Italia. Il telo conservato a Forlì avvalora ulteriormente l’ipotesi


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che essa fosse conosciuta e praticata con successo anche a Venezia. Esso infatti fu rinvenuto nell’urna marmorea che fino al 1879 custodì le spoglie del beato Giacomo Salomoni, un celebre padre domenicano morto a Forlì nel 1314 ma veneziano di nascita; per di più esso reca in corrispondenza dell’angolo sinistro un raro sigillo di piombo contrassegnato su una faccia da una sigla di tre lettere, C I E, con testa di animale e sull’altra dalla chiara immagine del leone alato di San Marco (Fig. 31). Sono rari i sigilli di questo genere pervenuti sino a noi – alcuni esemplari raffrontabili a quelli di Forlì sono stati rinvenuti in Spagna, altri relativi alla locale industria laniera sono conservati a Padova – e scarse sono anche le notizie sull’uso di contrassegnare le pezze o le balle di merci con marchi di dogana o di qualità35. Indicandone in modo pressoché inequivocabile la provenienza, il marchio con il leone di San Marco conferisce un valore del tutto particolare al telo forlivese quale concreta attestazione della produzione tessile veneziana del Duecento. Trovano in esso riscontro non solo le numerose citazioni di tessuti veneziani rintracciabili in inventari due-trecenteschi ma anche i “laboreri de ace” ovvero di lino o canapa, ricordati nel Capitulare Samitariorum, ovvero negli statuti dei tessitori di seta veneziani del 1265, una riforma di norme precedenti, la cui larghezza (due braccia) corrisponde grosso modo a quella del telo forlivese36. Particolarmente calzante è poi il confronto con il telo giallo conservato a Ravenna, facente parte del corredo funebre di San Giuliano, che pur essendo eseguito in pura seta condivide con essi la tipologia dell’intreccio, la qualità un po’ affrettata della tessitura, le dimensioni e i soggetti del disegno, e soprattutto il particolarissimo motivo delle righe trasversali, elemento assai caratterizzante del prodotto. Non è da escludere che anche questo drappo, appartenga alla produzione veneziana del XIII secolo comprensiva già allora di una svariata gamma di tipologie fra cui “purpure, mecanelli, catasamiti, sarantasimi” ecc.37. Databili tra la fine del Duecento e i primissimi anni del secolo successivo, i teli di Bologna e Forlì appaiono come gli esiti tardi di un lungo processo di sviluppo che poco hanno conservato dei primitivi modelli di riferimento costituiti dai monumentali sciamiti di pura seta con ruote e animali elaborati in area bizantina. La semplificazione tecnica e stilistica che si riscontra su questi tessuti, pur abbassandone la qualità artistico-artigianale, non costituisce necessariamente un valore negativo quanto piuttosto il frutto di una strategia commerciale finalizzata a catturare fasce di consumo più ampie, la risposta alla crescente richiesta di tessuti di seta che si registra nella so-

cietà di quel periodo, fermo restando che la clientela interessata ai prodotti di lusso fu sempre ristrettissima38.

La tessitura nell’Italia comunale: Lucca Fra l’XI e il XIII secolo un processo di espansione demografica e commerciale senza precedenti aveva dato impulso alla crescita delle città italiane che divennero importanti centri di produzione e di scambio, fulcro della vita economica e sociale. Nella realtà profondamente rinnovata delle grandi capitali commerciali, Genova, Pisa, Lucca, Firenze, Milano, Venezia, le attività tessili rappresentarono uno dei settori più qualificati dell’artigianato artistico. Il centro più importante della tessitura medievale italiana fu Lucca dove già alla fine del Duecento la lavorazione della seta aveva raggiunto elevati gradi di specializzazione e si configurava come un’organizzazione complessa, articolata in numerose attività collaterali che facevano capo a corporazioni di mestiere e che andavano dall’importazione della materia prima, alla filatura, dalla tintoria al trattamento dei filati d’oro, dalla progettazione dei motivi decorativi alla vendita dei prodotti attraverso una vasta rete commerciale che aveva basi a Parigi, a Bruges, a Londra39. La fama di Lucca è legata alla comparsa di una tipologia nuova, il “diaspro”, ripetutamente citata negli inventari coevi, sovente in modo puntuale, tale da consentire di individuarne degli esempi fra la documentazione tessile pervenuta: nel piviale rosa antico e oro del Museo di Palazzo Venezia a Roma, o nella casula avorio e oro del Museo dell’Opera del Duomo a Siena che con le loro ampie dimensioni ne documentano chiaramente lo schema decorativo esibendo serrate teorie di coppie di pappagalli affrontati davanti a palmette che si alternano ad analoghe teorie di gazzelle. Il disegno è descritto tono su tono, ovvero con lo stesso colore del fondo, ad eccezione degli zoccoli e delle teste degli animali e di alcuni elementi vegetali trattati in oro. Questi esiti furono possibili grazie alla sperimentazione di una nuova tecnica tessile, il lampasso, che consentiva di realizzare disegni dello stesso colore del fondo accostando armature, ovvero intrecci diversi. In Emilia Romagna la tipologia ricorre nel rivestimento esterno di in un’importante mitra conservata nel Museo Diocesano di Reggio Emilia ma proveniente dall’antica abbazia di Marola (Figg. 33-34). Completamente ignorata dagli studi specialistici dedicati ai tessuti antichi, la mitra ha goduto di scarsa considerazione anche presso gli storici che si sono occupati dell’antica abbazia benedettina alcuni dei quali la ricordano in modo rapido

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ed approssimativo. L’esame dei fogli manoscritti racchiusi fra il tessuto di seta posto all’esterno e la fodera di lino che lo riveste internamente, resa possibile dall’intervento di restauro cui recentemente il copricapo è stato sottoposto, ha evidenziato una scrittura mercantesca collocabile in area veneta tra XV e XVI secolo. A quest’epoca infatti può verosimilmente risalire la confezione del copricapo nella forma che oggi conosciamo mentre i materiali utilizzati sono di epoca precedente, in particolare il prezioso tessuto esterno, un lampasso broccato in seta avorio e oro filato dove si riconoscono elementi decorativi tipici della produzione del XIII secolo tradizionalmente addebitata a Lucca40. Nel corso del Trecento anche l’Italia fu interessata dalla crisi generale che investì l’economia europea nel suo insieme con gravi conseguenze per tutti i settori. Alla contrazione dei traffici e del mercato tessile le industrie locali risposero con prodotti di sempre maggior valore, rinforzarono cioè la tendenza aristocratica della produzione indirizzandola precipuamente ad un’utenza che non rinunciò mai al privilegio del lusso. Da attività comprimaria all’arte della lana, a partire dalla metà del XIV secolo, l’industria della seta assunse il ruolo di industria pilota dell’economia italiana. In questo contesto ebbe luogo un profondo rinnovamento della produzione che riguardò sia il piano tecnico che quello stilistico. La tradizionale tecnica dello sciamito fu abbandonata a favore del più moderno lampasso e l’impaginazione a orbicoli lasciò il posto a moduli più liberi e variati mentre un nuovo bestiario si sostituiva e integrava al precedente: fecero la loro comparsa i pappagalli, i cani, le gazzelle mentre la gamma cromatica si arricchì di nuove tonalità ed accostamenti inediti. Con frequenza intervennero scritte prive di significato in caratteri arabi, cufici o naski, trattate come elemento puramente decorativo. Anche dove persistono gli orbicoli, la decorazione è resa vivace da piccoli animali in movimento come nel bel frammento conservato nel Museo di Modena (Fig. 35), un lampasso lanciato e broccato a fondo azzurro che trova corrispondenza in un grande telo conservato nell’Historisches Museum di Berna, singolare assemblaggio di sottili strisce riunite nel 1882 per volontà del canonico Bock ma precedentemente montate lungo i bordi di un parato liturgico41. Dominato da preziosi medaglioni circolari ordinati in sequenze parallele e sfalsate ispirati all’arcaico motivo delle ruote, il disegno è interpretato con una sensibilità profondamente rinnovata: minute scritte in caratteri arabi sono inserite con funzione puramente ornamentale circondate da nastri sapientemente annodati e da mi-

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nuscoli fiori colorati, mentre coppie di piccoli animali in movimento – cani, cervi, pantere, uccelli del paradiso – animano la composizione rincorrendosi all’esterno dei preziosi cerchi. Nel processo di reimpostazione del disegno tessile in chiave naturalistica esemplificato dalla produzione trecentesca è rintracciabile l’influenza della cultura estremorientale, precisamente cinese. Un grande fatto storico si era verificato nel corso del XIII secolo con il sorgere dell’impero mongolo ad opera di Gengis Kahn e la ripresa dei contatti con l’Estremo Oriente. In taluni casi il riferimento alla simbologia panteista cinese diventa particolarmente esplicito come in un frammento a fondo avorio con disegno oro, anch’esso conservato a Modena, nel Museo d’arte (Fig. 36) nel quale compare chiaramente il simbolo “TSCHI”. Si tratta di un reperto di epoca ormai tarda nel quale il bestiario medievale sopravvive a fianco di motivi nuovi – fiori di cardo e foglie a palmetta – anticipazioni del radicale rinnovamento che nel corso del Quattrocento interesserà la decorazione tessile.

Ricami di seta, perle e fili d’oro Arte duttile e versatile per eccellenza, che si presta a realizzare ogni sorta di disegno o decorazione sul tessuto, o altro materiale purché morbido e maneggevole, utilizzando a questo scopo non solo fibre tessili ma anche perle, smalti, pietre preziose, l’arte del ricamo conobbe una fioritura straordinaria nel corso del Medioevo tale da poter affermare che limitatamente al settore tessile, le opere più rappresentative della cultura e del gusto di quel periodo furono senz’altro realizzate col lavoro ad ago. Essa fu praticata sia in opifici organizzati, di corte o monastici, sia sotto forma di industria borghese o semplicemente casalinga. In ogni caso non si trattò di un lavoro riservato alla donna, anzi la professione del ricamatore fu tenuta in grande considerazione e si svolgeva nell’ambito di vere e proprie corporazioni di mestiere tanto nei centri di produzione dell’Oriente islamico e bizantino quanto in quelli dell’Occidente europeo. Pur sperimentati in una ricca casistica, materiali e tecniche di lavorazione, sia per quanto attiene i tessuti di supporto – in lana, lino o seta – sia per quanto riguarda la tipologia dei punti, non subirono trasformazioni rilevanti. La qualità dei risultati dipendeva piuttosto dal libero abbinamento che il lavoro ad ago consentiva e dalla capacità dell’artigiano di adattare materiali e punti di ricamo alle forme che voleva realizzare42. La molteplicità degli usi cui si prestarono fece si che l’impiego di ricami abbia riguardato tutti i campi della vita


Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente

medievale. La loro presenza riguardò lo spazio sacro della chiesa ma anche le abitazioni e l’abbigliamento dei nobili, di coloro che occupavano i ranghi più elevati della società feudale, e dei ricchi borghesi che ne imitavano usi e costumi. Le testimonianze che ci sono pervenute, tuttavia, provengono prevalentemente dall’ambito liturgico come attesta anche il patrimonio conservato in EmiliaRomagna, costituito da pochi ma importantissimi manufatti,veri e propri capolavori, provenienti da aree culturali assai differenti, che nel loro insieme documentano l’ampia diffusione e il grado di perfezione raggiunto da quest’arte nel Medioevo. Il documento più antico, e forse anche il più noto, è il cosiddetto “Velo di Classe” (Fig. 37), un ricamo di epoca altomedievale, nato sembra come ornamento di una tovaglia d’altare, riutilizzato poi per la decorazione di una casula o pianeta conservata nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe da cui successivamente passò al Monastero di Classe entrando infine a far parte del patrimonio del Museo Nazionale di Ravenna dove tutt’oggi si conserva. Esso è costituito da tre sottili fasce recanti le raffigurazioni di busti di santi racchiusi entro clipei di forma leggermente ovale cui si aggiungono l’immagine della “Manus Dei” a significare l’intervento divino e quella dell’arcangelo Michele. Come di regola accade nei cicli figurativi dei ricami medievali il cui tema, desunto dalle sacre scritture o ispirato alla vita dei santi, era accompagnato da iscrizioni che ne sottolineavano il carattere didascalico, sotto gli orbicoli scorrono i nomi dei personaggi raffigurati all’interno. Messo in rapporto con la storia ecclesiastica veronese già nel XVIII secolo e successivamente identificato con la copertura ricamata che copriva l’altare sovrastante il sepolcro dei santi Fermo e Rustico di Verona descritta in un’antica cronaca cittadina ed eseguita su commissione del vescovo Annone (750-780), il Velo di Classe si presenta come un lavoro di grande finezza. Eseguito su una doppia tela di lino avorio, il ricamo impiega fili d’oro messi in opera a punto posato per ricoprire interamente il fondo e sete policrome per definire le figure: il colore rosso e verde si alternano nel contorno degli orbicoli e insieme a tonalità di rosa, azzurro e nocciola sono impiegate per definire gli altri particolari del disegno dove ricorrono prevalentemente il punto spaccato e il punto filza. Ispirato alla miniatura e all’argenteria coeve questo raro e raffinato lavoro conserva con evidenza l’influenza della cultura romana. È assai probabile che il ricamo sia stato eseguito fra VIII e IX secolo da maestranze operanti nell’Italia settentrionale, forse a Verona stessa che come osserva Luciana Martini nel periodo della rinascenza ca-

rolingia, divenne uno fra i centri più attivi della rifioritura artistica43. Grazie anche alla relativa stabilità politica la tradizione bizantina si protrasse per un lungo periodo di tempo. In questo ambito la liturgia cristiana si articolò in maniera leggermente differente rispetto a quanto accadde nel mondo romano: gli abiti degli officianti acquisirono caratteristiche nuove e si elaborarono accessori sui quali ricchi ricami ripetevano simboli cristologici o storie della vita del Salvatore. Un’importante testimonianza al riguardo è costituita da un paliotto d’altare conservato nel Museo della Collegiata di Castell’Arquato ornato da due preziosi ricami raffiguranti la comunione degli apostoli sotto le specie del pane e del vino (Figg. 38-39). Cristo, affiancato da un angelo con ventaglio liturgico è rappresentato dietro la sacra mensa nella veste iconografica tipicamente bizantina del celebrante, sotto un ciborio cuspidato sostenuto da quattro colonne. Gli apostoli, sei per ogni riquadro, avanzano in fila verso di lui per ricevere il pane e il calice del vino. L’altare è coperto da una preziosa tovaglia drappeggiata e fra gli edifici che si ergono sullo sfondo conferendo unitarietà alle scene si leggono due iscrizioni greche, di sette e nove righe, relative all’istituzione dell’eucarestia, riconducibili a Matteo, XXVI, 26-28. Il ricamo è eseguito su uno sciamito unito di colore rosso a punto diviso o spaccato in seta avorio, verde e nera (volti, mani, piedi, capelli, contorni delle vesti e dei motivi architettonici), a punto steso in oro e argento trafilato a fili doppi (architetture e drappeggi) e a punto lanciato in seta verde e azzurra (cornici). Secondo la leggenda, suffragata da fonti storiche piacentine, il prezioso reperto appartenne al Patriarca di Aquileia Ottobono Rosario dé Feliciani, che alla fine del 1314, per sfuggire alle minacce di Galeazzo Visconti, si era rifugiato a Castell’Arquato dove poco dopo morì lasciando tutto il corredo della sua cappella alla chiesa Collegiata di Santa Maria in cui venne eretta la sua tomba. Apparentabili per qualità artistica ed interesse storico-documentario ad altri noti manufatti conservati in Italia, quali il “pallio” di San Lorenzo a Genova o la dalmatica vaticana cosiddetta di Carlomagno, i ricami propongono uno schema assai diffuso nell’arte bizantina documentato in codici miniati già nel VI secolo, ripetuto successivamente in mosaici ed affreschi, sino a divenire nel XIV secolo il tema favorito della decorazione monumentale. Non mancano tuttavia tratti originali sia nel concitato affrettarsi degli apostoli verso l’altare, sia nell’attenta differenziazione delle figure, sia nella varietà degli sfondi architettonici che conferiscono un carattere realistico alla composizione e consentono di approssimarne la data-

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zione ad una data non troppo lontana da quella della donazione. L’eleganza dello stile e l’accuratezza dell’esecuzione suggeriscono come ambito di provenienza la capitale od un’area soggetta alla sua influenza44. A partire dal XIII secolo negli inventari dei tesori ecclesiastici compare con sempre maggiore frequenza l’espressione opus anglicanum riferita a paramenti riccamente decorati di cui indica sia la provenienza geografica, ovvero inglese, sia la peculiarità della lavorazione caratterizzata da un raffinatissimo ricamo in seta e filo d’oro. Praticato non soltanto nei monasteri ma anche in laboratori secolari questo genere di lavoro ebbe la sua massima fioritura fra la metà del Duecento e la metà del Trecento e fu apprezzato e assai richiesto in tutta Europa come attestano le numerose citazioni inventariali e la documentazione pervenuta. Oggetto di munifici doni da parte di pontefici e sovrani è documentato in Italia dai preziosi parati di Ascoli Piceno, Anagni, Pienza, Roma, e di Bologna, infine, dove si conserva un manufatto di livello eccezionale, il grande piviale proveniente dalla cittadina chiesa di San Domenico (Fig. 40). Di taglio perfettamente semicircolare, con diametro di oltre tre metri, la superficie del mantello è interamente ricoperta da una densa decorazione articolata su due fasce ripartite in nicchie cuspidate contenenti scene della vita di Cristo e della Vergine tranne una dedicata al martirio dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket. Il ricamo è eseguito su tela di lino: oro e argento filato, adoperati per la copertura del fondo e pochi particolari del disegno, sono lavorati a punto affondato, le sete, impiegate in una vasta gamma di tonalità per tratteggiare personaggi e architetture sono messe in opera a punto diviso o spaccato; nelle larghe zone in cui il ricamo è scomparso è ancora chiaramente visibile il disegno preparatorio. Non disponiamo a tutt’oggi di prove documentarie per ancorare l’esecuzione del raffinato paramento ad una data precisa stante il fatto che il primo documento ad esso riferibile è un inventario dei beni della chiesa del 1390 nel quale è citato “unum pluviale magnum cum figuris contextum de auro et fuit domini benedicti papae” che tuttavia non chiarisce se si tratti di papa Benedetto XI (1303-1304) o Benedetto XII (1334-1342). Secondo alcuni studiosi, l’eccezionale parato si trovava a Bologna già nei primissimi anni del Trecento, in tempo cioè per orientare con il suo vasto repertorio di modelli gli sviluppi della pittura gotica locale; per altri l’esecuzione del piviale è da posticipare al secolo successivo, tra 1315 e 133545. Comunque sia, in esso si riconosce l’opera congiunta della forte personalità dell’artista che fornì i cartoni e degli abilissimi artigiani che seppero tradurre il modello con l’ago e il

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filo senza tradirne l’alto contenuto drammatico e il pungente realismo. Nel Medioevo l’arte del ricamo ebbe declinazioni molto diverse strettamente dipendenti dall’ambito culturale di maestranze e committenti. Nella Chiesa di Santo Stefano a Bologna si conserva una rara quanto preziosa attestazione del ricamo di perle,un genere che ha origini antiche, diffuso soprattutto nei paesi del nord Europa dove si trovano le perle di fiume, ma esemplificato anche nei suntuosi parati da cerimonia di Ruggero II, ed amato presso la corte angioina di Napoli dai cui laboratori uscirono veri e propri capolavori. Si tratta della mitra che fino a due secoli fa sormontava la testa di una statua-reliquiario – oggi perduta – di un santo di nome Isidoro i cui resti, rinvenuti nel 1141 preso la chiesa bolognese, furono da subito confusi con quelli del più noto Isidoro di Castiglia (Fig. 41)46. La mitra è ricamata con perle di fiume, smalti, pietre preziose incastonate in placchette d’oro e presenta una ricca ornamentazione di gusto gotico costituita da protomi leonine dalle quali si dipartono racemi fogliati collocate sui due lati e da draghi e uccelli che si alternano sul circolo e sul titulo, entro cornici mistilinee. Realizzato a rilievo con finiture in sete policrome, il luminoso ricamo contrasta con il tessuto di fondo, di un brillante colore blu. Il copricapo bolognese è stato messo in relazione con la mitra conservata nella cattedrale di Amalfi, un vero e proprio capolavoro dell’oreficeria angioina realizzato in un laboratorio di Napoli al tempo di Carlo II, tra la fine del XIII e i primi decenni del XIV secolo, per Lodovico, il figlio secondogenito che rinunciò alla corona per indossare il saio francescano divenendo vescovo di Tolosa nel 129647. Il recente restauro, consentendo di analizzarne le varie componenti, ha messo in evidenza dati interessanti, prima sconosciuti. In particolare ha consentito la lettura delle pergamene utilizzate per dare sostegno al tessuto dove si legge il testamento di tale “Petrus filius quondam Domini Jhoannis” redatto dal notaio Bombolognus Lamberti Barracani, conosciuto a Bologna nel 1317, ed una scritta che si riferisce ad un monastero femminile situato in Romagna redatta nel corso del secondo anno del pontificato di Benedetto XI, ovvero nel 130448. Questi nuovi dati, pur confermando la datazione della preziosa mitra ai primi decenni del Trecento, ne rimettono in discussione l’area di provenienza: a meno che non si debba disgiungere l’esecuzione del ricamo dalla confezione del copricapo e ragionevolmente pensare che questa solamente sia avvenuta a Bologna o in area romagnola come le scritte delle pergamene suggeriscono.


Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente

NOTE 1

Sul tema del lusso nel Medioevo cfr. R. Rinaldi, Medioevo sfarzoso, in I magnifici apparati, Milano 1998, pp. 40-139. Al tema del lusso si collega quello non meno rilevante delle leggi suntuarie, ovvero delle norme che disciplinavano l’uso di articoli di lusso nell’abbigliamento. Su questa vasta materia si richiamano gli studi di M.G. Muzzarelli, il saggio Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino 1996 nonché la raccolta delle norme riguardanti il territorio della nostra regione. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna, a cura di M.G. Muzzarelli, Ministro per i Beni e le Attività Culturali - Direzione generale per gli Archivi, pubblicazione degli Archivi di Stato. Fonti XLI, Roma 2002. 2 Su questo argomento cfr. P. Daffinà, La seta nel mondo antico, in La seta e la sua via, catalogo della mostra a cura di M.T. Lucidi, Roma 1994, pp. 17-24. 3 Cfr. F. dè Maffei, La seta a Bisanzio, in La seta e la sua via, cit. pp. 89. 4 Sul tema delle arti tessili nei paesi islamici rimane ancora un punto di

riferimento lo studio di M.Lombard, Les Textiles dans le Monde Musulman du VII au XII siècle, Parigi 1978; si veda anche B.M. Alfieri, Seta islamica, in La seta e la sua via, cit., pp. 113-116. 5 Cfr. D. Jacoby, Silk crosses the Mediterranean, in Le vie del Mediterraneo. Idee,

uomini, oggetti (secoli XI-XVI), a cura di G. Airaldi, Genova1997, pp. 55-79. 6

Il corredo funebre di Cangrande, già oggetto di accurati studi, è stato riesaminato in occasione della recente mostra al cui catalogo si rimanda anche per la bibliografia precedente Cangrande della Scala. La morte e il corredo di un principe nel medioevo europeo, a cura di P. Marini, E. Napione, G.M. Varanini, Venezia 2004; sui tessuti recanti marchi di provenienza orientale conservati in Spagna cfr. C. Herrero Carettero, Marques d’importation au XIV siècle sur les tissus orientaux de Las Huelgas, in “Bulletin du CIETA”, n. 81, 2004, pp. 41-47. 7 Cfr. M. Mihàlyi, Medioevo e seta, in La seta e la sua via, cit. pp. 124. 8

M. Martiniani-Reber, Le Role des etoffes dans le culte des reliques au Mouyen Age, in “Bulletin du CIETA”, n. 70, 1992, pp. 53-58.

9 I materiali tessili sono già sinteticamente elencati nel Processo verbale sco-

perchiatura dell’urna marmorea nella chiesa di S. Giuliano e nel successivo Atto di cessione delle stoffe preziose bizantine rinvenute il giorno 8 giugno 1910 nella chiesa di S. Giuliano a Rimini, Ravenna aprile 1912, Archivio S.B.A.A. di Ravenna. 10

Sul primo cfr. la scheda di B. Schmedding, Mittelalterliche Textilien in Kirchen und Klöstern der Schweiz, Berna 1978, cat. n. 220; sul frammento di Edimburgo si veda L. von Wilckens, Die textilen Künste von der Spätantiche bis um 1500, Monaco 1991, p. 18 e fig. 13; per il tessuto di Sant’Ambrogio oltre a A. De Capitani d’Arzago, Antichi tessuti della basilica ambrosana, Milano 1947 cfr. la schede di M. Martiniani Reber in Milano, una capitale da Ambrogio ai Carolingi, a cura di C. Bertelli, Milano 1987 Tunica S7 A e B, p. 178. 11

G. Gerola, La ricognizione della tomba di S. Giuliano in Rimini, in “Bollettino d’arte”, 1911 e dello stesso autore si veda anche Stoffe trovate nella tomba di S. Giuliano, in “Arte decorativa e industriale”, XX, 1911. 12

La datazione proposta dal Gerola è stata ripresa più di recente da M.G.Maioli, San Giuliano: i tessuti dell’arca del santo, in Rimini medievale, a cura di A. Turchini, Rimini 1992, p. 198. 13 A. Stauffer, Two late antique silks from San Giuliano in Rimini, in “Bullettin du CIETA”, n. 77. 2000, pp. 22-33. Per la verità il tessuto a disegno geometrico trova riscontri calzanti anche in reperti provenienti dagli scavi di Achmim in Egitto databili all’epoca della conquista musulmana Cfr.: M. Martiniani-Reber, Soieries sassanides, coptes et byzantines V-XI siècle, Parigi 1986, cat. n. 34.

14 I dati agiografici di San Giuliano sono discussi in Gerola. La premessa

di Turchini in Rimini medievale, cit. riconduce al IX-X secolo la nascita del culto di S. Giuliano ma non chiarisce la presenza nell’arca di monete del IV secolo. 15 Processo verbale…, cit. 16 In verità le dimensioni del diametro delle ruote grandi, coincidente con quelle del modulo decorativo, variano da 43 a 50 centimetri. Questa irregolarità, riscontrabile anche in altri elementi del disegno, come ad esempio i dischi posti nei punti di tangenza, forse deriva dalle travagliate vicissitudini subite dalla stoffa o forse costituisce una peculiarità della tessitura. Purtroppo non ci sono pervenute testimonianze dirette sui metodi di fabbricazione di queste opere tessili la cui grandiosità e finezza presuppongono non solo l’impiego di maestranze abilissime ma anche l’allestimento di telai molto complessi e una sperimentata organizzazione produttiva. 17 Oltre che nei già citati contributi di G.Gerola e di M.G. Maioli il telo figura nell’elenco delle stoffe del Museo di Ravenna prodotto da Sangiorgi nel 1923 e pubblicato da L. Martini nel saggio introduttivo al volume di C.Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma 1993, nel catalogo della mostra L’antico tessuto d’arte italiano nella Mostra del Tessile Nazionale curato da L. Serra, Roma 1937, cat.n.46, nello studio di W.F. Volbach, Il tessuto nell’arte antica, Milano 1966, p.140, fig. 64; recentemente è stata avanzata l’ipotesi di una probabile manifattura armena, per la verità compatibile con i dati storici a disposizione; al riguardo cfr. L.Martini, Cinquanta capolavori nel Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998, cat. n. 14. 18 Complesse valenze simboliche ed elevata capacità espressiva valsero un’ampia diffusione cronologica e geografica al tema del leone che ora troviamo inserito in scene di caccia o di lotta, ora impaginato in sistemi ad orbicoli, ora isolato senza partizione alcuna. Un breve profilo storico sui significati e sulla fortuna iconografica in ambito tessile è stato tracciato da M.G. Chiappori, Il leone, in La seta e la sua via, cit. pp. 143-145. 19 L. von Wilckens, Die textilen Künste, cit., fig. 47, p. 52; Ornamenta Ecclesiae,

catalogo della mostra Colonia 1985, vol. 2, pp. 326-329, scheda cat. n. E94. 20 Processo verbale…, cit. 21 Si veda l’elenco delle stoffe ravennati redatto da Sagiorgi nel 1923 (si veda la nota 17) lo studio di M.G. Maioli, San Giuliano, cit. scheda n. 4, pp. 198-199; sul telo dei Gesuati cfr. D. Davanzo Poli, I tessuti come fonte: reperti inediti dei secoli XIII-XVII conservati elle chiese veneziane, in La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, a cura di L. Molà, R.C. Mueller, C. Zanier, Venezia 2000, p. 76-79 22 G. Gerola, La ricognizione, cit., p. 119. 23 Cfr. B.M. Alfieri, Seta islamica, in La seta e la sua via, cit. pp. 113-116 e nel-

lo stesso catalogo D. Jones, Unità e diversità nell’arte islamica, pp. 117-119. 24

Sui tiraz musulmani cfr. M. Lombard, cit. pp.219-225; sull’organizzazione del lavoro tessile nel mondo arabo, oltre agli articoli citati alla nota precedente, si veda anche il catalogo della Collezione Bouvier, edito in occasione della mostra Tissus d’Egypte. Temoins du monde arabe. VIII-XV siècle, Roma 1993, in particolare l’articolo di G. Cornu, Les tissus dans le monde arabo-islamique oriental jusqu’à l’époque mameluke, pp. 22-29; il catalogo, sezione VII e VIII, presenta numerosi tiraz. 25 Il complesso di queste vesti, è stato oggetto di una recente importante iniziativa espositiva corredata di un imponente catalogo cui si rimanda: Nobiles Officinae. Die königlichen Hofwerkstätten zu Palermo zur Zeit der Normannen und Staufer im 12. und 13. Jahrhundert, Vienna 2004.

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26 G. Guandalini, scheda in Romanico Mediopadano. Strada, città ecclesia, ca-

37 Cfr. G. Monticolo, I Capitolari, cit. pp.

talogo della mostra, Parma 1983, cat. n. 112. pp. 225-229.

38 Un riesame dei temi del commercio e della produzione tessile a Venezia nel Medioevo è stato svolto da D. Jacoby, Dalla materia prima ai drappi tra Bisanzio, il Levante e Venezia: la prima fase dell’industria serica veneziana, in La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, a cura di L. Molà, R.C. Mueller, C. Zanier, Venezia 2000, pp. 265-304.

27 L.A. Gandini, Di un antico tessuto del monastero di San Pietro in Modena, in

“Rassegna d’arte”, 1902, II, n. 6, pp. 85-86 e Ancora sul tessuto di Modena, in “Rassegna d’arte”, 1903, III, n. 6, pp. 94-95. 28

La vicenda critica relativa al frammento di Modena è riassunta nella scheda di catalogo n. 65 della recente mostra viennese richiamata alla nota 25. Per un inquadramento delle problematiche relative all’attribuzione del gruppo dei tessuti ad arazzo a fondo rosso, si veda anche la sch. n. 16 in Fils renoués. Trésors textiles du moyen âge en Languedoc - Roussillan, catalogo della mostra, s.l., s.d. (ma Carcassonne 1993). 29 Cfr. D. Devoti, Scheda in Le raccolte d’arte del Museo Civico di Modena, a cu-

ra di E. Pagella, Modena 1992, pp. 185-186. 30 G. Guandalini, scheda in Romanico Mediopadano, cit. p. 225. 31

tica arte lucchese, catalogo a cura di D. Devoti, Lucca 1989 al quale rimando anche per la bibliografia precedente. 40

Il prezioso copricapo proveniente dall’abbazia di Marola figura nel catalogo della mostra In excelsis. Arte e devozione nell’Appennino Reggiano (XII-XVIII sec.), a cura di F. Bonilauri e V. Maugeri con una scheda di presentazione molto sintetica a mio nome a cui rimando per dati tecnici più completi e la bibliografia precedente.

41 Cfr. la scheda redatta da chi scrive in Le raccolte d’arte del Museo Civico di Modena, cit., pp. 187-188.

Sull’arca di San Procolo e le sue vicende rimando a S. Baldassarri, A. Raule, F. Rodriguez, S.Procolo e la sua tomba, Bologna 1943 e M.Fanti, L’arca di S. Procolo e le sue vicende, Bologna 1961; sul tessuto cfr. M. Cuoghi Costantini, Uno sciamito del XIII secolo, in “Arte tessile”, I, 1990, pp. 4-8. Per il telo del Beato Salomoni cfr. M. Cuoghi Costantini, Scheda in Il San Domenico di Forlì. La chiesa, il luogo, la città, catalogo della mostra a cura di M. Foschi e G. Viroli, Bologna 1991 e M. Cuoghi Costantini, Le linceul du Bienheureux Giacomo Salomoni, in “Bulletin du CIETA”, 70, 1992, pp. 111-115.

42 Sul ricamo nel Medioevo oltre allo storico testo d E. Ricci, Ricami italiani antichi e moderni, Firenze 1925 e a quello di M. Schuette, S. MullerChristensen, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma 1963 si veda S. DurianRess, Ricami, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 581-594.

32

M. Cuoghi Costantini, Scheda in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna, catalogo della mostra a cura di M. Medica, Venezia 2000, cat. n. 126, pp. 382-385.

43

33 O. von Falke, Kunstgeschichte der Seidenweberei, Berlino 1913, II, p. 40-45;

me in Il Museo della Collegiata di Castell’Arquato, a cura di P. Ceschi Lavagetto, Piacenza 1994, pp. 103-105 cui rimando anche per maggiori dettagli tecnici e la bibliografia precedente.

M. Gomez Moreno, El Panteon de Las Huelgas de Burgos, Madrid 1946, pp.60-63; F. Lewis May, Silk Textiles of Spain, New York, 1957, pp. 60, 113117; D. King, Some Unrecognised Venetian Wowen Fabrics, in “Victoria and Alert Mseum Yearbook”, I, 1969, pp. 53-63. 34 Per alcuni esempi di sciamiti mezze sete in Europa cfr. C. Herrero Car-

Cfr. L. Martini, Cinquanta Capolavori, cit., scheda n. 13, p. 38-39, anche per la bibliografia precedente.

44 Sulle due preziose raffigurazioni ricamate si veda la scheda a mio no-

45 La prima tesi è sostenuta da F. Bignozzi Montefusco, Il piviale di San Domenico, Bologna 1970 che costituisce lo studio più esteso e documentato sul parato bolognese; un riesame della bibliografia dedicata all’opera è svolta da A. Rizzi, in Duecento, cit. cat. 127.

rettero, Museo de Telas Medievales. Monasterio de Santa Maria le Real de Huelgas, Madrid 1988, pp. 26-27, B. Tietzel, Italienische Seidengewebe des 13., 14. und 15. Jahrhunderts, Colonia 1984, cat, n. 10, D. Devoti, L’arte del tessuto in Europa, Milano 1974, cat. n. 22.

di Sant’Isidoro, “Ospiti 12” dei Musei Civici d’Arte Antica del Comune di Bologna, Ferrara 1999.

35 Tresor Textiles cit., cat. n. 54 e D. Cardon, La Drapperie au Moyen Age, 1999,

47 S. Giorgi, La mitra, cit., pp. 23-26.

pp. 594-600.

48 I dati emersi dal restauro sono discussi da F. Faranda, Scheda in L’Europe des Anjou. Aventure des princes angevines du XIII au XV siècle, catalogo della mostra, Parigi 2001, cat. n. 70.

36 D. King, Some Unrecognised, cit., pp. 60-61 e G. Monticolo, I Capitolari del-

le Arti veneziane, Roma 1905, p. 32.

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39 All’industria lucchese è stata dedicata la mostra La seta. Tesori di un’an-

46 Il prezioso reperto è stato recentemente studiato da S. Giorgi, La mitra


Un tesoro ritrovato a Nonantola RICCARDO FANGAREZZI PAOLO PERI

a rigorosa campagna con cui l’Arcidiocesi di Modena – Nonantola sta attuando l’inventario promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana ha permesso di ritrovare presso l’Abbazia di Nonantola, nel 2002, due rari tessuti, ulteriori preziosissimi elementi per accrescere la nostra comprensione della vita religiosa e liturgica e del fenomeno monastico nell’alto medioevo. Il ritrovamento del 2002, appena pubblicato1, è stato completato dal rinvenimento nell’Archivio Abbaziale di una ulteriore notevolissima porzione di uno dei due tessuti principali. Insieme alla straordinaria qualità e rarità di questi reperti, ciò che più colpisce è forse lo strettissimo legame con la storia liturgica e culturale dell’Abbazia che li custodisce. Lo stretto legame con il culto dei santi della più che millenaria Abbazia è rimarcato anzitutto dai numerosi e significativi riferimenti a tessuti contenuti nei testi agiografici prodotti nell’antico monastero tra X e XI secolo, con particolare riferimento alle reliquie dei SS. Adriano papa e Sinesio e Teopompo martiri2. Notevoli anche i puntuali legami tra la storia dell’abbazia e l’Oriente imperiale e cristiano, presenti fin dai primi decenni del monastero, a testimonianza ulteriore del rilievo pienamente europeo assunto almeno dall’età carolingia a quella ottoniana (VIII-XI sec.). Gli abati Pietro ed Ansfrith, immediati successori del fondatore Sant’Anselmo (fondazione: 752; morte del santo: 803), svolsero delicate ambascerie a Costantinopoli, il primo per conto di Carlo Magno insieme al vescovo Amalario di Treviri nell’813814, il secondo con il vescovo Alitgario di Cambrai nell’828 in rappresentanza di Ludovico il Pio e Lotario3. Attorno al 910 furono qui traslate le reliquie dei martiri di Nicomedia (ora prossima a Costantinopoli) Teopompo vescovo e Sinesio, prelevate dalla chiesa di S. Maria e S.

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Fosca in Treviso, dipendenza nonantolana distrutta dagli Ungari. Tra 982 e 986 fu abate di Nonantola l’italo-greco Giovanni Filàgato, membro del seguito dell’imperatrice Theofanò e contemporaneamente anche abate di Bobbio e vescovo di Piacenza e infine antipapa4. Ancora nel 1339 Nonantola possedeva in Costantinopoli il priorato di S. Maria della Corona (o Incoronata = Assunzione o Dormizione della SS. ma Madre di Dio)5, non si sa se acquisito durante l’usurpazione latina dell’Impero d’Oriente o già molto prima. I tessuti sono oggi essi stessi reliquie, per il loro utilizzo nella conservazione dei santi resti dei martiri e confessori. Tale utilizzo, come sopra accennato, è puntualmente ricordato nell’antica agiografia del monastero e ci obbliga ad elencarne i passaggi principali. La Vita Anselmi menziona il 756 quale anno in cui il santo abate portò da Roma alcune reliquie di san Silvestro I papa, procurandogli l’intitolazione della basilica abbaziale ed il culto ivi e nei vastissimi territori dell’Abbazia, disseminati in tutta l’Italia centrosettentrionale. Anselmo terminò la sua vita nell’803, venerato dai suoi monaci per il cinquantennale onorevolissimo abbaziato. Attestazioni certe del carattere pubblico del suo culto si hanno almeno dai primissimi anni dell’XI secolo. Adriano III papa morì nell’885 presso Spilamberto, in territorio nonantolano, mentre si dirigeva in Germania dall’imperatore Carlo il Grosso. La salma venne sepolta nell’Abbazia di Nonantola e subito venerata. Intorno al 910 raggiunsero l’Abbazia le importanti reliquie dei SS. Sinesio e Teopompo (martirizzati nel 303 al tempo di Diocleziano a Nicomedia, allora capitale dell’Impero d’Oriente, ora presso Costantinopoli), provenienti da Treviso, dove erano state custodite dalla santa vergine Anserada (in seguito detta Anseride), che le seguì


RICCARDO FANGAREZZI - PAOLO PERI

a Nonantola. Provenivano dalla chiesa di S. Maria Maggiore e S. Fosca in Treviso, priorato nonantolano distrutto dalle scorrerie ungariche. Forse a questo titolo, o alla presenza tra esse di reliquie minori di questa martire, si deve il culto nonantolano a S. Fosca. Silvestro, Anselmo, Adriano, Teopompo e Sinesio, Anseride e Fosca compongono la corona delle “sette perle nonantolane”. Anche alcuni traumatici eventi sono da considerare quali possibili cause di ricognizione e di associazione dei tessuti alle reliquie: l’incursione ungarica dell’anno 899, il rovinoso incendio dell’Abbazia del 1013, il terremoto del 1117. Di San Silvestro si ipotizza una traslazione circa il secolo X6. Anche l’inizio del culto pubblico di S. Anselmo a fine X – inizio XI secolo può essere stato occasione per un’apertura del sepolcro. Possibilità assai più tarde sono la creazione del braccio reliquiario di S. Silvestro datato 1372 e le ricognizioni del 1475 e del 1580. Prima di descrivere i due tessuti maggiori, infine, è indispensabile ricordare l’ultima ricognizione delle reliquie, nel verbale della quale essi sono sommariamente indicati7. Il 9 luglio 1914 fu aperta l’urna di marmo che conteneva i resti di S. Silvestro. Le ossa erano avvolte in una stoffa genericamente indicata come ‘rossa’. Gli esperti valu-

tarono che esse fossero pertinenti più a uomini adulti, maschi, di statura media. Pochi mesi dopo fu effettuata la ricognizione dei SS. Anselmo, Adriano ed altri. Il 29 ottobre fu aperta la custodia lignea che conteneva le sante ossa disposte entro due distinti involti: in uno di tessuto giallo ne furono trovate molte, appartenenti a un’unica persona, con l’aggiunta di un solo cubito sinistro estraneo – probabilmente riferibili le prime a S. Adriano, il secondo a S. Anselmo –, mentre un involto rosso conteneva reliquie provenienti da almeno sei scheletri, riferibili a sant’Anseride, ai martiri Sinesio e Teopompo, ed altri. Dopo i recenti ritrovamenti dei tessuti abbiamo potuto constatare che i due drappi rossi ora menzionati fanno parte di un unico antico reperto. I dati storici, letterari e artistici, lasciando più difficile congetturare sul reperto ‘giallo’, permettono invece ipotesi suggestive circa il reperto ‘rosso’, nel quale potrebbero far riconoscere un dono imperiale agli abati Pietro o Ansfrith, oppure la casula di papa Adriano, o il dono della Santa regina imperatrice Adelaide ai SS. Sinesio e Teopompo8 o ancora un elemento di corredo al dono della reliquia insigne della Santa Croce (fine X - inizio XI secolo). Riccardo Fangarezzi

NOTE 1 P. PERI, I tessuti antichi ritrovati nell’Abbazia di Nonantola: i due reperti princi-

4 G. TIRABOSCHI, Storia dell’Augusta Badia di Nonantola, Modena 1784, t. 1, pp.

pali, in Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, cur. C. Ciaravello – R. Fangarezzi, (“Quaderni di Arte Sacra” 4), Modena – Nonantola 2004, pp. 25-29.

94-97; P. BONACINI, Relazioni e conflitti del monastero di Nonantola con i vescovi di Modena, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secc. VIII-X). Atti del convegno di studi. Nonantola 9-13 settembre 2003, cur. G. Spinelli – R. Fangarezzi, Cesena 2006, in corso di stampa, note 1924 e testo).

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P. BORTOLOTTI, Antica Vita di S. Anselmo abbate di Nonantola, Modena 1892, pp. 156-157, 164, 166, 167-168, 172, 175, riportati anche in P. PERI, Antiche reliquie tessili dell’Abbazia di Nonantola, in S. Anselmo di Nonantola e i santi fondatori tra Oriente e Occidente. Atti della giornata di studio. Nonantola 12 aprile 2003, cur. P. Golinelli – R. Fangarezzi – A. M. Orselli, Roma 2006, in corso di stampa, nota 27). 3 M. S. ZOBOLI, Il monastero di San Silvestro di Nonantola all’epoca dell’abbazia-

to di Pietro (804-824/825), (“Tesi” 4), Nonantola 1997, pp. 143-202.

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5 G. TIRABOSCHI, Storia dell’Augusta Badia di Nonantola, cit., pp. 444. 6 Riferimenti in P. PERI, Antiche reliquie tessili ..., cit., note 9, 11 e 22, 26. 7

Verbale della Ricognizione del Corpo di S. Silvestro fatta il 9 luglio 1914 e Ricognizione delle Reliquie dei SS. Anselmo, Adriano ed altri santi nell’Abbazia di Nonantola, in “Bollettino del Clero”, III (1914), pp. 246-249, 343-348. 8 Cfr. BORTOLOTTI, Antica Vita di S. Anselmo, cit. pp. 156-157 e 167-168.


Un tesoro ritrovato a Nonantola

I tessuti di Nonantola Schede Sciamito con le aquile (tre frammenti, forse tratti da una casula) (Fig. 42) Manifattura bizantina, VIII-IX secolo Sciamito istoriato a sette trame, la quinta interrotta (il numero delle trame, la policromia e le dimensioni dei frammenti verrà definitivamente precisata dopo il restauro). Sciamito di costruzione classica, i fili dell’ordito di fondo, in seta rossa, si intercalano entro le diverse trame di seta nei colori giallo, due tonalità di verde cedro, verde smeraldo, blu (forse porpora), bianco (interrotta), rosso, al fine di fare risaltare sul diritto le trame del colore desiderato, mentre le altre vengono respinte sul rovescio. Le trame sono fermate in diagonale 2 lega 1, direzione S sul diritto, dai fili dell’ordito di legatura in seta rossa. Il primo frammento di tessuto si presenta di forma rettangolare, anche se allo stato attuale sembra che in basso sia leggermente più grande e stondato, mentre nel lato superiore risulta un accenno di scollatura. Il secondo reperto è composto da due teli fra loro cuciti e si presenta con il lato destro stondato. Le dimensioni e la resa sartoriale dei due reperti fanno supporre che essi in origine facessero parte di una casula “a campana”. Per conoscere meglio il reperto abbiamo ritenuto utile riportare alcune misure, che siamo stati in grado di rilevare in modo diretto, riferite ai decori: il diametro interno del grande orbicolo misura centimetri 68 ca; lo spessore della cornice risulta di centimetri 7 ca; il diametro dell’orbicolo più piccolo, che serve da raccordo, misura in verticale centimetri 14,5 ca ed in orizzontale centimetri 12,6 ca; l’altezza dell’aquila è di centimetri 60 ca. Il rapporto del disegno è incompleto, infatti è possibile definire solo l’altezza che risulta di centimetri 82 ca. Il modulo disegnativo è impostato seguendo uno schema ad orbicoli contigui fra loro collegati, nei quattro punti di tangenza, da un altro orbicolo o rosone più piccolo definito da due cerchi gialli entro i quali spicca il colore rosso di fondo sul quale risaltano 16 perle bianche, a seguire vediamo collocata, sempre su fondo rosso, una mezza luna gialla. La rota grande è composta da una cornice seminata da elementi esagonali scalati in giallo e blu disposti in fasce orizzontali fra loro alternate; ogni serie è completata da piccoli quadrati verdi, fra loro distanziati. Questa cornice, è definita all’esterno e all’interno, da cerchi composti

da perle gialle. Al centro, su fondo rosso, risalta una grande aquila simbolica con la testa volta a destra (ovvero verso Oriente e quindi espressione della potenza dell’Impero e sui domini bizantini), ali spiegate e decorate: la parte alta è definita da una voluta circolare che inscrive un motivo floreale (quasi un fiore di loto), stilisticamente da avvicinare a mosaici ritrovati a Gerusalemme, sorretto da uno stelo con due foglie speculari e dentellate; due fasce orizzontali, date da una cornice in giallo, ornate da 11 perle bianche, interrompono la parte alta da quella bassa che presenta nove righe verticali gialle e degradanti verso l’interno, per ogni ala, appena distanziate da un rigo rosso. Il collo del rapace ed il corpo sono decorati dai medesimi elementi esagonali scalati presenti nella cornice. L’aquila si erge su robuste zampe i cui artigli posano su di un basamento rettangolare ornato, come lasciano intuire tracce di una trama di seta bianca, da perle. La coda a ventaglio è interpretata con nove fasce ornate da piccoli cuori, ora in rosso, ora in giallo con al centro un cuore blu; analoga decorazione si riscontra nello sciamito con aquile di Auxerre detto sudario di San Germano attribuito al X-XI secolo. Il collare è ornato da perle bianche con al centro un medaglione circolare. Le caratteristiche formali del rarissimo sciamito di Nonantola trova confronti con opere tessili coeve e nella produzione di manufatti artistici quali sculture, mosaici e pitture presenti sia nell’Italia meridionale che in quella centro-settentrionale, tutti databili entro il X secolo. L’esemplare di Nonantola è da porre a confronto anche con l’arte prodotta prima e durante la dinastia dei Macedoni (867-1057), periodo durante il quale furono realizzati capolavori pittorici, smalti, rilievi argentei e d’avorio che documentano la ricchezza della corte bizantina, la cui arte fu ammirata ed ambita ovunque, come gli imperiali drappi serici ed auroserici. Nei tessuti serici realizzati a Costantinopoli a partire al VIIVIII secolo i simbolici animali iniziano ad essere proposti in modo superbo e stilizzato. Questi drappi, fra i quali quelli che riportano l’aquila sono i più diffusi, impressionano notevolmente per l’ampiezza del decoro e per lo stile maestoso e sono da attribuire al periodo più antico; infatti i reperti tessuti in epoca più tarda presentano orbicoli di medie dimensioni ed in seguito sempre più ridotti. Tenute presenti le complesse influenze culturali, gli avvenimenti storici, le testimonianze figurative, i confronti stilistici (per ulteriori informazioni si rimanda a PERI 2006), in prima istanza le dimensioni degli orbicoli che si avvicinano ai reperti più antichi, fra i quali è doveroso ricordare la seta con gli elefanti ritrovata nel reliquiario di

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RICCARDO FANGAREZZI - PAOLO PERI

Carlo Magno ad Aquisgrana, dove fu deposta nel 1000 da Ottone III ma da ritenersi tessuta solo dopo la morte di Carlo Magno (814), nella quale il diametro dei cerchi è di centimetri 70-80 e gli elefanti si stagliano sul fondo rosso, unitamente ai dettagli decorativi quali gli elementi della cornice, quelli diversificati del piumaggio, gli insoliti elementi vegetalfloreali e l’impostazione ieratica delle aquile, possiamo avanzare una datazione da ricercare fra la fine del secolo VIII e l’inizio del X secolo. Tuttavia un’ipotesi attributiva da non sottovalutare, tenuto conto dei contatti diretti intercorsi fra i primi abati di Nonantola e l’Impero d’Oriente potrebbe essere ricercata entro la prima metà del IX secolo, essendo gli anni 804 e 837 gli estremi cronologici dei due abbaziati menzionati.

Sciamito ricamato con leoni, cervi e lepri (Fig. 43) Manifattura dell’Italia meridionale (Palermo?) o dell’Egitto fatimita; XI-XII secolo Sciamito di costruzione classica; i fili dell’ordito di fondo, in seta giallo paglia, si intercalano entro le trame di seta giallo paglia e verde mandorla chiaro, al fine di fare risaltare ora l’una ora l’altra (effetto che determina maggiore luminosità al tessuto). Quando una delle due trame non lavora sul diritto è respinta sul rovescio e viceversa. Le trame sono fermate in diagonale 2 lega 1, direzione S, dall’ordito di legatura sempre in seta giallo paglia. Ricami in oro filato montato su lino (?) tinto in giallo (opus cyprense ?); seta blu, azzurra, bianca e giallo paglia, cotone (?) bianco. Tecnica di ricamo: per il filato dorato punto posato, con fermatura in seta (?) grezza; per quelli in seta punto erba e spina. Di forma rettangolare, il drappo serico è ornato da ricami che seguono una composizione particolare ed insolita. Al centro, disposti in alternanza verticale, sono ricamati ora un cervide (unicorno?) proposto di profilo che piega la testa indietro, con un corno ramificato, ora un leone senza criniera e con la coda rialzata che sembra meno indagato nella resa grafica rispetto al cervide; entrambi i soggetti sono eseguiti in oro filato. Ai lati di questi, quasi in speculare, sono ricamati dei quadrati entro i quali si colloca un rombo, quasi a formare un motivo stellato, con foglie negli angoli. Sul lato sinistro corre una banda verticale, fra due più piccole, di medie dimensioni che propone un decoro ricamato composto da piccole foglie o petali o semi ovali e sembra definire una corolla a quattro petali (forse in origine le bande erano meglio definite e ulteriormente decorate). In alto, sempre sul lato sinistro compare una breve de-

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corazione fitomorfa, quasi a creare un orbicolo, che purtroppo non è più possibile ricostruire. Sul lato destro, e fra loro isolati, abbiamo tre leprotti, che corrono verso sinistra, caratterizzati dalle lunghe orecchie e dagli occhi azzurri, colore utilizzato anche per definire i dettagli anatomici. Sull’estremo lato destro, poco visibile, corre in verticale una stretta banda creata da un motivo a treccia che adesso si presenta in seta bianca e cotone (?). In alto, quasi a comporre due brevi e stretti clavi che incorniciano i soggetti animali, corre una serie di piccoli triangoli, fra loro collegati da un sottile nastro, ricamati con seta blu. Lo stato di conservazione, purtroppo, rende difficile comprendere in modo dettagliato la decorazione. Il leone, simbolo di dignità, forza, coraggio e poi della Resurrezione di Cristo, è alquanto attestato nelle sete antiche, da quelle sassanidi a quelle imperiali bizantine, dalla Sicilia alla Spagna fino ai famosi lampassi lucchesi e veneziani del XIII e XIV secolo. Forse con il simbolo di speranza e rinascita, peraltro attestata nei primi sarcofagi cristiani, può essere letto il leone di Nonantola. Il cervide (unicorno?), simbolo cristologico per eccellenza e di carità, si associa ai leprotti riferibili all’uomo che mette la sua speranza di salvezza in Gesù, ma anche indici di fecondità, timidezza, vigilanza e saggezza. I motivi presenti sul prezioso ed unico ricamo indicano una sapiente scelta di soggetti che esaltano la speranza di rinascita promessa da Cristo e quindi di vittoria sulla morte. E forse proprio con il simbolo di rinascita ed abbondanza possono essere letti anche i piccoli semi o frutti disseminati nella composizione del ricamo. La resa stilistica dei simbolici ricami suggerisce influenze culturali riscontrabili anche negli analoghi soggetti presenti nei manufatti realizzati nelle più importanti manifatture orientali già a partire dal V-VI secolo. Riguardo ai leprotti, essi sono già presenti nei primi tessuti copti, anche se l’impostazione formale presente nel reperto in esame appare più stilizzata, tuttavia non lontana dalle interpretazioni elaborate in ambito bizantino. Gli stilizzati leoni ricordano quelli delle sete bizantine proposte fino dal secolo VIII, poi rielaborate nelle nascenti manifatture occidentali, prima fra tutte quella di Palermo. Tenuto conto di tante eterogenee influenze stilistiche e vicende storiche, possiamo avanzare un’attribuzione da ricercare fra il secolo XI-XII e forse ascrivibile a una manifattura dell’Italia meridionale (Palermo?) o dell’Egitto fatimita. Paolo Peri


Il piviale di San Moderanno DONATA DEVOTI GIULIA MEUCCI

l grande e sontuoso piviale detto di San Moderanno si trova oggi esposto in una teca apposita nel tesoro del Duomo di Berceto dopo essere stato sottoposto ad accurato restauro promosso dalla Soprintendenza di Parma e realizzato dal laboratorio Massacesi-Medica nel 1991. Molto scarse e tarde sono le notizie documentarie che, sul piviale, si ricavano dall’Archivio Parrocchiale e da quello della Curia Vescovile di Parma. Viene citato per la prima volta fra le reliquie nell’inventario del 1832 ma solo in quello del 1922 è descritto come “oggetto d’arte”, datato alla seconda metà del IX secolo, precisando che è conservato dentro una cassettina nella canonica insieme alla sua stola verde e a un piccolo reliquiario in avorio ed ebano dell’VIII secolo, oggi entrambi scomparsi. Altrettanto scarse sono le certezze che abbiamo su Moderanno, il Santo del quale il piviale per tradizione è considerato reliquia. Con sicurezza si sa che fu Vescovo di Rennes e che, chiesto permesso al re dei Franchi Chilperico II (717-722), compì un pellegrinaggio a Roma; lungo il viaggio di ritorno si ritirò a vita monastica nell’Abbazia di Berceto dove morì e fu sepolto. Andata perduta la più antica leggenda elaborata a Berceto, i dati salienti sul Santo Vescovo possono essere ricavati da fonti indirette quali La vita Santi Remigii di Icmaro di Reims (IX secolo), la Historia Remensis Ecclesiae di Flodoardo (X secolo) derivata dalla precedente e i testi della celebrazione liturgica tardomedievale della festa di San Moderanno a Rennes. La prima tappa del viaggio di Moderanno fu Reims dove chiese ed ebbe in dono dall’abate del prestigioso monastero benedettino reliquie di San Remigio che portò poi a Berceto e che furono causa della nuova dedicazione al Santo francese della chiesa dell’Abbazia bercetana. Quest’ultima era stata fondata, secondo Paolo Diacono, da

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Liutprando (712-744) insieme a quella celebre di Pavia. Un’Abbazia importante quindi, posta sulla Via Francigena, luogo di accoglienza e di assistenza per i viandanti sul passo appenninico che collegava stabilmente il Nord e il Sud non solo della penisola ma dell’intera Europa. Secondo la leggenda l’Abbazia fu donata dal re longobardo, per altro devoto di San Remigio, a Moderanno, godeva quindi come monastero regio di una serie di privilegi soprattutto l’autonomia sia dall’autorità religiosa che civile. Alla fine del IX secolo perse progressivamente d’importanza e fu assegnata (879) da Carlomanno al Vescovo di Parma. Dopo alterne vicende nulla resta oggi dell’Abbazia e ben poco è recuperabile dell’antica chiesa più volte rifatta e malamente restaurata. Le spoglie del Santo, veneratissimo, morto probabilmente fra il 730 e il 750, riposavano in un luogo della chiesa non precisato dalle fonti. Furono traslate solennemente in un altro luogo della stessa chiesa alla presenza del Vescovo di Parma secondo quanto afferma il Breviario di Rennes (XII secolo) esemplato sulla Leggenda Bercetana. Questa prima traslazione dovette avvenire dopo l’879, alla fine del IX secolo, quando l’Abbazia era ormai passata sotto la Curia parmense e forse in occasione della presumibile canonizzazione del Vescovo a Santo. Nell’XI secolo in tutta la diocesi parmense a Moderanno venivano tributate fastose celebrazioni in due date diverse il 22 ottobre e il 16 maggio, l’una a ricordare il transito, l’altra la traslazione2. Nel 1499 le ossa del Santo per volontà di Berardo Maria de’ Rossi conte e signore di Berceto furono chiuse in una cassettina di piombo e riposte nell’altare a lui dedicato secondo quanto recita l’iscrizione incisa sulla cassetta stessa, conservata oggi sotto l’altar maggiore della chiesa.


DONATA DEVOTI - GIULIA MEUCCI

Il piviale è costituito da uno sciamito monocromo verde screziato in giallo e da un bordo che lo profila interamente in sciamito operato a fondo rosso intenso ancora vivace con disegno in blu scuro e giallo senape (Figg. 4445). Entrambi gli sciamiti presentano orditi di fondo che lavorano a due fili rispettivamente in seta verde screziata e in seta bianca e legatura delle trame in diagonale 3/1 con orditi supplementari in identiche sete.

Se piuttosto rari sono gli esemplari superstiti di sciamiti monocromi, particolare importanza riveste il complesso e frammentato disegno del bordo che è possibile però ricostruire nella sua interezza. È infatti articolato dalla successione in verticale di due teorie di coppie di animali fantastici affrontati davanti all’albero della vita. Il motivo floreale inoltre delimita nettamente in alto, in basso e lateralmente il modulo, sensibilmente rettangolare, che sot-

Ricostruzione del disegno del bordo del piviale di San Moderanno (vedi Figg. 44-45).

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Il piviale di San Moderanno

tende tutta l’opera. Da vasi ovoidali baccellati fuoriescono sottili steli che terminano con una palmetta arabeggiante di fronte ai quali si affrontano due animali di natura composita con teste di cane, collo decorato a zig-zag fra due collari di perle, zampe anteriori da felino, corpo accosciato con piccole ali chiuse a forma di cuore, dorso perlinato e coda appuntita che possono essere letti come una variante del senmurv sassanide. Sopra le loro teste dallo stelo si dipartono, rigidamente in orizzontale, speculari, due semipalmette segmentate sulle quali poggiano altri due animali compositi addorsati, rampanti, con corpo e zampe da felino così come la testa da leone o pantera, a fauci spalancate, molto umanizzata, ali filiformi e coda arrovesciata sul dorso che termina con una testa di serpente a fauci aperte e barbetta. Questi, che si possono interpretare come chimere, sono poi affrontate davanti a un secondo stelo sottile che si divarica, sopra le loro teste, in due tralci simmetrici che recano stilizzate semipalmette arabe, foglie cuoriformi, trifogli che chiudono la composizione in alto. Lo stelo ha origine da quattro piccoli orbicoli tangenti che si collocano fra i dorsi dei senmurv e il ventre delle chimere al centro quindi del modulo decorativo. All’interno dei cerchi sottili sono due coppie di piccoli uccelli disposti specularmente. Nella coppia inferiore, che risulta affrontata, si possono riconoscere dei fagiani rappresentati ancora secondo stilemi sassanidi: i rigidi nastri svolazzanti intorno al collo, la lunga coda abbassata, il lungo tralcio a semipalmetta nel becco. Nella coppia superiore, addorsata, sembra si possano individuare dei galli per la importante coda a piume arricciate e per i bargigli, sempre secondo una iconografia sassanide, anche se con un problematico becco ricurvo da pappagallo. Il disegno di questo tessuto risulta essere indubbiamente molto elaborato, sia per quanto riguarda il sistema di impaginazione sia per la presenza di numerosi motivi decorativi del tutto inconsueti e anche di non facile interpretazione. La griglia geometrica che struttura in rettangoli il modulo decorativo e che, al suo interno, ordina secondo esagoni i corpi delle coppie di animali, ritorna in alcuni celebri tessuti quali la casula di Saint-Etienne di Chinon, quella di Saint-Sernin di Tolosa, o il tessuto detto delle Arpie di Vich attribuiti a manifattura spagnola del XII secolo3. Il raro motivo della chimera è presente in ambito tessile solo in un frammento4 conservato alla fondazione Abbegg di Berna, proveniente dalla chiesa di San Pietro a Salisburgo e attribuito alla Spagna dell’XI secolo: non sono però molte le rispondenze iconografiche con quelle del piviale. Riscontri più puntuali, per esempio nel modo di sottolineare le giunture degli arti degli animali, sono possibili con il tes-

Ricostruzione grafica del disegno del bordo del piviale di San Moderanno (vedi Figg. 44-45).

suto delle Arpie di Vich o anche con la stoffa a senmurv, elefanti e grifoni5 del museo del Bargello a Firenze (e altri musei), dove le somiglianze sono poi ben evidenti nella decorazione del collo del senmurv a zig-zag e a due colori. Questa stessa decorazione presentano anche i tessuti con il leone alato del Rijksmuseum di Amsterdam e quello con i grifoni di Le Monastier-Saint-Chaffre6. Inoltre tutti questi pezzi, ritenuti di ambito spagnolo, hanno in comune con il bordo di Berceto la scelta dei colori: il disegno molto scuro in blu-nero o verde-nero spicca su un fondo rosso intenso molto vivace ed è messo ancora più in evidenza da un profilo sottile in giallo o in turchese o in bianco che percorre tutta la decorazione. A ribadire come il bordo di Berceto in molti particolari del suo disegno presenti consistenti tangenze con la cultura spagnola preromanica, si possono citare per esempio, anche in altro ambito figurativo, le sculture ornamentali della chiesa di Quintavilla de la Viñas: orbicoli sottili che includono galli dalla lunga coda, mezze palmette, trifogli, ecc., all’esterno dell’abside, in un fregio, all’interno dell’arcone trionfale, ecc.7.

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DONATA DEVOTI - GIULIA MEUCCI

Il periodo temporale nel quale collocare il grande mantello di Berceto non può non essere ancorato alla vita di Moderanno, alla sua prima traslazione e canonizzazione e ai momenti di maggior splendore dell’Abbazia da lui resa tanto celebre: VIII-IX secolo. Anche a Berceto come in altre abbazie al loro tempo ricche e potenti perché volute e protette da sovrani e perché fondate da Santi Vescovi molto venerati e famosi sono conservati straordinari apparati tessili legati proprio alle figure dei loro Santi protettori. Hanno forma o di vesti liturgiche come la casula detta di San Marco Papa di Abbadia San Salvatore (VIII-IX secolo) che, al rovescio, aveva lungo tutto il profilo esterno un bordo figurato oggi purtroppo staccato o di parati funebri come il cuscino ed il telo della sepoltura di San Remigio nella cattedrale di Reims (IX secolo), come si è visto molto legata alla Abbazia bercetana e a Moderanno. Sono realizzati con sontuose stoffe di seta operata prodotte in lontane e celebrate manifatture bizantine o medio orientali o spagnole appunto, cioè quanto di più prezioso si sapeva tessere perché doveva essere messo a contatto con i santi corpi. Divennero loro stesse reliquie e proprio per questo conservate tanto religiosamente e gelosamente da arrivare fino a noi. Il piviale di San Moderanno non ha avuto però una gran fortuna critica pur essendo “tessuto rarissimo e prezioso” “reliquia insigne e documento di inestimabile valore dell’VIII secolo” come ebbe a dire Grisenti nel 1964 nella sua visita al duomo di Berceto8). Le considerazioni di Grisenti ricalcano in buona sostanza quanto ben trent’anni avanti (1934) Antonino Santangelo per primo disse nella scheda dedicata al piviale nell’Inventario degli oggetti d’arte della provincia di Parma9. La sua descrizione si sofferma in modo necessariamente sommario e impreciso sul disegno del bordo che viene attribuito a Bisanzio intorno all XI-XII secolo mentre il tessuto verde è assegnato al XIV-XV secolo; accenna anche alla tradizione che vuole il parato appartenuto a San Moderanno. Seguono poi una serie di interventi che insistono nell’attribuire a Lucca e al XII secolo la stoffa del bordo secondo una ipotesi avanzata per la prima volta nel 1975 da Quintavalle e poi ancora nel 197710 usando il piviale come testimonianza sul territorio dei rapporti che la via Romea istituiva fra l’Emilia e Lucca, percorso dei pellegrini di Roma e del Volto Santo, disseminata di ospizi e abbazie. Del tessuto non viene decifrato il disegno (si parla di uccelli, leoni, grifi o gazzelle), non si parla di tecnica di esecuzione, di colori, ecc. ma viene paragonato a un frammento di Berlino, una mezza seta a bande gialle ed azzurre con aquile e pantera ed an-

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che ai tessuti dei paramenti di Bernardo degli Uberti conservati nella chiesa di Santa Trinità a Firenze, sempre mezze sete con aquile in orbicoli. Sono confronti assolutamente non pertinenti da un punto di vista decorativo, tecnico e cronologico che dimostrano la non conoscenza di quanto da anni era stato pubblicato sui tessuti medievali ed anche sulla manifattura lucchese in particolare. Nel 1983 Calzona e nel 1991 Branchi11, collaboratori di Quintavalle rispettivamente nelle opere su Romanico medio padano… e su Wiligelmo e Matilde …, ripropongono la stessa tesi equivocando sempre sul disegno, (Calzona individua coppie di colombe e pavoni negli orbicoli), proponendo similitudini, per altro poi scartate, con tessuti bizantini, spagnoli e così detti siciliani (Branchi), datano entrambi lo sciamito verde al XV secolo senza spiegazioni. La scheda redatta sempre nel 1991 da Marta Cuoghi Costantini per il catalogo della mostra sui tessuti restaurati rappresenta un’inversione di tendenza per lo studio e la conoscenza del piviale bercetano12. La studiosa si preoccupa di definire l’opera innanzitutto sotto il profilo tecnico secondo un sistema di catalogazione da anni internazionalmente in uso, decodifica il disegno cercando di individuare il modulo compositivo senza però arrivare alla ricostruzione anche di parti essenziali. Fatto questo che la porta a paragoni ma anche a distinguo con celebri tessuti bizantini dell’XI secolo e quindi a una attribuzione a Bisanzio ma in anni precedenti il Mille. Nuova è anche l’attenzione che dedica seppure in modo stringato alla tradizione che vuole il piviale legato al culto di San Moderanno lamentando la scarsità delle fonti documentarie e avanza l’ipotesi che il piviale fosse “un dono tributato al Santo dopo la sua morte”. Ancora nel 1991 il piviale è oggetto di interesse nell’introduzione di Fiaccadori al volume di Bertozzi sul Duomo di Berceto e con una lettura della tecnica di esecuzione della stoffa di Fanti13. Innanzitutto viene individuato come sciamito monocromo anche la stoffa verde che forma il corpo del piviale e vengono avanzati nuovi confronti con tessuti quali quello spagnolo conservato al Bargello e sottolineati alcuni “motivi di lontana ascendenza sassanide”. Interessante è il suggerimento che la via Romea non solo convogliava i pellegrini che andavano a Roma o in Terra Santa ma anche quelli che venivano da San Giacomo di Compostella, concentrandosi a Luni. È invece abbastanza stravagante la datazione a dopo il 1225 dovuta ad una interpretazione errata di un documento sul colore liturgico verde14.


Il piviale di San Moderanno

NOTE 1

Si forniscono le misure e i dati tecnici essenziali. Il piviale misura 128x257 cm.; il tessuto del bordo 10/11 cm. in media x 230 cm. il frammento più lungo dove è rilevabile la cimossa destra. L’altezza del tessuto doveva essere intorno ai 250 cm. Il piviale: sciamito a due trame monocromo; il bordo: sciamito operato a tre trame. 2 G. Schianchi, La chiesa di Berceto e i suoi arcipreti, Parma 1927, pp. 53-59. 3

Per il primo tessuto cfr. D. Devoti, L’arte del tessuto in Europa, Milano 1974, cat. n. 4. Sui secondi si veda Al Andalus. The Art of Islamic Spain, catalogo della mostra, New York 1992, p. 319 e p. 230.

4 D. Devoti, L’arte del tessuto, cit. cat. n. 1.

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A. Santangelo, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, vol. III, Provincia di Parma, Roma 1934. 10

A.C. Quintavalle, La strada romea, Parma 1975. A.C. Quintavalle, Le vie dei pellegrini nell’Emilia medievale, Milano 1977. 11 A. Calzona in A.C. Quintavalle, Romanico mediopadano. Strada, città, ecclesia, Parma 1983, p. 165; M.P. Branchi, scheda in Wiligelmo e Matilde. L’officina romanica, catalogo della mostra a cura di A.C. Quintavalle, Milano 1991, p. 474. 12 M. Cuoghi Costantini, scheda in Capolavori restaurati dell’arte tessile, ca-

5 F. Volbach, Il tessuto nell’arte antica, Milano 1966, fig. 61 (XI secolo).

talogo della mostra a cura di M. Cuoghi Costantini e J. Silvestri, Bologna 1991, pp. 83-84.

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14 Il piviale è stato oggetto della tesi di laurea di Giulia Meucci discussa presso l’Università di Pisa nell’AA 2000-2001, relatore prof. Donata Devoti.

Per il tessuto a leoni si veda O. von Falke, Kunstgeschichte der Seidenweberei, Tubinga 1928, fig.178, per quello coi grifoni cfr. Byzance, catalogo della mostra, Parigi 1992, fig. 284. L’art préroman hispanique, I, a cura di J. Fontane, Parigi 1973, figg.76, 80, 85.

C. Fiaccadori, introduzione a G. Bertozzi, Duomo di Berceto. Un lontano passato letto negli scavi, Parma 1991.

8 F. Grisenti, Una finestra aperta sul passato. Berceto, Fidenza 1964.

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1. Ricostruzione di un cacciatoreraccoglitore del Mesolitico. San Lazzaro di Savena (Bologna), Museo della Preistoria “Luigi Donini”.

2. Fuso e conocchia in bronzo (VI secolo a.C.) rinvenuti nella tomba 3 a incinerazione di Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia). Reggio Emilia, Musei Civici, Collezione Chierici.

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4. Strumenti per filare provenienti da corredi funerari femminili della necropoli villanoviana di Caselle (Bologna). San Lazzaro di Savena (Bologna), Museo della Preistoria “Luigi Donini�.

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5. Conocchia in bronzo e ambra (VII secolo a.C.) proveniente dalla necropoli De Luca (Bologna, tomba 15). Bologna, Museo Civico Archeologico. 6. Ricostruzione sperimentale di un telaio verticale a pesi, armato con un tessuto in lino accanto a un elegante abito femminile. Modena, Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale.

3. Frammento tessile in lana (XVI-XIII secolo a.C.) proveniente dalla terramara di Castione Marchesi (Parma). Parma, Museo Archeologico Nazionale.

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7. Tintinnabulo in bronzo che raffigura il ciclo di lavorazione della lana proveniente dalla Necropoli dell’Arsenale Militare (tomba 5). Bologna, Museo Civico Archeologico.

8. Disegno ricostruttivo del tintinnabulo. Bologna, Museo Civico Archeologico.

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9. Restituzione grafica del telaio rappresentato sul trono della tomba Lippi 89/1972.

10. Mantello in lana della tomba Lippi 89/1972. Verucchio (Forlì), Museo Civico Archeologico.

11. Frammento del mantello della tomba Lippi: è evidente il bordo e l’effetto a strisce della tessitura. Verucchio (Forlì), Museo Civico Archeologico.

12. Bottoncini d’ambra dalla tomba Lippi 89/1972. Verucchio (Forlì), Museo Civico Archeologico.

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13. Strumenti per la tessitura in osso dalla tomba Lippi 102/1972. Verucchio (Forlì), Museo Civico Archeologico.


14. Ciclo statuario della famiglia Giulio-Claudia dalla basilica di Velleia, I secolo d.C.. Parma, Museo Archeologico Nazionale.

16. Pettini in legno, spillone in legno con capocchia d’oro, spillone in corno e frammenti di filo d’oro rinvenuti nello scavo di una necropoli romana del IV-V secolo d.C. effettuato a Modena nel 1947 (da Modena dalle origini all’anno Mille, 1988). Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.

17. Elementi di tessuto in fili d’oro rinvenuti in una necropoli longobarda di Spilamberto (Modena), fine VI - metà VII secolo d.C. Bologna, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia–Romagna.

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15. Nastro in filo d’oro recuperato in un contesto ercolanense, I secolo d.C. (da Homo faber 1999). Pompei, Soprintendenza per i beni Archeologici.

18. Plastico di una delle più grandi botteghe di Pompei, la fullonica di Stephanus, rinvenuta in via dell’Abbondanza a Pompei (da Homo faber, 1999). Roma, Museo della Civiltà Romana.

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19. Dipinto su intonaco di un pilastro in muratura raffigurante le varie fasi della follatura (seconda metĂ I secolo d.C.) rinvenuto nella fullonica di Veranio Ipseo a Pompei (da Homo faber, 1999). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

20. Stele a timpano di Lucius Rubrius Stabilius Primus, fine del I secolo a.C. - prima metĂ del I secolo d.C.. Modena, Palazzo dei Musei, Lapidario Romano.

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21. Frammento proveniente dal corredo funebre di San Giuliano, IV-VI secolo. TaquetĂŠ operato in seta verde e avorio raffigurante una scena di caccia. Ravenna, Museo Nazionale.

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22. Frammenti provenienti dal corredo funebre di San Giuliano, IV-VI secolo. TaquetĂŠ operato in seta avorio e porpora, disegno a piccoli ottagoni e tralci di vite. Ravenna, Museo Nazionale.

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23. L’imperatrice Teodora e il suo seguito nei mosaici di San Vitale, VI secolo. Ravenna, San Vitale.

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24. Telo proveniente dal corredo funebre di San Giuliano, Bizanzio, X-XI secolo. Sciamito operato in seta porpora, acquamarina e ocra con leoni itineranti entro ruote. Ravenna, Museo Archeologico.

25. Telo proveniente dal corredo funebre di San Giuliano, particolare.

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26. Telo proveniente dal corredo funebre di San Giuliano, Bisanzio o Venezia, XIII secolo. Sciamito operato in seta gialla, rosa, avorio e blu con orbicoli contenenti grifi. Ravenna, Museo Nazionale.

27. Frammento, Palermo (?), prima metà del XII secolo. Tessuto ad arazzo in seta rossa, nera, bianca, azzurra e oro filato con busti umani, lepri e testine di rapaci. Modena, Museo Civico d’Arte.

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28. Telo di San Procolo, Venezia, fine del XIII- inizi del XIV secolo. Sciamito operato in seta rossa, gialla, rosa, perla e lino naturale ad orbicoli contenenti coppie di grifi. Bologna, chiesa di San Procolo.

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29. Telo di San Procolo, particolare.

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31. Sigillo in piombo con il leone di San Marco del telo del Beato Giacomo Salomoni. ForlĂŹ, Chiesa Cattedrale.

30. Telo del Beato Giacomo Salomoni, Venezia, fine del XIII-inizi del XIV secolo. Sciamito operato in seta gialla, rosa, blu, porpora, lino naturale e lamina d’argento ad orbicoli contenenti coppie di draghi. ForlÏ, Chiesa cattedrale.

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32. Telo del Beato Giacomo Salomoni, particolare.

33. Mitra dell’abate di Marola, Italia, seconda metà del XIII secolo. Lampasso broccato in seta avorio. Reggio Emilia, Museo Diocesano.

34. Mitra dell’abate di Marola, particolare.


35. Frammento, Lucca (?), prima metà del XIV secolo. Lampasso lanciato e broccato in seta azzurra, bianca, celeste e oro filato con piccoli animali e scritte arabe. Modena, Museo Civico d’Arte.

36. Frammento, Lucca (?), prima metà del XIV secolo. Lampasso lanciato in seta avorio e oro filato con aquile, leoni, fiori di cardo e foglie a palmetta. Modena, Museo Civico d’Arte.

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37. Velo di Classe (particolare), Italia Settentrionale, VIII secolo. Ricamo in oro filato e sete policrome su tela di lino con busti di santi e vescovi veronesi. Ravenna, Museo Nazionale.

38. Velo liturgico, Bisanzio, fine del XIIIinizio del XIV secolo. Ricamo in oro e argento trafilati e sete policrome su sciamito unito di seta rossa e lino raffigurante la comunione degli apostoli sotto la specie del pane. Castell’Arquato (Piacenza), Museo della Collegiata.

39. Velo liturgico, Bisanzio, fine del XIII-inizio del XIV secolo. Ricamo in oro e argento trafilati e sete policrome su sciamito unito di seta rossa e lino raffigurante la comunione degli apostoli sotto la specie del vino. Castell’Arquato (Piacenza), Museo della Collegiata.

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40. Piviale di San Domenico, Opus anglicanum, fine del XIII - inizio del XIV secolo. Ricamo in sete policrome e oro filato su tela di lino con episodi della vita di Cristo e della Vergine. Bologna, Museo Civico Medievale.

41. Mitra di Sant’Isidoro, Napoli o Bologna, XIV secolo. Ricamo in perle, smalti e sete policrome su sciamito unito di seta azzurra. Bologna, Museo di Santo Stefano.

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42. Frammento, Bisanzio, VIII-IX secolo. Sciamito operato in seta rossa, gialla, verde, blu e bianca raffigurante aquile entro ruote. Nonantola (Modena), Museo Diocesano d’Arte Sacra.

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43. Frammento, Italia meridionale (Palermo?) o Egitto Fatimida, XI-XII secolo. Sciamito ricamato in seta giallo paglia, verde chiaro, blu, azzurra, bianca, oro filato e cotone bianco con leoni, cervi e lepri. Nonantola (Modena), Museo Diocesano d’Arte Sacra.

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44. Piviale detto di San Moderanno, tessuto del bordo, Spagna? VIII-IX secolo. Sciamito operato a tre trame in seta rossa, bianca, blu scuro e senape. Berceto (Parma), Museo del Tesoro del Duomo.

45. Piviale detto di San Moderanno, tessuto del bordo, Spagna? VIII-IX secolo. Sciamito operato a tre trame in seta rossa, bianca, blu scuro e senape. Berceto (Parma), Museo del Tesoro del Duomo.

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Seta, oro e argento: lussuose vesti e magnifici apparati dal Rinascimento all’Impero IOLANDA SILVESTRI

Premessa esame del patrimonio tessile serico conservato nella nostra regione non può che essere condotto oggi solo attraverso ciò che è rimasto delle testimonianze suntuarie di principi e signori, papi e cardinali che governarono questi territori, ma anche attraverso ciò che lungimiranti collezionisti e uomini di spicco della cultura locale hanno inteso trasmetterci tra Otto e Novecento costituendo delle vere e proprie raccolte di questi materiali recuperati in tutta Europa sottoforma di abiti, arredi e accessori, di rado integri, più di frequente, invece, documentati da frammenti. L’esame si configura quindi come un itinerario storico sulle conoscenze fino ad oggi acquisite dei manufatti più rappresentativi e significativi di questo patrimonio a noi pervenuto solo parzialmente, ma un tempo ben più consistente. Diversamente distribuito tra collezioni museali, chiese, conventi e palazzi signorili, oggi lo si ritrova per lo più attestato da frammenti di varia epoca e provenienza nelle raccolte pubbliche, di rado invece documentato da fortunati recuperi tombali o da ritrovamenti di vesti e di paramenti sacri indossati da signori e alti prelati, musealizzati nel tempo e conservati nei luoghi di culto, insieme a tappezzerie e arredi presenti ancora in situ in illustri dimore storiche. Ciò che si è inteso proporre qui di seguito è una raccolta antologica di autentiche eccellenze, per la maggior parte già note e studiate, che documentano per quasi cinque secoli sia l’avvicendarsi dei decori e delle tecniche tessili, che gli orientamenti e le scelte del gusto di alcune tra le nobili casate di questa regione, inclusi quegli esponenti che raggiunsero i vertici della carriera ecclesiastica fino

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al soglio papale: dai Malatesta, dagli Este, dai Pico, dai Gonzaga fino ai Lambertini, agli Aldrovandi, ai Farnese e ai Borbone. Solo una minima parte di questa documentazione ci è pervenuta, a fronte di un patrimonio ben più ricco e variegato di manufatti che nel tempo è andato disperso e irrimediabilmente perduto. Gli abiti e le tappezzerie di principi e nobili, come pure le vesti e gli apparati liturgici di vescovi, cardinali e papi, venivano usati, poi dismessi, quindi sostituiti con dei nuovi: solo le stoffe più ricche e preziose venivano conservate come tali o talvolta, invece, venivano riutilizzate per confezionare altri manufatti come quelli liturgici. E di queste, quelle meglio conservate e più numerose sono senza dubbio quelle di provenienza ecclesiastica, che, integre o modificate nel tempo per gli inevitabili adattamenti dovuti al cambiamento del gusto e al degrado, nonché per l’uso e la naturale alterazione dei filati, testimoniano una diversa attenzione del clero verso il tessile antico rispetto all’atteggiamento più consumistico tenuto dall’aristocrazia: se il primo ha sempre concepito l’abito e il suo l’apparato come espressione simbolica del sacro a suggello della devozione popolare (passibili quindi entrambi di cure e attenzioni particolari) la seconda ha adottato un atteggiamento più disinvolto e meno conservativo, interpretando questi manufatti come strumenti d’uso in senso lato e in quanto tali sostituibili e di breve durata. Ecco perchè molte delle testimonianze oggi conservate, si presentano sotto forma di parati e addobbi sacri provenienti da chiese e conventi dove si trovano ancora numerosi, mentre solo in misura minore sono entrati a far parte del patrimonio museale pubblico di raccolte statali, civiche e diocesane.


IOLANDA SILVESTRI

Le sete dell’aristocrazia: velluti, damaschi, broccatelli, le icone tessili del Rinascimento

La melagrana: il motivo dominante nei velluti e nei damaschi del Quattrocento Troviamo esempi della migliore produzione tessile serica italiana del XV secolo, scarsamente documentata nella nostra regione, in alcuni velluti della Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e nelle vesti funerarie di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468) conservate a Rimini nel Museo della Città e nel Tempio Malatestiano. I primi, due posteriori di pianeta e un frammento (Figg. 1, 2), sono reperti di un collezionismo privato tardo ottocentesco; le seconde, parti riassemblate insieme del mantello, della sopravveste e del farsetto dell’abito funebre del signore riminese (Figg. 3, 4, 5), sono testimonianze datate rare e preziose di un fortunato rinvenimento avvenuto il 28 dicembre 1920 al Tempio Malatestiano, durante la ricognizione nella tomba del signore riminese morto nel 14681. Tutti i materiali evidenziano un sistema figurale strutturato su un unico soggetto decorativo, la melagrana che, variata nel motivo del cardo o della pigna, é racchiusa all’interno di una grande infiorescenza tondeggiante simile al fiore di loto dai contorni polilobati a punta o costellati da minute corolle, fiordalisi, gigli, pere e piccole melagrane. Questo motivo, mutuato dalla decorazione arabo-persiana con il significato di fertilità, già presente però nelle stoffe tardo trecentesche, viene impaginato ora in due schemi compositivi di base chiamati ancor oggi con le diciture storiche dell’epoca “a griccia” e “a cammino”2. Il primo vede la melagrana disporsi al termine di un tronco ondulante che inizialmente sottile diventa nel corso del secolo più monumentale arricchendosi di dettagli vegetali e di tronchi aggiuntivi fioriti che si intrecciano a quello principale rendendo più complessa la decorazione (Figg. 1, 2). Il secondo dispone, invece, lo stesso motivo in orizzontale secondo una sequenza ripetuta di teorie parallele continue e sfalsate che danno origine ad un effetto a scacchiera (Figg. 3, 4). A questo impaginato si aggiunge via via nel secolo un reticolo di maglie ovali a doppia punta che inglobano la melagrana e aumentano il sistema di cornici (Fig. 4), dando origine ad uno schema figurale largamente e diversamente sfruttato nei secoli successivi. Come nel disegno, un’analoga essenzialità formale nuova rispetto al passato e di grande forza iconica viene mantenuta anche nella tecnica e nel colore. Gli intrecci scelti per tradurre ed esaltare questo nuovo sistema figurale, che

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perdurò invariato nel resto del secolo, sono solo due, al contempo semplici e raffinati, il velluto e il damasco, proposti ora come autentiche novità tecniche dalla neonata tessitura occidentale nonostante fossero state introdotti in Europa dall’Oriente in epoca antica, e impiegate ora per la prima volta e su più larga scala in Italia dalle manifatture fiorentine, veneziane, genovesi e milanesi, solo a partire dal XV secolo3. Quanto ai colori poche sono le tinte prescelte come il rosso e il verde (ma anche il giallo, l’azzurro, il bianco e il nero) a tonalità intense e giocate sul contrasto delle bicromie a cui vengono abbinati filati d’oro e d’argento in larga profusione che esaltano la tonalità luminosa della seta impreziosendola oltremodo: su tutte dominano comunque il rosso nella variante preziosa del cremisi, colore della regalità, insieme al bianco e al nero simboli della nobiltà. I velluti della Parmeggiani, ancora di più del farsetto riminese4, testimoniano poi i livelli estremi raggiunti dalla tessitura serica italiana in pieno Quattrocento con la melagrana interpretata in modi diversi dalla stessa tecnica di base, il velluto tagliato, nella versione “a inferriata” (Fig. 1)5 e con altezze diverse del pelo del velluto di seta rosso (detto rilevato o alto basso) disseminato da trame di decoro in oro e argento a diversa funzione (lanciate, broccate e bouclès) più o meno concentrate sulla sua superficie morbida e compatta (Fig. 2). Nel motivo “a inferriata” il decoro a melagrana è evidenziato dalle sottili profilature dell’intreccio di fondo raso o taffetas in seta rossa chiara che incorniciano la superficie morbida e compatta definita dal pelo del velluto, i cui ciuffi di seta rossa tagliata assumono una colorazione rossa più scura e intesa (Fig. 1). Nel secondo caso, il velluto tagliato mostra due livelli distinti di altezza che, rilevati uno sull’altro, descrivono le parti interne del tronco e della melagrana, oltre a zone limitate del fondo, mentre il resto preponderante del disegno come del fondo è ricoperto su tutta la larghezza della stoffa da trame lanciate in oro filato (Fig. 2). L’uso poi consistente del metallo prezioso è mirabilmente espresso anche da un’altra tecnica, nuova ed esclusiva della tessitura rinascimentale, rappresentata da piccoli arricciamenti dei filati d’oro broccati circoscritti a zone definite del disegno (effetti bouclès), storicamente chiamate “alluciolature” o “vergolinature”6, che vengono disseminati all’interno della melagrana, come in questo caso, oppure sono raggruppati per descrivere alcuni dettagli vegetali (Figg. 2, 5). Va sottolineato al riguardo poi che se i velluti “a inferriata” proponevano decori essenziali in genere monocromi più semplici nella sequenza “a cammino” della melagra-


Seta, oro e argento

na, a contrassegno di un’eleganza sobria e austera, solo talvolta impreziosita da filati d’oro e d’argento, i velluti più esclusivi e tecnicamente più elaborati erano di solito quelli “a griccia” dove la melagrana, arricchita da tronchi fioriti esterni (Fig. 2) o da una fitta decorazione vegetale, poteva esibire sino a tre altezze di velluto tagliato e grande era la profusione di trame d’oro e d’argento che ricoprivano gran parte del fondo e settori precisi del disegno. Sempre alto, comunque, rimane il livello della tessitura quattrocentesca espresso dagli altri due capi di abbigliamento, la sopravveste e il mantello, che componevano il corredo vestimentario ritrovato nella tomba riminese di Sigismondo Pandolfo Malatesta. I due capi, oggi purtroppo non più leggibili come tali e ricomposti dopo il restauro in una pezza unica di tessuto alta cm 224 e larga cm 55 (Fig. 3), che non consente più di riconoscere l’originaria forma sartoriale7, sono realizzati in damasco lanciato e broccato e ripropongono il motivo della melagrana con la tipologia “a cammino” racchiuso da maglie ovali a doppia punta delineate da rami di piccole melagrane secondo l’evoluzione matura di questo motivo figurale in pieno Quattrocento (Fig. 4). Come nei velluti, anche qui, ampio è l’uso di filati d’oro che ricoprono per intero il fondo e il disegno come in una sorta di continuità, interrotta solo dagli effetti contrastati di lucido-opaco del damasco che si evidenziano in corrispondenza delle profilature di stacco tra le melagrane e le cornici. Se i velluti e i damaschi rinascimentali si qualificano dunque come le tecniche che meglio interpretano il gusto tessile dell’epoca, fornendo due chiavi di lettura distinte e complementari, la prima di solidità e forza con i disegni dei velluti scolpiti come bassorilievi, la seconda di morbida leggerezza con la luminosità cangiante dei damaschi, il disegno a “melagrana” propone una sistema figurale mai più eguagliato nella storia della produzione tessile. La sintesi formale e il rigore geometrico di questa tipologia decorativa monotematica e ben definita nel suo sviluppo strutturale, giocata su pochi elementi vegetali descritti in modo essenziale e poco naturalistico anche nella botanica, si definisce come l’icona di un nuovo status symbol. Così definita, la stoffa di seta rinascimentale diventa segno di distinzione sociale quanto mai ambito e privilegiato della classe dominante: indossare e arredare le dimore con questo genere di stoffe era un’attestazione di lusso esclusivo a cui i ceti più altolocati della società, clero e aristocrazia, non potevano rinunciare (Fig. 6)8.

Il Cinquecento: diversificazione dei disegni, evoluzione della tecnica e perfezione degli intrecci Se il Quattrocento segna la messa a punto di questo nuovo stile tutto italiano, il Cinquecento ne potenzia i caratteri e li rinnova. Si aggiorna il repertorio con disegni nuovi e sempre più elaborati. La “melagrana” continua ad essere riproposta ingigantita e arricchita nel sistema delle cornici vegetali a maglie ovali fino alla prima metà del Cinquecento, per essere ridimensionata e semplificata nel resto del secolo. Non domina più da sola e incontrastata la decorazione tessile, ma viene abbinata o sostituita da altri motivi come le infiorescenze a giglio e a palmetta con foglie d’acanto, i vasi classici fioriti e i mazzi vegetali che si dispongono all’interno della struttura reticolare codificandosi come il modello figurale distintivo del periodo. A ciascun motivo si conferisce poi una precisione di segno e una diversificazione formale rinnovata e più articolata nei soggetti che comunque suggeriscono, senza esserlo ancora, un’idea di maggiore verosimiglianza naturale. Per rispondere a tali requisiti i disegni dovevano essere realizzati con una perfezione esecutiva tale da richiedere tecniche di tessitura più adatte, fino ad allora poco sfruttate e riprese da lavorazioni più antiche e di provenienza orientale, introdotte nel periodo a questo scopo, come il velluto cesellato, il lampasso e il broccatello. I decori tessili cinquecenteschi, a differenza di quelli precedenti giocati su pochi elementi delineati da tecniche di tessitura complesse ma essenziali (come le diverse altezze del velluto tagliato, oppure come il contrasto più meno marcato degli intrecci raso del damasco), sono caratterizzati nel nuovo secolo da una definizione e un’articolazione tecnica e formale così elaborate da simulare i preziosi lavori a bulino dell’oreficeria coeva9. Ritroviamo i caratteri distintivi di quest’epoca in tre manufatti esemplari del periodo, nel rivestimento in velluto cesellato cremisi di un cofano-scrittorio da viaggio estense (Fig. 7)10, nel lampasso che compone il tessuto di un paliotto ricamato appartenuto al cardinale Morone durante il suo episcopato modenese (15641571) (Fig. 8),11 esposti rispettivamente alla Galleria Estense e al Museo del Duomo di Modena e in una pianeta in broccatello di una chiesa modenese, ora in mostra temporanea al Museo dell’Abbazia di Nonantola (Fig. 9)12. Il primo tessuto della seconda metà del secolo (Fig. 7),

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presenta la combinazione evoluta del doppio ordine di maglie ovali di diversa grandezza descritte da bocci di cardo e foglie e d’acanto al cui interno si dispongono mazzi diversi con piccole melagrane. La traduzione tecnica di questo motivo di grande perfezione nella geometria delle forme e nel contrasto calibrato di pieni e vuoti è affidata agli effetti combinati del velluto tagliato con il velluto riccio: i ciuffi di seta lisci, dritti e più alti del primo eseguono i riempitivi fitti e scuri del disegno, mentre le anelle del secondo ne profilano i contorni, evidenziando i dettagli interni con lieve ma sensibile ribasso sugli effetti tagliati. Il tutto poi si rileva in modo netto e preciso su un intreccio di fondo liscio e uniforme in taffetas di seta gialla parzialmente ricoperto in origine da una lamina d’oro andata oggi quasi interamente perduta. Il tessuto del paliotto (Fig. 8) propone, invece, nello stesso periodo, la riedizione complessa e tarda della melagrana che si trasforma in un elaborato rabesco vegetale di foglie d’acanto e infiorescenze non bene identificabili nella botanica, per la cui realizzazione ci si è affidati al recupero di una lavorazione largamente usata nel Medioevo, il lampasso. Questa tecnica viene ora recuperata in alternativa più duttile sia al velluto che al damasco data la sua maggiore possibilità espressiva di combinare effetti diversi come quelli bouclés in metallo, utilizzati nella descrizione dei particolari botanici, e gli intrecci prodotti dalla legatura diagonale di un ordito supplementare di seta gialla con la trama lanciata d’oro trafilato, che, passata su tutta larghezza della stoffa ricopre quasi per intero il fondo eseguendo il disegno: l’intreccio di base in raso di seta rossa affiora solo in corrispondenza delle sottili profilature di contorno dei motivi decorativi. L’impiego inoltre in gran profusione di un tipo particolare di filato metallico, l’oro trafilato, sta a contrassegnare la preziosità della stoffa, essendo questa una variante ancora più costosa ed esclusiva dell’oro filato, in quanto costituita da un sottile filato d’oro continuo a sezione circolare e non da una lamina d’argento ricoperta di foglia d’oro avvolta a spirale su un anima di seta, come è appunto il secondo13. Si percepisce quindi come entrambi i tessuti siano l’espressione diversa e complementare dell’alto livello tecnico e del lusso serico del XVI secolo, più semplice ma elegante e funzionale il primo, decisamente più sfarzoso e ostentato il secondo. La stoffa della pianeta di Nonantola (Fig. 9) connota invece un momento importante e decisamente nuovo della tessitura cinquecentesca che vede la progressiva diversificazione della produzione (mai però seguita alla lettera) tra i generi d’abbigliamento connotati da disegni di me-

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die e piccole dimensioni e quelli destinati all’arredo contrassegnati da decori simmetrici a grande sviluppo. La tecnica usata di preferenza per questa nuova specializzazione d’uso, fino ad allora pressoché inedita, é il broccatello che, di lì in avanti, verrà largamente sfruttata nelle stoffe da rivestimento e da apparato. Lo rendeva tale la sua tessitura robusta, dovuta all’inserimento di una grossa trama di lino che consentiva di eseguire fondi in diagonale tesi e uniformi sui cui si stagliano, per contrasto di intrecci e di colore, disegni a grande rapporto, eseguiti in raso con la cromia preferita del rosso, del verde e del giallo combinata nel contrapposto a due tra fondo e disegno. I decori sono caratterizzati da maglie ovali definite da rami o foglie d’acanto e sfoggiano un repertorio aggiornato di motivi mutuati dall’architettura e dall’ornamentazione antica come il vaso fiorito isolato, oppure composto assieme ad altri motivi classici (grottesche, candelabre, bracieri, cornucopie, geni, fauni, amorini, mascheroni, delfini). Talvolta questo elemento compare integrato da soggetti propri del bestiario tardo medioevale come i leoni rampanti e i rapaci in volo, presenti nel tessuto nonantolano, a continuità del legame con il passato14. Di contro tra il 1580 circa fino al 1630 i disegni per le vesti si riducono sensibilmente riproponendo il sistema delle maglie lisce o sagomate come si vede nel singolare abito maschile da gentiluomo, forse un indumento di scena del teatro elisabettiano conservato a Reggio Emilia, raro e singolare reperto suntuario dell’epoca di recente datato dalla critica tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del Seicento (Figg. 10 a e b, 11)15. I pochi esempi qui proposti, così diversi fra loro, se testimoniano solo in parte la varietà decorativa introdotta nella produzione del XVI secolo, attestano tuttavia come sempre alta e ricercata dovesse essere la domanda tessile da parte delle corti italiane che mai come allora facevano a gara nel far sfoggio di abiti e apparati sempre più eleganti e alla moda. Gli inventari e le cronache dell’epoca documentano largamente la tendenza al lusso e alla distinzione sociale, così pervicacemente perseguita e praticata dalle corti padane di Mantova, Mirandola e Ferrara, di cui Isabella, Laura d’Este e Lucrezia Borgia furono senza dubbio le espressioni più colte e raffinate16. Per soddisfare le esigenze di questo mercato d’elite le stoffe richieste, oltre a durare non più di qualche mese come nel secolo precedente17, dovevano contraddistinguere chi le possedeva non solo per la qualità selettiva e differenziata dei disegni e per il costo elevato dei filati e delle tessiture, ma avevano anche il compito di identificare il rango sociale di appartenenza (con l’esibizione delle insegne o


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delle imprese della casata tessute o ricamate), la cultura umanistica espressa, come pure il ruolo pubblico e religioso ricoperto da chi le indossava (emblemi dogali, senatoriali, cardinalizi e pontifici)18. Una sintesi convincente di questa semantica tardo rinascimentale la si ritrova concentrata nel decoro elaborato della veste di Laura d’Este Pico dipinta da Sante Peranda agli inizi del Seicento, con il picchio (insegna dei Pico), l’aquila imperiale e l’unicorno (armi e imprese degli Este), il pavone e il cane (simboli di nobiltà e fedeltà) (Fig. 12)19. Non solo alle stoffe operate ricche e preziose, ma anche ai tessuti semplici privi di contrassegno araldico o ecclesiastico si affidava il compito di sottolineare l’eleganza sobria di un capo importante. È il caso del capino, altrimenti detto camauro o mozzetta, confezionato con un velluto tagliato di seta cremisi appartenuto a papa Paolo III, Alessandro Farnese, (Fig. 13) e da questi lasciato in dono alla Collegiata di Castell’Arquato, quando, in occasione dell’incontro a Busseto con l’imperatore Carlo V di passaggio in Italia per la Germania, in visita privata a suo figlia, sposa del signore del sito piacentino, dopo aver celebrato la Santa Messa lanciò la mantellina alla folla in risposta all’esternazione d’affetto ricevuta per favori concessi alla cittadina20.

Natura e artificio nelle sete barocche e rococò Il Seicento sviluppa e codifica ciò che fu già intrapreso sullo scorcio del Cinquecento quanto a distinzione tra stoffe d’abbigliamento e d’arredo, rinnovandole entrambe all’insegna di un’estetica dominata dal potenziamento dei valori decorativi in chiave naturalistica dell’elemento vegetale, ben riconoscibile ora nella botanica e ricomposto su direttrici più libere e sinuose. La decorazione tessile si adegua alla moda del secolo che attinge linfa nuova dalla vasta produzione scientifica e ornamentale di dipinti fioristi, erbari, cataloghi a stampa e disegni botanici largamente diffusa in tutta Europa21. Per tradurre a telaio questa riedizione movimentata e colorata del naturalismo, bisognava far ricorso a tecniche di tessitura più semplificate e meno dispendiose del passato, tali da consentire di raggiungere risultati apprezzabili ma a costi contenuti, affidando piuttosto gli esiti della moda seicentesca non tanto e non solo alla stoffa, quanto piuttosto alle finiture tessili (pizzi, nastri e passamanerie in genere), alle fogge sartoriali, all’abbinamento cromatico dell’insieme, e, su tutto al gioiello d’alta oreficeria22. A fronte comunque della continuità dei tradizionali e costosi velluti, ora preferiti nelle varianti del velluto cesellato a più colori23, dei lampassi e dei damaschi (i secondi alternati nella tecnica

del lampassetto), prendono piede stoffe più leggere e di facile lavorazione, maggiormente sfruttabili nell’abbigliamento, come i taffetas, i gros deTours e i rasi operati dove si gioca sul numero e sulla funzione diversa delle trame di decoro (liserèes, lanciate e broccate) in sete a ricca policromia spesso abbinate all’oro e all’argento. Il repertorio floreale continua ad essere ancora quello rinascimentale che, caratterizzato da rose, garofani e fiordalisi, si arricchisce di nuove tipologie scelte per l’alto valore decorativo: la peonia, la giunchiglia, ma soprattutto il tulipano con la fritillaria e l’iris che, importati dalla Cina e dall’Oriente, diventano i veri protagonisti del decoro tessile barocco. Siglati nella formula tipica del ramo fiorito ricurvo questi motivi sono sviluppati su due impianti compositivi di base. Il primo asimmetrico e contrapposto nell’orientamento ripete il motivo in teorie parallele sfalsate più o meno distanziate, come si vede in un frammento della collezione Gandini (Fig. 14)24, a cui si accosta per stretta affinità stilistica la stoffa dell’abito di dama dipinta dal Gennari nel 1676 (Fig. 15)25: in entrambi gli esempi si apprezza come il tema del ramo ricurvo fiorito rispondesse in modo più confacente alla morbidezza nuova assunta dalle fogge sartoriali barocche contrassegnate da ricchi panneggi, che rompono la rigida geometria degli abiti rinascimentali. Una variante alta di questa tipologia floreale particolarmente adatta alle stoffe d’abbigliamento, giocata questa volta però su dimensioni più ampie e rielaborata con esito più elegante e raffinato, è riscontrabile in una bella pianeta modenese della chiesa di San Carlo (Fig. 16)26, che testimonia inoltre la messa a punto di un nuovo modo di reinterpretare la tecnica tradizionale del damasco nel Seicento. Il disegno principale, delineato da trame broccate in oro filato, si snoda sinuoso su un fondo rosa salmone intenso impreziosito da una lamina dorata e animato da un decoro vegetale secondario indistinto e articolato che lo esalta per contrasto degli effetti chiaroscurali prodotti dagli intrecci contrapposti in raso-ordito e raso-trama del damasco. Il secondo impaginato tipicamente barocco, invece, predilige grandi decori vegetali policromi disposti su rigidi assi centrali di simmetria, che, delineati da motivi floreali isolati (tulipani, iris…) o da ricche composizioni vegetali a raggiera nascenti da vasi e calici, dominano la scena isolati o incorniciati entro ovali da tralci di fiori e foglie spesso trattenuti da corone, sviluppando al massimo il loro andamento naturale e il loro valore ornamentale, come si riscontra nel velluto tagliato della raccolta Gandini che riveste una coppia di poltrone d’epoca posteriore (Fig. 17)27.

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Solo il Settecento sarà capace di esprimere un naturalismo maturo e raffinato, sempre più attento alla veridicità del dettaglio botanico che dell’insieme della decorazione, espressa da una sintassi formale varia e colorata dominata da un’idea della natura frivola e arcadica. Prima comunque di questa seconda grande esplosione naturalistica, la produzione tessile francese e italiana tra il 1680 e il 1730 crea sete per abiti molto particolari dai grandi decori elaborati e irreali denominati dalla critica a pizzo e bizzarre, in cui frequente è la contaminazione dei generi come mostra la bella pianeta modenese esposta al Museo Diocesano di Nonantola (Fig. 18) e dove sulla tipologia dominante del pizzo, non mancano tuttavia citazioni della seconda. I decori a pizzo sono caratterizzati, infatti, da grandi trionfi vegetali contrassegnati da una botanica esotica (ananassi. avocadi, felci, ecc.) incorniciata da elaborate trine bianche mutuate dalla moda del periodo che ne faceva largo consumo28. I disegni bizarre sono identificati, invece, da motivi di pura fantasia ispirati ad elementi architettonici o ad oggetti vari che si sviluppano su impaginati asimmetrici e obliqui dove forte é l’astrazione formale e cromatica, come mostra l’accartocciamento della trina a canocchiale e la forma ad ombrello che sostiene l’ananas29. Entrambi sono comunque espressioni tarde e grandiose di un fasto barocco eccentrico ma ancora terribilmente seducente, che, per l’alto contenuto di astrazione e invenzione fantastica fino ad allora inedito, solo nella decorazione tessile raggiungono il massimo della libertà espressiva rispetto, per esempio, al resto delle arti decorative coeve. Dopo questo fantasioso interludio serico esploso a cavallo dei due secoli, di lì in avanti la sperimentazione tessile settecentesca non trova limiti nella messa a punto di nuove tecniche per nuovi disegni che consentono di tradurre al meglio ogni forma di naturalismo. Si va da quello corposo e pittorico delle composizioni vegetali ideate dal disegnatore e tessitore francese Jean Revel (allievo del pittore Le Brun) tra il 1735 e il 1740 poi riproposti fino oltre la metà del secolo, come possiamo ammirare nel paliotto del cardinale Alberoni (Figg. 19, 20)30, fino ai delicati intrecci “a meandro” di rami fioriti con nastri e pizzi che si snodano sinuosi e paralleli in una veste femminile della Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia (Fig. 21)31 e in un prezioso abito nuziale in seta perla e argento donato al santuario reggiano della Ghiara da Maria Beatrice Ricciarda d’Este e trasformato in parato (Fig. 22)32. Per arrivare, infine, alle soluzioni tarde del “meandro” che si irrigidisce in spartiture verticali in un terzo indumento femminile, un’elegante andrienne del Museo Civico modene-

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se (Fig. 23)33 e alla reinvenzione di un raffinato gioco di geometrie spezzate ispirato a un motivo tardo cinquecentesco, il “bastone rotto”, che qualifica il decoro minuto di un altro abito, questa volta maschile, esposto nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia (Fig. 24)34. Ritroviamo lo scenario fedele di questo variegato campionario tessile settecentesco negli abiti indossati dai componenti della famiglia ducale di Parma nel noto ritratto di corte dipinto dal Baldrighi della Galleria Nazionale di Parma (Fig. 25). Don Filippo e consorte esibiscono stoffe di seta unite e operate in raso bianco e in velluto marrone, mentre la granduchessa madre veste un rigoroso taffetas nero ravvivato da uno sfavillante scialle in pizzo d’oro e d’argento e le infanti femmine indossano due “meandri” uno giallo, nero e argento per la più giovane, in tinta unita perla per la maggiore, mentre il delfino sfoggia un “bastone rotto” azzurro35. Gran parte di queste stoffe operate documentano le più significative novità tecniche introdotte nel secolo dei lumi: il point rentré, marchio di fabbrica delle sete Revel (Fig. 20)36, ideato per rendere più efficace il passaggio chiaroscurale delle trame broccate colorate, il ricorso frequente e cospicuo di trame liserées e broccate su fondi taffetas, che permette di restituire la ricca cromia naturalistica dei decori a meandro (Fig. 21) e l’utilizzo di un’altra tecnica anche questa molto poco sfruttata prima del XVIII secolo, come il pèkin, che consente di combinare tra loro più intrecci diversi, aumentando la ricercatezza dei disegni (Fig. 23). La varietà impressionate di soluzioni proposte dalla tessitura settecentesca, stimolata dai cambiamenti ormai settimanali dei disegni e dalla necessità di accorciare i tempi di lavorazione e di ridurre i costi del prodotto per un clientela allargata ora a fasce nuove della borghesia emergente, dell’imprenditoria economica e dell’alto funzionariato pubblico e privato, è comunque ben più ampia dei generi tessili fin qui segnalati37. Lo attesta, al riguardo, la produzione serica di una manifattura locale attiva a Reggio Emilia dal 1743 al 1787 e specializzata su un target di più largo consumo, che ci restituisce l’idea anche se parziale di quale fosse la diversificazione tessile nel secolo dei lumi38: a questa mercatura serica è dedicato nel libro un contributo a parte. Il passaggio poi dall’età preindustriale al mondo nuovo, quello della meccanizzazione tessile ottocentesca, è significativamente testimoniato da un raro manufatto conservato nella collezione Gandini, per la non facile reperibilità di esemplari simili. Si tratta di un telo napoleonico contrassegnato dal piombo della dogana francese di


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Modena (Fig. 26). Non è una pezza di stoffa o un frammento di essa, bensì un “lavorato finito” già predisposto per il taglio della confezione di un gilet 39. La progettazione è stata realizzata a priori su un rettangolo di stoffa in seta avorio a bande orizzontali tessuto prima a telaio, poi ricamato in seguito a minuto decoro vegetale in sete policrome distribuito a seconda dei tagli sartoriali che compongono le parti dell’indumento, i due quarti anteriori, le alette ricamate delle tasche e quelle lisce del colletto a solino, bottoni inclusi.

L’abito delle dimore storiche: i tessuti d’arredo Non molti sono gli arredi tessili ancora presenti in situ nei palazzi pubblici e nobiliari della nostra regione come pure quelli conservati tra gli apparati dismessi in luoghi e istituzioni di culto di cui si è trovata fortunatamente la documentazione con riscontro di materiali e fonti, datata a partire dal Seicento in avanti. A Soragna nel parmense la residenza dei principi Meli Lupi conserva ancora visibili “in opera” le tappezzerie tessute a Venezia tra il 1695 e il 1701 che rivestono le pareti della camera Nuziale (Fig. 27) e della camera del Trono (Fig. 28) oltre ad alcune poltrone40. Entrambi i tessuti, un lampasso di seta verde e giallo a ovali con il motivo rinascimentale del fiore di cardo e un lampassetto in oro, argento e sete policrome con rametti fioriti ricurvi, ricoprivano rispettivamente le pareti della prima e della seconda camera. Ma il lampassetto era anche la tappezzeria originale del baldacchino dell’alcova (in seguito sostituito da un velluto di seta cremisi ricamato d’oro), come attesta l’ammirazione espressa dalla principessa Sofia di Neuburg sposa di Francesco Farnese, in visita a Soragna nel 1695, che rimase colpita dalla “galanteria” e dalla ricchezza della camera nuziale interamente rivestita da una stoffa “in brocato bianco d’oro e d’argento tessuto di fiori al naturale”41. Essere alla moda per i Meli Lupi, principi di nomina imperiale, era una dimostrazione di superiorità gerarchica espressa sia nei confronti della nobiltà locale che di quella di statura nazionale propria dei Farnese42. Non senza rivendicare con orgoglio la perduta supremazia tessile nazionale, le tappezzerie parmensi interpretano comunque il rinnovamento degli interni attuato dalla Francia in pieno Seicento e improntato alla grandiosità ornamentale dei decori vegetali, mantenendo l’equilibrio e l’autonomia propri della tradizione classica italiana. Con le debite varianti dovute alla maggiore o minore raffinatezza espressiva ritroviamo la seconda di queste tipologie, quella più apprezzata e diffusa a maglie vegetali ovali con fiore centrale, riproposta anche in altre tappez-

zerie seriche settecentesche documentate nella nostra regione, che fanno eco ormai al gusto più magniloquente messo a punto dalla Francia e già pienamente affermatosi in Italia. Improntati allo stile d’oltralpe, a Bologna tra Sei e Settecento furono tessuti quattro addobbi nelle consuete stoffe da rivestimento (damasco, broccatello e lampassetto) contrassegnate dal classico decoro vegetale a cornici ovali o mistilinee campite dagli emblemi delle rispettive appartenenze religiose: un damasco di seta cremisi con i simboli agostiniani (cuore fiammeggiante trafitto da angeli reggi mitria e pastorale), eseguito tra il 1680 e il 1688 da Lodovico Scarani e figli, “pubblici e primari tessitori di sete” per la chiesa di San Giacomo Maggiore; un broccatello rosso e avorio e un lampassetto viola e avorio raffiguranti i simboli dell’Ordine di San Filippo (cuori infiammati con stelle gigli), entrambi realizzati nel 1704 e destinati a rivestire pilastri e colonne della chiesa di Santa Maria di Galliera (Fig. 29); un broccatello rosso con decori in giallo e azzurro tessuto da Giovanni Chiecotti nel 1670 per l’oratorio del Baraccano con tre diversi disegni contrassegnati dallo stemma della relativa Confraternita43. Di questi generi d’arredo sei e settecenteschi, sicuramente le prime due erano le tecniche più adatte a tradurre il valore altamente ornamentale dei loro disegni a grandi fiorami simmetrici, garantendone la qualità a costi contenuti, anche se va rilevato che i damaschi venivano preferiti di solito ai broccatelli perché oltre ad essere tessuti in tutta seta, restituivano con il morbido contrasto luministico dei disegni monocromi un’eleganza più raffinata e aristocratica. Frequenti sono i rimandi di questa preferenza documentati non solo dai reperti stessi ma anche dalla cultura figurativa coeva emiliana. In damasco giallo è la tappezzeria che riveste l’alcova di Palazzo Tozzoni a Imola realizzata nel 1738 da un intagliatore locale, in occasione delle nozze del conte Giuseppe con Carlotta Beroaldi nipote del cardinale Lambertini (Fig. 30)44. Dello stesso colore, ma di una tonalità giunchiglia luminosa e brillante è il damasco che riveste le pareti e alcune poltrone della “sala gialla” del Consiglio del palazzo comunale di Modena (Fig. 31). Commissionato al tessitore bolognese Vincenzo Cavallazzi nel 1766 che lo eseguì attenendosi a precise indicazioni di riprodurre lo stemma della comunità (croce azzurra in campo giallo sormontato da una trivella) e di inserire un filo di bavella (seta di seconda scelta) per ridurre i costi di produzione, data l’estensione della commessa. Allo stesso fornitore si rivolse anche la Fabbriceria della Cattedrale modenese tra il 1754 e il 1778 per l’esecuzione del nuovo addobbo in damasco di seta rossa, che, allestito nel pre-

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sbiterio in occasione dell’inaugurazione della pala del Villani avvenuta nel Natale del 1764, fu definito all’epoca “magnifico e sontuoso”45. Rigorosamente rossi, come da consueta tradizione liturgica, sono anche i damaschi usati per il rivestimento interno di chiese, come quelli della chiesa di San Carlo di Modena tessuti a Modena da Aron Sacerdoti intorno al 174646 e quelli eseguiti da Camillo Vezzani nel 1781 per ricoprire otto colonne del Santuario della Madonna di San Luca, offerti dai bolognesi in ringraziamento per averli liberati dal terremoto del 1779, la cui produzione proseguì nel 1792 con la copertura di altre venti colonne per finire nel 1800 con quella dei pilastri47. Valga per tutti questi arredi settecenteschi in damasco un convincente rimando figurativo nella pittura coeva emiliana riscontrabile nel paravento giallo e nel tessuto a parete azzurro raffigurato alle spalle della famiglia Borbone nel dipinto già menzionato del Baldrighi che ritrae la corte di Parma al completo (Fig. 25). Affine nel gusto, ma riproposta nell’altra tecnica nobile e più costosa, il velluto, è anche un’altra tappezzeria degna di nota, tessuta dal bolognese Vezzani nel 1781: si tratta dell’addobbo in velluto cesellato rosso su fondo giallo eseguito per le pilastrate, le colonne, le cantorie e l’ancona della cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a Bologna (Fig. 32)48. Sempre all’insegna della moda francese con riferimento, questa volta, allo stile radicale e innovativo introdotto da Napoleone nei primi due decenni dell’Ottocento, si attestano anche le tappezzerie di una delle più belle ed eleganti residenze neoclassiche della nostra regione, palazzo Milzetti a Faenza. L’edificio, ultimato dal conte Francesco che non lo abitò mai ma lo esibì come gioiello dell’ornamentazione neoclassica e Impero, conserva tre tappezzerie originali Impero, due a parete molto degradate, nonostante il restauro di un ventennio fa, e una che ricopre oggi solo due del dodici sedie e dei tre divani del salone delle Feste49. Se l’ultima è un semplice tessuto unito in raso di seta perla con passamaneria dell’epoca, decisamente più rappresentativi sono i due rasi liserées di seta bicolore che ricoprono le pareti delle sale di Numa Pompilio e di Ulisse: entrambi hanno decori a scacchiera, il primo azzurro con rosette perla (Fig. 33), oggi irreversibilmente virato in una colorazione monocroma giallastra, il secondo verde con stelle perla a otto punte, anch’esso degenerato in una tonalità indistinta di marrone scuro (Fig. 34). Ritroviamo la continuità di questo gusto in altre due tappezzerie, più tarde, epoca Restaurazione, che rivestivano la mobilia di altre tre sale. Sono due stoffe damascate bicolore, ritessute di recente uguali al mo-

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dello tessile originale documentato solo da pochi lacerti scoloriti e consunti: la prima, con un disegno a ottagoni verde chiaro su fondo verde scuro, la seconda, con un motivo a medaglioni vegetali perla su fondo azzurro (Fig. 35) utilizzata per rivestire divani e tronetti di preziosa fattura in legno laccato perla a intagli dorati eseguiti nel 1837 dall’ebanista Gaetano Bertolani. Contrassegnate da decori essenziali risolti con una distribuzione razionale e geometrica dei motivi giocati nell’abbinamento contrastato di due tinte scelte nelle tonalità brillanti e metalliche del perla, del verde e dell’azzurro, le tappezzerie faentine attestano come fosse stato ben recepito in ambito emiliano il gusto nuovo instaurato da Napoleone, riproposto senza sostanziali cambiamenti e in perfetta armonia con l’unità decorativa degli interni fino alla Restaurazione50.

La grande stagione del ricamo In sostituzione e a integrazione delle stoffe eseguite a telaio interviene un’altro genere fondante della tradizione tessile, il ricamo. La tecnica di realizzare decori ricorrendo a mezzi semplici come l’ago e il filo, non vincolati da un rigido meccanicismo strumentale come il telaio, ma solo supportati da consumata perizia e inventiva manuale, ha da sempre svolto nei secoli un ruolo parallelo di coprotagonista insieme al tessuto vero e proprio, sviluppando due filoni distinti: quello specifico religioso, tipico della tradizione liturgica, con la rappresentazione di storie sacre e quello laico più diffuso e largamente sfruttato anche nella produzione tessile profana, contraddistinta da soggetti non figurati dove l’elemento vegetale, coniugato nelle più disparate espressioni formali, domina la scena. Nei ricami, più che nei tessuti, il decoro floreale si propone il più delle volte con un’autonomia e una libertà espressiva sue proprie, dove predomina il potenziamento esasperato della botanica espressa da soggetti particolarmente ornamentali (uccelli, animali, inserti architettonici) e risolta con una varietà incredibile di punti che imponeva l’impiego consistente sia di cromie seriche che di filati e laminati d’oro e d’argento. Si darà conto qui di seguito di questa produzione attraverso le evidenze più significative conservate nelle collezioni pubbliche e nei musei d’arte sacra della nostra regione.

Una sfida alla pittura: il ricamo figurato a immagini e a historiae sacre A differenza di altri contesti nazionali, non molte ma tutte di grande pregio sono le testimonianze antiche di ricami figurati a destinazione liturgica conservate nel nostro territorio. Le possiamo classificare in tre tipolo-


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gie distinte diversamente distribuite nei parati: a figure singole (santi e profeti) e a gruppi (Sacra Famiglia, Dio creatore, Madonna con bambino, Assunzione della Vergine), di preferenza racchiusi entro comparti architettonici (Figg. 37, 38, 39), oppure a storie tratte dai testi sacri, di solito sviluppate a tutto campo e racchiuse da tralci fioriti o da cornici mistilinee, tonde o ovali a simulare i dipinti (Figg. 40, 41, 42, 43). Tutte attingono a un modello di riferimento comune, la pittura sacra coeva, rielaborata da ricamatori specializzati su disegni forniti da artisti di grido. Fa eccezione per la provenienza non autoctona solo un raro piviale quattro-cinquecentesco conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia, che propone un soggetto mariano, l’Assunzione della Vergine al centro di una raggiera di cherubini e motivi gigliati, che la critica ha inteso riconoscere come esempio “rilevante” della produzione ricamatoria inglese ancora attardata su un gusto tardo medioevale (Fig. 36)51. Tra i ricami di sicura manifattura italiana ricordiamo, invece, la Madonna raffigurata seduta nel cappuccio del piviale del Museo Nazionale di Ravenna (Fig. 37)52, insieme a un altro esemplare dello stesso soggetto questa volta rappresentato in piedi nello scudo di un piviale della Collegiata di Castell’Arquato a cui fa da corredo una sequenza di santi entro nicchie nello stolone dello stesso parato piacentino (Fig. 38)53. Entrambi i manufatti ripropongono la comune matrice pittorica di disegni di analogo soggetto che circolavano nelle botteghe rinascimentali di Botticelli, Pollaiolo, Bartolomeo di Giovanni, Benozzo Gozzoli e che venivano tradotti a ricamo da maestranze toscane e lombarde54. Una riedizione tardo barocca dello stesso soggetto, eseguita però in ambito locale, ci proviene dal cappuccio del piviale ricamato nel 1719 dalle zitelle della Pietà di Parma dedicato alla Beata Vergine della Steccata e usato nel giorno della sua celebrazione (Fig. 39)55. D’ambito toscano sono pure le immagini di Dio Padre, della Sacra Famiglia e degli Apostoli che, racchiusi da cornici tonde, ovali e mistilinee su fondi ornati da grottesche, compongono gli inserti ricamati tardo cinquecenteschi del paliotto conservato nella cattedrale di Modena già citato in precedenza (Fig. 8)56. Quanto invece ai parati che raffigurano storie sacre ricordiamo, per tutte, la grandiosa pianeta istoriata del Museo Davia Bargellini (Figg. 40, 41, 42) ricamata dalle putte del Conservatorio bolognese di Santa Marta nel XVII secolo che si confronta con la grande pittura delle Logge Vaticane, riproponendo scene bibliche tratte dal Nuovo Testamento e mediate dal

nutrito repertorio di stampe divulgato tra Cinque e Seicento sul modello raffaellesco: il connubio perfettamente riuscito tra le scene figurate impaginate con grande libertà compositiva e il lussurreggiante intreccio vegetale di “fiori al naturale” che le contiene e le divide, bene documentano l’alto livello espressivo raggiunto dal ricamo barocco anche in ambito locale57. Curioso quanto raro risulta anche un reperto di manifattura emiliana conservato nel Museo della Basilica della Ghiara di Reggio Emilia: è una tendina che serviva per proteggere un’icona sacra donata nel 1617 da una nobildonna locale al Santuario omonimo (Fig. 43). L’arredo in seta oro e argento propone una historia insolita nella tradizione a ricamo, più diffusa in ambito figurativo, tratta da un versetto dell’antico Testamento, l’albero di Jesse, che sta a connotare, anche per l’interpretazione inedita del profeta sveglio e non dormiente con braccio alzato indicante la Madonna iscritta in una mandorla, una cultura erudita e raffinata da parte del committente58. Se per tutti gli esemplari fin qui esaminati i modelli figurali erano quelli mutuati dalla pittura, la tecnica usata per realizzarli proveniva da un’antica tradizione artigianale che aveva sviluppato e consolidato nel tempo un repertorio collaudato di punti di ricamo diversificati a seconda delle zone: il punto steso e affondato a filati d’oro e d’argento per i fondi e le architetture, il punto piatto in sete policrome per i decori e le figure59. Quest’ultimo, nella variante del punto raso o pittura, era usato di preferenza nella resa degli incarnati: grazie alla restituzione minimalista del dettaglio anatomico, il ricamo così eseguito si avvicinava alla verosimiglianza pittorica60. E più ricchi ed elaborati erano i particolari descrittivi di questi ricami, più lenta erano la loro esecuzione, per la quale diventava d’obbligo procedere per fasi distinte di lavoro che richiedevano prima l’esecuzione della struttura portante del disegno distinta da quella delle parti più complesse, poi il riassemblaggio di entrambe nella fase finale del lavoro. Protagonista insuperata comunque, anche se solo limitata all’epoca rinascimentale e destinata alla confezione di manufatti eccezionali di grande pregio contrassegnati dal mirabile connubio della seta colorata con i filati d’oro e d’argento, rimane un’altra tecnica ricamatoria esclusiva del periodo, che imponeva una perizia tecnica altamente qualificata, l’oro velato (l’or nué, oro smaltato e translucido) storicamente detto “oro serrato”, secondo una citazione vasariana, la cui paternità era ascrivibile solo all’ambito fiorentino. La troviamo applicata nei ricami

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figurati dello scudo ravennate (Fig. 37), del piviale piacentino (Fig. 38) e del paliotto modenese (Fig. 8): questo tipo di lavorazione consisteva nel ricoprire l’oro o l’argento filato con fili di seta colorati addensando o diradando gli avvolgimenti serici così da lasciar trasparire il metallo sottostante e creare un gioco pittorico e traslucido di luminescenze dorate e argentate sulla ricca cromia della raffigurazione61.

Una moda aristocratica: i quadri di stanza e le tappezzerie con vedute In parallelo alla produzione liturgica di ricami figurati, è documentata a Bologna ad opera di quel laboratorio prolifico di ricamo che fu appunto il conservatorio di Santa Marta dove lavoravano abilmente all’ago le putte, figlie della nobiltà locale segnate da un destino comune discriminato da un censo secolare, una serie di quadri e quadretti ricamati a punto piatto e punto pittura in seta policroma, raffiguranti brani ispirati alla mitologia classica, per i quali, i modelli di riferimento erano quelli utilizzati nella pittura locale da artisti come Lorenzo Pasinelli, Pier Francesco Cittadini e Ludovico Carracci. Conservate per lo più al Museo Davia Bargellini, come riferisce Bentini, sono “operette da stanza” altamente decorative prodotte per il godimento privato dell’aristocrazia bolognese che “dall’imitazione della grande pittura trovava avvalli di qualità e di pregio” (Fig. 44)62. Troviamo altri rimandi alla pittura coeva anche in tutta una produzione di arredi ricamati eseguiti con la stessa tecnica, incluso il piccolo punto, oggi in gran parte perduti, che ornavano le dimore gentilizie della nostra regione. Di questa produzione si menziona qui un unicum a noi pervenuto del ricco patrimonio di tappezzerie dei palazzi senatori, sono i ricami figurati eseguiti dalle putte di Santa Marta che rivestono una coppia di seggioloni conservati nello stesso museo bolognese: i temi ivi riprodotti, la Primavera, una veduta marina e una natura morta incorniciate da serti e ghirlande di fiori, fanno eco alla vasta produzione di quadri da stanza di analogo soggetto dipinti da Pier Francesco Cittadini, pittore della corte estense (Fig. 45)63.

Il trionfo del naturalismo nel ricamo sacro e profano Non v’è chiesa o dimora aristocratica nella nostra regione che non conservi o abbia conservato a suo tempo testimonianze di parati e arredi ricamati nella tecnica del punto piatto e punto pittura dove largo è il dispendio di filati in sete policrome, oro e argento. Molto più che ai

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tessuti operati di maggior complessità esecutiva per i limiti imposti dalla meccanica del telaio, è al ricamo e alla sua infinita capacità espressiva che il Seicento e il Settecento affidano una parte preponderante della produzione tessile, specie di quella liturgica. L’età barocca segna in particolare la messa a punto di modelli decorativi di riferimento comuni all’ambito civile e ecclesiastico che avranno largo seguito nei due secoli successivi, specie nel Settecento che li reinterpreta nel gusto dell’epoca inserendo i tipici motivi rocaille. La sintesi di questo gusto che da Parma a Bologna, come nel resto della penisola, trova un linguaggio formale comune è espressa dal tema figurale del rabesco fiorito risolto nello sviluppo simmetrico o asimmetrico delle volute. Due paliotti d’altare bolognesi seicenteschi conservati al Davia Bargellini (Fig. 46) e nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano64, insieme al piviale parmense della Steccata del 1719 (Fig. 47)65, tutti realizzati da ricamatori locali, attestano in modo esemplare e documentato, come la messa a punta di questo modello avesse riscosso grande successo tra Sei e Settecento: la formula preferita è espressa dalle ramificazioni a voluta che si snodano in perfetta simmetria, animate o meno da uccelli di ogni tipo, attorno ai temi del vaso o della cornucopia rigurgitanti di fiori e frutta o dell’immagine sacra, divenuti ora il punto di raccordo centrale da cui nasce e confluisce l’intera decorazione vegetale. La finta tenda copriporta a ramages fioriti con volatili dipinta dal Boulanger tra il 1641 e il 1642 con effetto di trompe l’oeil in una sala del Palazzo Ducale di Sassuolo (Fig. 48)66, del tutto affine al paliotto bolognese, documenta in modo significativo quanto fossero apprezzati questi decori tessili anche nell’uso profano67. I due splendidi baldacchini bolognesi ricamati in oro e sete policrome da Barbara Zucchi nel 1763 per la Chiesa di San Domenico (Fig. 49) e da Anna Barocci nel 1782 per la chiesa della Santissima Trinità, documentano poi come tale sperimentazione nell’epoca dei lumi raggiunga livelli insuperati e trovi, nella soluzione asimmetrica dell’intreccio di fiori con cornici architettoniche e motivi rocaille, descritti da punti e filati rinnovati e sempre più rifiniti, ben pochi termini di confronto quanto a verosimiglianza naturale e perfezione esecutiva, se non nei coevi stucchi e intagli lignei, come dimostrano le cimase in legno dorato dei rispettivi baldacchini68.

Una variante del ricamo a fili di seta policromi: l’applicazione di tessuti a riporto Una risposta decisamente più economica e di rapida esecuzione ai costosi e pesanti ricami in sete policrome, era


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quella di riportare ritagli sagomati di stoffe leggere di seta colorata a tinta unita e applicarli a cucito sul tessuto di fondo profilandoli in oro o argento filato e rifinendoli di frequente con stesure pittoriche per conferire spessore plastico e chiaroscurale alla decorazione. Questa tecnica di origine antica fu recuperata e potenziata al massimo grado durante il Rinascimento per essere riproposta tra Sei e Settecento con una destinazione d’uso specifica nell’arredo sacro e profano grazie ai suoi requisiti di funzionalità (erano ricami robusti), di minor costo (l’esecuzione era più veloce e l’impiego dei materiali più contenuto) e di estetica (alta era la resa visiva)69. Ritroviamo questo tipo di lavorazione in due parati liturgici reggiani e in un arredo modenese. Il più antico dei tre è una pianeta conservata nel Duomo di Reggio Emilia (Fig. 50) che la tradizione vuole essere stata indossata e donata da San Carlo Borromeo alla Cattedrale, quando, di passaggio nella città emiliana, celebrò il 15 aprile 1581 una santa Messa in onore delle reliquie dei Santi martiri Grisanto e Daria. Il decoro, circoscritto solo alle zone degli stoloni, è confezionato con un ricamo a riporto realizzato da ritagli in taffetas laminato di seta gialla profilati da un cordoncino d’oro filato che disegnano su un fondo di raso nero un intreccio fitomorfo monocromo a doppia maglia ovale70. La geometria del motivo, un fregio classico rinnovato dal gusto cinquecentesco in una forma sobria ed elegante e interpretato dalla tecnica semplice ed incisiva del ricamo a riporto, ben si confà alla statura morale e al programma di rinnovamento liturgico di colui che la indossò nell’assunzione piena dei dettami indicati dalla Controriforma. In netta contrapposizione per l’evidenza sontuosa del decoro vegetale, si pone, invece, il parato liturgico solenne della Collegiata di Novellara usato nella festività di San Cassiano (Fig. 51) e fatto fare tra il 1752 e il 1766 dal ricamatore di corte Gonzaga, Lazzaro Pietramaggiori, a somiglianza di arredi cinquecenteschi trafugati durante il sacco di Roma nel 1527 da una chiesa della capitale, poi riscattati da Alfonso I Gonzaga nel 1600, quindi definitivamente trasferiti nella rocca di Novellara nel 1752, stando almeno a quanto riferito da un’autorevole fonte ottocentesca locale che ci informa anche che il sontuoso apparato era indicato nel testamento della duchessa Riccarda Gonzaga del 176671. Confezionato ex novo con ritagli di seta perla e gialli, dipinti e applicati su raso di seta rossa, solo una minima parte dei ricami originali sono stati ripristinati e riportati con decoro antico su velluto di seta cremisi in uno dei tre piviali e in un telo da parata in precario stato conservativo su cui campeggia tra girali fioriti lo stemma Gonzaga. L’altro manufatto di grande

pregio che testimonia l’uso combinato della tecnica a riporto cinque-seicentesca di ricami a punto piatto e punto pittura in seta policrome con ricami a punto steso descritti da filati d’oro e d’argento, è la portiera campita dalle insegne del cardinale Pietro Campori, oggi esposta al Museo Civico di Modena (Fig. 52)72. È uno dei pochi arredi di questo genere a noi pervenuti della prima metà del Seicento che testimonia la moda nata e diffusa in questo secolo di decorare gli interni delle dimore gentilizie ricoprendo i punti strategici di passaggio interni della casa con stoffe ricamate dove apparisse forte e inequivocabile il richiamo autoreferenziale della proprietà e della sua appartenenza sociale (Fig. 53)73.

“Vanitas vanitatum”: pizzi e ricami d’oro e d’argento, i veri protagonisti del fasto dall’età barocca all’Impero

Ricami tutti d’oro e d’argento Tramontata la pur breve stagione di austerità delle stoffe e dei ricami imposta dalla Controriforma e avvallata dai dettami rigoristi introdotti dalla moda spagnola nell’abbigliamento e nell’arredo profano tra fine Cinque e Seicento, in piena età barocca e rococò si tornò a dar libero sfogo all’esibizione sfrenata del lusso e della ricchezza, che tornerà ad una più contenuta espressione suntuaria solo in epoca neoclassica e napoleonica74. Traduzioni esemplari di questa tendenza, che relega in secondo piano le stoffe tessute a telaio fino a superare la fantasmagorica produzione ricamatoria a fiorami in sete policrome, sono i ricami interamente eseguiti in oro e argento, esibizioni di un fasto immediato e assoluto. Li ritroviamo documentati in corredi liturgici solenni appartenuti a esponenti illustri del clero e dell’aristocrazia locale. Per i ricami d’oro e d’argento barocchi e rococò ricordiamo i manufatti più rappresentativi e strepitosi: il parato in terzo del cardinale Rinaldo d’Este (1618-1672) ascrivibile agli anni del vescovado reggiano (1641-1672), donato alla Cattedrale del luogo insieme ad altri arredi (Figg. 54, 55)75, un ternario commissionato ad un ricamatore romano nel 1706 dall’Ordine dei Cavalieri di San Giorgio per il santuario della Steccata di Parma (Fig. 56), di cui portavoce autorevole era il duca Francesco Farnese76, i parati solenni del cardinale Alberoni (1664-1752), ancor oggi allocati nel collegio da lui voluto a Piacenza ed eseguiti un anno prima della sua morte nel 1751 (Figg. 19, 20)77, e infine, il ricco corredo di vesti e arredi appartenuti a due insigni prelati bolognesi, il cardinale arcivescovo di Bologna Prospero Lambertini, alias papa Benedetto XIV

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(1740-1758), con il paliotto del 1742 (Fig. 57) e il pontificale solenne del 1741 (Fig. 58) e il cardinale Aldrovandi con il parato di San Petronio del 1743 (Fig. 59), conservati nei rispettivi musei della cattedrale78 e della chiesa omonima79. Allo scopo di evidenziare i passaggi chiaroscurali del disegno monocromo, tutti i ricami citati sono lavorati con una varietà impressionante di punti e filati eseguiti su supporti imbottiti di cotone e canapa o su ritagli di stoffa e cartoncini per sottolinearne i diversi livelli di rilievo. La brodérie d’oro o d’argento a rilievo così supportata è applicata poi sia su fondi ricoperti per intero dallo stesso tipo di ricamo, come si evidenzia nello strepitoso paliotto di papa Benedetto XIV (Fig. 57), che su fondi dove è visibile il tessuto unito di base in seta monocromo, spesso ravvivato dalle lumeggiature di una trama in lamina d’oro o d’argento, come si apprezza nel resto dei parati dei cardinali Lambertini (Fig. 58), Aldrovandi (Fig. 59) e Alberoni (Fig. 19). Se la tecnica di ricamare l’oro e l’argento raggiunge la sua iperbole barocca negli effetti a rilievo prodotti dalla cornice del paliotto della Steccata (Fig. 56), che si stacca dal fondo con forte aggetto plastico all’esterno, grazie ad una struttura metallica di supporto80, si esprime tuttavia con pari efficacia ricorrendo a lavorazioni più semplici nel parato reggiano di Rinaldo d’Este (Figg. 54, 55), dove il decoro elaborato e minuto come un’oreficeria di gusto ancora tardo rinascimentale è descritto dalle sole profilature in cordoncino d’oro81. Pur con le diversità di tecnica e stile dovute all’epoca in cui furono realizzati e al gusto di chi li commissionò, tutti questi ricami fanno riferimento ad una comune matrice stilistica che trovò nelle botteghe di ricamatori dell’Urbe, faro propagatore della cultura artistica barocca, il laboratorio guida. Roma infatti fu il luogo eletto di tale sperimentazione aurea con modelli di ricamo contrassegnati da decori imponenti e sontuosi, che nei manufatti emiliani e bolognesi vengono tradotti in una forma più misurata e a sua volta diversificata da luogo a luogo: il legame tra i Farnese e i cardinali bolognesi con il Papato è siglato, per esempio, dall’utilizzo diretto di maestranze provenienti dalla capitale, mentre per il cardinale Rinaldo d’Este come per il cardinale Alberoni la liason romana è mediata, invece, da ricamatori locali aggiornati e affinati al gusto della città eterna82. Un’espressione diversa del lusso prodotta dal ricamo con metalli preziosi ci proviene, inoltre, dal corredo suntuario della duchessa Maria Luigia di Parma esposto al Museo a lei dedicato, che, nello splendore discreto e raffinato dei ricami d’argento che li identificano, ci re-

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stituisce l’idea tangibile di come veniva espressa la regalità in epoca napoleonica. Sono due abiti di gala, il primo con gonna e manto a strascico, forse riconoscibile con una veste affine confezionata a Parigi nel 1838, descritta tra i Manteaux de Cour dell’imperatrice (Figg. 60, 61)83, il secondo riadattato per la figlia Albertina e databile tra il 1825 e il 1830 (Fig. 63), anche questo di quasi certa manifattura francese84. A questi va aggiunto un manto della Madonna della chiesa dell’Annunziata di Parma, donato dalla duchessa (Fig. 64)85.Tutte e tre le vesti presentano la stessa tipologia di ricamo Impero in lamina d’argento liscia e punzonata, lavorata a punto rammendo su fondi di seta diversi connotati da un decoro contenuto nelle dimensioni e impaginato con una distribuzione geometrica e preordinata dei motivi a seconda del taglio dell’abito. Nella veste ducale, per esempio, il decoro a minuta punteggiatura è profilato nei bordi da alte cornici ornamentali. Anche se gli abiti ducali propongono, tuttavia nella linee morbide e attondate, fogge sartoriali più tarde, proprie già del gusto romantico della Restaurazione, rispetto al rigoroso taglio Impero della veste indossata dall’imperatrice nel noto ritratto ufficiale di Lefèvre esposto nel museo parmense (Fig. 62) proprio di fronte al manto ducale, si apprezza comunque quale fosse il ruolo di protagonista affidato al ricamo d’argento e con esso la consacrazione del nuovo gusto francese introdotto da Napoleone in campo tessile: la predilezione per le stoffe di seta unite, leggere e trasparenti, ornate da ricami semplici e razionali coniugati nelle tonalità fredde e metalliche dei laminati d’oro e d’argento a cui si abbina una cromia intensa e schiarita della seta di fondo86.

Pizzi d’oro: preziose filigrane lavorate a fuselli Come la stoffa a telaio e il ricamo, anche il merletto metallico, pizzo o trina che dir si voglia, lavorato a fuselli, ha espresso un ruolo importante nella decorazione tessile, anche se secondario rispetto agli altri due generi, in quanto utilizzato a supporto e rifinitura dell’abbigliamento e dell’arredo. Solo in alcuni periodi, come nel XVII e nel XVIII secolo, e in forza del successo riscosso da sempre come prezioso orpello di vesti e parati liturgici, fu intrapresa una produzione d’eccellenza mai più ripetuta in seguito, caratterizzata da pizzi di grandi dimensioni d’oro e d’argento che sostituivano integralmente i più tradizionali tessuti e ricami nella confezione di indumenti e apparati esclusivi destinati all’aristocrazia e all’alto clero87. I merletti d’oro e d’argento di grandi dimensioni con i loro elaborati intrecci a traforo che simulavano i lavori in fili-


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grana dell’oreficeria coeva, dimostrarono come mai fino ad allora le potenzialità insospettate ed estreme di un’arte “povera” come quella del pizzo a fusello si fossero spinte oltre, non solo sfidando la corrispettiva produzione di trine di lino bianco all’ago e al tombolo, ma riuscendo ad affrancarsi anche dalla sudditanza secolare imposta dalla grande tradizione tessile di stoffe e ricami serici. Sorprendentemente, e a differenza di altre, la nostra regione conserva ancora alcuni di questi esemplari, un tempo prodotti in numero ridotto per il loro costo elevato fino ad oggi miracolosamente sopravvissuti nonostante l’inevitabile perdita subita in passato da questo genere di manufatti che venivano distrutti per recuperare il metallo prezioso. Sono cinque pizzi di epoca e provenienza diversa, tutti di grande pregio per il tipo particolare di lavorazione che li accomuna a filo continuo e a pezzi separati. Il metallo filato e laminato, manovrato da piccoli pesi detti fuselli, veniva intrecciato senza interruzione fino a comporre il motivo principale del disegno, che, nella fase finale della lavorazione e solo per i pizzi grandi e complessi, veniva integrato da parti lavorate separatamente: il riassemblaggio di striscie diverse assicurate lateralmente a quella centrale era l’unica soluzione tecnica in grado di realizzare trine di ampie dimensioni ovviando così ai limiti imposti dalla lavorazione a fuselli e dalla rigidità del filo metallico che non consentiva di superare in media i15 cm di larghezza. Di questi pizzi, i primi due seicenteschi compongono una coppia di pianete seicentesche del cardinale Rinaldo d’Este, vescovo di Reggio Emilia (1642-1672). Databili tra il 1642 e il 1672 e di sicura provenienza veneziana, presentano decori distinti, uno a fitto rabesco di volute asimmetriche (Fig. 65) e l’altro a elaborata candelabra rinascimentale (Fig. 66), che declinano due espressioni diverse del linguaggio barocco dell’epoca88: più sperimentale e alla moda il primo, decisamente classico e allineato con la tradizione rinascimentale, il secondo.

Dei restanti pizzi settecenteschi, due sono stati usati per la confezione di paramenti sacri e uno per la realizzazione di una veste femminile. Il primo è una trina d’argento che orna un prezioso tessuto di seta operata perla e argento servito in origine per confezionare l’abito nuziale di Maria Teresa Beatrice Ricciarda d’Este, andata in sposa a Milano nel 1771 a Ferdinando d’Asburgo Lorena, figlio cadetto di Maria Teresa d’Austria. La pregiata veste tessuta in Francia, a nozze avvenute e come era uso fare da parte di esponenti dell’aristocratia, fu donata al Santuario reggiano della Vergine della Ghiara che la reimpiegò per un parato liturgico solenne (Fig. 22)89. Il secondo è una trina d’oro di eccezionale grandezza e perfezione, applicata su velluto di seta azzurra che la tradizione, non ancora supportata da fonti documentarie certe, ritiene essere con molta probabilità di provenienza estense in quanto essere stata o espressamente “commissionata” da una principessa estense devota alla chiesa modenese di San Carlo, oppure “donata” come pezzo esclusivo del guardaroba ducale da un suo insigne esponente (Fig. 67)90. Il terzo è un merletto d’argento alto 25 centimetri applicato in un abito femminile (andrienne) conservato nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia, che ripropone nel decoro, ingrandito e arricchito, quello geometrico a piccole maglie romboidali presente nel fondo a rete della trina d’oro modenese91. Se questi ultimi esemplari testimoniano l’alto livello di specializzazione raggiunto dai merlettai francesi nella seconda metà del Settecento proprio in questo tipo di produzione, di lì in avanti l’apogeo raggiunto dal mercato esclusivo di trine d’oro e d’argento, segnerà il passo, verso una progressiva e rapida decadenza dell’intero settore che coinvolgerà anche la produzione di merletti ad ago e fuselli in lino e seta, sotto la pressione incalzante di una moda rivolta a un domanda tessile più economica e di largo consumo92.

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NOTE 1 I tessili recuperati durante la ricognizione tombale del 1920 non rese-

ro possibile ricomporre la foggia originale dei tre capi d’abbigliamento a cui a appartenevano, un farsetto in velluto broccato, una sopravveste e un manto in damasco lanciato broccato, inclusi un corredo molto frammentario composto da una camicia, una cintura di seta e da alcuni bottoni sparsi in seta e oro. Inizialmente e solo parzialmente esposti nella Cella delle Reliquie del Tempio Malatestiano di Rimini, furono sottoposti a restauro agli inizii degli anni ’70 dalla Fondazione svizzera Abegg Stiftung di Berna dove è attivo uno dei centri europei più famosi e prestigiosi specializzati nel recupero dei manufatti tessili antichi. Questi importanti reperti noti fin dal XVIII secolo e citati da D. Devoti (L’Arte del Tessuto in Europa, Milano 1974, p. 22) sono stati studiati e pubblicati in due importanti occasioni, a conclusione del restauro da M. Flury-Lemberg, in Textile Conservation and research, Abegg-Stiftung Berna 1988, pp. 452/455, cat. nn. 22-24 e nel catalogo della mostra di Rimini (13 marzo-15 giugno 2001), Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, Rimini 2001, nei saggi curati da: E. Tosi Brandi, Un esempio di magnificenza signorile. Il guardaroba di Sigismondo Pandolfo Malatesta, pp. 68,69 e L. Nucci, Il restauro dei frammenti tessili delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel Tempio Malatestiano di Rimini, pp. 70/72, cat. nn. 96, 97. Per la bibliografia storica precedente si rimanda a questi ultimi studi. 2

Le denominazioni di queste due varianti decorative della melagrana compaiono in un trattato anonimo sulla tessitura serica fiorentina della seconda metà del XV secolo pubblicato nel 1868 da G. Gargiolli. Si veda in proposito D. Devoti, cit., pp. 21, 22. 3 Per un inquadramento storico generale di questi due generi tessili identificativi della tessitura serica del XV secolo con riferimento alla produzione italiana, si veda D. Devoti, cit., pp. 21/24; E. Bazzani, cit., 1981, pp. 82/85,108/118 e I. Silvestri, Storia e fortuna dei damaschi, in Tessuti antichi nelle chiese di Arona, catalogo della mostra a cura di D. Devoti e G. Romano, Torino 1981, pp. 49/51,78,79. 4 Il farsetto è un capo maschile tipico rinascimentale corto, attillato e stretto in vita da una cintura, che, assicurato da una fitta abbottonatura sul davanti, veniva imbottito per protezione dai colpi d’arma. Era indossato sopra alla biancheria intima (la camicia) e sotto alla sopravveste (“giornea”) e al mantello. Dalle maniche tagliate al gomito e alla spalla per la movimentazione delle braccia sbucava a sbuffi la camicia sottostante. Alla parte inferiore del farsetto erano assicurate tramite lacci calze aderenti di panno o di maglia di seta che venivano solate o meno nel piede a seconda che fossero usate in sostituzione della scarpe o con esse. Per i dati tecnici, storico-critici e bibliografici sul farsetto malatestiano si rimanda alla scheda n. 97 redatta da Nucci nel catalogo della mostra sui Malatesta (cit., 2001). Si menziona inoltre per i debiti confronti anche lo studio dell’autrice su un altro farsetto malatestiano d’epoca anteriore (molto simile nel tipo di velluto operato utilizzato e meglio conservato nella foggia sartoriale), ritrovato durante la ricognizione effettuata nel sarcofago di Pandolfo III Malatesta (1370-1427) sepolto nella chiesa di San Francesco di Fano (v. cat. cit. n. 73), dove sembra diversa la confezione, qui realizzata con maniche strette che terminano a sbuffo all’altezza della spalla. 5 Sono velluti tagliati, a una o due altezze di pelo, così denominati dalla

critica per il loro particolare disegno “a melagrana”, che, tecnicamente descritto in velluto tagliato con i contorni evidenziati dalle sottili profilature opache dell’intreccio di fondo, delinea un motivo a rabesco simile appunto ad un’inferriata. Storicamente chiamati “zetanini vellu-

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tati” o “zetani avvellutati”, vengono indicati dalla critica più recente otto-novecentesca con il nome di velluti “a inferriata” v. E. Bazzani, cit., pp. 117, 118. 6

Su questa tecnica particolare di arricciatura dell’oro, che sembra mutuata dall’arte tessile copta ma che viene riproposta in modo innovativo e con l’impiego esclusivo di filati d’oro e d’argento nei velluti operati solo in epoca rinascimentale prima in Italia poi in Spagna con soluzioni diverse nel modo di distribuire questi effetti solo sulla superficie del velluto, non si sa molto a tutt’oggi. Si veda in proposito: E. Bazzani, cit., pp. 103/107; Origine e sviluppo dei Velluti a Venezia: il velluto allucciolato d’oro, Venezia 1986.

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Lo studio del telo, ricomposto con i frammenti dei due capi ritrovati nella tomba di Sigismondo (la sopravveste e il manto), rimane a tutt’oggi ancora aperto a nuove ipotesi e interpretazioni, riguardo al tipo di fogge cui fanno riferimento. Non si è certi infatti se questi fossero in origine così combinati, un manto con sopravveste (detta giornea), corta e senza maniche, aperta ai lati e arricciata sul davanti, come quella indossata da Sigismondo nell’affresco tombale e nella tavola del Louvre dipinti da Piero della Francesca, oppure invece come sembra, una veste corta aperta sul davanti con occhielli su entrambi i lati per il passaggio della stringa, completata da un mantello della stessa lunghezza, confezionato con la stessa stoffa, un damasco di seta lanciato e broccato, simile a quelli elencati nel suo guardaroba. Sembra tuttavia che, per la presenza di tracce di fodera in taffetas, i capi dovessero essere da mezza stagione (v. la scheda redatta da L. Nucci n. 96 nel catalogo della mostra (cit., 2001).

8

Sul valore simbolico del tessuto di seta nel Quattrocento e sul prestigio assoluto che esso deteneva anche rispetto all’abito, si veda, A. Fiorentini Capitani - S. Ricci, Considerazioni sull’abbigliamento del Quattrocento in Toscana, in Il costume al tempo di Pico e Lorenzo il Magnifico, a cura di A. Fiorentini, V. Erlindo, S. Ricci, Milano 1994, pp. 51,56/58.

9 Sull’evoluzione del disegno tessile nel Cinquecento si veda D. Devoti, cit., pp. 24/26; 10

Si veda la scheda tecnica del velluto cesellato che riveste il cofano scrittorio portatile esposto alla Galleria Estense di Modena, prezioso quanto raro manufatto dell’oreficeria rinascimentale opera di Leone Leoni (1509-1590), pubblicata da I. Silvestri e E. Bazzani, in Restauri fra Modena e Reggio, catalogo della mostra di Modena del 29 ottobre - 24 dicembre 1978, a cura di G. Bonsanti, Modena 1978, cat. n. 43, tavv. 52/55, pp. 106/110. Un tessuto uguale compone un paliotto conservato nel Duomo di Reggio Emilia (Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Modena e Reggio Emilia, scheda del catalogo generale, NTCN n. 100). Come é stato segnalato dalle studiose, se la produzione di questo genere di velluti della seconda metà del XVI secolo é ascrivibile ai maggiori centri di produzione del centro e Nord Italia (Firenze, Genova Milano e Venezia), tuttavia non si esclude una sua verosimile provenienza anche da centri minori presenti in ambito emiliano con riferimento specifico all’ambito ferrarese dove era attiva sin dal Medio Evo la tessitura serica di stoffe operate (velluti compresi) legata al ducato estense. Si esclude comunque l’assegnazione specifca a Modena e Reggio in quanto il trasferimento del ducato in questi territori a fine Cinquecento é posteriore alla datazione del velluto.

11 Il tessuto del paliotto e quello di un altro più piccolo, entrambi espo-

sti al museo del Duomo di Modena, componevano in origine un parato liturgico completo appartenuto, come sembra fino ad oggi, al car-


Seta, oro e argento

dinale Morone che resse l’episcopato modenese dal 1564 al 1571. Se risulta documentata la provenienza del ricamo in oro velato come produzione esclusiva d’ambito fiorentino, meno localizzabile con precisione risulta il luogo di produzione del tessuto operato che comunque per la sua complessità tecnica doveva far rimando ad un centro importante del centro e Nord Italia, Toscana compresa, come ben evidenzia chi lo ha studiato: L. Lorenzini, “Paramenti et altri suppellettili”. Note su arredi sacri e dotazioni liturgiche della cattedrale di Modena, in Domus Clari Geminiani. Il Duomo di Modena, a cura di E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori, Modena 1998, pp. 194/231 e pp. 207, 208. Si veda inoltre la scheda tecnico-storica pubblicata dal medesimo autore, in Il Duomo di Modena - The Cathedral of Modena, collana diretta da S. Settis, Modena 1999, cat. 883, pp. 286, 287. 12

Per questa pianeta conservata nella chiesa parrocchiale di S. Giorgio Martire di Vesale, una frazione di Sestola sita nell’Appennino modenese, si veda la scheda storico tecnica di I. Silvestri, in Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenese, catalogo della mostra a cura di C. Chiaravello e R. Fangarezzi, Bologna 2004, cat. n. 2, pp. 38, 39 e foto di copertina. Il successo riscosso da questo genere tessile, con vocazione specifica nell’arredo e nei paramenti liturgici della produzione tardo cinquecentesca, fu tale da essere riprodotto a simbolo della decorazione tessile di quel periodo dalla moda revivalistica in voga tra i “collectioneurs pratiques” italiani tra Otto e Novecento, che diffusero questo gusto non solo nella produzione tessile ma anche nella decorazione parietale dipinta che riproduceva questi motivi in sostituzione dei più costosi rivestimenti tessili. Si veda in proposito la tappezzeria della Camera del Letto Verde e del Salone di palazzo Bagatti Valsecchi a Milano, espressamente voluta dai proprietari e fatta tessere da manifatture lombarde “... su disegni dall’antico...”, pubblicata da R. Pavoni nel suo studio, Le tappezzerie del Palazzo Bagatti Valsecchi di Milano: problemi museologici, in Le tappezzerie nelle dimore storiche. Studi e metodi di conservazione, atti del convegno C.I. S. S. T., Firenze 13-15 marzo 1987, Torino 1988, pp. 48/55, fgg. 43/46.

13 Per questa tecnica di ricamo tipicamente rinascimentale si veda M. Schuette - S. Muller Christensen, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma 1963, p. 12. 14 Per questa tipologia cinquecentesca a maglie ovali con vasi, elementi

architettonici classici ed inserimenti di animali tardo trecenteschi, si rimanda a D. Devoti, cit., pp. 25,26. 15 Tre sono a tutt’oggi le attribuzioni espresse dalla critica su questo interessante indumento conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia. La prima è sostenuta dalla nota storica della moda Janet Arnold che ne afferma l’originalità come abito di scena del teatro inglese del periodo elisabettiano, scalabile tra il 1615-20 ca., per il taglio e le cuciture sartoriali, nonché per il modo di eseguire i punti di ricamo ben visibili lungo i contorni dei ritagli in pelle di capretto che compongono il disegno a maglie sagomate racchiudenti garofani fioriti (Patterns of Fashion. The cut and construction of clothes for men and women c1560-1620, Londra - New York 1985, cat. 23 pp. 90/92, fgg. 201/10 a p.30, disegni nn 23,23A/d a pp. 90/92). La seconda è quella di M. Cuoghi Costantini pubblicata nel catalogo dei tessili della Galleria Parmeggiani del 1994, che propone invece un’attribuzione ottocentesca a imitazione di modelli cinquecenteschi (Tessuti e costumi..., cit., cat. 143 p. 94). La terza è quella recentissima avanzata da G. Butazzi nello studio prodotto nel catalogo a cura di A. Zanni e A. Di Lorenzo, pubblicato in occasione della mostra attualmente in corso al Museo Poldi Pezzoli di Milano (2 ottobre 200515 gennaio 2006) su: Giovan Battista Moroni. Il Cavaliere in nero. L’immagine del gentiluomo nel Cinquecento. La studiosa concorda con l’attribuzione

della Arnlod suggerendo però una datazione anticipata compresa tra gli ultimi anni novanta del Cinquecento e non oltre il primo decennio del Seicento. A sostegno di questo spostamento cronologico intervengono alcuni elementi sartoriali dell’abito e dati stilistici del tessuto. Per i primi, la forma gonfia e tonda dei calzoni tagliati direttamente nel tessuto e non più a striscie staccate e applicate ad una fodera interna come era in uso fino agli anni Settanta del Cinquecento, oltre a novità già seicentesche come la linea più accorciata del giuppone, le alette sulle spalle e l’assenza della braghetta interna nei calzoni. Per i secondi, la riduzione delle dimensioni del disegno floreale segna il cambiamento del gusto tessile in atto tra i due secoli, così pure la marcata stilizzazione dei motivi e la predilezione per schemi simmetrici a maglie romboidali sottolinenao il perdurare nella moda di caratteri ancora tipicamente cinquecenteschi. (cat. 7 e fig. a p. 111). 16 Sul fasto e sul lusso (non solo tessile) esibito da queste esponenti delle corti padane del Rinascimento v.: R. Iotti, Ricchezze ed eleganze di corte negli inventari di celebri principesse italiane, pp. 45/52, e, C. Zafanella, Isabella D’Este e la moda del suo Tempo, in Isabella d’Este. La primadonna del Rinascimento, a cura di D. Bini, Modena - Mantova 2001, pp. 209/224. 17 Le stoffe di seta “alla moda” tra XV e XVI secolo non duravano molti mesi almeno nel colore, se veniva ritinta nella cromia di tendenza per procrastinarne l’uso, come riferisce R. Bonito Fanelli nel suo studio: I tessuti del contado fiorentino nel secolo XV, in Il costume al tempo..., cit., p. 49. 18

“Le novità della moda e il lusso erano diventati per le famiglie aristocratiche gli strumenti per affermare il proprio status sociale, distinto dagli altri e dominante; per le classi emergenti costituivano l’espediente per dimostrare il raggiungimento di un livello sociale superiore”, come bene sintetizza Bonito Fanelli, cit., p. 51. Sul tema del lusso, in specifico su quello esibito dalle corti italiane che erano esenti dall’osservanza delle leggi suntuarie, si rimanda agli studi fondamentali condotti da Maria Giuseppina Muzzarelli, in particolare alle sue opere fondamentali, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino 1996, dove peraltro si cita l’atteggiamento ostile di Sigismondo Pandolfo Malatesta verso le proibizioni suntuarie (p. 59) e il catalogo della mostra di Rimini, Belle vesti, dure leggi «In hoc libro ... continentur et descripte sunt omnes et singule vestes», a cura dell’autrice, Bologna s.d. (2004), dove si sottolina come il bisogno di distinzione sociale fosse un’esigenza imprescindibile da parte dei ceti alti (p. 15). Per quanto riguarda poi l’uso di contrassegnare le stoffe degli abiti, delle divise cvili e militari, nonché degli apparati, con emblemi (stemmi o iniziali) e imprese gentilizie, allo scopo di sottolineare visibilmente la provenienza del proprio status sociale, ricorrendo a inserimenti tessuti o ricamati, si veda Zaffanella, cit., 2001, pp. 214, 215. La studiosa rileva come la moda di questo selettivo contrassegno tessile risalga alla fine del ’400, mediata dalla foggia cavalleresca francese al seguito di Carlo VIII e di Luigi XII e consacrata dal suo insigne inventore, il Petrarca, che nel Canzoniere coniò tre motti dedicati a rispettive “imprese”. La moda delle stoffe cosidette literatae, infatti, dettò legge nel Rinascimento tanto da ritrovarla sia nei reperti tessili come ancora di più nelle vesti di imperatori, re, principi, principesse ed esponenti dell’alto clero ritratti nei dipinti del periodo.

19 È un ritratto ufficiale a figura intera conservato a Palazzo Ducale di Mantova, che se documenta, da un lato, il gusto vestimentale femminile di una corte padana tra Cinque e Seicento con l’adesione ai canoni della moda spagnola (foggia rigida e squadrata dell’abito con gonna a tronco di cono detta “a faldiglia”, corpetto aderente e a punta, finte maniche aperte ad ala, colletto con alta gorgiera di pizzo), sottolinea, dall’altro, i due aspetti fondamentali della cultura vestimentale e tessile

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IOLANDA SILVESTRI

italiana del Rinascimento: la sontuosità serica, attestata da una seta madreperla intessuta d’argento e il suo significato semantico di stoffa literata espresso da un disegno interamente dedicato all’esaltazione della casata e dei suoi valori d’appartenza (v. G. Martinelli Braglia, I Pico e i Gonzaga. Arte e Cultura, Carpi 2000, pp. 90, 91). 20 V. la scheda storico- tecnica di Silvestri, in Il Museo della Collegiata di Ca-

stell’Arquato, catalogo a cura di P. Ceschi Lavagetto, Piacenza 1994, p. 111. 21 Sull’evoluzione della tessitura nel XVII secolo nei suoi caratteri gene-

rali si rimanda a Devoti, cit., pp. 26, 27 e ai saggi di E. Bazzani, Continuità e innovazione nel tessuti d’abbigliamento del Seicento, pp. 57/81 e I. Silvestri, Il tessile nella decorazione degli interni”, pp. 25/56, in, La Collezione Gandini.Tessuti dal XVII al XIX secolo, catalogo a cura di D. Devoti e M.C. Costantini, Modena, 1993. 22 Sul contenimento dei costi nella produzione tessile seicentesca italiana si vedano gli approfondimenti storico critici di D. Digiglio, Crisi e riconversione delle manifatture seriche italiane nel Seicento, in La Collezione Gandini ..., cit., pp. 13/24 e per lo spostamento dell’interesse visivo dal tessuto agli accessori “della” e “alla” moda, v. R. Orsi Landini, Apparire non essere: l’imperativo del risparmio, in Velluti e Moda tra XV e XVII secolo, Milano 1999, pp. 91 e sgg. 23 L’impiego nel velluto a più orditi di pelo di colori diversi (leggibili sul-

la stoffa contando in verticale le diverse cromie del pelo tagliato o riccio), venne largamente sfruttato nel XVII e XXVIII secolo per rispondere a mutate esigenze introdotte dalla moda che imponeva una ricerca cromatica più ricca tale da rispondere alla varietà di colorazioni presenti in natura. I velluti cesellati tipici del periodo erano appunto quelli “a giardino” contrassegnati da decori vegetali molto naturalistici, v. E. Bazzani, cit., pp. 96, 97, 112/118. 24

V. la scheda di cat. n. 164 redatta da E. Bazzani, in La Collezione Gandini…, cit., pp. 151, 152, tav. a p. 105, relativa al frammento seicentesco in raso liseré di seta cremisi (fondo) e gialla (decoro) a racemi a voluta fioriti di tulipani. 25 È un ritratto a mezzo busto che raffigura Laura Garzoni con cagnolino, dipinto da Cesare Gennari nel 1676 come da iscrizione riportata sulla tela: l’abito della dama è confezionato con una stoffa di seta alla moda color grigio-azzurro a larghi racemi a voluta di tulipani, molto simile a quella del frammento Gandini in raso a fondo rosso con fiori gialli (cat.164),v. la scheda redatta da D. Benati, in Figure come al naturale. Il ritratto a Bologna dai Carracci al Crespi, Milano 2001, cat. n. 28, pp. 90, 91. 26 Su questa pianeta che fa parte del corredo liturgico della Chiesa di San

Carlo di Modena, sede eletta dai duchi e dalla nobiltà locale per le celebrazioni solenni di entrambi, si veda I. Silvestri, L’Arredo. I Tessuti, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo a Modena, a cura di D. Benati, L. Peruzzi, V. Vandelli, Modena 1991, pp. 220 e 224, fig. 219. 27

È un velluto tagliato di seta cremisi del XVII secolo che riveste una coppia di poltrone d’epoca posteriore, appartenenti alla Collezione Gandini del Museo Civico di Modena, v. scheda di I. Silvestri in La Collezione Gandini…, cit., cat. 178. 28

Per questa pianeta conservata nella chiesa di San Giacomo Maggiore a Nonantola, ora esposta nel Museo Diocesano locale si veda la scheda redatta da L. Lorenzini, in Trame di luce..., cit., cat. 13, p. 60. Sulle sete “a pizzo” si rimanda al contributo di P. Thornton, cit., pp. 109/115.

29

Sui decori bizarre si rimanda agli studi fondamentali di: V. Slomann, Bizarre Designs in Silks, Copenaghen 1953; P. Thornton, cit., pp. 95/101.

30 Il tessuto francese di gusto Revel usato per confezionare il paliotto e ri-

finito da un raffinato ricamo d’oro eseguito nel 1751 dal piacentino Pie-

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tro Scilti, è databile ad un periodo anteriore alla brodérie, ovvero tra il 1733 e il 1740 ca. quando questo genere di stoffe erano alla moda. Si tratta di una seta che viene recuperata e reimpiegata nella costruzione di questo controaltare non solo per il suo pregio, ma anche per il valore simbolico che testimonia, stando ad una tradizione non ancora documentata: sembra infatti sia stata data in dono da Elisabetta Farnese (moglie di Filippo V re di Spagna) al cardinale nel tentativo di riconciliarsi con l’alto prelato piacentino dopo il suo allontanamento dalla Spagna nel 1719 per gli esiti negativi conseguiti alla politica estera attuata dall’Alberoni come primo ministro del re. Si veda in proposito, la scheda OA della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Parma e Piacenza (08/00157105, n. 36) e il saggio di P. Venturelli, Di alcuni tessili sei- settecenteschi della collezione Alberoni di Piacenza, in Bollettino Storico Piacentino, 00 LXXXI, f. 2, luglio-dicembre 1986, pp. 226/289, scheda e fig. 9. 31 Si tratta di un sopravveste femminile (andrienne), esposta alla Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia, confezionata con un tessuto di seta, un diagonale operato a trame broccate policrome su fondo rosa salmone, di manifattura francese, databile tra il 1760 e il l 770 ca., con il tipico decoro tessile di quegli anni a rami fioriti accompagnati o meno da nastri di pizzo, o da altri elementi mutuati dagli accessori della moda dell’epoca come codette di pelo, che si snodano in teorie parallele verticali con andamenti sinuosi denominati dalla critica “a meandri”, v. M. Cuoghi Costantini, cit., cat. 110, p. 81, tav. a p. 72. 32 È un ricco corredo liturgico confezionato con un lampasso in seta avorio impreziosito da trame broccate d’argento di tre tipi (filato, riccio e filato avvolto su lamina), di manifattura francese, che in origine servì per confezionare l’abito nuziale della principessa estense Maria Beatrice Ricciarda andata in sposa a Ferdinando Asburgo Lorena, figlio cadetto di Maria Teresa d’Austria a Milano 1771. Per volontà di Maria Teresa Cybo d’Este, madre di Beatrice Ricciarda, la stoffa fu riutilizzata per realizzare un’apparato liturgico in terzo con piviale del Santuario della Ghiara di Reggio Emilia, come riferisce M. Cuoghi Costantini, in Il Santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia, a cura di A. Bacchi e M. Mussini, Torino 1996, cat. 50, fig. 261. 33

Si tratta di un’altra andrienne conservata al Museo Civico di Modena, databile tra 1770 e il 1780, d’epoca posteriore a quella reggiana esposta alla Galleria Parmeggiani, in quanto presenta l’evoluzione tarda e già marcatamente geometrica del disegno a meandri trasformato ora in spartiture verticali di nastri rigidi decorati da fiori minuti.

34 L’abito maschile integro nelle sue parti sartoriali (marsina, sottoveste

e calzoni) e di manifattura francese databile tra il 1770 e il 1780, come appunto l’Andrienne modenese di cui è il pendant virtuale al maschile, è conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia, v. M. Cuoghi Costantini, cit., cat. 116, tav. p. 73. 35 Ritroviamo i tessuti settecenteschi fin qui descritti documentati negli abiti indossati dai componenti della famiglia ducale di Parma nel noto ritratto di corte in un interno dipinto da G. Baldrighi ed esposto alla Galleria Nazionale di Parma (Inv. n. 1149). Il campionario è quanto mai vario: si va dalle stoffe semplici a tinta unita in raso bianco, velluto marrone e taffetas nero, presenti negli abiti dei duchi, fino alle sete operate “a meandri” delle sopravvesti femminili in giallo nero e argento e in monocromo perla delle figlie, e in quella “a bastone rotto” dell’abito del fratellino. Nel repertorio vanno inclusi anche i tessuti d’arredo combinati in diverse cromie a contrasto: il damasco giallo a fogliami del paravento e quello celeste della tappezzeria a parete, il velluto verde scuro che ricopre il tavolino e i due taffetas azzurri utilizzati rispettivamente come portiera raccolta e come drappo ornamentale appoggiato al paravento giallo.


Seta, oro e argento

36 Su questa tecnica di passaggio sfumato delle trame broccate ideata dal disegnatore – tessitore lionese Jean Revel e applicata tra il 1730-33 e il 1740-45 per aumentare l’effetto tridimensionale e pittorico dei decori tessili, si veda, P. Thornton, Baroque and Rococò Silks, Londra, pp. 116-124. 37

Sul pékin come su molte altre tecniche tessili inventate nel corso del XVIII per rispondere ai cambiamenti continui della moda, si rimanda al saggio di M. Cuoghi Costantini, I tessuti del ’700: la seduzione della tecnologia, in La Collezione Gandini..., cit., pp. 45/66.

38 Riguardo a questa mercatura serica locale oltre al saggio di questo vo-

lume si rimanda allo studio di E. Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Le stoffe di seta: produzione e commercio, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Vita di borgo e artigianato, Milano 1980, pp. 242-269. 39

V. la scheda di catalogo redatta da I. Silvestri, in La Collezione Gandini..., cit., cat. 408 p. 351.

40 V. A. Lusvarghi - I. Micheletti - A. Mordacci Cobianchi, Le Tappezzerie del-

la Rocca Meli Lupi di Soragna, in Le tappezzerie nelle dimore storiche..., cit., 1988, pp. 136/145, figg. 119/125. 41 Mordacci Cobianchi, ibidem, p. 140. 42 Ibidem, nota 16, p. 138. 43 Le indicazioni su questi arredi di chiese bolognesi opera di tessitori locali sono fornite da J. Bentini nel suo contributo, Tessuti e Ricami e nelle rispettive schede di catalogo pubblicate in L’arredo sacro e profano…, cit., 1979, p. 138 e cat. nn. 269-270, 272, 273-274. 44

Su questo addobbo serico conservato in originale nelle sue componenti (testiera, coperta del letto, cortine del baldacchino e tappezzeria a parete e della mobilia annessa con passamaneria originale), si veda E. Maugeri - A. Musiari, Le tappezzerie di palazzo Tozzoni a Imola, in Le tappezzerie nelle dimore storiche..., cit., pp. 7/16, in specifico pp. 12,13; G. Manni, L’arredo d’epoca, in Le grandi dimore storiche in Emilia - Romagna. Palazzi privati urbani, Milano 1986, cat. 5 p. 104, tav a p. 105; Restauri a Palazzo. Il recupero della residenza imolese dei conti Tozzoni, a cura di L. Bitelli e M. Cuoghi Costantini, inserto della rivista IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali, con riferimento specifico ai testi di O. Orsi, Una visita a Palzzo Tozzoni, p. 66 e L. Bitelli, L’appartamento barocchetto: metodologia e criteri guida del restauro, pp. 76, 77. L’addobbo, insieme al resto di arredi tessili del palazzo imolese, è stato restaurato dalla Ditta RT Restauro Tessile di Albinea (Re) con i fondi stanziati dall’Istituto Beni Artistici Culturali e Naturali della regione Emilia-Romagna (L.R. 18/2000, piano museale 2000).

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La tappezzeria in damasco giallo del palazzo comunale di Modena rinnovò il rivestimento seicentesco in cuoio stampato delle pareti e di alcune sedute; fu poi sostituita agli inizi del Novecento e solo nelle parti più degradate da un altro damasco simile ma inferiore per qualità e colore. Nel 1985 l’amministrazione procedette alla rimozione integrale del secondo damasco con uno identico a quello originale settecentesco, eseguito da un tessitura artigianale ligure di Zoagli su telaio manuale antico, v. AA. VV., Il Palazzo Comunale di Modena. Le sedi, la città, il contado, a cura di G. Guandalini, Modena 1985, pp. 253, 254, 264. Per il damasco cremisi del Duomo di Modena non ancora identificato, ma documentato dalle fonti, si veda L. Lorenzini, Paramenti et altri suppellettili ..., cit., p. 211.

46 I rivestimenti parietali in damasco di queste sale si trovano nella Roc-

conte Augusto Lorenzotti, si veda I. Silvestri, L’arredo. I tessuti, in Il Collegio e la Chiesa ..., cit., p. 220, fig. 218. 48 Sul damasco tessuto da Camillo Vizzani per San Luca si veda la scheda

di catalogo redatta da A. Pellicciari nel 1979 (Soprintendenza per Beni Storico Artistici di Bologna, Santuario della Beata Vergine di San Luca, scheda OA del catalogo generale n. 08/00018338). Riguardo al parato in velluto cesellato che servì per l’addobbo della cappella del Rosario della chiesa di San Domenico, eseguito dallo stesso tessitore bolognese, che conduceva anche il filatoio dei fratelli Rizzardi, si veda L. Lorenzini, L’artigianato artistico a Bologna per il culto dell’Eucarestia: alcune considerazioni, in Mistero e Immagine. L’Eucarestia nell’arte dal XVI al XVIII secolo, catalogo della mostra a cura di S. Baviera e J. Bentini, Bologna, chiesa abbaziale di San Salvatore 20 settembre - 23 novembre 1997, Milano 1997, p. 280, cat. 43, tav. 242. 49

Oltre alle indicazioni riportate da Anna Colombi Ferretti in, Qualche notizia sugli arredi del Palazzo, in Palazzo Milzetti. Guida alla visita, Faenza 2000, pp. 38/43, si ricorda che le tappezzerie di palazzo Milzetti sono state oggetto di una relazione orale tenuta da I. Silvestri nella giornata di Convegno di Studi Internazionali dedicata alle soluzioni e ai problemi conservativi messi in atto su questi materiali : L’abito delle dimore storiche. Il recupero delle tappezzerie antiche: restaurare, rifare... cosa fare?, promosso dall’IBACN della regione Emilia-Romagna, con il patrocinio dell’ICOMItalia, in occasione del Salone del Restauro di Ferrara nella giornata del 1 aprile 2001.

50 Sulle sete Impero si veda, D. Devoti, cit., pp. 32, 33 e lo studio specifico di J. Coural, C. Gastinel - Coural, M. Muntz de Raissac, Paris, Mobilier National Soiries Empire, Paris 1980 51 Si tratta di una testimonianza tra le più importanti e significative del

ricamo inglese della fine del Medioevo, v. M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi della Galleria Parmeggiani, Reggio Emilia 1994, cat. 17 p. 27. 52 V. la scheda di L. Martini nel suo studio: Cinquanta capolavori del Museo

Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998, cat. 30. 53

V. la scheda di E. Bazzani, in Il Museo della Collegiata..., cit., pp. 106/110; il parato fu restaurato nel 1991-‘92 dal laboratorio Massacesi-Medica di Bologna. 54 Per dati tecnici, storici e confronti specifici si rimanda alle schede critiche curate dalle rispettive autrici citate alle note 52 e 53 di questo studio. 55

V. la scheda di I. Silvestri nel catalogo su tessuti e argenti della Santuario della Steccata, in “Per uso del santificare et adornare”..., cit., 1991, cat. 86. Il parato, esposto alla mostra sull’arte a Parma dai Farnese ai Borbone e restaurato nel 1980 dal laboratorio bolognese Massacesi-Medica, ripropone le tre tecniche ricamatorie tipiche di questi generi, il punto steso per i filati d’oro e d’argento, il punto piatto e il punto raso o pittura per le sete policrome, qui aggiornate e arricchite di varianti tecniche per tradurre al meglio l’esuberanza cromatica e naturalistica dei decori ricamati barocchi e rococò. 56 V. la nota 11 e fig. 9 di questo saggio. 57 V. la scheda di J. Bentini, in Il Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Da-

via Bargellini, catalogo a cura di R. Grandi, Bologna 1987, cat. 119. Si rimanda inoltre alle indicazioni fornite da Marina Carmignani nel suo studio recente, Tessuti, Ricami, Merletti in Italia: dal Rinascimento al Liberty, Milano 2005, pp. 166/168.

ca di Dozza (Bologna) e sono stati restaurati nel 1994-’95 dalla ditta RT Restauro Tessile di Albinea (Re) con fondi comunali su criteri conservativi concertati con l’Istituto regionale per i Beni Artistici.

58 V. la scheda di M. Cuoghi Costantini, in Il Santuario della Madonna della Ghiara ..., cit., cat. 44, p. 298.

47 Su questo addobbo eseguito a Modena per volontà testamentaria del

59 Sulla storia e sulle tecniche di questi punti di ricamo si vedano le voci

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IOLANDA SILVESTRI

di riferimento “punto steso” (point couché), “punto affondato” e “punto piatto” (point plat) dei testi guida: T. De Dillmont, Encyclopédie des ouvrages de dames, Parigi, s.d. (1886); L. De Farcy, La broderie du XIe siècle jusqu’à nos jours, Angers 1890; M. Schuette, S. Müller-Christensen, cit., pp. 10, 11. 60 Ibidem. 61 Ibidem, con riferimento alla voce tecnica “oro velato” (or nué); si veda,

inoltre, la nota 11 di questo studio. 62

La citazione è riportata nella scheda redatta da J. Bentini, in Il Museo Civico D’Arte ..., cit., cat. 124, p. 188. 63 Ibidem, cat. 121; v. inoltre: I. Silvestri, Il tessile nella decorazione degli inter-

ni, in La Collezione Gandini..., cit., pp. 35, 36, figg. 27a/e a pp. 42, 43; P. Curti, Trionfo di tessuti,in I magnifici apparati..., cit., pp. 342, 343, fig. 2; M. Carmignani, cit., 2005, pp. 166/168. 64

Per il paliotto del Davia Bargellini, v. la scheda di J. Bentini, in Il Museo Civico d’Arte..., cit., cat. 120 e I. Silvestri, cit., pp. 50,52, fg. 31; per il paliotto ricamato in sete policrome oro e argento a racemi fioriti con uccelli eseguito dal Maestro ricamatore Daniele e conservato nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano di Bologna, si veda: J. Bentini, Tessuti e Ricami, cit., p. 138 e L. Lorenzini, L’artigianato artistico a Bologna…, cit., p. 280, cat. 48.

65 V. la scheda di I. Silvestri, in “Per uso del santificare et adornare”..., cit., cat.

86. 66 V. I. Silvestri, cit., p. 52, fg. 28 a p. 45. 67 Sulla cifra stilistica del ricamo barocco v. I. Silvestri, cit., pp. 51/53. 68

V. B. Trebbi, L’artigianato nelle chiese bolognesi, Bologna 1958, tav. 58; scheda di J. Bentini, in L’arredo sacro e profano a Bologna e nelle legazioni pontificie. La raccolta Zambeccari, catalogo della mostra L’Arte del Settecento emiliano, a cura di J. Bentini e R. D’Amico, Bologna 1979, cat. 344 fgg. 217/220, sempre in questo catalogo si rimanda allo studio storico critico di J. Bentini incentrato sulla produzione tessile e ricamatoria a Bologna e nello stato pontifico nel XVIII secolo, dove accanto a questa compaiono altri nomi di ricamatori e ricamatrici attivi a Bologna per commesse relative alle chiese locali, pp. 133/141. Un recente aggiornamento storico critico sul parato di San Domenico è stato curato da G. Viroli, in Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, catalogo della mostra a cura di J. Bentini e A. Stanzani, Milano 2001, pp. 274/276. 69 Su questa tecnica ricamatoria detta “a riporto” o “di applicazione”, v. C. Giorgetti, F. Mabellini, Dipinti ad ago. L’arte del ricamo dalle origini al Punto Pistoia, Lucca 1995, pp. 86,96,97; I. Silvestri, La portiera in velluto di palazzo Campori (prima metà XVII secolo), comunicazione orale tenuta il 27/02/2001 e nota storico-tecnica pubblicata nel depliant di presentazione del restauro al Museo Civico di Modena. 70

V. la scheda di catalogo generale redatta da I. Silvestri per la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Modena e Reggio Emilia, Chiesa Cattedrale di Reggio Emilia, NTCN n. 08/00.225837, n. 28; M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in I Beni degli artigianati storici, a cura di J. Bentini e G. Adani, Milano, pp. 250/272, fig. 20. 71 Sul parato di San Cassiano ricamato su velluto di seta cremisi (un solo piviale) e su raso di seta cremisi (il resto del parato), si rimanda alle schede di catalogo redatte da I. Silvestri nella brochure, Il Tesoro dell’insigne chiesa Collegiata di S. Stefano di Novellara (Reggio Emilia), pubblicata a cura della stamperia comunale in occasione della mostra tenutasi nella collegiata di Novellara dal 20 dicembre al 7 febbraio 1987, cat. 50/53. 72 Per questa portiera, esposta nella sala dedicata alla collezione d’arte Campori del Museo Civico di Modena, si rimanda alla scheda storicocritica redatta da I. Silvestri in occasione della presentazione pubblica del restauro cit. alla nota 69.

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73 Eseguita con la stessa tecnica di ricamo esiste anche uno grande stendardo da parete con le armi congiunte dei conti Malvezzi-Campeggi esposto nella sala grande della rocca di Dozza (Bologna). Per questo arredo, restaurato nel 1994 dal laboratorio reggiano RT Restauro Tessile di Albinea (Re), d’epoca più tarda e di qualità inferiore alla portiera modenese (è in misto seta-lana), si veda in questa pubblicazione il riferimento riportato nella scheda sulla Rocca di Dozza inserita nel Repertorio Museale. La riproduzione di una portiera gentilizia affine a quella modenese in un dipinto ottocentesco della Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia che riproduce una ricostruzione d’un interno d’epoca, bene evidenzia l’uso e la simbologia espressa da questi arredi nelle dimore aristocratiche. 74

Sulla perdita di ruolo da protagonista del tessuto rispetto al ricamo in oro e ai gioielli dell’oreficeria, riferimenti estetici di maggiore richiamo all’epoca, si veda C. Zaffanella, cit., pp. 213/215.

75 Su questo parato proveniente dal duomo di Reggio Emilia, oggi conservato nell’erigendo museo diocesano dell’Arcivescovato locale insieme ad altri preziosi esemplari appartenuti al cardinale vescovo Rinaldo d’Este, si rimanda allo studio di C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana. Pizzi e ricami d’oro e d’argento nei parati liturgici estensi dei secoli XVII e XVIII, in La Collezione Gandini. Merletti, ricami e galloni dal XV al XIX secolo, catalogo a cura di T. Schoenholzer e I. Silvestri, Modena 2002, pp. 82/84, tavv. XXII/XXV. Si veda, inoltre, la guida, Il palazzo Vescovile di Reggio Emilia. Illustrazione di un percorso espositivo di arredi e ambienti, a cura dell’Ufficio Beni Artistici della Curia di Reggio Emilia, San Martino in Rio (Re) 1994. 76 L’esecuzione romana di questo ricamo specie della cornice ad alto ri-

levo del paliotto, pressocché senza analoghi riscontri in altri parati del periodo ad oggi conosciuti, è il segno del legame potente e secolare stretto dai Farnese con Roma e il soglio pontificio, ricordiamo in proposito che Alessandro III Farnese, nel XVI secolo, fu papa con il nome di Paolo III, v. la scheda redatta da I. Silvestri per il catalogo di argenti e tessuti della Steccata di Parma, cit., cat. 79 pp. 142/145. 77 Il cardinale Alberoni fa riferimento invece ad un ricamatore locale, il

piacentino Pietro Scilti, per la realizzazione non solo del fregio che incornicia il tessuto centrale del paliotto citato in questo studio e di cui è certa la data di esecuzione il 1751 (v. 46 p. e 19), ma anche, e quasi sicuramente, per altri quattro paliotti e due ternari solenni eseguiti tra gli anni ’40-’50 del Settecento anche oltre la morte del cardinale avvenuta nel 1752, v. P. Venturelli, Di alcuni tessili sei - settecenteschi della collezione Alberoni di Piacenza, in Bollettino storico Piacentino, 00 LXXXI, f. 2, luglio-dicembre 1986, pp. 226/289. Vedi inoltre l’esposizione di parati alberoniani curata da I. Silvestri nel collegio omonimo, in occasione del ducentocinquantesimo anno dalla fondazione del Collegio e della morte del Cardinale, in, Celebrazioni Alberoniane 1752-2002. Il cardinale Alberoni e il suo Collegio. Atti del convegno internazionale di studio, Piacenza 2003, pp. 162/169. 78 Bologna, come legazione pontificia, tra Sei e Settecento fa il verso a Roma, capitale dell’arte barocca e rococò, nonché faro creativo nella produzione ricamatoria, arricchendo le proprie chiese con parati ricamati di grande pregio. Fra tutte San Pietro è il tempio sacro eletto dove è custodita la parte più cospicua e rappresentativa, fino ad oggi conservata, di questo patrimonio tessile che fa riferimento ai fastosi corredi paramentali di cardinali divenuti papi come Prospero Lambertini (papa Benedetto XIV), i Ludovisi (papi Gregorio XIII e XV) e i Boncompagni, (papa Innocenzo XII Carafelli). Della cospicua dotazione tessile appartenuta al famoso cardinale Lambertini (papa dal 1740 al 1758 anno della sua


Seta, oro e argento

morte) e conservato nella cattedrale di San Pietro, questi sono i ricami suoi più identificativi, in quanto, interamente ricamati oro su oro, esprimono per contrasto la concezione alta dell’arte al servizio del culto e della glorificazione di Dio, rispetto alla stile sobrio e umile di questo pio servo della chiesa. Stando poi a quanto riferisce chi li ha studiati – Mons. B. Trebbi (1958), J. Bentini (1979), E. Landi (1984) F. Varignana (1997) – ne esistono altri con simile decoro in San Petronio e in San Pietro a Roma, in diverse chiese romane (S. Maria della Vallicella, S. Marcello al Corso, S. Maria Maddalena) e di Lisbona dove furono inviati dall’Urbe, a riprova del fatto che l’esecuzione di detti manufatti doveva con ogni probabilità essere di matrice romana, sia per le munifiche spedizioni fatte fare dal papa a Bologna, sede periferica dello stato pontificio, che, per essere stata Roma nel Sei e Settecento la “capitale del ricamo” specie di quello a destinazione liturgica per cui erano attivi i laboratori del Bovi, Saturni, Salandri e Mariani, v. B. Trebbi, cit., pp. 17,18, tavv. 131,154,155; J. Bentini, Tessuti e ricami, in L’Arredo sacro e profano..., cit., p. 139, cat. 265, 266, figg. 179,180; E. Landi, Il corredo liturgico settecentesco della Cattedrale di San Pietro a Bologna, in I tessili antichi e il loro uso: testimonianze sui centri di produzione in Italia, lessici, ricerca documentaria e metodologica, III° Convegno C.I.S.S.T., Torino 1984, pp. 78/84; F. Varignana, Il Tesoro della Cattedrale di San Pietro, Bologna 1997, pp. XXII/XIV, cat. 41, 44, , figg. 61, 52.

84 V. L. Fornari Schianchi, cit., 2003, cat. n. 10 p. 157, insieme allo studio fatto in occasione del complesso restauro del 1998/99, che ha permesso di ricostruire con approssimazione verosimile quello che doveva essere l’abito in origine eseguito intorno al 1830 per Maria Luigia stessa e, di lì a poco, con ogni probabilità ristretto e riadattato per la giovane figlia Albertina Montenuovo, forse in occasione del suo matrimonio con Luigi Sanvitale nel 1833. La veste confezionata nella duplice ipotesi con una stoffa più “antica” di stile Impero utilizzata in seguito, oppure con una seta ricamata intorno al 1830 nello stesso gusto della decorazione tessile in voga nel periodo napoleonico (1800/1815) e in continuità ad esso, è giunta a noi pesantemente smembrata e alterata rispetto al taglio originale del 1830: si presentava invece in una foggia d’inizio ’900 con gonna tagliata a centro vita e bustino morbido con collo tondo e maniche corte tagliate a cilindro. Il recente restauro ha permesso di recuperare la foggia alla moda di un abito femminile degli anni ’30 dell’Ottocento confezionato con una stoffa ricamata d’epoca Impero, seguendo i tagli e le cuciture sartoriali di quel periodo, compreso il riadattamento del ’33, mentre per il tronco è stato riutilizzato un bustino ritrovato nel corredo di Maria Luigia e confezionato con la stesso tessuto (AA.VV., L’abito ritrovato..., cit.).

79 L’altro corredo paramentale ricamato famoso, è quello conservato nel-

85 Sul manto della statua della Madonna in taffetas di seta cangiante ver-

la chiesa di San Petronio, appartenuto al cardinale Pompeo Aldrovandi (1734-1752); questo riporta, a differenza degli altri, le immagini del prelato bolognese con mitria e piviale che regge nella mano destra la chiesa omonima e si dispone al centro di una cornice fiorita siglata dalle virtù cardinali. Il parato databile intorno al 1750 e confezionato in gros de Tours rosso laminato d’oro, ricamato a punto raso in sete policrome, oro e argento, fu donato insieme ad altri manufatti tessili dal cardinale alla cappella di San Petronio disegnata da Alfonso Torreggiani, nel 1743 (J. Bentini, L’arredo sacro e profano..., cit., cat. 340, fig. 213); si vedano, inoltre, B. Trebbi, cit., tav. 172; F. Montefusco Bignozzi, Gli Arredi, in, AA.VV., La Basilica di San Petronio in Bologna, Vol. II°, Milano 10984, pp. 308/312, fig. 383.

de acqua a ricami in lamina d’argento dorato liscia e punzonata, ricavato dal reimpiego di un manto con strascico appartenuto a Maria Luigia e da lei donato alla chiesa, si veda L. Fornari Schianchi, Temi da Museo, in, L’abito ritrovato..., cit., pp. 12,13, figg. 6/9.

80 V. nota 80. 81 V. nota 79. 82 V. E. Landi, cit.,1986, p.79. 83

V. AA.VV., L’abito ritrovato. Recupero e restauro di un abito ottocentesco, Quaderni del Museo n. 1, a cura di F. Sandrini, Parma 1999, pp. 30, 31. fig. 25. Si veda inoltre la scheda di catalogo di L. Fornari Schianchi, in Maria Luigia e Napoleone. Testimonianze. Museo Glauco Lombardi, a cura di L. Fornari Schianchi, P. Sivieri, F. Sandrini, Milano 2003, cat. n. 1, p. 45. L’abito ducale, proveniente dall’eredità Sanvitale, fu acquistato nel 1934 dal collezionista locale Lombardi e modificato nel dopoguerra per ragioni espositive, prima nella sua abitazione privata, poi nella reggia di Colorno: oggi, fa bella mostra di sé restaurato e riallestito ex novo in una nuova vetrina nel Salone delle Feste del Museo Glauco Lombardi a Parma insieme al dipinto di Lefèvre che ritrae la duchessa nel ruolo di imperatrice dei francesi con un veste che ripropone un ricamo analogo. L’indumento utilizzato da Maria Luigia in ricorrrenze ufficiali si compone di un abito (gonna e corpetto) in tulle meccanico avorio ricamato in lamina d’argento liscia e punzonata con motivi di matrice classica (cornucopie, tralci di vite e grappoli d’uva, simboli di abbondanza e prosperità con evidente allusione al felice governo della sovrana) e di un manto in gros de Tours ondato di seta azzurra che ripropone lo stesso decoro. Di recente si è concluso il restauro eseguito dal laboratorio reggiano RT. Restauro Tessile presentato l’8 otto-

bre dell’anno in corso nel Salone delle Feste del Museo Glauco Lombardi cura della Fondazione Monte di Parma e del Comune di Parma.

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Sulla moda neoclassica improntata al nuovo stile Impero introdotto da Napoleone sullo scorcio del Settecento (1789/90) e in voga fino ai primi due decenni del XIX secolo si veda : AA.VV., The age of Napoleon. Costume from Revolution to Empire 1789-1815. Metropolitano Museum of Art, NewYork, 1989; Il tessuto nell’età del Canova, a cura di M. Cuoghi Costantini, Milano 1992; I. Silvestri, Eleganza neoclassica e rigore Impero nel ricamo, in L’abito ritrovato..., cit., pp. 67/71.

87 Sul pizzo metallico si rimanda allo studio recente e compiuto di M. Luisa Rizzini, “L’incostanza, della moda ch’ogn’ora si cangia”. Merletti metallici e ricami tra Cinque e Settecento, in La Collezione Gandini. Merletti, ricami e galloni dal XV al XIX secolo, catalogo dei Musei Civici di Modena a cura di T. Schoenholzer Nichols e I. Silvestri, Modena, 2002, pp. 55/74. 88

Per entrambi i parati reggiani si veda: Il Palazzo Vescovile di Reggio Emilia..., cit., C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana. Pizzi e ricami d’oro e d’argento nei parati liturgici estensi dei secoli XVII e XVIII, in La Collezione Gandini. Merletti..., cit., pp. 75/81, fg. 33, tavv. XV/XVIII. Per la pianeta in pizzo d’oro su raso di seta perla con stemma del cardinale, si veda inoltre, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante..., cit., p. 263, fig. 22; la scheda di catalogo di I. Silvestri, in Images du Salut. Chef-d’Oeuvres des Collections Vaticanes et Italiennes, catalogo della mostra al Royal Ontario Museum, 8 giugno-11 agosto 2002, Roma 2002, cat. 118, tav. a p. 258. 89 V. M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante...,

cit., fig. 24 p. 263; v. inoltre la scheda di M. Cuoghi Costantini in Il Santuario della Madonna..., cit., cat. 50 p. 301, fig. 261. 90

V. I. Silvestri, I Tessuti, in Il Collegio ..., cit., p. 224, figg. 225/227; C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana..., cit., pp. 84, 85, tavv. XXVI, XXVII.

91 V. M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante..., cit.,

fig. 14, pp. 258, 259; M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi..., cit., cat. 111. 92 V. Silvestri, Splendori in filigrana..., cit., p. 85.

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Impalpabili orpelli della moda: i veli di seta bolognesi MARTA CUOGHI COSTANTINI

al Medioevo sino alla fine del Settecento la lavorazione della seta ha rappresentato un settore importante nell’economia di numerose città italiane, i cui prodotti furono apprezzati, grazie alla loro particolarità, non solo sui mercati locali ma in tutta Europa. L’attività delle manifatture seriche di regola comprendeva una vasta gamma merceologica composta sia da tessuti uniti che da operati, sia da stoffe d’arredo che d’abbigliamento. I centri più importanti tuttavia si affermarono sul mercato, e ne mantennero anche per lunghi periodi il monopolio, grazie a prodotti per così dire d’eccellenza. Lucca ad esempio divenne celebre per la lavorazione dei cosiddetti “diaspri”, Venezia e Firenze si specializzarono in quella del velluto, in particolare dei ricchi velluti operati, mentre Genova eccelleva nei damaschi d’arredo. Questa sorta di specializzazione della produzione ebbe motivazioni diverse non sempre perfettamente individuabili. Spesso vi contribuirono gli scambi legati al commercio di materie prime e prodotti finiti, alla diffusione di modelli decorativi e di tecniche esecutive, ma soprattutto le migrazioni di artigiani e del loro sapere. Nel processo di sviluppo che interessò le manifatture seriche italiane nel Rinascimento, insieme a fattori di tipo strutturale, fu certamente determinante l’apporto delle maestranze lucchesi che nel corso del Trecento emigrarono numerose in varie città. Già a partire dagli inizi del secolo Lucca, che sino ad allora era il più avanzato centro di lavorazione della seta in Italia, fu investita da una profonda crisi politica ed economica che costrinse numerosissime famiglie dedite all’attività di tessitura ad abbandonare la città. Fu un vero e proprio esodo di artigiani che ovviamente privilegiarono quali mete i centri dove già esisteva una realtà produttiva ben strutturata ed affermata, in

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grado di garantire continuità al loro lavoro, trasferendo nelle nuove sedi tutto il loro bagaglio di esperienza1. Collocata geograficamente al centro dell’area padana, Bologna non fu estranea a questo fenomeno. La lavorazione della seta pare vi fosse praticata sin dal Duecento. Per sviluppare localmente questa attività il Comune nel 1230-31 aveva chiamato nel suo territorio dei maestri “zendatorum” lucchesi, orientando sin dagli esordi la produzione verso i tessuti lisci, uniti2. Agli inizi del Trecento, la massiccia emigrazione lucchese diede ulteriore impulso a questo orientamento poiché le famiglie di artigiani specializzati nelle drapperie si stabilirono preferibilmente a Firenze e a Venezia, mentre a Bologna si insediarono soprattutto artigiani esperti “a far l’arte dè zendadi et lavori di seta sottilissima, vaghi et molto utili a più servitii, così per vestimenti, come per addobbi di case e di chiese”3. Per la verità, nei secoli successivi, anche a Bologna si affermò la lavorazione di drappi operati. Nel Cinquecento il settore della seta, strutturato nei due grossi comparti dell’Opera tinta e dell’Opera bianca, era assai bene avviato e dava lavoro ad oltre un quarto della popolazione cittadina. La produzione dell’Opera tinta, come si desume dagli Statuti dell’Arte ed altri documenti, comprendeva non solo “rasi, ormesini, taffetadi”, ovvero tessuti uniti, ma anche una vasta gamma di “velluti fatti a opera, damaschi, brocati d’oro e d’argento, telette e tabbini d’oro o d’argento”4. Tuttavia, il prodotto che dette maggior notorietà a Bologna e le consentì di operare su un vasto mercato, esteso a diversi paesi europei, mantenendo un plurisecolare primato qualitativo, fu un tessuto tecnicamente assai semplice che faceva capo all’Opera bianca e le cui caratteristiche coincidono perfettamente con “i lavori di


MARTA CUOGHI COSTANTINI

seta sottilissimi” in cui eccellevano i profughi lucchesi: il velo di seta.

“Strafino”, “stradoppio”, “a ragnola” Della complessa attività del setificio, la cui presenza ha condizionato per secoli la crescita urbana e lo sviluppo della città, sono sopravvissute pochissime testimonianze materiali. Gli studi storici ne hanno ripercorso le vicende principali illustrandone la complessa organizzazione produttiva, i rapporti fra i mercanti e gli artigiani, fra questi e il governo cittadino, le strategie economiche e commerciali. Da tutte queste indagini i manufatti, ovvero i tessuti, sono prevalentemente rimasti esclusi. Non è facile identificare e riconoscere i prodotti della tessitura sulla base delle indicazioni che emergono dalle testimonianze scritte degli statuti, degli inventari e di altri documenti d’archivio anche nel caso di tipologie fortemente connotate dalla presenza di disegni e di intrecci complessi, a maggior ragione il compito è difficile quando si tratta di stoffe unite come per l’appunto il velo di seta. Una preziosa documentazione commerciale conservata all’archivio di Stato di Bologna ci ha consegnato una campionatura settecentesca dalla quale emergono con evidenza le caratteristiche tipologiche di questo prodotto. Si tratta di una serie di piccoli frammenti che i clienti di un affermato mercante locale, Domenico Bettini, allegavano ai loro ordini per meglio illustrare le loro richieste scritte5. L’osservazione diretta di questi campioni ci consente di affermare che il velo era un tessuto finissimo, leggerissimo, trasparente o semitrasparente e che l’intreccio, assai semplice, era quello della tela o taffetas. La varietà che ciò nonostante si riscontra nel campionario dipende dalla consistenza dei filati impiegati in ordito e in trama, dall’altezza della pezza, dalle dimensioni delle cimosse, ma soprattutto dai trattamenti che il prodotto subiva dopo la tessitura. La lavorazione di questo tessuto, infatti, comprendeva due principali categorie, già chiaramente descritte e definite negli statuti del 1372: il velo liscio e il velo crespo6. Il primo poteva essere “strafino” o “stradoppio” (Fig. 68), con fili ravvicinati e intreccio molto compatto, oppure “a ragnola”, ovvero con intreccio molto rado, ideale per filtri da farmacia e setacci, o ancora “doppio alla regina”, con fili ravvicinati a due a due. Altre varianti erano create inserendo motivi a righe, ottenuti alternando in ordito o in trama fili di consistenza diversa o variando la tipologia delle cimosse che sovente si presentavano larghe e compatte. Ma la vera specialità di Bologna, il prodotto più richiesto ed apprezzato, al quale si rico-

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nosceva in modo unanime una qualità superiore rispetto alle imitazioni messe in commercio da altri centri di produzione, era il velo crespo, detto per l’appunto “velo bolognese” (Fig. 69). Pur mantenendo la finezza, la trasparenza e la leggerezza caratteristiche dei velami in genere, esso era caratterizzato da una superficie increspata e rugosa ottenuta mediante peculiari procedimenti di lavorazione che purtroppo le testimonianze storiche locali non chiariscono perfettamente. Appare perciò interessante a questo riguardo la sintetica descrizione fornita da Girolamo Gargiolli nei dialoghi raccolti in appendice all’Antico trattato sull’arte della seta in Firenze: “Il velo crespo ha questo nome perché è increspato a pelle di pollo. Va d’un filo per dente con armatura a taffettà o a panno. Si fa d’un filo torto per un verso nell’ordito, e d’altro filo torto in contrario pel ripieno. In grazia della opposta torta, allentati che sieno i due fili rientrano, e vien fuori il crespo”7. Secondo documenti bolognesi del XVIII secolo, alla tessitura facevano seguito alcuni trattamenti speciali aventi lo scopo di fissare l’increspatura: le pezze venivano dapprima sottoposte ad un procedimento di bollitura in un composto a base di galla quindi ad un trattamento di gommatura; successivamente i veli venivano manipolati, avvolti su rulli, ed asciugati a caldo. Erano queste le fasi più difficili e costose di tutto il processo di lavorazione, quelle che richiedevano un’esperienza ed un’attenzione del tutto particolari8. Pur facenti capo al comparto produttivo cosiddetto dell’Opera bianca, elemento di ulteriore differenziazione dei veli era poi il colore: unitamente a quelli neri (Fig. 70), i più comuni e maggiormente documentati sono bianchi e giallo chiaro, ma possediamo testimonianze di veli colorati in rosso, azzurro e in diverse tonalità di rosa o violetto (Fig. 71-72). A differenza dei tessuti operati, che potevano presentare disegni anche molto complessi ed erano appannaggio di mano d’opera maschile organizzata in botteghe, la tessitura dei veli occupava mano d’opera femminile e si svolgeva a domicilio. Questo genere di organizzazione è una implicita conferma che il telaio da velo, di cui purtroppo non sono pervenute testimonianze dirette, era uno strumento molto semplice, simile a quelli che ogni famiglia possedeva per soddisfare il fabbisogno domestico. Ciò nonostante il suo allestimento e funzionamento richiedevano la partecipazione di varie figure professionali: l’“orditrice” componeva e ordinava l’ordito, la “lizzatrice” ne introduceva i fili prima nelle maglie dei licci e successivamente fra i denti del pettine, alla cui predisposizione aveva provveduto il “pettinaro”, l’“apparecchiatore” crea-


Impalpabili orpelli della moda

va tutti i collegamenti necessari per far funzionare la macchina. Alle migliaia di donne addette alla tessitura, poi, era richiesta particolare destrezza e abilità nel manovrare la navetta contenente il filo di trama, nel farla scorrere fra i fragilissimi fili dell’ordito, e soprattutto moltissima pazienza nel riordinarli ogni volta, e pare succedesse spesso, che si rompevano9. Il processo produttivo era gestito totalmente dal mercante che oltre alla materia prima forniva alle tessitrici anche un elemento strutturale del telaio: il pettine. Era questo un modo per esercitare il controllo sulla qualità del prodotto che oltre ad impiegare rigorosamente seta greggia locale, ovvero tratta da bozzoli allevati in città o nel contado bolognese, doveva rispettare tutte le caratteristiche di larghezza e densità di fili stabilite nelle norme statutarie. La varietà riscontrata nella larghezza delle pezze infatti costituiva un importante elemento di differenziazione dei manufatti poiché ne determinava un diverso ambito di utilizzo. Gli statuti del 1372 elencano già cinque diverse misure per i veli lisci e quattro per quelli crespi fissando per ciascuna di esse il numero di fili che dovevano essere distribuiti per ogni dente del pettine, ovvero predeterminando la densità del tessuto, la sua maggiore o minore trasparenza10. Nel 1755 la produzione si era notevolmente arricchita di varianti: le misure erano diventate diciannove, e comprendevano prodotti che potevano oscillare in larghezza da un minimo di dodici centimetri sino ad un massimo di un metro11. Ma siamo oltre la metà del Settecento e la tessitura, ancorché completamente manuale, aveva raggiunto elevati gradi di virtuosismo tecnico prima che la rivoluzione industriale, ormai prossima, ne trasformasse completamente l’organizzazione.

Il velo e la moda Le varianti riscontrate nella tipologia del velo ne presupponevano usi molto diversi. Questo tessuto semplicissimo trovava infatti applicazione nelle attività farmaceutiche in qualità di filtro, in quelle manifatturiere come setaccio, in quelle domestiche per la costruzione di zanzariere, ma soprattutto nella sartoria e nell’acconciatura dei capelli. Contrariamente alle varie tipologie dei tessuti operati che si rinnovavano periodicamente, con cadenze anche molto ravvicinate, mutando disegno, colore e la combinazione stessa degli intrecci, il velo di seta bolognese conservò inalterate nel tempo la tecnica, la trasparenza, l’assoluta semplicità. Ciò nonostante rappresentò un elemento significativo della moda partecipando alle trasformazioni di quel complesso insieme di segni e di

simboli costituito in passato come oggi dall’abbigliamento. Il suo impiego riguardò prevalentemente la rifinitura degli abiti, la decorazione dei copricapi e l’ornamento delle acconciature femminili, ruolo che non fu ne né secondario né marginale poiché ai fini della moda, la foggia degli accessori ebbe rilievo quanto quella degli abiti stessi. Le fonti pittoriche, in particolare la ritrattistica, offrono testimonianze significative sul velo bolognese e sulle sue imitazioni attestandone la continuità d’uso nei secoli, per il lungo periodo che va dal Medioevo all’Ottocento, e la diffusione in un’area geografica molto ampia che si estende dall’Italia ai Paesi Bassi, dalla Germania all’Inghilterra, dalla Francia alla Spagna12. Anche sulla base di queste testimonianze, sappiamo che furono davvero innumerevoli le soluzioni con cui i veli di seta, lisci o crespi, a rete o listati d’oro, ricamati con perle o fili d’argento, vennero adattati nel corso del tempo all’immagine della figura femminile, per coprire il capo o il volto, per trattenere o ingentilire le acconciature, per confezionare cuffiette, copricapi o veri e propri cappucci portati sulla testa ad incorniciare il volto, per rifinire maniche, polsini, colletti e scollature, per coprire le spalle sotto forma di scialli, sciarpe, fisciù. Dalla fine del XIII alla seconda metà del XIV secolo la documentazione è costituita prevalentemente dalla pittura religiosa e gli impalpabili veli che coprono il capo e il viso della Madonna e vestono il bambino, oltre che una testimonianza di costume, sono innanzitutto un evidente simbolo di divinità e purezza (Fig. 73). Ma ben presto la presenza del velo divenne una costante dell’abbigliamento femminile. Attratti dagli effetti del diafano velo che cela le forme e che nello stesso tempo le lascia intravedere, numerosi artisti lo rappresentarono nelle loro opere avvalendosi di tecniche pittoriche sempre più sofisticate. Complemento indispensabile degli inconsueti copricapi peculiari della moda borgognona così magistralmente raffigurati da Hans Memling – sia dalle “corna alla franzese” sia dall’henin scendeva sempre un lungo velo - esso valorizzò le vesti misurate ed eleganti del costume rinascimentale italiano comparendo con fogge diverse, ispirate ora alle mode di corte ora a costumi tipici regionali, nelle opere dei maggiori artisti del XV e XVI secolo, da Piero della Francesca al Ghirlandaio, dal Mantegna al Bronzino, dal Pollaiolo a Raffaello. Di solito veniva indossato come cuffia oppure tratteneva i capelli sulla nuca scendendo lievemente sulla scollatura ma non mancano soluzioni alternative13. Cesare Vecellio nella sua celebre raccolta di Habiti antichi

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MARTA CUOGHI COSTANTINI

e moderni di tutto il mondo, stampata a Venezia nel 1589, offre una vasta ed interessante esemplificazione dell’uso del velo di seta ai suoi tempi. Signore eleganti e nobildonne, giovani e vecchie, vedove, spose, cortigiane, si adornavano di veli di seta bianchi, neri o gialletti, disponendoli ora in morbide ed eleganti pieghe, ora lasciandoli pendere dietro la schiena. A quell’epoca il velo non era una prerogativa dell’abbigliamento femminile ma trovava impiego anche in quello maschile. Cavalieri, mercanti, studenti indossavano copricapi confezionati con varie tipologie tessili, “velluto, ormesino o buratto”, interamente ricoperti o semplicemente ornati “con velo intorno”14. Nella ritrattistica del XVII secolo il velo assunse forme particolarmente elaborate e suggestive. Ne offre un’anticipazione suggestiva un famoso ritratto di Guido Reni che ci mostra il volto non più giovane della madre incorniciato da un diafano cappuccio di velo bianco che completa l’ampio colletto rialzato dell’abito scuro, ricoperto anch’esso da un secondo colletto di velo bianco (Fig. 74). L’inserimento di un filo metallico lungo il bordo conferiva a questo tipo di copricapo un aspetto particolarmente elegante consentendo di delineare fogge rigide.

L’uso del velo si arricchì e si diversificò ulteriormente nel corso del Settecento riguardando ora la confezione di scialli e sciarpe, ora la guarnizione di polsini e scollature, ora l’ornamento di elaborate acconciature e parrucche, con soluzioni in ogni caso rispondenti alla costante ricerca di novità, all’amore per il capriccio, per la varietà e il cambiamento tipici della cultura e del gusto rococò. (Fig. 75). Nel definire i diversi ambiti in cui il velo veniva commercializzato occorre ricordare infine quelle categorie che possiamo definire come consumatori abituali di questo tessuto: le monache, il cui abbigliamento contemplava l’uso di ampi veli neri portati sul capo a significare il voto di castità e la rinuncia alla mondanità e le vedove che ne indossavano di analoghi come segno di lutto e di dolore. E proprio il lutto faceva parte degli eventi eccezionali che potevano influire sulla domanda e sul mercato del velo. La morte di personaggi illustri e le celebrazioni che vi si accompagnavano, ancora nel Settecento, costituivano occasioni di straordinarie e abbondati ordinazioni di veli, in particolare di quelli crespi, rappresentando opportunità che i mercanti avveduti non dovevano lasciarsi sfuggire giacché, come osservava Domenico Bettini nel 1789 “non ogni anno muoiono gli Imperatori”15.

NOTE 1 L’emigrazione lucchese, oggetto dello studio di T. Bini, I lucchesi a Venezia, 2 voll., Lucca 1854 e 1856, interessò diverse altre città; su questo aspetto si veda anche D. Devoti, Tesori di un’antica arte lucchese, catalogo della mostra, Lucca 1989, pp. 20-21 e 26-27. 2

P. Montanari, Il più antico statuto dell’Arte della seta bolognese (1372), Estratto da “L’Archiginnasio”, Bologna 1961, p. 4.

3 Il brano, tratto da Della Historia di Bologna del Ghirardacci (1596) è cita-

to in G.Livi, I mercanti di seta lucchesi in Bologna nei secoli XIII e XIV, “Archivio Storico Italiano”, Serie IV, Tom. VII, Firenze 1881, p. 12. 4

Tra i numerosi lavori che C. Poni ha dedicato al tema del setificio bolognese segnalo in particolare il profilo storico Sviluppo, declino e morte dell’antico distretto industriale urbano (secoli XVI-XIX), in Storia illustrata di Bologna, a cura di W. Tega, vol. III, Milano 1989, pp. 321-380 con relativa bibliografia.

5

Il fondo archivistico è stato esaminato da F. Giusberti, Impresa e avventura. L’industria del velo di seta a Bologna nel XVIII secolo, Milano 1989.

6

Si vedano gli articoli XXXIII, XXXIV, XXXV e XXXVI dello Statuto del 1372 in P. Montanari, cit. pp. 49-52. 7 G. Gargiolli, L’arte della seta in Firenze. Trattato del XV secolo, Firenze 1868,

p. 209.

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8 F. Giusberti, Impresa e avventura, cit. p. 118. 9 Nell’ambito del riallestimento del Museo del Patrimonio Industriale di Bologna, inaugurato nel 2000, è stata presentata la ricostruzione di un telaio da velo, montato e funzionante. Cfr. Prodotto a Bologna, a cura di A. Campigotto, R. Curti, M. Grandi e A. Guenzi, Bologna 2000, pp. 39. 10

Si vedano gli articoli XXXIII De modo latitudinis petinum velaminis increspandi e XXXV De Latitudine petinum velaminis plani dello Statuto del 1372 in P. Montanari, Il più antico Statuto, cit. pp. 49-51 11 F. Giusberti, Impresa e avventura, cit., p. 114 e tab. 2. 12 Su questo aspetto rimando alle ricerche iconografiche svolte da Simonetta Nicolini e Stefania Sabatini parzialmente riassunte in Prodotto a Bologna, cit. pp. 25-29. 13 Una casistica interessante dell’uso del velo nel corso dei secoli è evidenziata da R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1964-1969. 14 C. Vecellio, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, Parigi 1859-60 (ed.

originale Venezia 1589), in articolare pp. 97, 130, 131, 135, 136, 227. 15 Cito da F. Giusberti, Impresa e avventura, cit., p. 119.


Nuove sete per la borghesia: la manifattura Trivelli e Spalletti di Reggio Emilia IOLANDA SILVESTRI

no spaccato significativo della produzione e del commercio tessile nell’Italia del XVIII secolo ci proviene da una rara documentazione conservata nei Musei Civici di Reggio Emilia relativa all’attività intrapresa in loco da mercanti di origine svizzera, i Trivelli-Spalletti, tra il 1718 e il 1787. Due sono gli indirizzi sviluppati da questa mercatura documentata da otto registri di fabbrica (Fig. 76), da due campionari tessili e da un nutrito corpus di carte private1: la produzione e la vendita di stoffe di seta, da un lato, il commercio di generi non serici in lana, lino e cotone, acquistati sul mercato italiano ed europeo, dall’altro. I manufatti serici lavorati e venduti come pure il sistema organizzativo e commerciale in cui si configura tale mercatura, si inserisce a pieno titolo nella logica di un’economia di mercato già di tipo preindustriale, che varca i confini locali per raggiungere punti di vendita e sbocchi commerciali non solo nazionali, ma di dimensione europea, occupando oltre cortina aree libere dai monopoli francesi e inglesi, e in Italia, località non raggiunte dai grossi centri di tradizione tessile come Milano, Firenze, Genova, fatta eccezione per Venezia2. Inoltre, il target tessile che la contraddistingue è quello di una produzione già di tipo seriale destinata di preferenza all’abbigliamento dei ceti della media e alta borghesia, specie di quella imprenditoriale in ascesa e degli esponenti più in vista dell’alto funzionariato pubblico e privato (Fig. 78). Le stoffe richieste da questo nuova clientela sono di buona qualità, ma più economiche rispetto a quelle tradizionali di alto livello: se in queste prevale la combinazione della seta con l’oro e l’argento e l’impiego di lavorazioni più costose come le trame broccate e lanciate, nelle sete reggiane viene bandito il metallo prezioso e si fa ricorso a tecniche di tessitura più rapide e meno dispendio-

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se che rendono la stoffa più leggera e pratica nell’uso. I decori preferiti sono di tipo geometrico e floreale a piccole dimensioni e per tradurli a telaio ci si affida, in sostituzione delle costose trame broccate, che impongono costi aggiuntivi di filati e tempi più lunghi di lavorazione, a trame di fondo con la funzione duplice di descrivere anche il motivo decorativo quando vengono slegate, come sono quelle liserèes. Per descrivere il disegno si preferisce intervenire comunque di frequente più sugli orditi che sulle trame, introducendo una variegata colorazione spesso sfumata dei fili dell’ordito di fondo, oppure aggiungendo a questi, orditi supplementari policromi che variano in genere da uno a tre e che diversamente combinati con quelli di fondo e con le trame descrivono i singoli motivi grazie al contrasto cromatico prodotto dalla slegatura di entrambi. È una campionatura quella reggiana documentata da una grande varietà di prodotti tessili che vanno dai tessuti uniti a intrecci taffetas con variante in Gros de Tours (Fig. 76: a e b) fino quelli operati. I primi dovendo sopperire alla carenza di effetti decorativi, potenziavano al massimo grado la sperimentazione cromatica dei filati, creando così una varietà sorprendente di tonalità diverse dello stesso colore di base che permise loro di ottenere risultanze cromatiche inedite ed effetti decorativi singolari. Per esempio, diversificavano la colorazione unita, abbinando tonalità differenti di colore dei fili di trama con quelli di ordito, per ottenere effetti cangianti, oppure lavorando su righe e a quadrettature sconfinavano in esiti sorprendentemente moderni di design, come furono quelli “optical” degli anni ’60 del secolo scorso attestati, per esempio, dal campione di “taffetas a quadri” (Fig. 76: c). I secondi, i tessuti operati, comprendono una ricca campionatura che va dai “piccoli operati” contrassegnati da


IOLANDA SILVESTRI

motivi geometrici minuti prodotti dalla semplice slegatura alternata dei fili pari e dispari d’ordito (Fig. 76: d), a soluzioni bizzarre come sono quelli presenti in una specie di velluti a pelo molto lungo e rado, denominati “felpe”, “pelus”, “peluccia” dove lunghi fili dell’ordito supplementare di pelo, colorati e tagliati, delineano motivi maculati a imitazione del pelo animale (Fig. 76: e, f), fino ad arrivare ai generi operati veri e propri, che connotano la produzione reggiana nella sua espressione tecnica più alta e complessa. Identificano questa seconda categoria generi nuovi come il droghetto a tinta unita (Fig. 76: g), il droghetto liseré a più colori (Fig. 77), il taffetas a pelo strisciante (Fig. 79) con la messicana che è una sua variante tecnica, tessuti ai quali la fantasia dei mercanti reggiani ha dato nomi ricercati ed esotici come “carillè”, “peruvienne”, “carillè a giardino” e “gorgorano”. Se nei droghetti il disegno a fiorellini, a piccoli frutti o bacche racchiusi entro maglie di tralci o di pizzi è descritto da un ordito supplementare monocromo abbinato o meno da trame liserèes (Figg. 76, 77), nei taffetas a pelo strisciante e nelle messicane la resa di questi stessi motivi disposti diversamente “a meandro” o in rigide spartiture verticali di nastri a pizzo (Fig. 79), é affidata solo esclusivamente a uno o più orditi supplementari di colori diversi in gradazione sfumata. Molto spesso il motivo floreale di base del rametto con i mazzetti fioriti è lo stesso utilizzato con innumerevoli e minime variazioni tecniche e cromatiche, che consentivano di tessere sullo stesso telaio più generi modificando solo la disposizione degli orditi.

Si percepisce dunque come l’intera produzione fosse progettata sfruttando al massimo grado e a costi di produzione contenuti le potenzialità tecniche e formali di generi tessili a piccoli decori geometrici e floreali, che in altri contesti italiani ed europei, come per esempio in quello francese, venivano prodotti con tecniche più tradizionali e dispendiose. Ampio inoltre è risultato il riscontro delle sete Trivelli, o di genere affine prodotti anche da altre imprese minori attive negli stessi anni in ambito reggiano, sia nei parati liturgici delle chiese dell’intera regione, specie di quelle locali (Fig. 79) e modenesi, che nelle raccolte tessili pubbliche come la Gandini del Museo Civico di Modena3. Se si vuole configurare in una sintesi storico critica l’attività svolta dalla fabbrica serica reggiana tout court, di cui i Trivelli rappresentano sicuramente l’eccellenza, si può asserire che per il tipo di prodotto, per l’organizzazione del lavoro, frazionato e a domicilio e per la gestione amministrativa e commerciale, l’impresa reggiana attesta il carattere fortemente specializzato e diversificato raggiunto dalla mercatura tessile italiana ed europea nel XVIII secolo4. Questa attività così strutturata segnerà la trasformazione ormai definitiva di un’economia chiusa, gerarchica e protezionistica di retaggio ancora medioevale, in un’economia libera di mercato propria degli stati moderni che in continua trasformazione tecnologica e strutturale, si affermerà in modo sistematico e strutturale solo con la meccanizzazione industriale del XIX secolo.

NOTE 1 Per la documentazione di fabbrica della ditta Trivelli - Spalletti conservata nei Musei Civici reggiani si rimanda alla scheda del repertorio museale redatta in questo volume e alle bibliografia specifica di riferimento. 2 L’area di espansione commerciale privilegiata per la vendita delle stof-

fe di seta in territorio extra nazionale, era il Centro Europa (Germania, Svizzera, Austria, Ungheria, Boemia e Polonia), e in misura minore, la Francia, l’Inghilterra, la Svizzera, la Grecia e l’Impero Ottomano. Proficua era la vendita sul territorio nazionale (Venezia, Stati della Chiesa, Mantova) con diffusione capillare nei centri minori regionali. Per l’approvvigionamento delle stoffe non seriche ci si rivolgeva, invece, in Europa, a centri manifatturieri tedeschi, francesi e inglesi, in Italia, alle stesse città indicate per la vendita delle seta con l’aggiunta di Napoli e l’esclusione di Genova, v. E. Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, cit., 1980, p. 260. 3 La schedatura condotta negli anni 1980-1990 a cura della Soprintendenza statale competente, ha permesso di identificare un nucleo consi-

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stente di parati liturgici confezionati con le sete Trivelli-Spalletti, fortemente circoscritto in ambito locale nei luoghi di culto di Modena e Reggio Emilia, ibidem, pp. 265, figg. 23, 26/28. Un primo importante riscontro dei generi reggiani nella Collezione Gandini del Museo Civico di Modena, fu fatto da G. Guandalini, in Campioni di tessuti reggiani nel Museo Civico di Modena, Reggio Emilia 15-16 ottobre 1996, in “Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi”, Biblioteca – Nuova Serie N. 10, Modena 1968, pp. 39/42. 4 Mercature seriche e non, simili a quella reggiana sono documentate in Italia a Varallo Sesia, Como, Padova, Tolmezzo, Firenze e Siena, vedi i contributi di autori vari contenuti negli Atti del III° Convegno C. I. S. S. T. di Torino 1984, Tessili antichi e il loro uso: testimonianze sui centri di produzione in Italia, lessici, ricerche documentarie e metodologiche, Torino 1986. Per le produzioni seriche affini e coeve a quella reggiana attive in Europa e documentate a Berlino e a Krefeld (Colonia), vedi B. Markowsky, cit., 1976, pp. 80/85, figg. 10/12 e AA.VV., 100 Jahre Textilmuseum Krefeld, 1980.



2. Frammento, Venezia (?), seconda metà del XV secolo. Velluto tagliato rilevato (a due altezze) a un corpo, lanciato bouclé in seta misto lino beige, gialla, cremisi e oro filato, disegno a melagrana con sviluppo “a griccia”. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

1. Posteriore di Pianeta, Venezia, metà del XV secolo. Laterali in velluto rilevato (a due altezze) tagliato a un corpo su fondo raso di seta cremisi e rosa, disegno a melagrana che dà origine a un decoro “a inferriata”; Inghilterra (?) inizi del XV secolo. Stolone con stemma araldico ricamato in sete policrome e oro filato. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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3. Telo di stoffa ricostruita con i frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta, Italia, 1468. Damasco lanciato, broccato di seta gialla virata al marrone e oro filato, disegno a melagrana incorniciata da maglie ovali con sviluppo “a cammino”. Rimini, Museo della Città.


4. Telo di stoffa ricostruita con i frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1468. Particolare. Rimini, Museo della Città.

5. Frammento del farsetto funebre di Sigismondo Pandolfo Malatesta, Italia, 1468. Velluto tagliato a un corpo, lanciato, bouclé di seta rossa virata al marrone scuro e oro filato: si rilevano le anelle degli effetti bouclé d’oro. Rimini, Tempio Malatestiano, Stanza delle Reliquie.

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8. Paliotto del cardinale Morone, vescovo di Modena. Italia, terzo quarto del XVI secolo. Lampasso liseré, lanciato, bouclé a fondo raso in seta avorio, gialla, rossa, oro trafilato e in lamina, disegno “a candelabra” vegetale con inserti ricamati in oro velato e sete policrome raffiguranti Dio Padre, Sacra Famiglia e Apostoli. Modena, Museo del Duomo.

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6. Andrea Mantegna “La Corte di Ludovico Gonzaga�, affresco. Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli Sposi.

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7. Rivestimento di un cofano–scrittoio portatile estense. Italia, seconda metà del XVI secolo. Velluto cesellato a un corpo fondo laminato in seta cremisi e lamina d’oro, disegno a piccole melagrane racchiuse a mazzo entro maglie ovali. Modena, Galleria e Museo Estense.

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9. Pianeta. Lucca, seconda metà del XVI secolo. Broccatello lanciato in seta misto lino giallo, rosso, perla, verde e celeste, disegno a grandi racemi ovali che incorniciano un vaso classico con uccelli e leoni rampanti. Il parato proviene dalla chiesa parrocchiale di San Giorgio Martire di Vesale (Modena). Nonantola (Modena), Museo Diocesano d’Arte Sacra.

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10a. Abito maschile in due pezzi con accessori. Inghilterra (?), fine del XVI, primo decennio del XVII secolo. Cappello e scarpe sono d’epoca posteriore. L’abito si compone di giuppone e calzoni decorati a intarsi di pelle di capretto avorio con garofani stilizzati racchiusi entro maglie mistolinee, applicati su raso di seta cremisi. Prima del restauro. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

11. Abito maschile in due pezzi. Inghilterra (?), fine del XVI secolo, primo decennio del XVII secolo. Particolare del giuppone, prima del restauro. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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10b. Abito maschile in due pezzi. Inghilterra (?), fine del XVI secolo, primo decennio del XVII secolo. L’abito si compone di giuppone e calzoni decorati a intarsi in pelle di capretto avorio con garofani stilizzati racchiusi entro maglie mistilinee, applicati su tessuto di fondo in raso di seta cremisi. Dopo il restauro. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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12. Sante Peranda, Ritratto di Laura d’Este Pico, 1621 ca, olio su tela. Mantova, Palazzo Ducale.

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13. Capino di Paolo III Farnese. Italia, 1543. Velluto tagliato unito di seta cremisi. Castell’Arquato (Piacenza), Museo della Collegiata.

14. Frammento. Italia, 1650–1660 ca. Raso liseré in seta cremisi e gialla, disegno con racemi a voluta asimmetrici fioriti di tulipani. Modena, Museo Civico d’Arte, Collezione Gandini.

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15. Cesare Gennari, Ritratto di Laura Garzoni, firmato e datato 1676, olio su tela Budrio (Bologna), Pinacoteca Civica.

17. Rivestimento di poltrona. Italia (Venezia?), terzo quarto del XVII secolo. Velluto tagliato a un corpo in seta cremisi e gialla, disegno a grandi maglie ovali di racemi fioriti di tulipani e giunchiglie trattenuti da corone. Modena, Museo Civico d’Arte, Collezione Gandini.

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16. Pianeta. Italia, terzo quarto del XVII secolo. Damasco broccato a fondo laminato d’oro di seta rosa salmone intenso con oro filato e in lamina, disegno a grandi racemi a voluta asimmetrici fioriti di tulipani. Modena, Chiesa di San Carlo.

18. Pianeta. Francia, primo quarto del XVIII secolo. Lampasso liseré a fondo raso in seta perla, rosa ciclamino, verde, con nastri “a pizzo”, ananassi e motivi di gusto “bizarre” proveniente dalla chiesa di San Giacomo Maggiore (Modena), chiesa parrocchiale omonima. Nonantola (Modena), Museo Diocesano d’Arte Sacra.

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19. Paliotto del cardinale Alberoni. Lione, 1733–1740 ca. Lampasso broccato a fondo raso in sete policrome e argento filato, disegno di gusto Revel con stolone ricamato dal piacentino Pietro Scilti nel 1751 in sete policrome, oro filato e in lamina, argento filato, recante lo stemma del cardinale Giulio Alberoni (1664–1752). Piacenza, Collegio Alberoni.

20. Paliotto del cardinale Alberoni. Lione, 1733–1740 ca. Particolare del tessuto Revel e del ricamo. Piacenza, Collegio Alberoni.

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21. Sopravveste femminile (Andrienne). Francia, 1760–1770. Diagonale di seta rosa salmone broccato in sete policrome, disegno “a meandri� con tralci ondulanti e mazzetti fioriti. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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22. Pianeta della Principessa Beatrice Ricciarda d’Este. Francia, 1771 ca. Lampasso lanciato a fondo taffetas, broccato e ricamato in seta avorio, argento filato e in lamina, argento filato con lamina d’argento e argento riccio, disegno “a meandri” con rami ondulanti intrecciati a tralci di bacche che si sviluppano su un fondo a spartiture geometriche verticali. Un prezioso pizzo a fuselli in argento filato, riccio e in lamina ricopre lo stolone centrale. Reggio Emilia, Santuario della Madonna della Ghiara.

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23. Sopravveste femminile (Andrienne). Francia o Italia, 1770–1780 ca. Pékin in seta policroma, disegno a minute spartiture verticali di nastri fioriti. Modena, Museo Civico d’Arte.

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24. Abito maschile in tre pezzi (marsina, sottoveste e calzoni). Francia, 1770–1780. Velluto cesellato di seta azzurra, disegno detto “a bastone rotto” con barrette oblique alternate a corolle fiorite. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.


25. G. Baldrighi, “La Famiglia Ducale di Don Filippo Borbone�, olio su tela Parma, Galleria Nazionale.

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26. Telo predisposto per la confezione di un gilet maschile. Francia, 1800–1815. Baiadera ricamata in sete policrome, disegno a bande orizzontali profilate da cornici fiorite. Modena, Museo Civico d’Arte, Collezione Gandini.

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27. Tappezzeria da parete. Venezia, 1695–1701. Lampasso lanciato a fondo raso in seta avorio, gialla e lamina d’oro, disegno a palmetta vegetale entro maglie ovali. Particolare del tessuto. Soragna (Parma), Rocca dei Principi Meli Lupi, Camera Nuziale.

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28. Tappezzeria da parete. Venezia, 1695. Lampassetto liserÊ broccato in sete policrome e oro filato, disegno a rametti fioriti ricurvi asimmetrici. Particolare della sala. Soragna (Parma), Rocca dei Principi Meli Lupi, Camera del Trono. 29. Addobbo di colonne e pilastrate. Italia (Bologna?), 1704. Lampassetto in seta viola e avorio, disegno con gigli e cuori infiammati simboli dell’Ordine di San Filippo. Particolare. Bologna, Chiesa di Santa Maria di Galliera.

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30. Tappezzeria dell’alcova. Bologna (?), 1738. Damasco di seta gialla, disegno a maglie ovali con infiorescenza a palmetta. Imola (Bologna), Palazzo Tozzoni, Camera dell’Alcova.

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31. Tappezzeria. Vincenzo Cavallazzi (Bologna), 1766. Damasco di seta gialla, disegno a maglie ovali con infiorescenze e stemma della cittĂ . Modena, Palazzo Comunale, Sala del Vecchio Consiglio.

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32. Addobbo di colonne, pilastrate, cantorie e ancona. Camillo Vezzani (Bologna), 1781. Velluto cesellato a fondo raso in seta rossa e gialla, disegno a grandi ovali vegetali con dedica alla cittĂ . Particolare. Bologna, Chiesa di San Domenico, cappella del Rosario.

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33. Tappezzeria da parete. Italia o Francia, primo decennio del XIX secolo. Raso liserĂŠ in seta perla e gialla (in origine azzurra), disegno Impero con rosette entro maglie a rombo. Particolare. Faenza, Palazzo Milzetti, Sala di Numa Pompilio.

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34. Tappezzeria da parete. Italia o Francia, primo decennio del XIX secolo. Raso liserĂŠ in seta perla e verde oliva, disegno Impero con stelle a otto punte disposte a scacchiera. Particolare. Faenza, Palazzo Milzetti, Sala di Ulisse.

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35. Rivestimento di poltrona a tronetto dell’ebanista Gaetano Bertolani, 1837. Tessitura Rubelli, XX secolo, rifacimento su modello originale. Raso liserÊ in seta perla e azzurra, disegno con rosette e medaglioni disposti a scacchiera. Faenza, Palazzo Milzetti.

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36. Piviale. Inghilterra, XIV–XV secolo. Ricamo in sete policrome e oro filato su velluto tagliato unito di seta cremisi, raffigurante l’Assunzione della Vergine tra gigli e cherubini raggiati. Particolare. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

37. Cappuccio di piviale. Toscana, fine del XV, primi del XVI secolo. Ricamo in sete policrome, oro e argento filato, raffigurante la “Madonna in trono con bambino e angeli”. Ravenna, Museo Nazionale.

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38. Cappuccio e stolone di Piviale. Lombardia (?), primo quarto del XVI secolo. Ricamo in sete policrome, oro e argento filato, raffigurante “Madonna con Bambino tra angeli musici” nel cappuccio, “Dio Padre benedicente con Santi” nello stolone. Particolare, prima del restauro. Castell’Arquato (Piacenza), Museo della Collegiata.

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39. Cappuccio di Piviale. Zitelle della Pietà (Parma), 1719. Ricamo in sete policrome, oro e argento filato, oro riccio, lamina d’argento e cordoncino d’argento, su raso di seta perla, raffigurante la Madonna con Bambino seduta tra nuvole con putti reggi corona. Parma, Santuario di Santa Maria della Steccata.

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41. Anteriore di Pianeta. Putte di Santa Marta (Bologna), XVI–XVII secolo. Ricamo in sete policrome raffigurante scene bibliche tratte dal Nuovo Testamento. Particolare della “Creazione degli animali”. Bologna, Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

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42. Anteriore di Pianeta. Putte di Santa Marta (Bologna), XVI–XVII secolo. Ricamo in sete policrome raffigurante scene bibliche tratte dal Nuovo Testamento. Particolare della “Creazione dei Progenitori”. Bologna, Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

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43. Tendina copricona dono della contessa Brami. Reggio Emilia (?), ante 1617. Ricamo in sete policrome, oro e argento filato su garza di lino verde, raffigurante una scena tratta dall’Antico Testamento, “L’albero di Jesse”. Reggio Emilia, Museo del Santuario della Madonna della Ghiara.

40. Posteriore di Pianeta. Putte di Santa Marta (Bologna), XVI–XVII secolo. Ricamo in sete policrome, raffigurante scene bibliche tratte dal Nuovo Testamento ,“Eva che alleva i figli” e “Adamo che semina la terra”, incorniciate da serti fioriti con frutta, uccelli, cherubini e simboli della Passione. Bologna, Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

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44. Quadro da stanza. Putte di Santa Marta (Bologna), XVII secolo. Ricamo in sete policrome con scena raffigurante “Il Miracolo di San Benedetto” riprodotta dall’affresco di L. Carracci nel chiostro di San Michele. Bologna, Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

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45. Poltrona. Putte di Santa Marta (Bologna), XVII secolo. Ricamo in sete policrome su raso di seta perla con scene raffiguranti “La Primavera” (schienale) e una “Veduta di Marina” (laterali della seduta). Bologna, Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

46. Paliotto. Putte di Santa Marta (Bologna), XVII secolo. Ricamo in sete policrome su fondo in taffetas di seta avorio, disegno con vaso fiorito incorniciato da racemi fioriti con uccelli in volo. Particolare. Bologna, Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini.

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47. Piviale. Zitelle della Pietà (Parma), 1719. Ricamo in sete policrome, oro filato e riccio su raso di seta perla, disegno del mantello a cornucopie fiorite da cui dipartono racemi a voluta e Madonna con Bambino nel cappuccio. Parma, Santuario di Santa Maria della Steccata.

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48. Copriporta dipinto. G. Boulanger, 1641–1642 ca, affresco. Particolare. Sassuolo, Palazzo Ducale, Camera delle Virtù Estensi.


49. Baldacchino processionale. Barbara Zucchi (Bologna), 1763 ca. Ricamo in sete policrome, oro in lamina, oro e argento filato e riccio su fondo in gros de Tours di seta perla, decoro a fiori tra motivi dorati rocaille. Particolare di una bandinella. Bologna, Chiesa di San Domenico.


50. Pianeta di San Carlo Borromeo. Italia, 1581. La pianeta è confezionata con un tessuto unito, un diagonale lanciato in seta rossa e oro filato, su cui sono stati applicati stoloni in raso di seta nera con decoro vegetale “a inferriataâ€? eseguito con ricami a riporto in taffetas di seta gialla. Reggio Emilia, Cattedrale di Santa Maria Assunta.

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51. Mitra del parato di San Cassiano ricamata da Lazzaro Pietramaggiori nel 1752 su modello cinquecentesco. Ricami a riporto in taffetas di seta avorio e gialla laminati d’oro e d’argento e profilati da cordoncini d’oro eseguiti su raso di seta rossa, disegno a racemi fioriti. Novellara (Reggio Emilia), Collegiata di Santo Stefano.

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52. Portiera del cardinale Pietro Campori. Italia centrale, prima metà del XVII secolo. Ricamo a riporto in tessuto e sete policrome, oro e argento filato e riccio applicato su velluto tagliato unito di seta cremisi, con insegna araldica entro cornice di racemi fioriti a voluta. Modena, Museo Civico D’Arte, Galleria Campori.

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53. Ignacio Leon y Escosura, “Lettura del cardinale”, seconda metà del XIX secolo, olio su tela. Sullo sfondo è visibile una portiera ricamata con le armi gentilizie e gli emblemi cardinalizi. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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54. Parato del Cardinale Rinaldo d’Este, Vescovo di Reggio Emilia (pianeta con accessori). Italia, 1641–1672. Ricamo in oro filato su taffetas di seta cremisi con decoro a minuto rabesco. Reggio Emilia, Arcivescovado, Raccolta Diocesana d’Arte Sacra.

55. Parato del cardinale Rinaldo d’Este. Italia, 1641–1672 (piviale). Ricamo in oro e argento filato su diagonale liseré di seta rosa salmone, decoro a minuti rametti fioriti con gli emblemi di Casa d’Este: gigli e aquile bianche bicefali. Particolare del cappuccio. Reggio Emilia, Arcivescovado, Raccolta Diocesana d’Arte Sacra.

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56. Paliotto del parato commissionato dal Duca Francesco Farnese per il Santuario della Steccata di Parma, Federico Nave (Roma), 1706. Ricamo a basso ed alto rilievo in oro filato e cordoncino d’oro eseguito su taffetas di seta cremisi laminato d’oro con decoro di candelabre vegetali e racemi a voluta. Parma, Santuario di Santa Maria della Steccata.

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57. Paliotto del Cardinale Prospero Lambertini, Papa Benedetto XIV. Ricamatore romano, 1740 ca. Ricamo a basso e alto rilievo in oro filato, laminato e riccio su tela di canapa interamente ricoperta dal filato metallico, disegno a foglie d’acanto con stemma Lambertini sorretto da putti e sovrastato dal Triregno con chiavi apostoliche. Bologna, Museo del Tesoro della Cattedrale di San Pietro.

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58. Pianeta di Papa Lambertini, parte di un pontificale solenne. Ricamatore romano, 1741. Ricamo a rilievo oro su oro filato, decoro a elaborate volute vegetali con mensole fiorite e composizioni di frutta. Bologna, Museo del Tesoro della Cattedrale di San Pietro.

59. Pianeta del Cardinale Aldrovandi. Ricamatore romano, 1743 ca. Ricamo in oro e argento filato e sete policrome su fondo in gros de Tours laminato d’oro, decoro vegetale con San Petronio che regge la città di Bologna, incorniciato da una cartella su cui siedono le quattro VirtÚ Cardinali; al di sotto lo stemma di Pompeo Aldrovandi. Bologna, Museo di San Petronio.

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60. Abito di gala di Maria Luigia d’Austria, Duchessa di Parma. Parigi, 1838 ca. Prima del restauro. Ricamo in lamina d’argento su tulle di seta avorio nell’abito e su gros de Tours ondato di seta azzurra nel mantello, disegno a cornucopie e tralci di vite con grappoli d’uva. Parma, Museo Glauco Lombardi.

62. Robert J. Lefèvre, “Maria Luigia, imperatrice dei francesi” 1812, olio su tela. Parma, Museo Glauco Lombardi.

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61. Manto di gala di Maria Luigia d’Austria, Duchessa di Parma Parigi, 1838 ca. Prima del restauro. Ricamo in lamina d’argento su gros de Tours ondato di seta azzurra, disegno a cornucopie e tralci di vite con grappoli d’uva. Parma, Museo Glauco Lombardi.

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63. Abito di Maria Luigia D’Austria riadattato per la figlia Albertina Sanvitale. Parigi, 1825–1830. Dopo il restauro. Ricamo in lamina d’argento su garza di seta avorio, disegno a tralci fioriti. Parma, Museo Glauco Lombardi.

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64. Manto della Statua della Vergine donato da Maria Luigia d’Austria. Parigi o Italia, 1830 ca. Ricamo in lamina d’argento su taffetas di seta grigio–azzurra, disegno a cornice floreale. Parma, Chiesa della SS. Annunciata.

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65. Pianeta del Cardinale Rinaldo d’Este, Vescovo di Reggio Emilia. Venezia, 1641–1672. Pizzo d’oro a fuselli applicato su taffetas lanciato in seta gialla e oro filato, decoro di racemi fioriti a voluta. Reggio Emilia, Arcivescovado, Raccolta Diocesana d’Arte Sacra.

66. Pianeta del Cardinale Rinaldo d’Este, Vescovo di Reggio Emilia. Venezia, 1641–1672. Pizzo d’oro a fuselli applicato su raso di seta perla, decoro a candelabra vegetale con insegna araldica. Reggio Emilia, Arcivescovado, Raccolta Diocesana d’Arte Sacra.

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67. Pianeta e velo da calice (nella pagina seguente). Francia o Italia, secondo e terzo quarto del XVIII secolo. Pizzo d’oro a fuselli applicato su velluto tagliato unito di seta azzurra, decoro “a embricature� di mazzi fioriti. Modena, Chiesa di San Carlo.

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68. Frammento di velo allegato ad una richiesta di Sperandio Brunelli di Verona in data 22 settembre 1744 di “B.a 25 vello giallo in 22 s.fino stradoppio… come la mostra”. Taffetas in seta naturale ad intreccio molto compatto e fili avvicinati a coppie. Bologna, Archivio di Stato, Negozio per la fabbrica dei veli, famiglia Bettini, lettere ricevute.

70. Frammento di velo allegato ad una richiesta di Giovan Battista de Angeli di Palestrino in data del 21 aprile 1781 di “velo nero… di buona qualità”. Taffetas in seta nera ad intreccio uniforme e regolare; sono presenti entrambe le cimosse. Bologna, Archivio di Stato, Negozio per la fabbrica dei veli, famiglia Bettini, lettere ricevute.

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69. Frammento di velo allegato ad una richiesta di Filippo Trevisani di Verona in data 19 dicembre 1782 di “pezza 1 vello candido fino tritolo simile alla qui inclusa mostra in 20 o 22”. Taffetas in seta naturale; trattamento di increspatura posteriore alla tessitura. Bologna, Archivio di Stato, Negozio per la fabbrica dei veli, famiglia Bettini, lettere ricevute.

71. Frammento di velo allegato ad una richiesta di Benedetto Pozzi di Roma datata 19 aprile 1777 di “velo violetto”. Taffetas in seta rosa acceso ad intreccio rado ed uniforme. Bologna, Archivio di Stato, Negozio per la fabbrica dei veli, famiglia Bettini, lettere ricevute.

72. Particolare dell’immagine precedente.

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73. Statuti dell’arte della seta di Bologna del 1372, con miniatura di Nicolò di Giacomo di Nascimbene raffigurante l’Incoronazione della Vergine. Bologna, Archivio di Stato.

74. Guido Reni, Ritratto della madre, 1615. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

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75. Francesco Toselli, Ritratto di A. Monari Zoboli, 1790 Bologna, Pinacoteca Nazionale.

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a

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78. P.M. Ferrari, “Liborio Bertoluzzi primo conservatore dell’Accademia di Belle Arti”, olio su tela, 1780-1787. La marsina è confezionata con un tessuto affine alle sete Trivelli-Spalletti. Parma, Galleria Nazionale.

79. Pianeta confezionata con una seta della fabbrica Trivelli-Spalletti, 1770 ca. Taffetas a pelo strisciante in seta policroma detto “carillé a giardino”. Reggio Emilia, Cattedrale di Santa Maria Assunta.

76. Registro commerciale della fabbrica Trivelli-Spalletti, 1743–1758 con campioni di sete identificativi di questa produzione: a - Taffetas di vari colori detti “ermesini”; b - Taffetas di seta verde detto “bastonetto”; c - Taffetas a quadri di seta verde e gialla; d - Taffetas operato a due dritti detto “a occhio di pavone”; e.-f. Felpe in seta maculata dette “peluchès”; g - Droghetto di seta azzurra detto “carillé”.

77. Campione di “peruvienne” della manifattura Trivelli–Spalletti conservato nel registro degli anni 1768–1774. Droghetto liseré in seta policroma. Reggio Emilia, Musei Civici.

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Il collezionismo tessile nelle raccolte pubbliche



Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna: dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco LUCIANA MARTINI

a collezione dei tessili del Museo Nazionale di Ravenna, oltre a rappresentare un insieme di reperti di grande importanza storica e artistica, permette di documentare con eccezionale chiarezza, proprio per le caratteristiche della sua complessa e lunga composizione nel tempo, anche il percorso storico della formazione museale. Le diverse accezioni del fenomeno del collezionismo, i mutamenti culturali della storia delle istituzioni deputate alla conservazione, il progredire degli studi e dell’interesse per le arti minori: tutto questo è testimoniato dalle vicende dei reperti al Museo Nazionale. Ripercorrere la loro storia, pertanto, rappresenta un’operazione conoscitiva di grande interesse1.

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Le origini: il collezionismo classense La nascita ufficiale del Museo Nazionale di Ravenna, come è noto, risale al 1885, quando le collezioni cosiddette classensi, cioè le ricche raccolte d’arte e antiquaria dei padri camaldolesi di Classe, già passate alla municipalità con le soppressioni napoleoniche, vennero organizzate in un’istituzione statale. Le notizie sull’origine di questa antica e ricchissima collezione, comprendente icone ed avori, ceramiche e bronzetti, monete e reperti archeologici, sono sempre state piuttosto scarse; di certo i suoi inizi risalgono al Rinascimento e assai probabilmente si collegano alle raccolte di curiosità naturali e manufatti che fin dal Medioevo si trovavano abitualmente nelle chiese e nei conventi. Ma il suo momento di massimo accrescimento fu il Settecento, di seguito all’attività e alla sapiente guida di abati illuminati che impressero alle raccolte un consapevole indirizzo culturale, in collegamento con la ricca documentazione libraria del monastero e con gli studi di antiquaria del tempo.

Fig. 1 – Mitra (particolare), Francia, ultimo terzo del XIV secolo. Ricamo in oro e argento filato e sete policrome su tela di lino avorio. Ravenna, Museo Nazionale.


LUCIANA MARTINI

Alla data di apertura del museo, la raccolta dei tessuti comprendeva pochi ma preziosissimi materiali. Come è lecito aspettarsi, il collezionismo dei camaldolesi era orientato, almeno in questo tipo di materiali,verso due direttive principali: la conservazione di importanti testimonianze religiose e dei materiali di culto da un lato, dall’altro il desiderio di documentare comunque la curiosità della produzione umana, non escluso quella esotica e di rara provenienza, così caratteristico degli interessi culturali del Settecento. Nella prima categoria annoveriamo un raro tessuto altomedievale ancora oggi simbolo della collezione: il famoso ‘velo di Classe’, formato da tre liste ricamate in oro e seta con i busti dei santi vescovi veronesi, la figura di San Michele Arcangelo e la mano divina benedicente. Proveniva da una tovaglia d’altare fatta eseguire a Verona per la Chiesa dei SS. Fermo e Rustico, e finita, per sconosciute vicende, ad ornare una pianeta a S. Apollinare in Classe. Altri importanti reperti sono una mitra medievale ricamata con una tecnica affine all’opus anglicanum (Fig. 1), impreziosita da coralli, vari frammenti di tessuto d’uso liturgico fra cui un cappuccio di piviale della seconda metà del Quattrocento, riquadri e liste figurate in broccatello per paramenti sacri risalenti all’arte fiorentina del XV e XVI secolo2. Della seconda categoria fanno parte varie curiosità, tra le quali scarpette cinesi e veneziane, ricami in perline e un eccezionale reperto, quasi un simbolo della grande eterogeneità e ricchezza del collezionismo settecentesco: una ‘bandiera moslemica’, cioè un grande stendardo musulmano di oltre quattro metri d’altezza.

La donazione Guimet e l’attività di Corrado Ricci A non molti anni dopo la fondazione risale l’inserimento tra le raccolte del Museo del primo gruppo delle stoffe copte, cioè i frammenti provenienti dalla necropoli di Antinoe3. Purtroppo non è rimasta alcuna traccia scritta di questa donazione negli archivi del Museo stesso; una grave dispersione ci ha privato di quello che senza dubbio fu un ricco carteggio, che forse ci avrebbe illuminato sulle circostanze che portarono nel 1902 l’illustre collezionista Emile Guimet, già direttore del Museo Guimet a Parigi, a destinare la raccolta all’istituzione ravennate. Ne rimane solo qualche notizia su un giornale locale4. La perdita di ogni documentazione ha certamente contribuito ad indebolire la memoria di questa donazione, avvenuta in un momento storico che segnò un’incredibile dispersione del patrimonio tessile proveniente dal-

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Fig. 2 – Tessuti copti nei pannelli approntati negli anni ’20 del XX secolo. Ravenna, Museo Nazionale.

la necropoli; il quale, come è noto, finì suddiviso in molte raccolte, francesi e di tutta Europa. La scelta del Museo Nazionale di Ravenna come luogo di conservazione per alcuni di questi reperti fu certamente dovuta all’importanza e alla fama della quale godeva l’istituzione appena fondata, specie in campo archeologico. Ma possiamo anche ragionevolmente presupporre, se pure in assenza di documentazione, che a questa vicenda non sia stato del tutto estraneo Corrado Ricci, che fu il primo Soprintendente ai monumenti di Ravenna e che, malgrado impegni sempre più prestigiosi in sedi lontane, fu sempre pronto a cogliere l’occasione di accrescere e valorizzare il patrimonio artistico della sua città natale. In ogni caso al Museo pervennero quarantotto frammenti provenienti da corredi funerari, quasi tutti parte dell’abbigliamento del defunto, fra cui quattro tuniche quasi completamente integre (Figg. 2-3). I reperti sono compresi nell’arco di tempo che va dal IV al VI secolo, sufficiente per cogliere i caratteri essenziali dello stile dell’arte copta.

Straordinari ritrovamenti in un sarcofago Pochi anni dopo ancora una circostanza fortunata permise di arricchire in maniera significativa il settore altomedievale della collezione tessile. Nel 1910 venne effettuata una ricognizione dell’arca marmorea conte-


Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna: dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco

Valorizzazione e riordino: l’intervento di Giorgio Sangiorgi

Fig. 3 – Tessuti copti nei pannelli approntati negli anni ’20 del XX secolo. Ravenna, Museo Nazionale.

nente le reliquie del Santo nella Chiesa di San Giuliano a Rimini. In questa occasione vennero scoperti resti di tessuto di grande pregio storico e artistico, a quanto pare introdotti nel sarcofago durante un’esumazione effettuata tra il IX e l’XI secolo: si trattava di minuti frammenti, fra cui importanti reperti serici figurati, ma soprattutto di due ampi drappi, uno ripiegato sotto il capo del Santo a formare una specie di cuscino, e l’altro disteso sul suo corpo. Anche qui fu determinante l’interessamento di Corrado Ricci, che s’adoperò in modo che le stoffe fossero acquisite dal Museo Nazionale di Ravenna. E’ impossibile riassumere in breve l’importanza di questi ritrovamenti: già in ogni caso, per effetto della loro fragilità intrinseca, le testimonianze anteriori al Medioevo sono scarse e di grande importanza, e rarissimi sono i reperti di età bizantina. Il grande telo in seta purpurea con raffigurazioni di leoni andanti entro orticoli è per qualità e per interesse scientifico un resto eccezionale, che si confronta con pochi altri analoghi reperti museali e che ancora oggi simboleggia l’importanza delle collezioni ravennati5.

Gli anni tra il 1920 e il 1930 registrarono un notevole fermento di studi e di iniziative relative al Museo Nazionale. La fine della guerra diede un nuovo e ottimistico impulso ai lavori di ricostruzione, ed una ventata di positivismo favorì numerose iniziative di catalogazione e riordino, sulle quali fondiamo ancor oggi le nostre ricerche. Nel 1921 venne inaugurata, con una parte delle collezioni, l’attuale sede nell’ex monastero benedettino di San Vitale; in quella circostanza furono inseriti nel percorso museale solo i tre pezzi più prestigiosi della raccolta tessile,ma subito dopo si intrapresero nuovi progetti di riordino ed esposizione per quei materiali che non avevano ancora trovato uno spazio adeguato. Frattanto, nel 1920, si registrava un incremento della collezione, dovuta alla donazione di sette broccati fiorentini effettuata dal Museo Civico di Torino. A tale circostanza, che andava ad arricchire la piccola sezione rinascimentale della raccolta, non fu forse estraneo l’interessamento dell’esperto e collezionista Giorgio Sangiorgi, che in questi anni andava rivolgendo la propria attenzione al patrimonio tessile ravennate. Fu incaricato infatti (molto probabilmente da Corrado Ricci stesso, al quale è indirizzata la sua corrispondenza) di un progetto espositivo di più ampio respiro, che comprendesse tutti i materiali della collezione. Egli propose la suddivisione dei manufatti in tre gruppi, uno comprendente i tessuti copti, uno i reperti medievali, cioè i ritrovamenti dalla sepoltura di San Giuliano, e l’ultimo le stoffe rinascimentali; inoltre enucleò una apposita sezione per i ricami (nella quale era incluso anche il velo di Classe) e gli oggetti affini all’arte tessile. Il progetto proposto dal Sangiorgi, datato 1923, non venne mai attuato completamente nella pratica, ma a partire dalla stessa data le guide storiche della città e del Museo registrano una situazione espositiva molto più ricca ed articolata, nella quale trovano posto anche le stoffe copte, collocate su pannelli di legno incorniciati. La collezione tessile del Museo ebbe poi un’occasione di particolare notorietà quando partecipò con sette pezzi di epoca altomedievale e rinascimentale alla storica mostra curata nel 1937-38 da Luigi Sera su L’antico tessuto d’arte italiano. La sistemazione espositiva delle stoffe, sempre collocate ai piani superiori delle stanzette prospicienti il secondo chiostro del complesso benedettino di San Vitale, è rimasta sostanzialmente invariata fino agli inizi degli an-

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LUCIANA MARTINI

Fig. 4 – L’allestimento dei tessuti nelle sale del museo prima dello smontaggio avvenuto agli inizi degli anni ’70 del XX secolo. Ravenna, Museo Nazionale.

ni ’70 (Fig. 4). A questa data il materiale venne collocato nei depositi, sia per far posto ai nuovi incrementi di stoffe copte (due pezzi donati nel 1968 dal Rotary International Club di Ravenna, sette acquisiti tramite il Ministero nello stesso anno, altri sette nel 1972), sia soprattutto perché il montaggio storico appariva così totalmente inadeguato alla conservazione dei reperti da risultare addirittura dannoso. Come era accaduto infatti anche per altre importanti raccolte tessili italiane, agli inizi del Novecento, era subentrato un lungo periodo di trascuratezza, durante il quale non vennero effettuate le necessarie manutenzioni, né migliorate le prime condizioni di esposizione.

Ultimi ritrovamenti e nuovi restauri Divenne pertanto necessario intraprendere un nuovo ciclo di restauri e di studi, cosa alla quale si è dato inizio nel 1983, con gli interventi conservativi sulle stoffe copte (Figg. 5-6). Ma le operazioni di riordino hanno fornito l’occasione per focalizzare l’attenzione su alcuni deperitissimi resti depositati nel Museo da tempo, che mai era-

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no stati sistematicamente restaurati e studiati. L’evento che li aveva portati alla luce era stato simile a quello accaduto nel 1910: un recupero fortuito da sepoltura. Infatti nel 1949, volendosi procedere alla nuova pavimentazione delle navate della Chiesa di Sant’Apollinare in Classe, fu necessario spostare tutti i sarcofagi che vi erano collocati. Si iniziò scoperchiando il secondo della navata nord: al suo interno si trovò uno scheletro ancora adagiato sull’originale letto di cipresso, rivestito dei suoi abiti sacri in brandelli. Essi vennero identificati in una casula di seta porpora con gallone giallo, in ampli avanzi di dalmatica episcopale in lino bianco coi clavi rossi, e ancora frammenti di ricamo in oro, un velo di seta purpurea operata frangiato ai lati minori e attraversato da sei galloni diversi, in quattro dei quali erano intessute delle iscrizioni. Si rinvennero inoltre fettucce d stoffa serica riccamente lavorata, ricamata con brani di Salmi e motivi ornamentali. Dopo questa scoperta si ritenne opportuno aprire anche gli altri sarcofagi, e in due di essi vennero reperiti ulteriori frammenti di antiche stoffe. Nel sarcofago detto ‘dei dodici apostoli’ si trovarono


Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna: dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco

Fig. 5 – Pettorale di tunica (particolare), Egitto, arte copta, VI-VII secolo. Tela in filo di lino écru e tessuto ad arazzo in lino écru e lane policrome con scena di danza. Ravenna, Museo Nazionale.

Fig. 6 – Frammento di clavo angolare (particolare), Egitto, arte copta, IV secolo. Tessuto in lino écru e porpora ad armatura unita con disegno stampato raffigurante una scena di caccia. Ravenna, Museo Nazionale.

avanzi di pianeta simile alla precedente e larghissimi resti di dalmatica in lino bianco con clavi rossi; nel sarcofago ad edicole posto nella navata meridionale, ampi brandelli di dalmatiche l’una entro l’altra in seta operata; in una di esse, quella interna, si poté osservare come le maniche fossero libere, non cucite inferiormente e il retro presentasse una sorta di felpatura formata da lunghi lacci di seta. Il ritrovamento apparve subito eccezionale: si trattava di frammenti di tessuti liturgici tra i più antichi che si conoscessero. Pertanto si intraprese uno studio, sia dal punto di vista tecnico (ne venne effettuata una perizia da parte di Sangiorgi) sia dal punto di vista dei caratteri delle iscrizioni; le prime notizie, come sono state sopra riferite, furono pubblicate in un articolo di Mario Mazzotti nella rivista locale “Felix Ravenna” nel 1950. I lacerti che sul momento apparvero di maggior interesse, quelli con le scritte, vennero collocati negli anni seguenti al ritrovamento, al Museo Arcivescovile di Ravenna, e il resto depositato all’Archivio Arcivescovile. I resti della casula in seta purpurea e i frammenti degli altri due sarcofagi, provenienti da tre o più vesti ecclesiastiche, e innumerevoli piccoli lacerti vennero invece consegnati al Museo Nazionale nel 1979. A partire dal 1996, mediante i fondi del Ministero per i

Beni e le Attività culturali, è stata intrapresa una serie di laboriosi lavori di restauro dei frammenti depositati al Museo Nazionale; per una sistemazione definitiva di tutto l’eccezionale ritrovamento si prevedono ancora parecchi anni. Fino ad ora è stato possibile fornire ai frammenti adeguate condizioni di conservazione, classificarli, e ricostruire la forma di una delle vesti originarie. Si è cominciato così ad attingere alle importanti informazioni delle quali questi reperti sono depositari. I dati reperiti durante questo lavoro di restauro si sono rivelati di importanza scientifica europea; per questo i materiali più importanti sono stati inviati alla mostra 799. Arte e cultura dell’età carolingia (dal 23 luglio al 1° novembre 1999) a Paderborn, in Westfalia. Attualmente sono già visibili in esposizione presso il Museo Nazionale una grande casula purpurea ‘a campana’ dell’VIIIIX secolo, ornata di un gallone proveniente da un tessuto figurato, e un frammento di tessuto di seta dell’VIII secolo. Questi resti, quasi commoventi per la loro fragilità e il loro aspetto compromesso, rappresentano invece una fonte importantissima di informazioni sul passato: l’arte della tessitura aveva infatti raggiunto già in antico vertici di incredibile perfezione, esprimendo la cultura del tempo attraverso una raffinatissima tecnologia6.

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LUCIANA MARTINI

NOTE 1 Informazioni sulla storia delle raccolte tessili del Museo Nazionale di Ravenna possono essere reperite in L. Martini, I tessili del Museo Nazionale di Ravenna. Note sulla formazione della raccolta e sul suo restauro, in C. Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma 1993 e in L. Martini, Cinquanta capolavori nel Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998. 2

Informazioni su alcuni di questi materiali si trovano in Capolavori restaurati dell’arte tessile, catalogo della mostra, a cura di M. Cuoghi Costantini e I. Silvestri, Ferrara 1991, in L. Martini, Una mitra ricamata al Museo Nazionale di Ravenna, in “Qds” 1, Ravenna 1995, pp. 47 e ss. e in L. Martini, Cinquanta capolavori, cit. (con indicazione della bibliografia precedente). 3 C. Rizzardi, I tessuti copti, cit.

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4 Riportata in L. Martini, I tessili del Museo Nazionale, cit. 5 L. Martini, Piece of cloth from the Tomb of St.Giuliano in Rimini, scheda in Byzantium, an oecumenical Empire, Atene 2002, pp.158-11, con indicazione di tutta la bibliografia precedente. 6

Riportiamo tutta la bibliografia su questi ritrovamenti: M. Mazzotti, Antiche stoffe liturgiche ravennati, in “Felix Ravenna”, 1950, fasc. 2 (LIII), p. 40 e ss.; A. Muthesius, Bizantine silk weaving. AD 400 to 1200, Vienna 1997, cap.12, p.104 e ss.; C. Kusch, Liturgical vestements from three archbishops burials at Sant’Apollinare in Classe, Ravenna, in atti del convegno Interdisciplinary Approach about Studies and Conservation of Medieval Textiles, Palermo, 22-24 ottobre 1998; 799. Kunst und Kultur der Karolingerzeit, catalogo della mostra, Paderborn 1999, schede n. XI.25 e XI.26, a cura di R. Schorta.


Una raccolta per l’artigianato e l’industria: la collezione Gandini del Museo Civico d’Arte di Modena FRANCESCA PICCININI

ella sua dimensione monumentale, la Sala Gandini costituisce uno snodo fondamentale nel percorso espositivo dei Musei Civici; la sua collocazione, giusto a metà strada fra le raccolte d’arte applicata, quelle etnologiche e quelle archeologiche, sembrerebbe esprimere in pieno lo spirito del museo ottocentesco, sostanzialmente rispettato durante i lavori di restauro degli anni Ottanta. Il primo nucleo dei musei modenesi risale al 1871 quando Carlo Boni, in due locali del Palazzo Comunale, raccolse i reperti provenienti dalle “terramare”, i villaggi dell’età del bronzo i cui scavi erano da poco iniziati. Il pensiero di Boni, in un’ottica pienamente positivista e comparativa, favorì un veloce sviluppo di questo primo nucleo, al quale si aggregarono raccolte naturalistiche, industriali, artistiche ed etnologiche. Quando nel 1886 il museo si trasferì nell’Albergo delle Arti, il settecentesco palazzo destinato dal comune agli istituti culturali cittadini, le raccolte vennero diversamente organizzate, non solo a causa della nuova dislocazione spaziale, ma in virtù della differente fisionomia che stavano acquisendo. Scomparvero i nuclei di storia naturale e industriale; si arricchirono però le raccolte archeologiche con le donazioni di Arsenio Crespellani, successore di Boni dal 1894, e se ne costituirono altre grazie alla sensibilità di nobili famiglie modenesi. Accanto alle armi donate dai Coccapani e agli strumenti musicali dai Valdrighi, ci fu quella fondamentale della raccolta tessile da parte del conte Luigi Alberto Gandini. Il museo stava dunque prendendo forma grazie all’aggregazione di raccolte il cui tessuto connettivo non teneva in gran conto l’eccellenza dei singoli pezzi, valorizzando invece i rapporti tra gli oggetti e la loro capacità documentaria, attestata su archi cronologici di ampio raggio. L’idea di fondo era quella positivi-

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sta che vedeva la raccolta in stretto rapporto con la cultura artistico-industriale, in un confronto continuo atto a verificare il dato documentario sulle testimonianze materiali. Va da sé che la costituzione di tali raccolte era finalizzata a dare campionature il più esaustive possibile di un glorioso passato, con l’ambizioso programma di far rivivere i comparti produttivi che avevano reso grande l’Italia. Quando nel 1886 fu inaugurata la grandiosa sala destinata alla collezione Gandini (Fig. 1), il donatore intervenne attivamente nella sua progettazione pensando alle vetrine e al loro contenuto come un insieme inscindibile, legato inoltre alle decorazioni delle volte dipinte

Fig. 1 – La Sala Gandini in una fotografia della fine del XIX secolo. Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.


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Fig. 2 – Alcuni frammenti con le iscrizioni originali di Gandini smontati e fotografati in occasione di una mostra tenutasi a Venezia nel 1951. Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.

dallo scenografo Andrea Becchi. Per Gandini fu una sorta di anteprima poiché, alla sua nomina di direttore, seguì un nuovo assetto del museo. Il percorso espositivo inaugurato nel 1900, scandito dal serrato susseguirsi delle sale che sviluppavano un discorso tematico, rafforzava questa visione assieme ad un profondo legame col territorio. Non è un caso che raccolte di oggetti complementari ai tessuti, come carte decorate e cuoi, entrassero nel percorso proprio negli anni della sua direzione. La collezione prende avvio forse già a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento quando Gandini, Guardia Nobile d’Onore, è al seguito di Francesco V d’Este. Nel 1859 segue il duca in esilio a Vienna dove Rudolf von Eitelberg sta assiduamente lavorando all’Imperiale Museo d’Arte e Industria. Sebbene il soggiorno viennese abbia breve durata e Gandini non voglia – o non sappia - scollarsi dalla ristret-

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ta realtà modenese, si inserisce a pieno titolo nel solco del movimento artistico industriale europeo, da cui prendono avvio quei grandi laboratori di forme che sono all’origine del Victoria and Albert di Londra e del Kunst und Industrie di Vienna. Rientrato a Modena Gandini figura tra i protagonisti della vita culturale e scientifica cittadina e sfoggia un gusto erudito dove l’impegno nella ricerca storica si accompagna a un vivo senso di partecipazione ai problemi dell’educazione e del progresso, nell’ambito di quella che all’epoca veniva definita la “pubblica utilità”. La raccolta è composta in gran parte di frammenti di ridotte dimensioni (Fig. 2) ma, in quell’ottica fortemente positivista, l’attenzione posta all’accurata ricostruzione della serie si dilata fino a divenirne il principale filo conduttore. Non a caso la collezione ottiene un posto d’onore alla rassegna sull’arte tessile organizzata dal Museo Artistico e Industriale di Roma nel 1887. D’altra parte il rapporto tra la collezione di esemplari storici ed il mondo produttivo contemporaneo appare vincolante per lo stesso Gandini, elemento questo che proietta la raccolta nel vivo dei suoi tempi, facendone un repertorio propositivo di modelli per la produzione contemporanea, sia artigianale che industriale. La sua competenza di studioso di storia del costume si coniuga con l’impegno in campo culturale, sociale e politico. Dalla metà degli anni Sessanta fino al 1886, in parallelo al progressivo costituirsi della collezione tessile, oltre a numerose altre cariche pubbliche riveste quella di presidente della Società d’Incoraggiamento per gli Artisti della Provincia di Modena, istituita nel 1844 con il patrocinio ducale per promuovere le scarse committenze artistiche e l’attività dell’artigianato locale. In relazione a tali cariche è da vedersi il ruolo svolto da Gandini nel promuovere la produzione di ricami e di pizzi, una forma di artigianato a carattere domestico che negli ultimi decenni del secolo XIX giunge a coinvolgere da un lato note esponenti della nobiltà e della borghesia come le sorelle Pelati, affermate restauratrici e mercanti di tessili, dall’altro, istituzioni dedite alla pubblica assistenza e all’educazione delle fanciulle bisognose, quali l’Istituto San Paolo e quello delle Figlie del Gesù. I prodotti, ispirati ad antichi modelli reperiti talvolta nella stessa collezione Gandini, incontrano l’apprezzamento del pubblico nell’ambito delle esposizioni alle quali partecipano, a Modena, Firenze, Napoli, Vienna e Parigi. Contemporaneamente Gandini si dedica agli studi di storia del costume, frequentando gli archivi e tenendo una fitta trama di relazioni con i maggiori studiosi europei di storia del costume, come si evince dai recenti studi con-


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Fig. 3 – Le vetrine della Sala Gandini prima dei restauri del 1986, Particolare. Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.

dotti sull’archivio di lavoro conservato presso il Museo Civico d’Arte. La raccolta tessile legata al suo nome è attualmente interessata da un complesso lavoro di restauro avviato negli anni Ottanta. In occasione della riapertura al pubblico dei Musei Civici avvenuta nella primavera del 1990, tuttavia, fu possibile presentare la sala solo parzialmente allestita secondo i criteri previsti dal piano generale della ristrutturazione dei locali, che privilegiò decisamente il rispetto della fisionomia storicamente definita e ancora chiaramente percepibile di una realtà museale configuratasi tra la fine dell’Ottocento ed i primissimi anni del Novecento, raro e prezioso esempio di museo ottocentesco. Gli oltre 2500 esemplari di frammenti tessili databili tra il Medioevo e l’Età moderna erano stati infatti esposti seguendo le indicazioni fornite dallo stesso collezionista mentre la sala era rimasta pressoché inalterata fino al

1986 (Fig. 3), se si eccettua la chiusura dei grandi lucernai aperti sul soffitto e l’inserimento di una serie di tubi al neon avvenuta negli anni Sessanta, per porre rimedio al degrado dei frammenti esposti alla luce naturale diretta. Al momento dello smontaggio, effettuato dopo aver realizzato un accurato rilievo grafico dell’allestimento ottocentesco, le condizioni dei frammenti risultarono piuttosto precarie: oltre ai già accennati problemi di scolorimento e di viraggio dei colori, essi erano in effetti interessati da un notevole accumulo di polvere e di sporco. Iniziò quindi il lungo e complesso lavoro di restauro, condotto in collaborazione con l’IBACN, lavoro che è proceduto in parallelo con lo studio dei vari settori della raccolta, intrapreso a ritroso nel tempo, iniziando dai tessili più recenti, studio che ha portato finora alla pubblicazione di tre cataloghi, il primo dedicato al Sette e all’Ottocento (1985), il secondo al Seicento (1993) e il terzo al-

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Fig. 4 – La Sala Gandini dopo la riapertura del Museo nel 1990. Modena, Museo Civico d’Arte.

la sezione dei galloni, merletti e ricami (2002). Le difficoltà e le battute d’arresto incontrate sul cammino (connesse per lo più a problemi economici) hanno fatto sì che il lavoro non sia oggi ancora concluso: restano da completare il restauro e lo studio dei tessili di epoca medievale e rinascimentale e quelli classificati da Gandini come orientali, complessivamente circa 850 frammenti. Nel 1990, al momento della riapertura, i circa 500 frammenti già restaurati consentirono di realizzare un allestimento parziale della collezione, limitato ai tessili databili tra il tardo Cinquecento ed il XIX secolo (Fig. 4). Il fondo delle vetrine fu rivestito di pannelli in legno estraibili ricoperti con un tessuto di colore avorio, che assorbe in parte il riflesso delle grandi vetrate illuminate dall’alto e consente di sospendere i frammenti con punti a cu-

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cito ancorati alle fettucce applicate durante il restauro sul bordo superiore di ogni campione tessile. Per quanto riguarda il problema dell’illuminazione, furono istallati nei lucernai tubi fluorescenti a bassa emissione di ultravioletti e a luminosità graduata, evitando così la luce naturale, sempre difficile da controllare, senza però tradire l’effetto di un’illuminazione diffusa proveniente dall’alto. Con questo sistema l’illuminazione complessiva della sala venne mantenuta intorno ai 50 lux. Quanto alle soluzioni espositive, si scelse di esporre soltanto una parte dei campioni tessili compresi nell’allestimento ottocentesco, in modo da creare due serie parallele da alternare periodicamente, una delle quali conservata “a riposo”, in orizzontale entro cassettiere, al riparo dalla polvere e dalla luce. Negli anni immediatamente successivi la riaper-


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Fig. 5 – Frammento, Padova (Collegio B. Elena, Padova), seconda metà del XIX secolo, Veduta della Villa del Cataio, Taffetas ricamato, seta policroma. Modena, Museo Civico d’Arte.

tura, fu infatti predisposta una serie di cassettiere da collocare nella parte bassa e più capiente delle vetrine: qui furono riposti i frammenti tessili che gradatamente venivano restaurati, in attesa di procedere alla rotazione dei materiali esposti. Tale operazione, prevista inizialmente a cadenza periodica piuttosto ravvicinata (3-5 anni) è stata finora rimandata, innanzitutto perché i frammenti una volta restaurati sembrano reagire positivamente all’esposizione, ma anche perché si è voluta privilegiare la conclusione delle operazioni di restauro e di studio della raccolta, in modo da completare l’allestimento della sala con i tessili del Medioevo e del Rinascimento (Figg. 5-6). Una tappa importante è segnata dalla riesposizione, avvenuta nel 2000, della sezione dei merletti, ricami e galloni, le cui operazioni di restauro e di studio hanno avuto inizio nel 1995. Gli oltre 800 frammenti sono stati collocati nella grande vetrina posta al centro della sala, con soluzioni differenti soltanto per alcuni aspetti da quelle che caratterizzano l’esposizione dei tessuti veri e propri. Poiché la vetrina è collocata proprio al centro della sala, sotto i lucernai, risultava particolarmente poco illuminata e interessata invece in massimo grado da problemi di rifrazione della luce; una parte dei frammenti, i merletti in filato bianco o écru, apparivano inoltre assolutamente illeggibili se posti su fondo chiaro. Si è così dovuto provvedere a rivestire la superficie espositiva con un tessuto di colore verde-azzurro, che valorizza la lavorazione a traforo dei pizzi e al contempo si accorda con la decorazione di gusto rococò della sala. Per quanto riguarda invece il potenziamento dell’illuminazione, indispensabile alla valorizzazione dei materiali esposti, la soluzione adottata è stata quella delle fibre ottiche. Questo sistema consente, per le caratteristiche stesse dei materiali utilizzati, di illuminare oggetti e materiali foto e termo sensibili, come la carta e i tessili, senza danneggiarli:

la luce prodotta dalle fibre è infatti qualitativamente pura, in quanto praticamente priva di radiazioni ultraviolette (filtrate dalla stessa fibra di vetro) e di infrarossi (bloccati da un filtro applicato agli illuminatori). Occorreva però progettare un inserimento non invasivo di questa soluzione tecnologica all’interno della vetrina ottocentesca. I corpi illuminanti sono stati disposti nella cavità interna della stessa e collegati a fasci di fibre ottiche, le cui terminazioni luminose sono state fissate ad una serie di barrette metalliche nascoste dietro le cornici superiori della vetrina. Si è inoltre creato un sistema di ventilazione forzata che sospinge l’aria dall’interno della vetrina verso l’esterno, evitandone il riscaldamento e la conseguente alterazione dei livelli di temperatura e di

Fig. 6 – Frammento, Italia, fine del XVI secolo/inizio del XVII secolo, Velluto cesellato a un corpo, seta verde e rossa. Modena, Museo Civico d’Arte.

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umidità. Per quanto riguarda infine il problema del rispetto del livello di illuminazione, che per i materiali tessili è fissato in 50 lux, cioè l’aspetto quantitativo della luce, tale livello viene ora nettamente superato, in nome della necessità di valorizzare i materiali. Recenti esperienze volte a conciliare le contrapposte esigenze del mostrare e del conservare focalizzano infatti l’attenzione sul rapporto inverso esistente tra livelli e tempi di illuminazione, provando che una luce intensa valorizza gli oggetti esposti senza danneggiarli se i tempi di esposizione sono opportunamente ridotti. Per i pizzi e i ricami Gandini questi ultimi sono ridotti agli orari di apertura al pubblico, che variano dalle tre alle sette ore giornaliere; si è tuttavia messo a punto un sistema a fotocellula che consente l’accensione delle fibre ottiche soltanto in presenza di visitatori, con un effetto scenografico il cui impatto sul pubblico non è da sottovalutare. A fianco della collezione Gandini va segnalata la presenza di altri nuclei di tessili, frutto di acquisti e donazioni successivi. Tali acquisizioni, avvenute senza interruzione dall’epoca di Gandini fino ai nostri giorni, hanno indubbiamente focalizzato l’attenzione dell’istituzione modenese su questo settore museologico. Si è costituita una piccola ma pregevole raccolta di abiti settecenteschi tra i quali spicca un’interessante andrienne acquistata nel 1992, alcune vesti maschili e un nucleo di gilet databili tra Sette e Ottocento. A questi si aggiungono una trentina di capi di vestiario ottocenteschi, in gran parte ma-

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schili e provenienti dalla donazione Tardini avvenuta nel 1997. Numerosi sono i capi di vestiario e accessori quali busti, borse, scarpe, cappelli, fazzoletti e ventagli nonché paramenti sacri, frammenti di tappezzerie, costumi teatrali e popolari, capi di biancheria e tendaggi che sono pervenuti ad arricchire le raccolte. Si tratta di oggetti di provenienza assai diversificata, talvolta non accertabile, e di qualità discontinua, ma che testimoniano un’evidente vocazione del museo verso lo studio del tessile; anche le ultime donazioni in ordine di tempo confermano tale proposito allargando l’orizzonte delle raccolte con un corredo di biancheria personale databile tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Aggregato al Museo Civico d’Arte, sebbene conservi una sua autonoma fisionomia, è poi il Museo del Risorgimento, tra le cui raccolte si trova un interessante nucleo di tessili. Divise, berretti e bandiere databili dalla fine del Settecento fino al Ventennio fascista sono ora in fase di studio, dopo un’accurata manutenzione attuata in vista del riallestimento e della riapertura del museo, previsti compatibilmente con le risorse disponibili per il 2007. Tra i progetti a breve termine figura anche la pubblicazione del quarto catalogo della Collezione Gandini dedicato ai tessuti medievali e rinascimentali. Si auspica infine un rapido completamento del progetto espositivo della sala nell’ambito del quale è prevista anche la rotazione dei pezzi ora nelle vetrine.


Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica di Bologna, e oltre CARLA BERNARDINI

el sistema costituito dal Museo Medievale, dal Davia Bargellini e dalle Collezioni Comunali d’Arte, la presenza dei materiali tessili può essere inquadrata nel più generale tema del rapporto fra museo e arti applicate, recentemente ripresentato nell’ambito delle attività espositive e di divulgazione dei Musei Civici d’Arte Antica in particolare a proposito degli anni fra Otto e Novecento.1 Se in epoca postunitaria, su uno sfondo culturale di matrice positivista, il Museo Civico di palazzo Galvani intrecciava il tema delle arti con quello del collezionismo e delle illustri radici medievali e rinascimentali cittadine,2 solo nel 1921 – con l’apertura al pubblico del Museo d’arte industriale e galleria Davia Bargellini nel palazzo omonimo di Strada Maggiore – si poté assistere ad una realizzazione museografica legata al tema del rapporto tra arte e mestiere, arte e didattica, arte e industria, epilogo di una vicenda ottocentesca oramai giunta al tramonto3. È stato oggetto di ampia rivisitazione critica lo spirito con cui il fondatore, Francesco Malaguzzi Valeri, rivolgeva la propria attenzione alle più antiche manifestazioni artistiche legate alla vita quotidiana, all’arredo, all’ornato, trasferendo nel museo l’idea di una sorta di “macchina del tempo” al servizio della ricostruzione ed evocazione storica da un lato, e della pratica artistica e artigianale dall’altro.4 L’istanza storicista si coniugava con quella volta a fare del museo un luogo d’accesso ad un repertorio di forme e modelli ad uso prevalente delle professionalità artigianali, tanto in via di formazione nel mondo dell’istruzione scolastica o dell’apprendistato, quanto già affermate nella realtà produttiva. Gli spazi ristretti e la percezione di quella cultura come “retrospettiva”, più che come fulcro di espansioni tematiche rivolte al futuro,5 impedirono forme di accrescimento di quel museo, for-

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Fig. 1 – Una sala del Museo Davia Bargellini.

tunatamente consegnato al tempo presente come intatta, e perciò rara, testimonianza della museografia italiana degli anni Venti del Novecento (Fig. 1).6 Non si può negare che la successiva vicenda delle Collezioni Comunali rappresenti ancora oggi una sorta di occasione sottodimensionata, sotto il profilo dell’attenzione verso le arti applicate, rispetto ad alcune positive premesse iniziali, soprattutto considerando la visione del patrimonio storico-artistico e collezionistico come “insieme”, “tessuto”, “contesto”, maturata da Malaguzzi Valeri a proposito del sistema museografico bolognese.7 Fondate nel 1936 e ria-


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Fig. 2 – Pannello con tessuti cinque-seicenteschi nell’allestimento storico della sezione medievale e postmedievale del Museo Civico.

perte al pubblico dopo la parentesi bellica soltanto nel 19518, in epoca di poco successiva sarebbero divenute l’oggetto di progressive diaspore di materiali e riduzione degli spazi espositivi (solo in parte compensate con il recente riallestimento). Benché la nuova galleria avesse palesemente espresso alla sua nascita un diffuso interesse per l’arredo e le arti applicate, fu l’ambientazione di raccolte pittoriche e scultoree a fornire le principali lineeguida dell’allestimento.9 Le sorti e le vicende delle raccolte tessili dei Musei Civici di Arte Antica si differenziano in rapporto alla distinta storia dei tre musei nella seconda metà del Novecento.

Fig. 3 – Frammento di tovaglia di lino bianco raffigurante l’Assedio di Buda (particolare). Bologna, Museo Civico Medievale.

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Per quanto concerne il Museo Civico di Palazzo Galvani, l’organizzazione dei tessuti ivi già conservati ha seguito la più generale operazione di scorporo, dall’originaria realizzazione tardo-ottocentesca dei materiali di epoca medievale e post-medievale, in vista della creazione del Museo Civico Medievale nella nuova sede di palazzo Ghisilardi-Fava (1985)10. Fa storia a sè il celebre piviale gotico di San Domenico, acquisito nel 1882 dal Comune ed esposto al Museo Civico di Palazzo Galvani11, inserito nel percorso museale “maggiore” del Medievale accanto ad altre celebri opere legate alle presenze della Chiesa e degli ordini religiosi a Bologna fra Due e Trecento12. Altri oggetti realizzati con fibre tessili, appartenenti all’illustre storia collezionistica che è all’origine della formazione del patrimonio del museo, sono suddivisi tra depositi e sale espositive, in quest’ultimo caso inseriti nell’organizzazione tematica del nuovo percorso museale (1984 e 1988): le calzature veneziane e turchesche provenienti dalla barocca Wunderkammer del marchese Ferdinando Cospi (parte di una piccola serie di elementi di abbigliamento), la serie di faretre della collezione settecentesca di Luigi Ferdinando Marsili, parte dell’armamento orientale esposto nella sezione “armi e armature”.13 Mancano invece all’appello i campioni di tessuti medievali e rinascimentali (di ampio formato) già raccolti in pannelli disposti a parete nella sala medievale del Museo Civico (Fig. 2) per motivi di conservazione, ma non soltanto. Nella pausata scansione tematica della nuova realizzazione museale, sono venuti infatti a mancare per quei manufatti il valore di contestualizzazione ambientale di “riferimento” storico e stilistico che ancora potevano rivestire in un allestimento “ambientato” e attento alla dialettica fra le arti, nel clima culturale tardo ottocentesco di rivalutazione delle arti applicate e di attenzione alle sue più illustri espressioni museografiche.14 Spiccano fra questi un grande frammento di tela di lino di Fiandra raffigurante l’Assedio di Buda (1686) (Fig. 3), accanto ad altri di epoca precedente.15 Ma il fondo più consistente è quello composto di una larga serie di campionari conservati attualmente nei depositi del Museo Civico Medievale: velluti, rasi vellutati, damaschi, lampassi, broccati, pizzi, merletti, galloni, bordi ricamati, passamanerie, frange e nappe, di varie tipologie ed epoche, in prevalenza databili fra il Cinque e il Settecento. La mancanza di un effettivo interesse per questa collezione nel corso del tempo si è tradotta in una situazione conservativa assai soddisfacente, grazie a cui è preservata in larga parte la naturale brillantezza dei colori (Figg. 4-5-6-7). L’acquisizione di questi campionari si scala fra il 1881 (l’anno che precede


Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica di Bologna, e oltre

Fig. 4-5-6-7 – Pagine di campionari con frammenti tessili di varie tipologie tecniche e decorative del XVI, XVII e XVIII secolo. Bologna, Museo Civico medievale.

quello dell’inaugurazione del Museo Civico) e i primi decenni del nuovo secolo, benché i cartellini apposti rinviino ad una più antica sistematizzazione; il fondo si inquadra nel più generale fenomeno di passaggio dal collezionismo aristocratico di tessuti al patrimonio museografico, già messo a fuoco per quanto riguarda l’ambiente modenese a proposito della donazione Gandini al locale Museo Civico.16 Manca ancora una ricerca sistematica sulle provenienze, ma è possibile ricomporre il quadro di riferimento di precedenti proprietari attraverso alcuni cognomi apposti accanto a frammenti nella collezione stessa e con la parallela ricerca documentaria: i cartellini apposti in alcuni casi dichiarano soltanto cognomi (Silvestrini, Lambertini, Muzzi, il conte e la contessa Cavazza), o indicazioni di altro genere, come quella di riferimento all’Opera Pia Caprara;17 un dono di parati liturgici provenienti dalla Compagnia della Buona Morte risalente al 1882 reca un riferimento al canonico Domenico Santa-

gata, della stessa Compagnia18. Per via archivistica emerge in particolare a più riprese il nome del Conte Luigi Alberto Gandini, per il dono di una grande tovaglia ricamata e di “molti saggi di stoffe antiche”, nello stesso anno 1882 in cui avvenne la storica donazione al Museo Civico di Modena 19: gli indizi per attribuirgli un ruolo assai largo anche in ambito bolognese sono innumerevoli, insiti nelle caratteristiche stesse della raccolta.20 Questo nucleo, attualmente conservato presso il Museo Civico Medievale, si pone quindi come momento inedito nell’importante capitolo della storia del collezionismo tessile nel tardo Ottocento, ancora in attesa di studio.21 Nel capoluogo emiliano l’argomento si inserisce in una congiuntura storica assai significativa sotto il profilo storico-artistico perché strettamente connessa – a cavallo dei due secoli e nei primi decenni del nuovo – con fondamentali esiti creativi e produttivi nel campo del merletto e del ricamo, quando un nesso particolarmente stretto legava il collezionismo e lo stu-

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dio di manufatti antichi alla nascita del disegno “industriale”. Il ritorno alle radici storiche attraverso la raccolta e sistematizzazione di campioni, operato in parallelo al ricorso a modellari antichi a stampa, caratterizzò come noto la ricca produzione Aemilia Ars Merletti e Ricami, l’esperienza cresciuta nel solco del movimento inglese Arts and Crafts e protrattasi, dagli ultimi anni dell’Ottocento fino oltre il terzo decennio del secolo scorso.22 Da essa, nel patrimonio civico sarebbe confluito il ricco campionario di merletti e ricami acquisito dal Comune nel 1935 – all’atto della totale liquidazione della ditta – per cui si stentò a trovare una collocazione adeguata allo spessore e alla portata storica di quell’esperienza. Destinato in un primo tempo al Museo della scuola professionale Regina Margherita, poi al Museo d’Arte Industriale Davia Bargellini – all’interno quindi di una prevalente intenzione didattica – esso sarebbe finalmente approdato alla nuova Galleria in palazzo d’Accursio23, realizzata nel solco della cultura e del gusto facenti capo all’opera e al pensiero di Alfonso Rubbiani e di Francesco Malaguzzi Valeri. Nel museo allora si fondevano in un’armonica continuità i temi della

Fig. 8 – Culla inviata all’esposizione di Milano del 1906, Aemilia Ars, inizi del XX secolo. Foto d’epoca, Bologna, Collezione Ferné.

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Fig. 9 – Arazzo raffigurante Salomone e la Regina di Saba. Manifattura fiamminga, fine del sec. XVI. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.

quadreria, dell’arredo, delle arti applicate e dell’ornato.24 Le opere tessili, forse anche per la scarsa consistenza numerica al di fuori degli oltre trecento campioni di merletti e ricami Aemilia Ars, erano destinate a restare una presenza episodica, priva di un’organizzazione sistematica e con una funzione prevalentemente di arredo: così fu per il campionario Aemilia Ars (entro vetrine collocate accanto a dipinti della fine dell’Ottocento nella nona sala), al pari, nel braccio arredato “Rusconi”, di un importante arazzo cinquecentesco raffigurante Salomone e la Regina di Saba (Fig. 9) 25 e di alcuni tappeti, uno dei quali per lungo tempo esposto a parete, in un amalgama gremito di oggetti, sullo sfondo di tappezzerie e tendaggi di imitazione barocca e settecentesca.26 Il fondo Aemilia Ars comprendeva, oltre ai campioni di merletti e ricami (Fig. 10), un cospicuo fondo di disegni e lucidi su carta per decorazioni per interni e per elementi di arredo, per mobili, ferri battuti, lampade, cuoi impressi, merletti e ricami (Fig. 11), ceramiche, vetri. Il fondo grafico, attualmente conservato presso il Museo Civico Medievale, è stato “attribuito” in tempi recenti al Museo Davia Bargellini per congruità tematica, ma in ogni futura occasione di catalogazione e ricerca la considerazione dell’unità patrimoniale dei due musei è destinata a prevalere sulla distinzione per sedi espositive. La mostra dedicata nel 2001 presso le Collezioni Comu-


Fig. 10 – Polsino, Aemilia Ars, primo quarto del XX secolo. Refe di lino écru, merletto ad ago, punto reticello e punto in aria. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.

nali d’Arte ha inteso fornire un contesto al fondo, riproponendo in termini complessivi quell’intenso momento di creatività e produzione, in cui sulle arti si concentrava l’attenzione storica ed evocativa propria del pensiero di Alfonso Rubbiani, nell’ambito di una spinta verso la ridefinizione delle identità culturale e artistica cittadine27. L’occasione espositiva ha fatto emergere con forza il tema della connessione collezionistica e territoriale fra patrimoni che, pur avendo subìto un

diverso destino patrimoniale e conservativo, hanno in comune origine e interesse scientifico.28 Si tratta di importantissimi archivi di testimonianze materiali in grado di far emergere una storia altrimenti destinata al silenzio: storia delle forme e delle tecniche artigianali, storia economica e produttiva, storia del costume e delle forme decorative, storia dell’organizzazione del lavoro – e della stessa condizione – femminile.29 È allora che, nell’intento di inserire lo studio dei materiali tessili –

Fig. 11 – Bordo con pavoni, Aemilia Ars, inizi del XX secolo. Ricamo e merletto ad ago. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.

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attraverso la basilare dimensione tecnica che solo la catalogazione scientifica può garantire – nella storia più generale, apparirà quanto mai opportuno ricondurre ad unità tematica la loro presenza nelle raccolte museali attraverso la ricerca, la catalogazione, la riproduzione,30 in primo luogo per prevenire future occasioni di svalutazione critica e quanto potrebbe conseguirne in termini di incuria e degrado se non addirittura di alienazione e dispersione. Ma soprattutto rendendo concreta nel momento attuale quella possibilità di ricomporre, ancora, in unità ciò che le vicende storiche hanno frammentato e separato, quando non disperso; impresa destinata a divenire sempre più ardua col passare degli anni. La traccia già indicata sommariamente a proposito della mappa dei musei cittadini – in cui un ruolo primario spetta alle collezioni del Museo Storico Didattico della Tappezzeria31 – dovrebbe essere riconsiderata anche in relazione ai patrimoni tessili ex IPAB, da anni ampiamente studiati nella loro consistenza e spessore anche di significati, ma ancora in attesa di essere inseriti in un sistematico quadro complessivo, costituito dai legami che si possono istituire fra i nuclei patrimoniali presenti nella città, dalla loro ricomposizione in “serie”, e dalle infinite possibilità di una generale espansione della ricerca sull’argomento. Quello dell’indagine storica per la ricostruzione di ampi quadri di riferimento “per” le collezioni, partendo rigorosamente da esse, è un tema che va inserito anche in una visione più ampia relativa al dialogo e all’arricchimento reciproco fra ricerca museale e ricerca universitaria, fondate ambedue sull’intreccio di valori storici, territoriali e di contesto sulla base di un’ineccepibile conoscenza tecnica garantita dalla catalogazione scientifica32. Si dovrà inoltre sottolineare come anche la possibilità di incremento delle raccolte dipenda in gran parte dalla capacità propositiva maturata dal museo su ambiti tematici specifici. Non è casuale, infatti, che a seguito della mostra e delle iniziative collaterali dedicate ad Aemilia Ars il patrimonio tessile delle Collezioni Comunali d’Arte abbia conosciuto un vistoso incremento: doni privati33 e l’acquisizione di larghe sezioni del patrimonio dell’ex Istituto Elisabetta Sirani, già “Scuola Regina Margherita” indicano nuovi percorsi di lavoro per il museo nel campo specifico della storia del lavoro femminile e della trasmissione dei saperi e delle abilità manuali.34 Un ulteriore percorso di conservazione va individuato nel campo del costume storico, rispetto al fondo di livree per valletti comunali risalenti ai primi decenni del Novecento, la cui cura è tut-

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tora affidata all’ufficio che tradizionalmente ne gestiva l’uso, il guardaroba comunale.35. Altri materiali già legati ad una destinazione d’uso poi tramontata, non divenuti tempestivamente oggetto di una sensibilità conservativa all’interno dell’ente di appartenenza, in tempi passati hanno imboccato strade diverse, come la serie dei Gonfaloni delle corporazioni delle Arti già conservati in palazzo del Podestà, attualmente esposti presso il Museo Storico Didattico della Tappezzeria.36 Come in ogni corretta operazione museografica, anche nel campo dei tessuti individuare qualche prospettiva futura comporta innanzitutto risalire alle radici del museo. Sotto questo profilo oggi può divenire assai significativo il positivo rapporto già instaurato da Francesco Malaguzzi Valeri fra patrimonio storicoartistico pubblico e patrimonio delle Opere Pie. Messa a fuoco infatti la possibilità di una reciproca valorizzazione fra arti “maggiori” da un lato e arti “minori” (la cui presenza presso gli enti di assistenza e beneficenza è imponente) dall’altro, aveva costruito la possibilità della convenzione, tuttora in essere, fra il Comune e l’Opera Pia Davia Bargellini per la costituzione del museo, sancendone la fusione dei patrimoni a scopo espositivo (1919), rendendo inoltre possibili altre fondamentali accessioni in forma di deposito, come quello dell’Opera Pia dei Poveri Vergognosi (comprendente anche materiali dell’Opera Pia Caprara e del conservatorio di Santa Marta).37 Un messaggio che oggi può caricarsi di nuove potenzialità nel campo della ricerca e della comunicazione, soprattutto se considerato in un’ottica di rete fra nuclei patrimoniali (non da ultimo anche come deterrente per possibili processi di alienazione); dove forme di tutela e progresso di conoscenze storiche convergano nella fondamentale salvaguardia del rapporto coi contesti d’origine. In questo modo il museo, rendendo accessibili serie complesse di materiali entro e oltre i propri confini, sia direttamente che attraverso restituzioni virtuali e banche dati, non solo può adempiere agli scopi primari di tutela, fruizione e valorizzazione, ma riaffermare per sé quel naturale ruolo di archivio materiale, di strumento per la ricerca e fonte di conoscenza che in epoche passate si è espressa assai più che nel presente. Superfluo a questo punto sottolineare la multidisciplinarietà dei campi di applicazione scientifica nel settore specifico dei tessuti, che una visione gerarchizzata delle arti per troppo tempo ha mantenuto in un ruolo in qualche modo “subalterno”, con un influsso non sempre positivo sulle politiche museali oltre che sugli indirizzi della ricerca storica.


Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica di Bologna, e oltre

NOTE 1

Aemilia ars: Arts & Crafts a Bologna 1898-1903 (cat. mostra a cura di C. Bernardini, D. Davanzo Poli, O. Ghetti Baldi), Milano 2001; C. Bernardini, M. Forlai (a cura di), Industriartistica bolognese. Aemilia Ars: luoghi, materiali, fonti, Cinisello Balsamo 2003. Questo intervento riprende parzialmente un precedente testo, cui si rinvia per riferimenti più puntuali (C. Bernardini Martoni, I tessuti nelle raccolte comunali di arte medievale e moderna in Bologna, in Le collezioni civiche di tessuti. Conservazione esposizione catalogazione, Atti del seminario di studi (Modena, Collegio San Carlo, 3-4 ottobre 1986), Bologna 1990, pp. 39-51.

2

Di cui l’attuale Museo Medievale costituisce una “gemmazione” novecentesca nella nuova sede di palazzo Ghisilardi-Fava; cfr. R. Grandi, Il Civico Medievale, formazione e vicende, in Introduzione al Museo Civico medievale. Palazzo Ghisilardi-Fava, Bologna 1985, pp. 7-18.

3 A. Buzzoni, Musei dell’Ottocento, in I Musei, Touring Club Italiano, Milano 1980 (“Capire l’Italia”, vol. IV), pp. 155-163, part. p. 163; fondamentale per la comprensione non solo delle ragioni culturali, ma delle più complesse vicende costitutive del Museo Davia Bargellini, è tuttora il saggio di R. Grandi, L’Opera Pia Davia Bargellini di Bologna, in Arte e Pietà. I patrimoni culturali delle Opere Pie (cat. mostra), Bologna 1980, pp. 352-355. Per i fondamentali sviluppi della ricerca sull’argomento, si rinvia alle successive note 4-7. 4

M. Ferretti, Un’idea di storia, la realtà del museo, il suo demiurgo, in R. Grandi (a cura di), Museo civico d’arte industriale e galleria Davia Bargellini, Bologna 1987, pp. 9-25, part. pp. 12, 16-17, 20. 5 Sulla decaduta vitalità e fisionomia dei musei d’arte industriale realizzati tardivamente entro il terzo decennio del Novecento, via via emarginati dalle motivazioni di una cultura proiettata verso il futuro, cfr. A. Buzzoni, op. cit., p, 163; le molteplici ragioni del repentino tramonto del modello “passatista” malaguzziano sono ancora suscettibili di studio (cfr. S. Scarrocchia, Aemilia Ars tra Arte e industria. La formazione della Kunstindustrie a Bologna e in Emilia Romagna, in C. Bernardini e M. Forlai, op. cit., pp. 14-15. 6

E. Riccòmini, Vicende del Museo d’Arte Industriale Davia Bargellini, in F. Lanza (a cura di), Museografia italiana degli anni Venti: il museo d’ambientazione, Feltre 2003, pp. 11-18; per i materiali tessili attualmente esposti al Davia Bargellini, prevalentemente parati liturgici e ricami, molti riproduzioni di dipinti famosi, cfr. D. Ferriani, L’Opera Pia dei Poveri Vergognosi e l’Istituto di Santa Marta di Bologna, in Arte e Pietà…, cit., pp. 196-198; A. Cicatelli, schede nn. 174, 176, 177, 179, 183, 184, ivi, pp. 213-219; J. Bentini, schede nn. 119-125, in Grandi (a cura di) Museo civico d’arte industriale… cit., pp. 182-190; Un’immagine della sistemazione dei parati liturgici in Bernardini Martoni, op. cit., p. 52 fig. 2; si rinvia inoltre, in questo volume, al saggio di Jolanda Silvestri; per il deposito dall’Opera Pia Caprara al Museo Civico risalente al 1920, da cui la destinazione di materiali per l’esposizione nel costituendo Museo Davia Bargellini, cfr: Tumidei, op. cit: pp. 70, 74; per le vesti del Cardinal Caprara appartenenti al patrimonio dell’Opera Pia dei Poveri Vergognosi, cfr. S. Battistini, Ufficialità e diplomazia nel repertorio iconografico del cardinal Caprara, in id. e P. Goretti (a cura di), L’Uomo che incoronò Napoleone. Il Cardinal Caprara e le sue vesti liturgiche (cat. mostra), Ferrara, 2005, p. 5; P.Goretti, Schede delle opere in mostra, ivi, p. 30; nel museo meritano una menzione a parte i costumi in miniatura del Teatro di marionette (di proprietà della Pinacoteca Nazionale), realizzati in tessuti raffinatissimi con altissima maestria e con particolare attenzione alla moda del periodo (R. Melloni, ivi, schede nn. 105-117, pp. 174-180).

7

Cfr. Ferretti, op. cit., p. 20; S. Tumidei, Il patrimonio delle Opere Pie, il conte Malaguzzi Valeri e il Museo Davia Bargellini, in Gli splendori della vergogna (cat. mostra), Bologna 1995, pp. 63-77, part. pp. 63, 65-68, 70. 8 C. Bernardini, L’appartamento del legato. La fondazione della galleria. I materiali, la formazione delle raccolte, in Collezioni Comunali d’Arte: l’appartamento del legato in palazzo d’Accursio, Bologna 1989, pp. 7-11; id. Le Collezioni Comunali d’Arte, in W. Tega (a cura di) Storia Illustrata di Bologna, vol. III, Bologna 1989, pp. 181-200, part. pp. 189-193; id. Origini di un’identità museale, in Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, Ferrara 2002, pp. 8-11. Quanto la possibilità di affermazione o espansione delle Collezioni Comunali d’Arte, e in alcuni casi la stessa conservazione del suo patrimonio, sia stata condizionata da approcci estranei alle più basilari considerazioni museografiche e conservative sarebbe argomento da affrontare in specifico. Per ora si rinvia agli accenni in C. Bernardini, Arte e storia, Museo e città: un occhio al presente, uno sguardo al futuro, in Collezioni Comunali d’Arte…, cit., pp. 50-54 (part. p. 51). 9 Sul radicamento del progetto museografico nella cultura post-rubbianesca e post-malaguzziana, cfr. C. Bernardini, Nel museo, per il museo, in Aemilia Ars, arts & Crafts a Bologna… cit., pp. 17-18; id., Le Collezioni Comunali d’Arte, cit., pp. 188-189 e 192-193. 10 Per cui cfr. R. Grandi, Il messaggio del museo. Osservazioni sul nuovo museo Me-

dievale di Bologna, in Informazioni IBC, anno I, n.s., n. 4, luglio-agosto 1985. 11

Sull’acquisizione del piviale cfr. Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica (d’ora in poi Archivio MCAA), carteggio L. Sighinolfi, fasc. 72, scheda n. 18 (1881). 12

Oltre al saggio di M.Cuoghi Costantini nel presente volume (pp.), ci si limita a citare i due contributi più recenti pubblicati nell’ambito dell’attività scientifica dei Musei Civici di Arte Antica, ambedue con rimandi alla vasta bibliografia precedente: C. Bussolati, Il piviale di San Domenico: una prospettiva di lettura, in “Arte a Bologna. Bollettino dei Musei Civici di Arte Antica”, n. 3, 1993, pp. 93-104, e la scheda di A. Rizzi in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna (cat. mostra, a cura di M. Medica con la collaborazione di S. Tumidei), Venezia, 2000, pp. 385-389.

13

Alcune calzature sono inserite nella sezione riguardante la storia della formazione delle raccolte (sala 1); cfr. A. Mazza, R. Grandi, Nel segno del “civico”, in “IBC informazioni”, IV, n. s.; n. 6, novembre-dicembre 1988, pp. 27-31 (riprod a p. 30); le faretre sono in tessuto o velluto con applicazioni in metallo e ricami in filo d’argento. 14

Per le suggestioni provenienti dal londinese South Kensington Museum, cfr. R. Grandi, Il Civico Medievale…, cit., p. 13.

15

Cfr. A. Contadini, Due pannelli di cuoio dorato nel Museo Civico Medievale di Bologna, in “Annali di Cà Foscari. Rivista della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Venezia”, Serie Orientale, XXVII, 3, 1988, pp. 127-142, part. tav. 3.

16 G. Guandalini, La raccolta Gandini. Dalla collezione aristocratica al bene museografico, in La Collezione Gandini del Museo Civico di Modena. I tessuti del XVIII e del XIX secolo, Bologna, 1985, pp. 7-27; a Bologna l’inaugurazione del Museo Civico nel 1882 aveva sollecitato nella città una propensione quasi corale al dono, testimoniata anche da una serie consistente di verbali di ricevuta conservati presso Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica (Carteggio Luigi Frati, cartt. I-III) 17

Documentazione presso l’Archivio Storico Comunale: Indici di protocollo del Comune di Bologna, 1881 (stoffe antiche dell’Opera Pia Caprara: nn. 4302, 4550, 6679, 6688, 8436, 9036, 9973, 9867, 10019).

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CARLA BERNARDINI

18 Croci ricamate, inv. 2139-2141: Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica, carteggio L. Frati, cartone II, fasc. 17 (1882) n. 2. 19 Lettera di L. Frati al Sindaco di Bologna (2/9/1882) e al Conte Luigi Al-

berto Gandini, in Archivio storico comunale di Bologna, cart. XIV, 2.3, 1882, prot. 8816 (“Dono del Conte Luigi Alberto Gandini di una tovaglia di stile orientale lunga 1,85, alta 0,58, bianca, con bordi azzurri, con ornati di uccelli e quadrupedi”); la data 1882 compare sul frammento inv. 2142 con la dicitura “dono del Conte A. Gandini di Modena”. Ovviamente, soltanto una sistematica catalogazione di tutti i campioni potrà consentire di ricomporre una visione d’insieme significativa, a riscontro con quanto dichiarato dalle serie documentarie, su cui per questa occasione è stato svolto un sondaggio poco più che sommario. Oggi la tovaglia di cui si fa menzione nei documenti non è più rintracciabile, al pari di altre due acquisite rispettivamente nello stesso anno 1882 e nel 1887 “ceduta dalla sig.ra Toldi”); cfr. Archivio MCAA, carteggio Luigi Frati, C. II, fasc. 17 (1882) e fasc. 22 (1887). 20 Come sottolinea Marta Cuoghi Costantini, dopo un pur veloce confron-

to fra i singoli campioni bolognesi con quelli della raccolta modenese. 21 Il fondo è stato oggetto di un capillare censimento fotografico a cura della scrivente e di Giorgia Gherardi (anni 1986-87). Un ulteriore “acquisto municipale” consistè, molti anni dopo, in un pezzo di stoffa da casa Mezzofanti, cioè “una striscia di seta con lo stemma cardinalizio di Mezzofanti” più “un disegno a spolvero” dello stemma medesimo (archivio MCAA, carteggio L. Sighinolfi, cartone III, fasc. 37 (1909). Un acquisto di stoffe e merletti antichi risale al 1901 (Bologna, Archivio storico Comunale, Registri di protocollo, 1901, n. 9441). 22

Cfr. R. Campioni, Presentazione, in Merletti e ricami dell’Aemilia Ars (ristampa dell’edizione del 1929), Imola 1981; id., “Il libro di disegni cinquecenteschi… reso vivo e fattivo”; in Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti Baldi (a cura di), op. cit., pp. 117-124; in specifico sul collezionismo e la catalogazione di antichi manufatti da parte di Elisa Ricci, cfr.B. R. Bellomo, Elisa di Corrado; in “Ravenna studi e ricerche” IX/1, 2002, pp. 13-56; sul nesso antico-moderno, D. Davanzo Poli, Merletti e ricami a punto antico, in Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti Baldi (a cura di), op. cit., pp. 93-115, part. pp. 100-103; C. Bernardini, Aemilia Ars: aggiornamenti e spunti di ricerca, in id. e M. Forlai (a cura di), Industriartistica Bolognese… cit, pp. 6-8, part. p. 7.

In corso di studio nell’ambito di una ricognizione sugli arazzi fiamminghi nelle raccolte pubbliche italiane promossa dall’Istituto Olandese di storia dell’Arte di Firenze (a cura di Linda Lloyd Jones).

26 cfr. Bernardini, Le Collezioni Comunali, cit., pp.192-193. 27 E. Raimondi, All’origine dell’Aemilia Ars: ideologia e poetica, in Aemilia Ars… cit., pp. 21-30. 28 Cfr. B. Argelli, Le carte Aemilia Ars, 1898-1937, in Aemilia Ars…, cit., pp. 239248; M. Forlai, Materiali e fonti, in Industriartistica bolognese… cit. pp. 53-57. 29

Esemplari sotto questo profilo: L. Ciammitti, La fabbrica delle spose, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Vita di Borgo e artigianato, Milano, 1980, pp. 44-55; id., Fanciulle monache madri. Povertà femminile e previdenza a Bologna nei secoli XVII-XVIII, in Arte e Pietà: I Patrimoni culturali delle Opere Pie, Bologna, 1980, pp. 461-520; D. Davanzo Poli, op. cit.; V. Capecchi e A. Pesce, L’Aemiia Ars “merletti e ricami”: storia di un’impresa tutta femminile, in Aemilia Ars… cit., pp. 127-149; cfr. inoltre la successiva nota 35.

30 Superfluo in questa sede sottolineare che lo studio di forme di accesso alternative all’allestimento per questi materiali è imposto dalla loro stessa natura, per motivi di conservazione. 31 Cfr. in questo stesso volume l’intervento di S. Zironi e F. Ghiggini. 32 Per un’efficace visione complessiva relativa a queste problematiche si rinvia a S. Settis, La formazione, la ricerca, la tutela: il sistema italiano, in Lo spazio il tempo le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C. Giudici, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano), 2001, pp. 28-30. 33

Due tovaglie ricamate, di cui una Aemilia Ars con motivi araldici risalente alla fine del XIX secolo (dono dell’Associazione Amici dell’Aemilia Ars con il contributo della Banca Popolare dell’ Emilia), una di epoca successiva e una parure da battesimo (doni di privati).

34

cfr. B. Dalla Casa, Mutualismo operaio e istruzione professionale femminile: L’Istituto regina Margherita Società Anonima Cooperativa (1895-1903), estratto da “Bollettino del Museo del Risorgimento” (Bologna), XXIX-XXX, 1984-1985; id (a cura di), Donne scuola lavoro: dalla Scuola professionale Regina Margherita agli istituti Elisabetta Sirani di Bologna: 1895-1995, Imola, 1996; cfr. inoltre la nota 30.

lezioni Comunali, cit., pp. 192-193; M. Forlai, Aemilia Ars, in Collezioni Comunali d’Arte, cit., pp. 46-49.

35 Il fondo è stato catalogato nel 2002/2003 da Elisabetta Berselli per conto dei Musei Civici di Arte Antica in collaborazione con il settore acquisti del Comune di Bologna.

24

36

23 Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica; cfr.Bernardini, Le Col-

Cfr. nota 9; l’attuale sala n. 3, aperta al pubblico nel 1995, è dedicata a queste tematiche, sintetizzando in un allestimento concentrato e ridotto materiali e aspetti che in origine avevano un’espansione assai maggiore. In essa il campionario e le nuove accessioni Aemilia Ars (esposti a rotazione) figurano accanto ai disegni di restauro architettonico, rendendo percepibile l’unità culturale del momento storico che rappresentano.

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25

B. Bianchini, I tappeti ornamentali del palazzo del Podestà, in “Bologna”, XXII, n. 5, maggio 1935, pp. 71.76; cfr. Bernardini Martoni, op. cit:, pp. 48-49 e 54 fig. 6. 37 Cfr. in particolare Grandi, L’Opera Pia… cit.; e Tumidei, op. cit., pp. 7074; Battistini e Goretti, op. cit.; per i patrimoni con quella provenienza tuttora ora esposti presso il Museo Davia Bargellini, cfr. supra, nota 6.


Velluti e costumi dall’atelier di un pittore di storia nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia ELISABETTA FARIOLI

na interessante fotografia, databile tra il 1880 e il 1890, mostra il pittore Ignacio Leòn y Escosura nella sua casa-studio parigina, circondato da oggetti (il camino in pietra, il letto a baldacchino, ma anche gli arazzi e i tappeti) che si ritrovano raffigurati nei suoi dipinti. Il pittore sta ritraendo un modello vestito a tutto punto da nobile del Seicento intento a suonare il violino. Sono ormai note le vicende che hanno portato alla formazione della “Galleria Anna e Luigi Parmeggiani” di Reggio Emilia, pervenuta a Reggio Emilia nel 1924 tramite Luigi Parmeggiani, ma formata in realtà a Parigi negli ultimi decenni dell’Ottocento dal pittore spagnolo Ignacio Leòn y Escosura (Oviedo 1834 – Toledo 1901) attraverso anche rapporti con la famiglia della moglie Augustine-Blanche Filieuse Marcy.1 Così pure, grazie agli studi di Marta Cuoghi Costantini e al suo volume sulla raccolta tessile della Galleria Parmeggiani2, è stata bene individuata la tipologia e la finalità della raccolta, riconducibile a Ignacio Leòn y Escosura, alla sua attività di collezionista e di affermato pittore di soggetti storici e di scene di genere dall’antico. Artista inserito a buon diritto nel panorama della pittura francese e spagnola dell’Ottocento, dopo una prima formazione in Spagna alla scuola di Federico de Madrazo Escosura nel 1859 si trasferisce a Parigi dove, oltre alla colonia di artisti spagnoli, ha modo di frequentare artisti alla moda come Ernest Meissonier, Léon Gérome e Lèon Cogniet. Negli anni seguenti si sposta continuamente tra Parigi e Madrid fino al suo definitivo stabilirsi a Parigi nel 1870, scelta che testimonia un ben collaudato successo commerciale dovuto anche al sempre più stretto rapporto col celebre mercante d’arte Adolphe Goupil che lo indirizza a una produzione di temi storici su soggetti inglesi che gli procurano grande successo a Londra.

U

Piena e convinta è in Escosura l’adesione al Romanticismo storico: nei suoi quadri migliori la scelta del soggetto si fissa su episodi storici in particolare del XVII e XVIII secolo dove il suo interesse, più che per i personaggi raffigurati, si sposta decisamente sulla descrizione degli arredi e degli abiti, gli stessi che colleziona con passione e con cui arreda in versioni continuamente aggiornate la sua casa parigina di rue Tailtbout n. 13. La sua collezione arriva a Reggio Emilia tramite Luigi Parmeggiani, dapprima suo aiutante nelle gallerie di vendite di Londra e Parigi, poi, alla sua morte, socio della vedova nel commercializzare i suoi oggetti presso musei e collezionisti di rango, infine legittimo sposo della nipote e quindi erede del suo patrimonio. Comprende una buona raccolta di dipinti antichi, tra cui un gruppo particolarmente importante di dipinti spagnoli, una ventina di mobili (“imbarazzante miscellanea di pezzi autentici, diligenti rifacimenti “in stile” e disinvolte, quanto ingegnose ricomposizioni di materiale antico”3) e la significativa raccolta di tessuti, costumi e accessori. Ancora non è ipotizzabile con piena convinzione l’appartenenza alla collezione di Escosura del gruppo di materiali in metallo, armi e oreficerie, fabbricati nella bottega parigina Marcy, gestita tra il 1830 e il 1880 dalla famiglia della moglie, libere citazioni di particolari di oggetti antichi che Parmeggiani riuscirà a spacciare per autentici e a collocarli nelle migliori collezioni museali e private d’Europa.4 La raccolta tessile consta di oltre duecento pezzi, esposti a rotazione in due sale della Galleria, la prima dedicata ai costumi e accessori, allestita in due grandi vetrine a vista, la seconda organizzata in un apposito locale arricchito da strumenti per la lavorazione del tessuto (Fig. 1).


ELISABETTA FARIOLI

Fig. 1 – Sala dei tessuti con strumenti per la lavorazione tessile. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

Fig. 2 – Ignacio Leon y Escosura (1834-1901), Architetti, olio su tela. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

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Come chiarito da Cuoghi Costantini, la formazione della raccolta, databile all’ultimo trentennio dell’Ottocento, si colloca negli ambiti di interesse collezionistico dell’alta borghesia parigina, espressione di una realtà cosmopolita che favorisce l’incontro tra mercanti, galleristi e antiquari. Scrive infatti Dupont Auberville, attento testimone della Parigi di fine Ottocento nel suo trattato L’Ornament des Tissus, dove pubblica alcuni importanti materiali di proprietà del pittore: “Escosura a le culte des belles choses; il sait réunir, gruper, antasser et reproduire les merveilles artistiques qui abondent dan son atelier et qu’avec le plus grand désintéressement il tient à la disposition de ses nombreux amis”. La volontà collezionistica dell’Escosura era per lo più mossa dalla sua necessità di procurarsi riferimenti precisi per i suoi quadri di ambientazione storica: nei suoi dipinti presenti alla Galleria Parmeggiani è infatti possibile riconoscere tessuti della sua collezione sotto forma di tende, stendardi, abiti ed accessori (Figg. 2 e 3). Scrive la studiosa: “Differenziandosi da altri collezionisti,

Fig. 3 – Ignacio Leon y Escosura (1834-1901), Dichiarazione d’amore, olio su tela. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.


Velluti e costumi dall’atelier di un pittore di storia nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia

l’artista spagnolo evidentemente non si proponeva di documentare le vicende plurisecolari dell’arte della tessitura, non perseguiva finalità didattiche e divulgative rivolte a decoratori o operatori dell’industria, non era attratto dal freddo ed anonimo repertorio museale. La selezione dei pezzi veniva presumibilmente determinata (…) soprattutto da interessi legati alla sua attività di pittore.” Così pure alla sua personale interpretazione della pittura di storia sono da ricondursi gli interventi che l’artista ha effettuato su tessuti e costumi, spesso pesantemente manomessi e addirittura falsificati in particolare per quanto riguarda i ricami e la forma dei reperti. La maggior parte degli abiti infatti non conserva la foggia originaria, ma risulta modificata da consistenti interventi sartoriali riconducibili allo stesso collezionista. Assemblaggi risultano evidenti anche in alcuni tessuti: per esempio un dorso di pianeta presenta una discrepanza di quasi un secolo tra lo stolone centrale e i velluti laterali, mentre in altri casi particolari desunti dal repertorio rinascimentale si uniscono disinvoltamente a riferimenti barocchi o addirittura neoclassici. La raccolta è costituita per lo più da oggetti d’uso (paramenti e arredi liturgici, tappezzerie e stendardi, abiti ma-

Fig. 5 – Costume di scena maschile del teatro elisabettiano, Inghilterra, 1615-1620 ca. (su manichino del XIX secolo). Intarsi di pelle avorio applicati su raso di seta cremisi. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

Fig. 4 – Gilet (quarti anteriori), Francia, ultimo decennio del XVIII secolo. Taffetas di seta avorio ricamato in sete policrome. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

schili e femminili) provenienti in larga parte dalla Spagna, ma anche dal mercato antiquariale parigino (in particolare il gruppo dei costumi francesi del XVIII secolo) e attraverso scambi con altri collezionisti (Fig. 4). Riconducibile agli interessi culturali dell’Escosura e alla sua predilezione per la cultura del Rinascimento è la forte presenza all’interno della raccolta di velluti, tipo di tessuto che aveva conosciuto in quell’epoca particolare fortuna. Si tratta di un nutrito gruppo di frammenti databili tra la fine del XVI secolo e i primi quarant’anni del Seicento. Altro filone di interesse della raccolta riguarda il ricamo, con esempi concentrati nel periodo tardo Cinquecento – Seicento, per lo più di provenienza italiana o spagnola.

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ELISABETTA FARIOLI

Frequente, sia in grande scala su bandiere e stendardi, sia in piccolo formato su arredi e capi di abbigliamento, la presenza di ricami con emblemi araldici, stemmi e onoreficenze (ricorre spesso l’ambitissimo Toson d’Oro). Nutrita la presenza degli abiti, dove più che altrove si evidenziano manipolazioni improprie ed interventi arbitrari. Tra questi è stato di recente riconosciuto- da alcuni costumisti dell’International Globe Centre di Londra- un raro esemplare di abito seicentesco, realizzato in seta con applicazioni in pelle, composto da un giubbone di linea aderente e braghe rimborsate a mezza coscia. Già pubblicato da Janet Arnold, che nel suo volume Patterns of Fashion ne forniva con accuratezza gli schemi di taglio (Fig. 5)6, l’abito sarebbe il secondo esemplare al mondo di abito originale con questo modello. L’altro esempio oggi noto è a Stoccolma ed è il vestito dell’incoronazione di Gustavo Adolfo. Rara inoltre la sezione degli oggetti di corredo che, pur senza pretese di esaustività nella documentazione di tutte le epoche storiche, comprende materiali di indubbia rarità. In particolare il nucleo delle scarpe, oltre numerosi modelli settecenteschi, comprende rari esemplari del Cinquecento – Seicento, come la coppia di pianelle femminili in pelle bianca e marrone e gli alti zoccoli di legno intarsiati in ma-

Fig. 6 – Borsa, Francia, ultimo quarto del XVII secolo. Ricamo in oro filato, seta rosa, verde, gialla. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.

dreperla. Borse e cappelli sono per lo più databili al XVIII e XIX secolo, mentre il nucleo dei guanti presenta esemplari maschili del XVII secolo, modelli femminili del XVIII secolo e rari articoli di provenienza liturgica (Fig. 6).

NOTE 1

L’attuale conoscenza sulle vicende storiche della Galleria Parmeggiani si basa su alcune notazioni di Lionello Boccia, che si è occupato del nucleo di armi della Galleria (G. L. Boccia, Armi antiche delle raccolte civiche reggiane, Reggio Emilia 1984), e soprattutto sugli studi inediti di due storici inglesi, John Hayward e Claude Blair, a cui dobbiamo importanti ricerche documentarie sui personaggi della collezione e le intricate vicende che li hanno uniti. Giancarlo Ambrosetti, direttore della Galleria dal 1968 al 1998, ha curato l’affidamento delle ricerche e coordinato la loro evoluzione. Si veda inoltre: E. Farioli, Reggio Emilia: Galleria Anna e Luigi Parmeggiani, in Case museo e allestimenti d’epoca, Atti del convegno di studi, 2003 (ma 1996); E. Farioli, La Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia Guida alla collezione, Reggio Emilia 2002.

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2

M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi della Galleria Parmeggiani, Bologna 1994.

3

C. Santini, Gli arredi lignei, in E. Farioli, cit., 2002, p. 133.

4

Fondamentale per la ricostruzione dei rapporti tra la collezione Parmeggiani e la bottega Marcy, oltre al citato studio di Lionello Giorgio Boccia, le ricerche di sir John Hayward, Claude Blair, Marian Campbell che confluiranno in un volume di studio sulla collezione delle oreficerie. Inoltre, per la ricostruzione della vita di Parmeggiani si veda: A. Marchesini, Luigi Parmeggiani, in E. Farioli, cit., 2002, pp. 33 - 53. 5

M. Cuoghi Costantini, 1994, cit., p. 9.

6

Cfr. J. Arnold, Patterns of Fashion, Londra, 1985.


Una raccolta bolognese per la storia della tappezzeria STEFANO ZIRONI FRANCESCA GHIGGINI

La collezione museale a storia della tappezzeria è anche la storia di mode e di stili di vita dei popoli”: con queste parole, scritte in occasione della pubblicazione del volume realizzato nel 1990 in occasione delle celebrazioni per il ventennale dell’apertura del Museo Storico Didattico della Tappezzeria di Bologna, il fondatore del Museo, Cavalier Vittorio Zironi, spiegava il programma e le finalità che aveva sempre seguito nella paziente e laboriosa ricerca di reperti di tessuti da arredo, telai ed attrezzi che potessero documentare la storia della tappezzeria1. La raccolta, iniziata nel 1945 all’indomani del termine del secondo conflitto mondiale, fu aperta al pubblico nel 1966 nella prima sede del Museo, Palazzo Salina Brazzetti di via Barberia, nel centro storico di Bologna; risale al 1990 l’attuale allestimento nella prestigiosa sede di Villa Spada, un edificio di gusto neoclassico progettato all’inizio del XIX secolo dall’architetto Marinetti per il principe Clemente Spada. Gli spazi e il criterio espositivo riflettono le intenzioni del fondatore e realizzano la primaria volontà di riavvicinamento di tutta la società all’interesse del passato, come strumento per un suo inserimento nel presente, nel tessuto vivo del territorio e punto di arrivo per un rapporto cosciente e completo con l’opera d’arte. La custodia, la tutela e la didattica sono infatti le linee direttrici che contraddistinguono la collezione fin dall’inizio della raccolta e lungo le quali si muove l’esposizione dei reperti, caratteristiche ed eredità di due delle componenti fondamentali della cultura museale della fine del XIX secolo: il collezionismo estetizzante e colto unito alle teorie di William Morris e John Ruskin, secondo cui i prodotti dell’arte del passato dovevano essere messi a disposizione del pubblico per istruire e ricreare ma soprattutto essere mo-

“L

Fig. 1 – Telaio per galloni, Italia, XIV secolo. Bologna, Museo Storico Didattico della Tappezzeria.

mento di studio, riflessione e ispirazione dell’artista – artigiano. Appaiono così esposti tutti gli strumenti che permettono di capire la storia della tappezzeria e della decorazione di interni, dalla nascita del tessuto, con il grande telaio bolognese per damaschi, risalente al XVIII secolo, matrici lignee per la stampa su tela e su cuoio, tele di cotone stampato e dipinto destinati alla decorazione parie-


STEFANO ZIRONI - FRANCESCA GHIGGINI

Fig. 2 – Sedile di poltrona, Italia, fine del XVI secolo. Bologna, Museo Storico Didattico della Tappezzeria.

tale di manifattura francese e genovese, storicamente denominati “mezzari”, tele d’ arredo ricamate nel tipico punto fiamma, sedili e spalliere realizzati mediante l’antica tecnica del ricamo per applicazione, con due esemplari di manifattura italiana attribuiti alla fine del XVI secolo (Fig. 1)2, e, anche tessuti in origine creati per l’abbigliamento civile, che nel corso del XIX secolo ma anche del Novecento, furono reimpiegati per la decorazione di interni, fino ai complementi della decorazione, con borchie, embrasse, nappe e galloni, realizzati a fuselli oppure eseguiti al telaio, di cui è esposto un raro esemplare risalente al XIV secolo (Fig. 2). Fin dall’inizio della raccolta, alla base di ogni acquisizione, oltre ad un innegabile criterio estetico, è sempre stata considerata fondamentale la valenza del reperto come documento di lavoro, modello di ispirazione e conoscenza: tuttora le numerose donazioni vengono ancora accolte per intero, anche se ciò significa prendere in carico tipologie già esistenti, o che sembrerebbero estranee all’originale nucleo storico, ma alle quali è necessario assicurare un’ adeguata conservazione. Tali criteri hanno permesso che tra le collezioni del Museo sia conservata anche una raccolta di circa 300 ricami e merletti eseguiti ad ago e a fuselli attribuibili ad un periodo compreso tra il terzo quarto del Seicento all’Ottocento, parte dei quali donata al Museo dalla Fondazione Uguccione Ranieri di

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Sorbello3, oltre che l’archivio e i disegni (donazione del professore Giorgio Beneder) di Giudo Fiorini, pittore e grafico formatosi nell’ambiente di Alfonso Rubbiani e della Gilda bolognese, che idealmente completano l’archivio storico documentario di Aemilia Ars fatto pervenire al Museo dalla signora Flavia Cavazza. Ogni reperto è sottoposto ad un iter che comprende le successive fasi di studio, conservazione, restauro, condotto presso il laboratorio interno, che riceve anche prestigiosi incarichi esterni da parte di Enti pubblici e da committenti privati. La creazione di uno spazio adeguato dove le collezioni fossero adeguatamente custodite e facilmente consultabili, complementare all’esigenza primaria, didattica e divulgativa, è stata sentita come imprescindibile: sono stati così creati nei vasti ambienti di Villa Spada contenitori per immagazzinaggio e spazi per la conservazione oltre che una tessilteca, dove ogni tipologia della collezione potesse trovare il sistema di conservazione adatto alla sua natura specifica. Il nucleo più antico della collezione è rappresentato dall’insieme di 64 frammenti di tessuti copti, risalenti ad un periodo compreso tra il IV e il XII secolo e provenienti da corredi funebri e, in particolare, da tuniche decorate. I frammenti, riconoscibili in clavi, orbiculi, tabulae oppure bande di maniche e ornamenti di scollature che decoravano le tuniche usate per la vestizione e la inumazione dei de-


Fig. 3 – Frammento di tessuto figurato raffigurante l’Annunciazione della Vergine, Firenze, seconda metà del XV secolo. Bologna, Museo Storico Didattico della Tappezzeria.

funti, furono acquistati e donati al Museo dal cavalier Vittorio Zironi tra il 1962 e il 1993 mentre 16 frammenti furono donati dall’architetto Erminia Rubini nel 19934. Il sistema espositivo è anche in questo caso tale da favorire la consultazione e lo studio: l’intera collezione è infatti esposta in permanenza al terzo piano della Villa, liberamente fruibile dal pubblico e, allo stesso tempo, l’integrità del materiale è assicurata da particolari condizioni di conservazione – una lastra di vetro che è tenuta alla distanza prescritta dal tessuto in modo da permettere un’ossigenazione adeguata. Lo stesso criterio è stato seguito per permettere l’esposizione permanente di due rari tessuti figurati con scene sacre, raffiguranti l’Annunciazione (XV secolo)5 (Fig. 3) e il monogramma raggiato di San Bernardino (XVI secolo)6, entrambi attribuiti ad una manifattura tessile fiorentina. I tessuti figurati, a sviluppo orizzontale o verticale dove erano ripetute scene in prevalenza tratte dal Nuovo Testamento, furono creati per sostituire nei paramenti sacri i più elaborati, sontuosi e costosi lavori di ricamo per i quali occorreva un lungo periodo di realizzazione e l’impiego di capitali non irrisori; la critica sembra ormai concorde nell’indicare come iniziatrici di questi particolari tessuti le manifatture tessili lucchesi della seconda metà del XIV secolo, la cui produzione passò a Siena e, in seguito, a Firenze7. La presenza di questi particolari tessuti nelle collezioni pubbliche ed in quelle private è frutto di acquisti effettuati presso antiqua-

ri, già dall’Ottocento specializzati in determinati settori, che spesso scomponevano e riducevano in frammenti i paramenti sacri e, più in generale, tessuti con un piccolo modulo di disegno, per soddisfare la crescente clientela di appassionati collezionisti che, di frequente, effettuavano anche scambi tra loro oppure rimettevano nel mercato antiquario tipologie già comprese nelle loro raccolte: tali abitudini hanno reso possibile verificare ancor oggi la contemporanea presenza di identici esemplari in differenti collezioni8.

Il Laboratorio di restauro Il fondatore del Museo della Tappezzeria, Cavalier Vittorio Zironi, per storia, tradizione e cultura oltre alla ispirazione e al desiderio di allestire “una raccolta di stoffe della tappezzeria” auspicava l’allestimento di un laboratorio di restauro dei tessili che, con modalità operative e tecniche, avrebbe potuto operare e fornire collaborazioni e servizi ad enti pubblici e privati. Il Museo animato e sostenuto da passioni profonde si riconosce in Europa e acquisisce un patrimonio di tessuti sempre più in espansione con la necessità di promuovere e creare un unicum quanto a esposizione, tipologia delle raccolte e servizi annessi di biblioteca e di restauro con laboratorio modernamente attrezzato, aperto anche all’esterno con interventi extra museali.

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STEFANO ZIRONI - FRANCESCA GHIGGINI

Fig. 4 – Laboratorio di restauro durante il recupero di un arazzo della Chiesa Metropolitana di S. Pietro. Bologna, Museo Storico Didattico della Tappezzeria.

Con questo spirito ed equilibrio virtuoso nel 1989 è stato attivato un progetto divenuto operativo che nel museo odierno trova sia un aggiornato punto di riferimento per la conoscenza e l’approfondimento scientifico nel settore, che un efficiente centro di servizi dotato di strutture, arredi, apparecchiature tecnologiche in grado di svolgere le attività museali, ordinarie e straordinarie, attraverso un costante lavoro di manutenzione e restauro dei materiali, riordino, studio e incremento della collezione. Dopo le varie fasi di inizio, allora sostenute e individuate dal sostegno privato e dal consenso pubblico, il Laboratorio dal 1990 con il supporto decisivo dell’amministra-

zione locale e regionale, viene riconosciuto dalla Soprintendenza statale ai Beni Artistici e Storici di Bologna, Ferrara, Forlì, Rimini e Ravenna che in sua nota ha certificato come “Il Museo della Tappezzeria ed il suo Laboratorio di restauro costituiscono un punto di riferimento altamente qualificato e specializzato da poter essere considerato a pieno titolo una “Ditta di fiducia” della stessa Soprintendenza nel campo dei tessuti, del loro restauro e della relativa formazione professionale”. Avviatosi così l’attività di laboratorio, ad oggi numerosi sono stati gli interventi di restauro e conservazione di arazzi da XVI al XVIII secolo di manifattura europea (italiana, francese, fiamminga), di tappeti europei ed orientali, di paramenti sacri, di trine, pizzi e merletti, di reperti di interesse archeologico, di bandiere, stendardi e gonfaloni, di abiti e costumi, di passamanerie, frange e fiocchi, nonché di tappezzerie varie (damaschi, lampassi, broccati, velluti, tele bandera, broccatelli, taffetas, liserè) (Fig. 4). Attività che proseguono in complesse lavorazioni che impongono cura e professionalità consolidate, quali lo smontaggio, il restauro e la rimessa in opera di arredi tessili di straordinaria fattura provenienti da importanti palazzi pubblici e privati. Il Museo, nel suo complesso articolato di funzioni e servizi, ha avviato contatti e rapporti oltre i confini nazionali promuovendo attività museali e laboratoriali volte ad operare la conservazione delle tappezzerie affinché non venga disperso un patrimonio tessile non di rado attestato da autentici tesori, che testimonia sempre comunque il gusto e il modo del vivere dell’abitare di un tempo ormai trascorso.

NOTE 1 V. Zironi, 1990, p. 11. 2 Ricamo per applicazione, cm 53 x 57 e cm 25 x 3

5 Lampasso lanciato broccato, cm 30 x 34, n. inv. 531.

50, nn. inv. 2485, 2486.

Gli archetipi utilizzati, i disegni e i lavori realizzati dalla Scuola Romeyne Ranieri di Sorbello sono stati divisi dalla Fondazione Uguccione Ranieri di Sorbello tra il Museo Storico Didattico della Tappezzeria di Bologna e il Cooper Hewitt Museum di New York; per quel che riguarda il materiale donato al Museo bolognese, cfr. I. Silvestri, 1997, pp. 9-25. 4 F. Ghiggini, 2000,

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pp. 19-21.

6

Lampasso ad effetto broccatello con tre trame lanciate, cm 35 x 51, n. inv. 565.

7 P. Peri, 1990, pp. 3-15. 8 Per quel che riguarda il frammento con l’Annunciazione (n. inv. 531), cfr.

P. Peri, 1990, pp. 50-51, n. 10 e D. Degl’Innocenti, 2000, p. 39, n. 7; per il frammento con il monogramma bernardiniano di Cristo (n. inv. 565), cfr. P. Peri, 1990, pp. 90-92, n. 26 e D. Degl’Innocenti, 2000, p. 62, n. 30.


Vesti e arredi per la liturgia nei Musei d’Arte Sacra LORENZO LORENZINI

vocare il ruolo della chiesa rispetto al patrimonio culturale italiano sarà utile – e sufficiente – se non altro perchè la pratica consapevole della reiterazione può rafforzare concetti mai abbastanza consolidati. Una responsabilità millenaria, quella ecclesiastica, carica di luci e di ombre, in cui l’istituzione dei musei diocesani e di arte sacra sembra avere avuto negli ultimi anni risvolti particolarmente interessanti. La nascita di molti musei coincide con il Giubileo del 2000, nondimeno va rilevato che alcuni di essi hanno origini ben più lontane nel tempo differenziandosi, però, da quelli più recenti per i criteri d’impostazione. Basti pensare fra più lontani nel tempo al Museo di San Petronio a Bologna o a quello di Ravenna e fra i più recenti il Museo Abbaziale di Nonantola1. Analizzando il fenomeno della musealizzazione del patrimonio ecclesiastico non si può prescindere dal fatto inconfutabile che la sua costituzione è regolata dalla vita stessa della chiesa; ne consegue che le istanze della fede e della liturgia hanno determinato una condizione di mobilità non ancora cessata. Tuttavia, se da un lato si rivendica il diritto a non riconoscere le chiese quali musei, dall’altro è altrettanto forte l’identità artistica in esse contenuta e riconosciuta dall’intera collettività, anche nelle sue componenti non cattoliche e non praticanti. L’esigenza di salvaguardare gli edifici sacri preservandone le stratificazioni delle opere d’arte, rispettandone i delicatissimi equilibri intessuti nel secolare dialogo tra fede e artigianato, è paradossalmente un obiettivo perseguito maggiormente al di fuori della chiesa stessa. Troppo spesso, infatti, in nome di una maggiore funzionalità o dell’adeguamento liturgico, sono state apportate modifiche che non tengono in nessun conto i rapporti formali e decorativi degli edifici; e troppo spesso l’indispensabile azione di tutela esercitata

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dallo stato è stata vissuta come una vera e propria ingerenza. È innegabile, però, che a scapito di tutto ciò, di furti, incuria e alienazioni, di carenza di fondi, di finanziamenti assenti, la chiesa continua a custodire – e a gestire – una larghissima fetta dei beni culturali italiani. L’esercizio liturgico e la fede hanno determinato il rapporto fra chiesa e arte, e dunque la vita stessa di opere e suppellettili trovava compimento in questo; la funzionalità, cioè, non era slegata dal fatto artistico e nessun oggetto, anche il più delicato e prezioso, richiudeva il senso della propria esistenza su istanze esclusivamente estetiche; va de sé che la conservazione si imponeva come pratica quotidiana e non come problema. Soltanto a seguito della riforma liturgica del Concilio Vaticano II (1962) la questione si è disvelata con le proporzioni che ben conosciamo. L’accantonamento di suppellettili, lo smantellamento di altari, cori, pulpiti e balaustre si è rivelato rischioso per gli oggetti non soltanto in quel preciso momento storico ma soprattutto in seguito. Nel tempo è cresciuta in maniera esponenziale l’incomprensione verso questo patrimonio ormai privato dei significati simbolici e della sacralità che incarnava, non più sottoposto a ordinarie operazioni di manutenzione e sovente bollato come un inutile ingombro di locali da destinare ad altri usi. Tuttavia, accanto a distruzioni e dispersioni, si pone il lavoro instancabile e silenzioso di chi, forse non sempre con lungimiranza ma senza dubbio con pazienza, ha conservato, ha riposto o più semplicemente ha chiuso dentro a un armadio quanto sembrava ormai inservibile; persone che hanno saputo resistere a quell’esigenza di “nuovo” che investì l’Italia degli anni ’60 e che portò, soprattutto in provincia, i simboli del benessere fin dentro alle chiese e alle sagrestie dove, ancora oggi, troneggiano plastica, formica e piastrelle di ceramica.


LORENZO LORENZINI

Un lavoro ora valorizzato, finalmente in seno alla chiesa, dalla CEI che ha posto la sua attenzione sui Beni Culturali indicandone nuovamente il valore di strumento operativo e segno di “costante incontro tra la Chiesa e la società”. Queste le parole di Mons. Giancarlo Santi, direttore dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI, il quale continua nel documento (Relazione nel Convegno Nazionale Economi Diocesani, Igea Marina, 16-18 febbraio 2004) affermando, tra le altre cose, che “da una destinazione quasi esclusivamente liturgica si sta passando a un uso differenziato, in vista della catechesi, della evangelizzazione, del dialogo interreligioso e interculturale”. Sottolinea poi la necessità della conoscenza analitica attraverso gli inventari: “È evidente che non si può amministrare ciò che non si conosce”. Questo documento, tra gli ultimi risultati di un cammino ormai decennale, puntualizza alcuni concetti fondamentali che pongono il museo ecclesiastico quale possibile soluzione di molti problemi adducendo ragioni pienamente condivisibili. Criteri in parte espressi nella prefazione de “I Musei diocesani in Italia”2 nella quale si elencano in ordine la sicurezza, la conservazione e infine la visibilità. Se le prime due, pur rispondendo ai profondi mutamenti sociali, territoriali e climatici, non costituiscono materia di vera innovazione, nella terza ragione risiedono istanze di fondamentale importanza. I nuovi musei, infatti, mirano a illustrare secondo percorsi ragionati la storia della diocesi o dell’istituzione che li ha generati, affidandosi sempre meno al semplice accostamento di materiali le cui attitudini narrative, pur innegabili, erano però del tutto contingenti. Visibilità, dunque, come capacità di rendere esplicito nel progetto espositivo non solo il valore artistico del patrimonio ma tutta quella complessa rete di riferimenti simbolici, teologici e storici che hanno accompagnato le comunità ecclesiastiche nel loro divenire (Fig. 1). Quale sia il ruolo dei tessili all’interno dei musei d’arte sacra è questione piuttosto complessa poiché riflette in parte una situazione generale altrettanto problematica. Di base è la considerazione che la chiesa conserva un “serbatoio” di manufatti tessili imparagonabile a qualsiasi altra struttura. Quel che era “l’abito” della chiesa e dei suoi officianti, è divenuto in seguito una fonte ineludibile e inesauribile di conoscenza per gli studi del settore, senza il quale è stato e sarà impossibile ricostruire in modo fondato e capillare la storia di questo artigianato artistico. I paramenti sacri ebbero un ruolo fondamentale nella liturgia ma, rispettandone i tempi, ebbero un utilizzo assai dilazionato; assorbirono però notevoli risorse in ogni momento della propria permanenza all’interno delle do-

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tazioni liturgiche. Basti pensare che i mobili delle sagrestie erano studiati nelle dimensioni e nelle spartizioni interne per contenere paramenti secondo criteri ancora validi: ripiani e stampelle con forme tali da evitarne il piegamento, cortine e fodere per difenderli da luce e polvere. La loro dismissione li ha spesso estraniati anche da queste situazioni compromettendo così un equilibrio conservativo mantenuto spesso per secoli. Va rilevato che la conduzione delle sagrestie si è mostrata sempre impietosa rispetto a suppellettili in cattivo stato: compulsando i documenti archivistici emerge chiaramente che il rinnovamento, in particolare dei paramenti, era pratica comune anche se l’eliminazione dei pezzi più deteriorati talvolta non era definitiva e seguiva decorsi non di rado pluricentenari. Brani di tessuti o ricami particolarmente preziosi sopravvivono tuttora poiché riutilizzati in altri paramenti, mentre gli esemplari più antichi devono la loro sopravvivenza a fattori contingenti. Teli medievali sono stati consegnati alla contemporaneità perché utilizzati per avvolgere reliquie mentre casule o mitre al fatto di essere appartenute a figure particolarmente importanti. Per alcuni di questi pezzi esiste peraltro una vera propria musealizzazione all’interno degli stessi edifici di appartenenza poiché, considerati reliquie, sono sigillati entro teche che ne consentono l’ostensione. La confluenza di tali materiali all’interno di un museo è quasi naturale se l’istituzione è emanazione diretta dell’ente ecclesiastico (musei parrocchiali, del duomo ecc.) mentre lo spostamento in un museo centralizzato, come potrebbe essere un istituto diocesano, entra spesso in conflitto con le pratiche devozionali che circondano l’oggetto. Resta centrale il legame con il territorio poiché l’analisi del grande giacimento costituito dal patrimonio tessile potrebbe rivelare aspetti interessanti sui comparti produttivi. Un esempio eclatante è la città di Bologna, nota per secoli in tutta Europa per le produzioni seriche; eppure, le ampie conoscenze storiche sono quasi del tutto slegate ai manufatti poiché, nel concreto, non si conoscono con precisione le stoffe prodotte sui telai bolognesi, fatti salvi alcuni casi sporadici relativi a damaschi d’arredo (cfr. saggio di I. Silvestri in questo volume dove si citano le commissioni di parati da muro di San Luca a Bologna, del Duomo di Modena e del Comune di Modena). Per contrasto, emergono i casi di importazione, soprattutto per il Settecento e per le sete francesi che si imposero con prepotenza su tutti i mercati nazionali ed esteri. Meno problematica è la situazione dei ricami dove è più semplice abbinare ai manufatti i nomi emersi dai documenti, sebbene manchi uno studio approfondito che


Fig. 1 – Cappello con guanti del Cardinale Giulio Alberoni (1664-1752). Italia, prima metà del XVIII secolo, Taffetas di seta cremisi ricamato in oro. Piacenza, Museo del Collegio Alberoni.

tenga conto di una appropriata comparazione dei pezzi e delle scuole. A questo proposito è doveroso ricordare quella fonte di approvvigionamento tessile che furono i conventi e gli educandati femminili; luoghi in cui l’insegnamento del ricamo e delle tecniche di esecuzione di pizzi e merletti finì per assumere caratteri stilistici precisi e, in alcuni casi, pienamente riconoscibili. È il caso del Conservatorio di Santa Marta a Bologna, affiancato da non meno importanti istituti cittadini come l’Opera Pia dei Vergognosi e il Baraccano3. Tra i musei bolognesi è necessario ricordare quello di San Domenico dove si conserva un nucleo di paramenti di

straordinaria importanza per l’individuazione dei ricamatori, un solido appiglio per la ricostruzione dell’ambito cittadino. Allo stesso modo la certa provenienza romana dei paramenti della cattedrale di San Pietro, ora nel Museo, o di alcuni pezzi nel Museo di San Petronio, restituiscono un panorama di specializzazioni artigianali utili a qualsiasi considerazione legata più specificamente al territorio. Nel panorama regionale coesistono numerose realtà museali, alcune delle quali vantano una fondazione ormai secolare4. La tipologia dei materiali e i criteri espositivi sono strettamente correlati all’ente cui sono legati, ne ripercorrono le tappe fondamentali attraverso i pezzi

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LORENZO LORENZINI

più significativi e di maggiore evidenza artistica. Tra questi costituisce un caso esemplare il museo della Steccata a Parma dove è la sagrestia stessa con i monumentali armadi, aperti su richiesta, a mostrare paramenti e suppellettili allineati e conservati non secondo modalità museografiche ma secondo quelle proprie del luogo (Fig. 2). A questo museo spetta anche l’onere di consegnare al visitatore – verrebbe da dire allo spettatore – un piccolo frammento di storia della chiesa e della liturgia così come si consumava “dietro le quinte” dell’esibizione ufficiale del sacro. Su un fronte quasi opposto c’è il Museo Abbaziale di Nonantola che propone, al contrario, un ripensamento critico e aggiornato delle nuove tendenze del fare museo oggi: accanto a una selezione

dei pezzi più pregiati dell’antica abbazia, ruotano di anno in anno esposizioni tematiche costruite analizzando l’intero patrimonio della diocesi. È questa forse una delle soluzioni che sembra dare un’efficace risposta alle esigenze della musealizzazione del patrimonio ecclesiastico. Di concerto con il lavoro di schedatura della CEI, queste esposizioni (quest’anno è stata la volta dei paramenti5) sono supportate da specifici studi di settore ma non sono mai esenti da un progetto altrettanto mirato alla valorizzazione della catechesi e della storia della liturgia. In altre parole, come in passato, gli oggetti si propongono nei loro profondi significati simbolici e, in un contesto di valorizzazione estetica, condensano secoli di storia e fede.

Fig. 2 – Veste della Madonna del Rosario. Francia o Italia, intorno alla metà del XVIII secolo, Velluto riccio di seta rosa salmone ricamato in argento filato e in lamina con paillettes, canuttiglia e borchiette argentate. Parma, Santuario di Santa Maria della Steccata.

NOTE 1

La bibliografia specifica dei musei è riportata nelle schede relative alle singole istituzioni. Sarà utile ricordare il sito della CEI dedicato a questo argomento, www.amei.info, dove è possibile visionare una vasta bibliografia nonché il censimento dei musei ecclesiastici italiani.

2

Giancarlo Santi, Prefazione in I musei diocesani in Italia, supplemento n.1 a “Famiglia Cristiana”, n. 10, marzo 2004, pp. 7-11.

3 Arte e Pietà. I patrimoni culturali delle Opere Pie, cat. mostra, Bologna, 1980. 4

Tra i musei d’arte sacra configurati sulla selezione dei materiali eccellenti vale la pena ricordarne alcuni: il Museo della Collegiata di Ca-

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stel’Arquato, il Museo del Tesoro di Berceto, il Museo del Duomo di Modena e quello della Ghiara di Reggio Emilia. Il caso bolognese si presenta piuttosto ricco con svariati casi: al recente museo della cattedrale di San Pietro si affiancano musei ormai storici o di vecchia istituzione come quelli di San Petronio, San Domenico, Santo Stefano e San Francesco. Il numero dei musei diocesani esistenti (Parma, Reggio, Imola, S. Mercuriale, Forlì, Sarsina) sarà presto accresciuto da quelli in via di realizzazione (Piacenza, Carpi, Ferrara). 5

Trame di Luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, Quaderni d’Arte Sacra n.4, San Giovanni in Persiceto (BO), 2004.


I tessili della cultura ebraica VINCENZA MAUGERI

a Regione Emilia-Romagna è sicuramente uno dei territori italiani che conserva moltissime testimonianze e tracce dell’antica presenza di comunità ebraiche. La consistenza di questo patrimonio storico e artistico nei suoi vari aspetti e componenti è emersa a seguito di alcune campagne di censimento e catalogazione sistematiche condotte a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che hanno preso in esame fondi archivistici, codici miniati, manoscritti e libri a stampa, emergenze urbanistiche e architettoniche – sinagoghe, giudecche, ghetti, cimiteri – e oggetti sia di ritualità pubblica che di ritualità domestica. In particolare, il patrimonio di oggetti rituali e di arredi sinagogali risulta ancora cospicuo, sebbene l’ultimo conflitto mondiale abbia profondamente inciso nel segno delle depredazioni, delle distruzioni e della dispersione di materiale1. Partendo proprio da queste recenti indagini, che hanno portato ad una maggiore attenzione e conoscenza di questo patrimonio storico-artistico, vorremmo brevemente tracciare un percorso all’interno del territorio regionale, focalizzando nello specifico il patrimonio tessile ebraico e traendo anche qualche considerazione sull’“arte ebraica”, tema sul quale si registra ultimamente un rinnovato interesse di studi2. Degli edifici dove si riunivano in epoca medievale i gruppi ebraici che si insediavano in nuovi luoghi e città del territorio regionale per “fare sinagoga” non è rimasta alcuna traccia. Le illustrazioni dei codici miniati sono le fonti iconografiche più attendibili per ricreare un’immagine di questi ambienti, che erano sostanzialmente strutture architettoniche semplici, senza divisioni assiali, con soffitti a cassettoni, talvolta

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con qualche decoro o arricchite con drappi di stoffa lungo le pareti; gli arredi di culto, oltre ai banchi e agli armadi per i rotoli della Torah, erano costituiti essenzialmente da tessuti raffinati, tramati d’oro e d’argento, come copertura dei libri sacri, come cortine (parokot) per il decoro dell’armadio sacro (àron ha-qodesh), come rivestimenti per i rotoli (sefarim)3. Le fonti iconografiche sono poi avvalorate da una serie di documenti che confermano come tra il XV e XVI secolo gli arredi di culto, sia per la ritualità sinagogale che domestica, fossero sostanzialmente costituiti da tessuti di seta lavorata, rifiniti con alti galloni, trine e nappe. Ancora un’osservazione: gli inventari e le liste dei beni di questo periodo ci testimoniano della molteplicità e della varietà dei contatti mantenuti dai prestatori ebrei che operavano tra Bologna, Faenza, Carpi e altri luoghi della regione e di una certa loro consuetudine con tessuti e stoffe di grande qualità e particolare pregio, il cui mancato riscatto ne determinava il passaggio tra i loro beni personali e di seguito, molto probabilmente, la destinazione devozionale di alcuni di essi con il riuso e l’adattamento per la realizzazione di tende (parokot) e di paramenti per il rivestimento della Torah 4. Quanto alla confezione e alle fogge, solo più tardi Leone da Modena fornirà brevi ma preziosi accenni sull’uso dei tessuti in sinagoga, oltre che per gli oggetti più diffusi, per cui “… si tiene per conservarlo (il rotolo della Torah) fasciato con fascia di lino, o di seta, di quali procurno le donne di farne di lavorate, e ricamate più belle, che sanno, e offrirle, e con mantello di seta, che lo cuopre per bellezza…”5. Secondo la tradizione, dunque, i tessuti di destinazione sinagogale sono essenzialmente i paramenti per la


VINCENZA MAUGERI

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Fig. 1 – Manto per la Torah (Meil), fine del XVIII secolo. Modena, Comunità Ebraica.

Fig. 2 – Manto per la Torah (Meil), metà del XVIII secolo. Modena, Comunità Ebraica.

vestizione del sefer Torah: la mappah (fascia o tovaglietta), che stringe la pergamena impedendone lo srotolamento, e il meil (manto), che copre interamente il rotolo (Figg. 1–2). La sacralità del sefer Torah viene poi esaltata anche dal corredo in argento che completa e integra i paramenti tessili: la atarà (corona) che sormonta

la pergamena; i rimmonim, i due ornamenti a pinnacolo che celano le estremità delle due aste (etz haim) intorno alle quali è avvolto il rotolo; la tas (piastra o scudo), sostenuta da catenelle6. Oltre alle mappoth e ai meillim, un altro elemento originale tra i tessili sinagogali rimane il paroket (Fig. 3), la corti-


I tessili della cultura ebraica

na destinata a celare gli sportelli dell’armadio sacro che contiene i rotoli della Torah (àron), similmente alla tenda che nel Tempio di Gerusalemme copriva la porta del Santo dei Santi. Le persecuzioni e l’emarginazione secolare subite anche dalle comunità ebraiche dell’Emilia-Romagna e gli eventi dell’ultimo conflitto mondiale sono stati la causa maggiore del depauperamento del patrimonio artistico, non solo per i manufatti in argento e gli arredi lignei delle sinagoghe, ma in particolare per il settore dei tessuti: questi materiali, facilmente deperibili, sono stati frequentemente sostituiti da pezzi moderni o comunque tardo ottocenteschi provenienti da campionari ormai industriali di larga diffusione, sia per l’arredo che per l’abbigliamento. Inoltre nel passato, come ha ipotizzato Liscia Bemporad, nei momenti in cui gli ebrei si sentivano minacciati o pressati da richieste di danaro, sacrificavano le loro ricchezze e dunque probabilmente anche le stoffe: i pregiati tessuti quattro-cinquecenteschi, tramati con fili d’oro e d’argento venivano bruciati per recuperare il prezioso metallo. Questo spiegherebbe la completa assenza di paramenti sinagogali, almeno nel nostro territorio, anteriori al XVII secolo7. Il patrimonio tessile ebraico della regione Emilia-Romagna, dunque, se pur non particolarmente nutrito, si compone di pezzi interessanti per antichità e per particolari caratteristiche. Sono conservati presso le quattro Comunità Ebraiche attive della regione – Parma, Modena, Bologna, Ferrara – e nel Museo Ebraico “Fausto Levi” di Soragna, nel Museo Ebraico di Ferrara e nel Museo Ebraico di Bologna. Tuttavia la lacunosità dei dati d’archivio non ha permesso di comprendere le modalità e i tempi di costituzione del patrimonio tessile delle Comunità del territorio regionale. Il confronto fra i paramenti destinati alle chiese e i tessuti sinagogali evidenzia l’impiego di materiali comuni: la manifattura, italiana per la maggior parte dei casi, o francese, è la stessa dei prodotti tradizionali della regione. Come si è detto, è diverso l’uso che condiziona la foggia e il taglio dei paramenti ebraici. I centri di produzione e di importazione sono dunque gli stessi e si nota un predominante gusto per tessuti operati come rasi, lampassi, broccati, molto in voga dal secondo quarto del Settecento, sostituiti alla fine del secolo dai pekin e dai damaschi più semplici, in linea col gusto europeo del tessile. Si riscontra anche una interessante presenza di alcuni esempi di tessuti bizzarre, con disegni esotici ed estrosi, che proprio per la caratteristica di disegni privi di un

Fig. 3 – Tenda (Paroket), 1905. Particolare dell’iscrizione in ebraico: “Corona della Torah. Onora il Signore con i tuoi beni. Dono della Signora Rachel Melitzer nell’anno 665, secondo il computo minore [1905]”. Modena, Comunità ebraica.

chiaro riferimento naturalistico, si adattavano molto bene alla tradizione ebraica iconoclasta. In generale, per la confezione dei paramenti sinagogali va apprezzata la scelta per tessuti raffinati sia per la fattura che per il disegno dei fondi, oltre che per l’arricchimento delle passamanerie e delle frange. Tra i pezzi più interessanti e antichi vanno senz’altro segnalati un meil, conservato presso il Museo Ebraico “Fausto Levi” di Soragna, datato 1697: in raso ricamato, presenta un raffinato disegno con racemi a voluta su cui si innestano tulipani, rose, garofani, ireos, viole in sete policrome, rifinito sul fondo da una iscrizione in ebraico in oro filato, dalla quale oltre alla data di esecuzione si ricava il nome della ricamatrice e donatrice; un altro meil, della Comunità Ebraica di Parma, in raso liseré lanciato, è databile alla seconda metà del XVII secolo, con un decoro di tulipani in fiore e con gallone a fuselli in oro e argento filato8. In generale i meillìm emiliano-romagnoli presentano struttura a tutto tondo, secondo la foggia della tradizione ebraica italiana, accentuata da una imbottitura di materiale rigido nella parte superiore, dove sono lasciate le due aperture per permettere il passaggio dei due puntali degli etz haim9.

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Fig. 4 – Corone per i rotoli della Torah (Atarot). La prima corona da sinistra è confezionata con un tessuto. Soragna, Museo Ebraico “Fausto Levi”.

Fig. 5 – Tenda (Paroket) particolare del ricamo, fine del XIX secolo. Modena, Comunità Ebraica.

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Fig. 6 – Scialle per la preghiera (Talled). Collezione privata.

Il Museo Ebraico di Soragna conserva anche una singolare atarà (corona), che invece di essere tradizionalmente realizzata in argento, è confezionata con un tessuto in raso liseré broccato, di manifattura francese, databile tra 1710-1720: la stoffa presenta un disegno incompleto con architetture orientali di gusto cinese e balaustre con vasi, incorniciati da tralci fioriti di fresie10 (Fig. 4). Tra i parokot, l’esempio più interessante rimane quello tardo-ottocentesco della Comunità Ebraica di Modena, confezionato con un tessuto di raso ricamato a punto piatto in sete policrome con rami fioriti di peonie, tulipani, garofani e giunchiglie composti a “candelabro” e fuoriuscenti da un vaso di gusto rinascimentale-barocco. Si tratta di una riproposizione di motivi cinque-seicenteschi propri tanto ai tessuti per tappezzerie e ai paliotti d’altare delle chiese quanto a manufatti in tecniche diverse, come l’intaglio e la scagliola (Fig. 5). In ambito ebraico locale una simile impostazione decorativa la si ritrova sia negli intagli delle portelle dell’àron ascrivibile alla metà del XVI secolo della Scola Tedesca di Ferrara, sia nelle candelabre a stucchi neorinascimentali bianco e oro della sinagoga di Carpi11. A corredo del paroket di Modena è la tovaglia per il podio (teva), dove il sefer viene svolto e letto, confezionata con identico tessuto e ricamo.

Fa invece parte della ritualità domestica il talled, il mantello usato dagli uomini durante la preghiera: consiste tradizionalmente in un grande rettangolo di seta (Fig. 6), o di seta e lana, bianca o avorio, che ha nella fascia inferiore un disegno a bande alterne orizzontali con righe azzurre; i quattro angoli, in corrispondenza delle frange rituali (sisiyyot), sono decorati con rosoni di pizzo o con fregi ricamati. Sia al Museo Ebraico di Soragna che al Museo Ebraico di Bologna si conservano alcuni esemplari di tallid di manifattura ottocentesca, pregevoli per i ricami negli angoli ornati da fregi ovali bianchi e tralci fioriti speculari che incorniciano una palmetta o da fiori stellati. I paramenti tessili venivano confezionati ed adornati da donne ebree e comunque in laboratori specializzati di settore; il ricamo, quindi, può essere considerato una forma di creatività ebraica del tutto autonoma. Gli esecutori si basavano su modelli e su soluzioni tecniche adottate nella stessa epoca su tessuti creati per altri usi e destinazioni; ma è appurato che in questi casi non vi era mai l’intervento di artisti cristiani per la confezione e il decoro dei paramenti sinagogali. Le lunghe scritte dedicatorie, usate per arricchire gli arredi, sfruttando anche le potenzialità estetiche della grafia ebraica, tramandano quasi sempre il nome della ricamatrice che si

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VINCENZA MAUGERI

firmava con grande orgoglio per la sua abilità, paragonabile solo a quella dei miniatori nel colophon dei codici miniati. I ricchi ricami trovano poi stretti contatti con un altro genere artistico tipicamente ebraico: la decorazione delle ketuboth, cioè i contratti matrimoniali. Va ricordato che una scuola di decoratori delle grandi pergamene nuziali fiorì a Lugo tra il XVII e XVIII secolo12. Le decorazioni utilizzate dagli autori di queste particolari pergamene sembrano attingere a comuni repertori, e le volute, i decori floreali e gli ornati in alcuni casi riecheggiano nei ricami dei tessuti sinagogali. Come accade nei ricami, la fedeltà ai temi iconografici della tradizione ebraica, così come l’uso frequente dei caratteri ebraici a scopo ornamentale fanno pensare ad artisti ebrei. Lo spoglio di alcuni documenti di archivio ha permesso di individuare anche all’interno dei nuclei ebraici, notoriamente dediti a umili e marginali mestieri e alla attività feneratizia, persone e luoghi coinvolti nell’imprenditoria tessile. In Emilia-Romagna gli ebrei non solo commerciavano in prodotti serici, ma possedevano manifatture di un certo rilievo: a Reggio Emilia, nel 1547, Abram de Barochus ottenne di poter produrre stoffe di seta, d’oro e d’argento; a Ferrara già nel 1613 risultano “Capitoli dell’Arte della Seta”, rinnovati nel 1616, che riguardavano

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gli ebrei, ai quali veniva concessa titolarità di bottega e di commercio della seta, in base, tuttavia, a clausole di lavorazione e produzione non concorrenziali con gli altri detentori; sulla fine del XVIII secolo, ancora a Reggio Emilia, due tessitori, Israel di Leon Forti e Simon Vita Ottolenghi, vengono interpellati in un’inchiesta avviata dal Consiglio dell’Arte della Seta per porre rimedio alla crisi della produzione13; a Modena, le famiglie Norsa e Usiglio erano mercanti di sete e possedevano filatoi e manifatture di seta fin dal 176114. Come ha osservato la Bentini, “il contributo dato di seguito al rilancio della filatura e delle confezioni su scala urbana, non solo dimostrano l’inserimento degli ebrei all’interno di questo settore produttivo, ma anche confermano l’adeguamento della manifattura al gusto corrente, secondo una precisa legge imposta dalla necessità del mercato”15. Benchè il patrimonio tessile ebraico conservato nella nostra regione non sia particolarmente consistente, esso è tuttavia rappresentativo di come anche in questo settore l’arte cerimoniale ebraica, che nei manufatti in argento e nelle opere di ebanisteria si è espressa con suoi caratteri originali, sia pure in un rapporto di dipendenza nell’impronta stilistica e nella produzione con le tendenze contemporanee, abbia raggiunto risultati ricercati e mediati dallo spirito ebraico.


I tessili della cultura ebraica

NOTE 1

I risultati delle campagne di catalogazione condotte dall’Istituto Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna sono stati pubblicati in S. M. Bondoni, G. Busi (a cura di), Cultura ebraica in Emilia-Romagna, Rimini 1987 e in G. Busi, Edizioni ebraiche del XVI secolo nelle biblioteche dell’Emilia-Romagna, Bologna 1997. Per maggiori riferimenti sulla storia della presenza ebraica nel territorio regionale e sul patrimonio culturale ebraico si rimanda a: Arte e cultura ebraiche in Emilia-Romagna, catalogo della mostra a cura di A. Sacerdoti, F. Bonilauri, V.Maugeri, A. M. Tedeschi, Milano 1988; V. Maugeri, Oggetti rituali e arredi sinagogali della Comunità Ebraica di Reggio, in Ebrei a Reggio nell’età contemporanea tra cultura e impegno civile, “Ricerche Storiche”, XXVII, n. 73, Reggio Emilia 1994, pp. 139-151; V. Maugeri, Arredi sinagogali e arte cerimoniale ebraica in Emila-Romagna, in “Il Carrobbio”, XXIII, 1997, Bologna 1997, pp. 51-64; V. Maugeri, Il patrimonio ebraico in Emilia-Romagna, in Il Ghetto riscoperto, Bologna, recupero e rinascita di un luogo, Bologna 1996, pp.54-57; V. Maugeri, I beni storico-artistici: l’esperienza dell’Emilia-Romagna, in F.Bonilauri, V. Maugeri (a cura di), La tutela dei beni culturali ebraici in Italia, Bologna 1996, pp. 38-42; F. Bonilauri, V. Maugeri (a cura di), Museo Ebraico di Bologna. Guida ai percorsi storici, Roma 2002; Le Sinagoghe in Emilia Romagna, catalogo della mostra, a cura di F. Bonilauri, V. Maugeri, Roma 2003; V.Maugeri, Artisti e architetti per le sinagoghe dell’EmiliaRomagna, in “Il Carrobbio”, XXX, 2004, Bologna 2004, pp.97-106.

2

Tra i lavori più recenti si veda soprattutto: D. Liscia Bemporad, L’arte cerimoniale ebraica nell’epoca del ghetto, in V. Mann (a cura di), I Tal Yà. Duemila anni di arte e vita ebraica in Italia, Milano 1990, pp.101-117; L. Mortara Ottolenghi, “Figure e immagini” dal secolo XIII al secolo XIX, in “Storia d’Italia. Annali II. Gli ebrei in Italia”, Torino 1997, pp.967-1008.

3 Sull’argomento si veda: T. Metzger, M. Metzger, La vie juife au Moyen Age,

Fribourg 1982; E. M. Cohen, Miniatura ebraica in Italia, in I Tal Ya… cit., pp.87-89; L. Mortara Ottolenghi, “Figure e immagini”… cit.; V. Maugeri, Arredi sinagogali… cit. 4

Per i riferimenti ai documenti si rimanda a V. Maugeri, Arredi sinagogali…cit. Inoltre M.G.Muzzarelli, I banchieri ebrei e la città, in M.G.Muzzarelli (a cura di) Banchi ebraici a Bologna nel XV secolo, Bologna 1994, pp.89157; M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale, Bologna 1999, p. 65. 5 Leone da Modena, Historia de’ riti ebraici, 1620, rist. anastatica, Bologna 1979, p. 17. 6 Secondo la tradizione occidentale si riveste il rotolo della pergamena facendone in un certo senso la personificazione del Sommo Sacerdote; nel rito italiano, la presenza dei pinnacoli (rimmonim) e della corona

(atarà) sono una combinazione della tradizione sefardita e askhenazita. Inoltre la copertura con il manto (meil) potrebbe essere la versione in tessuto delle solide custodie orientali cilindriche, i tik, realizzate in legno o in metallo. 7

D. Liscia Bemporad, L’arte cerimoniale ebraica… cit. p.103: fuori dal territorio emiliano-romagnolo, si sono reperiti alcuni paramenti databili alla seconda metà del XVI secolo.

8 S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., pp.271-272 e 269. 9 In

particolare per i meillìm si è infatti osservata la presenza di una forma tipica legata alla tradizione italiana, diversa ad esempio da quella ashkenazita e in specie da quella dei paesi dell’est Europa: una struttura “a tutto tondo”, che può assumere una notevole ampiezza data da profonde pieghe o arricchita da una mantellina più corta, come ad esempio a Roma, o assumere una forma tronco-conica, come a Venezia, o presentare una specie di piccola e rigida calotta, come in Piemonte o a Genova: cfr. D.Liscia Bemporad, Aspetti dell’arte ebraica in Italia, in La cultura ebraica nell’editoria italiana (1995-1990), “Quaderni di libri e riviste in Italia”, 27, Roma 1992, in part. pp. 197-198; D. Di Castro (a cura di), Arte ebraica a Roma e nel Lazio, Roma 1994, in part. pp. 111-112; C. Mossetti, La schedatura dei manufatti tessili in alcune considerazioni di carattere metodologico, in Ebrei a Torino, catalogo della mostra, Torino 1984, pp. 163-164. 10

S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., p. 287.

11

S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., p. 265, p.67, p.74.

12

S.Sabar, L’età d’oro della decorazione della ketubà a Lugo, in Ebrei a Lugo. I contratti matrimoniali, Imola 1995, pp. 11-26.

13

In S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit, pp. 585-586.

14

F. Francesconi, Modena ebraica: argentieri e argenti sinagogali nei secoli XVIII e XIX, tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, A.A. 1996-97, p.59. A.Toaff ha inoltre sottolineato il fatto che a finanziare la tipografia ebraica bolognese nella prima metà del XVI secolo era un folto gruppo di imprenditori ebrei emiliani e romagnoli, che nei frontespizi e nei colophon delle opere da loro edite si autodefinivano “soci nell’arte della seta”, e che dunque erano legati al commercio e alla produzione della seta: cfr. in M. Perani (a cura di), La cultura ebraica a Bologna tra medioevo e rinascimento, Firenze 2002, p. 25.

15

J.Bentini, Artigiani e botteghe in Emilia per la committenza ebraica, in Arte e cultura ebraiche… cit.

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Corredi tessili del Nuovo Mondo nei Musei dell’Emilia-Romagna ILARIA PULINI

in dal primo impatto con il Nuovo Mondo gli Europei rimasero stupiti dalla sontuosità degli abiti delle popolazioni dell’area andina e dall’importanza che al tessuto veniva attribuita nei più diversi contesti della sfera sociale, politica e rituale. Secondo la testimonianza del cronista-soldato Francisco de Xerez, a Cajamarca, dove venne catturato l’imperatore inca Atahualpa, “c’erano case piene di abiti legati in fardelli e ammucchiati fino ai tetti” e anche dopo che “i cristiani ebbero preso quanto volevano… pareva che non fosse venuto a mancare nulla”1. Durante l’epoca coloniale l’attenzione dei conquistatori spagnoli rimase però concentrata essenzialmente al recupero di tesori in metallo prezioso ed è soltanto attorno alla seconda metà del XIX secolo, in parallelo con la nascita di un interesse archeologico per l’antico Perù, che cominciarono ad affluire in Europa i primi reperti tessili provenienti dalle necropoli della costa peruviana, dove un clima secco e un ambiente semidesertico avevano garantito per secoli la conservazione di centinaia di migliaia di tessuti di eccezionale pregio e straordinaria fattura. Risalgono a questo periodo anche i nuclei più antichi di tessili precolombiani presenti nei musei dell’Emilia-Romagna, conservati nel Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena e nei Civici Musei di Reggio Emilia. In quegli anni era andato maturando in Europa, nell’ambito dei nascenti studi di archeologia preistorica, un metodo di indagine basato sul confronto fra reperti archeologici ed etnografici che aveva portato alla formazione, accanto alle collezioni preistoriche, di numerose “raccolte di etnografia comparata”. In quest’ottica, che in Italia trova la sua più compiuta espressione nel Museo Preistorico Etno-

F

grafico di Roma fondato da Luigi Pigorini, anche il Museo Civico di Modena aveva dato avvio ad una sezione comparativa di oggetti etnografici e di archeologia extraeuropea, nella quale nel 1885 confluiscono i reperti raccolti nella necropoli precolombiana di Ancòn dai modenesi Paolo Parenti e Antonio Boccolari durante un viaggio di circumnavigazione del globo a bordo della corvetta Vettor Pisani. L’interesse suscitato da questa collezione, comprendente accanto a ceramiche e reperti anatomici oltre duecento esemplari tessili, favorì l’acquisizione nel giro di poco più di un decennio di una seconda raccolta precolombiana, altrettanto ricca di materiale tessile, ceduta al museo di Modena dal Museo Preistorico Etnografico di Roma grazie all’interessamento dell’astronomo modenese Pietro Tacchini, figura chiave di mediatore, negli anni della sua docenza a Roma, nelle varie trattative di acquisto o scambio di materiali fra il direttore del Museo di Modena, Carlo Boni, e Luigi Pigorini. È noto infatti come Pigorini fosse solito “ritagliare” dalle collezioni etnografiche del suo museo dei nuclei di oggetti da utilizzare come merce di scambio per ottenere nuovi materiali, soprattutto archeologici. La raccolta precolombiana che Tacchini acquisisce per il museo modenese faceva parte di una ben più vasta collezione che il fiorentino Ernesto Mazzei, residente a Valparaiso in Cile, aveva messo insieme viaggiando in quegli anni nell’America andina. Evidentemente la collezione Mazzei costituiva per Pigorini una risorsa a cui attingere per le sue transazioni museali, tant’è che dalla medesima raccolta deriva anche il terzo nucleo ottocentesco di tessuti precolombiani presente in regione, inizialmente ceduto da Pigorini al Museo di Parma e successivamente trasferito, assieme


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Fig. 1 – Borsa per coca. Costa settentrionale cilena. Periodo Intermedio Recente, Cultura di Arica. Alpaca. Reggio Emilia, Musei Civici.

Fig. 2 – Frammento di tessuto con raffigurazione di felino. Perù, regione costiera meridionale. Cultura Paracas, III sec. a.C., “stile lineare”. Ricamo con filati di alpaca su tela di fondo di cotone. Imola. Musei Civici.

ad altri reperti etnografici, nei Civici Musei di Reggio Emilia (Fig. 1). La conoscenza dell’arte tessile precolombiana riceve un notevole impulso negli anni venti del XX secolo a seguito di una delle più sensazionali scoperte dell’archeologia andina. Scavi condotti fra il 1925 e il 1927 avevano infatti portato alla luce nella penisola di Paracas e nelle vicine vallate della costa meridionale del Perù centinaia di sepolture databili ad un arco di tempo compreso fra gli inizi del VI e i primi decenni del II secolo a.C. I defunti delle tombe più ricche, evidentemente espressione di un’élite dominante, erano avvolti da molteplici strati di tela di cotone alternati a splendidi abiti policromi che formavano grandi involti alti anche fino a due metri. La notizia dell’eccezionale ritrovamento ebbe una vasta risonanza anche in Italia fra quanti in quegli anni si dedicavano allo studio delle antiche culture precolombiane. Fra questi era anche l’imolese Giuseppe Cita Mazzini, il quale, rientrato da poco in Italia dopo un lungo soggiorno nell’America andina dove aveva esercitato la professione medica coltivando in parallelo l’interesse per le antichità archeologiche, riesce ad ottenere dal Direttore del Museo di Lima un prezioso frammento tessile di Paracas, che donerà poi nel 1937, assieme ad altri reperti tessili e ceramici della propria collezione, al museo della sua città (Fig. 2). Nonostante le dimensioni ridotte, si possono cogliere nell’esemplare imolese molti degli aspetti che ca-

ratterizzano la tessitura Paracas: dalla tecnica utilizzata, il ricamo con fili di lana su un fondo di tela di cotone, alla decorazione nel cosiddetto “stile lineare”, nel quale figure composite di animali, in questo caso un felino, sono inserite l’una dentro l’altra come in un gioco di scatole cinesi2. La ricca policromia della decorazione è ottenuta con filati finissimi di alpaca, fibra che le popolazioni della costa importavano dalle regioni fredde dell’altopiano e che, a differenza del cotone, si prestava facilmente e con risultati eccellenti ad essere tinta nei più svariati colori. Se l’interesse suscitato dalla scoperta delle tombe Paracas favorisce l’avvio di studi sistematici sui tessili precolombiani, a partire dal fondamentale lavoro di Raoul d’Harcourt del 1934, tuttavia la consapevolezza crescente dell’esistenza di un patrimonio tessile di inestimabile valore ancora celato dalle sabbie delle necropoli costiere del Perù finirà per alimentare il commercio clandestino di esemplari di pregio, particolarmente consistente soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Risalgono a questo periodo altri due nuclei tessili precolombiani conservati nei musei dell’Emilia Romagna: la raccolta del fotografo bolognese Mario Fantìn, comprendente una trentina di tessuti acquistati dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena nel 1983, e la collezione destinata da Delfino Dinz Rialto al Museo delle Arti Primitive di Rimini, fondato per volontà dello stesso Dinz Rialto nell’ottica di documentare in chiave estetica gli influssi delle cosid-


Corredi tessili del Nuovo Mondo nei Musei dell’Emilia-Romagna

dette “arti primitive” sulle avanguardie artistiche del XX secolo3. In questo filone di collezionismo più recente si inserisce anche la raccolta Laffi-Petracchi comprendente una sessantina di frammenti tessili donati al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza nel 1999. Ad eccezione del tessuto Paracas del museo di Imola e di un numero esiguo di esemplari della raccolta Fantìn databili alla prima metà del I millennio d.C., la maggior parte dei reperti tessili conservati nei musei emiliano-romagnoli si riferisce ad una fase piuttosto tarda delle culture precolombiane del Perù, compresa fra il IX secolo e la conquista spagnola (1532). Particolarmente rilevante è la presenza di tessuti e strumenti tessili attribuibili al cosiddetto Periodo Intermedio Recente (X-XV secolo) provenienti dalla regione costiera centrale e in minor misura da quella settentrionale. Per la costa centrale, caratterizzata in questo periodo da un’omogeneità stilistica nelle produzioni artigianali, note come Chancay dal nome della valle dove risultano maggiormente documentate, non si possiedono evidenze archeologiche che inducano a ipotizzare una vasta unità territoriale e politica. Per le regioni settentrionali della costa l’esistenza di organismi a carattere statale, noti come i regni Lambayeque e Chimù, trova invece ampia conferma tanto nelle fonti storiche dell’epoca della Conquista che nelle ricerche archeologiche. Presso le popolazioni del Periodo Intermedio Recente la produzione di tessuti pregiati non era limitata esclusivamente a soddisfare la domanda delle élites locali, ma era destinata in parte anche agli scambi e ai commerci con i maggiori centri della costa, dall’Ecuador meridionale fino all’estremo sud del Perù. Testimonianza diretta dell’esistenza di scambi di tessuti ad ampio raggio è fornita dal ritrovamento di tessuti Lambayeque e Chimù nel grande centro cerimoniale di Pachacamac, plurisecolare luogo di culto della costa centrale, e in altre località costiere limitrofe fra cui la Necropoli di Ancòn (Fig. 3). Paradossalmente sono proprio i siti archeologici della costa centrale a offrire le testimonianze numericamente più consistenti di tessuti prodotti sulla costa settentrionale durante l’Intermedio Recente, dal momento che le inondazioni che hanno colpito a più riprese il nord della costa non hanno favorito la conservazione dei reperti organici e in particolare dei tessuti. Certamente la circolazione e lo scambio dei prodotti tessili favoriva anche l’assimilazione reciproca di fogge e motivi decorativi fra le diverse aree della costa, e per questo motivo, non potendo disporre a tutt’oggi di classificazioni tipologiche basate su scavi scientifici per la costa centrale, non è sempre facile sulla base di puri criteri stilistici distinguere gli esempla-

Fig. 3 – Bordo con personaggio maschile con scettro e testa trofeo (particolare). Rinvenuto nella necropoli di Ancon sulla costa centrale peruviana, ma di probabile fattura settentrionale (particolare). Periodo Intermedio Recente. Alpaca. Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.

ri di importazione da eventuali prodotti di imitazione. Studi condotti in anni recenti sui tessuti Chimù hanno tuttavia posto l’attenzione su alcune caratteristiche strutturali peculiari di questi tessuti che non risultano attestate nelle coeve produzioni della costa centrale e che pertanto costituiscono un indizio importante per l’attribuzione culturale dei reperti: dalla torsione dei filati (con una preferenza per elementi filati a S e ritorti a Z, mentre sulla costa centrale prevale la filatura in senso opposto), alla struttura delle tele (con fili di ordito doppi a un solo capo), alle finiture degli arazzi (con fenditure chiuse da cuciture e con vistose slegature di trama sul rovescio). Nel complesso le tradizioni tessili costiere dell’Intermedio Recente sono caratterizzate da una notevole omogeneità di motivi iconografici che traggono origine da una religiosità comune legata all’ambiente e alle risorse della costa. Il tema in assoluto più frequente è costituito da raffigurazioni derivate dall’ecosistema marino, di vitale importanza per la sussistenza degli abitanti di queste regioni, con la rappresentazione di pesci e uccelli acquatici (aironi, anatre, fenicotteri, pellicani), questi ultimi venerati anche in relazione alla fertilità della terra, in quanto depositavano sulle isole prospicienti la costa il guano uti-

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Fig. 4 – Bordo di perizoma con raffigurazioni di uccelli (particolare). Costa centrale peruviana, Necropoli di Ancon. Periodo Intermedio Recente, cultura Chancay. Trama di alpaca su ordito di cotone. Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.

lizzato come concime per le colture agricole (Fig. 4). Il legame fra elemento marino e terrestre è ribadito anche dal culto della luna che attraverso le maree e il cambio delle stagioni regolava la crescita dei raccolti: rappresentata con le sembianze di un animale mitico, forse una volpe, con un grande copricapo a forma di mezzaluna a simboleggiare il crescente lunare, costituisce uno dei temi maggiormente rappresentati sui tessuti Chimù (Fig. 5). Nei tessuti Chimù e Chancay i motivi decorativi, realizzati con fili di lana policroma, possono occupare l’intera superficie tessuta ma più spesso risultano limitati ad aree specifiche, quali bande o bordure, alternate a vaste porzioni di tela di cotone. Le porzioni decorate erano realizzate con una grande varietà di tecniche, dal broccato, all’arazzo, alle strutture a orditi o trame complementari, ai tessuti doppi. Se indubbiamente tecniche come il broccato e l’arazzo consentivano più di altre di creare scene anche molto complesse lasciando un’ampia libertà nella scelta degli abbinamenti cromatici, in linea di massima non sembra esistere un rapporto diretto tra la scelta di una particolare tecnica e il soggetto rappresentato, tant’è che di uno stesso tipo iconografico si conoscono versioni realizzate con strutture tessili differenti. Il totale superamento dei vincoli imposti dalla tecnica viene raggiunto nell’arte tessile dell’Intermedio Recente con la pittura su tela che affonda le proprie radici in una plurisecolare tradizione costiera le cui più antiche espressioni conosciute risalgono alla metà del II millennio a.C.. Nei tessuti dipinti, noti soprattutto da una vasta produzione di esemplari Chancay, la decorazione è ottenuta applicando pigmenti nei colori prevalenti dell’ocra, marrone, nero e azzurro su una base di tela di cotone bianco. Il disegno

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poteva essere realizzato a mano libera, con esiti di eccezionale qualità estetica rappresentati da raffigurazioni complesse con scene mitologiche, oppure a stampo (o con un utilizzo misto delle due tecniche) negli esemplari con moduli pittorici ripetitivi. Effetti di decorazione in negativo venivano ottenuti, oltre che a mano libera, anche con tecniche di tintura “con riserva di colore”, conosciute come ikat o tie-dye, documentate, assieme ad altri esemplari dipinti, da alcuni tessuti delle raccolte di Faenza. Sembra che le tele dipinte fossero prodotte essenzialmente come elementi di arredo per decorare pareti di abitazioni o di templi e non per realizzare capi di abbigliamento. Questo spiegherebbe le dimensioni del tutto eccezionali di molti esemplari, composti da più tele cucite assieme lunghe fino a trenta metri, che venivano prima assemblate e poi decorate. È molto probabile che chi dipingeva il pannello non fosse la stessa persona che aveva tessuto e assemblato la tela, ma piuttosto una figura di artista specializzato addetto a questa specifica funzione. La varietà di capi e accessori di abbigliamento conservati nelle collezioni dei musei emiliano-romagnoli fornisce una documentazione esauriente sul modo di vestire delle popolazioni Chancay e Chimù. A Modena e a Rimini sono inoltre presenti esemplari delle cosiddette “bambole Chancay” realizzate con materiale vegetale, filati e tessuti. Queste figurine, che venivano deposte come offerte funerarie all’interno delle tombe, forse come rappresentazione dell’immagine del defunto, indossano veri e propri abiti in miniatura e forniscono quindi preziose informazioni sulle fogge dell’abbigliamento in voga sulla costa centrale durante l’Intermedio Recente (Fig. 6). Prima di entrare nel dettaglio è però necessario sottolineare una caratteristica fondamentale della


Fig. 5 – Tela di cotone dipinta con rappresentazione di “animale lunare” (particolare). Stile Chimù, rinvenuta nella Necropoli di Ancon sulla costa centrale peruviana. Periodo Intermedio Recente. Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.

produzione tessile andina, e cioè l’usanza di ottenere a telaio stoffe rettangolari finite da cimose sui quattro lati4. Le dimensioni di un tessuto vengono determinate all’atto dell’orditura. Non esiste il concetto di tagliare un tessuto, dimensionarlo o sagomarlo per ottenere una determinata forma e conseguentemente tutte le tipologie di abiti o accessori di abbigliamento sono il prodotto dell’assemblaggio di due o più tessuti rettangolari con quattro cimose. Gli uomini indossavano una tunica piuttosto corta composta dall’unione di due teli piegati a metà e cuciti lungo le cimose laterali lasciando un’apertura al centro per la testa e ai due lati per le braccia. Le maniche, spesso presenti negli esemplari di questo periodo, si ottenevano cucendo ai lati della tunica, in corrispondenza delle aperture per le braccia, due pannelli di tessuto piegati a metà. Un bell’esemplare di tunica con maniche è presente a Rimini: curiosamente in questo pezzo fra il corpo centrale della tunica e le maniche, realizzati ad arazzo con ordito e trama di lana, sono presenti due pannelli di tela di cotone5. È probabile che questo assemblaggio assolutamente inusuale sia dovuto a motivi di ordine pratico, e cioè alla necessità di allargare le dimensioni previste inizialmente per l’indumento, forse in relazione ad un suo utilizzo come rivestimento di un involucro funerario.

Fig. 6 – “Bambola” maschile con due borse per coca a tracolla. Costa centrale peruviana, Necropoli di Ancon. Periodo Intermedio Recente, cultura Chancay. Indossa una tunica con aperture verticali per la testa e le braccia, un perizoma e un turbante. Costa Centrale Peruviana, Periodo Intermedio Recente, cultura Chancay. Modena. Museo Civico Archeologico Etnologico.

Alla tunica si accompagnava nell’abbigliamento maschile il perizoma6, costituito da un pannello rettangolare cucito lungo il bordo trasversale superiore ad una fascia che serviva per fissare l’indumento in vita. I perizomi della costa erano in questo periodo piuttosto abbondanti visto che la tunica normalmente non scendeva più in basso delle anche. La decorazione era di solito concentrata su due porzioni specifiche del pannello corrispondenti alle parti di tessuto visibili a indumento indossato: una rimaneva sul retro del corpo mentre l’altra passando sotto l’inguine, veniva fermata in vita dalla cintura per poi ricadere sul davanti. Dal modo in cui il perizoma veniva indossato si capisce come mai negli esemplari con decorazioni eseguite con tecniche a un solo dritto, come i broccati, la porzione destinata a ricadere sul davanti venisse tessuta sul rovescio. Un esempio di questa particolare soluzione strutturale è fornito da un perizoma, probabilmente di origine settentrionale, della collezione della Necropoli di Ancòn del Museo di Modena7. Le donne indossavano una lunga veste composta da uno o più teli dove l’ordito, differentemente dalle tuniche maschili, risulta disposto in senso orizzontale con le aperture per le braccia e per la testa ricavate lungo la cucitura che chiude l’abito nella parte superiore.

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ILARIA PULINI

Sulle spalle gli uomini indossavano un mantello e le donne uno scialle, entrambi composti da due o tre teli. Anche in questi capi si ripropone, con un evidente significato simbolico, la stessa contrapposizione fra elemento verticale e orizzontale notata in relazione alla tunica maschile e all’abito femminile: il mantello dell’uomo pendeva infatti sulla schiena con l’ordito disposto in verticale, mentre la donna si avvolgeva nello scialle tenendo l’ordito in senso orizzontale. Completavano l’abbigliamento maschile un turbante, che negli esemplari più ricchi poteva terminare con lunghe nappe che pendevano ai lati della fronte, e una borsa, indossata a tracolla, che serviva per contenere le foglie di coca utilizzate, oltre che per le proprietà stimolanti, anche come offerte nelle cerimonie e nei rituali funebri (Fig. 1). I copricapi femminili sono conosciuti attraverso gli splendidi veli Chancay, manufatti di cotone finissimo, noti anche come “garze”, dal nome della tecnica tessile con cui venivano realizzati. La maestria dei tessitori Chancay raggiunge in questi capi l’apice del virtuosismo tecnico, producendo un effetto di decoro tinta su tinta attraverso una sapiente manipolazione dei fili sul telaio (Fig. 7). Meno numerose rispetto alle produzioni dell’Intermedio Recente sono le testimonianze della successiva epoca inca nelle collezioni dei musei emiliano-romagnoli. Dalle fonti storiche sappiamo che la tessitura in questo periodo era fortemente controllata dall’autorità statale che imponeva un tributo specifico consistente nell’obbligo per le comunità di tessere ogni anno una data quantità di lana proveniente dalle greggi di proprietà statale. Esistevano anche dei laboratori specializzati per rispondere alla domanda di approvvigionamenti di tessuti per l’esercito e centri esclusivi dedicati alla produzione dei tessuti più fini per le élites. A Cuzco, la capitale del grande impero incaico, e anche nei centri periferici di maggior prestigio come il santuario di

Fig. 7 – Garza con motivo a serpenti concatenati (particolare). Costa Centrale, Periodo Intermedio Recente. Cultura Chancay. Cotone. Imola, Museo Internazionale delle Ceramiche.

Pachacamac, erano stati creati dei luoghi esclusivi, gli akklahuasi, dove vergini scelte tessevano i vestiti per il sovrano, per i membri della famiglia reale e per le cerimonie dedicate al culto solare. Ad eccezione di una borsa per coca del museo di Imola, di finissima alpaca policroma, la maggior parte degli esemplari di questo periodo nei musei emiliano-romagnoli sono manufatti ordinari, prevalentemente realizzati con filati di colore naturale, evidentemente prodotti di comunità locali della costa, segnata in questo periodo da un generale impoverimento delle produzioni tessili. L’arte tessile delle popolazioni della costa non sopravviverà ai Conquistadores, responsabili dell’annientamento di intere popolazioni e del totale sradicamento dei loro valori sociali e culturali. Lo splendore di quell’arte continuerà tuttavia a vivere nelle zone montuose dell’altopiano, dove, ancora oggi, nelle produzioni tessili delle comunità indigene vengono riproposti i simboli e le tecniche di una produzione millenaria.

NOTE 1 F. de Xerez, Verdadera relación de la conquista del Perú, in “Biblioteca

le libertà offerta dal ricamo: l’esame dei pezzi ha infatti rivelato che l’artista realizzava in primo luogo il fondo del disegno lasciando vuote le linee che definivano le figure e solo una volta ultimato il fondo procedeva a riempire gli spazi rimasti liberi.

questo telaio, utilizzato ancora oggi nell’area andina, si conoscono due varianti: “a cintura”, dove la tensione viene regolata da una fascia passata attorno alla vita del tessitore, oppure fisso, nel quale le estremità delle due barre vengono fissate a dei sostegni. Ulteriori barre di legno servivano per armare i licci e separare l’ordito mentre una sorta di spada veniva utilizzata per premere la trama ad ogni passaggio.

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de Autores Españoles”, t. XXVI, Sevilla, 1947 [1534], p. 334. 2 Nello “stile lineare” il tessitore non sfruttava interamente la potenzia-

A questa raccolta si è aggiunta in anni recenti, nel museo riminese, la collezione Canepa attualmente in corso di studio, comprendente numerosi reperti tessili.

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Il telaio nel mondo precolombiano era costituito da una strumentazione assolutamente essenziale, semplice e facilmente trasportabile, basata su due barre di legno fra le quali veniva teso l’ordito. Di

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Scheda reperto tessile di I. Pulini (schedatura a cura dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna).

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Non esistono in epoca precolombiana i pantaloni, introdotti in America meridionale con la conquista spagnola.

7 S. Desrosiers, I. Pulini, Tessuti precolombiani, Modena 1992, scheda n.

113, p. 158 e fig. 41.


La grande stagione dell’arazzo MARTA CUOGHI COSTANTINI

Un prodotto di successo el corso del Trecento prese piede una nuova, particolare forma espressiva che si collocava a mezzo fra pittura, tessitura, ricamo: si trattava dei suntuosi panni istoriati che venivano tessuti in numerosi centri delle Fiandre e del nord della Francia, a Bruxelles, a Parigi, ad Arras, da cui derivò il loro nome italiano. L’interesse per il nuovo, affascinante prodotto conobbe una diffusione rapidissima che riguardò l’Europa intera e trasformò una forma d’artigianato inizialmente circoscritta ad aree molto ristrette in una fiorente attività manifatturiera che caratterizzò l’economia di intere città. Ben presto anche in Italia non vi fu principe o signore che non possedesse una o più raccolte dei celebri panni istoriati, esibiti ed ammirati per l’intrinseca ricchezza dei materiali, per la perfezione dell’esecuzione, la varietà e la bellezza dei colori e delle raffigurazioni. Animati dal desiderio di adornare le proprie dimore con opere che tematicamente si correlassero ai cicli pittorici o che avessero il carattere encomiastico che conveniva alle grandi famiglie, molti di essi non si limitarono ad attingere al repertorio disponibile sui mercati, ma commissionarono manufatti specifici, quando addirittura non tentarono di avviare arazzerie in loco avvalendosi della collaborazione di maestranze straniere. Manufatti di carattere eccezionale alla cui realizzazione concorrevano artisti famosi oltre che artigiani altamente specializzati, ma al contempo opere seriali, riproducibili in quante copie se ne volessero, gli arazzi furono importanti veicoli di mode che svolsero una vera e propria funzione di mediazione tra culture figurative diverse, in particolare fra quella fiamminga ed italiana. L’interesse per i costosi manufatti si protrasse lungamente, per diversi secoli, fino a quando

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nell’Ottocento avanzato le tappezzerie tessute non furono soppiantate dalla carta da parati, un surrogato molto meno accattivante e prestigioso ma certamente più economico e quindi più adatto alle esigenze abitative della emergente società borghese. Le ragioni di un successo così lungamente diffuso e così ampiamente condiviso furono ovviamente molteplici. Essi rappresentavano innanzitutto un’efficace protezione contro il freddo prestandosi per di più alla decorazione di ogni tipo di ambiente: al rivestimento di mobili e lettighe, carrozze e imbarcazioni, saloni, studi, camere da letto, sulle cui pareti dispiegavano una straordinaria varietà di colori e raffigurazioni: storie sacre ed episodi di vita cortese, scene di caccia e temi mitologici, imprese e motti araldici. Rispetto alle più consuete pitture ad affresco offrivano poi il vantaggio di poter essere spostati agevolmente, adattati con facilità per il ricevimento di ospiti illustri, per l’allestimento di feste, spettacoli e banchetti potendo seguire per di più il proprietario nei suoi frequenti trasferimenti di dimora, in viaggio e persino in guerra. Oggetto privilegiato di un collezionismo colto e raffinato, gli arazzi divennero per i loro costi altissimi emblemi di status e di prestigio sociale alimentando un fenomeno di vero e proprio collezionismo che comportò l’investimento di enormi somme di danaro. Con i suoi numerosi e fiorenti centri urbani e le sue corti, l’area dell’attuale Emilia-Romagna si segnala per la circolazione di un imponente patrimonio di tappezzerie. Gli studi dedicati agli episodi collezionistici più rilevanti del nostro territorio – da quelli pionieristici di Giuseppe Campori sugli arazzi estensi, ai successivi approfondimenti di Nello Forti Grazzini, sino alle recenti ricerche in territorio parmense – hanno chiarito aspetti cruciali del-


MARTA CUOGHI COSTANTINI

le intricate vicende legate alla circolazione di questi beni con attenzione anche a quella cospicua parte di opere andata perduta ma attestata da altre fonti documentarie. Ne è emerso un quadro di estremo interesse che pone in evidenza le figure dei committenti, fra i quali ovviamente primeggiano gli Este e i Farnese, la complessa geografia del contesto produttivo e della rete commerciale, il ruolo degli artisti incaricati di elaborare i cartoni, il cui tema era sovente indicato da dotti letterati, il lavoro interpretativo degli arazzieri che non sempre si svolgeva in sintonia con quello dei progettisti. In relazione a tutti questi aspetti assumono ovviamente grande importanza i nuclei documentari che ancora oggi si conservano nel territorio della nostra regione. Sopravvissuti alle dispersioni e alle gravissime perdite subite nel corso del tempo da questo patrimonio di oggetti, per loro intrinseca natura estremamente fragili e deperibilissimi, essi documentano episodi emergenti della storia dell’arazzeria italiana ed europea dando concreta evidenza al complesso mondo di relazioni, rapporti, scambi che rese possibile la realizzazione di veri e propri capolavori tessuti1.

Erudite raffigurazioni alla corte estense Parlando di arazzi in Emilia-Romagna l’episodio più significativo si colloca a Ferrara, dove nella seconda metà del XV secolo venne avviato un laboratorio per la tessitura di tappezzerie, l’unico in regione che sviluppò poi le caratteristiche di una vera e propria arazzeria. Alla base di questa impresa vi fu la passione degli Este per la cultura nordica in generale ed in particolare per le suntuose raffigurazioni tessute negli atelier francesi e fiamminghi. Veri e propri cultori di quest’arte, i signori di Ferrara perseguirono una politica sistematica di commissioni ed acquisti finalizzata all’arredo del castello e dei palazzi cittadini e successivamente anche delle sedi suburbane delle ‘delizie’2. Già a partire dagli anni Quaranta del XV secolo è documentata la presenza in città di arazzieri nordici addetti alla manutenzione dei ricchi corredi ducali, agli acquisti e, qualche decennio più tardi, all’esecuzione di nuove opere. Sono fra questi Rinaldo Boteram di Bruxelles, l’intraprendente ed abile commerciante che provvide alle grandiose forniture di Borso d’Este, e Rubino o Rubinetto di Francia, cui si deve l’esecuzione di uno dei più antichi e suggestivi arazzi ferraresi, il Compianto sul Cristo morto del Museo Thyssen-Bornemisza di Lugano, tessuto su cartoni di Cosmè Tura fra il 1474 e il 14753. Tuttavia, sarà solo nel terzo decennio del Cinquecento, ovvero durante il ducato di Ercole II, che il laboratorio locale, dove già

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Fig. 1 – Maurelio incorona il fratello, dalla serie delle Storie di San Giorgio e San Maurelio. Ferrara, Giovanni Karcher su cartoni del Garofalo e Luca di Fiandra, 1551-1553. Ferrara, Museo della Cattedrale.

operavano i brussellesi Giovanni e Nicola Karcher, acquisterà le dimensioni e la struttura di una vera e propria arazzeria con la venuta a Ferrara di Giovanni Rost, noto per i capolavori che di lì a poco avrebbe siglato nei laboratori medicei di Firenze. A questi artigiani, affiancati da numerosi garzoni ed operai, si deve l’esecuzione delle serie di arazzi più preziose ed ammirate del repertorio estense: le Metamorfosi, le Deità d’Ercole, le Città, le Aquile Bianche, le Pergoline ai cui cartoni avevano lavorato artisti di comprovata abilità come Dosso e Battista Dossi, Girolamo da Carpi, il Bastianino4. Purtroppo di questa fervida attività che fra varie traversie si protrasse per buona parte del Cinquecento si è conservato molto poco. Sulla base delle rare testimonianze pervenute emergono ciononostante i caratteri distintivi dell’arazzeria ferrarese: l’eccellenza dei materiali e della tessitura, l’originalità dei soggetti, ispirati sovente alla storia antica e alla mitologia, ovvero a filoni che ben si prestavano alla celebrazione e all’elogio dinastico, l’interpretazione fedele dei modelli pittorici. In questo Ferrara anticipa una peculiarità che sarà comune a tutta la produzione italiana, connotata sin dall’origine da un legame di stretta dipendenza dalla pittura e dalle sue regole di rappresentazione. La bottega ferrarese non ebbe gli sviluppi dell’arazzeria medicea di Firenze, né tanto meno quelli delle manifat-


La grande stagione dell’arazzo

ture fiamminghe, la cui attività, organizzata come una vera e propria industria, era rivolta a un mercato internazionale; superò tuttavia le dimensioni del laboratorio di corte realizzando alcuni importanti cicli per committenti esterni. Pare vi facessero ricorso personaggi di spicco, come ad esempio il cardinale Ercole Gonzaga; ad essa certamente si rivolse il capitolo della Cattedrale di Ferrara allorché nell’ottobre del 1550 commissionò a Giovanni Karcher, divenuto l’unico responsabile del laboratorio, otto panni con le Storie di San Giorgio e San Maurelio (Fig. 1) che servivano per essere appesi fra le colonne della navata centrale, in occasione delle festività solenni. Contrassegnati nel bordo inferiore dalla marca dell’arazziere e dalla data di esecuzione, circoscrivibile fra 1551 e 1553, questi panni rivestono una importanza particolare poiché sono le uniche opere ferraresi che ancora si conservano in loco5. L’interesse degli Este per le tappezzerie ad arazzo non cessò quando Ferrara e il suo territorio vennero ceduti alla Chiesa e la capitale trasferita a Modena. Se possibile accrebbe, alimentato dalla necessità di arredare e rendere confortevole le nuove dimore ducali, il palazzo cittadino sorto sul presistente castello nonché la grande residenza estiva di Sassuolo voluta da Francesco I. Gli inventari della guardaroba ducale redatti nel corso del Sei e del Settecento danno conto delle notevolissime presenze, ma anche dei nuovi acquisti, dei periodici interventi di manutenzione, dei frequenti doni6. Sono da ricordare fra questi i sei arazzi delle Nuove Indie che Maria Beatrice d’Este e il consorte Ferdinando d’Austria ebbero in dono da Luigi XVI in occasione del viaggio a Parigi nel 1786. Fra le poche opere sopravvissute alla pressoché totale dispersione del patrimonio estense, attualmente questi arazzi sono conservati a Roma al Quirinale. Si tratta di sei magnifici esemplari tessuti a Parigi fra il 1773 e il 1785 nella manifattura reale dei Gobelins. Gli originalissimi motivi che li decorano ebbero origine da disegni eseguiti a scopo documentario durante una spedizione in Brasile effettuata nella prima metà del XVII secolo. L’edizione settecentesca di questo tema si basa sulle copie liberamente elaborate da Alexandre François Desportes, arricchite da elementi di fantasia che enfatizzano l’effetto decorativo delle raffigurazioni prive oramai del valore documentario dei modelli anche se descritte con straordinario verismo7.

Capolavori tessuti nel ducato di Parma e Piacenza Gli studi condotti in occasione della bella ed importante mostra presentata a Colorno nel 1998 hanno delineato

con chiarezza ed evidenza documentaria le principali vicende riguardanti il collezionismo di arazzi nel ducato parmense la cui storia prese avvio nel XVI secolo con l’arrivo a Parma dei Farnese e proseguì poi nel Settecento con l’insediamento dei Borbone8. Contrariamente alle principali dinastie italiane - Este, Gonzaga, Medici -, i Farnese non tentarono di avviare in loco laboratori di tessitura ma inviarono le loro commissioni ed effettuarono i loro acquisti direttamente a Bruxelles, presso i migliori artigiani allora operanti, favoriti in questo dai rapporti privilegiati che molti esponenti della famiglia intrattennero con i Paesi Bassi. Dall’esame dei documenti - inventari, elenchi, pagamenti – risulta che furono svariati i membri della famiglia che possedettero tappezzerie, da Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, al figlio Pier Luigi Farnese, da Ottavio a Ranuccio. Tuttavia, la figura che maggiormente contribuì alla formazione della eccezionale raccolta farnesiana, non solo per l’entità ma anche e soprattutto per la qualità dei suoi acquisti, fu Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V nonché nipote di un arazziere fiammingo, che nel 1538 andò sposa ad Ottavio Farnese. Gli acquisti più significativi vennero effettuati dal 1559 al 1567, negli anni che lei trascorse nelle Fiandre in qualità di governatrice. Risale a questo periodo anche l’acquisizione dei due arazzi raffiguranti Perseo alla corte di Atlante e la Festa delle Driadi, oggi conservati al Quirinale, fra i pochi panni sopravvissuti agli smembramenti e alle dispersioni che interessarono l’imponente patrimonio farnesiano e che da soli basterebbero ad attestarne l’eccezionale qualità9. Eseguite dai migliori artigiani europei, spesso sui cartoni di pittori specializzati in questo genere, le preziose tappezzerie istoriate godettero di grande considerazione presso i duchi di Parma e Piacenza. Oltre ad arredare gli appartamenti ducali e quelli degli ospiti, in occasioni particolari essi venivano esposti pubblicamente a testimoniare la ricchezza e la magnificenza dei proprietari. Rimane memoria di questi momenti solenni in alcune acqueforti eseguite da Francesco Domenico Maria Francia per illustrare le nozze di Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna celebrate nel duomo di Parma nel 1717. Sulla caratteristica facciata della chiesa, intercalati ai doppi ordini di trifore e quadrifore, all’interno degli arconi di accesso alle cappelle gentilizie, nel presbiterio sovrapposti ai rivestimenti parietali in damasco cremisi, fanno bella mostra numerosi arazzi facenti parte di serie famose – le Storie di Noè, le Storie di Giulio Cesare, la Galleria -, già appartenute a Margherita di Parma10.

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Fig. 2 – Corteo regale di nozze, dalla serie della Storia di Troia (detta di Priamo). Bruxelles, manifattura di Pieter van Aelst o Pieter de Pannemaker su cartoni di Jean van Roome, 1520-1530. Piacenza, Collegio Alberoni.

Gli acquisti ducali furono numerosi e sempre di elevato livello anche in epoca borbonica allorché l’arrivo a Parma nel 1749 di Filippo di Borbone e di Luisa Elisabetta rese necessaria la risistemazione dei palazzi cittadini e delle sedi di Sala e di Colorno. La maggior parte di essi venne effettuata in Francia, divenuta paese leader anche in questo settore dell’artigianato artistico, e riguardarono alcune fra le opere più rappresentative del XVIII secolo. Tale è la serie delle Portiere degli Dei, tessuta a Parigi nella manifattura reale dei Gobelins da Etienne Claude Le Blond e Pierre-François Cozette su cartoni di Claude III Audran, acquistata da Filippo di Borbone nel 1749: uno dei prodotti più richiesti della manifattura reale parigina, replicato innumerevoli volte nel corso del secolo. Opere di carattere eccezionale sono anche la serie delle Storie di Psiche e degli Amori degli Dei pervenute a Parma rispettivamente nel 1750 e nel 1751. Tessute nella manifattura reale di Beauvais sotto la direzione del celebre Jean Baptiste Oudry, esse rappresentano forse la massima espressione del gusto rococo nell’ambito dell’arazzeria traducendo con grande finezza espressiva e luministica i modelli sensuali e festosi di François Boucher. A seguito dell’annessione dei territori di Parma e Piacenza al Regno d’Italia, i palazzi ducali furono spogliati dei loro beni a favore delle residenze sabaude. Seguendo la

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sorte toccata ad altre tipologie di arredi, la preziosa collezione, ricca di diverse centinaia di esemplari, fu smembrata e trasferita nelle nuove capitali, Torino, Firenze e infine Roma. Gli spostamenti, le donazioni, le alienazioni contribuirono purtroppo alla dispersione del patrimonio che solo parzialmente raggiunse Roma dove ancora oggi i pezzi sopravvissuti costituiscono motivo di vanto delle collezioni del Palazzo del Quirinale11.

La collezione di un cardinale Il matrimonio fra Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna, per il quale nel 1717 furono esibiti pubblicamente gli arazzi di famiglia, fu possibile grazie alla sapiente attività diplomatica svolta da un prelato piacentino, il cardinale Giulio Alberoni, che proprio in virtù di questo successo ottenne la nomina di primo ministro del re di Spagna. Abile in politica e negli affari, l’Alberoni coltivò un’autentica passione per l’arte che lo spinse ad acquistare dipinti, stampe, oreficerie, suppellettili di vario genere. Facevano parte della sua prestigiosa collezione anche numerose tappezzerie istoriate, ricercati elementi d’arredo del suo palazzo romano e successivamente delle sedi di Ravenna e di Bologna dove soggiornò come legato pontificio. Lasciati in eredità, unitamente a numerosi altri beni, al Collegio per l’istruzione di giovani ecclesiasti-


La grande stagione dell’arazzo

Fig. 3 – Banchetto nuziale, dalla serie della Storia di Troia. Bruxelles, manifattura di Pieter van Aelst o Pieter de Pannemaker da cartoni di Jean van Roome, 1520-1530. Piacenza, Collegio Alberoni.

ci sorto per sua volontà alle porte di Piacenza, essi costituiscono la raccolta più cospicua e significativa presente oggi in Emilia-Romagna12. Colto e raffinato conoscitore della cultura e dell’arte del suo tempo, in tema di arazzi il cardinale prediligeva la produzione antica. Dei diciotto pezzi conservati presso il collegio piacentino, nessuno è contemporaneo. Anzi, fra essi si segnalano per rarità due tappezzerie fiamminghe dei primi decenni del Cinquecento raffiguranti le Nozze di Priamo ed Ecuba. In entrambe le opere gli eventi rappresentati – il Corteo (Fig. 2), ed il Banchetto nuziale (Fig. 3) – sono scanditi in varie scene unificate da eleganti motivi architettonici, lo spazio è gremito da figure sontuosamente abbigliate secondo il gusto rinascimentale, la linea dell’orizzonte è delineata in prossimità del margine superiore. Figure, architetture, paesaggi sono definiti con attenzione lenticolare, peculiarità che unitamente al prato fiorito in primo piano, al paesaggio turrito dello sfondo, Fig. 4 – Corteo regale, particolare.

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Fig. 5 – Alessandro in una foresta uccide un leone, dalla serie di Alessandro Magno. Bruxelles, arazziere ignoto, su cartoni di Jacob Jordaens (Anversa 1593-1678). Piacenza, Collegio Alberoni.

to come piazza commerciale poiché vi si tenevano esposizioni permanenti di arazzi e vi si commerciavano i modelli, questa città fu anche un rilevante centro manifatturiero dove operavano numerosi laboratori in concorrenza con quelli di Bruxelles. Particolarmente celebre fu la manifattura dei fratelli Wauters alla cui attività è riconducibile anche la serie alberoniana con le tragiche vicende di Enea e Didone i cui cartoni furono elaborati dal viterbese Giovan Francesco Romanelli, a dimostrare una continuità di rapporti di scambio non solo dalle Fiandre all’Italia, ma anche viceversa dall’Italia alle Fiandre14.

Il collezionismo nelle corti minori: Correggio e Novellara

alle belle bordure con rose, pampini e grappoli d’uva, furono peculiari della cultura fiamminga. La finezza della tessitura e dei materiali impiegati (Fig. 4) – la lana, la seta, i filati metallici - denotano una manifattura di alto livello, certamente brussellese, forse quella di Pieter van Aelst, l’arazziere che eseguì la celeberrima serie degli Atti degli Apostoli per il papa Leone X su cartoni di Raffaello, opera che segnò profondamente il corso dell’arazzeria fiamminga. Non è da escludere tuttavia che le tappezzerie siano state eseguite da Pieter Pannemaker, al cui nome potrebbe alludere la lettera ‘P’ tessuta su armi e vesti nell’arazzo del Corteo13. Non si hanno notizie certe sul modo in cui il cardinale Alberoni entrò in possesso dei due preziosi arazzi, forse un dono dei sovrani di Spagna come segno di riconoscimento per i suoi servizi. La loro presenza è comunque indicativa dei gusti dell’alto prelato picentino, decisamente orientati verso l’antico. Anche i restanti pezzi della sua raccolta infatti non sono del suo tempo. Gli otto panni raffiguranti le Storie di Alessandro Magno (Fig. 5) risalgono alla seconda metà del XVII secolo. L’arazziere che li realizzò, operante certamente a Bruxelles ma non ancora individuato, si avvalse dei cartoni ideati fra il 1630 e il 1635 da Jacob Jordaens, ispirati alla narrazione del De rebus gestis Alexandri Magni di Curzio Rufo. Gli otto panni con le Storie di Enea e Didone (Fig. 6) furono invece tessuti intorno al 1670 ad Anversa. Nota soprattut-

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Seguendo le orme delle grandi famiglie, anche i signori dei piccoli centri padani coltivarono forme di mecenatismo artistico ospitando presso le loro corti poeti e letterati e commissionando arredi, opere pittoriche, cicli di arazzi per dare alle loro dimore quel carattere di sfarzo che conveniva all’importante ruolo politico e sociale ricoperto dai proprietari. Qualcuno tentò anche di avviare laboratori in loco come a Correggio dove nel XV seco-

Fig. 6 – Enea e Didone sorpresi da una tempesta si rifugiano in una grotta, dalla serie di Enea e Didone. Anversa, manifattura di Michel Wauters, su cartoni di Giovan Francesco Romanelli, 1670 ca. Piacenza, Collegio Alberoni.


La grande stagione dell’arazzo

lo lavorava l’arazziere fiammingo Rainaldo Duro. Da una serie di rogiti conservati nell’archivio notarile apprendiamo che questo artigiano, nell’arco di anni che va dal 1470 al 1498, si avvaleva della collaborazione di un ricamatore, tale Conto della Zinella da Trento, e di due disegnatori, Enrico da Lodi e Bartolomeo da Milano, e che i principali committenti erano ovviamente i da Correggio, signori della città, in particolare Nicolò e la moglie Cassandra15. Questa attività, protrattasi pare non oltre gli inizi del Cinquecento, non ha tuttavia alcuna relazione con il bel nucleo di tappezzerie che a tutt’oggi si conserva nella cittadina reggiana. Esso è composto da nove esemplari appartenenti a tre diverse serie, raffiguranti vedute di parchi e giardini, scene di caccia (Fig. 7) e feste campestri, cui si aggiungono frammenti di bordure che nel loro insieme costituiscono quanto resta dei ventiquattro panni che nel 1606, secondo quanto emerge da un inventario degli arredi compilato in quella data, ornavano le pareti del Palazzo dei Principi. È assai probabile, anche se non supportato da alcuna attestazione documentaria, che gli arazzi fossero stati acquistati proprio a questo scopo dal conte Camillo da Correggio che governò il piccolo stato padano fino al 1605 e al quale non mancarono certamente gli esempi presso le vicine corti degli Este e dei Gonzaga16. Malgrado siano stati tutti privati delle bordure in occasione di un riadattamento effettuato nel tardo Settecento, e conseguentemente siano andate perdute le eventuali marche della città di produzione e i monogrammi degli arazzieri, il raffronto con esemplari affini ha consentito di approssimare la datazione dei panni all’ultimo quindicennio del XVI secolo e di riconoscervi l’opera dell’arazziere brussellese Cornelius Mattens. Fulcro della vita culturale ed economica delle Fiandre, a Bruxelles avevano bottega gli artigiani

Fig. 7 – Caccia all’orso, dalla serie delle Cacce. Bruxelles, manifattura di Cornelius Mattens (attivo fra 1580 e 1649), fine del XVI inizi del XVII secolo. Correggio, Museo Civico “Il Correggio”.

Fig. 8 – Giardino con Cefalo e Procri, dalla serie dei Giardini. Bruxelles, manifattura di Cornelius Mattens (attivo tra 1580 e 1640), fine del XVI inizi del XVII secolo. Correggio, Museo Civico “Il Correggio”.

più qualificati d’Europa; tuttavia vi si producevano anche opere di carattere commerciale che grazie ai costi contenuti e al carattere generico del repertorio figurativo godevano di un’ampia diffusione come le verdure, i millefiori, le cacce, sovente personalizzate da insegne e motti araldici. Gli arazzi di Correggio bene si inseriscono in questo filone anche se il riconoscimento nell’iconografia della serie dei Giardini (Fig. 8) di episodi mitologici ispirati alle Metamorfosi di Ovidio ci permette di qualificarli non solo come meri rivestimenti parietali ma anche per la loro funzione rappresentativa, ovvero come immagini allusive alla vita del signore e all’armonia del suo governo. Gli arazzi furono tenuti in grande considerazione anche dai signori della vicina città di Novellara, retta da un ramo secondario dei Gonzaga. L’Inventario dei beni mobili nella Rocca redatto nel 1727, alla morte del conte Camillo III, ne menziona oltre un centinaio, un numero veramente

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Fig. 9 – Giasone e Medea. Firenze, manifattura di Giovanni Rost, su cartoni di Giovanni Stradano, 1554. Novellara, Museo Gonzaga.

Fig. 10 – Giasone e Medea, particolare.

elevato per una piccola corte come la sua. Purtroppo le tappezzerie seguirono la sorte degli altri beni mobili, venduti all’incanto nel 1797, all’epoca dell’occupazione napoleonica. Un tempestivo quanto fortunato acquisto effettuato dal Comune di Novellara nel 2003, in occasione dell’asta della collezione Necchi Campiglio, ha consentito di recuperare e ricollocare nella sua sede originaria un’importante testimonianza del collezionismo locale: un prezioso arazzo recante l’arme dei Gonzaga unitamente alla scritta “Alphonsus Gonzaga Novellariae Comes 1554” che non lascia dubbi sull’appartenenza e la committenza dell’opera (Figg. 9–10)17. Tessuto in lana e seta su ordito di lino, l’antica tappezzeria presenta una scena di sbarco incorniciata da un’ampia e ricca bordura. Esso faceva certamente parte di una sequenza composta di più episodi e forse costituisce quanto resta della serie con la ‘favola di Giasone’ ricordata nell’ Inventario del 1727, fra le poche contrassegnate dalla presenza dello stemma comitale. Stando così le cose, il gruppo di uomini in abiti classici che osserva l’arrivo di un vascello si riferisce ad un momento dell’avventuroso viaggio degli Argonauti, verosimilmente dopo la conquista del vello d’oro. La scelta di questo tema iconografico non fu certamente casuale. Legando il proprio nome a quello leggendario di Giasone, Alfonso I volle celebrare un evento di rilievo, forse la

costruzione del Casino di Sotto o forse, più verosimilmente, il suo insediamento alla guida del feudo dopo la reggenza della madre, Costanza da Correggio. Artefice, con la collaborazione di Lelio Orsi, del riassetto e dell’abbellimento di Novellara, Alfonso I fu un appassionato collezionista di opere d’arte. A giudicare dalla qualità del recente ritrovamento ebbe gusti raffinati anche in materia di arredi tessili. L’arazzo che porta il suo nome replica le originali bordure ideate dal Bronzino per la celebre serie con le Storie di Giuseppe, tessuta tra il 1545 e il 1553 a Firenze da Giovanni Rost per la sala dei Duecento in Palazzo Vecchio. Analoghi sono i festoni vegetali con frutta posti a raccordo della cornice architettonica, analoghi i motivi delle teste di ariete e dei mascheroni che contrassegnano la base e la sommità delle colonne. La provenienza fiorentina dell’arazzo, ed in particolare l’intervento di Giovanni Rost unitamente alla data 1554, trova conferma in due lettere datate precisamente 5 maggio e 17 agosto di quell’anno riguardanti pagamenti effettuati all’arazziere fiammingo per conto di Alfonso Gonzaga18. La semplificazione dei motivi iconografici che caratterizza l’esemplare di Novellara suggerisce l’intervento di un diverso cartonista, forse identificabile in Giovanni Stradano, un pittore di origine fiamminga che lavorò lungamente a Firen-


La grande stagione dell’arazzo

ze operando nelle proprie creazioni una sintesi fra la maniera italiana e la tradizione nordica19.

Una collezione civica: il ciclo di Semiramide a Rimini Sono poche in ambito regionale le istituzioni civiche che possiedono collezioni d’arazzi. Fra queste vi è il Museo della città di Rimini che sin dalla sua apertura nel 1990 riservò un’ampia sala all’esposizione di una serie di arazzi seicenteschi raffiguranti le Storie di Semiramide20. Realizzate con una ricca e brillante cromia, le maestose raffigurazioni illustrano i momenti salienti dell’avventurosa vita di Semiramide, la leggendaria regina degli Assiri fondatrice della città di Babilonia, famosa per la bellezza ma soprattutto per l’intelligenza ed il coraggio. Animate da personaggi abbigliati all’antica, le maestose scene riguardano sia episodi legati al ruolo pubblico della regina, le sue origini, la richiesta del re assiro Nino di averla in sposa, la sua salita al trono dopo la morte del marito, la fondazione della grandiosa città di Babilonia, la costruzione di strade per facilitare il cammino dell’esercito (Fig. 11), sia momenti della sua vita privata o aspetti del suo carattere come la toeletta o la caccia. In ogni caso le scene sono racchiuse da elaborate bordure composte da foglie d’acanto, mazzi fioriti, pietre dure incastonate in cornici riccamente intagliate che recano al centro del lato superiore una sorta di

Fig. 12 – La toeletta di Semiramide, dalla serie delle Storie di Semiramide. Anversa, manifattura di Michel Wauters, su cartoni di Giovan Francesco Romanelli, 1660 ca. Rimini, Museo della Città.

Fig. 11 – Expugnatio castri, dalla serie delle Storie di Semiramide. Anversa, manifattura di Michel Wauters, su cartoni di Abraham van Diepenbeeck, 1660 ca. Rimini, Museo della Città.

titolo della raffigurazione entro ricercati cartigli. La ricchezza barocca di queste bordure richiama un modello che trovò largo impiego nel corso del Seicento presso una delle più famose ed affermate manifatture di Anversa, quella dei fratelli Wauters. L’individuazione del monogramma dell’arazziere tessuto sulla cimossa dell’arazzo che apre la serie, la Presentatio Semiramide, una M ed una W sovrapposte, indubbio contrassegno di Michel Wauters, non lascia dubbi sul nome del tessitore. Sulla base di un inventario del 1679 sappiamo anche che questi si avvalse dei cartoni elaborati da un pittore fiammingo specializzato nella progettazione di vetrate ed arazzi, Abraham van Diepenbeeck21. Fanno eccezione i due arazzi raffiguranti La toeletta di Semiramide e Semiramide a caccia che si differenziano dagli altri non solo per le misure ed il formato ma anche per la diversa interpretazione delle figure. In particolare la magniloquenza dei personaggi e la ricchezza del trattamento luministico che caratterizzano la scena con la toeletta (Fig. 12) inducono ad ipotizzare l’intervento di un diverso cartonista, dell’italiano Giovan Francesco Romanelli22. L’artista viterbese non era nuovo a questo tipo di mestiere avendo elaborato i progetti per importanti paramenti realizzati a Roma, nell’arazzeria Barberini; suoi sono anche i bozzetti per la serie di arazzi con le Storie di Enea e Didone appartenuta al Cardinale Alberoni ed ora a Pia-

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Fig. 13 – Costruzione dell’arca, dalla serie con Storie della Genesi. Bruxelles, manifattura del Maestro della Marca Geometrica, 1560-1570 ca. Modena, Museo del Tesoro del Duomo.

cenza nell’omonimo Collegio, anch’essa tessuta ad Anversa nella bottega dei Wauters. La presenza nella serie riminese di un esemplare che potrebbe avere progettista e tessitore in comune con la serie piacentina induce ad una suggestiva ipotesi circa la loro provenienza. Sappiamo che i preziosi panni di Semiramide si trovavano nel Palazzo Comunale sin dal XVIII secolo, dapprima conservati in locali di deposito e successivamente, dal 1878, esposti al pubblico. Sembra da escludere tuttavia che il committente o l’acquirente possa essere stato il municipio stesso tenuto conto dei costi estremamente elevati che simili manufatti comportavano. Non è da escludere invece che possa essere stato proprio il cardinale Giulio Alberoni a far pervenire gli arazzi a Rimini, quando la città cadeva sotto la sua giurisdizione in qualità di legato pontificio di Ravenna (1735) e di Bologna (1740). Stando così le cose troverebbe ulteriore conferma la fama di grande conoscitore goduta dall’alto pre-

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lato piacentino, non solo collezionista ma anche intermediario e mecenate, e dunque personaggio chiave nella storia della formazione del patrimonio di arazzi nella nostra regione.

Sacre raffigurazioni per le celebrazioni liturgiche Facili da trasportare ed utilizzabili in svariate occasioni, gli arazzi si prestavano ad arredare non solo le grandi dimore dell’aristocrazia, dell’alto clero, dei ricchi borghesi ma anche i vasti spazi di chiese e cattedrali dove completavano l’opera didascalica e divulgativa che già vi svolgevano i cicli ad affresco, le sculture, le grandi pale d’altare. Sin dal Quattrocento numerose istituzioni religiose della nostra regione si dotarono di tappezzerie raffiguranti storie dell’Antico Testamento, episodi del Vangelo, avvenimenti riguardanti la vita dei santi sostenendo con le loro commissioni la crescita e lo sviluppo


Fig. 14 – Sogno di Giacobbe, dalla serie con le Storie di Giacobbe. Fiandre (Oudenaarde?), terzo quarto del XVI secolo. Modena, Museo del Tesoro del Duomo.

dell’arte dell’arazzeria. Legati all’ambito e alla committenza ecclesiatica, si conservano alcuni importanti nuclei, innanzitutto quello del duomo di Ferrara di cui si è già precedentemente accennato. Attualmente esposte nella suggestiva Chiesa di San Romano, sede del Museo della Cattedrale, le Storie di San Giorgio e San Maurelio esemplificano l’attività della locale arazzeria allorchè a dirigerla era rimasto Giovanni Karcher, l’arazziere di fiducia dell’allora duca Ercole II. L’atto stipulato nell’ottobre del 1550 tra il Capitolo dei Canonici e l’arazziere fornisce preziose informazioni sull’importante commessa che coinvolgeva due pittori di figure, Camillo Filippi, autore dei cartoni per le Storie di San Giorgio e Benvenuto Tisi detto il Garofalo cui si deve l’ideazione delle Storie di San Maurelio. Fa eccezione l’episodio raffigurante Il popolo e il clero ferrarese che accolgono San Maurelio che presenta forti analogie con i modi compositivi del Filippi. Le ricche ed eleganti bordure di gusto manierista che incorniciano le maestose raffigurazioni furono invece concepite da Luca di Fiandra, un pittore specializzato in paesaggi e grottesche23.

Non tutte le chiese disponevano di mezzi economici per commissionare opere a soggetto. Dai registri della Fabbriceria del Duomo di Modena apprendiamo che fra Quattro e Cinquecento i canonici effettuavano i loro acquisti a Venezia, dove si concentravano i maggiori importatori di arazzi nordici, oppure presso mercanti locali, per la maggior parte ebrei. Sovente poi, in occasione di ricorrenze solenni, il Capitolo chiedeva tappezzerie in prestito alle famiglie più facoltose della città. Per le celebrazioni pasquali del 1593 il Duomo fu addobbato con arazzi provenienti dalla casa del conte Sertorio Sertori che vennero poi acquisiti in via definitiva nel corso dello stesso anno. Dei ventidue panni descritti nel rogito di donazione sottoscritto il 4 maggio 1593, ne sono pervenuti diciannove appartenenti a tre diverse serie raffiguranti rispettivamente Storie della Genesi, Storie di David e Golia e Storie di Giacobbe24. Poco si conosce sia sull’origine di questa bella ed importante raccolta sia sulla biografia del donatore. Ritratto dagli storici locali come colto e raffinato collezionista di libri e medaglie antiche, il conte Sertorio apparteneva ad una famiglia di origine parmense, una delle più illustri e potenti a Modena nel XVI secolo. Tuttavia dai documenti non emergono dati significativi che ci autorizzino a pensare che fosse anche un collezionista di arazzi. Molto probabilmente il lascito al Duomo, al pari delle numerose altre donazioni elargite a pii istituti cittadini, fu indotto dal fervore religioso che animò gli ultimi anni della sua vita, funestata in gioventù dall’assassinio della moglie, crimine che gli aveva causato la confisca dei beni e l’allontanamento dalla città. La serie più preziosa e meglio conservata della raccolta modenese è quella riguardante i fatti narrati nel libro della Genesi (Fig. 13). Si tratta di otto panni tessuti sicuramente a Bruxelles come attestano la finezza dei fi-

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lati in lana e seta, la perizia della tessitura, la ricchezza del trattamento cromatico e la sigla stessa dell’arazziere individuata su due esemplari. Il monogramma, una sorta di X completata da svolazzi, non ancora identificato ma ben conosciuto poiché riscontrato su altre opere, tutte di altissima qualità, si riferisce ad un artigiano rimasto anonimo, definito per questo convenzionalmente come Maestro della marca geometrica, attivo a Bruxelles nel terzo quarto del XVI secolo, epoca cui può circoscriversi anche la datazione della serie modenese25. Di qualità inferiore, e per questo maggiormente deteriorati dal tempo oltre che dall’uso improprio che ne fu fatto, sono i cinque arazzi raffiguranti le Storie di Giacobbe (Fig. 14) e i sei pezzi ispirati alle Storie di David anch’essi realizzati nel terzo quarto del Cinquecento in una manifattura fiamminga, di provincia però, verosimilmente operante nella città di Oudenarde26. Sempre in ambito ecclesiastico, un tempo ben più ricco

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di arredi, rimangono da ricordare i sontuosi arazzi che papa Benedetto XIV Lambertini donò alla chiesa metropolitana della sua città, Bologna. Il nucleo si compone di otto pezzi, tutti sottoscritti dall’arazziere romano Pietro Ferloni che dal 1717 diresse per oltre un cinquantennio la fabbrica pontificia di San Michele. Si tratta di un grande tappeto tessuto ad arazzo donato nel 1742 e destinato a coprire la scalinata dell’altare maggiore recante lo stemma Lambertini circondato da un elaborato disegno di fiori e rabeschi e di altri quattro panni raffiguranti le Allegorie delle virtù teologali donati fra il 1748 e il 1756. Particolare interesse riveste infine il paramento di tre arazzi raffiguranti Cristo che affida a Pietro la tutela del gregge, la Moltiplicazione dei pani e la Consegna delle chiavi (Fig. 15) tessuti tra il 1741 e il 1746. Manufatti di carattere eccezionale, con le loro dimensioni monumentali, l’idealizzazione formale delle figure, la cromia imperniata su toni brillanti e luminosi, essi rappresentano l’esito della collaborazione fra un grande


La grande stagione dell’arazzo

Fig. 15 – La consegna delle chiavi a San Pietro. Roma, manifattura di San Michele, arazziere Pietro Ferloni, su cartoni di Pompeo Batoni, 1741-1746 ca. Bologna, Cattedrale di San Pietro.

pittore come Pompeo Batoni, ideatore dei modelli, e un esperto artigiano come Pietro Ferloni, che in veste di direttore aveva ridato impulso proprio in quegli anni all’attività dell’arazzeria romana27. Dopo aver dato lustro per secoli alle lussuose dimore di principi e regnanti simboleggiandone la ricchezza, le origini, l’operato, oggi gli arazzi assumono essenzialmente il valore di rare e preziose testimonianze artistiche e storiche. Purtroppo ogni dismissione d’uso si accompagna ad un’inevitabile dispersione dei beni dismessi. Nel caso delle tappezzerie tessute le perdite sono state enormi e come già ricordato in precedenza solo una piccola parte dei beni che un tempo animavano feste e banchetti, celebrazioni civili e liturgiche è materialmente sopravvissuta ed entrata a far parte del patrimonio museale pubblico. Adempiendo le funzioni che gli sono peculiari l’Istituto per i Beni Culturali ha destinato cospicue risorse alla valorizzazione di questo patrimonio. Sono da ricordare, in anni recenti, gli inter-

venti di restauro condotti sui due arazzi cinquecenteschi della Galleria Alberoni, esemplari per la qualità dei risultati, che hanno restituito piena leggibilità ad opere profondamente segnate dal tempo, oltre che per la formula adottata, quella del cantiere scuola operante sotto la supervisione della locale Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, nonchè dell’Istituto per i Beni Culturali. Interventi di manutenzione e restauro conservativo erano stati condotti anche in passato sul nucleo di Correggio e su quello dei musei civici riminesi rendendo possibile il riallestimento e quindi la pubblica fruizione di entrambi i nuclei. È più che mai importante che anche in un prossimo futuro rimanga elevata l’attenzione su questo preziosissimo patrimonio e che da parte di studiosi, enti, istituzioni, ciascuno per quanto di sua competenza, siano messe in pratica tutte le misure necessarie per farlo meglio conoscere evitando ulteriori irreparabili perdite o dispersioni.

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NOTE 1

Finalizzate ad illustrare il patrimonio di arazzi che si conserva nella nostra regione, queste pagine costituiscono un aggiornamento del breve profilo da me già abbozzato nell’Atlante dei Beni Culturali dell’ Emilia-Romagna. I Beni Artistici, a cura di G. Adani e J. Bentini, Milano 1993, pp. 103118.

2 Sul collezionismo estense e sull’arazzeria ferrarese rimangono fondamentali le ricerche di G. Campori, L’arazzeria Estense, Modena 1876; rist.Modena 1980 e di N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, Milano 1982; si veda inoltre M. Viale Ferrero, Arazzi italiani, Milano 1961, pp. 22-24.

Anche per le serie seicentesche si rimanda a F.Arisi, Gli arazzi, cit. pp. 22-27 e 27-30. 15 A. Ghidini, Il Palazzo, le sue raccolte e gli istituti culturali, in G. Adani, F. Ma-

nenti Valli, A. Ghidini, Il Palazzo dei Principi in Correggio, Milano 1976, p. 99. 16 N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Palazzo dei Principi, in AA.VV., Il Museo Civico di Correggio, Milano 1995, pp. 105-123. 17

5 N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 72-76 e 115-160.

Presentato da G.Delmarcel nel catalogo della vendita L’eredità Necchi Campiglio, Milano 28 ottobre 2003, pp. 140-141, l’arazzo è stato successivamente studiato da L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’ tessuto a Firenze per il Conte Alfonso I Gonzaga di Novellara, in “Filoforme”, anno IV, n. 9, primavera 2004, pp. 13-19.

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3 N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 97-103. 4 N. Forti Gazzini, Arazzi a Ferarra, cit pp. 105-111.

Su questi temi si vedano Artigianato e oggetti d’artigianato a Modena dal 1650 al 1800, a cura di F. Valenti, Modena 1986, pp. 57-60; F. Valenti, P. Curti, L’Inventario 1771 dell’arredo del Palazzo Ducale di Modena, Modena 1986; M. Cuoghi Costantini, Gli apparati ducali dell’Inventario del 1663, in Arredi, suppellettili e “pitture famose” degli Estensi. Inventari 1663, a cura di J Bentini e P. Curti, Modena 1993. 7 Il patrimonio artistico del Quirinale. Gli arazzi, a cura di N. Forti Grazini, Mi-

lano 1994, pp.456-479. 8 Gli Arazzi dei Farnese e dei Borbone, catalogo della mostra a cura di G. Ber-

L’esistenza delle due lettere, ritrovate di recente nell’archivio di Novellara, mi è stata gentilmente segnalata da Elena Ghidini che ringrazio inoltre per la cortese disponibilità con cui mi ha segnalato studi e fornito materiale fotografico. Un esame delle fonti archivistiche riguardanti l’arazzo è condotto da S. Ciroldi, La “fabella” di Giasone secondo l’interpretazione di Giovanni Rost (1554) nell’arazzo di Alfonso I Gonzaga, in “Bollettino Storico Reggiano”, Reggio Emilia, Anno XXXVIII, luglio 2005, Fasc. n. 127.

19 L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’, cit. p.17-19.

tini e N. Forti Grazzini, Milano 1998.

20 I panni conservati a Rimini, nove in tutto, in realtà riguardano due se-

9 Su questi due preziosissimi arazzi si veda Il patrimonio artistico del Quirinale. Gli arazzi, a cura di N.Forti Grazzini, Milano 1994, vol. I, pp.183-193; sul tema del collezionismo farnesiano in generale si rimanda a G. Bertini, Gli arazzi dei Farnese da Paolo III a Dorotea Sofia di Neoburgo, in Gli arazzi dei Farnese, cit., pp. 41-53.

rie: sette di essi fanno parte del ciclo di Semiramide mentre due raffigurano episodi della vita di Salomone.

10 Gli arazzi dei Farnese, cit., pp. 122-127.

22 M. Cesarini, La serie degli arazzi di Semiramide, cit. p. 24.

11 Le vicende relative al collezionismo d’arazzi in epoca borbonica sono

23 Sulla serie ferrarese cfr. N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 72-75 e 115-160 e la guida al Museo della Cattedrale di Ferrara, a cura di G. Sassu, Ferrara 2004, pp. 22-24.

state delineate da G. Bertini e N. Forti Grazzini, Gli arazzi dei Borbone, in Gli Arazzi dei Farnese e dei Borbone, cit., pp. 61-67; si vedano inoltre le schede di catalogo pp. 154-158 e 181-193; sul tema della ricostruzione del patrimonio ducale parmense, già affrontato da Chiara Briganti, Le raccolte d’arte del Quirinale, in Il Palazzo del Quirinale, Roma 1974 si vedano i volumi dedicati agli arazzi curati da N.Forti Grazzini già citati alla nota 9. 12 Sulla figura dell’Alberoni si rimanda a Il Cardinale Alberoni e il suo Colle-

gio, Atti del convegno internazionale di studio, Piacenza 2003. 13

Per questi due preziosissimi arazzi si veda F.Arisi, Gli arazzi, in La Galleria Alberoni di Piacenza, Piacenza 1991, pp. 18-19.

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I panni riminesi sono stati di recente studiati da M. Cesarini, La serie degli arazzi di Semiramide nel Museo della Città di Rimini, in “Penelope”, vol.II, 2004, pp. 13-35.

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L’importante raccolta è stata recentemente studiata da N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, in Mirabilia Italiae. Il Duomo di Modena, Modena 1999, pp. 135-472. 25 Cfr. N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, cit. pp. 458-464. 26 N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, cit., pp. 464-470. 27 Sugli arazzi di San Pietro si vedano O. Ferrari, Arazzi italiani del Seicento e Settecento, Milano 1968, p. 22 e Il tesoro di San Pietro in Bologna e papa Lambertini, catalogo della mostra a cura di F. Varignana, Bologna 1997, p. 194.


Repertorio delle raccolte tessili in Emilia-Romagna

GUIDA ALLA LETTURA Obiettivo privilegiato del repertorio è l’individuazione delle raccolte tessili antiche inclusi i singoli reperti isolati esposti o conservati nelle diverse istituzioni museali presenti sul territorio regionale. Sono escluse le sedi storiche non identificate come museo, ad eccezione di alcuni edifici che per la ricchezza dei loro apparati e per le modalità che regolano il rapporto con il pubblico si configurano con una titolarità museale. Strutturato per aree geografiche provinciali da Piacenza a Rimini, il repertorio propone una suddivisione interna ordinata per ambiti comunali a loro volta distinti a seconda delle rispettive pertinenze giuridiche e delle diverse tipologie tematiche documentate dai fondi tessili ivi conservati. La pertinenza museale è evidenziata da apposite sigle date nell’ordine seguente: comunale (c), provinciale (p), statale (s), universitario (u), ecclesiastico (e), fondazione (f), privato (p). Ogni scheda descrive le raccolte e i manufatti di maggior rilievo riportando le attività di studio, conservazione e valorizzazione fondamentali svolte dalle diverse istituzioni, compresi i riferimenti bibliografici a testi pertinenti all’ambito tessile. Nel repertorio sono state escluse le informazioni di servizio, oggetto di una banca dati dell’Istituto per i Beni Culturali consultabile on line (www.ibc.regione.emilia-romagna.it). Ogni scheda riporta le sigle dei compilatori, ad eccezione di quelle redatte dalle curatrici. AUTORI DELLE SCHEDE L.B. G.C. B.C. F.G. M.G. E.L. L.L. V.M. A.M. B.O. A.S.

Lidia Bortolotti Giorgio Cervetti Barbara Corradi Francesca Ghiggini Maura Grandi Elisabetta Landi Lorenzo Lorenzini Vincenza Maugeri Alessandra Mordacci Beatrice Orsini Antonella Salvi



PIACENZA

Musei di Palazzo Farnese (c) musei sono situati a palazzo Farnese, imponente edificio sito all’interno della cittadella viscontea, la cui edificazione del 1558 fu modificata nel 1589 da Jacopo Barozzi detto Il Vignola su commissione di Margherita d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V e del marito Ottavio Farnese, secondo duca di Parma e Piacenza. L’edificio incompiuto fino al 1731 con la morte dell’ultimo Farnese, dopo un lungo periodo di decadenza, fu oggetto di un complesso e articolato piano di recupero funzionale solo nel Novecento. Tra i reperti tessili conservati, si menzionano i due superbi arazzi fiamminghi della serie incompleta “Storie di Troia” detta di Priamo di inizio Cinquecento di proprietà del Collegio Alberoni, attualmente in esposizione temporanea nel Museo Civico piacentino per consentirne la visione a restauro concluso. Altri manufatti tessili conservati a Palazzo Farnese afferiscono a tre sezioni museali, la medioevale-moderna, i Musei delle Carrozze e del Risorgimento. Alla prima, nello specifico alla raccolta di armi antiche, appartengono i resti di una rara giubba militare, detta brigantina, databile tra il XV e il XVI secolo, in velluto tagliato di seta rossa interamente ricoperta da una corazza a lamelle applicate a cucito a protezione del tronco. Nella seconda sezione, costituita da una raccolta variegata di carrozze donata dal conte Barattieri nel 1948 ed eredi e integrata nel tempo da altri esemplari, si menzionano le eleganti tappezzerie di rivestimento a motivi geometrici e vegetali stilizzati, tra cui quella di seta operata e lino color ghiaccio della berlina di gran gala realizzata nel 1879 dal carrozziere Cesare Sala per il re d’Italia con lo stemma dei Savoia dipinto sulle portiere e fuso nelle maniglie di bronzo. Sempre in questa sezione museale allocata nei sotterranei

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del palazzo, sono conservati anche alcune livree in panno di lana e abiti maschili aristocratici in seta ricamata composti da marsine, calzoni con sottovesti e gilet databili tra la fine del XVIII e il XIX secolo. Per il Museo del Risorgimento, inaugurato nel 1988 nell’ala sud del palazzo, vanno segnalate le uniformi con accessori che documentano l’epoca risorgimentale piacentina, tra cui si menziona una giubba della Guardia d’Onore del Ducato di Parma e Piacenza (1847-1859) e alcuni fazzoletti patriottici. P. Pinti, L’armeria di Palazzo Farnese a Piacenza, Piacenza 1988, cat. nn. 43, 44 S. Pronti, Le carrozze. Storia e immagini riviste attraverso la collezione civica piacentina, Piacenza 1985

Giubba militare detta brigantina, Italia XV-XVI secolo. Velluto di seta cremisi rivestito da corazza con lamelle di metallo. Musei di Palazzo Farnese, Museo delle Armi.


REPERTORIO

Basilica di Sant’Antonino, Museo del Capitolo di Sant’Antonino (e) Fondato nel 1965 e collocato ora in alcune stanze soprastanti la Sacrestia, il museo conserva diversi oggetti appartenuti alla storia della chiesa tra i quali si può annoverare un’importante serie di reliquari e corali miniati. Particolarmente ricca e variegata la sezione tessile, in parte esposta ciclicamente all’interno del museo e in parte conservata in apposite cassettiere. La serie di paramenti comprende numerosi apparati in terzo, molti dei quali settecenteschi eseguiti in preziose sete francesi broccate e lanciate, damaschi, ricchissime tovaglie d’altare ornate da preziosi merletti, camici e cotte crettate in finissimi lini. Tra i parati la pianeta completamente decorata da racemi fioriti (inizio XIX secolo) donata da Papa Pio VII alla basilica in occasione di un soggiorno a Piacenza. Sono conservati inoltre diversi paliotti in tessuto, alcuni dei quali in abbinamento ai parati. La grande ricchezza del materiale conservata è in parte giustificata dal succedersi nella basilica di prevosti provenienti dalle più importanti e nobili famiglie piacentine che attraverso il loro operato nel corso dei secoli, hanno contribuito alla formazione di questo nucleo tessile che in molti casi presenta ancora gli stemmi dei casati nobiliari. È anche esposto un campionario molto vario di merletti a fuselli, ago, uncinetto eseguiti dalla maestra Maria Ardini (1885-1930) e donato al Museo. B.C. Sant’Antonino culla di Piacenza, Piacenza 1986.

Raccolta d’Arte del Collegio dell’Opera Pia Alberoni (p) Il Collegio istituito dal cardinale Giulio Alberoni (16641752) per la formazione dei chierici indigenti fu aperto per volontà del fondatore nel 1751 nell’antico Ospedale di San Lazzaro alle porte di Piacenza. Oggi è sede dell’ordine dei padri vincenziani che gestiscono il prestigioso seminario e l’intero patrimonio storico artistico ivi conservato costituito nella sua parte originaria più cospicua e importante da lasciti del cardinale: le collezioni d’arte (dipinti italiani e fiamminghi e arredi liturgici) provenienti dalle residenze romane e piacentine oltre ai gabinetti di fisica, scienze naturali, metereologia, sismologia e astronomia, oltre a una importante biblioteca con archivio storico. Tra le raccolte d’arte primeggia quella di 18 arazzi fiamminghi in lana e seta divisi in tre serie, la prima raffigurante

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“Le Storie di Troia”, detta anche di Priamo degli inizi del XVI secolo e le altre due (di 8 arazzi ciascuna) del XVII secolo, raffiguranti la storia di Enea e Didone e le gesta di Alessandro Magno, i cui cartoni furono dipinti rispettivamente da Gian Francesco Romanelli e Jacob Jordaens nel 1630-35 e tessuti dall’arazziere di Anversa Michiel Wauters e da un arazziere brussellese ignoto della seconda metà del Seicento. Di tutte le tre serie di arazzi conservate la più antica e rara è quella di Priamo, composta da due arazzi di superba bellezza oggi restaurati e temporaneamente esposti al Museo Civico di Palazzo Farnese: è stata tessuta agli inizi del XVI secolo, con ogni probabilità, dal grande arazziere fiammingo Jean Van Aelst che eseguì la serie di arazzi dell’Antico Testamento per il Vaticano, i cui cartoni furono disegnati da Raffaello. L’altro nucleo tessile antico di grande rilievo storico-artistico è rappresentato dai paramenti liturgici del cardinale conservati nella sagrestia del Collegio a pianoterra e in parte esposti insieme agli arazzi e al resto di dipinti in un edificio adiacente sito nel cortile interno del Collegio progettato ad hoc dall’architetto Vittorio Gandolfi nel 1964. Tra piviali, pianete tonacelle, stole, manipoli, veli da calci, veli omerali, paliotti molti dei quali contrassegnati dalle insegne cardinalizie dell’alto prelato piacentino, va menzionato per tutti il prezioso parato in terzo ricamato d’oro e argento eseguito da Pietro Scilti nel 1751 e il suo corredo di accessori costituito da cappello, guanti, scarpe e libro pontificale. F. Arisi, L. Mezzadri, Arte e Storia nel Collegio Alberoni di Piacenza, Piacenza 1990, pp. 126-163 Il cardinale Alberoni e il suo Collegio. Atti del convegno internazionale di studi. Celebrazioni Alberoniane 1752/2002, Piacenza 2003 Gli Arazzi Tessuti e paramenti sacri, in Il Collegio Alberoni. Guida delle raccolte d’arte, a cura di D. Gasparotto, Milano 2003, pp. 6571, 85-87

Museo di Palazzo Costa (p) Il palazzo oggi sede del “Museo Ambientale del ’700” di proprietà della Fondazione Horak, appartenne ad una delle famiglie più in vista piacentine, i Costa, fiorenti mercanti di tessuti e banchieri di origine genovese che lo costruirono nel 1688 e lo mantennero per due secoli fino a quando passò nel 1934 con una vendita all’asta ai Maggi, cui appartiene ancora. È un esempio ben conservato di architettura e decorazione settecentesca emiliana dove sono stati inseriti arredi ottocenteschi, tra cui spiccano per risalto ornamentale le tappezzerie murali a righe in seta blu e quelle in avorio del letto a baldacchino, origi-


REPERTORIO

nali, della Sala Impero. Altre sale del palazzo presentano finiture tessili più tarde che comunque creano l’atmosfera tipica di una casa Museo del XVIII e XIX secolo.

PROVINCIA DI PIACENZA

Castell’Arquato - Museo Luigi Illica (c) Dedicato a Luigi Illica (1857-1919), noto librettista, commediografo e giornalista, nativo di Castell’Arquato, questo museo è stato istituito negli anni Sessanta. Ospitato dapprima nel Torrione del Duca, trova in tempi recenti sede definitiva a poca distanza dalla stessa casa natale di Illica. Completamente riordinata e ridefinita nell’allestimento del percorso espositivo, la raccolta consente di ricostruire la vita e l’opera di un personaggio dalla vita romanzesca e avventurosa, figura emblematica nel panorama culturale italiano di fine Ottocento inizio Novecento; significativo autore di testi per i più importanti melodrammi italiani dell’epoca post-verdiana, tra cui l’Andrea Chènier musicato da Umberto Giordano, Iris, Isabeau e Le maschere per Pietro Mascagni, nonché La Bohème, Tosca e Madama Butterfly (scritti in collaborazione con Giuseppe Giacosa) e Manon Lescaut per Giacomo Puccini. Tra i materiali esposti lettere autografe, materiali fotografici, bozzetti, locandine, si segnalano tre pregevoli kimono in seta operata policroma, dono di due famose interpreti del sec. XX: Fedora Barbieri e Rosetta Pampanini. L.B.

Castell’Arquato - Museo della Collegiata (e) Istituito nel 1932 dopo i lavori di ripristino della chiesa romanica e completamente rinnovato nel 1994, il Museo documenta la storia della Collegiata di Santa Maria Assunta attraverso un cospicuo patrimonio d’oggetti d’arte ed arredi liturgici. Particolarmente significativo è il settore dei tessili. Oltre a paramenti sei-settecenteschi confezionati con tessuti preziosi di probabile manifattura lionese, si segnalano alcuni manufatti rari, veri e propri pezzi unici, la cui presenza è legata alle vicende storiche di questo territorio.

L’opera più antica è costituita da due pannelli raffiguranti la comunione degli apostoli sotto le due specie, un ricamo eseguito in oro, argento e sete policrome su sciamito di seta rossa. Fissati su di un damasco settecentesco di colore avorio per formare un paliotto d’altare, in origine facevano parte di un velo liturgico eseguito verosimilmente da maestranze bizantine tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo. Il prezioso ricamo fu lasciato in eredità alla chiesa di Castell’Arquato dal Patriarca di Aquileia Ottobono Rosario dè Feliciani che qui si era rifugiato alla fine del 1314 per sfuggire alle minacce di Galeazzo Visconti e che qui morì agli inizi dell’anno successivo. Nel museo si conserva, inoltre, il capino con cappuccio in velluto di seta cremisi di papa Paolo III (Alessandro Farnese) che secondo la tradizione lo indossò durante la celebrazione della messa, in occasione della visita effettuata a Castell’Arquato nel 1543. Si segnala, infine, un piviale in tessuto di seta avorio con cappuccio e stolone ricamati in oro, argento e sete policrome. Il ricamo, riferibile al primo quarto del XVI secolo ed eseguito con la tecnica dell’oro velato, esemplifica una tipologia assai nota ma scarsamente documentata nella nostra regione. Il Museo della Collegiata di Castell’Arquato, a cura di P. Ceschi Lavagetto, Piacenza 1994.

Castel san Giovanni - Villa Braghieri (c) Eretta alla fine del Seicento e terminata nel Settecento come casino di campagna del nobile piacentino conte Chiapponi, tra Otto e Novecento passò ad altri esponenti dell’alta borghesia di provincia. Gli ultimi furono i coniugi Braghieri che lasciarono la villa, sobria e imponente all’esterno ma elegante e raffinata nei decori interni, con le pertinenze agricole annesse, all’Ente Comunale di Assistenza e Beneficenza locale. Divenuta proprietà comunale nel 1996, da allora ad oggi è oggetto di un recupero finalizzato a sede di servizi e di manifestazioni culturali atti a promuovere la conoscenza della Val Tidone. Vera e propria casa-museo, l’edificio conserva vestiti e arredi appartenuti alle famiglie che la abitarono e a personaggi famosi come Giuseppe Verdi che vi fu ospite nel 1859. Novità recente è l’acquisizione, con progetto espositivo in corso, di oggetti e manufatti anche tessili donati dal cardinale Agostino Casaroli alla sua città natale.

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Gazzola - Museo del castello di Rivalta (p) Sorto in epoca medievale su di un precedente presidio romano, il castello di Rivalta costituisce uno degli esempi più interessanti di architettura militare medievale dell’Emilia occidentale. Dopo numerosi passaggi di proprietà, dalla fine dell’Ottocento appartiene ai conti Zanardi Landi. La nutrita presenza di memorie storiche, lo stato di buona conservazione delle strutture architettoniche e degli apparati decorativi unitamente alla ricchezza degli arredi rende particolarmente suggestivo il percorso museale che comprende numerose stanze: il salone d’onore e la camera da pranzo, la sala da gioco e la cucina, la camera del falcone – dove si conserva un letto a baldacchino – e la scuderia, i sotterranei e le segrete. Nella sala delle armi è esposta una interessante raccolta di armi antiche e moderne insieme ad importanti cimeli della battaglia di Lepanto (1571) fra cui tre grandi bandiere ricamate con gli stemmi degli Scotti di Sarmato. Nell’ambito del museo è stato infine allestito uno spazio dedicato all’esposizione di divise e uniformi militari di varie epoche ed armi, dalla marina alla cavalleria, dagli ambasciatori alle dame inserite in un percorso storicodocumentario dove non mancano elementi scenografici come la ricostruzione di figure a cavallo.

Ottone - Museo d’Arte Sacra (e) Fondato nel 2000 e aperto al pubblico nel 2001, il Museo conserva non solo un’antichissima campana bronzea del XIV secolo, ma anche dipinti, arredi sacri, tra cui un’importante selezione di argenteria e paramenti tessili provenienti dalle chiese di Ottone e Ottone Soprano. Tra i manufatti tessili un bellissimo parato del XVIII composto di una pianeta, tonacelle, stola e piviale in gros de Tours liseré broccato completamente decorato da un ricamo in

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sete policrome, recante lo stemma della famiglia Doria, utilizzato nelle messe solenni e in occasione delle visite di famiglie nobili; ma ancora altri parati, del XVIII e XIX secolo in sete operate, broccate tra cui due piviali in velluto cesellato a più corpi sfumati e un piccolo paliotto di manifattura locale, sempre del XIX secolo, ricamato e dipinto. B.C.

Villanova sull’Arda - Villa Verdi Sant’Agata (p) Acquistata dal grande musicista nel 1848, ed abitata dal 1851 con la seconda moglie, la celebre cantante lirica Giuseppina Strepponi, villa Verdi costituisce un interessante esempio di residenza borghese del XIX secolo. Il percorso museale interessa solo una parte dell’edificio, abitato ancora oggi dagli eredi secondo la volontà del maestro, e si prefigge di documentare oltre all’attività del grande compositore, la sua complessa personalità. L’edificio conserva interessanti arredi d’epoca sia nella stanza da letto della Strepponi, arredata con un imponente letto a baldacchino in stile genovese, sia nello studio-camera da letto del grande musicista anch’essa caratterizzata da ricchi tendaggi e da un letto con baldacchino a parete. In questa stanza, una delle più suggestive del percorso museale, sono conservati anche effetti personali del maestro come la cappelliera con il suo cilindro o i guanti utilizzati per dirigere la Messa di Requiem eseguita il 22 maggio 1874 a Milano in memoria di Alessandro Manzoni. Nello spogliatoio della moglie poi, entro un armadio, si conservano ancora i suoi vestiti. Infine, si segnala la camera da letto dell’Hotel de Milan, l’albergo di Milano dove Verdì morì nel 1901 e i cui arredi furono trasportati presso la villa.


PARMA

Il Castello dei Burattini - Museo Giordano Ferrari (c) osto all’interno dell’ex complesso conventuale di San Paolo, questo Museo, di recente istituzione, conserva ed in parte espone la straordinaria raccolta di Giordano Ferrari, esponente dell’omonima famiglia di burattinai parmensi, una delle più rilevanti compagnie italiane del teatro di figura la cui attività fu avviata dal capostipite Italo attorno al 1892. Nell’ideazione del percorso espositivo, che si snoda in cinque sale, si è tenuto conto della principale caratteristica tipologica della collezione che, pur essendo stata la prima a riunire le diverse tipologie materiali di questa particolare forma di spettacolo, ha privilegiato i suoi protagonisti, ossia i burattini e le marionette. L’esposizione è stata pertanto organizzata secondo un duplice itinerario: al centro delle sale sono state poste le marionette suddivise per compagnie e disposte in ordine cronologico; mentre i burattini sono stati collocati lungo le pareti, ordinati secondo l’area geografica di provenienza. La ricchezza e la varietà degli oggetti esposti consente al visitatore di confrontare le diverse tradizioni del teatro d’animazione (quello italiano in particolare) osservando “da vicino” i fantocci, sintesi dei valori culturali ed estetici, nonché delle tecniche costruttive di chi li ha realizzati ed animati. Ai Ferrari è stata dedicata l’ultima sala del Museo evidenziando le diverse tendenze estetiche dei burattini di famiglia, di cui è assai rilevante, oltre alle diverse varietà di teste scolpite, la confezione degli abiti, a lungo curata da Maura, sorella di Giordano. I circa 500 pezzi esposti, principalmente burattini e marionette, ma anche teste, oggetti di scena, fotografie e manifesti rappresentano solo una significativa porzione del-

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l’ampio patrimonio, sia quello prodotto dalla Famiglia Ferrari in oltre cento anni di attività ma, soprattutto, da elementi di diversa provenienza confluiti nella collezione grazie anche alle elargizioni di altri artisti; cui di recente si è aggiunta la raccolta donata dagli eredi del giornalista e scrittore bolognese Franco Cristofori, particolarmente attento a questo ambito culturale. L.B.

Casa natale di Arturo Toscanini (c) La modesta casa dove nel 1867 nacque Artuto Toscanini oggi è sede di un percorso espositivo dedicato alla memoria del maestro. L’edificio fu acquistato dai figli del direttore e donato al Comune di Parma che ne ha curato il recupero e la ristrutturazione. Prendendo spunto dall’organizzazione della casa, l’allestimento museale è articolato in stanze tematiche che ripercorrono la vita privata e professionale del grande musicista. Nella “Stanza del divano” sono riuniti oggetti personali di Toscanini, fra cui le giacche da direttore d’orchestra, alcuni cappelli e bastoni. Vi figurano inoltre costumi di scena provenienti dalla donazione del baritono Giuseppe Valdengo e da quella del tenore Aureliano Pertile.

Museo Archeologico Nazionale (s) Il Ducale Museo d’antichità fu fondato nel 1760 da don Filippo di Borbone a Parma, allora capitale del Ducato, in


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concomitanza con l’avvio dell’esplorazione del municipio romano di Velleia. Il Museo Archeologico Nazionale di Parma occupò, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, l’ala sud-occidentale del Palazzo della Pilotta dove si trova ancora oggi. Al primo piano, oltre ai materiali velleiati e alle collezioni acquistate nell’Ottocento, sono esposti i marmi della raccolta Gonzaga e Farnese. Il pianoterra, invece, ospita la sezione pre-protostorica con i materiali provenienti dagli insediamenti parmensi dell’età del bronzo (terramare) e il complesso funerario della seconda età del ferro da Fraore. In questa sezione si trova l’unico frammento di tessuto proveniente da un contesto terramaricolo; si tratta di un frammento in lana di cm 8x4 rinvenuto nella terramara di Castione dei Marchesi databile a un periodo compreso fra bronzo medio e recente. B.O.

CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione (u) Il Centro Studi e Archivio della Comunicazione è una emanazione dell’Università degli Studi di Parma. Esso nasce alla fine degli anni Settanta, ufficialmente nel 1986, con lo scopo di raccogliere, conservare, catalogare materiali afferenti alla cultura contemporanea. Nato come piccola raccolta, oggi lo CSAC vanta nei suoi archivi una quantità ingente di dipinti, materiali fotografici, sculture e opere di design organizzati in cinque diverse sezioni: Arte, Progetto, Fotografia, Media, Spettacolo. La sezione Media comprende anche il Museo della Moda, ricco di oltre 70.000 pezzi tra disegni e abiti di stilisti contemporanei. Vi sono documentati i nomi più importanti quali Armani, Moschino, Ferré, le Sorelle Fontana, Krizia, Soprani, ecc. Sono presenti due abiti di Valentino, oltre duecento costumi teatrali di Piero Faraoni e abiti con accessori, scarpe e cappelli di Albini. Attualmente lo CSAC ha sede nel Padiglione Nervi (costruito nel 1953 su progetto di Pier Luigi Nervi) in attesa che venga completata la ristrutturazione dell’Abbazia Cistercense di Valserena, un complesso situato nelle vicinanze di Parma individuato quale sede definitiva del centro.

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Museo d’arte Cinese ed Etnografico (e) Il Museo di Arte Cinese ed Etnografico di Parma viene allestito nel 1900 per volontà di Mons. Conforti, vescovo della città, presso la sede dell’Istituto dei Padri Saveriani per le Missioni Estere per far conoscere i materiali provenienti dalla Cina e da quei Paesi extraeuropei nei quali i Padri Saveriani hanno svolto la loro opera di evangelizzazione: Messico, Amazzonia, Africa. Tra le numerose collezioni di cui si è arricchito il Museo nel corso del tempo bronzi, ceramiche, dipinti, avori, monete - compare anche una raccolta di tessuti composta da qualche centinaio di pezzi. Prevale fra tutti, per maggior pregio e per più antica datazione (XVIII-XIX), il nucleo di antichi manufatti cinesi in seta ricamata che rappresenta una significativa documentazione non solo della storia del costume, ma anche degli sviluppi dell’arte tessile dell’antica Cina. Riportati recentemente ad un ottimale stato conservativo attraverso un delicato intervento promosso dall’IBC, i manufatti più importanti di questo nucleo comprendono due sontuosi abiti imperiali riccamente decorati con draghi ed altri motivi della tradizione cinese, un raro abito da sacerdote taoista, una cappa mandarinale in panno di lana rossa con ricchi ricami in sete policrome, un abito da teatro, un prezioso coprispalle per abito da sposa ed alcune minuscole borsette portaprofumi di raffinata tecnica esecutiva. Accanto a questi particolari pezzi di indiscusso pregio, il Museo possiede una ricca collezione di manufatti sempre cinesi ascrivibili al genere del ricamo popolare diffusosi in Cina dopo il XVII secolo, nei quali si riconosce la prevalente funzione di uso pratico sebbene non venga mai trascurata la funzione ornamentale con differenti tecniche e livelli di preziosità. Si tratta di oggetti per uso personale o per farne dono nelle varie occasioni: centrini, copricuscini, borsette, scarpette, portaventagli e piccoli arazzi. Più piccolo ma ugualmente significativo il nucleo dei manufatti tessili etnici, risalenti per lo più al XX secolo, che testimoniano l’arte e le tecniche utilizzate da culture lontane dell’Asia, dell’Africa e America Latina. La tipologia prevalente è quella dei tessuti, in prevalenza in cotone, per abbigliamento (borse, perizomi, gonne, etc.) ed alcuni per arredo a carattere sacro e rituale. Si evidenziano tessuti in fibre vegetali e tapa, tessuti con ornamenti plumari e batik. A.S.


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Abito imperiale proveniente dal Palazzo d’Estate di Pechino, Cina, 1736-1796. tessuti operati in lino avorio, sete policrome e lamelle cartacee.

Palazzo Vescovile (e) Recentemente nel Palazzo Vescovile è stata allestita una “Stanza dei tessuti” dotata di appositi armadi in cui sono stati raccolti e riordinati i paramenti e manufatti tessili provenienti dalla Cattedrale, da alcune chiese di Parma, e da parrocchie della diocesi parmense. È stato infatti durante la schedatura promossa dalla CEI che si è sentita l’esigenza di raccogliere parte del materiale riscoperto che necessitava di particolari riguardi o che rischiava di essere abbandonato. Per quanto riguarda la Cattedrale, il materiale che si è preservato nel corso dei secoli, ora in corso di studio e catalogazione, è solo una modesta manifestazione della ricchezza testimoniata dalle fonti e dagli inventari. Si possono comunque annoverare parati legati alla figura dei vescovi succedutosi all’episcopato, quali il Vescovo Carlo Nembrini (1652-1677) Camillo Marazzani (1711-1760) Adeodato Turchi (17881804), particolarmente ricchi e preziosi per tipologia

tessile e decori. Sono presenti inoltre alcuni damaschi seicenteschi, diverse tipologie di sete operate settecentesche, parati ornati da importanti ricami floreali che rimandano a manifatture locali. B.C.

Santuario di Santa Maria della Steccata (e) Splendido esempio dell’architettura rinascimentale parmense, la chiesa della Steccata sorse su un terreno già anticamente venerato per una tradizione popolare. La costruzione del monumento, iniziata nel 1521, si protrasse fino al 1539, anno in cui la chiesa venne consacrata. Nonostante le numerose aggiunte sei-settecentesche, nella chiesa prevale l’aspetto rinascimentale sottolineato dal-

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la ricca decorazione pittorica cui parteciparono, oltre al Parmigianino, noti artisti dell’epoca. La “Camera Sancta” ovvero “Nobile Sagrestia” fu eretta fra il 1665 e il 1670. Si tratta di un’ampia aula rettangolare resa più maestosa dai ricchissimi armadi di legno che ricoprono con continuità tutte le pareti, opera dell’intagliatore milanese Giovan Battista Mascheroni e dei quadraturisti Carlo Rottini e Rinaldo Torri. In questi eccezionali contenitori, la cui ricchezza decorativa nulla toglie alla funzionalità, si conserva l’ampio corredo di paramenti sacri di cui la chiesa si è dotata nel corso dei secoli: un patrimonio di oggetti – pianete, tonacelle, piviali, paliotti, camici ecc.- databili fra la fine del XVI e il XIX secolo che documentano l’evolversi del gusto in campo tessile, non solo in ambito liturgico ma anche nell’arredo e nell’abbigliamento laico da cui molto spesso si ricavavano le sacre vesti. In questo contesto rivestono particolare interesse alcuni corredi ricamati di cui si conoscono datazioni e provenienze: un parato in terzo completo di paliotto per l’altare caratterizzato da un suntuoso ricamo d’oro eseguito nel 1706 dal ricamatore romano Federico Nave; un piviale di gusto marcatamente naturalistico ricamato in sete policrome nel 1719 dalle Zitelle della Pietà di Parma; un paliotto recante il simbolo dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio commissionato nel 1832 al ricamatore milanese Giacomo Cesati per completare un parato già esistente. M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, I Tessuti in “Per uso del santificare ed adornare”. Gli arredi di Santa Maria della Steccata, a cura di L. Fornari Schianchi, Parma 1991, pp. 113-227

ricorrenze ufficiali, confezionata in tulle e garza di seta avorio e ricamata con filati d’argento a motivi di cornucopie e tralci d’uva, simboli di abbondanza e prosperità che paiono alludere al felice governo della sovrana. Completata da un manto di seta marezzata azzurra che presenta un lungo strascico e replica sul bordo il motivo ricamato della gonna, l’insieme della veste è databile fra 1820 e 1840. Un complesso intervento di restauro, condotto fra 2004 e 2005, ha posto rimedio al forte degrado conservativo in cui si trovava l’importante reperto nuovamente esposto con criteri di allestimento confacenti alla delicatissima natura dei materiali. Il secondo abito è realizzato in garza di seta color perla con ricami a motivi floreali in filati metallici argento. Il restauro eseguito fra 1996 e ’97 ha consentito di recuperare la foggia assunta dall’abito intorno al 1830, a seguito del suo adattamento alla figura di un’adolescente, forse Albertina, la figlia di Maria Luigia. Appartennero alla duchessa anche i corredi e schemi da ricamo che si conservano nel museo e che la sovrana ordinava a Parigi dal suo fornitore di fiducia nonché i numerosi lavori a punto croce su canovaccio eseguiti dalla sovrana cui si deve anche la realizzazione di berretti, borse e bordure all’uncinetto e probabilmente di un impegnativo tappeto da tavolo ricamato con perline e decorato da fiori e uccelli. L’abito ritrovato, Museo Glauco Lombardi. Quaderni del Museo n. 1, a cura di F. Sandrini, Parma 1999

PROVINCIA DI PARMA Museo Glauco Lombardi (f) Il museo conserva opere d’arte, arredi, suppellettili e documenti raccolti dal collezionista colornese Glauco Lombardi con l’intento di documentare la storia della Parma borbonica e ludoviciana (1748-1859). Fu istituito nel 1915 a Colorno, in alcune sale del Palazzo Ducale, e trasferito nel 1961 nel Palazzo di Riserva a Parma dove tutt’oggi si può visitare. Il museo si configura come fondazione intitolata all’iniziatore della raccolta sotto l’egida del Comune e della Fondazione Monte di Parma. Il museo vanta un discreto patrimonio tessile composto da abiti ed accessori per l’abbigliamento, cimeli risorgimentali, oggetti d’arredo, corredi da ricamo. Per la storia del costume e della moda rivestono particolare interesse due abiti appartenuti a Maria Luigia. Si tratta di una veste da cerimonia utilizzata dalla duchessa in

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Bardi - Museo della Civiltà Valligiana (c) Il Museo della Civiltà Valligiana, istituito nel 1976 dall’Associazione Studi e Ricerche dell’Alta Val Ceno, è allestito con il Museo del Bracconaggio e delle Trappole nel castello di Bardi, arroccato su uno sprone di diaspro rosso a picco sul torrente Ceno. La fortezza, che rappresenta un esempio pressoché intatto di edilizia difensiva, è documentata dall’869. Nel XIII secolo fu dei Landi di Piacenza, che rimasero signori di Bardi fino al 1682, quando il complesso passò ai Farnese. In quel periodo la rocca fu la sede amministrativa ed economica del territorio, illustrato per l’appunto dalle sezioni museali. Situato negli alloggi delle guardie, il percorso espositivo del museo ricostruisce, grazie ad un criterio di rievocazione ambien-


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tale, le arti e i mestieri praticati nella vallata. Due fusi, una conocchia, due pettini da lino, una gramola, un arcolaio, un cardatore ed un incannatoio testimoniano, tra gli attrezzi presentati, alcuni aspetti del lavoro e della tessitura rurale finalizzata alla produzione di tessuti di uso domestico e popolare. E.L.

Provincia di Parma con il sostegno della Regione EmiliaRomagna. Fanno parte di questo patrimonio di oggetti, che si stima possa raggiungere le 60.000 unità, anche numerosi reperti tessili. Si tratta di tappeti, di costumi, di abiti ed accessori per l’abbigliamento, di strumenti per la tessitura che nel loro complesso offrono una testimonianza preziosa sul modo di vestire nel mondo contadino e sulla tessitura rurale. A.M.

Berceto - Museo del Tesoro del Duomo (e) L’Abbazia, fatta erigere dal re Liutprando (712-744), rappresentò un’importante postazione sulla via Francigena. Nel 719, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, vi si fermò Moderanno, vescovo di Rennes che ne divenne il primo abate. Costruito fra XII e XIII secolo, il duomo fu riedificato nel XV secolo per volere dei Rossi; altri nuovi cantieri seguirono nei secoli successivi. Nel 1729, dove sorgeva il chiostro monastico e poi canonicale, fu realizzata la Cappella di Santa Apollonia, trasformata successivamente nel Museo del Tesoro. L’esposizione, inaugurata nel 1991, comprende i reperti provenienti dalla chiesa più antica, oreficerie sacre e svariati paramenti fra i quali il piviale ritenuto di San Moderanno. Il grande manto, uno sciamito monocromo in seta di colore verde screziato in giallo, è profilato lungo il bordo da un raro e prezioso sciamito operato anch’esso in seta a fondo rosso intenso con disegno in blu scuro e giallo senape. Il tessuto del bordo è contrassegnato da un complesso motivo decorativo composto da due diverse coppie di animali fantastici affrontati davanti all’albero della vita e da coppie di fagiani e galli racchiusi entro orbicoli. Studi recenti assegnano il reperto ad una manifattura spagnola dell’VIII-IX secolo (Cfr. in questo stesso volume D. Devoti e G. Meucci).

Collecchio - Museo Ettore Guatelli (p) Ubicato nella casa colonica di Ozzano Taro, dove Ettore Guatelli nacque e visse tutta la vita, il museo documenta il lavoro contadino e artigianale attraverso oggetti d’uso comune raccolti dal dopoguerra ad oggi. Attrezzi agricoli e artigianali, suppellettili e capi di vestiario, giochi, strumenti musicali, documenti fotografici, sono accorpati secondo criteri di funzionalità ma soprattutto estetici creando effetti compositivi di grande suggestione. Nel 2001 la collezione è stata acquistata dalla

Compiano - Musei del Castello (c) Risalgono al IX secolo le origini di questo castello appartenuto dalla metà del Duecento alla famiglia Landi, la quale vi costituì un piccolo principato indipendente mantenuto per oltre quattrocento anni, fino al 1682 quando il territorio fu ceduto ai Farnese. Perduta la sua funzione difensiva e di controllo del territorio, sotto Maria Luigia fu adibito a prigione per i carbonari parmensi coinvolti nei moti risorgimentali del 1821, quindi fu trasformato in collegio femminile. Nel dopoguerra fu acquistato dalla marchesa Lina Raimondi Gambarotta che in parte lo adibì a residenza privata; nel 1987 anno della sua morte il castello passò, per lascito testamentario della proprietaria, al Comune di Compiano che provvide a rendere visitabili queste stanze. Il Museo Marchesa Gambarotta è costituito da una serie di ambienti arredati con mobili antichi di differenti stili e varia provenienza, dipinti, arazzi, tendaggi, manufatti d’arte orientale e suppellettili in genere che, nell’insieme, rispecchiano il gusto decadente dell’ultima proprietaria, amica, tra l’altro, di Gabriele D’Annunzio. Dal 2002 ha inoltre trovato sede in tre sale di questo castello il Museo Internazionale Orizzonti Massonici, in cui sono raccolti preziosi cimeli relativi sia alla massoneria inglese del ’700-’800 che di provenienza italiana. L.B.

Compiano - Museo degli Orsanti (p) Il museo è dedicato ad una particolare categoria di emigranti proveniente dalla Valtaro e dalla Valceno, i cosiddetti Orsanti. Alla ricerca di migliori condizioni di vita

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queste genti, originarie dell’Appennino parmense, si specializzarono nell’ammaestramento di animali quali scimmie, cani, uccelli, orsi e cammelli con cui percorsero la penisola e l’intera Europa dando spettacolo nelle pubbliche piazze e nelle fiere, esibendosi sia con le bestiole ammaestrate ma anche suonando vari strumenti talvolta contemporaneamente, che vendendo le più disparate merci. Nel museo ne è documentata l’attività attraverso numerose foto storiche e strumenti, sono inoltre esposti alcuni abiti per gli animali, costumi da saltimbanco e un particolare copricapo in metallo. L.B.

Fidenza - Museo del Risorgimento Luigi Musini (c) Il museo, istituito nel 1965 in Palazzo Porcellini e riallestito nell’ex-convento settecentesco delle Orsoline sede di varie istituzioni culturali civiche, annovera, tra i numerosi materiali conservati ed esposti (867 ca), la collezione importante del garibaldino Luigi Musini (18431903) donata al Comune dai discendenti del patriota piacentino, costituita da armi, cimeli, medaglie e fotografie, compresi diversi manufatti tessili rappresentati da bandiere e uniformi militari.

Fidenza - Museo Diocesano del Duomo (e) Realizzato nel 2000 grazie agli stanziamenti per il Giubileo e al finanziamento della Fondazione Monte di Parma, il museo si articola in due sezioni ubicate rispettivamente all’interno del Palazzo Vescovile, ove si conservano i resti del Tesoro di San Donnino, e nel Matroneo della Cattedrale dove sono esposti. Il Museo conserva un ricco corredo di parati liturgici provenienti prevalentemente dal Duomo ma anche dal Seminario e da una soppressa opera pia di Salsomaggiore. Il progetto museografico, non ancora completato, ne prevede l’esposizione parziale, secondo un criterio di rotazione. Perduti i pezzi più antichi, medievali e rinascimentali, attestati invece negli inventari di sagrestia, il patrimonio tessile è oggi costituito da numerosi parati di diversi colori liturgici pertinenti ad un arco cronologico compreso fra XVII e inizi del XX secolo. Essi documentano le princi-

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pali tipologie tecniche e decorative elaborate nelle manifatture italiane ma anche straniere, soprattutto francesi, in tale periodo. Costituiscono un nucleo a parte, assegnabile ad artigiani locali, le serie di parati completi riccamente ricamati in seta, oro e argento, recanti gli stemmi episcopali dei vescovi in carica: Gaetano Gariberti (1675-84), Nicolò Caranza (1686-97), Giulio Della Rosa (1698-99), Severino Antonio Missini (1732-53), Girolamo Bajardi (1753-75), Alessandro Gariberti (1776-1813), Luigi Sancitale (181736), G. Guindani (1873-80) e Mario Vinello (1930-55). D’eccezionale rilevanza è il corredo tradizionalmente detto “di San Bernardo” completo di pianeta, stola, manipolo, velo da calice, borsa per corporale e paliotto d’altare decorato da un suntuoso ricamo in sete policrome, oro e argento. La parte anteriore della pianeta raffigura San Benedetto, semisdraiato, tra figure di vescovi; quella posteriore l’albero di Jesse e la Vergine con i patriarchi; al centro del paliotto compare invece San Bernardo abate, affiancato da due monache. Artefici del finissimo lavoro, che si protrasse per oltre un quarantennio, dal 1687 al 1730, furono le monache del monastero cistercense di San Bernardo. A.M.

A. Mordacci, Tessuti, in Il Museo del Duomo. Museo Diocesano di Fidenza, a cura di G. Gregari, Parma 2003, pp. 80-83.

Langhirano - Museo del Risorgimento “Faustino Tanara” (c) Il museo, attualmente non visitabile, è situato all’ultimo piano del Palazzo Comunale, notevole edificio con torri angolari e portici-loggiati. Raccoglie materiali provenienti da donazioni private, documenti dell’archivio comunale e documenti in copia dell’Archivio di Stato di Parma che ricostruiscono il periodo risorgimentale e la vita langhiranese dell’Ottocento, caratterizzata dalla presenza di un forte movimento garibaldino repubblicano. Sono esposti importanti cimeli risorgimentali e documenti sulla vita e le imprese di Faustino Tanara. È previsto in futuro il trasferimento del Museo nel nuovo Centro Culturale Polivalente di via Cesare Battisti. Nel Museo si conservano diversi materiali tessili: esemplari delle divise per i funzionari parmensi istituite da Carlo III di Borbone (1853); cimeli della Fratellanza Artigiana Langhiranese (labari, grande e piccolo) e della So-


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cietà Femminile di Mutuo Soccorso (bandiera, fazzoletto, coccarda, fiocco) databili al 1907 circa; camicie rosse e berretti garibaldini; una bandiera della Legione Tanara; infine, nastri di medaglie. A.M.

Langhirano - Castello di Torrechiara (p) Costruito da Pier Maria Rossi tra il 1448 e il 1460 sulle rovine di una precedente casaforte, il Castello di Torrechiara è uno degli esempi più significativi e meglio conservati in Italia di architettura castellana del XV secolo. La ricchezza dei cicli affrescati da Cesare Baglione (XVI-XVII sec.) e la straordinaria “Camera d’Oro” cosiddetta per le formelle in terracotta un tempo rivestite d’oro puro ne attestano la destinazione residenziale. Qui, gli affreschi attribuiti a Benedetto Bembo narrano la delicata storia d’amore tra Pier Maria e l’amante Bianca Pellegrini celebrando al contempo la potenza della casata attraverso la raffigurazione di tutti i castelli del feudo rossiano. Nulla rimane in loco degli arredi del castello, dispersi dagli ultimi proprietari intorno al 1910. Tuttavia, in una sala vicina alla Camera d’Oro, è stato collocato il suo rifacimento, eseguito nell’ambito dell’Esposizione Nazionale ed Etnografica di Roma del 1911. L’unico, ma rilevante, manufatto tessile esistente presso il Castello di Torrechiara è una coperta per talamo nuziale realizzata per tale occasione. Il Castello è di proprietà statale, la coperta e tutti gli arredi della Camera d’Oro ricostruita appartengono alla Provincia di Parma. A.M.

La camera d’Oro di Torrechiara 1464-1911. Restauro, riallestimento e nuova presentazione della Camera d’Oro ricostruita per l’Esposizione Nazionale ed Etnografica di Roma, a cura di Alessandra Mordacci, Parma 2004

Soragna - Museo Ebraico “Fausto Levi” (p)

Coperta per talamo nuziale, Milano 1910-1911. Lampasso lanciato in seta avorio e oro filato con stemma dei Rossi ricamato in sete policrome, oro e argento, ispirato al decoro delle formelle in terracotta dorate che rivestivano le pareti della Camera d’Oro. Langhirano (Parma), Castello di Torrecchiara, Camera d’Oro.

mentano le vicende storiche delle comunità ebraiche del territorio piacentino e parmense, dai primi insediamenti a metà del XVI secolo fino alle persecuzioni razziali e alla Shoà. Una nuova sezione, inaugurata nel 2001, ha un allestimento didattico che illustra, attraverso oggetti e materiali, la vita, gli usi e le tradizioni ebraiche. Al primo piano, nel vestibolo dell’aula sinagogale, in alcune vetrine sono conservati oggetti legati al culto, come argenti e rotoli della Legge (sefarim), coi loro rivestimenti. Piccola, ma molto preziosa la raccolta dei tessuti legati al rito, una decina di pezzi databili dalla fine del XVII alla metà del XIX secolo, tra i quali vanno segnalati un meil (manto per la Torah) in raso ricamato datato 1697, il più antico che si conservi nel territorio emiliano romagnolo; una singolare atarah (corona per la Torah) realizzata in raso liseré broccato di manifattura francese del primo ventennio del XVIII secolo; due tallitot (scialli per la preghiera) ottocenteschi, con bordi ricamati. La piccola raccolta di tessuti è in discreto stato di conservazione. V.M.

Il Museo Ebraico di Soragna è stato istituito nel 1982 e successivamente intitolato a Fausto Levi, il suo fondatore. Il percorso museale, comprendente la Sinagoga del 1855, edificio di elegante impostazione neoclassica, si sviluppa su due piani e si articola in diverse sezioni che docu-

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Soragna - Rocca dei Meli Lupi (p) La Rocca di Soragna costituisce un eccezionale esempio di casa-museo per la ricchezza delle opere e lo sfarzo degli arredi che essa contiene. Fatta edificare nel 1385 dai marchesi Bonifacio e Antonio Lupi, fu ammodernata ed adeguata nel corso del tempo alle nuove esigenze abitative dai loro discendenti che tutt’oggi ne detengono la proprietà. Le tappezzerie conservate all’interno della Rocca sono numerose e diversificate e comprendono tessuti e ricami databili fra XVII e XIX secolo utilizzati come rivestimento parietale o copertura per poltrone, divani, sgabelli. Particolare rilievo per la storia del tessile riveste l’appartamento del piano nobile, fatto allestire da Giampaolo Meli Lupi allorché nel 1681 entrò in possesso del feudo di Soragna e si sposò con Ottavia Rossi di San Secondo. La Sala del Trono con relativo baldacchino è rivestita con un ricco tessuto in seta e oro, un lampassetto liseré broccato a fondo avorio mentre la camera nuziale reca alle pareti una tappezzeria di seta verde con disegno giallo e oro. Entrambi i tessuti fecero parte rispettivamente di due blocchi di acquisti effettuati a Venezia nel 1695 e nel 1701 (cui si riconducono anche diversi mobili presenti nello stesso appartamento). L’attuale sistemazione delle tappezzerie, cucite su lunghe fasce di velluto cremisi, è invece l’esito di un reimpiego effettuato nel tardo Settecento. Di grande interesse anche il corredo in velluto rosso con ricami ad applicazione del maestoso letto a baldacchino

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collocato al centro dell’alcova, anch’esso riconducibile allo stesso periodo. Si segnala infine il grande pannello raffigurante animali esotici collocato nella lunga sala del Bocchirale. Esso proviene dal castello di Lux in Borgogna dove venne verosimilmente realizzato fra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo con una singolare tecnica di ricamo ad applicazione di piccole perline. A. Lusvarghi, I. Micheletti, A. Mordacci Cobianchi, Le tappezzerie della Rocca Meli Lupi di Soragna, in Le tappezzerie nelle dimore storiche, Atti del Convegno CISST (1987), Torino 1988

Traversatolo (Mamiano) - Fondazione Magnani Rocca (f) La sede museale della Fondazione Magnani Rocca è stata aperta al pubblico nel 1990 nell’ottocentesca villa di Corte di Mamiamo. Essa ospita la prestigiosa raccolta d’arte di Luigi Magnani, letterato e critico musicale oltre che raffinato collezionista. Fra gli arredi della villa figurano un arazzo fiammingo degli inizi del XVII secolo raffigurante Il regno di Flora e cinque grandi tappeti Aubusson da centro della prima metà del XIX secolo. Si conservano inoltre alcune tovaglie ricamate eseguite dalle suore fra il 1930 e il 1950 su commissione della madre di Luigi Magnani.


REGGIO EMILIA

Musei Civici (c) musei civici sono allestiti nell’antico convento dei Frati Minori Conventuali di S. Francesco. Il nucleo storico delle raccolte è costituito dalla collezione di Lazzaro Spallanzani (Scandiano 1729 - Pavia 1799), acquisita dalla municipalità reggiana alla morte dello scienziato e collocata nel 1830 nell’ala nord del palazzo, già sede del liceo cittadino. Con le successive acquisizioni, che hanno ampliato il primitivo nucleo spallanzaniano, i musei costituiscono oggi un interessante modello di museo unitario, suddiviso in diverse e specifiche sezioni: archeologia, etnografia, storia dell’arte, storia naturale e storia della città.

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Museo Gaetano Chierici e Collezione paletnologica (c) Il Museo e la collezione di Paletnologia furono ordinati e allestiti tra il 1862 e il 1870 da don Gaetano Chierici nell’attuale sede. Conservata negli arredi originari e nell’allestimento immediatamente posteriore alla morte di Chierici, la raccolta è stata di recente ricondotta all’assetto concepito dal fondatore. In particolare il museo Chierici si articola in tre sezioni: la prima, fulcro dell’intera collezione, riunisce i materiali archeologici rinvenuti nelle terramare del territorio provinciale e nell’insediamento etrusco di Campo Servirola presso San Polo d’Enza, mentre le altre due ospitano reperti extraprovinciali provenienti da varie regioni d’Italia, dalle sepolture scavate dal Chierici nel 1884 nella zona di Remedello Sotto (Brescia) e da paesi esteri (raccolte etnografiche). Il territorio reggiano in particolare ha restituito numerosi re-

perti legati alle attività di filatura e tessitura come fusaiole in argilla, bronzo e pietra, ma anche conocchie e fusi. La collezione Chierici conserva un interessante reperto in rame con tracce di tessuto mineralizzato. Si tratta di un pugnale di forma triangolare in rame (Bronzo Recente), rinvenuto nella tomba 78 della necropoli bresciana di Remedello. Fra gli oggetti etnografici si segnalano, inoltre, alcuni interessanti reperti vestiari indiani della donazione Spagni (1844) anche se non propriamente eseguiti con fibre tessili. Si tratta di due tuniche di pelle di cervo con gambali ornati da aculei di istrice della tribù Sioux e una tunica dipinta con pittografie raffiguranti le imprese d’arme del suo proprietario. B.O.

I Musei Civici di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, catalogo a cura di S. Chicchi, E. Farioli, R. Macellari, A. Marchesini, J. Tirabassi, Reggio Emilia 1999, p. 62

Museo di Etnografia (c) Il nuovo allestimento della sezione etnografica realizzato nel 1999 nella sala Venturi, permise di riunire le raccolte formatesi nel museo reggiano a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento con quelle ottenute dai depositi del Museo Nazionale di Antichità di Parma nel 1970. I materiali esposti, suddivisi per raccolte, documentano i viaggi esplorativi compiuti tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da cittadini reggiani e parmensi in Amazzonia, in Indocina, in Africa. I


REPERTORIO

nuclei originari sono stati integrati in seguito da reperti provenienti dalle Americhe, dall’Estremo Oriente e dalla Nuova Guinea. Di notevole interesse è la documentazione tessile ivi attestata come quella precolombiana, proveniente dalla raccolta Mazzei, che illustra con i suoi esemplari (borse in cotone, sacchetto per foglie di coca, cestino da lavoro con fusi, spole, matasse e gomitoli, oltre a una mummia), come venisse interpretata quest’arte nell’antico Perù. Tra i corredi vestiari si segnalano inoltre un abito in pelle di guanaco proveniente dalla Terra del Fuoco e gli ornamenti plumari di una tribù amazzonica. I Musei Civici di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, catalogo a cura di S. Chicchi, E. Farioli, R. Macellari, A. Marchesini, J. Tirabassi, Reggio Emilia 1999, pp. 46-51

Museo di Arte Industriale (c) Il Museo costituito nel 1877 da Gaetano Chierici con un nucleo di arti minori intrinsecamente legate alla storia locale, inaugurato nel 1902 da Naborre Campanili e riesposto nel 1974 nella Galleria Fontanesi e riordinato nel 1995, propone tra i suoi materiali diversi di provenienza italiana, europea ed extraeuropea (gruppi plastici, ceramiche, metalli, strumenti di misura, armature, oreficerie, cristalli, cuoi), anche un cospicuo e significativo nucleo di manufatti e strumenti tessili legati in gran parte alla storia locale della produzione serica e laniera. Vi sono documentati insieme a dodici frammenti di abiti e tappezzerie in seta policroma databili tra il XVII e il XVIII di provenienza italiana e francese raccolti dallo storico locale Naborre Campanili sullo scorcio dell’Ottocento, un consistente corpus di materiali vari che testimoniano la lavorazione serica risalente già ai primi anni del XVI secolo per volere di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara e moglie di Alfonso I d’Este, che con l’insediamento a Reggio del tessitore genovese Mastro Antonio sviluppò con particolare intensità nel XVII e XVIII secolo una produzione di stoffe unite operate (velluta, rasi e damaschi), a fronte di una produzione laniera più antica presente già nel XIII secolo. I materiali sono costituiti da due edizioni (una del 1673 e l’altra del 1739) degli statuti dell’Arte della Seta promulgati dal 1546 fino al 1739, diverse stampe con marchi di fabbrica di manifatture reggiane e da un pettine seicentesco da lana. Documenti di straordinario interesse per rarità e importanza storica sono inoltre cinque registri di fabbrica (1743-1783) di ordinazioni corredati da due cam-

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pionari tessili, detti “Libri delle mostre”, relativi alla mercatura serica Trivelli-Spalletti attiva a Reggio dal primo quarto del Settecento fino alla Rivoluzione Francese e all’avvento dell’Impero napoleonico, epoca in cui cessò definitivamente la produzione. Tre di questi libri insieme ai due campionari di vendita conservano integro, ovvero preservato dal tempo e dalla incuria dell’uomo, uno straordinario repertorio di stoffe di seta unite e operate a piccoli decori geometrici e floreali che documentano un tipo particolare di produzione serica settecentesca influenzata dalla moda francese, di livello però più modesto e corrente rispetto a quella di lusso per nobili e principi, destinata piuttosto a vestire gli esponenti della media e alta borghesia dell’epoca. Questa produzione, già di tipo seriale, raggiungeva varie località italiane e dell’Europa centro orientale, solitamente piccoli centri e cittadine, attraverso una rete capillare di diffusione commerciale fatta da “distributori” intermediari e punti di vendita fissi come erano le fiere e i mercati dell’epoca. I restanti registri documentano, invece, l’altra attività di questa mercatura reggiana rappresentata dal commercio di stoffe in lana e cotone acquistate in Italia e nel centro-Nord dell’Europa. La documentazione di fabbrica è integrata da altri tre libri di fabbrica, non esposti, relativi ai filatori, ai produttori di trame/orditi e ai tessitori che lavoravano a domicilio per questa ditta. La sezione tessile conserva, inoltre, anche un carteggio interessante relativo alla storia di questa fabbrica e alle due famiglie, entrambe di origine svizzera, che la condussero. M. Cuoghi Costantini, E. Bazzani, I. Silvestri, Per una raccolta storica del tessuto, in Guida alle Gallerie d’Arte, II. La Galleria Fontanesi, catalogo del museo a cura di G. Ambrosetti, Reggio Emilia 1977, pp. 93-117, schede nn. 1/29 tavv. I/XXX E. Farioli, A. Marchesini, Museo di Arte Industriale, in I Musei Civici di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, Reggio Emilia 1999, cap. 11, pp. 130-135

Civica Galleria Anna e Luigi Parmeggiani (c) Allestita in un singolare palazzetto di stile eclettico eretto su disegno di Ascanio Ferrari, la galleria raccoglie la collezione d’arte trasferita a Reggio Emilia nel 1924 da Luigi Parmeggiani, acquisita in seguito dal Comune e resa pubblica nel 1932. La formazione della singolare raccolta risale all’ultimo trentennio del XIX secolo e si lega all’ambiente cosmopolita di Parigi, dove il Parmeggiani riparò, esule, dopo aver attentato alla vita dei deputati socialisti Ceretti e Prampolini, e dove venne in contatto con


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il mondo dell’arte e dell’antiquariato, frequentando il pittore spagnolo Leon y Escosura e sposando la figlia del pittore Cesare Detti. La Galleria, che riunisce tre diversi nuclei collezionistici – le opere appartenute ad Escosura, i falsi, le armi e le oreficerie della bottega parigina Marcy, i dipinti dello spoletino Cesare Detti –, vanta una consistente sezione tessile composta di oltre duecento pezzi, buona parte dei quali esposti. Nella sala cosiddetta dei velluti trovano posto importanti paramenti quattro-seicenteschi e svariati frammenti, la maggior parte dei quali, per l’appunto in velluto. Abiti maschili e femminili del tardo Settecento e degli inizi dell’Ottocento con numerosi accessori – scarpe, guanti, borse, cinture, cappelli – sono invece esposti nella sala dei costumi entro vetrine di acciaio e vetro di pregevole fattura: i contenitori provengono infatti dalla galleria di vendite Escosura di Parigi così come la quasi totalità dei materiali tessili come attestano numerosi cartellini. Il pittore spagnolo era un raffinato conoscitore di tessuti e costumi e se ne serviva per l’ambientazione dei suoi dipinti di tema storico. In questa sezione si conserva infine un raro abito da gentiluomo, forse un costume di scena del teatro elisabettiano di provenienza inglese databile tra 1615 e 1620, un vero e proprio pezzo unico confezionato in raso di seta rossa con inserti applicati in pelle avorio che costituisce una testimonianza eccezionale sull’abbigliamento maschile di quel periodo.

pubblica Cispadana, con la arma del turcasso con frecce in campo bianco, adottata il 7 gennaio 1797 dal Congresso Cispadano formato dalle quattro città aderenti (Reggio, Modena, Bologna e Ferrara), la coccarda in seta tricolore della Guardia Civica Luigi Trampolini, le livree dei “donzelli” comunali in panno di lana rosso e verde listati da galloni a telaio e tre abiti da cerimonia appartenuti a notabili reggiani ed insigni esponenti della Repubblica. Due di questi, molto simili fra loro, in seta blu petrolio ricamati ai bordi in seta avorio con foglie di quercia e alloro, furono indossati dal conte Giovanni Paradisi (17601826) uomo di spicco della cultura e politica locale e dallo scienziato Giambattista Venturi, divenuti rispettivamente senatore e diplomatico del Regno. Il terzo, in seta operata avorio a minuta punteggiatura, impreziosito da un fastoso ricamo vegetale d’argento era appartenuto all’economista Antonio Veneri (1741-1820) che ricoprì alte cariche della Repubblica Cispadana e del Regno. Il Museo del Tricolore, a cura di M. Festanti, Musei Civici, Reggio Emilia 2000

J. Arnold, Patterns of Fashion. The cut and construction of clothes for men and women c1560-1620, Londra - New York 1985 M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi della Galleria Parmigiani, Bologna 1994 Giovanni Battista Moroni. Il cavaliere in nero. L’immagine del gentiluomo nel Cinquecento, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 2 ottobre 2005 - 15 gennaio 2006) a cura di A. Zanni e A. Di Lorenzo, Milano 2005, cat. n. 7 (scheda di G. Butazzi)

Museo del Tricolore (c) Il Museo, allestito dal 1985 in tre sale al piano terreno della “Torre del Bordello” con materiali originariamente esposti al Museo del Risorgimento nella sede dei Musei Civici reggiani, conserva un nucleo consistente di manufatti tessili di seta e lana (bandiere, fazzoletti e coccarde patriottiche, fusciacche, abiti e livree con accessori ecc.) legati alla periodo napoleonico e risorgimentale (17961860). Tra quelli selezionati per l’esposizione di rilievo particolare sono: la bandiera in seta tricolore della Re-

Fazzoletto Tricolore con stemma sabaudo. Reggio Emilia, Museo del Tricolore.

Museo Storico dell’Arma di Cavalleria (c) Il Museo documenta la storia e l’evoluzione dell’Arma di Cavalleria tra Otto e Novecento con reperti vari, documenti, riviste, divise, vessilli. Tra i cimeli tessili significativi spiccano un serie di giubbe nere da ufficiale di fine

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REPERTORIO

Ottocento e alcune divise, quelle della Guerra d’Africa e dell’Armata di Russia e quella da Generale d’Armata del reggiano Dardano Fenulli, martire delle Fosse Ardeatine e medaglia d’oro al valore militare, oltre a un pezzo storico, il berretto del sottotenente Achille Balsamo di Loreto, ultimo degli ufficiali caduti nella prima guerra mondiale e medaglia d’argento al valore militare.

Museo degli Alpini (c) Il museo, ospitato nella ex-caserma Taddei, ripercorre la storia e lo spirito indomito del corpo degli Alpini nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e la campagna di Russia. Tra i cimeli esposti, oltre ad armi e utensili militari, una serie di divise da alpino con cappelli e accessori vari.

Centro di Documentazione di Storia della Psichiatria (c) Il Centro è sito nel complesso storico di edifici sorti su un antico lebbrosario del XIII destinati nel 1536 all’accoglienza degli alienati e adibiti nel Settecento per volere del duca Francesco III d’Este a luogo di cura e di studio delle malattie psichiche. Istituito nel 1991 dall’Unita Sanitaria Locale n. 9 della Provincia di Reggio Emilia e dall’Istituto per i Beni Artistici Storici e Naturali della Regione Emilia-Romagna, il Centro documenta la storia della pisichiatria manicomiale a Reggio Emilia e su scala nazionale, attraverso una ricco patrimonio bibliografico, archivistico e iconografico (fotografico soprattutto), prodotto nel tempo dall’Istituto Neuropsichiatrico San Lazzaro. Oltre alla Biblioteca il Centro conserva esposte in due sale un’interessante sezione storica dedicata alla strumentazione terapeutica, agli oggetti d’uso e di lavoro dei degenti fino ai prodotti eseguiti dagli stessi: dipinti, disegni, sculture, ceramiche e paramenti liturgici ricamati in Ars Canusina, pianete tessute a telaio con accessori e paliotti d’altare destinati all’uffizio interno della chiesetta annessa all’Ospedale. Sono conservate inoltre testimonianze del lavoro tessile eseguite dai ricoverati come i telai per tessere stoffe insieme alle divise indossate dai degenti in tela di cotone unita e a righe.

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Museo e Tesoro della Basilica della Beata Vergine della Ghiara (e) Il museo fu allestito nel 1982 per volontà della Fabbriceria della Basilica e dei Musei Civici di Reggio Emilia. Documenta la storia dell’insigne chiesa reggiana attraverso oggetti liturgici, ma soprattutto attraverso i doni pervenuti alla chiesa in segno di devozione per l’immagine miracolosa della Madonna. Accanto ai gioielli, agli argenti, agli ex voto ecc. è esposta una campionatura del ricchissimo corredo di paramenti conservato nella sagrestia composto da tessuti di rara qualità che documentano le principali tipologie tecniche e decorative sperimentate nel corso del Sei-Settecento. Fra i manufatti storicamente più significativi figura una tendina destinata a celare e proteggere l’immagine della Madonna, donata dalla Contessa Camilla Ruggeri Brami. L’originale ricamo, realizzato in sete policrome, oro e argento su garza di lino verde, raffigura l’albero di Jesse ovvero la genealogia di Maria e Gesù Cristo. Esso costituisce uno dei reperti tessili più antichi, verosimilmente anteriore al 1617, anno di morte della donatrice. Fra la documentazione esposta nel museo si segnala il suntuoso parato ricavato dall’abito nuziale di Maria Beatrice Ricciarda d’Este, andata sposa nel 1771 a Milano a Ferdinando d’Asburgo Lorena, figlio cadetto dell’imperatrice Maria Teresa. Pur riprendendo una tipologia decorativa ampiamente sperimentata nel terzo quarto del Settecento, quella dei nastri sinuosi con mazzetti floreali nelle anse, il tessuto costituisce un pezzo unico e non trova facili raffronti sia per la ricchezza dei materiali (seta ma soprattutto vari tipi di filati d’argento) sia per la perizia dell’esecuzione che a una tecnica di tessitura già complessa come quella del lampasso lanciato broccato unisce l’apporto del ricamo. Contribuì al dono anche la madre della sposa, Maria Teresa Cybo, che provvide al trasporto dell’abito da Milano a Reggio Emilia partecipando inoltre alle spese per la confezione del parato in terzo. Il Santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia, a cura di A. Bacchi e M. Mussini, Milano 1996

Raccolta Diocesana d’Arte Sacra (e) In locali deputati del palazzo vescovile d’origine medioevale, modificato in epoca rinascimentale e ampliato nel Seicento dall’architetto Bartolomeo Avanzini, sono esposti alcuni materiali d’arte sacra provenienti dal territorio


REPERTORIO

reggiano (dipinti, oreficerie, arredi, parati e accessori liturgici) che costituiscono il primo nucleo dell’erigendo museo diocesano. Spiccano tra questi alcune eccellenze tessili: una mitra medioevale dell’abbazia di Marola, una pianeta di foggia sartoriale antica appartenuta al cardinale Borromeo insieme a un prezioso corredo di paramenti del cardinale vescovo di Reggio Rinaldo d’Este (1618-1672). La mitra è un raro documento della tessitura medioevale del XIV secolo per il tessuto operato in seta e oro (uno sciamito) a decoro vegetale e per il ricamo a fili d’oro con tralci di vite che lo completa. La pianeta indossata da San Carlo Borromeo durante una messa celebrata nel Duomo reggiano nel 1581 in una sua visita alla città è confezionata con un tessuto semplice di seta rossa unito impreziosito da oro filato e da un elegante ma sobrio ricamo a fregio vegetale stilizzato che ricopre gli stoloni a croce eseguito con ritagli di seta nera e avorio applicati e profilati d’oro su un tessuto di fondo di raso di seta nera. Il corredo paramentale del cardinale estense ben più fastoso comprende due pianete decorate da grandi ed elaborati pizzi d’oro (una a ramages arricciati e asimmetrici su fondo giallo, l’altra con motivi a candelabra rinascimentale su fondo perla) da ritenersi straordinari reperti di un lavorazione a fuselli in oro andata perduta, oltre ad un parato in terzo ricamato in cordoncino d’oro filato su seta cremisi con motivo a rabesco diverso da quello presente nel piviale a minuti rametti fioriti su seta rosa: i parati sono contrassegnati dalle armi estensi, aquila bicefala e gigli bianchi.

Bagnolo in Piano - Fondazione Famiglia Sarzi (f) La Fondazione Famiglia Sarzi custodisce il consistente patrimonio, costituito da materiali eterogenei – quali burattini e pupazzi, in legno, stoffa, metalli, gommapiuma, lattice ecc., attrezzeria e componenti di baracche, in legno e metallo, materiali cartacei, nonché libri, documenti, fotografie, manifesti e audio-video – prodotti in oltre cinquant’anni d’attività da Otello Sarzi (1922-2001), celebre attore/burattinaio e dai suoi familiari e collaboratori. Discendente da una delle più importanti famiglie dell’Italia centro settentrionale attive nell’ambito del teatro di figura a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, Sarzi, dotato di una particolare vena creativa e sperimentale, realizzò spettacoli che prendevano le distanze dalla tradizione, sia nella forma che nella struttura, indirizzandosi talvolta ad un pubblico adulto. Alla fine degli anni Settanta Sarzi ed un gruppo di componenti del Teatro Sperimentale Burattini e Marionette (T.S.B.M.), fondato a Roma nel 1957, si trasferisce a Reggio Emilia avviando nel contempo un rapporto di collaborazione con la direzione del Teatro Municipale “R. Valli”. La Fondazione Famiglia Sarzi, è stata istituita nel 1996 e dal ’99 ha sede presso le ex scuole elementari di Pieve Rossa, nel comune di Bagnolo in Piano. Questi materiali, in cui il tessuto gioca un ruolo decisivo e preponderante per la varietà di stoffe coeve utilizzate, vengono attualmente presentati soltanto attraverso mostre tematiche temporanee in sedi espositive sempre diverse in attesa della sistemazione della sede espositiva definitiva.

Il Palazzo vescovile di Reggio Emilia. Illustrazione di un percorso espositivo di arredi e ambienti, guida storico-artistica a cura dell’Ufficio Beni Artistici della Curia di Reggio Emilia, San Martino in Rio (Re) 1994

PROVINCIA DI REGGIO EMILIA

Aiola - Museo del Parmigiano-Reggiano Civiltà contadina e Artigiana della val d’Enza “La Barchessa” (c) Il museo allocato in un tipico edificio della corte rurale padana conserva tra i tanti materiali e attrezzi della civiltà contadina, quelli legati alla lavorazione della canapa, dalla filatura alla tessitura di questo filato con cui si confezionavano manufatti di vario tipo dalla biancheria domestica agli abiti di tutti i giorni.

L.B.

Castelnuovo di Sotto - Museo-Centro di documentazione della maschera (c) Il museo in corso di istituzione presso la Biblioteca Civica è costituito nella sua sezione storica dalle maschere della collezione Guatteri acquisita nel 1996 dall’amministrazione comunale. L’attività di questa storica famiglia reggiana di decoratori, scenografi teatrali e costruttori di maschere da carnevale che operò sotto la protezione ducale estense è documentata in ambito locale dal 1820 al 1938. Tra i materiali che compongono la raccolta, stampi in metallo e maschere in gesso, un corpus consistente e importante (incrementato di recente da un nucleo di manufatti provenienti dal mercato privato) è costituito da masche-

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re in tessuto (raso di seta di vari colori e tela cerata dipinta) che ripropongono i caratteri tipici del teatro popolare: il diavolo, il mandarino, l’indiano, la morte, uomini e donne comuni, interpretati nelle espressioni diverse del dolore, dell’allegria e dello spavento. La raccolta è stata restaurata nel 2001 dall’IBC con fondi regionali.

Correggio - Palazzo dei Principi, Museo Civico “Il Correggio” (c) Il museo ha sede al piano nobile del Palazzo dei Principi, una raffinata costruzione rinascimentale dovuta all’opera di artisti ferraresi, forse su disegno di Biagio Rossetti. Completamente riordinato a seguito dei restauri resi necessari dal terremoto del 1999, il Museo vanta una ricca collezione di pittura fra cui spiccano il Redentore del Mantegna e le opere legate alla figura del Correggio, reperti archeologici, monete, medaglie. Il museo conserva un’importante raccolta di nove arazzi facenti parte di tre diverse serie, i Giardini, le Cacce e una Festa Popolare cui si aggiungono alcuni frammenti e quattro bordure. Benché l’asportazione delle bordure, compiuta fra Sette e Ottocento per adattare i panni agli ambienti del Palazzo Municipale dove sono rimasti fino a una cinquantina di anni fa, abbia comportato la perdita dei marchi di produzione, l’analisi stilistica e i raffronti con altri esemplari consente di indicarne con precisione la provenienza. Caratterizzati da dolci paesaggi collinari animati da una ricchissima fauna e da numerose piccole figure che nella serie dei Giardini richiamano i miti ovidiani delle Metamorfosi, essi furono verosimilmente tessuti sullo scorcio del XVI secolo a Bruxelles, nella bottega di Cornelius Mattens, un arazziere attivo in quella città almeno dal 1580. Probabilmente gli arazzi facevano parte di un più consistente gruppo di panni portati a Correggio dal conte Camillo che li aveva verosimilmente acquistati in occasione di uno dei suoi soggiorni nei Paesi Bassi spagnoli.

Vecchia” del padre Cornelio – cui gli Estensi avevano assegnato il feudo di Gualtieri – non resta che la porzione anteriore prospiciente la piazza. L’attuale Palazzo Bentivoglio, benché mutilo, costituisce una ragguardevole testimonianza della piccola corte, colta ed elegante, seppure di assai breve durata, fondata dai discendenti degli ex signori di Bologna. A testimonianza dell’originale splendore della residenza marchionale restano alcuni ambienti affrescati di grande rilevanza artistica, di cui il più fastoso è il Salone dei Giganti, cui avrebbero lavorato tra gli altri Sisto Badalocchio della scuola dei Carracci e Pier Francesco Battistelli della Scuola del Guercino, non sono comunque da meno la Sala dell’Eneide, la Sala di Icaro, la Sala di Giove e la Cappella Gentilizia. Il notevole ciclo pittorico, in cui si alternano episodi della mitologia e della storia di Roma antica ad altri tratti dai maggiori poemi epici, benché lacunoso esprime in modo significativo l’ambizioso progetto dei raffinati Bentivoglio, amanti delle lettere ed essi stessi poeti dilettanti. In questo palazzo hanno trovato sede il Museo Documentario e Centro Studi “Antonio Ligabue” e la Donazione “Umberto Tirelli”. Il primo, fondato nel 1988, raccoglie materiale bibliografico e iconografico del pittore naif vissuto a Gualtieri; la seconda consta di una raccolta, oltre cinquanta opere di famosi artisti del Novecento, donata dal celebre sarto teatrale nato in questo paese nel 1928. Di quest’ultima collezione si segnalano inoltre due straordinari abiti di scena, un costume di Pier Luigi Pizzi per l’Enrico IV di Pirandello in velluto in seta artificiale blu e argento ed un abito di P. Tosi, indossato dall’attrice Romy Schneider nel ruolo di Elisabetta d’Austria, per il Ludwing di Luchino Visconti, in seta artificiale lilla intenso. L.B.

N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Palazzo Principi, in Il Museo Civico di Correggio, a cura di A. Ghidini

Novellara - Museo Civico Gonzaga (c) Gualtieri - Palazzo Bentivoglio, Museo Documentario Centro Studi “Antonio Ligabue” e Donazione Tirelli (c) Del grandioso edificio, eretto tra il 1594 e il 1600, con la consulenza di Giovanni Battista Aleotti, per volere del marchese Ippolito Bentivoglio, che vi inglobò la “Casa

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Temporaneamente chiuso a seguito del terremoto del 1997, il museo occupa una quindicina di sale e salette del cinquecentesco appartamento comitale situato al piano nobile della Rocca, realizzato e decorato sotto la direzione di Lelio Orsi. In alcune sale oltre ai camini in marmo da Verona si conservano alcuni dei soffitti a cassettoni originari. Il patrimonio del Museo, che oltre alle ceramiche della farmacia dei Gesuiti, della serie dei ritratti dei


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Abito femminile indossato da Romy Schneider nel Ludwig di Visconti. Sartoria Teatrale Umberto Tirelli su disegno di Pietro Tosi, XX secolo. Raso di seta lilla. Gualtieri (Reggio Emilia), Palazzo Bentivoglio, Museo Documentario Centro Studi “Antonio Ligabue” e Donazione Tirelli.

Abito maschile in due pezzi (veste con mantello) dell’Enrico IV di Pirandello, XX secolo. Sartoria Teatrale Umberto Tirelli su disegno di Pier Luigi Pizzi. Tessuto operato in seta blù e argento. Gualtieri (Reggio Emilia), Palazzo Bentivoglio, Museo Documentario Centro Studi “Antonio Ligabue” e Donazione Tirelli.

Gonzaga, della quadreria, degli affreschi strappati del Casino di Sopra, delle monete della zecca. ecc., si è recentemente arricchito di un importante e preziosa testimonianza. Si tratta di un grande arazzo tessuto in lana e seta raffigurante una scena di sbarco da un vascello entro una ricca bordura vegetale. Il bordo superiore reca uno stemma raffigurante le armi dei Gonzaga attraversato da un cartiglio recante l’iscrizione “Alphonsus Gonzaga Novellariae Comes 1554”. La scritta si riferisce con evidenza ad Alfonso I Gonzaga nato nel 1529 e morto nel 1589, artefice insieme a Lelio Orsi del complesso piano di riassetto e abbellimento di Novellara. Benché lo studio del prezioso manufatto sia ancora in corso, anche in assenza di marchi di tessitura, le analogie riscontrate con arazzi fiorentini inducono a ritenerlo opera dell’arazziere Giovanni Rost, attivo in città dal 1545.

S. Ciroldi, La “fabella” di Giasone secondo l’interpretazione di Giovanni Rost (1554) nell’arazzo di Alfoso I Gonzaga, in “Bollettino Storico Reggiani”, Reggio Emilia, anno XXXVIII, luglio 2005, Fasc. n. 127 L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’ tessuto a Firenze per il Conte Alfonso I Gonzaga di Novellara, in “Filiforme”, anno IV, n. 9, primavera 2004, pp. 13-19.

Poviglio - Museo della Terramara di Santa Rosa (c) In località Santa Rosa presso Poviglio lo scavo delle due terramare ha restituito interessanti materiali ora esposti nel Centro Culturale Polivalente. Fra questi vi sono oggetti tipici della sfera femminile soprattutto fusaiole e pesi da telaio, testimonianze di un’intensa attività tessi-

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le. In particolare il villaggio piccolo ha restituito un ago in osso sottile con la parte centrale a sezione ovale e foro quadrangolare oltre a un gruppo di 15 pesi datati al Bronzo Medio, sette dei quali allineati su due file orientate secondo l’asse NO-SE (coerente con l’orientamento generale del villaggio). La loro disposizione ha suggerito la presenza di un telaio verticale a pesi largo ca. m 1,70. Nel villaggio grande invece è stato rinvenuto un gruppo di 12

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pesi (bronzo inoltrato) disposti grosso modo lungo un duplice allineamento orientato secondo l’asse NO-SE. Dimensioni e peso sono assai maggiori rispetto a quelli del villaggio piccolo (diametro da 15,5 a 18,2 cm e peso da 900 a ca. 1500 g), ma sembrano suggerire la presenza di un telaio di dimensioni leggermente minori rispetto all’altro (m. 1,60). B.O.


MODENA

Musei Civici (c) l Museo Archeologico Etnologico con il Museo d’Arte, costituiscono le due sezioni più consistenti e storicamente importanti dei Musei Civici di Modena, con sede nel Palazzo edificato da Francesco III d’Este tra il 1764 e il 1771, acquisito dal Comune e trasformato in istituzione civica nel 1871, a seguito degli scavi, soprattutto preistorici, realizzati nella seconda metà dell’800. La sua originaria vocazione fu quella di luogo deputato a conservare le “patrie memorie” e ad esaltare l’identità storica della città. Nel 1962 furono istituite le due sezioni distinte del Museo Archeologico Etnologico e del Museo Civico d’Arte Medioevale e Moderna.

I

Museo Civico Archeologico Etnologico (c) La sezione archeologica composta da reperti provenienti dagli scavi ottocenteschi integrati nel tempo da recuperi recenti condotti sulla città e sul territorio circostante, segue un ordine cronologico ampio compreso tra il Paleolitico e il Medioevo. Per quanto concerne la documentazione tessile espone strumenti legati alle attività di filatura e tessitura provenienti soprattutto dalla terramare di Montale, oltre a tre fibule etrusche in ferro che presentano sulla faccia esterna frammenti mineralizzati di tessuto per la diffusione di ossidi ferrosi nel terreno di giacitura. Si segnala inoltre che durante gli scavi condotti a Modena nel 1947 per le fondazioni del cinema Odeon in piazza Matteotti, fu rinvenuto un sarcofago in marmo d’epoca tardo romana, unico conservato, dove erano deposti cinque individui avvolti in tessuti di cui uno con il capo cinto da una benda intrecciata con fili d’oro. Di que-

sti reperti, purtroppo, a noi pervenuti in pochi e minimi elementi quasi polverizzati, come pure di un altro frammento piccolissimo di tessuto inglobato su un laterizio, venuto alla luce durante gli scavi della necropoli tardo romana di piazza XX Settembre effettuati nel 1996. La sezione etnologica, costituitasi tra il 1875 e i primi decenni di questo secolo con materiali provenienti da diverse aree geografiche (America del Sud, Perù, Africa, Nuova Guinea, Asia), è documentata da reperti tessili interessanti tutti ascrivibili alla seconda meà dell’Ottocento, come i tessuti di rafia dell’Africa centrale, un’amaca e un perizoma intrecciati in fibra vegetale (il secondo ornato con perline di vetro) di provenienza amazzonica come pure il nucleo variopinto di ornamenti plumari e un suggestivo abito marziale di guerriero giapponese. A fronte di questi materiali esposti, ne sono conservati altri nei depositi, tra cui si segnala una pareo di Tahiti e varie stoffe di corteccia provenienti dall’Oceania, un kimono giapponese, capi d’abbigliamento indiani corredati di accessori e un costume bulgaro. Su tutti domina la raccolta di tessuti precolombiani per consistenza e varietà di materiali. I 603 manufatti esposti e studiati nel catalogo scientifico del 1992, appartenenti a due raccolte storiche museali, la Boccolari-Parenti e la Mazzei-Tacchini, acquisite dal museo rispettivamente nel 1875 e nel 1897 e arricchite da integrazioni successive, fanno riferimento ad un lungo periodo compreso tra il Periodo Intermedio Antico 200-600 a.C. e l’epoca Inca (dalla metà del XV secolo alla Conquista spagnola) e provengono da un’area geografica concentrata di prevalenza nella costa centrale peruviana e nella necropoli di Ancòn. Il cospicuo corpus di materiali conservato e costituito per la maggior parte da frammenti tessili, ma anche da abiti (perizo-


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mi, scialli), da utensili, da filati in lana e cotone attestati nei diversi stadi della loro lavorazione, da oggetti ritrovati in corredi funerari costruiti con fibre e filati (bende, copricapi, buste, borse per coca, bambole, cestini da lavoro), evidenzia i tratti peculiari dell’antica cultura tessile andina. B.O.

S. Desrosiers, I. Pulini, Tessuti Precolombiani, catalogo a cura dei Musei Civici, Modena 1992

Museo Civico d’Arte Medioevale e Moderna (c) Il Museo così denominato fu istituito nel 1962 su un patrimonio antico costituito da dipinti, sculture, manufatti dell’artigianato artistico e scientifico (carte, cuoi, tessili, armi, strumenti musicali, apparecchiature scientifiche, terracotte architettoniche, ceramiche, vetri, oreficerie), che bene esemplificano nella eterogeneità dei materiali l’identità stessa della sua formazione ottocentesca. Creata in parallelo al nucleo archeologico con donazioni di collezioni private integrate nel tempo da acquisizioni e recuperi, questa sezione del museo era rivolta fin dall’origini a documentare momenti della storia nazionale e della cultura locale sul modello diffuso in Europa tra Otto e Novecento dai neonati musei di arte e di arte applicata all’industria. Fra tutte, la collezione che meglio documenta questa vocazione museale è quella dei tessuti antichi donata dal conte Luigi Alberto Gandini nel 1882 non solo per la natura e l’entità dei materiali quanto per la configurazione espositiva finalizzata ad un preciso obiettivo culturale. Con i suoi 2.800 ca. campioni di stoffe, ricami, pizzi e passamanerie (galloni, frange, nastri, fiocchi), la raccolta ci restituisce un ricco e variegato campionario di ornati, tecniche e filati attraverso cui è delineata la storia della produzione tessile italiana ed europea dal Medioevo all’Ottocento inclusa quella relativa ad alcune tessiture extraeuropee (copte e orientali) documentate da capi d’abbigliamento e tappeti di rara reperibilità. Il tessile antico è esibito all’interno di vetrine d’epoca disposte a parete, al centro di una sala del museo progettata a tale fine, nell’intento di richiamare l’attenzione su un prodotto dell’artigianato artistico fondante nella storia del’uomo e per troppo tempo trascurato sia dal mondo culturale che da quello economico: così musealizzati i tessuti dovevano diventare fonte insostituibile di conoscenza e di ispirazione per nuove creazioni. Dal 1975 ad oggi la raccolta è stata oggetto di un proget-

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to sistematico e scientificamente avanzato di valorizzazione promosso dall’amministrazione locale e dall’Istituto per i Beni Culturali che ha portato allo studio e al restauro dei materiali, nonché al recupero dell’intero assetto espostivo (sale e vetrine). Il lavoro congiunto ha prodotto a tutt’oggi con il restauro anche la pubblicazione integrale dei tessuti dal XVII al XIX secolo e del nucleo di pizzi e passamanerie. Il museo conserva non esposta nei depositi anche un’altra corposa raccolta tessile di 400 pezzi circa, non ancora studiata, costituita da donazioni e acquisti successivi alla collezione storica Gandini, provenienti essenzialmente dall’ambito locale. Si tratta in gran parte di frammenti databili dal XVI a XX secolo (200 circa), ma c’è anche un bel nucleo di abiti maschili e femminili del XVIII e XIX secolo corredati da accessori (borse, cappelli, scarpe, ventagli…) nel novero di 150 pezzi ca., tra cui si segnalano diciotto gilets maschili ricamati e due busti femminili in seta settecenteschi, oltre ad un trentina di parati e arredi liturgici di varie epoche, tre divise di corte, alcune livree, due campionari (uno di tessuti di provenienza francese del 1901, l’altro dei primi del Novecento di pizzi meccanici neri e in oro e argento), oltre a un corredo intero maschile di abiti e di biancheria donata da una nota famiglia dell’alta borghesia modenese. Tra i cimeli legati alla storia locale si segnalano, infine, l’uniforme di Accademico del pittore Adeodato Malatesta con spadino e feluca della metà del XIX secolo e la toga da professore universitario dell’insigne teologo e studioso modenese Don Celestino Cavedoni. La Collezione Gandini del Museo Civico di Modena. I tessuti del XVIII e del XIX secolo, catalogo a cura di D. Devoti, G. Guandalini, E. Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Bologna 1985 La Collezione Gandini. Tessuti dal XVII al XIX secolo, catalogo a cura di D.Devoti e M.Cuoghi Costantini, Modena 1993 La Collezione Gandini. Pizzi, ricami e passamanerie dal XV al XIX secolo, catalogo a cura di T. Schoenholzer e I. Silvestri, Modena 2002

Museo Civico del Risorgimento (c) Il Museo attualmente chiuso e in fase di studio e di riallestimento fa capo al Museo Civico d’Arte pur mantenendo autonomia istituzionale e sede separata all’interno del Palazzo dei Musei. Fondato nel 1893 e inizialmente aggregato al Museo Civico, fu trasferito nell’attuale sede nel 1926. Vi sono conservati circa 2000 oggetti tra armi, bandiere, uniformi, dipinti, stampe, medaglie e altri cimeli relativi in prevalenza al periodo risorgimentale, con un


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nucleo minore afferenti alla Guerra italo-turca (19111912) e al primo conflitto mondiale. La sezione risorgimentale più significativa è quella legata alla storia locale e riguarda la dinastia austro-estense, l’esercito ducale, la Guardia nazionale del ’48, la vita e le opere dei suoi patrioti più insigni: Ciro Menotti, Vincenzo Borrelli, giustiziati nel 1831, Giuseppe Malmusi, capo del governo provvisorio del ’48, Enrico Cialdini che comandò le truppe piemontesi nello scontro di Castelfidardo nel ’60 e Nicola Fabrizi agitatore mazziniano e volontario garibaldino. Tra i numerosi reperti quelli tessili hanno una rilevanza numerica considerevole, più di duecento pezzi, così distinti: 93 capi di abbigliamento militare in cui sono compresi uniformi, giubbe, berretti e calzoni che illustrano oltre un secolo di storia, dalla corte estense alla prima guerra mondiale con esemplari appartenenti alla Guardia Civica, all’Esercito italiano fino alle camice rosse dei garibaldini; 72 bandiere e stendardi, databili tra il 1830 e il primo quarto del XX secolo, 17 fazzoletti patriottici e una quartina circa di reperti frammentari relativi a bandiere, sciarpe, coccarde, ombrellini parasole con tricolore, oltre a due cimeli importanti, una camicia e un gilet, appartenuti a Ciro Menotti. L.L.

Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII, Bologna 1997, pp. 105-108

Palazzo Comunale (c) La sala del Vecchio Consiglio del palazzo Comunale di Modena fu rivestita nel 1766 da un tappezzeria in damasco di seta gialla che riproduce racchiuso tra fogliami lo stemma della città sormontato dalla trivella: la stoffa fu tessuta dal bolognese Vincenzo Cavallazzi artefice anche tra il 1754 e il 1778 di un altro addobbo in damasco rosso della Cattedrale. Il damasco, utilizzato anche nelle poltrone della sala, sostituì il precedente rivestimento seicentesco in cuoio stampato. Da allora rimase nell’uso denominare questo ambiente come “La sala gialla dei tessuti damascati”. Parte della tappezzeria originale degradata fu sostituita agli inizi del ’900 da un damasco affine ma di qualità inferiore, a sua volta rimosso integralmente nel 1985 quando si decise di realizzare una copia uguale alla tappezzeria originale del XVIII secolo.

AA.VV. Il Palazzo Comunale di Modena. Le sedi, la città, il contado, a cura di G. Guandalini, pp. 253, 254, 264

Museo e Galleria Estense (s) Il museo-galleria, sito dal 1894 nello storico Palazzo dei Musei della città fatto edificare nel XVIII secolo dai duchi di Modena, è costituto da raccolte d’arte antiche di proprietà degli Estensi incrementate nei secoli successivi (dipinti, sculture, maioliche, bronzetti, vetri e strumenti musicali). Conserva tra i manufatti più singolari e preziosi un cofano-scrittoio da viaggio appartenuto ad Ercole III d’Este. Il baule decorato da profilature e ornato all’interno da statuette in bronzo dorato, opera dello scultore-orafo estense Leone Leoni (1509-1590) che le eseguì intorno alla metà del XVI secolo (15501556 ca), è rivestito all’esterno da un tessuto dell’epoca. Si tratta di un velluto cesellato in seta cremisi con fondo laminato d’oro e disegno a maglie ovali schiacciate che racchiudono mazzi di fiori con piccole melagrane, sicuramente tessuto in una manifattura italiana della seconda metà del XVI secolo, tra cui non si esclude a priori una provenienza circoscrivibile al territorio estense: qui infatti è documentata, tra Ferrara, Modena e Reggio Emilia, la lavorazione di stoffe di seta di qualità medio-alta, tra cui appunto primeggiano i velluti operati di seta, tra tutti, i generi più costosi e prestigiosi, simbolo tessile per eccellenza dell’aristocrazia e della regalità. Restauri fra Modena e Reggio, catalogo della mostra a cura di Giorgio Bonsanti (Modena, Palazzo dei Musei 29 ottobre-24 dicembre 1978), Modena 1978, schede di M. Mezzatesta L. Follo (cofano), I. Silvestri - E. Bazzani (rivestimento in velluto), pp. 100-111

Museo Storico dell’Accademia Militare (s) Conservato in uno dei più grandi palazzi barocchi italiani, illustre esempio di edilizia civile sei-settecentesca, costruito dal 1634 nelle forme di reggia sul luogo di un antico fortilizio dall’architetto romano Bartolomeo Avanzini per il duca Francesco I d’Este, il Museo è dedicato alla storia della Accademia dal 1863 ad oggi. Aperto nel 1905 e riallestito nel 1988 in otto sale del piano nobile, conserva tra armi, cimeli e documenti d’archivio, materiali tessili di valore storico documentale. Ricordiamo, per tutti, nella sala delle Guardie Nobili due bandiere, un tri-

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colore assegnata il 15 marzo 1849 da re Carlo Alberto all’Accademia militare di Torino e la bandiera della preesistente Accademia di Fanteria e Cavalleria del 1891. Nella Sala degli staffieri, camerieri e ritratti, insieme ai berretti degli ex-allievi ufficiali dell’Accademia Militare caduti nelle guerre del Risorgimento, nei due conflitti mondiali, sono esposte le due uniformi storiche dei cadetti (originali e ricostruite), la prima invernale composta da giubba a doppio petto blu chiusa da 14 bottoni dorati con spalline recanti l’anno di corso dell’allievo, pantaloni di panno azzurro profilati da una doppia banda rossa con sottopiede bianco, chepì a cilindro nero con nappa e pennacchio di crine, la seconda estiva con giubba bianca e pantaloni azzurri. Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII, Bologna 1997, pp. 109-112 Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 24, 25

brazioni importanti, sono ritenuti tra le poche serie più antiche documentate in Italia. Il Museo del Duomo di Modena, guida al museo, Genova 2002

Museo del Combattente (p) Dedicato alla memoria dei due conflitti mondiali, il museo, aperto nel 1995 in alcune sale della Casa del Mutilato, sede dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, conserva insieme alla documentazione dei vari fronti, un nutrito corredo di manufatti tessili, una cinquantina circa, tra uniformi, indumenti, copricapi, fazzoletti, coperte e accessori militari (mollettiere/fasce, zaini e sacchi per indumenti) dei vari eserciti (fanteria, aviazione, marina italiana, tedesca, inglese, rumena, russa e americana). Unico reperto ottocentesco documentato è la divisa risorgimentale (camicia con berretto) dell’ufficiale garibaldino Enrico Marabini, medaglia d’argento per la battaglia della Bezzecca nel 1866. Musei della Provincia di Modena, pubblicazione della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 32, 33

Museo del Duomo (e) Sito nei corpi antichi annessi alla Cattedrale al piano di sopra del Museo Lapidario, il museo inaugurato nell’anno giubilare 2000 conserva insieme a dipinti sacri e preziosi arredi liturgici svariati paramenti tessili (pianete, tonacelle, piviali con accessori, camici e paliotti) appartenuti ai vescovi della diocesi, tra cui si menzionano due manufatti importanti: il parato in terzo solenne di San Geminiano ricamato in seta policrome e oro con scene tratte dalla vita del patrono locale, d’ambito emiliano del XVIII secolo e il paliotto del cardinale Morone, ascrivibile all’epoca del suo episcopato (15641571), tessuto in lampasso operato con inserti ricamati in oro velato e sete policrome, raffiguranti otto santi, Dio Padre e la Madonna con il Bambin Gesù: il ricamo, opera di grande pregio per la tecnica particolare con cui è eseguito a fili di seta policromi avvolti a spirale su fili d’oro, è di sicura manifattura fiorentina. Nel Museo sono esposti anche due arazzi raffiguranti “I progenitori e il peccato originale” e “Il Diluvio Universale” che fanno parte di una serie, “La Genesi”, tessuta insieme alle altre due serie non esposte (“Storie di Giacobbe e “Storie di David”) nelle Fiandre intorno alla metà del XVI secolo. I diciotto arazzi conservati in lana e seta, donati alla cattedrale modenese dalla famiglia Sertorio ed esposti appesi alle arcate che dividono le navate durante le cele-

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PROVINCIA DI MODENA

Bastiglia - Museo della Civiltà Contadina (c) Il Museo della Civiltà contadina venne istituito ufficialmente nel 1977 sulla base di una raccolta di oggetti e manufatti della vita contadina accorpati nell’ambito di un’iniziativa scolastica. A questo primo nucleo si aggiunsero nel tempo ulteriori donazioni di materiali, sistemati nell’ex scuola materna parrocchiale secondo una suddivisione per settori dedicati alla vita domestica e alla lavorazione agricola. Macchine agricole anche di grandi dimensioni, sistemate in un capannone, illustrano la vita dei campi, documentata da un rilevante patrimonio di fotografie d’epoca. Di particolare rilievo le attività connesse ai cicli della produzione del vino e del formaggio e alla manifattura della canapa. In quest’ultima sezione sono esposti numerosi strumenti e manufatti. Si tratta, nella fattispecie, di 358 e 720 dipanatori per la canapa, di 1548 pettini da tessitura, 39 filatoi, 1064 serie di fusi, 211 rocchetti, 60 aspi per matassa, 473 telai, uno dei quali funzionante; seguono 734 liccioli, 247 rastrelli e 474 or-


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ditori che raccontano le diverse fasi della produzione delle principali tipologie tessili presentate nel percorso espositivo: dagli oggetti d’uso (1282 lenzuola in canapa con ricamo centrale, 1393 e 1396 portainfanti e 1332 asciugamani ricamati) fino agli abiti e agli accessori di maggiore diffusione: camicie e camicini, sottovesti, cuffiette, brache ed un tabarro in lana. Questi materiali, organizzati nell’apposito settore e sottoposti sino ad ora ad ordinaria manutenzione, sono attualmente in fase di inventariazione informatizzata. E.L.

Carpi - Castello dei Pio, Museo Civico “Giulio Ferrari” (c) Istituito in epoca post-unitaria secondo la concezione positivista del tempo, il Museo carpigiano espresse la storia locale attraverso l’eterogeneità delle sue raccolte (reperti archeologici, ceramiche, scagliole, mobili, stampe, tessili, manufatti vari come i cappelli e gli intrecci di paglia, fino ai cimeli dell’epoca risorgimentale) tutte distribuite secondo una suddivisone tipologica nelle sale di quel grande complesso monumentale storico che è il Castello dei Pio e che vide la sua stagione più alta in epoca rinascimentale grazie alla politica lungimirante dei suoi signori. Quanto ai tessili ivi conservati, ma non esposti, insieme ad un piccola ma ben selezionata raccolta di paramenti liturgici di varie epoche e tipologie sia tecniche che decorative, si deve menzionare una donazione privata di ventagli storici costituita da più di un centinaio di pezzi compresi tra la fine del XVIII e il XIX secolo, di cui diversi sono realizzati in stoffa ricamata, stampata e dipinta, ma anche in trina ad ago o a fuselli di lino bianco. Parte della raccolta, studiata e restaurata con i fondi regionali erogati dall’Istituto per i Beni Culturali, è stata oggetto di una piccola mostra promossa dal Museo Civico nel 1999. Tra i reperti tessili della sezione risorgimentale si annoverano uniformi, camicie, copricapi, nastri, coccarde dei suoi più insigni patrioti locali come Ciro Menotti (1798-1831) e i generali Manfredo Fanti (18081865) e Antonio Gandolfi (1835-1902). A. Garuti, D. Colli, Carpi. Guida storico artistica, Carpi, 1990 Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII, Bologna 1997, pp. 71-74

Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 64, 65 Sulle ali della seduzione. Ventagli restaurati del Museo Civico, catalogo della mostra a cura di Manuela Rossi, Imola 1999

Fiumalbo - Museo di Arte Sacra (e) Il Museo aperto nella chiesa di Santa Caterina dei Rossi (di proprietà della Confraternita omonima) sita a fianco della parrocchiale nella piazza di Fiumalbo, espone gli arredi fissi e mobili della chiesa originaria seicentesca annessa al convento delle Domenicane: altari sei-settecenteschi con dipinti su tela e tavola incorniciati da ancone lignee dorate, coro ligneo monastico del 1754 recante l’emblema di Santa Caterina, il cuore trafitto e oggetti dell’oreficeria sacra conservata entro vetrine. Dietro all’altare maggiore e a ridosso delle cappelle laterali sono esposti paramenti tessili (pianete) di pregevole fattura in dotazione alla chiesa, in sete operate a motivi floreali databili al XVII, XVIII e XIX secolo. Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 76, 77

Gaggio di Piano - Raccolta del Lavoro Contadino e Artigiano di Villa Sorra (c) La Raccolta del lavoro contadino e artigiano di Villa Sorra venne costituita nel 1973 quando il pittore e antiquario Celestino Simonini decise di donare al Comune di Modena i beni di cultura materiale raccolti nel corso di lunghi anni di ricerca. Da allora gli oggetti sono conservati a Villa Sorra, residenza nobiliare settecentesca, oggi di proprietà pubblica, circondata da un vasto parco e da diversi edifici rurali. Accresciuta nel tempo da altre donazioni, la raccolta è oggi una delle più cospicue a livello regionale con i suoi oltre 9.000 reperti, databili dalla fine del XVIII alla metà del XX secolo. Attualmente, essendo consentito l’accesso alla sola area verde circostante la villa e al giardino storico, è possibile chiedere di visitare i depositi per motivi di studio rivolgendosi al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena, a cui le collezioni sono state affidate dal 1991. La raccolta è costituita principalmente da attrezzi agricoli e suppellettili relativi al lavoro e alla vita domestica nel mondo contadino e da una ricca serie di strumenti e manufatti inerenti l’artigianato tradizionale in ambito rurale e urbano. Tra i pezzi riguardanti il settore tessile si segnalano un

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REPERTORIO

nucleo significativo di tessuti (provenienti dal corredo domestico delle classi rurali meno abbienti) ed una consistente serie di attrezzi relativi al ciclo produttivo delle fibre tessili, coltivate in area locale fino agli anni 1950 circa. Nell’inventario figurano indumenti da uomo (14 capi di vestiario e 7 tabarri), indumenti da donna (31 capi), indumenti da bambino e portainfanti (34 capi, oltre a 3 completi battesimali), oggetti d’uso e biancheria della casa (lenzuola, coperte, asciugamani, tende e parti di tappezzeria per complessivi 79 pezzi), scampoli di tessuto di varia provenienza (per un totale di 69 pezzi). Fra gli attrezzi da lavoro è rappresentato in particolare il ciclo produttivo della canapa (anche nelle fasi iniziali di coltivazione, raccolta e mondatura della fibra) rivolto alla produzione di indumenti popolari e tessuti di uso domestico. Sono presenti strumenti per la preparazione e la formazione del filo e delle matasse: 57 pettini, 33 arcolai di vario tipo, 20 filatoi, 13 rocche, 102 fusi, 40 rocchetti di filo. Fanno parte della raccolta 4 telai completi e varie parti componenti dei dispositivi per l’orditura e la tessitura, oltre ad alcuni attrezzi per la cardatura della lana. G. C.

1996, ha portato alla realizzazione del Parco archeologico e Museo all’aperto del parco di Montale, inaugurato nel 2005. L’area ospita una ricostruzione a grandezza reale di una parte del villaggio terramaricolo desunta in base ai dati di scavo. Si tratta in particolare di due abitazioni sopraelevate sul livello del terreno e arredate con oggetti riprodotti fedelmente sulla base di originali rinvenuti nell’area di Montale o in altre terramare. Nonostante gli scavi non abbiano restituito filati o frammenti di tessuto, tuttavia l’ingente numero di fusaiole in ceramica di impasto e pesi da telaio (ora conservati al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena), ha fatto supporre che le attività di filatura e tessitura fossero praticate all’interno del villaggio. All’interno delle due abitazioni sono stati infatti ricostruiti a titolo esemplificativo due telai verticali a pesi, larghi rispettivamente m 1,20 (casa A) e m 1,60 (casa B) da montante a montante. Il primo è stato armato con un ordito di lana per un totale di 360 fili distribuiti su 12 pesi, mentre l’altro con un ordito di lino formato da 650 fili distribuiti su 32 pesi accanto a un elegante abito bianco riservato alla sposa del guerriero. I numerosi pettinini in corno e osso rinvenuti sia in questo sito che in altre terramare sono stati interpretati come strumenti utili a compattare il filato durante l’operazione di tessitura. B.O.

Iola di Montese - Raccolta di cose Montesine (p)

A. Cardarelli, Parco archeologico e museo all’aperto della terramare di Montale, Modena, Comune di Modena, Museo Civico Archeologico, 2002

Allestita in un’antica canonica del 1683, la raccolta restituisce con grande cura del dettaglio, insieme a reperti della secondo conflitto mondiale, lo scandire della vita semplice e quotidiana della gente che abita quei luoghi, la cucina, la camera da letto, le stanze da lavoro del falegname, del calzolaio e della tessitura. In questa ultimo luogo della casa si trova un telaio di legno funzionante per stoffe di canapa con un corredo di strumenti per lavorare la lana di pecora (forbici, fusi e rocche). Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 86, 87

Montale - Parco Archeologico e Museo all’Aperto della Terramare di Montale (c) La presenza di una terramare sulla collinetta di Montale scavata nella seconda metà dell’800 e più tardi nel

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Montefiorino - Museo della Repubblica Partigiana (c) Aperto in alcune sale della Rocca Medioevale, il museo documenta la vicenda partigiana di Montefiorino soffermandosi sugli eventi fondamentali di quel periodo: l’occupazione tedesca, la liberazione e la nascita della Repubblica. I manufatti tessili sono rappresentati in queste sezioni da divise, abiti e accessori indossati da militari e partigiani che hanno combattuto sui vari fronti di pianura e di montagna. Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 84, 85


REPERTORIO

Montese - Museo Storico (c) Ospitato nella Rocca, antico fortilizio difensivo del XIII secolo da poco restaurato, il museo si articola in quattro sezioni dedicate alla ricostruzione storica delle prime comunità umane nella valle del Panaro, dalla preistoria al Medioevo (Insediamenti e Territorio), al ruolo prioritario dell’acqua nella vita della montagna (Cultura materiale, economia dell’acqua), ai problemi e agli obiettivi del millennio in cui viviamo (Memoria del XX secolo. Nuovo millennio), ai danni prodotti dai conflitti mondiali (Fascismo e guerra in Italia. La linea Gotica), alla ricostruzione del paese nel periodo post-bellico (Gli anni della trasformazione). È solo nella penultima sezione che sono esposte divise della seconda guerra, italiane, tedesche, americane e brasiliane, in quanto dal Brasile, fatto unico in Italia, partì una spedizione di 25.000 uomini in difesa del nostro Appennino, che il 14 aprile 1945 liberò Montese dall’oppressione fascista.

tunicella con accessori) veicolavano il ruolo e la funzione liturgica dell’officiante e del suo corredo vestimentale, all’interno di un sistema visivo di forme e colori in cui si coniuga e si trasmette la simbologia del sacro. In questa occasione sono esposti due reperti eccezionali per significato, antichità e rarità: si tratta di due reliquie tessili seriche di santi benedettini, che documentano la produzione oggi quasi interamente perduta di tessuti e ricami alto medioevali provenienti da manifattura bizantina (VIII e IX secolo), il reperto più antico con aquila imperiale e da manifattura palermitano o dell’Egitto fatimita (XI-XII secolo), il reperto d’epoca posteriore con animali vari, lepri, cervi e leoni. Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, catalogo della mostra (Nonantola, Museo Diocesano, 6 novembre 2004 – 9 ottobre 2005), a cura di C. Ciaravello e R. Fangarezzi, Quaderni Di Arte Sacra n. 4, San Giovanni in Persiceto (Bo), 2004

Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 92, 93

Sestola - Museo della Civiltà Montanara (c) Nonantola - Museo Benedettino Nonantolano e Diocesano di Arte Sacra (e) Inaugurato nel 2003 in occasione di due importanti ricorrenze, il XII centenario della morte di Sant’Anselmo abate, fondatore dell’Abbazia Benedettina, e il XVII centenario del martirio dei Santi Sinesio e Teopompo, il Museo, allestito nei locali contigui dell’antico monastero benedettino consacrato nel 753 e passato ai monaci cistercensi dal 1514 al 1769 insieme all’attigua abbazia, esempio significativo di architettura romanica padana, si configura in due sezioni distinte: il Tesoro Abbaziale, che documenta la storia di Nonantola centro di intensa vita politica e religiosa in epoca medioevale e il Museo Diocesano d’Arte Sacra, nato per la tutela e l’esposizione dei beni artistici diocesani a rischio conservativo. La seconda sezione pensata in una logica di esposizioni temporanee e tematiche sull’arte sacra, non strettamente legate alla storia dell’abbazia benedettina, propone oggi una mostra temporanea, dedicata alla comprensione dei significati molteplici espressi principalmente dai paramenti liturgici, tessuti e ricamati di varie epoche e tipologia, provenienti dalle chiese della diocesi di Modena e Nonantola e non sufficientemente tutelati quanto a sicurezza e conservazione. Disegno, tecnica, colore del tessuto e taglio sartoriale dell’indumento (piviale, pianeta,

Il Museo è allestito dal 1986 nell’ex scuderia del Palazzo del Governatore, nel complesso del castello di Sestola. Sono più di 1500 i pezzi che formano la raccolta, costituitasi nel tempo sulla base di un nucleo originario di oggetti e manufatti che testimoniano la quotidianità antica dell’Appennino modenese. Oltre alle botteghe artigiane del fabbro, del calzolaio, del falegname, sono stati ricostruiti alcuni ambienti della casa rurale: la cucina, la camera da letto, la cantina, la stalla. Un’intera sezione è dedicata alla tessitura e al cucito e alla lavorazione domestica della lana, documentata da una serie di strumenti. Tra i pezzi più interessanti figura un telaio della fine del XIX secolo. E.L.

Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 108, 109

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BOLOGNA

Museo Civico Archeologico (c) corredi delle necropoli etrusche di Bologna che coprono un arco temporale dal IX al IV secolo a.C., hanno restituito una notevole quantità di fusaiole in terracotta, rocchetti di ceramica, conocchie, fusi e pesi da telaio. Nel periodo orientalizzante alcuni di questi oggetti sembrano subire un’evoluzione formale e decorativa poiché i corredi si arricchiscono di esemplari più raffinati quali ad esempio fusaiole realizzate in bronzo, in pietra o addirittura in vetro associati a conocchie in osso o ambra. Generalmente fanno parte dei corredi più ricchi e sottolineano il rango della signora che li sfoggiava. La loro fragilità porta a pensare che questi strumenti avessero solamente un valore simbolico a ricordo del ruolo svolto anticamente dalla donna all’interno della casa. Un oggetto interessante è il tintinnabulo con decorazione a sbalzo che raffigura il ciclo di lavorazione della lana suddiviso in quattro scene (ultimo quarto del VII secolo a.C.). Il Museo Civico Archeologico inoltre ha realizzato nell’area del parco pubblico dei Giardini Margherita, una ricostruzione in dimensioni reali della capanna tipica di epoca villanoviana arredata con varie suppellettili fra le quali un telaio verticale a pesi. B.O.

I

Museo Civico Medievale (c) Dal 1985 il museo ha sede nel quattrocentesco palazzo Ghisilardi Fava, una delle più rilevanti dimore dell’età dei Bentivoglio. Sono state qui riunite la raccolta di Ferdi-

nando Cospi, quella del marchese Luigi Ferdinando Marsili, il fondo Pelagio Palagi e il nucleo espositivo più rilevante del museo costituito da testimonianze della vita medievale bolognese. Si inserisce fra queste il grande piviale ricamato con scene della vita di Cristo e della Madonna proveniente dal cittadino convento di San Domenico, eccezionale esempio di opus anglicanum, ovvero di quella raffinatissima produzione che si sviluppò in Inghilterra fra Duecento e Trecento. La ricchezza e la varietà dell’apparato decorativo, ancora perfettamente leggibile grazie alle condizioni di conservazione relativamente buone, ne fanno un documento di eccezionale valore storico ed artistico, fonte di ispirazione per numerosi artisti bolognesi del Trecento e del primo Quattrocento. Sono attualmente conservati a deposito i numerosi tessuti che nell’allestimento storico del museo figuravano invece nel percorso espositivo appesi alle pareti con la protezione di teche di legno e vetro quale documentazione di questo particolare settore delle cosiddette arti applicate o industriali. Completano il patrimonio tessile del Museo Civico numerosi frammenti ordinati in una sorta di campionario a fogli che, unitamente ai precedenti, esemplificano le principali tipologie tessili, tecniche e decorative, fra Medioevo e Settecento. La formazione della singolare raccolta, di cui manca ancora lo studio analitico dei singoli esemplari, è certamente connessa alle vicende della locale Aemilia Ars. Quanto alla provenienza dei materiali, occorre notare che numerosi frammenti trovano riscontro nell’enciclopedica raccolta Gandini del Museo di Modena e che verosimilmente hanno analoga provenienza. F. Bignozzi Montefusco, Il piviale di San Domenico, Bologna 1970


REPERTORIO

Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini (c) Istituito nel 1924 per volere dell’allora soprintendente alle Gallerie Francesco Malaguzzi Valeri, il museo ha sede nel secentesco palazzo Bargellini, caratterizzato dai monumentali atlanti in arenaria della facciata. È composto di due distinti nuclei patrimoniali, la quadreria Bargellini e le raccolte d’arti applicate bolognesi dei secoli XVXVIII la cui fusione doveva dar vita, nelle intenzioni dell’ideatore, ad un vero e proprio appartamento arredato del Settecento bolognese. Il settore tessile è rappresentato da una ricca serie di manufatti ricamati provenienti dall’Opera Pia dei Poveri Vergognosi di Bologna, amministratore del Conservatorio femminile di Santa Marta, il celebre collegio che accoglieva e garantiva un futuro a giovani di buona famiglia cadute in disgrazia per cattiva sorte. Fra le opere di maggior interesse si ricordano le parti frammentarie di pianeta con raffigurazioni ispirate al repertorio raffaellesco delle Logge Vaticane, una serie di quadretti devozionali esemplati su opere pittoriche famose, una poltrona e una coppia di seggioloni rivestiti in raso di seta avorio con ricami raffiguranti rispettivamente la primavera e un paesaggio marino (poltrona) e semplici festoni di frutta (seggioloni). Databili al XVII secolo, i ricami sono accomunati dal cosiddetto punto pittura, tecnica che consentiva di ottenere effetti cromatici complessi, ricchi di numerosissime sfumature. Si segnala infine un raro teatrino del XVIII secolo dotato di un ricco corredo di marionette abbigliate secondo il costume dell’epoca. Il Museo Davia Bargellini, a cura di R. Grandi, Bologna 1987, pp. 174-190

Collezioni Comunali d’Arte (c) Fondato nel 1936, a conclusione di un sistematico piano di riorganizzazione delle raccolte civiche, il museo ha sede al secondo piano del Palazzo Comunale, all’interno delle sale che un tempo erano adibite a residenza dei Cardinali Legati. Espone un ricco patrimonio proveniente dalle antiche magistrature cittadine, dalla collezione Palagi e da donazioni successive, sintesi delle principali correnti artistiche bolognesi dal ’300 all’ ’800. Il settore dei tessuti è rappresentato da una importante campionatura della produzione di merletti e ricami Aemilia Ars, l’industria di arti applicate che si sviluppò a Bologna a cavallo fra Otto e Novecento con lo scopo di promuovere il recupero di produzioni artigianali

tradizionali cadute in disuso e la cui attività fu fortemente influenzata dal gusto per i revivals di Alfonso Rubbiani. Acquisita dal Comune nel 1935, e in un primo tempo destinata al Museo Davia Bargellini, la raccolta di pizzi e merletti è formata da oltre duecento pezzi che ripropongono tecniche e motivi decorativi storici, desunti dai numerosi repertori di modelli dati alle stampe nel XVI e XVII secolo. Si segnala infine un prezioso arazzo fiammingo del XVI secolo raffigurante Salomone e la Regina di Saba. Aemilia ars. Arts &Crafts a Bologna 1898-1903, catalogo della mostra a cura di C.Bernardini, D. Davanzo Poli, O. Ghetti Baldi, Bologna 2001

Casa Carducci (c) Istituito nel 1921 dal Comune di Bologna per conservare e valorizzare il patrimonio di memorie e cultura raccolto dal poeta Giosuè Carducci nell’ultima abitazione bolognese, occupata dal 1890 sino alla morte nel 1907, oggi il museo di Casa Carducci si configura come un organismo composito e originale: dimora storica con giardino e monumento, archivio e biblioteca, raccolta di oggetti e memorie carducciane, centro di informazione e di ricerca sull’opera dello scrittore. Oltre alla biblioteca e all’archivio, che rappresentano indubbiamente la parte più rilevante e significativa di tutto il complesso, il museo raccoglie un ricco ed eterogeneo patrimonio di oggetti, arredi, suppellettili. La casa ha infatti conservato l’arredo storico, tipico delle abitazioni borghesi di fine Ottocento. Poltroncine, divani, letti, molti dei quali dotati delle tappezzerie e dei rivestimenti tessili originali, arredano il salottino, lo studio, la camera da pranzo e le camere da letto conferendo agli ambienti un fascino del tutto particolare. Per rarità e interesse, si segnalano le due tende da finestra in taffetas di seta avorio stampato e dipinto dell’ultimo quarto del XIX secolo collocate nello studio, oggetto di un accurato intervento di recupero attuato grazie a finanziamenti dell’Istituto per i Beni Culturali. Un recente intervento di ricostruzione, condotto sulla base di attente ricerche storiche, ha invece interessato la camera da pranzo e la camera da letto del poeta dove sono state allestite le tende mancanti. Benché non esposti, si conservano infine numerosi capi di vestiario appartenuti a Giosuè Carducci: una vestaglia in lana scozzese, camicie di cotone, il frac confezionato quando il letterato fu ascritto al senato (1891), la redingote, cappelli e farfalli-

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REPERTORIO

ni, preziosa testimonianza della moda maschile di fine Ottocento.

Museo Civico del Risorgimento (c) Il Museo, originariamente inaugurato nel 1893 in una sala al pian terreno del Museo Civico di Bologna, dopo diverse chiusure e riaperture, dal 1990 fu definitivamente trasferito e riallestito al piano terra di Casa Carducci secondo un arco cronologico compreso tra l’arrivo delle armate francesi a Bologna nel 1796 e la conclusione della prima guerra mondiale che si articola in cinque sezioni tematiche: l’età napoleonica, la restaurazione, l’epopea risorgimentale, l’Italia unita, Bologna in guerra. Conserva un ricco patrimonio di manufatti tessili, per un totale di 550 pezzi, ordinati secondo le varie tipologie ed epoche, di cui solo una piccola parte è esposta. La parte più cospicua è quella del periodo risorgimentale ammontante con bandiere, stendardi, uniformi militari, copricapo e accessori vari che vanno dalle coccarde alle croci, dai foulards e dai fazzoletti patriottici fino alle giberne e ai gradi militari (cordelline, spalline, mostrine, ecc…). Tra le uniformi, (di cui si conservano solo le giubbe, perché i pantaloni venivano riutilizzati per uso civile) comprese tra la rivoluzione francese e la prima guerra mondiale si menzionano le più importanti, quelle della Guardia Nazionale della Repubblica Cisalpina (1797), del generale napoleonico Josef Grabinski e dei patrioti bolognesi, Zambeccari (1848), Boldrini (1849), Filopanti (1866), Serra (1870). Per gli stendardi ricordiamo i due napoleonici e tra le bandiere quelle risorgimentali del 1831 e del 1854, oltre a quelle delle guerre di Indipendenza (1848-1866). Un nucleo numericamente inferiore ma significativo di manufatti tessili è rappresentato, inoltre, da abiti civili maschili del XVIII e XIX secolo, da livree corredate da accessori di impiegati comunali e da un arazzo meccanico di fine ’800 e inizi ’900, da tredici grandi drappi con gli emblemi delle antiche corporazioni bolognesi eseguiti intorno al 1930 per decorare gli esterni del palazzo Comunale (in deposito al Museo della Tappezzeria della città), nonché da paramenti e arredi sacri otto – novecenteschi, tra cui spicca per pregio il prezioso camice in pizzo a fuselli di epoca napoleonica appartenuto al Cardinale bolognese Giambattista Caparra, che incoronò Napoleone a Milano nel 1805.

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Il primo centenario del Museo del Risorgimento di Bologna, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», n. 34, Bologna 1989 Invito al Museo civico del Risorgimento – Casa Carducci, Bologna 1990 Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», anno XLII, Bologna 1997, pp. 57/63

Tunica con medaglie del garibaldino Ignazio Simoni. Italia 1860, Pannetto di lana rossa. Bologna, Museo Civico del Risorgimento.

Museo del Patrimonio Industriale (c) Il Museo del Patrimonio Industriale di Bologna, collocato in un’antica fornace da laterizi, studia, documenta, visualizza la storia produttiva della città e del suo territorio, dalla “Bologna dell’acqua e della seta” dei secoli XVXVIII all’attuale distretto meccanico e meccatronico. Di particolare interesse la ricostruzione dell’organizzazione dell’antico network urbano della produzione serica dove il percorso narrativo è integrato da modelli di macchine funzionanti (mulino da seta alla Bolognese in scala 1:2, modello di conca di navigazione); allestimenti scenogra-


REPERTORIO

Telario per veli alla bolognese (ricostruzione). Bologna, Museo del Patrimonio Industriale.

Orditoio da seta alla bolognese (ricostruzione). Bologna, Museo del Patrimonio Industriale.

fici (stanza del mercante, piazza della produzione, ricostruzione di acconciature con velo di seta dei secoli XVXVIII); strutture interattive (teatro delle acque e dei mulini, plastico dei mulini rizzardi, plastico del mulino Pedini); dia-proiezioni (il velo di seta nella pittura europea dei secoli XV-XVIII); documentari (il filo dell’acqua, il mulino da seta alla bolognese, il viaggio della seta tra Bologna e Venezia). M.G.

Museo Ebraico (c e altri enti)

Prodotto a Bologna, a cura di A. Campigotto, R. Curti, M. Grandi, A. Guenzi, Bologna 2000, pp. 22-47.

Inaugurato il 9 maggio 1999, il Museo Ebraico di Bologna è ospitato in un antico palazzo cinquecentesco nella zona dell’ex ghetto: è stato istituito allo scopo di conservare, studiare, far conoscere e valorizzare il ricco patrimonio culturale ebraico profondamente radicato a Bologna e in molte località dell’Emilia-Romagna. Il tema centrale dell’identità ebraica è sviluppato nelle tre sezioni del percorso espositivo: la prima affronta la storia del popolo ebraico dalle origini ad oggi, e comprende una sala della memoria a ricordo della Shoah; la seconda sezione è dedicata alla storia dell’insediamento ebraico a Bologna; la terza documenta le vicende storiche degli ebrei in Emilia-Romagna. Il percorso si avvale di un allestimento architettonico, grafico e multimediale innovativo. Alcuni argenti e tessuti, provenienti dalla Comunità Ebraica di Modena, illustrano aspetti della vita e della tradizione ebraica: vanno segnalati un meil (manto per la Torah) della metà del XVIII secolo, un altro della fine del XVIII secolo e un talled (scialle per la preghiera) ottocentesco. V.M.

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REPERTORIO

Museo della Sanità e dell’Assistenza (Ausl. Bo) Ospitato nell’antico complesso dell’Ospedale della Vita, a fianco della chiesa di Santa Maria, il museo, fondato nel 1999, conserva oggetti della storia del Santuario, della Confraternita religiosa e il Tesoretto del Santuario. Nella grande sala adiacente all’Oratorio, tra i diversi arredi sacri esposti è conservato all’interno di una teca in vetro un parato composto da pianeta, stola, manipolo, velo omerale e borsa da calice in seta operata colore cremisi. Il paramento, databile al terzo quarto del XVIII secolo, è completamente decorato da un ricamo con motivi di racemi e foglie lanceolate eseguite con le diverse tipologie di oro, filato, riccio, lamellare rappresentante, e nel gusto dell’impianto decorativo e nella tipologia di lavorazione una manifattura locale. Naturalmente questo è solo uno dei bellissimi manufatti tessili conservati nella Sacrestia della Chiesa di Santa Maria dove, protetti all’interno di apposite cassettiere, si trovano pezzi di altissimo valore tra cui esempi di sete francesi del XVIII secolo. Nell’Oratorio dell’Arciconfraternita dei Battuti di Santa Maria della Vita è invece possibile ammirare un pregevole paliotto in seta operata databile all’ultimo quarto del XVII secolo. B.C.

Basilica di San Francesco (e) La basilica di S. Francesco fu edificata fra il 1236 e il 1254 su iniziativa della comunità Francescana che si era stabilita a Bologna fin dal 1218 con Bernardo di Quintavalle, uno dei primi discepoli di San Francesco. Sull’altare maggiore è situata la grande ancona marmorea realizzata tra il 1388 e il 1393 dai veneziani Jacobello e Pier Paolo dalle Masegne, decorata con scene della “Vita di S. Francesco”, “l’Incoronazione della Vergine e Santi”, il “Padre Eterno e Santi”. In una delle cappelle radiali, denominata appunto la Cappella di San Giuseppe da Copertino, è conservato, chiuso in una teca, il saio del “Santo Volante”, giunto alla basilica dopo la sua morte come reliquia da venerare. Giuseppe Maria Desa nacque a Copertino il 17 giugno 1603; ricordato per le estasi, i voli, le scrutazioni dei cuori, nonostante la sua rinomata semplicità e i problemi che ebbe con l’Inquisizione, fu molto amato non solo dalla gente comune ma anche da principi e cardinali che si rivolgevano a lui per le più diverse problematiche. Il 15

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agosto 1663 celebrò la sua ultima messa e morì il 18 settembre dello stesso anno a Osimo. I confratelli dovettero nascondere il suo corpo per proteggerlo dalla folla che accorreva per vederlo e tagliare un pezzo della sua santa tonaca. Fu beatificato da Benedetto XIV il 24 febbraio 1753 e canonizzato il 16 luglio 1767 da Clemente XIII. Santo patrono degli studenti, dei piloti e di chi viaggia: la sua ricorrenza è il 18 settembre. B.C.

Museo della Basilica di San Domenico (e) Inaugurato il 7 ottobre 1956, restaurato e riordinato nel 1987-88, il museo della Basilica Santuario di San Domenico si compone di due sale distinte; quella inferiore che raccoglie opere di pittori e scultori dal ’300 al ’700 e quella superiore dove in grandi teche sono conservati reliquari, pissidi, ostensori e, all’interno di un armadio centrale, una grande varietà di apparati tessili; pianete, piviali, stendardi e diversi arredi e paramenti liturgici testimonianza della storia della Basilica. In particolare il Manto della Madonna del Rosario e il baldacchino in velluto rosso scuro completamente decorato con ricami a filati metallici, donati dai bolognesi nel 1630 alla Beata Vergine del Rosario, qui venerata come ex voto di ringraziamento per la cessazione della peste che fu attribuita al suo intervento. Un secondo baldacchino processionale di colore avorio completamente decorato da ricami e sculture lignee inaugurato in occasione della processione del Corpus Domini del 1763, e ancora lo stendardo o paliola e i paramenti liturgici che furono commissionati nel 1767 e che dovevano essere adoperati per la festa del Corpus Domini e per quella di San Domenico a partire dall’anno successivo. Nella relazione del Consiglio dei Padri Domenicani del 1 aprile 1767 si approva infatti la spesa di 600 scudi romani per l’esecuzione di una pianeta, due dalmatiche, un piviale, un velo omerale; si fa riferimento anche ai vessilla e palliola e si specifica che i tessuti per la confezione delle vesti liturgiche devono essere opere phrigio cioè ricamati come il baldacchino. Nel Liber Consiliorium si accenna ad un accordo fatto con una ricamatrice, di cui però non è citato il nome e che, secondo Marescalchi, potrebbe essere identificata in Barbara Zucchi. Tra gli oggetti un bellissimo ombrellino processionale in gros de Tours avorio completamente ornato da ricami floreali a punto raso con sete policrome, girali vegetali e motivi rocaille eseguiti a punto


REPERTORIO

steso in oro filato, riccio e lamellare databile tra il 1722 e il 1762, considerato una copia eseguita nella stessa bottega dell’esemplare conservato presso la Cattedrale di San Pietro. Sono inoltre custoditi diverse pianete e parati in preziose sete settecentesche di provenienza lionese, una grande varietà di lini per uso liturgico decorati con merletti ad ago, tombolo e dalla tipica lavorazione Aemilia Ars. B.C.

La tela vissuta, a cura di D. Decembrini Bocchieri, M. Rossella Guagliumi D’Urso, San Giovanni Persiceto 1992 Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, catalogo della mostra, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C. Giudici, Cinisello Balsamo 2001.

Museo della Beata Vergine di San Luca: raccolta storico-didattica (e) Il museo è stato istituito con lo scopo di valorizzare e far conoscere il patrimonio devozionale, storico-artistico e culturale legato all’immagine della Madonna di San Luca che si conserva nell’omonimo santuario sul Colle dalla Guardia. È ospitato nel Cassero di Porta Saragozza, parte della terza cerchia di mura cittadine del XIII secolo oltre che varco d’accesso per le processioni della Madonna. L’allestimento museale, sviluppato su cinque livelli, riguarda l’immagine della Madonna e la sua storia, il Santuario, il Portico di San Luca e i suoi restauri, le processioni dell’immagine della Madonna attraverso la città e infine gli oggetti per la devozione e il culto. Fra questi si segnalano il manto di copertura dell’icona, le vesti dei Raccoglitori Gratuiti e dei Domenichini.

Museo di San Petronio (e) Istituito dalla Fabbriceria di San Petronio nel 1894, il museo riunisce in due locali a piano terra con accesso alla Basilica le memorie della costruzione del sacro edificio e dei suoi sei secoli di storia. Il nucleo iniziale, già ricordato dal Vasari, si costituì nei secoli XVI-XIX. Ospitato nella prima sala, riunisce i disegni dei vari architetti che affrontarono il problema del completamento, mai realizzato, della facciata della basilica, fra i quali figurano Baldassarre Peruzzi, il Terribilia, il Palladio, il Vignola.

Nella seconda sala, accanto a importanti codici e antifonari miniati, a reliquari, calici e oreficerie di diverse epoche e fogge, oggetti di legno, osso e pietre dure è esposto un nucleo di preziosi parati liturgici sei-settecenteschi. La maggior parte di essi è pervenuta alla basilica di San Petronio grazie a donazioni di alti prelati. Fra questi figura la pianeta completa di accessori in raso di seta rossa ricamata in oro filato con raffinati motivi a candelabra databile fra Cinque e Seicento, donata nel 1809 dall’arcivescovo Oppizzoni, proveniente dalla soppressa Chiesa dello Spirito Santo. Di provenienza ignota ma anch’esso donato nel 1807 o 1809 dell’arcivescovo Oppizzoni o dal prevosto Pietro Magnoni è un ricco velo omerale del terzo quarto del XVIII secolo in taffetas di seta avorio con un ricco ricamo floreale in sete policrome. I paramenti più ricchi e prestigiosi sono tuttavia quelli legati alla figura del Cardinale Aldrovandi. Si tratta di ricami particolarmente sontuosi, interamente eseguiti in fili d’oro o con l’aggiunta di sete policrome, riferibili a ricamatori romani e a date prossime al 1743, anno del loro arrivo a Bologna. Si segnala in particolare la pianeta con accessori in gros de Tours laminato di seta rossa ricamata in sete policrome, fili d’oro e d’argento recante le figure allegoriche delle Virtù Cardinali e della Chiesa entro un complesso motivo a padiglione alla Berain con tralci e motivi mistilinei ornati da cortine riccamente drappeggiate. F. Bignozzi Montefusco, Gli arredi, in La Basilico di San Petronio in Bologna, vol. II, Milano 1984 A. Buitoni, Arredi e paramenti: provenienze e peripezie, in Il Museo di San Petronio in Bologna, a cura di M. Fanti, Bologna 2003 pp. 2982 e pp. 137-155

Museo del Tesoro della Cattedrale di San Pietro (e) Allestito e aperto al pubblico in modo permanente in occasione del Giubileo del 2000, il Museo del Tesoro della Cattedrale espone un’ampia scelta di arredi e apparati sacri di grandissimo pregio artistico eseguiti tra il XV e il XX secolo donati alla cattedrale dai pastori succedutisi nei secoli all’episcopato. Appartengono al nucleo più antico gli apparati legati alla figura del Beato Nicolò Albergati vescovo di Bologna dal 1417 al 1443 a cui vengono attribuite due rari esemplari di mitre episcopali. La prima datata intorno al 1420 è decorata con fili d’oro e perle formanti una croce commissa rovesciata e campi che includono borchie dorate e pietre vitree arricchita da smalti raffiguranti l’Agnus Dei e lo Spirito Santo; la seconda da-

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tata alla prima metà del XV secolo, e probabilmente di manifattura toscana, presenta un raffinatissimo decoro ricamato che, entro sagomature tetralobate, eseguite con perline, raffigura diverse immagini di Vescovi, Santi e sul retro un’Annunciazione. A papa Gregorio XV (Alessandro Ludovisi, arcivescovo di Bologna dal 1612 al 1621) sono riconducibili diversi apparati, inviati alla Cattedrale dallo stesso pontefice nel 1622, tra i quali il cosiddetto apparato “del Gesù” il cui sontuoso decoro si estende su tutta la superficie del parato e affianca un grande fregio centrale con medaglioni ricamati in policromia raffiguranti Scene della Passione di Cristo. Altri manufatti raffinatissimi rimandano ai cardinali Girolamo e Giacomo Boncompagni: a Girolamo Boncompagni, che resse il governo dell’arcidiocesi dal 1651 al 1684 è riconducibile il ricercato piviale a fondo raso color avorio decorato da un fitto ricamo fitomorfo in oro in cui spicca l’arma del cardinale caratterizzata da sei monti e una stella collocati sopra al drago. Al nipote Giacomo sono attribuiti due pianete in cui sul semplice tessuto in raso si svolge un serrato ricamo fitomorfo ad andamento verticale sinuoso, di apparente sobrietà ma di disegno ed esecuzione assai ricercati. Il nucleo maggiore del Tesoro di San Pietro in Bologna è costituito dalle elargizioni lambertiane; Prospero Lambertini, assurto al soglio Pontificio nel 1740 con il nome di Benedetto XIV, ha trasmesso alla città oggetti rari e unici: sfarzosi apparati accomunati dal pregio dei tessuti e dalla perizia finissima di lavorazione come il parato solenne per la messa pontificale detto “di San Pietro” a fondo cremisi decorato da un sontuosissimo ricamo in oro o i monumentali arazzi tessuti a Roma fra 1741 e 1746 sotto la guida di Pietro Ferloni sui contoni di Pompeo Batoni. Sono inoltre esposti altri manufatti della metà del XIX secolo, finissime tovaglie d’altare, amitti (di cui uno in bisso), purificatoi di puro e bianco lino arricchiti sobriamente da merletti ad ago, fuselli, intagliati e ingentiliti dalla tipica lavorazione dell’Aemilia Ars. B.C.

F. Varignana, Guida al Tesoro della Cattedrale di San Pietro in Bologna, Bologna 2000.

Museo di Santo Stefano (e) Inaugurato nel 1999 il Museo documenta la storia del complesso monumentale di Santo Stefano attraverso un cospicuo patrimonio di oggetti d’arte e paramenti litur-

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gici. Tra i reperti tessili da annoverare, la cosiddetta Mitria di sant’Isidoro occupa senz’altro una posizione di primo piano. Collocata per un lungo periodo sulla testa d’una statua reliquario (ora perduta) d’un santo di nome Isidoro, i cui resti furono rinvenuti in Santo Stefano nel 1114, la mitria venne immediatamente associata al più famoso santo omonimo, Isidoro da Siviglia incrementando così la popolarità e venerazione di questo oggetto. Realizzata su seta di un singolare azzurro, presenta elaborati ricami descritti da candide perle di fiume, pietre incastonate, ornamenti d’oro e smalti a pliques di gusto pienamente gotico: proprio per questa particolare ricchezza si può ipotizzare che, pur non conoscendone le circostanze, sia giunta a Bologna come dono di un pontefice, o di un alto prelato della curia pontificia, o della curia angioina. La complessa manifattura e il gusto decorativo rimandano infatti a un ambiente internazionale ancora fortemente impregnato dalla cultura tedesca come la Napoli angioina attorno alla metà del XIV secolo dopo la permanenza della corte sveva. Sono inoltre presenti nel Museo altri parati sacri settecenteschi, temporaneamente non esposti, ma visibili su richiesta. B.C.

S. Giorgi, La mitra di San’Isidoro, in “Ospiti 12”, Musei Civici d’Arte Antica del Comune di Bologna, Ferrara 1999

Museo della Santa (e) Il piccolo museo, annesso alla Chiesa del Corpus Domini, accessibile tramite la “Cappella della Santa” dove è venerato il corpo seduto e incorrotto di Santa Caterina de’ Vigri (1413-1463), conserva alcuni oggetti a lei appartenuti e testimonianze della storia del Santuario. Tra i manufatti tessili si può ammirare lo scapolare in canapa, tradizionalmente considerato parte dell’abito di Santa Caterina, e un abito donato “per grazia ricevuta” databile intorno alla metà del ’700 completamente decorato da un ricamo in filati metallici con motivi di racemi utilizzato, per un certo periodo durante le festività solenni, come manto per il corpo della Santa. All’interno della Cappella è invece conservata un’immagine di Gesù Bambino, attribuita a Caterina, dipinta su carta applicata su tavola e rivestita di un coprifasce in seta verde decorato da un merletto a fuselli in oro; in un manoscritto settecentesco infatti vengono elogiate le specialità artigianali dei diversi monasteri bolognesi e il Corpus Domini viene citato pro-


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prio per la sua specializzazione nella vestizione degli agnus Dei. Nel reliquario soprastante è conservato invece un pannicello in finissima tela di lino decorata da ricami in rosso e blu che, secondo la testimonianza della fedele consorella Illuminata Bembo, prima biografa della Santa, “…questo odorifero pannicello la Vergine l’adoperava per il suo dolcissimo figliolo Gesù quando era in questo mondo…”. B.C.

A. Cavallina, Santuario del Corpus Domini detto “Della Santa”, Bologna 1999; Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, catalogo della mostra, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C. Giudici, Cinisello Balsamo 2001

Museo Missionario d’Arte Cinese e Museo di Arte Sacra (e) Il grande complesso conventuale francescano dell’Osservanza, sito nell’omonimo colle fuori porta San Mamolo, risale al 1403, sebbene le numerose vicissitudini nel corso del tempo – soppressioni napoleoniche ed incursioni belliche – abbiano comportato opere di totale o parziale ricostruzione architettonica. Il Convento ospita un Museo di Arte Cinese che presenta testimonianze, di varia epoca e provenienza, legate all’attività missionaria dei frati francescani, ed anche una importante sezione museale di Arte Sacra, inaugurata nel 2003, che conserva preziose testimonianze sotto il profilo storico e artistico legate alla storia del Convento. Fra le Collezioni di Arte Sacra si distinguono dipinti di scuola bolognese del XVI-XVIII secolo, sculture lignee e terracotte policrome sempre di scuola bolognese oltre ad alcune esigue ma importantissime testimonianze tessili di natura devozionale rappresentate dagli antichi reliquiari. Si tratta dei calzari in stoffa e cuoio di San Giovanni da Capestrano che risalgono al 1453, di due cappucci francescani del XVIII e di un preziosissimo frammento di un paio di centimetri quadrati proveniente dal cappuccio del saio di San Francesco. Di natura e varietà totalmente differente sono i manufatti tessili presenti nella collezione di Arte Cinese del Convento. In linea con l’interesse prevalente che muoveva i frati nella raccolta dei materiali volto a documentare i costumi, le credenze e usanze dei popoli da cristianizzare più che a collezionare opere di evidente pregio artistico, tutti i materiali tessili cinesi presentano i canoni icono-

grafici e la modalità di un periodo fra XVIII e XX secolo e sono realizzati in prevalenza nello Human, una regione particolarmente famosa per l’abilità artigianale dei tessitori e delle ricamatrici. Tra questi è presente un corposo nucleo di pannelli da appendere dai ricami con tinte sgargianti con funzione decorativa che svolgono un ruolo puramente ornamentale: su seta rossa, arancione o gialle anche di notevole dimensione (400x70), si presentano tutti frangiati inferiormente con dei ricami che raffigurano i motivi beneaugurali della tradizione popolare: richiami agli “otto spiriti taoisti”, i simboli del pavone e della fenice e di altre figure di guardiani protettori e che riportano sempre accanto le iscrizioni per ricordare la circostanza in cui è stato donato l’importante oggetto. Sempre per circostanze particolari venivano realizzati i cuscini e le varie coppie di ricami in seta, verticali e spesso identici, con motivi decorativi – fiori, uccelli, rocce, farfalle svolazzanti – a carattere simbolico beneaugurale. Tra i vari manufatti in seta preziosamente ricamati, uno merita di essere distinto e ricordato per la funzione di insegna di ufficiale di rango nella Cina tardo-imperiale: si tratta di una stoffa quadrata in cui è ricamata con fili in oro e argento un’anatra mandarina ed elementi naturali che veniva cucita sul davanti e retro degli abiti degli ufficiali al servizio della corte imperiale. Non manca il nucleo degli abiti prevalentemente della Cina del XX secolo e che comprende un abito maschile formato da una lunga tunica in seta nera e giacchino con ricami a motivi floreali; un abito femminile composto da giacchetta in seta blu ed una gonna in seta rossa entrambe ornate con motivi floreali a ricamo. Singolare l’abito femminile in cotone e seta verde e blu in ricami in seta a tinte più tenui, probabilmente un “dapao” per donna anziana. Sono presenti anche le testimonianze dei calzari: stivali maschili in seta nera, scarpe per donna con piedi fasciati e scarpine per bambine in stoffe ricamate. Particolare interesse desta infine il raro nucleo di copricapo a soggetto cristiano realizzati dagli artigiani cinesi, in cui il messaggio religioso viene reso e tradotto con precisi canoni iconografici e con le tecniche della manifattura cinese dell’epoca. Sono tutti di forma quadrata realizzati in cartone e seta nera e con ricamati – con fili in oro e argento e con corallo – i simboli (agnello, colomba e sacro cuoce) e i monogrammi cristiani. Accanto ad essi e per maggiore evidenza, spiccano un paio di esemplari di copricapo di manifattura e di religiosità cinese utilizzati nelle cerimonie taoiste: l’uno a sommità esagonale in cartone e raso rosso decorato con tiara centrale e due draghi; l’altro in seta nera con figura di pipistrello e ideogrammi.

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Una particolarità: esposti fra i giocattoli cinesi sono presenti anche alcuni burattini della prima metà del XX con la testa in ceramica e con gli abitini in stoffa dipinta. A.S.

F. Salviati, Arte cinese ed extra-europea nel Museo Missionario del Convento ‘Osservanza’, s.l. e s.d.

Museo Storico Didattico della Tappezzeria (p) Il Museo Storico Didattico della Tappezzeria ha sede nell’elegante dimora storica di Villa Spada. Di proprietà dell’amministrazione locale è un elegante edificio di gusto neoclassico, progettato assieme al giardino all’italiana, dall’architetto Giovanni Battista Martinetti per il principe Clemente Spada che acquistò il terreno e il vasto parco dalla famiglia Zambeccari; la proprietà della Villa passò in mano a diversi proprietari, tra i quali un principe turco e, in coincidenza del secondo decennio del Novecento, venne acquistata dalla famiglia Pisa che l’abitò fino al secondo conflitto mondiale, durante il quale l’edificio venne pesantemente bombardato. La proposta di trasferirvi il Museo venne presentata nel 1984 al sindaco Renzo Imbeni e all’assessore Giancarlo De Angelis; i lavori di restauro, iniziati nel 1985, sono stati eseguiti con un progetto rigorosamente conservativo dell’architetto Stefano Zironi che ha rispettato la tipologia dell’edificio. Il Museo è costituito da una vasta collezione di tessuti per arredamento e per abbigliamento, attrezzature e telai (il grande telaio lombardo del 1700, trasformato nel 1801 nel sistema Jacquard e un rarissimo telaio per galloni del 1370), seicentesche matrici in legno di quercia per imprimere le pelli e svariati complementi d’arredo, distribuiti per tipologie lungo le dieci stanze che attualmente compongono il percorso museale. La raccolta dei preziosi reperti iniziata dal fondatore del Museo, cavalier Vittorio Zironi nel 1946, all’indomani del termine del secondo conflitto mondiale, illustra bene la grande sensibilità del fondatore verso tutto ciò che in quegli anni sfuggiva alla tutela degli enti preposti; dopo vent’anni di laboriose ricerche la collezione venne esposta al pubblico nella prima sede del Museo, a Palazzo Salina Brazzetti di via Barberia, nel centro storico di Bologna. L’attuale allestimento nella sede di Villa Spada risale al 1990: il nucleo originale della raccolta, incrementato dallo stesso cavalier Zironi fino alla fine degli anni Novanta, è stato arricchito

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anche da importanti donazioni effettuate da enti pubblici e collezionisti privati, che hanno così voluto assicurare a preziosi reperti una adeguata conservazione. Sono pertanto presenti gli stendardi delle antiche corporazioni bolognesi che ornavano piazza Maggiore, dati in deposito dal Comune di Bologna, gli archetipi utilizzati con i disegni e i lavori realizzati dalla scuola Romeyne Ranieri di Sorbello dono della fondazione Uguccione Ranieri di Sorbello, l’archivio completo dell’artista bolognese Guido Fiorini (1879 – 1960), decoratore, pittore e grafico dell’Aemilia Ars, fatto pervenire al Museo dal nipote, completato dall’archivio storico documentario di Aemilia Ars, una donazione della signora Flavia Cavazza, erede della fondatrice. Il nucleo più antico della raccolta, il rarissimo insieme di 64 frammenti di tessuti copti è invece frutto di pazienti ricerche e aquisizioni effettuate dal fondatore stesso del Museo, cavalier Vittorio Zironi, arricchito nel 1990 dalla donazione dell’architetto Erminia Rubini. F.G.

Telaio per tessuti operati di seta con meccanica Jacquard. Bologna, Museo Storico Didattico della Tappezzeria.


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Biblioteca Casa di Riposo per Artisti Drammatici “Lyda Borelli” Fondo Gandusio (p)

Museo Memoriale della Libertà (p)

La “Casa di riposo per artisti drammatici” di Bologna, edificata su un terreno di pertinenza del parco di Villa delle Rose donato all’uopo dal Comune, è stata istituita nel 1917 per volontà di alcuni fondatori privati e aperta nel 1930; alla fine degli anni Cinquanta viene intitolata all’attrice Lyda Borelli. La Casa risulta attualmente decorata da numerosi dipinti, sculture, incisioni, ritratti fotografici e cimeli di attrici e attori che hanno calcato le scene italiane a partire dalla seconda parte del XIX secolo. Oltre ai busti ed ai bronzetti che, per esempio, raffigurano Ermete Novelli, Eleonora Duse, Lyda Borelli e Maria Melato e i dipinti che ritraggono Adelaide Tessero e Renato Simoni, fin dagli anni Trenta, si è andato accumulando, attraverso numerose e ripetute donazioni, un consistente patrimonio documentario dalle molteplici tipologie: immagini fotografiche di vita e di scena, copioni, diari e documenti amministrativi, significative testimonianze di vita teatrale italiana che hanno dato vita alla biblioteca-archivio della Casa. Vi si conservano inoltre reperti di carattere più “museale” tra cui il costume indossato da Dina Galli nella celeberrima Felicita Colombo; un abito in lamè con ombrellino e ventaglio in piuma di struzzo di Vivienne D’Aris, artista del varietà della prima metà del XX secolo; il costume di Marcello Moretti, grande protagonista di Arlecchino servitore di due padroni, nell’edizione realizzata nel 1947 da Giorgio Strehler con il Piccolo Teatro di Milano. Nel 1951 la biblioteca viene arricchita dal “Fondo Antonio Gandusio” e a questo attore viene intitolata. Oltre al patrimonio bibliografico e documentario il fondo consta di una piccola collezione (poco più di una decina) di indumenti. Tra questi abiti di scena prodotti da sartorie teatrali, ricordiamo un costume da Arlecchino e un costume in velluto marrone di foggia vagamente seicentesca utilizzato pare per la rappresentazione de L’antenato di Carlo Veneziani e alcuni gilet. La collezione consta inoltre di alcuni abiti maschili originali del XVIII secolo e di una giacca femminile della seconda metà dell’Ottocento, tutti di manifattura italiana. Dalle testimonianze raccolte da Paola Bignami, curatrice del catalogo del Fondo Gandusio, pare che l’attore, per le repliche più importanti dei testi che lo richiedevano, avesse il vezzo di indossare abiti originali, tuttavia non è stato possibile individuare a quale rappresentazione fossero essi legati. L.B.

Di concezione avanzata per quanto riguarda il coinvolgimento diretto e la visibilità realistica espressi dalle cinque sezioni multimediali in cui è articolato, il Museo, inaugurato nel 2000, fa rivivere i tragici eventi finali della seconda Guerra mondiale: il rastrellamento della T.O.D.T., il Rifugio, Il Bombardamento, La Battaglia di Porta Lame con lo scontro tra tedeschi e partigiani sul canale Cavaticcio, La Prima Brigata di montagna con la scalata del Riva Ridge che permise lo sfondamento della Linea Gotica e la liberazione del Nord Italia. La ricostruzione mette in scena personaggi civili e militari (italiani, tedeschi e americani) in abiti e divise dell’epoca dove su tutti domina il panno grigioverde come tessuto pratico ed economico tipico dei periodi dominati da scontri bellici e regimi autarchici.

PROVINCIA DI BOLOGNA

Bentivoglio (San Marino) - Istituzione Villa Smeraldi – Museo della Civiltà Contadina (Provincia di Bologna e altri enti) Situata nel cuore di un ampio parco all’inglese, Villa Smeraldi ospita il Museo della Civiltà Contadina, istituito nel 1973 dalla Provincia di Bologna in collaborazione con associazioni di contadini ed ex contadini e gruppi di studiosi. Dal 1999 il museo è gestito, insieme alla villa e al parco, dall’Istituzione Villa Smeraldi, costituita dalla Provincia di Bologna e sostenuta dai Comuni di Bologna, Bentivoglio e Castel Maggiore. Il museo conserva migliaia di testimonianze sul lavoro contadino e la vita nelle campagne bolognesi fra Otto e Novecento, organizzate secondo alcune tematiche principali: i cicli di lavorazione del frumento, della vite e della canapa; l’organizzazione della casa contadina e della famiglia mezzadrile. Oltre ad attrezzi, grandi macchine, mobili, suppellettili, stampe ed incisioni, il museo conserva un consistente gruppo di manufatti tessili frutto per lo più di donazioni provenienti da famiglie locali. Composta di oltre duecento pezzi, la raccolta comprende numerosi capi d’abbigliamento, soprattutto maschile fra cui camicie, pantaloni, gilet, diversi capi di biancheria sia femminile che maschile come mutandoni, sottovesti, calze, nonché accessori per l’abbigliamento – guanti, manopole, berretti –, biancheria

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per la casa – asciugamani, coperte, fodere per materassi –, ed oggetti che servivano per il lavoro della campagna come i sacchi e le coperte per i buoi. Sono poi presenti numerosi strumenti per la lavorazione della canapa e per la tessitura, fra cui un telaio allestito e funzionante.

quantificabile in circa quattromila pezzi comprendenti macchine e attrezzature utilizzate in passato nel lavoro dei campi. Particolare interesse rivestono i materiali riguardanti le diverse fasi di produzione e di lavorazione della canapa, dalla semina sino alla trasformazione in fibra tessile. L’esposizione si avvale di un apparato didattico di approfondimento nonché di un vasto corredo iconografico composto da numerose fotografie d’epoca che documentano le diverse fasi di lavorazione. G. Romagnoli, Storia di una fibra prestigiosa nella storia della civiltà contadina bolognese: la canapa, Bologna 1976

Budrio - Museo dei burattini (c) Questo museo è stato istituito nel 2000, grazie all’impulso dei maestri burattinai Vittorio Zanella e Rita Pasqualini del Teatrino dell’Es, i quali nell’arco di circa vent’anni hanno raccolto un notevole patrimonio afferente il teatro d’animazione. La ricca collezione, concessa dai proprietari al Comune in comodato gratuito, ha trovato sede nella “Casina del Quattrocento”, una delle antiche abitazioni del centro storico di Budrio. Burattini, marionette, pupi, con relativo guardaroba, scenografie, oggetti di scena e teatrini, provenienti sia dal territorio italiano che da altre realtà geografiche, documentano in modo significativo l’antica tradizione del teatro di figura, itinerante e di piazza, domestico e professionale, popolare e colto, a partire dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Il museo consta di una sede articolata, la Casina del ’400 è infatti collegata attraverso un cortiletto interno – che nei periodi estivi ospita spettacoli e attività culturali – alle sale di via Garibaldi in cui è esposta un’altra cospicua collezione (di proprietà del Comune) di materiali prodotti da burattinai della tradizione bolognese del Novecento, raccolti da Alessandro Cervellati e Alberto Menarini, celebri studiosi degli usi e costumi petroniani. L.B. Abito da Contadino. Italia, Sec. XX, Tessuto unito e operato di lana grigia e nera. Bentivoglio (Bologna) Museo della Civiltà Contadina.

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Bentivoglio (loc. Castagnolino) - Museo della Civiltà contadina e della Canapa (p)

Castel del Rio - Museo della Guerra (c)

Il museo ospita la raccolta dell’imprenditore Giuseppe Romagnoli, un appassionato conoscitore della civiltà contadina della pianura bolognese. Il patrimonio, raccolto a partire dagli anni cinquanta del Novecento, è

Il Museo, insieme a quello dedicato al Castagno, ha sede nel palazzo storico Alidosi, costruito intorno al 1510 su progetto di Francesco Sangallo con caratteristiche proprie di un‘architettura militare a pianta quadrata e con


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due grandi bastioni angolari a losanga, dalla mole imponente ingentilita all’interno da un cortile rinascimentale detto delle Fontane molto raffinato. Il Museo della Guerra, istituito nel 1978 per volontà dei cittadini che insieme ai contributi congiunti dell’amministrazione locale, dell’Istituto per i Beni Culturali e di sponsor privati, raccolsero reperti bellici nella vallata del Santerno, integrati nel tempo da altri materiali afferenti ai due conflitti mondiali e ammontanti ad un totale di 1.500 oggetti ca., di cui 800 manufatti tra cui uniformi italiane e straniere (da alpini in panno grigioverde, da bersagliere in panno rosso con fiocco azzurro, divise militari inglesi, ecc…), bandiere (ci sono due bandiere di tela con stemma Sabaudo e fronde d’alloro) e accessori militari. Il Museo si articola in cinque sezioni dedicate al primo conflitto e al secondo conflitto mondiale, al fronte di guerra nella vallata del Santerno, alla resistenza partigiana e alla deportazione dei cittadini locali, dove in una sorta di diorama al naturale sono messi in scena momenti significativi di questi eventi storici con personaggi che indossano abiti civili e divise militari in uso nel periodo. Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 75-77

Crevalcore - Museo dei burattini di Leo Preti (c) Dal 1987 l’Amministrazione comunale di Crevalcore ha reso fruibile al pubblico, con il consenso degli eredi, i materiali appartenuti al concittadino Leo Preti (19031969), notevole esponente del teatro di figura emiliano, discendente di un’importante famiglia di burattinai della tradizione modenese di cui è stato capostipite Giulio Preti. La collezione consta di un centinaio di burattini: maschere della commedia dell’arte, gentildonne e fate, streghe e maghi, diavoli e animali, tra i quali spicca la Famiglia Pavironica, ideata da Giulio bisnonno di Leo, formata da Sandrone, la di lui consorte Apollonia e dal loro figlio Sgorghiguelo. A questi si aggiungono numerose scenografie, accessori e utensili di vario genere, nonché macchine per gli effetti scenici ed infine, non meno importanti, i costumi dei burattini, ricavati da scampoli di stoffa reperiti presso i grandi teatri di tradizione, poiché anche le “teste di legno” possono, come un vero attore, mutare d’abito al variare dell’opera da rappresentare.

Tali materiali sono esposti al pubblico, che può accedervi in occasione dei principali eventi fieristici locali e su prenotazione, nell’antica rocca di Porta Bologna. L.B.

Dozza Imolese - Rocca Civica di Dozza (c) La Rocca edificata nel XIII secolo come fortificazione militare, potenziata a fine Quattrocento dall’architetto Marchesi per volere di Ludovica Sforza signora di Imola e Dozza, e trasformata nel 1594 in residenza aristocratica dai Conti Malvezzi che la detennero con il titolo di Malvezzi-Campeggi fino al 1960 quando fu ceduta al Comune, conserva ancora al piano nobile posizionati in situ alcuni degli arredi tessili antichi databili tra la fine del XVII e il XVIII secolo. Sono due tappezzerie in damasco di seta rossa con decoro a infiorescenze a palmetta racchiuse entro maglie ovali: la prima, più raffinata, di una tonalità tendente al rosa ricopre le pareti della Sala Rossa, la seconda, di qualità inferiore e di una tonalità più scura, riveste la Camera di Papa Pio VII Chiaromonti. Insieme a pochi altri arredi (sedie e poltroncine) distribuiti nelle sale di varia provenienza ed epoca, completa il patrimonio tessile conservato in Rocca un grande stendardo (m. 5 x 3,15) della fine del XVII secolo, esposto nel salone maggiore, realizzato in tessuto unito di lana rossa con ricami applicati in seta gialla che disegnano una cornice vegetale campita dallo stemma araldico congiunto delle famiglie Malvezzi Campeggi. Le tappezzerie in damasco e lo stendardo sono stati restaurati dalla ditta RT Restauro Tessile di Albinea (RE) nel 1995 a spese dell’amministrazione locale e con la consulenza tecnica dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della regione Emilia Romagna.

Dozza Imolese - Museo Parrocchiale d’arte sacra “Don G. Polo” (e) In un salone posto al primo piano dell’edificio contiguo alla Chiesa Parrocchiale di Dozza dedicata all’Assunta, ha sede questo museo istituito nel 1978 per volontà di don G. Polo. Gli oggetti che vi si conservano sono in gran parte patrimonio della stessa parrocchiale che, ricostruita alla fine del Quattrocento e restaurata nel 1942-45, su una preesistenza romanica (di cui si conserva una bella

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lunetta lapidea), custodisce al suo interno un pregevole dipinto su tavola di Marco Palmezzano oltre a buoni dipinti di scuola bolognese dei secoli XVI-XVII. Nel museo sono raccolti arredi, paramenti sacri, disegni e incisioni, stampe antiche, argenti liturgici, opere pittoriche su tela e tavola, targhe votive in ceramica. Seppure non di cospicua entità il patrimonio serico presenta alcuni pezzi di un certo interesse, in particolare un manto della Madonna del Calanco in broccato liserè ricamato recante sul dorso lo stemma della famiglia Malvezzi che lo donò nel 1755; un piviale con due dalmatiche e stole abbinate del Settecento e uno stendardo processionale della Confraternita del SS. Sacramento, in seta operata e ricamata della fine del XVIII secolo. Si segnalano inoltre tre statuette devozionali vestite, due Madonne e un Bambinello, di cui una in particolare, raffigurante la Madonna in trono con Bambino, realizzata in cartone romano e posta in una teca seicentesca in legno dipinto, presenta nell’insieme elementi costruttivi di un certo interesse. Attualmente il museo è chiuso al pubblico. L.B.

Imola - Collezioni d’Arte di Palazzo Tozzoni (c) Il palazzo dei conti Tozzoni è divenuto museo civico nel 1981 allorché l’ultima discendente della famiglia, Sofia Serristori, ne fece dono alla città. Esso rappresenta un raro ed integro esempio di dimora nobiliare e documenta attraverso arredi, suppellettili, oggetti d’arte e documenti d’archivio la vita della famiglia che per secoli lo abitò. I tessuti rappresentano una voce significativa dell’arredo, in particolare negli spazi abitativi posti al primo piano dove hanno particolare rilievo le tre stanze dell’appartamento barocchetto allestito nel 1738 in occasione del matrimonio del conte Giuseppe Tozzoni con Carlotta Beroaldi, parente del cardinale Lambertini, futuro papa Benedetto XIV. Un impegnativo intervento di restauro, reso possibile dal contributo dell’Istituto Beni Culturali, ha interessato tutti i materiali che vi si conservano comprese tende e portiere e diversi arredi pervenuti nell’assetto originario. Particolarmente integra e ben conservata è la stanza nuziale con l’alcova, dove gli intagli dorati dei mobili, ispirati ai coevi modelli bolognesi, armonizzano con il damasco giallo oro, anch’esso proveniente dalla vicina Bologna, impiegato nella cortina oltre che per rivestire letto, sedie e divani.

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Nell’appartamento Impero, ristrutturato nel 1818 in occasione delle nozze tra il conte Giorgio Barbato Tozzoni e Orsola Bandini, la presenza del tessile è più discreta come imponevano i canoni estetici e la moda del tempo. Si segnalano per la loro particolarità ed eleganza i rivestimenti di alcuni divani e poltroncine che impiegano tessuti di colore nero operati a minuti motivi geometrici. Nell’archivio del palazzo si conserva un manichino di Orsola Bandini, un “di lei facsimile, in stucco, grande al naturale rivestito ed ornato con gli stessi suoi panni e capelli” fatto realizzare dal marito dopo la prematura morte della moglie. Si segnalano infine alcune livree sette-ottocentesche oltre ad arredi liturgici provenienti dai vari altari di famiglia. Restauri a Palazzo. Il recupero della residenza imolese dei conti Tozzoni, a cura di L.Bitelli e M. Cuoghi Costantini, inserto di “IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, IX, 1, 2001

Imola - Museo Archeologico Naturalistico “Giuseppe Scarabelli” (c) Il museo nasce nel 1857 grazie alla donazione di alcune rilevanti collezioni naturalistiche. La figura più significativa fra i donatori, cui si intitola il museo è Giuseppe Scarabelli, iniziatore degli studi di preistoria italiana. Situato al primo piano dell’ex convento di San Francesco, esso ospita collezioni preistoriche, geologiche, paleontologiche e malacologiche. Nei primi decenni del XX secolo sono state acquisite raccolte di manufatti precolombiani ed etnografici dell’America meridionale, frutto dell’attività collezionistica del medico imolese G. Cita Mazzini. Fra queste figura un nucleo di tessuti precolombiani, una ventina di reperti, per lo più in condizioni frammentarie, provenienti dal Perù che nel loro insieme coprono il lungo arco di tempo che va dal IX al XVI secolo d.C.

Imola - Museo Diocesano d’Arte Sacra (e) Il Museo, aperto al pubblico nel 1962, ha sede nel Palazzo del Vescovado, un edificio di antica fondazione più volte ampliato nel corso dei secoli fino alle radicali ristrutturazioni operate da Cosimo Morelli nel 1766 e successivamente, nel 1845, per volere del futuro Papa Pio IX, al tempo vescovo di Imola, che conferirono all’edificio quella monumentalità che tuttora lo contraddistingue.


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Le collezioni, frutto di un’attenta opera di salvaguardia del ricco e pregevole patrimonio storico artistico di pertinenza della Diocesi di Imola sono state ordinate, negli spazi del piano nobile un tempo destinati all’appartamento di Pio IX, mentre al pianterreno sono stati esposti alcuni reperti lapidei provenienti dalla Cattedrale e due carrozze una da gala l’altra da seguito donate dal cardinale Chiaramonti, divenuto papa col nome di Pio VII. Tra le più significative opere, oltre a reliquiari, paramenti sacri, monete, croci stazionarie, targhe votive, pregevoli codici miniati del XIV-XV secolo, tra gli altri affreschi staccati di scuola bolognese del Trecento, dipinti di Innocenzo da Imola, Bartolomeo Cesi, Andrea Sirani, Marcantonio Franceschini, Domenico Maria Canuti. Assai cospicuo risulta il patrimonio serico ivi contenuto, cui è riservata una specifica sala, si segnalano tra gli altri un buon numero di pianete di raffinata fattura dei sec. XVI-XVII-XVIII, alcuni piviali, due abiti della Madonna del Rosario entrambi di manifattura locale uno fine Seicento, l’altro, donato dalla contessa Anna Zauli Troni, di fine Settecento primi Ottocento, un manto della Madonna della metà del Settecento di probabile fattura francese, cinque coppie di tovaglie di tipo perugino del XVI secolo ed infine le pantofole in tessuto bianco del cardinale Mastai Ferretti, ossia Papa Pio IX. Di notevole entità è inoltre il patrimonio appartenente al Capitolo della Cattedrale di San Cassiano prospiciente il Vescovado, che oltre ad arredi e dipinti conserva una collezione di tessili liturgici appartenenti ai vescovi di Imola dal XVII al XX secolo, fra i quali si ricordano in particolare un trittico di pianete appartenute al cardinale L. G. Gozzadini di fine Seicento e, alcune mitrie settecentesche di cui la più pregevole è quella appartenuta a Pio VII. L.B.

per volere di Girolamo Riario e Caterina Sforza, signori di Imola. Le collezioni comprendono dipinti, arredi, testi sacri. Il patrimonio tessile annovera diverse pianete tra cui si ricorda quella di Papa Pio IX in samice d’oro bianco tardo Ottocento con una raffigurazione dell’Agnus Dei ricamato in filo d’argento sullo stolone. Vi si conservano inoltre quattro bandinelle da baldacchino con bei motivi zoomorfi e floreali di fine Seicento e un settecentesco baldacchino della Madonna del Piratello in samice con ricami. Attualmente il museo può essere visitato solo su richiesta. L.B.

Imola - Museo dei Burattini, Marionette e Teatrini (e) La collezione, donata da Pier Fernando Mondini alla parrocchia di San Giacomo Maggiore al Carmine di Imola, consta soprattutto di una cospicua raccolta di baracche e teatrini per marionette e burattini ed è esposta in una sala al primo piano del convento del Carmine. I pezzi sono per la maggior parte italiani, non mancano tuttavia esemplari di provenienza austriaca, cecoslovacca e francese, tutti databili tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX. Completano la raccolta marionette e burattini della tradizione italiana – adeguatamente abbigliati – tra cui, per esempio, il milanese Meneghino, il modenese Sandrone e il veneziano Pantalone. La raccolta è visitabile su appuntamento. L.B.

Medicina - Museo Civico (c) Imola - Museo d’Arte Sacra del Santuario del Piratello (e) Il Museo, istituito nel 2000, occupa l’ala ovest della galleria che anticamente costituiva il camminamento di distribuzione tra le celle nel cinquecentesco convento francescano annesso alla Basilica del Piratello, situata in prossimità del cimitero monumentale della città di Imola. Nel museo sono raccolte oggetti e testimonianze storico artistiche riguardanti la vita e il culto di questo venerato Santuario mariano fondato alla fine del Quattrocento

Risale al 1965 la fondazione di questo museo, allestito solo in tempi recenti nel cinquecentesco Palazzo della Comunità di Medicina; esso documenta la storia del territorio e della comunità medicinese attraverso sette sezioni espositive che vanno dall’archeologia alla cultura materiale. Si ricordano in particolare la ricostruzione del laboratorio del maestro liutaio Ansaldo Poggi quale significativo esempio della lunga tradizione del locale artigianato artistico e la ricca collezione di opere di Aldo Borgonzoni, donate dal maestro alla municipalità, testimo-

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REPERTORIO

nianza del periodo medicinese del pittore (qui nato nel 1913) e degli sviluppi successivi della sua opera. Appartengono inoltre a queste collezioni una muta di burattini realizzati nella prima metà del Novecento da una delle più rilevanti famiglie di burattinai bolognesi, ceduti negli anni Sessanta da un altro burattinaio (probabilmente Agostino Serra) alla scuola elementare Vannini di Medicina, dalla quale sono pervenuti al Museo Civico. Questi burattini, opera della compagnia Frabboni, costituita dai fratelli Filippo, Emilio ed Augusta, sotto il profilo costruttivo risultano ancora legati alla tradizione bolognese ottocentesca; seguono i principi di questa tradizione in particolare le modalità con cui sono costruiti gli abiti (molto probabilmente quasi tutti realizzati da Augusta Frabboni). In questo caso il buratto, ossia il camiciotto che consente di inguantare il burattino, è costituito da un tessuto in canapa rivestito esternamente da un tessuto di lana o cotone pesante, su cui è applicato un gilet con bottoni completato da un abito soprastante che spesso caratterizza il personaggio; modalità questa che non viene seguita per i personaggi femminili. Arricchiscono questa raccolta oltre cinquanta capi d’abbigliamento (vestiti, mantelli, sottovesti, corpetti, divise militari) altrettanti cappelli, una ventina di vari accessori ed infine una serie di belle scenografie dipinte a tempera. L.B.

Monterenzio - Museo Archeologico “Luigi Fantini” (c) Il Museo Archeologico “Luigi Fantini”, dedicato al celebre preistorico, paleontologo e speleologo bolognese, nasce con l’intento di illustrare la storia del territorio delle Valli dell’Idice e dello Zena, sottolineando in particolare la sua evidenza archeologica più importante costituita dagli insediamenti di altura di età etrusco-celtica di Monte Bibele

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e Monterenzio Vecchio. L’allestimento comprende la ricostruzione a grandezza naturale di una capanna dell’abitato di Pianella di Monte Savino arredata con oggetti autentici o riproduzioni come il telaio verticale a pesi, che illustrano i vari aspetti della vita quotidiana nel villaggio etrusco-celtico di IV-III secolo a.C. Gli scavi hanno inoltre restituito abbondanti materiali fittili legati alle attività di filatura e tessitura quali fusaiole, rocchetti e pesi da telaio. Alcuni oggetti rinvenuti nelle sepolture di Monte Bibele (una fibula rinvenuta nella tomba 043; due foderi di spada rispettivamente della tomba 054 e tomba 067; un coltello-rasoio in ferro della tomba 9), presentano un fenomeno di mineralizzazione del tessuto, “fossilizzato” in seguito alla diffusione di ossidi ferrosi nel terreno. B.O.

Pieve di Cento - Museo Civico (c) Il museo, dedicato alla storia della città e ai personaggi che le hanno dato lustro, è ospitato all’interno della Rocca, un antico fortilizio comunale costruito dai bolognesi fra 1382 e 1387 su progetto di Antonio di Vincenzo, notevolmente modificato nel corso del tempo, ed oggetto di una recente campagna di restauro conclusa nel 1994. Presso porta Asìa, la più popolare delle quattro porte urbiche pievesi, si trova una sezione distaccata del museo, interamente dedicata alle antiche pratiche manuali della lavorazione della canapa, una coltura che dominò le pianure del bolognese dall’inizio del Trecento fino agli anni Quaranta del Novecento rivestendo un’importanza decisiva per l’economia locale. Nel Centro di documentazione sono conservati fotografie, documenti, attrezzi di lavoro riguardanti le varie fasi di lavorazione – dalla semina alla macerazione, dalla gramolatura alla pettinatura, dalla filatura alla tessitura sino al finale lavoro sartoriale – tutti donati dai cittadini, a ricordo di attività che ebbero un posto rilevante nella storia della comunità.


FERRARA

Museo del Risorgimento e della Resistenza (c) ito al piano terra nel palazzo dei Diamanti, insigne esempio di architettura rinascimentale, il museo inaugurato nel 1903 raccoglie i materiali che, esposti prima all’Esposizione Italiana di Torino del 1884 poi alla mostra bolognese, “Il tempo del Risorgimento” del 1888, ripercorrono le tappe salienti della storia italiana comprese tra il periodo napoleonico (1796), la prima guerra mondiale e la resistenza (1945). Si compone di 6000 cimeli (armi, dipinti, medaglie, monete, corredi militari, stampe fotografie) tra cui un nucleo consistente di materiali tessili (200 ca) identificati da bandiere, uniformi e finiture varie tra cui si segnalano, per la sezione risorgimentale, le uniformi e i labari dei Bersaglieri del Po, la divisa da garibaldino di Cesare Carpeggiani (1838-1928) uomo politico di spicco locale e un abito da gentiluomo di corte del 1877, per la sezione della resistenza, la bandiera della 35° brigata.

S

Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 81/84

Capitolo della Cattedrale al responsabile dell’arazzeria ferrarese Giovanni Karcher per essere appesi tra le colonne della navata centrale in occasione delle festività solenni. I cartoni relativi alle scene della vita dei due santi patroni furono forniti dal Garofalo e da Camillo Filippi, due fra i più importanti artisti ferraresi della metà del Cinquecento, mentre le ricche bordure di gusto manierista che le incorniciano furono ideate da Luca di Fiandra, pittore specializzato in paesaggi e grottesche. Nel bordo inferiore i panni recano il monogramma dell’arazziere e la data di esecuzione, circoscritta tra il 1551 e il 1553. Nella sala che un tempo era adibita a sacrestia sono custoditi due rari cappucci di piviale della fine del Cinquecento donati da Margherita d’Austria e dal Cardinale Giovanni Fontana, il paliotto dell’altare maggiore della cattedrale, donato al Capitolo dal cardinale Luigi Giordani nel 1893, un eccezionale ricamo a fili d’oro della bottega di Angelo Tafani, ed alcune pianete appartenute a figure di spicco della storia ecclesiastica cittadina e precisamente a Giacomo Serra (legato pontificio tra il 1613 e il 1623) e Marcello Crescenzi (vescovo della città tra il 17441746 e nel 1761-1766). Museo della Cattedrale di Ferrara, guida a cura di G. Sassu, Ferrara 2004; N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, Milano 1982

Museo della Cattedrale (e) Fondato nel 1929 per documentare le vicende relative alla fabbrica del duomo, nel 2000 il museo è stato trasferito nell’attigua chiesa di San Romano, restaurata e recuperata ad uso espositivo. Nell’aula centrale della chiesa è esposto uno dei nuclei di arazzi più importanti dell’Emilia Romagna: si tratta degli otto panni raffiguranti la Vita dei Santi Giorgio e Maurelio commissionati nel 1550 dal

Museo Ebraico (p) L’edificio, situato in una delle arterie principali di quello che fu l’antico ghetto, e che dalla fine del XV secolo è sede della Comunità Ebraica di Ferrara, ospita il Museo Ebraico, di recente istituzione e che consta attualmente di sei sale. Il percorso del museo comprende anche la visita a


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due sinagoghe, la Scola Tedesca e la Scola Fanese, oltre alla ex Scola Italiana, ora trasformata in sala conferenze. In queste sale il visitatore, attraverso oggetti e documenti, può conoscere gli aspetti più importanti della vita e della tradizione ebraica, entrando anche nei diversi momenti della vita religiosa e comunitaria: la preghiera, con i suoi diversi riti, le feste, gli avvenimenti storici che scandiscono la vita di tutti gli ebrei in generale e di quelli ferraresi in particolare. Da segnalare, nella prima stanza, la ricostruzione di una sinagoga con arredi lignei, argenterie rituali e un meil (manto della Torah) e una tovaglia per coprire il podio del XVIII secolo. Nella sala dedicata alle ricorrenze e alle festività, sono esposti una serie di meillim, tutti di provenienza ferrarese, una mappah (fascia per la Torah) della seconda metà del XVIII secolo. Della collezione dei tessuti della Comunità Ebraica di Ferrara fanno parte anche quelli presenti nelle due sinagoghe. Il fondo tessile è stato oggetto di un recente intervento (20042005) di manutenzione e restauro realizzato su finanziamento dell’Istituto per i Beni Culturali. V.M.

Centro di Documentazione del Mondo Agricolo Ferrarese (p) Aperta al pubblico nel 1981 per iniziativa dell’imprenditore agricolo e collezionista Guido Scaramagli, in collaborazione con il Comune di Ferrara, la raccolta si compone di oltre dodicimila oggetti, riuniti in una casa rurale del 1950 e negli edifici annessi, costruiti negli anni ’80. Benchè il museo non conservi vere e proprie collezioni tessili, tuttavia all’interno di alcune sezioni tematiche si annoverano strumenti e manufatti collegati alla tessitura. Nella sala della tessitura si trova infatti un telaio in opera; lenzuola, asciugamani, buratti e “torselli” docu-

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mentano poi i lavori tradizionali. Nella stanza da letto, con lenzuola e coperta tradizionali, sono invece esposti alcuni capi di biancheria intima in canapa e cotone, sia maschile che femminile.Cappotti e tagli di stoffe per abiti illustrano la bottega del sarto, organizzata all’interno di una sezione dedicata al borgo rurale, mentre per quanto attiene ai lavori agricoli, fili da tessitura rappresentano il ciclo del lavoro della canapa. E.L.

PROVINCIA DI FERRARA Comacchio - Museo del Carico della Nave Romana (c) In seguito al ritrovamento di una imbarcazione romana e del suo carico, nell’autunno del 1980 sul fondo del canale collettore di Valle Ponti presso Comacchio, all’inizio del 2001 è stato inaugurato il Museo. L’esposizione permette al visitatore di conoscere e valutare, attraverso i reperti del carico, la vita a bordo di una nave romana di età augustea, naufragata verso la fine del I sec. a.C.. Si sono conservate parti di abbigliamento in cuoio come i grembiali, le sacche da viaggio, parti di un giubbetto e alcune scarpe. Si tratta delle famose caligae allacciate alte sulla caviglia, in alcuni casi chiodate come quelle dei militari e indossate con un calzino o una pantofola morbida in cuoio. Sono stati inoltre rinvenuti frammenti di tessuti di uso quotidiano realizzati in fibre vegetali come stuoie, cesti in vimini, contenitori in legno di quercia oltre a una fascia e alcuni frammenti in lana utilizzati probabilmente per riparare la nave. B.O. F. Berti, Fortuna maris: la nave romana di Comacchio, Bologna 1990


RAVENNA

Museo del Risorgimento (c) l Museo, formatosi sullo scorcio dell’Ottocento, si sviluppa in alcuni locali della biblioteca Classense, sita in un monastero camaldolese della città, che, eretto intorno al 1512 per ospitare il monastero di Classe divenuto poco sicuro, nel XVIII secolo vide incrementato l’antico nucleo della biblioteca classense ad opera dell’abate Pietro Canneti, oggi divenuta biblioteca comunale. La sezione espositiva attuale del Museo è dedicata alle imprese di Garibaldi e alla partecipazione della città di Ravenna alle vicende risorgimentali. Vi si conservano circa 500 oggetti tra stampe, manifesti, disegni, dipinti, manoscritti, armi. Quanto a manufatti tessili sono documentati una serie di uniformi e indumenti vari, in tutto una quarantina circa, di cui esposti solo una decina. Tra i cimeli tessili più importanti per il valore simbolico che esprimono, oltre alla bella divisa della Guardia Civica completa di accessori (cintura con bandoliera e cappello a feluca con coccarda tricolore), vi sono tre capi d’abbigliamento appartenuti all’eroe dei due mondi e alla sua compagna: si tratta del mantello di panno e del cappello di feltro grigi del mitico generale e degli stivali in pelle scura di Anita. Tutti gli indumenti sono stati restaurati da Marco Ragni (19962000) su fondi stanziati dall’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna.

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Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 124/127

Mantello di Giuseppe Garibaldi. Italia, 1860-1866, Panno di lana nera e marrone. Ravenna, Biblioteca Classense, Museo del Risorgimento.

Museo Nazionale (s) Il Museo Nazionale di Ravenna fu istituito nel 1885, quando le ricche collezioni d’arte e antiquaria dei padri camaldolesi di Classe, già passate alla municipalità con le soppressioni napoleoniche, vennero organizzate in un’istituzione statale. Con il trasferimento nell’ex Monastero di San Vitale, avvenuto fra 1913 e 1914, il museo venne ulteriormente ampliato e oggi si presenta come un vasto insieme di raccolte organizzate in tre grandi settori: il lapidario, i reperti da scavi, le collezioni d’arti cosiddette minori.


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In quest’ultimo ambito figura una rilevante collezione tessile formata da oltre un centinaio di reperti assai diversi per tipologia, provenienza e datazione che nel loro insieme costituiscono una documentazione particolarmente significativa coprendo un arco cronologico che va dalla tarda antichità al XIX secolo. Per la loro rarità e importanza si segnalano il gruppo dei tessuti copti provenienti dalla necropoli di Antinoe, una cinquantina di reperti, fra cui quattro tuniche quasi completamente integre, donati nel 1902 dall’illustre collezionista Emile Guimet, già direttore del Museo Guimet di Parigi; il nucleo di stoffe rinvenute nel 1910 nell’arca marmorea contenente le spoglie di San Giuliano a Rimini fra i quali figurano svariati frammenti e due grandi teli, uno dei quali decorato da leoni andanti entro grandi orbicoli; i resti di vesti ecclesiastiche dell’VIII e IX secolo (pianete, dalmatiche, casule) provenienti dai sarcofagi di Sant’Apollinare in Classe, fonte importantissima di informazioni sul passato dell’arte della tessitura. Fra i materiali più preziosi occorre infine ricordare il famoso “Velo di Classe”, un raro ricamo altomedievale eseguito a Verona per la chiesa dei Santi Fermo e Rustico e finito, per sconosciute vicende, ad ornare una pianeta di San Apollinare in Classe, una mitra trecentesca tecnicamente affine all’opus anglicanum verosimilmente francese e un cappuccio di piviale della seconda metà del Quattrocento, anch’esso riccamente ricamato. C. Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma 1993; L.Martini, Cinquanta capolavori del Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998, cat. nn. 4, 11, 13, 14, 22, 26, 30.

Museo Arcivescovile (e) Il Museo Arcivescovile risale al 1734 e raccoglie un importante serie di iscrizioni pagane, una sezione paleocristiana con iscrizioni, capitelli, la Cattedra di Massimiano in avorio della metà del V secolo, statue, argenti, stoffe antiche e paramenti sacri. Particolarmente significativi sono i reperti tessili conservati nella Sala delle pianete dove sono esposte appunto due preziosissime pianete a campana. La prima, detta tradizionalmente la Pianeta del Vescovo Giovanni Angelopte, è realizzata in tessuto azzurro scuro con ricami in oro rappresentanti aquile e falci di luna. San Giovanni Angelopte fu vescovo di Ravenna dal 477 al 479, ma il Braun ne fa risalire la realizzazione in epoca non anteriore al XII secolo. La seconda pianeta è la cosiddetta pianeta di Rinaldo da Concorezzo Arcivescovo di Ravenna dal 1303 al 1321; questa, in seta purpurea,

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presenta la colonna centrale in tessuto operato con elementi geometrici. B.C.

W. Bendazzi R. Ricci, Ravenna. Guida alla conoscenza della città. Mosaici arte storia archeologia monumenti musei, Ravenna 1987.

La Casa delle Marionette (p) La Collezione, proprietà della Famiglia Monticelli, consta di una cospicua raccolta di marionette, burattini, scenografie, copioni manoscritti e altro materiale per il teatro di figura, risalente in buona parte al secolo XIX. Essa si caratterizza per la presenza di pezzi “vivi”, ossia creati e mantenuti per essere i protagonisti degli spettacoli che questa famiglia ha realizzato dalla prima metà dell’Ottocento, con il capostipite Ariodante, fino all’attualità e che da cinque generazioni vengono tramandati ed arricchiti di padre in figlio. Delle oltre cinquanta marionette, appartenenti alla Collezione, alcune provengono, oltre che dalla famiglia, dalla compagnia “Fantocci Lirici Yambo” di Enrico Novelli (fondata nel 1919), in cui operarono in qualità di marionettisti Otello e Nella Monticelli e dalla Famiglia Picchi. Tra i burattini, a tutt’oggi oltre un centinaio, si segnala una serie di maschere tradizionali emiliane (Fagiolino, Sandrone, Dottor Balanzone) appartenuti alla Compagnia Burattineide di Agostino Galliano Serra. Attraverso i suoi ultimi discendenti Mauro ed Andrea, della Compagnia del Teatro del Drago, la famiglia Monticelli persegue una propria linea artistica di ricerca e sperimentazione realizzando spettacoli frutto di un costante lavoro sui materiali; al tempo stesso è attenta al recupero della tradizione riproponendo antichi canovacci ottocenteschi realizzati e utilizzati dalla compagnia fin dalla prima fondazione. Inoltre, in attesa di poter rendere fruibile permanentemente la collezione storica, essa allestisce periodicamente mostre temporanee di questi pregevoli materiali in idonee sedi espositive. L.B.


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PROVINCIA DI RAVENNA

Alfonsine - Museo della Battaglia del Senio (c) Istituito nel 1981 dal comune di Alfonsine con la collaborazione allargata ad altri enti locali, regionali e statali come la Provincia, nove comuni della Valle del Senio, l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna e l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, il museo è dedicato alla memoria degli eventi bellici accaduti in Romagna tra il 1944 e il 1945 ed in particolare ad Alfonsine punto strategico decisivo nella lotta di liberazione in quanto fu liberata dal gruppo di combattenti “Cremona”. Diviso in aree tematiche che attestano le condizioni di vita e la conformazione del territorio di quegli anni bellici, il museo conserva insieme alle armi e agli strumenti militari una buona documentazione di abiti civili, uniformi militari e bandiere utilizzate in quel periodo.

Bagnara di Romagna - Museo Parrocchiale (e) Il museo Parrocchiale, sito nei locali della canonica, è aperto al pubblico dal 1965 e nel 1982 è stato intitolato a Mons. Alberto Mongardi promotore e fondatore. Riordinato nel 1995, il piccolo ma curatissimo e molto amato museo conserva una quantità incredibile di oggetti delle più svariate tipologie. Dipinti dei secoli XVI, XVII e XVIII, fra cui la pala d’altare di Innocenzo Francucci da Imola, sono affiancati da rarissime cinquecentine, una varietà sorprendente di gioielli donati come ex voto alla Madonna Immacolata, detta dal 1631 del “Pubblico Voto”, reliquari, argenterie, calici, pissidi, ostensori, mobili, tutti oggetti provenienti dalla piccola chiesa Parocchiale intitolata ai Santi Giovanni Battista e Andrea Apostolo. Anche i numerosi parati tessili, conservati in teche, offrono un’ampia visione di differenti tipologie tessili e lavorazioni. Di notevole pregio le pianete in damasco risalenti al XVII secolo, i parati in seta rosa canetillé arricchiti da importanti broccature, la serie di tonacelle e piviali della metà del XVIII create in tessuti francesi dal vivo naturalismo e variegata ricchezza cromatica. Merletti a fuselli, a ago abbelliscono cotte grettate e lini finissimi, unitamente a grandi tovaglie d’altare dai preziosi bordi. Sono presenti anche più recenti testimonianze della storia locale, quali il canopeo e la tovaglia ricamate dalle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù agonizzante di Lugo di Romagna

subito dopo la seconda guerra mondiale, o gli oggetti realizzati dalle suore di Castel Bolognese. Oltre ad alcuni oggetti appartenuti a Papa Pio IX, sono conservati infine due baldacchini processionali di cui uno settecentesco in damasco avorio, e un ombrellino processionale cosparso di ricami in sete policrome. B.C.

Castel Bolognese - Museo d’Arte Sacra (e) Il museo, istituito nel 1999 al fine di raccogliere le testimonianze artistiche e storiche della religiosità castellana, è stato allestito in alcuni locali, opportunamente adattati, annessi alla locale Chiesa Parrocchiale di San Petronio. Vi si custodiscono la Biblioteca appartenuta all’arciprete Tomaso Gamberini, l’Archivio Parrocchiale e un buon numero di apparati liturgici e opere d’arte provenienti sia da chiese di Castel Bolognese tuttora officiate, quali la Parrocchiale e San Francesco che da altre non più esistenti, la Chiesa del Suffragio e quella del Rosario Nuovo. Alcuni pezzi sono inoltre pervenuti dalle chiese del contado, Serra e Casalecchio, nonché dalle donazioni di privati. Vi si conservano numerose opere pittoriche,candelabri, ostensori, reliquiari, calici e altri oggetti di apparato e per la mensa, nonché tre statue di bambinelli vestiti, tutti risalenti ai secoli XVII-XIX. Di particolare interesse la consistente raccolta dei tessuti liturgici tra cui si segnalano quattro abiti dell’Immacolata Concezione, di cui tre di manifattura italiana del secolo XVII e uno di manifattura francese databile 1775-80 e due veli settecenteschi, appartenenti allo stesso simulacro; mentre i due manti processionali della Beata Vergine della Consolazione, entrambi settecenteschi, uno di manifattura francese l’altro forse di provenienza napoletana, appartengono alla chiesa di San Petronio. Particolarmente rilevanti due pianete con stola, manipolo e borsa, una di manifattura romana tardo seicentesca in taffettà scarlatto con delicati girali e volute costituite da piccole foglie ricciolute e gigli ricamati in filo d’argento, riccio, lamellare e filato; l’altra, realizzata nel Settecento adattando un tessuto più antico proveniente da altro uso, è in velluto tagliato color rubino e presenta il tipico motivo cinquecentesco della melagrana inscritta nel fiore di cardo. Il Museo è visitabile su richiesta o in occasione di particolari festività. L.B.

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Cervia - Museo dei Burattini e delle Figure (c)

Faenza - Museo del Teatro (c)

In questo museo trovano spazio numerosi materiali afferenti sia al teatro di figura di tipo tradizionale che quelli prodotti in contesti contemporanei più innovativi e di ricerca, provenienti da tutta Europa, ma anche da Persia, Turchia e altri territori dell’Asia. Nella sezione storica si segnalano collezioni di notevole pregio storico e culturale: marionette del Sette e Ottocento, pupi siciliani e teste di legno della metà del secolo XIX, burattini d’origine padana di fine Ottocento, antichi copioni e attrezzi di scena, fondali dipinti. Tra i fondi più pregevoli si segnalano i nuclei Cervellati, Sansone e Ferrari; di grande interesse risulta inoltre un teatrino d’ombre Giavanesi, anch’esso di fine Ottocento, completo di relative sagome in cuoio, intagliate e dipinte a mano. Allestito all’interno nell’ex edificio scolastico di Villa Inferno, in prossimità delle antiche Saline Etrusche, il museo risulta accessibile solo con mezzi privati.

Il museo, attualmente chiuso al pubblico, venne istituito nel 1931 a seguito della consistente donazione al Comune di Faenza da parte di Arnaldo Minardi, appassionato collezionista di documenti ed oggetti teatrali. Fino al 1984 la raccolta fu ospitata e fruibile presso la Biblioteca Comunale Manfrediana, che ne detiene la titolarità e dove tuttora è conservato il cospicuo nucleo cartaceo. La necessità, da parte della biblioteca, di ampliare i propri spazi, ha reso necessario il trasferimento delle altre tipologie della raccolta, ospitate in alcune salette poste all’ultimo piano di Palazzo Milzetti in attesa di un adeguato e definitivo allestimento. Si tratta di un insieme di rilevante interesse storico e documentario, costituito da strumenti musicali databili tra il XVI e il XX secolo, ritratti di compositori ed interpreti teatrali, nonché da una cospicua collezione di abiti e accessori di scena. Questi ultimi, ad esclusione di pochi pezzi, si sono rivelati essere in realtà abiti civili adattati per il teatro: marsine, pantaloni, gilet maschili e corpetti femminili in pregevoli tessuti, databili tra il XVIII e l’inizio del XIX secolo hanno conservato inalterate le loro caratteristiche originali, mentre altri pezzi hanno subito modifiche di notevole entità. È il caso del cosiddetto ‘abito di Theodora’, originariamente un vestito femminile di gala del primo Novecento, cui si è voluto imprimere uno stile vagamente tardo medievale attraverso una serie di rimaneggiamenti. L.B.

L.B.

Faenza - Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea (c) La raccolta museale nata nel 1904 ed esposta in origine nei locali della Pinacoteca, nel 1921 fu trasferita a Palazzo Manfredi in occasione di una mostra sull’Indipendenza italiana. Dopo la seconda guerra mondiale fu riallestita ex-novo agli inizi degli anni ’70 nell’attuale sede storica, l’antico convento dei SS. Filippo e Giacomo o dei Servi, oggi sede della biblioteca comunale. Dal 1976 per vicende alterne il museo è chiuso al pubblico e le raccolte sono conservate nei depositi in attesa di nuova riapertura. Costituito da materiali, parte privati e parte pubblici, il museo vanta 800 oggetti tra memorie e cimeli, di cui il nucleo più significativo è sicuramente quello storico che va dall’età napoleonica all’Unità d’Italia e che annovera tra i manufatti tessili alcune bandiere e uniformi databili al periodo compreso tra il 1796 e il 1870. Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 78/80

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Faenza - Museo Internazionale delle Ceramiche (f) Fondato nel 1908 da Gaetano Ballardini, il Museo Internazionale delle Ceramiche si prefiggeva, sin dall’origine, di documentare la produzione ceramica italiana e straniera con attenzione ai diversi aspetti – artistici, tecnici, geografici – che storicamente l’hanno connotata. Il nucleo originale, costituito da parte delle opere presentate all’esposizione organizzata per celebrare il terzo centenario della nascita di Evangelista Torricelli, lo scienziato faentino inventore del barometro, è andato via via ampliandosi nel corso del tempo attraverso gli acquisti e soprattutto le donazioni. Oggi il museo si configura come un organismo complesso dotato di sale didattiche affiancato a vasti spazi espositivi.


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Nel 1999 il patrimonio del Mic si è ulteriormente arricchito grazie alla donazione Laffi-Petrachi consistente in tredici reperti lignei e in una sessantina di tessuti precolombiani. Composta da frammenti di vari tipi di indumenti e da altri manufatti, quali fasce e bordure, presumibilmente appartenute a membri d’élite, la collezione tessile offre nel suo insieme un ampio quadro della complessa e diversificata produzione precolombiana del Perù riferibile al periodo che va dal IV secolo a.C. sino all’epoca della conquista. Realizzati esclusivamente con fibre di cotone e di lana, sia nei loro colori naturali sia trat-

tate con procedimenti di tintura, i reperti esemplificano svariate tipologie tecniche: dalle semplici tele alle garze, dagli arazzi ai ricami, ai tessuti dipinti. Per arrestare il processo di degrado che interessa i manufatti tessili, danneggiati dalla presenza di polvere e sporco, da lacune e lacerazioni, è stato avviato con il sostegno dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali un intervento di restauro, ancora in corso, terminato il quale i tessuti saranno esposti nelle sale che già accolgono le ceramiche precolombiane.

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FORLÌ - CESENA

Forlì - Museo Etnografico Romagnolo “B. Pergoli” (c) n occasione delle Esposizioni Romagnole Riunite, realizzate a Forlì nel 1921, Aldo Spallicci, Emilio Rossetti e Benedetto Pergoli allestirono la Mostra Etnografica Romagnola che di fatto rappresentò il primo nucleo di questo museo che sarebbe stato inaugurato l’anno successivo in Palazzo Merenda; nell’ambito della cultura materiale si tratta pertanto di una delle più antiche raccolte museali. Dapprima imperniato sugli ambiti della tradizione artigiana quali l’ebanisteria, la ceramica, le tele stampate, a partire dal dopoguerra il Museo ha conosciuto un notevole sviluppo grazie all’acquisizione di strumenti e oggetti legati agli usi e alle attività contadine, tanto da doversi sdoppiare in due grandi settori espositivi. Il primo all’interno della sede storica di Palazzo Merenda, che sarà mantenuta anche in futuro, comprende notevoli collezioni di mobili, ceramiche e suppellettili che hanno trovato posto nelle ambientazioni della tipica casa colonica e cittadina, della tipica osteria romagnola e nelle botteghe artigiane tradizionali: quella dello stampatore di tessuti a ruggine, del vasaio, del fabbro, del liutaio, del ciabattino, del cappellaio. Di notevole entità risulta il patrimonio attinente l’ambito tessile che comprende sia manufatti che strumenti (macchine da cucire, per la tessitura e la filatura). Si segnalano paramenti d’uso liturgico, ex voto in tessuto, corredi battesimali, un buon numero di capi d’abbigliamento di vario genere sia da uomo che da donna, tele stampate a ruggine, oltre sessanta corredi per la casa di tipo rustico e cinquanta per la casa molto benestante e un arazzo con scena campestre. La seconda sezione del museo, aperta nel 1964 in Palazzo

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Gaddi, comprende sia le macchine e gli attrezzi agricoli relativi ai cicli lavorativi della campagna romagnola che la ricostruzione di altre botteghe artigiane: il barbiere, il droghiere, il fabbricante di caramelle, il tabaccaio, il cordaio, il sellaio, il maniscalco, il corniciaio e il falegname nonché una sezione dedicata alle attività marinare romagnole e alle Saline di Cervia, comprendente inoltre strumenti e macchine tessili. Attualmente, a causa di una serie di lavori di restauro che interessano Palazzo Gaddi, questa sezione è stata immagazzinata in attesa di essere riallestita in una sede più consona. L.B.

Forlì - Museo del Risorgimento “Aurelio Saffi” (c) Il Museo, con sede dal 1964 nello storica dimora settecentesca di palazzo Gaddi, si sviluppa in otto sale dedicate a personaggi di spicco (per lo più forlivesi) e ad eventi storici significativi compresi tra il Risorgimento e il periodo napoleonico per giungere fino alla seconda guerra mondiale e alla Resistenza. I materiali conservati, più di mille, di cui il 90% esposti, comprendono dipinti, manoscritti, armi, medaglie, oggetti d’uso quotidiano e cimeli vari acquisiti con donazioni private alla città da parte della comunità locale. Tra questi diversi sono i manufatti tessili come le uniformi e le bandiere. Nella sala dedicata all’eroe carbonaro Pietro Maroncelli condannato insieme a Silvio Pellico al carcere duro dello Spielberg in Moravia dal governo imperiale austriaco, tra gli oggetti a lui appartenuti legati ai moti del 1831, spicca, per esempio, lo


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stendardo della Guardia Civica ricamato con lo stemma della famiglia Mastai Ferretti. Nella sala del garibaldino Achille Cantoni caduto a Mentana sono conservati, invece, uniformi e copricapi di vari garibaldini forlivesi. In quella dedicata al patriota Aurelio Saffi, triumviro della Repubblica Romana, deputato e docente universitario, si possono apprezzare sia la sua toga da docente che un suo abito da cerimonia. Nella sala dedicata al XI Reggimento di Fanteria forlivese, attivo dal 1871 al 1938, che si contraddistinse per il suo valore e il coraggio dei suoi combattenti romagnoli, è esposta la bandiera dell’unità militare. Nella sala, infine, dedicata all’eroismo dei combattenti forlivesi nella prima guerra mondiale, va segnalata la singolare bandiera bianco-rossa dei reduci di guerra del 1921 ricamata con un filo bruno che riprende le tonalità di marrone bruciato tipiche della stampa a ruggine locale su tela di canapa.

to regionale, un importante nucleo di burattini e marionette, baracche e scenari, della collezione Edgardo Forlai, databili tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Dai gagliardetti e foulards di seta appartenuti ad Angelo Masini, ai costumi teatrali, agli elementi d’arredo di Maria Farneti, anche i manufatti tessili conservati in questo museo ne rispecchiano la ricchezza e l’eterogeneità. Particolarmente interessante ed elaborato risulta il costume da toreador del baritono Edoardo Faticanti, rammentato negli annali forlivesi per una memorabile interpretazione di Jago nel 1913; non meno interessante un abito ricamato, di foggia orientale appartenuto ad Ermete Novelli. Si segnala infine il costume completo dei Canterini Romagnoli, attivi tra il 1910 e il 1932. L.B.

Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 91/95

Forlì - Museo Dante Foschi (p) Forlì - Museo Romagnolo del Teatro (c) Una notevole raccolta di cimeli, memorie e onorificenze afferenti la vita e l’attività del celebre tenore forlivese Angelo Masini (1844-1926), rappresenta il nucleo originario di questo museo istituito nel 1959. Allestito dalla fine degli anni Sessanta nello storico Palazzo Gaddi, nel tempo si è arricchito e attualmente risulta costituito da sezioni tra loro diverse che, nell’insieme, offrono una panoramica piuttosto diversificata su personaggi, luoghi e attività della vita teatrale e musicale del forlivese e più in generale della Romagna. Oltre ad una sezione dedicata agli strumenti musicali, appartenuti a musicisti e concertisti del territorio o prodotti dalla importante liuteria locale, abbiamo una sala dedicata alla soprano Maria Farneti, interprete prediletta da Pietro Mascagni. Trovano altresì posto testimonianze relative al settecentesco Teatro Comunale di Forlì, andato distrutto nel 1944; ai Canterini Romagnoli, istituzione fondata da Cesare Martuzzi all’inizio del XX secolo; alla diva dell’operetta Ines Fronticelli Baldelli, in arte Ines Lidelba. Infine una piccola sezione espone memorie, copioni, bauli da viaggio, abiti e costumi appartenuti al celebre attore Ermete Novelli, il cui padre apparteneva ad una nobile famiglia bertinorese. Di recente il museo ha inoltre acquisito, con il contribu-

Allestito in un’ampia sala al primo piano del Palazzo del Mutilato, edificato nel 1933 da Cesare Bazzani per ospitare la sede dell’A.N.M.I.G. (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra), il museo conserva oltre ad alcuni reperti risorgimentali, armi, fregi, onorificenze, arredi e cimeli che documentano i due conflitti mondiali e la Guerra d’Etiopia. Del periodo risorgimentale, si conservano un berretto garibaldino e un kepì del II° Reggimento di Artiglieria Celere “Emanuele Filiberto” con fiocco e custodia, della prima guerra mondiale, una divisa da capitano, una giacca da tenente, una mantella da soldato e due bandiere nazionali, della seconda, fasce azzurre da ufficiale, nastri vari, gradi, mostrine e un fazzoletto rosso dell’“8a Brigata Garibaldi” con la riproduzione del volto dell’eroe dei due mondi. Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 89/90

Cesena - Museo della Cattedrale (e) Ospitato dal 2002 nello storico spazio della cappella di San Tobia il museo offre ai suoi visitatori non solo lo straordinario tesoro, testimonianza storica della Cattedrale, ma anche oggetti e parati liturgici provenienti da

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rettorie soppresse e non della diocesi di Cesena e Sarsina. Un’importante selezione di argenti, reliquari, tra cui il reliquario eseguito da Gaspare Gottardi Gottardo I del 1483, sono affiancati a gioielli, messali e tavole di rinomata importanza come la Madonna della Pera di Paolo Veneziano del 1347. Significativa la sezione tessile che propone diversi parati liturgici, perfettamente conservati, dal XVIII al XX secolo come la pianeta interamente ricamata in oro recante lo stemma della famiglia Braschi, risalente appunto al pontificato di Pio VI (1775-1799), o il parato composto da pianeta, tonacelle e piviale di colore violaceo ornato da un ricamo ad ampi tralci in fili d’oro dono di Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni, già vescovo di Cesena dal 1816 al 1822. Sono presenti inoltre alcune mitrie di epoche e manifatture differenti tra le quali spicca, per ricchezza e singolarità, quella completamente ricoperta di ricami in corallo. B.C. La cattedrale di Cesena, a cura di M. Mengozzi, Cesena 2002

PROVINCIA DI FORLÌ-CESENA Bertinoro - Museo Interreligioso (e) Dell’antica Rocca che sovrasta l’abitato di Bertinoro si hanno notizie fin dal 1006. Edificata ad opera dei Conti di Bertinoro grazie alla particolare posizione dominante rappresentò in Romagna una delle più temute opere difensive medievali. Nel corso della sua millenaria storia ospitò numerosi illustri personaggi tra cui l’imperatore Federico Barbarossa che nel 1177 vi dimorò con la sua corte e le sue milizie. Dal 1584 divenne residenza vescovile e successivamente fu oggetto di svariati ampliamenti e rifacimenti che ne hanno definito le attuali forme. Dal 1985 la Rocca è stata per alcuni anni sede del Centro per lo Studio e la conservazione dell’Arredo Liturgico e del Costume Religioso, che ha raccolto e conservato un notevole patrimonio, soprattutto tessile, rimasto fino ad allora presso le Parrocchie della Diocesi. A partire dal 1994 sia la Rocca Vescovile che il Rivellino (che ne è parte integrante), che l’ex Seminario, poco distante, sono stati oggetto di un’imponente opera di recupero e adeguamento che ne ha consentito una nuova destinazione. Ceduti dalla Diocesi di Forlì, che ne è la proprietaria, in comodato d’uso all’Università Studi di Bologna e di Romagna ne sono divenuti la sede estiva, creando il Centro Residen-

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ziale Universitario. Parte integrante del progetto di recupero dell’antica sede vescovile bertinorese è stato inoltre il Museo Interreligioso inaugurato il 10 giugno 2005. Del precedente Centro per lo Studio e la conservazione dell’Arredo Liturgico e del Costume Religioso, nell’attuale sede museale si conservano alcuni splendidi materiali tessili attinenti al culto cattolico che in questo caso risultano prevalenti, tra cui alcune pianete complete di stola e manipolo; a questi si sono aggiunti alcuni tessili d’origine ebraica e indumenti (moderni) relativi al culto islamico e cristiano ortodosso. L.B.

Modigliana - Museo Storico Risorgimentale “Don Giovanni Verità” (c) Il museo, istituito nel 1932, ha sede nella casa dove visse Don Giovanni Verità (1807-1885), sacerdote patriota, noto per aver salvato la vita a Garibaldi in fuga nell’agosto del 1849 dopo la caduta della Repubblica Romana, ospitandolo nella sua abitazione. È una casa-museo ottocentesca che raccoglie cimeli e documenti legati alla vita del prelato modiglianese, oltre a armi, dipinti, stampe risorgimentali e ad una raccolta archeologica di monete romane: si segnalano per importanza i due ritratti di Garibaldi e dello stesso Verità dipinti da Silvestro Lega (18261895), anch’egli uomo del Risorgimento. Tra i cimeli di quel periodo si conserva un manufatto tessile degno di rilievo non fosse altro per la leggenda a cui è legato che tuttavia richiede a tutt’oggi una conferma storica: è uno scialle con frangia in tela di cotone a righe policrome che la tradizione vuole essere appartenuto ad Anita Garibaldi. Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P. Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno XLII, Bologna 1997, pp. 113/115

Pianetto - Museo Civico Monsignor Domenico Mambrini (c) Il Museo istituito nel 1945 e trasferito nel 2001 nell’ex convento dei Padri Francescani di Pianetto, è costituito dalle antichità raccolte da Monsignor Mambrini afferenti alla storia di Galeata e del suo territorio. Conserva tra i suoi re-


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perti archeologici e storico-artistici anche un corpus interessante di manufatti tessili composto da diverse acquisizioni provenienti dal nucleo originario raccolto dal prelato galeatese (1879-1944), fondatore del museo agli inizi del Novecento, quando il museo si connotava quale museo parrocchiale, oltre che da due chiese di Galeata (dall’abbazia di Sant’Ellero e dalla pieve di San Pietro in Bosco) e dal patrimonio dell’Ente Comunale d’Assistenza (ex E.C.A.). La raccolta, che vanta una novantina circa di manufatti non ancora esposti al pubblico, comprende paramenti liturgici per lo più di manifattura italiana e di varia epoca compresa tra il XVI e il XIX secolo (piviali, tonacelle, pianete, camici con relativi accessori), un nucleo di pizzi, scialli, e biancheria domestica compresi fra il XVIII e il XIX secolo, oltre a due parti di divise risorgimentali. Si annovera anche uno strumento da lavoro tessile rurale, un arcolaio.

Sarsina - Museo Diocesano d’Arte Sacra (e) Inaugurato nel 1988, il museo ha sede nel Palazzo Vescovile attiguo alla Cattedrale intitolata a San Vicinio, protovescovo sarsinate. Dall’antica chiesa di fondazione bizantina, ma rimaneggiata successivamente, provengono frammenti lapidei e numerosi altri arredi esposti unitamente a dipinti, sculture e oggetti liturgici recuperati da chiese dell’ex diocesi di Sarsina, soppresse o distrutte dalla guerra, come ad esempio la ragguardevole raccolta di campane in bronzo alcune delle quali di epoca tre-quattrocentesca. La sezione tessile annovera numerosi parati liturgici settecenteschi confezionati con tessuti italiani e francesi che documentano le tipologie tecniche e decorative più importanti di quel periodo. Di particolare interesse sono inoltre le mitre ricamate in filo d’oro recanti gli stemmi di Giovanni Bernardino Vendemini, Gian Battista Mami e Nicola Casali, vescovi di Sarsina rispettivamente dal 1733 al 1749, dal 1760 al 1787 e dal 1787 al 1815. F. Faranda, Il Museo d’Arte Sacra della Città e Comprensorio di Sarsina, Forlì 1988

Scialle di Anita Garibaldi. Italia, terzo quarto del XIX secolo, Raso di seta a righe perla, gialle, rosse, azzurre. Modigliana (Forlì), Museo Storico Risorgimentale Don Giovanni Verità.

Stivali di Anita Garibaldi. Italia, 1860-1866, Cuoio marrone. Ravenna, Biblioteca Classense, Museo del Risorgimento.

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RIMINI

Museo della Città (c) ato alla fine degli anni ’60 con l’autonomia degli istituti culturali cittadini, dal 1990 il Museo della Città ha sede nel settecentesco Collegio dei Gesuiti, opera dell’architetto bolognese Torreggiani. Il percorso espositivo, che sarà completato solo a conclusione dei lavori di restauro dell’edificio e che illustrerà la storia della città dal Paleolitico al XX secolo, comprende un’importante raccolta di arazzi. Il nucleo è composto da sette tappezzerie dedicate ad episodi della vita di Semiramide, la mitica regina di Babilonia famosa per la bellezza ma soprattutto per il coraggio e l’audacia, e da due panni raffiguranti fatti della vita di Salomone: tutti figurano esposti in una apposita sala grazie ad un articolato intervento conservativo reso possibile grazie al sostegno economico dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali. Caratterizzate da importanti bordure a foglie d’acanto, mazzi fioriti e pietre dure incastonate in cornici barocche, le tappezzerie di Semiramide sono state eseguite in una delle più famose ed affermate manifatture operanti ad Anversa nel XVII secolo, quella di Michel Wauters. I cartoni sono invece opera di Abraham van Diepenbeek, un pittore fiammingo specializzato nella progettazione di vetrate ed arazzi. Nel Museo della Città si conserva anche un telo ricostruito con i frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468) in damasco lanciato broccato di seta gialla e oro filato con disegno a melagrana.

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M. Cesarini, La serie degli arazzi di Semiramide nel Museo della Città di Rimini, in “Penelope”, vol. II. 2004, pp. 13-35.

Museo degli Sguardi: Raccolte Etnografiche di Rimini (c) Già noto come “Museo Dinz Rialto”, è l’unico museo dell’Emilia-Romagna ad essere interamente dedicato alle culture extraeuropee. Il Museo nel dicembre 2005 riapre totalmente rinnovato nella prestigiosa sede di Villa Alvarado (appositamente ristrutturata e con un progetto allestitivo di forte impatto), con l’accattivante denominazione di “Museo degli Sguardi” e con un patrimonio considerevolmente arricchito ora che il Comune riminese è divenuto titolare dell’importante collezione Canepa. La positiva conclusione della lunga vicenda di acquisizione, resa possibile grazie all’impegno dell’Istituto Beni Culturali, ha permesso infatti di incrementare la raccolta dell’esploratore e studioso Dinz Rialto con quella del collezionista Cav. Ugo Canepa: ne risulta un raro patrimonio di strepitosi manufatti prodotti da varie culture dell’Africa, dell’Oceania e dell’America precolombiana, segni di civiltà scomparse dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli nel XVI secolo. Oltre ai numerosi reperti ceramici, lapidei e metallici il Museo annovera un significativo nucleo di tessuti precolombiani: la collezione Dinz Rialto conta all’incirca 40 reperti, mentre quella Canepa ne comprende circa 120, tra i quali 80 di notevoli dimensioni e i restanti di dimensioni molto variabili. I tessuti di entrambe le raccolte provengono dall’area peruviana e attraverso studi comparativi si è riusciti a identificare le tradizioni tessili e quindi le culture che li hanno prodotti: Paracas-Nazca, Nazca, Huari, Huari-Pachacamac, Chimù, Chancay, Ica e Inca. Si tratta quindi di materiali databili in un periodo compreso fra il III-IV secolo a.C. e il XVI secolo d.C. Vi sono inoltre alcuni reperti di difficile datazione, comunque apparte-


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nenti alle tradizioni preispaniche, altri ascrivibili alle culture della Costa del Perù del Periodo Intermedio Recente e del III Orizzonte (XI-XVI sec. d.C.). Le materie prime utilizzate sono essenzialmente lana di camelide e cotone arricchiti in alcuni casi con piume o lamine d’argento. Molto interessante è inoltre la grande varietà delle tecniche di lavorazione comprendenti tele a spazi aperti e doppie, garze, arazzi, tessuti con trame e orditi complementari, ricami, ed altre varianti. Anche l’iconografia di questo importante nucleo di reperti risulta particolarmente ricca: dai disegni geometrici stellari (probabilmente il simbolo del cosmo) e a triangolo zig zag (ricollegabile al dio trino Tuono-Fulmine-Saetta), a quelli con motivi di animali variamente stilizzati, spesso disposti in file o concatenati l’uno all’altro, alle figure di esseri umani, sacerdoti o personaggi mitici riccamente abbigliati. La funzione di questi tessuti è da attribuire prevalentemente all’uso funerario e cerimoniale, mentre la tipologia più rappresentata è quella dei manti costituiti da pezze quadrangolari di diverse dimensioni, ma spiccano anche alcune tuniche maschili, gli “unku”, di cui una completamente rivestita di piume ed altre con colorate bordure, e non mancano infine piccoli manufatti identificati come borsine per coca. Assolutamente inconsueta la presenza di un “quipu”, un curioso sistema di registro contabile in uso presso gli Inca formato da una serie di cordicelle e nodi, considerato reperto tessile poiché le cordicelle intrecciate e annodate sono di lana e cotone. A.S.

Antica America. Guida alla Sezione Americana Precolombiana del Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”, a cura di M. Biordi (sezione monografica sui tessuti di L. Laurencich Minelli), Firenze 1992 Inca. L’impero del sole e i regni preincaici, catalogo della mostra, Rimini 2001-2002

Tempio Malatestiano, Tesoro della Cattedrale (e) Il tesoro è conservato in una sala detta Cella delle Reliquie di recente costruzione e adiacente alla parete destra del Tempio, storico e augusto edificio progettato da Leon Battista Alberti nel 1447 come pantheon di famiglia di Sigismondo Pandolfo Malatesta, che racchiude le spoglie

della terza moglie del signore riminese, Isotta degli Atti. Tutto è un inno alla classicità romana, dall’architettura che richiama, nelle fiancate il ponte di Tiberio e nella facciata l’Arco di Augusto, alle preziose finiture marmoree del rivestimento sia esterno che interno, il secondo dovuto a Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio, fino al famoso affresco dipinto da Piero della Francesca nel sepolcro del committente che lo ritrae in preghiera davanti a San Sigismondo. Inaugurato nel 1993 il Museo espone all’interno di vetrine una selezione pregevole di argenterie, dipinti e sculture della Cattedrale, oltre ad alcuni preziosissimi frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Malatesta recuperati durante la ricognizione effettuata il 28 dicembre 1920 nella tomba del riminese morto nel 1468. I pochi resti tessili salvati all’atto dell’apertura della tomba, facevano riferimento a tre capi di abbigliamento, un mantello, una sopravveste e un farsetto completati da una camicia e una cintura. Il recupero avvenuto in due tempi, negli anni ’70 del secolo scorso e nel 2000 in occasione della mostra che Rimini dedicò ai Malatesta, non consentì di ricostruire la foggia originaria degli abiti, ma solo di recuperare, dopo un attenta ricomposizione dei frammenti, un telo di damasco di seta gialla quasi interamente ricoperto di oro filato contrassegnato dal tipico decoro rinascimentale, la melagrana, racchiusa entro maglie ovali vegetali. Il telo che misura 224 cm di lunghezza e 55 cm di larghezza, è conservato oggi nei depositi del Museo della Città. Tutte le vesti erano quindi di damasco giallo interamente ricoperto da filato d’oro ad eccezione del farsetto, una specie di giubba aderente e corta allacciata sul davanti da una serie di bottoni e una cintura tessute in velluto tagliato di seta cremisi anch’esso ricoperto da trame in oro filato dalla singolare forma di minute anelle. Di questi capi purtroppo sono rimasti solo pochi frammenti sparsi di piccole dimensioni insieme a qualche bottone. Nonostante il precario stato conservativo in cui si trovano tutti i reperti recuperati, anche dopo i restauri avvenuti, si percepisce bene dall’alta qualità tessile esibita quale dovesse essere lo status sociale del riminese che indossava nel giorno della sua dipartita i suoi abiti più rappresentativi e preziosi. M. Flury-Lemberg, Textile Conservation and research, AbeggStiftung Berna 1988, pp. 452/455, cat. nn. 22-24 Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalogo della mostra, Rimini 2001, saggi di E. Tosi Brandi, Un esempio di magnificenza signorile. Il guardaroba di Sigismondo Pandolfo Malatesta e L. Nucci, Il restauro dei frammenti tessili delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel Tempio Malatestiano di Rimini.

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PROVINCIA DI RIMINI

Cerbaiola - Museo dell’Aviazione (p) Il Museo è in realtà un parco-museo all’aperto progettato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso dagli ex-ufficiali d’aviazione dell’A.M.I. su un’estensione di 60.000 mq. È uno dei parchi museali più importanti del settore per quantità e qualità dei velivoli esposti italiani, russi, giapponesi e americani utilizzati nel secondo conflitto mondiale. Insieme agli areomobili da guerra è conservato anche un nucleo interessante di uniformi e onorificenze militari del periodo.

Saludecio - Museo di Saludecio e del Beato Amato (c) Allestito di recente in alcuni ambienti annessi alla chiesa parocchiale di San Biagio tardo settecentesca, il museo conserva suppellettili di pregio (dipinti, intagli lignei, argenterie, paramenti e arredi liturgici, stampe, rami incisi, ecc…), provenienti anche da altri luoghi di culto del territorio circostante. Parte di questi oggetti come molti ex-voto, lampioni e mazze processuali sono legati al culto del Beato Amato Ronconi (1226-1292), patrono e protettore di Saludecio, il cui corpo è venerato nella chiesa di san Biagio nella cella conosciuta come “Cappella dell’olmo” e di cui si conservano le ante lignee pirografate del Quattrocento che chiudevano l’urna del beato benedettino, nonché terziario francescano. Il museo tra i manufatti tessili propone un bel messale in velluto tagliato di seta cremisi rifinito da applicazione in argento sbalzato opera dell’orafo Agostino Corandelli eseguita nel 1781 che ritrae il Beato Amato nella veste di pellegrino (questi intraprese il viaggo da Rimini a Santiago de Compostela in Spagna ). La cripta della Chiesa espone invece entro vetrine, considerevoli paramenti tessili (piviali e pianete) in seta operata a telaio e ricamata con filati e laminati d’oro e d’argento contrassegnati dai tipici decori floreali sette-ottocenteschi particolarmente amati nella tradizione liturgica. P. G. Pasini, Museo di Saludecio e del Beato Amato, guida catalogo a cura della Provincia di Rimini, San Giovanni in Marignano 2003

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Santarcangelo di Romagna - Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna (c) Il Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna di Santarcangelo di Romagna, inaugurato nel 1981, è stato inizialmente frutto di un appassionato lavoro di raccolta condotto a partire dalla fine degli anni Sessanta da un gruppo di volontari, organizzato successivamente in un ‘Comitato Etnografico’ diretto da Giuseppe Sebesta. Compito di questo museo è quello di raccogliere, conservare e valorizzare i materiali riferiti alla storia, all’economia, ai dialetti, al folklore della Romagna, in particolare del territorio compreso tra l’Appennino tosco-romagnolo e marchigiano e la costa adriatica. Le diverse sezioni del museo documentano sia i principali cicli del lavoro contadino – della canapa (evidenziando l’importanza che la lavorazione al telaio del lino e della canapa aveva nell’economia contadina), del grano e del vino – che le tipiche attività artigianali quali metallurgia, liuteria e in particolare la stampa a ruggine su tessuto. Quest’ultima sezione, in ideale collegamento con la Stamperia Artigianale Marchi di Santarcangelo, presenta un modellino in scala dell’antico “mangano a ruota” in legno e pietre (l’unico ancora esistente) che ancora si conserva nella suddetta Stamperia, strumento utilizzato per stirare i tessuti di canapa e cotone decorati a ruggine con gli stampi in legno intagliati a mano secondo una segreta ricetta seicentesca, un catalogo campionario di tele stampate che consente di conoscere la tipica iconografia romagnola, una coperta da letto e una caratteristica coperta da buoi, oltre a stampi in legno di pero, ossido di ferro per il colore e un mazzetto. Assai rilevante è la sezione dedicata al teatro d’animazione, memoria concreta di un’arte popolare antica, costituita da circa ottanta pezzi, quasi tutti fantocci appartenuti alle famiglie Salici e Stignani e provenienti dalle collezioni di Tinin Mantegazza. La raccolta è stata recentemente implementata dalla collezione di abiti e accessori per marionette e fantocci, donata al museo da Renzo Pirini. Proveniente dal burattinaio Tinin Mantegazza, è riconducibile anch’essa alla raccolta di materiali costituita da Renzo Salici. I “fantocci” rappresentano l’anello di congiunzione tra i burattini e le marionette, agiscono come i burattini in baracca ma, come le marionette sono dotati di arti inferiori, i loro movimenti sono guidati da sotto, come i burattini, mediante stecche in ferro anziché dalla mano del burattinaio, inoltre dispongono di un guardaroba e possono mutare d’abito e di ruolo.


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Infine una significativa attenzione è volta ai riti, alle credenze e alle valenze simboliche connessi ai diversi oggetti e al loro uso. L.B.

Verucchio - Museo Civico Archeologico (c) Il Museo ha sede nell’ex monastero di Sant’Agostino e venne inaugurato nel 1985 con i reperti provenienti dagli scavi archeologici effettuati da Gino Vinicio Gentili nella necropoli di podere Moroni. Dal 15 luglio 1995 ospita un nuovo allestimento organizzato secondo un percorso cronologico-tematico che si propone di mettere in evidenza nella scelta dei materiali esposti e negli apparati didattico/illustrativi tre aspetti fondamentali: l’assetto topografico, le dinamiche della struttura socio-economica e culturale della civiltà villanoviana a Verucchio tra il IX e il VII

sec. a.C. Qui si conservano abiti rinvenuti integralmente, unico caso per l’Italia protostorica, di cui è possibile conoscere la forma, la materia prima utilizzata per il filato e per le tinture e le tecniche di tessitura. Un prezioso reperto è costituito dal famoso mantello rinvenuto nella tomba 89 della necropoli Lippi, realizzato in filato di lana a due capi ritorti in senso alterno e lavorato con un andamento diagonale formante un motivo a pied-de-poule. Oltre a questo sono stati rinvenuti altri lembi di tessuti in lana (necropoli Moroni-Semprini, VII a.C.), mentre di alcuni rimangono solo resti calcinati a causa del rogo. La fibra principalmente utilizzata è la lana, ma sono presenti anche contenitori realizzati in fibre vegetali. B.O.

P. von Eles, Verucchio, Museo Civico Archeologico, Verucchio 1996 Guerriero e Sacerdote. Autorità e comunità a Verucchio nell’età del ferro. La tomba del trono, a cura di P. von Eles, Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna 6, Firenze 2002

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Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna nell’anno 2005


€ 45,00


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