ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
NUOVI STUDI STORICI – 105
LE CRONACHE VOLGARI IN ITALIA Atti della VI Settimana di studi medievali (Roma, 13-15 maggio 2015) a cura di GIAMPAOLO FRANCESCONI e MASSIMO MIGLIO
ROMA
nella sede dell’istituto palazzo borromini
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Nuovi Studi Storici collana diretta da Massimo Miglio
Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone Redazione: Silvia Giuliano
ISSN 1593-5779 ISBN 978-88-98079-62-9 ________________________________________________________________________________ Stabilimento Tipografico ÂŤ Pliniana Âť - V.le Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2017
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LE CRONACHE VOLGARI IN ITALIA UNA PREMESSA
Le cronache – le fonti narrative, in un’accezione più larga ma forse anche meno connotante – hanno avuto un ruolo nevralgico, quasi costituzionale, nella storia e nella vita scientifica dell’Istituto storico italiano per il medioevo. Sin dall’edizione delle Gesta di Federico I in Italia del 1887, curate da Ernesto Monaci, l’Istituto ha sempre guardato ai testi storici medievali con un interesse prioritario e caratterizzante. Un legame indissolubile, verrebbe da dire, e continuo nel tempo che ha contribuito a decretarne una ricezione ormai consolidata da parte della comunità scientifica nazionale e internazionale. Le stesse ragioni fondative dell’Istituto, con quel compito ben evidente e ripetuto come un mantra, a datare dal 1883, di «dare maggiore svolgimento, unità e sistema alla pubblicazione de’ fonti di storia nazionale», hanno spesso coinciso con una cura costante e ultrasecolare per lo studio storico e filologico dei testi cronistici. Basterebbe anche solo richiamare qualcuno degli studiosi che nell’Istituto hanno avuto incarichi direttivi o che vi si sono formati per disegnare rapidamente una storia dai tratti certi e dal profilo inconfondibile: da Ernesto Monaci a Raffaello Morghen, da Arsenio Frugoni a Ovidio Capitani, e così fino a Girolamo Arnaldi, siamo di fronte ad alcuni dei nomi che hanno segnato la storia della storiografia medievistica del Novecento. E che lo hanno fatto, in buona parte, proprio a partire dal laboratorio – ci piace definirlo così, e crediamo non a torto – di piazza dell’Orologio e dallo studio della storia intellettuale e culturale dei secoli alti e tardi del Medioevo. Di più, potremmo arrivare a dire, senza il rischio di una qualche arroganza interpretativa, che dalla koinè storiografica dell’Istituto si sono creati i presupposti di metodo e le stesse possibilità di studio e di comprensione del “fare storia” lungo il millennio medievale. Possibilità, piace ricordarlo, che hanno tratto molto alimento da quella straordinaria stagione di studi di cui sono stati motori trainanti le esperienze della scuola storico-filologica che, dallo scorcio dell’Ottocento, aveva
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GIAMPAOLO FRANCESCONI
- MASSIMO MIGLIO
messo le radici nella Società Romana di storia patria e nel nascente Istituto storico italiano e quindi, dal 1923, nella palestra di metodo ecdotico della Scuola storica nazionale e successivamente della Scuola nazionale di studi medievali. Il Repertorium Fontium Historiae Medii Aevi di questa continuità di interessi e dell’enorme lavoro di ricerca sulle fonti cronistiche costituisce l’esito più eclatante e, insieme, la testimonianza più certa di un impegno che per l’Istituto non è mai venuto meno, che è stato collettivo e che ha avuto un ventaglio di collaboratori provenienti da ogni parte d’Europa e del mondo. Dal primo volume del 1964 all’ultimo apparso nel 2007 l’impresa di raccolta e di censimento delle opere storiografiche medievali ha costituito uno degli sforzi più significativi che l’Istituto di piazza dell’Orologio abbia compiuto, mettendo in campo ogni forza disponibile, dai più giovani collaboratori ai corrispondenti internazionali, secondo una tensione e una profusione di risorse umane e scientifiche davvero «senza confini». Entro una stessa saldatura di interessi, di tradizioni e di eredità, pur nel costante rinnovamento dei metodi e delle sensibilità storiografiche, l’Istituto ha pensato e sentito l’esigenza di impostare un’ampia riflessione su una parte cospicua della tradizione cronistica medievale italiana, quella in volgare: e non si dovrà dimenticare che nel 1890, nel quinto volume delle Fonti per la storia d’Italia venne pubblicato, primo testo in volgare, quel Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato (sec. XV) a cura di Oreste Tommasini, che era espressione forte dell’intensa collaborazione tra Istituto e Società Romana e dell’altrettanto forte presenza di Monaci nelle scelte editoriali dell’Istituto. Da quella stessa esigenza hanno avuto origine le tre giornate di studio – dal 13 al 15 maggio 20151 – di cui pubblichiamo gli atti. La scelta di dedicare una particolare attenzione a un settore specifico della produzione storiografica medievale è stato imposto dalla necessità di indagare una tradizione scrittoria e culturale con codici ecdotici propri, con problemi metodologici ben connotati e, tuttavia, con un’alterna e variegata fortuna sia da un punto di vista degli studi filologici e linguistici, sia nella prospettiva degli studi più strettamente storici. Sono state queste le esigenze che hanno
1 La «VI Settimana di studi medievali» prevedeva, in realtà, tre giornate delle quali l'ultima, quella del 15 maggio, era dedicata a Dante nel tempo di Dante, con contributi di Giorgio Inglese, Davide Cappi, Luca Carlo Rossi, Anna Maria Cabrini, Sonia Gentili, Paolo Falzone e Gennaro Sasso.
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PREMESSA
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consigliato e spinto a impostare un incontro di studio che potesse costituire insieme un bilancio delle ricerche su base geografica, che contribuisse a raccogliere le istanze più recenti della filologia dei testi volgari e che, dunque, potesse proporsi come un momento significativo di confronto tematico e di incentivo metodologico per la ricerca su questo ambito ristretto, ma decisivo, della cronistica italiana. La ripartizione delle giornate in quattro contenitori ben distinti – Testo, codice, ecdotica; Geografie; Contatti e ambienti di produzione; Incroci di genere – era sembrata promettente sin dalla preparazione del Convegno e sembra ancora più convincente e apportatrice di risultati adesso che le diciassette relazioni sono state raccolte in questo volume. La convinzione che ci ha animato è stata quella di sciogliere alcuni luoghi comuni legati a questa tipologia di fonti, alcuni anacronismi, non scevri da un uso spesso più strumentale che funzionale di testi che rispondevano invece a importanti condizionamenti ideologici e a finalità compositive fortemente orientate. La stessa costruzione di un testo cronistico, con la fluidità tipica di manufatti dalla tradizione sfuggente e stratificata e dalla debole autorialità, i caratteri dei supporti materiali, la costituzionale e ancora non normata matrice linguistica sono solo alcune delle questioni cruciali che sono state dibattute nella loro, talvolta, ancora pronunciata problematicità. Un tratto quest’ultimo, del non definitivo e del cantiere ‘sempre aperto’, che auspichiamo, attraverso le pagine di questo volume, possa costituire un motivo di stimolo per rinnovate discussioni e per un’ulteriore linfa metodologica. La ricchezza degli ambiti disciplinari coinvolti – filologi, linguisti, medievisti e esperti dell’umanesimo e del Rinascimento – può costituire, del resto, uno dei punti di forza di un atteggiamento scientifico che deve essere plurale e aperto di fronte a testi che sono, allo stesso tempo, il nerbo originario della prosa italiana dei primi secoli e il patrimonio di storie cittadine e universali delle realtà politiche della nostra penisola, fossero le città comunali dell’Italia centrosettentrionale o le città del Regno angioino e aragonese. È con questo spirito di confronto sui temi, sugli incroci di genere e sulle procedure ecdotiche che si è inteso guardare a quell’«urgenza della memoria storica» che si impose, come ha scritto Giuseppe Porta, nei secoli finali del Medioevo italiano, quelli in cui il volgare si andava affermando come lingua letteraria e gli stessi in cui le autorità pubbliche e i privati, il mondo ecclesiastico e quello delle professioni scrivevano con sempre maggiore e sorprendente continuità. Giampaolo Francesconi - Massimo Miglio
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INTRODUZIONE
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GIAN MARIO ANSELMI CRONACA E NARRAZIONE. DANTE E L’INTERPRETAZIONE DELLA STORIA FRA IMPERO ROMANO, EUROPA CRISTIANA E MEDITERRANEO ISLAMICO
La narrazione storiografica medievale in Italia ha certamente nella cronachistica volgare punti di eccellenza rilevanti, a Firenze, in Veneto, a Roma e non solo. Ma il narrare storico non si può cogliere appieno se non collocandolo in una più generale “attitudine narrativa” di tanta cultura medievale: essa attraversa molteplici generi (come del resto Auerbach e Zumthor fra gli altri ben misero in mostra) e il crogiuolo fondativo è senz’altro rappresentato dal “lungo secolo” che dal Duecento si espande fino alle soglie dell’Umanesimo quattrocentesco. Narrare vuol dire infatti volgarizzare o far circolare, ad esempio, i grandi apparati immaginari legati ai cicli cavallereschi arturiani o alle storie di Alessandro Magno. Oppure cimentarsi nelle vite di santi e martiri nei ricchi filoni agiografici. Ma vuol dire anche “riscrivere” il passato romano vuoi con un costante apprendistato stilistico (le scuole dei “dettatori”) vuoi con un gigantesco lavoro ermeneutico sul diritto romano che non era altro poi che raccontare, sotto specie della riscoperta del giure classico, la storia delle istituzioni e delle vicende del mondo antico. E in entrambi i casi un ruolo centrale vi svolsero Bologna con il suo Studio e le sue grandi scuole grammatiche e giuridiche per un verso e per l’altro la figura chiave di Coluccio Salutati, non a caso in decisivo apprendistato a Bologna (come ben Ronald Witt ebbe a mostrare). Il percorso dal latino verso il volgare nella storiografia duecentesca si delinea con rapidità, quasi a voler testimoniare un’urgenza di memoria da diffondere e che troverà il suo culmine nell’esperienza trecentesca a Firenze dei Villani o a Roma in quella dell’Anonimo Romano (su tutto quanto qui argomentiamo sono da ricordare i tanti e fondamentali studi di Massimo Miglio, di Giovanni Aquilecchia e di Giuseppe Porta). Accanto a tale filone cronachistico nasce in tempi relativamente contigui,
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e sulla scorta di una pratica già ampiamente diffusa nel mondo romano specie tardo, il genere del “compendio” così da fornire efficaci sintesi delle cronache e storie molto ampie per lettori i più disparati. Non è un caso se ancora Machiavelli si serva sovente, come fonte delle sue Istorie, di “compendiatori” quattrocenteschi dei cronisti medievali (basti pensare ad esempio a Domenico di Leonardo Buoninsegni o a Giovanni Cavalcanti). Ma tutto ciò sarebbe poco comprensibile se non analizzassimo chi, più di tutti forse, riuscì a rivoluzionare la narrazione storica attraverso la sua grandissima pratica poetica e la sua amplissima latitudine culturale, ovvero Dante. Vi sono ovviamente tanti modi di riaccostarsi oggi a Dante e alla sua Commedia. Certo, tra i meno frequentati (alcune suggestioni ancora validissime risalgono a studi di Ovidio Capitani di vari anni addietro o a più recenti monografie di Emilio Pasquini), vi è il nesso di Dante con il “fare storia”, con le procedure storiografiche. Si impone cosi la necessità di rileggere Dante in modo forte anche in relazione alla nascita della moderna storiografia. Dante è indiscusso maestro, infatti, nella Commedia, di scorci storiografici «verticali» e vertiginosi (basti pensare alle terzine sul regno di Francia, su varie epoche di Firenze come di altre città italiane, sull’Impero Romano e così via) che rompono, più di ogni altro testo, in modo sconvolgente e traumatico, col narrare «ondulato» e orizzontale di molta cronachistica medievale: tanto che, forse, l’antica querelle sulle fonti storiografiche di Dante andrebbe, per una volta, ribaltata per cominciare piuttosto a comprendere quanto egli abbia influito sulla formazione della coscienza storica successiva. Del resto non c’è personaggio illustre della storia italiana toccato da Dante, che sia Farinata o Bonifacio VIII o chiunque altro, che, nella storiografia posteriore, anche in quella umanistica e rinascimentale, non «torni» poi, più o meno, con i caratteri che Dante stesso vi ha impresso. Dante, in altre parole, ha segnato così a fondo certi personaggi che gli storici in seguito non potranno fare a meno di scriverne a partire non tanto dal ritratto che le cronache o le fonti del tempo ne avevano dato ma dal modello fornito dalla Commedia. Lo stesso Leonardo Bruni, ad esempio, quando parla di Farinata, si muove in sostanza a partire dal ritratto psicologico e politico che Dante ne delinea nella Commedia. Oppure, quasi contemporaneo del Bruni, si pensi a Mantova a quella sorta di geniale naïf che fu Bonamente Aliprandi e alla sua singolarissima cronaca in versi di devota impronta dantesca che servirà di base a tutta la successiva storiografia gonzaghesca e settentrionale in genere. Questo per citare due polarità della stagione del primo
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Umanesimo fra loro diversissime per cultura e formazione ma ugualmente in apprendistato esplicito dal Dante “storico”1. Vi sono alcuni canti emblematici per tentare di comprendere come Dante leggesse la storia, la attraversasse con «verticalizzazioni» improvvise, con un senso del presente tale da far rivivere un certo tipo di passato e nello stesso tempo atto a guardare al futuro, attraverso un empito profetico che coniugasse tutto il poema e in particolare il Paradiso con l’assillante ricerca della pace duratura e universale che dovrebbe per Dante essere il vero fine del sapiente, del cittadino, del governante, della Chiesa. L’interpretazione del passato si lega infatti in Dante a una «domanda» del presente e nello stesso tempo alla spinta teleologica che egli vuol porre in campo. Quindi una storia che vive nella sua globalità, nella sua complessità, in una variegata poliedricità di strati e di reticoli ermeneutici. Tale prospettiva consente a Dante di superare ampiamente la metodologia interpretativa dei cronisti del suo tempo e di fornire grandi sintesi storiografiche. Tutto questo è già molto evidente in alcuni canti dell’Inferno e del Purgatorio. Si ricordi solamente il XX del Purgatorio, quando Ugo Capeto ripercorre rapidamente la degradazione della sua stirpe: un singolare affresco di storia della Francia, di una dinastia e al tempo stesso di una «nazione». Un metodo già fortemente in campo, perciò, in alcuni canti centrali del Purgatorio e che ritorna, pregnante, nei canti finali della medesima Cantica. Infatti in cima al monte del Purgatorio la processione, il carro trionfale, la simbologia della storia della Chiesa, che diventa storia dell’umanità e sua proiezione profetica (seppure in veste fortemente allegorizzata e simbolica) rappresentano un ulteriore tentativo di operare una sintesi storica forte, di mettere in campo gli elementi, di cui prima si diceva, tali da differenziare profondamente Dante da tanti altri autori del suo tempo che pure leggono la storia in un’ottica teleologica. 1
Cfr. O. CAPITANI, Chiose minime dantesche, Bologna 1983; E. AUERBACH, Mimesis, Torino 1956; A.E. QUAGLIO, La poesia realistica e la prosa del Duecento, Bari 1971; E. PASQUINI, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano 2001; PASQUINI, Vita di Dante. I giorni e le opere, Milano 2006. Ed inoltre: F. TATEO, I miti della storiografia umanistica, Roma 1990. Ma si consulti su queste tematiche dantesche il numero 3 del «Bollettino di Italianistica» (2006). Sulle problematiche della storia della storiografia umanistica rimando a molti miei studi fra cui cito soltanto: G.M. ANSELMI, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; ANSELMI, Il tempo ritrovato, Modena 1992; ANSELMI, Letteratura e civiltà tra Medioevo e Umanesimo, Roma 2011; ANSELMI, Narrare Storia e storie. Narrare il mondo, Milano 2013. Per un inquadramento generale sulla transizione tra Roma e Medioevo cfr. almeno: S. MAZZARINO, La fine del mondo antico, Torino 2008 (I°ed. 1959); K. MODZELEWSKI, L’Europa dei barbari, Torino 2008.
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Ma direi che il canto forse più interessante da esaminare, in questa prospettiva, appartiene alla Cantica terza: è il VI del Paradiso, dove Dante, attraverso il lungo monologo di Giustiniano, fa parlare la storia stessa dell’Impero e, nel farla parlare, la interpreta. È un presente che «legge» il passato e, nell’interrogarlo, dà una prospettiva, dà un fine, dispone in una teleologia il suo stesso raccontarsi. È infatti mirabile come, in quel canto, Dante colga le tappe fondamentali e reali dello sviluppo di Roma, della Repubblica e dell’Impero, nella crescita delle sue peculiarità e nella missione che Dio avrebbe affidato alla Città per eccellenza. Oppure si pensi al IX del Paradiso, intessuto di brevi lampi e affreschi sulla Marca trevigiana, su Ezzelino da Romano (materia amatissima da cronisti e storici dell’epoca). I cronisti della Marca trevigiana, che hanno scritto pagine mirabili sull’efferatezza di Ezzelino, sulle storie complesse, sugli intrighi delle vicende di quella Marca trovano folgorante approdo in poche terzine dantesche: lì si condensa il senso di una vicenda biografica accanto alla funzione politica di quella dinastia in un dato contesto storico. Ancora un Dante che «interpreta» la storia, la rende «verticale», con una «curvatura» insieme «biblica» e «profana» tra passato e futuro. Né si possono eludere i canti di Cacciaguida: Dante non solo compie una disamina della Firenze contemporanea e del suo destino personale legato a quella Firenze, ma lo fa rivisitando a suo modo la Firenze ormai trascorsa. Dante interpreta il passato fiorentino attraverso le parole di Cacciaguida: un’altra pagina di storia, in questo caso di storia di Firenze, si plasma nelle terzine del poema. Ma bisogna stare attenti; si possono sottoporre questi canti ad analisi un po’ più spregiudicate delle consuete, leggendoli nel loro insieme e facendo giocare anche altre fonti, altri testi, specialmente cronachistici, del tempo caro a Cacciaguida. E si vedrà allora che non c’è tanto una sorta di rimpianto nostalgico, in Dante, quanto, se lo si chiosa bene a fondo, un giudizio sull’inadeguatezza di un ceto politico nuovo, che era venuto emergendo nella città fiorentina, ceto inadeguato appunto rispetto alla crescita tumultuosa e alla nuova articolazione che il Comune di Firenze aveva raggiunto: inadeguatezza di un presente rispetto ad un certo tipo di passato. Dante non è allora solo un nostalgico (non avrebbe senso in tal caso tutta la sua tensione utopistica), ma un esule che vuole semplicemente porre in chiaro le condizioni necessarie perché rinasca una società fiorentina su basi a pregnante statuto civile, giuridico ed etico. Ci balza innanzi in altre parole il recupero di una vigorosa tradizione municipale, senza quell’eccesso di conservatorismo sentimentalistico che alcune letture troppo scontate hanno da sempre suggerito. Piuttosto ci è di
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fronte un Dante legato alla interpretazione politica del suo presente, alla necessità di rivalutarne alcuni paradigmi che possano giovare anche per lo sviluppo futuro della città. Ancora una volta emerge questa sua poderosa capacità di disporre su una linea verticale molto netta un certo passato e un certo presente, con una apertura prospettica che può ammantarsi di profezia, in alcuni passaggi. Nel caso dei canti di Cacciaguida tutto questo è molto evidente. Occorre attendere forse Machiavelli e Guicciardini per trovare chi sia altrettanto capace di «fendere» la storia con tanta perentoria sicurezza (fra l’altro proprio essi furono lettori molto assidui di Dante). Questa storia a giudizi forti, che entra nel campo delle dispute, che rinuncia alla «neutralità» della cronaca, che prende posizione, consente a Dante di contraffare la storia «ufficiale», di darne una sorta di maschera sarcastica, oppure di svelarne la maschera di convenienza per individuare quello che si nasconde dietro le apparenze del teatro del Potere lungo i tempi. Si pensi ad esempio all’excursus storico sulla condizione della Chiesa nell’imprecazione di san Pietro, in XXVII del Paradiso, che è di fatto una spietata disamina del punto a cui la Chiesa è giunta attraverso il processo di degenerazione della sua storia. Si pensi ancora al modo con cui Dante si misura con un altro genere storiografico, quello della biografia. Un genere illustre nella storiografia antica, ma anche in quella medievale (le vite dei santi). Dante si cimenta con biografie esemplari, quella di san Francesco e quella di san Domenico, in XI e XII del Paradiso: è l’incontro di Dante con un genere storiografico per eccellenza, ovvero la biografia illustre, confluita poi, lungo il Cristianesimo, nella stessa letteratura agiografica. Bene, non c’è niente di più lontano da certi canoni retorici tradizionali del racconto di Dante, quasi delineato di proposito per evitare i luoghi comuni, che quel genere poneva in campo fin dall’epoca classica. La grandezza dei personaggi emerge semmai da un altro tipo di rivisitazione, tutta incentrata ancora una volta su un presente che «legge» un certo tipo di passato, lo «interroga»: è forse la prima volta che nella cultura occidentale classica e medievale, con così tanta urgenza, un presente aiuti a «fondare» il passato con i suoi protagonisti. Dante è allora davvero anche «storico»: ovvero una Storia – la sua – edificata per blocchi, con l’urgenza della sintesi, con l’esigenza di portare ad una visione unitaria e alla sua ermeneutica il lettore, fino a condensare ad alta concentrazione avvenimenti e fatti, a individuare il presente come una linea convessa, appunto, tra passato e futuro, tra divisioni laceranti dell’oggi e ansiosa attesa della pace del domani cui deve attendere il saggio-filosofo cosi come Severino Boezio già l’aveva delineato.
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Non c’è dubbio per altro che Dante si mostri, nella Commedia, un grande maestro della tecnica retorica della dispositio: tecnica decisiva nella costruzione della grandi narrazioni storiografiche di ogni tempo e che Dante usa con perfetta padronanza nell’orditura del suo poema. È così che le verticalizzazioni, l’imprevisto spazio dato ad alcuni personaggi, il silenzio che fa calare su altri, le dense sintesi su vari periodi collocati in posizione centrale per l’interpretazione storica mostrano un Dante consumato maestro della tecnica per eccellenza propria della storiografia, decisiva poi tra Umanesimo ed epoca moderna, appunto, come si diceva, la dispositio. Ed è tutto ciò che consente a Dante di variare continuamente lo sguardo tra la grande storia e la storia plurale e creaturale dei “minimi” (Rifeo), dei grandi, degli umili, o dei destini individuali dei potenti secondo una sorta di grandiosa e “tolstoiana” partitura narrativa. Basti pensare alla perizia con cui, con pochi accenni, sa interpretare e collocare in punti chiave della narrazione la figura emblematica di Costantino sospeso tra positivo destino individuale e pesante eredità storica che corrompe la Chiesa con la fatale “donazione” ( il tema del destino individuale nell’alveo della grande storia tornerà centrale ancora in Manzoni, debitore certo rispetto a “questo” Dante, e appunto fino a Tolstoj e a tutto il romanzo storico moderno). O viceversa si pensi alla lunga digressione sull’Impero affidata, come già si disse, a Giustiniano, esempio unico forse di ripresa poetica cosi intensa e storicamente pregnante della sua figura di cui si vuole rammentare, più di tutti gli altri imperatori romani, e la funzione imperiale e la funzione, capitale per Dante come per tutta la tradizione “glossatoria” medievale, legislativa e legiferante: una figura del passato consente così a Dante di riproporre la centralità della “legge” e del ripristino del diritto nel mondo contemporaneo. La frequentazione delle aule bolognesi di diritto sarà infatti tutt’altro per Dante (come poi anche per Petrarca o per Salutati o per l’Alberti o per tanti altri umanisti) che un “incidente di percorso”, ma un abito consustanziale alla stessa ermeneutica del poeta e del politico2.
2 Cfr. D. MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1964. Anche quel filone umanistico che, da Valla e Vegio fino ai grandi maestri francesi del diritto nel Cinquecento, guarda polemico all’operazione di “compendio” effettuata da Giustiniano e alla successiva e connessa tradizione glossatoria, non può di fatto che partire dalla centralità, che si fosse o no d’accordo sull’operazione in sé, di Giustiniano stesso per la storia della romanitas e dell’Europa: e non credo che a tale universale acquisizione sia affatto estraneo il memorabile VI del Paradiso. Cfr. anche W. ULLMANN, Radici del Rinascimento, Bari 1980; G. TABACCO, Le ideologie politiche del Medioevo, Torino 2000; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005; R. WITT, Sulle tracce degli antichi, Roma 2005.
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Ed è forse anche in questa ottica che si possono spiegare i suoi “silenzi”: ad esempio sulle invasioni barbariche o su Matilde di Canossa. L’occhio è puntato sulla funzione provvidenziale e magnanima da assegnarsi all’Impero Romano e sulla potente vocazione unificatrice di pace universale, che Dante vuole fortemente attribuirgli. La storia umana allora è per Dante spesso una storia di “contraffazioni” di questa “missione”, che dovrà avere comunque il suo compimento e che il Paradiso svelerà fino in fondo. Non può esserci perciò spazio per chi non è collocabile in questa strategia temporale che è al tempo stessa narrativa ed esegetica-ideologica. Ed è proprio partendo da queste ultime considerazioni che si può forse spiegare l’eclatante “silenzio” che Dante cala su una figura invece straripante nella produzione storiografica, letteraria, morale tanto dell’antichità come e ancor più forse del Medioevo, ovvero Alessandro Magno. Dante sembra quasi ignorare la vastissima serie delle storie di Alessandro e ne relega il ricordo in una fuggevole e marginale citazione in Inferno, XIV, 31: innanzitutto Dante mostra ancora una volta un sostanziale fastidio per certo “meraviglioso” di matrice medievale e per la tradizione letteraria di marca avventurosa ed “esotica”, che lo aveva imposto a molteplici pubblici. Tutto ciò ha pochissimo spazio nella Commedia: distorcerebbe infatti la ricerca austera della veritas autentica nella lettura della Storia universale come delle singole storie. Ma è probabile che vi sia dell’altro e molto più significativo: Dante, come prima si accennava, sposta decisamente su Roma e Occidente il baricentro ideologico, storiografico e teleologico fondato sull’Impero. Tutto si riconduce a Roma sia nella sua storia repubblicana che in quella imperiale e alla “missione” che di fatto Dio stesso (come proclama Giustiniano dal Paradiso) le ha attribuito. Un riscontro ulteriore di tutto ciò è nella straordinaria importanza che Dante assegna all’Imperatore per eccellenza magnanimo e artefice dell’estensione massima del dominio imperiale romano sul mondo ovvero Traiano: dapprima ricordato a lungo in Purgatorio, X appunto per un suo celebre comportamento magnanimo verso l’umile “vedovella”, poi collocato tra i giusti che compongono l’Aquila in Paradiso, XX, ancora una volta accanto ad un “ultimo”, il guerriero troiano Rifeo, entrambi salvati per gli imperscrutabili disegni della Provvidenza divina. Dante in effetti non solo vuol far rimarcare con forza la missione divina dell’Impero romano con la salvezza in Paradiso di alcuni dei più grandi imperatori come Giustiniano e Traiano, ma al tempo stesso ne celebra l’universale funzione civilizzatrice nel segno della magnanimità che è dote precipua di Roma e che tiene insieme, nelle leggi come nel governo, illustri governanti e umili sudditi. Scipione, Cesare (salvato nel Limbo e i cui assassini invece, sempre in quest’ottica imperiale,
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subiscono la pena più grave e degradante dell’intero Inferno), Traiano, Costantino, Giustiniano: una galleria fondativa dell’Occidente e della sua missione romana che non ammette deroghe né ambigue letture storiche. Di qui il silenzio su chi può offuscare la corretta interpretazione di questo disegno, in primis Alessandro e Annibale, anche quest’ultimo citato da Dante marginalmente, e come lo “sconfitto” per antonomasia di Scipione, in Inferno, XXXI, 117 quasi in contrappunto definitivo e in risarcimento di quella sanguinosa Canne ricordata in apertura di Inferno, XXVIII. E così l’“orientale-greco” Alessandro e l’“africano” Annibale escono per Dante dalla scena centrale della Storia e del Mediterraneo, domini incontrastati della civiltà romana. Tale poderosa operazione storico-ideologica della Commedia, che di fatto porta il baricentro del mondo definitivamente sul piano di Roma, della romanitas e dell’Occidente, verrà ancor più sistematicamente e nettamente perseguita da Petrarca: siamo in altre parole alle radici in Italia, tra Medioevo e Umanesimo, di quella stagione decisiva per l’Occidente che si è soliti oggi definire come “eurocentrismo”. Non sarebbe male che gli storici, gli storici del pensiero politico, gli studiosi della critica cosiddetta “postcoloniale”, tenessero al centro delle loro riflessioni queste radici e la gigantesca portata che le opere di Dante e Petrarca, con la loro vastissima diffusione nei secoli, ebbero nel definirsi ideologico e storiografico del pensiero occidentale come tale. È solo partendo da questi punti di vista che si può lavorare anche intorno alla controversa interpretazione dei rapporti fra Dante e l’Islam, sui quali occorre riflettere mettendo in campo più percorsi. Il problema, infatti, non è tanto, credo, riuscire a capire se e quanto Dante fosse stato influenzato da certa letteratura araba di ispirazione coranica sul viaggio ultraterreno (questione che difficilmente potrà ricevere una risposta definitiva, nonostante i molti, illustri e contrapposti interventi in merito nel tempo) quanto piuttosto di ragionare sulle effettive valutazioni dantesche intorno all’Islam, alla sua storia, alla sua grande tradizione filosofica-culturale decisiva per quel pensiero medievale in cui Dante stesso si formò. Del resto nell’opera dantesca muovono due tracciati ben evidenti, l’uno di marcata ascendenza aristotelica e arabo-averroistica (mediato anche da un Boezio di Dacia) e fortemente incentrato sulla ragione come bene universale cui l’uomo attinge (l’intelletto possibile) e che l’uomo deve tendere sempre a perseguire; l’altro, sottoposto alla decisiva lezione di Alberto Magno e poi tomistica, che rimarca il destino individuale dell’uomo, al cui libero arbitrio si accompagna il destino stesso della vita futura della sua anima immortale. Non è casuale che al percorso formativo e filosofico sostanzialmente laico e razionalistico (non certo rinnegato ma recuperato in altra chiave dalla geniale
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sintesi di san Tommaso) in cui si formò, Dante renda omaggio da subito nella Commedia, fin da Inferno, IV, nel Limbo, dove i grandi pensatori arabi, Avicenna e Averroè, accanto, per altro, alla figura di quel giusto governante musulmano che fu il Saladino, sono collocati in compagnia dei grandi spiriti magnanimi di tutti i tempi e in posizione di rilievo quali interpreti ineludibili del maggiore pensiero classico occidentale, platonico e aristotelico (la prospettiva storica di simile collocazione e l’omaggio all’autentica sapienza araba che vi era connessa sono clamorosi in questo canto). L’uno, persiano, e l’altro, spagnolo di Cordova, sembrano infatti come stringere dai capi estremi del mondo islamico, nella loro stessa radice biografica ben nota a Dante, anche le vastissime coordinate mediorientali e mediterranee in cui la cultura medievale si allogò e che restano imprescindibili per conoscere la nostra più importante tradizione europea. L’approdo a Inferno, X costituisce appunto una sorta di saldatura del cerchio: chiudendo i conti con i Cavalcanti padre e figlio (per altro con modalità struggenti di forte sapore evocativo delle consuetudini giovanili) Dante definisce i limiti della formazione averroistica e radicale, ponendo con forza la sua fede nell’immortalità dell’anima individuale, cui si legano per altro non un abbandono mistico quanto, tomisticamente appunto, una fiera consapevolezza del decisivo apprendistato laico, civile e politico come coessenziale tappa nella formazione del saggio per la sua stessa salvezza eterna (di qui il forte impatto dello scambio, vivace e straordinario, di battute con il magnanimo e aristocratico Farinata). Ma Inferno, X, attraverso l’incontro col ghibellino Farinata, introduce a sua volta un altro percorso inscindibile, per molti aspetti, dalla cultura filosofica e scientifica arabomusulmana: ovvero il tema laico della conoscenza e del suo apprendistato soprattutto a partire da quel contesto sapienziale e imperiale che fu la corte federiciana, di decisiva importanza in realtà anche per molto pensiero guelfo e per Dante stesso. In Inferno, X non casualmente sono collocati anche Federico II insieme al cardinale di Bologna (città essenziale per la formazione di Dante) Ottaviano degli Ubaldini, il laicismo razionalistico e il radicalismo dei quali, come quello di Farinata, non sono in discussione in sé per Dante ma nell’orgogliosa e arrogante loro pretesa di una totale autosufficienza inesorabilmente destinata a dare scacco finale all’uomo che non sappia porre adeguati picchetti etici alla sua legittima sete di conoscenza (che è poi il senso profondo del “folle volo” di Ulisse come comparirà in stretta connessione con questi tracciati in Inferno, XXVI). L’incontestabile adesione di Dante all’istituto imperiale laico e romano unita alla sua ansia razionale e filosofica di ascendenza averroistica lo portano così a declinare, lungo tutte le cantiche della Commedia, un vero e
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proprio “ciclo federiciano” sulle piste del quale è facile scorgere le conoscenze “arabe” e gli intrecci “islamici” che, attraverso il mondo federiciano soprattutto (e perciò non solo nelle suggestioni universitarie di Bologna o Parigi), nutrirono la formazione dantesca come di tanti giovani fiorentini della sua generazione a cominciare ovviamente da Cavalcanti. La partitura è solenne e forse mai messa in luce in tutta la sua forza di vero e proprio dramma intellettuale che solo in Paradiso troverà chiavi legittime di autentica “felicità mentale” (per usare il celebre richiamo di Maria Corti): in Inferno, XIII ecco ricomparire infatti il mondo federiciano con la sua Magna Curia attraverso lo straordinario incontro col “notaro” poeta Pier della Vigna e con il suo nostalgico ricordo di quella Corte come stagione irripetibile e grande della storia culturale non meno che politica d’Italia e d’Europa. Nel dramma di Pier della Vigna, maestro di poesia, come lo furono tutti gli autori siciliani, per la generazione di Dante, si mette in scena appunto la sapienza umana che, pur con tutte le sue conquiste care per altro proprio alla speculazione araba, non sa poi sconfiggere la corruzione della politica e del potere (l’invidia cortigiana che tanto tornerà nella riflessione umanistica e rinascimentale) esibendo fino in fondo i suoi limiti quando troppo appagata di autosufficienza. La partitura di dramma intellettuale prosegue, in sintonia con tutto il percorso che stiamo delineando e così connesso all’apprendistato giovanile di Dante, in Inferno, XV, nello straordinario incontro con Brunetto Latini, la cui formidabile e laicissima avventura intellettuale non è per Dante la causa della sua condanna all’Inferno (l’incontro col maestro fra l’altro è venato di commozione e ammirazione intensissime): la condanna è stata infatti causata dalla sua sodomia. Così l’incontro con Brunetto non può che evocare implicitamente le sue vicende biografiche e la vicenda biografica di Brunetto ci porta allora a rammentare i luoghi del suo peregrinare e soprattutto la Toledo di Alfonso X col suo crogiuolo di traduzioni, lingue, culture che vi si era insediato come del resto era avvenuto nella Cordova di Averroè e che Dante ovviamente doveva ben conoscere: dal musulmano Avicebron all’ebreo Maimonide, al cristiano Gerardo di Cremona quella Spagna araba, ebrea e cristiana fa ricadere sul Mediterraneo e sulle sue culture una potentissima vena di ricerca laica, spregiudicata e sapienziale, in aperto confronto con i rispettivi testi sacri fondativi ora per differenziarsene ora per conciliarvisi. Ed è un mondo che in qualche modo torna per accenni in Inferno, XX, dove la fanno da protagonisti, collocati tra maghi e indovini, altri personaggi legati al mondo federiciano come Michele Scotto o Guido Bonatti: ancora una volta sono in discussione, di quella cultura, una curiositas e una specifica investigazione nei “misteri” della
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Natura, che pretendono di accreditarsi faustianamente oltre i confini della limitata condizione umana. Tutto ciò sarà ancora più in evidenza ovviamente in Inferno, XXVI, dove la insaziabile curiositas di Ulisse declinata da Dante attraverso un lessico squisitamente averroista si configura, come ben notò Maria Corti, come una vera avventura della conoscenza di grande dignità ma destinata a infrangersi (e qui ancora occorre ricordare la ricezione di questo Dante nel Faust goethiano) letteralmente e allegoricamente sui marosi del proprio autoreferenziale razionalismo cui né grazia divina né etica sacra della quete potevano dare l’indispensabile soccorso (quello appunto che invece affianca il Dante viator della Commedia). Né sarà casuale che proprio nel canto dove più alta è la sfida di Dante alla mitopoiesi classica, tanto che in gara con Omero, Ovidio, Lucano e Virgilio egli crea come dal nulla una straordinaria nuova figura di Ulisse, la vera saggezza sembri appunto essere ormai di pertinenza della poesia e della letteratura e non solo di quella filosofia che tendeva da Parigi ad accreditarsi come egemonica ai vertici della gerarchia dei saperi: Dante in effetti sembra declinare piuttosto in chiave letteraria e poetica quell’atto dell’intendere che l’averroismo aveva destinato alla fantasia o immaginazione sensibile quale imprescindibile snodo; per Averroè e i suoi seguaci era infatti snodo di natura esclusivamente filosofica, per l’accesso al sapere universale (l’intelletto possibile). La saggezza della poesia è invece per Dante la vera chiave di accesso immaginativo alla conoscenza fino alle più alte verità come ribadirà nei punti cruciali della visione beatifica in Paradiso (il trasumanar di ovidiana e poetica pregnanza), chiave che pone inequivoco l’accento sul singolo uomo come inalienabile dal suo destino di eternità individuale che proprio l’arte esalta e dichiara (in questo attinge una tensione grandissima l’ideazione stessa della Commedia che non a caso ed anche per questo i romantici sentirono così drammaticamente vicina). Quando perciò Dante in Inferno, XXVIII incontra finalmente Maometto e suo cugino Alì (distinguendoli mostra bene di conoscere le diverse articolazioni scismatiche degli atti fondativi dell’Islam) i conti autentici e perciò intellettuali con la grande cultura arabo-musulmana, che davvero pesava per lui, li aveva già tratti: e sull’onda di una lettura che a suo tempo aveva avviato Giovanni Damasceno, Maometto è ricondotto tutto entro il mondo degli “scismatici” (e primo scismatico all’interno dello stesso Islam fu appunto Alì), di coloro cioè che hanno diviso il Mediterraneo e le sue radici religiose. Nessuna enfasi di “scontro di civiltà” verso chi non è altro che una delle costole della grande tradizione monoteista di derivazione veterotestamentaria: la degradante pena inflitta a Maometto vuole segnare con marchio indelebile proprio la deflagrante
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opera di divisione da lui avviata in un campo che avrebbe potuto restare unito e lo accomuna a tutti i responsabili di sanguinose e irreparabili divisioni che hanno attraversato la storia delle comunità tra Europa e Mediterraneo e verso cui, senza distinzioni, Dante, in questo come in tanti altri canti, è sempre durissimo, forte com’è in lui, e religiosamente e politicamente, l’ansia unitaria della pacificazione dei singoli e delle genti. E non a caso Maometto non è collocato al punto più profondo dell’Inferno come noi ci aspetteremmo, se Dante lo considerasse l’antagonista per eccellenza dell’Occidente cristiano, ma quel posto è riservato ai cesaricidi, i veri responsabili, proprio perché tutti interni alla storia romana e imperiale che contava, della divisione per eccellenza e della lacerazione insanabile che avevano segnato e segnavano ancora per Dante le membra sparse di un’umanità scissa, piagata e senza guida. La collocazione e la pena di Maometto non hanno perciò alcun rilievo sul Dante attento lettore (e attento interprete storico) della tradizione culturale e filosofica araba da lui ben distinta dalle colpe “scismatiche” di Maometto e della predicazione coranica: tant’è che il confronto con quella cultura e con il mondo federiciano che tanto l’aveva veicolata non si esaurisce affatto nell’Inferno. Il “ciclo federiciano” riprende infatti in modo possente con la “ragione redenta” fin da Purgatorio, III nell’incontro con Manfredi, il figlio naturale di Federico II. Manfredi ebbe al suo fianco truppe tedesche ed arabe, coltivò studi aristotelici-averroisti e naturalistici. Benché a suo tempo scomunicato viene da Dante redento e con lui è un’intera tradizione culturale, filosofica e politica ad essere redenta e ricollocata nell’alveo che le poteva essere consono se consapevole dei suoi limiti, forse anche in virtù di quella premessa a tenore palinodico che Manfredi appunto ebbe a scrivere alla traduzione, da lui stesso condotta, dall’ebraico del singolare e significativo Liber de pomo sive de morte Aristotelis. Ma il ciclo federiciano prosegue fino in Paradiso, III, il canto clariano per eccellenza, dove questa volta è Costanza, la madre di Federico ad avere campo. Se questo percorso che abbiamo seguito ha un senso allora appare anche chiaro lo straordinario approdo a Paradiso, X, il canto degli spiriti sapienti sempre in ansiosa e sincera ricerca della verità. Qui Dante, accanto a Severino Boezio e ai maestri della sua maturità, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, incontra, fra gli altri, nientemeno che il maestro parigino per eccellenza dell’averroismo, e come tale avversato dalle gerarchie ecclesiastiche, Sigieri di Brabante, dal cui insegnamento lui nella giovinezza e tutta la sua generazione furono segnati: la cosa può destare grande scalpore, com’è giusto e come continua a destare, ma è in perfetta coerenza con quanto si diceva. La grande cultura araba-averroista ha infatti rilievo
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decisivo per Dante e tra i suoi protagonisti egli distingue i sinceri ricercatori del vero dagli orgogliosi celebratori del primato filosofico-razionale di per sé e quindi incapaci di dialogare con tutte le dinamiche spirituali consegnate alla cultura occidentale, come del resto ben abbiamo visto in precedenza: Sigieri è collocabile perciò tra i primi e la sua celebrazione tra i giusti nel Paradiso (come di Avicenna e Averroè tra i magnanimi nel Limbo) sancisce definitivamente la piena legittimità (non dimentichiamo che Dante fa introdurre Sigieri e gli altri undici sapienti filosofi-teologi proprio da san Tommaso e non a caso!) di tutta una tradizione culturale di inequivoche radici arabe. Ma tutto ciò al tempo stesso tradisce l’ansia continua di Dante per la conciliazione dei saperi, di tutti i saperi, così come ben espressa in Paradiso, X, purché volti all’umile, costante, incessante ricerca, con la ragione e la sua forza, della verità e del destino di pace universale che vi è connesso per gli uomini come stirpe e come singoli, essenze dall’anima immortale che egli coglie innanzitutto “da poeta” appunto, con potente effetto di straniamento, dal punto di vista irreversibile e definitivo dell’aldilà3. Il Dante romano e imperiale, che prima abbiamo delineato, non omette allora di cimentarsi con l’insieme complesso e vasto che la potente novità dell’islamismo aveva introdotto nel Mediterraneo medievale, ma ne modula l’interpretazione su più livelli assegnando, sul modello federiciano, alla civiltà italica-romana il compito di condurre a sintesi nel disegno provvidenziale e cristiano-imperiale della Storia i fermenti migliori della cultura araba.
3 La bibliografia per quanto qui si argomenta complessivamente è molto vasta. Mi limi-
to a richiamare alcuni studi imprescindibili di riferimento: M. ASIN PALACIOS, Dante e l’Islam, 2 voll., Parma 1994; L. MASSIGNON, Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale, Milano 2008; Il libro della Scala di Maometto, cur. C. SACCONE, Milano 1997; H. PIRENNE, Maometto e Carlomagno, Bari 1971; P. CITATI, La primavera di Cosroe, Milano 2006; C. TYERMAN, L’invenzione delle crociate, Torino 1998; J. FLORI, Riccardo Cuor di Leone. Il re cavaliere, Torino 2002; D. ABULAFIA, Federico II. Un imperatore medievale, Torino1993; Storia della filosofia nell’Islam medievale, cur. C. D’ANCONA, 2 voll., Torino 2005; J. VAN ESS, L’alba della teologia musulmana, Torino 2008; Mappe della letteratura europea e mediterranea, cur. ANSELMI, I vol., Milano 2000; I. ZILIO GRANDI, Il Corano e il male, Torino 2002; E. COCCIA, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, Milano 2005; Poetica medievale tra Oriente e Occidente, cur. P. BAGNI - M. PISTOSO, Roma 2003; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, I vol., Torino 1966; J. RISSET, Dante scrittore, Milano 1984; M. CORTI, La felicità mentale, Torino 1983; CORTI, Percorsi dell’invenzione, Torino 1993; H.R. JAUSS, Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino 1989; G. INGLESE, L’intelletto e l’amore, Milano 2000; N. MINEO, Dante, Bari 1970; MINEO, Saggi e letture per Dante, Caltanissetta-Roma 2008, specie all’ultimo capitolo; I poeti della scuola siciliana, cur. R. ANTONELLI - R. COLUCCIO - C. DI GIROLAMO, 3 voll., Milano 2008.
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Dante quindi “interpreta” la storia mentre la narra da poeta e scrittore, la spezza, la riposiziona per blocchi, la censura, la rimuove o ne esalta alcuni spartiti. E cosi operando si fa vero storico, introduce una forte drammatizzazione nel respiro della storia, suggerendo di fatto una rete di periodizzazioni che segnerà in particolare la storiografia fiorentina. Nello stesso tempo prenderà spunto da più spartiti storiografici e da più generi, dalla biografia all’agiografia, all’annalistica, alla cronachistica, e sempre facendo giocare il suo particolare punto di vista di eccezionale viator, di personaggio-autore, in grado di esibire pertanto un’altra ineludibile identità dello storico moderno: ovvero la coscienza consapevole della parzialità fruttuosa dell’interprete, dell’osservatore, di chi narrando giudica e fa storia giudicando, capace di affrontare di petto il senso che conduce al lacerante vissuto del proprio presente e all’ansioso scrutare verso un futuro di pace4. Non si tratta, allora, nel Dante “storico”, solo di tecnica narrativa (che pure di per sé sarebbe già rilevantissima): si tratta della ricostruzione poetica dell’identità della nostra storia, che Dante sigilla in modo indelebile di marche che ritroveremo sempre in tanti testi posteriori. Si pensi al ruolo etico da assegnarsi ai reggitori degli stati, alla riflessione sulla translatio Imperii, all’avvio poderoso di una riflessione specifica sull’Italia in quanto tale e come sede di Roma (che poi avrà seguito rilevante in Petrarca e nel Rinascimento), all’introspezione spietata nelle guerre e nelle «divisioni», alla fisionomia di genti e popoli (anche l’Islam come si è visto) sbozzata attraverso il loro abito culturale, etico e politico, al primato, come criterio di giudizio, da assegnarsi alla sapienza e alla magnanimità cosi come alla fine del mondo antico già l’aveva posto in campo un pensatore anch’esso decisivo per Dante e per il Medioevo tutto come Severino Boezio5. Non è casuale, del resto, che proprio intorno a questi ultimi temi si giocheranno partite rilevantissime nell’episteme rinascimentale: come non
4 Rimando ad alcuni miei studi di riferimento per quanto qui argomento: Le frontiere degli umanisti, Bologna 1988; La saggezza della letteratura, Milano 1998; Letteratura italiana: secoli ed epoche, con P. FERRATINI, Roma 2001. 5 Cfr. F. FORTI, Magnanimitade. Storia di un tema dantesco, Premessa di E. PASQUINI, Roma, 2006 (prima ed. Bologna 1977); nonché gli studi già citati di M. CORTI. Ora importante il numero speciale di «Studi e Problemi di critica testuale» dedicato a Dante. Per Emilio Pasquini, 90 (aprile 2015). Di G. INGLESE, Vita di Dante. Una biografia possibile, Roma 2015. Di L. PASQUINI, Diavoli e Inferni nel Medioevo. Origine e sviluppo delle immagini dal VI al XV secolo, Padova 2015.
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rilevare infatti che proprio il concetto di magnanimità nella sua più ampia accezione politica (di vera e propria dignità imperiale, di autentica legittimazione a governare, cioè) sia il perno intorno a cui ruoterà per secoli il dibattito della storiografia. Vuoi per giudicare la positività o meno dell’esemplarità dei governanti vuoi per collocare la propria identità nell’alveo del Magnanimo per eccellenza (e per oculatissima propaganda storiografica appunto), come accadrà con Alfonso I d’Aragona ad esempio. Magnanimità che, in Pontano particolarmente e non a caso, si legherà all’ideale della sapienza, intesa come virtù dell’apprendere, del conversare, del conoscere e perciò del saper governare con prudenza: altra grande idea-guida, a forte caratterizzazione mitica e utopica, che attraversa l’intera nostra tradizione letteraria da Dante e via via lungo l’Umanesimo, fino a Machiavelli e finanche allo scettico per eccellenza, a Guicciardini, se appena si sappia guardare con attenzione a quell’opera formidabile per partitura multipla che è il Dialogo del reggimento di Firenze. Ma non è neppure casuale che, in una tradizione a così forte radicamento letterario e mitografico come quella italiana, incrociando i grandi aggregati ideali che si addensano intorno a «magnanimitade» e «sapienza» e pace universale, finiamo con l’imbatterci in quell’ultima giornata del Decamerone, che è forse uno dei punti più alti della letteratura d’utopia di tutti i tempi. Boccaccio, il grande lettore e commentatore di Dante, attraverso il grimaldello della magnanimità e della sapienza e della stessa esemplarità storiografica, svela lo scenario di un mondo possibile e «dialogico», oltre il deprimente quotidiano: sovrani e reggitori di stati, in aperta competizione di liberalità con i più umili, con le donne, con i sudditi, appunto come in Dante, mostrano l’altro possibile della storia, il suo rovescio positivo (come in apertura del Decamerone le prime novelle declinano il possibile “dialogo” tollerante tra fedi e religioni mediterranee, la cristiana, l’islamica e l’ebrea). E Boccaccio è lo stesso del resto che, nelle pagine finali della sua più tarda Genealogia deorum gentilium, proclama non solo l’eccellenza dell’esercizio artistico, letterario e mitografico, ma ne legittima, come Dante aveva già fatto, tutte le aspirazioni conoscitive ed etiche, tutta la piena congruenza di percorso di verità, capace di discorrere di ciò in cui per altri statuti disciplinari (filosofia, teologia) sarebbe impervio orientarsi con tollerante flessibilità, ovvero la contraddittoria e molteplice varietas del mondo, degli uomini, della loro stessa storia. Una storia che in Dante si pone come campo di intersezione fra due temporalità e che corrisponde
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allo stato di tensione dell’uomo medievale fra i molteplici livelli della realtà visibile e invisibile in cui si sente collocato e secondo un senso dello spazio/tempo che avrà ardite risposte nel Paradiso e nell’“ognidove” dell’Empireo6. È difficile perciò, parlando di storiografia, di una storiografia così inserita nel solco della nostra tradizione letteraria, non porsi davvero senza remore il problema della funzione fondante rispetto ad essa che assunsero, nei loro testi peculiari, autori come Dante, Petrarca e Boccaccio, certo in fertile contaminazione con i modelli classici riscoperti con entusiasmo, con plurime suggestioni patristiche (Agostino in primis), con tanta cronistica medievale. E così, nella migliore storiografia umanistica, in definitiva, la brillante riscrittura di alcuni grandi maestri antichi, ora Livio ora Sallustio ora Svetonio ora Tacito ora Plutarco o Tucidide, si esercita in contiguità con quanto la illustre e più recente tradizione volgare aveva potentemente messo in circolo: ed è a causa di ciò infatti che, per uno dei punti nevralgici della riflessione storiografica, la ricostruzione delle «origini» della propria città, anche l’adesione a rigorosi principi antiquari e documentari non impedisce agli umanisti di mettere in campo il più delle volte lo scenario di una ideologica identità di fondo che si legherebbe a quelle origini (romane appunto) e segnerebbe poi l’intera storia successiva di quella realtà secondo una partitura che già Dante aveva, come si è visto, insegnato a sillabare, sulla scorta della scuola giuridica bolognese, tra modello romano e istanze del presente. La florentina libertas del Bruni e del Salutati, congiunta anche in essi all’eccellenza della romanitas, è un esempio emblematico di tale metodo ampiamente diffuso in tutto il panorama quattro-cinquecentesco, con esiti spesso significativi e peculiari e con radici proprio nella stagione che Dante aveva vigorosamente aperto. In tale temperie del resto si maturava anche la decisiva riflessione sui rapporti tra storia e immaginazione, tra verità e falsificazioni, tra respiro narrativo ed esigenze ideologiche e storiografiche (si pensi agli esiti nel Valla), tra autore, genere (in questo caso il narrativo/storiografico) e opera come prodotto finale, una riflessione di ben lunga durata nel dibattito occidentale e che giunge a lambire i nostri stessi tempi. Partendo da alcune suggestioni forniteci da Dante ci siamo azzardati insomma a proporre qualche altro sentiero da percorrere, che non è poi così lontano dallo specifico storiografico moderno così come spesso siamo
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Cfr. H.G. PATAPIEVICI, Lo sguardo di Beatrice, Milano 2006.
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abituati a intenderlo. E non solo per le acquisizioni del più recente dibattito sul «fare storia» che, specie a partire dalla Francia, si è fatto largo negli ultimi anni un po’ dovunque, ma anche solo stando attenti a scrutare il lavoro della nostra migliore tradizione erudita settecentesca: non dimentichiamo che a Muratori dobbiamo la riscoperta e la ristampa di molti, importanti testi della storiografia medievale e umanistica e che a lui (come per altri aspetti a Vico) dobbiamo la ricostruzione di un’identità nazionale che, anche quando rigorosamente fondata sul sistematico lavoro documentario e d’archivio, sa rammentare le radici profonde, mettendole ancora in gioco rinnovate, della nostra tradizione storiografica, dei suoi statuti europei e mediterranei e dei suoi protagonisti appunto, cui Dante seppe imprimere un sigillo indelebile.
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TESTO, CODICE, ECDOTICA
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FRAnCESCO MOnTuORI COME “SI COSTRuISCE” unA CROnACA*
nel titolo di questo contributo si è scelto un costrutto verbale polisemico: si costruisce può essere inteso come una forma passiva e presupporre quindi l’esistenza di una persona che, da sola o con la cooperazione di molti, abbia progettato e realizzato un testo di narrazione storica. nel Medioevo, com’è noto, la cosa non è sempre vera, anche se la ricerca dei “sintomi” dell’autore nel testo è un’azione sempre pertinente. Si costruisce, però, può avere anche un valore impersonale: nella costruzione di una cronaca può non esistere un attore e un progetto, ma l’unico elemento rilevante e osservabile sono i risultati delle addizioni e delle sottrazioni, cioè, in ultima analisi, i libri che tramandano il testo in tutte le sue forme. Infine, si costruisce può anche valere come un verbo intransitivo pronominale, quasi a portare l’immagine di una cronaca che ‘si congegna da sé’ nel tempo, grazie alle sollecitazioni cui è soggetta la sua struttura durante la trasmissione del testo, sollecitazioni che, a loro volta, attivano diverse procedure di costruzione della cronaca, per le ragioni connaturate allo sfuggente statuto che la scrittura della storia ha tra le forme narrative del Medioevo1.
* Ringrazio Marcello Barbato, Chiara De Caprio, Antonio Del Castello e Francesco Senatore per aver letto una versione preliminare del saggio e per i loro generosi suggerimenti. Sono grato anche a Rachele Badile e Felice Messina: le loro preziose informazioni mi hanno consentito di essere meno impreciso. 1 Cfr. A. VARVARO, Il testo letterario, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, cur. P. BOITAnI - A. VARVARO - M. MAnCInI, 4 voll., Roma 1999-2005, I. La produzione del testo [1999], I, pp. 387-422; per la storiografia cfr. in particolare I. FERnánDEz ORDóñEz, Transmisión y Metamorfosis. Hacia una tipología de mecanismos evolutivos en los textos medievales, Salamanca 2012 (la trad. it. è in «Ecdotica», 10 (2013), pp. 118-177); G.M. SPIEGEl, The Past as Text. The Theory and Practice of Medieval Historiography, Baltimore-london 1997 (Parallax; trad. it. Pisa 1998); per la storiografia in latino cfr. F. DEllE DOnnE, Perchè tanti anonimi nel Medioevo? Note e provocazioni sul concetto di autore e opera nella storiografia mediolatina, «Rassegna di cultura classica e
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FRAnCESCO MOnTuORI
Per fare qualche riflessione di ordine generale sulla composizione di cronache in volgare, mi avvalgo della storia della formazione della Cronaca di Partenope, un’unità quanto mai problematica, la cui storia si svolge in un campo di forze tripolare, dominato dall’autore, dalla forma del testo e dalle procedure di composizione e trasmissione2. 1. Configurazione e nome della Cronaca di Partenope nella stampa del 1526 l’elaborazione e la compilazione di materiale storiografico relativo a leggende, avvenimenti e storie di napoli e del Regno dalla fondazione della città fino ai primi anni ’80 del XIV secolo ha assunto diverse configurazioni testuali nella forma del libro manoscritto e a stampa. Alcune di queste configurazioni sono state chiamate, nel tempo, Cronaca di Partenope (d’ora in poi: CrP). Forma e nome del testo non hanno viaggiato insieme e tuttora non si sono stabilizzate. Il nome è nato con l’edizione del 15263, non nel fronte-
medievale», 58/1 (2016), pp. 145-166. Per il punto di vista paleografico cfr. P. ChIESA, Autografi medievali e filologia. In margine a un convegno paleografico, «Carte Romanze», 3/1 (2015), pp. 359-74; di ampio respiro gli atti di due convegni: Auctor et auctoritas in Latinis Medii Aevi litteris. Proceedings of the 6th Congress of the International Medieval latin Committee (Benevento-naples, 9-13 november 2010), cur. E. D’AnGElO - J. zIOlkOwSkI, Firenze 2014 (MediEVI, 4); Auctor et auctoritas: invention et conformisme dans l’écriture médiévale. Actes du colloque tenu à l’université de Versailles-Saint-Quentinen-Yvelines (14-16 juin 1999), cur. M. zIMMERMAnn, Paris 2001 (Mémoires et documents de l’École des chartes, 59). 2 Mi avvalgo di studi cominciati qualche anno fa insieme a Chiara De Caprio. Cfr. in particolare F. MOnTuORI, La scrittura della storia a Napoli negli anni del Boccaccio angioino, in Boccaccio angioino. Materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento, cur. G. AlFAnO et al., Bruxelles 2012 (Destini incrociati, 7), pp. 175-201; C. DE CAPRIO, La storiografia angioina in volgare. Lessico metaletterario, modalità compositive e configurazioni stilistiche nella ‘Cronaca di Partenope’, in Boccaccio e Napoli. Nuovi materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento. Atti del Convegno ‘Boccaccio angioino. Per il VII Centenario della nascita di Giovanni Boccaccio’ (napoli-Salerno, 23-25 ottobre 2013), cur. G. AlFAnO et al., Firenze 2015 (Quaderni della rassegna, 95), pp. 427-448; DE CAPRIO, La scrittura cronachistica nel Regno: scriventi, testi e stili narrativi, in questo volume. 3 Il titolo è: «Chroniche de la inclyta cità de napole emendatissime, con li bagni de Puzolo et Ischia. nuouamente ristampate, con la tauola. Cum priuilegio». Il colofone, a c. 85v, recita: «Fine dele Croniche & bagnie de neapole Puzuolo & Ischia Stampate in la Inclita Cita de neapole per M. Euangelista di Presenzani de Pauia adi xxvii de Aprile xiiii indictione dala natiuita del nostro Signore M.D.XXVI.». Su Evangelista Presenzani, editore attivo a napoli tra il 1512 e il 1526, v. T. TOSCAnO, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), napoli 1992, pp. 22-27.
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spizio ma nei titoli correnti delle pagine pari e dispari della stampa: qui, infatti, appariva il titolo che nel tempo ha sostituito le altre denominazioni che si erano venute formando4. la fortuna del titolo è stato un effetto involontario e imprevedibile della buona qualità dell’edizione. nel 1526 la discreta leggibilità del testo e la lingua precocemente italianizzata dettero alla CrP una buona accessibilità, rendendola, di fatto, una delle fonti sulla storia del Regno privilegiate dagli storiografi moderni. In precedenza diversi nomi avevano contrassegnato diverse fasi redazionali del testo, ma ancora oggi lo stesso titolo viene applicato a entità testuali molto diverse. Come accade per tutte le cronache, e forse ancor più per gli annali, la forma della CrP, infatti, continua a cambiare, per effetto dello sforzo di interpretazione degli editori5: la tradizione di una scrittura storica si incarna in un repertorio di testimoni che sono anche le forme che il testo ha via via assunto, così che la storia della ricezione di una cronaca, prima ancora che analisi di riformulazioni redazionali, è sempre storia degli schemi cognitivi che sono riflessi nei testimoni manoscritti e nelle edizioni a stampa. la denominazione presente nel frontespizio dell’edizione del 1526 è Chroniche de la inclyta cità di Napoli. Il plurale chroniche designa una narrazione cronologica, il cui carattere composito emerge dall’analisi del testo e della tradizione manoscritta e a stampa: frutto dell’aggregazione di molte fonti, della stratificazione di diverse parti e della compilazione di più redazioni, la CrP si è formata attraverso il recupero di notizie di diversa origine per costruire una storia monografica su napoli e il Regno. la prima notizia storica che offre un testo di tal genere è, quindi, la storia delle sue realizzazioni e la destrutturazione delle sue parti.
4 Per l’origine della denominazione convenzionale di Cronaca di Partenope si veda G.M. MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ (Premessa all’edizione critica) [1931-32], in Dai Normanni agli Aragonesi. Terza serie di studi storico-giuridici, Trani 1936, pp. 29-77: 47. la medesima impaginazione si trova nell’edizione napoletana del 1680. 5 la grande distanza che separa le forme medievali del testo storico da quelle moderne sono visibili negli annali e nelle cronache: cfr. per es. l’edizione degli Annales Cavenses a cura di F. DEllE DOnnE (Roma 2011 [Fonti per la storia dell’Italia medievale. Rerum Italicarum Scriptores, III serie, 9]), dove è sufficiente confrontare il testo moderno con il doppio apparato (pp. 3-71) e le tavole finali che riproducono il cod. 3 della badìa di Cava (tavv. I-XXXII); e cfr. l’edizione dei Gesta Florentinorum pubblicati da B. SChMEIDlER nell’‘Appendice’ agli Annales di Tolomeo da lucca (Berlin 1930, rist. München 1984 [Monumenta Germaniae historica, Scriptores, 6. Scriptores Rerum Germanicarum, nova series, 8]), il cui testo è ricostruito sulle coincidenze di cronache successive che hanno usato i Gesta come fonte (cfr. specialmente p. 243).
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2. Forme, manoscritti ed edizioni della Cronaca di Partenope nell’edizione del 1526, che razionalizza nella struttura e italianizza nella lingua una stampa tardoquattrocentesca attribuita a Del Tuppo, la CrP è divisa in tre libri6: nel primo si fa la storia di napoli, dalle origini alla fine della dominazione sveva; nel secondo si traccia la storia del Regno angioino, da Carlo I alla morte di Andrea d’ungheria (1345); nel terzo il focus oscilla tra napoli e il Regno, e va dai tentativi di Roberto d’Angiò di recuperare la Sicilia fino all’arrivo di luigi d’Angiò (1323-1382). I tre libri non corrispondono alla storia redazionale della CrP ma sono l’addizione, in una struttura originale, di tre parti della Cronaca, tradizionalmente chiamate I, II e IV parte. Quest’ultima è apparsa per la prima volta nell’incunabolo attribuito a Del Tuppo, mentre la I e la II parte sono testimoniate, in due redazioni diverse, da tutta la tradizione manoscritta e da tutte le stampe, nella medesima sequenza e senza nessun segno di discontinuità testuale: I-IIa I-IIb
sezioni più antiche della redazione “a” della CrP7 forma più antica della redazione “b” della CrP8
I-IIb-IV
forma vulgata della redazione “b” della CrP9
6 Della cinquecentina ho usato l’esemplare XXIV II 32 della Bibl. naz. di napoli; della quattrocentina ho usato l’esemplare IX B 34 della stessa biblioteca. Sull’attribuzione a del Tuppo dell’incunabolo della fine degli anni Ottanta, cfr. T.l. GIuSTInIAnI, Saggio storico sulla tipografia napoletana, napoli 1793, pp. 38-39; M. FAVA - G. BRESCIAnO, La stampa a Napoli nel XV secolo, leipzig 1911-1912, II, p. 59. 7 Tali sezioni, al fianco dei successivi supplementi IIIA e IIIB (v. § 11) sono tràdite dai seguenti manoscritti: Barcellona, Bibl. nac. de Catalunya, ms. 991 (B); Firenze, Bibl. naz. Centr., G. Capponi 108 (F1); Firenze, Bibl. Ricc., 1836 (F2); napoli, Bibl. naz., S. Martino I 63 (n1, mutilo) e XIV D 7 (n2); napoli, Archivio di Stato, Fondo Giudice Caracciolo di Cellamare, ms. 38 (GC); napoli, Bibl. della Società di Storia Patria, XX C 5 (Sn1) e XXXII D 14bis (Sn2); new York, Pierpont Morgan library, ms. 973 (M1); Parigi, Bibliothèque nationale, it. 304 (P1 lacunoso), it. 301 (P2) e it. 303 (P3); Verona, Biblioteca Civica e Comunale, 495 (Ve); atipico il ms. Città del Vaticano, Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4601 (V), su cui v. oltre § 4. 8 I manoscritti che contengono tale forma sono: Palermo, Biblioteca Centrale della Regione Sicilia, I D 14 (Pl); Modena, Biblioteca Estense, a h 8 14 (E); è considerato perduto Pesaro, Biblioteca di Giuliano Vanzolini, codice Vanzolini (v. oltre nota 114). 9 la vulgata è tramandata dall’edizione Del Tuppo (1486-90 ca.) e dal descriptus new York, Pierpont Morgan library, 801 (M2: v. § 14); inoltre, con una divisione della materia in III libri non corrispondenti alle tre sezioni originali, è nell’edizione del 1526 (e da un manoscritto che viene definito un suo discendente, napoli, Bibl. naz., XIII AA 39) e nell’edizione Porsile del 1680.
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Tra la fine del secolo XIX e il terzo quarto del XX gli studi di Bartolommeo Capasso, Gennaro Maria Monti e Francesco Sabatini hanno fissato un canone delle parti della CrP, progressivamente stabilizzatosi e generalmente accettato, ma ora messo in discussione nella recente edizione di Samantha kelly10. 3. La compilazione di Cronaca di Partenope I Secondo l’ipotesi risalente a Bartolommeo Capasso, si può identificare innanzitutto una prima parte della CrP, scritta, presumibilmente, verso la metà del Trecento, giunta a noi in 55 capitoli11. Si tratta di una compilazione sulla fondazione di Cuma, di Partenope e poi di napoli, e della storia della città in età pagana, con il nucleo delle leggende virgiliane, e nei primi anni del Cristianesimo, con la storia dell’evangelizzazione di napoli e dei
10 Gli studi sono: B. CAPASSO, Le fonti della storia delle provincie napolitane dal 568 al 1500, napoli 1902, pp. 131-137 [rist.anast. 1997]; MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit.; F. SABATInI, Napoli angioina. Cultura e società, napoli 1975, pp. 133-140, 160-168, 214-215. l’edizione (The ‘Cronaca di Partenope’. An Introduction to and Critical Edition of the First Vernacular History of Naples (c. 1350), ed. S. kEllY, leiden-Boston 2011 [The Medieval Mediterranean, 89]) è un tentativo di storicizzazione per alcuni aspetti brillante e, quindi, con molti meriti: in particolare si segnala la puntuale descrizione dei testimoni, l’enorme mole di informazioni fornite dall’apparato e il ricco commento sulle fonti, mai tentato prima in modo così analitico e davvero prezioso per la comprensione dell’opera; un grande passo in avanti è quindi stato compiuto rispetto all’edizione di A. AlTAMuRA (Cronaca di Partenope, napoli 1974 [Studi e testi di letteratura italiana, 2]), che ancora oggi costituisce una vulgata che ha ingabbiato un testo poco perspicuo nella storia locale e nell’aneddotica. Minor fortuna ha avuto la kelly nel conseguire l’obiettivo di fissare un testo soddisfacente nella forma e nella sostanza, per le molte incertezze linguistiche manifestate. l’editore, inoltre, ha scelto di seguire il testo del bon manuscrit M 973 della Pierpont Morgan library: così, anche in seguito alla rinuncia a ricostruire ecdoticamente i rapporti fra i testimoni del testo, talvolta ha relegato in apparato lezioni sicuramente giuste presenti in altri manoscritti. 11 la datazione della CrP I è oggetto di discussione. non sembrano probanti gli espliciti riferimenti a re Roberto (§ 7), al 1322 (§ 19) e al 1326 (§ 26), come ipotizzato da Capasso e Monti; piuttosto varrà quanto dice la kelly a proposito dell’ultimo passo: «The inclusion of a specific date here seems to signal non its proximity in time to the author’s present, but its distance» (p. 17). D’altra parte è apparso molto problematico il rinvio al 1380 del § 27, attribuito in genere non all’originale ma all’archetipo, come interpolazione di età pre-durazzesca (cfr. SABATInI, Napoli angioina cit., pp. 134 e 267 nota 311); è improbabile che si tratti di un errore comune a tutta la tradizione (come sostiene kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 17-18; cfr. MOnTuORI, La scrittura della storia cit., alle pp. 183-185; cfr. anche MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 55); la data del 1380 è, tra l’altro, compatibile con la datazione a dopo il 1372 del ms. IX C 24 della Bibl. naz. di napoli, una delle possibili fonti di alcuni capitoli della CrP I: v. oltre, nota 19.
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primi santi della città, fino alle guerre contro i saraceni nel corso del 12 IX secolo e la battaglia di Siponto, con l’apparizione dell’arcangelo Michele . Il carattere compilativo della prima parte della CrP è affermato nella rubrica iniziale, dove la fama della città, fondata sulla nobiltà locale, è la ragione della scrittura, definita come la ‘composizione di più cronache’: [...] De la cità de napoli, la quale intra l’altre cità del mondo per la moltitudine de li cavaglieri et di loro pompe et dilecte richeze have acquistata fama grandissima. le quale cose tutte se narrano in diversi volumi et croniche, et in questa presente scriptura brevemente se componeno (st 1526, c. A IIr). De la cità de napoli, la quale inter l’altre citate de lo mundo per multitudene de cavaliere et di lloro dilecti et ponpose ricchicze avea acquistata fama grandissima; le quale cose se innarrano tucte in diversi volume de 1 libre, sicché in queste presente croniche tucte so’ conposte (ms. M , c. 23r 13 = kelly, p. 165,1-4) .
le due rubriche hanno differenze molto più profonde di quel che appare: i testimoni, infatti, appartengono a due rami diversi della tradizione, che trasmettono differenti redazioni del testo14; come si vedrà, non è secondario il dettaglio che nel manoscritto la rubrica costituisce l’esordio della cronaca, mentre nella stampa al di sopra della rubrica si è stratificato altro paratesto. Ma al di là di questa differenza, e oltre a qualche altra piccola difformità nel dettato e alla significativa divergenza sul nome dato alla tipologia cui appartiene il testo (croniche o scriptura)15, è chiaro che nella rubrica si definisce la cronaca come il frutto di una “composizione”, cioè come una compilazione che si presenta come una summa: in un testo lungo sono raccolte, nella forma breve del capitolo, parti selezionate da altri testi;
12 un presagio e un episodio delle guerre contro i Saraceni «is the conclusion of the historical compilation contained in Bamberg hist. 3, a copy of a literary product from the 10th-century Southern Italy» (cfr. M.T. kRETSChMER, Historiographical Rewriting, «Filologia Mediolatina», 15 [2008], pp. 283-305: 301). 13 Il manoscritto, alla base dell’edizione di kelly, è descritto alle pp. 106-109; ho ricontrollato il testo sull’originale. D’ora in poi rinvio tacitamente all’edizione della kelly, indicando capitolo, pagina e rigo. 14 Cfr. sopra note 7 e 9. 15 Cfr. DE CAPRIO, La storiografia angioina in volgare cit., p. 435; DE CAPRIO, La scrittura cronachistica nel Regno, cit. Per il termine cronaca cfr. Chronicles (Terminology), in Encyclopedia of the Medieval Chronicle, ed. R.G. DunPhY, leiden-Boston 2010, pp. 274282.
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la composizione che ne risulta configura la narrazione di eventi su napoli. la forma del testo, la prima traccia di coesione che si dà di esso, è quella della raccolta di croniche, di narrazioni in ordine cronologico: la prima parte della CrP è quindi un fiore, che, sebbene rivendichi la brevitas (come del resto era consuetudine nei prologhi delle cronache)16, non compone esempi di virtù o di bel parlare, ma una narrazione degli accadimenti relativi alla storia di un luogo prescelto. Per formare la compilazione sono state adoperate opere agiografiche e raccolte di gusto antiquario scritte a partire da testi della storiografia e della letteratura latina e mediolatina17. Per esempio, alcuni capitoli, relativi alla prima cristianizzazione di napoli, sono tratti dal cosiddetto Chronicon di Santa Maria del Principio (CSMP), un testo di liturgie e racconti, a uso del capitolo della chiesa di S. Restituta, ex duomo di napoli, datato intorno al 1313. nella prima parte della CrP sono confluiti i volgarizzamenti di alcune parti narrative del Chronicon, talvolta ricavate da precedenti opere agiografiche, come la Vita di s. Aspreno18. Alcuni dei capitoli “pagani” sulla storia di napoli sono estratti, invece, da compilazioni antiquarie, con citazioni da testi classici, commenti eruditi e narrazioni. Il gran numero di autori citati è indice di una certa familiarità con raccolte e florilegi e non un segno di frequentazione della letteratura antica. un esempio di fonte molto vicina a quella utilizzata da chi scrisse la
16 Cfr. l. MInERVInI, La storiografia, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, cur. F. BRIOSChI - C. DI GIROlAMO, Torino 1993-1996, I, pp. 763-787: 767. la brevitas è il tratto caratterizzante dello stile della novella: per un quadro generale cfr. C. SEGRE, Per una definizione della novella, in La circulation des nouvelles au Moyen Âge. Actes de la journée d’études (univ. de zurich, 24 janvier 2002), cur. l. ROSSI et al., Alessandria 2005 (Textes et études, 2), pp. 21-27. Sulle affinità formali tra novella e cronaca cfr. i contributi di M. MIGlIO (La novella come fonte storica. Cronaca e novella dal Compagni al Pecorone) e A. VARVARO (Tra cronaca e novella), in La novella italiana. Atti del Convegno (Caprarola, 19-24 settembre 1988), cur. E. MAlATO, 2 voll., Roma 1989 (Biblioteca di Filologia e Critica, 3), I, pp. 173-190 e 155-171. 17 Già CAPASSO, Storiografia cit., si era sforzato di tracciare un quadro d’insieme delle fonti adoperate; ai lavori di Monti e Sabatini si aggiunge ora il commento dell’edizione della kelly, che fornisce un profilo aggiornato (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., Appendix I, pp. 285-332). 18 Oltre agli studi di Monti, sono quelli, recentissimi, di Vinni lucherini che ci danno un’idea attendibile del Chronicon: Il Chronicon di Santa Maria del Principio (1313 ca.) e la messa in scena della liturgia nel cuore della Cattedrale di Napoli, in Dall’immagine alla storia. Studi per ricordare Stefania Adamo Muscettola, cur. C. GASPARRI - G. GRECO - R. PIEROBOn BEnOIT, Pozzuoli 2010 (Quaderni del Centro Studi Magna Grecia, 10), pp. 521-549. Del Chronicon, però, manca ancora un’edizione critica.
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prima parte della CrP è una sezione del ms. della Biblioteca nazionale di napoli IX C 24 (cc. 89r-124v), fondata soprattutto su livio e Virgilio19. I classici sono utilizzati come fonte documentaria, per esempio per provare l’antichità del predicato di oziosa, attribuito a napoli per il tramite di Ovidio (§ 5) e di Orazio (§ 15)20. Tuttavia la citazione di carattere sentenzioso di un’auctoritas può essere anche strumento di progressione narrativa. In un capitolo per il quale non sono state segnalate fonti e che attribuisce la fondazione della città nuova di Neapolis a Tiberio Giulio Tarso, già abitante del nucleo abitativo più antico di Partenope, si legge: Et inperciò che niuna grande cità pote stare longo tempo in quiete et che, se da fore non àve inimici, li trova da entro de lley medesimo, et inperciò dentro de lloro so’ nate brighe et discordie per loro ricchecze et altre habundancie. Per la quale cosa uno iovene chyamato per nomo Tiberio Julio Tarso [...]» (§ 6, p. 171,2-3)21.
la premessa, che presenta una certa cura ritmica, è tratta da una sentenza liviana: nulla magna civitas diu quiescere potest; si foris hostem non habet, domi invenit, ut praevalida corpora ab externis causis tuta uidentur, suis ipsa viribus onerantur (XXX 44)22.
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Si tratta del manoscritto dello Pseudo Iamsilla: per una descrizione cfr. E. D’AnGElO, Una silloge umanistica suessana (scheda per Napoli B.N. IX. C. 24), «Vichiana», ser. IV, 2 (2000), pp. 225-239; per i rapporti con CrP I, cfr. kelly, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 56-65. È importante la datazione al 1371-72 fissata da l. PETRuCCI (Lasciti della prima circolazione della ‘Genealogia deorum gentilium’ in un manoscritto campano del Quattrocento, «Studi mediolatini e volgari», 27 [1980], pp. 163-181); se il commentario contenuto nel ms. è la fonte diretta di CrP I, la composizione di questa sezione della CrP slitta inevitabilmente al 1380: cfr. MOnTuORI, La scrittura della storia cit., p. 192. 20 Tra gli storiografi è citato anche livio: un volgarizzamento francese della prima deca fu tradotto in volgare italiano ad Andria da Filippo da Santa Croce nel 1323 (l. AzzETTA, Un’antologia esemplare per la prosa trecentesca e una ignorata traduzione da Tito Livio: il Vaticano Barb. Lat. 4086, «Italia medioevale e umanistica», 35 [1992], pp. 31-85). 21 Il passo appare drasticamente più breve in una parte della tradizione (cfr. kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 138 e apparato ad l.). 22 Il concetto è ben diffuso. Cfr. per es. Sall., Cat. 36: «Ea tempestate mihi imperium populi Romani multo maxume miserabile visum est. Cui cum ad occasum ab ortu solis omnia domita armis parerent, domi otium atque divitiae, quae prima mortales putant, adfluerent, fuere tamen cives, qui seque remque publicam obstinatis animis perditum irent».
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Dalla causa generale, tratta dalla sapienza antica e introdotta da et inperciò che, si passa alla causa efficiente del fatto che si vuole raccontare, mediante una correlazione di natura paraipotattica (et inperciò)23. Tale concatenazione genera la formulazione dell’accadimento per cui le competizioni interne a Partenope indussero un suo abitante a fondare una nuova città; per la qual cosa, instaurando un ulteriore passaggio causale, introduce il racconto dell’evento in una struttura paratattica che si forma tramite un incapsulatore, cioè tramite una congiunzione relativa lessicalmente generica. I medesimi strumenti lessicali sono adoperati in altre parti del testo con le stesse funzioni. Per esempio in una delle numerose notazioni “etimologiche”, un vero marchio autoriale che punteggia quasi ogni capitolo di CrP I, per descrivere la ragione della denominazione di Forcella si trovano di nuovo inperciò che e et inperciò, questa volta a marcare un costrutto fortemente cataforico, che sposta il focus dell’enunciato sull’esistente e presenta un’abduzione come un dato oggettivo: Et in perciò la strata la quale sta denanti a la dicta fortellecza se chyama Forcella, inperciò che la dicta fortellecze se spartìa in duy strate (§ 14, p. 180,7-9)24.
Invece il legame relativo è utilizzato di frequente per procedere nel racconto, talvolta ancora dopo la citazione di un’auctoritas: In successione de non multo gran tempo nacque grande discordia inter li napolitani et quilli de nola per le fine et territorie, secundo narra Valerio Maximo ne lo libro VI ne lo capitulo de “le cose brevemente facte o dicte”. Per la quale cosa fo mandato da Roma per lo senato, lu quale Roma signyoriava l’una cita et l’autra, Quinto Fabio labione doctore de lege per arbitro ad determinare le dicte fine (§ 10, p. 175,1-5). 23 Si tratta di una struttura correlativa, nella quale una relazione causale (o di altro tipo circostanziale) viene espressa attraverso frasi coordinate non parallele, in cui il primo elemento non è sintatticamente autonomo (cfr. Grammatica dell’italiano antico, cur. l. REnzI - G. SAlVI, Bologna 2010 [Strumenti], § V 1.1, p. 243; M. MAzzOlEnI, voce Paraipotassi, in Enciclopedia dell’italiano, cur. R. SIMOnE, Roma 2011; C. DE CAPRIO, Paraipotassi e “sì” di ripresa. Bilancio degli studi e percorsi di ricerca (1929-2010), «lingua e Stile», 45 (2010), pp. 285-327): in questo caso la congiunzione coordinante e lega la causale prolettica inperciò che con la reggente introdotta dall’avverbio inperciò. Altre occorrenze: Et inperciò che ... et (§ 52 p. 240,11-14); nella redazione “b” (su cui v. oltre) la correlazione è ipotattica: et imperò che ... imperò (§ 14, p. 181,8-12). un costrutto simile è per esempio in Dante, Cv. III VII 6: «E però che ne l’ordine intellettuale de l’universo si sale e discende [...] e noi veggiamo [...]» (Grammatica dell’italiano antico cit,. § XXVII 2.1.2., p. 995). 24 Altro caso come quest’ultimo è a § 1 p. 166,10-11 e, eccezionalmente, anche nella seconda parte, nella redazione “b” (§ 93, p. 273,23-27).
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Questo piccolo esempio intende significare la diffusione omogenea in CrP I di alcune caratteristiche testuali che contribuiscono a definire la personalità del compilatore, l’autore di secondo livello, costantemente attento a mostrare in modo esplicito che i fatti da lui raccolti hanno un senso coerente con l’argomento che intende trattare e costituiscono la trama della storia che vuole raccontare. Succede lo stesso anche nelle leggende virgiliane (§§ 16-32), riunite da più fonti, anche orali, a dimostrazione della capacità dell’autore di assorbire materiali “storici” dal basso25. la creazione della monografia inserisce i memorabilia virgiliani nella cronologia della storia e in un panorama realistico26: le leggende sono in una sequenza, internamente coesa, di capitoli che 27 iniziano con una lode della Campania e sono legati al solo tema virgiliano . negli esordi si ricerca la ricorrenza di strutture che sottolineano la continuità tematica dei racconti (anche e ancora, lo supradicto ecc.) e nel testo l’ambientazione napoletana della cronaca dà un nuovo senso alle storie, non solo perché il narratore verifica ogni volta se il magico manufatto di Virgilio è ai suoi tempi ancora efficace o meno, ma anche perché nel marcare la localizzazione napoletana degli
25 Per la permeabilità dei motivi della cultura bassa verso i letterati del Medioevo, cfr. A. VARVARO, La centralità della Francia nella letteratura medievale, «Medioevo Romanzo», 34 (2010), pp. 241-263: 244 e passim. l’emersione di motivi folclorici è chiaro nel racconto che chiude il § 32 (p. 200,19-23): «Et credese et tenese che lo cardinale de Spagnya inde la nocte de la nativitate de Christo celebrò tre messe in tre remoti parti de lo mundo, che ipso sì lo fece per arte de nigromancia acquistata ad ipso per li libri de Virgilio, li quali in quillo tempo se guardavano dentro lo tisauro de lo papa de Roma». Cfr. The Virgilian Tradition: the first fifteen hundred years, cur. J.M. zIOlkOwSkI - M.J.C. PuTnAM, new haven & london 2008, pp. 945-953; zIOlkOwSkI, Virgil the Magician, in Dall’antico al moderno. Immagini del classico nelle letterature europee, cur. P. BOITAnI - E. DI ROCCO, Roma 2015, pp. 59-75; F. STOk, Virgilio a Napoli, «Giornale Italiano di Filologia», 45 (1993), pp. 231239; ancora indispensabile D. COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo, nuova edizione a cura di G. PASQuAlI, Firenze 1941 (Il pensiero storico). Molti sono gli indizi che a napoli circolasse un corpus di leggende virgiliane molto ampio: non sarà un caso se Boccaccio riportò nelle sue Expositiones (I 71) tre storie che sono compresenti solo nella CrP (G. FERRAnTE, L’‘Inferno’ e Napoli. Spazi personaggi e miti della catabasi negli antichi commenti danteschi, in Boccaccio angioino cit., pp. 219-250). 26 Cfr. h. hEnDRIX, City branding and the Antique. Naples in Early Modern City Guides, in Remembering Parthenope. The Reception of Classical Naples from Antiquity to the Present, cur. J. huGhES - C. BuOnGIOVAnnI, Oxford 2015 (Classical Presences), pp. 217-241: 221. 27 Il capitolo § 16 inizia con un florilegio di citazioni sulle bellezze della Campania e poi racconta di Marcello, nipote di Augusto e duca di napoli, con cui Virgilio collaborò. Importante, in questo contesto, la citazione della composizione delle Georgiche a napoli, l’opera più dottrinaria di Virgilio, i cui commenti medievali erano ricchi di rinvii a diverse fonti sui greci di napoli.
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eventi è mosso anche da intenti polemici antisalernitani28. Pure la rielaborazione delle fonti, parzialmente citate (§ 17, p. 185,4 e 7), è svolta con attiva originalità dal compilatore29, che inserisce le storie virgiliane in uno schema espositivo rigido: c’è un problema30 o una risorsa31 o semplicemente un luogo della città32; Virgilio decide di intervenire33; grazie alla sua arte magica crea un talismano oppure opera una magia34; alcuni manufatti sono
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la cronaca racconta la distruzione, ad opera dei medici della scuola salernitana, delle immagini che nei bagni termali di Pozzuoli guidavano gli ammalati nella scelta della cura migliore: il compilatore «non dovette limitarsi ad assemblare i materiali preesistenti a lui noti, ma, da un lato, cercò di renderli più credibili aggiungendo alcuni particolari di sua invenzione, dall’altro perseguì, come si può desumere proprio dal linguaggio usato per raccontare l’episodio [...], un chiaro disegno di recupero della memoria storica cittadina» (G. VITOlO, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, napoli 2014 [nuovo Medioevo, 101], pp. 211-232: 229). non sarà un caso, allora, se il compilatore raccoglie anche episodi virgiliani che entrano in diretta competizione con l’uso delle erbe medicinali e della dieta, eccellenze proprie della scuola medica salernitana. 29 I capitoli privi di fonti conosciute sono 16, 20, 24, 26 (solo la prima parte) e 31. In quest’ultimo si legge che la storia è raccontata «secundo se lege ad anticha cronica» (p. 198,21-22). 30 V. §§ 17, 22, 23, 24, 29. 31 V. § 28. 32 Porta nolana § 27; Castel dell’Ovo § 30; la grotta del Monte Barbaro § 31. 33 l’intervento di Virgilio è motivato solo occasionalmente: «per la grande affeccione la quale avea a la dicta cità et li soy citadini» (§ 17, p. 185,1-2); per «providere a le infirmitate de li homine con erbe salutifere et medicinale» (§ 23, p. 189,13-14); «vedendo lo predicto poeta la dicta cità la quale con grande voluntà desiderava de se magnificare per fama et per recchecza, recercava in omne acto et modo grandi et piczoli utile che ley poteva fareli» (§ 24, p. 190,10-12); «volendo provedere a la utilità de li citadini» (ibid.,13-14); «per exercitare li homine a li facti dell’arme» (§ 26, p. 191,23); «per la comone salute de li citadini de napoli et per utilitate de tucta la rey puplica» (§ 28, p. 194,17-18); «dellectandose con soy arte» (§ 30, p. 197,15). 34 l’elenco completo delle modalità di intervento prevede: «per arte di nigromancia» (§ 17, p. 185,2; § 20, p. 187,12); «sub certe costellacione» (§ 18, p. 185,15); «socto costellacione de stelle» (§ 19, p. 186,8-9); «per la sopradicta arte magica» (§ 21, p. 188,6); «socto certi signi et conioncione de pianete» (§ 22, p. 189,1); «per le maraviglyose suoy arti et ingegnye» (§ 23, p. 189,19); «concorrendono ad ipso le mirabile influencie de le pianete» (§ 25, p. 191,3-4); «per sua arte magica» (§ 26, p. 192,8); «non sencza grande ministerio» (§ 27, p. 192,20); «considerando per soctili geometria co∙ una recta misura [...] in tale disposicione de planete et cursi de stelle» (§ 29, p. 196,2-3 e 17-18); atipico il caso di § 16 (p. 184,1415): «per la sagacitate de lo dicto Marcello [duca di napoli e nipote di Augusto] et per preghera de lo dicto Virgilio». Gli argomenti sono (§§ 16-31) le fogne, la mosca, la sanguisuga, il cavallo, la cicala, la carne, l’immagine con la tromba contro il vento Favonio, il giardino di Montevergine, la pietra del pesce, la statua di Porta nolana, i giochi di Carbonara e le teste oracolari, il sigillo contro i serpenti a Porta nolana, i bagni termali, la grotta, l’uovo del castello, il libro magico da cui Virgilio apprese la negromanzia; l’ultimo capitolo (§ 32) tratta della tomba di Virgilio.
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ancora efficaci, altri no35. l’originale elaborazione del compilatore si manifesta anche nella lingua, per esempio nell’uso di lessico tecnico, come il raro francesismo forgiare36, adoperato per le opere metallurgiche fatte costruire da Virgilio e in seguito usato anche per il chiodo che santa Patrizia fece preparare sul modello di quelli della crocifissione e che «per fine a lo dì d’ogi appare ne lo dicto monasterio de Sancta Patricia multo venerabelemente conservato»37. Tutti questi ingredienti rendono la sezione virgiliana omogenea alle altre sezioni della prima parte della CrP, mostrando così l’indole del compilatore38. non si può negare, tuttavia, che egli mostri spesso quiescenza rispetto alle sue fonti e non manifesti alcun interesse a un’omogeneizzazione discorsiva del testo: perciò, a passi di appassionata affabulazione (§ 55) si alternano strutture in forme di lista (§ 14), e nello stesso paragrafo (§ 33) a vivaci discorsi diretti subentrano lunghe catene di citazioni in discorso indiretto. Questa inerzia rispetto ai testi volgarizzati sembra scavare un solco tra chi ha tradotto i testi dal latino e chi ha materialmente raccolto i diversi volgarizzamenti per formare la prima parte della CrP. È evento atteso che le diverse caratteristiche linguistiche degli ipotesti di CrP I si manifestino nei manoscritti della CrP39: la sezione tratta dal CSMP, ad esempio, ha specificità fonomorfologiche che non si riscontrano nel resto del testo, come le terze persone dei futuri con epitesi di -y, cioè pigliarray ‘piglierà’, poterray e porray ‘potrà’ (§ 34, p. 206.14-18), attestate anche nella lingua del più antico volgarizzamento dei Bagni di Pozzuoli (1290-1310)40. un tale evento segnala che la traduzione del CSMP deve essere stata molto vicina agli anni della redazione del testo latino (1313 circa), e che la tradizione manoscritta della CrP conserva scrupolosamente 35 non funzionano più la mosca, il cavallo e la pietra del pesce; nulla si dice del pezzo di carne del mercato vecchio, della tromba, e delle teste oracolari (efficienti nella napoli ducale); sono ancora efficaci le fogne, la sanguisuga, la cicala, il giardino di Montevergine, la statua di Porta nolana, i giochi di Carbonara, il sigillo contro i serpenti a Porta nolana, la grotta di Pozzuoli, l’uovo del castello; infine, i bagni termali esistono ancora. 36 Cfr. R. CEllA, I gallicismi nei testi dell’italiano antico (dalle origini alla fine del sec. XIV), Firenze 2003 (Grammatiche e lessici), p. 409. 37 V. rispettivamente § 17, p. 185,4; § 19, p. 186,8; § 22, p. 188,19; e § 48, p. 229,4 e 10-11 (e ss.). 38 Cfr. C. DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli tra Medioevo e prima Età Moderna, Roma 2012 (Studi e saggi, 51), p. 48. 39 Cfr. MOnTuORI, La scrittura della storia cit., pp. 188-190. 40 la seconda redazione del volgarizzamento dei Bagni, del 1340 circa, non accetta questo tratto linguistico e cambia il testo per evitarlo (ibid., p. 189 nota 44). Dall’apparato della kelly si evince che la conservazione di tali forme è in tutti i manoscritti della CrP, tranne un paio della fine del sec. XVI o dell’inizio del successivo.
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un tratto obsolescente nella scripta napoletana41 e induce a credere che il volgarizzatore del CSMP sia persona diversa dal compositore di CrP I: questi, quando incorpora la sezione sui patroni di napoli nel suo testo, copia con zelo la sua fonte senza intervenire sulle forme verbali. Il compilatore ha agito sugli ipotesti come un moto di risacca, che uniforma solo parzialmente i nodi dell’enunciazione, e ad essi mescola o giustappone porzioni di testo che manifestano a ondate i segni della sua scrittura e della funzione che ha assunto. Gli indizi di discontinuità tra i due tipi di componenti sono rari42. Perciò, il raccoglitore si mostra non tanto in specifici tratti linguistici quanto piuttosto nella selezione centonaria, in alcuni tecnicismi narrativi, nella ricorrenza di specifici temi e, nel complesso, nella scelta di utilizzare il volgare per la scrittura della storia43. In genere l’anonimo non prende molto spazio per sé nel corso del racconto: i rinvii espliciti ad altri testi sono soprattutto nella parte tratta dalla compilazione liviana o nella sezione virgiliana, mentre le altre fonti sono citate solo per via indiretta, o sono occultate. Invece, come si è detto, la figura del compilatore emerge con una certa intensità nell’attualizzazione del contenuto delle storie, nella particolare cura nel cartografare napoli e nel piacere etimologico nello spiegare il significato dei toponimi locali: la comparazione della città antica con quella presente è il fondamento ideologico del libro, e gli eventi, i nomi, i luoghi, le strutture architettoniche costituiscono i segni di una continuità storica cui il narratore non è indifferente44.
41 Cfr. loise De Rosa, Ricordi, ed. V. FORMEnTIn, Roma 1998 (Testi e documenti di letteratura e di lingua, 19), pp. 266-268. la conservazione di tratti linguistici obsolescenti nella trasmissione manoscritta di un testo medievale può essere considerato un segnale di passività della tradizione, se è vero che i fatti sublessicali delle copie si devono attribuire non all’antigrafo ma al copista (cfr. M. BARBATO, Trasmissione testuale e commutazione del codice linguistico. Esempi italoromanzi, in Transcrire et/ou traduire. Variation et changement linguistique dans la tradition manuscrite des textes médiévaux. Actes du congrès international (klagenfurt, 15-16 novembre 2012), cur. R. wIlhElM, heidelberg 2013 [Studia Romanica, 182], pp. 193-211). 42 un possibile segnale di trapasso è l’isolata formula «Et è da notare che» (§ 14, p. 180,9), che ricorda l’«Et nota che» di Giovanni Villani (cfr. F. RAGOnE, Le scritture parlate. Qualche ipotesi sulla redazione delle cronache volgari nel Trecento dopo l'edizione critica della ‘Nuova Cronica’ di Giovanni Villani, «Archivio Storico Italiano», 149 (1991), pp. 783810: 795). 43 Per esperienze simili in ambito mediolatino, ma nel complesso di più testi assemblati in un codice miscellaneo, cfr. M.T. kRETSChMER, Rewriting Roman History in the Middle Ages. The ‘Historia romana’ and the Manuscript Bamberg, Hist. 3, leiden 2007 (Mittellateinische Studien und Texte, 36). 44 È questo un punto di vista non originale, a napoli, che si riscontra già nell’attenzione per la vetustà della città nell’esordio della Vita Sancti Athanasii: cfr. V. luChERInI, Strategie
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In un solo caso si ha l’emersione dell’io: Inter l’altre et varie cose che so’ in presencia de me compositore de quisto libro solamente scrivere una cosa non m’è greve (§ 36, p. 210,20-21).
la testimonianza è particolarmente interessante perché il narratore definisce esplicitamente se stesso come il «compositore de questo libro». Apparentemente l’enunciazione di se stesso non comporta una particolare partecipazione emotiva o una speciale adesione ideologica dell’autore, da cui conseguano caratteri distintivi nella redazione del testo: il capitolo, infatti, non sembra avere modalità espressive o specificità narrative anomale. Emerge però un isolato segnale linguistico, la presenza di participi presenti coniugati, rarissimi nella prosa napoletana antica45: si tratta di occorrenze interessanti, dal momento che una forma analoga si registra anche in un altro capitolo della cronaca, nel quale il narratore discorre, col suo solito gusto etimologico, intorno ai sedili di napoli46. È possibile, allora, che il compilatore quando emerge in tal modo sul piano dell’enunciazione, marcando la sua autorialità, segnali il personale adattamento della fonte di cui dispone, visto che non sempre è opportuno attribuirgli l’attività di traduttore47. Altrettanto raramente il compilatore rinvia a fonti anonime48 o manifesta esplicitamente una forte componente ideologica: lo fa per esempio rive-
di visibilità dell’architettura sacra nella Napoli angioina: la percezione da mare e la testimonianza di Petrarca, in The Holy Portolano. The Sacred Geography of Navigation in the Middle Ages [...], cur. M. BACCI - M. ROhDE, Berlin ecc. 2014 (Scrinium Friburgense, 36), p. 202. 45 V. timentino (§ 36, p. 211,1); al rigo successivo è da recuperare andantino dal ms. Pl, che conserva una redazione più tarda della cronaca. nella fonte i corrispondenti sono timentes e procedentes (cfr. G.M. MOnTI, Il cosiddetto ‘Chronicon di S. Maria del Principio’, fonte della ‘Cronaca di Partenope’, in Dai Normanni agli Aragonesi cit., alle pp. 140-141 e 145). Sulla rarità dei participi presenti coniugati nel napoletano del Trecento e del Quattrocento cfr. A. lEDGEwAY, Grammatica diacronica del dialetto napoletano, Tübingen 2009 (Beihefte zur zeitschrift für Romanische Philologie, 350), pp. 587-588. 46 V. habitantino (§ 15, p.181,10), nel ms. Pl, che anche in questo caso sembra conservare la lezione originale. 47 Cfr. J. kuJAwIÑSkI, Quand une traduction remplace l’original: la méthode du traducteur de l’Historia Normannorum d’Aimé du Mont-Cassin, in Traduire au Moyen Age. In principio fuit interpres, Turnhout 2013 (The Medieval Translator, 15), pp. 63-74, che studia i sintomi della presenza del traduttore in una raccolta napoletana di testi storiografici francesi, il ms. fr. 688 della Bibl. nat. de France. 48 V. § 6, p. 171,10: «secundo se scrive»; § 8, p. 173,12: «Secundo che se dice»; § 31, p.198,21-22: «secundo se lege ad anticha cronica». È secondaria, perché viene dal CSMP, ed è quindi da attribuire al volgarizzatore e non necessariamente al compositore, la seguente testimonianza: «secundo che testificanno multi instrumenti et secundo che se lege a la legenda de sancto Actenaso» (§ 43, p. 220,4-5; cfr. kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 306).
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lando orgoglio locale49, così che in qualche occasione non manca di dichiarare la consapevolezza della sua missione di storico50 e, in un caso, anche di “critico delle fonti” che riporta opinioni alternative51. Tuttavia alla CrP I manca un prologo o una qualunque dichiarazione esplicita di rivendicazione politica o culturale o anche solo storiografica: c’è un compositore che si dichiara nella selezione di argomenti che considera non eliminabili ma non c’è una parola sulle sue intenzioni o sul destinatario52. la composizione dell’anonimo costruisce quindi un’opera vagamente definita ma ben circoscritta. la materia raccolta è stata rielaborata in modo da dare un’idea di napoli, con alcune ricorrenze (la continuità della storia, l’unità sostanziale del popolo, la contaminazione delle genti, la ricchezza quasi paesaggistica dei luoghi e dell’urbanistica sacra) che danno coesione al lungo testo, in una forma tutto sommato chiaramente strutturata nell’ordine cronologico dei capitoli e già deterministicamente definita nella rubrica iniziale, e che intende emanciparsi dal paradigma miscellaneo dei florilegi per creare un’opera proiettata verso la contemporaneità53. Sono proprio gli obiettivi del compilatore a dare la forma al testo: CrP I è un tentativo di legittimazione del destino di napoli in base alla sua sto-
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V. la rubrica di esordio o la sezione virgiliana, citate sopra. V. i seguenti contesti: «non è cosa da tacerese et lassarese sub silencio» (§ 32, 199,10-11); «Per niuno modo è da lassare che no se dica la sua proficia» [della Sibilla su Cristo] (§ 38, p. 212,19); «Ma una cosa per utilitate de quilli che no lo sanno non voglio tacere et mecterello in silencio» (§ 43, p. 220,20-21); «non è iusto anche lassare in silencio» (§ 44, p. 221,6); «non è da tacere che» (§ 52, p. 240,12). Sono di grande interesse anche i riferimenti al tempo dello scrivente, attraverso locuzioni del tipo «ogi è chiamato», «per fine al dì d’ogi» ecc. naturalmente, cercando la sensibilità storica dello scrivente, bisogna discriminare tra le innovazioni originali e quanto è già nelle fonti, e, in quest’ultimo caso, tra i richiami che vengono conservati (per es. «per fine a lo dì d’ogi» di § 37, p. 212,3) e quelli che invece potrebbero essere stati eliminati. 51 V. «Anche habe uno altro opinione» (§ 51, p. 239,8). 52 Appare come un cultismo la citazione di un proverbio adattato alla storia locale di epoca romana: «Et secundo la sentencia de quillo volgale et usato proverbio che dice “po’ dampno facto, napolitan macto fa pacto” [...]» (§ 12, p. 177,19-20); d’obbligo il rinvio al Decameron, nella conclusione della novella di Tofano e Ghita (VII 4.30): «E così, a modo del villan matto, dopo danno fé patto»; come si evince dalla banca-dati dell’OVI (‘Opera del Vocabolario Italiano’: www.ovi.cnr.it), il proverbio ha precedenti attestazioni. 53 Sul paradigma miscellaneo della cultura medievale cfr. F. RICO, Entre el códice y el libro (Notas sobre los paradigmos misceláneos y la literatura del siglo XIV), «Romance Philology», 51 (1997-1998), pp. 151-169 (poi in Estudios de literatura y otras cosas, Madrid 2002 [Imago Mundi, 11], pp. 33-54); cfr. anche A. VARVARO, Élaboration des textes et modalités du récit dans la littérature française médiévale, «Romania», 119 (2001), pp. 135-209.
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ria, secondo il modello che Virgilio applicò a Roma54, dettato forse più da finalità politiche che da suggestioni letterarie. Il precoce interesse antiquario induce alla narrazione delle antichità napoletane, col fine di una rappresentazione simbolica della storia della città55. E la scelta del volgare è conforme a questa medietà politica e culturale che spinge alla ricerca storica sulla rinnovata napoli angioina56. la cattiva traduzione dal greco dell’iscrizione sul tempo dei Dioscuri, che rende Tiberio Giulio Tarso «hedificatore» non solo «de lo templo» ma anche «de la cità» di napoli, viene attribuita all’autorità di niccolò di Reggio, «de lo inclito signyore re Roberto fisico greco»57: non vi è manifestazione più chiara dell’interesse che emergenti gruppi sociali avevano per costruire una storia locale in volgare prima ancora 58 di prendere possesso delle necessarie competenze linguistiche e storiche .
54 Cfr. A. VARVARO, «Noi leggiavamo un giorno per diletto»: esperienza letteraria ed esperienza storica nel Medioevo (1993), in Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma 2004, pp. 256-269: 262. 55 Dinamiche simili si hanno a napoli tra XVI e XVII secolo, con la compilazione di “incredibili” genealogie in relazione alle storie delle famiglie nobili: R. BIzzOCChI, Genealogia incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna 2009 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento. Monografie, 52), p. 74. 56 Il «filtro rappresentato dall’esperienza personale» è «l’elemento principale che segna, nell’intero mondo romanzo, il passaggio dalla cronachistica latina a quella in volgare» (cfr. G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, cur. E. MAlATO, Roma 1995, II, pp. 159-210: 167). 57 le citazioni a § 7, alle pp. 171-172; per Tiberio Giulio Tarso fondatore di napoli v. anche § 6, p. 171,6-12; inoltre § 13, p. 179; § 51, p. 238,20-21. Cfr. anche il commento della kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 288-289. 58 Per l’epigrafe in greco sul tempio dei Dioscuri, cfr. F. lEnzO, Architettura e antichità a Napoli dal XV al XVIII secolo. Le colonne del tempio dei Dioscuri e la chiesa di San Paolo Maggiore, Roma 2011 (lemArte, 6), pp. 26-40. Sulla varia lectio dell’iscrizione cfr. A. CAMPAnA, Ciriaco d’Ancona e Lorenzo Valla sull’iscrizione greca del tempio dei Dioscuri a Napoli, «Archeologia Classica», 25-26 (1973-74), pp. 84-102: 86 nota 5; sulle poche oscillazioni nella CrP cfr. l’apparato dell’edizione della kEllY (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 172); sul comportamento atipico del cronista Ferraiolo (sec. XV) quando copia l’iscrizione nel suo libro (v. § 14) cfr. F. MOnTuORI, Immagini di Napoli fra Trecento e Quattrocento, in Il viaggio a Napoli tra letteratura e arti, cur. P. SABBATInO, napoli 2012 (Viaggio d’Europa, 20), pp. 13-37: 22-24. l’uso della rara parola Dioscuri nella traduzione latina della CrP è segno di un calco dal greco dovuto all’incapacità di allontanarsi dalla lezione nella lingua originaria; fu infatti per primo Valla a tradurre parafrasando Castori Pollucique (cfr. h. SOlIn, Sulla tradizione manoscritta dell’iscrizione greca del tempo dei Dioscuri a Napoli, in Mathesis e Mneme. Studi in onore di Marcello Gigante, cur. S. CERASuOlO, 2 voll., napoli 2004 (Pubbl. del Dip. di Fil. Class. ‘F. Arnaldi’ - univ. “Federico II” di napoli), I, pp. 283-296: 286).
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Dall’apparato dell’edizione della kelly e da qualche ulteriore sondaggio fatto a campione, si osserva che la diffrazione del testo nei testimoni è di poco superiore alla normale fenomenologia della trasmissione manoscritta di opere medievali. All’atteso manifestarsi della microvarianza, priva di «sostanziale incidenza sull’andamento della linea narrativa»59, non corrisponde quella mobilità del testo che pure ci saremmo potuti aspettare in una cronaca, per di più frutto di composizione di diversi volgarizzamenti. Ma forse è proprio il forte carattere ideologico e il rigoroso ordine cronologico dato al mosaico di fonti latine a fare della prima parte della CrP non un testo cangiante nei diversi testimoni manoscritti ma un’opera che esige, da parte di chi redige o commissiona la copia, una molto più vincolante adesione programmatica alla forma del testo rispetto ad altri scritti storiografici trecenteschi. 4. La redazione di Cronaca di Partenope IIa, breve cronaca del Regno attestata anche in forma autonoma con il titolo di Breve Informazione nell’edizione del 1526, per effetto di una razionalizzazione editoriale, al primo libro segue il secondo libro, con il passaggio dalla storia del regno svevo a quello angioino60. È la prima volta che questa cesura appare nella tradizione della CrP: in precedenza il testo non aveva soluzione di continuità se non il frazionamento in capitoli. I due libri della stampa di Evangelista Presenzani non corrispondono alle due parti che secondo la storiografia del XIX secolo sono i nuclei originari della composizione della CrP. la prima delle due sezioni identificate da Bartolommeo Capasso termina ben prima della narrazione degli anni angioini: la frattura compositiva, infatti, circoscriverebbe un’asciutta cronaca del Regno, che segue l’ordine cronologico dei re dall’arrivo dei normanni e descrive le dominazioni sveva e angioina fino alla morte di Andrea d’ungheria; il primo capitolo di questa seconda parte, ben coesa e riconoscibile per motivi strutturali, sarebbe un quadro del Regno «primo che fosse unito o de tucto facto uno et intitulato riame» (§ 56, p. 244,1-2). Fino agli studi di Sabatini, questa sezione, “invisibile” nei manoscritti e nelle stampe, è stata considerata la redazione di un testo entrato a forma59 60
A. VARVARO, Il testo letterario cit., p. 419. Il II libro inizia a c. l IIv, in occasione dell’inizio del Regno di Carlo d’Angiò, con il capitolo n. 80 della redazione “b”; il capitolo, per motivi che si diranno in seguito (§ 10), manca nell’edizione della kelly.
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re la CrP, ma originariamente autonomo e attribuibile a un nobile dell’età angioina, Bartolomeo Caracciolo Carafa61. l’identificazione dell’autore è possibile grazie alla testimonianza di un colofone attestato da alcuni testimoni manoscritti62: la sopradicta breve informacione tracta de diverse croniche ve fay a vuy nostro signore re luyse lo vostro fidelissimo vassallo Bartholomeo Caraczulo dicto Carrafa cavaliere de napoli. Deo gracias. Amen. (§ 75, p. 281,11-16)
Il testo, denominato Breve informacione (d’ora in poi BI), è una raccolta di notizie ordinata cronologicamente e dedicata a luigi di Taranto, secondo marito di Giovanna I, una sorta di istruzione compilata da un nobile del Seggio di nido e funzionario della Regia Camera63, la versione storiografica di un racconto che, attraverso il recupero della memoria dinastica, argomenti la legittimità di luigi di Taranto come “principe naturale” del Regno64.
61 Cfr. C. DE FREDE, Bartolomeo Caracciolo, detto Carafa, in Dizionario biografico degli Italiani, 19, Roma 1976, s.v. 62 I testimoni che non hanno il colofone sono quelli che tramandano una versione fortemente interpolata della seconda parte della CrP: i mss. estense e palermitano e le stampe; su tale redazione, contrassegnata dalla kelly con la lettera “b”, e i relativi testimoni v. §§ 2 e 10. 63 nel Trecento il sintagma breve informazione si trova soprattutto nelle lettere ad ambasciatori o ufficiali fiorentini: cfr. TLIO (Tesoro della lingua italiana delle origini), dir. l. lEOnARDI, 1997-, s.v. informazione (www.tlio.ovi.cnr.it); cfr. anche G. REzASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881 (rist. 1996), s.v. informazione, § 3. Ma per un Maestro Razionale come Bartolomeo Caracciolo Carafa varrà piuttosto il rinvio all’acquisizione dell’informazione che la Sommaria, per le funzioni di controllo normalmente esercitate, richiedeva a commissari o altri funzionari regi: v. le locuzioni capere informationem e piglyare informatione frequentemente attestate nei registri Partium in R. DEllE DOnnE, Burocrazia e fisco a Napoli tra XV e XVI secolo. La ‘Camera della Sommaria’ e il ‘Repertorium alphabeticum solutionum fiscalium Regni Siciliae Cisfretanae’, Firenze 2012 (Reti Medievali E-Book, 17), p. 222 e passim. Il punto di vista della ricezione dell’informazione da parte del cronista è espresso da lupo De Spechio nel Proemio alla Summa: «[...] ho avuta bona informacione da homini et ritracto da storie per io compilari et fare questo librecto [...]» (lupo De Spechio, Summa dei re di Napoli e Sicilia e dei re d’Aragona, ed. A.M. COMPAGnA, napoli 1990 [Romanica neapolitana, 26], p. 68). 64 Sulle istruzioni diplomatiche di Roberto d’Angiò, che, in funzione di propaganda anti-imperiale, erano ricche non solo di argomentazioni giuridiche ma anche di esemplificazioni storiche, cfr. A. BARBERO, La propaganda di Roberto d’Angiò re di Napoli (13091343), in Le forme della propaganda politica nel Due e Trecento. Atti del Convegno di Trieste (Trieste, 2-5 marzo 1993), cur. P. CAMMAROSAnO, Rome 1994 (Collection de l’École française de Rome, 201), pp. 111-131: 114-118.
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Il valore di questo colofone risale, secondo Capasso e Sabatini, non su tutta la CrP, ma solo sulla cronaca del Regno (BI): la tradizione della CrP si sarebbe formata, quindi, intorno a questo doppio nucleo dell’anonima I parte e della II parte di Bartolomeo Caracciolo; esse non si distinguono nella tradizione manoscritta perché nell’archetipo oggi ricostruibile erano già state giustapposte da un ricompilatore65. la questione si affronta qui per grandi linee, cercando di evidenziare quali problemi metodologici essa implichi. In particolare si farà qualche riflessione sulle forme che il testo ha assunto nella tradizione manoscritta e a stampa, sulle marche autoriali disseminate nella scrittura, sulla reale possibilità di descrivere e distinguere le procedure di diversi compilatori che raccolgono e modificano più testi per ristrutturarli in un altro più ampio o per destrutturarli in nuove forme66. la cronaca del Regno che si trova all’interno della CrP, corrispondente alla seconda parte identificata dal Capasso (d’ora in poi: CrP IIa), è solo una delle versioni del testo sopravvissute fino a noi67. Tre manoscritti estranei alla tradizione della CrP riportano in redazione autonoma la cronaca del Regno, con il nome di Breve informazione; la versione è molto simile a quella che si presenta nella CrP IIa68. In uno solo
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la kelly, valorizzando dei dubbi sulla teoria di Capasso già espressi dal Monti (La ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 35 e passim), ha rivoluzionato questa ricostruzione, considerando entrambe le prime due parti opera di un solo autore, il nobile Caracciolo Carafa, che era intenzionato a scrivere la storia di napoli e del Regno per luigi di Taranto, avvalendosi di materiali storiografici e di documenti che erano nella sua disponibilità. Al riguardo è significativo che nel ms. Vat. Ottob. 2940 prima del Chronicon Siculum (su cui v. la fine di questo paragrafo) ci sia una sezione documentaria in cui viene conservato il patto tra i napoletani e il duca Sergio, uno dei più importanti documenti della storia della napoli ducale; una rubrica, di altra mano rispetto a quella del copista, informa che il testo fu trovato in casa di Bartolomeo; cfr. B. CAPASSO, Il ‘Pactum’ giurato del duca Sergio ai Napoletani (1030?), «Archivio Storico per le Provincie napoletane», 9 (1884), pp. 319-333: 326. 66 Per questa parte del lavoro ho potuto discutere alcune questioni con Antonio del Castello, che ringrazio anche per informazioni e materiali che ha messo a mia disposizione. 67 la kelly conosce solo in parte questa tradizione e ne afferma la recenziorità: «no manuscript contains chapters 56 [...] to the end alone. [...] later texts that borrowed from the Cronaca borrowed principally from chapters 56 [...] forward, but included information found in an earlier chapter as well, indicating that their source text included both parts» (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 19). l’ultimo argomento si riferisce a un passo del § 40 (p. 215,8-18), su cui v. oltre § 8. 68 Il codice Palatino 951 della Biblioteca nazionale di Firenze (F3); i mss. Vindobonense lat. 71 della Biblioteca nazionale di napoli (n5) e il seriore X C 31 (n4), della stessa biblioteca. la parte storica del manoscritto fiorentino è scritto da un tale loise Petazza: su di lui, copista/possessore del codice, cfr. I ricettari del fondo Palatino della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Inventario cur. G. POMARO [...], Firenze-Milano
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di questi tre codici, il Pal. 951, il testo è introdotto da una premessa con titolo e rivendicazione dell’autore: Brevis conpilacio fata per me Bartolomeus Characzulum dittum Charafam, milite de neapoli, extratta de diversis coronicis scritta per vulgarj de mandato dominj dominj Regis ludovicj (Pal. 951, c. 106v).
la rubrica ha un’autorità incerta: potrebbe essere la prova della autonomia compositiva del testo del Caracciolo e quindi, secondo l’ipotesi di Capasso e Sabatini, della precedenza di questa redazione rispetto a quella entrata nella CrP. Ma la rubrica potrebbe essere anche l’“invenzione” di un copista che, al momento dell’estrazione della Breve Informazione dalla CrP, incornicia il testo reduplicando il colofone finale con un elemento paratestuale iniziale, assecondando così l’ipotesi che sostiene la primogenitura di CrP rispetto a BI. Sarà necessario un approfondimento codicologico sul manoscritto e sul copista di questa sezione, loise Petazza69, dal momento che la rubrica, che, ribadisco, è attestata solo in questo esemplare, non è una semplice riproduzione del colofone, ma contiene notizie nuove: parla di una compilacio, e non di un’informacione, che è stata commissionata (de mandato) dal re e non semplicemente a lui offerta (ve fay ‘fa a voi’). È impossibile dire, al momento, se si tratta di innovazione o conservazione, anche se è opportuno ribadire che non vi sono elementi sospetti o controversi su questo elemento paratestuale, così che sarebbe oneroso, allo stato delle conoscenze, sminuirne il valore testimoniale. Il manoscritto Vindobonense 71 della Biblioteca nazionale di napoli contiene un testo della BI molto simile a quello del Palatino: le differenze più sensibili sono all’inizio e alla fine della cronaca; alcune lacune accertano che i testimoni sono indipendenti l’uno dall’altro70. nel Vindobonense
1991 (Inventari e cataloghi toscani, 35), pp. 45-49 e p. 226; sulla sua lingua cfr. l. PETRuCCI, Il volgare a Napoli in età angioina, in Lingue e culture dell’Italia meridionale. 1200-1600, cur. P. TROVATO, con una bibliografia delle edizioni di testi meridionali antichi (1860-1914), cur. l.M. GOnEllI, Roma 1993 (I volgari d’Italia, 6), pp. 27-72. Sui codici napoletani danno notizie incomplete o errate CAPASSO, Storiografia cit., p. 134 nota 3 e kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 123-124. 69 Questa è la forma del colofone finale di mano del Petazza: «la sopreditta breve informacione tratta de divercze | cronace ve fay nostro signore re loyse lo vostro fidele vassallo Bartomeo Caraczolo ditto Carrafa, cavaliere | de napole, et in lo resto apreso fine a lo sopre ditto tempo dove trovate scritto da la sopre scritta mano, eo loyse Petacza de napole so’ andato informandome da antiche omene et aio sequito fine a lo sotto scritto comme vuy vedite». 70 Per la documentazione di quanto asserito, rinvio ad altra sede.
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il testo (cc. 77r-85v) è privo della rubrica iniziale e del colofone finale, e quindi risulta adespoto; una seconda mano ha copiato nei margini annotazioni all’inizio e alla fine del testo, reintroducendo il nome del Caracciolo: [c. 77r] Chron. de Bartommeo Caraczulo [c. 85v] un’altro [sic] scritto antico segue e finisce così: «la quale èy mogliere de nostro Singnore re luyse. la sopraditta breve informacione èy tracta da diverse croniche, la quale fa ad vuy singnore nostro Re luyse lo vostro fidele vaxallo Bartolomeo Caraczulo dicto Carafa, cavalieri di napoli71.
un solo manoscritto della tradizione della CrP, il Vat. lat. 4601, interrompe la scrittura del testo subito dopo l’inizio della seconda parte e ricomincia la copia alla carta successiva, seguendo una redazione più vicina a BI che non a CrP IIa72. Altre “forme” dello stesso testo, con un maggior numero di dettagli nel contenuto e con profonde differenze linguistiche sono all’inizio del Chronicon Siculum incerti auctoris (d’ora in poi: CS) e nel terzo libro della Cronaca di Fuscolillo, canonico di Sessa Aurunca (d’ora in poi: FU)73. Esiste, inoltre, un succinto Sommario latino (d’ora in poi SL), tràdito all’inizio della compilazione cinquecentesca dello stesso Gasparro Fuscolillo74: esso ha il medesimo esordio della redazione autonoma della BI e termina con una lacuna dopo il cenno alla morte di re Carlo I e alla rivolta del Vespro:
71 Sembra un suo derivato descriptus seicentesco il ms. X C 31 della Biblioteca nazionale di napoli, che riproduce fedelmente le caratteristiche specifiche del Vindobonense, tra cui le due aggiunte marginali. la kelly, che conosce solo parzialmente la tradizione di BI, considera questo manoscritto latore di una redazione intermedia tra CrP e Chronicon Siculum (v. oltre): cfr. S. kEllY, Medieval Influence in Early Modern Neapolitan Historiography: The Fortunes of the Cronaca di Partenope, 1350-1680, «Californian Italian Studies» 3/1 (2012), p. 6 (http://escholarship.org/uc/item/2sg144x3). 72 In particolare, il testo tradito dal ms. vaticano è molto vicino a quello del Vind. 71. la kelly pubblica il testo in appendice (II, pp. 333-40) perché ne percepisce la lontananza da CrP IIa e IIb, ma non la vicinanza a BI. 73 Editi in Cronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396 in forma diary [...], ed. G. DE BlASIIS, napoli 1887 (ms. Ottob. 2940, della fine del sec. XIV), pp. 1-7, e in Gasparro Fuscolillo, Croniche, ed. n. CIAMPAGlIA, Arce (FR) 2008 (Testis temporum, 4) (ms. XXVIII D 10 della Società napoletana di Storia Patria), a III 1-26 (pp. 47-55). Ma questa tradizione è molto più ampia e ha fortuna anche in età aragonese: cfr. per es. A.M. COMPAGnA, Intercanvis historiogràfics entre Itàlia i els Països Catalans: continuïtat i innovació de l’edat mitjana a l’edat moderna, «Recerques», 40 (2000), pp. 41-58. 74 Edito in Fuscolillo, Croniche cit., pp. 3-6.
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Rex Carolus vixit in dominio annis 19 et mensibus 6 et mortuus est apud Fogia civitatem Apulee et sepultus in Mayoriii ecclesia napolitana; quo tempore rebellata est insula Sicilie et dedit se donno Petro regi Magome [...]75.
5. La Breve Informazione precede Cronaca di Partenope IIa la cronaca del Regno, insomma, ha un ricco testimoniale di redazioni in volgare e in latino, il cui assetto testuale e paratestuale è molto mobile, ma rimane sempre vincolato al processo narrativo, rigorosamente dinastico e cronologico, della successione delle famiglie regnanti dagli stati pre-normanni al 1345. non è facile identificare criteri (interni o esterni) utili per identificare la redazione più antica. Spesso il SL presenta le notizie in modo disordinato; in BI e CrP IIa, oltre a un maggior numero di informazioni, si osserva anche un più ragionevole ordinamento di tali notizie. Ma ciò non è sufficiente a provare l’anteriorità di SL rispetto alle altre redazioni: il disordine della successione degli eventi raccontati può essere una riformulazione rispondente alle esigenze di sintesi dell’anonimo compilatore o del suo committente; e la presenza di una fonte comune (il Chronicon di Romualdo di Guarna) lascia trasparire la forma di un testo che sembra essersi formato non con procedure progressivamente additive ma per excerpta variamente organizzati76. CrP IIa viene datata tra il 1348 e il 135077. la prima data è originata dal momento in cui il nome di luigi di Taranto appare al fianco di quello di
75 Il passo corrisponde al testo della BI nel Pal. 951, cc. 109r-v: «[...] e vise inde la segnoria any 19 e fo morto ad Foia, cetate de Puglia, e foy sepellito inde la maiore ecclesia de napole [...]. A lo tempo de lo sopraditto Re Carlo la insola de Cicilia se rebellao e | chiamao signore lo Re Petre de Ragona»; e, senza sensibili variazioni, a quello della CrP IIa ai §§ 67 e 70, pp. 264 e 270. 76 Per esempio, nella vita di Ruggero II, re di Sicilia Puglia e Calabria morto nel 1154, BI, CS, CrP IIa e FU parlano, nell’ordine, della successione del re [1], della sua battaglia contro il papa Anacleto nella Campania settentrionale e della relativa pacificazione [2], della sua morte e sepoltura [3], del suo profilo morale [4] e dell’annessione di napoli al Regno [5]. Tranne che per l’ultima notizia, enfatizzata in conclusione, l’ordine è quello che si trova in Romualdo (Romualdi Salernitani Chronicon, ed. C.A. Garufi, Città di CastelloBologna 1935 [R.I.S.2, VII/1] e in Romualdo II Guarna, Chronicon, ed. C. BOnETTI, Cava de’ Tirreni 2001 [Schola salernitana. Studi e testi, 6], pp. 129, 149, 165, 165, 149). In SL, invece, si trova la sequenza 1,3,5,2 con l’assenza di 4. Bartolommeo Capasso (Storiografia cit., p. 134) considerava SL fonte di BI; tuttavia è opportuno notare che una parte delle notizie attestate in BI e derivanti da Romualdo di Guarna è presente anche in SL. 77 Ovviamente tale forbice per la kelly vale per tutta la CrP (I e II).
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Giovanna nei documenti del regno. Invece, il termine ante quem è dovuto a un passo in cui si parla della prima figlia di Carlo II d’Angiò, la quale fo moglyere de messere Carlo, lo patre de re Philippo de Francza che ène mo78.
In base all’annotazione che ène mo, forse nata in forma di postilla, il testo, così come appare in parte della tradizione di CrP IIa79, va datato entro il 1350, anno in cui morì Filippo VI di Francia. I testimoni della redazione autonoma della cronaca del Regno (Vindob. 91, Pal. 951), il Vat. lat. 4601 e il ms. Ottobon. 2940 (= CS) non riportano la frase attualizzante. Il solo Fuscolillo trascrive «che era muto», mostrando in modo positivo che nel suo antecedente (e quindi nella tradizione della BI) l’annotazione c’era, anche se ormai deteriorata perché priva di significato80. Perciò la presenza della postilla non può essere considerato un indizio di anteriorità della “forma” CrP IIa rispetto alle altre: la frase relativa, infatti, è un ancoramento all’attualità che è perfettamente compatibile con l’autorialità di Bartolomeo Caracciolo, e quindi può essere un elemento originale del testo81; esso sopravvive in codici di BI e di CrP IIa e perciò la sua sopravvivenza non può essere interpretata come marchio della redazione più antica: finito il regno di Filippo, la caduta della frase relativa in molti testimoni si spiega con il poligenetico desiderio di eliminare un’attualizzazione non più pertinente. la conservazione di una lezione originaria ha una rilevanza parziale nella ricostruzione dei rapporti genetici tra le redazioni82, dal momento che la sua assenza può essere innovazione singolare che ogni copista può introdurre indipendentemente dalla lezione del suo antigrafo; né la redazione che conserva un tratto originale può vantare la primogenitura rispetto alle altre che hanno eliminato il riferimento non più attuale: gli esemplari che conservano l’annotazione dimostrano solo l’inerzia nell’attività di copia di una parte dei testimoni. 78 79
kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., § 72, p. 272. Secondo l’apparato della kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., ad l., solo tre mss., M1 (Pierpont Morgan library, M 973), GC (Archivio di Stato di napoli, Fondo Giudice Caracciolo di Cellamare 38) e P1 (Bibliothèque nat. de France, it. 304), hanno la specificazione. 80 V. III 24, p. 53. Si tratta di un chiaro errore di natura paleografica e linguistica: ène infatti è forma paragogica che «risulta particolarmente rara oltre il Quattrocento» (lEDGEwAY, Grammatica cit., p. 382). 81 Della medesima opinione è anche kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 15. 82 Per es. Fuscolillo deve dipendere da una redazione che conservava la frase relativa e deve essere indipendente da tutte le redazioni che non lo conservavano.
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È quindi possibile che la forbice 1348-1350 sia significativa per la data di composizione del testo della sola BI, da cui CrP IIa potrebbe aver ereditato le notizie cronologicamente vincolanti. 6. Verso la forma più antica della Cronaca di Partenope: sutura di CrP I e CrP IIa Invece, c’è un indicatore testuale che segna l’inizio della II parte solo nella CrP e in nessun altro dei testi “paralleli” e sembra marcarne l’esordio come una sutura che serve per integrare un’aggiunta. Prescindendo dagli elementi paratestuali, in CS il capitolo inizia con un attacco annalistico, che introduce la miracolosa guarigione di Costantino ad opera di papa Silvestro83. In BI e in FU l’esordio ha una struttura espositiva la cui coesione è affidata agli avverbi primamente e appresso, segnali posti per introdurre la breve narrazione su napoli e il principio della serie elencativa delle terre del Regno: «Primamente la cità de napuli era socto lo dominio de li imperatori de Constantinopoli [...]. Appresso la cità de Sorrento con tucto suo destricto haveva un signore che se intitulava [...]»84. Tenendo conto delle parti paratestuali, il testo in BI e in SL è preceduto da una temporale prolettica cui è delegata la funzione di circoscrivere il tempo e il luogo della narrazione e di introdurre il testo con un preannuncio: SL: Antequam regnium Sicilie esset integratum et vintum, erant diversi domini qui domminabantur diversis provinciis, prout infra scribitur. Civitas napulitana erat sub domino imperatore Constantinopolitano seu imparatorem Constantinum [...] BI: – Pal. Avante che lo Riame de Sicilia fosse unito, erano diversi signori che signoriavano diverse provincie sì como appresso si descriverà. 83 «Anno Domini CCCXl Salvator noster ad preces sancti Silvestri liberavit Imperatorem Constantinum ab infermitate lebre». Il tema dei primi righi è il medesimo sviluppato in CrP I 40, p. 215,14 ss., secondo il testo del CSMP (cfr. luChERInI, Il chronicon cit., pp. 526-527): v. oltre, § 8. 84 ho citato la lezione del testo di Fuscolillo; per BI, i mss. Pal. e Vind. hanno i due avverbi (e quest’ultimo cerca anche di garantire la continuità del topic: «Appresso se reservao la cità de Surrento»); il Vat. lat. 4601 invece ha solo Primo et principale e non ha appresso; anche CrP IIa ha solo Et primo: infatti, mancando in questi testimoni il racconto di napoli città eletta da Costantino a sua residenza in occasione delle visite in occidente, appare solo un mero elenco di località con i relativi signori; perciò non è necessaria la gerarchizzazione delle informazioni strutturata su Primamente ... appresso: nell’esordio dell’elenco delle terre del Regno, inclusa napoli, è sufficiente un solo introduttore. SL non ha nessuno dei due avverbi.
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Primamente la citate de napole era sotto lo dominio de lo inperatore [de] Costantinopoli [...] – Vindob. Avante che lo Reame de Sicilia fosse unito, erano in ipso diversi singnuri che singnuriavano diversi provincie como appresso ve scrivo. Primamente la citate de napoli era socto lo jnperio [...] – Vat. Prima che lo regno di Scicilia fosse stato unito, era diviso in multi parti et in multi dominii pro ut inferius audietur. Primo et principale la cità de napoli era socto lo imperio de Constantinopoli.
In CrP IIa l’esordio del testo è strutturato in modo diverso85: Poy de questo è da sapere che lo riame de Cicilia, primo che fosse unito o de tucto facto uno et intitulato riame, erano diversi dominii et signyuri. Et primo lo inperatore Costantino era signyore de la cità de napoli. In Terra de lavore era lo principe de Capua [...].
la materia del capitolo è introdotta dalla locuzione «Poy de questo è da sapere che», presente solo in CrP IIa. Secondo quanto emerge dalla documentazione disponibile, la locuzione ha una chiara funzione additiva86, dal momento che, soprattutto nel medioevo, era usata nella trattatistica universitaria, nell’esegesi e anche nell’agiografia e nella storiografia, per marcare le aggiunte o le glosse87.
85 In parte della tradizione appare anche una rubrica, chiaramente dedotta dal testo (§ 56, p. 243,21-22): «Qui se narra in che forma stava lo riame de Cicilia innante che fosse intitolato riame». 86 Per kEllY (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 16), invece, la locuzione è una semplice formula di esordio che non marca una sutura fra testi. 87 Tali locuzioni sono state definite “indicatori di dialogo”: cfr. R. lIBRAnDI, La lingua di Boccaccio esegeta di Dante, in Boccaccio editore e interprete di Dante. Atti del Convegno internazionale (Roma, 28-30 ottobre 2013), cur. l. AzzETTA - A. MAzzuCChI, Roma 2014 (Centro Pio Rajna. Studi e saggi, 22), pp. 349-368: 362-363. Sull’uso dantesco nel Convivio cfr. da ultimo G. FIORAVAnTI, La prima trattazione “sottile” della nobiltà. Convivio, trattato quarto, «Rivista di filosofia neo-scolastica», 1 (2013), pp. 97-104, che, tenuto conto anche delle «espressioni proprie del linguaggio specializzato della cultura universitaria» presenti nel IV libro del Convivio, pensa a una discorsività propria del magister universitario, e al proposito cita anche la formula attestata nella CrP: «impressionante frequenza di espressioni come “è da sapere che, è da vedere che, è da notare che” (“est sciendum, est videndum, est notandum quod”)». la funzione additiva della formula è frequentissima: per es. uno dei passi di Dino Compagni citati dall’Anonimo fiorentino nel suo commento dantesco inizia proprio con «Egli è da sapere che» (Dino Compagni, Cronica, cur. D. CAPPI, Roma 2000, p. 378). nel corpus storiografico napoletano la formula si trova anche in capitoli della seconda redazione (CrP IIb, § 74, p. 243,11-17) e soprattutto nell’aggiunta non villaniana in IIb a § 69, p. 256,5-6 (poi anche in IIIA e IIIB: v. oltre § 11 e MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 43).
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Tra CrP I e IIa appare quindi un segno di sutura, marchio di un’attività di composizione: la circostanza rafforza l’ipotesi tradizionale che la cronaca sia nata per l’addizione dei due ipotesti BI e CrP I per formare la CrP. Altri indizi interni consolidano la plausibilità di questa teoria. 7. L’autonomia compositiva della Cronaca di Partenope I Mancano prove dirette di una forma autonoma di CrP I; però ci sono molte caratteristiche separative tra CrP IIa e I circa gli obiettivi compositivi, i caratteri ideologici, le inclinazioni culturali, i marchi della mentalità, i tratti linguistici: essi non sono compatibili con la scrittura di una mano sola e solo in parte sono da considerare emergenze degli ipotesti, non omologate da un compositore88. CrP I e IIa contengono diverse oscillazioni ideologiche, talvolta contraddittorie, che la kelly attribuisce all’incertezza della vita politica napoletana del Trecento89; tuttavia non un autore impegnato in un lavoro intellettuale di rilevanza strategica per sé e per il suo gruppo, ma solo un frettoloso compilatore può abbracciare diversi atteggiamenti politici nello stesso testo. Certamente le due parti valorizzano due memorie diverse: la prima, come recita la rubrica iniziale, guarda soprattutto a napoli in una logica cittadina, la seconda fa la storia del Regno in una prospettiva sostanzialmente dinastica. la CrP IIa è una delle forme che ha assunto la schedatura cronologica dei sovrani del Regno: abbandonata la prospettiva etnica, tipica della storiografia meridionale ancora all’inizio del XII secolo, nella CrP si parte dai normanni90 e si arriva fino al Regno di Sicilia. In alternativa si trovano altre forme, come quelle di natura elencativa o quelle che, in ottica universalistica, operano per giustapposizione di diversi testi, formando in età angioina e aragonese raccolte occasionali, dipendenti dalle volontà di committente ed esecutore91; o ancora altre che, con prospettive più moderne, par88 kEllY (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 18-19) non nega l’esistenza di tali caratteri, ma sostiene che non sono tratti che possano negare l’attribuzione del testo a un solo autore. 89 Ibid., p. 49. 90 Cfr. J. MARInO, Constructing the Past of Early Modern Naples, in A Companion to Early Modern Naples, cur. T. ASTARITA, leiden-Boston 2013 (Brills Companion to european history, 2), pp. 11-34: 12. 91 V. per es. la celebre raccolta di volgarizzamenti in francese di cinque opere storiografiche nel ms. fr. 688 della Bibliothèque nationale de France (su cui da ultimi cfr. A.
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tono dalla “fondazione” sveva, come fece Di Costanzo nel XVI secolo. Si tratta, insomma, di varie rielaborazioni in annotazioni cronologiche del materiale che preesisteva, in modo da costruire una sequenza continua di eventi significativi in uno spazio identificato dall’istituzione monarchica. nella CrP I, invece, l’idea di una selezione di materiali per ricostruire la storia antica di napoli è un processo retrospettivo che opera attraverso l’aggregazione di testi; viene così prodotta una raccolta di eventi discreti, ma raccontati in un’opera narrativa cui è imposta una ben riconoscibile forma storiografica, mescolanza di storia e favola, dove eroi pagani e martiri cristiani danno vita alla descrizione di napoli e rendono oggettiva la sua storia. Come si è visto nel § 3, la procedura di compilazione è sempre coerente con il piano originario e asseconda l’impostazione narrativa e le scelte linguistiche e stilistiche del redattore. Perciò, tranne che per pochi frangimenti che si irradiano nella tradizione manoscritta, la struttura della prima parte è coesa e stabile, mentre la seconda parte ha una mobilità testuale così pronunciata da implicare una trasmissione più vivace, dove la copia era ogni volta tendenzialmente una riformulazione92. Questo carattere mobile della cronaca del Regno si deve a processi di adeguamento del testo a diverse comunità di lettori interessati alla storia delle monarchie dell’Italia meridionale, e perciò si manifesta sia quando è in una redazione indipendente, sia quando è dentro la CrP. 8. Un ricompositore giustappone la Cronaca di Partenope I e IIa: la forma più antica della raccolta Si fornisce, quindi, qualche indizio che faccia ritenere come plausibile l’esistenza di un ricompositore che abbia deciso di giustapporre in una raccolta di gran successo le due sezioni della CrP, formando così un tipo testuale che coincide con l’archetipo di tutta la tradizione della cronaca, nelle varie forme in cui ci è giunta. Sia per CrP I sia per IIa vi sono indizi di autonoma composizione; non è però provata la presenza attiva di un ricompositore che abbia unito CrP
IMPROTA - A. zInEllI, Frammenti di una nuova Bibbia napoletana, con alcune riflessioni sul ms. fr. 688 della Bibliothèque Nationale de France, in Boccaccio e Napoli cit., pp. 81-106); o quella del ms. 801 della Pierpont Morgan library, su cui v. § 14; o molti degli stessi manoscritti in cui è conservata la CrP (cfr. kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 148; DE CAPRIO, La storiografia angioina cit., p. 431). 92 Cfr. MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit., rispettivamente pp. 64-67 e 68-69.
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e IIa: ognuna delle circostanze discusse sopra, infatti, presa singolarmente, potrebbe essere attribuita a un compositore molto frettoloso che subisce, senza modificarli, i caratteri specifici degli ipotesti. Ora invece, seguendo la pista proposta dal «Poy de questo è da sapere che» che si trova all’inizio di IIa, si dà conto di altri elementi che possono far pensare alla mano di un ricompositore che ha unito CrP I e IIa. Potrebbe risalire al momento della formazione della raccolta, e quindi essere entrata nell’archetipo, una variante presente nella CrP IIa, ma assente in tutte le forme di BI: I
BI: «[Roberto il Guiscardo] la citate de napole no· pote may aquistare inperrò che era forte de sito e de cavallaria» (ms. Palat. 951, c. 107r); «la citate de napoli non potte may acquistare po’ che era forte de sito et de cavallaria» (ms. Vindob. 71, c. 78v)93. CrP IIa: «Et da poy per comandamento de la ecclesia tucto lo riame subiugò excepto la nobile cità de napoli, la quale non pocte may subiugare per lo grande valore de li citadini li quali verilemente resistero» (§ 57, p. 245,15-17)
Mentre la BI, conformemente a quanto asseriva Romualdo di Guarna94, attribuisce alle difese naturali di napoli e alla milizia nobiliare la resistenza al Guiscardo, invece tutti i manoscritti di CrP IIa lodano la virile difesa compiuta dai cittadini, mostrando una sensibilità politica che è tipica della prima parte della CrP e non è attesa nella prospettiva del nobile di nido Bartolomeo Caracciolo Carafa95; che sia stato proprio lui a comporre la raccolta, denominandola Breve informazione e dedicandola a luigi di Taranto è, quindi, del tutto improbabile.
93 Il ms. Vat. lat. 4601 è lacunoso: «la cità de napoli non may» (c. 20r, col. a); Fuscolillo ha sostanzialmente la stessa lezione: «et la cità de napuli non pocte mai acquistare perché è forte de sito, mura et de cavallaria» (III 10). 94 V. la vita di Ruggero II in Garufi, Chronicon cit., p. 221, r. 5 e Romualdo II Guarna, Chronicon cit., p. 141: non espugnò napoli «quia civitas illa partim situ loci partim militia munita erat». 95 Con citadini e napolitani in CrP I si denomina una parte di grande rilievo nelle cronache della città, un vero personaggio della storia; in un solo altro caso, invece, la parola citadini appare in CrP IIa, insieme ai conti e ai baroni del Regno: «Et perdonao ad tucti lo conti, baruni, et citadini che erano scaczati de lo riame per lo re Guilielmo suo patre» (p. 253, § 63a,33); la fonte, Romualdo di Guarna (Garufi, Chronicon cit., p. 221, r. 5) non ha il tricolo, che è un’innovazione presente in BI nel solo ms. Pal. 951, in CS e in Fuscolillo, e assente nei mss. Vat.lat. 4601 e Vindob. 71, che hanno solo conti e baroni.
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Inoltre, come si è visto, SL, CS e BI esordiscono affermando che napoli restò fuori della donazione di Costantino e rimase «camera de imperio», riservata per i soggiorni occidentali dell’imperatore. Questa annotazione, presente già in CrP I § 40 (p. 215, 9-20) per eredità dal CSMP96, manca in CrP IIa; anzi, mentre le altre redazioni esordiscono avendo a tema «la citate de napole», conformemente all’esposizione geografica dello stato dell’Italia meridionale prima di diventare Regno, invece in CrP IIa proprio l’esordio è marcato presentando al primo posto l’imperatore: «Et primo lo imperatore Costantino era signyore de la cità de napoli»; è chiara la distanza rispetto alle altre redazioni della cronaca del Regno e l’omologazione con CrP I § 40, capitolo che ha Costantino come topic97. Sembra che il ricompositore della CrP sia intervenuto nell’esordio della seconda parte, eliminando un tema già affrontato in precedenza in CrP I e riformulando il testo con un’innovazione che, per questo motivo, è assente dalle altre redazioni98. In interventi di questo tipo si può osservare la mano del ricompilatore, di colui che unì CrP I e IIa per formare una raccolta storiografica. In terzo luogo, accertata la circolazione autonoma di BI, non esistono invece testimoni di una tradizione autonoma di CrP I, della cui esistenza, tuttavia, si può indicare un (timido) indizio, pur nel silenzio dei codici99. Infatti solo la I parte (e non la II) ha una lunga serie di glosse100, attestate in tutta la tradizione101 e che quindi dovevano già essere nell’archetipo della CrP, dove le due parti appaiono giustapposte. le glosse, soprattutto quelle del tipo ovvero, di gran lunga le più numerose, non sembrano effetto di un intento esegetico attribuibile al volgarizzatore ma sono glosse di tipo “espositivo”, nel senso tecnico del termine: sono disomogenee, sono per lo più di tipo lessicale, ma non intendono “aprire” il termine glossato, quan-
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Cfr. luChERInI, Il chronicon cit., pp. 526-27. la rubrica, infatti, è: «Como lo inperatore Costantino dotò la ecclesia de Roma» (p. 214,17). 98 Altra l’opinione della kelly (The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 91-93), che ritiene l’annotazione come un’integrazione operata dalle redazioni BI e CS, in base a CrP I 40, mentre utilizzavano CrP IIa. 99 kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 19, la nega recisamente, dato che «no manuscript contains chapters 1-55 [...] alone». 100 l’elenco delle glosse, formato sul testo fornito dalla kelly, è in Appendice 1. Escludo dall’elenco le dittologie con et, che, sebbene abbiano funzione spesso simile alle glosse, hanno origine diversa. 101 naturalmente non manca una certa instabilità nei manoscritti: ma si tratta di oscillazioni attese nella trasmissione delle glosse, che entrano ed escono dai testi. Cfr. M.D. REEVE, Misunderstanding Marginalia, in Manuscripts and Methods: Essays on Editing and Transmission, Roma 2011, pp. 135-144. nell’Appendice 1 sono segnalate anche le varianti.
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to, piuttosto, proporne un sostituto di registro o di area geografica; sembrano cioè stratificazioni di letture102. Quindi, siccome le glosse sono solo in CrP I e sono nell’archetipo, potrebbero essersi formate nella tradizione della prima parte prima della formazione dell’archetipo, e costituire così un indizio, tenue ma non fragile, che vi sia stata una tradizione di CrP I autonoma rispetto a CrP II. 9. L’archetipo della Cronaca di Partenope, testo “disposto” all’ampliamento l’esistenza di un archetipo comune a tutta la tradizione è provabile per alcuni errori comuni. Per esempio: arbori ‘alberi’ (§ 22, p. 183,5) è solo in una1 varia2 lectio che, V, che presumibilmente sana per congettura103, contro 1 1 secondo l’apparato della kelly, vede «lavori Pl, M , F, n , Sn , lanari P , lauri E, illeg. GC». Anche un errore nella prima rubrica del testo, attestato da tutta la tradizione e sanato per congettura solo nella stampa del 1526, lascia supporre l’esistenza dell’archetipo comune. Si tratta di un errore testuale, perché vìola la corretta gerarchizzazione delle informazioni nel paratesto della CrP, dal momento che la parte conclusiva della rubrica del primo capitolo è “scivolata” nel testo e lì si presenta in tutta la tradizione: De la cità de napoli la quale inter l’altre citate de lo mundo per multitudene de cavaliere et di lloro dilecti et ponpose ricchicze avea acquistata fama grandissima le quale cose se innarrano tucte in diversi volume de libre sicché in queste presente croniche tucte so’ conposte. [1] Et primo de la sua origene et principio et de la jnposicione de lo nomo. Inne lo tempo de Solone philosopho de Athene [...] (§ 1, p. 165)104.
102 le stratificazioni di letture possono manifestarsi anche in porzioni di testo attestate solo in una parte della tradizione manoscritta, segno di integrazioni operate da lettori e incorporate nel testo: un caso trasparente è § 48, p. 231,9-17 (v. oltre § 9). 103 Il copista di V ha una personalità che ben spiega la capacità di restaurare il termine arbori in un sintagma «arbori et fructi» e in un capitolo dove gli arbori sono argomento principale e sono stati nominati già altre due volte. Ma si noti che anche il ms. 991 della Biblioteca de Catalunya di Barcellona, sconosciuto alla kelly, ha arbori (c. 7r, col.b). 104 la stampa del 1526 (c. AII) aveva sanato il passo, presumibilmente per congettura. Infatti, la rubrica, secondo la lezione e la paragrafatura che si trova nella stampa quattrocentesca attribuita a Del Tuppo, è divisa in tre capoversi; nell’ultimo si legge: «Come li homini gentili de la insula de Euboya de la cità | de Calcidia venero a la insula de Procida chiamata Pythe|gusa et edificaro Cuma. Et primo de la sua origine et principio et de la impositione del
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D’altro lato, come è evidente, la rubrica posta all’inizio del testo si riferisce alla sola «cità de napoli», cioè alla sola prima parte della CrP, senza fare nessun riferimento alla storia del Regno, come accade invece nelle stampe, che trasmettono la seconda redazione del testo (v. § 12)105. la configurazione dell’archetipo si osserva anche in altri ingredienti. nell’archetipo doveva esserci solo la rubrica iniziale e poche altre (quella della Sibilla, per esempio, § 39); la II parte ne è del tutto priva, tranne che per i primi due paragrafi (§§ 56 e 57), quasi a segnare un lavoro di coordinamento subito interrotto. Ciò significa che la CrP aveva in origine un paratesto estremamente povero e che le altre rubriche si sono stratificate con il tempo. Esse, quando presenti e comuni, possono costituire un’utile guida per ipotizzare i rapporti genetici tra i manoscritti; altre volte, invece, quando un esemplare si differenzia dagli altri per innovazione singolare, si osserva l’adesione a gusti idiosincratici, come quelli spiccatamente letterari che appaiono nel codice M 973 nell’uso di dimostrare nel senso di ‘raccontare’, vero tecnicismo della novellistica106. Inoltre, solo nella prima parte della cronaca appare l’enunciatore principale, che invece in CrP IIa è sempre nascosto. I rinvii a fonti latine e mediolatine, che, con spiccata funzione intertestuale, sono in CrP I (v. § 3), possono essere attribuiti al redattore. Invece si deve alla mano del compilatore della forma della cronaca presente nell’archetipo l’introduzione di segnali metadiscorsivi che, attraverso le consuete formule in frasi modali, mira a costituire la coesione interna della cronaca attraverso rinvii o vere e proprie suture107.
nome. Capitulo primo. || [inizia il cap. I] Inne ’l tempo che Solon | philosopho de Athene [...]». la kelly non accoglie l’emendamento della stampa cinquecentesca. 105 È possibile ma allo stato non provabile che la seconda parte della rubrica (da le quale cose fino a so’ conposte), con il rinvio alla raccolta di più fonti, sia una forma di inclusione del colofone della BI, e in particolare del cenno alla compilazione di estratti da diverse croniche («tracta de diverse croniche»). 106 V. § 33, p. 201,6-7 e l’apparato. Cfr. F. ROMAnInI, Forme brevi della prosa letteraria, in Storia dell’italiano scritto. II. Prosa letteraria, cur. G. AnTOnEllI - M. MOTOlESE - l. TOMASIn, Roma 2014, pp. 203-254: 204. 107 Sugli usi discorsivi metatestuali delle frasi modali, con rinvio deittico generico, cfr. Grammatica dell’italiano antico cit., XXVII 7.3, pp. 1113-115. In genere, i rinvii a quanto detto in precedenza sono frasi del tipo «come è dicto de sopra», poste alla fine del periodo. Eccezionale, quindi, è il caso a § 43, p. 219,6 «[...] quella vecchyarella sancta Candida, che qua adietro parlato avimo [...]». Inusuale anche il rinvio interno allo stesso capitolo («como in quisto capitulo è dicto»: § 48 p. 231,9), in una porzione di testo che, poiché tratta il capitolo come un’altra unità testuale e poiché è solo nella redazione “a”, forse è un’aggiunta posteriore che è anche uno dei segni di archetipo in movimento.
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In CrP I si trovano anche dei riferimenti a temi svolti nella II parte: de lo quale re Carlo innansi farrimo mencione pyù chyaramente (§ 14, p. 180,20; il riferimento è ai §§ 66-70). Inne lo tempo de Rogiere re de Cicilia, de lo quale innanci farrimo mencione sequendo nostra materia (§ 32, p. 199,12; il riferimento è ai §§ 6061)108.
Rispetto ai rinvii all’indietro, i due preannunci non hanno particolari specificità testuali né lessicali, come mostra la ricorrenza di fare mencione anche in un rinvio a un capitolo precedente: «uno magnyo et forte castello lu quale ogi è chyamato lo Castello dell’Ovo, de lo quale adereto è facta mencione» (§ 48, p. 228,18; v. § 30, pp. 197-198). I rinvii deittici all’indietro e in avanti sono presenti in tutta la tradizione, e quindi erano già nell’archetipo. Essi sono perciò imputabili all’autore della raccolta109 e hanno lo scopo di rendere il testo coeso nel suo complesso. nell’archetipo, la CrP si struttura in una narrazione storica che istruisce un dialogo con il lettore, invitandolo a percorrere il testo come una raccolta di forme brevi e quindi a suggerire una fruizione globale e, all’occasione, non lineare della storia raccontata. È un’operazione storiografica che attraverso i rinvii interni ristruttura l’assetto del testo e i modi della sua fruizione, intrecciando procedimenti appartenenti a diversi generi: non altera la sequenza rigidamente cronologica ma crea dei punti di discontinuità; non indulge all’aneddotica moraleggiante di valore universale ma si lega sempre più alla memoria dei luoghi; non asseconda la lettura lineare del racconto ma moltiplica i piani della narrazione e quindi indebolisce la coesione del testo, spingendo il lettore verso le urgenze degli eventi del suo tempo. In CrP IIa questi rinvii mancano del tutto, e il segnale è importante. una serie di indizi analizzati in precedenza (i riferimenti al testo citato, il possesso del ruolo di enunciatore, gli accenni all’attività di traduzione, il rinvio a fonti alternative: v. § 3) separa in modo significativo la compilazione della prima e della seconda parte. Ma la presenza nella sola CrP I delle suture interne alla Cronaca è il segno più significativo dell’avvenuta giustapposizione di I a II: in tal modo chi ha coordinato la raccolta ha voluto aumentare all’indietro la gittata sul passato documentata dalla cronaca del
108 Inoltre c’è almeno un preannuncio interno alla prima parte: ««Et quisto loco mo è chyamato Sancto Pietro ad Ara como innansi pyù declaramo» (§ 33, p. 201,19-20; il rinvio è a § 34, p. 202,14). 109 Cfr. kuJAwIÑSkI, Quand une traduction remplace l’original cit., p. 67.
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Regno (CrP II), la cui narrazione era tutta orientata, e in qualche modo sbilanciata, verso la contemporaneità. Chiunque sia stato a costruire un testo sulla storia di napoli, quindi, sembra essersi appropriato di CrP I per giustapporla a CrP IIa e fondare una storia del Regno e della capitale in volgare110. Quando questa struttura si rinnoverà (v. §§ 10-12), la CrP I non subirà modifiche macroscopiche. In un ambiente dove il nome e la persona dell’autore non sono necessari, negli stessi anni in cui un gruppo di intellettuali lavorava sul De genealogia deorum di Boccaccio, leggeva livio e Valerio Massimo, copiava e commentava alcuni filoni dell’esegesi della Commedia (l’Amico dell’Ottimo, per esempio)111, e iniziava a confrontarsi con il modello villaniano, cominciando a importare manoscritti della Nuova cronica112, nella napoli della seconda metà del sec. XIV, forse all’arrivo dei Durazzo, si forma l’archetipo della tradizione della CrP: la storia di napoli, narrata sulla combinazione di modelli classici e medievali, per influenza della storia ecclesiastica e favorita dalla cultura di corte francese, viene così giustapposta alla cronologia del Regno, formando una variante molto isolata rispetto alle tendenze universalistiche della cronachistica cittadina del XIV secolo.
110 Allo stato delle conoscenze, non si può escludere del tutto che l’autore della raccolta sia anche l’autore di CrP I: come detto, la forbice 1348-50 vale solo per BI ed è ereditata da CrP IIa (v. § 8); per CrP I, invece, alcuni indizi portano agli anni 1372-1380 (v. § 3). 111 Per un quadro generale cfr. FERRAnTE, L’‘Inferno’ e Napoli cit., p. 220; per la seconda metà del Trecento, cfr. A. MAzzuCChI, Contributi dell’antica esegesi dantesca a un vocabolario storico del dialetto napoletano, in Tra res e verba. Studi offerti a Enrico Malato per i suoi settant’anni, cur. B. ITRI, Padova 2006, pp. 79-135; MAzzuCChI, Supplementi di indagine sulla ricezione meridionale della ‘Commedia’ in età angioina, in Boccaccio angioino cit., pp. 203-18; C. PERnA, Una testimonianza della circolazione meridionale della ‘Commedia’: le chiose B del codice Barberiniano Latino 4103, «Bollettino linguistico Campano», 15/16 (2009), pp. 123-142; per l’Amico dell’Ottimo, autore di quella che una volta era considerata la terza redazione dell’Ottimo Commento, cfr. PERnA, Uno stemma per le “Chiose sopra la ‘Comedia’” dell’“Amico dell’Ottimo”, «Rivista di Studi Danteschi», 13 (2013), pp. 334-353: 334. 112 nel 1360 Francesco Buondelmonti scrive a Giovanni Acciaiuoli: «Ancora vi voglo pregare che mi faceste cercare d’una Cronica di Giovanni Villani che sia bella e costi che vuole: io darò i danari a napoli o manderolevi di presente o scriverò costà siano pagati». «Queste parole ci consentono di intravedere le caratteristiche formali dei codici contenenti opere in volgare ritenute di alto prestigio, come la Nuova Cronica, che circolavano nelle case degli appartenenti alla colonia fiorentina che da napoli si teneva strettamente in contatto con la propria città: membranacei, di grande formato, opera di copisti professionali, scritti forse in minuscola cancelleresca» (M. CuRSI, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori, Roma 2007 [Scritture e libri del Medioevo, 5], p. 21).
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Proprio Villani, del resto, è il protagonista della seconda fase della costruzione della CrP113. Se la prima forma della cronaca è stata originata dalla giustapposizione di I e IIa, può essere stata questa struttura ad aver disposto il testo in uno stato di forte trazione. Così configurata, infatti, la CrP mostra chiari segni di discontinuità nell’assetto cronologico, di disomogeneità tematica, di sfrangiamento nella solidarietà dei tratti discorsivi. nuove forme di addizione, allora, si addensano per cambiare la consistenza della cronaca, come reazione alla deformazione causata dal nuovo assetto testuale o anche come segno di rinnovate esigenze narrative e della disponibilità di altri materiali sulla storia del Regno. Alla formazione dell’archetipo della tradizione così come è giunta fino a noi, infatti, seguono due tipi di rielaborazione: una prima forma di rifacimento, più complesso, consiste nella riscrittura di una nuova redazione della CrP (v. § 10); una seconda, almeno all’apparenza più elementare, aggiunge alla forma originaria due altre lunghe sezioni, IIIA e IIIB (v. § 11). 10. La redazione “b” della Cronaca di Partenope: riscrittura e aggiunte villaniane una parte della tradizione manoscritta presenta CrP II in una redazione rimaneggiata e ampliata (d’ora in poi: CrP IIb)114: per la redazione vengono utilizzati materiali originali e, soprattutto, vengono estratti e riportati, presumibilmente in più tempi e da esemplari diversi, 18 capitoli dei libri VI, VII e VIII della Nuova Cronica di Giovanni Villani. Si forma in tal modo un ramo della tradizione che avrà grande successo, rappresentato da due manoscritti e dalle edizioni a stampa115. Tutti i manoscritti che trasmettono IIa hanno una lacuna che invece manca nei codici della redazione IIb: la quale ecclesia lo predicto papa Silvestro sollempnimente la consacrò che se chyama la hedificacione de lo Salvatore, non per opera humana ma
113 un indizio di influenza dantesca è esposto al § 11. 114 Tale redazione è parzialmente pubblicata da kEllY (cfr. The ‘Cronaca di Partenope’
cit., pp. 151-152). Si legge integralmente nell’edizione Altamura. 115 I manoscritti sono Palermo, Biblioteca Centrale della Regione Sicilia, I D 14 (Pl); Modena, Biblioteca Estense, a h 8 14 (E); ad essi bisogna aggiungere, secondo la testimonianza di V. DI GIOVAnnI, Di un altro codice della Cronica di Napoli di Giovanni Villani, «Propugnatore», 9 (1876), pp. 174-187) anche un ms. perduto, appartenuto a Giuliano Vanzolini; cfr. The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 121-122 e 134.
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per opera divina apparse designyata et penta in uno muro et per fine al dì d’ogi ille vi sta et appare. la | quale ecclesia il predicto papa Silvestro sollepnemente | consagrò che sse chiama la hedificacione dil Salvadore. | Indil tempo di la qual consagracione la figura dil Sal|vadore non per opera humana, ma per opera divina apparse | disigniata e penta in un muro et per fi’ al dì e tempo di | mo vi sta.
Sebbene si tratti di un salto potenzialmente poligenetico, è molto probabile che a monte di IIa vi sia un subarchetipo che conteneva questo errore116. D’altra parte, le poche omissioni117 e le molte innovazioni comuni ai manoscritti e alle stampe accertano l’esistenza di un subarchetipo anche a monte dei testimoni della seconda redazione della cronaca. la revisione del testo attraverso l’interpolazione villaniana interessa solo la seconda parte della CrP, ma una riscrittura stilistica e ideologica viene operata su tutta l’opera118, anche sulla prima parte: quindi si può essere certi che il revisore ha lavorato su un esemplare in cui erano compresenti CrP I e IIa. l’apparato dell’edizione di kelly consente di vedere, almeno parzialmente, le differenze tra il testo di CrP I nelle due redazioni, e quindi di osservare la mano del revisore e i suoi gusti, specialmente linguistici. Infatti, le varianti relative a CrP I non intaccheranno la linea narrativa del testo, ma obbediranno a criteri di razionalizzazione nell’esposizione119,
116 l’ipotesi è rafforzata da una piccola serie di errori e omissioni comuni ai codici della prima redazione. Per esempio: loche per lode (§ 16, p. 183,18); risposi per riposi (§ 17, p. 185,7). 117 Per esempio foro a § 9, p. 174,10; lu segio a § 14, p. 120,18; predicare a § 35, p. 210,4. 118 ha promosso in modo esplicito un’analisi dei motivi codicologici, stilistici e ideologici della riscrittura l.B. MORTEnSEn, Change of style and content as an aspects of the copying process, in Bilan et perspectives des études médiévales en Europe. Actes du premier Congrès Européen d’Études Médiévales, louvain-la-neuve 1995 (Textes et études du Moyen Âge, 3), pp. 265-276. 119 Per esempio i versi su Dedalo sono spostati dalla fine del § 2 alla fine del § 3 (pp. 167-69); inoltre, l’elenco delle principali basiliche di napoli precede le ragioni della loro richezza e importanza (§ 41, p. 217,15ss.), così che solo in “b” (e non in “a”) l’esposizione è conforme all’ordine della fonte (il Chronicon di Santa Maria del Principio). Molto spesso il redattore di “b” manifesta anche il desiderio di aggiornare i riferimenti alla città di napoli: v. per es. la quasi completa riscrittura di § 51, pp. 238-239 (da recuperare nell’apparato dell’edizione della kelly) o le integrazioni a § 21, p. 188,7 (aggiunge «et anche mo si vende» in coda alla frase «in uno arco a la boczaria de la piacza de lo Mercato Vecchyo, dove in quello tempo se vendeva la carne») e a § 42 p. 218,12-13 («Fece eciamdio lo predicto inperatore inde la ecclesia de napoli in quillo luoco chyamato la basilica de Stephania una cappella [...]» > «Fe’ eciamdio il predicto imperadore indi la predicta ecclesia di napoli, che indel tempo antiquo se chiamava Santa Stephania, una capella [...]».
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di modernizzazione nella lingua120, di esplicitazione grammaticale del carico informativo121: tutti sintomi di una riscrittura operata da una persona colta122, che iscrive la cronaca in una nuova cornice cognitiva, in cui il legame con il contesto urbano è meno esplicito (e quindi lasciato come presupposto), ma anche sostanzialmente più debole123. In CrP I, tra i diversi caratteri sintattici della prosa volgare, emergono in modo ridondante i legami interfrasali124. Questa inclinazione tende a 120 Gli esempi più chiari provengono dalla “traduzione” di parole locali: chyaveche > cave (§ 17 p. 184,9; e v. anche «per nisuna cava di fundamenta de hedificio socta terra o vero per puczo o per chyaveca may non fo trovato serpe» > «per cave e fossati facti socto terra per fare gli edificii e puczi may non vi fo trovato serpe» [Pl, c. 10v]); l’uso di cava in corrispondenza di cloaca maxima è nel volgarizzamento della Prima Deca di livio ad opera di Filippo da Santa Croce nel 1323 (cfr. TLIO s.v. cava, § 1.4.2.). Altro esempio è ienchi o genchi > vitelli o vitegli (§ 48 p. 231,1-5), non del tutto corrispondente nel significato; per la diffusione centro-meridionale di ienco ‘giovenco’ nei dial. moderni cfr. AIS (k. JABERG J. JuD, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 8 voll., zofingen 1928-1940) c. 1047 ‘il manzo’ (ma per vitello cfr. c. 1046 ‘il vitello, i vitelli’); in testi meridionali del Quattrocento si trova genco in Brancati (volgarizzamento della Naturalis Historia di Plinio e nell’Esopo): cfr. M. BARBATO, Il libro VIII del Plinio napoletano di Giovanni Brancati, napoli 2001 (Romanica neapolitana, 32), s.v. genco (p. 395). Esempi di altro tipo sono, per la morfologia, la selezione del passato remoto di tipo toscano per ‘avere’ («abero sanitate» > «ebeno sanitade»: § 4, p. 169,21) o l’abbandono dell’infinito coniugato («desiderando con dericta fede fareno amicicia co lo populo de Roma» > «desiderando chon dricta fe’ avere amicicia cho· li Romani» (§ 12, p. 177,21-22). 121 Si osserva, infatti, una pregnanza sintattica («in napoli fo uno grande terramuto o viro tremulo lu quale si sente multo in comone et poco in spiciale o particulari» > «napoli di uno gran terramoto o tremolo sentì multo in comune et puogho in speciale o particulare»; § 15, p. 182,14-15) che induce, tra l’altro, all’abbandono della subordinazione all’infinito («trovareno una dompna dormire, la quale era pregnya, et extemareno devere essere bonissimo augurio» > «trovaro una dompna pregnya che dormeva, la quale extimaro bonissimo augurio»; § 1, p. 166,9-10) e alla preferenza per la forma implicita delle subordinate prolettiche («Poi che dessese forono da lloro nave et congregati in uno, feceno consiglio» > «Po’ disciesi dalle navi e congregati in uno, ferono consiglio»; § 2, p. 166,16-17). 122 Il redattore di “b” si allontana di frequente dalla lezione di “a” per migliorarla o emendarla: per esempio spiega in modo più analitico l’etimologia di Palepoli e recupera correttamente luogo e testo di una citazione da Valerio Massimo (v. rispettivamente p. 172 § 8,20-21; p. 175 § 10,3). 123 Tende a scomparire la denominazione esplicita del nome di napoli («Questa cità de napoli» > «Questa cità»; «la dicta cità de napoli» > «la dicta cità»; «de la cità de napoli» > «di la cità», ecc.; v. § 8, p. 173,9; § 13, p. 179,13; § 19, p. 186,11) e diminuisce, al contempo, la presenza o il ruolo degli elementi descrittivi urbani (v. per es. § 14, p. 180,4; § 51, pp. 238-39; e si vedano i molti errori nella toponomastica campana, passim). 124 Per quanto riguarda CrP I, è stato già notato da C. DE CAPRIO (Scrivere la storia cit., p. 45) che la coesione è cercata attraverso strumenti consueti della prosa media, in modo ridondante (dittologie sinonimiche, impiego dei nessi di collegamento tra le frasi, preferenza per una subordinazione prolettica in forma esplicita ecc.): i molti legami relativi usati per collegare le frasi (la quale cosa) si devono forse agli ipotesti latini; ma è invece un uso idio-
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scomparire nel ramo della tradizione che trasmette la redazione “b”, con una semplificazione sintattica che porta a un periodare più coeso e sintetico. Basti un solo esempio (il corsivo evidenzia le parole eliminate nel passaggio dalla prima alla seconda redazione): Scrive Titu livio nel terczo libro de la secunda bactaglya de Africa dove dice che Anibal duca de li Africani de poy la bactaglya de Cannis multo desiderò avere la cità de napoli per la marina. Per la quale cosa la venne ad assediare. El quale Anibal era infirmo et habe per tre dì la febre (§ 11, p. 176,6-9)125. Testifica lu predicto Titu livio al libro terzo di la secunda bactaglia di Africa che Anibal, duca di gli Africani, puo’ la bactaglia di Canni desiderò avere la cità di napoli per la marina. E quando venne per l’assidiare ebe duo giorni la fevre (ms. PL, c. 5r)126.
Invece le innovazioni redazionali hanno effetti macroscopici sulla seconda parte della Cronaca. Spicca, innanzitutto, la riscrittura del testo con i materiali provenienti da Villani, che in CrP IIb vengono adattati in modo non sempre adeguato: di norma l’esistenza della Nuova Cronica viene taciuta e l’ampliamento di CrP IIa in IIb avviene mimetizzando nel discorso il nuovo materiale storiografico. In un caso, però, CrP IIb incorpora per errore due rinvii alla numerazione dei libri della Nuova cronica, secondo l’assetto della seconda redazione127: lasciarem dil Papa et dill’altre novità di Ytalia imperò che tucte segueron agli avenimento dil decto karlo, et comensaremo l'octavo libro di questa cronicha, ove si narra di la signioria et stato dil dicto re karlo et di suo socciessori et le novità che nde fuoron quasi per tucto ’l mondo. || Chomensa
sincratico introdurre il testo citato con un verbo di dire; ed è un fenomeno tipico allentare il valore consecutivo di sicché a semplice coordinante, come accade nella rubrica iniziale. 125 V. liv. XXIII 1,1: «ipse per agrum Campanum mare inferum petit, oppugnaturus neapolim, ut urbem maritimam haberet». 126 Altri testimoni (la stampa attribuita a Del Tuppo, a c. A 5r, e il ms. E, a c. 5r) riportano l’ultimo periodo strutturato in due frasi coordinate: «et venne per assediarla et hebbe per tre dì la febre» (riporto la lezione del codice estense). 127 Sulle redazioni di Villani la bibliografia dei lavori di Giuseppe Porta e Arrigo Castellani si recupera, per es., in Medieval Italy. An Encyclopedia, cur. C. kleinhenz, new York-london 2004, pp. 1146-1147; una discussione critica è in G. RAGOnE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998 (nuovi studi storici, 43), pp. 121-127.
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l’octavo libro ove tracta di la venuta dil re karlo di Puglia [...] (PL, c. 45r)128.
Il materiale villaniano si riversa nella CrP IIb lasciando anche dei residui, le marche strutturali del libro fiorentino che vengono incluse nel nuovo testo per un errore del rimaneggiatore e che, per inerzia, vengono conservate dalla tradizione. Chi ha aggiornato CrP intendeva formare una redazione più ricca della precedente, lavorando su un codice che conteneva tutta la Nuova Cronica. Questa procedura di estrazione del materiale napoletano dalla cronaca di Villani fu rifatta altre volte e in modi diversi, senza però che si ripetesse lo stesso errore. 11. Supplementi villaniani a Cronaca di Partenope I-IIa: le parti IIIA e IIIB della Cronaca di Partenope A catena, oltre a questo ampliamento che, attraverso interpolazioni e integrazioni di materiale storico, costruisce la redazione “b” della CrP, si formano anche due ampi compendi villaniani, che raccolgono rispettivamente notizie relative al Regno e a napoli fino al 1325 (d’ora in poi: CrP IIIA) e avvenimenti appartenenti alla storia universale fino al 1297 (d’ora in poi: CrP IIIB). Ogni compendio sembra implicare l’esistenza del testo precedente. CrP IIIA rielabora 202 capitoli della Nuova Cronica, e si lega alla CrP tramite la riscrittura della parte iniziale dei capitoli e con dei rinvii interni; così formato, tale compendio entra nella tradizione della prima redazione della CrP, al fianco di I-IIa. nel ms. M 973, finita CrP IIa con colofone finale e la formula di chiusura129, nella carta successiva inizia IIIA: Et ne pare convenebele, dapoy che jn breve cursu de scriptura avimo facto memoria de lo advenimento de li Sarracine [v. CrP I cap. 55] in Ytalia et in Napoli et d[e l]a loro fine, de mectere jn questo tractato nostro lo comenczamento de la secta de li Sarracine, la quale fo quasi in quelli tempi che li Goti vennero meno in Ytalia. Et benché ella sia fore de la 128 la stampa di Del Tuppo (c. C IIIv) ha una lezione conforme a quella del codice palermitano; la stampa del 1526 invece individua questo punto per dare inizio al III libro, senza riprodurre il paratesto di Villani (c. l IIIr). Il codice estense non ha la rubrica. 129 «Deo gratias. Amen» (c. 50v).
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nostra principale materia de li facti de la cità de Napoli et multo di longa, sì fo grande motacione del mundo et donde sequereno poy grandissime persecucione ad tucti li cristiani et eciamdio ne sente tucta Ytalia et specialemente la cità de Napoli, come adireto narrato avemo (c. 51r).
le parole in corsivo segnano il minimo sforzo di adattamento del testo di Villani (III 8) alla storia di napoli, focus narrativo del compendiatore130. Il chiaro raccordo alla fine di CrP I, il breve cursus de scriptura che si chiudeva appunto con il capitolo sui saraceni (§ 55), può essere forse un ulteriore indizio della diffusione autonoma di CrP I, ed è certamente un segno che IIIA si si affianca a IIa come più ampia cronaca del regno e si pone come alternativa a IIb. Tuttavia, le marche autoriali non sono innovazioni del compendiatore, ma risalgono al Villani: l’uso del “noi”, le locuzioni riferite alla costruzione della cronaca (fare memoria, mettere in questo trattato, fuori della materia principale), la memorabilità delle cause misurata rispetto agli effetti sono tutti tratti che IIIA eredita dalla Nuova cronica; perfino il riferimento ai saraceni, che nella CrP funziona come un raccordo alla materia precedentemente trattata, non è un’iniziativa del compilatore di IIIA ma un’eredità incorporata nel testo di Villani e rifunzionalizzata nel nuovo contesto. Il compendio è frutto di un’operazione indipendente da IIa e diversa da IIb, che IIIA anzi presuppone, dal momento che la utilizza come fonte secondaria, prelevandone degli estratti, e forse intende migliorarla. Infatti, pur fondandosi soprattutto sulla cronaca fiorentina con minimi adattamenti, per alcuni capitoli IIIA propone un intarsio di fonti che vede comporsi, variamente legati, excerpta da IIb e da Villani. l’elaborazione originale di queste due fonti prova la posteriorità di IIIA rispetto a IIb. Per esempio, i capitoli 57-60 di IIIA131, sulla battaglia di Tagliacozzo e la morte di Corradino di Svevia, manifestano la compresenza delle due fonti132. Il cap. 57 inizia con un paio di righi tratti da Villani, Nuova Cronica, VIII 26, prosegue con il racconto relativo al ruolo di Alardo da Valéry (per cui v. CrP IIb, § 90, pp. 265,28-266,24)133 e si chiude seguendo
130
l’integrazione d[e l]a è confortata dalla lezione degli altri manoscritti (per es. B, c.
27r).
131 132
Conto i capitoli secondo il ms. M 973. Cfr. F. MESSInA, Genesi e morfologia di un compendio nella storiografia angioina: il caso del “Villani napoletano”, «Misure critiche», 12-13 (2013-2014), pp. 30-60: 58-59. 133 In IIIA vi sono dei particolari in più rispetto a IIb, come il cognome di Alardo e la circostanza che la nave con cui Alardo giunge a napoli sia dei Genuisi. In entrambe le redazioni si racconta della freddezza di Alardo nei confronti di Carlo e, particolare più signifi-
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ancora Villani fino alla fine del capitolo; il testo prosegue poi per i §§ 5860 in base a Nuova Cronica, VIII 27-29; solo in § 60 vi sono due inserti estranei a Villani: a metà capitolo si parla della colonna vicino alla quale fu giustiziato Corradino e della chiesa del Carmine fondata dalla madre solo dopo la morte del figlio (v. CrP IIb 90b, p. 267,31-33); alla fine, si narra di Alardo che rifiuta la ricompensa di Carlo (v. CrP IIb: § 90, p. 267,35268,8)134. un altro esempio è dato in Appendice II, dove si riporta il capitolo di IIIA relativo a Carlo II d’Angiò: appare chiaramente che IIIA è l’unica redazione ad adoperare i capitoli 108 e 109 del nono libro della Nuova Cronica di Villani; è quindi impossibile ipotizzare la posteriorità di IIb rispetto a IIIA: se la seconda redazione della cronaca avesse utilizzato IIIA fra le sue fonti, avrebbe dovuto compiere un’eliminazione chirurgica degli ingredienti villaniani dal resto del materiale storiografico, operazione inattuabile da un punto di vista pratico135.
cativo, è attestato l’epiteto di vecchio associato ad Alardo, certo per effetto di Dante, Inf., XXVIII 18 («là da Tagliacozzo | dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo»); tra i commentatori della Commedia si veda soprattutto Guglielmo Maramauro, che racconta un’altra versione della complicata adesione di Alardo alla causa di Carlo (Expositione sopra l’‘Inferno’ di Dante Alligieri, cur. P.G. PISOnI - S. BEllOMO, Padova 1998 [Medioevo e umanesimo, 100], p. 415). una fonte cronachistica quattrocentesca fornisce una versione più ampia (ma sostanzialmente affine a quella di IIb e IIIA) dell’aneddoto sulle difficoltà pregresse tra Alardo e Carlo d’Angiò: cfr. G. DE BlASIIS, Istoria del Regno di Napoli dal MXL fino al MCCCCLVIII di Domenico De Lello, «Archivio Storico per le Provincie napoletane», 16 (1891), pp. 174-200, 361-397, 611-44, 773-831: 195-196. In queste fonti napoletane Alardo giunge nel Regno dalla Francia per andare in Terrasanta e non viceversa, come riportano Villani e tutti i biografi moderni. 134 In IIIA il primo inserto è introdotto da «Et questo fo», il secondo da «Et facto ciò». Si noti che il rifiuto di Alardo è in discorso diretto e in un francese variamente italianizzante nei testimoni manoscritti; in IIb è più fieramente antiangioino (‘quel che ho fatto l’ho fatto per amore del re di Francia e non per amor vostro’) rispetto alla versione di IIIA (‘quel che ho fatto l’ho fatto per amore del re di Francia e per onore dei Francesi’). Anche nell’episodio d’esordio tra le due redazioni vi è lo stesso contrastante atteggiamento politico: una chiara posizione anti-angioina è in IIb, dove Alardo accetta di combattere al fianco di Carlo in nome del re di Francia ma «non per vostro amore»; tale ultima frase, assente in IIIA, ha quindi sapore formulare e la sua ricorrenza dà un tono epico al racconto. l’apparizione di Alardo corrisponde a uno spirito antiangioino anche in Dante (cfr. Inferno, ed. S. BEllOMO, Torino 2013 [nuova raccolta di classici italiani annotati, 22], p. 447) e nel Novellino, nov. lX. Da fonti cronachistiche posteriori i due aneddoti qui raccontati sono ripresi da M. D’EGlY, Histoire des rois des Deux-Siciles de la maison de France, Paris 1741, I, pp. 140 e 151. 135 Cfr. MESSInA, Genesi cit., in particolare p. 60 nota 79; MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 50. la kelly ipotizza che IIIA (chiamato Southernized Villani) preceda la redazione “b”; la maggiore difficoltà a quest’ipotesi è data dall’estrazione che l’autore di
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Sembra plausibile, allora, che IIIA nasca come un estratto della Nuova Cronica e prenda poi la forma di un testo del Villani napoletano con annotazioni tratte da IIb e con poche aggiunte originali; così costruito, viene giustapposto a CrP I e IIa come aggiunta organica alla redazione della CrP che non aveva ancora avuto un aggiornamento136. Per tale motivo un “incidente” come quello che abbiamo visto occorrere in IIb con l’inserimento della numerazione dei libri della cronaca di Villani non avviene in IIIA, che rielabora il testo fiorentino in modo autonomo: lassarremo alquanto de lo Papa et derremo dell’autre novi de Ytalia inperciò che tucti sequero a la venuta de lo dicto Carlo, et procederrimo de la signyoria de Carlo et suoy dissindenti. || Qui comencza la venuta de Carlo conte de Angioyo [...] (ms. M 973, cc. 82v-83r)
“b” dovrebbe fare delle poche notizie originali dalla massa del materiale villaniano, che la kelly attribuisce a una «uncanny knack» (pp. 130-131); collaterale a tale convinzione è l’idea che a napoli sia molto precoce l’influenza della storiografia fiorentina: cfr. S. kEllY, The Neapolitan Giovanni Villani: Florence, Naples, and Medieval Historiographical Categorization, in Renaissance studies in honor of Joseph Connors, Firenze 2013 (Villa I Tatti, 27), II, pp. 31-38. Credo che l’esempio riportato in Appendice 2 provi che sia oneroso ipotizzare che la “prodigiosa abilità” del compilatore di B possa spiegarsi con il possesso di un manoscritto di estratti villaniani con ai margini annotazioni originali, mentre è probabile il contrario, cioè che il redattore di IIIA abbia lavorato su un codice di estratti villaniani con annotazioni da CrP IIb. Anche per i capitoli su Corradino risulterebbe difficile capire come ha lavorato il rimaneggiatore di IIb se, come vuole la kelly, tale redazione sia posteriore a IIIA. Infatti il § 90 di IIb ha il seguente andamento: esordio come in IIa; la chiamata di Alardo (v. IIIA 57); la battaglia di Tagliacozzo, la cattura e la morte di Corradino (riassunto da Villani VIII 27 e 29; v. IIIA 58 e 60); la colonna di piazza Mercato e la chiesa del Carmine, fatta costruire dalla madre di Corradino dopo la morte di lui (v. IIIA 60 al centro); Alardo rifiuta la ricompensa di Carlo (v. IIIA 60 in fine); rinvio alla fondazione di un monastero benedettino sul luogo della battaglia (Villani VIII 27 in fine; v. IIIA 58 in fine), con il dettaglio innovativo che è abbazia solo per francesi; fondazione di Castel nuovo e S. Maria la nova (v. IIIA 95, dove si tratta di un’innovazione inserita in un capitolo preso integralmente da Villani VIII 95 e dove IIIA presenta l’ulteriore notizia della fondazione del nuovo «mercato grande intro la cità del napoli»); cfr. anche kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 325. 136 È urgente, allora, procedere alla ricerca di una tradizione manoscritta di compendi villaniani napoletani: «c’è ad es. un manoscritto della Nuova Cronica, di area toscana, probabilmente trascritto da due differenti copisti, il secondo dei quali seleziona e riporta solo i capitoli “napoletani” del Villani a partire dalla fine del VII libro (e in parte coincidenti con quelli presenti in IIIA), omettendo tutti i riferimenti non pertinenti al Regno» (comunicazione privata di Felice Messina).
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l’autonomia testuale di IIIA è documentata anche da IIIB, un altro compendio villaniano, che in 59 capitoli riporta notizie dalle origini del mondo fino al 1297, attraverso la selezione dei capitoli dalla Nuova Cronica e il loro rimaneggiamento137. Tale compendio, infatti, presuppone IIIA, cui rinvia con il nome di Cronica napolitana, e vi si lega attraverso collegamenti intertestuali e riscritture di raccordi già esistenti nell’opera di Villani138. Anche IIIB viene tramandato insieme alla prima redazione della CrP in un unico grande corpus storiografico, che si sforza di assimilare da Villani non solo una selezione di notizie ma anche la struttura universalistica139. Il nome di compendi per questi testi non è del tutto soddisfacente: dal momento che IIIA e IIIB si sono formati con la selezione del materiale storico, ma anche con la deformazione della struttura della cronaca per favorire l’accumulo delle parti attraverso il collegamento con le altre sezioni, forse è meglio parlare di supplementi140. 12. Villani e la redazione “b”: la rinnovata rubrica nella stampa di Del Tuppo nel Quattrocento la tradizione che ha incorporato i supplementi villaniani non entra nella trasmissione a stampa del testo, ma resta nella forma manoscritta. Invece la redazione “b” viene pubblicata alla fine degli anni ’80 e Giovanni Villani ne diventa l’eroe eponimo: mentre Bartolomeo Caracciolo Carafa, al momento della formazione dell’archetipo, non era
137 Si rimaneggiano capitoli dai libri I e V-IX della Nuova Cronica; del III libro solo il § 20 e del IV solo i §§ 4 e 5. Il rimaneggiamento consiste nell’espunzione di informazioni, specialmente su Firenze, ma non su Pisa o Genova o Venezia; nella fusione di capitoli, anche da diversi libri, come I 20, III 20 e IV 4; in ampliamenti di stile e contenuto in rare riscritture, come in § 47 su VIII 84 di Villani. Anche i rinvii interni al testo sono oggetto di selezione: la maggior parte sono ereditati da Villani, ma alcuni sono eliminati perché non più pertinenti in IIIB e altri introdotti ex novo. 138 Cfr. R. BADIlE, La Parte IIIB della ‘Cronaca di Partenope’, Tesi di laurea in Storia della lingua italiana, rel. F. MOnTuORI, univ. “Federico II” di napoli, 2013-2014; e MOnTI, La ‘Cronaca di Partenope’ cit., p. 47. 139 la procedura di integrare informazioni sovralocali in una cronaca annalistica cittadina sulla base di un’altra fonte, ma non attraverso compendi bensì per mezzo di interpolazioni, occorre nella prima metà del Duecento nel Chronicon Faventinum (cfr. l. MASCAnzOnI, Il Tolosano e i suoi continuatori. Nuovi elementi per uno studio della composizione del ‘Chronicon Faventinum’, Roma 1996 [Subsidia, 3]). 140 Cfr. B. RIChARDSOn, Print culture in Renaissance Italy. The Editor and the vernacular Text, 1470-1600, Cambridge 1994 (Cambridge studies in publishing and printing history), p. 2.
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riuscito a raggiungere la cima del testo per far sua la paternità della CrP141, invece la rozza interpolazione di notizie fatta in CrP IIb ha portato il nome del cronista fiorentino fin sulla soglia del testo dell’edizione di Del Tuppo. nella rubrica iniziale della stampa c’è, infatti, una nuova superfetazione, un nuovo livello di paratesto, attraverso cui si presenta il lavoro come un’opera compilativa di Giovanni Villani: Incomenza una nobilissima e vera antiqua cronica, composta per lo generosissimo missere Iohanne Villano, recolta da molti antiqui, quale è delectevole e de gran piacere per sapere le antiquitate dello regno de Sicilia citra e ultra el faro, inde la quale se tracta de mutamenti de multi stati et incommenza da la edificatione de Cuma. lege feliciter.
Con il nuovo paratesto l’attenzione del lettore della seconda metà del ’400 è indirizzata alla successione dei regnanti e della feudalità in Italia meridionale, la dimensione che più stava a cuore al realismo politico di Ferrante d’Aragona142, e l’autore dell’opera viene identificato in Giovanni Villani. Ma le due innovazioni avranno una durata ben diversa: l’enorme importanza amministrativa, culturale e demografica di napoli nel viceregno e i mutamenti dei paradigmi storiografici faranno in modo che la raccolta ben presto perda la marca di opera sulla storia del Regno, e venga vincolata alla storia della capitale, mentre resterà a lungo l’attribuzione allo storiografo fiorentino. All’alba del Seicento Summonte rinvia alla «‘Cronica di napoli’ di Giovan Villani» e, nonostante le osservazioni di Ferdinando Galiani (1779), ancora alle soglie dell’Ottocento, nel repertorio bibliografico di lorenzo Giustiniani, la CrP veniva assegnata a Villani143.
141 Secondo l’ipotesi della kelly il nome di Bartolomeo Caracciolo, se mai è stato presente, dev’essere stato espulso dall’inizio dell’opera. Può essere stata poligenetica la rivendicazione della brevitas, comune alla rubrica iniziale (brevemente) e al titolo della Breve informacione. 142 Cfr. J.h. BEnTlEY, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, napoli 1995 (l’altra Europa, 10), pp. 151-205 [ed. or. 1987]. Cfr. soprattutto F. STORTI, «El buen marinero». Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, Roma 2014 (I libri di Viella, 167). Allo stato non vi sono prove che la stampa di Del Tuppo e il testo in essa trasmesso siano effetto del patronage della monarchia aragonese. 143 Cfr. Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano [...], ed. E. MAlATO, Roma 1970, p. 92: «Crediamo adunque che, ignorandosi il vero nome dello scrittore, fu questa Cronica chiamata di Giovanni Villani giacché l’autore di essa altro non fece che copiare quanto poté dall’istoria di Giovanni Villani fiorentino»; cfr. T.l. GIuSTInIAnI, Saggio storico sulla tipografia napoletana, napoli 1793, pp. 38-39.
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13. L’ultima aggiunta: la IV parte entra nella redazione “b” la stampa di Del Tuppo aggiunge un’ulteriore, estrema novità, che diventerà il terzo libro dell’edizione del 1526: una lunga inedita serie di capitoli che, sotto la rubrica Cronica del re Roberto che fe’ per recuperare la insula de Sicilia, trattano degli avvenimenti del Regno da Roberto d’Angiò (1323 circa) all’invasione di luigi I d’Angiò (1382). Essa viene integrata nella seconda redazione della raccolta attraverso una trazione all’indietro, un capitolo di raccordo che è estraneo al resto della CrP, e mediante legami intratestuali144. Solo in questa nuova sezione riemersa alla fine del XV secolo in un testo guasto in più punti, intravediamo una forma di scrittura di memorabilia, come i passaggi di comete, le cadute di fulmini o gli apprezzamenti del frumento; tali registrazioni, però, ben si ambientano nella redazione “b”, che ha accolto notizie simili provenienti da Villani145. nella quarta parte si manifestano anche certi toni canterini, come nel lamento di re Roberto per la morte del figlio Carlo duca di Calabria146; e si palesa un certo gusto affabulatorio di sapore novellistico, negli esempi di giustizia dello stesso duca di Calabria147 e, soprattutto, nel lungo e vivace raccon-
144 Cfr. C. DE CAPRIO - F. MOnTuORI, Copia, riuso e rimaneggiamento della Quarta parte della ‘Cronaca di Partenope’ tra Quattro e Cinquecento, in Actas del XXVI Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas (Valencia, 6-11 septiembre 2010) [Proceedings of the 26th International Congress of Romance linguistics and Philology], cur. E. CASAnOVA hERRERO - C. CAlVO RIGuAl, 8 voll., Berlin/Boston 2013, VII, pp. 89-102. 145 V. per esempio CrP IIb 79. 146 «Cecidit Corona capitis mei. Ve vobis, ve mihi!» (§ 3). l’esclamazione di Roberto cita Lamentationes, 5,16: «Cecidit corona capitis nostri | vae nobis quia peccavimus». Sul tema cfr. Lamento per la morte del duca di Calabria, in n. SAPEGnO, Poeti minori del Trecento, Milano-napoli 1952 (la letteratura italiana, 10), pp. 975-980. Testimonianze di Petrarca e Boccaccio sulla reazione di Roberto alla morte del figlio sono in TORRACA, Boccaccio a Napoli cit., p. 19 e nota. 147 Particolarmente famoso è il racconto intorno a un vecchio ronzino maltrattato da un padrone irriconoscente e restituito alla sua dignità: attraverso le edizioni della storia di Di Costanzo il racconto entrò in B. PuOTI, Avviamento all’arte dello scrivere [...], napoli 1845, pp. 101 s., num. CXVIII Racconto. Anche in questo caso il discorso diretto interviene al momento culminante della storia: «non intenditi che è la bestia che domanda iusticia del patrone? Andati e commandati ad missere Marcho le done da mangiare fin’a che vive et tractelo bene, perché, havendo servito sano e iovene, è iusta cosa sia nutrito vechio e infermo» (ibid.). In questo aneddoto la voce del protagonista non serve per citare espressivamente un testo sacro, come nel caso del lamento: esso ha invece una specifica funzione argomentativa utile a sciogliere l’intreccio, proprio come accade nell’aneddoto parallelo dell’Anonimo Romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1981, pp. 45-46.
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to dell’ingresso di Carlo III di Durazzo a napoli, che in modo proficuo si può confrontare con le versioni riportate nei Diurnali del duca di Monteleone e con quelle trasmesse da loise De Rosa e da altre fonti quattrocentesche. Ma tutto ciò non deve far pensare a una scrittura ingenua, anche nei quadri più spiccatamente narrativi. l’accostamento di evento storico e narrazione moraleggiante è un processo di buon successo nel corso del Quattrocento, che a napoli conosce esempi significativi, dal Pecorone all’Esopo di Del Tuppo148. Si osserva, ad esempio, l’uso delle concessive, che, con le loro specificazioni anticausative, rendono complessa la rappresentazione degli eventi, li mettono in relazione con presupposizioni e inferenze e danno al racconto una patina di predittività, come se la narrazione volesse liberarsi dei fatti accaduti e stabilirsi con forza nel campo della fiction149. Il cronista notar Giacomo, che ai primi del ’500 copierà, rielaborandola, la IV parte della CrP150, rifuggerà da tale uso delle concessive, orientandosi, nelle sue annotazioni, a eliminare o ad assorbire i costrutti anticausativi: CrP IV: [...] li ungari e li todeschi che erano in la cità de Aversa sentero questo, se armaro presto e presero bactaglia; ma la gente nostra non aveano preso ordine inde la bactaglia ma ogniuno combacteva secondo che ad ipso piacea. Avegnadio che inde lo principio la gente nostra avesse prosperitade, sì perdero li banderi e fugero (§ 40). notar Giacomo: Et como foro in la villa de Milito, li ungari et li Todeschi che erano in Aversa, sentendono questo, se armaro et presero bactaglia con la gente nostra: però non nce era ordine. Dove la gente de re loyse perdero le bandere et fugero et fo’ prisi (Annotazione 51,26-28). CrP IV: non ·de remasero figlioli de ipsa né de lo predicto imperatore Philippo, advenga dio che ipsa havesse conceputo più filioli ma non de ipso imperatore (§ 47). notar Giacomo: Et sì non ·de remasero de ipsi figlioli: ma quella havea conceputi più figlioli, ma non de ipso (Annotazione 55,3-4).
E anzi, notar Giacomo rifugge proprio dal procedimento logico della concessività, eliminandolo anche quando non sintatticamente esplicito: 148 Sul Pecorone cfr. P. STOPPEllI, Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore del ‘Pecorone’, «Filologia e Critica», 2 (1977), pp. 1-34; sull’Esopo come speculum principis cfr. P. FAREnGA, La volgarizzazione della storia nell’«Esopo» di Francesco Del Tuppo, «Studi latini e italiani», 5 (1991), pp. 83-94; C. CORFIATI, «Uno greco chiamato Jacchetto…». Esempi di cronaca nell’Esopo di Francesco Del Tuppo, «Critica letteraria», 32 (2004), pp. 745-758. 149 Cfr. M. lAVAGETTO, Lavorare con piccoli indizi, Torino 2003 (nuova cultura, 96). 150 V. l’Introduzione a notar Giacomo, Cronica di Napoli, ed. C. DE CAPRIO, Roma i.c.s.
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CrP iv: Et lo dicto missere Odo remase fore della cità e non appe ardire de nze intrare e havia la porta de Capuana libera e grande parcialitate in ipsa cità e aviva tutti li fortilezi della dicta cità (§ 52). notar Giacomo: et messere Odo con lo suo exercito restò de fora et non hebbe ardire de intrare (§ 63)
Emerge in questa sezione della CrP, accanto al rigoroso ordine cronologico, una forte incertezza nell’assetto del testo e nella numerazione delle rubriche, con contraddizioni nelle simpatie politiche del narratore, ora filo-angioine ora filo-durazzesche, e con una sconcertante duplicazione di nomi, per cui Filippo di Taranto, nominato correttamente quando il cronista ricorre a fonti locali, diventa il Filosofo di Taranto quando la notizia è tratta da Matteo Villani. Si tratta di una svista generata dallo scioglimento di un’abbreviazione, un errore prezioso per l’interprete moderno, perché consente di ricostruire per via indiziaria l’intarsio non perfettamente omogeneizzato di diverse scritture151. un altro tra i principali tratti diagnostici utili per comprendere la modalità di composizione della quarta parte è la ripetizione delle medesime notizie in paragrafi con caratteristiche linguistiche e discorsive differenti. lo studio della lingua offre infatti prove incontrovertibili che alla base di CrP IV c’è stato un lavoro di copia molto scrupoloso nel rispetto letterale delle fonti, ma poco attento alla loro omogeneizzazione e quindi alla coerenza del testo, così che è stato possibile identificare capitoli con tratti linguistici spiccatamente quattrocenteschi e altre sezioni caratterizzate da fenomeni fono-morfologici e da lessico decisamente trecenteschi152. una così ingenua assimilazione, che evita la sintesi e unisce i testi in modo così meccanico, può essere descritta, nell’ambito delle miscellanee, come un caso di aggregazione, causata dal desiderio di recupero della memoria e realizzata come se fosse una procedura di deframmentazione: il che spiega la disomogeneità superficiale del testo frutto del processo di acquisizione. la giustapposizione della quarta parte alle precedenti due nella princeps della CrP è chiaramente effetto di una “rilettura” storica: si propone una nuova sezione del testo non per seguire vicende del presente, ma si compie un piccolo “ritorno al passato” che “attiva” la nuova sezione per rafforzare nella CrP la funzione di rappresentare in modo esemplare la storia della città e delle sue istituzioni. 151 Cfr. RICO, Entre el códice y el libro cit., p. 45 (ediz. 2002); cfr. anche VARVARO, Élaboration des textes cit. 152 Cfr. DE CAPRIO - MOnTuORI, Copia, riuso e rimaneggiamento cit.; BARBATO, Trasmissione testuale cit.
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nella redazione “b” tramandata dalla stampa si intrecciano così tre ingredienti: la forma unita delle prime due sezioni, la riscrittura con le interpolazioni da Villani e l’assimilazione della IV parte. la torsione di questi tre fili comporta una deformazione che rende il testo più “resistente”; la combinazione che ne risulta ha una buona efficacia in termini di vitalità: dopo la stampa di Del Tuppo i cambiamenti consisteranno solo in piccoli rimaneggiamenti, soprattutto di tipo linguistico. Invece, la redazione “a” della CrP, formata da prima e seconda parte, è sopravvissuta solo in manoscritti, accompagnata dalle addizioni villaniane. l’aggregazione dei due supplementi non ha avuto fortuna moderna: l’approfondimento della storia del Regno e la svolta verso la storia nazionale non sono riusciti a superare la barriera della manoscrittura. Ma nel XV secolo la sequenza CrP I-IIa-IIIA e IIIB è stata certamente la più richiesta dai lettori: la Cronaca, in questa forma, si è associata ad altri testi, in un corpus focalizzato sulla Campania (Sito et condicione, diversi volgarizzamenti in prosa dei Bagni di Pozzuoli)153 e sull’Italia meridionale (volgarizzamento dell’Itinerario in Terra santa di Petrarca)154, con varianti tutto sommato limitate. 14. Un esempio di riuso: la Cronaca di Partenope nel manoscritto di Ferraiolo la formazione di questi “libri di storia”, non miscellanee ma costruiti su giustapposizioni, risponde alle esigenze della storiografia volgare quattrocentesca e costituisce i corpora di cui si avvarrà la scrittura storica regnicola moderna nel ’500. Alla CrP manca quell’ingrediente che la struttura della raccolta lasciava prevedere e che invece non si è mai realizzato: un aggiornamento. nella storia della sua trasmissione, che per quello che ne sappiamo è tutta posteriore al XIV secolo, non resta traccia di adeguamento cronologico. nessuno, in età aragonese, ha avuto il desiderio o gli strumenti per coprire gli anni del controverso dominio durazzesco e per gettare in avanti la conclusione del testo. Chi lo ha fatto si è sganciato dalla forma della raccolta
153 Cfr. l. PETRuCCI, Per una nuova edizione dei Bagni di Pozzuoli, «Studi Mediolatini e Volgari», 21 (1973), pp. 215-260. 154 Cfr. Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam: volgarizzamento meridionale anonimo di Francesco Petrarca, ed. A. PAOlEllA, Bologna 1993 (Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal sec. XIII al XIX, 284).
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che univa la napoli antica alla storia del Regno e ha scelto altre modalità compilative. la solida forma della CrP nella sua struttura archetipica si è tradotta col tempo in una sorta di rigidità: non è mancato un adeguato interesse a dare continuità alla storia in volgare di napoli e del Regno anche oltre il confine tra i Durazzo e gli Aragona; ma la sezione antica della CrP ha reso difficile modificare la forma del testo, e chi ha ripreso la storia di quegli anni lo ha fatto o rielaborando la storia del Regno, come lupo De Spechio155, o in forma di cronaca scritta in presa diretta, come nei Diurnali del duca di Monteleone. In verità qualche aggiornamento c’è stato. nel XVI secolo notar Giacomo e Fuscolillo hanno manifestato grande autonomia nella modalità compositiva, ma solo in età moderna le loro compilazioni hanno interessato gli storici del medioevo e sono stato oggetto di edizioni. lo stesso destino è toccato, alla fine del XV secolo, al libro di Ferraiolo, lo splendido manoscritto illustrato M 801 conservato alla Pierpont Morgan library. All’interno, l’autore copia, pare senza capirla, una storia universale in latino di grandissima fortuna, il Fasciculus temporum di werner Rolewinck, tratto da una stampa veneziana del 1481; quindi riproduce il dittico formato dalla Cronaca di Partenope e dal Trattato de li bagne de Pezola, tratti dalla stampa attribuita a Del Tuppo; l’ultimo testo è la cosiddetta Cronaca di Ferraiolo, scritta nel 1494-1498, relativa a eventi accaduti tra il 1442 e il 1498, priva di finale, con piccole revisioni e integrazioni, compilata in base a varie fonti, orali, manoscritte e anche a stampa, pubblicata da Rosario Coluccia poco meno di trent’anni fa156. nel complesso si tratta di un’opera che consiste in un codice, formato per giustapposizione di testi eterogenei, da cui risulta una “collezione”157 di carattere ibrido in relazione al medium di trasmissione, all’originalità del dettato e all’autorialità del prodotto. In questo libro, che ha tutt’altro obiettivo rispetto alla CrP, la CrP cambia forma, non solo perché viene ristrutturata secondo il gusto del copi-
155 156
Sui rapporti tra lupo e la CrP cfr. lupo De Spechio, Summa cit., pp. 30-38. Ferraiolo, Cronaca, ed. R. COluCCIA, Firenze 1987 (Scrittori italiani e testi antichi); R. FIlAnGIERI, Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, napoli 1956; sui rapporti con la CrP cfr. M. BARBATO - F. MOnTuORI, Dalla stampa al manoscritto. La IV parte della ‘Cronaca di Partenope’ trascritta dal Ferraiolo (1498), in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche, materialie e usi nella storia della lingua. Atti del XII Congresso SIlFI Società Internazionale di linguistica e Filologia Italiana (helsinki, 18-20 giugno 2012), cur. E. GARAVEllI - E. SuOMElA-häRMä, 2 voll., Firenze 2014 (Quaderni della rassegna, 85), pp. 51-70. 157 B. RIChARDSOn, Manuscript Culture in Renaissance Italy, Cambridge 2011, p. 259.
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sta158, ma soprattutto perché entra in contatto con una scrittura memorialistica che sembra aver compiuto un itinerario compositivo abbastanza comune. lo scrivente, infatti, segue un modello annalistico nell’annotare i fatti a lui contemporanei, con una scansione degli avvenimenti che, almeno in parte, condivide con le versioni presenti in altre cronache coeve e che quindi dev’essere indotta da una fonte esterna159; e procede nella narrazione con un andamento diaristico e un’enfasi per la testimonianza oculare che sembrano essere più di maniera che reali, secondo gusti condivisi anche da altri cronisti italiani160. l’inizio della scrittura deve essere cominciata in occasione della discesa di Carlo VIII: non credo che vi sia stato un particolare lavoro introspettivo da parte del cronista, che non era certo in grado di prevedere la portata storica dell’avvenimento; egli ha solo percepito le conseguenze catastrofiche dell’invasione, traendone lo spunto per scrivere il diario illustrato di un disastro. una percezione certamente favorita dalla struttura urbanistica di napoli che, circondata da quattro castelli, per molti mesi fu il teatro della battaglia tra l’esercito aragonese e quello francese. lo sguardo di Ferraiolo si è poi volto all’indietro, e, almeno per il passato, è voluto sfuggire alla scrittura di un eterno presente. Così, se la parte diaristica si spegne improvvisamente, come accade di solito in questi testi, invece per il passato Ferraiolo imposta un programma di ambizioso recupero: ricorre a testi a stampa per la congiura dei Baroni e alle memorie paterne per arrivare all’arrivo di Alfonso I d’Aragona a napoli; poi, andando a ritroso, copia la stampa di Del Tuppo per avere la storia del Regno e di napoli; e infine, ancora all’indietro, trascrive una cronaca universale, nei confronti della quale l’alterità linguistica è per lui una barriera al volgarizzamento e il vincolo a una copia fedele. un programma che ha generato un
158 Ad esempio, nel copiare la quarta parte, Ferraiolo inserisce una forte cesura strutturale al momento dell’arrivo degli ungari nel Regno: «Como venne lo Re da ungaria a lo regnio de Sicilia. Capitulo uno» (c. 72v). 159 una “versione” diaristica da comparare a quella di Ferraiolo sono i ‘Diurnali’ di Giacomo Gallo [...], ed. l. VOlPICEllA, napoli 1846. Sulla Cronaca cfr. F. SEnATORE, Fonti documentarie e costruzione della notizia nelle cronache cittadine dell’Italia meridionale (secoli XV-XVI), «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio evo», 116 (2014), pp. 279333. 160 Per es., per l’Anonimo Romano, cfr. G. SEIBT, Anonimo romano. Scrivere la storia alle soglie del Rinascimento, Roma 2000 (ed. orig. 1992), p. 96; per Paolino Pieri la testimoniança di veduta dell’arrivo di Carlo d’Angiò a Firenze nel 1284 è giustapposta ad un’annotazione di contenuto analogo, non autobiografica e di stile ben meno vivace (cfr. P. PIERI, Croniche della città di Firenze, ed. C. COluCCIA, lecce 2013 [Quaderni per leggere, 13], § 133.6-7 e 5). Cfr. inoltre in questo volume DE CAPRIO, La scrittura cronachistica cit.
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prodotto linguisticamente e storiograficamente ibrido, nel quale la trascrizione di testi a stampa è manifestazione di un gusto personale: il travaso del materiale è avvenuto attraverso percorsi di rielaborazione rigidi fino al grado zero, e al contempo privi di vaglio e comparazione delle fonti, e in un contesto non sufficientemente ideologizzato. Tutte caratteristiche che tratteggiano un’operazione che, alle soglie del ’500, è priva di futuro. È come se Ferraiolo, componendo il suo “libro”, abbia accostato materiale molto eterogeneo dal punto di vista narrativo: ha messo in sequenza due serie concluse, come il Fasciculus Temporum e la CrP, dotate di un intreccio già decisamente delineato, e le ha giustapposte a una struttura memorialistica, a una serialità del tutto diversa, dove prevale il racconto di un presente senza fine e dove per il cronista non è necessario che vi sia una conclusione e un senso esplicito ma solo che la storia sia deterministicamente ancorata al suo inizio. 15. Riepilogo Alla fine, anche quest’ultimo episodio suggerisce che il processo di costruzione della CrP si manifesta in procedure di riscrittura molto diverse l’uno dall’altro161. Quando il copista si appropria del testo, come nel ’500, la sua cultura, le idiosincrasie linguistiche, le simpatie politiche prevalgono su ogni altra componente testuale: forma e funzione della CrP ne escono rivoluzionate, la struttura irriconoscibile, la lingua modernizzata in tutte le sue componenti, o almeno adattata alla cultura dello scrivente. Quando invece la componente ordinatrice prevalente è la struttura del libro, allora la trasmissione tende a rendere il testo parte di un tutto; la struttura e le componenti paratestuali, pur molto oscillanti, saranno così sempre riconoscibili, sebbene ogni volta rifunzionalizzate in una sorta di operazione di
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Sulla riscrittura in ambito storiografico, cfr. FERnánDEz ORDóñEz, Transmisión y Metamorfosis cit. un ottimo esempio di “ricostruzione” è dato da F. DEllE DOnnE, Gli usi e i riusi della storia. Funzioni, struttura, parti, fasi compositive e datazione dell’Historia del cosiddetto Iamsilla, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio evo», 113 (2011), pp. 31-122: 107-122 (specie 113). Per l’applicazione della terminologia di Genette cfr. DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., p. 49; e, per l’agiografia, M. GOullET, Écriture et réécriture hagiographiques. Essai sur les réécritures de Vies de saints dans l’Occident latin médiéval (VIIIe-XIIIe s.), Turnhout 2005 (hagiologia, 4). Per i processi di commutazione linguistica durante i vari tipi di riscrittura, cfr. BARBATO, Trasmissione testuale cit. Per la letteratura, cfr. I. FAnTAPPIÈ, Riscritture, in Letterature comparate, cur. F. DE CRISTOFARO, Roma 2014 (Manuali universitari, 155), pp. 135-166.
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“recupero”. In ogni caso, a seconda del “contenitore” che le trasmette, le forme della CrP possono essere effetti del processo di riscrittura: la sezione antica della cronaca di napoli, la descrizione del sito della Campania, un ingrediente del tipo “storia universale”, e così via. Il fatto che la CrP si adatti a tanti tipi di libri mostra che nella sua storia redazionale sono prevalenti le ragioni dell’opera così come configurata nell’archetipo. In tutta la tradizione, la CrP si manifesta come un’opera a sé che viene trasmessa in due varianti redazionali abbastanza omogenee, 162 nel complesso ben resistenti alla riscrittura dei copisti . una tradizione così passiva si deve alla giustapposizione di due testi: una prima parte, che prende coesione dalla continuità storica tra la napoli antica e quella angioina, dalla serialità di quei “per fino a lo dì d’ogi” che consentono di riconoscere nell’urbanistica e nelle istituzioni del Trecento la memoria dell’antico; una seconda parte che si manifesta in un elenco dinastico sottoposto a continui aggiornamenti che il diritto imponeva alle monarchie dell’Italia meridionale e ai loro sostenitori. Questo stadio della CrP influenza il lavoro dell’officina storiografica: blocca gli aggiornamenti, genera la seconda redazione, provoca e incorpora i supplementi villaniani. l’incontro della rigidità di CrP I con la malleabilità di CrP II è la forma della CrP nell’archetipo della tradizione ed è anche quella prototipica dell’opera, recuperabile in tutti i manoscritti in tutti i tipi successivi, in tutti i “libri” che su di essa sono stati costruiti. In precedenza, prima della storia del testo trasmessaci dalla tradizione manoscritta, ci sono gli altri “livelli”: c’è il volgarizzamento delle fonti su cui si sono formate le due parti, c’è l’esordio di una nuova storiografia in volgare, c’è il gusto preumanistico della raccolta di materiale narrativo e c’è la schedatura delle monarchie e dei feudatari del Regno tratta dalla cronachistica mediolatina locale.
162 l’eccezione più vistosa è il manoscritto Gino Capponi 108 della Biblioteca naz. Centrale di Firenze: cfr. kEllY, The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 109-110 e 140-143.
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Appendice I Si propone l’elenco delle glosse che occorrono in CrP I secondo la lezione di M (ms. 973, Pierpont Morgan library di new York), significative per la costruzione della cronaca perché mancano in CrP II (v. § 6). le citazioni, con alcuni ritocchi, sono dall’edizione kelly (The ‘Cronaca di Partenope’, cit.); tra parentesi quadre inserisco alcune annotazioni relative alla diffusione delle glosse nella tradizione manoscritta; in assenza, si intende che la glossa è anche nei testimoni della redazione “b” (Pl = ms. I D 14, Palermo, Bibl. Centr. Regione Sicilia; E = ms. a h 8 14, Modena, Biblioteca Estense; Ed1 = stampa attrib. a Del Tuppo, napoli, 1486/1490). A. Il tipo “o”, “o viro” § 3, p. 168,13: «a lo sepulcro o vero templo de Partenope» § 6, p. 171,11: «faude overo scappe dil monte» [solo Pl; a testo: «sponde»] § 14, p. 181,6: «nutriva overo ciebava» [solo Pl; a testo: «nutrica»] § 15, p. 181,21: «Et de poy fo facto lo segio o viro placza de Porto» o § 15, p. 182,8-9: «Et Oracio in VII libro lo quale se chyama Oracio o viro l’Ode de Oracio» [om. E] § 15, p. 182,14-15: «in napoli fo uno grande terramuto o viro tremulo» [om. E] § 16, p. 184,7-9: «et quasi rectore suo o vero maystro homo sagace et dissipulo delle muse chyamato Virgilio mantuano» § 16, p. 184,15-16: «lo imperatore Octaviano chyamò napoli dompna de nove cità, oppido o vero castello murato» [Ed1 om. «o vero»] § 18, p. 185,14: « Et eciam dio fece fare Virgilio una rana o viro sanguesuca» [Pl, E, Ed1: «una certa sanguesuca / sanguisuga / sanguesuga»] § 19, p. 186, 13-14: «perforarolo in ventre [il cavallo magico di metallo forgiato da Virgilio]; dapoy de la quale percussione o roctura lo predicto cavallo perdìo la virtute» [Pl, E, Ed1: «e»] § 19, p. 186,18-19: «la placza o viro segio de Capuana porte l’arme o viro la insignya» [Pl, E, Ed1 om. il primo «o viro»] § 20, p. 187,11: «una cicala o viro cantatrice de rame» § 22, p. 188,15: «Per lo vento lo qual’è chyamato Favorio o viro Furano» [errore in Pl] § 23, p. 189,16-17: «a ppié o viro socto la montagnya» [Pl: «a pié o socto la schiappia di Monte Vergene»; E: «a pié o vero socto la schiappa de Monte Vergene»; Ed1: «a pedi o sotto la schiapa de Monte Virgine»] § 23, p. 189,21: «lo quale iardino o viro orto» [om. E; ma al r. precedente Pl, E e Ed1 avevano già la glossa giardino o vero orto] § 26, p. 192,1: «de le mela, range, o viro citrangola» [manca in quasi tutta la tradiz.]
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§ 26, p. 192,3: «andavano co· lo capo coperto de ferro o viro da coyro» [om. Pl, E; esemplare lac. Ed1] § 27, p. 193,2: «per nisuna cava di fundamenta de hedificio socta terra o vero per puczo o per chyavecha may non fo trovato serpe né altro verme nocivo vivo né morto» [om. Pl, E; esemplare lac. Ed1] § 29, p. 196,5-6: «fece fare una cava o viro grocta» § 30, p. 197,13-14: «lo quale ogi appare et è chyamato lo Castello Marino o vero de Mare». § 31, p. 198, 24: «la dicta grocta o profunda cava» [lac. Pl, E, Ed1] § 31, p. 199, 2: «la dicta grocta o vero cava» [om. Pl, E, Ed1] § 33, p. 201,10: «secundo la costumancza de li gintili o viro pagani» [Pl, E, Ed1: o] § 34, p. 202,13-14: «in quillo luoco dove mo se chyama lo altaro de Pietro o vero Ara Petri» [in aggiunta v. redaz. B a p. 201,16: «dove mo si chiama Ara Petri o Sancto Pietro ad Ara»] § 34, p. 204,1: «intorno overo a llato de sé» § 36, p. 211,8: «uno figlyolo o figlyo» [Pl e Ed1: «uno figlio o figlia»; E: «uno figlio o figliola»]. § 41, p. 216,21-22: «lo cimminarcha o viro dignità ciminarchato» [Pl: «il cimonarcha o vero dignità cimonarcale»; E: «il cimonarta overo dignità cimonarcale»; Ed1: «il cemonarcha o vero dignità cimonarchale»] § 43, p. 219,4: «una piczola habitacione o vero cella» § 48, p. 228,9-10: «certe calore o vero monache» [om. E; Pl: «certe caloyre o vero monache»; Ed1: « certe caloire o vero monache»; v. TlIO s.v. calogera] § 48, p. 228,11-12: «uno loco loro o vero oratorio lo quale chyamato era Sancto nicandro o viro Sancto Marciano» [Pl, E: «e»; Ed1: «o»] § 48, p. 228,12-13: «posto de presso a lo foro o vero a lo palaczo dove se tenea la corte et deffeniano le questiune» § 48, p. 228,15: «se nde gessero in uno luoco o vero scoglyo dentro mare» § 51, p. 239,3: «Per la quale acqua o viro fyume» [Pl, E, Ed1: «un’acqua grande et fyume»] § 51, p. 239,7-8: «et fecero andare per altra via la predicta fyumara o viro grosso curso de acqua» [Pl, E, Ed1:: «per la quale acqua et fyume»] § 52, p. 240,1-7: «quelle monache (o viro calore)» [Pl: «quelle monache o 1 caloyre»; E: «quelle monache et caloiere»»; Ed : «quelli monache o caloire»; v. TlIO s.v. calogera] § 59, p. 247,11-12: «in uno luoco lu quale è chymato Casopoli o viro Casola» [Pl: «Casopoli o vero Casola»; E: «Sassopoli overo Casola»; Ed1: «Caropuli o vero Casola»; è l’unico caso in CrP II; in Garufi, Chronicon cit., p. 196 e Romualdo II Guarna, Chronicon cit., p. 105 si legge: Cassiopam; in BI si trova: SL Casioba; Pal Casopuli; V Casopoli; Vind Cassioba; CS Cassapoli; Fuscolillo Casopoli]. B. Il tipo “cioè” § 11, p. 177,1: «mastro de la cavallaria cioè de la milicia» [om. Pl, E, Ed1] § 12, p. 178,5-6: «per defendere la cità et campi da convicine et per lo capo et
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fortellecze de Ytalia cioè la cita et lo imperio de Roma» [Pl: «Per le citade et campi vicini e pel capo e forteza di Ytalia, zò è il popolo romano e gl’imperio di Roma»; E: «per defender le cità et campi de circumvicini et lo capo et forteza de Italia cioè la cità et lo imperio de Roma»; Ed1: «per defendere la cità et campi de li convicini et per lo capo et forteleza de Italia cioè la cità et lo imperio di Roma»] § 14, p. 180,13: «è chyamata Salito cio è Aula Fori» § 14, p. 181,12: «lo Scoluso cio è uso de scola et stancia de scolari» § 39, p. 213,19-20: «la cita facta de troyani, cio è Roma» § 40, p. 215,19-20: «hodie diffusum est venenum in ecclesia Dey, cio è ogi è intrato lo venino a la ecclesia de Dio» [Pl, E, Ed1 hanno solo la versione in volgare] § 41, p. 216,18-19: «li canonici, cio è septe previti prebendati et septe dyaconi prebendati» § 47, p. 227,2: «a la matre de tucte le ecclesie, cio è in Sancto Johanne a llaterano»
Appendice II CrP IIIA, cap. 126 la morte di Carlo II d’Angiò Ms. Pierpont Morgan library M 973 [sigla: M], c. 136r-v le abbreviazioni sono sciolte in corsivo. Si normalizzano maiuscole, interpunzione, u/v, i/j e s/∫ secondo l’uso moderno. Segni convenzionali: | confine di riga; || confine di colonna; ||| confine di carta; tra graffe si segnalano spazi lasciati volontariamente bianchi dal copista. I numeri in grassetto tra parentesi quadre indicano i punti di sutura degli ipotesti: come si legge in dettaglio nel commento, quelle contrassegnate con 1, 3 e 5 sono sezioni villaniane, mentre 2 e 4 provengono da CrP IIb; sottolineo i passi in cui il redattore di IIIA (o la sua fonte) procede a un’elaborazione autonoma. 1
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[c. 136r] Como morìo lo re Carlo secundo et fo coronato || lo re Roberto suo figlyolo genito terczo. [1.] [n]ell’anni de Cristo m°cccviiij° | lo dì de Pentecosta a dì iij° de | lo mese de magio [2.] de la vija jnd. Carlo | secundo re de Jerusalem et de Cicilia fo morto | ne la cità de napoli et fo sepellito ne la | ecclesia de sancto Dominico de lo ordene de li | predicaturi. Et di poy lo suo corpo fo por|tato jn Provencza et posto ne lo mona|sterio de sancta Maria de naczaret ne la | cità de Ace hedificata per luy. Et quando | morìo era de etate de anni lx. Et visse | ne lo dominio anni xxiiij. [3.] Quisto re | Carlo secundo fo uno de li larghi et gracioso | signyore che a lo tempo vivesse et ne lo suo | regno fo chyamato lo secundo Alixandro. | Per cortesia [4.] fo gloriuso benignyo et | amato signyore, et non sencza accasone, | inperciò che
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alcuni de suoy servitori fece | pervenire a la altecza de lo cardinalato. | Et alcuni altri ad titulo de contato | et alcune a baronie et alcune ad altri | grande officii et honuri. Et incomenczò | ad magnificare la cità de napoli et | fece hedificare lo molo et rimese la | colta a li citadini et fece la gabella de lo | bono dinaro la quale fo multa grata | a li napolitani et de li predicti regnicoli et ||| [c. 136v] altri suoy servituri magnificao assay | chi per muglye[re] et chi per altri honure. Et | primo ad missere Raynaldo de li ursini | dede per muglyere madamma {...} | contessa de nola et luy intitulao conte | de nola, missere Joffreda Gaytano d’Ala|gnyo nepote de la gloriosa memoria | de papa Bonifacio viij° dede per muglyere | madamma {...} contessa de Fundi et | fello conte de Fundi; semelemente messere | hormingaldo di Sabrano fece conte de Ariano, | missere Bertheraymo de lo Balso | conte de Monte Scagiuso, Riczardo de | Chyaramonte fece conte de Chyaramonte, | missere Johanne de Monteforte fece conte | de Monteforte. Anche de chyare et altissimi | honuri sì magnificò li nobili et extre|mi cavaliere missere Roberto et missere | Barthomeo Siguinolfi frati et citadini de | napoli, li quali l’uno sì honorò et fece | a lo officio conte Camorlingo et l’altra | a lo officio de miraglyato de lo regno de | Cicilia. Quisto re Carlo non fo armigero | [5.] et fo magnyanimo in sua vecchecza | dissordinamente in vicio carnale et | de usare pucelle, scosandose per certa | malicia che avea. ne lo predicto anno a dì | x de lo predicto mese de magio de nocte | quasi a lo primo sompno apparce in aria || uno grandissimo foco in forma de | una galea correndo da la parte d’aquilone | verso lo meridie con grande chyarore sic|ché quasi per tucta Ytalia fo veduto | et fo tenuto una grande maraviglya. | Et per li pyù se desse che fo signo de la | venuta de lo inperatore Arrico lo quale | dessese da la Magnya in Ytalia con gran|dissima potencia como jnnanczi far|remo mencione. 1-2: varia è la lectio della rubrica nella tradizione; per es., manca in P1 e P2 (mss. it. 304 e it. 301, Bibl. nat. de Paris) e in Ve (ms. 495, Bibl. Civica e Comun. di Verona); dopo coronato B (ms. 991, Bibl. de Catalunya) aggiunge: «re de lo riame de Sicilia»; è del tutto diversa in n2 (ms. XIV D 7, Bibl. naz. di napoli): «Quisto capitulo | parla de li homini dello re Carlo fe’ | pervenire ad honuri et stato, et de soi | virtù et magnificencia, et como | in quisto anno morìo in la ci|tate de napoli». 4-8 Nell’anny ... per luy: l’intero capoverso raccoglie notizie da CrP IIb e da Giovanni Villani. Infatti l’esordio è ripreso da CrP IIb (§ 93, p. 274,22-32), dove, però, il passo non è all’inizio ma al termine della sezione biografica relativa a Carlo II (§§ 91-93); infatti IIb organizza tutto il materiale a sua disposizione in nuclei narrativi accortamente disposti: la successione di Carlo II, il suo carattere («storto di corpo ma dricto di mente») e i monasteri da lui fondati (con notizie comuni a ms. Vindob. 71, c. 83r, testimone della BI) sono nel cap. 91; l’elenco dei figli e delle figlie è nel cap. 92; i benefici che il re concesse a napoli e a cittadini regnicoli e francesi e la sua morte sono nel cap. 93. In tal modo IIb si allontana da IIa, § 71 (p. 271,1-15), che, come IIIA, ha questi stessi materiali all’inizio della narrazione; è però inopportuno ipotizzare che la riorganizzazione di IIIA dipenda dalla distribuzione delle notizie di IIa, dal momento che la narrazione di IIIA si struttura sostanzialmente su Villani, che dà inizio al capitolo IX 108 con la notizia della morte di Carlo II. Infatti, due particolari del passo di IIIA sono tratti da Villani, Nuova Cronica; essi sono il riferimento alla Pentecoste e il giorno della morte del re (CrP IIa e IIb hanno il 5 maggio; BI ha 5 o 6 maggio): «nel detto anno, il dì di Pentecosta, a dì III di maggio, morì il re Carlo secondo
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[...]» (IX 108). la precisazione che il monastero di S. Maria di nazareth (cioè di NotreDame de Nazareth) di Aix en Provence fu «hedificata per luy» corrisponde a una notizia che si trova solo in IIb, nella sezione dedicata ai monasteri fondati da Carlo II: «luy fe’ hedificare ad Aix cità di Provensa un monastero di frati riligiosi et monaci, il quale se chyama ‘Sancta Maria di nazareth’» (§ 91, p. 271,9-13); in IIIA questa annotazione viene aggiunta al riferimento alla traslazione del corpo che in IIb è alla fine della nota biografica: «El corpo suo dopo fo portato in Provensa et posto al decto monastero di Santa Maria di nazareth» (§ 93, p. 274,29-31); come si legge nel testo al rigo 8, la giustapposizione delle due notizie in IIIA è maldestra, dal momento che ne risulta una lezione equivoca, che potrebbe indurre a credere che Carlo II abbia fondato la città di Aix e non solo il convento. Si noti, a margine, che il convento non era «di frati riligiosi et monaci» ma era femminile, come correttamente si riporta in IIa («lo monasterio de Sancta Maria de nazareth dell’ordene de le sore predecatrice»: § 71, p. 271,14-15). V. G. Vitolo, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, napoli 2014, pp. 286-287, con altri rinvii bibliografici; F. Mazel, Piété nobiliaire et piété princière en Provence sous la première maison d’Anjou (vers 1260vers 1340), in La noblesse dans les territoires angevins à la fin du Moyen Âge, cur. n. Coulet - J.-M. Matz, Romae 2000, pp. 527-551 (leggibile in formato digitale presso «Reti Medievali»). Il nome di Aix è martoriato nei codici: in M la -e è macchiata; altre lezioni sono Aes (P2 e n2), Acs (B, Ve e P1). 8-9 Et quando ... xxiiij: è iniziativa di IIIA di estrarre le notizie sull’età di Carlo II e sulla durata del suo regno, che in IIb (e in IIa) erano incorporate nella succitata sezione biografica (rispettivamente § 93, p. 274,22-28; § 71, p. 271,3-4 e 11), e di raccoglierle alla fine del primo capoverso. 10-12 Quisto re ... signyore: quasi tutto il passo è calco di Villani, Nuova Cronica, IX 108: «morì il re Carlo secondo, il quale fu uno de’ larghi e graziosi signori ch’al suo tempo vivesse, e nel suo regno fu chiamato il secondo Allessandro per la cortesia». Solo gli ultimi attributi vengono da CrP IIb, § 93, p. 273,19-20: «Fo glorioso, benigno, liberale, et molto amabele»; in IIa (§ 73, p. 273,13-15) si legge: «Fo lo re Carlo secundo iusto, graciuso, liberale, benignyo, et multo amato da li vassalli». la giustizia di Carlo II, presente in IIa e assente in IIIA, viene sviluppata da IIb, cap. 93, p. 273,13-15. Come si vede, anche il cenno alla liberalità del re accomuna IIa e IIb, mentre è assente in IIIA. nella sua costruzione IIIA non tiene conto del lungo excursus sui figli di Carlo II, comune a IIa (§ 72) e IIb (§ 92) e anche a tutta la tradizione di BI. 12-29 et non ... de Cicilia: il lungo passo trova corrispondenza in IIb, § 93, p. 273,2335. Poche le varianti: nell’esordio all’espressione brachilogica «Et non sencza accasone [fu amato] jnperciò che» ecc. corrisponde un’esplicita correlazione in IIb: «Et imperò esso ragionevelemente per y soy meriti fo amato da tucti, imperò che» ecc. Invece a rr. 17-18, la lezione di IIIA «et de li predicti regnicolj et altri suoy serviturj magnificao assay» corrisponde a un’anafora solo pronominale in IIb («Et magnificaonde assay»). Infine, le ultime parole a rr. 28-29 («de lo regno de Cicilia») sono assenti in IIb. 29-37 Quisto re ... mencione: l’intero passo dipende dalla fine del cap. di Villani, Nuova Cronica, IX 108 e dal seguente cap. 109: «ma per altre virtù fu di poco valore, e magagnato in sua vecchiezza disordinatamente in vizio carnale, e d’usare pulcelle, iscusandosi per certa malattia ch’avea di venire misello; e lui morto, a napoli fu soppellito a grande onore»; «nel detto anno MCCCVIIII, a dì X di maggio, di notte, quasi al primo sonno, apparve in aria uno grandissimo fuoco, grande in quantità d’una grande galea, correndo da la parte d’aquilone verso il meriggio con grande chiarore, sì che quasi per tutta Italia fu veduto, e fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu segno de la venuta dello ’mperadore». le innovazioni (forse varianti di trasmissione?) sono poche; all’inizio, «per altre virtù fu di poco valore» viene sostituito con un più tenue (e culto) «non fo armigero»; oltre che ragioni ideologiche, sono possibili motivi paleografici nel passaggio di «magagnato» di Villani
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(‘corrotto’: v. TLIO, s.v., § 2) nel suo contrario «magnyanimo», lectio singularis, presente anche in Ve, in P1 (carte n.n.) e in P2 (c. 101r), ma assente in B (c. 103v), che ha «magagniato»; inoltre «malattia» di Villani diventa «malicia» in M; viene cassato il resto del capitolo, con il difficile misello e con il richiamo alla sepoltura, già descritta in precedenza. la narrazione prosegue, senza discontinuità, con il cap. 109 di Villani, al quale vengono aggiunti, in fine, il nome dell’imperatore Enrico VII e un preannuncio della sua missione in Italia, trattata nel successivo cap. 127.
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MARCELLO BARBATO TESTO E CODICE. LE CRONACHE VOLGARI FINO A VILLANI
1. Premesse Il tema che mi è stato affidato, e che ho accettato con entusiasmo, si presta a una duplice declinazione: la prima, quella probabilmente voluta dagli organizzatori, riguarda lo studio del testo storiografico nella sua realtà manoscritta; la seconda, che mi sono permesso di aggiungere, intende codice non come concreto artefatto ma come astratto modello (genere, architesto) generativo dei testi reali, nella convinzione che l’appartenenza generica abbia anche delle conseguenze sulla mobilità testuale delle opere. La correlazione tra testo storico e forma manoscritta è stata tematizzata nel suo bel libro da Franca Ragone, che sottolinea l’«opportunità di tener conto delle modalità di preparazione della pagina, dei tipi e delle procedure di scrittura, dell’inserimento nel codice di strumenti ausiliari per la consultazione»1. Gli storici accolgono così una spinta che viene dalla codicologia e dalla paleografia – basti fare il nome di Armando Petrucci – ma che è convergente con la rivalutazione da parte della filologia degli aspetti materiali della trasmissione e del ruolo della ricezione dei testi, su cui si veda il bilancio recente di Lino Leonardi2. Come ha sottolineato lo stesso Leonardi, mancano purtroppo in Italia scavi sistematici e conseguenti repertori della tradizione manoscritta delle opere volgari, e in particolare di quelle in prosa3. Viene meno così una base 1 F. RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze
nel Trecento, Roma 1998 (Nuovi Studi storici, 43), p. 106. 2 L. LEONARDI, Filologia della ricezione: i copisti come attori della tradizione, «Medioevo Romanzo», 38 (2014), pp. 5-27: 7-8. 3 L. LEONARDI, La tradizione italiana, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, cur. P. BOITANI - M. MANCINI - A. VARVARO, vol. II (La circolazione del testo), Roma 2002, pp. 555-594: 556 e 574.
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sicura su cui fondare il nostro discorso. Alcune generalità sulla trasmissione manoscritta (della storiografia) volgare si ricavano tuttavia dalle sintesi di D’Agostino, per il Duecento, e di Gualdo e Palermo per il Trecento4. Se in generale sono rari i manoscritti duecenteschi di prosa volgare, per i testi cronachistici «la norma sembra essere la notevole recenziorità dei relatori»5. Da una parte abbiamo testi con contati testimoni e a volte mai usciti dall’ambito di trasmissione familiare, dall’altra l’eccezionale ricchezza della tradizione manoscritta di Villani (111 mss.) che ha fagocitato anche altre tradizioni6; eccezione anche cronologica, se è vero che almeno un terzo dei codici sono sicuramente del XIV secolo7. 2. Il corpus Come si nota dal sottotitolo, per la presente occasione si imponeva una limitazione del corpus, che non poteva che essere cronologica. Il limite posto al 1350 vale sia per la composizione che per la trasmissione: cadono così la Cronichetta lucchese, i Gesta florentinorum, la Sconfitta di Monte Aperto, la Cronaca di Dino Compagni8. Ci si è limitati inoltre a: - testi originali (escludendo i volgarizzamenti), - in prosa (limite in realtà superfluo perché il Centiloquio di Pucci e la Cronica di Buccio di Ranallo sono esclusi già dal limite cronologico), - in volgare italoromanzo. Le Estoires de Venise di Martin da Canal (Firenze, Biblioteca Nazionale, Riccardiano 1919, s.m. XIII sec.) cadono per il terzo limite; il 4
A. D’AGOSTINO, La prosa delle Origini e del Duecento, in Storia della letteratura italiana, cur. E. MALATO, X (La tradizione dei testi, cur. C. CIOCIOLA), Roma 2001, pp. 91135; R. GUALDO - M. PALERMO, La prosa del Trecento, ibid., pp. 359-414. 5 D’AGOSTINO, La prosa cit., p. 93. 6 La trasmissione della Leggenda di Gianni di Procida (v. oltre §§ 3-4) termina quando comincia quella di Villani, come si osserva in Cronache volgari del Vespro, ed. M. BARBATO, Roma 2012 (R.I.S.3, 10), p. 78. 7 F. RAGONE, Le scritture parlate. Qualche ipotesi sulla redazione delle cronache volgari nel Trecento dopo l’edizione critica della «Nuova Cronica» di Giovanni Villani, «Archivio Storico Italiano», 149 (1991), pp. 783-810: 805. 8 Bibliografia in A. D’AGOSTINO, Itinerari e forme della prosa, in Storia della letteratura italiana, cur. E. Malato, I (Dalle Origini a Dante), Roma 1995, pp. 527-630; D’AGOSTINO, La prosa cit.; GUALDO - PALERMO, La prosa cit.; cui si aggiunga La Sconfitta di Monte Aperto. Una cronaca e un cantare trecenteschi, ed. L. SPAGNOLO, Siena 2004.
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TESTO E CODICE: LE CRONACHE VOLGARI FINO A VILLANI
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ms. fr. 688 della Bibliothèque Nationale de France (anni ’40 del XIV) – contenente Eutropio, Isidoro, Paolo Diacono e Amato di Montecassino tradotti dal latino al francese – anche per il primo9. A rigore rientrerebbe nei termini l’ampliamento della sezione storica che si trova nel volgarizzamento a del Tresor di Brunetto Latini10; il «Tesoro volgare» presenta però problemi codicologici diversi e peraltro esaurientemente trattati da Sandro Bertelli11. Altri limiti sono di fatto. Testi che cronologicamente rientrerebbero nei nostri termini scontano però una non sufficiente istruzione filologica: quante opere appaiono del tutto inedite o affidate a edizioni vetuste, o prive di una descrizione codicologica adeguata! In conseguenze delle varie limitazioni: - il panorama appare ristretto alla sola Toscana con l’appendice umbra ed emiliana12; - cronaca si identifica con ‘memoria di avvenimenti contemporanei o recenti’. Ne risulta il breve catalogo seguente13. Non sorprenda l’inclusione del Libro del Biadaiolo, che, pur non rientrando nel prototipo della cronaca, è comunque non solo memoria di eventi contemporanei, ma anche di estrema importanza per la storia del libro volgare.
9 Bibliografia in Martin da Canal, «Les estoires de Venise»: cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, ed. A. LIMENTANI, Firenze 1972; J. KUJAWIÑSKI, Alla ricerca del contesto del volgarizzamento della «Historia Normannorum» di Amato di Montecassino: il manoscritto francese 688 della Bibliothèque nationale de France, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo », 112 (2010), pp. 91-135. 10 M. GIOLA, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del «Tresor» di Brunetto Latini, Verona 2010. 11 S. BERTELLI, Tipologie librarie e scritture nei più antichi codici fiorentini di ser Brunetto, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studi (Università di Basilea, 8-10 giugno 2006), cur. I. MAFFIA SCARIATI, Firenze 2008, pp. 213-254. 12 Ma gli altri interventi non mancheranno di trattare la nostra questione nelle singole aree. 13 La scala delle dimensioni (medio, medio-piccolo, medio-grande, ecc.) è improntata a S. BERTELLI, I manoscritti della letteratura italiana delle Origini. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze 2002, p. 9. BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana; BML = Biblioteca Medicea Laurenziana; BNC = Biblioteca Nazionale Centrale.
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MARCELLO BARBATO
ms. 1 2
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6 7 8
caratteristiche codicologiche
scrittura (e ornamentazione)
Firenze, BNC, II IV 323 (Firenze, in. XIV sec.) Firenze, BNC, Magl. XXV 260 (Firenze, s.q. XIV sec.)
medio-grande (313 X 234), cartaceo medio (270 X 195), pergamenaceo, mutilo [?]
autografo, bastarda
Modena, Biblioteca Estense, it. 197 (Napoli, 1325ca.) Firenze, BNC, Magl. XXXVIII 127 (Firenze, 1335ca.) Città del Vaticano, BAV, Vat. Lat. 5256/1 [primo elemento di un codice composito] (Emilia, in. XIV sec.) Roma, BNC, 871 (Perugia, p.m. XIV sec.) Firenze, BML, Tempi 3 (Firenze, 1344 ca.)
medio (290 X 220), pergamenaceo medio-piccolo (155 X 115), pergamenaceo medio (215 X 150), pergamenaceo [materiale di non eccelsa qualità] medio-grande (320 X 240), pergamenaceo, mutilo grande (385 X 270), pergamenaceo
scrittura «di impronta notarile» (Ugolini) minuscola cancelleresca, illuminato
Firenze, BNC, II I 289 (Firenze, m. XIV sec.)
medio-grande (355 X 262), pergamenaceo
bastarda su base notarile, illuminato
autografo [?], littera textualis [Coluccia: «di livello disomogeneo, poco accurato e inelegante»] littera textualis, illuminato bastarda, illuminato corsiva di stampo notarile
2.1 Un codice di lavoro Il num. 114 contiene la cosiddetta Cronica fiorentina, che tratta il periodo dal 1050ca. al 1293, con una lacuna tra il 1249 e il 1285. Il manoscritto è però incompleto e comincia solo dall’anno 1181; l’opera è tradita completa dal ms. Gadd. 77 della Biblioteca Laurenziana di Firenze (sec. XV)15. La cronaca utilizza come scheletro un volgarizzamento preesistente della cronaca universale di Martin Polono, aggiungendovi materiale tratto probabilmente da una compilazione annalistica fiorentina e altre notizie di storia locale. Ciò che è più interessante è che il codice fotografa esattamente questo sistema compositivo, perché lo scrivente (da identificare con l’autore della cronaca) ha in un primo tempo occupato una colonna centrale della pagina, aggiungendo poi a margine e negli interlinei le altre notizie, progressivamente più copiose16. Queste notizie sono poi state inserite nel corpo del testo dal manoscritto gaddiano. 14 15
Bibliografia: BERTELLI, I manoscritti della letteratura cit., num. 25, tav. XXXII. L’ed. di A. SCHIAFFINI (Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1954, pp. 82-150) è ripresa parzialmente in C. SEGRE - M. MARTI, La prosa del Duecento, Milano-Napoli 1959, pp. 907-926 (la nota al testo è a pp. 1110-1111). 16 RAGONE, Giovanni Villani cit., p. 11; BERTELLI, I manoscritti della letteratura cit.; M. ZABBIA, Prima del Villani. Note sulle cronache universali a Firenze tra l’ultimo quarto del Duecento e i primi anni del Trecento, in Le scritture della storia, cur. F. DELLE DONNE - G. PESIRI, Roma 2012 (Quaderni della Scuola nazionale di studi medievali), pp. 139-162: 145.
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Si veda l’esempio seguente17:
«In questo anno il re di Castello, colla forza di messer Aduardo re d’Inghilterra, del mese d’aprile, fece battalgla con tre re Saracini, e fue lo re di Granata e lo re di Morroccho e lo re Arpino, e tutti e tre fuoro sconfitti, e morti più di ccl milglaia di Saracini; e xlij nobili e maggiori baroni di tutta quella gente pagana mandaro prigioni alla Chiesa di Roma, e io li vidi. E menaro co lloro uno piccinacho morto ed uno vivo e uno asino vergato».
Il manoscritto si presenta così come un codice di lavoro, tipologia nota ma non frequente nella storiografia latina medievale18.
17 Si riproduce parzialmente la tav. di Bertelli sottoscrivendovi la trascrizione di Schiaffini (p. 139), con in corsivo la parte marginale. 18 M.-C. GARAND, Auteurs latins et autographes des XIe et XIIe siècles, «Scrittura e Civiltà», 5 (1981), pp. 77-104; M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999, p. 38; ZABBIA, Prima del Villani cit., p. 145. Sul concetto di codice di lavoro e la sua applicazione a opere storiografiche più tarde cfr. anche C. DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli tra Medioevo e prima età moderna, Roma 2012, pp. 139ss. Sullo statuto mobile del codice di lavoro, che può essere un’edizione d’autore “scaduta”, cfr. L. BATTAGLIA RICCI, Edizioni d’autore, copie di lavoro, interventi di autoesegesi, in «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani, cur. G. BALDASSARRI et al., Roma 2010, pp. 123157: 126.
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2.2 Un manoscritto d’autore? Il num. 219 è l’unico testimone della cronaca di Paolino Pieri, che comincia dal 1080, tratta rapidamente i primi anni, «diventa annuale a partire dal 1195, anno dell’istituzione della magistratura consolare», come scrive l’editrice Chiara Coluccia20. L’opera termina abruptamente nel 130521. La stessa Coluccia ha avanzato un’ipotesi di autografia, contestata da Davide Cappi22. Eccone gli argomenti (e i controargomenti): secondo Coluccia vi è una sostanziale assenza di errori (ma secondo Cappi gli errori ci sono); le correzioni sono della stessa mano che verga il testo (ma secondo Cappi correggono errori di trascrizione); alcuni spazi sono stati lasciati in bianco in attesa di essere riempiti; si nota una progressiva minor cura nella preparazione del testo23. Insomma, secondo Coluccia, l’«intero assetto del manoscritto denunzia una situazione di patente provvisorietà formale, caratteristica di un prodotto d’autore in via di completamento», mentre per Cappi lo stato del manoscritto è del tutto compatibile con l’ipotesi di una «copia da minuta autografa»24. 2.3 Due codici miscellanei Il num. 325, che si caratterizza per l’eleganza della scrittura e dell’ornamentazione (tav. I), contiene la Leggenda di Gianni di Procida [= Leg] – cronichetta che attribuisce il Vespro siciliano alla macchinazione dell’eroe eponimo –, unita al volgarizzamento del Gioco degli Scacchi di Jacopo da Cessole (testo principale, illuminato) e a brevi Avvertimenti di maritaggio; si è ipotizzato che i testi fossero già uniti nell’antigrafo, di probabile provenienza lucchese e ambiente domenicano. Questa unione sembra sintomo della ricezione morale della storia (cfr. del resto l’incipit della Leggenda: «Volendo dimostrare apertamente a ciascheduno il gran peccato e ’l peril-
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Bibliografia: BERTELLI I manoscritti della letteratura cit., 88, tav. CXII; P. PIERI, Croniche della città di Firenze, ed. C. COLUCCIA, Lecce-Rovato 2013, pp. XXI-XXII. 20 Ibid., p. IX. 21 Secondo Coluccia (ibid., p. XX) il ms. «non reca tracce evidenti di mutilazione», ma i primi tre fascicoli sono quaderni, mentre il quarto ha solo due carte. 22 D. CAPPI, rec. all’ed. Coluccia cit., «Medioevo Romanzo», 39 (2015), pp. 471-474. 23 PIERI, Croniche cit., p. LXIII: «A partire dalla c. 9 r (inizio secondo fascicolo) lo specchio di scrittura diventa meno regolare: i righi sono spesso non allineati, gli spazi dell’interrigo non sono uniformi, la larghezza delle colonne varia (anche nella stessa carta)». 24 Ibid.; CAPPI, rec. cit., p. 474. 25 Bibliografia: Cronache volgari del Vespro cit., pp. 201-208 [con una consulenza di S. Bertelli].
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glioso fallo che fece e contrasse messere Gianni di Procida inverso lo re Karlo...»). Leg è trasmessa incompleta anche nel manoscritto 426, che contiene in ordine sparso: vite di santi, volgarizzamenti morali, filosofici e scientifici (Libro di Cato, Albertano da Brescia, Disciplina clericalis, Onorio di Autun...) e una breve cronaca ancora da studiare27. La Leggenda è l’ultimo testo del manoscritto, che non è stato condotto a termine come mostra anche l’assenza delle iniziali (tav. II). Il codice, parzialmente illuminato, è probabilmente – per usare la fortunata espressione di Branca – l’opera di un «copista per passione», noto per aver vergato anche il ms. BNC, Panciatichiano 32 contenente l’UrNovellino28. Se da un lato il manoscritto rappresenta una coerente enciclopedia a sfondo soprattutto morale, dall’altro risulta piccante l’accostamento alle leggende dei Santi della leggenda di Gianni di Procida, presentato piuttosto con tratti diabolici29. Un testo parallelo a Leg [= Tes: Cronaca interpolata nel Tesoro] è inserito all’interno del già citato ampliamento storico del Tesoro volg. nel ms. Magl. VIII 1375 della Biblioteca Nazionale di Firenze (in. XIV sec.)30. 2.4 Il libro di un notaio? Il num. 531 contiene il Liber Jani de Procita et Palioloco [= Lib], corrispettivo settentrionale dell’appena menzionata Leggenda. Dietro si intrave-
26 Bibliografia: S. BERTELLI, Il copista del «Novellino», «Studi di Filologia Italiana», 56 (1998), pp. 31-45; M. BARBATO, Un frammento della leggenda di Gianni di Procida e il copista del «Novellino», «Medioevo Romanzo», 34 (2010), pp. 291-313; BERTELLI, I manoscritti della letteratura cit., 95, tav. CXXI. 27 Cfr. D’AGOSTINO, La prosa cit., p. 135. 28 V. BRANCA, Copisti per passione, tradizione caratterizzante, tradizione di memoria, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 69-83. 29 In questi casi è sempre in agguato il rischio di sovrinterpretare: la mescolanza dei generi è la norma nei codici medioevali, cfr. A. VARVARO, Élaboration des textes et modalités du récit dans la littérature française médiévale, «Romania», 119 (2001), pp. 1-75 (rist. in VARVARO, Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma 2004, pp. 285-355, da cui si cita) e, per l’area italiana, LEONARDI, La tradizione italiana cit. Va detto però che la coerenza dei codici miscellanei francesi sembra aumentare con il tempo (cfr. K. BUSBY, Codex and Context. Reading old French verse narrative in manuscript, 2 voll., New YorkAmsterdam 2002, cap. 5). 30 Bibliografia: BERTELLI, I manoscritti della letteratura cit., p. 67; BERTELLI, Tipologie librarie e scritture cit., 16; Cronache volgari del Vespro cit., pp. 208-213. 31 Bibliografia: Cronache volgari del Vespro cit., pp. 214-216 [con una consulenza di S. Bertelli].
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de un notaio interessato di storia che copia per sé: se l’impostazione non fosse libraria, potremmo definirlo senz’altro un «libro-registro». Si ricordi che questa formula è impiegata da Petrucci per designare un modello librario che si ispira al registro notarile e commerciale e si caratterizza per la scrittura cancelleresca (ne è esempio principe il ms. V [BAV, Vat. Lat. 3793] dell’antica lirica italiana, di contro ai mss. P [BNC, Banco rari 217] e L [BML, Redi 9], fedeli al modello del libro cortese)32. Secondo Teresa De Robertis tuttavia la formula è appropriata solo se riferita alla scrittura, «nessuna delle altre caratteristiche materiali del libro (né l’impaginazione su due colonne, né il formato, né la decorazione, né ovviamente la materia scrittoria) essendo specifica di un registro o di un libro a contenuto documentario o normativo»33. 2.5 Un manoscritto ufficiale? Il num. 634 contiene gli Annali di Perugia. Il testo consiste in un elenco dei consoli dal 1191; a partire dal 1245 si inseriscono sempre più sistematicamente e fittamente notizie prima locali, poi anche “nazionali” ma con eco locale (ad esempio si ricorda la discesa di Carlo d’Angiò, ma non si fa cenno del Vespro). Fino alla notizia relativa al 7 maggio 1327, il manoscritto è opera di una sola mano, poi si succedono mani diverse; «gli ultimi fogli sono stati brutalmente tagliati e asportati dal quaderno di cui facevano parte»35. Sia le caratteristiche codicologiche sia il carattere ortodossamente guelfo fanno pensare a un testo ufficiale nato per l’«esigenza di consegnare in una lingua accessibile a tutti la memoria dei principali accadimenti cittadini»36; il che è tanto più notevole in quanto nell’Italia bassomedievale non sembra esistere una storiografia ufficiale, sono rare le opere commissionate dalle autorità cittadine, non sono noti casi di censura37. Siamo di fronte probabilmente all’unico superstite di un tipo che dev’es-
32 A. PETRUCCI, Il libro manoscritto, in Letteratura Italiana, cur. A. ASOR ROSA, II (Produzione e consumo), Torino 1983, pp. 499-524: 509ss.; PETRUCCI, Storia e geografia delle culture scritte (dal secolo XI al secolo XVII), in Letteratura Italiana. Storia e geografia, cur. A. ASOR ROSA, II (L'età moderna), Torino 1988, pp. 1194-1292: 1224ss. 33 T. DE ROBERTIS, Scritture di libri, scritture di notai, «Medioevo e Rinascimento», 24 (2010), pp. 1-27: 10. 34 Bibliografia: F. UGOLINI, Annali e cronaca di Perugia in volgare dal 1191 al 1336, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia», 1 (1963-64), pp. 131-336: 242-248. 35 Ibid., p. 242. 36 Ibid., p. 243. 37 ZABBIA, I notai e la cronachistica cit., p. 319s.
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sere esistito in quasi tutte le città tosco-umbre (Firenze, Lucca, Pisa, Pistoia, Siena, Todi), come mostrano i testi di tradizione più tarda o complessa38. 2.6 Lo strano caso del Biadaiolo Il num. 739 contiene lo Specchio umano di Domenico Lenzi, mercante in grani (o «Libro del Biadaiolo»), che si compone di un proemio e di una lista di prezzi delle derrate dal 1329 al 1335 interrotta da una descrizione della carestia del 1329-30 e inframezzata da componimenti poetici. Secondo Giuliano Pinto il codice è scritto da due mani, secondo Luisa Miglio invece da uno scriba incostante; sono sicuramente di mano diversa le rubriche, che da una parte presentano rasure, dall’altra appaiono compresse nello spazio disponibile, onde si può «ipotizzare sia un’errata valutazione dello spazio da parte del trascrittore sia un mutamento o allargamento dell’idea primitiva che avrebbe potuto prevedere solo più concisi dati storico-cronologici»40. Il codice è riccamente illuminato: la primissima colonna è occupata a metà da una miniatura che rappresenta il Biadaiolo stesso nella sua bottega; diverse miniature a piena pagina illustrano un sonetto che si trova sul verso. Se per Pinto il manoscritto sarebbe stato fatto esemplare dall’autore stesso, secondo Miglio la committenza potrebbe essere pubblica (il libro ricorda casi di lussuosi Statuti di Arti). Sulla base della scrittura e dell’ornamentazione la Miglio aveva datato il Libro al 1344ca., mentre Pinto sulla base di indizi testuali avanza la datazione al 1340ca. La Miglio obietta che così si confonde l’opera (che sarà ben del 1340) e il libro, più tardo; il manoscritto è una copia in mundum che deriva da appunti sottomessi a un’elaborazione letteraria; il fatto che il Lenzi scriva intorno al 1340 «non significa assolutamente che anche l’elaborazione del codice Laurenziano – codice, badiamo bene, non testo – vada collocata in quegli anni»41.
38 Cronaca di Pisa di Ranieri Sardo, ed. O. BANTI, Roma 1963 (Fonti per la storia d’Italia, 99); GUALDO - PALERMO, La prosa del Trecento cit., par. 4; UGOLINI, Annali e cronaca di Perugia cit., p. 273; RAGONE, Giovanni Villani cit., p. 10; ZABBIA, Prima del Villani cit., p. 145. 39 Bibliografia: L. MIGLIO, Per una datazione del Biadaiolo fiorentino, «La Bibliofilia», 77 (1975), pp. 1-36; G. PINTO, Il libro del Biadaiolo. Carestie e annona a Firenze dalla metà del ’200 al 1348, Firenze 1978, p. 153. 40 MIGLIO, Per una datazione del Biadaiolo cit., p. 6. 41 L. MIGLIO, Considerazioni ed ipotesi sul libro «borghese» italiano del Trecento. A proposito di un’edizione critica dello «Specchio umano» di Domenico Lenzi, «Scrittura e civiltà»,
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Quello che spicca nel Libro è il contrasto tra contenente e contenuto e l’uso in un libro di lusso della minuscola cancelleresca, una scrittura «che non sembra abbia mai acquisito tra le classi colte il prestigio di cui godeva la scrittura gotica»42. La Miglio ribattezza questa tipologia, che comprende anche il Dante trivulziano e il Caleffo dell’Assunta (oltre al Villani che vedremo tra poco), «libro di lusso borghese», attribuendone l’iniziativa a committenti che aspiravano a manufatti preziosi, ma non volevano rinunciare alla scrittura che impiegavano usualmente nei loro libri di conto o nei loro registri43. 2.7 Un manoscritto di lusso Il num. 844 contiene la cronaca di Giovanni Villani. Come scrive Bertelli, il manoscritto è «frutto della collaborazione di tre copisti dotati di elevate competenze grafiche», il primo dei quali potrebbe essere Francesco di ser Nardo da Barberino, che verga la Commedia del ms. Milano, Biblioteca dell’Archivio Storico e Trivulziano, Trivulziano 1080 (1337) e del ms. BNC, Gaddiano 90 sup. 125 (1347). «L’organizzazione della pagina risulta molto accurata: rigoroso rispetto dell’allineamento delle lettere sulla riga di base; distribuzione degli spazi altrettanto equilibrata, soprattutto nel rapporto specchio di scrittura/margini»45. La decorazione è pregevole. 3. Dalla mise en page alla mise en texte Dal nostro corpus si deduce una sorta di medietas del codice di storia: si ricordi, con Bertelli, che alle Origini i manoscritti membranacei (77%) e in littera textualis (59%) sono in maggioranza46.
3 (1979), pp. 309-327: 322. Si sarà notato come nella citazione ricorrano i due termini centrali del nostro tema. 42 Ibid., p. 313. 43 PETRUCCI (Il libro manoscritto cit., p. 511; Storia e geografia cit., p. 1230) ha poi sviluppato il concetto di «libro-registro di lusso». Invita a una certa prudenza prima di giudicare sulla eventuale connotazione sociale di una scrittura DE ROBERTIS, Scritture di libri cit. 44 Bibliografia: BERTELLI, I manoscritti della letteratura cit., 5, tavv. VII-IX. 45 Ibid. 46 Il corpus di Bertelli (I manoscritti della letteratura cit.) è costituito dai manoscritti della Nazionale di Firenze. È interessante invece che i codici di Villani siano in maggioranza cartacei (76%) e in corsiva (74%), come stabilisce RAGONE, Le scritture parlate cit., p. 805 sulla base di G. PORTA, Censimento dei manoscritti delle cronache di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, «Studi di Filologia Italiana», 34 (1976), pp. 61-129; 37 (1979), pp. 93-117.
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Tra i nostri esemplari si annovera un codice di lavoro (Cronica fiorentina) e forse anche un codice d’autore (Paolino Pieri). Sono rappresentate le tipologie del libro tradizionale e del libro-registro, non quella del «librozibaldone», caratterizzato da formato medio-piccolo, scrittura cancelleresca, assenza di ornamentazione, che si affermerà nella seconda metà del secolo, in parallelo all’aumento della diffusione dell’alfabetismo e all’accesso di nuovi gruppi sociali alla scrittura47. Volendo passare dagli aspetti codicologici a quelli testuali, si impone una piccola parentesi terminologica sui termini mise en page e mise en texte, non sempre adeguatamente distinti. Rimandando a un’altra occasione una discussione accurata del problema, ci limitiamo ad avvertire che, presa la gerarchia ideale testo > paratesto > codice, consideriamo relativi alla mise en page gli elementi legati alla fisicità del supporto, alla mise en texte quelli che nel codice stesso evidenziano delle articolazioni testuali (titoli, rubriche, ecc.): tali elementi (paratestuali) sono indipendenti dalla materialità del codice e potrebbero benissimo sopravvivere in un altro supporto, così come il testo rimarrebbe grosso modo lo stesso se privato degli elementi paratestuali48. È noto che solo con la Scolastica si afferma l’idea di un testo con divisiones, confini netti, titoli e indici, percorribile ad libitum (non a caso è nella stessa epoca e nello stesso ambiente che si diffonde la lettura silenziosa)49. Possiamo dunque chiederci: i nostri testi sono già “scolasticizzati”? Di che apparato paratestuale dispongono? - Leg e Lib non hanno intertitoli (a differenza di Tes che ha delle rubriche perché è integrato nel tessuto del Tesoro volg.). 47
PETRUCCI, Il libro manoscritto cit., pp. 511ss.; PETRUCCI, Storia e geografia cit., pp. 1224ss. Manca parallelamente il genere storiografico ospitato da questa tipologia, la ricordanza. 48 Un’analoga distinzione mi sembra implicita nell’Album de manuscrits français du XIII siècle. Mise en page et mise en texte, cur. M. CARERI et al., Roma 2001. 49 Cfr. A. VARVARO, Il testo letterario, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare cit., I (La produzione del testo), Roma 1999, pp. 387-422; VARVARO, Élaboration des textes cit. Cfr. anche diversi saggi contenuti in H.-J. MARTIN - J. VEZIN, Mise en page et mise en texte du livre manuscrit, Paris 1990 (P. BOURGAIN, Les textes historiques, pp. 169-172; R. MARICHAL, Les manuscrits universitaires, pp. 211-217; G. HASENOHR, Les systèmes de repérage textuel, pp. 273-287). E si veda G. GENETTE, Soglie. I dintorni del testo [1987], Torino 1989, pp. 295, 304 e 306.
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- Nei testi di modello annalistico (Cronica fiorentina, Annali di Perugia, Paolino Pieri) il titolo del capitolo corrisponde all’anno50; Paolino Pieri in più ha dei titres courants a margine non sistematici, per es. 1ra «Come Arrigo secondo venne ad osto sopra Firençe»51. - Nel Biadaiolo il modello annalistico si unisce alla strutturazione per liste tipica dei libri di conti52. - Villani ha degli intertitoli tematici (Come...) il cui uso è improntato probabilmente al coevo romanzo in prosa. Secondo Ragone le rubriche tendono «a presentare paratatticamente i contenuti del capitolo, impedendone più o meno deliberatamente una gerarchizzazione; è un procedimento che intende soddisfare requisiti di consultazione mirata alla reperibilità delle notizie, senza saperne precostituire o indirizzare l’interpretazione»53. Lo stesso Villani ci fa intendere come dovesse essere il suo esemplare di lavoro quando scrive: «E cominceremo ormai al di sopra d’ogni carta a segnare gli anni Domini seguendo di tempo in tempo ordinatamente, acciò che più apertamente si possano ritrovare le cose passate» (V 18)54. Indicizzazione che da un lato permette la consultazione episodica del libro, dall’altro rende agevole l’integrazione di nuovi materiali nella struttura preesistente55.
50 Gli Annali perugini si distinguono per la mise en page (con gli anni che occupano l’ampio margine sinistro) e l’uso del “calderone” all’inizio di ogni paragrafo (cfr. UGOLINI, Annali e cronaca di Perugia cit., p. 167, con riproduzione); in Paolino Pieri la cifra dell’anno è aggiunta nello spazio finale del paragrafo precedente, come è frequente nei manoscritti cronachistici medievali (cfr. ad esempio il ms. di Parigi, BNF, fr. 9081 in Album de manuscrits français cit., p. 108). 51 L’inserimento a testo di questi marginalia è discutibile (cfr. ed. COLUCCIA cit., p. XX e LXII; CAPPI, rec. cit., p. 474). 52 Si veda ad es. la c. 3rb (che Pinto trascrive a p. 160 e riproduce in fig. 2), con data, breve introduzione discorsiva, lista delle derrate. 53 RAGONE, Giovanni Villani cit., p. 135; la studiosa osserva anche come i confini dei libri non siano casuali ma segnati da avvenimenti epocali (ibid., p. 144). 54 Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. G. PORTA, I, Parma 1990, p. 190. 55 Cfr. RAGONE, Le scritture parlate cit., p. 800: «“Indicizzare” ad annum il proprio libro significava creare il presupposto di quella consultazione episodica di cui abbiamo detto, agevolando assieme alle rubriche il reperimento delle notizie; resa possibile in questo modo una comunicazione col proprio testo svincolata dall’obbligo di una lettura seriale, l’autore, quando nuovi elementi di conoscenza o ulteriori ripensamenti glielo suggerissero, poteva farcire di aggiunte gli spazi interlineari o marginali della pagina di scrittura; e se quegli spazi non fossero stati sufficienti, poteva ricorrere all’inserimento di fascicoletti o di fogli volanti, secondo un uso tutt’altro che raro, che ha lasciato tracce nella tradizione manoscritta. Senza volersi spingere troppo oltre, sembra comunque di poter notare, in questo possi-
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4. La variance Dopo aver trattato un po’ abusivamente di temi che attengono piuttosto al paleografo, vengo a campi più familiari al filologo ponendomi la domanda successiva: in che misura è possibile nel nostro caso distinguere il testo dal codice che lo trasmette? È noto infatti che la tradizione particolarmente attiva dei testi romanzi rende spesso indistinguibile la copia dalla rielaborazione. Come ha mostrato magistralmente Varvaro, ciò si lega al fatto che nel Medioevo vige un concetto debole di testo (da cui anche la scarsa elaborazione di strumenti paratestuali di cui sopra): nella trasmissione e ricezione spesso l’organizzazione testuale è trascurata a vantaggio del livello inferiore (strutturazione per episodi) o del livello superiore (costituzione di un macrotesto che corrisponde il più delle volte col codice stesso)56. Non sorprende dunque che Leonardi osservi in Italia frequenti «incroci fra tradizioni di testi distinti, in un quadro estremamente mobile quanto all’“identità” univoca dell’opera singola, che rende oltremodo complessa la ricostruzione dei percorsi di trasmissione, diretta e indiretta, di “un” testo, tanto da far dubitare talvolta della pertinenza metodologica di tale tentativo, evidentemente legato ad una concezione moderna dell’opera come entità unitaria e perfettamente circoscrivibile»57. Tale problema appare particolarmente evidente nella trasmissione delle opere storiografiche: chi ha frequentato le cronache (volgari e probabilmente non solo) sa quanto possa essere difficile l’individuazione stessa di un testo all’interno di costellazioni mutevoli e sfuggenti di testimoni58. A proposito delle cronache spagnole – ma lo stesso vale per quelle italiane – Inés Fernández-Ordóñez osserva che non esiste un’opposizione binaria ma una scalarità tra copista e autore e, parallelamente, tra manoscritto e testo59:
bile modello, i segni del manifestarsi di una forma mentis complessa, aperta alle suggestioni di testualità diverse». 56 VARVARO, Il testo letterario cit.; VARVARO, Élaboration des textes cit. 57 LEONARDI, La tradizione italiana cit., p. 575. 58 Un caso esemplare è rappresentato dai cosiddetti Gesta florentinorum per la cui bibliografia si rimanda a SEGRE - MARTI, La prosa del Duecento cit., p. 1111. 59 I. FERNÁNDEZ-ORDÓÑEZ, Transmisión y metamorfosis. Hacia una tipología de mecanismos evolutivos en los textos medievales, Salamanca 2012 [trad. it. in «Ecdotica», 10 (2013)]. La stessa Fernández-Ordóñez in El texto medieval: propriedad y uso, «Medioevo Romanzo», 38 (2014), pp. 45-68, collega in maniera stimolante la mobilità dei testi medievali con un diverso concetto di proprietà privata.
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copista <──> autore manoscritto <──> testo
Studiando la trasmissione di cronache italiane più tarde, Chiara De Caprio nota la presenza, da una parte, di unità di origine diversa che circolano però stabilmente insieme (macro-testi), d’altra parte di entità testualmente cangianti: «l’individuazione di copie, nuove redazioni e rifacimenti di uno stesso testo non è un’operazione neutra poiché essa dipende fortemente dalla prospettive teoriche adottate nel lavoro di analisi»60. 4.1 Un caso di debole varianza: la Leggenda di Gianni di Procida Le versioni delle cronache del Vespro si prestano nella loro varietà a esemplificare il problema della mobilità testuale o varianza del testo storiografico. Sulla scia di Varvaro distinguo la microvarianza, che attiene al livello linguistico e stilistico, e la macrovarianza, che attiene a quello narrativo e ideologico61. In alcuni casi il tasso di varianza è basso, sicché è possibile operare una ricostruzione critica dell’archetipo. È il caso della Leggenda di Gianni di Procida [Leg], trasmessa, come abbiamo detto, dal manoscritto estense e dal frammento magliabechiano. Si prenda ad esempio il § 4: Modena, Bibl. Estense, it. 197
Firenze, BNC, Magl. XXXVIII 127
1 Dice che stando un giorno il dicto mess(ere) Ganni a solo col Pallialoco disseli: «Mess(ere) imperadore, ordina p(er) Dio un secreto luogo di parte nel quale luogo no(n) si’ alt(r)i che voi (e) io et c’altri non puossa spiare di nostro co(n)silglio nè ddi nostra crede(n)ça». 2 Allora disse el Pallialoco: «Ch’è cciò, Ganni, che me volete p(ar)lare sì ssecretame(n)te?». 3 Et q(ue)lli disse: «P(er) la magior cagione c’abbia il mu(n)do fate che così sia tosto, p(er) Dio». 4 Allora dice che andaro di sopra alle torri di Costantinopoli, là ove sta il secreto luogo dil tesoro del Reame.
1 [D]ice che istando uno giorno il detto mess(er) Gianni a solo chol Paglialocho dissegli: «Mess(er) inperadore, ordina p(er) Dio uno sacreto luogho da parlare nel quale luogho no(n) sia altri udito (e) che altri non possa ispiare del n(ost)ro chonsiglio nè di n(ost)ra credenza». 2 Allora disse il Paglialocho: «Che èe còe, Gianni, che mi voli parlare sì sagretamente?». 3 (E) que’ disse: «P(er) la magiore chagione ch’i’ abia al mondo, fate che chosì sia, (e) tosto, p(er) Dio». 4 Allora dice che n’andarono di sopra a le torri di Costantinopoli, là ove istae il sacreto luogho e ’l tesoro del reame.
60 C. DE CAPRIO, La storiografia angioina in volgare. Lessico metaletterario, modalità compositive e configurazioni stilistiche nella «Cronaca di Partenope», in Boccaccio e Napoli. Nuovi materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento, cur. G. ALFANO et al., Firenze 2015, pp. 427-448: 446. 61 VARVARO (Il testo letterario cit.; Élaboration des textes cit.) impronta il termine «varianza» a B. CERQUIGLINI, Éloge de la variante. Histoire critique de la philologie, Paris
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Dal confronto tra i due testimoni – e con l’aiuto della tradizione parallela, che ci permette di uscire dalle secche del bipartitismo – si può migliorare il testo, in alcuni casi accogliendo la lezione del manoscritto estense (1 che voi e io vs udito), in altri di quello magliabechiano (1 parlare vs parte), in altri ancora ricostruendo la lezione diffratta nei due testimoni (3 c’abbia al mundo vs c’abbia il mundo, ch’i abia al mondo). È il caso anche del Rebellamentu di Sichilia [Reb], corrispettivo siciliano della Leggenda, di tradizione più ricca (otto manoscritti) ma più tarda, di cui ho potuto proporre un’edizione ortodossamente lachmanniana62. 4.2 Varianza alta: la Ur-Leggenda Come abbiamo già accennato, la Leggenda non è che il ramo di una tradizione più vasta che risale presumibilmente a un archetipo lucchese composto intorno al 1300:
ñ=
ó=
qÉëçêç=
iÉÖÖÉåÇ~=
sáää~åá=
!ÉÄÉää~ãÉåíì=
ò=
i ÄÉê= iá
1989, senza condividerne l’elogio. Per un ridimensionamento della cosiddetta nuova filologia cfr. anche A. VARVARO, The New Philology from an Italian perspective [1999], in VARVARO, Identità linguistiche e letterarie cit., pp. 613-622. 62 Lu Rebellamentu di Sichilia, ed. M. BARBATO, Palermo 2010.
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Vediamo lo stesso § 4 nelle differenti versioni: 1
2
3
4
Leg
Tes
Lib
Reb
Dice che stando un giorno il dicto mess(ere) Ganni a solo col Pallialoco disseli: «Mess(ere) imperadore, ordina p(er) Dio un secreto luogo di <parlare> nel quale luogo no(n) si’ alt(r)i che voi (e) io et c’altri non puossa spiare di nostro co(n)silglio nè ddi nostra crede(n)ça». Allora disse el Pallialoco: «Ch’è cciò, Ganni, che me volete p(ar)lare sì ssecretame(n)te?». Et q(ue)lli disse: «P(er) la magior cagione c’abbia <al> mu(n)do fate che così sia tosto, p(er) Dio».
Avenne ke uno giorno stando mess(ere) Gianni a solo col Palglialoco e dissegli: «Mess(ere) lo ’nperadore, ordi(n)a p(er) Dio uno sacreto (con)siglio in uno luogho di parlare lo quale luogho <...> he Dio (e) voi (e)d io, n(on) ci possa d’altrui ispiare n(ost)ro (con)siglio». Allora disse lo Palglialoco: «Ke è cciò, mess(ere) Gianni, ke vuoli parlare così sacreto? ». E [qu]elli disse: «P(er) magiore bisongna k’abbiate al mondo vi volglio parlare: fate ke sia tosto p(er) Dio».
Dice che stando miss(er) Giani a solo col Palioloco diselgle: «I(m)p(er)ato(r)e, hordina p(er) D(e)o uno segreto loco lo qualo sia segreto, che homo spiar no ’l possa lo nost(r)o (con)seglo».
Standu misser Iohanni in quistu sou essi[ri], sì dissi unu iornu a lu Plagalogu: «Sign[uri], per Deu vi pregu: hordinati unu secretu locu di putiri parlari secretamenti, azò ki lu nostru parlamentu no(n) si poza sapiri p(er) altrui».
Et lu imperaturi dissi: «Ch(i) è zò ch(i) vui mi voliti parlari cussì secretu?».
Allora dice che andaro di sopra alle torri di Costantinopoli, là ove sta il secreto luogo dil tesoro del Reame.
Allora n’andaro sopra la grande torre di Consta(n)tinopoli là dove istà il sacreto tesoro del [rea]me.
Allora disse ’l Pallioloco: «Che è zò, Giani, che me vo’ p(ar)lar i(n) segreto loco?». E q(ue)llo ’lor li disse: «P(er) lo maior besog(n)o che sia al mu(n)do ti volge pa(r)la(r)e, faite che zò sia tosto, p(er) D(e)o». Allora dice: «O· andaremo sopra la porta d(e) (Con)sta(n)tinopollo là o’ è lo segreto loco, lasùe sta il tesso(r)io d(e)l Palioloco».
Et illu rispusi: «P(er) lu plui grandi bisognu ch(i) vui aviti in quistu mundu».
Et incontinenti andaru supra alta tu(r)ri di lu palazu, undi stavanu tucti li secretanczi di lu inperaturi.
È evidente che le differenze linguistiche e testuali rendono chimerica un’edizione critica dell’archetipo63. Tutt’al più si può pensare a una traduzione critica: 1 Stando un giorno messer Gianni da solo col Palialoco, gli disse: «Messer imperatore, ordina per Dio un luogo segreto in cui si possa parlare e in cui non vi sia altri che voi e io e nessuno possa spiare il nostro
63 In Cronache volgari del Vespro cit. ho quindi fornito un’edizione critica di Leg con a fronte un’edizione interpretativa di Tes e Lib; la ricostruzione (mentale) dell’archetipo è affidata al commento. Nella sua recensione R. WILHELM, «Studi Linguistici Italiani», 39 (2013), pp. 139-141, mi rimprovera di non correggere gli errori evidenti di Tes e Lib; gli sfugge forse che si tratta di una precisa politica editoriale volta a evitare qualsiasi possibile contaminazione di edizione critica e interpretativa.
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consiglio». 2 Allora disse il Palialoco: «Cosa c’è di tanto segreto di cui mi vuoi parlare?». 3 E quegli disse: «Per il più grande bisogno che avete al mondo vi voglio parlare, fate che così sia tosto, per Dio». 4 Allora andarono sopra alla torre di Costantinopoli, dove è il tesoro segreto del reame. 3. Leg ha c’abbia al mundo ‘che ci sia al mondo’; ma la lezione di Tes k’abbiate al mondo è confermata da Reb lu plui grandi bisognu ch(i) vui aviti in quistu mundu. 4. Alla lezione «segreto (luogo del) tesoro» Reb oppone la variante adiafora secretanczi ‘cose segrete’, voce attestata in altri testi siciliani trecenteschi (corpus TLIO).
Va detto che la varianza a volte non riguarda solo il livello linguisticotestuale ma anche quello narrativo e ideologico del testo64, il che vanifica anche la possibilità di una traduzione critica. 4.3 Il riuso Anche Villani attinge alla Ur-Leggenda, ma ovviamente con maggiore libertà. Lo storico fiorentino da una parte semplifica il plot, dall’altra lo dissolve nella narrazione principale (per quanto interi blocchi della storia rimangano compatti)65. Tale dissolvimento si realizza felicemente grazie al dominio della tecnica dell’entrelacement mutuata dal romanzo medievale66. Villani condensa brevemente tutta la prima parte della leggenda (§§ 132) nel cap. 57 dell’VIII libro. Qui si narra di come G[iovanni] di Procida, appresi i progetti espansionistici di Carlo d’Angiò, «segretamente andò in Gostantinopoli al Paglialoco imperadore due volte»67. L’imperatore scrive lettere per G. e manda con lui ambasciatori e denaro. G. si reca indi in Sicilia, dove coinvolge i baroni, e in corte di Roma, dove corrompe papa Niccolò. Infine G. si reca a Barcellona, dove conclude l’accordo con Pietro d’Aragona. Nel cap. 59, dove è narrato un nuovo viaggio in Catalogna durante il quale G. vince le esitazioni di Pietro, Villani rifonde alcuni materiali dei §§ 21ss. (primo incontro di Giovanni di Procida con Pietro d’Aragona). Nel cap. 60, dedicato ai preparativi navali di Pietro e all’ambasciata del re di
64 Di cui Lib tende ad accentuare, Reb e Tes a ridurre il carattere filoangioino (cfr. Cronache volgari del Vespro cit., pp. 17-19 e 54). 65 Un simile procedimento è definito “a tarsia” da FERNÁNDEZ-ORDÓÑEZ, Transmisión y metamorfosis cit. 66 Cfr. A. VARVARO, Tra cronaca e novella, in La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma 1989, pp. 155-171. 67 Ed. PORTA cit., p. 502.
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Francia, utilizza i §§ 36-42. In seguito la narrazione segue più da vicino il nostro testo. I rapporti si possono sintetizzare nello schema seguente: Leggenda 1. viaggio a Costantinopoli 2. ritorno in Sicilia 3. viaggio dal papa 4. viaggio da Pietro 5. ritorno dal papa e in Sicilia 6. viaggio a Costantinopoli 7. ritorno in Sicilia 8. viaggio da Pietro
Villani A. due viaggi a Costantinopoli B. viaggio in Sicilia C. viaggio dal papa D. viaggio da Pietro [E. ritorno in Sicilia] F. viaggio da Pietro
Scendendo dal livello macro a quello micro, vediamo che Villani rielabora anche stilisticamente la fonte68. Valgano due esempi (cito il testo di Leg, dal momento che in questo caso le differenze delle versioni non sono rilevanti). Nel primo caso si vede Carlo chiedere aiuto al papa dopo la ribellione della Sicilia: Leggenda § 46
Villani VIII 62 (ed. Porta cit., p. 511)
Quando il re Karlo udio questo <fu> multo cruccioso e incontanente fu al papa e disse: «Padre santo, [male] novelle t’aporto di me, che lla Cicilia m’è rubellata e èvi morta tucta la mia gente, il perché non so. Però ti piaccia me consilgliare e me aitare di tucto quello che melglio sia, perché ffare lo devete voi e vostri frati e tucta Ecclesia di Roma». E ’l papa disse: «Filgluolo nostro, non temere, che tucto l’aiuto e consilglio che vorrai <e> che ssia mestieri, tucto lo ti faremo. Vae nel Regno e [fa tua] armata e [passa] di llà e racquista per concio e per pace se puoi.
Come lo re Carlo si compianse alla Chiesa e al re di Francia e a tutti suoi amici, e l’aiuto che ebbe da lloro. Nel detto tempo lo re Carlo era in corte col papa: com’ebbe la dolorosa novella della rubellazione di Cicilia, cruccioso molto nell’animo e ne’ sembianti, e’ disse: «Sire Iddio, dapoi t’è piaciuto di farmi aversa la mia fortuna, piacciati che ’l mio calare sia a petitti passi». E incontanente fu a papa Martino e a’ suoi cardinali, domandando loro aiuto e consiglio, i quali si dolfono assai co llui insieme, e confortarono lo re che sanza indugio intendesse a raquisto, prima per via di pace, se potesse, e se non, per via di guerra, promettendogli ogni aiuto che lla Chiesa potesse fare, spirituale e temporale, sì come a figliuolo e campione di santa Chiesa
68 Non mancano tuttavia le precise riprese testuali, al punto che diverse volte la Nuova Cronica ci aiuta a ricostruire il testo della Ur-Leggenda (cfr. Cronache volgari del Vespro cit., pp. 47-49).
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Si noti, a livello paratestuale, l’aggiunta della rubrica; a livello narrativo, l’aggiunta del motto di Carlo, con caratterizzazione linguistica («Sire Iddio, dapoi t’è piaciuto di farmi aversa la mia fortuna, piacciati che ’l mio calare sia a petitti passi»); a livello sintattico-testuale, la duplice trasformazione del discorso diretto in indiretto («domandando loro aiuto e consiglio», «confortarono lo re che sanza indugio intendesse a raquisto»). Nel secondo caso si narra la reazione del campo aragonese all’ambasceria di Carlo: Leggenda § 67
Villani VIII 74 (ed. Porta cit., p. 526)
Partirosi gli ambasciadori dal re Karlo colle lectere e colla ambasci[a]ta et presero ad andare verso Palermo al re di Raona. Fuorono giunti e presentarono la lectera. E quando lo re udio e vidde questo, sì fue a consilglio colli baroni. Et messere Gianni di Procida si levò e disse: «Mesere lo Re, per Dio manda l’amiralglio per mare a Messina e ffae pilgliare tucti lengni da misteri del re Karlo. Da che ll’ài diffidato, proccaccia ogiomai il facto tuo. E se lgli fai torre il navilio, elli rimarrà di cqua e ffarello [asseccare] di fame, et converà che ssia morto con tucta sua gente ed averimo vinto la guerra». Ccosì fu fermo e ordinato di fare.
Come il re di Aragona mandò il suo amiraglio per prendere il navilio del re Carlo. Come al d’Aragona furono per gli suoi ambasciadori apresentate le dette lettere, e disposta l’ambasciata e risposta del re Carlo, incontanente fu a consiglio per prendere partito di quello ch’avesse a ffare. Allora si levò messer Gianni di Procita e disse: «Signore nostro, com’io t’ho detto altra volta, per Dio, manda l’amiraglio tosto colle tue galee a la bocca del Fare, e fa’ prendere il navilio che porta la vivanda all’oste, e avrai vinta la guerra; e se il re Carlo si mette a stare, rimarrà preso e morto con tutta sua gente».
Oltre alla già notata aggiunta della rubrica, si osservi la maggiore concisione e il più scaltrito uso della subordinazione, per cui vengono ridotte a una sola (fu a consiglio) tre frasi della fonte (partirosi, fuorono giunti, fue a consilglio); il discorso diretto – col portato della paratassi – rimane, ma è evidente una tendenza all’abbreviazione. In termini di Genette possiamo dire che Villani non lavora sulla fonte per brutali escissioni ma per sapienti concisioni (dal punto di vista stilistico) e condensazioni (dal punto di vista tematico)69. Insomma lo storico fiorentino, pur non meritando la qualifica di plagiario, si serve con molta disinvoltura della leggenda70. Ma non dimenti-
69 G. GENETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo grado [1982], Torino 1997. I concetti genettiani sono stati già applicati alla storiografia da DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 49ss. 70 Non diverso è l’uso che Froissart fa del suo predecessore Jean le Bel: «Froissart non si perita di intervenire, modificare, aggiungere e togliere, esattamente come se lavorasse sulla propria pagina» (VARVARO, Il testo letterario cit., p. 402).
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chiamo che Villani si definisce nel prologo come un compilatore, e considera il suo testo a sua volta modificabile71: «E però io fedelmente narrerò per questo libro in piano volgare, a ciò che li laici siccome gli aletterati ne possano ritrarre frutto e diletto; e se in nulla parte ci avesse difetto, lascio alla correzzione de’ più savi. E prima diremo onde fu il cominciamento della detta nostra città, conseguendo per gli tempi infino che Dio ne concederà di grazia; e non sanza grande fatica mi travaglierò di ritrarre e ritrovare di più antichi e diversi libri, e croniche e autori, le geste e’ fatti de’ Fiorentini compilando in questo».
Analoga è l’attitudine di Paolino Pieri nel suo prologo72: «Questo si è un libro di croniche di più libri trovate et di nuovo per me, Paulino di Piero, vedute et ad memoriam scripte. Per ciò che gli uomini naturalmente son vaghi et desiderano d’udire et di sapere le antiche cose passate, per ricordança scriveronne aliquante et metteremo in croniche, tratte fidelmente di quelle di Toscana, le cose dela città di Firenze [...]».
Molte delle nostre opere sono in realtà dei centoni di materiali preesistenti (in latino o in volgare) sottoposti a una rielaborazione elementare, secondo il «procedimento consueto ai cronisti medievali» precisamente descritto da Alberto Del Monte73.
71 Ed. PORTA cit., p. 4. Si tratta del resto di un topos (cfr. RAGONE, Giovanni Villani cit., p. 3 con bibliografia). 72 Ed. COLUCCIA cit., p. III. 73 «Prescelta una data fonte per un determinato periodo storico, essi la seguivano pedissequamente: se la nuova cronaca doveva farsi in volgare e la fonte era in latino la si traduceva; se era in volgare, la si copiava alla lettera o quasi: tutt’al più se ne migliorava la forma, se quella aveva una patina accentuatamente dialettale o uno stile più rozzo o antiquato, dandole, insomma, una veste più aderente ai nuovi gusti letterari dei lettori contemporanei; e, infine, se si componeva una storia piuttosto ampia, si riconnettevano con la narrazione generale i fatti di più fonti particolari, limitate a quel dato periodo storico. In tal modo, il nuovo lavoro risultava come un estratto delle sue varie fonti. Talora avveniva anche che, durante la fatica o dopo d’averla ultimata, si scoprisse un’altra fonte più doviziosa di particolari; e allora s’introducevano nella nuova opera aggiunte, correzioni e modifiche, secondando in ciò anche i propri sentimenti e le proprie idee morali e politiche» (A. DEL MONTE, La storiografia fiorentina dei secoli XII e XIII, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 62 (1950), pp. 175-283: 227s.).
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5. Conclusioni 5.1 Varianza e genere Come ha dimostrato Girolamo Arnaldi, nel Medioevo i principali generi storiografici (annali, cronache, storie) appaiono ampiamente contaminati74. E tuttavia mi sembra che – se non l’appartenenza – l’orientamento generico di un testo non sia senza conseguenze sulla sua variabilità. Un genere additivo come quello annalistico è non solo esposto, ma, direi, costituzionalmente predisposto alla varianza. Degli Annali è proverbiale dire che vi sono tanti testi quanti testimoni manoscritti. «Ai loro autori con ogni probabilità era estranea la coscienza, o pretesa, di essere tali e di produrre, annotando quei crudi fatti, ciò che noi chiamiamo un “testo”»75. Esiste un altro genere meno noto, che possiamo chiamare leggenda, ma per cui non si può neanche escludere il nome di novella76. Si tratta di una reazione a caldo e di parte a certi eventi, o di una successiva elaborazione in cui la volontà moralizzatrice prevale sull’urgenza propagandistica. Tratti costanti sono il carattere straordinario dell’avvenimento e l’andamento monografico della trattazione77. Anche in questo caso esiste una correlazione tra tratti generici e trasmissione manoscritta: le opere monografiche sono esposte inevitabilmente alla fagocitazione all’interno di organismi testuali più ampi78. 5.2 Varianza e autorialità Un altro fattore che espone i testi alla varianza è il basso tasso di autorialità. Possiamo intendere questo termine in senso lato – e scalare – come (1) grado di elaborazione testuale, (2) sviluppo della funzione autoriale, (3) presenza/assenza del nome dell’autore. 74
G. ARNALDI, Annali, cronache, storie, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo Latino, cur. G. CAVALLO - C. LEONARDI - E. MENESTÒ, I/2 (La produzione del testo), Roma 1993, pp. 463-513. 75 Ibid., p. 467. 76 Cfr. il titolo di uno dei nostri testi (Leggenda di Gianni di Procida) e la seguente citazione di Matteo Villani: «Porne qualche esempio in nostri ricordi non fia da biasimare se non da coloro che per morbidezza d’animo sono amatori delle brevi leggende» (Grande dizionario della lingua italiana, cur. S. BATTAGLIA, Torino 1961ss., s.v. leggenda § 5). Per il significato di «novella» cfr. VARVARO, Tra cronaca e novella cit. 77 A questo genere possiamo assimilare la Sconfitta di Monte Aperto e altri esemplari perduti (cfr. S.M. CINGOLANI, Historiografia, propaganda i comunicació al segle XIII: Bernat Desclot i les dues redaccions de la seva crònica, Barcelona 2006, pp. 226 e 135). 78 Sul fenomeno della fagocitazione cfr. VARVARO, Il testo letterario cit., pp. 323ss.
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1) Abbiamo già visto come molte concrezioni testuali non rispondano alle caratteristiche che noi siamo soliti attribuire ai testi: progettualità, coerenza, articolazione interna (con i conseguenti elementi paratestuali), per non dire dell’elaborazione stilistica. Esse appaiono piuttosto paragonabili a dei brogliacci o addirittura a degli appunti. 2) Al grado di elaborazione testuale è evidentemente connesso lo sviluppo della funzione autoriale, termine con cui ci riferiamo alla (scarsa) presenza di un emittente che si fa garante del funzionamento della comunicazione, dell’origine dell’informazione, dell’organizzazione del messaggio ed eventualmente del suo contenuto ideologico79. 3) Quanto più è forte la funzione autoriale, tanto più è naturale la sua identificazione con un’entità extratestuale, una persona reale: una identificazione inevitabile se l’io è accompagnato da un nome (e da un cognome). Ebbene, molti dei nostri testi sono senz’altro anonimi. L’io nella Cronica fiorentina emerge solo sporadicamente e quasi casualmente (cfr. l’attestazione autottica nel brano citato sopra, § 2). Paolino Pieri, oltre a menzionare sé stesso nel prologo, presenta «significativi (pur se non frequentissimi)» interventi in prima persona di attestazione autottica80; non si può dire però che il livello di elaborazione del suo testo sia granché superiore a quello dell’anonimo concittadino. L’io nella Leggenda fa una fugace comparsa in un prologo di tono canterino: «Volendo dimostrare apertamente a ciascheduno il gran peccato e ’l perilglioso fallo che fece e contrasse messere Gianni di Procida inverso lo re Karlo, di sì grande tradigone che fece e commise, one si duole et piange la Ecclesia di Roma e lla casa di Francia e loro amici, e però prego l’Altissimo Singnore e Magistro fino che mmi doni gratia e vertude in mia lingua et in mia mente di ricordare e discrivere tucto ’l tenore del facto e ’l modo come el dicto perfido homo fece rubellare l’içola di Cicilia dalla singnoria del gran re Karlo, <re di Gerusalem e di Cicilia, e di Provenza conte>»;
questo testo appare però di gran lunga più elaborato di quelli annalistici appena citati. Al massimo di autorialità si colloca ovviamente Villani, che non solo produce l’opera più elaborata, ma dice quattro volte «io scrittore», tre 79 Cfr. le funzioni «di comunicazione», «testimoniale», «di regia» e «ideologica» di G. GENETTE, Figure III [1972], Torino 1976. 80 Ed. COLUCCIA cit., pp. XIII-XIV.
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volte «io autore», otto volte «noi autore», in un caso «io Giovanni cittadino di Firenze» (I, 1), in un altro «noi Giovanni Villani autore di quest’opera» (XII, 135)81. Evidentemente il basso livello di autorialità accresce, se ve ne fosse bisogno, la licenza che il ricettore si concede nei riguardi del testo. Ma, se la mancanza di autorialità si può considerare come fattore di debolezza, non si può dire che la presenza di un autore esplicito preservi il testo dalle alterazioni della trasmissione o dal riuso. Si pensi solo a quello che succede a Villani, versificato da Pucci (che però lo cita rispettosamente), riutilizzato non solo in opere storiografiche come la Cronaca di Partenope ma anche nei commenti danteschi e nelle novelle di ser Gianni fiorentino82. E del resto l’autorità del Boccaccio non preserva il Decameron dalle alterazioni della trasmissione manoscritta83. L’assenza di un autore in un’opera storica può al limite rivelarsi un pregio e non un difetto: la «carenza di segni dell’enunciatore» produce una «illusione referenziale»84, dà l’impressione che la storia si narri da sola, aumenta l’effetto di realtà. La storiografia possiede però anche una propensione a valorizzare l’autorialità: la credibilità dell’autore è garanzia in questi casi di quella del testo. Come scrive Ragone: «all’atto di dichiarare la propria identità, il cronista cittadino non peccava certo di mancanza di humilitas; egli comprendeva in quell’intitulatio una somma di contenuti pratici e latamente giuridici – la reperibilità, la disponibilità a vedere riscontrato sulla base della propria credibilità sociale il valore delle notizie trasmesse, la responsabilità, talora orgogliosa, delle proprie affermazioni –: forte deve essere stato il condizionamento esercitato in questo senso sulla scrittura cronistica, come su quella di memoria, del modello notarile di testualità»85.
81 G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, cur. E. MALATO, II (Il Trecento), Roma 1995, pp. 159-210: 161. Secondo Porta, «questo uscire dalle tenebre dell’anonimato, in cui ancora si aggiravano i compilatori dei primi annali fiorentini, va di pari passo con il profilarsi di un successo dell’economia e delle altre forme del vivere sociale in cui si realizza il Comune fiorentino»; insomma è il rigoglio di Firenze che autorizza il suo cittadino a dire io. 82 Sulle riscritture di Villani è in corso all’Università Orientale di Napoli una tesi di dottorato ad opera di Felice Messina. 83 BRANCA, Copisti per passione cit. 84 Cfr. R. BARTHES, Il discorso della storia [1967], in BARTHES, Il brusio della lingua, Torino 1988, pp. 137-149. 85 RAGONE, Giovanni Villani cit., p. 116.
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Esistono scrittori di storia in latino che curano vere e proprie edizioni d’autore (il termine è di Battaglia Ricci)86, progettando non solo la mise en texte ma anche la mise en page (la definizione è mia). Lo ha mostrato Monique-Cécile Garand attraverso i casi di Matteo Paris (1200-1259ca.) e prima ancora di Orderico Vitale (1075-1142ca.): «Les manuscrits de l’Historia ecclesiastica sont, au plein sens du terme, son oeuvre; il en a tout fait, jusqu’aux gracieuses initiales en deux ou trois couleurs qui décorent les débuts de livres et les têtes de chapitres»87. Pascale Bourgain sottolinea come nelle “cronache d’autore” «un seul exemplaire est considéré comme authentique, constamment remis à jour et travaillé par son auteur, et donc impropre dans l’esprit de celui-ci à être reproduit et diffusé sous cette forme»88. In questa linea, autorialità sconfina con autografia (si ricordi che la cosiddetta autografia totale dei notai prevede che l’unico scritto autentico sia quello di mano del notaio e che, di contro, tutto quanto questi scriva sia autentico). Lo stesso Villani sembra concepire il suo libro come quello che sta materialmente scrivendo (cfr. sopra E cominceremo ormai al di sopra d’ogni carta...). Non siamo dunque lontani dal caso di Domenico Lenzi, il cui libro è quell’ente particolare, unico e non riproducibile. Possiamo dire allora che l’identificazione di codice e testo tende a prodursi nei casi di massima e minima autorialità (dell’edizione d’autore e del ! testo strutturalmente! impersonale e mutante), tendenza che possiamo rappresentare nel modo !seguente: ! autorialità minima
massima media
testo = c odice!
86 87 88
BATTAGLIA RICCI, Edizioni d’autore cit. GARAND, Auteurs latins et autographes cit., p. 103. BOURGAIN, Les textes historiques cit., p. 169.
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TESTO E CODICE: LE CRONACHE VOLGARI FINO A VILLANI
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5.3 Ultime domande I processi che abbiamo osservato distinguono le cronache volgari da quelle latine? Si direbbe di no: le considerazioni citate di Del Monte si applicano sia ai testi latini che a quelli volgari. Fulvio Delle Donne ha fornito recentemente vari esempi di estrema mobilità testuale nella produzione cronachistica o più generalmente storiografica in latino89. Tra testi latini e volgari esisteva però una differenza di prestigio: «se non proprio res nullius, il testo volgare era una cosa per cui solo in pochi casi valeva la pena di preoccuparsi della fedeltà del testo ad un originale che nessuno avrebbe mai potuto avere in mano»90. E del resto non si conoscono per le cronache volgari casi analoghi a quelli di Boncompagno da Signa e Rolandino da Padova che diffidano i copisti dall’alterare il testo91. Tali processi sono specifici delle cronache? No. Varvaro ha mostrato come la mouvance caratterizzi tutti i generi medievali. L’intenzione del copista non è normalmente quella di dare un’immagine fedele dell’originale ma quella di produrne una replica «qui réponde au mieux aux exigences de son commanditaire et/ou aux siennes, en termes de goût et de choix littéraires, rhétoriques et linguistiques»; egli si comporta come co-autore: «vis-à-vis de l’auteur, dont parfois il connaît même le nom (mais il l’oblitère souvent), il n’a pas de complexes d’infériorité»92. Se il copista interviene liberamente sul testo facendosene in qualche modo autore, ogni testo rischia di essere autografo, tanto che si può parlare neanche troppo paradossalmente di autografia di scriba93. Non c’è dunque una differenza sostanziale tra la storiografia e gli altri generi testuali, sì forse una di grado. Nella storiografia prevedibilmente diminuiscono le pretese stilistiche, mentre aumenta l’esigenza di migliorare il testo: chi conosce la verità (o presume o finge di conoscerla) ha pienamente il diritto (o addirittura il dovere) di modificare la versione ricevuta.
89
F. DELLE DONNE, Testi “liquidi” e tradizioni “attive” nella letteratura cronachistica mediolatina, in Il testo nel mondo greco e latino, cur. A. PRENNER, Napoli 2015, pp. 41-63: 45ss. 90 VARVARO, Il testo letterario cit., p. 422. 91 Cfr. F. DELLE DONNE, Perché tanti anonimi nel medioevo? Note e provocazioni sul concetto di autore e opera nella storiografia mediolatina, «Rivista di cultura classica e medioevale», 58 (2016), pp. 145-166. 92 VARVARO, Élaboration des textes cit., pp. 319 e 320. 93 A. BARTOLI LANGELI, Autografia e paleografia, in «Di mano propria» cit., pp. 41-60: 48.
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MARCELLO BARBATO
Quali sono le conseguenze della situazione descritta sulle scelte editoriali? Il riconoscimento della variabilità dei testi non comporta automaticamente un privilegio del modello di edizione centrato sul manoscritto rispetto a quello centrato sull’autore. Scrive Varvaro in generale: «Il serait paradoxal que nous accordions toute notre attention à la physionomie textuelle et littéraire de chacun des manuscrits qui nous sont parvenus et que nous oublions de nous intéresser à celle des textes perdus, et en premier lieu à celle du texte qui est à l’origine de la tradition»94. Anche per le cronache, non si vede perché riconoscere il valore autonomo delle singole versioni debba comportare la rinuncia a ricostruire la loro origine. E questo vale anche quando, come nel caso delle cronache del Vespro, la ricostruzione dell’originale sarà puramente mentale. L’editore farà bene dunque a non tributare una venerazione assoluta al manufatto. Se persino nel caso del Biadaiolo (§ 2) è impossibile un’identificazione totale di codice e testo, a maggior ragione lo sarà in tradizioni plurime e in cui l’aspetto materiale del manoscritto è meno rilevante. In nessun caso la filologia si potrà sentire legittimata ad abdicare al compito di ricostruire la diacronia testuale. Sarebbe paradossale che proprio per i testi di storia la critica rinunciasse a fare la storia dei testi.
94
VARVARO, Élaboration des textes cit., p. 345.
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TESTO E CODICE: LE CRONACHE VOLGARI FINO A VILLANI
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Tav. I - Modena, Biblioteca Estense, it. 197, 16v-17r
Tav. II - Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. XXXVIII 127, 94v-95r
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ROSARIO COLUCCIA TESTI STORICI E FATTI LINGUISTICI
1. «Va ricordata […] la generale scarsità di lavori linguistici sulla nostra prosa storiografica, che rende spesso le pagine seguenti non già il rendiconto sintetico di accertamenti già svolti, bensì una serie di prime indicazioni di analisi, a indirizzo e auspicio di studi futuri più sistematici»1. Tali affermazioni non sono mie [mio è solo lo spaziato]; ricorrono in un lavoro di sintesi (apparso nel secondo volume della pregevole, collettiva e recente Storia dell’italiano scritto) su cronaca e storia sottoposte al microscopio specifico della lingua, esaminate cioè alla ricerca delle strutture linguistiche (fondamentalmente morfosintattiche) che caratterizzano queste tipologie di testi. Con le precedenti concordano altre parole, applicate in premessa ad un volume sulla scrittura storico-politica che si propone di offrire un profilo linguistico del genere, anche mediante il corredo di una antologia di testi antichi e moderni, scritti e orali, da Giovanni Villani (storia) fino a Bettino Craxi (politica). «Nonostante l’attenzione – occasionale o ripetuta – di grandi maestri della storia linguistica italiana […] e nonostante il rilevante contributo dei nostri più raffinati filologi all’edizione di testi maggiori e minori, la scrittura storica e politica non ha avuto finora la fortuna di una trattazione di sintesi complessiva [spaziato mio]. […] Per l’ampiezza del tema e per la ricchezza dei materiali disponibili, ci si è appoggiati, nell’antologia, ai risultati di singoli studi, cercando di coglierne –
1 D. COLUSSI, Cronaca e storia, in Storia dell’italiano scritto, cur. G. ANTONELLI - M. MOTOLESE - L. TOMASIN, 3 voll.: I. Poesia, II. Prosa letteraria, III. Italiano dell’uso, Roma 2014, II, pp. 119-152: 123.
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ROSARIO COLUCCIA
nella necessaria sintesi – gli spunti che meglio si adattassero a una visione d’insieme»2. Condivisibili nella sostanza, queste affermazioni possono essere integrate, le cose stanno cambiando sotto i nostri occhi. La situazione, pur non ottimale, negli ultimi tempi è felicemente in movimento e il panorama degli studi si infittisce, come dimostra anche l’odierna occasione, che mette accanto competenze diverse. Partirei proprio dai due lavori appena ricordati, facendo tesoro delle acquisizioni in essi contenute; a queste aggancerei riflessioni su spunti o temi che ritengo meritevoli di attenzione o di approfondimenti, secondo una graduatoria di interessi personale, e quindi discutibile. La premessa non solo chiarisce il metodo di lavoro, tutto empirico, di quest’intervento, ma anche ne denunzia esplicitamente i limiti. Il mio contributo non ha l’ambizione di individuare in modo compiuto tratti formali e elementi distintivi che caratterizzano le scritture cronachistiche in quanto tali (posto che l’obiettivo della integralità sia perseguibile nel concreto), ma solo di segnalare alcuni elementi significativi; per non correre il rischio di etichettare come propri dell’ambito indagato fenomeni nient’affatto esclusivi, più modestamente quest’intervento si propone di elencarne alcuni che ricorrono con una certa frequenza nelle cronache, scegliendo perlopiù testi di provenienza meridionale e verificando tuttavia, per quanto possibile, la presenza delle stesse caratteristiche in campioni di altre aree. Un’ultima considerazione preliminare. Il fatto che l’invito a redigere un lavoro di natura linguistica sulle cronache volgari venga avanzato a chi di mestiere fa lo storico della lingua (con vocazione filologica) da uno degli istituti più prestigiosi per la ricerca storica, offre il destro per riflettere sulle analogie, sulle diversità e sulle intersezioni nel trattamento che storici e linguisti riservano alle testimonianze che il passato ci ha consegnato, sulle quali ci si trova insieme a operare. 2. In primo luogo converrà considerare la natura stessa del documento cronachistico analizzato, se si tratti cioè di originale o di copia; e in quest’ultimo caso se si tratti di copia unica o di testo a tradizione plurima. L’originale è, per ammissione generale, il sogno del ricercatore: di fronte ad esso il compito dell’editore è relativamente semplice, perlomeno in teoria, ma tutt’altro che banale. In presenza di un originale, sia di natura
2
R. GUALDO, La scrittura storico-politica, Bologna 2013, pp. 11-12.
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documentaria che letteraria, il testo andrà pubblicato rispettandone le più minute particolarità, senza trascurare alcun dettaglio e senza indulgere a tentazioni di tipo ammodernante o uniformante. Presso gli storici della lingua è positiva consuetudine che l’edizione fornisca informazioni adeguate sulla fonetica, sulla morfologia, sulla sintassi e sul lessico del testo pubblicato; al punto che, quando tali informazioni siano carenti, l’editore quasi non può esimersi dal giustificarsi in qualche modo, magari promettendo di ritornare in séguito sull’argomento (poi non sempre le promesse vengono mantenute ma, come tutti sanno, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni). La prassi conservativa, che nessuno oserebbe contestare per gli altri livelli della lingua, è applicata saltuariamente per quanto riguarda la grafia; in misura ancor più frustrante, insufficienti (o inesistenti) sono spesso le informazioni che riguardano la punteggiatura e la mise en page del documento medievale (che, a scanso di equivoci, vanno catalogate e descritte, non pedissequamente trasferite nell’edizione). Molte cronache sono autografe, come tra poco constateremo analiticamente, e quindi il discorso ci riguarda da vicino. Quando ci si trovi in presenza di copia unica le modalità editoriali tendono in linea di massima a coincidere con quelle assicurate all’autografo, fatta salva la correzione degli errori di copia evidenti e dei meri refusi. Diverso è il caso delle copie plurime, per cui bisogna adottare strategie più complicate. In particolare sotto il profilo della resa testuale la mancanza dell’originale rappresenta per l’editore una perdita di capitale importanza, al punto che appare del tutto condivisibile l’osservazione secondo la quale «la principale angustia che i filologi, sia medievalisti che no, hanno sempre sofferto è stata quella di avere a che fare assai più spesso, anzi di norma, con copie piuttosto che con originali»3. Alla mancanza dell’originale il filologo tenta di porre riparo con il progressivo affinamento delle metodologie restauratrici, sfruttando al meglio i risultati più alti raggiunti dalla riflessione ecdotica e le concrete esperienze editoriali. Naturalmente occorre cautela e la strada da percorrere non è scontata. L’esempio che segue vale a illustrare la prospettiva, non sempre coincidente, con cui storici e linguisti considerano gli stessi testi. Nella storia della filologia, hanno assunto valore quasi paradigmatico le discussioni seguite all’edizione della straordinaria Cronica cosiddetta di Anonimo romano4, 3 A. VÀRVARO, Elogio della copia [1998], in VÀRVARO, Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma 2004, pp. 623-635: 623. 4 Anonimo Romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1979; editio minor: Anonimo Romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1981.
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che ha visto schierati su posizioni assai divaricate e di fatto inconciliabili l’editore Giuseppe Porta e il suo recensore Max Pfister5; sul tema sono tornati (con interventi in parte divergenti, per impostazione e per motivazioni) alcuni tra i maestri più autorevoli della filologia italiana del secondo Novecento6. Nessuno mette in dubbio l’accettabilità storica del testo ricostruito e l’acribia dell’editore. La sostanza della critica riguarda la plausibilità linguistica della ricostruzione che, nell’edizione considerata, investe non solo il lessico ma anche la fono-morfologia. Se dal punto di vista lessicale le forme ricostruite possono essere ragionevolmente ricondotte all’autore (a condizione che se ne condivida il ragionamento soggiacente), problematica è la accettazione delle stesse per i fenomeni fonetici e morfologici, che solo con molta circospezione potrebbero essere considerati idonei a documentare la cronologia dei tratti di lingua. A parere di chi scrive, l’oltranzismo ricostruttivo genera perplessità più che certezze. L’analisi della varia lectio, per agguerrita e raffinata che sia, non è abilitata a ricostruire la fono-morfologia di un documento irrimediabilmente perduto né può giustificarsi la ricostruzione dell’assetto linguistico di un testo in base alla distribuzione stemmatica delle forme; per la grafia, a fortiori, la soggettività delle scelte diventa un vero e proprio azzardo e ogni ipotesi ricostruttiva si rivela francamente inaccettabile7. In concreto, in presenza di sole copie, 5 In sequenza: M. PFISTER, recensione a Anonimo Romano, Cronica, ed. cit. [1979], «Zeitschrift für romanische Philologie», 99 (1983), pp. 526-529; G. PORTA, A proposito di alcune osservazioni all’edizione critica della ‘Cronica’ di Anonimo romano, «Studi medievali», Ser. III, 25 (1984), pp. 445-448; PFISTER, Replica a Giuseppe Porta, ivi, 26 (1985), pp. 365-368; PORTA, Postilla a un intervento incauto (e recidivo), ivi, pp. 369-371. E ancora PORTA, La lingua della «Cronica» di Anonimo Romano, in Il romanesco ieri e oggi. Atti del Convegno del Centro Romanesco Trilussa e del Dipartimento di Scienze del linguaggio dell’Università di Roma «La Sapienza», cur. T. DE MAURO, Roma1989, pp. 13-26: 17-20. 6 A. CASTELLANI, Note di lettura: la Cronica di Anonimo Romano [1987], in CASTELLANI, Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1976-2004), cur. V. DELLA VALLE - G. FROSINI - P. MANNI - L. SERIANNI, 2 voll., Roma 2009, II, pp. 975-993: Postilla, pp. 992-993; A. STUSSI, Filologia e storia della lingua italiana [1991], in STUSSI, Lingua, dialetto, letteratura, Torino 1993, pp. 214-234: 226-227; A. VÀRVARO, Linguistica e filologia romanza [1987], in VÀRVARO, Identità linguistiche e letterarie cit., pp. 5-27: 12-13; VÀRVARO, The «New Philology» from an Italian Perspective [1999], ivi, pp. 613-622: 617-618. 7 L. PETRUCCI, recensione a Anonimo Romano, Cronica, edizz. citt. [1979] e [1981], «Studi Mediolatini e Volgari», 28 (1981 [ma 1983]), pp. 207-225: 211; R. COLUCCIA, Scripta mane(n)t. Studi sulla grafia dell’italiano, Galatina 2002, p. 114; A. VÀRVARO, Autografi non letterari e lingua dei testi (sulla presunta omogeneità linguistica dei testi), in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce (22-26 ottobre 1985), Roma 1985, pp. 255-267: 267 [salvo sviste da parte mia, registro che questo lavoro non risulta nella Bibliografia di Alberto Vàrvaro 1956-2003, contenuta nel vol. VÀRVARO, Identità linguistiche e letterarie cit., pp. 741-783: 757-758].
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tanto più se distanti nel tempo dall’originale come è il caso della Cronica, pervenuta attraverso esemplari non anteriori al Cinquecento, non si vede per la critica delle forme procedura diversa dall’attenersi a un manoscritto reale e fondatamente privilegiato rispetto agli altri, rivendicando la certezza del documentato di contro alla ipoteticità (per quanto sofisticata) del ricostruito. Non si tratta, è ovvio, di opinioni unanimi: continuano infatti a registrarsi escursioni comportamentali anche notevoli a seconda del tipo di testo8 e del tipo di pubblico cui l’edizione è destinata, nonché delle opzioni teoriche dello studioso, com’è naturale. 8
Sul versante letterario, vari interventi ha suscitato l’edizione della dantesca Vita Nova (titolo diverso rispetto al tradizionale Vita Nuova) proposta da Guglielmo Gorni. La condivisibile dichiarazione dell’editore secondo la quale «l’edizione critica […] non mima, non deve ricostruire la lingua di un originale perduto e irraggiungibile», accompagnata dal riconoscimento che la soggettività delle scelte può diventare un «vero e proprio azzardo nelle grafie» e che per questo livello della lingua il discorso diventa «puramente indiziario, soggetto a parametri differenziati di giudizio anche a norma della destinazione dell’opera», mal si concilia – a mio parere – con l’affermazione dello stesso (di sapore un po’ agnostico) secondo la quale «attenersi, nella critica delle forme, a un manoscritto privilegiato sugli altri è dunque una procedura rispettabile, ma nei fatti contestabilissima», cfr. G. GORNI, Restituzione formale dei testi volgari a tradizione plurima. Il caso della “Vita Nova” [1998], in GORNI, Dante prima della Commedia, Fiesole (Firenze) 2001, pp. 149-176: 170, 176, 168). Sulla questione intervengono, con tesi divergenti, P. TROVATO, Un saggio recente sulla restituzione formale della Vita Nuova, in TROVATO, Il testo della «Vita nuova» e altra filologia dantesca, Roma 2000 (Quaderni di “Filologia e critica”), pp. 87-93; GORNI, Nota al testo, in Dante Alighieri, Opere. Edizione diretta da M. SANTAGATA, I: Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia, edd. C. GIUNTA - G. GORNI - M. TAVONI, Introd. M. SANTAGATA, Mondadori 2010, pp. 783-792; TROVATO, In margine a una recente edizione della Vita nuova. Schede sulla tradizione del testo, «Studi e problemi di critica testuale», 81 (2010), pp. 9-15 (la «recente edizione» di cui si parla è Dante Alighieri, Vita nova, introduzione, revisione del testo e commento di S. CARRAI, Milano 2009 [Classici italiani della BUR]). A un metodo diverso, dichiaratamente collegato allo “storico” lavoro di Michele Barbi (1921), con aggiornamenti, si ispira una nuova edizione, che significativamente torna al titolo tradizionale, Vita Nuova: Dante Alighieri, Le opere, I, Vita nuova. Rime, edd. D. PIROVANO M. GRIMALDI, Introd. E. MALATO, 2 voll.: I. Vita nuova; Le Rime della «Vita nuova» e altre Rime del tempo della «Vita nuova» [si torna, intenzionalmente, al titolo tradizionale dell’opera]; II. Le Rime della maturità e dell’esilio, Roma 2015 (Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, I); i criteri editoriali vengono analiticamente illustrati anche in D. PIROVANO, Il manoscritto Chigiano L VIII 305 della Biblioteca Apostolica Vaticana e la Vita Nuova, «Carte Romanze», 3/1 (2015), pp. 157-221. A partire dal caso contingente (l’assunzione del Chigiano come manoscritto di riferimento per le varianti di forma), viene proposta una riflessione sulla restituzione formale degli antichi testi a tradizione plurima e una presentazione dei criteri editoriali, tra conservazione e leggibilità. In generale, fuori dall’occasione particolare che stiamo discutendo, converrà puntare (a condizione che il numero non esorbitante dei testimoni lo consenta) a edizioni “di lavoro” ove il testo (stabilito sulla base di un sol testimone, preferito per le varianti formali e ricostruito “lachmannianamente” per le varianti sostanziali) sia corredato di un apparato analitico e articolato che offra
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3. La Cronica di Anonimo romano è senza dubbio il prodotto più squisito della storiografia non toscana del XIV secolo; accantonando da qui in avanti ogni discussione sulla veste formale e riferendoci al testo edito, va ricordato che esso è stato oggetto di analisi ripetute da parte di molti studiosi, oltre all’editore. Per la sintassi ne è stata messa in luce la tendenza «a scandire per via di asindeti i suoi periodetti a bassissimo sviluppo ipotattico, coincidenti con la frase semplice, ma anche a impiegare con abbondanza lo stile nominale, che in questo vuoto di elementi connettivi trova una sorta di trampolino»9. Il ricorso a periodi brevi e scanditi, lo stile nominale, la paratassi asindetica non sono indizio di scarsa elaborazione concettuale e di inadeguatezza espressiva, mirano piuttosto a sottolineare i picchi informativi del discorso o i momenti di maggiore intensità o la descrizione di situazioni efferate e sanguinolenti, con effetti di grande efficacia10. Una simile capacità espressiva è eccezionale, non casualmente il testo è giudicato un «capolavoro assoluto» della nostra letteratura delle origini11; ricorrente è invece l’adozione di modalità sintattiche analoghe in molti cronisti (e anche in autori di testi esterni rispetto al perimetro storiografico), sia pure con risultati a volte meno brillanti. Considerate in questa prospettiva, le cronache volgari diventano un campo d’osservazione che permette di individuare pratiche e modalità comunicative ampiamente diffuse nelle scritture di età medievale. Vediamo qualche esempio. La Cronaca di Dino Compagni procede spesso con segmenti aggiuntivi giustapposti, che conferiscono alle azioni rappresentate effetti di dinamismo e di intensità crescente. In tutt’altro contesto, la napoletana Cronaca di Partenope, corpus cronachistico costituito attraverso l’assemblaggio di fonti e prodotti diversi realizzato fra Trecento e Quattrocento o secondo altra ipotesi nel più ristretto lasso di tempo tra il 1348 e il 135012, si caratterizza per un andamento additivo che (fin dove sia materialmente permesso) l’intero materiale della tradizione, riproducendo (per quanto possibile) la grafia dei diversi testimoni, senza paura di essere tacciati per bédieriani, di vecchio o nuovo conio. Al contrario, si darebbe conto dello stato effettivo della tradizione manoscritta e ne risulterebbe ridimensionata la discrezionalità (per quanto ragionata) delle scelte editoriali. 9 COLUSSI, Cronaca e storia cit., p. 131. 10 Esemplificazione al riguardo offre P. TRIFONE, Storia linguistica di Roma, Roma 2008, pp. 26-27. 11 La citazione ricorre addirittura nel risvolto di copertina di G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970. 12 Per le due ipotesi cfr. rispettivamente F. SABATINI, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli 1975, pp. 133-140, 161-162, e The Cronaca di Partenope. An Introduction to and
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in alcuni casi si affida ai connettori et, (et) anche, (de) poy, in altri ottiene i medesimi risultati mediante la paratassi asindetica13. Accostabile ai due casi precedenti è la struttura del capitolo conclusivo della autografa Cronaca di Ferraiolo (Napoli, 1498 ca.), redatta da un collaboratore/funzionario di medio livello della corte aragonese. L’accumulo di informazioni, segnato dalla sequenza di et e dalla insistita ripetitività lessicale14 vale a condurre gradatamente il lettore verso l’acme della constatazione finale («et tutto questo vidi con l’ochie mieye») che garantisce la veridicità dei fatti narrati (questa modalità constateremo anche in séguito) ed è insieme simbolo del recuperato potere degli aragonesi, esorcizzati i pericoli connessi alla discesa in Italia di Carlo VIII. È irrilevante che la verità dei fatti ci rammenti la rovinosa caduta della dinastia in brevissimo volger di tempo; questi testi non devono essere valutati in ragione della loro attendibilità storica (addirittura prognostica, nel nostro caso), più spesso essi vanno assunti come rispecchiamento di sentimenti o aspettative diffusi al tempo. «La tendenza alla ridondanza e le strutture allitterative funzionano nella cronaca di Ferraiolo come dispositivi atti a garantire la coesione testuale. […] In testi caratterizzati da fluidità sintattica e gradi deboli delle relazioni
Critical Edition of the First Vernacular History of Naples (c. 1350), ed. S. KELLY, LeidenBoston 2011, pp. 14-15. 13 Vari esempi in C. DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli tra Medioevo e prima età moderna, Roma 2012, p. 46 (sulla base dell’edizione Kelly). A Chiara De Caprio e a Francesco Montuori va il merito di aver studiato a fondo i testi della storiografia napoletana di età angioina, aragonese e immediatamente successiva. 14 Sequenza di et: «Et la galeya […] et sotte le rime […] et in ponta […]. Et dismontato che fo… et essendo sopre lo molo grande… e llo inbasciatore de Spagnia, et lo signiore Consarvo Ferrante, e llo inbassciatore de Vinecia, e llo inbasciatore de Milana, e llo inbasciatore de Rausey, et signiure, cunte, barune et popolane. Et tutte stavano …». Ripetitività lessicale: «se partìo, se partìo; molo granne, molo grande, molo grande; quatto galeye, la galeya, alle costate della galeya, in ponta la galeya; basò la mano, le vasaro la mano, et basayele ad una ad una, et como l’appe vasate; a ffare allegria, sonare de allegria, ditta allegria; et appriesso venevano duy araude, et appriesso veneva la spata della iusticia, et appriesso veneva sua maistà; affrontao tutte doye le figlie, et prima se affrontaye con la signiora reina vechia, voze che se affrontasse con sua mogliere, voze che se affrontasse con la signiora reina Infante; et stettino uno gran piezo abraciate, et po’ se abbraciao con sua mogliere...» (Ferraiolo, Cronaca, ed. R. COLUCCIA, Firenze 1987, p. 117, § 247, per i brani appena citati; p. 118, per l’affermazione finale). Moduli analoghi, caratterizzati dalla insistita ripetizione di una medesima costellazione lessicale, individuano nella Cronica di Anonimo romano P. D’ACHILLE - C. GIOVANARDI, Aspetti della coordinazione nella Cronica di Anonimo romano, in SintAnt. La sintassi dell’italiano antico. Atti del Convegno Internazionale di studi (Università “Roma Tre”, 18-21 settembre 2002), cur. M. DARDANO - G. FRENGUELLI, Roma 2004, pp. 117-154: 147.
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di reggenza, l’allitterazione può servire a rafforzare intelligibilità e memorabilità e può essere uno strumento capace di rafforzare la coesione»15. Simili strategie di organizzazione sintattica sono prevalenti ma non esclusive. Nello stesso testo l’armonia concettuale e la progressione tematica possono essere perseguiti anche con costrutti di tipo paraipotattico e correlativo. È abbastanza frequente la ripresa, dopo una subordinata del discorso aperto dal verbo principale, con la congiunzione coordinante et o con l’avverbio sì (talora in combinazione: et sì); ricorrono abbastanza spesso anche altri connettivi: quale/lo quale, che subordinante ripetuto, subito, po’, onde, ma, ecc. Considerati nel loro insieme, tali fenomeni coinvolgono, in percentuale variabile ma complessivamente ragguardevole, prodotti cronachistici di livello medio o medio-basso, senza distinzioni collegabili all’area o alla occasione immediata della stesura. Decisivi per sostanziali variazioni strutturali sono i livelli di perizia compositiva dell’autore e le differenti ambizioni della storiografia eccellente. Faccio un solo esempio. Strutture sintatticamente complesse esibisce la prosa di Guicciardini, qui richiamata come raffronto alternativo agli esempi precedenti, tanto più se si considera la relativa prossimità cronologica della Storia d’Italia guicciardiniana rispetto a quegli altri testi. Il «grande sintatticista»16 fiorentino produce un periodare di estrema complessità, funzionale all’interpretazione degli eventi e alla articolata visione storica dello scrivente: le premesse necessarie all’accadimento principale, il fatto stesso e le conseguenze di esso si traducono in una struttura sintattica equilibratissima, in cui le premesse logiche e fattuali sono collocate a sinistra e le conseguenze a destra della proposizione principale, che assume il ruolo di vero nucleo forte della narrazione. 4. Non si presentano, giova ribadire, fenomeni esclusivi delle cronache: le liste precedenti (peraltro facilmente integrabili) vanno intese come raccolta di tratti largamente diffusi nel genere e tuttavia presenti anche in altre tipologie testuali coeve.
15 DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli cit., p. 65; alle successive pp. 66-67 vari esempi
con sintassi di tipo paraipotattico e correlativo. Un attento bilancio degli studi sulle strutture con sì e sulla paraipotassi, corredato di molti esempi, traccia DE CAPRIO, Paraipotassi e sì di ripresa. Bilancio degli studi e percorsi di ricerca (1929-2010), «Lingua e stile», 45 (2010), pp. 285-328. 16 G. NENCIONI, La lingua del Guicciardini [1985], rist. in NENCIONI, La lingua dei «Malavoglia» e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli 1988, pp. 175-236: 191. E vedi anche COLUSSI, Cronaca e storia cit., p.124.
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Indicazioni più specifiche vengono da un esame della struttura macrotestuale, a partire dalle modalità di raccolta e utilizzazione dei dati forniti dalle fonti, riutilizzate per la nuova narrazione. Di norma alla base dell’opera c’è un progetto storiografico centrato sul resoconto partigiano di vicende cittadine al quale è sottesa una precisa intenzionalità politica, a vantaggio di una dinastia o di un gruppo. Il lasso cronologico raccontato è quasi sempre troppo ampio perché rientri nell’arco della vita del narratore, per cui giocoforza questi si deve appoggiare a fonti precedenti, di varia natura e variamente utilizzate. A volte si retrocede molto indietro, allo scopo di inserire la propria cronaca cittadina o locale in una più ampia retrospettiva storiografica, di sapore universalistico o sacralizzante. Si spiegano così gli accenni ai favolosi miti delle origini che caratterizzano una parte rilevante della storiografia fiorentina più antica e persistono in Giovanni Villani17: gli avvenimenti troiani da cui tutto si genera, l’assedio e la prima distruzione di Fiesole, la fondazione di Firenze e dei suoi principali monumenti pubblici precedono la descrizione ravvicinata dei fatti recenti e contemporanei. Machiavelli si spinge a registrare la singolare coincidenza tra Dante e Giovanni Villani a proposito della accorta scelta da parte dei fiesolani del luogo ove far nascere Firenze, centro privilegiato di mercato in pianura18. Il risultato universalizzante si può ottenere anche con una diversa strategia, assemblando nello stesso codice testi diversi, disposti in successione mirata. Così avviene nel codice M 801 della Pierpont Morgan Library, interamente vergato da Ferraiolo, dove è decisiva la prospettiva d’insieme che deriva dall’accostamento dei vari testi: in progressione, si passa da un ampio trattato latino di storia universale (il Fasciculus temporum di Werner Rolewinck, copia manoscritta della stampa veneziana del 1481, che narra le vicende del mondo dall’origine e magnifica la fondazione di alcune città, tra cui Napoli), a narrazioni relative alla storia cittadina dai mitici inizi fino alla piena età angioina (la Cronaca di Partenope, desunta da un incunabolo stampato a Napoli da Francesco del Tuppo tra il 1486 e il 1490) o miranti ad illustrare una delle virtù naturali più celebrate del territorio campano (il volgarizzamento sui bagni di Pozzuoli tratto dalla medesima stampa appena ricordata), per concludere infine, con un restringimento ad imbuto accortamente preparato dal retroterra storico così costituito, con la
17 F. BRUNI, Identità culturale e mito delle origini: Firenze nella «Cronica» di Giovanni Villani, in Storia della Civiltà Letteraria Italiana, diretta da G. BÀRBERI SQUAROTTI, 6 voll., Torino 1990-1996: I/2 (1990), pp. 716-728. 18 COLUSSI, Cronaca e storia cit., p. 148.
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Cronaca aragonese, resoconto vibrante e – da una certa fase in avanti – assai dettagliato delle vicende cittadine19. Diverso l’atteggiamento di un altro cronista, il fiorentino Paolino Pieri che, nelle Croniche della città di Firenze, pure in trascrizione unica autografa, non dà posto ai miti che riguardano la antica distruzione di Fiesole e le origini di Firenze. L’unico accenno a Fiesole consiste in una annotazione del 1125, in cui in forma meramente referenziale si registra la vittoria di Firenze ai danni della pericolosa rivale (seconda distruzione della città) e il divieto di riedificazione del centro distrutto: è una posizione ricorrente nella storiografia fiorentina, in cui la vicenda dei rapporti ostili tra le due città viene vissuta come rispecchiamento della più generale e persistente scissione tra le parti in lotta nei comuni toscani, renitenti alla concordia20. Comune a questi e a molti altri testi è la distribuzione quantitativa degli argomenti: la narrazione procede in maniera discontinua e a larghi tratti per gli anni lontani, diventa più fitta, fino ad assumere andamenti da diario talora quotidiano man mano che gli eventi si avvicinano alle fasi di redazione del testo stesso. La trascrizione della Cronaca di Partenope da parte del Ferraiolo induce a riflettere sulle conseguenze linguistiche della azione di copia, concretamente verificabili in un buon numero di casi italoromanzi, anche qualitativamente diversi21. Nel documento su cui ora concentriamo l’attenzione, il cronista-copista napoletano di fine Quattrocento modifica la lingua del suo modello a stampa, ai vari livelli: paragrafematica, grafia, vocalismo, consonantismo, morfologia. Rispetto alla stampa, la redazione manoscritta esibisce sia elementi innovativi sia un buon numero di tratti locali e fortemente idiomatici, per così dire linguisticamente regressivi rispetto alla standardizzazione connaturata alla stampa22. Per quanto tangibile, la varia-
19 20
Ferraiolo, Cronaca, ed. cit.: p. XXIII. Paolino Pieri, Croniche della città di Firenze, ed. C. COLUCCIA, Lecce-Rovato 2013: VIII. Si intitola Lo spirito di fazione nei Comuni medievali il cap. I di F. BRUNI, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003, pp. 19-144 (con ampio spazio dedicato alla situazione toscana). 21Vari esempi e considerazioni metodologiche generali in M. BARBATO, Trasmissione testuale e commutazione del codice linguistico. Esempi italoromanzi, in Transcrire et/ou traduire. Variation et changement linguistique dans la tradition manuscrite des textes médiévaux. Actes du congrès international (Klagenfurt, 15-16 novembre 2012), cur. R. WILHELM, Heidelberg 2013, pp. 193-211. Per la trascrizione ad opera di copisti non locali di sonetti e canzoni del napoletano Guglielmo Maramauro, cfr. R. COLUCCIA, L’edizione dei documenti e i problemi linguistici della copia (con tre appendici un po’ stravaganti intorno a Guglielmo Maramauro), «Medioevo Romanzo», 24 (2000 [ma in realtà 2002]), pp. 231-255. 22 M. BARBATO - F. MONTUORI, La IV parte della Cronaca di Partenope trascritta dal Ferraiolo, in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche,
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zione è mantenuta nei confini dell’epidermide formale, non investe (o investe poco) la sostanza lessicale e semantica e non ostacola l’intelligenza del testo ricopiato. Non si può che concordare, si tratta di una casistica generale. Quando sia identica la zona di origine dell’autore e del trascrittore (in questo caso Napoli), la distanza linguistica tra i due testi è ridotta, tanto più se originale e copia sono relativamente vicini nel tempo. Quando invece esiste una netta divaricazione cronologica e topografica, la lingua del testo ricopiato rappresenta il risultato di una forte torsione rispetto alla veste di partenza, nei casi più estremi si verifica una vera e propria commutazione23 da un sistema linguistico a un altro (il fatto letterario più noto, ricordato fin nei manuali, è quello dei poeti della scuola siciliana ricopiati dai trascrittori toscani). Trattandosi di copisti di lingua differente da quella degli autori, i fenomeni di commutazione andranno messi in relazione alla provenienza geografica dei trascrittori, alla distanza cronologica che separa le successive trascrizioni e anche al numero degli interpositi fra l’antigrafo all’inizio della sequenza e il codice a noi pervenuto. In generale possiamo convenire che, quando trasmigrano da una zona ad un’altra, i testi subiscono metamorfosi anche radicali; invece la diffrazione appare sfumata e si percepisce più a fatica quando si tratti di testo ricopiato da copista della medesima area dell’autore. Per qualificare opera e risultato di copisti che trascrivono testi originati in (o provenienti da) aree linguistiche diverse dalla propria spesso si ricorre a definizioni quali “patina”, “strato”, “velatura”, “impronta”, “colorito”, “veste” ecc.; ma converrà rinunziare a una simile prudenza o pigrizia lessicale e adottare formulazioni più rispondenti alla dinamica reale dei fatti, segnalando esplicitamente che si tratta di un vero e proprio cambio di strutture, pur non integrale né sistematico. La fenomenologia della copia coinvolge non solo la tradizione, la filologia e le soluzioni editoriali, ma ha implicazioni storico-linguistiche e culturali, in maniera e in forme da valutare caso per caso, tanto più quando l’originale sia scomparso (ma non è il nostro caso) e sia giocoforza procedere solo per
materiali e usi nella storia della lingua. Atti del XII Congresso SILFI. Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Helsinki, 18-20 giugno 2012), cur. E. GARAVELLI - E. SUOMELA HÄRMÄ, 2 voll., Firenze 2014, II, pp. 51-70: 65-68. 23 La proposta terminologica è di A. VÀRVARO, Tendenze comuni alle lingue romanze, XII. La formazione delle lingue letterarie, in Lexikon der Romanistischen Linguistik (= LRL), cur. G. HOLTUS - M. METZELTIN - C. SCHMITT, 8 voll. in 12 tomi, Tübingen 19882005, II/1 1996, pp. 528-537: 532-533; il tema torna in VÀRVARO, Dialettologia medievale e testi scritti, in La variabilité en langue, I. Langue parlée et langue écrite dans le présent et dans le passé, II. Les quatre variations, cur. R. VAN DEYCK - R. SORNICOLA - J. KABATEK, Gand 2004 (Studies in Language, 8), I, pp. 245-261.
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via indiziaria. Non basta riconoscere la variazione; bisogna anche capirne la qualità, cioè le implicazioni culturali. Diversa rispetto al Ferraiolo è l’utilizzazione della medesima quarta parte della Cronaca di Partenope che viene fatta nella cosiddetta Cronaca di Napoli di Notar Giacomo, essa pure autografa, composta entro il primo ventennio del XVI secolo, narrante le vicende della città dalle mitiche origini sino al 1511. Riduzioni e ampliamenti rispetto al testo di partenza e frequenti ristrutturazioni dei contenuti caratterizzano in modo particolare il prodotto cinquecentesco, nel quale passi originali coesistono senza stridori evidenti con quelli derivati dal testo preesistente24: ne nasce un «codice-archivio» in grado di consentire «ai lettori della cronaca di ripercorrere l’intera storia cittadina e riconoscere le forme in cui si è andata progressivamente costituendo e rimodulando la memoria della città». La questione delle fonti, dissimulate o ben evidenti all’interno del nuovo testo, è cruciale. Spesso il cronista dichiara esplicitamente il proprio metodo, poggiato sullo scrutinio sistematico di documenti precedenti, come è abitudine dei fiorentini Paolino Pieri e Giovanni Villani. In Paolino Pieri i significativi (pur se non frequentissimi) riferimenti in prima persona valgono a garantire la veridicità della narrazione, assicurata dalla partecipazione diretta del narratore ai fatti descritti25; con consapevolezza e ambizioni ben maggiori, lo stesso procedimento adotta qualche anno dopo Giovanni Villani, che attraverso le formule «io scrittore», «io / noi autore», «io, Giovanni», «noi Giovanni Villani» implicitamente sottolinea il «precario stato delle conoscenze storiche del tempo e […] la coscienza che il cronista ne possedeva, distinguendosi dall’anonimato dei suoi predecessori»26.
24 DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli cit., pp. 48-62 (la citazione che segue a p. 173). C. DE CAPRIO - F. MONTUORI, Copia, riuso e rimaneggiamento della Quarta parte della Cronaca di Partenope tra Quattro e Cinquecento, in XXVIé CILFR. Congrés Internacional de Lingüística i de Filologia Romàniques (6-11 de setembre de 2010, València), cur. E. CASANOVA HERRERO - C. CALVO RIGUAL, 8 voll., Berlin 2013, VII, pp. 89-102. 25 Paolino Pieri, Croniche della città di Firenze, ed. cit., pp. XIII-XV. 26 Giovanni Villani ricorre quattro volte alla formula «io scrittore», tre volte a «io autore», otto volte a «noi autore»; proprio all’inizio (I i 5) si definisce «io Giovanni cittadino di Firenze» e successivamente (XII cxxxv 1) «noi Giovanni Villani autore di questa opera» (Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. PORTA, 3 voll., Parma 1990-1991, I i e I vii). Sulla base di questi insistiti riferimenti personali G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, dir. E. MALATO, 14 voll., Roma 1995-2005, II (1995), Il Trecento, pp. 159-210: 161, può affermare: «questo uscire dalle tenebre dell’anonimato, in cui ancora si aggiravano i primi compilatori fiorentini, va di pari passo con il profilarsi di un successo dell’economia e di altre forme del vivere sociale in cui si realizza il Comune fiorentino».
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La presenza diretta agli avvenimenti narrati è rivendicata anche da altri scriventi, a implicita garanzia di veridicità. In questa prospettiva, i testi cronachistici e memorialistici diventano testimonianza di cose vissute direttamene o almeno riferite da testimonianze attendibili. «Cronisti come Compagni e l’Anonimo [romano] si ritraggono anzitutto come fonte diretta, in qualità di astanti o al limite ricettori delle fonti più attendibili fra quelle circolanti oralmente in merito ai fatti raccontati»27. Ferraiolo si rifà ai ricordi del padre per la descrizione dell’ingresso trionfale di Alfonso d’Aragona a Napoli nel 1442; registra invece eventi vissuti in prima persona quando ricorda la fuga di uomini e cose da Napoli di fronte all’arrivo delle truppe di Carlo VIII nel 1495 o testimonia la tranquillità ritrovata della famiglia reale nel febbraio 149828. Non mancano brani di discorso riportato, possibile indizio di partecipazione diretta ai fatti, introdotto da formule quali «con dicenno che», «con dire che», «dissenole che», a cui fa seguito la citazione indiretta (come ci aspetteremmo) e anche quella diretta29. Anche il riuso di fonti precedenti, a volte dichiarate, a volte dissimulate, è particolarmente marcato nel cronista napoletano: testi documentari, di diversa rilevanza storica, a volte esplicitamente indicati dal cronista, a volte assunti in forma dissimulata (ma spesso le spie linguistiche ne tradiscono la diversa origine), mirano da un lato a conferire carattere di autorevolezza alle materie trattate e nel contempo, se si guarda alla genesi o alla provenienza dei documenti, sanciscono quasi a prima vista la militanza dello storiografo nel campo aragonese. Meno frequente è il ricorso a testimonianze letterarie. Straordinario è l’inserimento di uno strambotto, generato a dileggio dei francesi attaccanti gli abitanti di Ischia rimasti fedeli a Ferrante, trascritto nel tessuto prosastico su righi continui, ma perfettamente riconducibile alla struttura metrica in ottave: ABABABAB30. 27 COLUSSI, Cronaca e storia, cit., p. 142. 28 Ferraiolo, Cronaca, ed. cit., rispettivamente a pp. 3-4 (§§ 1-2); 43 (§ 72); 118 (§ 247). 29 Ibid., rispettivamente a pp. 66 (§ 112): «dicennole uno de quiste francise: “Che se
Vostra Signoria me vole dare uno buno beuragio” isso francise le donava la Groce in mano»; 81 (§ 147): «lo facevano figliolo de San Marco, altramente non volenno farelo, “ve andate con Dio”» (altro esempio qui non trascritto perché molto esteso, ai righi immediatamente successivi); 112 (§ 235): «con direle che le loro signorie se accordassimo, ca isso prencipe ditto Bisegnano non posseva venire manco a ·ccasa de ·Ragona: “oramaye agiate ad provedere allo fatto vostro”»; 112 (§ 236): «erano andate per inbitare lo prencipe de Salierno, “che sua illustrissima signoria se volesse dignare de venire alla incoronacione de la maistà del signiore re Federico”». 30 R. COLUCCIA, Un inedito strambotto campano dell’ultimo quinquennio del secolo XV, «Quaderni di filologia e letteratura siciliana», 3 (1976), pp. 5-12. Per il testo, Ferraiolo, Cronaca, ed. cit., pp. 50-51 (§ 83).
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«O Francise et vui Napolitane mie, onneyuno se caglia, et de Ischia non se parlla più niente, c’avimo vist’a la prima battaglia li asine stare a ·ffronte a ·ttanta giente, che appedita, ammuciche et arraglia. Ne ànno ferite et ammazate più de ciento, e loro dintro de una casa de paglia ne pigliaro sette asine a ·ttradimento!».
Eccezionale è il rinvenimento di una fonte retrostante il lunghissimo (e pur acefalo) paragrafo che narra con dovizia di particolari episodi dell’azione militare condotta dagli aragonesi per strappare Otranto caduta nelle mani dei Turchi. Decisive per la scoperta sono alcune spie formali fortemente connotate: allocuzioni indirizzate al pubblico, zeppe di versificazione, iperboli numeriche, stilemi stereotipati e soprattutto sequenze intere di ottave (o spezzoni di esse) perfettamente individuabili sotto la attuale veste prosastica. Il campionario, abbondante e univoco, impone una sola conclusione: il paragrafo sui fatti di Otranto è senza alcun dubbio assunzione e adattamento in forma prosastica di un cantare napoletano (come dichiara la lingua) dedicato a quelle vicende31. L’esame delle strutture linguistiche svela un travestimento documentario messo in atto secoli addietro dal cronista. Ecco un esempio di questa prosa dai tratti fortemente ritmici e rimati, che suggeriscono un testo di poesia alle spalle. «Nel terzo dì de magio el s(igniore) duca forte si mese lo canpo innante la citate, circa uno miglio lontano delle porte; che dereto San Francisco reparate se avevano quella canaglia per donarene morte, che più de mille bonmarde ne ebe menate, et po’ de fore ussero et molte ne foro morte et anco ferite».
Ecco la possibile ottava retrostante (si segnala con + e - l’ipermetria e l’ipometria dei versi ricostruiti). «Nel terzo dì de magio el s(igniore) Duca forte + si mese lo canpo in|nante la citate, + circa uno miglio lontano delle porte; +
31 R. COLUCCIA, Un cantare napoletano per la guerra d’Otranto (1480-1481), «Studi mediolatini e volgari», 25 (1977), pp. 45-83. Le citazioni del testo da Ferraiolo, Cronaca, ed. cit., p. 10 (§ 15).
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che dereto San Francisco reparate + se avevano quella canaglia per donarene morte, + che più | de mille bonmarde ne ebe menate, + et po’ de fore ussero […] et molte ne foro morte et anco ferite». +
La retroversione non è solo indiziaria, basata esclusivamente sull’analisi interna alle strutture linguistiche. Una serie di ottave accostabili a quelle ricostruite dalla Cronaca di Ferraiolo si ritrovano in un trattato composto a Napoli nell’ultimo ventennio del sec. XV da Bernardino de Renda, minorita siciliano di Patti. Il trattato conta 480 ottave, per un totale di 3.840 versi; dedicato al cardinale Ascanio Sforza, tratta «della laudanda vita e probatissimi costumi» di Ippolita d’Aragona, duchessa di Calabria, e contiene al suo interno una digressione relativa alla guerra d’Otranto. In questo segmento (ottave CCV-CCXVIII), spiccano versi che si possono mettere in parallelo con quelli dell’ottava ricostruita a partire da Ferraiolo32. «Quando quel Ducha valiroso e forte puose lo campo appresso la citate, distante circa un miglio da le porte, indietro in San Francisco reparate, quella canaglia, per donarle morte, più de mille bonbarde ebbi minate; da poi animate, for ebbiro ussiti. Fòrone morti molti, ancho feriti.»
Non si tratta dell’unica coincidenza; al contrario, i due testi corrispondono tra loro per altre ottave o spezzoni di ottava, oltre che per una serie cogente di riscontri lessicali e di sintagmi. Vi sono inoltre, nell’uno e nell’altro caso, estesi segmenti solo propri e autonomi, circostanza che esclude la dipendenza di uno dei due dall’altro. Una sola conclusione è possibile: sia il Ferraiolo che Bernardino de Renda hanno attinto per la loro presentazione delle vicende otrantine a un cantare preesistente, dal Ferraiolo tra-
32
N. CIAMPAGLIA, Un inedito Tractato meridionale su Ippolita d’Aragona di frate Bernardino de Renda di Patti: identificazione di una fonte perduta, «Filologia e Critica», 20 (1995), pp. 44-79. Edizione completa del trattato in CIAMPAGLIA, Lingua e testo di un poemetto quattrocentesco su Ippolita d’Aragona, «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», 14 (2000), pp. 115-164, 15 (2001), pp. 89-132, 16 (2002), pp. 141-208: 173 per le ottave “otrantine”, tra cui quella riprodotta a testo.
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sformato in cronaca prosastica33, da Bernardino citato verosimilmente a memoria e variamente ristrutturato. Non contrastano con questa ipotesi le differenti finalità di fondo del duplice singolare riciclo: Ferraiolo celebra le fortune e le capacità degli eroi aragonesi votati alla riconquista della città otrantina, Bernardino esalta la fede straordinaria mostrata da Ippolita durante i difficili eventi. Comunque sia, i testi di Ferraiolo e Bernardino giunti sino a noi fanno emergere un ipotesto scomparso ma sicuramente di una certa notorietà nella cultura meridionale di fine Quattrocento, se allo stesso attingono due rielaboratori differenti che agiscono in autonomia. I contatti tra cronaca e letteratura non si limitano alla modalità già vista (inserti poetici e di matrice letteraria vengono variamente assunti nel tessuto di testi cronachistici34) e anzi il rapporto tra le due esperienze può assumere configurazioni differenti. Saliamo di livello. Gli «scorci storiografici “verticali” e vertiginosi della Commedia»35 sono familiari a molta storiografia toscana dei secoli successivi, sino a Machiavelli; nel poeta gli eventi vengono ricordati in forme spesso implicite o evocative, nei cronisti con abbondanza di dettagli, ma in maniera meno suggestiva. Basti un solo esempio. Dante non partecipa in prima persona alla cosiddetta battaglia della Lastra, fallito tentativo dei fuorusciti bianchi e dei loro alleati di conquistare Firenze il 20 luglio 1304; l’evento, che secondo l’opinione prevalente segna la rottura con i compagni d’esilio, «compagnia malvagia e scempia», e il farsi parte per sé stesso, viene allusivamente richiamato nella condanna di Cacciaguida (Pd XVII 61-69)36. Diverso è il procedere dei
33 Il travestimento in prosa del cantare rivela una tecnica di scambi incrociati tra cantari e cronache piuttosto frequente in area iberica ma non altrettanto nella situazione italiana (Ferraiolo, Cronaca, ed. cit., pp. XLV-XLVI). Di natura differente le corrispondenze testuali e tematiche tra le cosiddette «cronache del Vespro» italiane e altri testi di provenienza iberica segnalate da M. BARBATO, Corrispondenze italo-iberiche nelle cronache del Vespro, «Bollettino. Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 24 (2013), pp. 17-29. 34 Per pezzi sconosciuti di letteratura, di vario livello culturale, inseriti in altri due testi meridionali, il primo cronologicamente prossimo (Loise De Rosa, Ricordi. Edizione critica del ms. ital. 913 della Bibliothèque Nationale de France, ed. V. FORMENTIN, 2 voll., Roma 1998), il secondo perfettamente coevo (Rogeri de Pacienza, Opere, ed. M. MARTI, Galatina 1977), cfr. Ferraiolo, Cronaca, ed. cit., pp. XLVII-XLVIII. 35 G.M. ANSELMI, Dante e l'interpretazione della storia, in Dante e la fabbrica della Commedia. Atti del convegno (Ravenna, 14-16 settembre 2006), cur. A. COTTIGNOLI - D. DOMINI - G. GRUPPIONI, Ravenna 2008 (Interventi classensi, 22), pp. 37- 42: 37. Secondo Anselmi «si impone […] la necessità di rileggere Dante in modo forte anche in relazione alla nascita della moderna storiografia». 36 Cfr. G. CHERUBINI, voce «Lastra, Battaglia della», in Enciclopedia dantesca, 6 voll., Roma [1970-1978] 1984 [seconda edizione riveduta (da cui si cita); e, con ulteriore aggiornamento, voll. 16, Milano 2005. In sigla di norma ED], III, p. 577 e, per un diversa
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cronisti. Alle fonti tradizionalmente allegate per ricostruire i dettagli dello scontro (Compagni, Giovanni Villani) potrebbe aggiungersi Paolino Pieri37, più precoce dei due appena citati, che fornisce una descrizione vicina agli eventi, analitica e ricca di indicazioni topografiche e numeriche, fino al numero dei combattenti, dei prigionieri, dei morti. Poco importa che nell’opera dantesca coesistano senza stridori apparenti eventi reali e fatti immaginari, personaggi storici e mitologici: sono numerosissimi gli esempi «in cui un precedente privo di altra realtà che quella letteraria vale a misurare una situazione […] ben altrimenti concreta»38. Fatti e protagonisti di vicende della attualità vengono rapportati a modelli antichi, senza distinguere in questi ultimi tra storia e finzione letteraria; episodi passati, anche d’immaginazione, possono essere evocati ad esempio o a paragone di fatti attuali. I protagonisti della cronaca fiorentina o della storia medievale convivono con personaggi biblici o con altri della mitologia classica o completamente inventati e tutti insieme contribuiscono a popolare l’affascinante universo dantesco, che tanto peso ha nell’immaginario collettivo della nostra cultura. Altrettanto imponente è l’influenza della lingua della Commedia sull’italiano che noi oggi usiamo, riscontrabile (oltre che in numerosissimi elementi lessicali) in tante frasi celebri di origine dantesca radicate nella lingua (espressioni idiomatiche o veri e propri proverbi), usate in forme del tutto svincolate dal contesto originario, utilizzate per l’impatto emotivo o evocativo che esse suscitano, senza riferimento agli episodi di partenza. Mi limito a un paio di esempi, rovistando tra i testi già in precedenza richiamati. È futile chiedersi se Paolo e Francesca ritenessero vera o fittizia la storia d’amore tra Lancillotto e Ginevra, ma è sicuro che l’emozione collegata alla lettura di quel racconto sia decisiva per l’adulterio dalle conseguenze tragiche e concrete. Le famosissime parole di Francesca, che oggi molti ripetono nelle circostanze più varie, assumono valore paradigmatico già in Loise de Rosa, che modifica e napoletanizza il modello39: interpretazione di alcune idee vulgate intorno alla battaglia della Lastra e alla biografia politica di Dante dal 1303 al 1306, M. TAVONI, La cosiddetta battaglia della Lastra e la biografia politica di Dante, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», 17 (2014) [Per Umberto Carpi. In memoriam], pp. 51-87, e ora in TAVONI, Qualche idea su Dante, Bologna 2015, pp. 105-146. 37 Paolino Pieri, Croniche della città di Firenze, ed. cit., pp. 88-89 (§168 17-24). 38 A. VÀRVARO, «Noi leggiavamo un giorno per diletto». Esperienza letteraria ed esperienza storica nel Medioevo [1993], in VÀRVARO, Identità linguistiche e letterarie cit., pp. 256-269: 257. 39 Loise De Rosa, Ricordi, ed. cit., pp. 513-514, 516. L’accostamento dei versi danteschi citati da Loise ad analoga citazione fatta da un anonimo salentino commentatore
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«Uno dy` lo singniore do(n)no Alonso me disse: “Di(m)me, Loyse, èy vero chello che dice Da(n)/te, che dice no(n)n èy maiure delore che recordare de lo tienpo felice inde la / miseria”?». /(1r 21-23); «Ho signiore do(n)no Alonso, oge fa uno a(n)no che (m)me ademandastevo se Dante / diceva vero, che disse “no(n)n èy maiure delore che recordare de lo tienpo / filice inde la meseria”, p(er)ché yo era stato groriuso et mo era misiro». (2r 1-3).
La locuzione «cosa fatta capo ha» è attestata da cronisti e storiografi fin dai primi del Trecento e nei medesimi anni da Dante (nella variante «capo ha cosa fatta»), sempre con riferimento alla celebre frase di Mosca Lamberti incitante all’assassinio di Buondelmonte dei Buondelmonti, reo di una non mantenuta promessa matrimoniale (invaghitosi di una donna di casa Donati, non volle sposare la donna di casa Amidei con la quale si era impegnato); l’episodio sarebbe stato all’origine della divisione tra guelfi e ghibellini e delle insanabili discordie interne alla città di Firenze, «mal seme per la gente tosca» (Inf. XXVIII, 107-108). Attraverso una lunga trafila e ripetute riprese nei secoli successivi, con qualche sfumatura semantica diversa da quella originale, diviene di largo consumo e quasi proverbiale nell’italiano contemporaneo40. 5. Mi avvio a concludere. La storia della cultura è costellata di falsi e di falsari. Durante i secoli, presupposti ideologici e intenti pratici diversi promuovono falsificazione e contraffazione e stimolano la circolazione dei prodotti falsificati; tali pratiche investono in modo massiccio l’ambito delle scienze umane in campo storico, politico, religioso, letterario, musicale, artistico41, e danno luogo a manifestazioni che sarebbe riduttivo costringere in circuiti esclusivamente deteriori.
del Teseida negli stessi appena successivi (M. MAGGIORE, Scripto sopra Theseu re. Il commento salentino al «Teseida» di Boccaccio (Ugento/Nardò, ante 1487), 2 voll., Berlin 2016, II, p. 1097 [«Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie», 399]), offrono il destro per alcune riflessioni sulla tradizione manoscritta e sulla veste editoriale della Commedia in R. COLUCCIA, Sul testo della Divina Commedia, «Medioevo Letterario d’Italia», 9 (2012 [ma 2013]), pp. 35-48: 44-46, e ora in COLUCCIA, Storia, lingua e filologia della poesia antica. Scuola siciliana, Dante e altro, Firenze 2016, pp. 117-134: 130-132. 40 C. COLUCCIA, Cosa fatta capo ha. Origine e storia di una locuzione, «Lingua Nostra», 65 (2004), pp. 73-82. 41 Apprezzabile anche per la varietà di temi e di situazioni presentati il vol. «Contrafactum». Copia, imitazione, falso. Atti del XXXII Convegno Interuniversitario (Bressanone/Brixen, 8-11 luglio 2004), cur. G. PERON - A. ANDREOSE, Padova 2008.
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In particolare nel XVIII secolo abbondano gli esempi di falsi pseudotrecenteschi, confezionati spesso allo scopo di nobilitare le tradizioni locali. Per la redazione di tali documenti a volte vengono riutilizzate in vario modo informazioni preesistenti e in questo senso il nuovo prodotto arriva ad avere utilità per lo storico. Un documento apocrifo, normalmente confezionato in epoca posteriore rispetto a quella contrabbandata per l’originale, è inutilizzabile per il linguista che (salvo casi eccezionali) non può trarne indicazioni sicure per datare i fenomeni o per collocare gli stessi in un’area precisa, tanto più quando la zona di provenienza del supposto originale e quella del falsario divergano. L’analisi in controluce dei documenti, la ricerca della fonte manoscritta di partenza, prove o indizi interni anche di natura linguistica riducono il rischio che si assumano per buoni dei falsi, più o meno raffazzonati. E tuttavia non mancano studiosi, non sempre locali, che, contro ogni evidenza fattuale, si affezionano all’idea di sostenere la veridicità di testi (e relativi autori) palesemente indifendibile. Mi limiterò a elencare alcuni esempi concreti, concentrati in area pugliese. Nonostante l'abnegazione (degna di causa migliore) con cui talvolta si continua a riproporre l'autenticità dei Diurnali di Matteo Spinelli da Giovinazzo (sec. XIII!), si tratta sicuramente di una contraffazione grossolana perpetrata non prima del sec. XVI, pur se avallata niente meno da Ludovico Anton Muratori che nei Rerum Italicarum Scriptores accoglie il testo trasmessogli da quel Giovan Bernardino Tafuri (1695-1760), le cui gesta vengono illustrate pochi righi più sotto; in questo caso Tafuri sarebbe solo consigliere fraudolento, non autore in prima persona del falso. A prescindere da ogni considerazione di tipo storiografico (su questi temi si è incentrato finora il dibattito tra negatori e sostenitori dell'autenticità del testo [nessuno dei quali, ovviamente, è riuscito a rintracciare il manoscritto originale o copie di epoca relativamente antica]), basterebbe la seguente constatazione: nel lessico di questo testo compare una forma come labardiere m. pl. ‘soldati armati di alabarda’, attestata nell’italiano solo a partire dal 1514-20 (Machiavelli, nella variante più diffusa alabardiere), Il lemma sarebbe impossibile in un originale del XIII secolo, in quanto la voce (e la famiglia lessicale), oltre che naturalmente l’arma a cui si fa riferimento, sono «penetrate in Italia con i lanzichenecchi e con le milizie svizzere»42 (DELIn). 42 Il nuovo Etimologico. DELI - Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di M[anlio] CORTELAZZO - P. ZOLLI, seconda edizione in volume unico cur. M[anlio] CORTELAZZO - M[ichele] A. CORTELAZZO, Bologna 1999 [in sigla di norma DELIn].
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In area salentina un caso abbastanza simile è rappresentato dal Chronicon neritinum, che la vulgata attribuisce per la sezione iniziale al monaco benedettino Stefano di Nardò, operante nel sec. XIV, e per la sezione finale (fino al 1412) ad anonimi continuatori; pare invece dovuto alla penna dell’appena ricordato Giovan Bernardino Tafuri, pregiudicato nelle cui falsificazioni incappa (oltre a Muratori che accoglie anche questo testo nei Rerum Italicarum Scriptores) ancora nella seconda metà del secolo scorso un filologo di tutto rispetto come Mauro Braccini. Dal laboratorio del Tafuri, autore di una ancora citata Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli43 fuoriescono anche altri prodotti contraffatti come il Ragionamento assegnato ad Angelo Tafuri e i Diari assegnati a Lucio Cardami; non possono convincere, in quanto sono poco argomentate e prescindono dalle modalità di trasmissione del testo, le sollecitazioni ad «accogliere con ampio beneficio di inventario l'autenticità (per non dire la genuinità) di questi testi»44. Se anche le Cronache leccesi di Antonello Coniger (fino al 1512), stampate per la prima volta nel pieno sec. XVIII45, ancora di recente utilizzate a riscontro46, appartengano a questa sequenza di falsi, potrebbe chiarirsi a partire da un censimento sistematico della tradizione manoscritta superstite: non esistono codici anteriori alla stampa, a quanto pare, e già questo solo fatto dovrebbe insospettire.
43 G.B. TAFURI, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, 3 voll., Napoli 1744-1760 (rist. anast.: Sala Bolognese 1974). 44 M. BRACCINI, Frammenti dell’antico lucano, «Studi di Filologia Italiana», 22 (1964), pp. 205-362: 205-206. 45 La “cronaca” di Antonello Coniger, cur. S. ARCUTI, Lecce 2003. 46 L. PETRACCA, Pirro del Balzo: barone fedele, divenuto «adverso» che «pretendeva lui farsi re». Dinamiche politiche e strategie di potere al tempo di Ferrante I d’Aragona, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 117 (2015), pp. 381-436: 409 nota 97.
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1. Partecipo con molto interesse a questa VI Settimana di studi medievali organizzata dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo perché condivido pienamente «l’attenzione per le cronache e per Dante» che della Settimana costituiscono il tema centrale («attenzione per le cronache e per Dante», com’è scritto nella locandina del Convegno). Aggiungo che trovo quanto mai indovinato che in quest’anno, che è il 750° della nascita del Poeta, l’Istituto proponga questo tema che fa riandare alle ricerche di un prestigioso e indimenticato suo Presidente, Raffaello Morghen. Non posso anzi non ricordare come prima cosa un suo studio giovanile – lo pubblicò sul “Bullettino” poco dopo la laurea, nel 1921 (aveva 25 anni) –, sicuramente noto anche perché ripubblicato molti anni dopo, nel 1983, in una sua raccolta di saggi dedicata a Dante profeta, il cui titolo era Dante, il Villani e Ricordano Malispini; ossia Dante giustapposto a due cronisti in volgare grossomodo della sua epoca1. Non voglio certo entrare nella questione dell’“autenticità” o della “falsità”, come allora si diceva, di Ricordano Malispini, che appunto, vedi caso, scriveva in volgare, ma solo evidenziare i nessi che Morghen vedeva, e trovava “innegabili”, tra la Divina Commedia e la storiografia fiorentina. Anche perché, per tale via, poneva un problema più ampio: «da quali fonti il poeta ha attinto le notizie principali della storia del suo tempo? » Un problema non certo nuovo: anche Morghen, come gli organizzatori di questa Settimana, citava il vecchio Isidoro del Lungo per il suo Dante ne’ tempi di Dante, che era del 1888; ma proprio nell’anno in cui Morghen
1
R. MORGHEN, Dante profeta tra la storia e l’eterno, Milano 1983 (il contributo in questione è alle pp. 17-38. Le citazioni rinviano alle pp. 17-18).
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si occupava del Malispini, ossia nel 1921, s’era di nuovo accesa la discussione sul rapporto tra letteratura e storia. Benedetto Croce era uscito sulla «Critica» con la sua celebre distinzione tra poesia e non poesia, sicché Dante restava sì, con la sua Commedia, un poeta prodigioso per l’epoca in cui esplose (Giambattista Vico l’aveva salutato non a caso come l’Omero dei nuovi tempi barbarici), ma solo per i passi che abbacinavano per la loro indiscutibile forza poetica. Con la conseguenza che tutta l’impalcatura del poema, il cosiddetto “sostrato teologico e intellettuale”, per quanto utile, decadeva solo a ingombro fastidioso, che si poteva anche pretermettere. E già si pensava di antologizzare i passi “belli”, omettendo tutti gli altri, che però globalmente occupavano almeno i quattro quinti della Commedia. Morghen non accettava questo discorso, così come non lo accettava un suo maestro, Ernesto Buonaiuti, che nella sua Storia del cristianesimo, in un apposito capitolo, intitolato L’Apocalissi dantesca, ebbe in seguito a lamentare che il disinteresse tutto italiano «per le cose religiose e per le grandi realtà cristiane» avesse straniato la cultura «dal vero mondo della Divina Commedia». La quale pertanto, non più vista come «il più grande poema religioso della Cristianità latina», era rifluita, «dal vivo commercio delle correnti popolari», nel «dominio esclusivo di eruditi in filologia e storia»2. Parole, queste, che partendo invece dal presupposto della Commedia come opera religiosa scritta per il popolo, erano musica all’orecchio del giovane Morghen e comprovavano il suo intento di concentrarsi sul suddetto “sostrato”, e quindi di insistere nelle ricerche sulle fonti letterarie, specie cronache in volgare, che stavano a monte dei personaggi e degli eventi di cui la Commedia è intessuta. Perché quel “sostrato”, lungi dall’essere un ingombro fastidioso, appariva invece come le radici di un albero che sono sì nascoste sotto terra, ma solo per poter alimentare il tronco che poi svetta in alto con i suoi rami, fino a toccare il cielo. 2. Non si può non dare atto al giovane Morghen di questa lezione di merito e di metodo, che era destinata a rimanere. Anch’io, molti anni dopo, nel 1984, l’ho fatta mia. Era la prima volta, nella mia vita, che mi occupavo di Dante; e lo facevo con una certa riluttanza essendo solo uno studioso di storia. Era accaduto infatti quello che Buonaiuti aveva previsto: Dante era diventato, nel frattempo, dominio riservato di filologi e letterati.
2
543.
E. BUONAIUTI, Storia del cristianesimo, II, Evo Medio, Milano 19414, pp. 543-574:
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Al punto che perfino Jacques Le Goff, quando scrisse, nel 1981, il suo libro sulla Nascita del Purgatorio, sentì il bisogno quasi di scusarsi per il fatto che utilizzava come fonte la Commedia: la mia, si schermì, è solo una «lettura elementare», dando per scontato che lo storico neppure poteva provarsi a competere con filologi e letterati. E io, solo in quanto memore della lezione di Morghen, ho trovato il coraggio di cimentarmi con un verso della Commedia di Dante: il verso 46 del canto XVI del Purgatorio che suona “Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco”, nella speranza di poter individuare chi mai fosse questo misterioso personaggio. Mi ero infatti imbattuto, nel corso di altre ricerche relative a Venezia, in una inedita cronaca in latino in tre libri, sopravvissuta in un tardo apografo, di cui si poteva conoscere solo l’anno in cui forse era stata composta, il 1292, e il nudo nome del suo autore o compilatore, Marco. Ho detto “strana” perché non contiene solo vecchie e recenti istorie di Venezia, ma anche notizie “universali”, denunce morali, acta Christi, una Vita Antichristi, l’elenco delle virtù igieniche e terapeutiche del rosmarino, e altro ancora; neanche fosse, più che una cronaca, una enciclopedia o summa, come allora si diceva, del sapere. Ne ho tratto l’idea – sorretta da dati per me convincenti – che questo Marco fosse lo stesso di cui parla Dante nel suddetto canto (Gina Fasoli, però, non ne fu convinta, anche se ammetteva che era normale che allora un veneziano venisse chiamato “lombardo”). Ma, al di là di questa proposta, contava la conclusione che comunque mi sembrava corretto trarre da essa: non esistevano solo i legami, dimostrati da Morghen, tra Dante e la storiografia fiorentina; esistevano anche quelli tra Dante e la storiografia veneziana3. Quindi il nesso tra Dante e le cronache della sua epoca (parte in latino e parte in volgare) era di per sé proposto. 3. Nel frattempo, tuttavia, «il problema dei mezzi e dell’ampiezza dell’informazione storica da parte di Dante» (per usare un’espressione di Ezio Raimondi)4 s’era già imposto in altre ricerche con il risultato di accostare il nome di Dante a non pochi cronisti, che erano poi i cronisti di città e territori con cui Dante “ramingo” aveva avuto a che fare, sicché è diventato
3 G. CRACCO, Tra Marco e Marco: un cronista veneziano dietro al canto XVI del “Purgatorio”?, ora in CRACCO, Tra Venezia e Terraferma. Per la storia del Veneto regione del mondo, Roma 2009, pp. 331-348. 4 Ho parecchio meditato di recente i lavori di Ezio Raimondi, e in particolare quelli legati alla storia di Ezzelino e di Albertino Mussato, ripubblicati in RAIMONDI, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino 1970, pp. 123-162.
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normale chiedersi, ad esempio, in riferimento alla fase del suo esilio nella Marca veronese-trevigiana, se aveva letto la Cronica di Rolandino da Padova e gli Annales S. Iustine, oppure Riccobaldo di Ferrara e il Chronicon Estense, per non parlare dei non pochi cronisti che si sono occupati dei da Romano e in particolare del “terribile” Ezzelino III. Il che mi spinge ora a riprendere e ad allargare il tema e inoltre a toccare anche una questione ad esso collegata: quella dell’atteggiamento che ebbe Dante verso la cultura storica tout court; e questo non tanto in genere quanto in riferimento a momenti topici della sua vita, specie quello, che mi sembra di meglio conoscere, successivo al 1314, quando si trovò, di nuovo e sempre nella condizione di esule, nella Marca veronese-trevigiana. Del resto, la vita di Dante, in quanto parecchio movimentata, si presta ottimamente, come dimostra una serie di studi già esistenti, ad affondi relativi tanto a singole città quanto a regioni diverse. E ciò sulle orme di Maestri che in passato hanno indagato il problema della coscienza della storia in rapporto alla diversità degli spazi storico-geografici. Ad esempio, in rapporto a un’età e a contesti ben anteriori a Dante, come fece Paolo Lamma, che non potè vedere stampato e a dedicarmi (perché morì ancora nel pieno degli anni, nella primavera del 1961) il suo volume Momenti di storiografia cluniacense (me lo dedicò per lui il suo amico Raoul Manselli), il cui secondo capitolo inizia con queste parole: «La coscienza dell’importanza della storia»5; e gli autori indagati andavano da Odone di Cluny a Pietro il venerabile e a Ponzio, coinvolgendo la storia della cultura tra X e XII secolo. Ma, in riferimento a Dante e al suo tempo, non posso non far memoria soprattutto di altri due Maestri: Ernesto Sestan, che trattò, molti anni fa, del «mondo della storia in Dante»6 (e fu anche, si permetta il ricordo personale, Presidente della Commissione che mi conferì, nel 1967, la libera docenza in storia medievale avendomi fatto svolgere una lezione che ancor oggi mi torna utile: “Storiografia universale e cronistica medievale”); e Ovidio Capitani che riprese e allargò il contributo di Sestan aggiungendovi “e senso della storia” (sempre in Dante), dove, sulle orme e anche in dialettica con Morghen e Bruno Nardi, oltre che con Arsenio Frugoni, Raoul Manselli e Gustavo Vinay, concluse che Dante «la consapevolezza storiografica ce l’aveva, e come!», se non altro in quanto «totalmente inserito nella storia del suo tempo»; ma non per giustificarla storicisticamente, 5 P. LAMMA, Momenti di storiografia cluniacense, Roma 1961 (Studi storici, 42-44), in particolare p. 17. 6 E. SESTAN, Dante e il mondo della storia, ora in SESTAN, Italia medievale, Napoli 1966, pp. 313-333.
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bensì per contrastarla in base a principi suoi, che andavano oltre la storia7 (fu Dante a parlare, io aggiungo – riprenderò questo passo alla fine di questo contributo –, in Par, IX 25-30, a proposito di Ezzelino III da Romano, di «grande assalto» alla «terra prava italica»). E Capitani, che aveva una capacità e una libertà straordinarie nel penetrare i testi di Dante, fu per me e per gli studiosi della mia generazione un po’ come un fratello maggiore (penso, ovviamente, alla sua raccolta di studi Chiose minime dantesche, che “minime” non erano, anche se pure lui si professava “non specialista”)7. 4. Sarà opportuno peraltro, prima di entrare in discorsi più mirati e impegnativi, intravvedere, attraverso semplici dati, se e quali scritti storici Dante si trovò ad avere tra le mani nella sua storia di intellettuale mai stanco di seguire «virtude e conoscenza». Secondo Giorgio Petrocchi la biblioteca, cioè la collezione di libri che Dante possedeva, era quasi inconsistente: sì e no «una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un’epitome storica e una geografica o storico-geografica assieme a una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani»8. Quindi ben pochi sarebbero stati gli scritti di storia che Dante poteva consultare in proprio, per non dire nessuno. Il che, tuttavia, per una persona come lui, non di rado ossessionata dalla «dolorosa povertade», sembra abbastanza ovvio: non ebbe i mezzi per procurarsi libri (di storia o di altro che fossero), che comunque, anche se non mancavano quelli a buon prezzo ad uso degli Studia, costavano sempre troppo per lui; e in ogni caso, anche se avesse potuto procurarli, dove li poteva collocare? In quanto esule perenne e fuggiasco, Dante non disponeva certo di una residenza abituale, e anzi la cambiava spesso. A rigore, quindi, sembra persino fuori luogo parlare di una biblioteca di Dante. Sennonché, a smentire un quadro del genere, è intervenuto di recente Luciano Gargan che, prima di lasciarci (purtroppo), ha pubblicato una raccolta di studi intitolata Dante, la sua biblioteca e lo Studio di Bologna9, dove mostra, appunto, che di una biblioteca di Dante si può invece parlare, anche se tale biblioteca non fu precisamente “sua”, perché costituita da libri – tanti, tantissimi libri – che egli, durante l’esilio, in qualsiasi luogo soggiornasse, era maestro nel raggiungere e scovare sapendo dove trovarli e leggerli; e cioè nelle corti, nelle università, nei monasteri, nelle chiese, 7 O. CAPITANI, Mondo della storia e senso della storia in Dante (1980), poi in CAPITANI, Chiose minime dantesche, Bologna 1983, pp. 115-134. 8 G. PETROCCHI, Vita di Dante, Roma-Bari 1983, p. 107. 9 L. GARGAN, Dante, la sua Biblioteca e lo Studio di Bologna, Roma-Padova 2014.
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anche nelle botteghe artigiane dei luoghi in cui, per quanto temporaneamente, gli capitò via via di risiedere. Ovvero Dante fu uno che, non potendo acquistare e accumulare libri suoi, si nutriva sistematicamente di libri altrui, attingendo il sapere ovunque lo scopriva disponibile. Fu anzi precisamente questa sua condizione di errabondo (parlo degli oltre vent’anni di esilio), di persona sradicata e priva di precisi incarichi, costretta a nascondersi per timore dei sicari prezzolati, e quasi sempre sola, a consentirgli un accesso privilegiato ai luoghi di studio. Con la conseguenza non tanto paradossale che egli, che non poteva avere una propria biblioteca, ebbe modo di frequentarne parecchie e di accedere a moltissimi libri. E, sempre data la sua condizione, neppure gli mancò il tempo, tanto tempo, per leggerli, per meditarli. Nel De vulgari eloquentia, rivolto al lettore, Dante lo prega di non meravigliarsi del fatto che egli fosse in grado di citare a memoria passi di tanti autori volgari tra i quali Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti; ma avrebbe potuto citare, incalza, anche poeti “classici” come Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e prosatori come Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nonché “molti altri”, «quos amica sollicitudo nos visitare invitat»10. Quest’ultima indicazione è davvero preziosa: ci par di vedere Dante che, giunto in una nuova città – quante volte gli sarà accaduto visto che il suo esilio, durante il quale produsse le sue grandi opere, si protrasse, abbiamo detto, per oltre vent’anni (gli ultimi della sua vita) –, si chiede chi sono e dove sono gli amici cui rivolgersi, di quali fidarsi, e poi li contatta e da loro s’informa dove può cercare e trovare libri, magari certe opere precise di cui aveva notizia, ma che fin’allora mai aveva potuto vedere; e questi amici lo indirizzano verso centri dove venisse accolto in sicurezza, e potesse accedere alle raccolte di codici e anche mettere su carta passi che gli interessavano, pensieri che gli sorgevano. Dante insomma fu sempre nella condizione di doversi avvalere dell’aiuto, della premura protettiva di amici (sollicitudo, dice il testo sopra citato) per accedere ai centri del sapere, ad esempio, per frequentare la Biblioteca Capitolare di Verona, «una delle più straordinarie biblioteche allora esistenti in Europa» (come scrive Santagata nel Romanzo della sua vita)11, ammesso, come sembra, che l’abbia potuta frequentare. Da segnalare, nel passo testé citato, un dubbio non trascurabile: Gian Giorgio Trissino, nel Cinquecento, traducendo il De vulgari eloquentia,
10 11
De vulgari eloquentia, II, 6. M. SANTAGATA, Dante. Il romanzo della sua vita cit., p. 159.
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non leggeva sollicitudo, bensì solitudo12, che di per sé sarebbe più aderente al vissuto di Dante; anche perché è difficile che costui trovasse sempre amici nei luoghi in cui magari si recava per la prima volta. Ovvero: non era la premura di amici che lo invitava a tuffarsi negli autori, bensì la solitudine che gli era amica; amica per il fatto che, quand’era solo a leggere nello scrittoio di un monastero o di una corte, ben difficilmente un sicario poteva sorprenderlo. Domanda: solitudo in luogo di sollicitudo è errore banale di questo letterato vicentino, oppure esito di una diversa tradizione testuale? Come che sia, resta però il fatto che Dante riuscì a diventare, per quanto in maniera avventurosa, forse l’uomo più colto del suo tempo, ricco di un sapere molteplice, accumulato anche riflettendo la specificità libraria e culturale dei luoghi in cui di volta in volta si trovò a vivere, da Bologna a Verona (ma in mezzo sembra che ci sia stata anche Parigi). Dunque, è vero che Dante non ebbe una biblioteca sua; ma in compenso ne ebbe tante di biblioteche, quelle di persone ed enti che nella sua vita avventurosa ebbe modo di raggiungere e di sfruttare. 5. Meglio però non fare di Dante il tipo del precoce umanista, sempre alla ricerca di manoscritti, o del letterato chiuso nel proprio scrittoio a copiare e a trascrivere autori per chiosarli e commentarli. Uso non per caso il termine “scrittoio” che Giuseppe Billanovich, il ben noto filologo medievale e umanistico, appose nel titolo di un suo libro su Petrarca letterato I, Lo scrittoio del Petrarca13, per significare la stanza o scriptorium dove si copiavano i codici. Allo “scrittoio”, del resto, in quanto cifra distintiva del Petrarca, Billanovich aveva progettato di dedicare uno studio apposito; e un terzo studio, per completare la trilogia di Petrarca letterato, doveva dedicare anche alla scuola, sempre del Petrarca. E a ragione: fu nella sua biblioteca che Petrarca lasciò grandi tracce di sé: tracce che “voleva” lasciare; per cui è utile oltre che possibile spiarlo mentre lavora dentro lo scriptorium di casa sua, sui codici che possedeva e di cui si serviva, specie quelli che più amava e anche personalmente annotava. Il fatto è che il Petrarca, per quanto a sua volta errabondo per l’Italia e per l’Europa, disponeva tra l’altro di sue proprie abitazioni, con relativo scriptorium, in cui risiedette per periodi anche lunghi: una l’ebbe anche sui Colli Euganei ad Arquà, vicino a Padova. Nelle quali, quando ci abitava per un certo periodo, teneva i suoi codici, che poi si portava dietro nei vari traslochi, salvo quando risiedette a Venezia: la 12 Cfr. De vulgari eloquentia, trad. G.G. TRISSINO, in Tutte le opere di Dante, cur. F. CHIAPPELLI, Milano 1965 (Edizione del Centenario), p. 718. 13 Pubblicato a Roma nel 1947, ripubblicato nel 1995 e nel 2011.
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Repubblica, gli aveva messo a disposizione una casa, ma con il patto che poi lasciasse ad essa la propria biblioteca. Questo per dire che Dante fu ben diverso rispetto a Petrarca. Dante non leggeva codici propri, bensì altrui, che gli era precluso annotare. E forse, per lui, questo non fu un limite, ma un’opportunità: magari neppure gli interessava glossarli. Forse non amava perder tempo per commentare o copiare questo o quell’autore del passato. Una conseguenza, per quanto banale, è presto detta: mentre di Petrarca abbiamo codici da lui stesso glossati (ad esempio, un codice di Livio – l’Harleiano 2493 – individuato dallo stesso Billanovich), invano, finora, gli studiosi hanno cercato un codice con l’autografo di Dante: ancora non l’hanno trovato. E chissà se lo troveranno mai. Semmai, di fronte a testi che leggeva, l’ambizione di Dante era quella di coglierne il significato complessivo, che però difficilmente faceva proprio: sospetto che la sua ambizione fosse quella di andare oltre alle opere che leggeva, di superarle e magari sostituirle, per certi temi, con scritti propri, da lui composti ex novo. Non è per caso che egli componesse il De monarchia come se questo tema fosse “recondito”, strano, ed egli fosse l’unico a portarlo alla luce. In realtà trattati sull’impero, sui regni egli ne aveva visti più d’uno; ma non gli erano piaciuti; non aveva trovato in essi, o restava per lui “recondito”, quello che in merito egli pensava. E nella stessa De monarchia e nella Lettera ai cardinali del 1314 non esitò a prendere di petto la cultura del suo tempo che invece delle «Scripture doctorum, Augustini et aliorum, quos a Spiritu Sancto adiutos quis dubitat» (gli alii erano Gregorio Magno, Ambrogio, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Damasceno e Beda) – tutti autori, dunque ispirati dall’alto –, leggeva lo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante, le Decretali di Innocenzo IV o la Summa di Enrico da Susa14. Dunque, per studiare Dante, non possiamo usare lo stesso approccio sperimentato per Petrarca, che con autori antichi anche s’identificava (con Tito Livio quando scriveva l’Africa, con Agostino nel Secretum); e quindi illuderci che mettesse in fila, nel suo scrittoio, le opere via via che le acquisiva, anche quelle scritte da ystoriographi (come li chiamava il Boccaccio) che noi possiamo identificare. Non esiste dunque una biblioteca di Dante, neppure una “biblioteca latina”, anche se Dante aveva, ovviamente, preferenze per certi autori dell’antichità, specie quelli che erano “proiezioni o figurazioni” di se stesso, come ricorda Canfora citando i Nove saggi dante-
14
GARGAN, Dante, la sua Biblioteca cit., pp. 25-26.
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schi di Borges15. Tuttavia, passando di centro in centro, di biblioteca in biblioteca, Dante non può non essersi interessato a varie opere storiche, che magari meditava di riprendere e anche superare. Quali? 6. Richiamo un interessante elenco, stilato da Capitani nelle sue Chiose minime, in tema di “autoritadi” storiografiche (e non solo): dice che in Dante «c’è la Bibbia, l’Eneide, Orosio, Livio, Valerio Massimo, Martin Polono, Malispini, Riccobaldo; ma ci sono anche Ovidio, Lucano, Uguccione e il Liber Pontificalis… e c’è Pietro di Giovanni Olivi». Nel De vulgari, come si è visto, Dante mette insieme un quartetto strano: Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio. Vien da confermare un dato ben noto: che Dante fu tutt’altro che selettivo nella scelta delle sue principali fonti storiografiche. O addirittura, anche se pare contraddittorio, fin troppo selettivo: amava di sicuro una certa antichità cristiana, quella che gli forniva una “visione teologica” della storia (espressione che prendo da Lamma); di qui l’importanza che per lui riveste Orosio (forse lo sentiva più utile di Agostino); prese di sicuro da autori anche recenti per poter scrivere, nel suo Paradiso, ad esempio su Bernardo, su Francesco, su Domenico), ivi compresi i cronisti cittadini e quelli “universali”. Vedo però un Dante che, ben più che una conoscenza storica sistematica, va in cerca, da un lato, di dati e di vicende particolari che gli interessavano al momento (di qui la valorizzazione, specie nella Commedia, di non pochi personaggi quasi senza storia e il silenzio assoluto, invece, su altri per quanto carichi di storia), oppure, dall’altro lato, di visioni, di dottrine, di grandi prospettive che sentiva vicine o in antitesi alle sue (e quindi da controbattere). E del resto, viene da pensare, egli era fatto per appassionarsi a pensieri alti, che però rinveniva più facilmente presso filosofi, letterati, teologi, giuristi, nonché nelle stesse Scritture, e meno direttamente in opere storiche. Così si può comprendere, ad esempio, che ammirasse e sfruttasse un antico storico pagano come Tito Livio, «che non erra» (Inf. XXVIII, 12); oppure anche le Storie «contro i pagani» di un prete ispanico come Paolo Orosio (ricorre sempre negli elenchi), uno che non si spaventava, tra l’altro, per il fatto che i barbari migravano in massa nelle terre dell’Impero (erano sì “un disturbo”, ammette; ma intanto riempivano le chiese). Sembra infatti sia lui «quello avvocato de’ tempi cristiani / del cui latino
15 L. CANFORA, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Roma 2015, p. 88 (ma Canfora ama far scivolare Dante tra i “senza fede”; e allora che farne, tra l’altro, dell’inciso sopra riportato, relativo agli autori «quos a Spiritu Sancto adiutos quis dubitat?»).
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Augustin si provide»: Par. X, 119-120). Quanto poi ai secoli successivi alla romanità, Dante conosce parecchi autori; in Paradiso, nel cielo del Sole, li fa elencare da Tommaso d’Aquino: Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita; e poi anche Boezio, Isidoro, Beda, Riccardo di S. Vittore, Sigieri, tra cui grandi dottori della Chiesa, ma pochi storici, anzi forse solo uno, Beda. L’impressione è che Dante avesse una preferenza marcata in primo luogo, ovviamente, per i testi delle Scritture (il tema Dante e la Bibbia sta di recente crescendo nell’attenzione degli studiosi), poi per certi ben riconosciuti autori antichi pagani e cristiani e, quindi, venendo ai secoli più vicini a lui, per filosofi, per teologi, per giuristi, per letterati, molto meno per storici. Un’impressione del genere resta confermata anche quando ci si metta a esaminare minuziosamente, a parte la Commedia, gli scritti di Dante appartenenti all’ultimo ventennio della sua vita Ad esempio, nell’Epistola XIII, un testo che potremmo definire almeno in parte “storico” (si veda l’edizione che ne ha dato Pastore Stocchi16), si trovano riferimenti larghi ad Aristotele, e poi citazioni di Virgilio, Lucano, Stazio, dei Vangeli, di s. Paolo. Non mancano poi autori cristiani: Ambrogio, Agostino, Orosio, Gregorio Magno, Dionigi Areopagita, Bernardo, Riccardo di S. Vittore. In realtà, tuttavia, solo un autore di storie, Orosio; e nessuno storico o cronista – almeno tra quelli utilizzati in chiaro (in seguito si capirà questa riserva) – dell’epoca di Dante. E il De monarchia? È vero che si tratta di un’opera di attualità, quasi propagandistica, ma la tematica affrontata, attinente al pensiero politico, avrebbe pur potuto chiamare in causa gli storici. Ma anche qui il “sistema delle fonti” individuato – fonti che del resto convivono con i “presupposti scritturali” (per dirla con Diego Quaglioni, che ne ha scritto un’efficace Introduzione) – non offre novità di rilievo: «il Digesto sta accanto a Livio, a Virgilio, a Ovidio, a Lucano, e a Boezio, accanto ad Aristotele e ai suoi interpreti, accanto a Seneca e a Cicerone»17. Dovremmo allora pensare che Dante, che del resto non ha mai scritto un’opera di storia, fosse poco o punto interessato al sapere storico?
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Dante Alighieri, Epistole, Ecloge, Questio de situ et forma aque et terre, ed. M. PASTORE STOCCHI, Roma-Padova 2012, pp. 98-131. 17 Dante Alighieri, Monarchia, ed. D. QUAGLIONI, Milano 2015, con un’importante Introduzione che riscopre la modernità di quest’opera. Non più dunque «Dall’Indice alla imbalsamazione», come scrive Canfora, Gli occhi di Cesare cit., p. 56.
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7. Prima di accedere a un’ipotesi del genere, è necessario affrontare un aspetto che è centrale nel nostro tema: con quale storiografia aveva a che fare Dante nella sua epoca? Mi riferisco non tanto ad autori ancora radicati nel mondo comunale, come ad esempio Ricordano Malispini e l’“amico” (se tale fu per Dante) Giovanni Villani; e neppure ad autori universali alla Vincenzo di Beauvais come, visto che già lo abbiamo citato, lo stesso Martino Polono o di Troppau, un Predicatore di fede romana che produsse un grande catalogo dei papi e degli imperatori partendo da Pietro per giungere fino a Niccolò III (opera fortunata a giudicare dalla quantità di copie e anche di volgarizzamenti in cui si moltiplicò, in quanto manuale scolastico per tutti gli usi). Mi riferisco invece a una storiografia che non temo di qualificare come nuova, ma la cui cifra unitaria non è stata ancora riconosciuta. Mi permetto infatti di collocare in un solo mazzo autori dell’Italia settentrionale di solito considerati a parte e apprezzati per le loro rispettive ma divergenti peculiarità, come Salimbene da Parma, Rolandino da Padova e Jacopo da Varazze (con qualche loro appendice) Parecchio tempo fa, studiando il primo, Salimbene da Parma, che scrisse la sua Cronica quando Dante a Firenze era attorno ai vent’anni, mi aveva sorpreso il fatto che la bibliografia pur cospicua che lo riguardava non riuscisse in realtà a inquadrarlo: fu uno storico della sua città? Uno storico dell’Italia comunale? Oppure un testimone del tutto anomalo e anzi bizzarro, un grande solista eccentrico ed egocentrico, cui per caso capitò di scrivere “il libro del secolo”? In realtà, anche se si servì del Chronicon Parmense e di annalisti precedenti come Sicardo da Cremona, e neppure gli si può negare una qualche “coscienza comunale”, egli non appartiene punto alla storiografia comunale; e neppure, pur avendo gli occhi aperti su scenari ampi, quasi europei, alla storiografia universale di cui abbiamo parlato. Ben altro infatti, a ben leggere la sua Cronica, è il baricentro su cui insiste: la storia dell’uomo tout court, dell’uomo che pecca e di continuo deve essere castigato ma anche perdonato, che egli ripercorre Bibbia alla mano – è sempre Dio a guidare la storia –, in rapporto a una svolta capitale che lui vede di recente emersa: il crollo delle domus terrene, che erano il vero se non unico tessuto connettivo della storia umana, cui si poteva rimediare solo trasferendo ai Mendicanti (considerati il meglio sia della Chiesa come della società civile) il governo tanto delle Chiese quanto dei regni e delle civitates: toccava, insomma, ai Mendicanti reggere l’umanità rimasta priva di sostegno e di guida, e salvarla tanto in questa vita quanto nell’altra. La frase-chiave è la seguente: «Porro ego frater Salimbene et frater Guido de Adam – i due unici figli maschi che si erano fatti frati minori “interrompendo” la loro schiatta – domum nostram destru-
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ximus in masculis et feminis religionem intrando, ut eam in celis edificare possemus». Di qui una Cronica che parla, con grande realismo e verità, di tutto e di tanti personaggi “positivi” in quanto favorivano i piani di Dio, o “negativi” perché tale piano ostacolavano con i loro defectus e nefandezze. Tanto basta per dire che una Cronica come quella di Salimbene andava ben oltre l’annalistica cittadina e anche oltre le sbiadite summae storiche universali. E come tale non era affatto un unicum: possiamo subito metterle accanto, nella stessa Alta Italia, altre cronache, per quanto meno celebri: ad esempio, il Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, che per gli anni 1207-1270 abbraccia uno spazio macroregionale, quello delle Venezie e della Lombardia (il moderno Lombardo-Veneto dell’Impero austroungarico parte da lontano), portando avanti un’idea fissa: solo la Chiesa, o meglio la Pars Ecclesiae, era garanzia contro l’incombere delle tirannie cittadine, nonché il vero argine contro l’avanzata degli infedeli (tra l’altro accomunati ai Tartari). Ovvero: non mancano, neppure in questo Chronicon, grandi orizzonti geopolitici e proposte risolutrici impegnative, ideologicamente orientate. Ma questi caratteri, prima ancora che in Salimbene e nel Chronicon, si possono rinvenire anche in un autore già sopra nominato, che scrisse alcuni anni prima che Dante nascesse, ossia in Rolandino da Padova. La sua Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, sembra, a prima vista, solo veneta, anzi soprattutto patavina, e scritta per difendere a spada tratta la libertas della città di Padova contro il “tiranno” Ezzelino III da Romano. Sennonché, a ben vedere, questa prospettiva di fondo è molto più ampia e diventa anzi “globale”, in quanto non ha di mira solo la libertas di Padova, ma di tutte le città, dovunque fossero, ubique; e non denuncia soltanto un tiranno, Ezzelino III, bensì tutti i tiranni del mondo per il fatto che «horribilis est crudelitas tyrannorum», e il loro “dominio”, come l’autore spiega all’inizio, è sempre “pessimo”: s’impadroniscono dei beni dei cittadini e delle Chiese, distruggono torri e palazzi, imprigionano e massacrano persone, divorano ricchezze. Accanto alla Cronica di Rolandino si può citare uno scritto in volgare di ambito veneziano, Les Estoires de Venise, opera di un autore un po’ misterioso come Martino da Canal. Anche in questo caso sembrerebbe di avere a che fare con uno scritto tutto incentrato su Venezia e sul suo già lussureggiante mito. In realtà (ed è la ragione per cui lo accosto a quello di Rolandino), riflette una Venezia che guarda alla Terraferma e al quadro politico italico, e quindi aveva interesse ad affossare la casata dei da Romano, e anzi se ne attribuiva il merito e ne raccoglieva l’eredità (i tanti podestà veneziani sguinzagliati nelle città della penisola); e ciò in nome
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della libertas di tutte le città e della ostilità assoluta verso ogni tiranno. Difatti, non a caso, uno dei ritratti più truci di Ezzelino III si legge proprio nel da Canal, e suona così: nei 22 anni in cui dominò i Padovani, non avrebbe fatto altro che «tagliar loro la testa e li faceva impiccare e faceva cacciar loro gli occhi dal capo e tagliare ai loro figli piedi e mani e pendenti, e castrare le loro mogli e recidere mammelle e naso, e demolire le case; ed essi erano così ciechi che il padre chiedeva a messere Ezzelino di fare a pezzi il figlio e il figlio il padre, e il fratello il fratello; e i Veneziani li aiutarono a uscire da questa schiavitù». Anche qui abbiamo a che fare con una Cronaca i cui orizzonti, di per sé comunali, si allargano a dismisura sfociando in una proposta complessiva: un mondo fatto di libere e “buone città”, dove dei tiranni non c’è più traccia. Ma veniamo, dopo Salimbene e Rolandino, a un altro autore di questa storiografia nuova dell’Alta Italia, che scriveva quando Dante ancora lottava nella sua Firenze e per la sua Firenze, Jacopo da Varazze. Costui non scrisse solo la Legenda aurea, ma anche, da vescovo-predicatore di Genova, la Cronaca di questa città dalle origini al 1297. Guai tuttavia a prenderla per una storia cittadina. Il suo vero tema è quello della città in quanto struttura associata dell’intera storia umana. E la città di Jacopo non è più quella tragica, inventata da Caino, bensì quella che Dio stesso, «qui de nichilo cuncta creavit», inventò, seppure giovandosi dell’apporto degli uomini (ministerio hominum); e poi la volle affidata alla protezione degli arcangeli. E quali le ragioni di questa inedita passione per la città? Innanzitutto far capire che la parola ‘città’ equivale a ‘vescovo’ (non esiste città se non c’è il vescovo), e quindi candidare la pontificalis potestas al governo della città. Ecco la storia del mondo immaginata da Jacopo: i vescovi, e solo i vescovi al governo delle città; tutti i vescovi uniti sotto la guida del papa; e il papa che viene insomma promosso a leader tanto in spiritualibus quanto in temporalibus dell’intero mondo cristiano18. 8. E Dante? Presentando, nella sua essenza, il messaggio di questi cronisti-storiografi del suo tempo, si sarà capito che nel contempo abbiamo parlato anche di lui, pur in rapporto a fasi diverse della sua vita. Così, quando lottava da uomo pubblico nella sua Firenze, e anche nei primi anni
18 Nella presentazione di questa nouvelle vague di cronisti mi sono permesso di riprendere con poche aggiunte un mio contributo: G. CRACCO, Fra Salimbene e la Domus-Religio. Salvare l’Europa cristiana nella cultura del tardo Duecento, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 38 (2002), pp. 203-233 (vi si troveranno anche i passi citati).
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di esilio (ma sempre con la speranza del ritorno all’“ovile”), anche Dante fu contro i tiranni e tutto avrebbe sacrificato per garantire la libertas del suo Comune. Quasi superfluo ricordare ciò che scrisse di Catone: «libertà va cercando ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta» (Purg I, 71-72). E i “tiranni”, ivi compreso Ezzelino III da Romano, li condannò con disprezzo sommo, come coloro che «dier nel sangue e ne l’aver di piglio» (Inf XII, 105). In seguito, perduta ogni speranza di un ritorno in patria, si convertì a nuove idee politiche ma senza mai smentire il suo amore per la città (a differenza del Petrarca, che la città sfuggirà, e ne sentirà fastidio). Tant’è vero che ancora nel De monarchia (ma non si sa quando esattamente produsse quest’opera) vede la città come anello di una struttura complessa che dai due primi nuclei naturali che sono la famiglia e la vicinia, passando appunto per la città, porta la “vasta moltitudine” dell’umanità a confluire sotto il principato del principe giusto, che è come Dio in terra (questo si desume dal De monarchia). Anche Dante insomma approda all’idea del governo del principe; che, a differenza di Jacopo da Varazze e dello stesso Salimbene, non potrà però essere quello del papa. E, ancora quanto a Salimbene, di certo non piaceva a Dante un ordine come quello minoritico che si proponeva come guida delle città terrene, oltre che della Chiesa; è infatti proprio in queste città terrene, che non a caso egli vede scatenarsi l’«insensata cura de’ mortali», con i suoi «difettivi sillogismi […] che ti fanno in basso batter l’ali» (così si apre il celeberrimo XI canto del Paradiso). Non è questo il luogo per riaprire il pur affascinante capitolo del “Francesco tradito” proprio nell’età di Dante. Ma Dante non accettava, come oggi dialetticamente si accetta («in nulla Francesco è più profondamente imitazione del suo Cristo che nell’essere tradito», Cacciari dixit)19, che Francesco fosse tradito. Un fatto però sembra certo: la sua immagine del Santo, che è «l’architrave dei canti X-XIII del Paradiso», non è nelle glorie giottesche intonate a Bonaventura, bensì altrove, lontano dalla città, «nel crudo sasso intra Tevere e Arno»; ed è immagine non già utopica bensì radicata nella crudele svolta sociale allora in atto, che possiamo trovare adombrata in tre versi del Cantico: «Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra / la quale ne sostenta e governa / e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba». Riflettono, questi versi, il dramma della conquista del contado da parte delle città, che schia-
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p. 18.
M. CACCIARI, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Milano 2012, partic.
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vizzò per secoli una moltitudine di rustici. Marino Berengo, lo storico delle città, l’ha ben mostrato20, e se ne può trarre l’idea che l’opzione di Francesco per Madonna Povertà, con rigetto di tutto ciò che la città comportava, ivi compreso il denaro-sterco, sia atto estremo di solidarietà verso un mondo contadino che vedeva schiacciato insieme con la sua e nostra “Matre Terra” (i cittadini, avidi di “subiti guadagni”, sconvolgono fatalmente l’originaria armonia tra uomo e natura). Insomma, Dante si trovò in oggettiva dialettica anche con un frate come Salimbene. Invece, in Rolandino da Padova, il cronista delle libertà cittadine e fieramente avverse ai “tiranni”, Dante potrebbe essersi benissimo riconosciuto: se non altro fin quando scrisse (attorno al 1305?) il XII canto dell’Inferno, laddove mise tra i tiranni «che dier nel sangue e ne l’aver di piglio» anche “Azzolino”, il tiranno della Marca, individuandolo per «quella fronte c’ha ‘l pel così nero». Ma poi cambiò, come mostra il De monarchia, approdando all’idea del “governo de un”, come anche Paolino, un frate-cronista di Venezia allora scriveva. Resta però da chiedersi quale fu il rapporto tra Dante e questa storiografia a lui coeva. Oso dire che Dante non poteva non conoscere questa storiografia, o almeno le idee di fondo di cui era portatrice: perché erano le idee dominanti nel suo tempo, quando le città, i regni, le Chiese, gli ordini religiosi riscrivevano a gara e tra loro in contrasto la loro storia nel tentativo di dominare i cambiamenti in atto. Sennonché non la condivideva, né la sentiva se non casualmente sua. Sembra deluso di tutto e di tutti: in primo luogo delle patrie cittadine: «non stanno sanza guerra», fa dire a Sordello (Purg VI, 82-83), «e l’un l’altro si rode»21; poi della Chiesa del papa (quanti papi non condannò); poi degli ordini religiosi, che avevano smarrito lo spirito dei fondatori Francesco e Domenico, anche se ancora allineavano giganti come Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Dante, dunque, si trovò solo, a «far parte per se stesso». Non si è abbastanza sottolineato questa solitudine, che significa isolamento da tutte le forze della sua epoca, e l’affacciarsi a un’altra storia. Quale storia? Quella dell’uomo singolo («subiectum est homo», scrisse nella Epistula XIII [25]), di ogni uomo: anche con-
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M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della società urbana tra Medioevo ed Età moderna, Torino 1999 (laddove cita i Gesta Friderici di Ottone di Frisinga e il caso emblematico di Vicenza). 21 Pur essendomi proposto di limitare al massimo i rinvii bibliografici, non posso qui non ricordare almeno l’importante ricerca di F. BRUNI, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003.
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tadini, anche femminucce (muliercule). È la ragione per cui scrive una Commedia (non una tragedia), e la scrive non già in latino, bensì in volgare: così tutti possono capirla)22. E oltre la storia dell’uomo singolo, si preoccupa della storia dell’uomo in società, dell’uomo politico (Dante è un lettore accanito di Aristotele): quella che gli consente di andare oltre le città divise, oltre le Chiese, oltre gli ordini religiosi e di pensare a un mondo pacificato sotto il governo giusto di un unico principe che è il vicario di Dio. Dante, quindi, va oltre gli storici del suo tempo per scrivere in maniera personalissima la sua storia. Incontrando ovviamente le critiche, anche le derisioni dei suoi detrattori, come minimo contrariati (lo dice nella Epistola XIII) da un “solista” come lui. Ma lui aveva il genio e la forza per resistere e far valere le sue idee. Come successe quando nella Marca qualcuno agitò di nuovo, a più di mezzo secolo dalla morte, il fantasma di Ezzelino III da Romano. 9. Il tiranno della Marca, Dante l’aveva irrimediabilmente respinto e sigillato nell’inferno già verso il 1305, quando scrisse e poi fece circolare la prima cantica. La sua condanna era stata del tutto in linea – bisogna ricordarlo – con quella della storiografia guelfa, ossia delle città, del papato e degli ordini religiosi. Ma poi, molto tempo dopo, verso il 1315 (nel frattempo aveva capito che sarebbe stato per sempre il “ghibellin fuggiasco”), Dante si trovò nel caso di dover riaprire il dossier su Ezzelino. Era appena tornato di nuovo a Verona ospite di Cangrande della Scala quando gli misero in mano (sì, proprio così) un libello che era una tragedia scritta in sonante latino da un letterato di Padova, Albertino Mussato, intitolata Ecerinis, che si apriva rovesciando sul tiranno un’infamia mai sentita: non era figlio di suo padre Ezzelino II, bensì di Lucifero in persona. Era un modo per far sapere a tutta la Marca che Cangrande della Scala, che stava per impadronirsi di Padova, sarebbe stato un tiranno come Ezzelino, altrettanto feroce e anzi diabolico. E Dante, che lesse la tragedia (ne abbiamo prove evidenti) rispose riproponendo in paradiso, nel canto degli spiriti amanti, una ben altra e sorprendente immagine di Ezzelino, in tutto 7 versi: quella di una “facella” – di una piccola luce – che fece alla “contrada” un “grande assalto”.
22
Mi riferisco sempre all’Epistola XIII: Dante Alighieri, Epistole cit., pp. 98-131.
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Come e perché Dante abbia così risposto, sulla base di quali autori (c’è di mezzo la Bibbia, il Libro di Daniele), per quali scopi (indicare in Cangrande il principe salvatore), ho provato a dirlo in una ricerca appena pubblicata23. Qui, in un breve contributo sul rapporto fra Dante e la storiografia del suo tempo, basti solo osservare a chiusura che anche su questo piano Dante è sempre lui: l’autore che tutto trasfigura e tutto trascende. Non per nulla la Commedia appare, come appunto ha scritto Buonaiuti, una rivelazione.
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2016.
G. CRACCO, Il grande assalto. Storia di Ezzelino. Anche Dante la raccontò, Venezia
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GIUSEPPE PORTA LA CRONACA A FIRENZE: PASSIONE POLITICA E TRAVAGLIO COMPOSITIVO
L’affermarsi di una storiografia a Firenze è consentito dal consolidarsi del tessuto urbano della città, dalla formazione di una prosperità interna, grazie al fiorire dei commerci, e dalla nascita di una letteratura di impatto nazionale. Il ruolo principale è riconosciuto alla famiglia Villani e alle sue possibilità finanziarie. Dal censimento totale dei manoscritti e dalla loro classificazione si arriva alla individuazione di veri e propri ateliers de copistes. Non è un caso che il codice più autorevole, per altezza cronologica e per bontà della lezione, sia stato fatto esemplare da uno dei figli di Giovanni Villani e che nella Nuova cronica sia così facilmente individuabile una doppia redazione attestata da famiglie compatte di codici, non senza il contributo di uno dei manoscritti più antichi che ci mostra materialmente, con note al margine e inserzioni, come si possa correggere un esemplare dello stadio più arcaico introducendo elementi della redazione definitiva. Bisogna attribuire al consenso di una cittadinanza e alle iniziative di un uomo ben immerso nelle sue cariche istituzionali, determinanti per l’acquisto di informazioni e di documenti basilari per la storia compiuta di Firenze, come il primo dei Villani, per arrivare a un successo così duraturo. Da quanto fu appurato nell’officina della Fondazione Bembo le varianti fra le due redazioni non giustificano pubblicazioni separate, il testo rimane saldo, con la mutata numerazione dei libri che passano da dodici a tredici, rispecchiando la definitiva volontà dell’autore, ma la scelta di varianti riportata nelle note dell’edizione critica dell’ultima versione testimonia bene del costante interesse e dell’amore portato dal cronista alla sua opera1. Quello che distingue la Nuova cronica dalle altre cronache, in con-
1
L’edizione di riferimento è Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. PORTA, 3 voll., Parma 1990-1991 (Biblioteca di scrittori italiani), rist. 2007.
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formità alle vicende biografiche dell’autore, è il suo respiro europeo, proprio nel tessuto linguistico. Come si evidenzia dal riscontro con tutta la tradizione manoscritta, i personaggi francesi vengono fatti parlare nella loro lingua, con una discreta corrispondenza con quello che doveva essere il francese arcaico del tempo. Vicina all’originale si presenta la prima redazione, mentre la seconda versione non rinuncia talvolta a una resa più icastica e più adeguata alle intenzioni dei locutori, come quando il conte di Artois risponde in modo sprezzante al consiglio del conestabile di Francia di differire lo scontro coi Fiamminghi a Courtrai l’undici di luglio 1302: così possiamo leggere prima “pru diable ce sont des consil de Lombars” e poi “Pru diable, ce sont des guiglie de Lombars”, dove i consigli da usurai a favore del diavolo vengono stigmatizzati come veri e propri inganni (IX 56 187)2, guiglie appunto, gallicismo che si ritrova nella nostra più antica lirica. L’apertura verso il mondo al vaglio di una acuta sensibilità linguistica traspare anche nella narrazione degli eventi italiani, come quando al momento della cacciata del legato papale da Bologna, il 17 marzo 1333, di cui possediamo anche la viva relazione dell’Anonimo romano, si lasciano affiorare nel tumulto popolare le parole genuine del dialetto: povolo, povolo (XII 6). Ancora più estesa l’espressione orale dei Sorrentini, nel giugno del 1284, che presentano il dono a Carlo II d’Angiò, principe di Sorrento, scambiato per Ruggieri di Lauria (VIII 93). Leggiamo in forma diversa e abbreviata nella prima redazione: Messer amiraglio, come ti chiace, da parte del to Comune de Surrienti istipati quissi palombole e prindi quissi agustari per un taglio de calze e plazesse a Deo com’hai preso lo figlio avessi lo patre.
Diversa è quella definitiva: Messer l’amiraglio, come ti piace, da parte del tuo Comune da Sorrenti ilocati quissi palombola, e stipati quissi agostari per uno taglio di calze: e plazesse a dDeo com’hai preso lo figlio avessi lo patre; e sacci che fuimo li primi che boltaimo. 2
Vedi il mio I passi francesi nella “Nuova cronica” di Giovanni Villani, in Miscellanea di studi, I, Todi 1981, Università di Siena, Facoltà di Magistero in Arezzo (Quaderni dell’Istituto di letteratura e filologia moderna), pp. 1-38. Nello stesso saggio si potrà consultare un esempio eloquente della divergenza fra le due redazioni limitatamente al capitolo VIII 1 (secondo la numerazione tradizionale). Per un esame completo del passo nel suo contesto e per la documentazione delle antiche integrazioni alla prima redazione, cfr. anche il mio La costruzione della storia in Giovanni Villani, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350), Pistoia 1995, pp. 125-133.
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Di minori proporzioni e di più limitata diffusione appare la Cronica di Matteo Villani con la continuazione di Filippo, dove si possono notare gusti più marcatamente letterari, esibendo un periodare complicato con una sintassi talora macchinosa. Non per nulla l’autore si fa forte, nel prologo del decimo libro, della sua conoscenza del Boccaccio e delle opere De casibus virorum illustrium e De mulieribus claris. Affollano la scena ora non più sovrani o grandi papi, piuttosto capitani di ventura che mostrano la loro bravura nell’assedio di città toscane. Si accentua il gusto narrativo anche per episodi storicamente di poca rilevanza; ma qui l’esistenza di una duplice stesura è ancora più nettamente evidenziata oltre che dalle varianti redazionali dalla vera e propria brusca interruzione di copia (VIII 36) in una famiglia ben determinata di codici3. È sicura la presenza di cronache latine anteriori e di scarse memorie trattate con un certo distacco dal principale cronista fiorentino4. La sfortunata combinazione delle circostanze ha portato presto all’oblio la cronaca di Dino Compagni, e solo la compiuta realizzazione artistica l’ha salvata dal naufragio completo. Dal Giubileo del 1300 e dalla formazione del mito di Firenze, in contrapposizione col declinare della potenza di Roma, notiamo l’evolversi della volontà di Giovanni Villani di lasciare memoria duratura di una città che conta fra i suoi membri personalità decisive per l’affermarsi di una letteratura nazionale come Dante Alighieri. Di Giovanni Villani è la prima biografia conosciuta del poeta, pur con le riserve dettate da motivi politici e dalla naturale ritrosia dell’intellettuale ben conscio della propria statura. In prima redazione della Nuova cronica si trovavano incastonate terzine della Commedia, parzialmente espunte nella stesura definitiva. I rapporti fra il cronista e il poeta debbono essere stati precoci e tormentati. Meno discussi, ma anche meno sviluppati, quelli con maestri come Brunetto Latini e volgarizzatori come Bono Giamboni o artefici della levatura di Andrea Pisano. Data l’influenza della famiglia Villani è comprensibile che siano stati chiamati a collaborare elementi diversi di una società così articolata come quella fiorentina: in primo luogo i notai cui si debbono la trascrizione di lunghi documenti e la minuzia nella descrizione dell’alluvione
3 Ci si avvale di Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani, ed. G. PORTA, 2 voll., Parma 1995 (Biblioteca di scrittori italiani). 4 Si veda la raccolta in La prosa del Duecento, edd. C. SEGRE - M. MARTI, MilanoNapoli 1959, pp. 907-935. Si legga anche A. BENVENUTI, “Secondo che raccontano le storie”: il mito delle origini cittadine nella Firenze comunale, in Il senso della storia cit., pp. 205-252.
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del 1333 in Giovanni Villani o della grande mortalità del 1348 in Matteo Villani, poi gli artisti che dobbiamo ringraziare per la confezione della grande tavola astrologica (XIII 114)5 nella seconda parte della Nuova cronica e per gli esemplari figurati come il famoso codice Chigiano da poco riscoperto e analizzato in tutte le sue miniature da vari studiosi6. Il cronista Marchionne di Coppo Stefani Buonaiuti, che ha visto un recente rifiorire di interessi sulla sua figura di ufficiale-cronista orientato a salvaguardare la propria indipendenza di giudizio rispetto agli illustri predecessori, mantiene nei lunghi estratti delle deliberazioni del Comune la stessa attenzione alle istituzioni portata da un membro della classe dirigente quale egli era7. La Nuova cronica si presenta inizialmente con lo schema universalistico delle cronache medievali, ma ben presto colla sua attenzione alle attività interne ed estere del Comune fiorentino, ivi comprese le attività economiche, manifesta la sua modernità di cui i cronisti successivi, come abbiamo visto, non potranno non tenere conto. Nel Trecento e nei secoli successivi, in dipendenza del ruolo villaniano si sviluppa una letteratura secondaria formata da fioretti e compendi, tramandati indipendentemente da singoli codici, o estratti (come quelli relativi al singolare episodio del duca di Atene) o tarde continuazioni in prosa (magari legati a eventi eccezionali, come il tumulto dei Ciompi) o estese versificazioni dovute a personalità ben conosciute nell’ambiente cittadino come Antonio Pucci. Si tenta addirittura qualche volta di ricreare fantasiosamente, e con grande varietà nel testo dei singoli codici, la fortuna delle cronache trecentesche, come nella compilazione dell’immaginario Ricordano Malispini e dei suoi discendenti. Anche qui la parola definitiva è dovuta ai filologi pazienti e agli storici più avveduti che hanno esplorato nella sua interezza il grande lascito villaniano8.
5 L. MOULINIER-BROGI - O. REDON, “Pareano aperte le cataratte del cielo”; le ipotesi di Giovanni Villani sull’inondazione del 1333 a Firenze, in Miracoli. Dai segni alla storia, cur. S. BOESCH-GAIANO - M. MODICA, Roma 2000, pp. 137-154. 6 Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, cur. C. FRUGONI, Città del Vaticano 2005. 7 A. DE VINCENTIIS, Scrittura storica e politica cittadina: la “cronaca fiorentina” di Marchionne di Coppo Stefani, «Rivista Storica Italiana», 108 (1996), pp. 230-297. 8 Determinante per la prova della contraffazione dei manoscritti malispiniani appare la loro dipendenza dalla seconda redazione della Nuova cronica; vedi il mio confronto in Le varianti redazionali come strumento di verifica dell’autenticità dei testi: Villani e Malispini, in La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Messina-Università degli Studi-Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 dicembre 1991), 2 voll., Messina 1993, pp. 481-529.
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Conosciamo il Codice Diplomatico Dantesco, ma sappiamo anche che, fatte le debite proporzioni, un’impresa simile sarebbe da tentare per le carte lasciate da Giovanni Villani e dai suoi9. In queste cronache trecentesche la narrazione scorre con fluidità, i capitoli sono tagliati a misura di evento, ma non si trascura di indugiare in ritratti, come quello di Castruccio Castracani nel primo dei Villani, che per la sua monumentalità richiama la produzione artistica del tempo. Non diversamente appare stagliata la figura dello stesso cronista come quando Dino Compagni, quasi in veste di predicatore, prorompe nelle sue famose invettive e condanne moralistiche. Gli interventi di autore sono molto più marcati e accesi in Dino Compagni che ama spesso presentarsi in veste di fustigatore dei costumi o di accusatore della impropria gestione della cosa pubblica10. I Villani preferiscono il ruolo dei testimoni imparziali e quasi di semplici trascrittori di documenti ufficiali. Anche qui l’esame delle varianti formali di cui la tradizione manoscritta dà una prova inoppugnabile basterebbe a offrire la più reale immagine di una passione inesausta che si nasconde sotto l’immagine dei freddi e compassati testimoni dell’importanza del ruolo cittadino nel quadro della storia italiana e europea. Perfino nella trascrizione dei passi in lingua straniera (francese, ma anche castigliana o fiamminga) nella Nuova cronica è dato sorprendere questa ossessiva ricerca della verità dei fatti e dell’attendibilità della realtà storica presentata dal cronista. Sarebbe travisare gravemente il valore dell’opera se non si riconoscesse il respiro epico delle pagine che a inizio del penultimo libro descrivono gli effetti dello scatenarsi delle forze della natura nella grande alluvione del 1333, con una infinità di particolari tali da avvincere ancora oggi l’attenzione del lettore. Del resto per una valutazione adeguata delle cronache fiorentine e della varietà dei mezzi narrativi messi in opera non si può sfuggire a una lettura integrale, se perfino nella cronaca di quell’indefesso trascrittore di documenti ufficiali che fu Marchionne di Coppo Stefani è dato sorprendere passi di un realismo così vivido che farebbe trasalire il più smaliziato romanziere ottocentesco.
9 Cfr. F. RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998 (Nuovi Studi Storici, 43), con saggi di un lavoro molto avanzato. Per un giudizio storico, che tiene conto adeguatamente di studi precedenti dello stesso studioso su Giovanni Villani, si dovrà aggiungere G. CHERUBINI, Firenze e la Toscana. Scritti vari, Pisa 2013 (Dentro il Medioevo, 7). 10 Molti suggerimenti si possono ricavare dall’ultima edizione commentata della Cronica di Dino Compagni, ed. D. CAPPI, Roma 2000 (R.I.S.3, 1).
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Nella tradizione letteraria il primato del Compagni resta indiscusso, dato che il parere su Giovanni Villani oscilla fra il giudizio fortemente elogiativo di Lionardo Salviati e le tiepide parole del De Sanctis, mentre la verifica dei dati economici villaniani supera la prova di uno studioso come Arsenio Frugoni, che analizza la molteplicità delle fonti e le intenzioni del cronista11. Quale conseguenza degli ultimi studi crediamo oggi che la scoperta dell’attenzione prestata agli aspetti formali della sua opera, che culmina nel riconoscimento della duplice redazione, vada nel senso di una rivalutazione anche letteraria del più impegnato cronista fiorentino. Linguisticamente siamo costretti ad accogliere con molta prudenza il giudizio di puristi come Basilio Puoti, maestro del De Sanctis, che vede nel più anziano dei Villani un esponente, accanto al Cavalca, dello stile «naturale» rispetto a quello più «artificiato e arguto» di un Compagni o di un Passavanti12. Dal punto di vista storico resta impareggiabile la testimonianza della solidarietà dei cittadini di un Comune al massimo del suo splendore come quello che viene offerto dalla famiglia Villani, grazie alla quale possiamo ancora vedere interagire gli elementi di un complesso così articolato nel tessuto della lingua e nel gioco delle parti sociali in un periodo cruciale per l’evoluzione di Firenze nel pieno Trecento. Con le profonde innovazioni del Quattrocento si avvierà il passaggio verso altre forme di storiografia in cui il ceto mercantile perderà il ruolo dominante nella vita cittadina. Si vedrà allora la registrazione dei fatti non andare esente dal vaglio filologico delle testimonianze. Per tutto il Trecento e già nel secolo precedente affiorano memorie storiche di tipo diaristico13, ma sarebbe arbitrario estendere l’appartenenza al genere della cronaca oltre i nomi che abbiamo fatto, sia per il ruolo istituzionale che i loro autori rivestivano, come dimostra anche l’ampia fortuna manoscritta, sia per l’acuta immedesimazione nella lotta politica che alcuni di loro dimostrano di possedere. Non si va lontano dalla realtà affermando che a Firenze nella cronaca si afferma un progetto che mira a un’influenza diretta sulla sorte dei presenti e posteri abitanti di tale città coll’additare loro come modello un edificio di memorie sapientemente costruito nelle sue proporzioni e ripartizioni interne.
11 A. FRUGONI, G. Villani, “Cronica”, XI, 94, introdotto da G. FRANCESCONI, Roma 2015 (Incontri, 1), con ampie note e indicazioni bibliografiche. 12 Cfr. da ultimo, G.L. BECCARIA, L’italiano in 100 parole, Milano 2014, p. 248, col debito rilievo conferito a figure eminenti anche nella storia linguistica italiana. 13 Un buon esempio è certo in Alle bocche della piazza. Diario di anonimo fiorentino (1382-1401), edd. A. MOLHO - F. SZNURA, Firenze 1986.
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Un uomo molto immerso nella vita del Comune e nei commerci, di due generazioni succedente a Giovanni Villani, l’autore del Centiloquio che abbiamo già nominato, comincia il suo libro più noto, il Libro di varie storie14, con una parafrasi della Genesi, riprendendo in seguito con piglio enciclopedico molte delle storie che poteva leggere nella cronaca del suo maestro. Giovanni Villani per sottolineare i propositi espressi nel prologo dell’opera, perfeziona la seconda redazione della Nuova cronica spezzando il libro primo all’altezza della fondazione romana di Firenze, come per non lasciare dubbi sulla sua fiducia nella città e nella sua classe dirigente. Abbandonati gli eventi biblici e il mito delle origini troiane, il cronista si interessa ora dei fatti che stanno alla base delle dissensioni cittadine, in attesa di immergersi nell’attualità del Giubileo nel cosiddetto secondo prologo (IX 136) e di dichiarare la validità dei suoi propositi, non diversamente da quanto fa nel suo breve e fulminante prologo Dino Compagni, in tono distante da quello conciliante del Villani, ma sempre utile per stabilire una continuità di intenti fra i due principali cronisti fiorentini per la più alta celebrazione della città. La disciplina nelle controversie politiche è invocata con pari vigore da Dino Compagni e da Giovanni Villani, che sottolinea anzi il magistero di Brunetto Latini congiuntamente nella rettorica e nella politica, nel più bel elogio (IX 10) che è dato incontrare nella Nuova cronica per un concittadino, di qualche anno anteriore, raffinato traduttore di Cicerone, ma anche, come non doveva sfuggire al Villani (per ragioni professionali grande viaggiatore in Francia e nelle Fiandre), esperto conoscitore della lingua di oltralpe.
14 Il Libro di varie storie si può consultare nelle Biblioteca Italiana Zanichelli. DVDROM per Windows. Testi a cura di P. STOPPELLI, Bologna 2010.
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GIAMPAOLO FRANCESCONI UNA TOSCANA SENZA AUTORI: SIENA E DINTORNI Le memorie di quanti intervennero in una stessa azione, non coincidono mai sulle medesime circostanze. Da qui resoconti diversi, a seconda della individuale capacità di ricordo o delle soggettive propensioni. (Tucidide) I cronisti medievali ti insegnano a narrare la vita, quella di tutti i giorni che scorre come in un lento, grande fiume. (Maria Corti)
I. Firenze fra Due e Trecento è stata egemone nella storia e nel racconto della storia. Un primato, quello fiorentino, dal profilo complesso e sfuggente che è divenuto però l’asse portante di una tradizione e ha avuto la forza di imporsi come paradigma politico, letterario e linguistico1. Non si potrà certamente negare la funzione del fiorentino nella storia della lingua italiana, così come non si potrà non riconoscere l’importanza che la cultura
1 Sarebbe impossibile, e forse anche poco sensato, voler rendere conto di una bibliografia che si è ormai sedimentata in una vera e propria tradizione storiografica, fino a costituire un canone interpretativo e paradigmatico. Per comodità di rimando si può vedere la recente sintesi di J. NAJEMY, Storia di Firenze. 1200-1575, Torino 2014, pp. 75-151. Il ruolo di Firenze come modello storiografico era stato oggetto di una riflessione di J.C. MAIRE VIGUEUR, Il problema storiografico: Firenze come modello (e mito) di regime popolare, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del Quindicesimo Convegno di studi (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 1-16. Per l’importanza di Firenze come modello letterario delle origini conviene vedere almeno F. BRUNI, La letteratura volgare del Trecento nella Toscana e nell’Umbria, in Storia della civiltà letteraria italiana, 1, Dalle origini al Trecento, tomo II, cur. G. BARBERI SQUAROTTI - F. BRUNI - U. DOTTI, Torino 1990, pp. 709742. I rimandi alle voci del Dizionario biografico degli Italiani fanno riferimento alla consultazione on line.
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di quella città ha impresso sulla prosa delle origini2, anche se oggi si tende a decentralizzarne e sfumarne la portata3. Non si potrà, allo stesso modo, non rilevare tuttavia che i tratti di quella storia siano stati tutti inscritti nell’eccezionalità, un’eccezionalità da declinare in termini di qualità e di straordinarietà, ma anche di unicità e di impossibile assimilabilità. Quel che accadde a Firenze, dallo scorcio del secolo XIII e poi lungo tutto il XIV, fu qualcosa di talmente singolare che è poi riuscito ad imporsi come canone e come norma, quando invece era per molti versi anomalia ed eccezione. Firenze è stata una città da primato, in tutti i sensi. Firenze è stata capace anche di porsi come il modello autorevole e autoritario del nostro canone letterario delle origini4. La prima storiografia in volgare, che qui ci interessa da vicino, ha continuato ad avere nei nomi di Dino Compagni, di Giovanni Villani, di Marchionne di Coppo Stefani, e forse con poche concessioni all’Anonimo romano e alla Cronaca di Partenope, i suoi referenti più continui e quasi esclusivi5. Che sono poi i nomi di alcuni degli autori più significativi della nascente storiografia volgare, ma che sono anche, e soprattutto i fiorentini, i testimoni di un antimodello corrosivo e condizionante. E lo sono nella misura in cui la loro forte autorialità, l’unità compositiva delle loro opere, in qualche caso la loro straordinaria fortuna – con la notoria eccezione del Compagni – hanno costituito l’eccezione che ha fuorviato una buona parte della storiografia che, fino a tempi molto recenti, si è occupata di cronache, di cronisti e di tradizioni cronistiche6. 2 Costituisce ancor oggi, nonostante il progredire degli studi, un percorso ricco di stimoli e di sollecitazioni storiografiche quello offerto dal volume di Ch.T. DAVIS, L’Italia di Dante, Bologna 1988. Cfr. inoltre G. PETROCCHI, La Toscana del Duecento, in Letteratura italiana, dir. A. ASOR ROSA, Storia e geografia, I, Torino 1987, pp. 192-203. Sul versante più strettamente linguistico, cfr. F. BRUNI, L’italiano letterario nella storia, Bologna 2002, pp. 15-38; P. MANNI, Il Trecento toscano, Bologna 2003, pp. 33-77; G. FROSINI, Firenze, in Città italiane, storie di lingue e culture, cur. P. TRIFONE, Roma 2015, pp. 203-246. 3 Il riferimento va all'interpretazione offerta qualche anno fa da R.G. WITT, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’Umanesimo, Roma 2005, pp. 37-120 e quindi all’impostazione geostorica e letteraria del recente Atlante della letteratura italiana, I, Dalle origini al Rinascimento, cur. A. DE VINCENTIIS, per il quale conviene rimandare all’Introduzione di S. LUZZATTO - G. PEDULLÀ, pp. XV-XXV. 4 Cfr. G. PATOTA, La grande bellezza dell’italiano. Dante, Patrarca e Boccaccio, RomaBari 2015. 5 G. ARNALDI, Annali, cronache, storie, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il Medioevo latino, II, La produzione del testo, Roma 1993, pp. 463-513; G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, II, Il Trecento, L’autunno del Medioevo, Milano 2005, pp. 159-210; R. GUALDO, La scrittura storico-politica, Bologna 2013, pp. 15-26. 6 Per le tradizioni testuali si possono vedere i contributi di A. D’AGOSTINO, La prosa delle origini e del Duecento, in Storia della letteratura italiana, X, La tradizione dei testi, I,
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L’antimodello fiorentino è divenuto modello e ha spesso condotto a cercare autori laddove era ben difficile trovare autori, a cercare opere compiute e definite laddove era più comune trovare compilazioni e riscritture, a cercare tradizioni quiescenti laddove – per usare le parole di Alberto Varvaro – era più usuale trovare tradizioni attive7. Il tentativo sarà quello, allora, di condurre un discorso sulla cronistica toscana della prima età volgare – dallo scorcio del Duecento al primo Quattrocento – che possa almeno recuperare le specificità di una scrittura della storia che nelle maggiori città della regione assunse i tratti di una costanza debole, di una relativamente bassa autorialità e di una spesso scomposta e stratificata successione di testi dal profilo aperto e dalla tradizione spesso tardiva. Ogni realtà cittadina – sia le maggiori come Pisa e Siena, sia quelle di livello medio e piccolo, come Lucca, Pistoia e Arezzo – si mosse all’interno di una stringente dialettica fra originalità e assimilazione, con il tratto abbastanza diffuso – e lo vedremo – di moduli compositivi ricorrenti e di una larga adesione alla struttura annalistica. Nelle città toscane della fine del Medioevo si scrisse di storia e lo si fece all’interno di contesti ideologici, culturali e sociali che si legavano naturalmente alle logiche locali, ma che allo stesso tempo rispondevano allo stimolo di milieu intellettuali e di ragioni che avevano il loro retroterra nelle più diffuse pratiche del notariato, della crescente acculturazione laica e mercantile, della perdurante propensione culturale degli Ordini mendicanti ed entro esigenze di legittimazione politica e talvolta anche istituzio-
La tradizione manoscritta, Milano 2005, pp. 91-135: 126-128; R. GUALDO - M. PALERMO, La prosa del Trecento, ibid., pp. 359-414: 379-389, con i rimandi prevalentemente ai numerosi lavori di recensio codicum di Giuseppe Porta per la tradizione villaniana. Per il caso particolare di Dino Compagni, cfr. I. DEL LUNGO, Dino Compagni e la sua Cronica, 3 voll., Firenze 1879-1887, nello specifico il vol. II alle pp. V-XXVIII; e, soprattutto, il recente e determinante contributo preparatorio all’edizione critica di D. CAPPI, Del Lungo editore di Dino Compagni: il problema del testo della “Cronica”, Roma 1995 (Subsidia, 1), magari insieme al saggio di carattere più tematico e problematico, CAPPI, Dino Compagni tra Cicerone e Corso Donati: i pericoli della parola politica, «Studi medievali», ser. III, 50 (2009), pp. 605671. 7 A. VARVARO, Critica dei testi classici e romanzi. Problemi comuni ed esperienze diverse, «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 45 (1970), pp. 73-117: pp. 86-87. Dello stesso autore si può utilmente vedere anche il contributo di carattere più didascalico Il testo letterario, in Lo spazio del Medioevo, 2, Il Medioevo volgare, I, La produzione del testo, Roma 1999, pp. 387-422. Sui problemi relativi alla tradizione dei testi cronistici medievali si veda da ultimo anche F. DELLE DONNE, Testi “liquidi” e tradizioni “attive” nella letteratura cronaschistica mediolatina, in Il testo nel mondo greco e latino, cur. A. PRENNER, Napoli 2015, pp. 15-38.
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nale8. E sarà bene richiamare, una volta di più, che per la Toscana non fiorentina, e bisogna dire letterariamente e storiograficamente non fiorentina, si dovrà rivendicare uno status di normalizzazione della scrittura cronistica di fronte ad una Firenze che ne costituiva l’apicale irregolarità9. II. Lo squilibrio che nel tempo è venuto a crearsi fra Firenze e il resto della Toscana è stato anche, e per certi aspetti soprattutto, uno squilibrio storiografico. Firenze è stata decisamente egemone anche in questo, in una egemonia da declinarsi prevalentemente in termini quantitativi e nella capacità di attrarre studiosi provenienti da tradizioni e da paesi anche molto diversi10. Le altre città della Toscana, con traiettorie loro proprie, hanno goduto di fortune storiografiche non irrilevanti, ma quasi mai comparabili e soprattutto con un ancoraggio a circuiti di attrazione più localizzati, senza con questo negare che realtà cittadine come quelle di Siena, di Pisa e di Lucca non abbiano suscitato l’interesse anche delle storiografie anglosassone e tedesca. Il senso di uno squilibrio storiografico che è stato tuttavia più marcato proprio nello studio delle scritture di storia, di quelle familiari e diaristiche, complice forse anche una certa reticenza con cui dopo la stagione positivistica si è guardato in genere alle fonti narrative11. 8 Si vedano i contributi, di impostazione anche molto diversa, di L. CAPO, Cronache mendicanti e cronache cittadine, «Mélanges de l’École française de Rome», 89/2 (1977), pp. 633-639; CAPO, Sulle cronache medievali, in Ricerca come incontro. Archeologi, paleografi e storici per Paolo Delogu, cur. G. BARONE - A. ESPOSITO - C. FROVA, Roma 2013, pp. 265278; M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999, in particolare le pp. 1-37. 9 Per l’eccezionalità costituita dal quadro storiografico fiorentino si può vedere il contributo di G. PORTA, La cronaca a Firenze: passione politica e travaglio compositivo, in questo volume alle pp. 157-164. Cfr. inoltre L. GREEN, Chronicle into History. An essay on interpretation of history in Florentine fourteenth-century chronichles, Cambridge 1972; F. RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998; A. DE VINCENTIIS, Scrittura storica e politica cittadina: la “cronaca fiorentina” di Marchionne di Coppo Stefani, «Rivista Storica Italiana», 108 (1996), pp. 230-297. 10 È significativo, a questo proposito, quanto scriveva Chris WICKHAM nel suo volume Legge, pratiche conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000, p. 279: «Firenze ha dominato la Toscana, e (ancora di più) gli storici che si sono occupati della Toscana, a partire dal XIII secolo». Si veda ancora MAIRE VIGUEUR, Il problema storiografico cit., pp. 1-16 e G. FRANCESCONI, Pistoia e Firenze in età comunale. I diversi destini di due città della Toscana interna, in La Pistoia comunale nel contesto toscano ed europeo (secoli XII-XIV), cur. P. GUALTIERI, Pistoia 2008, pp. 73-100. 11 Per alcune delle questioni legate alla ricezione e alla fortuna delle cronache dell’età comunale matura, cfr. G. ARNALDI, Cronache con documenti, cronache «autentiche» e pubblica storiografia, in Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Istituto storico italiano (1883-1973), Roma 1976, pp. 351-374.
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Uno squilibrio che, anche in questo ambito, aveva ragioni oggettive nell’importanza qualitativa e quantitativa di quelle fiorentine, ma che ha contribuito a marcare ulteriormente una distanza fra una tradizione di studi come quella sulle cronache di Firenze e un panorama toscano generalmente attardato e da ascriversi per lo più alla stagione editoriale dei Rerum Italicarum Scriptores dei primi decenni del secolo scorso12. Se a Firenze insomma agivano studiosi come Isidoro Del Lungo, Otto Hartwig, Piero Santini, Robert Davidsohn, e più avanti Francesco Paolo Luiso e Alberto Del Monte, nelle altre città erano soprattutto gli studiosi locali, gli eruditi e gli archivisti a lavorare sulle cronache, spesso con l’intento di salvaguardare i monumenti della memoria cittadina. Alcuni di loro erano certamente studiosi di grande valore, il cui impegno ha dato un contributo spesso decisivo alla storia patria delle città toscane, dal lucchese Salvatore Bongi, al pisano Pietro Silva, dai pistoiesi Silvio Adrasto Barbi e Luigi Chiappelli, all’aretino Ubaldo Pasqui, fino ai senesi Alessandro Lisini e Fabio Iacometti. I decenni a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento hanno costituito un momento di significativa propulsione nello studio della cronistica toscana e non solo toscana, in un contesto in cui l’azione dell’Istituto storico italiano è stata importante nel favorire la ricerca e lo studio su questo tipo di fonti, ma i cui esiti sono stati prevalentemente di carattere editoriale. Anche nei casi migliori, forse con la sola eccezione dello studio di Pietro Silva sulle Questioni e ricerche di cronistica pisana del 191313, gli effetti della scuola positivistica erano ben evidenti su di una impostazione che privilegiava il testo rispetto allo studio delle tradizioni e dei contesti di produzione. Esiti che altre volte come nello studio di Luigi Chiappelli, pubblicato fra il 1924 e il 1925 sull’Origine e il probabile autore delle «Storie Pistoresi», si attestavano sulla ricerca sempre ricorrente di risolvere l’anonimato delle cronache volgari14. La questione dell’autorialità – si pensi ancora al recente sforzo di
12 Può essere utile, soprattutto in un confronto comparativo fra Firenze e le altre città della Toscana, quanto hanno scritto in momenti diversi A.M. CABRINI, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001, pp. 3-108 e E. CUTINELLI-RÈNDINA - J.J. MARCHAND - M. MELERA-MORETTINI, Dalla storia alla politica nella Toscana del Rinascimento, Roma 2005, pp. 19-62. 13 P. SILVA, Questioni e ricerche di cronistica pisana, «Archivio muratoriano», II (1913), pp. 3-67. 14 L. CHIAPPELLI, Intorno all’origine ed al probabile autore delle «Storie Pistoresi». Ricerche su la storia letteraria e politica di Pistoia con nuovi documenti, «Bullettino Storico Pistoiese», 26 (1924), pp. 85-94 e 133-142; 27 (1925), pp. 1-11, 41-59 e 78-92.
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Billanovich sull’Anonimo romano15 – era ancora avvertita come centrale e ben lontana da quelle acquisizioni che avrebbero condotto a ripensare i concetti di autore e di opera per un genere letterario che aveva – ma su questo torneremo – suoi specifici criteri di ricezione, fortune variegate e spesso una blanda progettualità16. Gli sforzi di quella stagione che aveva, naturalmente con risultati differenti, portato all’edizione di alcune delle più importanti cronache volgari toscane dal corpus senese alla Cronaca dei fatti di Arezzo di Bartolomeo di ser Gorello, dalle pistoiesi Storie dell’Anonimo alle Croniche lucchesi di Giovanni Sercambi17, non avevano poi avuto la capacità di cristallizzare una solida e continua tradizione di studi, complici la variabilità dei gusti storiografici e le difficoltà di tradizioni testuali spesso disperse, stratificate e tardive, che dovevano fare i conti anche con un mancato dialogo fra le discipline più strettamente medievistiche e quelle filologiche. Soltanto Pisa, che in quella fase aveva richiamato l’attenzione prevalentemente sulle cronache latine di Bernardo Maragone e di Ranieri Granchi, avrebbe beneficiato in una fase successiva degli studi che Ottavio Banti avrebbe condotto sulla tradizione volgare dei testi pisani, con una tensione costante per i rapporti gerarchici interni necessaria per giungere all’edizione della Cronaca di Pisa di Ranieri Sardo del 196318. Il resto è storia recente ed è una storia ancora una volta prevalentemente fiorentina con gli studi di Arrigo Castellani, di Giuseppe Porta, di Giovanni Aquilecchia, di Franca Ragone, di Davide Cappi, di Amedeo De Vincentiis, di Laura Mastroddi e
15 G. BILLANOVICH, Come nacque un capolavoro: la «Cronica» del non più Anonimo romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», 392, ser. IX, 6 (1995), pp. 195-211. 16 Sul concetto “debole” di autore nella cronistica medievale, cfr. H.R. JAUSS, Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino 1989, pp. 15-18; VARVARO, Il testo letterario cit., p. 422. Si vedano inoltre le recenti considerazioni di C. DE CAPRIO, L’edizione dei testi cronachistici in volgare: Problemi di metodo e ipotesi di lavoro, «Archivio storico per le Province Napoletane», 128 (2010), pp. 97-110; F. DELLE DONNE, Perché tanti anonimi nel Medioevo? Note e provocazioni sul concetto di autore e opera nella storiografia mediolatina, «Rivista di cultura classica e medioevale», 58 (2016), in corso di stampa. Sono grato all’autore per avermi fatto leggere il contributo ancora in bozze. 17 Ser Bartolomeo di ser Gorello, Cronica dei fatti di Arezzo, edd. A. BINI - G. GRAZZINI, in R.I.S..2, 15/1, Bologna 1917-1933; Storie pistoresi: 1300-1348, in R.I.S.2 11/5, ed. S.A. BARBI, Città di Castello-Bologna 1907-1927, ora disponibile in edizione anastatica con saggi introduttivi di N. RAUTY e P. MANNI, Pistoia 2011; Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, ed. S. BONGI, Roma 1892 (Fonti per la storia d’Italia, 19-21). 18 Ranieri Sardo, Cronaca di Pisa, ed. O. BANTI, Roma 1963 (Fonti per la storia d’Italia, 99).
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di Chiara Coluccia sui maggiori cronisti trecenteschi da Paolino Pieri a Compagni, dai Villani a Marchionne e quelli sulla tradizione precedente di Enrico Faini e di Marino Zabbia19. Per le altre città toscane, se si eccettuano i contributi abbastanza episodici della Ragone su Giovanni Sercambi e quelli di Cecilia Iannella sulla Cronica roncioniana di Pisa20, il panorama è fortemente datato e ancor più spesso muto. La Toscana delle cronache volgari costituisce, con la sola eccezione fiorentina, una sorta di rimosso storiografico e, se il rilievo potrebbe essere esteso ad altre realtà dell’Italia comunale, come in parte
19 A. CASTELLANI, Sulla tradizione manoscritta della “Nuova cronica” di Giovanni Villani, «Medioevo e Rinascimento», 2 (1988), pp. 53-118; CASTELLANI, Pera Balducci e la tradizione manoscritta della “Nuova cronica” di Giovanni Villani, «Studi di filologia italiana», 48 (1990), pp. 5-13; G. PORTA, Censimento dei manoscritti delle cronache di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, I, ibid., 34 (1976), pp. 61-129; II, ibid., 37 (1979), pp. 93-117; PORTA, L’ultima parte della “Nuova cronica” di Giovanni Villani, ibid., 41 (1983), pp. 17-36; PORTA, Aggiunta al censimento dei manoscritti delle cronache di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, ibid., 44 (1986), pp. 65-67; PORTA, Sul testo e la lingua di Giovanni Villani, «Lingua nostra», 47/2-3 (1986), pp. 37-40; PORTA, Giovanni Villani storico e scrittore, in I racconti di Clio. Tecniche narrative della storiografia. Atti del convegno di studi (Arezzo, 6-8 novembre 1986), Pisa 1989, pp. 147-156; PORTA, La costruzione della storia in Giovanni Villani, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del convegno (Pistoia, 14-17 maggio 1993), Pistoia 1995, pp. 125-138; G. AQUILECCHIA, Schede di italianistica, Torino 1976; F. RAGONE, Le scritture parlate. Qualche ipotesi sulla redazione delle cronache volgari nel Trecento dopo l’edizione della “Nuova Cronica” di Giovanni Villani, «Archivio Storico Italiano», 149 (1992), pp. 783-810; RAGONE, Dino Compagni e i suoi nemici. Linguaioli e archivisti nella Firenze postunitaria, «Quaderni storici», 82 (1993), pp. 39-60; RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998 (Nuovi Studi storici, 43); CAPPI, Del Lungo editore cit.; CAPPI, Dino Compagni tra Cicerone e Corso Donati cit., oltre all’edizione critica Dino COMPAGNI, Cronica, Roma 2000 (R.I.S.3, 1); DE VINCENTIIS, Scrittura storica e politica cittadina cit.; L. MASTRODDI, Contributo al testo critico della Storia fiorentina di Ricordano Malispini, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 103 (2000-01), pp. 239-293; MASTRODDI, Malispini, Ricordano, in Dizionario biografico degli Italiani, 68 (2007); P. PIERI, Croniche della città di Firenze, ed. C. COLUCCIA, Lecce 2013; E. FAINI, Una storia senza nomi. Storia e memoria a Firenze ai primi del Duecento, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 108 (2006), pp. 39-81; M. ZABBIA, Prima del Villani. Note sulle cronache universali a Firenze tra l’ultimo quarto del Duecento e i primi anni del Trecento, in Le scritture della storia. Pagine offerte dalla Scuola nazionale di studi medievale a Massimo Miglio, cur. F. DELLE DONNE - G. PESIRI, Roma 2012 (Quaderni della Scuola nazionale di studi medievali, 1), pp. 139-162. 20 F. RAGONE, Le “Croniche” di Giovanni Sercambi. Composizione e struttura dei prologhi, «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 9 (1985-1986), pp. 5-34; C. IANNELLA, Note sul lessico politico di una cronaca pisana trecentesca, «Bollettino Storico Pisano», 74 (2005), pp. 273-283; Cronica di Pisa. Dal ms. Roncioni 338 dell’Archivio di Stato di Pisa, ed. C. IANNELLA, Roma 2005 (Antiquitates, 22).
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abbiamo già ascoltato, ciò non significa che il problema non debba essere posto, che non meriti di essere affrontato e discusso, anche in relazione ad uno statuto storiografico, che ha per lo più guardato alle fonti narrative come a contenitori strumentali di notizie. È mancata quasi del tutto un’attenzione per le questioni della scrittura della storia nel tardo Medioevo toscano, solo in parte colmate dagli studi sulla diaristica fiorentina e senese e sul ruolo dei semicolti21, sulle ragioni per cui ci si dedicava alla composizione delle cronache, sulla struttura e la fortuna di quei testi, ma anche sul profilo dei loro compilatori e sulle strategie di un’attività che poteva essere del tutto personale e privata, ma che poteva avere anche rapporti con il pubblico e con i canali della committenza ufficiale. Si tratta di un capitolo nevralgico della cultura letteraria e politica della Toscana tardomedievale, di una cultura media di ambito notarile, mercantile e burocratico, legata anche ai livelli di alfabetizzazione e al ruolo degli studia, che necessita di essere meglio studiato, ripensato e forse in buona parte anche riscritto. III. Il Trecento, come è ben noto, è il secolo che segna l’affermazione piena di una diglossia che costituì una linea di divisione fra una cultura alta della filosofia, della teologia, della scienza e del diritto aderente all’espressione in latino e di una cultura più diffusa della comunicazione pratica mercantesca, dell’attività notarile e cancelleresca e della letteratura di tono medio che ricorreva in misura crescente all’uso del volgare22. Era questo naturalmente uno scarto che insieme ai livelli culturali e ai generi includeva anche le asimmetrie sociali, con varianti da città a città e con una presa anche più precoce in Toscana, dove l’affermazione di quel modello linguistico aveva consentito di scrivere cronache in volgare già sullo scorcio del Duecento e nel primissimo Trecento come dimostrano le Croniche della città di Firenze di Paolino Pieri, la Cronichetta lucchese e naturalmente la
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Valga anzitutto il rimando a F. PEZZAROSSA, La tradizione fiorentina della memorialistica. Con un’appendice: Per un catalogo dei testi memorialistici a stampa, in G.M. ANSELMI - F. PEZZAROSSA - L. AVELLINI, La «memoria» dei mercatores. Tendenze ideologiche, ricordanze, artigianato in versi nella Firenze del Quattrocento, Bologna 1980, pp. 39-149. Per Siena si veda ora G. PICCINNI, Libri di contabilità privata e di memorie in Siena: considerazioni in merito all’esistenza, alla conservazione e alla scomparsa (XIII-XV secolo), «Bullettino Senese di Storia Patria», 115 (2008), pp. 164-198. 22 V. FORMENTIN, I modi della comunicazione letteraria, in Storia della letteratura italiana, II, Il Trecento cit., pp. 121-158; BRUNI, L’italiano letterario nella storia cit. Per la continuità d’uso e i luoghi comunicativi della lingua italiana, cfr. M. TAVONI, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984; C.S. CALENZA, Il Rinascimento perduto. La letteratura latina nella cultura italiana del Quattrocento, Roma 2014.
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Cronica di Dino Compagni23. Firenze si poneva al vertice anche della cronologia, ma le altre città con Lucca in testa, dove negli stessi anni Tolomeo scriveva i suoi Annali in latino24, seguivano da vicino con una produzione che sarebbe divenuta crescente e che avrebbe conosciuto un incremento significativo negli anni centrali e finali del Trecento e nei primi decenni del Quattrocento. L’adozione del volgare per la scrittura della storia e della memorialistica fu certamente favorita, in progressione di tempo, dalla coeva pratica dei volgarizzamenti dal latino, dal francese e degli stessi statuti comunali e delle Opere cittadine: il costituto senese del 1309-10 ad opera di Ranieri Ghezzi Gangalandi e quello pistoiese di San Jacopo del 1313 per mano di Mazzeo Bellebuoni furono, in questo senso, due momenti di particolare significato storico e funzionale25. A Firenze l’attività di Andrea Lancia avrebbe preso avvio negli anni Cinquanta; mentre il lavoro di copisti, di giudici, di notai come Soffredi del Grazia o Fantino da San Friano, già dalla fine del Duecento, aveva svolto un ruolo propulsivo che seguiva gli stimoli della mediazione, della divulgazione, ma anche e forse soprattutto, della diffusione di un canone linguistico che progressivamente entrava sempre di più anche nell’uso storiografico26.
23 PORTA, L’urgenza della memoria storica cit., pp. 173-178; D’AGOSTINO, La prosa delle origini cit., pp. 91- 96; GUALDO - PALERMO, La prosa del Trecento cit., pp. 379-381. Per la cronaca di Paolino Pieri si veda ora C. COLUCCIA, Introduzione in PIERI, Croniche cit., pp. VII-LXIV. 24 Cfr. DAVIS, L’Italia di Dante cit., pp. 231-269; L. SCHMUGGE, Zur Überlieferung der Historia ecclesiastica nova des Tholomeus von Lucca, «Deutsches Archiv», 32 (1976), pp. 495-545; SCHMUGGE, Fiadoni, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, 47 (1997). 25 Della bibliografia sui volgarizzamenti limitiamo i rimandi all’essenziale: C. SEGRE, Volgarizzamenti del Due e del Trecento, Torino 1980; G. PORTA, Volgarizzamenti dal latino, in Storia della letteratura italiana, II cit., pp. 581-600; E. PISTOLESI, Percorsi della traduzione nel Medioevo (secc. XII-XIV), in Testo e traduzione. Lingue a confronto, cur. F. FUSCO - M. BALLERINI, Frankfurt am Main 2010, pp. 219-244; G. FROSINI, Volgarizzamenti, in Storia dell’italiano scritto, II, Prosa letteraria, cur. G. ANTONELLI - M. MOTOLESE - L. TOMASIN, Roma 2014, pp. 17-72: 36-42 con i riferimenti ai singoli casi e alle relative tradizioni manoscritte. 26 Ibid.; un recente quadro d’insieme è in L. TANZINI, Albertano e dintorni. Note su volgarizzamenti e cultura politica nella Toscana tardo-medievale, in La parola utile. Saggi sul discorso morale nel Medioevo, Roma 2012, pp. 161-217. Cfr. inoltre F. BAMBI, Andrea Lancia volgarizzatore di statuti, «Studi di Lessicografia italiana», 16 (1999), pp. 5-29; L. AZZETTA, Introduzione. Andrea Lancia tra letteratura e attività notarile, in Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del Comune di Firenze volgarizzati da Andrea Lancia (1355-1357), ed. AZZETTA, Venezia 2001, pp. 9-49; A. CASTELLANI, Il Trattato della Dilezione d’Albertano da Brescia nel codice II IV III della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, cur. P. LARSON - G. FROSINI, Firenze 2012.
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Al riferimento lasco di una cronologia che non potrà essere seguita nel dettaglio, dato l’affollarsi anche scomposto delle scritture storiche nel corso del secolo XIV, e all’individuazione, anche genetica, dei rapporti con la volgarizzazione e la traduzione delle opere classiche sarà necessario far seguire una prospettiva che tenga in maggior conto della geografia. Anche per rispondere, almeno in parte, alla considerazione fatta da Girolamo Arnaldi, nel convegno per i novant’anni dell’Istituto del 1973, e cioè «che l’orizzonte geografico di un cronista costituisce una delle sue più preziose testimonianze involontarie, rivelando ambiti e distrettuzioni mentali di cui altrimenti ci sfuggirebbe l’esistenza»27. Siena costituirà, allora, il punto di partenza di uno sguardo che dalla Toscana orientale piegherà attraverso la parte più urbanizzata della regione verso la costa tirrenica con un approdo a Pisa e alla sua perdurante tradizione politica, economica e culturale. Siena fu una delle città più importanti della regione e dell’Italia comunale con una popolazione di circa 50.000 abitanti al momento dell’apogeo, fra Due e Trecento, con un governo di «mezzana gente» fra i più longevi come quello dei Nove, il cui operato durò ininterrottamente dal 1289 al 1355, e con un sistema economico e bancario che fece degli operatori senesi – basti il nome dei Bonsignori, dei Tolomei o dei Salimbeni – alcuni fra i principali prestatori dell’Europa del tempo28. Siena visse il suo slancio più significativo nella parte finale del secolo XIII e in quella iniziale del XIV, al punto che la Siena monumentale, quella della Piazza del Campo, quella delle fontane pubbliche, quella stessa che Ambrogio Lorenzetti aveva raffigurato sulle pareti del Palazzo civico era una città il cui sistema economico iniziava a mostrare i segni della crisi e della mancata propulsione29. Una mancata propulsione che sarebbe divenuta il tratto strutturale della città nel secondo Trecento e nel Quattrocento, con una riconversione dei canali produttivi a favore dell’investimento fondiario e una riconfigurazione sociale ed economica del suo
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ARNALDI, Cronache con documenti, cronache «autentiche» cit., p. 372. In una storiografia di segno crescente e in una bibliografia ingestibile limitiamo i riferimenti ad alcuni saggi recenti raccolti in volumi miscellanei o atti di convegno: Fedeltà ghibellina e affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, cur. G. PICCINNI, Pisa 2008; Siena nello specchio del suo Costituto in volgare del 1309-1310, cur. N. GIORDANO - G. PICCINNI, Pisa 2014. 29 P. CAMMAROSANO, Siena, Spoleto 2009, pp. 121 ss.; G. PICCINNI, Il banco dell’ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pisa 2012, pp. 33-45.
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ceto dirigente30. Siena fu poi ideologicamente ghibellina e strenuamente antifiorentina: sono aspetti questi non secondari per comprendere lo «stato d’animo» della città e per circoscrivere una mentalità e un quadro culturale che ebbe i suoi riflessi e la sua importanza nelle stesse modalità con cui si scrisse la storia31. Un’avversione nei confronti di Firenze che nasceva sul terreno di un primato toscano che Siena aveva per qualche tempo vagheggiato e che era durato lo spazio di una breve illusione dopo la vittoria di Montaperti del 4 settembre 126032. Una data e un evento, avremo modo di accennarvi, che manterranno un ruolo centrale nella memoria cittadina e nella scrittura legittimante di alcuni dei suoi cronisti – un primo resoconto dei morti era già annotato nel coevo Kalendarium della Chiesa metropolitana33. Siena fu anche una città con una originale partecipazione del pubblico nella finanza, nell’assistenza, nella committenza artistica e nelle opere monumentali34, secondo una declinazione sua propria che fece della coralità e di una coralità, in alcuni momenti orientata dalla classe media e mercantile, un tratto fortemente caratterizzante. Quelle richiamate erano alcune delle costruzioni culturali che avrebbero mantenuto inalterato il loro vigore nella mitografia collettiva di una “senesità” che aveva avuto uno dei suoi punti più alti nella notissima lettera con cui l’umanista Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II, rievocava il soggiorno dell’imperatore Sigismondo in città. L’Historia de duobus amantibus del 1444 può essere effettivamente considerata, anche a parere di Petra Pertici35, l’ultima e forse la più celebre prova di un sentimento ghibellino che doveva agire come motivo di aggregazione identitaria contro la dilagante supremazia fiorentina. A quegli anni, a quel contesto di reazione della politica cittadina, che erano anche gli anni della committenza del ciclo pittorico del Pellegrinaio e di un fermento culturale che si strutturava attorno ai circoli umanistici ma anche ai livelli di una meno elevata produzione volgare36, si dovrà guardare per collocare una parte significativa della 30 P. PERTICI, Siena quattrocentesca. Gli anni del Pellegrinaio nell’ospedale di Santa Maria della Scala, Siena 2012. 31 S. RAVEGGI, La vittoria di Montaperti, in Fedeltà ghibellina cit., pp. 447-466; M. PELLEGRINI, Attorno alla leggenda di Sorore: invenzione della memoria e uso della storia nell’ospedale di Santa Maria della Scala (XIII-XV secolo), in Il Pellegrinaio dell’ospedale di Santa Maria della Scala, cur. F. GABBRIELLI, Arcidosso 2014, pp. 59-94. 32 RAVEGGI, La vittoria di Montaperti cit. 33 Ibid., pp. 455-456. 34 CAMMAROSANO, Siena cit., pp. 121 ss.; PICCINNI, Il banco dell’ospedale cit., pp. 39-45. 35 P. PERTICI, Uno sguardo in avanti: il soggiorno di Sigismondo di Lussemburgo e le ultime manifestazioni di ghibellinismo a Siena, in Fedeltà ghibellina cit., pp. 617-649: 617-619. 36 PERTICI, Siena quattrocentesca cit., pp. 22 ss.
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produzione cronistica cittadina, che almeno in alcune delle sue componenti più significative rispondeva all’esigenza di una legittimazione e di una nobilitazione della storia senese, di fronte ad una crisi del presente che divideva le maggiori famiglie cittadine in Monti e ricorreva ai fasti e alla gloria della piena età comunale per riabilitarsi37. Va inquadrata in un tale contesto, in primo luogo, la Cronaca maggiore di Siena, con una secolare quanto discussa attribuzione ad Agnolo di Tura del Grasso, la cui composizione fu in realtà dovuta ad un compilatore sin qui anonimo, secondo uno schema narrativo e un metodo di lavoro abbastanza canonico nella scrittura delle cronache volgari38. La struttura della compilazione, infatti, costruita sull’impianto annalistico dalle origini della città nel 445 al 1381, anno nel quale s’interrompe il racconto, seguiva un modello bipartito, con una prima parte in cui erano ricostruite le vicende della storia più antica – tradita da manoscritti sei-settecenteschi e con molti punti di contatto con la Cronaca Aldobrandini attribuita a Tommaso Fecini e ascrivibile agli anni intorno al 1480 – e una seconda parte relativa alla storia trecentesca che era invece tradita da tre manoscritti, ordinati cronologicamente e riferibili al secondo quarto del secolo XV39. Il compilatore aveva costruito un testo il cui ordinamento era strutturato secondo la scansione degli incarichi istituzionali, del Podestà e del Capitano del Popolo, e che costituiva l’esito di un assemblaggio di notizie che avevano nella Cronica di Giovanni Villani per la parte extracittadina – con un procedimento esattamente inverso a quello che aveva adottato il fiorentino Marchionne di Coppo Stefani – e in una congerie diversificata di scritture
37 Un quadro di sintesi degli sviluppi politici e istituzionali della Siena quattrocentesca è quello di M. ASCHERI, Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Siena 1985, pp. 20-39. 38 È a questa cronaca, la sua edizione e il suo studio critico nel più ampio contesto della cronistica senese tardomedievale, che da qualche anno sto dedicando la mia attenzione in un progetto di ricerca condotto presso l’Istituto storico italiano per il medio evo, i cui risultati spero di poter presto dare alle stampe. Sin qui il rimando d’obbligo è quello all’edizione di Alessandro Lisini e Fabio Iacometti degli anni ‘30 del secolo scorso (Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca Maggiore attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso, edd. A. LISINI - F. IACOMETTI, in Cronache senesi, in R.I.S.2, 15/6, Bologna 1931-1939). 39 Su questi aspetti si è appuntata una parte della mia attenzione di ricerca, in primo luogo nella ricostruzione della tradizione manoscritta e dei complessi rapporti fra le varie parti di una tradizione tardiva e stratificata. Cfr. a questo proposito anche quanto avevano scritto A. LISINI - F. IACOMETTI, Prefazione a Cronache senesi cit., pp. III-XXXV: XIVXXV; P. BERTOLINI, Dei, Andrea, in Dizionario biografico degli Italiani, 36 (1988); C. ZARRILLI, Fecini, Tommaso, ibid., 45 (1995).
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diaristiche, e forse anche cronistiche, oltre che di natura pubblica come mostrano le puntuali liste dei consiglieri, il principale serbatoio di fonti per le vicende cittadine40. Proprio a questo metodo di montaggio testuale – e non ci sarà consentito di entrare troppo nel dettaglio – si deve una tradizione attributiva di lunga e fuorviante durata che aveva riconosciuto in alcuni dei riferimenti autobiografici, collocati a diverse altezze cronologiche del testo, i possibili autori di una successione cronistica dalla sequenza complessa, mentre si dovrà più opportunamente riconoscere nei nomi di Andrea Dei, di Agnolo di Tura, di Neri di Donato e di Donato di Neri gli scrittori dei libri di ricordi che erano stati utilizzati come fonti41. La Cronaca maggiore non potrà considerarsi l’esito di una scrittura dalla spiccata progettualità autoriale, tuttavia merita di essere almeno richiamata la presenza di un intervento di una certa consapevolezza da parte del compilatore quattrocentesco, quando, riferendo alcuni fatti del 1304, prendeva le distanze da Giovanni Villani, il quale a suo dire aveva sottovalutato in quella circostanza il ruolo dei senesi42. Allo stesso tempo, per quanto non sia di immediata riconoscibilità la genesi privata o una sua eventuale committenza pubblica o semipubblica, si dovrà, in ogni modo, ricordare che fu proprio il testo di questa cronaca che Tommaso Fecini presentò in via ufficiale ai Consigli della Repubblica il 2 aprile 148243. Non escluderei, pertanto, che nella Siena petrucciana, insieme ad intellettuali di maggior spicco come Francesco Patrizi, Agostino Dati e Niccolò Borghesi, lavorassero anche compilatori dal profilo più tradizionale, il cui operato s’inscriveva però in un’impresa collettiva di riscrittura della storia cittadina. Proprio il Dati, del resto, il Borghesi e più avanti Sigismondo Tizio
40 Per un confronto con il metodo inverso adottato da Marchionne di Coppo Stefani a Firenze, negli anni finali del secolo XIV, cfr. A. DE VINCENTIIS, Scrittura storica e politica cittadina: la «Cronaca fiorentina» di Marchionne di Coppo Stefani, «Rivista storica italiana», 108 (1996), pp. 230-297. 41 Mi limito qui a rimandare alle considerazioni che Alessandro Lisini e Fabio Iacometti facevano precedere nella Prefazione alla loro edizione, pp. XIV ss. 42 «E l’aiuto che fero i Sanesi trovo in più luoghi scripto che ripararo Firenze da questa gente in questo dì, ma sapiate che Giovanni Villano fiorentino, el quale fa trattato de le croniche fiorentine, non vi mette che li Sanesi vi porgessero aiuto e che fussero loro che riparasse Firenze. Io non voglo dire la cagione, ma chi legie le croniche del paese lo stimarà e conosciarà» (Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, B.XI.42, c. 37v). Non è questo l’unico intervento del narratore all’interno della progressione delle vicende, anche se questo relativo agli sviluppi successivi alla battaglia della Lastra del 1304 denota un certo livello di consapevolezza critica e di distanza rispetto al racconto che degli eventi aveva fornito Giovanni Villani nella sua Cronica. 43 ZARRILLI, Fecini, Tommaso cit.
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sarebbero stati i protagonisti più significativi di una tradizione senese connotata dalla forte coscienza dell’impegno storiografico pubblico44. Una coscienza dell’impegno storico quello della Siena quattrocentesca che, anche quando non arrivava al rango dell’ufficialità, poteva comunque attestarsi sui caratteri di una concezione storiografica dai pronunciati tratti encomiastici che attingeva in modo funzionale ai miti fondanti dell’identità cittadina: agli anni ’30 e ’40 del Quattrocento sono da ricondurre, del resto, anche la cronaca di Paolo di Tommaso Montauri e la riscrittura della Sconfitta di Montaperto da parte del pittore Niccolò di Giovanni Ventura45. Si trattava di testi che, pur nelle ovvie differenze strutturali e contenutistiche, rispondevano ad una prioritaria esigenza di costruzione di un ricordo collettivo, condiviso e abilitante, un ricordo che aveva naturalmente nella vittoriosa battaglia di Monteperti uno dei suoi nuclei narrativi fondamentali. La cronistica senese aveva avuto, si è appena visto, uno sviluppo quantitativamente importante e relativamente tardo, con una significativa progressione a partire dai primi decenni del Quattrocento. Del secolo precedente si conservano soltanto una Cronichetta frammentaria di poche carte, riferibile agli anni dal 1313 al 1320, composta nella prima metà del secolo e tradita da un manoscritto degli Intronati46, il C.VI.12, e la cosiddetta
44 Si vedano a questo proposito gli studi di G. FIORAVANTI, Alcuni aspetti della cultura umanistica senese nel Quattrocento, «Rinascimento», ser. II, 20 (1980), pp. 117-163; P. NARDI, Umanesimo e cultura giuridica nella Siena del Quattrocento, «Bullettino Senese di storia patria», 88 (1981), pp. 234-253; PERTICI, Siena quattrocentesca cit., passim. Un quadro interessante della Siena di metà Quattrocento, nelle sue implicazioni politiche, sociali e culturali è quella che Nelly Mahmoud Helmy ha ricostruito sullo sfondo biografico di Beltramo di Leonardo Mignanelli (N. MAHMOUD HELMY, Tra Siena, l’oriente e la curia. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere, Roma 2013 [Nuovi studi storici, 9], pp. 42-58). 45 Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, A.VI.5, si tratta di un manoscritto autografo corredato da 39 miniature acquarellate. Da questo testo cronistico ha tratto spunti Sergio Raveggi in suo saggio sui connotati storici e mitografici della vittoria di Montaperti (RAVEGGI, La vittoria di Montaperti cit.). Cfr., a questo proposito, i recenti contributi A. CAVINATO, «Nicolò di Giovanni da Siena à fatto questo libro di sua propia mano e di sua spontanea volontà». Note su due manoscritti illustrati senesi del Quattrocento e le loro sottoscrizioni, «Opera Nomina Historiae. Giornale di cultura artistica», 2/3 (2010), pp. 219-261; CAVINATO, Stemmi a Siena e a Montaperti: i manoscritti di Niccolò di Giovanni di Francesco Ventura, in L’arme segreta. Araldica e storia dell’arte nel Medioevo (sec. XIII-XV). Atti del convegno internazionale, cur M. FERRARI, Firenze 2015, pp. 235-247. Sulla memoria di Montaperti si veda ora anche il contributo di D. BALESTRACCI, Una guerra fantasma: Montaperti 1260, in Ricordare la guerra. Memorialistica e conflitti armati dall’antichità a oggi, cur. M. BATTELLI - N. LABANCA, Roma 2016, pp. 51-69. 46 Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, C.VI.12. Si tratta di una cronaca di 16 cc., ascrivibile alla prima metà del secolo XIV.
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Cronaca dell’anonimo, che copre un secolo e mezzo di storia dal 1202 al 1362, concepita secondo uno schema di narrazione annalistico e fortemente ancorato agli avvenimenti militari, politico-istituzionali e alla scansione dei principali fenomeni meteorologici, con una minima attenzione per le vicende esterne alla città47. In questo testo, tramandato da una tradizione sei-settecentesca, erano ancora ben evidenti i caratteri di una scrittura cronistica dai moduli spiccatamente conservativi. Che erano poi in buona parte i caratteri di un panorama senese delle scritture che aveva, tranne forse gli esiti più compiuti e anche circoscritti delle Memorie notarili di Cristofano Guidini48, di un Diario come quello di Allegretto Allegretti e quelli in parte più bizzarri ma assai significativi e meritori di ulteriori indagini della Cronaca di Bindino da Travale49, un profilo aperto e stratificato, reso più complesso da tradizioni generalmente tardive e da un lavorìo di montaggio e di smontaggio della memoria cittadina che era proseguito in età moderna con gli interventi di eruditi come Celso Cittadini, Uberto Benvoglienti e Tommaso Mocenni50. Ad una scala di rango minore facevano capo città come Arezzo e Pistoia. La prima con una popolazione attorno ai 20.000 abitanti e la seconda di circa 15.000 nel momento del loro massimo sviluppo erano centri con una comune vocazione artigianale e creditizia e un altrettanto intenso rapporto con l’economia della campagna circostante51. Arezzo 47 Cronaca senese dei fatti riguardanti la città e il suo territorio di autore anonimo del secolo XIV, in Cronache senesi cit., pp. 39-172. 48 Archivio di Stato di Siena, I 188. Sulle memorie del Guidini, cfr. inoltre G. CHERUBINI, Dal libro di ricordi di un notaio senese del Trecento, in CHERUBINI, Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del Basso Medioevo, Firenze 1974, pp. 393-425. 49 A. ALLEGRETTI, Diarj delle cose sanesi del suo tempo, in L.A. Muratori, R.I.S., XXIII, Mediolani 1733; Archivio di Stato di Siena, D 153. Per l’edizione, cfr. Bindino da Travale, La cronaca, ed. V. LUSINI, Siena 1900. Si è soffermato, più di recente, su questo testo, in rapporto all’alfabetizzazione e all’istruzione nelle campagne toscane tardomedievali, D. BALESTRACCI, Cilastro che sapeva leggere e scrivere. Alfabetizzazione e istruzione nelle campagne toscane alla fine del Medioevo (XIV-XVI secolo), Pisa 2004, pp. 145-150 e A. CAVINATO, «Scrive Giovanni secondo che Bindino pone»: su una cronaca figurata senese e i suoi autori, «Opera Nomina Historiae. Giornale di cultura artistica», 7 (2012), pp. 113-147. 50 Per l’erudizione senese dell’età moderna, al momento, conviene rimandare alle singoli voci del Biografico: G. FORMICHETTI, Cittadini, Celso, in Dizionario biografico degli Italiani, 26 (1982); A. PETRUCCI, Benvoglienti, Uberto, ibid., 8 (1966). 51 Per un primo inquadramento complessivo e comparativo dei due centri urbani si rimanda alle rispettive sintesi tracciate da G. CHERUBINI, Città comunali di Toscana, Bologna 2003, pp. 147-186 e 251-295. Una lettura economica e sociale dell’Arezzo del massimo sviluppo medievale è quella di F. FRANCESCHI, Arezzo all’apogeo dello sviluppo medievale. Aspetti economici e sociali, in Petrarca politico. Atti del convegno (Roma-Arezzo, 19-
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rispetto a Pistoia poteva vantare la presenza di uno studium già dal 121552, ma entrambe ebbero una non trascurabile vitalità culturale: se ad Arezzo, infatti, erano stati presenti personaggi come il giurista Geri d’Arezzo, il padovano Lovato Lovati o il notaio e bibliofilo Simone, oltre naturalmente alle figure di Restoro e di Guittone53, a Pistoia avevano comunque agito notai come Soffredi del Grazia e Lanfranco di ser Iacopo del Bene e un giurista e poeta come Cino54. Diverso fu il contributo che queste due città dettero alla cronistica volgare, diverso soprattutto per tipologia e per profilo quantitativo. Arezzo ebbe un panorama di cronache di un certo rilievo, anche se non accostabile a quello di città come Siena e Pisa. Accanto agli Annales minores et maiores, scritti in latino intorno alla metà del Trecento secondo un rigido ed essenziale schema istituzionale-annalistico55, nella seconda parte del secolo furono redatte una Cronaca dei fatti d’Arezzo da ser Bartolomeo di ser Gorello, con una struttura in terzine e un impianto che dava particolare risalto al ruolo della contemporaneità e alle vicende cittadine56, e due testi di ambito più strettamente diaristico e memorialistico come I ricordi di ser Guido relativi agli anni 1376-1384 e il Memoriale del mercan20 marzo 2004), Roma 2006, pp. 159-182; per la Pistoia nella fase di massima propulsione, cfr. G. FRANCESCONI, L’espansione di un centro minore: Pistoia. Una storia regressiva e qualitativa, in La crescita economica dell’occidente medievale. Un tema storico non ancora esaurito. Atti del XXV convegno internazionale di studi (Pistoia, 14-17 maggio 2015), Roma in corso di stampa. 52 H. WIERUSZOWSKI, Arezzo centro di studi e di cultura nel XIII secolo, «Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze», 39 (1968-69), pp. 1-82; R. BLACK, Introduzione, in Studio e scuola in Arezzo durante il Medioevo e il Rinascimento. I documenti d’archivio fino al 1530, cur. BLACK, Arezzo 1996, pp. 99-177. 53 E. BOFFA, Per una bibliografia analitica ragionata della cultura scritta ad Arezzo, in Arezzo: Il Pionta. Fonti e materiali dall’età classica all’età moderna, cur. C. TRISTANO - A. MOLINARI, Arezzo 2005, pp. 79-85; R. BLACK, Umanesimo e scuole nell’Arezzo rinascimentale, «Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze», 50 (1988), pp. 87112; G. BILLANOVICH, Ser Simone di Arezzo, «Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze», 50 (1988), pp. 235-246. 54 Cfr. Volgarizzamento dei trattati morali di Albertano giudice di Brescia da Soffredi del Grazia notaro pistoiese fatto innanzi al 1278, ed. S. CIAMPI, Firenze 1832; G. ZACCAGNINI, Nuove notizie intorno a Soffredi del Grazia, «Giornale storico della Letteratura italiana», 83 (1924), pp. 210-216; R. PIATTOLI, Ricerche intorno a Soffredi del Grazia notaio e letterato pistoiese del secolo XIII, «Bullettino storico pistoiese», 76 (1974), pp. 3-18; L. CHIAPPELLI, Cino da Pistoia giurista. Gli scritti del 1881 e del 1910-1911, Pistoia 1999; G. MARRANI, Cultura e tradizione poetica pistoiese (sec. XIII-XIV), in La Pistoia comunale nel contesto toscano ed europeo cit., pp. 291-319. 55 Annales arretinorum maiores et minores, edd. A. BINI - G. GRAZZINI, in R.I.S.2, Città di Castello 1909. 56 Ser Bartolomeo di ser Gorello, Cronica dei fatti di Arezzo cit.
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te Simo d’Ubertino; disteso, quest’ultimo, su un più ampio arco cronologico dal 1361 al 1393 e studiato ormai mezzo secolo fa da Giovanni Cherubini57. Quelle aretine, pur con l’originale variante del poema in terzine di ser Bartolomeo, erano scritture dalla vocazione più intimistica, con il riferimento anche alle vicende della città, ma il cui alveo di produzione era quello legato al notariato e al mondo della mercatura, con dati anche minuti che concernevano le attività economiche, gli affari delle compagnie mercantili, del mercato fondiario e del bestiame. La cronaca di vocazione cittadina, anche laudatoria, trovava qui una declinazione più familiare e professionale. Pistoia, fra le città toscane, era quella che poteva vantare la tradizione cronistica forse meno significativa, almeno sul piano quantitativo. Ciononostante, le anonime Storie Pistoresi, composte a ridosso della peste nera del 1348 e le due Cronache di ser Luca Dominici scritte all’inizio del Quattrocento58, pur con differenze anche notevoli nell’impostazione, costituiscono testi di assoluto valore nel panorama della scrittura volgare toscana. Le Storie Pistoresi, tradite da cinque copie cartacee, la più antica delle quali – il Magliabechiano, XXV, 28 – era stata copiata da Iacopo di Franceschino degli Ambrogi nel 139659, costituiscono una sorta di diario politico delle principali vicende cittadine comprese fra il 1300 e il 1348, anno nel quale l’autore fu probabilmente vittima della pandemia60. Con una prospettiva tutta versata alla contemporaneità e con forti analogie strutturali con la Cronica del Compagni, le Storie narrano prevalentemente delle divisioni faziose e degli scontri politici e sociali che segnarono la città di Pistoia dopo la riforma bianca del 1301, facendo dei rivolgimenti di quegli anni, dell’assedio fiorentino-lucchese del 1305/6 e poi degli avvenimenti legati alla discesa dell’imperatore Enrico VII e della rinascita del ghibellinismo toscano i suoi temi centrali. 57
Ser Guido di Rodolfo, Ricordi, in Documenti per la storia di Arezzo nel Medio Evo, IV, ed. U. PASQUI, Firenze 1904; CHERUBINI, La proprietà fondiaria di un mercante toscano del Trecento (Simo d’Ubertino di Arezzo), in CHERUBINI, Signori, contadini, borghesi cit., pp. 313-392. 58 Storie pistoresi: 1300-1348 cit.; Cronache di ser Luca Dominici, I, Cronaca della venuta dei bianchi e della moria 1399-1400, ed. G.C. GIGLIOTTI, Pistoia 1933; Cronache di ser Luca Dominici, II, Cronaca seconda, Pistoia 1939. 59 Le Storie Pistoresi sono tradite da cinque manoscritti: il Magliabechiano XXV, 28, il Magliabechiano-Strozziano XXV 560, il Palatino 683, il Marucelliano C 189 e un ultimo conservato nel fondo Rossi-Cassigoli della Biblioteca Nazionale di Firenze. 60 Sui caratteri della cronaca dell’anonimo e sul profilo del loro autore, cfr. L. CHIAPPELLI, Intorno all’origine cit., pp. 85-94 e 133-142; 27 (1925), pp. 1-11, 41-59 e 7892; N. RAUTY, Le «Storie pistoresi», ora in Storie Pistoresi cit., pp. XIII-XXIII.
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Scritte e pensate in un contesto cronologico e culturale diverso erano, invece, le due cronache di Luca Dominici – una storia pubblica pistoiese degli anni 1401-1402 e una Cronaca della venuta dei Bianchi – in cui il notaio aveva rivolto il suo sguardo all’attualità più stretta, con un’alternanza di riferimenti biografici e di giudizi anche icastici, in cui aveva ripercorso gli eventi più significativi della sua città in uno spazio brevissimo di tempo, inclusa la morìa del 140161. Due opere peraltro dalla fortuna differenziata come mostrano la sola sopravvivenza dell’autografo – poi in realtà smarrito – per la prima e quattro codici per la seconda, il cui apografo è costituito da una copia redatta dal fratello del cronista, il notaio Paolo62. Al centro di importanti reti commerciali e internazionali erano state le due città della Toscana più occidentale, Lucca e Pisa. Entrambe con una antica tradizione di potere e di rilievo istituzionale nelle vicende regionali, l’una di lunga consuetudine marinara, l’altra con una spiccata vocazione per le manifatture seriche, avevano raggiunto alla fine del Duecento una popolazione oscillante fra i 40 e 50 mila abitanti63. Se Pisa poteva vantare un raggio di interessi dal profilo protocoloniale, con diramazioni in Oriente, nella Romania, in Sardegna e in Corsica64, Lucca era una città che aveva fatto del ricambio sociale uno dei fattori propulsivi della sua econo-
61 Cfr. supra nota 59. Si possono vedere inoltre P. PROCACCIOLI, Dominici, Luca in Dizionario biografico degli Italiani, 40 (1991) e ZABBIA, I notai e la cronachistica cit., pp. 181183. 62 Cfr. G.C. GIULIOTTI, Introduzione a Cronache di ser Luca Dominici cit., pp. 1-45: 2845. Meritano di essere menzionati anche per Pistoia, seppur più tardi cronologicamente, quei libri di famiglia e quelle cronachette di cui soprattutto William Connell sin qui ha dato notizia: W.J. CONNELL, Il «Libro di possessioni, fitti, soccite e amezi» di messer Iacopo Melocchi, «LdF: Bollettino della ricerca sui libri di famiglia in Italia», 1 (1988), pp. 20-22; CONNELL, Un cronista sconosciuto di primo ’500: Bastiano Buoni e la sua cronaca «De’ casi di Pistoia», «Bullettino storico pistoiese», 95 (1993), pp. 23-39. Più in generale si veda dello stesso autore CONNELL, La città dei crucci. Fazioni e clientele in uno stato repubblicano del ’400, Firenze 2000. 63 Per un primo quadro di sintesi si possono vedere ancora una volta i contributi di CHERUBINI, Città comunali di Toscana cit., pp. 25-69 e 71-145. Per Lucca fra Due e Trecento si rimanda poi agli studi recenti di I. DEL PUNTA, Mercanti e banchieri nel Duecento, Pisa 2004; A. POLONI, Lucca nel Duecento. Uno studio sul cambiamento sociale, Pisa 2009. Per Pisa il rimando può andare allo studio recente di M. MITTERAUER - J. MORRISSEY, Pisa nel Medioevo. Potenza sul mare e motore di cultura, Roma 2015. 64 M. TANGHERONI, La prima espansione di Pisa nel Mediterraneo: secoli X-XII. Riflessioni su un modello possibile, in G. BERTI - C. RENZI RIZZO - M. TANGHERONI, Il mare, la terra, il ferro. Ricerche su Pisa medievale (secoli VII-XIII), Pisa 2004, pp. 205-230; MITTERAUER - MORRISSEY, Pisa nel Medioevo cit., pp. 109-204.
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mia della piena età comunale, con una rispondenza funzionale fra mutamento del ceto dirigente e innovazione produttiva65. Le due città più prossime alla costa, con una precedenza che va certamente accordata a Pisa, avevano espresso anche una precoce vitalità culturale, molto più accentuata di quella fiorentina: si pensi alla Romanitas pisana con la frenesia edilizia che la città aveva conosciuto nell’età della Riforma e in quella subito successiva, si pensi alla tradizione laudatoria che già nei Gesta triumphalia aveva potuto esaltare la campagna delle Baleari, ma si pensi anche ai forti richiami classici presenti nella poesia storica e nelle iscrizioni pisane del secolo XII e quindi al riconosciuto primato nell’ambito della letteratura secolare, con una rapida diffusione del volgarizzamento in ambito linguistico e scrittorio66. La vivacità culturale di centri come Lucca e Pisa avrebbe mantenuto la sua forza anche nel quadro della scrittura storica in volgare, seppur con esiti difformi e con caratteri di relativa continuità, che furono forse più spiccati a Pisa e che a Lucca poterono raggiungere però una maggiore compiutezza nella produzione sercambiana. La cultura storiografica pisana trecentesca si connotava, del resto, a parere di Ottavio Banti, secondo i caratteri di una avanzata normalizzazione scrittoria e contenutistica67: quelli pisani erano testi per lo più bipartiti, in modo non troppo diverso dai senesi, con uno spazio dedicato alle vicende della storia più antica, anche in prospettiva mitografica, e una parte dedicata alle vicende contemporanee, con una sutura che generalmente si collocava nel racconto agli anni centrali del secolo XIV, in prossimità della discesa di Carlo IV68. Era questa seconda, naturalmente, la porzione narrativa più significativa, alimentata dai ricordi contemporanei e dalla più ampia circolazione di testi extracittadini come quello villaniano, e che avevano nella compilazione anonima della cronaca conservata nel Ms. L54 dell’Archivio di Stato di Lucca il collettore determinante69. In un quadro testuale frammentario e dalla stratigrafia complessa la L54 avrebbe costituito il bacino informativo di riferimento per una buona parte dei compilatori successivi, così almeno per l’anonimo redattore della cronaca Roncioniana R338 e della Cronaca di Pisa di Ranieri Sardo70. La cronistica pisana può per molti versi assimilarsi 65 66 67
POLONI, Lucca nel Duecento cit., pp. 21 ss. MITTERAUER - MORRISSEY, Pisa nel Medioevo cit., pp. 258-259. O. BANTI, Studio sulla genesi dei testi cronistici pisani del secolo XIV, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 75 (1963), pp. 259-319. 68 Ibid., pp. 279 ss. 69 Ibid., pp. 282-283. 70 Cronica di Pisa cit.; Ranieri Sardo, Cronaca di Pisa cit.
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nella struttura e nei moduli compositivi a quella senese, per quanto forse e il profilo mercantile di Ranieri parrebbe esserne una conferma, mantenesse un carattere meno corale ed ufficiale, con uno stigma del ricordo di segno più privato e slegato da forme di committenza cittadine71. A Lucca, dove peraltro la tradizione archivistica è stata pesantemente danneggiata dagli eventi politici castrucciani e post castrucciani72, il panorama era divaricato fra la precocità della Cronichetta Lucchese e gli esiti tardo trecenteschi e primo quattrocenteschi delle Croniche di Giovanni Sercambi. La Cronichetta, composta sullo scorcio fra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo da parte di un compilatore anonimo, aveva una struttura rigidamente annalistica e istituzionale, modulata sulla lista degli incarichi podestarili, per un arco cronologico disteso fra il 752 e il 130473. L’impianto narrativo era tradizionale e la sequenza delle notizie molto esile. La geografia era prevalentemente centrata sulla città e il suo contado, con un’attenzione specifica per gli aspetti militari e la conquista delle giurisdizioni territoriali74. Con le Croniche di Giovanni Sercambi Lucca poteva vantare, invece, uno degli esiti più maturi della scrittura cronistica toscana in volgare. Composte negli ultimi decenni del Trecento e i primissimi anni del Quattrocento, da un commerciante di spezie che fu anche un civis costantemente impegnato nella vita politica della sua città –
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BANTI, Studio sulla genesi dei testi cronistici cit., pp. 316-319; C. IANNELLA, Introduzione a Cronica di Pisa cit., pp. IX-XLV: XXVIII-XXIX. 72 L. MOSIICI, Ricerche sulla cancelleria di Castruccio Castracani, «Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», 7 (1967), pp. 1-86: 3-5. Si veda inoltre un mio recente contributo sulla signoria castrucciana G. FRANCESCONI, La signoria pluricittadina di Castruccio Castracani. Un’esperienza politica “costituzionale” nella Toscana di primo Trecento, in Le signorie cittadine in Toscana. Esperienze di potere e forme di governo personale (secoli XIII-XV), cur. A. ZORZI, Roma 2013, pp. 149-168: 150-151. 73 Antica cronichetta volgare lucchese già Biblioteca di M.F. Fiorentini, ed. S. BONGI, «Atti della Regia Accademia lucchese di scienze, lettere e arti», 26 (1889-1893), pp. 215254. 74 Altre cronachette di ambito lucchese e pisano-lucchese sono ascrivibili agli anni di trapasso fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, tra queste meritano una menzione specifica quelle tradite dal manoscritto Palatino 571 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Cfr., a questo proposito, C. ROSSI, La ‘Cronichetta lucchese’ del manoscritto Palatino 571 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso dell’ADI (Roma, 18-21 settembre 2013), Roma 2014, pp. 1-10. Aveva fornito un’edizione di questo testo all’inizio del secolo scorso B. SCHMEIDLER, Aus der Cronica di Lucca des Codex Palatinus 571, «Neues Archiv der Wissenschaft für ältere deutsche Geschichtskunde», 34/I (1909), pp. 177-192.
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UNA TOSCANA SENZA AUTORI: SIENA E DINTORNI
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tradite da due manoscritti autografi75 – erano costituite da due blocchi principali: un primo che copriva il periodo dal 1164 al 1400 e un secondo dal 1400 al 1423, con uno spartiacque che non era solo cronologico, ma anche di metodo, costituito dall’avvento al potere di Paolo Guinigi, un passaggio peraltro della vita politica lucchese del quale Giovanni era stato uno degli artefici più significativi76. È difficile racchiudere in poche righe il metodo compositivo e le finalità di un’opera che rimane per molti versi ancora da indagare, ma si potrà intanto rilevare che, ad una prima parte di natura più canonica e legata ad un percorso storiografico dai connotati tradizionali, fa seguito una seconda di forte impegno civile, con una scrittura, quasi in presa diretta, degli avvenimenti che il cronista aveva personalmente vissuto e con una chiara volontà di celebrare il passaggio dalla storia comunale al principato guinigiano77. La signoria di Paolo, nell’ottica del cronista, doveva essere la soluzione costituzionalmente innovativa che poteva garantire la “libertà” di fronte alle divisioni politiche interne e alle minacce viscontee e fiorentine. IV. Le Croniche sercambiane per le qualità che si sono appena richiamate e per la forte coscienza storiografica del loro autore possono considerarsi un approdo ideale del percorso, per forza di cose rapido, che abbiamo compiuto fra le scritture storiche toscane. Un approdo ideale dal volto cangiante, perché, se l’opera di Sercambi si può considerare di «retroguardia», come faceva notare qualche anno fa Franca Ragone78, rispetto ai modelli più avanzati di una storiografia fiorentina che già guardava alle
75
GUALDO - PALERMO, La prosa del Trecento cit., p. 387. Delle cronache sercambiane rimane anche una tradizione più tarda, di copie settecentesche che furono commissionate da Bernardino Baroni. Cfr. anche M. PAOLI, I codici, in Sercambi e il suo tempo. Catalogo della mostra (Lucca, 30 novembre 1991), Lucca 1991, pp. 192-198. 76 Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese cit. Per un inquadramento biografico di Sercambi e i rapporti con la scrittura cronistica può tornare ancora utile A.G. DINUCCI, Giovanni Sercambi e le sue Cronache, «Rassegna nazionale», 57 (1927), pp. 43-67 e 93-103 e quindi Sercambi e il suo tempo cit. 77 S. BONGI, Prefazione a Le croniche di Giovanni Sercambi cit., pp. VII-XLIII. Sull’edizione Bongi sono utili le considerazioni di F. RAGONE, Scelte editoriali e fortuna di un’edizione. Salvatore Bongi e le Croniche di Giovanni Sercambi, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 95 (1989), pp. 217-245. Per i rapporti fra la scrittura cronistica sercambiana e quella novellistica si può vedere il contributo di P. SALWA, Narrazione, persuasione, ideologia. Una lettura del Novelliere di Giovanni Sercambi, lucchese, Lucca 1991. 78 RAGONE, Le “Croniche” di Giovanni Sercambi cit., p. 11.
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GIAMPAOLO FRANCESCONI
soluzioni umanistiche79, rimane altresì uno dei prodotti più consapevoli di una scrittura cronistica, forse anche ritardataria, in cui l’elemento autoriale era segnato dallo stigma della progettualità. I “prologhi” o i “proemi” che Sercambi aveva inserito in apertura dei blocchi narrativi che strutturavano le sue Croniche erano, infatti, l’espressione più evidente di una presenza nuova dell’auctor, addirittura programmatica e ideologicamente orientata, rispetto alla media più diffusa delle compilazioni trecentesche80. Laddove Giovanni Sercambi esplicitava le ragioni che avevano guidato le sue scelte testuali, la sua ispirazione e la stessa organizzazione dei contenuti, la stragrande maggioranza delle cronache tre e anche quattrocentesche si attardavano su stili di scrittura e su modelli compositivi, quelli sì davvero medievali. Anche nelle città toscane, come si è cercato di mostrare, i rapporti di committenza erano raramente definiti, con una tradizione fortemente ancorata al racconto condotto da privati di media cultura, con forse la sola eccezione del caso senese, e in un panorama massicciamente segnato da scritture stratificate, di carattere compilativo, nelle quali alcuni nuclei di espansione funzionavano da veri e propri motori generatori della materia narrativa. Anche la Toscana, insomma, anche quella terra in cui nel tardo Medioevo i mercanti e gli artigiani avevano sempre la penna in mano, quando scriveva di storia diventava una «Toscana senza autori»81.
79 CUTINELLI-RÈNDINA - MARCHAND - MELERA-MORETTINI, Dalla storia alla politica cit., pp. 19-62; A. MONTEVECCHI, Storici di Firenze. Studi su Nardi, Nerli e Varchi, Bologna 1989, pp. 7-21. Per una contestualizzazione più ampia dell’ambiente culturale fiorentino, cfr. P. GILLI, Il discorso politico fiorentino nel Rinascimento e l’“umanesimo civile”, in Firenze e la Toscana. Genesi e trasformazioni di uno stato (XIV-XIX secolo), cur. J. BOUTIER - S. LANDI - O. ROUCHON, Firenze 2010, pp. 255-271. Cfr. anche F. TATEO, Storiografi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori, in Storia della letteratura italiana, VIII, Il primo Cinquecento, Verso il Manierismo, Milano 2005, pp. 1011-1103: 1011-1020. 80 RAGONE, Le “Croniche” di Giovanni Sercambi cit., pp. 11 ss. 81 D. BALESTRACCI, La zappa e la retorica. Memorie familiari di un contadino toscano del Quattrocento, Firenze 1984, pp. 15-31. Cfr., inoltre, A. PETRUCCI - L. MIGLIO, Alfabetizzazione e organizzazione scolastica nella Toscana del XIV secolo, in La Toscana del secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale. Atti del I convegno del Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo di San Miniato (1-5 ottobre 1986), Pisa 1988, pp. 465-484.
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RICCARDO GUALDO LE CRONACHE DELL’ITALIA MEDIANA*
Cronache e storie dell’Italia mediana: una panoramica Nel titolo di questo intervento vorrei dare all’aggettivo mediano non un’accezione geolinguistica, bensì una sfumatura qualitativa. Il concetto geografico di Italia mediana è stato definito in modo magistrale da Ignazio Baldelli e poi successivamente messo a punto da Ugo Vignuzzi in precisi quadri d’insieme1; qui invece ne faccio un uso molto meno tecnico. Nel rileggere i testi delle cronache in volgare, soprattutto – ma non solo – delle cronache romane posteriori all’Anonimo, mi sono posto subito una domanda, forse un po’ brutale: come mai queste opere, pur relativamente numerose, sono di qualità così modesta? Non mi riferisco naturalmente alla facies linguistica, che poteva dispiacere a editori ottocenteschi condizionati da pregiudizi toscaneggianti; essa riflette evidentemente, pur nella varietà delle soluzioni e facendo la tara di una tradizione non sempre affidabile, i tratti della scrittura coeva. Il giudizio riguarda la tenuta narrativa, la scarsa pianificazione del progetto cronachistico, che quasi sempre si risolve in sequenze formulari di eventi e in annotazioni circoscritte e minute. Raramente, insomma, lo scrivente va oltre il diario occasionale e assume un respiro narrativo più profondo e consapevole; quel respiro che, per usare la felice immagine di Gian Mario Anselmi, trasforma l’“ansia del narrare” in un progetto di scrittura maturo e definito.
* Sono molto grato a Massimo Miglio per avermi invitato alle prestigiose giornate della VI Settimana di Studi Medievali e per aver accolto il mio contributo in questi Atti. 1 I. BALDELLI, Medioevo volgare da Montecassino all’Umbria, Bari 19832 (I ediz. 1971); BALDELLI, La letteratura dell’Italia mediana dalle Origini al secolo XIII, in Letteratura italiana, cur. A. ASOR ROSA, I. Storia e geografia, Torino 1987, pp. 27-63; U. VIGNUZZI, Il volgare nell’Italia mediana, in Storia della lingua italiana, diretta da L. SERIANNI - P. TRIFONE, III, Le altre lingue, Torino 1994, pp. 329-372: 329-330 e nota 4.
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RICCARDO GUALDO
Una panoramica sulle cronache redatte nell’Italia mediana tra XIV e XVI secolo espone a molti rischi. Il primo è quello di recitare un noioso elenco di nomi, più e meno noti; troppi di questi nomi sono consegnati alla memoria da testi leggibili solo nelle storiche edizioni dei Rerum Italicarum Scriptores, se non nelle Antiquitates muratoriane. Il secondo rischio è quello di appiattire un paesaggio più mosso di quanto possa apparire a prima vista. Il terzo e ultimo rischio è quello più serio: invadere campi di ricerca già profondamente dissodati da storici, archivisti e paleografi, studiosi della cultura artistica, archeologica e materiale dell’Italia centrale basso medievale e rinascimentale; le omissioni e le imprecisioni sarebbero quasi inevitabili. Per evitare troppi danni, dopo una breve premessa di orizzonte un po’ più largo, concentrerò la mia attenzione sulle cronache romane e viterbesi, cercando di non sovrapporre la mia voce a quella di altri interventi2.
2 Elenco qui di seguito i testi utilizzati negli esempi e citati di seguito in forma abbreviata: Marco Antonio Altieri, Baccanali, ed. L. ONOFRI, Roma 2000 (Fonti per la storia dell’Italia medievale. Antiquitates, 8); Altieri, Li Nuptiali, ed. E. NARDUCCI, introd. di M. MIGLIO, appendice documentaria e indice ragionato dei nomi di A. MODIGLIANI, Roma 1995; Anonimo Romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1979; Stefano Caffari, Memorie di una famiglia nella Roma del Quattrocento¸ edd. A. INGLETTO - S. SANTI, Roma 2008 (Miscellanea della Società romana di storia patria, 54); Francesco D’Andrea, Cronica, ed. P. EGIDI, Roma 1901 (rist. anast. Manziana 2002 con Prefazione di G. LOMBARDI); Gentile Delfino, Il Diario romano (1374-1410) attribuito a Gentile Delfino, ed. F. ISOLDI, in R.I.S.2, 24/2, Città di Castello 1910-1912, pp. 64-79; Paolo Dello Mastro, Il “Memoriale” di Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro del rione di Ponte, ed. F. ISOLDI, ibid., pp. 80-100; Antonio di Pietro Dello Schiavo, Il diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, ed. F. ISOLDI, in R.I.S.2, 24/5, Città di Castello-Bologna 1912-1917, pp. 3-112; Antonio de Vascho, Diario della città di Roma dall’anno 1480 all’anno 1492 di Antonio de Vascho, ed. G. CHIESA, in R.I.S.2, 23/3, Città di Castello 1911, pp. 493-546; Stefano Infessura, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, ed. O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 5); Paolo di Lello Petrone, La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone, ed. F. ISOLDI, in R.I.S.2 24/2 cit., pp. 1-63; Niccolò della Tuccia, Cronache di Viterbo e di altre città, in Cronache e statuti della città di Viterbo, ed. I. CIAMPI, Firenze 1872 (Documenti per la storia italiana a cura della R. Deputazione degli Studi di Storia Patria per la Toscana e per l’Umbria, 5), rist. anast. Sala Bolognese 1972; Gaspare Pontani, Il diario romano di Gaspare Pontani, già riferito al “Notaio del Nantiporto” (30 gennaio 1481-25 luglio 1492), ed. D. TONI, in R.I.S.2, 3/2, Città di Castello 1907-1908, pp. 3-71; Sebastiano di Branca Tedallini, Diario romano dal 3 maggio 1485 al 6 giugno 1524 di Sebastiano di Branca Tedallini, ed. P. Piccolomini, in R.I.S.2, 23/3 cit., pp. 287-375. Sulla tradizione manoscritta di alcune di queste cronache e di quelle citate nelle note seguenti, cfr. ora le utili schede dell’Encyclopedia of Medieval Chronicle, ed. G. DUMPHY, Leiden 2010, 2 voll.
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LE CRONACHE DELL’ITALIA MEDIANA
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Nell’area romana il panorama dei testi storici in volgare appare povero di documenti degni del rilievo che la città dei Papi aveva nel contesto politico della Penisola. Il resto dell’Italia mediana è punteggiato da cronache tendenzialmente ingenue nell’impostazione, in genere dedicate a periodi circoscritti o frammentarie, quasi sempre tràdite da manoscritti tardi, molto raramente risalenti più addietro dell’ultimo quarto del XV secolo. Per l’area viterbese, oltre alle opere ricordate all’inizio e utilizzate in questo contributo, vanno almeno menzionati i testi di Anzillotto (Lanzillotto) e di Giovanni di Iuzzo3; per le condizioni dialettali e culturali, il Diario quattrocentesco del notaio nepesino Antonio Lotieri è invece attratto dal modello romano e dunque riconducibile a quell’area4. Per quanto riguarda l’Umbria, ricordiamo la cronaca todina di Gian Fabrizio degli Atti, la cui lingua è stata studiata da Franca Ageno ormai sessant’anni or sono5, e le numerose cronache perugine, tra le quali spiccano i testi prodotti nella «splendida stagione politico-economica vissuta dal libero Comune di Perugia» nei primi cinquant’anni del XIV secolo. Di grande rilievo, soprattutto per il carattere di ufficialità del documento, testimoniato dalla qualità del supporto pergamenaceo, dalle eccezionali dimensioni delle carte e dalle simpatie guelfe manifestate dall’annotatore, la sezione più consistente del manoscritto V.E.871 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, vergata entro il 13276. Dopo gli Annali e cro3 Cronica di Anzillotto viterbese dall’anno MCLXIX all’anno MCCLV. Continuata da Nicola di Nicola di Bartolomeo della Tuccia sino all’anno MCCCCLXXIII, ed. F. CRISTOFARI, Roma 1890; per Giovanni di Iuzzo vedi l’ed. Ciampi citata alla nota precedente e condotta sull’unico testimone, il ms. Riccardiano 1940. Cristofari ripubblica la cronaca viterbese di Niccolò della Tuccia usando un manoscritto trascurato dal Ciampi; informazioni solide e accurate su questi antichi testi viterbesi si possono ancora trovare in P. EGIDI, Relazioni delle cronache viterbesi del secolo XV tra loro e con le fonti, Roma 1901, e cfr. poi G. LOMBARDI, Cronache e libri di famiglia: il caso di Viterbo, in La Memoria e la Città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna, cur. C. BASTIA - M. BOLOGNANI - F. PEZZAROSSA, Bologna 1995, pp. 407-417, che tratta anche dei pochi ricordi privati quattrocenteschi noti per il Viterbese. 4 Per il testo, cfr. Diario nepesino di Antonio Lotieri de Pisano (1459-1468), ed. G. LEVI, «Archivio della Società romana di storia patria», 7 (1884), pp. 115-182; analisi linguistica in E. MATTESINI, Il «Diario» in volgare quattrocentesco di Antonio Lotieri de Pisano notaio in Nepi, «Contributi di Dialettologia Umbra», 3/5 (1985), pp. 5-227; cfr. anche le osservazioni di P. TRIFONE, Roma e il Lazio, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, cur. F. BRUNI, Torino 1992, pp. 540-593: 564-565. 5 Per il testo, La Cronaca todina di Ioan Fabrizio degli Atti, ed. F. MANCINI, «Studi di Filologia Italiana», 13 (1955), pp. 79-166; per l’analisi linguistica v. F. AGENO, La lingua della Cronaca todina di Ioan Fabrizio degli Atti, ibid., pp. 167-228. 6 Cfr. E. MATTESINI, Umbria, in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, cur. F. BRUNI, Torino 1994, pp. 517-556: 526-528.
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RICCARDO GUALDO
naca di Perugia va menzionata la cronaca tardo quattrocentesca dell’umanista Francesco Maturanzio recentemente pubblicata da Carla Gambacorta7. Per l’Abruzzo, oltre a Buccio, di cui al capoverso seguente, e all’anonimo volgarizzamento abruzzese (circa metà del XIV secolo, ma di tradizione manoscritta più tarda) di una versione ampliata del Chronicon maius di Isidoro di Siviglia pubblicato da Paolo D’Achille, conosciamo la breve cronaca di Cola (Niccolò) di Borbona, leggibile ancora solo nell’edizione settecentesca dell’Antinori, le Quattro cronache pubblicate all’inizio del secolo scorso dal Pansa e la prosecuzione del poema di Buccio, in prosa latina con occasionali inserti in volgare, realizzata alla fine del XV secolo dal frate Alessandro De Ritiis8. L’unico altro vero capolavoro storico dell’Italia mediana tra XIII e XV secolo, dai tratti tuttavia non confrontabili con le cronache in prosa è il poema in quartine di alessandrini dell’aquilano Buccio di Ranallo, sugge7 F. UGOLINI, Annali e Cronaca di Perugia in volgare dal 1161 al 1336, «Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Perugia», 1 (1963-1964), pp. 143337; La Cronaca della città di Perugia di Francesco Maturanzio (Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, ms. I 109), ed. C. Gambacorta, pref. di E. MATTESINI, Spoleto 2014; poco studiate e affidate a edizioni ormai antiche sono le molte cronache perugine scritte tra la fine del XIV e i primi decenni del XVI secolo. Senza pretese di completezza, ricordo la Cronaca cosiddetta «del Graziani», pubblicata da O. SCALVANTI (Perugia 1903), attribuita al minorita Jacopo Oddi, autore anche della lunga compilazione in volgare Specchio dell’Ordine Minore, o Franceschina; le anonime Memorie di Perugia dall’anno 1308 al 1335, e poi la Cronica primo quattrocentesca di Mariano del Moro, tra le Cronache e storie inedite della citta di Perugia dal 1150 al 1563. 1: Bonifacii Veronensis Eulistea - Annali attribuiti ad uno di Casa Oddi - Cronaca detta Diario del Graziani. Con supplementi d’altre Cronache inedite (1150-1491) ed. A. FABRETTI, «Archivio Storico Italiano», 16/1 (1850-1851), e quella cinquecentesca di Giulio di Costantino cfr. La cronaca perugina cinquecentesca di Giulio di Costantino, edd. G. ROSSETTI - G. SCENTONI, Spoleto 1992. Spunti di documentazione storica si raccolgono anche nelle ricordanze di monasteri, come S. Lucia a Foligno e Monteluce di Perugia, cfr. MATTESINI, L’Umbria, in I dialetti italiani. Storia, strutture, uso, cur. M. CORTELAZZO - C. MARCATO - N. DE BLASI - G. P. CLIVIO, Torino 2002, pp. 485514: 501. 8 La Cronaca volgare Isidoriana: testo tre-quattrocentesco di area abruzzese, ed. P. D’ACHILLE, L’Aquila 1982 (Deputazione abruzzese di Storia patria. Studi e testi, 2); A.L. ANTINORI, Cronaca delle cose dell’Aquila dall’anno 1363 all’anno 1424, in L.A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, VI, Mediolani 1742, pp. 851-880; Quattro cronache e due diarii inediti relativi ai fatti dell’Aquila dal sec. XIII al sec. XVI, ed. G. PANSA, Sulmona 1902; L. CASSESE, La Chronica civitatis Aquilae di Alessandro De Ritiis, Napoli 1941. Solo forzatamente ascrivibili alla storiografia (vedi anche la nota precedente) sono le memorie della Confraternita di S. Massimo, su cui cfr. U. VIGNUZZI, «Abruzzi vs. Abruzzo»: la formazione di una regione nella storia sociopolitica, culturale e linguistica, in Civiltà medievale negli Abruzzi, I, Storiografia e storia, edd. S. BOESCH GAJANO - M.R. BERARDI, L’Aquila 1990, pp. 417-428.
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LE CRONACHE DELL’ITALIA MEDIANA
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stivamente ascritto dal De Matteis a una sorta di “epica civile”9. Anche l’opera di Buccio ha una tradizione molto tarda rispetto agli anni della sua stesura, visto che solo due dei sette testimoni rimontano alla seconda metà del XV secolo10. Il doppio registro della cronistica romana del Trecento e del Quattrocento Torno alla domanda iniziale sulla modesta qualità delle cronache romane quattrocentesche. Per tentare una prima risposta, senza trascurare il danno che il Sacco arrecò alla documentazione locale, si potrebbe osservare che i tratti della cronachistica romana del XIV e del XV secolo sono definiti da un doppio registro, tanto sul piano ideologico quanto su quello linguistico. Con le municipalità degli altri centri italiani, il populus romanus condivideva la sottomissione al giogo delle parti, variamente sostenute da chi si avvicendava al soglio papale11. Ma a questa debolezza se ne aggiungeva un’altra: la più opprimente soggezione al diretto controllo del pontefice (non è un caso che il Liber pontificalis non sia stato mai volgarizzato), così che taluni descrivevano Roma quasi come una Cenerentola tra le città dei territori della Chiesa. Lo ha ricordato ancora recentemente Anna Modigliani commentando il discorso tenuto da Stefano Porcari a S. Maria in Aracoeli nel 143412, e alla peculiarità di Roma come centro comunale fa riferimento anche Tommaso di Carpegna nel suo contributo in questo volume. Roma è dunque davvero un unicum tra le grandi capitali italiane del Medioevo, con altre importanti conseguenze: da un lato vi si crea un doppio registro linguistico ed espressivo, che contrappone gli usi formali e pubblici a quelli informali e privati; dall’altro vi si sviluppa un lessico politico decisamente polarizzato tra libertas e servitium (o servitus) e tra l’immagine idealizzata della Roma antica e quella della Roma contemporanea,
9 C. DE MATTEIS, Buccio di Ranallo: critica e filologia. Per la storia letteraria dell’Italia mediana, Roma 1990, p. 38; lo studioso osserva tuttavia che Buccio è «naturalmente sintonizzato con le finalità della grande cronachistica comunale fiorentina e dell’area mediana» (ibid., p. 113), anche se non si può dimostrare che ne fosse direttamente a conoscenza. Cfr. ora l’edizione critica ampiamente commentata: Buccio di Ranallo, Cronica, ed. DE MATTEIS, Firenze 2008. 10 DE MATTEIS, Buccio di Ranallo cit., pp. 198ss. 11 L’esempio forse più eclatante lo leggiamo nell’opposto atteggiamento verso i Colonna tenuto da Martino V e dal suo immediato successore Eugenio IV Condulmer. 12 A. MODIGLIANI, Congiurare all’antica, Roma 2014, p. 22.
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RICCARDO GUALDO
variamente declinata a seconda dei punti di vista. Va poi tenuta presente, sullo sfondo, la tensione tra la scrittura storica ufficiale delle città capitali e quella privata delle città prive di autonomia politica e inserite in un più ampio contesto territoriale. Questa tensione dialettica è stata indicata da Marino Zabbia come «l’approccio più efficace per comprendere le peculiarità della storiografia notarile del XIV secolo»13, e mi sentirei di estendere l’indicazione di metodo anche al XV e al XVI secolo. Anche sotto questo aspetto la situazione di Roma è diversa sia da quella dei grandi centri comunali dell’Italia centrale e settentrionale, sia da quella delle città del Regno. Quanto al registro linguistico, non è casuale che quasi tutti gli autori di cronache in volgare o in volgare e latino provengano dall’ambiente notarile e giuridico; lo stesso Stefano Caffari, di cui non v’è certezza che fosse un giurista, ha un’evidente competenza nella terminologica giuridica14. Quest’appartenenza cetuale e professionale è ovviamente diffusa anche in altre realtà italiane, culturalmente e istituzionalmente ben diverse dalla Roma dei papi. Ma a Roma c’è un dato in più: gli intellettuali della corte pontificia provenivano da altre regioni italiane – oppure, anche se romani, come il Valla, si erano formati altrove – e adottavano l’elegante latino umanistico; i funzionari municipali d’estrazione locale avevano familiarità con un più modesto latino notarile e burocratico, i cui tratti affioravano nei testi in volgare di media formalità. Quanto alla dialettica libertas/servitus, la libertas è in primo luogo libertà dal dominio del papa e della Curia, libertà dai preti; non a caso Paolo Petrone intitolava un capitolo della sua Mesticanza Non ti fidare dei preti. Rileggiamo le motivazioni della condanna comminata da Paolo II al Platina: per essergli forte piaciute et gustate le hystorie de’ Romani, et per desiderare forte che Roma torni in quelli primissimi stati, havevano deliberato levare questa città de la subiectione de preti, et facta una coniuratione contro la persona del papa15.
13
X-XI.
M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999, pp.
14 Cfr. A. MODIGLIANI, La lettura «storica» delle fonti in volgare: il caso di Roma. Memorie cittadine e familiari, in Storia della lingua e storia. Atti del II convegno ASLI (Catania, 26-29 ottobre 1999), cur. G. ALFIERI, Firenze 2003, pp. 233-253: 238. 15 Cfr. M. MIGLIO, Scritture, scrittori e storia, II, Città e corte a Roma nel Quattrocento, Manziana 1993, p. 113 (corsivi miei).
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La parola libertas significa inoltre ‘libertà di parola e di azione’, la libertà dei regimi democratici ripresa dal mito della Roma repubblicana16. Popolo e libertà è lo slogan di Stefano Porcari, che anche poco prima di morire impiccato si proclama orgogliosamente «liberatore della patria»17. Di “liberatori”, in effetti, Roma ne conosce più d’uno: già all’inizio del XV secolo messer Galeotto Normando, nominato cavaliere da re Ladislao, viene dapprima chiamato «lo cavalieri della libertà», per poi essere presto decapitato a causa dei suoi «mali costumi» e perché «voleva far manicare tutti li romani alli cani»18. Ancor più concreta è la libertà evocata dal viterbese Giovanni di Iozzo quando, a proposito delle cattive condizioni agricole della Viterbo negli anni ’70 del XV secolo – prima di un periodo di maggior benessere e tranquillità economica –, scrive che «il grano vole libertà»19. L’opposto di libertas, servitium, è usato da Orazio Romano nella sua Porcaria in versi, e anche l’Altieri, nei Nuptiali, ricorda che il suo maestro Pomponio Leto sopraiunseme Roma non esser più città, anzi per assai più proprio e conveniente titolo tenere si possa verissimo seminario di servi over schiavotti20.
A lungo andare, tuttavia, la mitologia della Roma repubblicana e imperiale si trasforma in un topos stantio, così come stantio, anche se ben più veritiero, è il topos della Roma invasa da forensi o forestieri, gli alienigenae dell’Infessura21. Più generazioni di forestieri Le ondate di immigrazione o meglio di colonizzazione dal resto d’Italia e poi soprattutto dalla vicina Firenze caratterizzano la storia della Roma quattro-cinquecentesca. Già sommersa da fiumane di pellegrini nei secoli
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Cfr. MODIGLIANI, Congiurare cit., pp. 69ss. «O populo, oggi muore il liberatore della tua patria», cfr. ibid., p. 136. Delfino, Diario romano cit., p. 76; Infessura, Diario cit., p. 10. Cit. da M. MIGLIO, Cronisti viterbesi del secolo XV, «Biblioteca e Società», 6/1-4 (1984), pp. 73a-75b: 75b. 20 Altieri, Nuptiali cit., p. 42; cfr. anche P. FARENGA, La memoria di una minoranza: la città dei Romani, in La Memoria e la Città cit., pp. 319-329: 324. 21 Infessura, Diario cit., p. 174.
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precedenti, Roma è sempre più italiana e internazionale e sempre meno romana anche grazie all’impegno dei pontefici nel ridimensionare il potere delle famiglie e dei più forti gruppi sociali locali centralizzando il controllo della vita pubblica. Questa tendenza si può datare sin dalla resignatio pleni dominii voluta da Bonifacio IX alla fine del XIV secolo22 e prosegue, dopo il ritorno di Martino V, nei decenni successivi, subendo un’ulteriore accelerazione nell’ultimo trentennio del secolo seguente, quando, dopo le ultime concessioni di Paolo II alle famiglie romane, i nuovi statuti trasformano cariche prima elettive in vitalizie e venali, nonché di nomina papale. La durissima politica di Giulio II contro le famiglie romane del ceto municipale come della grande nobiltà culminerà nella rivolta cittadina dell’estate del 151123. L’invasione dei fiorentini, che in qualche decennio trasformerà anche la lingua di Roma, comincia almeno con le leggi che Firenze promulga nel 1427 per restituire alla Chiesa benefici, immunità fiscale e autonomia giurisdizionale e garantirsi, in cambio, la protezione degli interessi della potente comunità di concittadini, che già a quell’epoca controllavano il commercio anche navale, con il traffico del porto di Ripa24. La politica pontificia soffoca sul nascere lo sviluppo di una classe dirigente indigena, e inibirà violentemente questo processo ad ogni successivo tentativo. L’assenza di una forte classe dirigente locale è solo uno dei vari fattori che Tullio De Mauro ha evocato per spiegare la smeridionalizzazione del romanesco a cavaliere tra XV e XVI secolo25. Ma è senz’altro un motivo centrale della parabola discendente della romanità, che culmina nella massiccia fiorentinizzazione dei pontificati medicei di primo Cinquecento, percepita con inquietudine, ma già con una certa rassegnazione, dalla nobiltà cittadina, come testimonierà – tra tanti – l’Altieri26.
22 Cfr. gli studi di Arnold Esch cit. da A. ESPOSITO, Considerazioni sulla presenza dei “forenses” nella Roma del Quattrocento, in “Effetto Roma”. Romababilonia, Roma 1993, pp. 41-60: 48. 23 Per questi ultimi fatti cfr. A. ESPOSITO, “Li nobili huomini di Roma”: strategie familiari tra città, curia e municipio, in Roma Capitale: 1447-1527. Atti del IV Convegno di Studio del Centro studi sulla civiltà del Tardo Medioevo (San Miniato 27-31 ottobre 1992), cur. S. GENSINI, Pisa 1994, pp. 373-388: 374; cfr. inoltre L. ONOFRI, Introduzione, in Altieri, Baccanali cit., pp. IX-LII: X-XI e nota 7. 24 Cfr. ESPOSITO, Considerazioni cit., pp. 50-51. 25 Cfr. M. MANCINI, Nuove prospettive sulla storia del romanesco, in “Effetto Roma” cit., pp. 9-40: 14. 26 Cfr. TRIFONE, Roma e il Lazio, in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti cit., pp. 557-604: 574.
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All’immigrazione sempre più intensa di fiorentini si aggiunge quella da altre città italiane: sotto Niccolò V si succedono a governare Roma l’aquilano Nicola dei Porcinari e il veronese Giacomo Lavagnoli27, ed Eugenio IV stronca la ribellione del 1434 servendosi del viterbese (di Tarquinia) Giovanni Vitelleschi, che l’Infessura descrive come «Homo diabolico che messe paura ad ogni persona»28. Ci sono poi gli uomini delle diverse cancellerie statali, italiane e straniere, che risiedevano a Roma e frequentavano la Curia. Massiccia è la presenza di lombardi e liguri (questi ultimi arrivati già col sarzanese Niccolò V e poi con i papi Cybo e della Rovere), commercianti e cortigiani pontifici come attestano, alle soglie del Sacco, i dati della Descriptio Urbis curata da Egmont Lee nel 198529. La pressione degli alienigenae su una città che raddoppia il numero dei residenti tra gli anni di Martino V e quelli di Leone X, provoca il cosiddetto “doppio shock” demografico subito prima del Sacco e poi col nuovo afflusso di immigrati che ne consegue. Amara è l’ironia di Paolo Petrone a proposito dell’elezione di cardinali da parte da Eugenio IV nel Natale del 1437: La opera mostra quello che ène. Voi avete odito como soco passate le cose fatte et occorse per lo nostro signore papa Eugenio; per mostrarce lo suo bono amore et affetto queste quatro tiempora de Natale dello 1439, come de sopra appare, fece 17 cardinali tra li quali non ne fo nullo romano. A scrivere chi fuoro non me stienno perché alla nostra città de Roma è poco utile perché delli 17, 12 ne soco tramontani e 5 taliani, et, como havete odito, romano nullo né de tierra de Roma, sì che se po considerare quanto amore porti a romani30.
Il disprezzo dei romani per i forestieri è scolpito icasticamente nel grido di Stefano Porcari poco prima dell’arresto: «Saco saco alla robba de’ forestieri!»31. Ma la diffidenza trapela anche dalle più grigie cronache viterbesi di Francesco d’Andrea. Leggiamo il movimentato racconto dell’inganno del cardinale di Ravenna Pietro Pileo che nel 1391 aveva nottetempo imprigionato alcuni viterbesi nella chiesa di San Sisto:
27 Cfr. MODIGLIANI, Congiurare cit., p. 62. 28 La citazione in ibid., p. 76. 29 Cfr. MANCINI, Nuove prospettive cit., pp. 26-27 ed ESPOSITO, Considerazioni cit., pp.
40 e 52. 30 Petrone, Mesticanza cit., p. 43. 31 MODIGLIANI, Congiurare cit., p. 63.
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Li homini della contrada de Sancto Sixto, sentendo el romore, tutti s’armorno et tragono al romore, et comenzarsi ataccare con loro; et cusì li altri cettadini, sentendo el romore, tutti trassero chi da una strada et chi da un’altra, et combattendo cacciaro ad tuto li nimici fine alla catena dell’alberghi, gridando: «Moiano li forestieri». Nel qual loco alloggiavano dui capitani del cardenale, l’uno chiamato Tendone et l’altro Alberto Cerasolo, li quali non sapevano el tradimento del cardenale, et vedento sì facta cosa, s’accostarno coi Viterbesi li quali gridavano tutti: «Viva papa Chiomento et moiano li forestiere». La zuffa fu grande. Nel quale asalto furon morti tre de quelli del cardinale, et fu dato per terra quello che teneva el suo confalone, et tolselo uno chiamato Lario da San Marco, et dectelo ad uno che ’l portasse trascinando per la terra; e tutta via lo popolo avanzava terreno et cacciaro li furistieri in fine la porta del Sancto Sixto e ferirne gran quantità, et tutta via combattendo infine li ruppero, et fugirno fuore come gente vile. E li Viterbesi guadagnarno cento viente cavalli et molta roba. E lo cardinale fugì, che s’affunò per le mura con la fune della campana de Sancto Sixto, et tutta la robba sua fu messa ad saccomanno, che fu tanta che molti Viterbesi ne furno ricchi32.
Se i locali sono sospettosi e ostili, i forestieri come la vedono? I toscani temporaneamente romanizzati, come il Piccolomini nel 1434 o l’Alberti che narra la congiura del Porcari, hanno buon gioco a solidarizzare con la popolazione romana, appellandosi all’indulgenza di Eugenio IV e Niccolò V33. Ma è una solidarietà strumentale, volta solo ad ingraziarsi il favore degli ospiti; dietro il velo diplomatico non è difficile scorgere il noto giudizio sulla rozzezza dei romani che Alberto degli Alberti riferiva a Giovanni de’ Medici nel 1443 («breviter loquendo tutti paiono vaccari»)34; o percepire lo sghigno di scherno dei cortisciani che si burlano della parlata romanesca, registrato qualche decennio dopo da Battista Miccinello nei Nuptiali35. Il supporto ideologico di una politica papale volta a mettere ai margini le famiglie municipali, togliendo loro autonomia e responsabilità, è palese già all’epoca di Flavio Biondo. Nella Roma instaurata, concepita a sostegno di Eugenio IV, l’umanista forlivese pensava a una storiografia militante che aiutasse il papa nel governo dell’Urbe così come nel governo della Chiesa
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D’Andrea, Cronica cit., p. 113. MODIGLIANI, Congiurare cit., pp. 67 e 75. Cfr. M. MANCINI, Aspetti sociolinguistici, «Roma nel Rinascimento», (1987), pp. 3875: 54. Del resto, ancora nel decennio 1481-1492 i quartieri più esterni sono popolati da «vacari, bifulci et pastori» secondo il Pontani, Diario cit., p. 20. 35 Cfr. FARENGA, La memoria di una minoranza cit., p. 328.
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vagheggiando – nonostante l’ironia di Enea Silvio Piccolomini – un ideale di razionalità al governo fondata sugli studia humanitatis36. Gli viene naturale, dunque, bollare come factiones i gruppi di giovani romani ribelli al pontefice o come cives seditiosi i romani che rivendicavano una voce politica autonoma37. E l’ostilità appare evidente anche nella corrispondenza dei legati degli altri stati italiani valorizzate dagli studi di Paola Farenga, che descrivono la Roma di Pio II o di Paolo II come un luogo insicuro, i romani come «pericoloso populo». La medietà del valore delle cronache in volgare dipende dunque senz’altro anche dalla marginalizzazione sociale e culturale in un ambiente cosmopolita che non concedeva ai romani il ruolo cui aspiravano in virtù della cittadinanza. E la medietà sociale si riverbera inevitabilmente su quella linguistica. Ancora sul quadro sociolinguistico romano Nel corso della vicenda, relativamente breve, della smeridionalizzazione demografica della città dei Papi, la lingua cortigiana romana diviene lingua di contatto, a mano a mano che il romanesco si fiorentinizza e si trasforma in varietà disponibile solo per usi informali o espressivi. Dagli studi di Piero Trifone, Massimo Palermo e Marco Mancini è evidente che sia esistita una varietà mediana di romanesco, adatta alle scritture meno familiari; che poi a questa varietà scritta corrispondesse, già ai tempi di papa Sisto IV, una analoga varietà parlata destinata a evolversi nel cosiddetto romanesco di seconda fase è questione ancora aperta e su cui non ho nuovi dati per esprimermi38. Il punto chiave è che da questo polo espressivo non è mai maturato un ipotetico romanesco illustre, confrontabile col napoletano di Diomede Carafa o di Loise De Rosa. Anzi, nei testi degli esponenti delle classi intermedie si registra semmai la tendenza a un progressivo innalzamento del tasso di privatezza e spontaneità39 che è proprio la con36 Cfr. M.G. BLASIO, Memoria filologica e memoria politica in Biondo Flavio. Il significato della “instauratio Urbis”, in La Memoria e la Città cit., pp. 307-317: 307; R. FUBINI, Storiografia dell’umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma 2003, p. 24 e MIGLIO, Scritture cit., p. 30. 37 BLASIO, Memoria filologica cit., p. 313. 38 Secondo TRIFONE, Roma e il Lazio cit., p. 558, tutto lascia presumere che il romanesco delle scritture meno formali corrispondesse grosso modo alla parlata coeva dell’uso medio; cfr. anche M. PALERMO, Fenomeni di standardizzazione a Roma nel primo Cinquecento, «Contributi di filologia dell’Italia mediana», 5 (1991), pp. 23-52. 39 MANCINI, Nuove prospettive cit., pp. 17-18.
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dizione sociolinguistica meno adatta a favorire il consolidarsi di una varietà illustre. La progressiva marginalizzazione della lingua romana municipale è confermata dalla scelta arcaizzante dei cronisti, come il Petrone o l’Infessura40. Una simile patina anticheggiante perdura anche nell’opera, più tarda, di Marco Antonio Altieri, tiepido verso il toscanismo trionfante e i cui Baccanali sono condannati dalla doppia svolta cinquecentesca a risultare quasi incomprensibili già alla nipote Caterina Crispi, che cinquant’anni dopo il Sacco li ricopia nel manoscritto barberiniano41. Paola Farenga ha sostenuto che l’Altieri sceglie consapevolmente di scrivere in volgare e non in latino42; il volgare è dunque usato, forse, come luogo dell’autonomia e della critica al potere della corte papale, e questo spiegherebbe la scelta di differenziarlo dalla lingua dei cortigiani. Di certo il volgare è concepito come monumento del passato, da esibire alla stessa stregua di quella teoria di simboli, cerimoniali e ruderi archeologici che Altieri ricorda con nostalgia, giungendo quasi a un’indulgente rivalutazione di Paolo II, feroce repressore dei moti umanistici del Platina e di Callimaco Esperiente, ma restauratore delle feste romane oltre che ossessionato dall’ostentazione di sfarzo ed eleganza negli abiti da cerimoniale43. I cronisti romani sono insomma le voci di retroguardia di una classe consapevole della sua condanna alla medietà e alla marginalità; provo a fare un confronto facile, ma forse istruttivo. Se si prende come campione il ventennio 1494-1512, snodo epocale per la storia d’Italia e del mondo moderno, e si paragona la produzione storica di Roma e degli altri centri dell’Italia mediana con quella fiorentina, il quadro è davvero desolante44. Firenze è il laboratorio della riflessione storico-politica dell’Europa moderna e delle più mature sintesi teoriche sul ruolo del principe e del cittadino nell’azione politica; a Roma prevale la mitizzazione dell’antiquezza45, parola chiave attestata in Brunetto Latini e soprattutto – riferita a Catilina – nei Fatti di Cesare, che sfocia nell’involuzione erudita e archeo-
40 Cfr. MANCINI, Aspetti sociolinguistici cit., pp. 60-61. 41 ONOFRI, Introduzione cit., p. XIII. 42 FARENGA, La memoria di una minoranza cit., p. 324. 43 Ibid., p. 326 e BLASIO, Memoria filologica cit., p. 313; Paolo Petrone (Mesticanza cit.,
p. 34) bollava come «abbominevole» l’interruzione delle feste. 44 La prospettiva non cambierebbe se scegliessimo come campione il ventennio precedente, su cui abbiamo più fitte testimonianze, tra il Diario dell’Infessura, quello di Antonio de Vascho e il Memoriale di Paolo Dello Mastro. 45 Così il Delfino, Diario romano cit., p. 71.
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logica; domina il rimpianto per il perduto onore della città, che affiora anche nella storia del Sacco di Marcello Alberini, a suggello di un’ormai definitiva incomunicabilità tra nobili romani e pontefici46. Tutt’altro clima rispetto a quello nobilmente evocato quasi cent’anni addietro da Stefano Porcari nelle sue dicerie fiorentine, con l’elogio della «necessaria carità e benevolenza cittadinesca, quale debba essere in ciascuno verso la Repubblica sua», della «carità e amore … verso la Patria» e del «civile amore verso la propria Repubblica»47. Valori civili che appaiono totalmente alieni dalla mentalità dei cronisti romani. Manca una classe dirigente autorevole, ma manca evidentemente anche un modello di governo che non sia quello mitico della Roma repubblicana. I molti fili della narrazione Un terzo elemento di medietà va ricercato, a mio parere, nell’apparentamento delle nostre cronache alle tipologie testuali dei libri di famiglia (per quanto relativamente rari per la fase degli ultimi decenni del XV secolo, come hanno mostrato le ricerche di Anna Modigliani), degli epistolari privati, degli appunti diaristici a margine dei libri notarili. La narrazione storica moderna conosce finalmente, nel corso del XV secolo e poi nei primi anni del secolo seguente, una codificazione formale prima in latino con Leonardo Bruni, poi in italiano con Machiavelli e Guicciardini. E tuttavia resta a lungo un tessuto composito, fatto di molti fili diversi, in continuità col secolo precedente. Fili scoperti, come gli epistolari, latini e volgari, privati e diplomatici; una fonte di cui non spetta a me ribadire la centralità, tanto nella costruzione di modelli narrativi quanto nella gestione della dialettica tra competenze scritte e abilità comunicative orali. Così, nelle righe iniziali del Diario primo quattrocentesco attribuito a Gentile Delfino leggiamo – isolato frammento di un prontuario per l’oratore diplomatico – la frase lapidaria «L’homo che va ad ambasciata vole avere 4 cose: bona lengua, gran memoria, scientia, et audacia»48. Ci
46 La Roma dei primi anni del XVI secolo è «non solo de numero, ma quasi denudata de qualità de citadini» (Altieri, Nuptiali cit., p 17): dopo il Sacco, Alberini nota con rammarico che «la minor parte di questo populo sono romani», cfr. FARENGA, La memoria di una minoranza cit., p. 320. 47 Dalle Prose del giovane Buonaccorso da Montemagno inedite alcune da due codici della bibl. capitolare di Verona, ed. G.B.C. GIULIARI, Bologna 1874, pp. 14-15. 48 Delfino, Diario romano cit., p. 71.
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sono poi anche i fili nascosti, come appunto i libri di famiglia e i diari privati. Questi diversi fili si intrecciano nei nostri cronisti coinvolgendo sempre sia il registro volgare sia quello latino, dal momento che il terzo polo, cioè quello delle scritture formali, è saldamente occupato dalla varietà toscaneggiante. E vengono a confondersi nei testi redatti parte in volgare, parte in latino, come i Diari dell’Infessura o di Stefano Caffari. Scrive Maria Teresa Caciorgna: L’uso, talora intercalare, del volgare e del latino esprime con chiarezza la sperimentazione di forme espressive adeguate ai diversi aspetti e momenti: la deliberata scelta della lingua latina nelle parti, nelle quali da cronista si cimenta ad affrontare gli avvenimenti della vita cittadina e dell’ambiente di curia, fa emergere la deliberata volontà di porsi su un registro diverso. Spicca infatti la ricerca di termini ed espressioni appropriate con l’intento di raggiungere un notevole livello di qualificazione letteraria, che appare più sistematica dopo il compimento del percorso di studi del livello superiore49.
Osservo innanzitutto che l’alternanza non ha sempre chiare motivazioni logiche; inoltre, l’aspirazione a un minimo (notevole mi pare troppo generoso) di dignità stilistica coincide necessariamente con l’abbandono delle forme più segnate da tratti romaneschi. Le trame dei fili nascosti corrono nella memorialistica familiare, sempre in volgare, e nelle cronache e ricordanze destinate a riemergere, come rivoli carsici, solo quando le lotte più cruente sono ormai dimenticate, quando l’idea di Roma si trasforma da «lievito culturale» ad «accumulo erudito»50. Si spiegano così la ricomparsa e poi l’esplosione di copie dell’Anonimo Romano, ma anche del Diario dell’Infessura, e i centoni dei cronisti minori tre-quattrocenteschi nei secoli XVI e XVII e nei successivi; testi spesso sottoposti (è il caso di Dello Mastro) a una drastica espunzione delle parti dedicate alle memorie private, quasi a individuare un nuovo pubblico di lettori, come ha notato giustamente Tommaso di Carpegna51. Insomma, all’epoca della loro stesura le cronache locali conoscono una circolazione solo sotterranea, in attesa del revival cinquecentesco; al contrario, testi formalmente diversi, come le dicerie di Stefano Porcari, erano
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M.T. CACIORGNA. Prefazione a Caffari. Memorie di una famiglia cit., pp. VI-VII. Cfr. MIGLIO, Scritture cit., p. 174. Com’è noto, l’originale dell’Infessura è perduto, e restano solo copie cinquecentesche; tutti i codici del Diario di Sebastiano di Branca Tedallini sono del XVII o del XVIII secolo.
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copiati negli zibaldoni dei mercanti tanto da essere riportate anche nella Vita civile del Palmieri 52. Si ha dunque il quadro seguente: il latino è la lingua della pubblicistica filo-curiale e degli atti notarili; il volgare romanesco è la lingua dei libri di famiglia, la lingua del privato, ma anche quella dell’espressività e della ribellione; il toscano che ripudia i tratti locali è la lingua sulla quale si modellano i documenti ufficiali. La polarizzazione tra latino ciceroniano e italiano di base cancelleresca ma fortemente screziato di fiorentino, sancita dalla riforma della cancelleria pontificia di Leone X53, ha le sue premesse già nella seconda metà del XV secolo. È una polarizzazione che mette risolutamente ai margini – almeno nella scrittura formale, sottoposta a un alto grado di controllo – l’interferenza tra volgare e latino tipica delle scritture meno controllate. Un’interferenza clamorosa negli scriventi meno colti oppure, per quelli di cui abbiamo documenti in un arco temporale più esteso, nei testi giovanili, quando ancora la tecnica di scrittura professionale e la consapevolezza delle diverse tipologie testuali non si erano consolidate. Così i pochi passaggi in volgare dei manoscritti di Caffari conservati nell’Archivio capitolino sono latinizzati, mentre appare volgarizzato il latino che adotta per raccontare eventi pubblici in un contesto prevalentemente romanesco54. Forzando un po’ la mano, quello del Caffari si potrebbe definire sul piano sociolinguistico come un tipico esempio di code mixing: in un contesto di scrittura latina abbastanza formalizzata, perché destinata a documenti municipali, può apparire qualche frammento di romanesco; negli atti notarili destinati alle pratiche private, redatti in volgare cancelleresco toscaneggiante, gli inserti di cronaca degli eventi storici sono messi in rilievo dal cambio di registro, in un latino non certo ciceroniano ma avvertito – e dunque preferito – come più solenne55. La difficoltà di una caratterizzazione teorica Non voglio aggiungere altro, su questo tema, per non farmi invischiare nella selva di un dibattito non ancora del tutto sopito. Mi pare più produt52 53
Cfr. MIGLIO, Scritture cit., pp. 63-65 e TRIFONE, Roma e il Lazio cit., p. 556. Cfr. G. GUALDO - R. GUALDO, L’introduzione del volgare nella documentazione pontificia tra Leone X e Giulio III (1513-1555), Roma 2002; MANCINI, Nuove prospettive cit., p. 31 e nota 48. 54 Cfr. A. INGLETTO, Premessa, in Stefano Caffari, Memorie di una famiglia cit., p. 5. 55 Cfr. TRIFONE, Roma e il Lazio cit., p. 556.
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tivo riflettere sulla qualità narrativa dei nostri testi. La critica si è già espressa, disegnando un istogramma in cui l’Anonimo si staglia come il Gran Sasso tra i monti d’Abruzzo; anzi, in modo ancor più netto (lì c’è almeno la Maiella): cioè, di fatto, senza rivali56. Proprio così? La condanna è irrevocabile? Proviamo a rileggere alcuni di questi testi. Mancano tentativi di teorizzazione del progetto di scrittura. I testi sono giunti quasi sempre privi di proemi, di prologhi che diano conto degli intenti dei loro autori57. Questo fa già un’importante differenza formale rispetto alla ben altrimenti consapevole storiografia umanistica58. Il diario di Antonio di Pietro dello Schiavo comincia in medias res, senza alcuna riflessione introduttiva, con l’ingresso a Roma di Ladislao re di Napoli la domenica del 19 ottobre 1404. Quello di Paolo Dello Mastro ha una brevissima introduzione in cui l’autore dice “io”: Al nome sia dell’altissimo Dio e gloriosa vergine Maria e di tutti li santi della corte del cielo che ce prestino grazia che potiamo bene et onestamente vivere in questo mundo. Questo serao uno libro de memoria delle cose che occorreranno, fatto per mi Pavolo de Benedetto di Cola dello Mastro dello rione di Ponte, nell’anno 1422, a dii ultimo di novembre. Raccordo io Pavolo predetto che in nell’anno 1422 ecc.59.
Analogo l’esordio del viterbese Niccolò (o Nicola) della Tuccia60:
56 Non considero, dato il diverso genere prescelto dall’autore, il poema di Buccio di Ranallo, unico vero documento culturale e letterario avvicinabile alla Cronica; secco è il giudizio di P. D’Achille, secondo cui l’eredità dell’Anonimo Romano «non viene raccolta né sul piano letterario, né su quello linguistico», cfr. D’ACHILLE, Il Lazio, in I dialetti italiani cit., pp. 515-567: 554. Sul romanesco duecentesco e sull’Anonimo Romano si vedano ora gli importanti interventi di V. FORMENTIN: Contributo alla conoscenza del volgare di Roma intorno al secolo XIII, «Studi di Grammatica Italiana», 31-32 (2012-2013), pp. 1-129 e FORMENTIN, Un nuovo testo per la storia del romanesco medievale, in Vicende storiche della lingua di Roma, cur. M. LOPORCARO - V. FARAONI - P.A. DI PRETORO, Alessandria 2012, pp. 29-78. 57 Il fatto è noto per le cronache romane; per le cronache viterbesi cfr. MIGLIO, Cronisti viterbesi del secolo XV cit., p. 73b. 58 Cfr. almeno FUBINI, Storiografia dell’umanesimo in Italia cit., in particolare Gli storici nei nascenti stati regionali d’Italia, pp. 3-38; a proposito della consapevolezza storiografica del Platina, cfr. un aggiornamento recente in C. DI FRUSCIA, Platina scrittore di storia: le fonti e l’edizione del Guida, in Roma e il papato nel Medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio, II, Primi e tardi umanesimi: uomini, immagini, testi, cur. A. Modigliani, Roma 2012, pp. 157-166: 160. 59 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 85. 60 Insieme all’articolo di M. Miglio più su ricordato, cfr. G. LOMBARDI, Cronache e libri di famiglia cit. e LOMBARDI, Prefazione, in Francesco D’Andrea, Cronica cit., pp. VII-XCIX.
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Scriverò quello ho veduto io: se non dichiarerò le cagioni e come sono andate tutte le cose, non vi meravigliate, ché non voglio calunniare nessuno di tradimenti e di cose malfatte, acciò nessuno si possa lamentar di me. solo dirò le cose palese, acciò che voi leggendo, pigliate esempio per l’avvenire61.
Sul piano della narrazione e della riflessione politica Stefano Infessura, oltre a manifestare violentemente il proprio astio verso Sisto IV, ha qualche scorcio felice e alcuni spunti di analisi sociale. Anche Petrone, pur se dal versante opposto, è piuttosto esplicito nel giudizio politico62. Paolo Dello Mastro è tanto mediocre nello stile quanto cauto nei giudizi. Antonio de Vascho è altrettanto prudente e faticosamente ripetitivo; solo qua e là, nelle cronache del triennio 1484-86, la narrazione si fa un po’ più vivace. Le ambizioni narrative degli altri o non ci sono affatto, quando non sono di natura formulare, come i nota, require, scias, vide, scribe, recurre, che ricorrono nei Diari del Caffari. O peggio appaiono maldestre e patetiche, come in Niccolò della Tuccia, quando tenta di mimetizzare la copia pedissequa da altre cronache dietro il proprio ego narrante63. Anche la sintassi, che nell’Anonimo risente in modo consapevole e originale dei modelli della storiografia classica, risulta nella maggior parte dei casi piatta, paratattica per lo più, e noiosamente ripetitiva. Si veda il seguente passaggio dal Diario di Gentile Delfino, dove tipico delle ricordanze familiari è il brusco scarto temporale e il trascorrere – senza soluzione di continuità – da un fatto di portata culturale nazionale (ma con la chiusura conviviale offerta da Stefano Colonna) a un episodio di cronaca strettamente locale: In nelli 1341 fo laureato ms. Francesco Petrarca esaminato per lo re Roberto in presenza dello puopolo di Roma, et foroli posta una corona in capo per lode delli poeti, et ms. Stefano in Santo Apostolo dé a magnare a esso et a tutti li laureati senatori.
Oltre alla cronaca di Viterbo dalle origini del mondo fino al 1476, Niccolò aveva scritto in volgare anche una seconda cronaca, estesa a tutta la storia d’Italia dall’età di Martino V fino al 1468, sempre pubblicata nel volume di I. Ciampi citato sopra alla nota 2. 61 Niccolò della Tuccia, Cronache di Viterbo e di altre città cit., p. 5. 62 Ricordiamo la sua invettiva contro l’«antiqua maledetta casa Colonna», in Mesticanza cit., p. 26. 63 Cfr. G. LOMBARDI, Prefazione, in D’Andrea, Cronica cit., p. IX, nota 5.
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In nello 1388 fo una piene de acqua che impienao tutti li rioni di Roma salvo lo rione delli Monti Trieco et Campitello, et durao doi dì e una notte64.
Quanto diversa la memorabile descrizione della piena del Tevere nell’Anonimo Romano! Granne circuito avemo fatto, moiti tiempo simo iti spierti, moito paiese stranio avemo cercato. Cercato avemo la Lommardia e lla Spagna, la Turchia e lla Francia. Ora ène anche tiempo convenevole de tornare a casa. Tornemo in Italia, tornemo alle magnifiche e inaudite novitate le quali per noviello haco tutta Italia cercata. Diceremo in prima dello granne diluvio lo quale fu in Roma. Mai tanta acqua non abunnao nello Tevere, mai non passao lo Tevere sì pessimamente suoi tiermini, mai tanto danno non fece [...]. Tutta la state passata operze Dio le cataratte dello cielo e mannao acqua spessa e foita, non granne. Ma puoi nello autunno, recolte le uve, comenzanno dalla festa de Onniasanti, parze che le fontane dello abisso fussino operte per vomicare acqua. […] Tutta la pianura de Roma nota. Soli sette colli se pareno non occupati dalla acqua65.
La prosa di Delfino, tendenzialmente coordinativa, diventa estremamente faticosa quando cerca – in genere senza successo – di sviluppare una più ampia articolazione di piani e prospettive. Analoga impressione di impaccio testuale si ha nella lettura di questo estratto dal Diario dell’Infessura: Et anco nello ditto dì accascò a Roma che un pittore iovane, che aveva lo patre et habitava al Monte Iordano, pense in una carta di coro grande la terra de Cave66, come et in che modo stava fatta; et pense li padiglioni et le tende et lo campo della Ecclesia, in che loco stava posato. Insuper vi pense le pombarde in che modo havevano pombardiato et tutti dì bombardavano, et anche lo signore Antonello colli soi compagni in che modo davano battaglia et facevano preda; et tra le altre cose vi pense, mentre che lo conte Hieronimo attendeva ad queste battaglie, una femina che stava presente in quel campo, se faceva lavorare ad uno frate di santo Francesco. la quale pittura venendo ad notitia allo papa per voler vedere
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Cfr. Delfino, Diario romano cit., p. 75. Cfr. Anonimo romano, Cronica, cap. XV, pp. 135-136; Giuseppe Porta, in questi Atti, ha rammentato anche il tono epico della descrizione dell’alluvione di Firenze del 1333 in Ricordano Malispini. 66 Siamo nella valle del Sacco, vicino a Segni, teatro delle battaglie tra Sisto IV, i Colonna, i Savelli e i Della Valle.
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le cose come passavano, et in che partito stava Cave et lo campo, et mandò per questa carta et viddela, et piacqueli lo disegno; ma poi che vidde che nello combattere quelli della Ecclesia erano sempre perditori, et che lo signore Antonello et li altri se mostravano così gagliardi, et quelli della ecclesia sempre perdere, se torbò in sè medesimo. alcuni dicono che se torbò perché vidde quell’atto vituperoso della femina et di quello frate, che la lavorava; et stimando quello fosse esser fatto per la moglie del Conte, incontinente commandò che quello pittore fosse pigliato et impresonato et datoli dieci tratti de corda, et depò la mattina seguente fosse impiccato, et la casa soa fosse messa ad sacco, / et così fu fatto, eccetto che non fosse impiccato, perché fu scusato per pazzo67.
Vi sono poi strutture nelle quali l’occhio del linguista coglie echi del parlato, non rispondenti però a una cosciente strategia di vivacizzazione, ma del tutto irriflessi. Anche qui solo qualche esempio: prima un tema sospeso con ripresa del deittico nel testo di Gentile Delfino, poi una classica paraipotassi in quello di Paolo Dello Mastro, a proposito del giubileo del 1450: La porta de Santo Ianni, che se chiama la porta santa, ve entrao santo Silvestro quando comenczao quella chiesa68. Passato questo tiempo tornando lo papa in Roma, e lla gente cominciò a rrevenire, et venne tanta la gente che in Roma non se potea stare [...] remaneano a dormire per le banche morti de freddo che era un pecchato69.
Scorci di narrativa piacevole si possono incontrare anche nei cronisti minori. Il racconto del giubileo è meno ripetitivo e faticoso di altre sezioni del Diario. Si legga quest’altro stralcio: la gente abunnava tanto che affamava Roma. E con tutte queste cose non bastava, che ogni domenica se voitava Roma della gente che se ne annava, e llo sabato seguente era pieno ogni cosa che non ze ce capea: se tu annavi a Santo Pietro, tu non potevi ire per le strade per la molta gente, e così a Santo Pavolo tutto pieno, a Santo Ianni pieno, a Madonna pieno, per Roma pieno che non ce potea annare; e quanno lo papa facea la bene-
67 Infessura, Diario cit., pp. 147-148; a p. 138 si legge un interessante esempio di periodo lungo e contorto, più di 15 righe, dove il soggetto (il papa) è seguito da varie gerundiali che a loro volta reggono altre dipendenti, ed è poi ripreso solo verso la fine. 68 Delfino, Diario romano cit., p. 73. 69 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 94.
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dittione era piena la piazza e Santo Pietro e llo Monte de Nerone, cioè Palazola, e lle vignie; e per tutto da qualunque luoco se vedea la ditta loia, et ultra hoc erano più quelli che nollo vedeano che quelli che lo vedeano lo papa; e questo durao per infino a Natale. Et essendo a dii 18 de decembre, uno sabato alle 23, acade la maiure fortuna che mai fosse udita nominare, che tornanno la gente da San Pietro, che lo papa avea fatto mostrare lo Volto Santo, per la molta gente che v’era, acciocchè la domenica seguente fatta la benedittione se potessero annare con Dio, alla tornata de Santo Pietro fo tamanta la infrontaglia a mezo la salita dello ponte / per infino a sei passi sopra lo ponte, che ce moriero cento settantadue anime, che tutti furno affocati dalla folla, e morieroce quattro cavalli et una mula, e tutti stavano in terra muorti, e tuttavia ce ne cascava più;
interviene lo stesso autore insieme al caporione di Ponte facendo chiudere l’ingresso al ponte: «ammontonamolli de qua e de là de la via e così facemmo sfollare la gente». L’episodio si chiude, non saprei dire se cinicamente o pragmaticamente, con queste parole: La condicione dello giubileo fu questa, che nello principio e nella fine fu fatto assai bene, l’arti che fero assai denari fuoro questi, cioè la prima di banchieri e lli speziali e pentori di Volto Sancto, questi gran tesoro; appresso osterie e taverne, massime chi lle fece per le strade, de fuori overo in piazza de Santo Pietro e di Santo Ianni, e tutti l’arti fecero assai bene70.
Come avviene nei libri di famiglia o nell’annalistica non rivista dall’autore, i fatti si susseguono senza un piano cronologico ordinato71. Così, nei Diari del Caffari è impossibile ravvisare una linea progettuale, nonostante la presenza di espressioni che indicano rinvii interni e spazi appositamente lasciati bianchi, e nonostante la frequenza di richiami a documenti in possesso della famiglia: alio libro, antico cartabulo, manuale, cartolato ovvero filza o degli interlocutori economici: lo iornale de Andrea, lo cartolato de Antonisci72. Rari, e legati apparentemente più alla memoria occasionale del narratore che a una strategia consapevole, i rinvii intratestuali: 70 Ibid., pp. 94-95; infrontaglia ‘mischia’ è forma diffusa nell’area mediana, attestata dal Grande dizionario della lingua italiana in Jacopone; si osservi che sfollare sempre nel Grande dizionario della lingua italiana è attestato solo dal XVII secolo, in Daniello Bartoli. 71 Cfr. anche le considerazioni di Massimo Miglio a proposito del Delfino (Scritture cit., p. 68). 72 I primi esempi sono tratti dai testi conservati presso l’Archivio Capitolino, gli altri da quelli dell’Archivio di Stato di Roma, SS. Annunziata, cfr. INGLETTO, Premessa cit., pp. 3-4.
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Questo li fu fatto perché levao rumore in Roma, quando li Romani gridaro: viva la puopolo e la libertà, come aio scritto qua reti73.
Tra tutti, il più attento all’architettura testuale appare il Petrone, che a proposito del ritorno a Roma di Eugenio IV scrive: Sabato a dii 28 de settembre lo papa Eugenio, lo quale fuggio de Roma de venerdì a / dii 4 iugno 1434, secondo trovete scritto a carte 15 del presente livro74.
e che inserisce spesso riferimenti ad altre parti del testo: «Se havete lietto poco denanti»; «io me recordo ve promessi notificarve quello che dello campo contra Civita Nevina sequiva»; «[…] Io ve promissi de scrivere et raccontare […] Perciò io ve voglio dare quello che ve haiio promesso»75. I rinvii sono soprattutto anaforici, ma non mancano quelli cataforici: «Quello che ne sequirà, lo scriveraio di sotto»; «[…] Quello che ne sequirane vello notificaraiio»76; o anche quelli a future scritture: Come fo preso lo re de Ragona et tutti li aitri, secondo che a carte 23 havete credo lietto, avenne che fuoro mannati a Genova et allo duca de Milano signore de Genova; per la quale cosa onne persona sperava che lo duca li facesse morire e molto gravemente rescoterli. Et perché cuorvo a cuorvo non se cacciano li vuocchi, lo ditto duca como magnanimo li liberao tutti quanti e fece a loro moito granne honore e doni, e vorria che tanto valesse / lo mio quanto costò allo duca l’andata de quelli signori, et inter alia fece con loro bona pace e concordia, per la qual cosa lo ditto duca se ne perdio pochi dì dapoi Genova. Como lo raquistarà credo che li sarrà faticha, e se lo racquista lo scriveremo77.
Poiché i Diari di Stefano Infessura, e – a maggior ragione – quelli del Caffari, scontano inevitabilmente l’alternanza del doppio registro latinovolgare, la Mesticanza appare sempre più l’unico testo in grado di competere, per quanto debolmente, con la Cronica dell’Anonimo romano. Forse
73 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 88; il fatto narrato è l’impiccagione di Ponzilletto, cui si riferisce il pronome li. 74 Petrone, Mesticanza cit., pp. 49-50. 75 Ibid., pp. 28 e 29. 76 Ibid., pp. 27 e 29. 77 Ibid., pp. 21-22.
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anche per la vena ironica di autocommento che permea la narrazione e di cui, in conclusione, riporto due esempi: De cosa che non la vorria scrivere ma per mostrare la cattività d’alcuno la scrivo (16 maggio 1434). Madimane a dì 16 de maiio, che fo de lunedì, fo bandito per la nostra abbandonata città come erano levate le offese in fra la Chiesia et suoi fideli de una parte, et lo conte Antonio sopraditto et suoi sequaci, dalla altra parte; la quale dura per fi a 12 dii de agosto. […] Sacciate mo come posseno gir li fatti nuostri che un frate dice essernce amico et l’aitro ncè nemico, ma io credo che più nemico ncera quello che mostrava essernce amico che lo inimico. Haiolo voluto scrivere, perché onni persona se aguardi da quelli de campagna che uno te sforza et uno te inganna o te ioca con mala magagna et non sia chi se fidi de loro78.
Per tirare le somme, nessuno degli scriventi attivi a Roma e nelle regioni limitrofe riesce a realizzare, non dico la letterarizzazione dei propri ricordi e delle testimonianze raccolte da altre fonti dell’Anonimo, ma nemmeno un progetto solido e coerente di narrazione storica. Nella Roma e più in generale nell’Italia mediana del XV secolo, mancano testi che si possano avvicinare per stile o per qualità della lingua alle Istorie fiorentine di Giovanni Cavalcanti o ai Ricordi di Piero di Marco Parenti, o che si cimentino in commenti, magari ingenui, ma almeno un po’ meno prevedibili, come avviene in alcuni spunti di Bartolomeo Cerretani. Testi e immagini. Feste, risse, congiure, incendi e impiccagioni In un contesto culturale e di narrazione storica che vede incrociarsi e sovrapporsi le voci della più raffinata prosa ciceroniana e quelle dei rustici cronisti in volgare non possiamo fare a meno di chiederci di come leggevano la storia gli analfabeti e i semialfabeti. A narrare i fatti più rilevanti era il “visibile parlare” di simboli, affreschi e sculture, stemmi e insegne nobiliari, colori di bandiere e vessilli, con l’insieme stesso del tessuto urbanistico79. Significativo è poi il ruolo simbolico rivestito dall’abbigliamento e dagli apparati delle feste. 78 79
Ibid., pp. 14-15. Per gli stemmi, con riverberi dal Villani illustrato, si ricordino quelli descritti nel Pecorone di ser Giovanni fiorentino, cfr. Miglio, Scritture cit., pp. 40-41. Non solo i novellieri, ma anche i cronisti annotano le ragioni dei colori e dei simboli: il prefetto di Vico «fo
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Quanto al primo punto, registro almeno il «tabarro de vile panno» e il saio da fraticello «dell’ordine de santo Pavolo» con cui, rispettivamente, Cola di Rienzo nella narrazione dell’Anonimo e poi papa Eugenio IV in quella dell’Infessura e di Dello Mastro cercano di sfuggire all’assalto del popolo80. Entrambi vanno incontro a una brutta fine: tragica quella del tribuno; meno cruenta, ma più ridicola, quella del papa, che è scoperto e inseguito dai Romani che lo «incalzaro per infino ad Huostia, remittendolo sempre a latroni et a busciaroni»81. Si ricordi poi il puntiglioso elenco dei 92 cittadini per cui, come ricorda il Petrone, furono fatti dei vestimenti «de seta de belli velluti de cremosi et azzurrini e damaschili con iuppetti de simili alli vestiti et l’aitri de pavonazzo, como havete liesso»82. Quanto al secondo punto, ricordo la sontuosa cena che secondo alcune fonti Stefano Porcari fece allestire a casa sua il 4 gennaio 1453, presentandosi ai suoi compagni di congiura elegantemente vestito in broccato e oro, con una caratterizzazione regia e imperiale, peraltro funzionale alla lettura di un cronista interessato a smentire lo spirito genuinamente repubblicano della congiura83. Non dimentico la precisa annotazione dei cerimoniali di nozze che dalle cronache della prima metà del XV secolo arriva fino ai plumbei84 Nuptiali dell’Altieri e in generale la serie dei festeggiamenti, tradizionali e periodici come le feste di Testaccio, oppure occasionali85. Qui la liturgia e i gesti dei personaggi coinvolti possono essere descritti anche in modo abbastanza dettagliato: il 7 aprile 1433 Sigismondo di Lussemburgo (Gismondo nel testo) arriva a Roma dove di lì a poco (il 31 maggio, giorno di Pentecoste) sarà incoronato imperatore da Eugenio IV: e folli facto molto honore: cioè che fu messo sotto palio d’oro coll’arme della Ecclesia e dello puopolo e l’arma soa, e iocavoli innanti li iocatori di Testaccio e molti altri colle facole colle parme d’olivo; e venneli ’ncontro lo confalone dello puopolo de Roma e fu adestrato dalli conservatori e caporioni e molti altri principi di Roma per infino alle scale de Sancto de casa de Cesari, e porta l’arma de Cesari: l’aquila bianca in campo rosso, et portaci gli panni bianchi, perché Roma li dava onni die uno pane per forno, et uno petito de vino per taverna, et onne die una testa de bestia de castrato» (Delfino, Diario romano cit., p. 74). 80 Anonimo romano, Cronica, cap. XXVII, p. 260; Dello Mastro, Memoriale cit., p. 87 (siamo al 14 giugno o al 14 luglio del 1434), cfr. MODIGLIANI, Congiurare cit., p. 76 nota 145; Eugenio IV «abitava in Tristevere» sempre secondo Dello Mastro, Memoriale cit., p. 86. 81 Ibid., p. 87. 82 Petrone, Mesticanza cit.: citazione a p. 57, elenco alle pp. 53-57. 83 Cfr. MODIGLIANI, Congiurare cit., p. 39. 84 Riprendo l’aggettivo da TRIFONE, Roma e il Lazio cit., p. 575. 85 Cfr. MIGLIO, Scritture cit. pp. 46-47, che cita dai Diari del Caffari.
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Pietro; e là trovao lo papa Eugenio quarto colla sede parato, e pigliarosi per la mano e gero allo altare granne de Sancto Pietro e là odiero una messa, e poi se ne vennero insiemi dalla nave dello Sodario, e là li forno posti doi scandetti con doi capiteli dove se inginocchiorno, e folli mostrato lo Sodario benedetto86.
Manca solo la liturgia dell’osculum pacis con cui si concludevano almeno dal XIII secolo i rituali di pacificazione87. Infine, alla cerimonia di incoronazione l’imperatore è portato «pesoli» fino ai piedi della scalinata di S. Pietro88. Prevedibile quanto colorito da immagini di crudo realismo è il gusto per la narrazione di episodi violenti. Nel Pecorone, ser Giovanni Fiorentino descrive l’episodio dello sfortunato amore di Clarice Orsini per Rinaldo; l’uomo è preso in trappola durante la solita cena, picchiato a morte e appeso a una croce, e ogni notte la donna è legata al suo cadavere89. Ecco il momento della cattura, dove annoto l’avverbio gramaticamente, cioè ‘rispettando le regole della cortesia’: fu una bella zuffa dandoci insieme di questi bastoni, però tra quelli ch’erano a tavola, sentendosi dare da buon senno, si volsono gramaticamente dando a chi dava loro.
Immagini forti troviamo nell’Infessura che descrive l’impiccagione del Porcari, o in Dello Mastro e nel Petrone a proposito di quella, meno sanguinolenta, di Poncello di Pietro Veneranieri, detto Ponzilletto, il 10 settembre 143690. Ancora Dello Mastro ricorda che a Stefano Colonna, sconfitto all’indomani dell’elezione di Eugenio IV, «fulli sbudellato lo cavallo sotto»91. Roma insomma è spesso rappresentata come il teatro di omicidi, violenze quasi bestiali (il grido di incitamento alla lotta è «carne, carne!»92),
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Dello Mastro, Memoriale cit., p. 86. MIGLIO (Scritture cit. p. 47 e nota 46) ricorda la descrizione fornita dall’Anonimo Romano: «Allora se basavano in vocca, e lo offeso dava integra pace» (Cronica cit., p. 159). 88 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 86; si noti che la locuzione portare pesoli ‘di peso’ è attestata per la prima volta nelle Miracole de Roma (Grande dizionario della lingua italiana). 89 MIGLIO, Scritture cit., p. 43. 90 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 88; per lo stesso episodio cfr. anche Infessura, Diario cit., p. 24 e Petrone, Mesticanza cit., p. 32. 91 Dello Mastro, ibid., p. 86. 92 Cfr. MIGLIO, Scritture cit., p. 153.
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furti e malefatte di ogni genere. Ben presto si diffonde il topos per cui in certe ore del giorno e soprattutto della notte non si poteva circolare in città93. È chiaro che il quadro muta, anche radicalmente, a seconda dei punti di vista: le angherie dei Colonna sono enumerate nel diario del Tedallini, ma è soprattutto l’Infessura a scrivere che in Roma loro casa era un ridutto de latroncelli e per il paese di Treio e per la parte de Monti quando era sonata meza hora di nocte si robbava senza remissione94.
Dello Mastro, più tenero con Martino V, scrive invece che «tenne uno quieto e tranquillo stato che se annava con l’auro in mano attorno a Roma a duiciento millia de notte e de die sicuro»95. Vivida e tesa è la scena descritta in prima persona da Antonio de Vascho: L’altro dì che fu poi dopo questo detto, io di mezo giorno, riposando in letto e dormendo vestito con la spada al lato, sopragiunse uno vicino e chiamatome mi rizzai, e disse che erano venuti lì detti fanti Savelleschi a mettere a sacco come havevano fatto il dì passato; dove che levato su, me inviai verso li detti fanti quali stavano con le balestre cariche, et perché io ero in giubone me assettai con buone parole ad humanirli, che non tornassero più in detto / rione, che gli sarà fatto dispiacere. Et li detti fanti di continuo caminavano verso piazza Giudea da casa delli Santa Croce, usando verso di noi brutte parole, et voltando sempre le balestre contro di noi, finché ci conducessemo a Santa Maria Cacchabari96. Di continuo li eramo dietro plano passu; quando hebbero passata detta Santa Maria noi gli stringessimo li panni e li passi, cominciando a gridare «viva la Chiesa» et alcuni di quelli erano meco gridarono «orso, orso» 97.
E le minacce di violenza erano moneta corrente negli ambienti di corte, come testimonia in più occasioni l’Infessura: Insuper, ho inteso da uno fidedignissimo homo che lo conte Hieronimo in presentia de molti cardinali et in cospetto dello pontefice ha ditto molte exorbitantie et minacciose parole al vicecancellieri, et
93 Cfr. anche P. FARENGA, “I romani sono periculoso populo…”. Roma nei carteggi diplomatici, in Roma Capitale cit., pp. 289-316. 94 Miglio, Scritture cit., p. 153. 95 Dello Mastro, Memoriale cit., p. 85. 96 Nel rione Regola, detta così dai lavoratori dei caccabi, cioè i calderai. 97 Antonio de Vascho, Diario cit., pp. 515-516.
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potissimo li ha ditto: «io te infocarò in casa toa». Et dall’hora in po’ lo vicecancellieri nella soa casa si è ben guardato, et remurato certe porte et fornitosi d’arme in casa soa98.
Ma appunto di un topos si tratta: la violenza di strada non è un’esclusiva della Roma pontificia e burina; Sebastiano di Branca Tedallini descrive con efficacia l’efferato quanto fulmineo omicidio del vescovo di Pavia Francesco Alidosi da parte di Francesco della Rovere nel maggio del 1511: se incontravo insieme, con lo duca d’Urbino, nepote de papa Iuliio 2°, nella piazza de Ravenna; lo duca, come lo vidde, li andò adosso con un pugnale et dèlli de molte ferite, et poi lo fece ammazzare dalli servitori suoi; et fu adì 26 de maggio 1511. Et lo papa, quando sappe la novella, se partine da Ravenna et gine a Rimini; per fino là non volse magnare per lo gran dolore che habbe della morte de Pavia; era stato cammoriero suo et sapeva tutti li secreti suoi, de papa Iulio99.
Conclusioni La doppia – o forse plurima – debolezza dei cronisti romani non va però idealizzata e mitizzata finalisticamente per giustificare un ceto che sembra compiacersi del ruolo di vittima delle bizze dei pontefici e dei soprusi dei forestieri. La diffusa e ritornante insofferenza verso il potere ecclesiastico caratterizza la storia dei romani già nel XIV secolo100 e poi – dopo che i papi riprendono progressivamente in mano il potere – fino al Belli e oltre. È una protesta quasi rituale, che si ripropone ad ogni sede vacante per riversarsi nelle petizioni di grazia del Comune al collegio dei cardinali101. Ma è soprattutto il mugugno di una classe sociale tutto sommato condiscendente, che alla fine riesce a scavarsi una comoda nicchia nella Roma papalina, barattando la rinuncia agli antichi privilegi di libertà e autonomia con la concessione di incarichi e uffici102. Anna Esposito ha sottolineato come sia
98 Infessura, Diario cit., p. 137; Hieronimo è il savonese Girolamo Riario, nipote del papa e raffigurato nel quadro di Melozzo che ritrae anche il Platina. 99 Branca Tedallini, Diario romano cit., p. 321. 100 Con le pretese dei cavallerotti ricordate da Matteo Villani e poi dall’Anonimo e ancora da Giovanni Fiorentino nel Pecorone del 1385. 101 Cfr. ONOFRI, Introduzione cit., p. XI e nota 7. 102 MIGLIO, Scritture cit., p. 171.
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anche responsabilità della generazione che matura nei primi decenni del XV secolo la tensione a un innalzamento del prestigio sociale che trasformerà i mercanti-bovattieri di un tempo in funzionari di curia, notai, giureconsulti e avvocati concistoriali (questi ultimi al riparo anche dai rivolgimenti politici connessi ai cambi di potere al vertice)103. Così, col passare del tempo, si forma un ceto fortemente ibridato: all’inizio del XVI secolo, dopo che i cavallerotti sono diventati nobiles viri o gentiluomini, le alleanze matrimoniali hanno ormai confuso i discendenti dei mercanti con quelli delle famiglie più illustri104. E del resto Massimo Miglio – pur ammonendoci a distinguere sempre tra la curia e la corte pontificia – ha spesso sottolineato come gli autori delle cronache romane in volgare, quasi tutti giuristi di prestigio più o meno elevato, siano i fedeli testimoni di un’osmosi tra cultura municipale e cultura curiale. Curiali e cortigiani romani mantengono sempre saldi i legami di fondo col loro contesto sociale e fissano un tipo di curiale e di nobile locale che ostenta la propria romanità come elemento distintivo rispetto all’ambiente di corte, non romano, non municipale e ancora a lungo intriso di elementi internazionali, pur se in misura progressivamente minore rispetto agli splendori rinascimentali105.
103 Cfr. i contributi di Isa LORI SANFILIPPO sulla storia del notariato romano (da ultimo
Constitutiones et reformationes del Collegio dei notai di Roma (1446). Contributi per una storia del notariato romano dal XIII al XV secolo, Roma 2007) ed ESPOSITO, “Li nobili huomini di Roma” cit., pp. 375-379. 104 FARENGA, La memoria di una minoranza cit., p. 321. 105 MIGLIO, Scritture cit., p. 53; non dimentichiamo che nel ruolo della corte di Leone X studiato da Pierre Hurtubise i romani erano 3 o 4 su 700, cfr. ESPOSITO, Considerazioni cit., p. 47 e anche MIGLIO, Scritture cit., pp. 35-36.
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toMMAso dI CArPeGnA FAlConIerI note sullA CronAChIstICA In VolGAre A roMA
in memoria di Gilmo Arnaldi
I testi di età medievale composti a roma in lingua volgare che, noti e pubblicati fino ad oggi, siamo soliti considerare cronache o registrazioni di ricordi, sono (che io sappia) solamente una decina. Il testo più antico è la cronaca di Anonimo romano (relativa agli anni 1325-1360); seguono il diario attribuito a Gentile delfino (1370-1410), la Mesticanza di Paolo di lello Petrone (1434-1447), le memorie di stefano Caffari (1423-1477, parte in latino e parte in volgare), il memoriale di Paolo dello Mastro (1422-1484), i diari di Gaspare Pontani (1481-1492), di stefano Infessura (1303-1492, parte in latino e parte in volgare), di Antonio de Vascho (1480-1492), di sebastiano di Branca tedallini (1484-1524), e le poche pagine di ricordi di evangelista de Bistuciis (1492-1500)1. 1 Anonimo romano, Cronica, ed. G. PortA, Milano 1979; Il diario attribuito a Gentile Delfino, ed. F. IsoldI, in r.I.s.2, 24/2, Città di Castello 1910-1912, pp. 67-79; Paolo di lello Petrone, La Mesticanza: 18 agosto 1434-6 marzo 1447, ed. F. IsoldI, ivi, pp. 1-63; A. IGletto - s. sAntI, Stefano Caffari. Memorie di una famiglia della Roma del Quattrocento, roma 2009 (Miscellanea della società romana di storia patria, 54); Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro, Il “Memoriale”, ed. F. IsoldI, in r.I.s.2, 24/2 cit., pp. 85-100; Gaspare Pontani, Diario romano: 30 gennaio 1481-25 luglio 1492, ed. d. tonI, in r.I.s.2, 3/2, Città di Castello 1907-1908, pp. 3-71; stefano Infessura, Diario della città di Roma, ed. o. toMMAsInI, roma 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 5); Antonio de Vascho, Diario della città di Roma dall’anno 1480 all’anno 1492, ed. G. ChIesA, in r.I.s.2, 23/3, Città di Castello 1904-1911, pp. 447-599; sebastiano di Branca tedallini, Diario romano dal 3 maggio 1485 al 6 giugno 1524, ed. P. PICColoMInI, in r.I.s.2, 23/3 cit., pp. 231-445; A. ModIGlIAnI, «Faccio recordo io Evangelista…»: memorie di un notaio romano alla fine del Quattrocento, in Roma donne libri tra Medioevo e Rinascimento. In ricordo di Pino Lombardi, roma 2003 (rr inedita, saggi, 32), pp. 217-257. Per un inquadramento delle testimonianze romane in volgare fra tre e Quattrocento si veda P. d’AChIlle-C. GIoVAnArdI, La letteratura volgare e i dialetti di Roma e del Lazio. Bibliografia dei testi e degli studi. I. Dalle origini al 1550,
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Questi testi non sono solamente radi e tardi; fra di essi, solo la Cronica di Anonimo, la Mesticanza di Paolo di lello e il Diario dell’Infessura denotano una volontà di destinare l’opera al pubblico. Prima di proporre una loro breve descrizione e di ragionare sulla loro natura prevalente, quella di essere testi composti per registrare la memoria personale e familiare, avverto la necessità di riflettere su un tema di fondo che emerge proprio da queste considerazioni iniziali: il fatto, cioè, che nella roma medievale la storiografia – latina o volgare che sia – è poco presente2. Ci si può avvicinare a questo tema scontornandolo, facendolo emergere cioè da un contesto che ci racconta una realtà peculiare, la quale riguarda la costruzione della rappresentazione dell’urbe e della sua storia attraverso i testi. Perché quasi non esiste traccia di cronache romane medievali? Perché roma è così diversa poniamo da Firenze o Bologna? ricordiamo che a parte il Liber pontificalis e poco altro, a roma non abbiamo quasi traccia di storiografia fino al trecento, e la stessa Cronica di Anonimo, tradita solo attraverso codici di età moderna, è isolata e rappresenta un’eccezione. dato che a roma manca anche l’archivio comunale di età medievale, possiamo ipotizzare una frattura nella trasmissione della memoria, dovuta in gran parte al sacco del 1527; possiamo cioè immaginare che cronache medievali fossero esistite e che siano però scomparse. non solo. A roma la memoria cittadina passa spesso attraverso la memoria pontificia: città e papato si intersecano continuamente anche da questo punto di vista. Il Liber pontificalis, nella sua parte altomedievale, è una cronaca profondamente cittadina, opera del suo clero, che talvolta mostra prospettive proprie rispetto a quelle del papa3. I lacerti di Annales Romani dell’XI e del primo XII secolo, gli roma 1984; per le fonti qui presentate si faccia riferimento soprattutto ad A. ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti in volgare: il caso di Roma. Memorie cittadine e familiari, in Storia della lingua e storia. Atti del secondo Convegno AslI, cur. G. AlFIerI, Firenze 2003, pp. 223-253. Alle pp. 247-248 l’autrice riferisce anche delle Recordanze inedite di Pietro Caffarelli e di un testo miscellaneo di evangelista Maddaleni Capodiferro edito solo parzialmente, entrambi del XV secolo. 2 Cfr. analogamente A. ModIGlIAnI, Archivi familiari e storia di famiglie della municipalità romana nel basso medioevo: memoria e rimozione, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. MAzzon, roma 2008 (nuovi studi storici, 76), pp. 669-683: pp. 674-676 (anche per il tema della volontaria damnatio memoriae della precedente attività mercantile da parte di famiglie che avevano raggiunto lo status aristocratico); I. BonInContro, Le descrizioni di Roma dal XIII all’inizio del XV secolo. Un archivio testuale on-line, roma 2012, pp. 39-40; M. CAMPAnellI, The Anonimo Romano at his Desk: Recounting the Battle of Crécy in Fourteenth-Century Italy, «the Medieval Chronicle», 9 (2014), pp. 33-67: 33. 3 l. CAPo, Il Liber pontificalis, i Longobardi e la nascita del dominio territoriale della Chiesa romana, spoleto 2009, pp. 99-108.
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unici che si sono conservati, appaiono stralci di cronache cittadine scritte da chierici romani prossimi alla fazione imperiale4. Allo stesso modo, la parte del Liber pontificalis redatta da Pandolfo diacono nei primi decenni del XII secolo5 e i Gesta Innocentii III del principio del secolo successivo6, sono, almeno parzialmente, cronache cittadine: tanto che, per esempio, proprio nei Gesta si ritrova l’efficace descrizione di una guerra fra famiglie, con le loro torri7. si potrebbe arrivare a pensare che, almeno fino a un certo periodo, la storiografia di matrice pontificia abbia racchiuso in sé tutto l’orizzonte storiografico cittadino. Questa suggestione (che va ancora ponderata) non è peraltro sufficiente a spiegare le singolarità di roma. Il fatto è che la città intesse con il proprio passato una relazione sui generis, ed è proprio questo che rende la cronachistica un rivolo marginale. la memoria romana passa attraverso la narrazione dei fatti (cioè dei fasti) antichi, le storie di roma accanto a quelle di troia. Per il resto, la città è celebrata attraverso altri canali letterari, i quali raccontano non uno svolgersi diacronico, bensì una situazione atemporale resa attraverso una descrizione sincronica. non mi dilungo sul tema, che forma l’oggetto di un altro mio lavoro che sta procedendo in parallelo con questo8, ma ne indico solamente il distillato: la rappresentazione di roma nel medioevo (e non solo) non è annalistica ma catalogica, insiste sul descrittivismo visivo e non sulla narrazione di fatti storici. Questo modo di pensare la città permea quasi tutte le fonti relative all’urbe9. Alcune, come gli itinerari (che conosciamo numerosi già nell’alto medioevo) sono costruite proprio come cataloghi, altre, come il Liber pontificalis, contengono ampie sezioni di elenchi e inventari; altre ancora, come i Mirabilia, raccontano sì delle storie, ma sempre a partire dallo spazio, dal luogo cioè nel quale è radicata la leggen-
4 Annales Romani (1044-1187), in Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire, cur. l. duChesne, Paris 1886-1892, II, pp. 329-350. 5 C. VIrCIllo FrAnklIn, History and Rhetoric in the Liber Pontificalis of the Twelfth Century, «the Journal of Medieval latin», 23 (2013), pp. 1-33. 6 sui quali si vedano oggi: Gesta di Innocenzo III, trad. s. FIorAMontI, cur. G. BArone - A. PArAVICInI BAGlIAnI, roma 2004; The Deeds of Pope Innocent III by an Anonimous Auctor, trad. J.M. Powell, washington 2004. 7 Gesta di Innocenzo III cit., pp. 269-271. 8 t. dI CArPeGnA FAlConIerI, Roma Aeterna: the Synchronic and Diachronic Memory of the City, in Through the Papal Lens - Shaping History and Memory in Late Antique and Early Medieval Rome, cur. d. VAn esPelo - G. VoCIno, liverpool university Press, in corso di stampa. 9 Per le quali si faccia riferimento al Codice topografico della città di Roma, edd. r. VAlentInI - G. zuCChettI, 4 voll., roma 1940-1953 (Fonti per la storia d’Italia, 81, 88, 90, 91).
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da. e persino le scritture che creano identità e comunità testuali – che altrove sono annali, cronache, oppure opere agiografiche – a roma possono assumere forma catalogica: come, nel XII secolo, la Descriptio Lateranensis ecclesiae e la Descriptio basilicae Vaticanae, opere di canonici, e, al principio del Cinquecento, Li nuptiali di Marco Antonio Altieri10. una ulteriore peculiarità da tenere in considerazione è poi quella della persistenza del latino11. Il latino, oltre a essere la lingua canonica della cultura scritta, è naturalmente la lingua di roma, cosicché l’identità civica si esprime in questa lingua elevata: come accade nella Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum del sacerdote romano Giovanni Cavallini, negli anni Quaranta del trecento12. l’Anonimo romano aveva scritto una prima e ridotta versione della sua Cronica in latino13, e dalla stessa sua opera – nell’episodio di fra Venturino da Bergamo che i romani stavano attenti a controllare se avesse predicato «in faizo latino» - conosciamo quanto esso fosse diffuso nella roma del trecento14. e anche nella roma del Quattrocento: il Diario di stefano Infessura, notaio del comune, è prima in volgare e poi, dal 1484, diventa quasi interamente in latino secondo un percorso che, come è stato osservato, si riscontra in altre cronache romane del tempo15. In latino è anche il Diario romano di Antonio di Pietro dello
10 Iohannis diaconi romani Descriptio Lateranensis ecclesiae, in Codice topografico cit., III, pp. 326-373; Petri Mallii canonici s. Petri Descriptio basilicae Vaticanae aucta atque emendata a Romano presbytero, ivi, pp. 382-442; Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri, ed. e. nArduCCI, introd. M. MIGlIo, appendice documentaria e indice ragionato dei nomi di A. ModIGlIAnI, roma 1995. 11 ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti in volgare cit., pp. 235, 245-250; ModIGlIAnI, «Faccio recordo io Evangelista…» cit., p. 218. 12 Iohannis Caballini de Cerronibus Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum, ed. M. lAureys, stuttgart-leipzig 1995; M. MIGlIo, La Polistoria di Giovanni Cavallini ed un manoscritto scomparso, «rr. roma nel rinascimento», 1997, pp. 5-14; BonInContro, Le descrizioni di Roma cit., pp. 55-58. 13 Anonimo romano, Cronica cit., p. 6: «Anche questa cronica scrivo in vulgare, perché de essa pozza trare utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, como soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne. dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, benché io l’aia ià fatta per lettera con uno latino moito [lacuna]. Ma l’opera non ène tanto ordinata né tanto copiosa como questa». si vedano ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti in volgare cit., p. 236; M. CAMPAnellI, «Benché io l’aia ià fatta per lettera»: gli inserti latini nella Cronica dell’Anonimo Romano, «Filologia e critica», 37 (2012), pp. 3-29. 14 Anonimo romano, Cronica cit., p. 26. sulla cultura a roma in quel secolo, in particolare nel periodo 1305-1367, si veda oggi d. Internullo, Ai margini dei giganti. La vita intellettuale dei romani nel Trecento, roma 2016. 15 A. esCh, Infessura, Stefano, in Dizionario biografico degli Italiani, 62, roma 2004, pp. 348-353.
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schiavo, beneficiato del capitolo vaticano16; il diario di stefano Caffari, che fu un canonico lateranense e poi liberiano dalla solida preparazione giuridica, pur essendo destinato a sé e alla famiglia intercala il volgare e il latino (persino all’interno del medesimo item registrato), con una netta preferenza della seconda lingua sulla prima17. e ancora in latino – senza traccia di volgare – sono compilati i quaderni di conti del parroco del rione Pigna Ansuino de Blasiis (1468-1502)18. In definitiva, anche tralasciando del tutto il tema del fiorire del latino umanistico, che a roma è ovviamente un elemento centrale, dobbiamo osservare che nel tre e del Quattrocento il bilinguismo, ovviamente fra coloro che impiegavano professionalmente il latino, cioè fra chierici e notai, era diffuso e che il latino – in termini di numerosità delle testimonianze – assume un’importanza superiore a quella del volgare19. Accenniamo ora brevemente ad alcune delle cronache romane in volgare e ai loro autori, i quali appaiono essere in genere appartenenti al ceto medioalto (quello dell’aristocrazia urbana dei nobiles viri, detentori di uffici municipali, ricchi proprietari di case e casali, eredi dei mercatanti, bovattieri e cavallerocti del trecento) e abitanti dei rioni centrali di roma: Antonio de Vascho era di regola (come, un secolo prima, l’Anonimo romano); stefano Caffari era invece di Pigna, stefano Infessura ed evangelista de Bistuciis (quest’ultimo di un livello sociale più basso) del rione trevi, Paolo di lello Petrone, Paolo dello Mastro e Gaspare Pontani tutti di Ponte. Il trecentesco estensore della Cronica, che resta celebre nel suo intatto anonimato, probabilmente era un medico, romano o tiburtino, certamente di famiglia aristocratica20. nato verso il 1318, morto dopo il
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Diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo: dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, cur. F. IsoldI, in r.I.s.2, 24/5, Città di Castello 1917. Per questo secolo abbiamo anche il diario, compilato sempre in latino, di un prelato toscano: Il Diario romano di Jacopo Gherardi da Volterra dal 7 settembre 1479 al 12 agosto 1484, ed. e. CArusI, in r.I.s.2, 23/3, Città di Castello 1904-1911, pp. 5-137. 17 stefano Caffari sceglie il latino quando il registro narrativo è più alto (vita della città e della curia): IGletto - sAntI, Stefano Caffari. Memorie cit., pp. 3-6, 57 ss. Vedi anche A. CICChettI - r. MordentI, I libri di famiglia in Italia. I. Filologia e storiografia letteraria, roma 1985, p. 138; ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti cit., pp. 246-247. 18 A. GAuVAIn, Una storia dalla Roma del Quattrocento. Quaderni di Ansuino di Anticoli parroco in Roma e beneficiato vaticano (1468-1502), Città del Vaticano 2014. 19 ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti cit., p. 233. 20 l’opera più importante sull’Anonimo è quella di G. seIBt, Anonimo romano: scrivere la storia alle soglie del rinascimento, ediz. ital. cur. r. delle donne, roma 2000. Alcuni studi recenti: t. dI CArPeGnA FAlConIerI, «Dolore ène de recordare». Testimonianza diretta e modelli letterari nella morte di Cola di Rienzo narrata dall’Anonimo romano, in Roma e
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1360, fu studente a Bologna e fu certamente molto vicino, in termini di aderenza politica e di cultura, a Cola di rienzo, dei cui fatti fu testimone e la cui vita e morte narrò magistralmente. la sua opera, considerata da settant’anni a questa parte un capolavoro della letteratura italiana, è l’unica cronaca romana del trecento. la breve cronaca attribuita a Gentile delfino prende il nome dal possessore di un manoscritto che la tramanda, un personaggio peraltro altrimenti ignoto vissuto nella prima metà del XV secolo. stante la sua brevità e la carenza di notizie di carattere politico, più che di una cronaca, commentò il suo editore, dovrebbe trattarsi di una «raccolta di notizie fatta per comodità di qualche studioso»21. Quest’opera ha la stessa tradizione manoscritta della Mesticanza (cioè l’«insalata mista», come dire lo «zibaldone») di Paolo di lello Petrone, che, giuntaci mutila della parte iniziale, fu scritta negli anni Quaranta del Quattrocento e tramanda in forma diaristica fatti contemporanei all’autore. di poco successive sono le memorie di stefano Caffari, che arrivano fino al 1477. stefano, canonico lateranense, poi di s. eustachio, infine di s. Maria Maggiore, morto verso il 1484, apparteneva a una famiglia nota fin dal XII secolo, tipicamente romana nella sua tipologia economico-sociale e nell’insediamento urbano (fino a dare il nome a un complesso edilizio nella zona di santo stefano del Cacco, la contrata de Cafaris), famiglia che è stata ben ricostruita dagli editori attraverso la documentazione notarile22. Grosso modo coevo è anche il memoriale di Paolo dello Mastro (1422-1484), cioè di Paolo de Magistris, membro di una ricca famiglia del rione Ponte, che scrisse ininterrottamente dal 1431 fino quasi alla morte, collocabile nel 148623. Gaspare Pontani, notaio anch’egli del rione Ponte, scrive il proprio
il papato nel medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio. II. Primi e tardi umanesimi: uomini, immagini, testi, cur. A. ModIGlIAnI, roma 2012, pp. 49-57; V. ForMentIn, Approssimazioni al testo e alla lingua della ‘Cronica’ d’Anonimo romano, in Leggere gli apparati (testi e testimoni dei classici italiani), cur. G. rABonI, Milano 2012, pp. 27-71; M. CAMPAnellI, The Preface of the Anonimo Romano’s Cronica: Writing History and Proving Truthfulness in Fourteenth-Century Rome, «the Medieval Journal», 3/1 (2013), pp. 83-106; Internullo, Ai margini dei giganti cit., ad indicem. Il ceto di appartenenza dell’Anonimo viene dichiarato da lui stesso con l’espressione «mea ientilezza» nel prologo (Anonimo romano, Cronica cit., p. 4). 21 Il diario attribuito a Gentile Delfino cit., p. 68. 22 IGletto - sAntI. Stefano Caffari. Memorie cit., spec. pp. 7-60. 23 le notizie biografiche presenti nell’edizione di Francesco Isoldi del 1912 (vedi supra, nota 1) vanno integrate con A. sPottI, Paolo dello Mastro cronista romano, in Un Pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484). Atti del Convegno (roma, 3-7 dicembre 1984), cur. M. MIGlIo et alii, roma 1986 (studi storici, 154-162), pp. 614-630; r. MordentI, Dello Mastro, Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, 38, roma 1990, pp. 84-86.
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diario – che egli chiama historia24 – dal 1481 al 1492 e muore prima del 1524. segue l’opera di stefano Infessura, nato verso il 1440, morto prima dell’anno 1500, scribasenato e giurista, di parte colonnese, anticuriale e nemico dichiarato di sisto IV, che dipinse come un nuovo nerone25. la sua narrazione è lacunosa del principio e comincia con gli ultimi giorni di Bonifacio VIII. l’opera peraltro è peculiare proprio in quanto, a differenza dei cronisti-diaristi romani del Quattrocento, che raccontano fatti loro contemporanei, pone l’incipit in un passato ormai lontano e dimostra una spiccata attitudine letteraria. si tratta senza dubbio della cronaca più importante scritta a roma nel secondo Quattrocento, utile soprattutto per conoscere la prospettiva politica dei romani, rafforzata da qualche accenno di autobiografismo e di testimonianza oculare, come il racconto dell’impiccagione di stefano Porcari nel 145326. Il diario di Antonio de Vascho (1480-1492) fu compilato da un autore di famiglia originariamente francese ma trapiantata a roma e qui nota da metà trecento nella zona di s. Maria in Monticelli. Il diario si conserva in un unico manoscritto in Archivio segreto vaticano ed ebbe la sorte di essere usato dal noto falsario Alfonso Ceccarelli da Bevagna, che se ne servì come bacino di notizie e come contenitore autorevole da citare per fornire informazioni storiche da lui completamente inventate27. esiste anche un «fascetto di memorie storiche del secolo XV» conservato nella Biblioteca apostolica vaticana (Vat. Lat. 9835) che è invece un piccolo registro autografo dello stesso Antonio de Vascho, contenente anche parti del diario28. I ricordi del notaio evangelista de Bistuciis (1492-1500, di origini umbre) «sono ricordi prevalentemente contabili riguardanti la gestione del piccolo patrimonio familiare e di patrimoni gestiti per conto di altri», tra cui una casa di bizzocche, che ci fanno entrare in contatto con «una microstoria romana dei tempi di Alessandro VI, dalla quale il pontefice, potenti e cardinali, curiali e uomini d’arme restano assolutamente assenti»29. ultimo e cronologicamente medievale solo per una piccola parte è il diario di sebastiano di Branca tedallini (1484-1524), appartenente a una famiglia romana affermatasi in tempi più antichi rispetto a quelle degli altri cronisti. 24 Pontani, Diario romano cit., p. 10. 25 su di lui, oltre all’edizione di oreste tommasini del 1890 (vedi supra, nota 1): esCh,
Infessura, Stefano cit. 26 Infessura, Diario della città di Roma cit., p. 54. 27 Cfr. Antonio de Vascho, Diario cit., pp. 453, 457, 464 ss. sul falsario: A. PetruCCI, Ceccarelli, Alfonso, in Dizionario biografico degli Italiani, 23, roma 1979, pp. 199-202. 28 Antonio de Vascho, Diario cit., p. 452 e l’edizione, in appendice, alle pp. 549-552. 29 ModIGlIAnI, «Faccio recordo io Evangelista…» cit., p. 217.
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Questi testi furono quasi tutti pubblicati nel periodo d’oro della filologia medievistica romana, fra gli anni ottanta e gli anni dieci del XX secolo, da illustri paleografi che avevano alle spalle l’Istituto storico italiano e la società romana di storia patria30. la Cronica di Anonimo romano ha una storiografia a sé, sia dal punto di vista della storia della letteratura, sia perché rappresenta la fonte principale per la vita di Cola di rienzo (tanto che parti dell’opera hanno una tradizione manoscritta ed editoriale autonoma, proprio limitata ai capitoli della vita del tribuno). Con riferimento alle opere quattrocentesche, gli studi su roma tardo medievale degli ultimi quarant’anni si sono avvalsi con profitto della grande messe di informazioni contenute in quei testi, sottolineandone quello che è stato riconosciuto come il loro principale elemento in comune. si tratta del sentimento identitario, cioè del senso di appartenenza civica espresso dagli autori, che forse usano il volgare anziché, pur conoscendolo, il latino, poiché gli riconoscono un valore ideologico31. la forte interrelazione fra pubblico (città) e privato (famiglia) è tipica di molti memoriali, così come ne è caratteristica la celebrazione di una roma municipale fieramente altra rispetto alla Curia. Questo è il tono preponderante di Paolo di lello Petrone, di Paolo dello Mastro e di stefano Infessura32. l’identità civica viene resa con l’affermazione di un preciso status aristocratico, con la partecipazione a liturgie comuni, con l’appartenenza alla confraternita del salvatore ad Sancta
30 Anche i diari di Caffari, editi nel 2009 da Igletto e santi (vedi supra, nota 1), erano già stati pubblicati parzialmente nell’ottocento: G. ColettI, Dai diari di Stefano Caffari, «Archivio della società romana di storia patria», 8 (1885), pp. 555-576, 9 (1886), pp. 583611. Benché la Cronica di Anonimo sia stata pubblicata a più riprese dal XVII secolo in poi, il lavoro di Porta del 1979 (vedi supra, nota 1) ne è la prima e fondamentale edizione critica. sulle osservazioni che le sono state mosse (soprattutto l’eccessiva normalizzazione grafica e fonetica) si vedano ForMentIn, Approssimazioni al testo cit., spec. p. 31, e G. VACCAro, Text and transmission in early Italian Chronicles, testo della conferenza tenuta al Cambridge International Chronicles Symposium, Cambridge, university of Cambridge, 16-18 luglio 2010 presente in www.academia.edu (cons. 04/04/2017). 31 ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti in volgare cit., pp. 250-251. 32 M. MIGlIo, Gruppi sociali e azione politica nella Roma di Cola di Rienzo, «studi romani», 23 (1975), pp. 442-461; MIGlIo, I cronisti della storia, in Un pontificato ed una città. Sisto IV cit., pp. 631-641; MIGlIo, Scritture, scrittori e storia, roma 1991, Manziana 1993; A. ModIGlIAnI, Sistemi familiari dell’aristocrazia municipale (secoli XIV-XV), in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, cur. e. sonnIno, roma 1998, pp. 229246; ModIGlIAnI, Continuità e trasformazione dell’aristocrazia municipale romana nel XV secolo, in Roma medievale. Aggiornamenti, cur. P. deloGu, Firenze 1998, pp. 267-279; ModIGlIAnI, L’aristocrazia municipale romana nel XV secolo: identità politica e autorappresentazione, in Vecchia e nuova aristocrazia a Roma e nel Lazio in età moderna. Strategie economiche e del consenso, cur. d. GAllAVottI CAVAllero, roma 2006, pp. 10-31.
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Sanctorum. È un’appartenenza che può riguardare il proprio rione, come Pigna per stefano Caffari33, e che può essere simbolicamente riassunta nello sgomento mostrato da Paolo di lello Petrone perché i giochi tradizionali di Agone e di testaccio non erano stati giocati per quattro anni continui34. È un’identità espressa dalla devozione a Ceccolella Ponziani, poi santa Francesca romana (m. 1440)35, dalla congiura dei Porcari (1453)36, dall’opera Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri (1506-1509)37, o ancora dal palazzo in forma di un’antica domus fatto edificare dai Massimo a Baldassarre Peruzzi nel 1536 sulle case bruciate durante il sacco38. tuttavia, sarebbe errato considerare queste opere come celebrative dell’urbe in forma pubblica, come una sorta di laudes civitatis dalla forte presa sulla società romana. la loro diffusione è scarsa. la Cronica di Anonimo è incompiuta e non se ne conservano manoscritti prima del Cinquecento39. Mi preme soprattutto ricollocare alcune fra le opere quattrocentesche nel loro statuto specifico, presentando un’interpretazione
33 IGletto - sAntI, Stefano Caffari. Memorie cit., pp. 119-120: «regio Pinee, assueta habere onores». 34 Paolo di lello Petrone, La Mesticanza cit., pp. 34 e 38 (con riferimento agli anni trenta del Quattrocento). Quando finalmente vengono giocati, nel 1443, Paolo scrive (p. 48): «sia pregato dio se puossa fare allo muodo antico». 35 IGletto - sAntI, Stefano Caffari. Memorie cit., pp. 36-40, 132. si veda G. BArone, Le culte de Françoise Romaine: un exemple de religion civique?, in La religion civique à l’époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam). Actes du colloque organisé par le Centre de recherche «histoire sociale et culturelle de l’occident. XIIe-XVIIIe siècle» de l’université de Paris X-nanterre et l’Institut universitaire de France (nanterre, 21-23 juin 1993), sous la direction d’A. VAuChez, rome 1995 (Collection de l’École française de rome, 213), pp. 367-373. 36 A. ModIGlIAnI, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, roma 1994; ModIGlIAnI, Congiurare all’antica: Stefano Porcari, Niccolò V, Roma 1453, roma 2013. 37 Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri cit. 38 V. CAFà, Palazzo Massimo alle Colonne di Baldassarre Peruzzi: storia di una famiglia romana e del suo palazzo in rione Parione, Vicenza 2007. 39 la distanza fra la data di compilazione delle opere e la data dei primi manoscritti che le conservano sono argomenti che conducono – anche per la lingua usata – al problema del rapporto con le falsificazioni antiquarie di età moderna. non entro nel merito, ma forse un confronto tra la lingua della Cronica di Anonimo e quella testimoniata in fonti certamente di metà trecento si può fare oggi abbastanza agevolmente, dopo il rinvenimento in Archivio segreto di un registro per il riordino del giardino vaticano del 1368-1369 scritto in volgare romanesco: V. ForMentIn, Un nuovo testo per la storia del romanesco medievale, in Vicende storiche della lingua di Roma, cur. M. loPorCAro - V. FArAonI - P.A. dI Pretoro, Alessandria 2013, pp. 29-78; ForMentIn, A proposito di romanesco antico: la metafonia nel registro di Giovanni Cenci, «lingua e stile», 48 (2013), pp. 299-315.
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che, elaborata in modo autonomo mentre preparavo la relazione all’origine di questo contributo, ho avuto poi modo di constatare come fosse già stata proposta da altri – e in termini consolatoriamente analoghi ai miei – ormai parecchi anni fa. Pensare ad alcuni fra questi testi romani come a cronache è improprio: è un’adesione forzata a un modello che si forma a partire dall’uso che ne è stato fatto successivamente alla loro compilazione – trattandoli come miniere di notizie – e non alla loro natura. non solo alcuni codici contaminano le cronache e le mescolano tra loro (è il caso del memoriale di Paolo dello Mastro, a volte unito a parti del diario di Infessura e alla Mesticanza di Paolo di lello Petrone)40; ma, come sottolinea raoul Mordenti, in quasi tutti i codici giunti fino a noi, tranne che in uno, lo stesso memoriale risulta privato delle notizie familiari, che sono state espunte sistematicamente dai copisti, e che invece ne costituiscono una parte molto significativa: la notizia raccontata da Paolo di aver fatto cavalcare un dromedario a suo figlio piccolissimo non dice nulla della storia politica di roma nel Quattrocento, ma a noi (e a Paolo, e a suo figlio) racconta parecchio. la scelta dei copisti si riverbera poi nelle edizioni moderne, che spesso sono state altrettanto selettive. Come è stato scritto, «i tagli e le mutilazioni delle edizioni [sono] conseguenti al tipo di lettura e di definizione prescelto»41, e una vera e propria «funzione deformante [viene] svolta da categorie critico-interpretative troppo ristrette (e dai criteri editoriali ad esse ispirati)»42. ora, la Cronica di Anonimo, la Mesticanza e il Diario di Infessura sono opere organiche (benché incomplete) e abbastanza formalizzate, nonché attente a sviluppare il discorso avendo presente l’idea di un pubblico di lettori. Addirittura, Paolo di lello Petrone scrive rivolgendosi spesso direttamente ai suoi interlocutori43. Ma le altre sette fonti del nostro campione non sono costruite così. Abbiamo a che fare con testi dallo statuto liquido, non formalizzato, che ebbero una scarsa diffusione e che erano senz’altro prive di intenzione pubblica44. esse rispondono all’urgenza della registra-
40 41
MordentI, Dello Mastro, Paolo cit. CICChettI - MordentI, I libri di famiglia in Italia cit., p. 9; vedi anche pp. 43-60, 107-115. 42 r. MordentI, I libri di famiglia in Italia. II. Geografia e storia, roma 2001, p. 62. 43 Paolo di lello Petrone, La Mesticanza cit., per es. p. 13: «se bene ve ricordate io ve promisi poco innanti de scrivere»; p. 35: «Io ve ricontai»; p. 38: «A non volere far troppo paravole notifico alli foturi lettori dello presenti livro che nello anno predetto [1437] lo ioco de testaccio et de nagoni non fuoro fatti». 44 Cfr. G. FerrAù, La storiografia come ufficialità, in Lo spazio letterario del medioevo. 1. Il medioevo latino, 3, La ricezione del testo, roma 1995, pp. 661-693: 687-693:
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zione e della conservazione della memoria personale e familiare. la tipologia scrittoria alla quale appartengono almeno cinque di esse, che si è iniziato a conoscere dopo le grandi edizioni degli anni a cavallo tra otto e novecento ed è stata definitivamente identificata negli anni ottanta del secolo scorso, è quella dei libri di famiglia45. Inferiore rispetto alla tradizione toscana, umbra o emiliana, la tradizione romana dei libri di famiglia non è tuttavia assente, ha la caratteristica di annoverare fra gli scriventi anche dei chierici ed è testimoniata dal Quattro al settecento. si conoscono infatti testi di Alberini, Altieri, Cartari, Caffarelli, Cenci, Formicini, Gigli, Maddaleni Capodiferro, Manili46. Così, il memoriale di Paolo dello Mastro47 e le memorie di stefano Caffari sono stati assimilati a questo
«storiografie cittadine». Analogo a queste testimonianze per l’intenzione e la visione privata è il diario di Antonio di Pietro dello schiavo, redatto in latino: cfr. P. ProCACCIolI, Dello Schiavo, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, 38, roma 1990, pp. 92-93. 45 CICChettI - MordentI, I libri di famiglia in Italia cit. 46 Ivi, pp. 125-127, 155-156; MordentI, I libri di famiglia in Italia, II cit., pp. 57-60; A. sPottI, Il libro di famiglia di Giovan Battista e Giacinto Gigli (1553-1622), «ldF Bollettino della ricerca sui libri di famiglia in Italia», (1988), pp. 25-27; sPottI, Il libro di famiglia dei Cenci, in MordentI, I libri di famiglia in Italia, II cit., pp. 179-182; ModIGlIAnI, Archivi familiari e storia di famiglie cit., pp. 670, 674; ModIGlIAnI, La lettura “storica” delle fonti in volgare cit., pp. 247-248, 253. sull’assimilazione ai libri di famiglia de Li nuptiali di Marco Antonio Altieri: CICChettI - MordentI, I libri di famiglia in Italia cit., pp. 126-127. In alcuni casi, i membri di una famiglia che sappiamo attenta alla dimensione della memoria compilano anche altre opere: la badessa orsola Formicini tra fine Cinque e inizio seicento è autrice di una storia del monastero di s. Cosimato, nella quale vi sono contenute anche parti autobiografiche (vedi G. GuerrInI FerrI, Il Liber monialium ed il Libro de l’antiquità di suor Orsola Formicini. Le Clarisse e la storia del venerabile monastero romano dei Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea detto di San Cosimato in Trastevere, «scrineum rivista», 8 [2011], pp. 81-111, spec. 106-110); Giacinto Gigli tiene le proprie memorie e anche il noto diario: G. GIGlI, Diario di Roma, I, 1608-1642, II, 1644-1670, cur. M. BArBerIto, roma 1994. tra i molti libri di famiglia che certamente si potranno ancora ritrovare segnalo l’esistenza nell’Archivio Carpegna Falconieri Gabrielli a Carpegna (Pu) dei seguenti manoscritti: Libro di ricordi di Paolo di Pietro Falconieri (che fu console della nazione fiorentina a roma sotto sisto V, fonte interessante tra l’altro perché si tratta delle registrazioni di un fiorentino inurbato a roma); Libro di memorie dell’ill.mo sig. Antonio Gabrielli 1680-1729; Libro di memorie dell’ill.mo sig. Mario Gabrielli 1723-1732. Per altri libri di famiglia conservati nel medesimo archivio (non appartenenti però all’area romana, bensì rispettivamente montefeltrana e viterbese) mi permetto di rimandare a Terra e memoria. I libri di famiglia dei conti di Carpegna-Scavolino (secoli XVI-XVII), cur. t. dI CArPeGnA FAlConIerI, pref. A. PetruCCI, san leo 2000; dI CArPeGnA FAlConIerI, Reti di memoria. Intorno ad alcuni inediti “libri di famiglia” viterbesi, in Famiglie nella Tuscia tardo medievale. Per una storia, cur. A. PonteCorVI - A. zuPPAnte, orte 2011, pp. 347-354. 47 sPottI, Paolo dello Mastro cit., spec. p. 620; CICChettI - MordentI, I libri di famiglia in Italia cit., pp. 150-151; MordentI, I libri di famiglia in Italia, II cit., pp. 58-59. Questo è l’incipit del “Memoriale” di Paolo dello Mastro (p. 85): «Al nome sia dell’altissimo
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genere di scrittura48. Ma anche l’opera di sebastiano tedallini è analoga49, mentre i ricordi di evangelista de Bistuciis sono sostanzialmente registrazioni di partite economiche inframmezzate da alcune notizie familiari, come i libri di ricordanze fiorentini50. ed è interessante e forse ancora da approfondire il caso del diario di Antonio de Vascho, perché, come detto, oltre al diario stesso si conserva anche un suo fascicolo di carte: pertanto dello stesso scrivente abbiamo la prima redazione e la traccia del cambiamento del testo, da una serie di registrazioni che ricordano da vicino i libri di famiglia verso una redazione più formalizzata51. Insomma questi testi che chiamiamo cronache (ma che cronache propriamente non sono) raccontavano gli accadimenti romani ed esprimevano anche la fierezza di appartenere alle famiglie della nobiltà capitolina; trasmettevano, come Li Nuptiali dell’Altieri, il sentimento profondo di romanitas; ma lo facevano registrando insieme anche gli acquisti e le vendite, le nascite, le nozze e le morti dei loro cari. non narravano in piazza, ma in casa.
dio e gloriosa Vergine Maria e di tutti li santi della corte del cielo ce ne prestino grazia che potamo bene et honestamente vivere in questo mundo. Questo serao un libro de memoria delle cose che occorreranno, fatto per mi Pavolo de Benedetto di Cola dello Mastro dello rione di Ponte, nell’anno 1422, a dii ultimo di novembre». Anche il nipote di Paolo, Mariano, teneva uno di questi libri. 48 M.t. CACIorGnA, Presentazione, in IGletto - sAntI, Stefano Caffari. Memorie cit., pp. V-IX; A. IGletto, Premessa, ivi, pp. 3-6, p. 4. Anche stefano usa comunemente l’espressione «recordo». 49 sebastiano di Branca tedallini, Diario romano cit. si vedano specialmente le pp. 314-315, 374-375. 50 A. ModIGlIAnI, «Faccio recordo io Evangelista…» cit., per es. p. 232: «1493, a dì XXIII dello mese de octobre. Faccio recordo como a dì predicto morì madonna Margarita mia sorella et fo sepellita in nella chiesia de sancta Maria della Minerba in nella sepultura dove stao sepulta madonna lucretia soa figliola et mea nepote, moglie che fo de mastro stephano de Coticha, descontro ad la porta che vao in convento delli frati della dicta chiesia, l’anime delle quale Idio per soa misericordia le conduca in stato de salute et de requie. Amen». 51 Cfr. CICChettI - MordentI, I libri di famiglia in Italia, p. 152. Il «fascetto di memorie storiche del secolo XV» (cfr. supra, nota 28) inizia con il ricordo dell’accordo sui denari spesi per l’acconcio della moglie letizia fatto da lui e dalla suocera eugenia dei Marcellini il 2 giugno 1474, con l’elenco dei beni assegnati (il corredo in stoffe, casse, cofani, perle, per un valore totale di 600 fiorini). Contiene notizie familiari (compreso l’inventario della loro cappella gentilizia in s. Maria in Monticelli), economiche e politiche.
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CHIARA DE CAPRIO LA SCRITTURA CRONACHISTICA NEL REGNO: SCRIVENTI, TESTI E STILI NARRATIVI*
1. Obiettivi e metodi Sulla scorta degli studi di Francesco Sabatini, è possibile descrivere la scrittura cronachistica in volgare del Regno prestando attenzione alle connessioni tra i contesti nei quali furono redatti i testi storiografici e i caratteri “interni” di questi stessi testi: la morfologia materiale dei manoscritti e le forme del libro di storia, le tecniche e gli andamenti narrativi, gli impasti linguistici1. Del resto, sebbene lo spazio dedicato alla produzione cronachistica fosse necessariamente limitato, anche lavori di sintesi tesi a lumeggiare il quadro culturale e linguistico delle diverse aree del Regno hanno mostrato la fecondità di un’analisi che non obliteri il nesso fra contesti, tradizioni culturali e scelte linguistiche delle cronache in volgare2.
* Gran parte delle prospettive d’analisi del saggio s’inserisce nei percorsi di ricerca sviluppati da chi scrive, Francesco Montuori e Francesco Senatore nell’ambito di due progetti dedicati alla tradizione storiografica e alla scrittura amministrativa del Regno tra tardo medioevo e prima età moderna: La “memoria del presente”. Repertorio digitale: tradizioni testuali, fonti e lessico delle cronache campane in volgare (secoli XIV-XVI), coordinamento scientifico di F. SENATORE [L.R. n. 5 del 28.3.02, annualità 2008, erogazione nel 2014-15] e Disaster Texts: Literacy, Cultural Identity, Coping Strategies in Southern Italy between the Late Medieval and Early Modern Period, coordinamento scientifico di C. DE CAPRIO [Programma STAR (Linea 1-2013), finanziato dall’Università di Napoli Federico II e dalla Compagnia di San Paolo]. Nelle trascrizioni sono sciolte tra parentesi tonde le lettere abbreviate, tra quadre le lettere capitali non tracciate. Ringrazio Antonio Del Castello e Francesco Senatore per aver letto il testo in una sua primitiva versione. 1 Il riferimento è a F. SABATINI, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli 1975. 2 Quadri ricchi d’indicazioni metodologiche e informazioni si leggono nei capitoli dedicati all’area meridionale in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, cur. F. BRUNI, Torino 1992: in particolare, si vedano P. BIANCHI - N. DE BLASI - R.
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Successivamente, questo nesso è stato messo sempre più a fuoco nelle edizioni critiche e negli studi dedicati a singoli testi o all’insieme delle forme di scrittura storica del Regno3. Grazie a questi contributi, sono state LIBRANDI, La Campania, pp. 629-684; R. COLUCCIA, La Puglia, pp. 685-719; DE BLASI, La Basilicata, pp. 720-750; LIBRANDI, La Calabria, pp. 751-797; U. VIGNUZZI, Gli Abruzzi e il Molise, pp. 594-628; si rimanda, inoltre, a COLUCCIA, Il volgare nel Mezzogiorno, in Storia della lingua italiana, dir. L. SERIANNI - P. TRIFONE, 3 voll., Torino 1993-1994, III. Le altre lingue [1994], pp. 373-405; DE BLASI, Storia linguistica di Napoli, Roma 2012. Tra i profili letterari sono preziosi DE BLASI - A. VÀRVARO, Il regno angioino. La Sicilia indipendente, in Letteratura italiana, dir. A. ASOR ROSA, Storia e geografia, I. L’età medievale, Torino 1987, pp. 457-488; DE BLASI - VÀRVARO, Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura italiana cit., II. L’età moderna, Torino 1988, pp. 235-325; L. MINERVINI, La storiografia, in Manuale di letteratura italiana, dir. F. BRIOSCHI - C. DI GIROLAMO, I. Dalle origini alla fine del Quattrocento, Torino 1993, pp. 763-787; G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, dir. E. MALATO, II. Il Trecento, Roma 1995, pp. 159-210; V. FORMENTIN, La “crisi linguistica” del Quattrocento, in Storia della letteratura cit., III. Il Quattrocento, Roma 1996, pp. 159-210. 3 Do qui conto delle edizioni e degli studi più recenti (1985-2015), da cui si può agevolmente risalire alla bibliografia precedente. Per la Cronaca di Partenope si veda ora, pur con riserve per la resa editoriale del testo, The ‘Cronaca di Partenope’. An Introduction to and Critical Edition of the First Vernacular History of Naples (c. 1350), ed. S. KELLY, LeidenBoston 2011; per i testi di età aragonese, Ferraiolo, Cronaca, ed. R. COLUCCIA, Firenze 1987; Loise De Rosa, Ricordi. Edizione critica del ms. Ital. 913 della Bibliothèque nationale de France, ed. V. FORMENTIN, 2 voll., Roma 1990; Lupo de Spechio, Summa dei re di Napoli e Sicilia e dei re d’Aragona, ed. A.M. PERRONE CAPANO COMPAGNA, Napoli 1990; Notar Giacomo, Cronica di Napoli, ed. C. DE CAPRIO, in prep. Sebbene pienamente cinquecentesca, va qui citata la cronaca di Gasparro Fuscolillo, canonico di Sessa Aurunca (v. Gasparro Fuscolillo, Croniche, ed. N. CIAMPAGLIA, Arce 2008). Per l’area abruzzese si vedano le seguenti edizioni: La guerra dell’Aquila. Cantare anonimo del XV secolo, ed. DE MATTEIS, L’Aquila 1996; Niccolò da Borbona, Rime e cronaca, edd. DE MATTEIS - V. DI FLAVIO, Borbona 2006; Buccio di Ranallo, Cronica, ed. critica e commento, ed. DE MATTEIS, Firenze 2008. Quanto al quadro degli studi, dopo la ricostruzione d’insieme di SABATINI, Napoli angioina cit., si vedano, per la circolazione di testi latini e francesi in età angioina, F. ZINELLI, «Je qui li livre escrive de letre en vulgal». Scrivere il francese a Napoli in età angioina, in Boccaccio angioino. Materiali per la storia di Napoli nel Trecento, cur. G. ALFANO et alii, Bruxelles 2012, pp. 149-173; F. DELLE DONNE, Virgiliana Neapolis Urbs. Reception of Classical Naples in the Swabian and Early Angevin Ages, in Remembering Parthenope. The Reception of Classical Naples from Antiquity to the Present, cur. H. HUGHES - C. BONGIOVANNI, Oxford 2015, pp. 152-169; L. MINERVINI, Il francese a Napoli (1266-1442). Elementi per una storia linguistica, in Boccaccio e Napoli. Nuovi materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento. Atti del Convegno ‘Boccaccio angioino. Per il VII Centenario della nascita di Giovanni Boccaccio’ (Napoli-Salerno, 23-25 ottobre 2013), cur. G. ALFANO et alii, Firenze 2015, pp. 151-174. Per la Cronaca di Partenope e altri testi di età angioinodurazzesca, S. KELLY, Monarquía y ciudad. Consciencia cívica e identidad urbana en Nápoles antes de 1400, in Modelos culturales y normas sociales al final de la Edad Media. Actas del Coloquio de Madrid y Almagro (15-16 de abril de 2004), cur. P. BOUCHERON - F. RUIZ GÓMEZ, Cuenca 2009, pp. 203-216; C. DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli tra medioevo e prima età moderna, Roma 2012, pp. 17-68; F. MONTUORI, La scrittura della storia a Napoli
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LA SCRITTURA CRONACHISTICA NEL REGNO
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affrontate sub specie chronicarum questioni non marginali per delineare le direttrici culturali che orientavano la produzione e circolazione dei testi in volgare nel Regno: la competizione tra volgari diversi e il prestigio della negli anni del Boccaccio angioino, in Boccaccio angioino cit., pp. 171-197; DE CAPRIO, La storiografia angioina in volgare. Lessico metaletterario, modalità compositive e configurazioni stilistiche nella ‘Cronaca di Partenope’, in Boccaccio e Napoli cit., pp. 427-448 e, da ultimi, il contributo di Montuori in questo volume e DE CAPRIO - MONTUORI, in prep. Segnalo, ancora per la Cronaca di Partenope, alcuni lavori di tesi e i successivi studi che ne sono scaturiti: R. BADILE, La Parte IIIB della ‘Cronaca di Partenope’. Tesi di Laurea Magistrale in Storia della Lingua Italiana, Università degli Studi di Napoli Federico II, rel. F. MONTUORI, a.a. 2012-2013; F. MESSINA, Genesi e morfologia di un compendio nella storiografia angioina: il caso del Villani napoletano, «Misure critiche» 12-13 (2013-2014), pp. 30-61; A. MONACO - V. SFERRAGATTA, Il testo della Cronaca di Partenope secondo il ms. I D 14 della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo, in prep. Per la fortuna e il riuso della Cronaca di Partenope, v. M. BARBATO, Trasmissione testuale e commutazione del codice linguistico. Esempi italoromanzi, in Transcrire et/ou traduire. Variation et changement linguistique dans la tradition manuscrite des textes médiévaux. Actes du congrès international (Klagenfurt, 15-16 novembre 2012), cur. R. WILHELM, Heidelberg 2013, pp. 193-211; DE CAPRIO MONTUORI, Copia, riuso e rimaneggiamento della ‘IV Parte’ della ‘Cronaca di Partenope’ tra Quattro e Cinquecento, in Actas del XXVI Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas (6-11 septiembre de 2010, Valencia), cur. E. CASANOVA HERRERO - C. CALVO RIGUAL, 8 voll., Berlin-Boston 2013, VII, pp. 89-102; BARBATO - MONTUORI, Dalla stampa al manoscritto. La IV parte della ‘Cronaca di Partenope’ trascritta dal Ferraiolo (1498), in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche, materiali e usi nella storia della lingua. Atti del XII congresso SILFI - Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Helsinki, 18-20 giugno 2012), cur. E. GARAVELLI - E. SUOMELA-HÄRMÄ, Firenze 2014, pp. 51-70; offre un quadro d’insieme basato sulla bibliografia meno recente S. KELLY, Medieval Influence in Early Modern Neapolitan Historiography: The fortunes of the ‘Cronaca di Partenope’ (1350-1680), «California Italian Studies Journal», 7 (2012), pp. 1-27. Anche per la produzione aragonese vi è stato un progressivo incremento degli studi nell’ultimo ventennio: per i testi della Capitale e di Terra di Lavoro v. V. FORMENTIN, Scrittura e testo nel manoscritto dei ‘Ricordi’ di Loise De Rosa, «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», 7 (1993), pp. 5-64; N. DE BLASI, Due riflessioni storico-linguistiche su Masuccio Salernitano e Loise De Rosa, in La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo. XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona (Napoli, Caserta, Ischia, 18-24 settembre 1997), cur. G. D’AGOSTINO - G. BUFFARDI, 2 voll., Napoli 2000, II, pp. 1371-1392; DE CAPRIO, Tra codice e testo: il caso della ‘Cronica di Napoli’ di Notar Giacomo, con una riflessione sulla categoria di “codice archivio”, «Medioevo romanzo», 27 (2004), pp. 390-419; C. VECCE, Les chroniques napolie e e taines de la Renaissance, in L’actualité et sa mise en écriture aux XV , XVI et XVII siècles. Espagne, Italie, France et Portugal, cur. P. CIVIL - D. BOILLET, Paris 2006, pp. 77-91; DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 69-173; DE CAPRIO, Spazi comunicativi, tradizioni narrative e storiografia in volgare: Il Regno negli anni delle guerre d’Italia, «Filologia e Critica», 39 (2014), pp. 39-72; F. SENATORE, Fonti documentarie e costruzione della notizia nelle cronache cittadine dell’Italia meridionale (secoli XV-XVI), «Bullettino dell’Istituto storico italiano del Medio Evo», 116 (2014), pp. 279-333; DE CAPRIO - SENATORE, Orality, Literacy and Historiography in Vernacular Neapolitan Urban Chronicles (15th-16th centuries), in Interactions between Orality and Writing in Early Modern Italian Culture, cur. L.
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cultura fiorentina; la funzione modellizzante delle tradizioni di scrittura amministrativa e, come inevitabile controspinta, la persistenza di una dimensione concettuale e comunicativa orale nella costruzione e nell’andamento narrativo dei testi prodotti in ambienti popolari. Alla luce del quadro che qui si è brevemente ricostruito, in questo lavoro sono descritte le modalità narrative cui i cronisti affidavano il compito di tradurre «sulla pagina la complessità degli eventi»4. In questo percorso sono messi in evidenza due aspetti. In primo luogo, si fa emergere la permeabilità della scrittura cronachistica alle tecniche e alle soluzioni narrative di altri generi attraverso un’analisi a grana fine del tessuto testuale di alcune cronache5. In seconda battuta, è descritto il rapporto tra “forma del codice” e “forma del testo”. Anche per il Regno è ben vero che le cronache
DEGL’INNOCENTI - B. RICHARDSON - I. SBORDONI, London-New York 2016, pp. 129-143. Per l’area abruzzese, dopo R. COLAPIETRA, Dal Magnanimo a Masaniello, Salerno 1972, pp. 335-339, 348-350 e 364, v. S. GELMINI, Antonio di Boezio, ‘Della venuta del re Carlo di Durazzo nel Regno’ e ‘Delle cose dell’Aquila’ e il suo lessico, «Studi di lessicografia italiana», 10 (1989), pp. 5-23; DE MATTEIS, Buccio di Ranallo. Critica e filologia, Roma 1990; COLAPIETRA, Buccio dalla cronaca alla storia, in Cultura e società all’Aquila tra angioini e spagnoli, Messina 1993, pp. 5-115; DE MATTEIS, Civiltà letteraria abruzzese, L’Aquila 2001, pp. 61-100; FORMENTIN, Sfortuna di Buccio di Ranallo, «Lingua e Stile», 45 (2010), pp. 185-222; DE MATTEIS, Quattrocento letterario aquilano. Restauri e recuperi, Roma 2011; SENATORE, Fonti cit. Oltre alle indicazioni offerte, su autori e testi aquilani si possono leggere le schede biografiche di P. TERENZI in Encyclopedia of the Medieval Chronicle, cur. R.G. DUNPHY, Leiden-Boston, 2010. Per un quadro aggiornato della realtà politica aquilana ora v. TERENZI, Città, autonomia e monarchia nel mezzogiorno tardomedievale. Osservazioni sul caso aquilano, «Studi storici», 56 (2015), pp. 349-374 e TERENZI, L’Aquila nel Regno. I rapporti politici fra città e monarchia nel Mezzogiorno tardomedievale, Bologna 2015. Infine, profili e panoramiche d’insieme sulla scrittura cronachistica in volgare nel Regno tra età angioina e aragonese sono offerti in E. COCHRANE, History and Historiography in Renaissance Italy, Chicago 1981; DE CAPRIO, Scrivere la storia cit.; J. MARINO, Constructing the Past of Early Modern Naples, in A Companion to Early Modern Naples, cur. T. ASTARITA, Leiden-Boston 2013, pp. 11-34; R. MUSTO, Writing Southern Italy before the Renaissance, in prep. 4 A. VÀRVARO, «Noi leggiavamo un giorno per diletto». Esperienza letteraria ed esperienza storica nel Medioevo [1993], in VÀRVARO, Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma 2004, pp. 256-269: 269. 5 Sul versante relativo alla scrittura storica, segnalo i più recenti lavori di taglio linguistico di cui si è tenuto conto: R. GUALDO, La scrittura storico-politica, Bologna 2013; D. COLUSSI, Cronaca e storia, in Storia dell’italiano scritto, cur. G. ANTONELLI - M. MOTTOLESE - L. TOMASIN, Roma 2014, II. Prosa letteraria, pp. 119-152; R. FRESU, La scrittura dei semicolti, in Storia dell’italiano scritto cit., III. La lingua dell’uso, pp. 195-223; E. DE ROBERTO, Dinamiche enunciative nel discorso storico medievale. Il caso delle strategie evidenziali, in Sul filo del testo in equilibrio tra enunciato e enunciazione, cur. M. PALERMO - S. PIERONI, Pisa 2015, pp. 65-89; si vedano anche i saggi di Coluccia e Montuori in questo volume.
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volgari furono per lo più caratterizzate da basso gradiente d’autorialità, mobilità testuale e montaggio di disparati ipotesti; perciò, s’intende mostrare come in molti casi sia proprio la struttura dei codici-collettori a dare “forma di libro” ai materiali che sono raccolti al loro interno: sono, cioè, i codici a dare compattezza e unitarietà a testi a bassa coesione, nei quali coesistevano sezioni nuove e parti desunte da altre fonti6. Riconnettendo testo e hors-texte, le intersezioni tra tradizioni discorsive diverse e le morfologie materiali dei codici consentono di lumeggiare meglio i contesti nei quali le cronache venivano composte, copiate e fruite; perciò, tanto per la produzione angioina quanto per quella aragonese, si cercherà di mostrare come le cronache riverberino le dinamiche politiche e comunicative delle città del Regno e rispondano al bisogno di ridefinire il legame fra memoria e identità urbana alla luce dell’“esperienza del presente”. In ultima istanza, proprio attraverso l’analisi del rapporto fra esperienza storica e resa narrativa della realtà, s’intende riflettere sui modi concreti attraverso cui la scrittura cronachistica non solo si proponeva come uno dei fili del tessuto memoriale di comunità ed élites cittadine, ma ambiva anche ad essere un elemento «da tenere nel dovuto conto nel comportamento politico concreto dei gruppi e delle collettività»7. 2. La scrittura della storia in volgare: nodi storiografici tra medioevo ed età moderna Ricostruire le forme della cronachistica in volgare del Regno significa misurarsi con una produzione meno varia di quella in latino sia dal punto di vista spaziale sia dal punto di vista temporale8.
6 Per il concetto di gradiente di autorialità rimando almeno ad A. VÀRVARO, Il testo letterario, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, dir. P. BOITANI - A. VÀRVARO - M. MANCINI, 4 voll., Roma 1999-2005, I. La produzione del testo [1999], I, pp. 387-422; I. FERNÁNDEZ ORDÓÑEZ, Transmisión y metamorfosis. Hacia una tipología de mecanismos evolutivos en los textos medievales, Salamanca 2012. Sull’autorialità in relazione alla scrittura storica, anche v. G.M. SPIEGEL, The Past as Text. The Theory and Practice of Medieval Historiography, Baltimore-London 1997. Per il rapporto codice-testo di veda ora il contributo di Barbato in questo volume. 7 VÀRVARO, «Noi leggiavamo un giorno per diletto» cit., p. 262. 8 Tra i testi latini della fine del XII secolo ricordo il Chronicon Causariense dell’Abbazia di S. Clemente a Casauria in Abruzzo (mi limito a rimandare a A. PRATESI, L’edizione fototipica del ‘Chronicon Causariense’, in Cultura umanistica nel Meridione e la stampa in Abruzzo. Atti del Convegno (L’Aquila, 12-14 novembre 1982), L’Aquila 1984, pp. 183-198; L. FÉLLER, Les Abruzzes médiévales: territoire, économie et société en Italie
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La contrazione del “cronotopo” volgare cronachistico del Regno emerge ove si consideri la geografia dei filoni più cospicui. Le coordinate spaziali convergono in sostanza su due poli, rispettivamente al cuore e alla periferia del Regno: l’area che include Napoli e Terra di Lavoro; l’area-ponte abruzzese (ma, meglio, quella aquilana, linguisticamente mediana)9. Ricordo anche le coordinate temporali di questa produzione: nella Capitale, dopo l’età di Roberto d’Angiò, prende forma un corpus di testi in volgare, la cosiddetta Cronaca di Partenope, col quale stabiliranno connessioni non occasionali alcune cronache redatte a Napoli e in Terra di Lavoro in età aragonese e vicereale; parimenti, a partire dall’età angioina, all’Aquila la scrittura cronachistica volgare va ricondotta a un gruppo di cronisti che si ricollega all’attività di Buccio da Ranallo, la cui Cronica narra le vicende della città a partire dalla fondazione fino al 1362, anno precedente la morte dell’autore. Punto di riferimento per quanti incrementarono il corpus cronachistico aquilano, l’opera di Buccio dà avvio ad un’attività che lega tra loro, senza soluzione di continuità, i testi, in volgare e in latino, dei cronisti aquilani tra Trecento e Quattrocento: tra questi, Antonio di Buccio, Niccolò da Borbona, Francesco d’Angeluccio di Bazzano, Alessandro de Ritiis e, a cavallo tra Quattro- e Cinquecento,Vincenzo di Basili di Collenbricione. Rispetto ai due filoni menzionati, appare oggi più difficile ricostruire per altre aree l’originaria consistenza della produzione cronachistica volgare e individuare una trama unitaria entro la quale racchiudere i singoli testi. Vediamo qualche caso. Tracce di forme embrionali di scrittura storica in volgare s’individuano in ambienti monastici calabro-lucani; sui margini dei libri liturgici dei secoli XI-XIII appartenuti al monastero greco dei Santi Elia e Anastasio di Carbone sono infatti presenti diverse annotazioni, di cui quindici in caratteri greci: segno quest’ultimo della vitalità della tradizione scrittoria su base greca ai confini calabro-lucani nei secoli XV e XVI. Lungo un arco di tempo ampio ben 171 anni (1402-1573), diversi monaci si sono dunque alternati nel lasciare, a margine dei libri di preghiere d’uso quotidiano, Centrale du IXe au XIIe siècle, Roma 1998). Sulla produzione storiografica in latino di età normanno-sveva e angioina, accanto a SABATINI, Napoli angioina cit., si vedano M. ZABBIA, Notai-cronisti nel Mezzogiorno svevo-angioino, Salerno 1997; ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Nuovi studi storici, 49); E. D’ANGELO, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003; F. DELLE DONNE, Politica e letteratura nel Mezzogiorno medievale. La cronachistica dei secoli XII-XV, Salerno 2004. 9 La definizione di «regione-ponte» si legge in VIGNUZZI, Gli Abruzzi cit., p. 597, cui si rimanda per il quadro linguistico.
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notazioni scritte riguardanti una prevedibile quanto varia tipologia di eventi: la morte di membri della comunità monastica, alcuni fenomeni naturali (apparizioni di comete e terremoti), così come taluni episodi relativi alle vicende politiche e dinastiche del Regno (ad esempio, l’incoronazione di Ferrante e il saccheggio di Bisignano, allora soggetta a Marino Marzano, nel febbraio del 1461, per effetto della guerra tra l’erede del Magnanimo e il pretendente angioino)10. Si prenda, ancora, il caso di Terra d’Otranto. Sono falsi o sospetti di falsità alcuni «supposti prodotti quattrocenteschi», giunti sino a noi in manoscritti o stampe tarde e dalla veste linguistica non affidabile11. È così per i Diari di Vincenzo Cardami e per la cronaca attribuita al leccese Antonello Coniger: quest’ultimo avrebbe raccolto e riusato materiali precedenti ampliandoli col resoconto di avvenimenti successivi al 1494; tuttavia, a parte l’assenza di testimoni precedenti la prima stampa settecentesca, grava su questa cronaca la «minacciosa presenza – in prossimità della prima circolazione del testo a stampa – di Giovan Bernardino Tafuri (noto pregiudicato per una serie di falsi storiografici commessi ai danni anche di personaggi di prima qualità tra cui il Muratori, cui rifila il Chronicon neritinum e il Ragionamento della guerra de’ signuri viniziani…)»12. In effetti, per connettere lungo coerenti e stabili tracciati la produzione di cronache e memorie storiche in volgare si deve attendere la mitografia cittadina cinque-seicentesca delle patrie provinciali, le cui origini e i cui fasti vengono ricondotti all’età antica o medievale. Si tratta, in sostanza, di una produzione in volgare di storie cittadine e genealogie nata nel contesto dei processi di trasformazione identitaria dei ceti urbani aristocratici13: è in età moderna che nel Regno la storiografia locale ricerca blasonate ascendenze che affondano le loro radici nell’antichità e nel medioevo. Questa esplosione di testi storiografici a partire dal Cinquecento può spiegare perché siano stati proprio gli studiosi di ambito moderno a scor-
10 A.M. PERRONE CAPANO COMPAGNA - A.VÀRVARO, Capitoli per la storia linguistica dell’Italia meridionale e della Sicilia. II. Annotazioni volgari di S. Elia di Carbone (secoli XVXVI), «Medioevo romanzo», 8 (1981-1983), pp. 91-132. 11 R. COLUCCIA, Lingua e cultura fino agli albori del Rinascimento, in Storia di Lecce. Il Medioevo, cur. B. VETERE, Roma-Bari 1993, pp. 487-571: 559. 12 Ibid. 13 Sulle storie locali in età moderna v. almeno A. MUSI, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, cur. A. LERRA, Manduria-Bari-Roma 2004, pp. 13-26; G. CIRILLO, “Generi” contaminati. Il paradigma delle storie feudali e cittadine, ibid., pp. 157-210: 198; per l’Abruzzo v. ora C. CICARELLI, Storie locali nell’Abruzzo di età moderna (1504-1806), L’Aquila 2014.
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gere un filo rosso che legherebbe la scrittura cronachistica in volgare di età medievale alla produzione successiva. In un recente quadro d’insieme, John Marino ha suggerito che nel testo capostipite della tradizione napoletana, la Cronaca di Partenope, possano essere individuati alcuni temi storiografici centrali per quanti, tra Cinque e Seicento, affidano alla scrittura storica il compito d’illustrare le ragioni della preminenza sociale e politica dei ceti provinciali: il mito delle origini greco-romane e l’attenzione al Sacro, che si declina come interesse per la fondazione eroica delle città, per il culto dei santi protettori, per le istituzioni religiose14. Prendendo spunto dalla riflessione di Marino, proviamo a individuare, su un diverso piano, altri nodi storiografici prevedibilmente di lunga durata: quelli relativi al rapporto tra monarchia e universitas e agli equilibri interni tra le diverse componenti cittadine15. Prim’ancora che in età moderna, questioni legate alle dinamiche tra élites cittadine e sovrano sono presenti, con diversi gradi di consapevolezza, anche in alcuni testi della cronachistica volgare medievale, nei quali si avverte la necessità di ridefinire l’identità cittadina in relazione alle fratture storico-dinastiche e ai mutevoli assetti politico-istituzionali. Nella Capitale e in Terra di Lavoro, cronisti d’estrazione popolare, come Ferraiolo, Notar Giacomo, Guarino d’Aversa, fanno dell’invasione del Regno da parte di Carlo VIII un “operatore di narratività”; la trama degli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento viene costruita dando spazio ai processi di negoziazione politica tra città e monarchia e al rapporto fra sovrano e Regno, spesso risolto nel ruolo egemone della Capitale: in qualche caso, come in Notar Giacomo, la ricostruzione delle tensioni sociali diviene attenta auscultazione degli umori, delle voci e dei rumores della Capitale. A loro volta, le cronache aquilane individuano alcuni eventi spartiacque nella storia dell’Aquila e su di essi intrecciano le fila della narrazione: la guerra braccesca per i cronisti della prima metà del Quattrocento; le vicende degli anni Ottanta del XV secolo per Francesco d’Angeluccio, l’ultimo tra i rudes auctores editi nelle Antiquitates. Focalizzando l’attenzione sul contesto locale, i cronisti aquilani leggono la storia dinastica e regnicola nelle sue ripercussioni sul loro centro urbano.
14 V. MARINO, Constructing the Past cit. V. anche MUSI, Storie “nazionali” cit., pp. 2026: lo studioso individua alcuni temi che circolarono dalle storie nazionali a quelle locali (questione delle origini; fedeltà alla Corona; dinamiche dei seggi e della nobiltà; memoria agiografica; antispagnolismo). 15 Su questi due ambiti si veda ora per il Regno G. VITOLO, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli 2014.
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Naturalmente, a fronte di questo perdurante interesse della storiografia regnicola tanto per il rapporto fra monarchia e universitates quanto per gli equilibri cittadini tra parti e ceti, sono proprio le discontinuità negli orientamenti ideologici e nelle posture narrative a segnalare che la scrittura cronachistica ha mutato funzione nei processi di costruzione memoriale e identitaria del Regno: se, nel Trecento, ad una scarna scrittura cronachistica dall’andamento dinastico potrebbe essersi affidato il nobile Bartolomeo Caracciolo Carafa per rafforzare la successione turbolenta di Giovanna I e Luigi di Taranto e per legittimare se stesso agli occhi del sovrano, sullo scorcio del Quattrocento, invece, l’attivismo politico di notai, funzionari locali, artigiani di Terra di Lavoro e della Capitale favorisce la produzione di cronache in cui l’andamento ad annum e la secchezza referenziale delle notazioni non oblitera la militanza pro-aragonese e la vicinanza politica agli ambienti amministrativi delle universitates16. Insomma, anche quando la si guardi attraverso la specola del Regno, lungo l’arco del basso medioevo, la cronachistica in volgare modifica via via ruolo e prestigio all’interno del sistema delle forme della scrittura storica. A fronte di una diversa concezione del fare storia promossa dalla riflessione umanistica e dalla prassi rinascimentale, anche nella tradizione volgare, in parallelo al progressivo differenziarsi dei generi storiografici, la duttile e ibrida forma cronachistica sopravvive soprattutto perché risponde ai bisogni narrativi di quanti erano estranei agli ambienti letterari e sprovvisti della necessaria erudizione per padroneggiare efficacemente altri generi17. 3. La produzione aquilana: Buccio di Ranallo e i cronisti quattrocenteschi «Espressione di un’orgogliosa memoria dell’eroico passato e di un’acuta coscienza del difficile presente», la cronaca di Buccio di Ranallo si staglia nel panorama della cronachistica del Regno (e non solo) per il forte nesso fra rievocazione storica e agire politico: dimensione epica e intenzio16 V. SABATINI, Napoli angioina cit., p. 138 per l’importanza del fatto che l’opera di Bartolomeo Caracciolo fu scritta in volgare da «un esponente dell’alta aristocrazia napoletana […] espressamente per essere offerta al sovrano». 17 Non intendo qui suggerire un rapporto meccanico tra l’affermarsi della riflessione umanistica e la progressiva perdita di prestigio del genere cronaca. Come osservato per il contesto inglese, «a number of other factors must be taken into any account of the decay of the chronicle» (D.R. WOOLF, Reading History in Early Modern England, Cambridge 2000, p. 12; ma si veda tutto il cap. 1, The Death of the Chronicle, per un confronto con la produzione inglese).
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ni didattico-moraleggianti concorrono a renderla una narrazione «eticamente risentita della storia di una comunità»18. Redatta in un volgare aquilano «saldamente radicato nella sua matrice “mediano-sabina”», a partire dalla doppia fondazione dell’Aquila, la cronaca ripercorre poco più di un secolo di storia cittadina e giunge sino al 136219. Essa fu iniziata probabilmente dopo il 1355. Alle sue spalle, quindi, vi è un drammatico periodo d’instabilità e di conflitti durato quasi un ventennio: i contrasti tra i diversi castelli, le lotte tra le fazioni facenti capo alle maggiori famiglie cittadine, la morte del maggiore esponente della parte vincitrice, Lalle Camponeschi, dopo la quale il governo cittadino passa al Magistrato delle Arti. La Cronica di Buccio si segnala per l’adozione di una forma strofica arcaica come la quartina monorima di alessandrini: una soluzione metrica «provincialmemente attardata», peculiare della produzione d’ispirazione didattico-moraleggiante e documentata nel Regno anche nei volgarizzamenti del Regimen sanitatis e De balneis puteolanis20. All’interno dell’opera trovano posto anche ventuno sonetti, egualmente piegati ad un’esigenza di narrazione storico-civile; di essi i primi dodici furono scritti prima della cronaca, tra gli anni Trenta e Quaranta del Trecento, come forma d’intervento diretto e militante nelle vicende cittadine: obiettivi polemici e intento morale si affidano alla trama martellante di frasi interrogative ed esclamative, così come a un lessico corposo e realistico21. Tornando alla scelta metrica, va osservato che la struttura della quartina monorima porta con sé un’organizzazione paratattica della materia: all’andamento coordinativo e al prosciugamento sintattico corrispondono, sul piano lessicale, la ripetizione di moduli discorsivi preformati e il ricorso ad elementi formulari, secondo la tecnica tipica della tradizione epica e canterina. In virtù dell’intenzione didattica, il discorso narrativo può assumere movenze proverbiali e sentenziose, congeniali alla volontà di restituire il valore morale di fondo dell’esperienza storica, di cui lo stesso Buccio è
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FORMENTIN, Sfortuna di Buccio cit., p. 186. Ben noto il giudizio di Gianfranco Contini secondo cui, insieme all’Anonimo romano, Buccio è «il principale cronista volgare del trecento italiano fuori di Toscana» (v. G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, p. 521). 19 VIGNUZZI, Gli Abruzzi cit., p. 604. 20 FORMENTIN, Sfortuna di Buccio cit., p. 187. 21 V. DE MATTEIS, Buccio di Ranallo. Critica e filologia cit., pp. 93-94 e DE MATTEIS, Introduzione, in Buccio di Ranallo, Cronica cit., pp. IX-L: XVIII. Si veda anche TERENZI, Città, autonomia e monarchia cit., p. 354.
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testimone e protagonista. L’intento didattico-moraleggiante non oscura, però, la dimensione storica del discorso: le «formule sapienziali attengono a una realtà concreta» e fanno riferimento a una precisa comunità cittadina, quella aquilana; è in relazione a questa comunità che il cronista ricostruisce la trama concreta d’interessi e contrasti che ha generato gli eventi e motivato i comportamenti collettivi e individuali22. Coerentemente con quest’interesse per la varia fenomenologia di accadimenti cittadini, trovano spazio nella cronaca non solo le lotte tra fazioni e le azioni guerresche e militari, ma anche quegli eventi naturali che, con la loro natura calamitosa, minacciano la comunità. Disastri, gli uni e gli altri, nella prospettiva con cui vengono rappresentati da Buccio, perché capaci di mettere in crisi le strutture sociali e le protezioni culturali cui spetta il compito di scongiurare o mitigare le minacce alle quali è esposta la collettività23. Notevole, ad esempio, è il vigore evocativo degli episodi relativi a due grandi calamità che colpirono L’Aquila intorno alla metà del secolo: la peste del 1348 e il terremoto del 1349. Al di là del rilievo della dimensione patetico-emotiva, nel racconto «è l’affresco di vita» quotidiana che «s’afferma e s’accampa con i suoi profondi chiaroscuri»24. Vengono infatti narrati da Buccio il vertiginoso rincaro dei prezzi, la necessità di far circolare ordinanze e statuti per regolamentare la condotta sociale, il moltiplicarsi delle donazioni a ordini religiosi e la difficoltà nel trovare testimoni per testamenti; ma anche, con uno slittamento verso il piano delle reazioni emotive, la paura dei medici nel recarsi presso gli infetti, la sbrigatività di riti funebri celebrati senza il rintocco delle campane e, passata la pestilenza, la spinta vitale che si manifesta nella fretta di prendere moglie o marito anche da parte di chi veste abiti monacali. Guardiamo ora le forme della trasmissione del testo. La tradizione della Cronica è caratterizzata da ingenti varianti di tipo rielaborativo-redazionale: quest’ultime sono state spiegate dall’editore della cronaca, Carlo De Matteis, in parte come il risultato di una trasmissione affidata a varie voci, narranti e recitanti, che si sarebbero sovrapposte a quella dell’autore, in parte come effetto di duplicità redazionale da ricondurre allo stesso 22
DE MATTEIS, Introduzione cit., p. XIII. V. anche DE MATTEIS, Buccio di Ranallo. Critica e filologia cit., p. 111. 23 Quanto alle rappresentazioni delle calamità naturali nel medioevo, un contributo relativo alle cronache abruzzesi e un quadro d’insieme sulle diverse modalità narrative dei testi del Regno, rispettivamente a firma di PIERLUIGI TERENZI e di CHIARA DE CAPRIO, si potranno leggere in Disaster Narratives in Early Modern Naples. Politics, Communication and Culture (XV-XVIII centuries), cur. D. CECERE et alii, in prep. 24 DE MATTEIS, Civiltà letteraria cit., p. 70.
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Buccio25; ma un’altra causa di «perturbamento» dei rapporti stemmatici tra i testimoni della tradizione «si può indicare nel processo di contaminazione a cui, con ogni probabilità, andarono incontro i vari rami di una tradizione ristretta entro le mura cittadine e rappresentata da manoscritti allestiti da copisti-scrittori appassionati di storia aquilana e interessati a mettere insieme esemplari della Cronica quanto più possibile completi»26. Così il ms. Pal. 77 della Biblioteca Palatina di Parma (P, 1463-1488) è l’esemplare commissionato da Francesco di Bazzano, anche lui narratore di vicende aquilane; a sua volta, il secondo sottocodice del ms. S-72 dell’Archivio di Stato dell’Aquila, (A, 1493) si deve all’attività di copia di Alessandro de Ritiis, autore di una cronaca in latino tràdita dal primo sottocodice del medesimo composito manufatto: trascrivendo la cronaca di Buccio in funzione del suo opus, de Ritiis è un copista-fruitore che interferisce col racconto del cronista trecentesco inserendo proprie terzine e apponendo rubriche e postille. In effetti, all’Aquila l’opera di Buccio favorisce la scrittura in versi e in prosa di opere cronachistiche lungo un ampio arco cronologico che giunge sino a metà Cinquecento. Ponendosi all’origine di questa tradizione come straordinario testo “radiante” e «modello per la letteratura comunale», la Cronica rende coesa la produzione aquilana grazie a un diversificato ventaglio di operazioni materiali e testuali che, nel loro complesso, legano ciascun testo non solo a quello di Buccio, ma anche alle altre cronache che lo precedono: prosificazioni, compendi e continuazioni, assemblaggi di più testi nello stesso manoscritto27. Il primo dei continuatori è Antonio di Buccio (o di Boezio), che prosegue sino al 1381 l’opera di cronista e rimatore di Buccio di Ranallo con Delle cose dell’Aquila, anch’essa in quartine di alessandrini. Fanno registrare, invece, il passaggio all’ottava i cinque canti Della venuta di Carlo di Durazzo nel Regno che Antonio scrive su eventi regnicoli dal 1378 al 1382: fulcro del racconto è lo scontro di Giovanna I col pontefice Urbano e con Carlo di Durazzo, fino al trionfo di quest’ultimo e al suo insediamento come sovrano28. La soluzione metrica dell’ottava sembra, tuttavia, lasciare
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Per un ridimensionamento di questa ipotesi v. FORMENTIN, Sfortuna di Buccio cit. Ibid., p. 190. VIGNUZZI, Gli Abruzzi cit., p. 603. I testi in L.A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, VI, Mediolani 1742, coll. 711-824 e 825-848. Le ottave si leggono anche in GELMINI, Antonio di Boezio cit., pp. 2866. Su Antonio di Buccio v. F. SABATINI, Antonio di Boezio, in Dizionario Biografico degli Italiani, III, Roma 1961 s.v.; DE BLASI - VÀRVARO, Il regno angioino cit., p. 475; GELMINI,
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insoddisfatto Antonio di Buccio: alla fine dei cinque canti egli annuncia che metterà da parte la forma metrica dei versi ad octo e farà ritorno a li versi a quattro29. Alla prosa si affida la Cronaca delle cose dell’Aquila dall’anno 1363 all’anno 1424 che, secondo la vulgata storiografica, sarebbe stata redatta da Niccolò (Cola) da Borbona, forse un cantastorie che seguì la storia dell’Aquila con «vigile e partecipe attenzione»30: iniziando là dove si era interrotto Buccio di Ranallo, il cronista si spinge a narrare l’assedio posto alla città da Braccio da Montone e la morte del condottiero. Più che nelle cronache in prosa lo spirito di Buccio torna, però, a riecheggiare nelle ottave dei Cantari dedicati a un episodio della storia cittadina di grande rilievo: la resistenza al lungo assedio e la vittoria dell’Aquila contro l’esercito del condottiero Braccio da Montone nella battaglia del 3 giugno 142431. Nell’ambito delle lotte per la successione a Giovanna II d’Angiò, la guerra braccesca fu un evento di rilevanza politica straordinaria. In questo scenario, arrivarono in Abruzzo i maggiori capitani di ventura dell’epoca – Niccolò Piccinino, Francesco Sforza, Giacomo Caldora: questo perché la città abruzzese ricopriva un ruolo strategico nella guerra tra l’esercito di Alfonso il Magnanimo e di Braccio e quello della regina, in cui militavano gli stessi aquilani. Tra i testi che rievocano la grandiosità dello scontro e i celebri protagonisti si colloca, dunque, questo cantare composto negli anni immediatamente successivi al 1424. Si tratta di un «modesto» prodotto che «s’inserisce nel filone della tradizione canterina ed in particolare delle gesta dei paladini e della antica cavalleria, cui l’autore anonimo vuole paragonare quella delle armi aquilane»32. Dalla fiorente tradizione canterina dei poemi cavallereschi
Antonio di Boezio cit.; DE MATTEIS, Civiltà letteraria cit., pp. 117-119; TERENZI, Antonio di Buccio, in Encyclopedia cit., p. 107. 29 V. GELMINI, Antonio di Boezio cit., p. 66. 30 DE MATTEIS, Quattrocento cit., p. 59. Il testo è Cronaca delle cose dell’Aquila dall’anno 1363 all’anno 1424, in MURATORI, Antiquitates cit., VI, coll. 851-880. Sull’autore e le questioni attributive v. DE MATTEIS, Civiltà letteraria cit., p. 119; TERENZI, Niccolò di Borbona, in Encyclopedia cit., p. 1141; DE MATTEIS, Quattrocento cit., pp. 49-66. 31 Il testo si legge in La guerra dell’Aquila cit. Sull’opera v. DE BLASI - VÀRVARO, Il regno angioino cit., p. 475; VIGNUZZI, Gli Abruzzi cit., p. 607; DE MATTEIS, Civiltà letteraria cit., pp. 122-132; TERENZI, La guerra dell’Aquila, in Encyclopedia cit., p. 988; DE MATTEIS, Quattrocento cit., pp. 105-129. Segnalo che C. DE MATTEIS, Introduzione, in La guerra dell’Aquila cit., pp. IX-XL, alle pp. XXI-XXII ipotizza che il testo vada attribuito a Cola da Borbona. 32 VIGNUZZI, Gli Abruzzi cit., p. 607.
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il cantastorie deriva moduli narrativi e retorici, nonché la particolare intonazione celebrativa. Senza che si oscuri la coscienza storica dell’evento, la tensione civile della resistenza a Braccio e le imprese dei guerrieri sono narrate attraverso il repertorio d’immagini e iperboli dei cantari, ma anche mediante il recupero degli attacchi invocazionali della poesia e del teatro devozionale tipici del contesto aquilano e abruzzese. A questa mescolanza di generi e tradizioni, corrisponde sul piano linguistico l’esplicita affermazione di una scelta linguisticamente municipale che, tuttavia, lascia spazio per elementi del toscano letterario, «probabilmente diffusi anche all’Aquila proprio dalla circolazione di tale letteratura “popolare”»33. Nel quadro di generale sviluppo della città nel Quattrocento esercitano un influsso fondamentale le grandi figure dell’Osservanza francescana, come quelle di Bernardino da Siena, Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano. In questo clima prendono corpo altri testi, in volgare e in latino: tra questi, il compendio in prosa delle cronache di Buccio e di Antonio di Buccio attribuito al beato Berardino da Fossa e la già menzionata Chronica civitatis Aquilae (1493-1497), redatta in latino da Alessandro de Ritiis. In questi ultimi due casi siamo dinanzi a religiosi che inseriscono la loro fruizione di Buccio nell’ambito di più generali interessi verso la storia locale e religiosa, come ci rivelano altre loro opere cronachistiche e l’interesse per la storia dell’Ordine34. Si ritorna nell’alveo di una schietta tradizione cittadina con la Cronaca delle cose dell’Aquila dall’anno 1436 all’anno 1485 di Francesco d’Angeluccio di Bazzano35: con Francesco di Bazzano, personaggio di rilievo nella vita pubblica della città, mercante e rappresentante del’Arte della lana, la tradizione aquilana conferma ancora una volta non solo la lunga fedeltà all’opera di Buccio, ma anche la continuità di una scrittura cronachistica che trova nel focus cittadino e nella diretta partecipazione del cro-
33 Ibid. Vignuzzi osserva che sulla veste linguistica avrà inciso anche la fisionomia del copista del ms. 3061 della Biblioteca Comunale di Perugia, il più antico (s. m. del XV sec.) dei due testimoni manoscritti. 34 V. ancora DE MATTEIS, Quattrocento cit., cui si rimanda anche per altri testi cronachistici. Per Bernardino da Fossa v. Quattro cronache e due diari inediti, cur. G. PANSA, Sulmona 1902, pp. 41-61; per Alessandro de Ritiis v. da ultimo il quadro bio-bibliografico di TERENZI, De Ritiis Alessandro, in Encyclopedia cit., p. 514. 35 Il testo si legge in MURATORI, Antiquitates cit., VI, coll. 883-926. Su Francesco d’Angeluccio e la sua cronaca, v. Quattro cronache cit., pp. 19-26; F. SABATINI, Angeluccio Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, 3, Roma 1961, s.v.; R. COLAPIETRA, Cronisti aquilani cit.; DE MATTEIS, Civiltà letteraria cit., pp. 119-122; P. TERENZI, Francesco d’Angeluccio da Bazzano, in Encyclopedia cit., pp. 631-632; SENATORE, Fonti cit.
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nista alle vicende dell’universitas le fondamenta di una costruzione narrativa cui è affidato il compito di rinsaldare il vincolo tra memoria personale e identità cittadina. 4. La produzione della Capitale in età angioino-durazzesca Ai processi di costruzione identitaria della Napoli angioina sembra connesso il più cospicuo aggregato di scritture storiche in volgare, noto come Cronaca di Partenope. Secondo Sabatini, la stesura dei testi e la loro progressiva fissazione nel corpus andrebbero collocate tra gli anni di poco precedenti alla metà del Trecento e il penultimo ventennio del Quattrocento, quando un nuovo assetto testuale è affidato alla princeps ([Napoli, Del Tuppo], 1486-1490)36; solo in pieno Cinquecento alle più generiche denominazioni di croniche e scriptura, attestate nei manoscritti e nella prima stampa, si sostituisce invece quella di Cronaca di Partenope. Al di là delle diverse fisionomie che il corpus assume nella tradizione, è indubbio che la sua composizione ambisca a soddisfare due istanze: ricomporre in una trama unitaria le vicende d’età angioina; dare nuova forma a narrazioni relative alle origini di Napoli e alle precedenti dominazioni, tramandate da testi agiografici e storici più antichi. Proprio le trasformazioni cui sono stati sottoposti i materiali preesistenti potrebbero essere connesse al bisogno di ripensare il rapporto fra memoria storica e identità urbana alla luce dei mutamenti provocati dal cambio dinastico. Se, infatti, nella capitale angioina erano disponibili raccolte di opere storiche in latino e in francese, tuttavia è con l’attività di composizione del corpus che emergono più decisi e chiari interessi per la storia di Napoli e del Regno37; infatti, accogliendo miti sulla Napoli greco-romana, leggende di santi, narrazioni delle prodezze militari contro i Saraceni, nonché profili e gesta dei sovrani normanni, svevi e angioini, le prime due parti resero disponibile, in volgare e in un unico organismo, un patrimonio di storie dal valore fondativo: non a caso, dunque, esse furono copiate e rimaneggiate anche dai cronisti di età aragonese e vicereale. Se sulla funzione “fondativa” della Cronaca di Partenope vi è unanime consenso tra gli studiosi, sono diverse, invece, le ipotesi relative ai modi e 36 V. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 134 e 137: la stesura della parte più antica, la prima, andrebbe datata agli anni Quaranta o Cinquanta del secolo. 37 Sulla circolazione di opere latine e di volgarizzamenti in francese di argomento storico, v. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 133 e 139; MINERVINI, Il francese a Napoli cit.
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tempi di composizione di questo agglomerato di scritture storiche; come in altre tradizioni a basso gradiente di autorialità, l’individuazione di sezioni e rifacimenti è un’operazione che dipende dalle prospettive teoriche adottate38. Secondo il quadro tradizionale ricostruito da Monti e poi da Sabatini, il corpus si sarebbe articolato in quattro parti che, nel loro complesso, coprono le vicende del Regno dalla fondazione di Napoli al regno di Carlo di Durazzo. Nell’ipotesi di Sabatini, le quattro parti sono i nuclei fondamentali a partire dai quali si sono andate costituendo, attraverso passaggi intermedi non sempre documentati dalla tradizione, le diverse fisionomie testuali concretamente rinvenibili: I + II interpolata; I + II + III; I + II interpolata + IV39. L’assemblaggio dei testi in questo corpus dalla fisionomia mobile sarebbe da collocare tra gli ultimi decenni del Trecento e il Quattrocento: negli anni Ottanta del Trecento un anonimo rimaneggiatore avrebbe saldato Prima e Seconda Parte, mentre, parallelamente, avrebbero preso corpo anche i compendi villaniani della Terza Parte e i materiali poi confluiti nella Quarta Parte; sarebbero, invece, fatti quattrocenteschi l’aggregazione tra il nucleo delle prime due parti e, alternativamente, la terza e la quarta. Diversa l’ipotesi di Samantha Kelly, che nel 2011 ha curato l’edizione delle prime due parti: queste, secondo la studiosa, andrebbero distinte dalle altre due e considerate in modo unitario, poiché attribuibili a quel Bartolomeo Caracciolo Carafa che si riteneva, invece, autore di una delle fonti della cronaca (la cosiddetta Breve informazione)40 . La stesura
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V. VÀRVARO, Il testo letterario cit.; FERNÁNDEZ ORDÓÑEZ, Transmisión cit. Non entro qui nel merito dei processi di costruzione del corpus per i quali rimando a SABATINI, Napoli angioina cit., p. 135; DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 22-24; F. Montuori in questo volume. Segnalo solo che l’assetto I + II interpolata è peculiare di un ramo della tradizione manoscritta costituito dai mss. I D 14 della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo e It. 281 (a H. 8. 14, già VIII B 4) della Biblioteca Estense di Modena, mentre l’ulteriore aggiunta della Quarta Parte è attestata dalla tradizione a stampa. Inoltre richiamo il fatto che negli assetti testuali costituiti da I + II interpolata e I + II interpolata + IV è documentata una versione della Seconda Parte ampliata mediante materiali assenti nel resto della tradizione: questi materiali, secondo Kelly, sarebbero tratti in gran parte dal compendio villaniano che in altri codici costituisce la Terza Parte (v. S. KELLY, Preliminary Matter, in The ‘Cronaca di Partenope’ cit., pp. 3-148: 84-87). Ma ora vedi F. MESSINA, Genesi cit., pp. 53-55 per una nuova ipotesi sulla relazione che lega Seconda Parte interpolata e Terza Parte: rispetto a quanto prospettato da Kelly, Messina propone d’invertire il rapporto (una parte dei materiali sarebbe trasmigrata dalla Seconda Parte interpolata alla cosiddetta Terza Parte di argomento napoletano [III A in Sabatini]). 40 Non vi è attualmente consenso sull’entità che viene designata come Breve informazione. Prima dello studio di Kelly, aggiornando l’ipotesi di Sabatini, la Breve informazione veniva considerata un testo “autonomo” redatto da Bartolomeo Caracciolo Carafa entro il
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finale della Cronaca di Partenope (intesa come insieme delle prime due parti) viene così fissata da Kelly tra l’agosto del 1348 e l’agosto del 1350 (e, in ogni caso, non può superare il 1362, anno della morte di Bartolomeo)41. Anche a prescindere dalle differenze, significative, tra le due ipotesi, vorrei porre in risalto alcuni dati certi relativi alla morfologia materiale e al carattere duttile della cronaca, concentrandomi sulle prime due parti. Innanzitutto queste confermano il ruolo decisivo che nell’elaborazione della produzione cronachistica locale in volgare fu svolto dalla prassi del volgarizzamento dal latino (sia classico sia medievale): le parti più antiche della Cronaca sono per lo più il frutto dell’attività di traduzione prima e assemblaggio poi di testi in latino di argomento mitico, agiografico e storico. Tra questi, un testo simile alla compilazione in latino di materiali classici e medievali tràdita da una sezione del ms. IX C 24 della Biblioteca Nazionale (da ora BN) di Napoli e alcuni testi agiografici e storici legati a tradizioni locali, come il Chronicon di Santa Maria del Principio e la Vita Athanasii42. Un secondo dato va richiamato. Utili indicazioni per comprendere il progetto della Cronaca possono essere tratte dal vocabolario metaletterario con cui essa viene definita dai copisti-rifacitori nelle redazioni tramandate
1362; la scarna cronaca dinastica sarebbe stata poi rimaneggiata e inclusa nella Cronaca di Partenope, costituendone la Seconda Parte. Va notato che la tradizione manoscritta della Cronaca di Partenope conserva quasi sempre il colophon originario della Breve informazione con autonominazione di Carafa, designazione del testo come «breve informacione» e dedica a Luigi di Taranto. Secondo questa ipotesi, lo stadio originario della Breve informazione è trasmesso da un’esigua tradizione costituita da tre soli codici (una traduzione in latino del testo si conserverebbe nel ms. Vat. Ottob. 2940, su cui v. infra). Invece, Kelly nega che la Breve informazione sia stata redatta come testo autonomo da Carafa e sia poi confluita nella Cronaca di Partenope. La studiosa ritiene, infatti, che il colophon con autonominazione di Carafa si riferisca a ciò che Sabatini considerava come le prime due parti della Cronaca di Partenope; rovesciando il senso del rapporto, la versione “autonoma” sarebbe quindi frutto di un successivo rimaneggiamento: di questa versione, però, Kelly non conosce due testimoni, tra cui il codice più antico, il Pal. 951 della Biblioteca Nazionale di Firenze. Per il quadro dei possibili rapporti tra Seconda Parte e Breve informazione sia consentito rimandare a DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 20-24; DE CAPRIO, La storiografia angioina cit., pp. 433-436; Montuori in questo volume. Per le argomentazioni e gli elementi portati da Kelly a sostegno della sua tesi, v. KELLY, Preliminary Matter cit., pp. 92-94. 41 Ibid., pp. 14-15, 17 e 26. La studiosa non esclude che l’attività di raccolta dei materiali possa essere iniziata già alla fine degli anni Venti e/o Trenta, ma ritiene che la scrittura definitiva del testo vada certamente collocata tra il 1348 e il 1350. Si noti che Kelly modifica anche la possibile datazione della Terza Parte. 42 Per il quadro delle fonti ibid., pp. 55-78. Sulla diversa identità di chi ha tradotto dal latino e chi ha raccolto e aggregato i testi v. ora Montuori in questo volume.
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dalla tradizione43. Istruttivo in tal senso il confronto tra le rubriche iniziali del ms. M 973 della Pierpont Morgan Library (da ora PML) di New York (qui M, M1 secondo la sigla utilizzata da Kelly) e del ms. I D 14 della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo (PL qui e per Kelly, P per Sabatini), i due codici più autorevoli rispettivamente per I+II e I+II interpolata44. In M il corpus è definito come croniche composte a partire da «diversi volume de libre (Le q(u)ale cose se inna(r)rano tucte in diversi volume de libre sicch(é) in queste p(rese)nte cronich(e) tucte so’ conposte», M, c. 23ra rr. 5-8); invece, in PL esso è definito una scriptura composta a partire da «diversi volumi e coroniche» («Le quale chuose tucte se narrano i(n) diversi volumi e coroniche et in questa presente scriptura si componino», PL, c. 1r, rr. 4-6). Il lessico usato in M descrive, quindi, l’attività di composizione del nuovo testo come un percorso che, a partire da generiche narrazioni («diversi volume de libre»), porta alla costruzione di un testo con un focus storico («in queste p(rese)nte cronich(e)»); in PL, invece, emerge una descrizione delle fonti secondo una chiara coppia oppositiva: generiche narrazioni versus cronache («diversi volumi e coroniche»), destinate tutte a confluire in una nuova scriptura. Al di là delle differenze, in entrambi i casi, i termini così raggruppati mostrano che alla composizione del corpus trecentesco è sottesa l’idea di una riduzione quantitativa e qualitativa di eterogenei ipotesti attraverso il loro montaggio in un nuovo organismo: “comporre” è qui utilizzato nel senso di ‘formare un tutto dall’unione di più elementi’ o, per meglio rimarcare il carattere testuale dell’operazione, ‘accorpare materiali narrativi, tratti da fonti diverse, in una nuova struttura’45. A fronte di tali modalità di lavoro, unicità del supporto materiale e seriazione cronologica sono le due forme di ordinamento, materiale e con-
43 Per questa prospettiva di lavoro rimando a M.L. MENEGHETTI, Sistema dei generi e/o coscienza del genere nelle letterature romanze medievali, «Medioevo romanzo», 37 (2013), pp. 5-23. 44 Nel ms. M 973 della PML le prime due parti sono seguite dalla Terza Parte. 45 Converrà ancora richiamare il fatto che nella Prima Parte l’autore del testo si autodefinisce «compositore» («[I]nter l’altre et varie cose che so’ in presencia de me (com)positore de quisto libro solamente scrivere una cosa no(n) m’è greve», M, c. 35vb, rr. 12-15). Sebbene a questa altezza cronologica in area italo-romanza la voce occorra nell’accezione generica di ‘autore’, qui essa sembrerebbe mantenere un legame con il valore originario della parola, che rimanda all’attività di raccolta e assemblaggio di materiali di diversa provenienza (v. TLIO [Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, consultabile alla pagina tlio.ovi.cnr.it) s.v. compositore e s.v. componitore). Per una disamina di questi aspetti v. MONTUORI, La scrittura della storia cit., pp. 186-188 e DE CAPRIO, La storiografia angioina cit., pp. 434-438.
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cettuale, attraverso le quali è data compattezza a un organismo testuale che nasce dall’attività di selezione, accorpamento e riduzione di fonti diverse. Blocchi testuali di transizione e “cuciture” tendono a mimetizzare l’assemblaggio di materiali eterogenei. Tuttavia, traccia della diversità degli ipotesti resta nello spostamento del focus narrativo tra le due parti: incentrata sulla storia di Napoli, la Prima Parte racconta i prodigi virgiliani, le vite esemplari dei santi e la fondazione di culti e chiese; la Seconda Parte, invece, si presenta come una sequenza di nuclei organizzati su base dinastica, secondo la successione dei signori prenormanni e dei sovrani normanni, svevi e angioini. Se gli eventi narrati nelle due parti ci appaiono come oggetti distinti su cui la scrittura esercita la sua funzione memoriale è perché essi non vengono inseriti in un’omogenea e compatta routine narrativa. Infatti, pur in un comune impianto stilistico “medio”, sono ben riconoscibili differenze nell’andamento periodale tra prima e seconda parte: più complessa l’organizzazione della Prima Parte, caratterizzata dalla presenza di collegamenti ipotattici e paraipotattici; additiva e paratattica, invece, la linea di sviluppo della Seconda Parte, che affida la sua progressione narrativa alla congiunzione “e” e ai connettori “anche” e “poi”. In modo analogo, nella Quarta Parte l’ordine delle sequenze narrative e la veste linguistica rivelano che nuclei di diversa origine sono debolmente aggregati mediante elementi di giunzione. Fonti ideologicamente distanti sono infatti riconnesse in una trama non priva d’incongruenze per narrare le lotte fra i rami della dinastia angioina fino alla vittoria di Carlo di Durazzo. In conclusione, come mostrano i diversi assetti documentati dalla tradizione, è preferibile guardare la Cronaca di Partenope attraverso la lente della “coesione debole” tipica dei testi narrativi del medioevo volgare e considerarla come un’entità testuale che, per tutto il Trecento e ancora all’altezza della prima stampa, veniva trattata da rimaneggiatori e editori come aperta e in progress. Se ci muoviamo a considerare la circolazione della Cronaca di Partenope fra la Capitale e il Regno, è utile far emergere un’informazione che ci è offerta dalla tradizione manoscritta. Come già mostrava Sabatini, a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento si dispongono intorno a Napoli vari esemplari manoscritti in cui il corpus è abitualmente affiancato da un omogeneo gruppo di testi con un prevalente focus storico-geografico46: oltre ai compendi villaniani che costituiscono la cosiddetta Terza
46 Sabatini parlava di anni Cinquanta; si noti, però, la presenza di questi testi anche nel
ms. M, datato al 1438.
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Parte, una descrizione della Campania, un volgarizzamento in prosa del De balneis puteolanis di Pietro da Eboli, un volgarizzamento dell’Itinerarium di Petrarca. Con la loro successione di testi storico-geografici, queste sillogi si configurano, quindi, come un organico “libro di storia” prevalentemente incentrato sulla Campania. L’epicentro di diffusione di queste raccolte storiografiche sarebbe costituito dall’area di Terra di Lavoro che, congiungendo Napoli con Gaeta e Roma, fu teatro delle lotte tra durazzeschi, angioini e aragonesi47. Va messa nel dovuto rilievo un’indicazione di Sabatini: i codici quattrocenteschi rappresentano in certo qual modo il visibile prolungamento di quell’«esigenza» di allestire compendi (storici ed eruditi) peculiare dell’ambiente napoletano dalla fine del Trecento48. Per Sabatini, infatti, il periodo a cavallo tra Tre e Quattrocento è una tappa decisiva per la composizione di prose storiche in latino e in volgare, così come il pieno Quattrocento è il momento in cui si realizzano diverse operazioni di assemblaggio: un’ipotesi in sostanza fatta propria anche da Samantha Kelly, pur in un quadro sensibilmente diverso per via dei differenti rapporti prospettati tra i singoli testi49. Inoltre, in una prospettiva attenta alle dinamiche tra Napoli e il Regno, appare significativo che alcuni manoscritti mostrino la circolazione della cronaca lungo diverse direttrici: il ms. I 63 del fondo San Martino della BN di Napoli è esemplato nel 1451 da un tal Vinciguerra de Podio de Marsico,
47 Sulla scorta di SABATINI, Napoli angioina cit., p. 140 segnalo che il codice Vat. lat. 4601 è uno «zibaldone di scritture storiche, messo insieme nella seconda metà del secolo XV»: esso contiene, oltre alla Cronaca di Partenope (parti I + II + IIIB), al Sito et conditione de Campagna e ad altri compendi, un volgarizzamento della Chronica di Martin Polono con un prolungamento «intessuto di molti collegamenti tra le vicende dei pontefici e quelle della dinastia angioina». Secondo Sabatini, per le caratteristiche linguistiche e contenutistiche, si tratterebbe di una continuazione redatta da un suddito pontificio del Lazio meridionale. 48 V. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 139-140, 161-162 e 179-181: «l’esigenza di allestire compendi di varia erudizione a livello divulgativo si documenta con certezza nell’ambiente napoletano alla fine del Trecento» (p. 181). 49 Dopo aver menzionato, tra i testi in latino, il perduto Chronicon di Guglielmo Maramauro e una cronachetta napoletana fino al 1381 tràdita dal codice Vat. Ottob. 2145, appartenuto a Giovanna I, Sabatini ricorda l’importante silloge di testi storici tramandata dal codice Vat. Ottob. 2940. Tra i testi raccolti nel codice vi è il cosiddetto Chronicon Siculum: se il manoscritto è posteriore al 1396, il Chronicon è stato composto in latino tra gli anni dal 1370 al 1396 da un «esponente della più fiera nobiltà napoletana», sostenitore del ramo degli Angioini di Francia e degli antipapi Clemente VII e Benedetto XIII. Secondo Sabatini, l’autore del Chronicon potrebbe anche essere l’ideatore della silloge di testi storici ospitati nel ms. ottoboniano (v. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 139-140). In un diverso quadro, anche KELLY, Preliminary matter cit., pp. 89-93 e 94-96, offre un’analisi del Vat. Ottob. 2940 e del Chronicon e sottolinea l’importanza degli anni a cavallo tra Tree Quattrocento.
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in Abruzzo; a sua volta, il codice XIV D 7 della BN di Napoli viene copiato nella Salerno di Roberto di Sanseverino nel 147150. Se il libro di storia è anche un oggetto, visibile e tattile, che rinvia a un destinatario a lui esterno, l’attività di copia della cronaca rivela l’interesse che per le sue storie dovettero avere personalità che operavano lontano dalla capitale e figure che si muovevano intorno alle fila dell’aristocrazia provinciale. 5. Cronache e memorie quattro-cinquecentesche a Napoli e in Terra di Lavoro La prolungata fortuna della Cronaca di Partenope è testimoniata da una tradizione manoscritta sostanzialmente quattrocentesca che, sulla scia d’interessi eruditi già manifestatisi a fine Trecento, colloca il corpus all’interno di un più ampio insieme di testi d’argomento storico: la circolazione della Cronaca è dunque un elemento di continuità che travalica la frattura dinastica tra l’età angioino-durazzesca e quella aragonese. Ulteriori fattori di continuità sono riconoscibili nell’adesione a un modello cronachistico a testualità debole, caratterizzato da appropriazione e rifacimento di testi preesistenti appartenenti a tradizioni documentarie e narrative diverse. Al contempo, già a partire dal tardo Trecento, il quadro delle scritture storiche si fa più ricco e vario nelle soluzioni: segno, come suggeriva Francesco Sabatini, della presenza di personalità con precisi connotati di medietà culturale e linguistica51. In via preliminare, va quindi registrato un aumento puramente quantitativo della produzione in volgare: a lavori più impegnativi si affiancano, infatti, testi minori, poco noti e poco frequentati52. A fronte di questa maggiore ricchezza di testi, accanto alle redazioni che saldano le prime due parti della Cronaca di Partenope alla Terza e alla Quarta, le forme della scrittura cronachistica possono essere descritte individuando altri tre ambiti: innanzitutto, a partire dal primo Quattrocento, testi di taglio giuridico-dinastico; tra età durazzesca ed età aragonese, narrazioni nelle quali la scrittura cronachistica cede il passo al racconto popo-
50 V. SABATINI, Napoli angioina cit., p. 282 note 102 e 103 e p. 283 nota 104 e KELLY, Preliminary matter cit., p. 148. 51 V. F. SABATINI, Lingue e letterature volgari in competizione [1992], in SABATINI, Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1996, cur. V. COLETTI et alii, 2 voll., Lecce 1996, II, pp. 507-568: 543. 52 V. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 167-168.
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lare di trazione orale e alla rievocazione memoriale; negli anni finali del Regno aragonese, cronache cittadine scritte a ridosso e per effetto dei grandi rivolgimenti che travolgeranno la dinastia regnante. Al primo filone, notarile e giuridico-dinastico, sono riconducibili i notamenti e le cronache redatti dai notai Ruggero Pappansogna e Dionisio di Sarno (nel caso in cui non siano falsificazioni realizzate nel Cinquecento nell’ambito di un generale processo di rivendicazioni nobiliari)53. In forza del nesso fra publica fides notarile e verità della scrittura storica, i due notai sarebbero stati chiamati a trascrivere antichi atti e a tramandare memoria dei diritti e dei benefici dei monasteri e delle famiglie nobiliari. In piena età aragonese, a un ambito giuridico rimanda la Summa dei re di Napoli e Sicilia e dei re d’Aragona (1468-1470 ca.), redatta dal valenziano Lupo de Spechio «in una lingua composita» in cui sono presenti tratti di «entrambi i sistemi in contatto (napoletano e catalano»)54. In linea col suo profilo di dottore in legge e di servitore della casa reale, de Spechio redige un testo che, nella sua ambizione di dare un «fondamento storico-legale» alla dinastia aragonese, si riconnette ad un filone storiografico ben acclimatato negli ambienti catalani e siciliani e poi trapiantatosi nel contesto napoletano 55. Al secondo ambito appartengono quei testi in cui la narrazione si snoda a partire da una diretta partecipazione ai fatti e da un’immersione nella tradizione del racconto popolare. Punto di vista popolare e padronanza di una tecnica narrativa, che fa sentire vicino «il genere dei romanzi, se non dei cantari», sono gli elementi che caratterizzano i Diurnali detti del Duca di Monteleone (post 1415 ca.). Opera di un autore anonimo vissuto tra il 1390 e il 1460, i Diurnali sono
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Insieme ad altri testi, la Cronica de li cristianissimi ri, a tutela dei privilegi del monastero di San Pietro a Castello, sarebbe stata redatta nel 1423 da Dionisio di Sarno; essa è tramandata dal cod. 811/1517 del Musée Condé di Chantilly. A Pappansogna si attribuiscono attestati sui diritti dei nobili del Seggio di Montagna e una cronaca delle famiglie appartenenti al medesimo seggio: i testi sono contenuti nel cod. XIII F 21 della BN di Napoli. V. SABATINI, Napoli angioina cit., pp. 276-277 nota 57; M. DE NICHILO, Dionisio di Sarno, in Dizionario biografico degli Italiani, 40, Roma 1991 s.v., che dà conto della bibliografia pregressa; MONTUORI, La scrittura della storia cit., p. 175 nota 16; VITOLO, L’Italia delle altre città cit., pp. 231-232; F. SENATORE, Il sistema documentario del regno di Napoli durante l’antico regime e i suoi effetti sugli archivi delle università e sulle raccolte statutarie, «Archivi», 10 (2015), pp. 33-74. 54 COLUCCIA, Il volgare nel Mezzogiorno cit., p. 398. 55 A. COMPAGNA PERRONE CAPANO, Introduzione, in LUPO DE SPECHIO, Summa cit., pp. 23-26.
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un resoconto dei fatti del Regno dal 1262 al 1457, tutto fondato «sulla linearità dell’esposizione “paratattica”»: prova ne è, nota Sabatini, che un mo ‘ora’ «basta ad attualizzare una scena e ad avviare una descrizione al presente»56. Il tono popolare è confermato dal gusto per dettagli e particolari concreti, nonché dalla tendenza alla drammatizzazione di momenti di più intensa partecipazione, come la fine di Ladislao o il dialogo tra Giovanna II e la folla napoletana. Insomma, in attesa di ulteriori studi, i Diurnali sembrano essere un’affascinante narrazione destinata ad un pubblico di bassa cultura «desideroso di conoscere le tante trame che avvolgevano la vita di tutti e di sentir rievocare le imprese e le avventure di tanti re, regine, condottieri e concittadini famosi»57. Va qui menzionato un altro testo che, accanto ai Diurnali, costituisce uno dei vertici di questa produzione nel volgare locale: i cosiddetti Ricordi redatti da Loise De Rosa, mastro de casa di sovrani, nobili e alti prelati, dai tempi di Ladislao di Durazzo. Iniziati nel 1452 e continuati oltre il 1475, i Ricordi sono composti da cinque testi di carattere memorialistico e storico, trasmessi da un codice autografo – il ms. Ital. 913 della Biliothèque nationale de France – nel quale Loise ricopia il suo lavoro58. Come ha suggerito Formentin, può rientrare in quest’ambito la cronaca del Regno tràdita dal ms. Marciano it. Zanetti 42: redatta nel 1481 da un Anonimo Veneziano, essa si basa sul racconto orale che questi ascolta dall’«egregio savio et homo doto ornato de virtù et boni costumi sier Domenico De Llello citadin gaetano, cussì nominato, de ettade cercha de anni LXV»59. De Lello, originario di Gaeta ma vissuto a Napoli fino al regno di Ferrante, è infatti a Venezia come cancelliere del condottiero Giovan Corrado Orsini, in quel torno di tempo al servizio della Serenissima.
56 SABATINI, Napoli angioina cit., p. 164. 57 Ibid. 58 Per De Rosa v. FORMENTIN, Scrittura e testo cit. e FORMENTIN, Introduzione, in Loise
De Rosa, Ricordi cit., pp. 13-64. Si vedano anche M. DE NICHILO, De Rosa, Loise, in Dizionario biografico degli Italiani, 39, ROMA 1991 s.v.; DE BLASI, Due riflessioni storico-linguistiche cit.; B. FIGLIUOLO, Notarella su Loise De Rosa, «Archivio Storico per le Province Napoletane », 127 (2009), pp. 217-220. 59 Il testo del racconto di De Lello si legge in G. DE BLASIIS, Istoria del Regno di Napoli dal MXL al MCCCCLVIII, «Archivio Storico per le Province Napoletane», 16 (1891), pp. 174-200, 361-397, 611-644, 773-831. Il passo che qui si cita è tratto dalla trascrizione fatta da Formentin dopo un controllo sul ms. (v. FORMENTIN, Introduzione cit., p. 40). Si vedano per De Lello SABATINI, Napoli angioina cit., p. 167; FORMENTIN, Introduzione cit., pp. 14 e 40-42.
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Al terzo gruppo sono riconducibili quelle cronache in volgare composte a ridosso dell’invasione francese e della fine del regno aragonese. Gli autori di questi testi sono notai, funzionari, imprenditori (mercanti, appaltatori) e artigiani, tutti appartenenti al ceto medio (i cittadini) e contigui alla parte che si riconosceva nell’organismo politico a base topografica (il Seggio del Popolo) ricostituito da re Carlo VIII nel 149560. Questa produzione cronachistica va legata ai mutamenti che si susseguono nell’assetto della società napoletana: la Capitale consolida il suo ruolo di controparte politica tanto per la vacillante dinastia aragonese quanto per gli invasori, francesi prima spagnoli poi. Dopo le concessioni ottenute da Carlo VIII, nelle ultime ore dei regni di Ferrandino e Federico, il popolo gioca le sue carte per consolidare gli spazi di partecipazione alla vita politica, così come, all’avvento dell’età spagnola, cerca di far fronte alla perdita di dinamismo sociale che prelude al definitivo irrigidimento della Capitale in senso oligarchico. In linea con questo scenario, prospettiva cittadina, sostegno alla casa d’Aragona e percezione del ruolo di Napoli capitale sono i poli entro cui si sviluppano i resoconti di questi cronisti, chiamati a fare i conti col trauma dell’invasione francese e con la fine della monarchia aragonese.
60 Per quanto parchi nel dare notizie biografiche, in qualche caso i cronisti forniscono utili indicazioni per ricostruire i loro profili: Guarino d’Aversa era appaltatore delle entrate della Corona e fu per un certo periodo al servizio di Giovanna d’Aragona, moglie di re Ferrante; quanto a Giuliano Passaro, le cedole della tesoreria aragonese consultate dallo storico Erasmo Percopo prima della loro distruzione ci restituiscono un Giuliano Passaro “sellaio” (E. PERCOPO, Nuovi documenti su gli [sic, nda] scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, Napoli 1895, pp. 3-4); in altri lavori, invece, a Passaro è attribuita la qualifica di «setaiolo». Recentemente SENATORE, Fonti cit., p. 284 nota 8 ha giudicato l’attribuzione del mestiere di “setaiolo” a Passaro come «un errore del repertoriatore delle cosiddette cedole di tesorerie […], laddove i registri originali attestavano l’esistenza di un Giuliano sellaio come tutta una serie di probabili suoi congiunti». Più difficile è fornire informazioni su Ferraiolo e Notar Giacomo. Del primo è stato ipotizzato che possa essere stato un funzionario di basso livello della cancelleria aragonese o un artigiano del settore orafo (per la prima ipotesi v. R. COLUCCIA, Introduzione, in Ferraiolo, Cronaca cit., pp. IX-XLIX: XXIVXXVI). Quanto a Giacomo, sappiamo con certezza che egli fu un notaio attivo a Napoli tra fine XV e XVI secolo: in un passaggio della cronaca, infatti, il cronista si qualifica come «not(ari)o Iacobo» (Napoli, Biblioteca Nazionale, Brancacciano II F 6, c. 122r), adottando il modulo dell’autonominazione costituito dal pronome personale di prima persona «io» accompagnato dal nome. La recente perizia di Marco Cursi sulla grafia del ms. Brancacciano II F 6, codice unico autografo, e dei registri notarili del notaio Iacobo De Morte indebolisce l’ipotesi d’identificazione tradizionale dell’autore della cronaca col notaio Della Morte, ipotesi avanzata dal primo editore del testo, il conservatore della Biblioteca Brancacciana di Napoli Paolo Garzilli. Non trova alcun supporto nel testo l’idea secondo cui la cronaca sarebbe stata continuata a partire dalle note del padre di Giacomo della Morte (v. ancora KELLY, Medieval Influence cit., p. 5).
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6. Spazi comunicativi, tradizioni narrative e cronachistica in volgare Sebbene utile per attraversare le diverse forme della scrittura storica in volgare, tuttavia la schematizzazione appena proposta non deve far dimenticare il fatto che gli ambiti appena descritti non vanno intesi come inerti e separati serbatoi di narrazioni; piuttosto, i testi cronachistici quattro-cinquecenteschi vanno guardati secondo una prospettiva unitaria, in modo da riconoscerne alcuni caratteri comuni61. Delineato il quadro dei testi, è utile, allora, esplorare la cronachistica quattro-cinquecentesca al fine di verificare in che modo, e con quali effetti sulle strutture narrative e linguistiche, i cronisti si avvantaggiarono della contemporanea circolazione – orale, manoscritta e a stampa – di un variegato insieme di testi: memorie e narrazioni orali, scritture storiche e narrazioni in versi d’argomento storico, documenti amministrativi e altri generi testuali ai quali era affidata la trasmissione delle informazioni (nove, avisi, dispacci, lettere). In particolare, s’intende mostrare che nel Regno scriventi dal profilo socio-culturale medio-basso diedero forma a uno spazio testuale in cui s’intrecciavano memorie del passato e notizie del presente, in un continuum di soluzioni narrative variamente influenzate dalle forme del racconto popolare e dalle soluzioni della scrittura amministrativa e cancelleresca. In questa prospettiva, si metterà in luce che, accanto a testi redatti in uno schietto volgare locale, vi sono anche cronache che offrono soluzioni narrative e linguistiche che possono essere considerate “intermedie” in un duplice senso62. In primo luogo, perché soggette alla pressione di 61 In DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 32-33 si sono individuati quei parametri che consentono di descrivere i modi in cui, in ciascuna cronaca, si ricompongono molteplici suggestioni culturali e diversi modelli narrativi: 1) centralità dell’esperienza personale e tipo di istanza narrativa; 2) appelli al lettore e dialogicità del testo; 3) prevalenza del codice come unità compositiva; 4) presenza di scarti interni nella forma del testo e alternanza di strategie compositive e andamenti testuali diversi; 5) organizzazione in progress del testo e presenza di ampliamenti e modifiche; 6) andamento logico “semplificante” nella narrazione di eventi storici; 7) natura orale o documentaria delle fonti su eventi coevi al cronista; 8) presenza di sezioni archeologiche relative alla storia di Napoli e del Regno e caratteristiche di queste sezioni (ricorso a fonti orali o scritte; modalità di assemblaggio). Com’è evidente, i parametri mettono a fuoco i seguenti elementi: lo scrivente (1); il pubblico (2); il rapporto di scrittura che l’autore instaura col testo così come ci è rivelato dalle caratteristiche materiali del codice (3); la morfologia e la concezione del testo (4-6); le modalità di costruzione del fatto storico (7-8). 62 Nel suo complesso, la tradizione cronachistica quattro-cinquecentesca qui esaminata ci offre, insomma, un ventaglio di competenze narrative e d’impasti linguistici che getta luce sul possibile insieme di usi bassi e medio-bassi della lingua scritta nel Regno. Sull’importanza di riconoscere un continuum di competenze diverse per i nostri cronisti v.
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modelli fra loro concorrenti; in seconda battuta, perché opera di scriventi che, anche in virtù della vicinanza agli ambienti di produzione documentaria, sono accomunati da due caratteristiche: impiegano impasti linguistici in cui sono variamente ridotti i tratti locali; adottano strategie narrative legate a tradizioni d’ambito amministrativo. Prima d’entrare nel vivo dell’analisi, è opportuno precisare che, alla luce del quadro degli studi, pur senza rinunciare a confronti coi testi aquilani, ci si servirà soprattutto di cronache della Capitale e di Terra di Lavoro rappresentative delle diverse soluzioni narrative e linguistiche. Il primo elemento da sottolineare è, in effetti, comune alla produzione volgare dell’intero Regno. Lontana dai piani alti della storiografia umanistica, la scrittura delle cronache trova il suo fondamento nel legame tra testimonianza personale e narrazione: la menzione della propria partecipazione agli eventi narrati è, infatti, una delle principali soluzioni cui l’istanza narrativa si affida per rendere il suo racconto autorevole e credibile63. Parimenti, funzionano da “marchi di storicità” anche altre strategie che, evidenziando i modi in cui la narrazione è stata costruita, ne rafforzano lo statuto storico: si legga così, ad esempio, la propensione dei nostri cronisti a menzionare i luoghi cittadini in cui hanno reperito le notizie. Alla volontà di rinsaldare il nesso fra la propria partecipazione agli eventi e l’attività di scrittura risponde anche l’attenta selezione dei termini che forniscono al lettore una valutazione del grado di affidabilità delle notizie raccolte; ad esempio, nella narrazione in ottave di Antonio di Buccio, il cronista distingue tra quanto lui stesso ha visto a L’Aquila e quanto ha appreso indirettamente: a queste diverse modalità di reperimento delle notizie corrispondono scelte lessicali e pattern sintattici diversi (nel primo caso, io vidi; nel secondo caso, manifesto a voce se dicea / mi fo-ne alle ’recchie acertato / me fo accertato)64. Analogamente, quando il resoconto ha caratteri straordinari, la necessità di ribadirne la credibilità può essere soddisfatta evocando sulla pagina scritta i testimoni fededegni cui il cronista è ricorso: ad esempio, nei Ricordi, «l’ampia narrazione della straordinaria avventura di Giovanna d’Arco» è «ricca di particolari così eccezionali che Loise sente il
FORMENTIN, Introduzione cit., p. 62; DE BLASI, Storia linguistica cit., pp. 60-63. In prospettiva generale, FRESU, La scrittura dei semicolti cit., p. 204. 63 Sulle implicazioni testuali e linguistiche di questi aspetti v. ora DE ROBERTO, Dinamiche enunciative cit. 64 GELMINI, Antonio di Boezio cit., rispettivamente pp. 64, 59, 53 (cito eliminando il punto in alto dopo elemento pronominale clitico).
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bisogno di allegare l’autorità della sua fonte, ovviamente orale (secundo só informato da uno francese paresino)»65. Inoltre, le nostre cronache si differenziano, tra loro e al loro interno, per il ricorso a posture narrative e andamenti testuali diversi, ora aperti alle soluzioni formali del racconto di tradizione orale ora, invece, influenzati dalle forme della scrittura amministrativa. Se, dunque, furono molteplici i modelli di cui si avvalsero i cronisti, è utile verificare come s’intrecciavano i due versanti concettuali e comunicativi dell’oralità (e del parlato) e dello scritto nel tessuto delle cronache66. 65 66
FORMENTIN, Introduzione cit., p. 43. Pare opportuno mettere a fuoco la vischiosità del termine ‘oralità’, riferito a lingua, cultura/letteratura e tradizioni narrative, modalità di circolazione dei testi. In prima battuta, in riferimento al piano linguistico, nei lavori di Koch e Oesterreicher si distingue fra dimensione concezionale (come un testo è concepito) e dimensione mediale di un testo (attraverso quale medium un testo viene trasmesso e fruito): oralità e scritturalità riguardano innanzitutto l’aspetto concezionale di un testo e vanno rispettivamente intese come equivalenti dei concetti di immediatezza comunicativa (= oralità/parlato) e distanza comunicativa (= scritturalità). In quest’ottica, una rassegna dei casi di “oralità” e di “parlato” nello scritto deve quindi basarsi sull’individuazione di elementi e procedimenti linguistici tipici dell’oralità all’interno del testo scritto. Sono esclusi dall’analisi di Koch e Oesterreicher i testi letterari che mostrano tracce di “oralità formalizzata”. Per tutti questi aspetti si veda almeno P. KOCH - W. OESTERREICHER, Sprache der Nähe - Sprache der Distanz. Mündlichkeit und Schriftlichkeit im Spannungsfeld von Sprachtheorie und Sprachgeschichte, «Romanistisches Jahrbuch», 36 (1985), pp. 15-43 e KOCH OESTERREICHER, Lengua hablada en la Romania: español, francés, italiano, Madrid 20072. In riferimento all’area italo-romanza, per i diversi modelli di classificazione dell’oralità e del parlato nello scritto si vedano i classici lavori di G. NENCIONI, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato [1976], in Discorsi linguistici, Bologna 1983, pp. 126-179; F. SABATINI, Prospettive sul parlato nella storia linguistica italiana (con una lettura dell’«Epistola Napoletana» del Boccaccio) [1983], in Italia linguistica delle origini cit., pp. 167-201; P. D’ACHILLE, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma 1990. Due recenti quadri di ampio respiro si leggono in E. TESTA, Storia della lingua parlata nella Romània: italiano, in Romanische Sprachgeschichte / Histoire linguistique de la Romania, cur. G. ERNST et alii, 3, Berlin-New York 2008, pp. 2412-2424 e S. TELVE, Il parlato trascritto, in Storia dell’italiano scritto cit., III. Italiano dell’uso, pp. 15-56. Per il discorso che qui si svolge, è importante ricordare ulteriori impieghi del concetto di “oralità” in riferimento a generi letterari e «discorsi che fanno riferimento a un sapere sociale riguardante certe azioni considerate significative» (P. ZUMTHOR, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna 1983, p. 54). In questa prospettiva, dimensioni di “oralità formalizzata” sono infatti riconoscibili in quei testi in cui sono presenti marche linguistiche e stilemi che rimandano a una dimensione comunicativa orale (reale o presente come cliché): tra questi, pronomi che mettono in relazione l’istanza narrativa col pubblico; apostrofi; verbi che denotano l’ascolto. Sull’oralità formalizzata dei generi della poesia popolare si vedano almeno i classici lavori di ZUMTHOR, La presenza della voce cit. e ZUMTHOR, La lettera e la voce. Sulla “letteratura medievale”, Bologna 1990. Caso d’incontro fra la reportatio dell’esecuzione orale e la formalizzazione dell’oralità tipica della
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Strategie narrative tipiche degli ambienti a cultura prevalentemente orale si riconoscono nei modi in cui memoria collettiva ed esperienza individuale vengono codificate nei Ricordi di Loise De Rosa. Di questo retroterra orale del racconto derosiano restano significative tracce nell’organizzazione testuale e a livello linguistico. Per quanto concerne l’organizzazione narrativa, nell’opera sono riconoscibili scarti di forma testuale; coi suoi cinque testi, i Ricordi ora assumono la forma di un «discorso in risposta a un preciso interlocutore», ora possono essere letti alla stregua di una «cronaca di memorie personali e civili», ora sono costruiti come «un libro di famiglia inteso a dare ai congiunti utili ammaestramenti di vita»67, ora ambiscono a narrare storie utili per mettere in guardia i baroni del Regno sui pericoli e sui rischi d’incaute ribellioni al potere monarchico («Per aviso vostro, chesto che aio scritto, chesta mangnia storia, èy per acchaisone de ly singniure de chisto Riame, che non commenczano mo ad essere ribbielle de ly ry»)68: frase significativa quest’ultima se letta come un riflesso della proposta politica della dinastia aragonese nell’ideologia popolare antinobiliare del mastro de casa Loise69. In relazione alla ricchezza di motivi narrativi presenti nel Ricordi, Vittorio Formentin ha messo in luce il ricorso a materiali di tradizioni orali vive nel Regno nella seconda metà del Quattrocento. In particolare, il confronto tra i Ricordi e l’Istoria di De Lello permette allo studioso d’individuare in entrambi i testi un «disegno logico “semplificante”, tipico del rac-
produzione canterina è l’opera di Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo: quest’ultima offre un interessante esempio di restituzione nello scritto di un “testo-evento” registrato in presa diretta dagli uditori (v. L. DEGL’INNOCENTI, I “Reali” dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, Firenze 2008). In un’ottica di storia culturale, infine, per l’Italia rinascimentale è stata prestata particolare attenzione alla circolazione di testi popolari con una forte componente “vocale” sia attraverso il medium scritto sia attraverso il canale vocale-aurale: per quest’ultimo aspetto, si vedano, oltre alla ricca messe di lavori alla nota 87, gli importanti contributi di M. ROGGERO, Le carte piene di sogni. Testi e lettori in età moderna, Bologna 2006 e di O. NICCOLI, Manoscritti, oralità, stampe popolari: viaggi dei testi profetici nell’Italia del Rinascimento, «Italian Studies», 66 (2011), pp. 177-192 e il recente Interactions between Orality and Writing cit. Alla luce del quadro appena delineato, in questa sede, senza rinunciare a mostrare convergenze, manterrò distinti i tre livelli di analisi: il piano relativo alla concezione del testo e alle tracce di parlato nello scritto; la dimensione dell’oralità formalizzata delle tradizioni narrative popolari; le forme della circolazione e fruizione dei testi attraverso il medium vocale-aurale. 67 FORMENTIN, Introduzione cit., p. 47. 68 Loise De Rosa, Ricordi cit., p. 605. Il passo citato segue il celebre episodio dell’incontro tra Federico Barbarossa e il pontefice. 69 Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato da F. MONTUORI, Lingua e narrazione nei “ricordi” di Loise De Rosa in preparazione.
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conto popolare»70. Presa nel suo insieme, la narrazione di De Rosa fa emergere, dietro la pulviscolare varietà delle singole storie, la costanza dei desideri e degli istinti immediati che guidano l’agire umano. Che siano narrate le leggendarie avventure di Federico Barbarossa in Terrasanta, la vendetta compiuta dal conte di Caserta contro Manfredi o, ancora, la magnanimità mostrata da Filippo Maria Visconti coi prigionieri di stirpe regale catturati nella battaglia navale di Ponza, attraverso il processo di semplificazione appena descritto «la storia può essere più facilmente proposta come exemplum morale, insegnamento utile nella vita di tutti i giorni»71. Questa peculiare elaborazione narrativa del fatto storico ha ricadute precise a livello della struttura del racconto: poiché l’intreccio mira a trasmettere un insegnamento e una verità esemplare, manca un’organizzazione con climax e risoluzione finale: «molto spesso la conclusione moralmente significativa viene addirittura anticipata all’inizio del racconto»72. Inoltre, come mostra l’episodio della battaglia di Ponza, questo schema semplificante è applicato da Loise anche a eventi della storia recente, così come a casi da lui vissuti o per i quali può allegare la sua testimonianza. In questo modo, il discorso narrativo dei Ricordi dispiega la sua funzione conoscitiva: esso si offre, cioè, come un serbatoio di singole vicende storiche capace di far affiorare quell’interpretazione della vita, ad un tempo elementare e più generale, che si è andata stratificando nel lento ruminio dei racconti e delle memorie popolari73. Possono essere messe in relazione con questa modalità narrativa di tipo orale le strategie sintattico-testuali e le opzioni lessicali comuni ai cinque testi di cui i Ricordi si compongono: rimandano alla dialogicità e situazionalità tipiche dell’oralità le formule fatiche («che voglio dire?», «che novella bona?») e i frequenti appelli al destinatario, sia esso un figliolo o un più generico pubblico di lettori («tu che liegie», «ho vuy che ligite»). Inoltre, lungo il filo di una sintassi additiva e paratattica, spicca il ricorso al discorso diretto per riassumere in una battuta il carattere di un personaggio; infine, strumento privilegiato per dischiudere la forza morale del racconto è il ricorso a proverbi e modi di dire, così come l’utilizzo di meta-
70
FORMENTIN, Introduzione cit., p. 41. Per il quadro dei rapporti con i materiali leggendari presenti anche in altri testi, si veda l’ampia esemplificazione alle pp. 37-45. 71 Ibid., p. 42. 72 Ibid., p. 54. 73 Di «lento ruminio» parla Calvino nella Introduzione alle fiabe italiane (v. I. CALVINO, Introduzione [1956], in CALVINO, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti, Milano 1993, pp. 5-53: 13.
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fore ed espressioni che impongono sulla pagine scritta l’«evidenza fenomenica delle cose»74. Se, come si è visto, la cultura narrativa di De Rosa può essere ricondotta a una «tradizione illetterata a forte oralità residua», va tuttavia anche sottolineato che i Ricordi sono pur sempre un testo scritto; «l’approdo alla scrittura» è, ad un tempo, conquista decisiva per l’autore ed elemento di grande rilevanza per noi interpreti: la ripresa di materiali e posture narrative tipici dell’oralità non deve, cioè, occultare l’intenzione testuale che sorregge il progetto di scrittura di Loise e la sua volontà di affidare al medium scritto racconti a lui giunti attraverso lo scambio orale75. Quest’ultima riflessione è particolarmente utile per ricostruire le modalità di organizzazione narrativa delle cronache redatte sul finire del Quattrocento: infatti, in questi testi, in funzione dei cambiamenti di fonte o modello narrativo, un cronista poteva far coesistere sezioni più scopertamente vicine alle forme della narrazione popolare e altre influenzate dalle modalità narrative dei tipi testuali più rigidi della tradizione amministrativa. Prendiamo la Cronaca di Ferraiolo, per la quale disponiamo dell’ampia disamina di Rosario Coluccia76. Dotato di focus spazio-temporale compatto, il testo presenta schemi e procedimenti formali tipici della scrittura cronachistica, come la periodizzazione ad annum della materia e l’inserimento d’indicatori testuali che conferiscono credibilità alla narrazione. Allo stesso tempo, nella cronaca vengono rimaneggiati materiali provenienti da tipologie testuali fra loro diverse; grazie a questo procedimento la cronaca «appare in grado di catalizzare e veicolare sino a noi testimonianze di varia origine e di differente estrazione culturale, presenti sugli scenari della capitale aragonese»77. Se l’ingresso di Alfonso è narrato a partire dalla testimonianza paterna, la rievocazione della presa di Otranto è costruita attraverso l’adattamento in forma prosastica di un ignoto cantare napoletano che dovette avere una certa circolazione se le sue ottave furono sfruttate anche da fra Berardino di Renda de Pactis nel suo Tractato (1488), sorta di planctus in ottava rima che celebra le virtù d’Ippolita d’Aragona78. Torniamo a
74 75 76
FORMENTIN, Introduzione cit., p. 61. Ibid., p. 57. La cronaca copre le vicende di Napoli e del Regno dal 1442 fino al febbraio del 1498, con una netta prevalenza dei fatti legati all’invasione di Carlo VIII. 77 COLUCCIA, Introduzione cit., p. XXXVI. 78 Per le modalità di riuso e le differenze con Ferraiolo v. la serrata analisi di N. CIAMPAGLIA, Un inedito tractato meridionale su Ippolita d’Aragona di frate Bernardino de Renda di Patti: identificazione di una fonte perduta, «Filologia e Critica», 20 (1995), pp. 44-
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Ferraiolo. Anche le azioni militari contro le truppe francesi danno modo al cronista d’inserire un testo di poesia popolare: uno strambotto in cui la rievocazione dello scontro tra Francesi e abitanti d’Ischia offre l’occasione di ridicolizzare il corpo di spedizione che aveva tentato l’assalto dell’isola nel 149579. Inoltre, alle spalle dei passi dedicati alla congiura dei baroni, sono riconoscibili atti riguardanti il processo ai baroni ribelli, fatti stampare da Ferrante per i tipi di Francesco Del Tuppo (1487). La riproduzione degli atti e della sentenza del processo è, però, solo uno dei casi d’inserimento nel tessuto cronachistico di testi appartenenti al filone documentario. Anche in altri luoghi della cronaca, infatti, obiettivi di militanza aragonese e desiderio di conferire autorevolezza alla narrazione sono alla base della decisione d’inserire testi di modesto rilievo, talvolta disponibili in copie stampate: lettere diplomatiche, capitoli e trattati, come quelli promulgati da Ferrandino nel 1495-1496 e da Federico nel 149780. Se nelle zone testuali che hanno alle spalle un documento amministrativo sono attestati elementi fono-morfologici, costrutti sintattici e scelte lessicali tipici della scrittura cancelleresca, nel resto della cronaca, redatta in uno schietto volgare locale, prevalgono, piuttosto, procedimenti e andamenti oralizzanti: tra le strategie di dizione tipiche dell’istanza narrativa della cronaca rientrano le allocuzioni al lettore, le formule di transizione e di ripresa utili per segnalare il rapporto tra vicende e intreccio narrativo (or retornamo); inoltre, sul piano dell’organizzazione complessiva del testo, ripetizioni, omoteleuti e allitterazioni funzionano come elementi in grado di garantire memorabilità e coesione; quanto alla sintassi, vanno citati il che polivalente, i casi di messa in rilievo di un costituente con funzione di Topic, lo slipping fra discorso diretto e discorso indiretto, l’andamento additivo e il prevalente ricorso alla paratassi: tutti fenomeni che ben documentano l’intreccio tra scritto e parlato nella progettazione narrativa di Ferraiolo e la presenza di tracce di una concezione del testo aperta alle forme dell’oralità81.
79: 52ss. Sull’importanza dei testi popolari per la presa di Otranto v. NICCOLI, Manoscritti, oralità, stampe popolari cit., p. 179. 79 V. Ferraiolo, Cronaca cit., § 83 e R. COLUCCIA, Un inedito strambotto campano dell’ultimo quinquennio del sec. XV, «Quaderni di filologia e letteratura siciliana», 3 (1976), pp. 5-12. 80 V. COLUCCIA, Introduzione cit., pp. XXVII e XLI. 81 Per un’analisi dettagliata sia consentito rimandare a DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 62-138.
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Caso analogo è quello del sellaio Passaro. Anche nella cronaca di Passaro, infatti, vengono rifunzionalizzati modalità narrative differenti e testi di diversa provenienza: così la cronaca sembra mantenere un legame con le forme del racconto popolare e con le tecniche di generi, come il cantare e il lamento, dall’identità più riconoscibile82. Si prenda, ad esempio, il trattamento che il cronista riserva alle morti di Ferrante e Ferrandino: in entrambi i casi, la narrazione subisce un percepibile cambiamento di tono rispetto ad altri luoghi in cui domina uno stile più asciutto e referenziale. In particolar modo, nei paragrafi dedicati alla morte di Ferrandino, le iniziali notazioni di stampo documentario e cronachistico cedono il passo alla dolente rievocazione della gloriosa figura del «più virtuoso et vittorioso et amato re» e all’inconsolabile cordoglio di tutto il Regno: membri della famiglia reale e umili servituri; nobili e cittadini di Napoli, grandi et piccioli; vassalli e «nemici di sua Maestà». Si tratta, in quest’ultimo caso, del principe di Salerno e del principe di Bisignano, i due traditori per antonomasia: «Et sì ancora faceva un gra(n) lame(n)to lo s(igno)r Prospero Colonna de un tale re che no(n) bastaria lingua ad contarelo, sì che, magnifici s(igno)ri audituri, fo tanto lo pianto che per tutto lo Regno se faceva che credo che mai fo visto lo semele! Et piangeva lo prencepe de Salierno et quello di Bisignano, li quali erano tornati alla sua fidelitate, perché fino a lo presente erano stati nemici di Sua Maestà!» (Napoli, BN, ms. Branc. IV B 10, c. 65r, rr. 11-17)83. Come mostra il passo citato, trovano qui spazio, intervallate dalle apostrofi al pubblico degli audituri, le esclamazioni e le domande retoriche di una comunità sopraffatta dal dolore, il cui smarrimento è restituito anche dalle scelte lessicali incentrate sui campi semantici del cordoglio e del pianto. Come notò Benedetto Croce, in questi paragrafi Passaro «esce in una sorta di compianto tra lirico ed epico, sullo schema delle “sirventesi” e dei lamenti del Tre e Quattrocento»84. La notazione critica di Croce è preziosa nella misura in cui consente di ricordare il fatto che, per tutto il Quattrocento, il lamento fu in Italia “pratica discorsiva” diffusa e mezzo privilegiato per esprimere una dimensione patetica85: que-
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Per il riuso di testi amministrativi in Passaro v. SENATORE, Fonti cit., pp. 290-291. Ringrazio Nadia Ciampaglia per avermi segnalato il codice e aver discusso del testo di Passaro, su cui ha lavorato e di cui ha approntato un testo critico. 84 B. CROCE, Re Ferrandino [1918], in CROCE, Storie e leggende napoletane, cur. G. GALASSO, Milano 1990, pp. 159-178: 175. 85 V. B. GUTHMÜLLER, Se tu non piangi, di che pianger suoli? Il ‘lamento di Costantinopoli’ in ottava rima, «Schifanoia», 19 (1999), pp. 45-54; F. ALAZARD, Le lamento dans l’Italie de la Renaissance. «Pleure, belle Italie, jardin du monde», Rennes 2010, p. 12.
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st’ultima poteva svilupparsi nella microstoria quotidiana delle vicende dei singoli o, come in Passaro, a partire da un avvenimento di portata storica86. Negli anni delle guerre d’Italia, infatti, cantari e lamenti consentono al pubblico delle piazze non solo di essere ammaliato da cadenze e congegni narrativi che si affidano all’ottava rima, ma anche di ricevere notizie e «mediare un punto di vista a livelli diastratici diversi: il racconto in versi e la sua interpretazione si fanno così strumento di comunicazione e trasmissione politica, spesso civile, di un messaggio e di un’opinione»87. Insomma, per tirare le fila del discorso, mi pare che, dopo i Diurnali, anche le opere di Ferraiolo e Passaro offrano tracce del legame che vi fu tra cronache e testi narrativi in versi di argomento storico-politico non solo in area abruzzese, ma anche nella Capitale. In particolare, questi due ambiti a Napoli sembrano essere stati caratterizzati da spiccate consonanze sul
Si vedano anche le preziose indicazioni di G. POLIMENI, Poesia popolare, in Storia dell’italiano scritto cit., I. Poesia, pp. 257-290: 266 sul rapporto tra testi narrativi in versi e resoconti in prosa di argomento storico. 86 Non affronto però qui la questione della genesi e dei possibili ipotesti di questa sezione: pare indispensabile il confronto coi cosiddetti Memoriali del Duca d’Ossuna, che presentano ampie porzioni testuali in comune con la cronaca di Passaro e offrono una versione più ampia del “lamento”. Modalità narrative analoghe a quelle descritte si registrano, per la morte di Ferrante I, nella cronaca latina di de Ritiis. Come ha osservato SENATORE, Fonti cit., p. 319 nota 82 «il pianto, certamente scritto dopo l’invasione di Carlo VIII, adotta il modulo stilistico dell’Ubi sunt, attraverso il quale l’autore rievocò tutti i protagonisti della storia del regno e dell’Aquila nel XV secolo, dai re angioini e aragonesi, ai baroni, ai patrizi cittadini, ai religiosi, ai più oscuri novizi del suo convento». 87 POLIMENI, Poesia popolare cit., p. 275. Sui cantari e i lamenti in relazione alle guerre d’Italia e all’intreccio fra oralità e scritturalità, voce e stampa, si vedano almeno i più recenti lavori di ROGGERO, Le carte piene di sogni cit.; DEGL’INNOCENTI, I “Reali” dell’Altissimo cit.; ALAZARD, Le lamento cit.; ALFANO, Una forma per tutti gli usi: l’ottava rima, in Atlante della letteratura italiana, dir. S. LUZZATTO - G. PEDULLÀ, 3 voll., Torino 2010-2012, II. Dalla Controriforma alla Restaurazione (2011), cur. E. IRACE, pp. 31-57; M. ROSPOCHER, Songs of War, Historical and Literary Narratives of the «Horrendous Italian Wars» (14941559), in Narrating War. Early Modern and Contemporary Perspectives, cur. M. MONDINI M. ROSPOCHER, Berlin-Bologna 2012, pp. 79-98; M. ROSPOCHER - R. SALZBERG, An Evanescent Public Sphere: Voices, Spaces, and Publics in Venice during the Italian Wars, in Beyond the Public Sphere: Opinions, Publics, Spaces in Early Modern Europe, cur. ROSPOCHER, Berlin-Bologna 2012, pp. 93-114; ROSPOCHER - SALZBERG, Street Singers in Italian Renaissance Urban Culture and Communication, «Cultural and Social History», 9 (2012), p. 9-26; DEGL’INNOCENTI, The Singing Voice and the Printing Press: Itineraries of the Atissimo’s Performed Texts in Renaissance Italy, «The Italianist», 34 (2014), pp. 318335. In generale, sulla poesia popolare in prospettiva linguistica, si vedano ora L. RICCI, Paraletteratura. Lingua e stile dei generi di consumo, Roma 2013, pp. 21-44; POLIMENI, Poesia popolare cit.
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piano della difesa degli interessi della dinastia aragonese88; inoltre, sfruttando l’interrelazione fra dimensione orale e circolazione scritta, essi funzionarono da «possibile circuito di mediazione delle notizie, canale comunicativo costantemente aperto su un pubblico […] vasto e diastraticamente distribuito»89. Se questo peculiare intreccio di tradizioni e questa varietà di esiti narrativi erano dunque possibili, non è forse superfluo percorrere a ritroso le strade attraverso le quali dagli ambienti cittadini i testi sono precipitati nelle maglie del tessuto cronachistico. Ciò che le cronache consentono d’illuminare è infatti la presenza e la disponibilità nei networks urbani di tipi testuali fra loro diversi sia per la maggiore o minore apertura a fenomeni di parlato e a una concezione oralizzante del testo scritto, sia per i modi di circolazione. Per quanto concerne le dimensioni culturali e linguistiche orali (e oralizzanti), abbiamo visto che sono proprio alcuni cronisti e memorialisti (come Loise) a trasferire nello scritto narrazioni che appartenevano a un ambito culturale di tipo orale. Inoltre, come si è cercato di mostrare, seppur poste su un piano diverso rispetto ai Ricordi, nondimeno anche alcune cronache di fine Quattrocento (quelle di Ferraiolo e Passaro) mostrano tracce di una concezione oralizzante del testo e riusano materiali e tecniche del repertorio narrativo popolare. Invece, in altri casi (Notar Giacomo, ad esempio) il riferimento a voci cittadine non implica l’adozione di modalità narrative vicine alle tradizioni orali; piuttosto, è nell’ambito della produzione scritta di tipo storico e cancelleresco che va individuato il serbatoio di modelli narrativi di cui i cronisti si sono serviti.
88 Sono invece più generali intenti morali e religiosi quelli che informano la produzione di fra Bernardino (v. N. CIAMPAGLIA, La ‘Vita di San Gennaro’ di fra Bernardino Siculo alias Bernardino de Renda de Pactis siciliano, «Contributi di filologia dell’Italia mediana», 22 (2008), pp. 77-158: 82ss.). In ogni caso, mi pare interessante che Ciampaglia affermi che Bernardino è «più che un riflessivo poeta, […] un “cronista” in versi che scrive sotto l’impulso emotivo di esperienze dirette per registrare fedelmente ciò che vede accadere» (ibid., p. 89). 89 POLIMENI, Poesia popolare cit., p. 266. Estranee a questo tipo di fonti narrative, invece, sembrano essere le cronache di Notar Giacomo e Guarino, cronisti più vicini al mondo della scrittura amministrativa. Tuttavia il resoconto della morte di Cesare Borgia offerto da Notar Giacomo pare presentare significative analogie contenutistiche (ma non stilistiche) con quello narrato nel poemetto La storia del duca Valentino (Bologna, Lippo, 1506-1507) attribuito a Francesco Maria Sacchino da Mudiana: v. M.C. CABANI, Un ciclo di poemetti sui Borgia, in Les guerres d’Italie. Histoire, pratiques, représentations, cur. D. BOILLET - M.F. PIÉJUS, Paris 2002, pp. 277-299. I due testi presenterebbero, infatti, una versione dei fatti che non è tramandata da altri testi storici di area italiana; tuttavia questa coincidenza potrebbe essere il frutto della comune dipendenza da notizie che provenivano nel Regno direttamente dalla Spagna.
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Infatti, anche per effetto della circolazione a stampa, diversi tipi di testi narrativi potevano facilmente essere letti anche da singoli cronisti interessati a copiarli o rimaneggiarli: è questo ad esempio il caso di cronache locali e compendi di storia universale. In questa prospettiva, è utile prendere in esame le diverse forme di riuso della Cronaca di Partenope, data alle stampe intorno al 1486-1490 in nuovo assetto che saldava Prima Parte, Seconda Parte interpolata e Quarta Parte. Proprio attraverso la fruizione manoscritta e a stampa, l’agglomerato cronachistico è assunto dai cronisti di fine Quattrocento come «promemoria delle […] principali vicende storiche»90. Se, infatti, è indubbio che le cronache quattro-cinquecentesche individuino come momento cruciale gli anni dell’invasione francese e il passaggio alla Corona di Spagna, va anche detto che alcune presentano significative proiezioni all’indietro, per le quali si servono del corpus angioino e della Breve informazione “autonoma”. Infatti, utilizzando, in modi diversi, differenti redazioni del corpus, Ferraiolo, Notar Giacomo, Passaro e, in pieno Cinquecento, Fuscolillo sono tutti accomunati dall’attività di copia o rielaborazione dei testi cronachistici trecenteschi91. Mi limito a illustrare due casi. Nel manoscritto autografo latore della sua cronaca, il ms. M 801 della PML di New York, Ferraiolo accoglie, accanto alla sua cronaca, altri tre testi: un trattato di storia universale in latino, il Fasciculus temporum di Werner Rolewinck; la Cronaca di Partenope secondo la stampa del 1486-1490; un volgarizzamento sui bagni di Pozzuoli, una delle ricchezze naturali più celebrate della Campania. Arricchito da un splendido corredo d’immagini che accompagnano i cinquant’anni narrati da Ferraiolo stesso, il ms. M 801 ospita un «progetto organico di storia napoletana» nel quale coesistono interessi storico-geografici e intenti celebrativi della Napoli aragonese92. A sua volta, in un altro codice autografo, il ms. Brancacciano II F 6 della BN di Napoli, Notar Giacomo rimaneggia i testi di età angioina per tenere insieme «in un unico sforzo di comprensione» la storia della città di Napoli e del Regno, così come era già stato tentato dai compilatori-autori che nel corso dell’età angioino-durazzesca aveva dato vita proprio alla
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SABATINI, Napoli angioina cit., p. 161. Per Fuscolillo, rimando a CIAMPAGLIA, Introduzione, in Fuscolillo, Cronica cit., pp. IX-CCXCVI: XLVII: qui Ciampaglia osserva che, per il suo terzo libro, Fuscolillo stende un resoconto che dipende dalla cosiddetta tradizione autonoma della Breve Informazione. Una diversa ipotesi in KELLY, Preliminary Matter cit., pp. 92-95. 92 DE BLASI, Storia linguistica cit., p. 61.
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Cronaca di Partenope93. Assunte come ipotesto base le quattro parti dell’agglomerato angioino, Notar Giacomo rielabora la materia trecentesca e la salda con prolungamenti che investono l’intera età aragonese e il primo decennio di età spagnola: il lavoro di tessitura delle fonti mira a legare l’osservazione del presente con la storia passata ab origine civitatis. Allo stesso tempo, nello sforzo di dominare le connessioni fra il Regno e le potenze italiane ed europee, il cronista non esita a riadattare nel suo manoscritto un testo storico che circolava a stampa nell’Italia del Quattro-Cinquecento: il cosiddetto Supplemento de le chroniche vulgare (1488), ovvero il volgarizzamento del Supplementum chronicarum di fra Giacomo Foresti, presumibilmente nell’edizione stampata a Venezia da Bernardino Rizo nel 149194. Così, per effetto dell’assemblaggio di fonti diverse, nella cronaca confluiscono distinti progetti storiografici che approdano a esiti tipologici diversi: se nella prima parte, per effetto del riuso del corpus trecentesco e del Supplemento, un andamento temporale s’incrocia con uno genealogico e dinastico, nella seconda e terza parte prevale l’organizzazione ad annum. Converrà a questo punto riannodare le fila del discorso. Come gli esempi di Ferraiolo e Notar Giacomo mostrano, al di là delle differenze tra attività di copia e rimaneggiamento, l’inserimento di sezioni “archeologiche” dedicate alla fase più antica del Regno risponde a un comune bisogno: dominare la tragica frattura delle guerre d’Italia, restaurando, almeno sul piano delle forme, un legame, narrativo e memoriale, col proprio passato. Un terzo elemento può, a questo punto, essere oggetto di attenzione: nella Capitale e nel Regno, soprattutto negli anni dell’invasione di Carlo VIII e del conflitto fra Francesi e Spagnoli, venivano prodotti testi di tipo amministrativo, con prevalente funzione informativa e regolativa: dispacci e avvisi, istruzioni e capitoli, petizioni e lettere di supplica. Erano i diversi
93 Non si dimentichi che la cosiddetta Terza Parte della Cronaca di Partenope è soprattutto un rimaneggiamento della Cronaca di Giovanni Villani, cioè di quel testo che si era posto l’obiettivo di «riassumere in un’unica categoria di interpretazione, in un unico sforzo di comprensione storiografica una vicenda plurisecolare che aveva come epilogo il presente municipale», v. F. RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura della storia a Firenze nel Trecento, Roma 1998 (Nuovi Studi storici, 43), p. XII. 94 Al 1483 risale la princeps della versione latina, su cui si veda A. KRÜMMEL, Das “Supplementum chronicarum” des Augustinermönches Jacobus Philippus Foresti von Bergamo: eine der ältesten Bilderchroniken und ihre Wirkungsgeschichte, Herzberg 1992.
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attori della scena politica del Regno (sovrano, élites cittadine, sindaci delle universitates, capitani etc.) a produrre o ricevere questi testi per esprimere o soddisfare bisogni amministrativi, ma anche per fornire informazioni o indicazioni sulla condotta politica. Ne scaturiva un costante flusso di notizie che non solo legava il sovrano e il suo inner circle a singoli funzionari ed élites locali, ma poteva, quando necessario, investire anche l’universitas omnium civium 95. Alla luce di questo quadro non è allora sorprendente che cronisti di estrazione popolare abbiano potuto utilizzare e imitare questo significativo insieme di testi “rigidi”, molto o mediamente vincolanti ad alto e medio tenore di formularità96. Infatti, una volta affidati alla stampa o affissi in un luogo deputato, testi quali una prammatica e un accordo militare potevano essere letti e fatti circolare anche di voce in voce (del resto, sappiamo che era prassi che alcuni documenti fossero resi pubblici dal sovrano e fatti diffondere sia per iscritto sia oralmente tramite banditori)97. Più nello specifico, nel caso di notizie “pubbliche”, i cronisti poterono tanto copiare un documento che avevano fisicamente sottomano, tanto affidarsi a quanto di quel documento avevano orecchiato e compreso in occasione di una fruizione pubblica; al con-
95 Richiamo qui il fatto che, nell’ambito di un ampio dibattito teso a storicizzare e verificare l’operatività del concetto habermasiano di Öffentlichkeit in età tardo-medievale e moderna, Peter Burke ha suggerito che le guerre d'Italia, con la loro portata catastrofica, abbiano determinato la comparsa di una «sfera pubblica» temporanea e congiunturale. Si veda P. BURKE, Cultura della politica e politica della cultura. Riflessioni sulla sfera pubblica nell’Europa dell’Età moderna, «Il Mulino», 398 (2001), pp. 987-999. Su questo tema v. ora i saggi raccolti in Beyond the Public Sphere cit. 96 Per il concetto di testo rigido v. F. SABATINI, «Rigidità-esplicitezza» vs «elasticitàimplicitezza»: possibili parametri massimi per una tipologia dei testi, in Linguistica testuale comparativa. In memoriam Maria-Elisabeth Conte, cur. G. SKYTTE - F. SABATINI, København 1999, pp. 141-172. Mi limito qui a ricordare che la proposta di Sabatini intende classificare i testi alla luce del patto comunicativo tra emittente e ricevente: esso potrà essere molto vincolante (testi scientifici, normativi e tecnici), mediamente vincolante (testi informativi ed espositivi), poco vincolante (letterari). Una distinzione fra testi ad alto, medio e basso tenore di formularità è proposta da Rosaria Sardo nello studio delle scritture amministrative e pratiche prodotte nella Sicilia del Seicento. Sono considerati testi con medio tasso di formularità le lettere ufficiali, le petizioni, i memoriali, le delibere e le sentenze (v. R. SARDO, Registrare in lingua volgare. Scritture pratiche e burocratiche in Sicilia tra 600 e 700, Palermo 2008, pp. 11-12). 97 Manca per il Regno uno studio complessivo sulle modalità di circolazione delle notizie. Si veda però F. SENATORE, Fonti cit., pp. 295ss, e, per l’effetto sui testi cronachistici, DE CAPRIO, Scrivere cit., pp. 118-138 e DE CAPRIO - SENATORE, Orality cit. Sulla pubblicazione di notizie per volontà dei re aragonesi sono significative le testimonianze offerte dai registri quattrocenteschi di Capua, in corso di stampa presso l’ISIME a cura di F. SENATORE.
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trario, nel caso d’informazioni di tipo amministrativo e di comunicazioni politiche inviate dal sovrano alle élites cittadine, si deve supporre che i nostri cronisti ebbero accesso alla documentazione scritta conservata dalle universitates o fecero parte di quei gruppi cittadini che presenziavano alla lettura di missive regie. Così, ad esempio, Guarino d’Aversa non solo ricorda di essere stato presente, in qualità di eletto dell’universitas, all’apertura di lettere del sovrano, ma accenna anche a quei colloqui tra sovrano ed élite che accompagnavano, rafforzandola, la comunicazione scritta. Insomma, il caso di Guarino rivela che il testo cronachistico poteva prendere forma a partire proprio dal flusso d’informazioni che circolava, in forma orale o in forma di lettera, tra città e ambienti della corte e della cancelleria. Come Francesco Senatore ha mostrato, questo flusso di notizie trovava fissazione in serie cronologicamente ordinate all’interno dei registri dei collegi urbani: ciò spiega perché cronisti vicini agli ambienti di governo cittadino abbiano individuato nel registro e nel verbale dell’universitas un utile modello per strutturare le notizie all’interno delle cronache. In questa prospettiva, vorrei sottolineare che è proprio l’imitazione delle scritture amministrative, con le loro notazioni in ordine cronologico, a fornire ai cronisti una capacità d’interpretazione del presente. Se è vero che, con le cronache, siamo dinanzi a una storia narrata secondo un nudo ordinamento cronologico, è però vero che questo ordinamento è costruito a partire dagli schemi interpretativi rinvenibili in verbali e documenti cittadini. Assumendo questi ultimi come fonte e modello, quindi, i cronisti, più o meno implicitamente, riproponevano e facevano propria una griglia concettuale e interpretativa che rispondeva a obiettivi di difesa dell’identità civica dei ceti vicini alla dinastia aragonese. Per la parte quattro-cinquecentesca relativa a Napoli e al Regno, la cronaca di Notar Giacomo non solo offre un ulteriore esempio di riuso di documenti, ma rivela anche una generale familiarità e consuetudine con modelli e strategie di scrittura d’ambito amministrativo. Del resto, in linea con il presumibile bagaglio professionale di un notaio, nella cronaca, a livello fono-morfologico, si registrano forme di contenimento e riduzione di alcuni tratti della varietà locale, così come, sul piano lessicale, sono ben presenti dittologie e formule d’ambito giuridico. Inoltre, al pari degli altri testi di fine Quattrocento, anche la cronaca di Notar Giacomo è attenta nel ricostruire i meccanismi di circolazione delle notizie. Prova ne è che il “lessico dell’informazione” gioca un ruolo finanche nell’organizzazione narrativa: i termini aviso, nova, noticia sono, infatti, attestati soprattutto in quelle strutture a cui è affidato il compito d’introdurre il contenuto informati-
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vo vero e proprio dei paragrafi; talvolta, come in Ferraiolo, il paragrafo è aperto da una frase il cui soggetto ha come referente il vettore materiale attraverso il quale le notizie arrivavano nella Capitale e nelle città del Regno: è il caso di venne lettera como (e, in Ferraiolo, dell’ancor più concreto venne uno cavallaro). Nei registri della città i cronisti potevano ovviamente trovare informazioni relative a questioni di natura amministrativa ed economica peculiari del contesto urbano in cui vivevano: appalti, assise, deliberazioni di lavori pubblici. Anche in questo caso, i testi potevano essere rapidamente consultati o, invece, ripresi puntualmente nella struttura e nel lessico. Per dare conto di queste differenze, richiamo un esempio illustrato da Francesco Senatore: le informazioni riferite da Francesco di Bazzano sul rincaro dei prezzi a L’Aquila e su una gabella introdotta nel 1474, sebbene precise, non implicano la consultazione di un libro di cancelleria, perché l’organizzazione dei dati non ricalca quella delle fonti amministrative. In casi come questo, in assenza di significative analogie e riprese strutturali, è quindi preferibile pensare che il cronista abbia memorizzato gli elementi informativi significativi e li abbia poi trascritti nella cronaca a partire da sue note98. Alla luce della casistica esaminata, è possibile ricostruire il quadro complessivo del rapporto tra cronache e reti informative cittadine. Nel loro insieme, i testi cronachistici composti negli anni finali del Regno rivelano un dato importante per la valutazione dei circuiti comunicativi delle universitates: nelle arene e negli spazi cittadini non solo si diffondevano informazioni relative alla gestione amministrativa locale, ma giungevano anche notizie provenienti dai piani alti della comunicazione politica99. In questo scenario, grazie alla loro capacità d’inserirsi nei networks che contribuivano alla “costruzione delle notizie”, i cronisti furono capaci di ristrutturare le forme della scrittura cronachistica per dare conto di una congiuntura altamente drammatica come quella della fine del Regno. Negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, a mettere in crisi la tradizionale organizzazione narrativa delle cronache cittadine fu, infatti,
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V. SENATORE, Fonti cit., p. 316. Per l’espressione “arena politica” v. F. DE VIVO, Sfera pubblica o triangolo della comunicazione? Informazione e politica nella prima età moderna, in Oltre la sfera pubblica. Lo spazio della politica nell’Europa moderna, cur. M. ROSPOCHER, Bologna 2013, pp. 31-53: 44: «un secondo livello della comunicazione politica che possiamo definire “arena politica”: non una classe omogenea separata dall’autorità, dunque, ma una serie di gruppi in concorrenza gli uni con gli altri per potere e informazioni, divisi dal linguaggio, dal censo e dai rapporti col sovrano».
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l’emergere di una nuova percezione del rapporto fra spazio e tempo100: sempre più il presente era determinato da decisioni politiche che non potevano più essere considerate lontane a causa della loro capacità di determinare effetti ben oltre i tradizionali confini di singole città e stati. Alla pressione di un “presente condiviso” fatto di guerre e mutevoli alleanze, i cronisti della Capitale e di Terra di Lavoro risposero con soluzioni “di compromesso”: da un lato, riproposero i diversi modelli narrativi della tradizione cronachistica medievale in volgare (focus spazio-temporale ristretto delle “cose occorrenti”; focus spaziale ristretto e diacronia lunga delle narrazioni ab urbe condita); dall’altro, contaminarono e, per così dire, fecero “esplodere” questi stessi modelli attraverso l’adozione delle modalità narrative di altri generi e tradizioni di scrittura presenti sulla scena culturale della Napoli aragonese. Potremmo dire che, per raccontare il presente, i cronisti poterono utilizzare solo parzialmente i modelli narrativi disponibili nei libri di storia ereditati dall’età angioina; piuttosto, essi si rivolsero a un ampio ventaglio di testi coi quali, per diverse ragioni, avevano consuetudine o erano entrati in contatto. In questo duplice sforzo di raccontare il presente e ripercorrere l’intera storia cittadina un ruolo non secondario è svolto dalle strategie d’allestimento dei codici. In più di un caso, infatti, i testi del filone memorialistico e cronachistico quattrocentesco del Regno sono tramandati da manoscritti autografi: questi supporti materiali ospitano, come abbiamo visto, scritture intrinsecamente aperte e in progress, concepite per essere lette e ascoltate all’interno di specifici ambiti socio-culturali urbani e in più ristrette cerchie di tipo familiare. Sebbene una parte delle cronache sia giunta sino a noi solo attraverso un codice unico autografo (dopo i Ricordi, è questo il caso dei testi di Ferraiolo e Notar Giacomo e, poi, di Fuscolillo), tuttavia non mancano indizi della loro circolazione. Ad esempio, in un’ottica attenta alle possibili forme di fruizione delle cronache, merita di essere ricordata un’annotazio-
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Per il concetto di Emergence of Contemporaneity v. B. DOOLEY, The Dissemination of News and the Emergence of Contemporaneity in Early Modern Europe, FarnhamBurlington 2010, p. XIII: «Contemporaneity as the perception, shared by a number of human beings, of experiencing a particular event at more or less the same time. […] At the very least, it may add to a notion of participating in a shared present, of existing in a length of time called “now”». Rendo qui emergence inglese con emersione, non senza notare che l’italiano emergenza, nella sua possibile accezione di ‘l’emergere’ / ‘ciò che emerge’ (in Grande Dizionario della Lingua Italiana, dir. S. BATTAGLIA, V, Torino 1994 [1968], s.v. emergenza) restituirebbe l’aspetto imprevisto e rapido che è possibile associare alla percezione nuova di un presente condiviso.
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LA SCRITTURA CRONACHISTICA NEL REGNO
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ne, riguardante il ritrovamento di una fragola, apposta da una bambina nel codice autografo di Fuscolillo; come scrive Nadia Ciampaglia, siamo dinanzi a un «inserimento “non autorizzato”» che ci apre spiragli sulle concrete modalità di diffusione di questi testi negli ambienti cittadini: infatti, non solo «doveva […] essere ben noto agli stessi abitanti di Sessa che Fuscolillo stesse scrivendo un diario delle vicende della città», ma si dava anche il caso che il testo circolasse in ambito locale e fosse da altri integrato con brevi notazioni101. Alla luce del carattere aperto dei testi cronachistici e delle loro modalità di lettura, è utile descrivere i manoscritti autografi come “codici-archivio”: possedendo ancora “forma di libro”, essi non separano l’atto della mise en texte dei materiali narrativi dal momento della loro fruizione, seppur in ristrette comunità testuali102. La categoria di codice-archivio, così intesa, può quindi dare conto delle due fondamentali esigenze che erano sottese al lavoro dei cronisti: trasformare la propria testimonianza visiva e orale in traccia documentaria; inserire la propria scrittura all’interno della lunga diacronia di storie locali o regnicole rimodulando, col proprio nuovo tassello, il nesso fra identità e memoria cittadina103. 7. Conclusioni Attraverso l’individuazione di andamenti narrativi differenti e attraverso l’analisi del nesso fra codici e testi, si è provato a far emergere, al di sotto dell’apparente monotonia e fissità del genere cronachistico, i modi in cui all’interno dei singoli testi si riverberano discontinuità culturali e tensioni sociali e politiche. Si sono perciò analizzate le singole componenti della cultura storiografica dei cronisti per valutare in che modo nel Regno siano
101
V. CIAMPAGLIA, Introduzione cit., p. LXX e ibid., pp. LXVII, LXX-LXXV per l’annotazione indebita della bambina e per altre annotazioni non di mano di Fuscolillo. 102 Per un’analisi dei codici autografi di De Rosa, Ferraiolo, Notar Giacomo e Fuscolillo si rimanda a FORMENTIN, Scrittura e testo cit.; COLUCCIA, Introduzione cit., pp. XX-XXI; DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 139-173; CIAMPAGLIA, Introduzione cit., p. LXIV. Un confronto con De Ritiis è possibile grazie a F. PETRUCCI NARDELLI, Codicologia e autografia. A proposito della ‘Chronica Civitatis Aquilae’ di Alessandro Ricci, «Rassegna degli Archivi di Stato», 53 (1993), pp. 9-20. 103 Per un’analisi della categoria di codice-archivio che tiene conto delle proposte della critica genetica francese e degli studi di area italiana sull’autografia sia consentito rimandare a DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 139-173.
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CHIARA DE CAPRIO
stati adoperati e rifunzionalizzati tutti quei tasselli che costituivano l’ossatura della scrittura cronachistica in volgare del basso medioevo: la testimonianza personale, le memorie più o meno private che circolavano in ambiti familiari oralmente o per iscritto, le narrazioni di tradizione orale depositatesi negli ambienti cittadini, le scritture storiche più antiche o di maggiore respiro, i documenti amministrativi e le notizie disponibili nei networks informativi cui i cronisti avevano accesso. Come per gli spazi urbani, così anche nel caso degli spazi narrativi analizzare la rifunzionalizzazione ideologica degli elementi costitutivi di un genere costituisce un modo per cogliere le trasformazioni che investono l’autocoscienza cittadina e l’autorappresentazione dei gruppi sociali tra tardo medioevo ed età moderna. E difatti, anche senza ricorrere alle cronache, le trasformazioni culturali e i mutati scenari politici che investono il Regno ben emergono dal confronto tra la xilografia del frontespizio del Psalterium Lyciense (Venezia 1526, Santa Irene protegge la città di Lecce) e l’incisione su rame del frontespizio della Lecce sacra di Giulio Cesare Infantino (Lecce 1634, S. Irene che sorregge il modello della città). Nella xilografia veneziana (la più antica immagine di Lecce che si conosca), pur degli inizi del Cinquecento, Lecce viene rappresentata con «connotati medievali»104; più esattamente, come il risultato del vario e armonico comporsi di spazi, dimensioni e simboli, anche “civili”, della cultura urbana medievale: «le compatte mura merlate scandite con torri quadre, e il campanile della cattedrale che fa da perno all’addensarsi dell’edilizia cittadina», che si eleva a «ricevere il tocco protettivo della santa padrona». A distanza di un secolo, Lecce è «città sacra», dal volto trasformato anche per effetto della riorganizzazione architettonica di età vicereale; i medesimi elementi individuati nella xilografia danno forma a una imagery urbana profondamente diversa: ciò che viene celebrata nel frontespizio d’Infantino è una Lecce con «nuove o rinnovate chiese cittadine», ostentatamente fedele a quella corona spagnola trionfante, nell’adesione alla cristianità postridentina, sulla minaccia turca105.
104 A. PEPE, La cultura architettonica fra età normanna e aragonese, in Storia di Lecce. I: Dai Bizantini agli Aragonesi, cur. B. VETERE - B. PELLEGRINO - M.M. RIZZO, Roma-Bari 1993, pp. 617-660: 617. 105 Ibid., p. 617. V. anche M.A. VISCEGLIA, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 291.
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CONTATTI E AMBIENTI DI PRODUZIONE
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Cultura notarile e uso del volgare I notai che nei secoli XIII e XIV composero testi letterari in volgare, prima di mettersi all’opera hanno compiuto sempre un’opzione: decidevano, volta per volta, di utilizzare in quella specifica occasione una lingua scritta diversa dal latino che avevano dovuto imparare alla scuola di grammatica per avere i requisiti necessari ad intraprendere il percorso di studi che li avrebbe condotti alla professione notarile e alla stesura degli instrumenta che certificavano i negozi tra i privati1. Questo è, a mio avviso, il punto di partenza obbligato anche per una riflessione sulla (quantitativamente modesta) produzione cronachistica notarile in volgare: in pochi casi i notai abbandonarono la solida e autorevole lingua della gramatica per sperimentare un nuovo linguaggio, estraneo alla loro consuetudine di scriventi professionali e allo stesso tempo meno ricco di modelli letterari cui rifarsi. Fu, la loro, una scelta vera e propria che talvolta implicava l’assunzione di una fatica ben maggiore di quanto avrebbe comportato l’uso del latino, come quella che si addossò il padovano Nicoletto d’Alessio, su cui ritornerò nelle prossime pagine. Si trattò però anche di una decisione presa di raro, in qualche caso più tardo – quello del pistoiese luca Dominici ad esempio – forse influenzata anche dal
1 Su invito degli amici dell’Istituto storico ho riletto, a distanza di qualche anno, alcune
cronache notarili tra quelle analizzate nel mio libro I notai e la cronachistica cittadina italiana del Trecento, Roma 1999 (Nuovi Studi storici, 49). Per un quadro generale sulla cronachistica notarile e per tutta la bibliografia precedente al 1999 rimando a quel libro, mentre nelle note seguenti indicherò solo saggi recenti e qualche contributo a mio avviso ancora imprescindibile. Non cito puntualmente le voci dedicate a notai o a altri cronisti pubblicate nel Dizionario biografico degli italiani, cui ho fatto però costante ricorso nella stesura di queste pagine, consultandole sul sito Internet www.treccani.it.
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modello dei libri di famiglia che si era affermato durante il Trecento. Certo la consapevolezza, più volte ribadita sin dal Duecento, che un testo scritto in volgare potesse essere compreso da un pubblico più largo, non fu uno stimolo sufficiente a indurre i notai che scrivevano di storia ad allontanarsi dalla lingua degli instrumenta2. Converrà riprendere le conclusioni di alcuni lavori di Attilio Bartoli langeli che fanno il punto sui rapporti tra professione notarile e padronanza del latino letterario3. Durante il secolo XI i notai abbandonarono la lingua del documento altomedievale per impadronirsi di quella insegnata nelle scuole dei chierici: con questo solido, ma per loro nuovo, strumento essi scrivevano gli atti e dopo qualche tempo – i primi esempi che ci rimangono risalgono alla prima metà del XII secolo – presero a comporre opere letterarie in versi e in prosa. Presto essi si dedicarono anche alla stesura delle cronache che risentono così tanto della cultura letteraria dei chierici da offrire sin dai primi esempi – come quello del lodigiano Ottone Morena, vissuto tra il 1100 e il 1160 – esiti letterari di buon livello. Dopo alcuni decenni, alle soglie del Duecento, la storia dei rapporti tra scrittori della documentazione e produzione letteraria ha imboccato una seconda svolta decisiva quando il mondo notarile si è diviso in due gruppi: da una parte si collocano gli scrittori degli atti privati che solo occasionalmente trovano impiego negli uffici; dall’altra prende forma un ceto di notai capaci di produrre le più importanti tipologie documentarie del Comune, che di norma hanno forma di lettera. Si tratta di un gruppo di scrittori formatisi alla scuola dell’ars dictaminis che deve conoscere bene il latino per poter compiere una progressione nel percorso professionale. Queste acquisizioni, necessarie per accedere ai più prestigiosi e meglio retribuiti uffici pubblici, fornirono gli strumenti culturali indispensabili per avvicinarsi alla lettura dei classici e per dedicarsi alla composizione di opere letterarie: da questo gruppo professionale di notai-dettatori provengono
2 Già verso il 1275 il ricorso al volgare per la stesura di un’opera storiografica è esplicitamente legato alla possibilità di raggiungere un pubblico più largo nel prologo di Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, ed. A. lIMENTANI, Firenze 1972 (Civiltà veneziana. Fonti e testi, Serie 3a, 3). 3 Oltre ai saggi raccolti in A. BARTOlI lANGElI, Notai. Scrivere i documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, si vedano anche BARTOlI lANGElI, Cancellierato e produzione epistolare, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento. Atti del convegno internazionale (Trieste, 2-5 marzo 1993), cur. P. CAMMAROSANO, Roma 1994, pp. 251-261; e BARTOlI lANGElI, Notariato, documentazione e coscienza comunale, in Federico II e le città italiane, cur. A. PARAVICINI BAGlIANI - P. TOUBERT, Palermo 1995, pp. 264-277.
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quasi tutti i notai che hanno fatto letteratura e scritto cronache durante i secoli XIII e XIV4. Formatisi sullo studio di alcuni autori latini della classicità, già nella prima metà del Duecento alcuni dotti notai provano ad usare il volgare. Il caso più noto in Italia riguarda quegli autori legati alla Scuola siciliana e quindi alla corte di Federico II, in particolare Giacomo da lentini, morto verso la metà del Duecento, che i letterati dell’Italia centrale e settentrionale appartenenti alle generazioni immediatamente successive alla sua assai ammiravano e chiamavano “il Notaro”. Coetaneo di Giacomo da lentini era Guido Fava (1190-1245) il quale insegnò ars dictaminis a Bologna negli stessi anni in cui Ranieri da Perugia spiegava l’ars notarie, dando inizio alla grande tradizione di scuola notarile bolognese. In quel periodo, sempre a Bologna, si formava Matteo dei libri (1214-1275): a Guido Fava e a Matteo si devono i primi formulari di ars dictaminis in cui compare il volgare. Già tra il 1240 e il 1260, quindi, a Bologna era presente una produzione culturale legata al mondo notarile e degli uffici che prevedeva l’uso del volgare. Sono questi gli anni in cui proprio a Bologna si formò e iniziò la sua attività professionale Guido Guinizzelli (1230 circa-1276), altro notaio cui i poeti attivi tra fine Duecento ed inizio Trecento guardavano come a un maestro. l’alto profilo culturale del notariato padano della metà del Duecento che trova un’espressione di spicco nella lirica volgare di Guinizzelli, è caratterizzato da una contemporanea attività in latino in cui alla produzione letteraria si affianca l’esperienza filologica: lovato lovati (1240-1309), iniziatore del preumanesimo padovano, fu infatti pressoché coetaneo di Guinizzelli; Albertino Mussato (1261-1329) si formò negli stessi anni in cui muovevano i primi passi i poeti del così detto “dolce stil novo”.
4 Sulla cultura notarile cfr. la messa a punto proposta in M. ZABBIA, Formation et culture des notaires (XIe-XIVe siècles), in Éducation et cultures en Italie (XIIe-XVe siècles), cur. I. HEUllANT-DONAT, Paris 2000, pp. 297-324. Sui rapporti tra cultura notarile, prassi dettatoria e scrittura storiografica si vedano P. GARBINI, «Ars dictaminis» e storiografia, in Le «dictamen» dans tous ses états. Perspectives de recherche sur la théorie et la pratique de l’«ars dictaminis» (XIe-XVe siècles), cur. B. GRéVIN - A.M. TURCAN-VERkERk, Turnhout 2015, pp. 181-190; e i contributi di Enrico Faini cui rimando anche per la completa informazione bibliografica: cfr. E. FAINI, Alle origini della memoria comunale, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 88 (2008), pp. 61-81; E. FAINI, Lettere politiche nella storiografia comunale, in “Cum verbis ut Italici solent ornatissimis”. Funktionen der Beredsamkeit im kommunalen Italien / Funzioni dell’eloquenza nell’Italia comunale, cur. F. HARTMANN, Bonn 2011, pp. 89-110; FAINI, Annali cittadini, memoria pubblica ed eloquenza civile nelle città medievali italiane, «Storica», 62 (2015), pp. 109-142.
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Giacomo da lentini, Guido Guinizzelli e lovato lovati appartengono a contesti geografici diversi, ma la loro formazione culturale elevata rimanda sempre al legame tra conoscenza solida della gramatica e impegno negli uffici pubblici più prestigiosi5. Resta da aggiungere che questo ceto di notai dall’alto livello professionale era caratterizzato anche da grande mobilità geografica: già nella prima metà del Duecento notai esperti esercitavano la professione spostandosi tra varie città quando facevano parte delle curie dei podestà forestieri; negli stessi anni i notai legati alla tradizione dettatoria del Mezzogiorno svevo erano in contatto diretto con i loro colleghi dell’Italia centrale e settentrionale prima perché arrivavano in quelle città quando facevano parte del seguito dell’imperatore e dei suoi legati e, dopo la caduta degli Svevi, perché – come fece Pietro da Prezza – migrarono alla ricerca di un ufficio6. Si tratta inoltre di scrittori che erano in contatto tra loro: lo dimostrano alcune tenzoni, ma soprattutto la prassi della comunicazione epistolare tra intellettuali che per gli scrittori laici italiani ha inizio verso la fine del Duecento e vede i notai tra i primi protagonisti: basti pensare ai rapporti intrattenuti da Albertino Mussato con i dotti dell’Italia settentrionale, ancora legati al modello della tenzone o comunque dello scambio poetico, oppure al caso del notaio Geri d’Arezzo (12701339), il primo laico che – secondo quanto narra Coluccio Salutati – raccolse le proprie lettere in un epistolario. la produzione letteraria in volgare di questi notai si caratterizza per ricercatezza di stile e matura presso la corte sveva nel caso di Giacomo da lentini, oppure in cerchie ristrette di intellettuali raffinati come nel caso di Guido Guinizzelli o del poco più tardo notaio fiorentino lapo Gianni (attestato tra il 1298 ed il 1328), celebre per la citazione dantesca e con un profilo biografico e culturale esemplare per delineare le caratteristiche di
5 Non mi sento di condividere la proposta di R.G. WITT, The Two Latin Cultures and the Foundation of Renaissance Humanism in Medieval Italy, New York 2012, secondo cui con l’affermazione dell’ars dictaminis i notai abbandonarono lo studio dei classici. Non è questa la sede per discutere un libro così ambizioso – ma vedi gli interventi di G. MIlANI, A. SENNIS E C.M. RADING in «Storica», 50 (2014) – che a mio avviso non sostituisce per quanto concerne questo aspetto della cultura notarile il quadro tracciato da G. ARNAlDI, Scuole nella Marca trevigiana e a Venezia nel XIII secolo, in Storia della cultura veneta. I: Dalle Origini al Trecento, cur. G. ARNAlDI - G. FOlENA, Vicenza 1976, pp. 350-386: 358373. 6 Sulla circolazione dei notai e della cultura notarile cfr. M. ZABBIA, Notai e modelli documentari. Note per la storia della lunga fortuna di una soluzione efficace, in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (secoli XII-XIV), Pistoia 2013, pp. 23-38.
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questa tipologia di letterato (egli infatti oltre che a Firenze esercitò il notariato anche a Bologna e Venezia)7. In questi autori, quindi, l’alta formazione culturale, in cui alla familiarità con la letteratura latina si affianca la conoscenza della lirica trobadorica, porta a una produzione letteraria nella quale la scelta del volgare non è riconducibile al desiderio di giungere ad un più vasto pubblico, ma si esaurisce in un ristretto circolo di colti scrittori pronti a ironizzare su chi, senza averne la tecnica, prova a imitarli vestendo i propri componimenti «di penne di paone e d’altre assai» come si legge in un sonetto attribuito a Chiaro Davanzati. l’intento divulgativo è invece attestato nelle opere di altri notai-dettatori – essi pure attivi tra Due e Trecento – che si proposero come mediatori tra una cultura conservata in libri inaccessibili per gli altri laici e un pubblico vasto. Tra costoro il più rilevante è Brunetto latini (1225 circa-1294) che affidò al suo Tresor, in un quadro enciclopedico, anche una cronachetta universale. la mediazione culturale, di cui alcuni notai si resero protagonisti, non si contraddistinse però tanto per la produzione di opere originali quanto per la realizzazione di volgarizzamenti: già al tempo di Brunetto il giudice e notaio Pietro Buonfante tradusse la cronaca universale di Martino Polono, mentre il giudice Bono Giamboni (1240-1292) sul finire del Duecento traduceva le Storie contro i pagani di Orosio, ma risale alla generazione seguente l’impegno più massiccio nel campo dei volgarizzamenti, terreno nel quale si distinsero il notaio fiorentino Andrea lancia (1297-1357) e il suo amico e collega Arrigo Semintendi di Prato. Furono inoltre quelli tra la fine del Duecento e il primo quarto del Trecento i decenni in cui si realizzarono anche importanti esperienze dell’uso del volgare in contesto di documentazione pubblica, affidando, ad esempio, a esperti notai la traduzione degli statuti cittadini, oppure realizzando la documentazione direttamente in volgare o ancora redigendo in volgare il testo delle epigrafi normalmente approntato da notai8. Insomma alle soglie del Trecento i notai avevano tutti gli strumenti necessari per scrivere in volgare le loro cronache. Però di norma non lo fecero. Quali motivi influenzarono la loro scelta? Forse essi riconoscevano nel latino la lingua più adatta per scrivere di storia, come affermò il notaio padovano Rolandino, il quale disse che la materia a sua disposizione avrebbe potuto
7 Il Dizionario biografico degli Italiani non ha dedicato una voce a lapo, si veda quindi M. MARTI, Lapo Gianni, in Enciclopedia dantesca, III, Roma 1970, p. 571. 8 Si veda su questo tema lo splendido libro di P. FIOREllI, Intorno alle parole del diritto, Milano 2008.
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essere esposta sia in un poema – e allora avrebbe usato il volgare – sia in un’opera in prosa e quindi in latino9. Oppure si comportarono in questo modo perché alla storia contemporanea non era riconosciuto quel valore pedagogico che si riteneva avessero le storie dell’antichità, non a caso quelle di gran lunga preferite dai volgarizzatori10. Oppure ancora perché pesante era ai loro occhi il modello degli storici romani, al punto che, anche quando decidevano di scrivere in volgare, i cronisti del Trecento affermarono di rifarsi a modelli classici: dalle opere degli autori antichi non si imparavano solo le vicende del passato, ma anche il modo di scrivere la storia11. Ma certo nel caso della cronachistica notarile molto contò anche il fatto che la stesura di una cronaca era di norma un’esperienza eccezionale nella vita di un notaio; sono infatti assai rari i notai-cronisti che composero più di una cronaca oppure che si provarono anche in altri generi letterari: probabilmente l’eccezionalità dell’esperienza storiografica sconsigliò di abbandonare l’usuale lingua degli instrumenta per sperimentare nuove vie. Cronache in latino e cronache in volgare a Padova Nonostante le edizioni poco affidabili cui dobbiamo ricorrere, le cronache scritte a Padova costituiscono un campo di lavoro privilegiato per chi voglia studiare la storia della storiografia prodotta dai laici nei secoli XIII e XIV, perché numerosi sono i testi conservati e diverse le tipologie cui essi sono riconducibili12. Inoltre, ripercorrendo la vicenda della crona-
9 Il passo del prologo dei Cronica di Rolandino è esaminato in G. ARNAlDI, “Prose di romanzi” (Purg. XXVI, 18), in Dante. Atti della Giornata internazionale di studio per il VII centenario, Faenza 1965, pp. 123-130. 10 Sull’inutilità a fini pedagogici della storia contemporanea hanno insistito gli umanisti del Quattrocento: vedi, ad esempio, la posizione di Enea Silvio Piccolomini in Il pensiero pedagogico dell’umanesimo, cur. E. GARIN, Firenze 1958 (I classici della pedagogia italiana, 2), p. 271. 11 Il gruppo di auctoritates cui dice di rifarsi Giovanni Villani (Virgilio, Sallustio, lucano, Orosio, Valerio Massimo e Tito livio, tutti autori volgarizzati entro la metà del Trecento) non si discosta molto da quello proposto dall’Anonimo romano (livio, lucano, Sallustio), al quale si deve pure una spiegazione per la scelta dell’uso del volgare preferito al latino perché compreso da tutti quelli che sanno leggere: cfr. Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. PORTA, Parma 1991, II, p. 58 (= libro IX, cap. 36); e Anonimo romano, Cronica, ed. PORTA, Milano 1979, p. 4 per l’indicazione degli autori, e p. 6 per la riflessione sull’uso del volgare. 12 Per un quadro di riferimento si veda G. ARNAlDI - l. CAPO, I cronisti di Venezia e
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chistica padovana, si può notare come a un periodo in cui il latino fu – come ovunque – dominante, seguì prima un momento di stallo, in cui non sembra siano state composte opere di rilievo, e poi, verso l’ultimo quarto del Trecento, si ebbe un’improvvisa sterzata verso l’uso del volgare. le opere di Rolandino (1200-1276), Albertino Mussato (1261-1329) e Guglielmo Cortusi (1285-1360 circa), notai i primi due, giudice il terzo, fondano le basi della memoria storica cittadina che molto deve anche alle compilazioni d’argomento storiografico scritte, esse pure in latino, dal giudice Giovanni da Nono (1275- 1349). Tutti questi testi erano noti all’anonimo autore che verso gli anni Settanta del XIV secolo compilò, anch’egli in latino, i Gesta magnifica domus Carrariensis, una galleria di biografie dei signori cittadini legata agli ambienti della cancelleria signorile13. Ma una solida tradizione storiografica urbana in latino non impedì l’affermazione decisa dell’uso del volgare che, di fatto, a fine XIV secolo divenne la lingua della storia nella Padova che era stata dei pre-umanisti, ma che nell’ultima fase del Trecento vedeva il fiorire di una importante produzione in volgare sia in ambito letterario sia in campo cancelleresco14. In volgare scrisse la sua cronaca Galeazzo Gatari (1344-1405) dando alla luce il testo di riferimento della memoria padovana d’inizio Quattrocento15. In volgare pochi
della Marca Trevigiana, in Storia della cultura veneta. 2. Il Trecento, cur. G. ARNAlDI - M. PASTORE STOCCHI, Vicenza 1976, pp. 272-337: 272-285 e 311-337. 13 l’edizione del corpus di cronache padovane raccolte in appendice alla cronaca dei Gatari curata da Medin e Tolomei si deve a Roberto Cessi e fu lavoro lungo alcuni decenni: già nel 1910 lo studioso aveva cominciato a preparare la pubblicazione che però giunse alle stampe, grazie anche all’impegno di Paolo Sambin, solo tra il 1942 e il 1965: cfr. Cronaca carrarese. Appendice 1, Gesta magnifica domus Carrariensis; 2, Istoria della presente (137273) guerra; 3, Chronica minora, ed. R. CESSI, in R.I.S.2, XVII/1, 1, 2, 3, Bologna 1942-1965; e per un’analisi di quei testi ZABBIA, I notai e la cronachistica cit., pp. 277-317. 14 Si vedano le messe a punto di l. TOMASIN, Il volgare nella cancelleria padovana dei Carraresi, in “In lengua grossa, in lengua sutile”. Studi su Angelo Beolco, il Ruzzante, cur. C. SCHIAVON, Padova 2005, pp. 103-118; e TOMASIN, La cultura testuale volgare nella Padova Trecentesca, «Textual Cultures», 4/1 (2009), pp. 84-112. 15 Il testo di Galeazzo di fatto è ancora inedito: il Muratori lo pubblicò nel XVII volume dei Rerum Italicarum Scriptores, ma prendendo per base dell’edizione un manoscritto a quanto pare assai poco affidabile; Antonio Medin per la sua edizione ospitata nella ristampa muratoriana decise di preferire alla versione del testo attribuito a Galeazzo quella conservata in un manoscritto di mano del figlio Bartolomeo il quale aveva continuato, ma anche rivisitato (non sappiamo in modo quanto incisivo) l’opera paterna, mettendo in nota le varianti della cronaca di Galeazzo nella riscrittura che ne fece un altro suo figlio, Andrea: cfr. Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari, confrontata con la redazione di Andrea Gatari, edd. A. MEDIN - G. TOlOMEI, in R.I.S.2, XVII/1, Città di Castello-Bologna 1909-1948, 2 voll.
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anni prima aveva scritto Daniele di Chinazzo (1350-1428), che era di Treviso, ma la cui opera era nota a Padova già prima della fine del Trecento e fu utilizzata da Gatari. Sempre in quegli anni si procedette al volgarizzamento dei Gesta magnifica domus Carrariensis, un episodio piuttosto rilevante vista la rarità con cui si traducevano le cronache medievali. la propensione a volgarizzare i testi narrativi a Padova sembra affermarsi nell’ultimo quarto del Trecento: lazzaro de’ Malrotondi, maestro dei figli di Francesco Novello da Carrara, ha tradotto il De traditione Padue ad Canem Grandem di Albertino Mussato16; un anonimo, partendo dalla traduzione di Rolandino, ha compilato i Vita et gesti d’Ezzelino terzo da Romano atttribuiti a Pietro Gerardo che, grazie alla loro larga circolazione nelle città venete, costituirono per alcuni secoli la vera versione ufficiale della vicenda ezzeliniana17; a fine secolo direttamente in volgare hanno scritto il cancelliere Nicoletto d’Alessio e altri autori, attivi essi pure alla corte carrarese, ma destinati a rimanere anonimi18. la Storia della guerra per i confini di Nicoletto d’Alessio è un’opera di alta qualità da un punto di vista storiografico per le doti di osservatore e di efficace scrittore che il notaio ha mostrato di possedere19. Ma, come hanno di recente osservato gli storici della lingua, è anche un testo ambizioso dal punto di vista stilistico dato lo sforzo fatto dal notaio per fornirsi di una lingua letteraria in cui il volgare veneziano convive con quello padovano sotto una patina toscaneggiante20. Prima che con l’opera del Gatari e dello
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Dela donason de Pava fatta a Cangrande. Volgarizzamento di Lazzaro de’ Malrotondi del ‘De traditione Padue ad Canem Grandem anno 1328 mense septembris et causis precedentibus’ di Albertino Mussato, ed. A. DONADEllO, Padova 2008. 17 Fu la prima delle cronache venete a essere pubblicata: cfr. Vita et gesti d’Ezzelino terzo da Romano da l’origine al fine di sua famiglia sotto la cui tirannia mancarono di morte violenta più di XII millia Padovani, Autore Pietro Gerardo Padoano suo contemporaneo, ed. FAUSTO DA lONGIANO, Venezia 1543. 18 Alle opere in prosa di carattere monografico pubblicate insieme alla Storia di Nicoletto (La Ystoria de mesier Francesco Zovene di un familiare Carrarese e La guerra da Trivixio. 1383) si deve aggiungere un testo in versi, dovuto probabilmente a un poeta di corte (forse il canterino Zuane ricordato anche dai Gatari): cfr. Francesco Novello e la riconquista di Padova (1390). Poemetto storico carrarese edito dall’esemplare Vaticano, ed. G. RONCONI, Padova 1994 e RONCONI, I capitoli in terza rima sull’impresa di Francesco Novello da Carrara, in La cultura volgare padovana nell’età del Petrarca. Atti del Convegno di Monselice e Padova, 7-8 maggio 2004, cur. F. BRUGNOlO - Z.l. VERlATO, Padova 2006, pp. 459-475. 19 Su Nicoletto, che fu amico del Petrarca e scrisse anche qualche poesia, e sulla sua opera cfr. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina cit., pp. 281-300. 20 Si veda l’analisi condotta da A. CECCHINATO, Osservazioni filologiche, storico-culturali, linguistiche e stilistiche sulla “Storia della guerra per i confini” di Nicoletto d’Alessio, in
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pseudo Pietro Gerardo l’uso del volgare ricoprisse un ruolo determinante nella conservazione della memoria storica padovana, Nicoletto – forse influenzato dai precedenti veneziani che conosceva per avere lavorato nella cancelleria di quella città – aveva raccolto nelle sue pagine l’esperienza dello scrittore della documentazione che agisce ai più alti livelli degli uffici signorili e che di conseguenza è in grado di raccontare le vicende a tutto tondo, associando i grandi avvenimenti ai maneggi che si svolgevano dietro le quinte. le fonti principali cui egli poteva accedere erano costituite da una tipologia documentaria nuova: a differenza dei cronisti impegnati nelle cancellerie che lo avevano preceduto, egli disponeva delle numerose lettere inviate e ricevute dagli ambasciatori secondo una prassi affermatasi dall’ultimo quarto del Trecento21. Il tono narrativo di queste epistole – pensate per illustrare con molti dettagli gli avvenimenti e per spiegare i retroscena – era particolarmente adatto per renderle una fonte tanto ricca di informazioni quanto facile da usare ed influenzò a fondo il modo in cui Nicoletto scrisse di storia. Grazie alla disponibilità e alle caratteristiche di queste lettere si ebbe il primo caso a me noto nella cronachistica italiana di un testo storiografico costruito alternando capitoli di storia a inserti documentari sempre più voluminosi mentre si procedeva con la narrazione22. Niente di simile era accaduto in precedenza non dico nelle cronache-cartulario monastiche nate per organizzare la documentazione dei grandi cenobi nei secoli cen-
“Una brigata di voci”. Studi offerti a Ivano Paccagnella per i suoi sessantacinque anni, cur. C. SCHIAVON - A. CECCHINATO, Padova 2012, pp. 157-181; e da CECCHINATO, La varietà linguistica nella produzione volgare padovana, in L’eredità di Folena. Atti del Convegno interuniversitario di Bressanone (luglio 2012), cur. I. PACCAGNEllA - E. GREGORI, Padova 2014, pp. 113-125. 21 Cfr. I. lAZZARINI, Le pouvoir de l’écriture. Les chancelleries urbaines et la formation des États territoriaux en Italie (XIVe-XVe siècles), in Les mots de l’identité urbaine à la fin du Moyen Âge, cur. E. CROUSET PAVAN - E. lECUPPRE-DESjARDINS, «Histoire urbaine», 35 (2012), pp. 31-51; lAZZARINI, A ‘New’ Narrative. Historical Writings, Chancellors and Public Records in Renaissance Italy (Milan, Ferrara and Mantua, 1450-1520 ca.), in After Civic Humanism: Learning and Politics in Renaissance Italy, cur. B. MAXSON - N. SCOTT BAkER, Toronto 2015, pp. 193-214; e lAZZARINI, Communication and Conflict. Italian Diplomacy in the Early Renaissance (1350-1520), Oxford 2015. 22 Non molti anni prima, verso il 1350, ma in un contesto storico assai diverso e senza ricorrere al volgare, un analogo incontro tra scrittura della storia e documentazione destinata a larga circolazione si era concretizzato nelle ampie inserzioni documentarie accolte nella Cronaca della Sicilia di Anonimo del Trecento, ed. P. COllETTA, leonforte 2013. Cfr. anche COllETTA, La cronaca “De acquisicione insule Sicilie” e il suo volgarizzamento. Appunti di ricerca, «Bollettino del Centro studi filologici e linguistici siciliani», 21 (2007), pp. 215-242.
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trali del medio evo, ma neppure nella trecentesca cronaca con documenti del doge Andrea Dandolo che molto probabilmente Nicoletto conosceva visti i suoi trascorsi negli uffici veneziani, e nei Gesta magnifica padovani perché in entrambi quei testi il ricorso non sistematico alla documentazione serviva per ricavare qualche informazione sui tempi più lontani, ma veniva abbandonato quando si poteva ricorrere ad altre fonti23. Invece non si può escludere che Nicoletto fosse stato influenzato dalla produzione cronachistica della cancelleria veneziana del periodo posteriore al Dandolo dove, tra l’altro, si era ricorso sia al volgare sia alla traduzione di testi latini: nel codice che ospita la monografica Cronica Iadratina, ad esempio, dopo il testo storiografico è inserito un gruppetto di altri scritti sia documentari sia encomiastici, e pure di quest’opera si redasse una traduzione24. Per portare a compimento la sua Storia Nicoletto ha tradotto un gran numero di documenti, mentre altri dovevano essere già scritti in volgare nell’originale. Purtroppo il naufragio della documentazione di cancelleria carrarese non ci permette di verificare in modo sistematico la fedeltà delle traduzioni proposte dal notaio25. Confrontando i testi raccolti da Nicoletto con quelli conservati nel copialettere carrarese conservato alla biblioteca Marciana – principale testimonianza della cultura cancelleresca al tempo di Francesco Novello – possiamo rilevare la fedeltà dell’esperto notaio al formulario di cancelleria26. Ma, per quanto riguarda il suo modo di comportarsi con i contenuti trasmessi dalla documentazione che traduceva, sul versante padovano non abbiamo la possibilità di paragoni. Infatti solo un atto tra quelli volgarizzati da Nicoletto si conserva in latino e non si tratta di una lettera scritta dagli ambasciatori padovani oppure indirizzata loro e neppure ci giunge in originale: è un documento di ludovico d’Angiò, il re
23 Nella cronaca del Dandolo le inserzioni documentarie terminano quando il racconto giunge al XII secolo; nei Gesta magnifica si interrompono quando il compilatore ha a disposizione fonti narrative che trattano dei Carraresi: cfr. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina cit., pp. 234-237: 303-309. 24 Cfr. Cronica Jadretina. Venezia - Zara, 1345-1346, edd. G. ORTAllI - O. PITTAREllO, Venezia 2014, pp. 53-56, per l’analisi dei testi fatti seguire alla cronaca; e pp. 56-74, per l’analisi del volgarizzamento. 25 Sulla cancelleria carrarese si veda D. GAllO, Appunti per uno studio delle cancellerie signorili venete del Trecento, in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, cur. A. CASTAGNETTI - G.M. VARANINI, Verona 1995, pp. 125-161. 26 In particolare è riproposto con precisione il formulario relativamente al protocollo dei documenti: cfr. Il copialettere marciano della cancelleria carrarese (gennaio 1402-gennaio 1403), ed. E. PASTOREllO, Venezia 1915 (Monumenti storici publicati dalla R. Deputazione veneta di storia patria. Serie 1, Documenti, 19).
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d’Ungheria alleato a Francesco il Vecchio contro i Veneziani, che leggiamo inserito in latino nella cronaca in volgare di Gatari27. la situazione è complessa: Galeazzo Gatari, che era vicino ai Carraresi, aveva partecipato ad alcune ambascerie durante la guerra tra Venezia e Padova e proprio da questa altezza cronologica il suo racconto comincia a diventare corposo28. Egli inoltre – come ha già visto Medin – conosceva la Storia di Nicoletto, ma nonostante ciò ha preferito inserire il documento in latino piuttosto che ricorrere alla traduzione. letta pubblicamente a Padova e fatta circolare tramite la stesura di varie copie dallo stesso ludovico, la lettera del re dovette essere giunta nelle mani di Galeazzo che inserì quel testo nella sua cronaca, perché l’epistola del sovrano ai suoi occhi appariva come un avvenimento piuttosto che come una fonte. E in effetti quella lettera nulla racconta, trattandosi solo della licenza ad assaltare le navi veneziane nelle acque e nei porti della Dalmazia controllati dagli Ungheresi. Rispetto all’uso sistematico e consapevole dei documenti che sta alla base dell’innovativo lavoro di Nicoletto, quello fatto dal Gatari rimanda a una tradizione attestata nella cronachistica cittadina sin dal XII secolo che non prevedeva alcuna ricerca, ma si limitava a riprodurre nel testo narrativo qualche documento importante, meglio se prodotto dalla cancelleria imperiale o pontificia, e coevo ai fatti narrati. Accostando al testo della cancelleria ungherese la traduzione del notaio padovano possiamo vedere in concreto come, almeno in quel caso, Nicoletto si sia comportato e, siccome questa lettera è inserita nel secondo libro della Storia, quando ormai il d’Alessio aveva già fatto esperienza di molte traduzioni, sia pure con cautela, possiamo prendere in considerazione l’ipotesi di trovarci di fronte a soluzioni che si sono ripetute anche in altri volgarizzamenti. Poiché, quando ho studiato la cronaca di Nicoletto, questa interessante possibilità di raffronto mi era sfuggita, e considerato che anche i più recenti contributi dedicati alla Storia non ne tengono conto, mi sembra opportuno proporre una citazione ampia:
27 Vedi Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari cit., pp. 89, r. 31-90, r. 31; e Gesta magnifica domus Carrariensis, 2 cit., pp. 103, r. 31-104, r. 15. 28 Galeazzo ha inserito nella sua cronaca anche un’altra lettera di ludovico, questa volta indirizzata a Francesco il Vecchio e letta pubblicamente a Padova, ma che Nicoletto non ha ritenuto di tradurre nella sua Storia: cfr. Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari cit., pp. 94, r. 24-95, r. 14.
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Quo circha, nos Lodovichus rex de chulmine maiestatis nostre damus et concedimus, impartymus, asentimus, largimur omnibus et singulis volentibus ipsos Venetos et ipsorum bona danifichare, suripere et predari per mare et portus in galeis, barchis, barcosiis et navigis quibusqunque plenam libertatem, omnimodam licenciam et liberam potestatem deinceps posint et valeant ipsos Venetos et ipsorum bona et res quaslibet in mari et in portibus ubilibet dapnificare et ofendere, predari, capere et aufere in galeis, barchis, barcoxiis et navigiis quibuscumque, res bonaque omnia ipsorum per eos ablata et abrepta vendere et distribuere et in suum usum convertere et profectum pro se, si videbitur, obtinere: omnes vero portus in Dalmacia ad nos pertinentes sint eis aperti et patentes, ita quod, quandocumque voluerint et necesitas exigerit, possint intrare libere ipsos portus et in ipsis stare et exire quandocunque voluerint, et preterea volumus et asentimus [ad] presens, ut licitum ipsis sit desendere in teram et ire ad castra, civitates, opida, locha et villas quaslibet in Dalmacia cauxa habendi refrigerium et refrescandi se, ut moris est equoreis navigantibus fatigatis, victualia quoque oportuna ipsis posint habere et emere pro eorum pechunia in omnibus civitatibus, castris, opidis, villis et lociis, quibuscumque libet nobis in Dalmacia subiectis. Et hec omnia et singula suprascripta volumus esse firma et rata usque ad guerram finitam, vel qousque ipsi a nobis habebunt, aliut in mandatis, in quorum omnium testimonium concesimus presen[te]s nostri sigilli maioris autentici appensione solidatas.
Per la qual cosa de l’alteça dela nostra maiestà nui demo, concedemo et impartimo per ogni modo licentia et piena et libera podestà a tutti et singuli, che voia damnificare i dicti venitiani, usurpar, tuor e robbar i suoi beni per mare et per i nostri porti con galie, barche et çaschun navilio, che da mo’ inançi elli possa damnificare in mare et in tutti i nostri porti in ogni luogo mectudi sotto la nostra dicion et i predicti offender et piare et licitamente robbar i soi beni, i quali elli possa convertir in so uso et de quilli fare ad ogni bon piaser de so volontà, ai quali tutti et singuli voiando fa, como de sovra è dicto, nui volemo che sia patenti et averti tutti i porti, i quali ne apartiene in Dalmacia. Et così comandemo ai nostri fedeli et subditi, che debia mandar ad execution, sì che da mo’ inançi i predicti da Venesia, possa intrar, star et insir dei dicti nostri porti ad ogni so bon piaser, et che andar i possa seguramente ad ogni altro nostro luogo per sua provision et uso de victuaria, volando che le presente nostre letere dure et abia efficacia et così inviolabilmente sia serade, fin che durerà la presente guerra.
Dal confronto tra l’originale e il volgarizzamento si vede come Nicoletto non si sia limitato solo a tradurre la sua fonte senza mai fraintenderla, ma l’abbia anche riassunta: le ripetizioni proprie del formulario di cancelleria sono alleggerite nella versione del notaio, che nell’escatocollo ha anche fatto cadere il rimando al sigillo e, soprattutto, ha compattato le informazioni conclusive. Va aggiunto che per la parte precedente dell’epistola la traduzione è più fedele, e uno storico della lingua potrebbe essere interessato al modo in cui il cronista ha volto dal latino al volgare alcuni lemmi. l’accostamento ha rivelato una propensione del notaio a sintetizzare quanto la sua fonte proponeva, ma le caratteristiche dell’unico atto su cui possiamo fare i confronti sono troppo distanti dalle lettere degli ambasciatori predilette dal cancelliere. Gli indizi a nostra disposizione non sono, quindi, sufficienti a valutare il suo comportamento, tuttavia l’ipotesi che il cronista abbia alterato gli atti che inseriva nella sua opera non può essere accantonata: se veramente fosse stato solito intervenire sul testo delle let-
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tere anche solo riassumendolo, Nicoletto avrebbe riservato maggior rilievo al proprio ruolo di storico che non solo seleziona quali documenti inserire, ma interviene sul modo in cui proporre al lettore le informazioni che le sue fonti forniscono. Nelle pagine della sua Storia, dove non mancano le note di metodo comprese quelle relative all’utilità di inserire i documenti, Nicoletto non ha fatto alcun cenno all’uso del volgare. Egli non ha riproposto quindi quel topos diffuso tra tanti autori – compreso il padovano Andrea Gatari29 – che insiste sull’utilità del volgare per giungere ad un più largo pubblico di lettori. Anche se non possiamo escludere che qualche nota simile egli avesse inserito nel prologo al primo libro dell’opera che è andato perduto. Nonostante la grande fatica di Nicoletto e le sue non comuni capacità di osservatore e di arguto critico, la Storia, forse perché troppo prolissa, non ha avuto fortuna. le vicende riportate dal notaio sono narrate anche nella cronaca di Gatari e a quelle pagine si rivolgeva chi nel Quattrocento voleva conoscere la storia di Padova e delle città a lei vicine ai tempi di Francesco il Vecchio. l’opera di Nicolettò ha incontrato la stessa sorte della lunga cronaca monografica di Daniele da Chinazzo, essa pure scritta in volgare, ma presto confluita nella sintesi di Gatari e destinata a giungere sino a noi solo grazie ad un unico testimone manoscritto: segno che il ricorso al volgare non bastava per assicurare alle cronache larga circolazione. la cronaca di Galeazzo Gatari che tanto successo incontrò tra i lettori a lui coevi, fu invece sfortunata, quando si procedette alla sua pubblicazione. leggerla nelle edizioni di cui disponiamo richiede quindi cautela e prudenza, così come le pretendono le edizioni di Mussato e Cortusi, per gli scritti dei quali ancora si ricorre in larga parte ai Rerum Italicarum Scriptores muratoriani, quelle dei Gesta magnifica e soprattutto della Storia, la quale di fatto altro non è che una trascrizione senza apparati. Ma la fortuna dell’opera di Galeazzo già da sola costituisce un dato di rilievo che ci permette di cogliere i caratteri della cultura storiografica padovana alla fine del medioevo. Mentre vedeva seriamente minacciata l’indipendenza politica, sembra che Padova abbia tentato di conservare la propria identità preservando la sua memoria storica. Questa memoria è costituita da un lato da due testi in volgare – quello di Gatari e quello di Pietro Gerardo – che raccontano la storia della città dall’inizio del Duecento sino ai primi
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le parti del testo di Andrea che presenta significative varianti da quello di Bartolomeo è edito, con numerazione delle righe indipendente, nelle note di Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari cit., p. 10, r. 8 per l’uso del volgare.
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anni del XV secolo30; e dall’altro da alcuni codici che risalgono alla fine del Trecento e raccolgono le cronache di Rolandino, Mussato e Cortusi trascritte una dopo l’altra così da costruire una storia cittadina di lungo respiro31; mentre la memoria dei Carraresi è affidata ad un lussuoso manoscritto miniato in cui trovano posto – alternando latino e volgare – i Gesta magnifica in latino e la Storia di Nicoletto32. Ma la tradizione in volgare, se pure aveva messo, almeno in parte, in ombra le precedenti opere latine, venne presto percepita come superata dalla nuova storiografia umanistica e attirò le polemiche dei più dotti scrittori del tempo: non solo contro la cronachistica in volgare a Venezia, ma anche contro l’uso del volgare nella cancelleria padovana, e forse proprio nella Storia di Nicoletto d’Alessio, inveiva, a mio avviso, Giovanni Conversini quando, allontanato dalla corte Carrarese e alla ricerca di un nuovo impiego, si proponeva come storico alle autorità veneziane33.
30 Oltre che dalla larga circolazione e dalla lingua le due opere sono accomunate anche da altri elementi che ne rivelano l’origine nel medesimo ambiente culturale: si veda ad esempio il richiamo alle grandi famiglie padovane che apre la cronaca di Galeazzo (Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari cit., p. 10, rr. 1-22) e ritorna molto simile nel prologo di quella dello pseudo-Gerardo (Vita et gesti cit., p. 3r-3v). 31 Si vedano le informazioni sulla tradizione manoscritta della cronachistica padovana raccolte in M.T. DAZZI, I codici contenenti opere storiche del Mussato, «Atti e memorie dell’Accademia Patavina», Memorie della classe di scienze morali, 78, III (1965-66), pp. 345-382. 32 Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. lat. cl. X 381 (= 2802). 33 Giovanni di Conversino da Ravenna, Dragmalogia de eligibili vite genere, ed. H. l. EAkER, introd. e note B.G. kOHl, Cranbury-london, 1980, pp. 110-116.
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1. Le cronache di ambiente e di influenza cancelleresca Il nesso tra la scrittura storica e l’esperienza cancelleresca è da tempo oggetto di attenzione. Me ne occuperò concentrandomi su un lungo Quattrocento, dalla fine del XIV ai primi del XVI secolo, perché – per quanto riguarda le cronache in Italia – è l’ambito cronologico che conosco meglio e perché è in questo periodo che la scelta del volgare, già presente, si generalizzò in ogni parte della penisola. Diverse cronache di quegli anni denunciano una forte contiguità rispetto agli ambienti cancellerereschi, da cui provengono gli autori, le fonti, i modelli testuali. Le cronache di ambiente o di influenza cancelleresca – proviamo a chiamarle così – presentano i seguenti caratteri: andamento annalistico, con nuclei narrativi introdotti dalla data cronica; interesse per la contemporaneità, che è evidente anche quando si dedica una parte della narrazione a un passato più o meno lontano, per desiderio di completezza e interesse per le origini; ricezione di voci e notizie che dai luoghi del potere si diffondono nella città; punto di vista cittadino, tanto che talvolta eventi accaduti fuori dalla città sono riferiti con minore accuratezza; ricorso esteso a documenti che sono prodotti o circolano nelle cancellerie degli antichi stati italiani e nelle amministrazioni cittadine1; influenza delle scritture cancelleresche sulla lingua e sulla struttura testuale.
* La ricerca è stata finanziata dalla Regione Campania (L.R. n. 5 del 28.3.02, annualità 2008, erogazione nel 2014-15) nell’ambito del progetto, diretto da chi scrive, su La “memoria del presente”. Repertorio digitale: tradizioni testuali, fonti e lessico delle cronache campane in volgare (secoli XIV-XVI), Dipartimento di Studi Umanistici, Università Federico II di Napoli. Ringrazio Chiara De Caprio e Francesco Montuori, con i quali ho discusso questo lavoro. 1 Uso gli aggettivi municipale e cittadino per riferirmi alle cancellerie delle città dominate, siano esse antichi Comuni o Universitates dei regni e dei principati italiani.
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FRANCESCO SENATORE
In realtà, molte narrazioni storiche prodotte in Europa in lingue e periodi diversi condividono queste caratteristiche. Di esse, le ultime due sono ai nostri fini le più importanti (il ricorso esteso a documenti di provenienza cancelleresca, specie quelli diplomatici, la loro influenza sulla testualità), perché consentono di isolare un gruppo di testi condizionati strutturalmente dalla cultura cancelleresca. Insomma, quantità e qualità dell’influenza cancelleresca accomunano queste cronache rispetto a tante altre. In pagine di straordinaria finezza, pubblicate postume nel 1993, Kenneth Hyde definì siffatte cronache «chronicles substantially made up of documents with no more than occasional patches of narrative and asides by the author»2. Esse – continuava Hyde – denunciano l’impatto che ebbero i due principali circuiti informativi del tardo medioevo, quello mercantile e quello diplomatico, sulla narrazione storica, in particolare in autori attivi nei luoghi in cui confluivano le notizie: le cancellerie e gli organismi consiliari3. Accontentiamoci in questa sede di fare qualche nome, rinviando alla bibliografia: l’istriano Nicoletto d’Alessio (vissuto nel 1320-93), l’anonimo fiorentino edito da Gherardi (scrisse tra 1363 e 1388), l’altro edito da Mohlo e Sznura (1382-1401), il ferrarese Ugo Caleffini (1439-1503), i veneziani Marin Sanudo (1466-1536) e Girolamo Priuli (1486-1527), infine i cronisti del Regno, le cui biografie conosciamo ben poco, attivi tra fine Quattrocento e primi del Cinquecento, come l’aversano Silvestro Guarino, il sessano Fuscolillo, i napoletani Ferraiolo e Notar Giacomo4. 2
J.K. HYDE, The role of diplomatic correspondence and reporting: news and chronicles, Manchester-New York 1993 (capitolo 8 del volume, interrotto per la morte nel 1986, su Literacy and its uses. Studies on late medieval Italy), pp. 217-259: 254. 3 Ibid., pp. 221, 253, 254. 4 C. DE CAPRIO, Scrivere la storia a Napoli fra il Medio Evo e prima età moderna, Roma 2012; C. DE CAPRIO - F. SENATORE, Orality, Literacy and Historiography in Vernacular Neapolitan Urban Chronicles (15th-16th centuries), in Interactions between Orality and Writing in Early Modern Italian Culture, cur. L. DEGL’INNOCENTI - B. RICHARDSON - C. SBORDONI, Ashgate-London-New York 2016, pp. 129-143; HYDE, The role cit.; I. LAZZARINI, A ‘New’ Narrative: Historical Writing, Chancellors, and Public Records in Renaissance Italy (Milan, Ferrara, Mantua ca. 1450-1520), in After Civic Humanism: Learning and Politics in Renaissance Italy, cur. N.S. BAKER - B.J. MAXSON, Toronto 2015, pp. 195-216; A. MOHLO - F. SZNURA, Alle bocche della piazza, Diario di anonimo fiorentino (1382-1401), Firenze 1986 (edizione del ms. Panciatichiano 158 della Biblioteca Nazionale centrale di Firenze, mentre per l’altro anonimo ricordato nel testo, tràdito dal ms. XXV, 19 della stessa biblioteca, v. HYDE, The role cit., pp. 245-246); C. NEERFELD, “Historia per forma di diaria:” La cronachistica veneziana contemporanea a cavallo tra il Quattro e Cinquecento, Venezia 2006; F. SENATORE, Fonti documentarie e costruzione della notizia nelle cronache cittadine dell’Italia meridionale (secoli XV-XVI), «Bullettino dell’Istituto
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2. Il ricorso esteso a documenti di provenienza cancelleresca Le cronache citate sono costruite integralmente o per una parte significativa su documenti cancellereschi: corrispondenze diplomatiche, lette negli originali o nei registri dei collegi in cui erano state pubblicate; bandi di autorità superiori o della città; provvedimenti normativi di vario tipo; discorsi; capitolati d’appalto; elenchi di eletti alle singole magistrature; liste di contribuenti e di prezzi, ecc. Possono essere definiti scritture cancelleresche (o anche amministrative) diversi tipi di testi, prodotti dagli ufficiali delle amministrazioni statali e municipali e da chi entrava in relazione con loro. Si tratta di cancellieri dell’autorità (regia, principesca, repubblicana, cittadina), consiglieri, giudici delle corti centrali e periferiche, ufficiali territoriali, ambasciatori, cortigiani, governi locali, membri degli organismi collegiali, appaltatori e via dicendo. Nei singoli nuclei narrativi delle cronache, tipicamente introdotti dalla data (Addì...), si va dalla trascrizione integrale delle scritture cancelleresche, anche in lingue diverse, alla sintesi più o meno estesa, alla mera citazione. C’è chi identifica con precisione i documenti utilizzati e i modi in cui essi sono stati reperiti e chi tace ogni riferimento. In quest’ultimo caso le scritture cancelleresche e i loro percorsi sono riconoscibili per ragioni formali e di contenuto: espressioni tipiche, locuzioni idiomatiche, precisione dei dati e loro ordine, focus narrativo, qualità dell’informazione, specie quando vengono riferiti eventi cui l’autore non avrebbe potuto assistere in prima persona. Filologia e storia devono necessariamente collaborare per riconoscere le fonti o – direbbero i linguisti – gli ipotesti delle cronache di ambiente e di influenza cancelleresca5.
Storico Italiano per il Medio Evo», 116 (2014), pp. 279-333; M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Nuovi Studi storici, 49), pp. 277-299. Merita attenzione anche Gaspare Broglio, di Angelo (Tartaglia di Lavello), condottiero e ambasciatore al servizio dei Malatesta (1407-1483 ca): Estratti dalla Cronaca universale di Broglia di Tartaglia da Lavello, in Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, ed. A.F. MASSÈRA, in R.I.S.2, 15/2, Bologna 1922, pp. 183-192 e G. Broglio Tartaglia, Cronaca malatestiana del secolo XV (dalla cronaca universale), ed. A.G. LUCIANI, Rimini 1982: si veda ad esempio la lettera latina spedita dalla repubblica fiorentina a Galeotto Malatesta, 26 gennaio 1484, che l’editore, interessato all’autenticità della fonte piuttosto che al percorso delle notizie (vedi infra), pubblica basandosi sul registro originale reperito nell’Archivio di Stato di Firenze, correggendo «le varianti della scorrettissima copia di Broglia» (p. 189 nota). 5 M. BARBATO - F. MONTUORI, Dalla stampa al manoscritto. La IV parte della Cronaca di Partenope trascritta dal Ferraiolo (1498), in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche, materiali e usi nella storia della lingua, XII congresso SILFI (Società internazionale di Linguistica e filologia italiana), Helsinki 18-20 giugno
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Gli autori, che sono attivi nelle cancellerie e quelli che vi hanno facile accesso perché sono membri di magistrature collegiali o perché ricevono specifiche autorizzazioni6, possono utilizzare i documenti con abbondanza e sistematicità. Si tratta di Sanudo, Priuli, dei due anonimi fiorentini, che attingono ai registri della cancelleria, di Guarino e Caleffini. Tutti costoro utilizzarono in particolare i dispacci diplomatici: il vero precursore di queste «diplomatic oriented histories of the Renaissance» fu, come ci ha ricordato Marino Zabbia nel suo intervento al convegno, il geniale Nicoletto d’Alessandro, cancelliere carrarese, che scrisse tra il 1388 e il 1393 una Storia per la guerra dei confini utilizzando a piene mani le corrispondenze diplomatiche, tradotte dal latino in volgare7. Gli altri fanno quello che possono: approfittano di familiari ed amici, si procurano copie di bandi letti pubblicamente, si accontentano di ricordare che una lettera o un corriere ha portato in città una certa notizia. In questo gruppo rientrano Notar Giacomo, che pur mette le mani su documenti provenienti dalla corte vicereale di Napoli; Fuscolillo, che riversa nella sua opera un intero registro dell’Universitas di Sessa, passatogli da un congiunto; Ferraiolo, che ai documenti che ebbero pubblica circolazione a Napoli può aggiungere soltanto due lettere di poca importanza provenienti dalla cancelleria aragonese. Questi cronisti cittadini del Regno sono contigui alle amministrazioni municipali e di quartiere (i seggi napoletani). Gli “archivi correnti” delle Universitates meridionali – che non erano certo depositi immobili – sembrano essere stati per loro il luogo di reperimento di documenti di varia natura provenienti dalla Corte regia e dall’estero (la curia pontificia, gli stati alleati)8. In tutti i casi, questi cronisti sono attratti dal documento, testimonianza fededegna degli eventi contemporanei, che hanno deciso di ricordare. La narrazione, anche quando la fonte non è riportata nella sua integrità, è tutta incentrata sul documento e di esso conserva l’impronta nella lingua e nella focalizzazione narrativa (§ 4). 2012, Firenze 2014, pp. 51-70; DE CAPRIO, Scrivere la storia cit.; SENATORE, Fonti documentarie cit. 6 È il caso di Marin Sanudo e di Bernardino Corio: LAZZARINI, A ‘New’ Narrative cit., p. 208. 7 ZABBIA, I notai cit., pp. 281-283, per la datazione, HYDE, The role cit., p. 256, per la citazione. 8 SENATORE, Fonti documentarie cit., in particolare p. 32. Per i testi: Gasparro Fuscolillo, Croniche, ed. N. CIAMPAGLIA, Arce 2008; Notar Giacomo, Cronaca di Napoli, ed. P. GARZILLI, Napoli 1845 (è in preparazione l’edizione critica a cura di C. DE CAPRIO, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo); Ferraiolo, Cronaca, ed. R. COLUCCIA, Firenze 1987.
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3. Il percorso dei documenti e delle notizie dalle cancellerie alle cronache Come reperiscono le scritture cancelleresche gli autori che non lavorano in una cancelleria? Va innanzitutto sottolineato che le cancellerie monarchiche, signorili, repubblicane, municipali non erano istituzioni rigide e impermeabili, e non solo perché le informazioni filtravano in qualche modo verso l’esterno, come ci hanno insegnato le ricerche sulla “sfera pubblica” (Öffentlichkeit) tra tardo medioevo e prima età moderna9. Le istituzioni, specialmente nei principati e nelle monarchie, erano fatte più di ufficiali che di uffici: ufficiali che portavano i registri con sé, affidandoli a sostituti, famigli e praticanti, che convocavano riunioni a casa propria, che conservavano minute e copie degli atti pubblici. In particolare, è sorprendente quanto siano mobili le istituzioni napoletane: il Sacro regio Consiglio, la Sommaria, la Vicaria, che sono a Napoli, e i governi delle città meridionali non avevano una sede fissa o, se la avevano, non la usavano in via esclusiva10. C’è poi una normale, intensa circolazione delle lettere diplomatiche e dei loro allegati in occasione di avvenimenti importanti: gli eventi bellici, le rivolte, le vicende familiari dei capi di stato (nascite, morti, matrimoni), le cerimonie, i disastri naturali. Le cancellerie italiane gestivano con cura la divulgazione di queste notizie, trasmettendo copie integrali o estratti, versioni fedeli o interpolate. Una categoria a parte costituiscono gli “avvisi” dall’Oriente, così intitolati, che, allegati alle lettere, passavano di mano in mano anticipando anche nel nome gli avvisi a stampa del Cinquecento11. I carteggi diplomatici sono pieni di testi del genere, talvolta privi di data e di autore: oggi essi sono concentrati, a seguito degli ordinamenti ottocenteschi, nelle serie miscellanee come le Minute dell’Archivio Gonzaga nell’Archivio di Stato di Mantova, i Documenti di stati e città e gli Avvisi e notizie dall’estero dell’Archivio segreto Estense nell’Archivio di Stato di 9 HYDE, The role cit., p. 252; F. DE VIVO, Information and Communication in Venice: Rethinking Early Modern Politics, Oxford 2009; DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri. Politica e informazione a Venezia nella prima età moderna, Milano 2012; M. ROSPOCHER R. SALZBERG, ‘El vulgo zanza:’ spazi, pubblici, voci a Venezia durante le guerre d’Italia, «Storica», 48 (2010), pp. 83-120. 10 Mi permetto di rinviare a F. SENATORE, Una città, il regno: istituzioni e società a Capua nel XV secolo, Roma, Istituto storico italiano per il medioevo, in corso di stampa, I, §2.8. 11 M. INFELISE, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Roma-Bari 2002; M. MESERVE, News from Negroponte: Politics, Popular Opinion and Information Exchange in the First Decade of the Italian Press, «Renaissance Quarterly», 59 (2006), pp. 440-480.
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Modena, ma non mancano nei libri di famiglia, in manoscritti miscellanei a carattere formulistico ed epistolografico, nelle Carte strozziane dell’Archivio di Stato di Firenze. Certo, il cronista che è cancelliere, ambasciatore, ufficiale, cortigiano intercetta una maggior quantità di avvisi12. Tuttavia, notizie “sensazionali” potevano giungere, nell’originaria struttura testuale (del resto nessuno era interessato a modificarla), anche a chi non aveva legami particolarmente stretti con i luoghi del potere, e finire tal quali nelle cronache. 4. Il cronista scrive “giorno per giorno”? Non bisogna immaginarsi il cronista, neppure quello culturalmente più modesto, come una persona che verbalizza, giorno per giorno, gli eventi contemporanei, formando poco a poco il testo che abbiamo davanti. La configurazione testuale di alcune cronache, la qualità di alcune informazioni di contro alle confusioni e alle cuciture mal riuscite tra diversi ipotesti, le ripetizioni della medesima notizia, per non parlare della composizione e del ductus grafico di alcuni manoscritti autografi, in breve alcuni indicatori materiali, linguistici e contenutistici confermano che il testo è il frutto di una ponderata rielaborazione scritta. Detto così, sembra una banalità. A mio giudizio, non bisogna mai fidarsi dell’autore che si presenta, esplicitamente o implicitamente, come un testimone oculare o coevo dei fatti (secondo il topos perenne delle cose che ha visto e che ha udito da persone degne di fede), né tantomeno della struttura delle notizie, che sembrano susseguirsi come in una registrazione in presa diretta. Il cronista lavora comunque su un testo scritto: mette in sequenza cronologica le notizie, già raccolte in schede che nel Regno sono chiamate cartucce13, o in repertori approntati da lui e da altri (magari un congiunto); integra il testo con aggiunte al margine o negli spazi di rispetto, come è evidente nei codici di lavoro e come si ricava da certe caratteristiche degli apografi: i tipici relativi-connettori, la facies sintattica, l’accu-
12 Per il network informativo diplomatico vedi ora I. LAZZARINI, Communication and Conflict. Italian Diplomacy in the Early Renaissance. 1350-1520, Oxford 2015. Con esso interagiva continuamente l’altro grande circuito informativo del tardo Medioevo, quello dei mercanti, di cui non si parla in questa sede, HALE, The role cit., pp. 221, 253, SENATORE, Fonti documentarie cit., pp. 41-42. 13 Chiama così i suoi appunti Fuscolillo, Croniche cit., p. 162 («cartucze de adpunttature», § IIa 388) e pp. LIX, LXV.
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mulazione “orizzontale” dei dati (in serie di coordinate, senza rielaborazione delle diverse unità informative). L’autore si sforza di dare la medesima struttura narrativa alla successione degli eventi, riuscendoci più o meno bene a seconda delle proprie capacità e del materiale informativo di cui dispone. Più modesto è, più è evidente una sua rozza attitudine compilatoria, che non trasforma i testi di partenza né li omogeneizza14. Anche gli eventi accaduti nella città e nel tempo dell’autore, presentati senza rinvii ad una fonte (la lettera, la notizia, la voce) potrebbero essere stati messi per iscritto da altri. La lettura delle corrispondenze diplomatiche e dei verbali delle magistrature collegiali insegna che, in occasione di eventi importanti, un «nucleo narrativo essenziale si costituisce subito e circola rapidamente»15. C’è spesso qualcuno, un professionista della scrittura (un cancelliere, un notaio, un ambasciatore, un mercante), che elabora una descrizione scritta di quanto è avvenuto. Tali testi, prodotti nell’immediatezza di un evento, circolano in primo luogo nelle cancellerie centrali e periferiche, in secondo luogo tra i mercanti e talvolta oltrepassano questi ambiti. Facciamo qualche esempio, perlopiù meridionale, della circolazione di documenti cancellereschi nella loro integrità e di narrazioni al di fuori delle cancellerie italiane. Per quanto riguarda i primi si possono ricordare la lettera di Donato Acciaiuoli alla Signoria di Firenze e la risposta ufficiale del 1396, che dovettero essere verbalizzate nei registri della Signoria e dei collegi, e che sono riportate nella cronaca dell’anonimo fiorentino (quello che scrisse sul 1382-1401) e in manoscritti coevi16; oppure l’elenco dei centri meridionali danneggiati dal terremoto nel 1456, certamente prodotto nella cancelleria napoletana, che fu allegato a lettere diplomatiche italiane, ricopiato nel foglio di risguardia di un manoscritto che oggi è a Pavia, inserito nella cronaca valenciana del cosiddetto cappellano di Alfonso il Magnanimo17; le numerose lettere di corrispondenti diversi con la stessa versione delle battaglie campali durante la guerra di successione nel
14 15
DE CAPRIO, Scrivere la storia cit. F. SENATORE, La battaglia nelle corrispondenze diplomatiche: stereotipi lessicali e punto di vista degli scriventi, in La battaglia nel Rinascimento meridionale. Moduli narrativi tra parole e immagini, cur. G. ABBAMONTE et al., Roma 2011, pp. 223-240, cit. a p. 225. 16 MOHLO - SZNURA, Alle bocche della piazza cit., p. XXXIII. 17 B. FIGLIUOLO, Il terremoto del 1456, 2 voll., Altavilla Silentina 1988-89: II, pp. 2930 (ried. in Dispacci sforzeschi da Napoli, I: 1444-2 luglio 1458, ed. F. SENATORE, Salerno 1997, pp. 467-469); Melciòn Miralles, Crònica i dietari del capellà d’Alfons el Magnànim, ed. M. RODRIGO LIZONDO, Valencia 2011, §§ 67-68.
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Regno18. Per quanto riguarda le narrazioni costruite a ridosso dell’evento vanno citate la risposta di re Ferrante a Giovanni Cossa, al momento della sua resa nel 1462, che si ritrova tal quale in una lettera dell’ambasciatore milanese al seguito del sovrano e in un foglio sciolto custodito nelle carte Strozziane (probabilmente era un allegato alla corrispondenza degli Strozzi, che come noto avevano un banco a Napoli)19; la descrizione dell’entrata di Ferrandino a Napoli (1495), che a Messina fu consegnata da un napoletano all’ambasciatore spagnolo, e che questi tradusse e inglobò in un dispaccio inviato a Ferdinando il Cattolico20; la descrizione accurata dell’entrata trionfale di Carlo V in Capua nel 1536 (già bell’e pronta, si direbbe, per la divulgazione all’esterno), che si legge in un registro di cancelleria capuano e che fu composta dal medesimo cancelliere che vi aveva registrato le delibere di spesa relative21. Chi componeva queste descrizioni aveva un pubblico nella sua mente, per questo il suo testo può essere agevolmente inserito in una cronaca senza distorsioni narrative evidenti. Bisogna diffidare anche dell’impressione di immediatezza che deriva dalla presenza del discorso diretto e dalla modesta qualità letteraria. Quando un cronista riporta un discorso diretto, non sta “verbalizzando” un colloquio, riversando nella scrittura i tratti schietti del parlato: egli vuole esprimere, mediante una fictio, la veridicità di quanto riferisce, come avviene abitualmente nelle corrispondenze diplomatiche, nelle deposizioni giudiziarie, nei verbali. I passi che appaiono come un diretto riflesso dell’oralità, persino quelli che riferiscono insulti ed esclamazioni colorite, sono comunque il frutto di un’elaborazione scritta: per identificare in essi l’effettiva «permanenza di una dimensione orale» sono necessari gli strumenti della linguistica, cosa che a volte noi storici, pur ammaliati dal linguistic turn, non prendiamo in considerazione22. Nelle cronache di influen18 19
SENATORE, La battaglia cit. «La maiestà de re li respose che ipso devea sapere che era figlio dela maiestà del re Alfonso, el quale volse usare tanta clementia verso luy quanto ipso sa sensa lo havesse servito, et che lo simile intende fare sua maiestà, et che multe volte li homini fanno designi ad uno fine et escono el contrario, però quando la forza et potentia vince uno homo, quillo è exscusato ad Dio et al mundo», Dispacci sforzeschi da Napoli, V: 1 gennaio 1462-31 dicembre 1463, edd. E. CATONE - A. MIRANDA - E. VITTOZZI, Salerno 2009, pp. VIII, 202 e nota. 20 SENATORE, Fonti documentarie cit., p. 16. 21 Capua, Biblioteca del Museo Provinciale Campano, Archivio comunale di Capua, 15, f. 92r-v. 22 Per misurare quanto sia differente il concetto di oralità degli studiosi di formazione storica rispetto a quello dei linguisti, che è connesso alla categoria del parlato, basti rinviare a P. KOCH - W. ÖSTERREICHER, Sprache der Nähe - Sprache der Distanz. Mündlichkeit und Schriftlichkeit im Spannungfeld von Sprachteorie und Sprachgeschichte, «Romanistiches
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za cancelleresca sono presenti strutture discorsive e cognitive tipiche di una cultura fondata sull’oralità in misura molto modesta. Persino i Ricordi del napoletano Loise de Rosa, la cui cultura è stata collegata «a una tradizione illetterata a forte oralità residua», non vanno affatto considerati, a giudizio dell’editore Formentin, «una mera trascrizione della lingua parlata»23. Non è vero, del resto, che un illitterato (o un semicolto, categoria questa molto problematica per le epoche precedenti all’alfabetizzazione di massa) scrive come parla, proprio per la potenza che il modello della lingua scritta ha su di lui, pur incapace di apprenderla. Quando leggiamo cronache non toscane anteriori allo spartiacque bembistico, lo spaesamento provocato dalla distanza rispetto alla tradizione letteraria italiana ci induce a figurarci un’immediatezza di composizione, un’ingenuità espressiva, un’assenza di riflessione che vengono smentite dalle più accorte analisi linguistiche e testuali24. Anche le compilazioni cronachistiche più maldestre sono fondate su posizioni ideologiche, che si manifestano nelle omissioni, nell’ordine delle informazioni, nella selezione di passi estratti da altre opere. Insomma, pur presentandosi come un elenco di fatti osservati e riferiti, le cronache di influenza cancelleresca restano il prodotto di un’elaborazione, fondata su testi scritti (non solo documenti) molto più di quanto non appaia. D’altra parte, la cultura cancelleresca, anche quando posseduta in maniera imperfetta o solamente vagheggiata, è intrinsecamente una cultura scritta. 4. L’influenza cancelleresca sulle “cronache di documenti” Per le cronache quattrocentesche di influenza cancelleresca sembra senz’altro calzante la definizione di «cronache di documenti», coniata da
Jahrbuch», 36 (1989), pp. 15-43. Cfr. C. DE CAPRIO, Spazi comunicativi, tradizioni narrative e storiografia in volgare: il Regno nelle guerre d’Italia, «Filologia e critica», 39 (2014), pp. 39-72: 51-54. Per la verbalizzazione di trattative diplomatiche: F. DE VIVO, Archives of speech: Recording diplomatic negotiation in late medieval and early modern Italy, «European History Quarterly», 46/3 (2016), pp. 519-544. 23 Loise De Rosa, Ricordi, ed. V. FORMENTIN, 2 voll., Roma 1998, I, pp. 57-58. Sul parlato in testi cancellereschi F. MONTUORI, L’auctoritas e la scrittura. Studi sulle lettere di Ferrante d’Aragona, Napoli 2010, pp. 19-58. 24 Per i giudizi di Benedetto Croce su de Rosa e sui Diurnali si legga FORMENTIN in De Rosa, Ricordi cit., pp. 58-62. Per le intenzioni dell’autore, identificate attraverso il prologo, si rinvia all’intervento di MONTUORI al seminario su Le fonti letterarie del ciclo Scrivere la storia tra Medioevo e prima età moderna, Napoli 13 marzo 2013.
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Gilmo Arnaldi per le compilazioni monastiche dell’Italia centrale e meridionale nel XII secolo. Come i monaci, anche alcuni cronisti del XV secolo praticavano «l’inserzione di documenti nel tessuto narrativo di una cronaca o – se si preferisce – la costruzione di un testo che servisse a raccordare fra loro una serie di documenti»25. Naturalmente le compilazioni monastiche non possono essere state un modello, né le condizioni culturali di monaci e di cronisti cittadini sono le stesse, e neppure sono paragonabili i corpora documentari che i due tipi di scriventi maneggiavano. Nei monasteri si trattava di centinaia di atti privati (compravendite, legati testamentari, inventari) e di un piccolo tesoro di diplomi emanati da imperatori, papi, re: in ogni caso documenti latini che attestavano i diritti dell’ente, focus inevitabile della compilazione. I cronisti quattrocenteschi hanno per le mani testi cancellereschi eterogenei e complessi, prodotti da varie autorità e ufficiali, in latino o in volgare, contenenti le più svariate informazioni politiche, militari, amministrative. Quello che c’è di comune è per l’appunto l’atteggiamento nei confronti del documento, messo al centro – va ribadito ancora una volta – della composizione26. Il cronista subisce la rigida struttura testuale del documento in ragione delle sue insufficienti capacità scrittorie, ma anche per un consapevole rispetto della testimonianza scritta. Il documento cancelleresco è una prova e al tempo stesso un modello per la narrazione. È questo il secondo carattere fondamentale delle cronache di influenza cancelleresca. I cronisti prendono a modello quegli stessi documenti che utilizzano. In effetti, nel caso in cui siano privi di una cultura letteraria, storiografica, giuridica o teologica, essi hanno costruito le proprie competenze scrittorie nella pratica, componendo, leggendo, copiando scritture cancelleresche, anche quando non erano cancellieri. La literacy dei ceti cittadini mediani, ma anche di cortigiani di altissimo livello come Diomede Carafa a Napoli27, è assolutamente legata al mondo cancelleresco dal punto di vista linguistico, testuale, cognitivo.
25 G. ARNALDI, Cronache con documenti, cronache «autentiche» e pubblica storiografia (1976), in Storici e storiografia nel Medioevo italiano, cur. G. ZANELLA, Bologna 1984, pp. 111-137: 119. Cfr. la stessa definizione in Hyde, supra, testo corrispondente a nota 2. 26 SENATORE, Fonti documentarie cit., pp. 49-50. 27 F. SENATORE, Ai confini del «mundo de carta». Origine e diffusione della lettera cancelleresca italiana (sec. XIII-XVI), in I confini della lettera. Pratiche epistolari e reti di comunicazione nel Tre-Quattrocento italiano, cur. I. LAZZARINI, «Reti medievali. Rivista», 10 (2009), pp. 1-58: 17-24 (http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/78, link attivo al 28 ottobre 2015).
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Chi verbalizza una riunione, chi scrive una lettera cancelleresca fa operazioni compilative che sono le stesse dei nostri cronisti: sintetizza un provvedimento o un contratto in brevi sintagmi, copia integralmente o per estratti una lettera, riassume l’intervento di un consigliere o di un ambasciatore straniero, che magari gli consegna un testo scritto, passa dal latino al volgare e viceversa (senza dimenticare le altre lingue), repertoria in elenchi (i «sommari» di alcune cancellerie) e minute le informazioni tratte da diverse fonti (lettere diplomatiche, consulte, denunce, suppliche), oppure inserisce tal quali questi “atti preparatori” (secondo la definizione tradizionale della diplomatica) in lettere e delibere. La procedura seguita dagli ufficiali giudiziari e fiscali è infatti ricostruibile smontando le relazioni che essi hanno prodotto, che inglobano, riassumono, citano tutti i testi precedenti28. I verbali dei consigli, ma anche i libri di conto, sono allestiti dai notai e dai cancellieri sempre in un secondo momento, sulla base di bozze, schemi, appunti, documenti in originale. Talvolta, e chiunque abbia consultato registri amministrativi e finanziari può confermarlo, si lasciano spazi bianchi per ricopiare un documento che al momento non è disponibile, o si infilano i documenti originali all’interno del registro, dove li ritroviamo, incastrati nella rilegatura, a distanza di secoli. Lo stesso avviene nel “codici-archivio” di alcuni cronisti29. Infine, chi scrive un verbale si indirizza ad un pubblico differito nel tempo: è questo un salto di qualità necessario, che trasforma la notizia, nata nella contingenza, in memoria rivolta ai posteri, il report in record30. L’orizzonte virtuale di un pubblico distingue in effetti le cronache da composizioni come quelle del cancelliere Cicco Simonetta, che commissionò ai suoi scrivani i cosiddetti Diari; dell’ambasciatore Nicodemo Tranchedini, che teneva uno zibaldone di notizie familiari e storiche: del paggio Gioampiero Leostello, che registrò per obbligo d’ufficio i movimenti del suo signore, il duca di Calabria31. Nei cronisti, che usano i medesimi materiali documentari, sussiste un sincero, pur se talvolta rozzo e implicito, desiderio di fare storia, e di fare storia della contemporaneità.
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HYDE, The role cit., p. 255, richiama, per Nicoletto d’Alessio, il modello narrativo dei casi giudiziari («the detailed narratives of court cases found in judicial records»). 29 DE CAPRIO, Scrivere la storia cit., pp. 139-173. 30 Un passaggio che è sempre problematico, HYDE, The role cit., pp. 212, 220, 253. 31 Cicco Simonetta, I Diari, ed. A.R. NATALE, Milano 1962 (per i quali cfr. LAZZARINI, A “new” Narrative cit.); P. Sverzellati, Il libro-archivio di Nicodemo Tranchedini da Pontremoli, ambasciatore sforzesco, «Aevum», 70 (1996), pp. 371-391; Joampiero Leostello, Effemeridi delle cose fatte per il duca di Calabria (1484-1491), in Documenti per la storia le arti e le industrie delle provincie napoletane, ed. R. FILANGIERI, Napoli 1883, vol. I.
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L’essere stato un cancelliere, come d’Alessio e Caleffini, o un membro delle magistrature collegiali, come Sanudo e Guarino, non determina automaticamente il carattere cancelleresco della costruzione narrativa. Altri autori, che pur sono totalmente immersi nelle pratiche cancelleresche, nelle negoziazioni politico-diplomatiche, nella vita di corte scelgono, in ragione della loro cultura classica, della loro formazione umanistica e della loro qualità intellettuale, modelli storiografici alti, pur utilizzando fonti cancelleresche: Enea Silvio Piccolomini, Machiavelli, Pontano, lo stesso Bernardino Corio. Essi riuscirono a superare le forme della scrittura cancelleresca o amministrativa, avvicinandosi il più possibile alle prestigiose auctoritates classiche e al precoce canone dei grandi scrittori toscani. 5. L’ossessione per l’informazione In un saggio del 2015, Isabella Lazzarini ha insistito sulla presenza, negli storiografi, nei cronisti e nei compilatori di miscellanee cancelleresche, di una medesima attitudine culturale. Tutti condividevano a suo giudizio un’ossessione per l’informazione, in ragione di quell’esplosione della comunicazione scritta che si accompagnò allo sviluppo straordinario degli apparati amministrativi e del sistema diplomatico nell’Italia quattrocentesca. Lazzarini scrive che «the obsession for keeping information under control created a shared hunger for news that documentary sources could easily fill day by day»32. Correggerei, correggendo in primo luogo me stesso: siamo piuttosto noi, i soggetti di questo approccio storiografico, ad essere ossessionati dalla costruzione, manipolazione, conservazione dell’informazione. Identificare gli ambienti cancellereschi come luogo di produzione e di reperimento delle informazioni da parte dei cronisti non è la stessa cosa che parlare di fonti cancelleresche per le cronache, ciò che si è sempre fatto nello studio delle scritture storiche. Nella distinzione tra fonte, da un lato, e informazione, notizia, dall’altro, si riassume il percorso di una parte della storiografia di ascendenza politico-istituzionale negli ultimi tre decenni, interessata non più alle istituzioni e alle res gestae in sé, non più, in sede di storia della storiografia, alle personalità intellettuali che descrivono quelle
32 LAZZARINI, A “new” Narrative cit., p. 208. Cfr. LAZZARINI, Lettere, minute, registri: pratiche della scrittura diplomatica nell’Italia tardomedievale fra storia e paleografia, «Quaderni storici», 152 (2016), pp. 449-470: 459-461.
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istituzioni e quelle res, ma piuttosto alla gestione dell’informazione e ai percorsi molteplici, reticolari, incontrollati delle notizie che finiscono nei testi cancellereschi e nelle cronache cittadine. Le cancellerie e gli archivi sono visti non come strumenti di governo, ma come agenzie di trattamento e deposito dell’informazione. Le cronache non sono decostruite alla ricerca dei nuclei informativi minimi, utilizzabili per una ricostruzione evenemenziale o ideologica, ma piuttosto per identificare i modi in cui le informazioni furono trasmesse e modificate negli immateriali circuiti informativi della città e delle corti italiane ed europee. Non si parla più di istituzioni, temperie culturali, autori e opere storiografiche, fonti narrative e fonti documentarie, ma di linguaggi, notizie, sfera pubblica, comunità testuali. Non interessano il contenuto del messaggio e, talvolta, neppure l’emittente, per dirla richiamando lo schema basilare della comunicazione, ma il canale in sé, al limite i fraintendimenti del ricevente, così come emergono nei testi storiografici e cronachistici e negli archivi33. Nel 1988 Gary Ianziti pubblicò un lavoro magistrale su Politics and Propaganda nella storiografia umanistica alla corte sforzesca34. Egli riconobbe nell’opera di Giovanni Simonetta le tecniche di manipolazione della notizia praticate nella cancelleria segreta di Francesco Sforza, il cui segretario era Cicco, fratello di Giovanni. Tutta l’analisi di Ianziti era dunque incentrata sul nesso tra cancelleria e storiografia. Lo è anche quella di Lazzarini nell’articolo del 2015: storici umanisti e compilatori di elenchi di notizie rappresenterebbero gli estremi di un larghissimo spettro di scritture che, al di là dei generi, degli obiettivi specifici e della formazione di ciascuno, avevano una medesima cultura storica o – potremmo dire – una medesima cultura dell’informazione. Se ai tempi di Ianziti, nel crepuscolo della guerra fredda, decostruire un’opera storiografica significava smascherare la propaganda messa in campo dal “Potere”, nei nostri, tempi dei media digitali e di wikileaks, siamo irresistibilmente attratti dai percorsi delle informazioni e dai disperati tentativi di controllarle, ordinarle, ricordarle. Naturalmente, il pensiero di Lazzarini non andrebbe così banalizzato. Isabella avanza una proposta interpretativa ben ponderata e assolutamente condivisibile: ritiene che la crescita dell’amministrazione e quella della
33
Cfr. i contributi di I. LAZZARINI, G.M. VARANINI e A. GAMBERINI in Lo Stato del Rinascimento in Italia, 1350-1520, cur. A. GAMBERINI - I. LAZZARINI, Roma 2014; quelli in Archivi e archivisti in Italia tra medioevo ed età moderna, cur. F. DE VIVO - A. GUIDI - A. SILVESTRI, Roma 2015; DE VIVO, Archives cit. 34 G. IANZITI, Humanistic Historiography under the Sforzas: Politics and Propaganda in Fifteenth-Century Milan, Oxford 1988.
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diplomazia abbiano influenzato enormemente la cultura scritta di chi operava in quegli ambienti o era ad essi vicino. La quantità di informazioni disponibili, la necessità di dominarle per far fronte a eventi drammatici avrebbero provocato un vero e proprio salto di qualità, un cambio di paradigma culturale, facendo nascere una «new narrative» del presente. Non c’è dubbio che alcune opere, come quelle di Nicoletto d’Alessio e di Marin Sanudo, siano particolarmente interessate al percorso delle notizie, siano effettivamente «news chronicles», cronache di notizie, secondo la calzante definizione di Hyde35. Nicoletto, che ha una netta preferenza per il documento rispetto alla testimonianza oculare, punto di riferimento della storiografia antica e medievale36, riflette sugli effetti del suo ricorso alle lettere diplomatiche – che sente il bisogno di giustificare di fronte al lettore – e soprattutto sulle loro caratteristiche testuali: le lettere non riferiscono i fatti nell’ordine che sarebbe necessario, sono talvolta reticenti per loro natura, contengono affermazioni che non vanno attribuite al mittente, ma all’autorità da cui dipende37. Naturalmente, tale attenzione alle lettere non lo distoglie dai fatti, rappresentati nella loro ineludibile drammaticità. Che qualcosa di nuovo nasca nell’Italia del tardo Medioevo non c’è alcun dubbio, e null’altro sono le ricerche di matrice culturalista sulle cancellerie e sulle cronache se non un approfondimento di quel fenomeno che chiamiamo Rinascimento. Nel Rinascimento crebbe per quantità e per influenza un ceto di ufficiali e si svilupparono enormemente gli apparati amministrativi e, con essi, gli archivi e le più varie forme di scrittura di memoria. L’eccezionalità degli eventi politico-militari, la rapidità delle trasformazioni indussero molti, grandi e piccoli, a cercare la forma più adatta a rappresentare la propria esperienza storica: non solo le cronache, ma anche altre opere storiografiche, archivistiche, letterarie, filosofiche, artistiche sono il prodotto non tanto di una «obsession» per l’informazione quanto di una crescita culturale e di una ricerca di senso esistenziale.
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HYDE, The role cit., p. 245. Ibid., p. 255; ZABBIA, I notai cit., p. 290. Ibid., pp. 292-293. Nelle citazioni valorizzate da Zabbia si parla della mancanza di ordine delle lettere («algune cose no servade con quel ordene, che se doverave»), di «algune cautele» degli scriventi (viene in mente lo «scrivere iustificato» delle corrispondenze quattrocentesche) e dell’autorialità politica delle lettere, per così dire («el movimento dele parole no procede da colui, che scripse, ma da el so signor, che lo indusse a scrivere»). Per lo «scrivere iustificato»: F. SENATORE, “Uno mundo de carta”. Forme e strutture della diplomazia sforzesca, Napoli 1998, pp. 231-249.
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Spostare l’attenzione dalle fonti delle cronache alle notizie, e poi alle informazioni ha determinato un raffinamento dell’analisi testuale ed evenemenziale. Dai fatti, dalle opere, dagli autori, dagli ambienti (di cui autori spesso sconosciuti o poco conosciuti furono l’espressione) l’attenzione si sposta sulla literacy, quindi, definitivamente, sulla comunicazione, che diventa la principale chiave di lettura del passato. L’operazione è indubbiamente assai interessante, ma forse non è proficuo ripeterla all’infinito. Una volta stabilito come operarono concretamente alcuni cronisti e quanto fossero partecipi dei circuiti informativi cancellereschi (o diplomatici, o mercantili) diventa quasi superfluo – temo – riscontrare i medesimi fenomeni in un’altra cronaca o in un’altra area geografica, specie se ci si accontenta del mero dato estrinseco, disinteressandosi degli eventi di cui quei cronisti parlano e del loro specifico profilo sociale e culturale. Per gli storici, in particolare, l’insistenza sui meccanismi comunicativi di cui il testo è il precipitato comporta almeno due rischi: quello di disinteressarsi dei Realien che sono dietro quei testi (ma essi possono legittimamente essere trascurati dalla ricerca nonostante la persistenza di una domanda editoriale e culturale al riguardo) e quello di abbandonare impegni indubbiamente più gravosi e meno remunerativi sul piano della visibilità accademica. Siamo certi di conoscere sufficientemente tutte le cancellerie dal punto di vista dell’organizzazione, della composizione, del funzionamento? Ci basta leggere alcune cronache in edizioni vecchie di oltre due secoli? Se si pensa al Meridione, la risposta ad entrambe le domande è un secco no. Tenuto conto della sede che ci ospita, non esito a concludere con l’esortazione – innanzitutto a me stesso (vittima dell’«ossessione per l’informazione»38) – a tornare allo studio delle cancellerie in sé e all’edizione critica delle cronache.
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Un’ossessione che evidentemente era nell’aria, perché (sia consentita una riflessione autobiografica) al tempo di “Uno mundo de carta” cit. (tesi di dottorato discussa nel 1994 e pubblicata nel 1998) non conoscevo HYDE, The role cit., del 1993.
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Nella percezione comune, anche di molti fra coloro che si occupano professionalmente di cultura medievale nelle sue varie manifestazioni, il legame fra Ordini mendicanti, uso del volgare e produzione storica viene vissuto come un dato di fatto, non indagato ma indiscutibile. Potrà perciò suscitare un certo stupore il dover constatare che la storiografia mendicante in volgare è fenomeno tardivo, minoritario e quasi esclusivamente nonitaliano1. Quello che si propone questo breve saggio è ricercare le ragioni di questa quasi-assenza. Gli autori citati sono tutti Francescani e Domenicani non per una scelta aprioristica, ma perché non esiste una produzione storiografica carmelitana e le poche opere storiche attribuibili ad Agostiniani non consentono di formulare ipotesi di qualche attendibilità sulle loro scelte linguistiche. Ordini mendicanti e il volgare È ben noto il fatto che i Frati Minori costituirono, all’inizio, un gruppo di penitenti in maggioranza laici, che ricevettero precocemente l’autorizzazione a predicare (1209/1210)2 anche al di fuori dei confini della diocesi di Assisi; in una prima fase essi limitarono probabilmente i loro interventi solo ai temi morali, astenendosi, così come previsto dalla normativa eccle-
1 È quanto risulta dallo spoglio integrale dei primi 5 volumi relativi ai Fontes del Repertorium Fontium Historia Medii Aevi (d’ora in poi Rep. Font.), voll. 11: II, Romae 1967; III, Romae 1970; IV, Romae 1976; V, Romae 1984; VI, Romae 1990 e da una ricerca mirata sugli autori per i volumi successivi. 2 W. Maleczek, Franziskus, Innocenz III., Honorius III. Und die Anfängen des Minoritensordens. Ein neuer Versuch zu einem alten Problem, in Il Papato duecentesco e gli Ordini Mendicanti. Atti del XXV Convegno internazionale (Assisi, 13-14 febbraio 1998), Spoleto 1998, pp. 38-54.
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siastica, dall’intervenire su materie dogmatiche e più in generale sui contenuti della fede, tematiche riservate ai soli chierici. Si comprende, in questo contesto, come una delle primissime testimonianze sulla predicazione di Francesco, quella di Tommaso da Spalato3, definisca il suo modo di proporsi agli ascoltatori come affine all’ars concionandi, cioè allo stile tipico dell’oratoria in volgare utilizzata nella sfera politica. Ma già pochi anni più tardi, nel 1221, il mondo minoritico si era fatto assai più complesso, grazie all’entrata di sacerdoti dotati di una cultura più o meno raffinata in quella che, pur in mancanza di una Regola approvata, era ormai una famiglia religiosa riconosciuta da Roma. Nel rievocare gli inizi della missione in Germania guidata da Cesario di Spira, Giordano da Giano – che di quella missione aveva fatto parte sin dal primo giorno – ricorda come, giunti a Trento, Cesario abbia predicato ai chierici, molto probabilmente in latino, mentre frate Barnaba Theutonico si rivolgeva ai laici, con ogni probabilità in volgare “lombardico”4. Se passiamo dall’oralità alla scrittura, il contributo dei Francescani all’affermazione del volgare italiano, in questo caso umbro, in una dimensione indiscutibilmente letteraria è incontestabile: basti pensare che la storia della letteratura del nostro paese si apre con il Cantico delle creature o Cantico di frate Sole come preferisce chiamarlo Jacques Dalarun nel recentissimo libro che ha dedicato a questo testo datato agli anni 1224-12265. Un cinquantennio più tardi è Jacopone da Todi, notaio prima di diventare frate minore, a comporre un corpus poetico in volgare di assoluto rilievo6. 3 Cfr. Ex Thomae Historia pontificum salonitarum et spalatinorum, ed. L. Heinemann, in M.G.H., SS., 29, Hannoverae 1892, p. 580: «Eodem anno [1222] in die assumpsionis Dei genitricis, cum essem Bononie in studio, vidi sanctum Franciscum predicantem in platea ante palacium publicum, ubi tota pene civitas convenerat […] ita bene et discrete proposuit, ut multis literatis, qui aderant, fieret admiracioni non modice sermo hominis ydiote; nec tamen ipse modum predicantis tenuit, sed quasi concionantis». 4 È quello che si può dedurre dal fatto che Giordano da Giano ricordi che della missione facevano parte predicatori in grado di parlare lingue diverse: ad. esempio «Johannes de Plano Carpinis predicator in Latino et Lombardico» (cfr. Chronica fratris Jordani, ed. H. BOEHMER, Paris 1908 [Collection d’études et de documents sur l’histoire religieuse et littéraire du Moyen Âge, VI], Paris 1908, p. 21) e Barnaba Theutonico, «predicator egregius in Lombardico et Theutonico» (ibid., p. 22) che, il giorno di S. Michele, «frater Cesarius sermonem fecit ad clerum et frater Barnaba ad populum» (ibid., p. 24). Su Giordano si veda L. CANETTI, s.v. Giordano da Giano, in Dizionario biografico degli Italiani, 55, Roma 2000, pp. 240-243. 5 J. DALARUN, Il Cantico di frate Sole. Francesco d’Assisi riconciliato, Milano 2015 (ediz. or. Paris 2014). Il volume rappresenta un’analisi attentissima del testo, verso per verso, tenendo conto dei risultati della più recente ricerca storica, filologica e paleografica. 6 A. MONTEFUSCO, Iacopone nell’Umbria del Due-Trecento: un’alternativa francescana, Roma 2006.
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Quanto ai Domenicani, le prediche di Giordano da Pisa (o di Rivalto) dell’inizio del XIV secolo, pur se conosciute solo attraverso le reportationes di uno o più dei suoi ascoltatori, sono uno splendido esempio di volgare fiorentino7. È evidente comunque sin da queste prime notazioni la differenza fra le due famiglie mendicanti: il carattere umbro del primo francescanesimo, il suo radicamento in un territorio ben definito spiegano la scelta del volgare di Francesco, che quel cantico scrisse perché fosse cantato dai confratelli, come in effetti avvenne intorno al suo letto di morte. Il canonico della cattedrale di Huesca Domenico di Calaruega, impegnato prima nella predicazione anti-ereticale nel Tolosano e, più tardi nell’Italia centro-settentrionale, visse invece sin dall’inizio un’esperienza “internazionale” o “sovranazionale” in cui il volgare non poteva che svolgere un ruolo limitato. Non esiste infatti il volgare ma i volgari, ostacolo ad una reale ed immediata comprensione fra individui che provenivano da regioni d’Europa diverse e linguisticamente molto lontane tra loro. È certo che il volgare svolse nella vita dei Minori, almeno nel XIII secolo, un ruolo molto più importante che fra i Predicatori. Mentre i Francescani, fra cui, nei primi decenni, si contavano numerosissimi laici, nei primi cinquant’anni di vita ebbero una serie di ministri generali centroitaliani (dopo Francesco, Pietro Cattani, Elia da Cortona (o di Assisi), Alberto da Pisa, Crescenzio di Jesi, Giovanni da Parma, Bonaventura da Bagnoregio, con la sola eccezione del breve generalato dell’inglese Aimone di Faversham), così come in gran parte di origine italiana furono anche i ministri provinciali fino al 12408, i Domenicani, ordine di chierici, dopo Domenico furono guidati da Giordano di Sassonia, Raimondo di Peñafort, Giovanni Teutonico, Humbert de Romans, a riprova della mancanza di un qualsiasi radicamento dell’Ordine in una singola regione d’Europa, condizione che rendeva necessaria un’utilizzazione anche quotidiana del latino almeno ai livelli alti della gerarchia. Il che, naturalmente, non vuol dire che i Predicatori non si rivolgessero ai laici il più possibile in volgare, ma che i
7
Sulle prediche di Giordano si veda il volume di C. IANNELLA, Giordano da Pisa: etica urbana e forme della società, Pisa 1999. Alla stessa autrice si deve l’edizione di un manoscritto finora inedito del Domenicano, cfr. Giordano da Pisa. Prediche inedite (dal ms. Laurenziano Acquisti e doni 290), ed. IANNELLA, Pisa 1997. Resta ancora validissima la voce di C. DELCORNO, s.v. Giordano da Pisa, in Dizionario biografico degli Italiani, 55 cit., pp. 243-251. 8 F.J. MAPELLI, L’amministrazione francescana di Inghilterra e Francia. Personale di governo e strutture dell’Ordine fino al Concilio di Vienne (1311), Roma 2003.
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volgari svolgevano nella vita dell’Ordine un ruolo diverso da quanto avveniva presso i Minori. L’uso del volgare nello scritto variava comunque a seconda delle situazioni locali. Solo in questa ottica si spiega il fatto che mentre – come già ricordato – le prediche tenute a Firenze da Giordano da Pisa ci sono note solo grazie alle reportationes che ne furono fatte e non per una decisione dell’autore, le prediche volgari di Maestro Eckart, più o meno contemporanee, furono messe per iscritto in volgare dal grande mistico e predicatore renano9. Nella Germania dell’inizio del XIV secolo esisteva già da decenni un pubblico di monache e laici devoti, incapaci di comprendere il latino, ma in grado di leggere e spesso anche scrivere il volgare, cui quella raccolta di prediche si rivolgeva10. Ma anche nella Toscana dei primi decenni del Trecento Domenico Cavalca (†1342), con l’aiuto di altri confratelli, intraprendeva una grandiosa opera di volgarizzamento di testi celeberrimi come le Vitae Patrum, i Dialoghi di Gregorio Magno, la lettera di s. Girolamo ad Eustochio in lode della verginità e di altre opere di carattere morale e penitenziale (Specchio di Croce, Medicina del cuore ovvero Trattato della pazienza, Pungilingua), tutti rivolti ad un pubblico laico11. Così come in volgare fiorentino dell’inizio del XV secolo Giovanni Dominici, grande intellettuale e riformatore domenicano, rivolse i suoi consigli su come educare i figli e assicurare il benessere della famiglia alla nobildonna Bartolomea Alberti12. Più o meno alla metà del XIV secolo in ambito francescano venivano composti gli Actus Francisci et sociorum eius13, opera di ispirazione spirituale, il cui volgarizzamento, i Fioretti, furono votati a grande e ancor perdurante fortuna e che rappresentano per molti italiani il “vero”, se non unico, ritratto di Francesco.
9 Vedi Rep. Font., IV 10 Sullo sviluppo del
(1976), pp. 270-272. volgare in Germania per raggiungere un pubblico di monache “illitteratae” ha messo l’accento già molti decenni or sono H. GRUNDMANN, Movimenti religiosi nel Medioevo. Ricerche sui nessi storici tra l’eresia, gli Ordini mendicanti e il movimento religioso femminile nel XII e XIII secolo e sui presupposti storici della mistica tedesca, Bologna 19802 (ediz. or. 1935). 11 Sul Cavalca, le cui opere ebbero enorme diffusione, come documentato dalla tradizione manoscritta, si veda la bella voce di C. DELCORNO, s.v. Cavalca Domenico, in Dizionario biografico degli Italiani, 22, Roma 1979, pp. 577-586. 12 L’opera è intitolata Regola del governo di cura familiare. Su Giovanni Dominici si veda Rep. Font., IV (1976), pp. 239-240. Ormai datato è il contributo di G. CRACCO, s.v. Banchini, Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, 5, Roma 1963, pp. 657-664. 13 Rep. Font., V (1984), pp. 607-608 s.v. Hugolinus de Monte Georgio.
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Per concludere, i Mendicanti hanno utilizzato ampiamente il volgare, spesso ad altissimo livello, ma per rivolgersi ai laici loro fedeli, mentre anche fra i Francescani la dimensione via via più clericale, colta ed internazionale faceva trionfare il latino. Gli Ordini mendicanti e la storia L’interesse per la storia degli Ordini Mendicanti non rappresenta certo un elemento di novità nella storia delle famiglie religiose. Il collocare la propria esperienza personale o comunitaria all’interno di uno sviluppo storico di cui la nascita di Cristo costituisce una scansione fondamentale è comune a molti di coloro che, vivendo all’interno di una istituzione religiosa, hanno avuto le capacità intellettuali e la cultura necessaria a mettere per iscritto quanto era a loro noto facendo iniziare il racconto da un passato più o meno remoto per spingersi fino agli avvenimenti di cui erano testimoni oculari. Si spiegano così le centinaia di opere, molto spesso anonime (e che possono assumere le forme e i titoli più vari Annales, Chronica, Fundationes, Historiae) prodotte nell’ambito di abbazie e capitoli cattedrali e che costituiscono, in non pochi casi, le nostre uniche fonti di informazione per i secoli alto-medievali. Minori e Predicatori, che vivono in contesti cittadini e sono strettamente legati alla politica religiosa di un Papato dall’azione sempre più “universale”, accentuano alcune tendenze già presenti nella storiografia precedente: da una parte, un collegamento molto forte alla città (o, in altri casi, alla provincia dell’Ordine) in cui gli autori hanno trascorso buona parte della propria esistenza e, d’altra parte, una tendenza a inserire lo sviluppo della propria famiglia religiosa nell’ambito della “storia universale”. È ben noto come i Francescani abbiano concentrato molte delle proprie energie intellettuali per circa un secolo nella stesura delle biografie dedicate al santo fondatore, le cui continue riscritture fanno di queste fonti agiografiche, in cui la stessa esperienza di Francesco è presentata in modo che varia nel tempo, lo specchio delle trasformazioni dell’Ordine che a lui si rifaceva14. 14 La biografia di A. VAUCHEZ, Francesco d’Assisi tra storia e memoria, Torino 2010 (ediz. or. Paris 2009) si basa tutta su un’attenta valutazione dell’agiografia francescana. Da un’analisi delle “biografie” due-trecentesche di Francesco parte anche la ricostruzione della vita del santo di A. MARINI, Francesco d’Assisi, il mercante del regno, Roma 2015. Si veda anche, quale ultimo tentativo di utilizzazione storica delle fonti duecentesche, il capitolo iniziale del recentissimo volume di C. FRUGONI, Quale Francesco? Il messaggio nascosto
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Nel contempo, però, non mancavano altre opere, assai meno ambiziose, che miravano a salvaguardare la memoria del primo insediamento minoritico e della successiva espansione in due province fondamentali per l’Ordine: la Sassonia15 e l’Inghilterra16. Chi invece veniva impiegato dal Papa in pericolose missioni presso il temutissimo e ancora totalmente sconosciuto Impero mongolo, che – negli anni 1240-1241 – aveva minacciato il cuore stesso dell’Europa cristiana, si adoperava per mettere a disposizione della Curia, e dei sovrani europei, tutte le informazioni che aveva potuto raccogliere17. E c’era chi, come Salimbene de Adam, riversava all’interno della forma “cronaca universale”18, una congerie di dati, informazioni e riflessioni ricchissima; ma la sua opera storica, così ricca ed affascinante per gli storici a noi contemporanei, che fu continuata fino agli ultimi anni di vita dell’autore (1287-1288?) e dedicata ad una nipote monaca, non ebbe invece all’epoca alcuna circolazione. Tutti questi autori, però, anche quel Salimbene la cui prosa ha il ritmo, e in certo modo il “sapore” del volgare, scrivono sempre e soltanto in latino. I Predicatori, pur avendo dedicato a Domenico un certo numero di scritture agiografiche19, non hanno utilizzato la figura di colui che viene
negli affreschi della Basilica superiore di Assisi, Torino 2015, che rinvia alla ricchissima bibliografia sul tema. 15 Chronica fratris Jordani cit. Su Giordano si veda anche Rep. Font., VI (1990), pp. 442-444. 16 Tractatus fr. Thomae vulgo dicti de Eccleston de adventu fratrum Minorum in Angliam, ed. A.G. LITTLE, Paris 1909 (Collection d’études et de documents cit., VII), su Tommaso si veda Rep. Font., XI/1-2 (2006), pp.180-181. 17 Giovanni dal Pian del Carpine, Ystoria Mongalorum, per cui si veda Rep. Font., VI (1990), pp. 392-393. Su questo interessante personaggio si veda R. MICHETTI, s.v. Giovanni da Pian del Carpine, in Dizionario biografico degli Italiani, 56, Roma 2001, pp. 154-157. 18 Salimbene de Adam, Cronica, ed. F. Bernini, Bari 1966 (Scrittori d’Italia, 232-233), ora anche Turnhout 1998-1999 (Corpus Christianorum. Continuatio medievalis, 125 e 125 A). L’opera del francescano raccoglie esperienze autobiografiche, informazioni sulla vita della sua famiglia religiosa, riflessioni sul potere all’interno delle istituzioni ecclesiastiche (il Liber de praelato, che ha al suo centro la figura di Elia il secondo successore di Francesco alla guida dell’Ordine), un ritratto a tutto tondo di Federico II e una miriade di altre informazioni e osservazioni. La voce di R. MANSELLI, Adam Salimbene de, in Dizionario biografico degli Italiani, 1, Roma 1960, pp. 228-231 è ormai superata dall’amplissima bibliografia successiva tra cui segnaliamo Salimbeniana, Bologna 1991 e M. GUYOTJEANNIN, Salimbene de Adam, un chroniqueur franciscain, Turnhout 1995. 19 G. BARONE, L’agiografia domenicana alla metà del XIII secolo, in Aux origines de la liturgie dominicane. Le manuscrit S. Sabina XIV L 1, cur. L.E. BOYLE (†) e P.-M. GY, Rome 2004 (Collection de l’École Française de Rome, CCCXXVII), pp. 365-377.
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ben presto presentato come il fondatore dell’Ordine per riscrivere la storia della loro famiglia religiosa; del resto Domenico di Calaruega era certamente personaggio assai meno “controverso” di Francesco di Assisi. La prima opera storica attribuibile ad un frate Predicatore è il Libellus de initio ordinis fratrum Praedicatorum di Giordano di Sassonia, che venne utilizzato, al momento della canonizzazione di Domenico, in funzione liturgica in mancanza di una fonte agiografica in senso stretto. Ma l’interesse del Libellus consiste soprattutto nella vivacità del racconto e nella ricchezza di informazioni sugli inizi dell’Ordine e soprattutto sul successo registrato a Parigi nell’ambiente dello Studium20. Nei decenni successivi il contributo dei Predicatori alla conoscenza storica si concentrò su opere di carattere enciclopedico come quella di Vincenzo di Beauvais e del suo gruppo di lavoro21 o alla sistemazione cronologica della storia in parallelo dei poteri universali (Papato e Impero) di Martin Polono22, che godette di larghissima diffusione e venne più volte continuata. In latino furono redatte anche le opere di Tolomeo da Lucca, destinate anch’esse a larga sia pur tardiva diffusione soprattutto in ambiente curiale23 e il non meno noto Chronicon di Francesco Pipini24. Ma non mancarono, anche fra i Domenicani, storici delle realtà locali, dal convento di Orvieto25 alle province di Provenza e Tolosa26, per citare solo alcuni esempi, fra i più conosciuti, all’interno di una produzione relativamente abbondante. Questa ricca e variegata produzione storica, di cui si sono forniti qui solo alcuni dei più noti esempi, come la grandissima parte delle opere che 20 G. BARONE, Il ‘Libellus de initio ordinis fratrum Praedicatorum’ e lo sviluppo dell’Ordine nel primo cinquantennio, in Domenico di Calaruega e la nascita dell’Ordine dei frati Predicatori. Atti del XLI Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 2004), Spoleto 2005, pp. 431-440. 21 Per Vincenzo si veda Rep. Font., XI/3 (2007), pp. 356-359 s.v. Vincentius Bellovacensis. Sullo Speculum historiale e la sua fortuna si veda Vincent de Beauvais. Intentions et réceptions d’une oeuvre encyclopédique au Moyen Âge, cur. S. LUSIGNAN - M. PALMIER-FOUCART - A. NADEAU, «Cahiers d’études médiévales; cahier spécial», 4 (1990). 22 Su Martin Polono si veda Rep. Font., VII (1997), pp. 489 ss. s.v Martinus Oppaviensis. 23 Rep.Font., IX/3 (2002), pp. 366-367 e L. SCHMUGGE, s.v. Fiadoni Tolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, 47, Roma 1997, pp. 517-520. 24 Rep. Font., IX/1-2 (2002), pp. 245-247. 25 Per cui si veda Rep. Font., IV (1970), p. 98 , s.v. Caccia Johannes Mactei. 26 Bernardus Guidonis, Notitia de monasteriis nonnullis de provinciis Provinciae et Tolosae: sull’autore si veda Rep. Font., II (1967), pp. 507-514 e Bernard Gui et son monde, Toulouse 1981 (Cahiers de Fanjeaux, XVI). Bernard Gui è un poligrafo: oltre ai numerosi cataloghi, gli si deve un’importante raccolta agiografica ed almeno un’opera storica in senso pieno, i Flores chronicarum.
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furono prodotte fino al quindicesimo secolo inoltrato, furono redatte in latino; basti pensare ad un testo di notevole diffusione, il Chronicon di Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze alla metà del Quattrocento, tipica cronaca universale dalla creazione del mondo ai suoi giorni. Eppure, anche il domenicano è uno scrittore che alterna latino e volgare, lingua in cui redige due dei suoi tre trattati sulla confessione (Specchio di coscienza e Medicina dell’anima), il primo dei quali si rivolge non solo ai laici, ma anche a sacerdoti di scarsa preparazione, nonché alcuni testi parenetici dedicati a nobildonne fiorentine imparentate con i Medici27. Il latino, una scelta consapevole Si potrebbe pensare che l’uso del latino che abbiamo finora attribuito agli autori di opere storiche mendicanti sia normale per un uomo di Chiesa che scriva di storia, ma così non è. A parte il caso ben noto dei cavalieri Teutonici, in cui il predominio dell’elemento laicale sin dalle origini ha contribuito allo sviluppo di una storiografia tutta concentrata sulle vicende dell’Ordine e in gran parte in volgare (o al massimo in duplice versione latina e volgare nel XIII secolo)28, anche fra i Benedettini l’uso del volgare nelle opere storiche è piuttosto precoce. Il caso forse più celebre è rappresentato dalle Grandes chroniques de France, prodotto della potente abbazia reale di Saint-Denis ai tempi di san Luigi, e che si rivolgevano – evidentemente – in primo luogo ai sovrani francesi e alla loro famiglia29. L’opera, presente in tutte le biblioteche dell’alta aristocrazia francese nel XIV secolo e dei membri del Parlamento e dell’alta borghesia nel secolo successivo,
27 Decisamente datato è il contributo di A. D’ADDARIO, s.v. Antonino Pierozzi, santo in Dizionario biografico degli Italiani, 3, Roma 1961, pp. 524-528; sulle opere si veda ibid., pp. 528-532. Sulla complessa figura di questo grande domenicano si veda il recente volume Antonino Pierozzi OP (1389-1459). La figura e l’opera di un santo arcivescovo nell’Europa del Quattrocento. Atti del Convegno internazionale di studi storici (Firenze, 25-28 novembre 2009), cur. L. CINELLI - M.P. PAOLI, «Memorie domenicane», 43 (2012). 28 Così Heinricus de Hohenlohe, superiore dell’Ordine dal 1242, redige una relazione abbreviata in tedesco della storia della conquista della Prussia, il cui più ampio originale era in tedesco e in latino, cfr. Rep. Font., V (1984), p. 427. Hartmann, Gran Maestro dell’Ordine dell’ospedale di S. Maria dei Teuthoni dal 1273, scrive una relazione sulla fusione dell’Ordine con i Portaspada, cfr. Rep. Font., V (1984), p. 385. 29 Cfr. Vincent de Beauvais cit., p. 496, in cui si ricorda come a S. Denis già ai tempi di s. Luigi vengono tradotte in francese alcune cronache latine che costituiranno le basi delle Grandes chroniques de France; lo Speculum historiale verrà tradotto in francese nel 1333 e dedicato alla regina Giovanna di Borgogna (ibid., p. 497).
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contribuì in modo decisivo alla crescita di un’identità nazionale saldamente ancorata alla monarchia30. Ma sono numerosissimi, in tutta Europa, chierici e monaci che utilizzano il volgare per narrazioni storiche. Del resto la storia non è mai stata materia di studio universitario, mentre la conoscenza storica è sempre stata considerata necessaria alla formazione di chi era destinato a governare. E ai potenti è normale rivolgersi in volgare anche quando si dedicano loro i trattati sul buon governo. Non casualmente l’unica opera in volgare attribuita al francescano Paolino da Venezia, fu scritta, in veneziano, all’attenzione probabilmente del doge Marino Badoer, mentre il resto della sua vastissima produzione, tra cui numerose opere storiche, è in gran parte databile alla seconda fase della sua vita, trascorsa nel Regno di Napoli in stretto rapporto con la corte angioina, ed è interamente in latino31. Ma se non è lo status religioso che giustifica la predilezione per il latino, quali sono le motivazioni che hanno spinto i mendicanti che – come abbiamo visto – hanno saputo utilizzare efficacemente il volgare in una parte rilevante della loro produzione letteraria, a voltare le spalle ai volgari quando si trattava di storia? Quale era il pubblico cui pensavano evidentemente di rivolgere le loro opere storiche? In primo luogo va ribadita la profonda differenza tra monaci, canonici e frati. Il canonico di una chiesa cattedrale è fortemente legato a quella realtà locale che abbandona, di norma, solo per essere promosso a più importante incarico (ad esempio una cattedra vescovile). Il monaco benedettino, anche nelle versioni riformate di Cluniacensi, Cistercensi, Vallombrosani e Camaldolesi fa professione in un monastero, dove spesso è entrato ancor bambino per volontà dei genitori o comunque in giovanissima età, e a quell’istituzione è legato spesso fino alla morte. Le opere storiche redatte da questo tipo di autori sono destinate, in primo luogo, alla comunità di cui fanno parte, hanno spesso diffusione molto limitata e, proprio per questo, l’adozione relativamente precoce del volgare del luogo viene incontro al bisogno di rendere il testo accessibile anche ai membri
30 Sulle Grandes Chroniques si veda P. GUENÉE, Histoire et culture historique dans l’Occident médiéval, Paris 1980, passim. 31 L’opera dedicata al doge, il De regimine rectoris, è in volgare, a parte il prologo in latino. Su Paolino si veda Rep. Font., VIII (2001), pp. 510-513, s.v. Paulinus Minorita e E. FONTANA, s.v. Paolino da Venezia, in Dizionario biografico degli Italiani, 81, Roma 2014, pp. 84-87. Anche Paolino è autore di opere diversissime: dal catalogo dei conventi dell’Ordine minoritico, ad un’opera geografica, la Mappa mundi, alla sua più celebre opera storica la Historia satyrica.
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“illitterati” della comunità e ai laici che ruotano intorno all’istituzione ecclesiastica. Completamente diversa è la condizione del frate mendicante, che non fa professione in una comunità ma entra in un Ordine di dimensioni europee e che potrà portarlo, come missionario, anche in terre molto lontane. Per far sì che l’opera storica abbia una circolazione ampia e sia comprensibile da confratelli che parlano volgari diversi, l’uso del latino è una scelta obbligata. Solo in regioni marginali d’Europa, dove la diffusione del latino è scarsa e la produzione storiografica limitata anche per la fondazione recente delle comunità cittadine, i Mendicanti adottano, in alcuni casi, assai rari, il volgare locale. È questa la scelta compiuta dal Minorita Detmar, autore di una Chroneke van Lubeke, alla fine del XIV secolo32 e dell’altro francescano, Juan del Encina, che all’inizio del XVI secolo scrive in volgare un poema storico dedicato alla morte del principe Don Juan33. Al contrario, in città come l’Aquila ove già a metà del XIV secolo Buccio di Ranallo aveva redatto una celebre cronaca in volgare34, il minorita Alessandro De Ritiis sceglie il latino per la sua Chronica civitatis Aquilae, redatta alla fine del XV secolo35. L’unica regione italiana in cui il volgare viene utilizzato con una qualche frequenza nelle scritture storiche, ma di portata puramente locale, è la Toscana, con la sua appendice nella Tuscia romana: così, ad esempio, il domenicano Niccolò Galgani scrive in volgare il suo Memoriale sul convento di S. Domenico di Siena e il francescano Francesco di Andrea si allontana dal latino per le sue Croniche di Viterbo36. L’altro motivo per preferire l’uso del latino nelle proprie opere è l’inserimento di Francescani e Domenicani – sin dai primi tempi della loro esistenza – nel mondo universitario, in cui il latino è la lingua d’uso. Da questo punto di vista è particolarmente illuminante l’esempio del domenicano Galvano Fiamma, che, all’interno di una vastissima produzione storiografica, ha dedicato una serie di opere alla sua città, Milano. A Pavia Galvano aveva insegnato teologia e aveva tenuto anche alcune lezioni straordinarie sulla Fisica di Aristotele per gli studenti di medicina; si era reso conto allora che nell’ambiente universitario la storia della sua città era praticamente
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Per cui si veda Rep. Font., IV (1976), pp. 180-181. Ibid., p. 318. Rep. Font., II (1967), pp. 598. Rep. Font., IV (1976), p. 168. Si vedano Rep. Font., IV (1976), rispettivamente p. 625 e p. 541.
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ignorata. Fu questa scoperta ad indurlo ad occuparsi di storia e, dato il pubblico cui si indirizzava, il volgare venne naturalmente escluso. Naturalmente la scelta del latino va vista solo in funzione del raggiungimento di una circolazione più vasta dei testi e non ha alcun sapore “umanistico”. Il latino dei frati mendicanti è lingua veicolare, paragonabile all’inglese dei nostri giorni. Una conferma del significato che veniva attribuito alla lingua “internazionale” ci viene fornita da Francesco Pipini, considerato autore di una traduzione in latino del Milione di Marco Polo, sia pure in una versione più breve e diversa in più punti da quella in volgare in nostro possesso37, un’operazione che non ebbe comunque, a quanto pare, molto successo. Per concludere, Minori e Predicatori hanno coltivato, sin quasi dalle origini, un sostanziale bilinguismo nella loro produzione scritta, ma operando in modo molto coerente la scelta dell’una o dell’altra lingua in funzione del pubblico cui si rivolgevano. I diversi volgari erano utilizzati per farsi capire dai fedeli offrendo loro opere ascetiche, morali, omiletiche o agiografiche. Ma la storia, scritta pensando all’intero Ordine e comunque ad un ambiente “letterato”, restò sempre saldamente ancorata al latino.
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De consuetudinibus et condicionibus orientalium regionum.
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Poco è da pregiare per onestà di fama che uno sia con le usate solennitadi, ne’ luoghi dove sono li studi generali delle scienze privilegiate dalle autorità del santo padre e dell’imperio di Roma, pubblicamente scolaio maestrato; ma essendo questo atto primo e nuovo, e più non veduto nelle città che hanno di nuovo privilegi di ciò potere fare, bello pare e scusabile d’alcuni farne memoria, non per nome dell’uomo, che per avventura non merita di essere posto in ricordo di coloro che verranno, ma per accrescimento di tali cittadi, ove tale atto da prima è celebrato1.
Così Filippo Villani spiega le ragioni che lo hanno indotto a inserire nella sua cronaca, alla data del 9 dicembre 1359, la notizia del magistero in teologia conferito nello Studio fiorentino al frate agostiniano Francesco di Biancozzo de’ Nerli. E già il fatto che il cronista si senta in dovere di giustificare questa sua scelta, e in modo tanto puntuale, non dovrebbe essere trascurato. La moderna storiografia sull’università, invece, si è limitata a registrare la notizia2, del resto in perfetta sintonia con la principale preoccupazione dello scrittore, quella appunto di ricordare ai posteri che Firenze è stata la prima sede del conferimento di una laurea universitaria in teologia in Italia. Il fatto è che gli storici dell’università non sono frequentatori abituali delle cronache in volgare. E occorre dire che ciò non è senza motivo. La scarsa attenzione che questi studiosi riservano ai testi cronachistici corrisponde allo scarso spazio che, ovviamente con eccezioni, questo tipo di fonti dedica alla materia dei loro studi. Un primo e fonda-
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Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani secondo le migliori stampe e corredate di note filologiche e storiche, II, Trieste 1858 (Biblioteca classica italiana. Secolo XIV, 21), p. 308, cap. 58. 2 Cfr. ad esempio G. CREMASCOLI, La facoltà di teologia, in Luoghi e metodi d’insegnamento nell’Italia medioevale (secoli XII-XIV). Atti del Convegno Internazionale di studi (Lecce-Otranto 6-8 ottobre 1986), cur. L. GARGAN - O. LIMONE, Galatina 1989, pp. 181200: 185-186.
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mentale elemento di riflessione che ricaviamo dalla citazione di Filippo Villani riguarda proprio questo punto. È degna di fama, si chiede il cronista, una persona per il semplice fatto di ricevere il titolo in uno Studio generale? La risposta è no, benché il contesto nel quale si svolge l’evento sia per più aspetti tale da conferire allo scolaio quel pubblico riconoscimento che, dal punto di vista giuridico, è appunto la fama3: lo sa bene Villani quando parla di «usate solennitadi» e di «scienze privilegiate dalle autorità». Ma una cosa è la fama derivante dal consenso sociale, altra quella assicurata dalla memoria storiografica, benché la seconda si confronti continuamente con la prima e di essa si alimenti. Evidentemente l’honor doctoratus non configura di per sé quel tipo di fama della quale il cronista si sente in qualche modo responsabile, una cerimonia di laurea non costituisce un evento sul quale grava per lui, per usare le parole di Giuseppe Porta, l’«urgenza della memoria storica»4. Non possiamo dire se il cronista pensi che la memoria di atti scolastici come il conferimento dei titoli non valga in generale la pena di essere conservata, o se consideri che essa è affidata a scritture diverse dalla sua, scritture prodotte dall’istituzione, come le registrazioni dei dottorati, o dai suoi membri, come i ricordi dei colleghi, dei confratelli o degli allievi. Certo è che egli deve trovare un’altra giustificazione per poter dire che è «bello e scusabile» fare memoria di quell’evento nella sua cronaca. L’episodio fa parte forse della biografia di un personaggio degno di nota? È infatti quasi sempre una valutazione di questo tipo che, come accenneremo ancora in seguito, apre le pagine delle cronache volgari a temi che la storiografia dell’università considera come di proprio specifico interesse: carriere di intellettuali di scuola e notizie delle loro opere rientrano nei medaglioni biografici degli uomini illustri, che hanno dato onore e prestigio alla loro città. Ma l’agostiniano fiorentino non ha un «nome» che «meriti di essere posto in ricordo di coloro che verranno». Degno di essere affidato alla memoria della città è dunque l’evento in se stesso. Per due motivi: perché assegna a Firenze un primato (il suo Studio è il primo in Italia a conferire un magistero in teologia), e perché il riconoscimento di quella scuola come Studium generale, condizione giuri-
3 Fama e “publica vox” nel medioevo. Atti del convegno di studio (Ascoli Piceno 1-5 dicembre 2009), cur. I. LORI SANFILIPPO - A. RIGON, Roma 2011 (Atti del premio internazionale Ascoli Piceno, Ser. III, 21). 4 G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia delle letteratura italiana, dir. E. MALATO, II. Il Trecento, Roma 1995, pp. 159-210.
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dica necessaria per il conferimento del titolo, attira sulla città il prestigio di un privilegio radicato «nelle autorità del santo padre e dell’imperio di Roma». Competizione con le altre città, rapporti con i poteri universali di papato e impero: malgrado l’insignificanza del protagonista, l’episodio rientra a pieno titolo nei temi di grande interesse per la cronachistica cittadina. Merita inoltre di essere ricordato perché un protagonista importante in ogni caso l’ha avuto, ed è l’intera comunità di Firenze. Completando la narrazione dell’episodio, che occupa un intero capitolo della Cronaca, Filippo Villani ribadisce il valore della facultas doctorandi che lo Studio ha ottenuto dal pontefice5 e chiude con il racconto della grandissima partecipazione all’evento delle autorità comunali e di tutto il popolo fiorentino. E questo è il terzo motivo che fa di un episodio di scuola un avvenimento che appartiene a pieno titolo alla storia della città: «Il comune, mostrandosi grato del beneficio ricevuto di potere questo fare, per lungo spazio di tempo fece sonare a parlamento sotto il titolo Dio lodiamo tutte le campane del comune, e’ signori priori co’ loro collegi, e con tutti gli officiali del comune, con numero grandissimo di cittadini, furono presenti al detto atto di maestramento, che fu cosa notabile e bella»6. Filippo Villani offre una buona introduzione al tema di queste riflessioni, ma naturalmente il valore della sua testimonianza non può essere generalizzato. Troppe le variabili in gioco quando si voglia analizzare il significato di riferimenti ad episodi o a personaggi della storia universitaria nel contesto di cronache in volgare. In questo caso, per quanto riguarda il profilo dell’autore, occorrerà ricordare che il continuatore della cronaca di Giovanni e Matteo Villani non si può propriamente definire un intellettuale di scuola, ma ha frequentato gli ambienti universitari e ne ha un’ottima conoscenza, come prova già soltanto la precisione con la quale rende in volgare le sottigliezze del lessico dell’istituzione. Altrettanto meritevole di essere considerato è il profilo dello Studio in cui si ambientano le notizie, per quanto attiene agli orientamenti culturali, ai punti di riferimento istituzionali, alla collocazione nel contesto sociale. Firenze, è noto, ha avuto
5 «In questi giorni, per virtù de’ privilegi alla nostra città conceduti per lo nostro papa Clemente sesto, infra l’altre cose contenne di poter maestrare in teologia»: Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani cit., p. 308, cap. 58. 6 Ibid. Il Vocabolario della Crusca cita per l’espressione «sonare a Dio lodiamo» (che «vale Chiamare col suono della campana il popolo a ringraziare Iddio pubblicamente») altre occorrenze in Giovanni e Matteo Villani, tutte relative a eventi di pubblica rilevanza; la nostra non è citata. Vocabolario degli Accademici della Crusca. IV. Impressione, Firenze 1735, p. 587.
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uno sviluppo relativamente tardivo come città universitaria. Uno dei motivi del ritardo è stato proprio indicato nel fatto che, a partire dal Duecento, la città ha espresso una cultura di altissimo livello autonoma da quella scolastica, anche se variamente in relazione con essa, una cultura espressa da élites letterate aperte al contributo dei doctores, indigeni e spesso forestieri, ma mai monopolizzata dal loro ceto7. Una città che, quando decide di dotarsi di uno Studio generale, “conduce” dottori famosi alle letture stabilite dai curricula universitari, ma prevede anche letture pubbliche di un testo come la Commedia, in poesia e in volgare. Anche i letterati incaricati delle letture di Dante, tra i quali fu lo stesso Filippo Villani8, sono personaggi “famosi”, e certo la loro fama sta a cuore al nostro cronista non meno di quella di un grande giurista o di un grande medico. Il caso che abbiamo analizzato configura dunque soltanto uno dei molti modelli possibili. La cronachistica bolognese, il paragone è fin troppo scontato, osserverà ovviamente la storia dell’università con occhi molto diversi da quelli della cronachistica fiorentina; e questo, sia pure in minor misura, può valere anche per altre sedi in cui lo Studio costituisce una parte importante dell’identità e della vita della città che lo ospita (ad esempio Perugia). Ma ci si avventura qui su un terreno non facile. Per quanto riguarda il caso bolognese, osservava molto tempo fa Gherardo Ortalli: «La lunga questione dell’influenza esercitata sulla storiografia bolognese dall’Università (pesante remora o attivo stimolo), così come impostata da quasi un secolo e dibattuta fino ad oggi, è priva di fondamento e basata su presupposti errati»9; dal 1977, data dello scritto di Ortalli, molti nodi storici e filologici della questione sono stati affrontati con successo10, ma il
7 G.C. GARFAGNINI, Città e Studio a Firenze nel XIV secolo: una difficile convivenza, in Luoghi e metodi di insegnamento cit., pp. 101-120; J. DAVIES, Florence and its University during the early Renaissance, Leiden-Boston-Köln 1998 (Education and Society in the Middle Ages and Renaissance, 8). 8 B. BARILE, Villani, Filippo, in Enciclopedia Dantesca, V, Roma 1976, pp. 1011-1013: la lectura della Commedia, già tenuta dal Boccaccio, gli fu affidata quando era già anziano, tra il 1391 e il 1402, per un salario di 150 fiorini annui; l’incarico com’è noto lo impegnò non solo nel commento, in latino, ma anche nell’edizione del testo. 9 G. ORTALLI, Notariato e storiografia in Bologna nei secoli XIII-XVI, in Notariato medievale bolognese, II. Atti di un convegno (febbraio 1976), Roma 1977 (Studi storici sul notariato italiano, 3), pp. 145-189: 148. 10 Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola, secc. IX-XV, cur. B. ANDREOLLI et al., introduzione di A. VASINA, Roma 1991 (Nuovi studi storici, 11); M. ZABBIA, Bartolomeo della Pugliola, Matteo Griffoni e Giacomo Bianchetti. Problemi di cronachistica bolognese fra Tre e Quattrocento, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 102 (1999), pp. 100-140; A. Antonelli - R. Pedrini, Introduzione a Pietro
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problema del rapporto con l’università resta per vari aspetti ancora aperto. Inoltre, su un piano più generale, la storiografia ha da tempo avvertito quanto sia difficile, e forse inopportuno, cercar di incasellare la produzione delle cronache in una modellistica disegnata su base geografico-culturale, tanto più se polarizzata sul confronto Firenze/Bologna. Limitiamoci dunque ad osservare, senza particolari pretese comparatistiche, se e come gli atteggiamenti che abbiamo potuto cogliere nel cronista fiorentino quando riferisce un episodio di storia universitaria siano presenti nella cronachistica in volgare di altre città sedi di Studium. Quando pure si manifesta, l’attenzione del cronista non va in molti casi al di là di un livello minimo, come in questa brevissima indicazione cronologica d’inizio Trecento: «In questo millesimo si cominciò in Perugia lo studio generale»11: l’interesse si concentra spesso, e in qualche caso si esaurisce, nel fissare la data d’inizio dello Studium in città. Ma anche la semplice menzione ha la sua importanza. Grazie ad essa l’istituzione prende il suo posto nello svolgimento del racconto, secondo lo schema di ordinamento temporale che lo caratterizza. Il cronista rende allo Studio locale il servizio che è di sua competenza, datandone l’antichità, che costituisce uno dei fondamenti sui quali riposa l’autorevolezza e il prestigio di una sede universitaria, come delle altre istituzioni. Da questo punto di vista, quando è possibile rivendicare un primato, lo si rivendica (come appunto nel caso della prima laurea di teologia a Firenze). La datazione delle origini, si sa, offre anche terreno fertile alle falsificazioni, benché questa, in area italiana e nell’ambito delle scritture narrative, sia più spesso materia degli eruditi di età moderna, che non dei cronisti medievali in volgare12. In loro, quando non si accontentino, o non abbiano la possibilità, di riportare una precisa data di inizio, emerge in primo piano non tanto il desiderio di retrodatare le origini dell’istituzione, quanto la
Ramponi, Memoriale e cronaca, edd. A. ANTONELLI - R. PEDRINI, Bologna 2003 (Collana di cronache bolognesi d’epoca medioevale moderna e contemporanea, 8). 11 Brevi annali della città di Perugia dal 1194 al 1352, scritti verisimilmente da uno della famiglia Oddi, ed. A. FABRETTI, «Archivio storico italiano», 16/1 (1850), pp. 53-68: 59; cfr. Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1491 nota col nome di Diario del Graziani, ed. A. FABRETTI, ibid., pp. 69-750: 180: Carlo IV «concedette in perpetuo lo studio generale». 12 Un’analisi diacronica esemplare è sviluppata, per Pavia, da D. MANTOVANI, Il lungo cammino dei mercanti di Sapienza. Le origini dell’Università di Pavia nella storiografia dal XIV al XX secolo, in “Almum Studium Papiense”. Storia dell’Università di Pavia, I. Dalle origini all’età spagnola, 1. Origini e fondazione dello “Studium generale”, cur. MANTOVANI, Pavia 2012, pp. 29-82.
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preoccupazione di assicurare salde fondamenta all’esercizio delle sue prerogative giuridiche. A questo scopo, come abbiamo visto già in Filippo Villani, il cronista è interessato a menzionare i privilegi che, ottenuti dal papa o dall’imperatore, conferiscono alle scuole cittadine lo statuto di Studium generale, con i diritti connessi. Il riconoscimento di Studium generale è segno che la città è in grado di concepire una politica culturale di respiro non circoscritto (poiché per sua natura la scuola universitaria ambisce a rivolgersi a una clientela non esclusivamente locale) e prova che la classe dirigente cittadina è in grado di mobilitare a proprio favore l’autorità del papa e/o dell’imperatore. L’unico, anche se vistoso, falso nella storia delle università che sia stato recepito dalla cronachistica di età medievale è il ben noto privilegio Teodosiano: secondo il quale nell’anno 453 l’imperatore Teodosio, dopo aver ricostruito la città di Bologna, che acquisiva così il richiesto statuto di regia civitas, la avrebbe eletta a sede di uno Studium imperiale, stabilendo «i privilegi degli scolari, la durata minima di cinque anni per la validità degli studi giuridici, e il conferimento dei gradi accademici da parte dell’arcidiacono della cattedrale»13. Dopo una lunga discussione sulla datazione, sugli autori, sulle motivazioni del falso, la storiografia è ora sostanzialmente concorde nel ritenere che esso sia stato composto nel 1225, nella fase più acuta del conflitto tra il comune di Bologna e Federico II, come immediata reazione a un provvedimento imperiale di chiusura dello Studium che è così riferito dalla cronaca Villola: «Eo anno intraditum fuit Studium civitatis Bononie a Federico imperatore precipiente dictum Studium ad civitatem Napolli»14. Gli autori sarebbero da ricercarsi nell’ambiente degli esperti di retorica attivi come notai negli uffici comunali e/o come docenti di arti nello Studio: si è fatto addirittura, in via ipotetica, il nome di Guido Fava15. Ad un altro autore illustre è stata inoltre attribui13 Così sintetizza il contenuto del documento A.I. PINI, Federico II, lo Studio di Bologna e il “Falso Teodosiano”, in Federico II e Bologna. Atti del Convegno, Bologna 1996 (Documenti e studi, 27), pp. 27-60, rist. in Il pragmatismo degli intellettuali. Origini e primi sviluppi dell’istituzione universitaria, cur. R. GRECI, Torino 1996, pp. 67-89; cfr. Il privilegio teodosiano, ed. crit. e commento G. FASOLI - G.B. PIGHI, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n. ser., 2 (1961), pp. 59-94. 14 Corpus chronicorum Bononiensium, ed. A. SORBELLI, in R.I.S.2, 18/1, Città di Castello-Bologna 1910-1940 (d’ora in poi CcB), I/2, 1939, p. 90. 15 A.I. PINI, Manovre di regime in una città-partito. Il falso teodosiano, Rolandino Passaggeri, la Società della croce e il “barisello” nella Bologna di fine Duecento, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», n. ser., 49 (1998), pp. 281-318; M. GIANSANTE, Guido Fava, Boncompagno da Signa e il Comune di Bologna. Cultura retorica e istituzioni nella prima metà del Duecento, in Politica e “Studium”: nuove
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ta la notitia che ben presto cominciò ad accompagnare il documento pseudoimperiale, una narrazione che chiama in causa, accanto a Teodosio, il vescovo patrono san Petronio e fornisce informazioni circa le circostanze della composizione del documento almeno in parte risibilmente inverosimili: se davvero l’autore è da individuare in Boncompagno da Signa, bisogna immaginarlo, più che nelle vesti del falsario, in quelle a lui familiari dell’inventore di feroci scherzi letterari16. Del falso è attestata una presenza autorevole nella documentazione ufficiale del comune in data relativamente vicina a quella della presunta composizione: poco dopo la metà del Duecento è inserito nel Registro nuovo, il secondo Liber iurium bolognese. Solo molto più tardi il ricordo della fondazione imperiale dello Studium farà la sua comparsa nella documentazione e nella pubblicistica universitaria17. Nella cronachistica trecentesca bolognese dipendente dalla cronaca Villola (scritti duecenteschi, com’è noto, non ci sono conservati), il “mito d’origine” dello Studio ha invece una presenza non trascurabile. Al di là di motivazioni specifiche che potrebbero giustificare l’attenzione riservata al tema dai singoli testi, si può rilevare in generale che anche in questo caso la preoccupazione dei cronisti è in primo luogo quella di segnalare il documento che si ritiene assicuri allo Studio bolognese le prerogative di uno Studio ufficialmente riconosciuto. Il privilegio Teodosiano, il cui testo è riportato in latino dalla cronaca Villola, e in volgare da uno dei manoscritti della cronaca Bolognetti18, è richiamato dai cronisti in più occasioni, ma sempre in un contesto preciso: come il primo dei documenti sui quali si fondano i privilegi e l’autorità dello Studio, e quindi la forza e la grandezza della città. Così la cronaca Rampona, a proposito della bolla di Bonifacio IX del 28 ottobre 1392:
prospettive e ricerche. Atti del convegno di Bologna (18 ottobre 2003), Bologna 2005, pp. 47-59: 47-50. 16 PINI, Federico II, lo Studio di Bologna cit.; PINI, Manovre di regime cit.; GIANSANTE, Guido Fava cit.; M. GIANSANTE, I falsi nella storia di Bologna. Dal privilegio Teodosiano a Lodovico Savioli, in Documenti, archivi, storie della città. Quattro digressioni bolognesi fra Medioevo ed Età Moderna, cur. GIANSANTE, Bologna 2015, pp. 95-112: è in particolare di quest’ultimo autore l’interpretazione del falso come beffa letteraria. 17 Dal punto di vista della cronologia non c’è completo accordo fra gli studiosi: secondo PINI, Federico II, lo Studio di Bologna cit., p. 89, «L’ambiente dello Studio continuò [...] a ignorare ostinatamente il Teodosiano sino alla fine del ’400», mentre GIANSANTE, I falsi cit., p. 105 ricorda che «il Teodosiano si lesse regolarmente su tutti i documenti ufficiali» dello Studio. 18 CcB, I/2, pp. 78-90.
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Item à confermato le bolle et brevilegii concessi al comune de Bologna, et specialmente el brevilegio del papa Innocentio sexto, che contiene la concessione dello Studio generale, in rasone e de sacra pagina, in perpetuo, et etiamdio la bolla o vero brevilegio del Theodoxio imperadore. […] Item che li scholari, quantunque benefiziadi, et per qualoncha modo studiando a Bologna, ricevano le rendite et li fructi de’ soi benefizii, nonostante loro absentia da li dicti benefitii; et comette la executione de questo a misser lo vescovo de Bologna. Item à concesso a tucti li cheresi, a li quali è proibito de studiare in leze et in medexina, possino studiare in Bologna in le dicte facultade19.
Insomma, l’attenzione dei cronisti bolognesi al privilegio teodosiano rientra almeno in parte in un atteggiamento che, come si è accennato, caratterizza, anche in altre sedi universitarie, l’interesse per l’università da parte della cronachistica cittadina; la quale, quando fornisce notizie sui rispettivi Studia, lo fa in primo luogo per registrarne le vicende della legittimazione istituzionale. Nel momento della fondazione (reale o fittizia) e negli sviluppi successivi. I privilegi concessi dal papa, o dall’imperatore, allo Studio generale sono elencati insieme con gli altri che fanno della città un ente titolare di diritti pubblici: la cronaca è uno dei luoghi deputati a conservarne memoria, così come lo è l’archivio cittadino20. Per quanto riguarda Bologna, il cui Studio come nessun altro subì i contraccolpi delle ricorrenti crisi nei rapporti fra la città e l’autorità pontificia, non stupisce che la storia dell’università raccontata dalle cronache sia la storia di un organismo che conosce, in particolare nel Trecento, numerosi episodi di discontinuità dovuti agli interdetti decretati dai pontefici contro la città ribelle. Per i cronisti è quindi importante segnalare, dopo i fatti che hanno portato alle forzate cessazioni dello Studio, le rinascite rese possibili dal ripristino delle garanzie istituzionali necessarie al suo funzionamento. È il caso della ripresa che, alla fine del 1392, si avviò con la citata bolla di
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CcB, I/2, p. 443. Che la fortuna del falso teodosiano sia dipesa in primo luogo dal fatto che esso legittimava i diritti del comune di Bologna sul territorio, e solo secondariamente dai privilegi che garantiva allo Studio è quanto sostenne con forza Gina Fasoli: questa opinione, ovviamente rilevante quando si voglia riflettere sulle motivazioni dell’interesse dei cronisti per il documento, ha notevolmente influenzato la letteratura successiva: G. FASOLI, La composizione di un falso privilegio teodosiano, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n. ser., 2 (1961), pp. 77-94; FASOLI, Il falso privilegio di Teodosio per lo Studio di Bologna, in Fälschungen im Mittelater. Internationaler Kongress der Monumenta Germaniae Historica (München 16-17 September 1986), Hannover 1988 (M.G.H. Schriften, 33), I, pp. 627-641.
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Bonifacio IX, primo segnale di una «normalizzazione dei rapporti» con la città dopo il suo avvento al pontificato nel 138921. La discontinuità di funzionamento delle scuole, un fenomeno che nei primi secoli universitari è strutturale per le piccole sedi ma colpisce anche le università maggiori22, non dipende solo da cause legate al loro statuto giuridico, come abbiamo appena visto: è spesso causata dalle emergenze, belliche e sanitarie, che affliggono la città23. Nel trattare di queste calamità, che come è noto hanno quasi sempre un grande rilievo nelle loro opere, i cronisti accennano talvolta anche ai problemi che la peste e la guerra comportano per lo Studium, per poi segnalare la ripresa assicurata dalle migliorate condizioni ambientali. Queste circostanze possono offrire al cronista occasioni per manifestare il proprio attaccamento alle fortune dello Studio cittadino, nell’ottica della concorrenza fra sedi universitarie. Così, annotando la notizia che nel 1431, dopo una forzata chiusura, «se principiò in Bologna lo Studio in tucte le facultà», il cronista aggiunge un auspicio, ovviamente fondato sull’esperienza storica della mobilità delle popolazioni studentesche: […] per chasone delle guerre, ch’eno circumstante, credese che ‘l studio de Fiorenza, de Siena, de Padoa et de Pavia se desviarano per tale modo che quello de Bologna se refermarà bene; et speremo che non passarà Nadale che qui haveremo più de cinquecento scolari24.
Da quanto detto fino ad ora è fin troppo ovvio trarre la conclusione che le vicende universitarie entrano nell’area di attenzione della storiografia cittadina, a maggior ragione se in volgare, nella misura in cui rivestano un qualche interesse per la comunità nel suo complesso, dal punto di vista politico o economico.
21 Così A. ESCH, Bonifacio IX, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 570-581: «Su Bologna, che aveva avuto temporanei contatti con Clemente VII, Bonifacio IX poté guadagnare una modesta influenza solo a partire dalla normalizzazione dei rapporti nell’ottobre 1392». 22 C. FROVA, Crisi e rifondazioni nella storia delle piccole università italiane durante il medioevo, in Le Università minori in Europa (secoli XV-XIX). Convegno internazionale di studi (Alghero, 30 ottobre-2 novembre 1996), cur. G.P. BRIZZI - J. VERGER, Soveria Mannelli 1998, pp. 29-47. 23 Le università e le guerre dal Medioevo alla seconda guerra mondiale, cur. P. DEL NEGRO, Bologna 2011 (CISUI. Studi, 13). 24 CcB, IV, p. 53.
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Degne di essere inserite nella narrazione sono, a giudizio dei cronisti, le notizie che indicano nello Studio un fattore importante per l’onore, il prestigio e la prosperità della città. In questa prospettiva essi si sentono in dovere di ricordare, a merito delle amministrazioni pubbliche, la loro sollecitudine nei confronti dell’istituzione, e principalmente le decisioni che garantiscono un adeguato finanziamento e un’alta qualità del corpo docente. Anche in questo caso in perfetta consonanza con i motivi sviluppati dalla retorica notarile nelle scritture pubbliche. È interessante osservare come questi stessi temi si presentino, opportunamente adattati alle diverse circostanze, nelle cronache che registrano fasi istituzionali decisive per la città, e di conseguenza per lo Studio, come il passaggio, temporaneo o definitivo, ai regimi signorili. Così la cronaca dei Gatari, quando parla del momento della sottomissione di Padova a Venezia: Per la chumunità de Padoa fu eletto ambasadori a Vinexia misser Prodocimo Conte [seguono i nomi degli altri personaggi che formano l’ambasceria, in maggioranza dottori dello Studio]; e questi andati a Vinexia con certi capitolli, come fu che la Signoria prometesse de hoservare i statutti del comun de Padoa e cadauna buona uxanza, e che l’arte de la lana fusse atexo li suoi statuti e oservati, e che ‘l Studio fusse confermado a Padoa e più altri capitolli; cossi andarono a Vinexia […] e otenne tutto ciò che admandarono25.
Analoghi motivi sono ripresi nel contesto di università che nascono ex novo come fondazioni signorili, così che la memoria storica può magnificare, parlando della grandezza dello Studio, insieme la città e la dinastia: «Galeazo e Bernabò con honorevole stipendio condussino molti existimatissimi legisti» appunta Bernardino Corio, ormai nel tardo Quattrocento, a riconoscimento della sollecitudine dei Visconti per l’università di Pavia26. Nell’esame delle motivazioni che orientano verso il mondo universitario l’attenzione dei cronisti, si deve aggiungere che in alcuni casi personaggi e avvenimenti di quel mondo guadagnano un posto nei testi delle cronache in volgare in quanto fanno parte di quel grande teatro della vita urbana che vi si trova messo in scena. Non stupisce che ai cronisti sfugga del tutto l’attività che si svolge all’interno degli Studia. Ma accade che conservino memoria di quei momenti della vita dell’istituzione universitaria che essa 25
Galeazzo e Bartolomeo Gatari, Cronaca Carrarese confrontata con la redazione di Andrea Gatari, edd. A. MEDIN - G. TOLOMEI, in R.I.S.2, 17/1, 2 voll., Bologna 1931, 19421948, I, p. 574. 26 Bernardino Corio, Storia di Milano, ed. A. MORISI GUERRA, Torino 1978, I, p. 805.
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stessa, o i suoi membri, concepiscono e organizzano come occasioni di apertura verso l’esterno, di dialogo in qualche modo ritualizzato con la città: per esempio le feste che accompagnano gli esami di dottorato, le cerimonie di inaugurazione dell’anno accademico, le solennità civiche e religiose cui l’università partecipa in forma ufficiale. Fissandosi nella scrittura in volgare, dopo essersi dispiegati davanti agli occhi dei cittadini, questi momenti realizzano pienamente il loro potenziale di comunicazione fra università e città. La narrazione di questi fatti nelle cronache, molto limitata all’inizio della storia universitaria, tende ad occupare nel tempo uno spazio crescente, dando conto di una realtà storica: la crescente integrazione nella società cittadina degli intellettuali di professione, che, docenti cittadini o forestieri, e in qualche misura anche studenti che soggiornano temporaneamente nelle sedi di studio, sempre più sono rappresentati, e sono interessati ad autorappresentarsi, come componenti della vita della città. Nel racconto delle grandi liturgie civiche e religiose che animano lo spazio urbano essi costituiscono un corpo strutturato e riconoscibile; episodi particolari che riguardano singoli personaggi, come morti o fatti di sangue, meritano talora una menzione perché hanno una risonanza al di fuori dell’ambito strettamente universitario. In questa prospettiva risultano in particolare evidenza le cerimonie di dottorato, propriamente “atti scolastici”, che tuttavia, per la crescente tendenza degli universitari a valorizzare il raggiungimento del titolo come momento di “nobilitazione”, escono dal recinto accademico e diventano sempre più frequentemente occasioni di cerimonie grandiose e pubbliche, che solo in parte i divieti imposti dalle norme suntuarie riescono ad impedire27. Le cronache – ma siamo ormai alle soglie dell’età moderna – ospitano spesso il racconto di questi festeggiamenti. Come quelli organizzati da uno studente oltramontano a Bologna nel 1485, culminati in una giostra che impegnò per tre giorni un gran numero di giovani, bolognesi e delle città vicine, riccamente vestiti «chi d’oro e chi d’argento e chi de una fata e chi de una altra, che fu una gran magnificentia a vederli andare in canpo»28. O come il triumphus celebrato a Perugia negli ultimi anni del Quattrocento a cura di un magister Nicolaus per festeggiare il suo dottorato: le cronache cittadine ricorda-
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Della vasta letteratura mi limito a segnalare il volume Examen, Titel, Promotionen: akademisches und staatliches Qualifikationswesen vom 13. bis zum 21. Jahrhundert, cur. R.Ch. SCHWINGES, Basel 2007 (Veröffentlichungen der Gesellschaft für Universitäts- und Wissenschaftsgeschichte, 7), molto attento agli aspetti rituali e comunicativi degli esami di dottorato e ricco di rinvii alla bibliografia precedente. 28 CcB, III, p. 1483.
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no con entusiasmo l’azione drammatica che egli fece rappresentare sul tema dell’assedio di Perugia da parte di Totila e del sacrificio di sant’Ercolano29. Tra gli avvenimenti registrati dalle cronache hanno particolare risalto le morti di personaggi illustri legati allo Studium locale: le esequie sono anche in questo caso momenti cerimoniali che proiettano la comunità universitaria in primo piano nello scenario della città: nel quale, come spesso ricordano i cronisti, terminate le solennità grandiose ma effimere del funerale, il defunto continuerà ad occupare uno spazio attraverso il segno duraturo del suo monumento funebre. Fra le cronache bolognesi, più che quelle dipendenti dalla cronaca Villola, rappresenta bene questo interesse l’opera di Pietro di Mattiolo. Pietro dà prova nella sua cronaca di una cultura del tutto pratica, senza nulla di libresco, al punto che la sua scrittura reca pochissime tracce dell’uso di fonti scritte. Malgrado sia un ecclesiastico, probabile frequentatore, in gioventù, delle scuole di arti dello Studio «è la piazza – dice Lorenzo Paolini - a fornirgli le notizie; è il grande teatro cittadino, al centro del quale egli vive, a trasmettergli direttamente o di riflesso le sensazioni, gli umori o i fatti»30: nel suo racconto gli avvenimenti che riguardano personaggi legati allo Studium sono rivissuti sulla scia dell’eco e della partecipazione che hanno suscitato nella cittadinanza: l’uccisione di un maestro, l’incendio della casa di un professore di diritto («fra le altre cose gli arse tutto lo studio, in lo quale era per ditto de quigli de caxa sua più de VI cento volumi de liuri»)31, la morte di uno scolaro illustre32, e soprattutto, appunto, le morti, le pubbliche esequie e la sepoltura di molti professori famosi. Per quest’ultimo aspetto la cronaca di Pietro di Mattiolo fornisce una serie di notizie che, riunite insieme, vengono a costituire una specie di necrologio dello Studium tra gli ultimi decenni del Trecento e il primo quarto del Quattrocento: come del resto l’autore stesso suggerisce, riproponendo nelle prime pagine la lista completa dei doctori e scientiadi morti nell’epidemia del 1399 e di cui dirà distintamente nel corso dell’opera. 29 G. ERMINI, Storia dell’università di Perugia, Firenze 1971 (Storia delle università italiane, 1), I, p. 487 nota 184. 30 L. PAOLINI, Pietro di Mattiolo, in Repertorio della cronachistica cit., pp. 138-144: 139. 31 Pietro di Mattiolo, Cronaca bolognese, ed. C. RICCI, Bologna 1885 (Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XVII in appendice alla Collezione di opere inedite o rare, 202), p. 333 (19 marzo 1422). 32 Il 10 luglio 1400 «morì e passò de questa presente vita Messer Iacomo licentiado en lege e che studiava in decretale lo quale era de la citade de Sulmona et era nevode de Misser Cosma cardinale de Roma»: ibid., p. 66.
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Si potrebbero aggiungere altri esempi. Ma è più importante osservare che la presenza nelle cronache di intellettuali appartenenti al mondo universitario non è semplicemente legata all’occasionale affacciarsi di questi personaggi sullo scenario urbano, bensì appartiene a un’esigenza fortemente sentita dalla storiografia cittadina: quella di raccontare la grandezza della città attraverso l’evocazione delle figure dei suoi uomini illustri. Per dare un senso ai rilievi sparsi che abbiamo potuto fare sino ad ora, percorrendo alcune cronache volgari di città sedi di studi universitari, è a questo punto necessario allargare un po’ l’orizzonte, sia pure per un rapido cenno. Non si può infatti non considerare che le nostre sparse e circoscritte notazioni hanno sullo sfondo un tema ben altrimenti vasto, quello del confronto tra cultura universitaria e cultura letteraria in volgare. Il punto di vista di coloro che, avendo una buona o eccellente familiarità con la scrittura, eventualmente anche una formazione universitaria, hanno scelto un linguaggio che li porta a guardare in qualche modo dall’esterno al mondo degli Studia (universitari o mendicanti) è stato abbastanza studiato, ma credo che un’analisi molto bella e utile resti quella sviluppata da Francesco Bruni, anche se i suoi primi lavori sul tema risalgono ormai a quasi quarant’anni fa33. Difficile dimenticare, ad esempio, la ricchezza di spunti che egli ricava dalla riflessione sull’immagine del filosofo quale è disegnata dalla letteratura in volgare: che si tratti dello schivo, sfuggente e beffardo Guido Cavalcanti della novella del Boccaccio, o di Dante ritratto da Giovanni Villani, o del filosofo che nel Novellino è costretto a pentirsi della sua «cortesia di volgarizzare la scienza». Le considerazioni di Bruni sono sostanzialmente orientate a sottolineare una ineliminabile alterità tra i due mondi, ma con un’importante avvertenza che riguarda la periodizzazione: fino alla prima metà del Trecento la ricerca di autonomia da parte della letteratura in volgare va di pari passo con la capacità di dialogo che essa esprime nei confronti delle discipline scolastiche, valorizzando percorsi e figure di mediazione; nelle età successive il solco si approfondisce, e si accentuano i caratteri di isolamento. «Sì come il baccialier s’arma e non parla / fin che il maestro la question propone… »34: nel pieno Trecento – osserva 33 F. BRUNI, Semantica della sottigliezza. Note sulla distribuzione della cultura nel Basso Medioevo, «Studi medievali», Ser. III, 19 (1978), pp. 1-36, rist. in BRUNI, Testi e chierici del medioevo, Genova 1991, pp. 91-133; BRUNI, Modelli in contrasto e modelli settoriali nella cultura medievale (a proposito di “Modelli e antimodelli nella cultura medievale” di Maria Corti con una critica della categoria del carnevalesco), «Strumenti critici», 14 (1980), pp. 136, rist. in BRUNI, Testi e chierici cit., pp. 135-201. 34 Par. 46-48: Dante si riferisce a un preciso “atto scolastico”, quello della quaestio, nella quale il bacelliere interviene nella discussione per argomentare a favore di una delle
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Bruni nell’introduzione a un libro di storia delle università – un poeta in volgare non potrebbe arricchire con naturalezza il proprio repertorio di metafore con immagini tratte dagli ambienti universitari così come accade nella Commedia35. Bruni, che sceglie le testimonianze della poesia e della novellistica, lascia a noi di verificare le sue conclusioni applicando l’analisi alle scritture storiche. Non stupisce che da questo punto di osservazione l’impressione di distanza dalla cultura e dagli ambienti universitari si accentui, piuttosto che ridursi. Non solo per il fatto, fin troppo noto, che la storia non ha nella scuola statuto di disciplina e anche come materia della retorica si vede generalmente riconosciuta una dignità inferiore a quella della poesia. Ma soprattutto perché gli autori di cronache in volgare, indipendentemente dal fatto che nella biografia di qualcuno compaia la frequentazione di uno Studium generale (tra i casi, viene subito alla mente il discusso accenno autobiografico dell’Anonimo Romano ai suoi studi di medicina a Bologna)36, difficilmente ci si presentano con il profilo di intellettuali universitari. Occorre a questo punto fare una precisazione. Se nel trattare il nostro tema varrebbe per più aspetti la pena di accomunare cronachistica in volgare e cronachistica in latino in un’unica analisi (i tratti in comune non sarebbero pochi), per questo specifico aspetto, il rapporto degli autori con gli ambienti universitari, l’alternativa rappresentata dalla lingua è dirimente. Come si sa, nell’ambito della cronachistica latina sono numerose le opere che mostrano già nei caratteri della scrittura i segni dell’esperienza scolastica dei loro autori: non stupisce che nella selezione dei contenuti questi rivelino una evidente attenzione agli ambienti nei quali si sono formati. Basti pensare a cronisti come Salimbene o Iacopo da Varagine per la storiografia mendicante (che anche per questo aspetto costituisce in un certo senso un genere a sé), a Boncompagno da Signa, a Rolandino. Tutti ricchissimi non solo di notizie, ma di riflessioni sull’università e sui suoi personaggi. Le cronache in volgare, indipendentemente dal livello di pre-
soluzioni proposte, non per definire la soluzione finale, compito che spetta al maestro («per approvarla, non per terminarla»). 35 F. BRUNI, Premessa all’edizione italiana, in J. VERGER, Le università del medioevo, Bologna 1982 (Universale Paperbacks, 148), pp. 9-28: 9. 36 «Io demorava nella citade de Bologna allo Studio e imprenneva lo quarto della fisica, quanno odia questa novella contare nella stazzone dello rettore de medecina da uno delli bidielli»: Anonimo Romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1981, p. 65. Oltre all’interesse autobiografico, il passo ha un evidente valore di testimonianza sulla circolazione di materiali della letteratura volgare in ambienti universitari.
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parazione scolastica dei loro autori, si collocano certamente in un altro orizzonte di esperienze e di interessi. Nel complesso, fatte salve le necessarie distinzioni, esse trasmettono un’impressione di estraneità al mondo delle scuole universitarie ancora più forte di quella che si ha ponendosi dal punto di osservazione opposto. Per non andare fuori tema, mi limito a ricordare che tra i molteplici segnali di integrazione della cultura dei doctores, in particolare a partire dal Trecento, con il contesto sociale, politico, culturale delle città nelle quali tengono cattedra, c’è infatti anche una significativa attenzione al volgare. Che non a caso si registra precocemente nell’ambito disciplinare della retorica, compresa la retorica dei professori universitari, come è a Bologna Guido Faba. Ma che più avanti si estende al diritto: anche qui, i volgari non si limitano a raggiungere i testi del diritto vigente, con il fenomeno del volgarizzamento di statuti, ma si affacciano addirittura al fortilizio del diritto di scuola (è in volgare il trattato sulle successioni scritto a Perugia, intorno alla metà del Quattrocento, dal doctor legum Giacomo Bindorfino)37. Ritorno a questo punto alla cronachistica in volgare, per proporre qualche considerazione conclusiva sulla sua capacità di mettere in comunicazione la scuola universitaria con la città che la ospita. Abbiamo osservato, con l’esempio della cronaca bolognese di Pietro di Mattiolo, che il lettore ha spesso occasione di trovare nelle pagine delle cronache, tra gli eventi che hanno una risonanza pubblica, alcuni fatti di cui sono protagonisti maestri universitari: fatti che sono così consegnati alla memoria della città, e non solo della scuola, e diventano punti di riferimento importanti nei processi di comunicazione tra i due mondi. Ma occorre ora dire che l’analisi non può limitarsi ai casi in cui i cronisti inseriscono nel loro racconto la notizia del funerale di un dottore famoso o di un avvenimento che ha interessato un membro dell’università. Probabilmente il momento più significativo della comunicazione, per quanto è di competenza della cronachistica in volgare, si verifica attraverso la proposta al lettore di figure umane emblematiche che incarnano agli occhi dell’autore i valori del maestro universitario. Tra le biografie di uomini illustri, quelle che esibiscono
37 D. MAFFEI, Un giurista quattrocentesco fra latino e volgare: Giacomo Bindorfino da Perugia, «Studi Senesi», 110, Ser. III, 47 (1998), pp. 185-204, rist. in Ennio Cortese, cur. I. BIROCCHI - M. CARAVALE - E. CONTI - U. PETRONIO, I, Roma 2001, pp. 285-297; F. TREGGIARI, Un “Dottor volgare” perugino del Quattrocento: Giacomo Bindorfino, in Maestri insegnamenti e libri a Perugia. Contributi per la storia dell’università (1308-2008), cur. C. FROVA - F. TREGGIARI - M.A. PANZANELLI FRATONI, Milano 2009, pp. 125-126.
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in modo univoco i caratteri dell’intellettuale di scuola non sono forse le più numerose, ma risultano molto interessanti per il nostro proposito. Ancora una volta, mi limiterò ad accennare ai motivi che giustificano l’affacciarsi di questi personaggi sulle pagine di una cronaca volgare. Determinante mi sembra in ogni caso che essi siano appunto “illustri”, cioè capaci di riverberare onore e prestigio sulla città che ha dato loro origine o che li ospita. In un numero più limitato di casi si entra nel merito di un giudizio sulla loro scienza. E ciò dà spesso luogo a valutazioni contraddittorie: la grandezza dei doctores è fuori discussione, ma gli si rimprovera il fatto che il loro sia un sapere segreto, coltivato in modo solitario, in sdegnoso isolamento dal mondo circostante. Questi rilievi non determinano un giudizio complessivamente negativo sulla loro personalità solo ad alcune condizioni: che la loro scienza abbia comunque delle applicazioni pratiche, di riconosciuta utilità; che essi siano disponibili a metterla a disposizione di chi può trarne beneficio; che nei rapporti sociali non siano completamente chiusi alla comunicazione con l’esterno. Nella cronachistica in volgare figure di questo tipo sono incarnate specialmente dai medici di scuola, se esenti dai difetti tipici della loro categoria: avidità, incompetenza scientifica, inettitudine alla pratica. Consapevoli che l’ambiente fiorentino costituisce un terreno eccezionalmente propizio a questo genere di riflessioni, torniamo dunque a Filippo Villani, per leggere, questa volta dal volgarizzamento del Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, il ritratto di un grande medico e professore di medicina, Dino del Garbo: Fu questo uomo, come da quelli che il conobbero ho udito, di tanta considerazione e di tanta distratta natura, che spesse volte addormentati di fuori i sensi quasi estatico pareva che si trovasse. Era spesse volte usato sedere in sull’uscio della casa sua, e l’uno ginocchio sopra l’altro ponendo, quasi un gioco di fanciulli velocissimamente girare una stella di sprone, intantoché si stimava che l’animo fosse altrove. Fu d’ingegno altissimo e di sottilissimo acume, di vita ornata, culto filosofo, umano e allegro nella visitazione degli infermi, altrimenti severo ricercatore di segreti, e dell’ozio desideroso, nientedimeno a ciascuno caro e accetto38.
38 Filippo Villani, Vite degli uomini illustri fiorentini, in Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani cit., II, pp. 414-459: 438.
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La felice scrittura del cronista crea una perfetta illusione di verità. Verità dell’uomo, colta fin nei piccoli tic di comportamento che si vuole rimandino ad attitudini psicologiche profonde. Autenticità dello sguardo dell’osservatore, che pretende di interpretare il giudizio del proprio pubblico nei confronti di quel soggetto della storia. A meno che non si tratti soltanto di una elegante raccolta dei tópoi elaborati dalla cultura letteraria per descrivere il personaggio dell’intellettuale di scuola39.
39 Per la discussione di metodo circa la possibilità di utilizzare i discorsi sulle discipline universitarie in ambito di storia sociale risulta ancora utile il volume Dalle discipline ai ruoli sociali, cur. di A. DE BENEDICTIS, in Sapere e/è potere. Discipline, dispute e professioni nell’università medievale e moderna: il caso bolognese a confronto. Atti del IV convegno (Bologna 13-15 aprile 1989), III, Bologna 1991 (Convegni e colloqui, n. ser., 14).
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INCROCI DI GENERE
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RAUL MORDENTI CRONACA E MEMORIALISTICA: LA “SFERA DEI GENERI”
Dedicato a Leonida
1. Un’ipotesi di contributo della critica letteraria Io non sono (purtroppo) un medievista, e il mio primo problema è stato quindi cercare di immaginare una giustificazione della mia presenza in un contesto tanto importante e prestigioso di studiosi del Medioevo, cercando di scartare l’idea (pure tutt’altro che peregrina) che tale presenza sia dovuta esclusivamente alla benevolenza dell’Istituto e all’amicizia personale che mi lega al suo Presidente. L’ipotesi di contributo che vorrei sottoporvi è la seguente: che dalla disciplina che professo, dalla critica e dalla teoria della letteratura (stavo per dire: perfino dalla critica e dalla teoria della letteratura) possa venire un qualche contributo euristico per la nostra comune ricerca, e che questo possa accadere in quanto la mia disciplina può forse contribuire a una più precisa definizione di genere letterario, o meglio ad articolare e distinguere ciò che in effetti deve essere distinto e articolato all’interno del troppo comprensivo ambito di quel mare magnum che si chiama “memorialistica”1. Evocando i generi letterari (ma io preferirei dire: le tipologie testuali) so bene di violare un interdetto, un troppo antico interdetto che proviene da Benedetto Croce e dalla critica di impianto idealistico. Ma, anche a prescindere dall’obbedienza (magari inconscia o irriflessa) a Benedetto Croce, dobbiamo domandarci: è davvero utile considerare i
1 Una definizione questa di “memorialistica” – sia detto en passant – talmente generica da risultare del tutto inutile ai fini della ricerca, dato che essa comprende testi diversissimi fra loro per epoca, per natura, per funzione, per ambiente di produzione, per modalità di fruizione etc.
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generi e cercare di distinguere fra i diversi generi della “memorialistica”? Non potrebbe lo storico, almeno uno storico rerum gestarum, limitarsi a considerare nel loro insieme tali testimonianze scritte, cioè le scritture di memoria che ci sono pervenute, semmai giovandosi dell’ausilio sempre indispensabile della filologia, ma non di quello della teoria delle letterature, insomma considerando interessanti la datazione e i contenuti informativi-documentari di quei testi, e trascurando invece del tutto, come ininfluente, la forma letteraria dei diversi testi, il loro stile e la loro afferenza a questo o a quel genere letterario? In altre parole: tale distinzione “di genere”, che qui vorrrei proporvi, aggiunge davvero qualcosa alle nostre possibilità di conoscenza? E, se la risposta fosse “sì”, di quali incrementi di conoscenza si tratterebbe? Debbo dire che mi conforta il fatto che il concetto di “genere” figuri già nel titolo dato dagli organizzatori a questa sessione: “Incroci di genere”. Io credo (e vi propongo) che esistano buone ragioni che ci spingono a parlare dei generi e a cercare di capire a quale genere, o sottogenere, appartenga ciascuna delle diverse scritture memoriali con cui abbiamo a che fare. Tralascio i vantaggi evidenti che tale consapevole distinzione per generi fornisce (o fornirebbe) per la titolazione, la catalogazione e la schedatura dei testi manoscritti2; mi limiterò invece a prendere in esame i vantaggi che dalla definizione precisa del genere possono derivare per la ricerca, come i seguenti tre, che vi propongo come esempio e in un ordine di importanza che a me sembra crescente: 1) uno statuto dell’attendibilità, o – per dirla più precisamente – la comprensione delle diverse convenzioni di verità che organizzano costitutivamente e dall’interno i testi che noi leggiamo; è assolutamente necessario conoscere tali convenzioni per poter decodificare correttamente i testi e le informazioni che essi veicolano (non è la stessa cosa, ad esempio, se la notizia di una paternità segreta e illegittima si legge in un libro di famiglia o in una genealogia nobilitante o in un diario; e gli esempi di questo tipo potrebbero moltiplicarsi). 2) Una mappatura diacronica e diatopica (ma anche socio-economica) della produzione dei diversi testi di memoria. Perché mai la cronachistica (stricto sensu) ha l’andamento così caratteristico, e così geograficamente
2 Un aspetto questo assai meno secondario di quanto potrebbe sembrare, giacché un manoscritto titolato male, e catalogato o schedato peggio, può diventare irreperibile per sempre alla ricerca: e a questo si lega anche un problema ecdotico, su cui tornerò più avanti.
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differenziato, che è emerso dalla prima giornata di questo Convegno? E perchè mai i diari – ad esempio – si scrivono solo in certi tempi e non in altri, solo in certi strati sociali e solo da parte di certi scriventi? Perchè l’autobiografia sembra avere una data di nascita (anzi più d’una!), cioè non è sempre esistita? E così via. 3) Infine una ricostruzione della evoluzione diacronica, insomma una storia delle diverse tipologie delle scritture di memoria; questa mi sembra una possibilità del massimo interesse che può servire a segnalare, a confermare o a smentire svolte storico-culturali o epistemiche più generali ed importanti, quelle che interessano non solo la critica letteraria, ma la storiografia degli storici, la storia delle mentalità, e così via. Infatti una tipologia di scrittura (o genere che dir si voglia) non nasce nel vuoto, non è frutto di partenogenesi, non è affatto autonoma dal contesto storico e socio-culturale, ma – al contrario – rappresenta come la risultante di un “campo di forze” storicamente cangiante, un campo di forze, (anzitutto culturali ed etico-politiche) che in tempi e luoghi diversi consente o provoca certe tipologie e ostacola o impedisce altre tipologie (ne abbiamo avuto ieri un esempio nella relazione del collega di Carpegna a proposito della caratteristica “non diacronicità” che caratterizza Roma e inibisce qui la scrittura di cronache à la fiorentina). Ora queste caratteristiche dove emergono e dove possono essere studiate se non nei testi, e in particolare nei testi di memoria? Per sollevare un solo, e grande, tema: noi a tutt’oggi possediamo solo dei prolegomeni di un’auspicabile e necessarissima “storia dell’io”; ad esempio la storia del passaggio dal “noi” familiare all’“io” individuale, di come quest’ultimo “io” nasce e si afferma, o cambia ed evolve, in un certo tempo e presso una data classe; questo è un problema storiografico di grande importanza che certo non può prescindere da uno scrutinio analitico e differenziale delle scritture memoriali, dunque dalla consapevolezza e dallo scrupoloso rispetto delle diverse forme che esse hanno assunto nella storia in corrispondenza delle diverse forme dell’“io”. Sia detto en passant, questo è un problema che riguarda anche l’ecdotica: quante volte è stata passata sui testi la schiacciasassi di una forzosa reductio ad unum (direi: ad unum genus), per ricondurre le diverse tipologie di generi a quella – spesso imprecisa, ma cogente – che il critico e l’editore, aveva in testa! Detta brutalmente: se l’editore ha in mente – ad esempio – solo il modello delle cronache cittadine, egli sarà talvolta portato a ricondurre forzosamente a quel modello anche il corpo vivo e diverso del testo che viene editando, magari tagliandogli gli arti che debordano rispet-
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to a quel modello e integrando ciò che gli manca. Ed esempi clamorosi di tali costrizioni ecdotiche, che incredibilmente riguardano anche autori grandissimi come Guicciardini, sarebbe possibile allegare: quante volte – ad esempio – sono stati soppressi i conti dalle edizioni dei libri di famiglia, e quante volte è stata soppressa dalle edizioni la pluralità delle mani scriventi, l’una cosa e l’altra invece caratteristiche assolutamente costitutive dei testi che si venivano pubblicando. 2. La scrittura memoriale come problema Che la definizione della scrittura di memoria costituisca di per sé un problema appare peraltro evidente, a cominciare dalla stessa parola “memoria”. Il pensiero greco distingue, come è noto, fra mnéme, che è la memoria presente alla mente (per Paul Ricoeur3: “evocazione semplice”) e anámnesis, che è la ricerca del ricordo, lo sforzo della reminiscenza; se il proprio della memoria è il ricordo vivente, la storia deve invece cercare di ricostruire ciò che è morto e perduto, e non si contenta di registrare per il futuro un presente destinato a diventare passato; potremmo dire che la storia lavora solo sull’anámnesis e ha in sospetto, o ignora, la mnéme. In questo senso, dice Michel de Certeau, lo storico cerca perennemente un oggetto perduto, “l’assente della storia”. Il grande storico medievista (e anche teorico dell’attività storiografica) Jacques Le Goff esplicita la radicale diffidenza verso la memoria che fonda e giustifica la storia: la memoria – egli scrive –: appare come essenzialmente mitica, deformata, anacronica. […] La storia deve rischiarare la memoria e aiutarla a correggere i suoi errori4.
Un’intenzione, quest’ultima, quanto mai rivelatrice e, al tempo stesso, problematica: giacché la storia a sua volta non può fare altro che nutrirsi di memoria, che le perviene o nelle sue forme dirette e viventi o nelle forme indirette dei documenti e nei monumenti. Da quale luogo esterno alla memoria la storia potrebbe allora derivare, o appoggiare, l’istanza di superiore verifica e di illuministico rischiaramento che Le Goff le attribuisce?
3 P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris 2000 (ediz. it., cur. D. IANNOTTA, Milano 2003). 4 J. LE GOFF, Storia e memoria, Torino 1982, p. 16.
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Si potrebbe forse rovesciare addirittura il punto di vista e domandarsi se la inevitabile retro-azione della storia (tanto spesso ufficiale e deformante) sulla memoria non abbia contribuito mille e mille volte a perdere e guastare la memoria stessa, ad allontanarla da una presunta verità dei fatti. A ben vedere, la storia può infatti aggiungere alla memoria solo due elementi: un’ermeneutica (sia pure, per ipotesi, ispirata alle migliori intenzioni) e un punto di vista segnato dal presente; ma l’una e l’altro, per definizione, intrattengono rapporti assai problematici con la verità. Ma c’è di più: è nella natura stessa della storia intrattenere con il potere presente rapporti assai più cogenti e diretti di qualsiasi memoria. Proprio in quanto socialmente separato e ridotto a istituzione, il discorso della storia si presta (molto più del magmatico e incontrollabile mondo della memoria) ad essere sussunto e amministrato dai poteri del presente, diventando una loro articolazione decisiva; come scrive Orwell in 1984: «Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato»5. E la storiografia è luogo cruciale di un “potere di narrazione” (chiamamolo così) che è di fatto anche il potere egemonico di imporre un senso condiviso alle cose che accadono imponendo un senso alle cose che sono accadute. Proprio in questo rapporto organico coi poteri vigenti la storiografia ha sempre vissuto i suoi momenti più significativi, e anche le cronache del Medioevo debbono essere lette in rapporto con questa funzione6, come peraltro la grande retorica storiografica degli umanisti, non per caso nata all’interno della Cancelleria fiorentina essendo un’articolazione esplicita delle sue funzioni propriamente politiche. Analogo discorso vale per le storie degli Ordini ecclesiastici, per la storiografia controversistica e apologetica della Protesta e della Controriforma cattolica, fino alle storie nazionali dell’Ottocento che fondavano gli Stati-nazione (spingendosi fino a ciò che Hobsbawm ha definito “l’invenzione della tradizione”), via via arrivando fino al moderno “uso pubblico” (e politico) della storia7. Per capire quanto sia fondativo e cogente il rapporto fra storia e potere è sufficiente fare riferimento alle clamorose esclusioni che così si determinano: restano a lungo “senza storia” (così li definisce Hegel: “popoli senza storia”) i popoli oppressi e colonizzati, le loro culture, i “subalterni”, le minoranze sessuali e, in generale, le donne. 5 6
G. ORWELL, 1984, trad. it. G. BALDINI, introd. U. ECO, Milano 1984, p. 245. Penso alle importanti relazioni di Zabbia, Porta e Senatore in questo stesso Convegno. 7 L’uso pubblico della storia, cur. N. GALLERANO, Milano 1995.
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E tuttavia, proprio per il carattere istituzionale e stabilizzante della storia, ogni memoria che rifiuti di contentarsi della subalternità e dell’effimero sembra non poterne fare a meno: non per caso, a partire da una rassegna appassionata del generale e vario rifiuto che la nostra società ha opposto alla memoria della deportazione e dello sterminio, Anna Rossi Doria ha dovuto concludere auspicando una trasformazione di quella memoria in storia8. 3. A partire dalla distinzione fra mnéme e anámnesis Torniamo al filo del nostro ragionamento e domandiamoci: la distinzione fra mnéme e anámnesis, che abbiamo poc’anzi richiamato, può rappresentare uno strumento utile per differenziare analiticamente le scritture di memoria? Esisterebbero dei generi che lavorano prevalentemente sulla mnéme e si limitano – per dir così – a registrare con la scrittura la mnéme del presente per renderla meno labile: è quanto fanno da sempre le antichissime forme della registrazione sincrona rispetto al tempo calendariale. Altri generi invece lavorano sull’anámnesis, cioè sul tentativo di ricostruire attraverso la scrittura ciò che è morto e perduto ed è ciò che fa la storiografia propriamente detta, la quale proprio per questo partecipa in modo costitutivo della narratività. Si potrebbero dunque vedere queste due possibilità (la scrittura della mnéme o registrazione e la scrittura dell’anámnesis o ricostruzione) come se fossero due assi cartesiani all’interno dei quali potremmo disporre tutte le diverse scritture di memoria. Il primo asse assume a esclusivo criterio ordinatore della scrittura il tempo del calendario (e quasi si confonde con esso), già nelle forme più pure e originarie della mera registrazione dei giorni che – non per caso – riguarda anzitutto le stelle (già in Mesopotamia e presso le popolazioni pre-colombiane) e le stagioni. E poi si tratterà delle azioni dei re, di Alessandro, di Roma, dei diurnali o delle centurie o degli annali, fino ai prioristi fiorentini o ai libri dei conventi o alla serie dei Papi; e poi della nuda registrazione delle nascite, dei matrimoni e delle morti (magari sui risvolti di una Bibbia nei paesi protestanti) la tematica che rappresenta come il nucleo originario dei libri di famiglia, una scrittura ancora organiz-
8
A. ROSSI DORIA, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998.
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zata in modo isomorfo rispetto al tempo reale scandito dal calendario; e infine i diarii, ma solo quelli che chiamerei veri e proprii, cioè non considerati contenutisticamente in quanto journal intime ma considerati formalmente, solo in base al rapporto che la scrittura stabilisce con il tempo, in quanto testi in cui si annotano i fatti giorno per giorno, mentre si svolgono. Si avvicinerebbero a questa forma pura della registrazione memoriale, una mnéme resa duratura dalla scrittura, anche generi memoriali come le registrazioni economiche dei conti e le ricordanze, i quali insegnano che è la borghesia, e solo la borghesia, che sa, può, e deve scrivere i suoi affari nel tempo, nel tempo-merce del capitalismo nascente, quella borghesia che, per citare una bella espressione del Sapori, «tesseva i suoi affari proprio sulla trama del tempo»9. Questo tipo di scrittura memoriale è sempre, con ogni evidenza, legata a un potere: il potere dell’archivio – di cui ha scritto Derrida – e il potere del calendario che è fin dall’inizio un potere del potere10. Naturalmente la mise en page degli autografi (di cui ha parlato qui Michele Barbato) diventa indizio probante: si tratterà in questo caso sempre di scritture discrete e non continue, scandite per ogni segmento dall’esplicito aggancio (per dir così) al tempo calendariale. Al contrario sul secondo asse cartesiano, quello della scrittura dell’anámnesis, troveremmo anzitutto la storia come puro racconto, come ricostruzione continua e post eventum dei fatti passati, una scrittura dunque che organizza se stessa prescindendo dal tempo del calendario, o piuttosto giocando con esso (mimandolo, anticipandolo, posticipandolo, arrestandolo, etc.), come è appunto caratteristico della narrativa (con cui non a caso questa seconda modalità confina, fino quasi a confondersi con essa). Generi limitrofi e tendenti a questo secondo asse cartesiano dell’anámnesis sarebbero ancora: le memorie propriamente dette, i memoriali e le relazioni, le genealogie (più o meno fittizie e fantasiose), le biografie, i ricordi à la Guicciardini, cioè il condensato delle esperienze di vita in mas-
9 A. SAPORI, Divagazioni su tempo e spazio, in Saggi di economia aziendale e sociale in memoria di Gino Zappa, Milano 1961, pp. 1787-1800: 1792. 10 Cfr. J. DERRIDA, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, trad. ital. G. Scibilia, Napoli 1966. Come dimostra l’antico titolo di “Padrone unico del Calendario” assunto dagli imperatori cinesi e, nella nostra cultura occidentale, il monopolio della gestione del calendario esercitato dagli imperatori (cfr. il calendario giuliano) e dai papi (cfr. il calendario gregoriano tuttora in vigore), e come dimostrano a contrario anche gli sforzi delle rivoluzioni (a cominciare da quella francese) di rivoluzionare il tempo introducendo ex novo i loro calendari.
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sime e consigli, e infine le autobiografie, che non per caso costituiscono un tallo originario del romanzo, il principe della narratività moderna. Mi sembra che questa prima distinzione ordinativa proposta sia netta e sufficientemente oggettiva: nel primo caso scrittura del presente per il futuro, nel secondo caso scrittura del passato per il presente e, tendenzialmente, anche per il futuro. Il grado di vicinanza o di lontananza rispetto ai due estremi che abbiamo individuato (la mera registrazione che conserva mnéme e la libera narrazione che ricostruisce anámnesis) forse potrebbe permettere di costruire con sufficiente precisione e oggettività una sorta di “raggiera” in cui i diversi generi di scrittura memoriali si troverebbe distinti11. Anche fondamentali elementi di carattere filologico ci aiuterebbero nella distinzione: le scritture di memoria della mnéme, sono tendenzialmente autografe e in copia unica e sono caratterizzate solo da un movimento di incremento di tipo additivo (che si può anche auspicare, da parte degli scriventi, come indeterminato e prolungabile all’infinito)12; al contrario: le scritture dell’anámnesis conoscono invece l’intertestualità, la citazione, la compilazione, il ri-uso, anzi queste sono forse per loro caratteristiche costitutive. Quando Boccaccio (secondo la insuperata ricostruzione di Branca, un nome che mi sembra giusto evocare in questa sede) utilizza Paolo Diacono per descrivere la peste del 1348, egli evidentemente non registra, ma com-pone, facendo storia e letteratura, anzi facendo storia con la letteratura. Si apre dunque su queste basi la discussione, già richiamata qui in riferimento al magistero di Vàrvaro, se possa vigere oppure no, e con quali limiti, il metodo del Lachmann per l’edizione di tali testi (ma questa discussione ci porterebbe davvero troppo lontano dal nostro tema). In ogni caso, se la distinzione appena proposta fosse fondata, le cronache medievali rivelerebbero allora il carattere ambiguo e contraddittorio della loro definizione (il che, beninteso, non influenzerebbe in alcun modo l’uso di tale illustre e tradizionale definizione, purché sia chiaro che essa è imprecisa e metaforica), giacché le cronache risulterebbero come frantu-
11 Confesso: ero stato tentato di presentare un grafico-disegno di una tale raggiera con tutti i generi che conosco messi in bell’ordine: me ne sono astenuto, oltre che per una personale invincibile antipatia per PowerPoint, anche per un residuo di prudenza, o pudore: l’importante non è infatti presentare una tale raggiera dei generi ma immaginarla, cioè concordare sul fatto che essa sia teoricamente possibile e magari utile. 12 Penso ancora ai libri di famiglia, la cui prosecuzione additiva nel tempo da parte dei discendenti viene spesso auspicata esplicitamente sulle pagine del libro, come garanzia e segno della sopravvivenza nel tempo della famiglia.
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mate dalla collocazione differenziata che qui si propone: alcune di loro infatti seguono in un certo senso la mnéme e il tempo del calendario come criterio di organizzazione della scrittura, altre invece se ne liberano decisamente virando verso l’anámnesis di fatti lontani nel tempo (spesso recuperati dalla tradizione orale o dalla leggenda, o da altre fonti cronachistiche), pur conservandosi in entrambi i casi lo stesso titolo di “cronaca”; senza contare i casi in cui in uno stesso libro si alternano, o si succedono, le due modalità (come è il caso della celeberrima Nova Cronica dei Villani). Insomma ci troveremmo di fronte a un titolo troppo generico per definire qualcosa, un titolo dunque in pratica poco utilizzabile per gli scopi analitici su cui stiamo qui ragionando. Analogamente al titolo di “Ricordanze” usato ancora da alcuni per designare i libri di famiglia (una scelta ostinata contro la quale l’argomentata critica di Leonida Pandimiglio mi sembra assolutamente persuasiva e definitiva13), così anche “Cronache” sarebbe un titolo che dice al tempo stesso troppo e troppo poco, che definisce un insieme vasto e indifferenziato e – al tempo stesso – che si riferisce a una porzione assai circoscritta di quello stesso insieme. È per me assai significativo che l’autorità somma in questo campo, Girolamo Arnaldi, scriva, a proposito della Cronica di Dino Compagni (una delle cronache per antonomasia della nostra tradizione), che non si tratta affatto di una cronaca «nel senso proprio di un racconto storico ordinato cronologicamente»; e ancora: Se l’impianto monografico fosse sufficiente a distinguere la ‘storia’ dalla ‘cronaca’, il libro del Compagni sarebbe dunque almeno per una buona metà, un libro di storia e non una cronaca14.
4. La cronachistica e un appunto di Leopardi Che la comprensione della vera natura delle scritture cronachistiche rappresentasse un problema fu chiaro già a Leopardi. In quella inesauribile (e forse ancora inesplorata) miniera di intelligenza critica che è il suo Zibaldone, Leopardi riprende da Wolf la teoria (romantica) di una prece13 Cfr.
L. PANDIMIGLIO, Famiglia e memoria a Firenze, I, Secoli XIII-XVI, Roma 2010. La notizia della scomparsa di Leonida Pandimiglio ci ha raggiunti proprio nel corso delle Giornate della VI Settimana di Studi Medievali. Alla sua sapienza, alla sua ironia, alla sua amicizia, questa mia relazione è dedicata. 14 G. ARNALDI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, in Letteratura italiana. Le opere, dir. A. ASOR ROSA, I: Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 331-350: 334, 335.
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denza cronologica della poesia nei confronti della prosa; ciò era da mettere in rapporto con l’oralità, cioè col fatto che v’ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa: ma tal letteratura non poteva essere che poetica15.
L’“edizione” (Leopardi usa proprio questa parola) del testo era d’altronde la poesia recitata in pubblico, e non la prosa scritta, e Leopardi aggiunge acutamente: Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. […] Noi diciamo aver pubblicato un componim(ento) quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centin(aia) di lettori fossero la nazione: e la nazione veram(ente), il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla.
Così per Leopardi l’oralità e la poesia garantirono non solo l’unica gloria vera, quella tributata in vita e dai contemporanei, ma – paradossalmente – anche una sopravvivenza lunga e un’immortalità a chi, peraltro, non la desiderava affatto, come Omero e gli antichi. Tuttavia – nota Leopardi – questa generalizzata precedenza della poesia sulla prosa non è vera per l’Italia, e non è vera proprio per l’esistenza, fra i testi in volgare di sì, delle nostre cronache: Se si tratta di versi e prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perché durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino, ec.) leggende ec. tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare nei versi un’anteriorità16.
E noi sappiamo che la triade Compagni Villani Malispini (quest’ultimo da lui letto nell’edizione Follini del 1816) è ben presente a Leopardi, specie per motivi linguistici, così come egli è ben cosciente del problema filologico rappresentato dai loci paralleli fra Malispini e Villani. Leopardi tuttavia non approfondisce questo spunto, cioè i motivi dell’eccezione italiana (chiamiamola così) e torna a parlare di “classici”, cioè dei versi e delle
15
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, ed. crit. G. PACELLA, 3 voll., Milano 1991, p. 2449. 16 Ibid., p. 2452.
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prose non “qualunque”, cioè di Dante. Ma resta l’idea originalissima che le cronache in prosa abbiano nella nostra tradizione italiana la stessa primazia che in altre tradizioni hanno i versi: forse perché quelle prose cronachistiche sono (come scrive Leopardi) «destinate e fatte perché durassero»? Forse perché ad esse – pur nella loro modestia – ci si rivolgeva per garantirsi l’immortalità? Forse perché, come afferma proprio all’inizio l’Anonimo autore del «dilavato e graffiato autografo» da cui Manzoni trae i Promessi sposi, «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo»? 5. Il cronotopo bachtiniano come possibile chiave per la definizione di genere Eccoci allora introdotti a un altro snodo possibile del nostro sforzo di definizione delle scritture di memoria: il concetto di cronotopo, come lo definisce e lo usa, Michail Bachtin. Il testo di Bachtin a cui faccio riferimento è il saggio Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo (del 1937-8), tradotto nel volume einaudiano curato da Clara Strada Janovic nel 1979, il passo è proprio all’inizio del saggio bachtiniano. Leggiamolo insieme per intero: Il processo, attraverso il quale la letteratura si è impadronita del tempo e dello spazio storici reali e dell’uomo storico reale che in essi si manifesta, ha avuto un decorso complicato e discontinuo. La letteratura si è impadronita dei singoli aspetti del tempo e dello spazio, accessibili in una determinata fase storica dello sviluppo dell’umanità, e ha formato nella sfera dei generi i corrispondenti metodi di riflessione ed elaborazione artistica degli aspetti di realtà padroneggiati.
Faccio notare che l’aggettivo “storico” ricorre ben tre volte in queste poche righe, e faccio notare altresì la presenza dell’espressione “sfera dei generi”. Prosegue Bachtin: Chiameremo cronotopo (il che significa letteralmente ‘tempospazio’) l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente. Questo termine è usato nelle scienze matematiche ed è stato introdotto e fondato sul terreno della relatività (Einstein). A noi non interessa il significato speciale che esso ha nella teoria della relatività e lo trasferiamo nella teoria della letteratura quasi come una metafora (quasi, ma non del tutto); a noi interessa che in questo termine sia espressa l’inscindibilità dello spazio e del tempo (il
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tempo come quarta dimensione dello spazio). Il cronotopo è da noi inteso come una categoria che riguarda la forma e il contenuto della letteratura […]17.
Bachtin prosegue richiamando in una densa nota le categorie trascendentali kantiane di spazio e tempo, e afferma che a differenza di Kant egli intende invece spazio/tempo come “forme della realtà”. Ma quello che a noi interessa ora e qui è l’uso bachtiniano del cronotopo come possibile indicatore del genere letterario: Il cronotopo nella letteratura ha un essenziale significato di genere. Si può dire senza ambagi che il genere letterario e le sue varietà sono determinati proprio dal cronotopo, con la precisazione che il principio guida del cronotopo letterario è il tempo18.
Io trovo che la definizione bachtiniana del cronotopo che caratterizza il genere romanzo sia geniale nella sua semplicità: «il mondo altrui nel tempo dell’avventura». Significa che il romanzo (pensiamo naturalmente in primo luogo al romanzo archetipico, quello alessandrino, poi continuamente rielaborato e riproposto dalle nostre letterature) mette in scena, tramite il racconto, spazi sconosciuti e comunque estranei e questi spazi vengono scanditi da un tempo fatto di peripezie, di imprevisti, di pericoli e di lieto-fine, insomma di avventure. A questo cronotopo parve ad Angelo Cicchetti e a me che si contrapponesse specularmente il cronotopo dei nostri libri di famiglia, che ci sembrò possibile, nel lontano 1984, riassumere nella formula cronotopica: «il mondo della propria famiglia nel tempo della quotidianità»19; quei libri infatti – come è noto – ci conservano e ci restituiscono uno spazio-tempo assolutamente proprio a chi scrive (e a chi leggerà), uno spazio conosciuto, anzi intimo se non segreto, in cui si svolgono avvenimenti non solo quotidiani ma scanditi dalla quotidianità, cioè organizzati in una temporalità a sua volta assolutamente padroneggiata (non per caso organizzata sul calendario), l’esatto contrario dell’avventura, in una parola: un cronotopo familiare.
17 M. BACHTIN, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica (1937-8), ora in BACHTIN, Estetica e romanzo, cur. C. STRADA JANOVIC, Torino 1979, pp. 231-232. 18 Ibid., p. 232. 19 A. CICCHETTI - R. MORDENTI, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, dir. A. ASOR ROSA, III: Le forme del testo. II: La prosa, Torino 1984, pp. 1117-1159: 1117.
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Mutatis mutandis, credo che si potrebbe forse parlare di un cronotopo cittadino come caratteristico di molte cronache medievali, e così via. 6. Conclusione Il paleografo Attilio Bartoli Langeli ha segnalato un duplice (e contraddittorio) movimento che riguardava e attraversava tutte le nostre discipline: da un lato un movimento verso la complicazione e il dubbio diceva, una volta di più, la fine di quella che potremmo definire l’età dell’innocenza archivistica, cioè la fine delle idee (che egli definisce “elementari”) degli storici d’antan: Elementare la triangolazione: il soggetto (l’istituzione), lo strumento (il notaio), il prodotto (il documento singolo o in registro). Elementare la procedura conoscitiva, inversa: dal prodotto alla realtà storica, dall’archivio all’istituzione; ovvero il documento come “fonte per la storia” dell’istituzione. Invece quello che diciamo è che a farsi fonte sono non soltanto i contenuti oggettivi della documentazione, ma la documentazione stessa, in quanto risultato di una prassi, di un comportamento, di una strategia20.
Ma a questo primo movimento si accompagnava, per Bartoli Langeli, un secondo e contraddittorio movimento, un movimento verso la ricerca possibile della verità, rassicurante e stabilizzante: Mentre la nouvelle histoire e i suoi epigoni italiani si lanciavano in formule rivoluzionarie (del tipo “Ogni documento è un falso”, “è lo storico che crea le sue fonti”), altrove andava maturando con tutta calma quello che definirei il rispetto che si deve alla documentazione, al suo intrinseco modo di farsi, alle volontà che l’hanno determinata e l’hanno conservata21.
Questo (invidiabile) “altrove” che riesce a lavorare “con tutta calma”, che consolida il suo atteggiamento “rispettoso” (per riprendere parolechiave di Bartoli Langeli) prende dunque in esame non solo il documento ma anche lo sguardo che lo produce e lo fruisce, prolungando questa indagine anche alla storia della fruizione, che è poi la storia della critica storiografica o la storia della cultura tout-court. 20
A. BARTOLI LANGELI, Prefazione, in Chiese e notai (secoli XII-XV), Verona 2004 («Quaderni di storia religiosa», 11), pp. 7-13: 8. 21 Ibid.
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RAUL MORDENTI
Mi sembra del tutto evidente che sia il primo aspetto (lo sguardo o il criterio) che costituisce i testi, sia il secondo aspetto (la loro fruizione, contemporanea o postera che essa sia, l’orizzonte d’attesa a cui rispondono) rinviano al problema della tipologia dei testi, ai generi letterari. Il risultato è lo stabilirsi (o l’auspicato ri-stabilirsi) di un “circolo virtuoso” tra la ricerca storica (in questo caso medievistica) da un lato, l’archivistica e la paleografia dall’altro e – non ultima né inutile – la riflessione teorica sulle forme del testo; e sarà sempre da aggiungere, naturalmente, la Grande Madre filologia, in tutte le sue forme. E questo con buona pace dei nostri “nemici” (cito ancora da di Carpegna) e del post-moderno per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, per cui «ogni documento è un falso», una posizione che ha come conseguenza di affogare tutto nell’irrazionalità dell’indifferenziato e dell’indistinguibile. No, il variare dello sguardo che organizza i testi (e li organizza anzitutto in generi), così come il variare dello sguardo di chi li legge, non conduce affatto all’irrazionale, perché anche di questo sguardo si può e si deve fare la filologia e la storia. Non sarebbe la prima volta che la salvezza della ricerca di verità della memoria proviene da scienze antiche e dimenticate.
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PAOLO D’ACHILLE CRONACHE, SCRITTURE ESPOSTE, TESTI SEMICOLTI
1. Premessa Nel mio intervento, collocato in questo Convegno all’interno nella sessione «Incroci di genere», tenterò anzitutto di indicare alcuni punti di contatto e di confronto tra le cronache medievali e le scritture esposte coeve1; alla fine, dedicherò un cenno anche ai rapporti tra le cronache e i testi semicolti, sebbene questi si collochino cronologicamente un po’ al di fuori del Medioevo (d’altra parte non si tratterà dell’unica escursione al di là dei confini temporali che il tema del Convegno imporrebbe). Naturalmente, in questa sede non devo spendere parole per dire che cosa si intende per cronaca, rimandando implicitamente ai tanti interventi che hanno trattato, da vari punti di vista, questo genere testuale2; invece, almeno una brevissima precisazione andrebbe fatta sia per il concetto di “semicolto” (ma lo farò al momento opportuno), sia per quello di “scrittura esposta”, la cui individuazione spetta, come è noto, ad Armando Petrucci3: infatti, negli ultimi
1 A quanto mi risulta, l’unico studio esplicitamente dedicato al tema, trattato con riferimento a un fatto specifico della storia pisana, ma con importanti considerazioni di carattere generale sul valore storico delle epigrafi commemorative, è quello di O. BANTI, Due epigrafi e una cronaca a confronto. Dell’interpretazione delle epigrafi come fonti storiche, in De litteris, manuscriptis, inscriptionibus… Festschrift zum 65. Geburtstag von Walter Koch, cur. T. KÖLZER [et al.], Wien 2007, pp. 257-270. 2 Mi limito a rimandare alla più recente sintesi sull’argomento, che tratta unitariamente di cronachistica e di storiografia: D. COLUSSI, Cronaca e storia, in Storia dell’italiano scritto, cur. G. ANTONELLI - M. MOTOLESE - L. TOMASIN, 3 voll., Roma 2014, II, Prosa letteraria, pp. 119-152. Segnalo due studi di carattere linguistico apparsi successivamente: C. DE CAPRIO, Spazi comunicativi, tradizioni narrative e storiografia in volgare: il Regno negli anni delle guerre d’Italia, «Filologia e critica», 39 (2014), pp. 39-72; E. DE ROBERTO, Dinamiche enunciative nel discorso storico medievale. Il caso delle strategie evidenziali, in Sul filo del testo. In equilibrio tra enunciato e enunciazione, cur. M. PALERMO - S. PIERONI, Ospedaletto-Pisa 2015, pp. 49-88. 3 A. PETRUCCI, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino 1986 (una precedente versione del testo era stata pubblicata nel vol. IX della einaudiana Storia dell’arte italiana, Torino 1980).
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anni, con il progressivo interesse per questi testi anche da parte di filologi e storici della lingua, oltre che di epigrafisti e paleografi, sulla definizione si sono avute varie discussioni. Parto dalla definizione che si legge nella recente sintesi di Francesca Geymonat, volutamente “minimalista”, secondo cui sono scritture esposte le «scritte poste su superfici non destinate ad essere scritte»4, comprendenti, al loro interno, una grande varietà di sottotipi5: le scritte inserite in immagini, per lo più pittoriche, che ebbero particolare sviluppo nel Trecento; le epigrafi autonome, prevalentemente di carattere commemorativo; i graffiti spontanei, su cui recentemente si sono avuti importanti contributi chiarificatori come quelli di Luisa Miglio e Carlo Tedeschi, proprio in rapporto alla civiltà medievale6. Il mio discorso, che non ha l’ambizione di segnalare novità sul piano testuale, ma semplicemente lo scopo di offrire qualche elemento di riflessione di carattere generale sulla base di esempi già editi7, verterà su quattro temi8, e cioè:
4 F. GEYMONAT, Scritture esposte, in Storia dell’italiano scritto cit., III, Italiano dell’uso, pp. 57-100: 58. 5 Resta fondamentale, al riguardo, la classificazione proposta da F. SABATINI, Voci nella pietra dall’Italia mediana. Analisi di un campione e proposte per una tipologia delle iscrizioni in volgare, in SABATINI, Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1996, cur. V. COLETTI [et al.], Lecce 1996, II, pp. 569-625 (anche in «Visibile parlare». Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento, cur. C. CIOCIOLA, Napoli 1997, pp. 177-222). 6 Mi riferisco in particolare a L. MIGLIO - C. TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali. Caratteri, categorie, esempi, in Storie di cultura scritta. Studi per Francesco Magistrale, cur. P. FIORETTI, Spoleto 2012, pp. 605-628; C. TEDESCHI, I graffiti, una fonte scritta trascurata, in Storia della scrittura e altre storie, cur. D. BIANCONI, «Bollettino dei classici Accademia Nazionale dei Lincei», suppl. 29 (2014), pp. 363-381. 7 Per quanto riguarda i testi delle epigrafi riportate, preciso che sono tutte inserite tra caporali. Riporto così come state edite quelle che ho tratto da altri studi senza poter controllare gli originali, sostituendo però, nelle scritte in versi, gli a capo degli originali con le barrette oblique (/). Di quelle che ho potuto esaminare direttamente o grazie a riproduzioni fotografiche fornisco invece l’edizione “interpretativa”. A parte la lapide novecentesca citata per prima, riportata tutta in caratteri maiuscoli, ho preferito usare i caratteri minuscoli (con conseguente distinzione tra u e v), riservando le maiuscole alle iniziali dei nomi propri e delle parole che compaiono ad apertura di frase. Nella divisione delle parole e nell’inserimento dei segni diacritici e di interpunzione seguo l’uso moderno, con conseguente eliminazione dei puntini che a volte negli originali separano le parole. Indico con le sbarrette verticali (|) i cambi di riga, usando le sbarrette doppie (||) nel caso di spaziature particolarmente ampie negli originali, sciolgo le abbreviazioni tra parentesi tonde, inserisco lettere o parole oggi cadute o lacune tra parentesi quadre, lettere o parole omesse per errore dal lapicida tra parentesi uncinate, lettere da lui introdotte erroneamente tra parentesi graffe. Solo eccezionalmente l’edizione interpretativa è preceduta dalla trascrizione “diplomatica” del testo, che adotta sistematicamente le maiuscole e mantiene i puntini di separazione delle parole presenti nell’originale. 8 Non concederò però a tutti lo stesso spazio.
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1) alcuni aspetti generali di carattere linguistico e testuale che possono avvicinare cronache ed epigrafi, a partire dall’uso del volgare; 2) le scritture esposte che si possono considerare, in qualche modo, cronache; 3) la presenza di scritture esposte all’interno di cronache; 4) i punti di contatto tra le cronache e i testi semicolti (tra i quali troveranno nuovamente spazio anche le scritture esposte). 2. Aspetti linguistici generali Un primo elemento di vicinanza tra cronache e scritture esposte è costituito dal fatto che tanto nell’epigrafia quanto nella cronachistica il volgare stenta a farsi largo rispetto al latino; se, nel caso della storiografia, «la coabitazione [tra latino e volgare] dura a lungo, e ancora nel XVIII secolo l’egemonia dell’italiano non è totale»9, nell’epigrafia l’uso del latino è ancora più ampio e durevole, tanto che il sistematico (se pure non del tutto esclusivo) ricorso all’italiano è avvenuto soltanto nell’Ottocento10. Infatti, nel Medioevo, nella particolare diglossia del mondo romanzo in ogni genere e forma di comunicazione scritta il latino costituisce il prius e l’uso del volgare o è dovuto alla necessità (chi scrive è un illetterato, cioè non ha studiato il latino) oppure è per lo più frutto di una scelta consapevole e deliberata11. Al riguardo, non posso non citare anch’io il notissimo passo del Prologo della Cronica trecentesca in cui l’Anonimo romano esplicita le ragioni per cui, dopo aver scritto il suo testo in latino, ne ha predisposto una nuova versione in volgare: «perché de essa pozza trare utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, come soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne»12. La stessa cosa si
9 R. GUALDO, La scrittura storico-politica, Bologna 2013, p. 10 «Nell’Ottocento, col sorgere delle moderne necropoli
17. suburbane, prese rigoglio l’epigrafia cimiteriale in prosa italiana e, con l’unità d’Italia, quella commemorativa, nella forma sia di statue parlanti o di lapidi, sia di manifesti esposti in occasione di festa, lutto o celebrazione» (G. NENCIONI, La lingua di Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane, Bologna 1993, pp. 57-58). 11 La bibliografia sul tema è talmente vasta che evito di fornire, in questa sede, riferimenti bibliografici. Per una sintesi cfr. R. CASAPULLO, Il Medioevo, Bologna 1999, pp. 1734; lo stesso volume dedica un paragrafo alle cronache, trattate insieme alle storie romanzate e alla memorialistica (pp. 142-149), all’interno della prosa letteraria, e un capitolo alle scritture esposte (pp. 193-200). 12 Anonimo romano, Cronica, ed. G. PORTA, Milano 1979, p. 6.
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potrebbe dire per la scelta del volgare nell’epigrafia – che non a caso a Roma sembra avere uno sviluppo parallelo a quello della cronaca – con l’avvertenza che in questo caso i destinatari dei testi erano ancora più numerosi, arrivando a comprendere perfino gli analfabeti, i quali potevano farsi leggere le scritte da qualcuno. L’epigrafia medievale ci offre inoltre numerosi esempi di scritte bilingui, in cui latino e volgare si spartiscono i compiti13. Nel caso della cronachistica il bilinguismo è tutt’altro che escluso (come dimostra, nel secolo XV, il diario dello scribasenato romano Stefano Infessura)14, ma l’opzione è in genere monolingue: certo, ci sono cronache in latino che riportano stralci di volgare, per noi particolarmente interessanti (notissimo il caso di Salimbene de Adam)15 e ci sono cronache in volgare che contengono parti in latino: ciò avviene nella stessa Cronica dell’Anonimo romano, i cui brani in latino, tradizionalmente considerati relitti della originaria versione, sono stati di recente riesaminati in una prospettiva diversa16. Dal punto di vista cronologico, infine, mentre le cronache in volgare si sviluppano dalla seconda metà del Duecento, l’epigrafia in volgare è più antica, perché, come è noto, conta già precocissimi esempi, a partire dal Graffito della catacomba di Commodilla, della prima metà del IX secolo17. È forse lecita anche qualche breve considerazione d’ordine testuale: se ci rifacciamo alla più nota distinzione tipologica, quella di Egon Werlich tra testi narrativi, descrittivi, argomentativi, informativi e regolativi18, le
13
Per alcuni esempi cfr. A. STUSSI, Epigrafi medievali in volgare dell’Italia settentrionale e della Toscana, in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 149-175. 14 Cfr. Il Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, ed. O. TOMMASINI, Roma 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 5). Da ricordare, sempre nella Roma quattrocentesca, il caso di Stefano Caffari: cfr. A. INGLETTO - S. SANTI, Stefano Caffari. Memorie di una famiglia della Roma del Quattrocento, Roma 2009. Per gli Annales Reatini v. infra. 15 Salimbene de Adam, Cronica, ed. G. SCALIA, Bari 1966. 16 Cfr. V. FORMENTIN, Approssimazioni al testo e alla lingua della Cronica di Anonimo romano, in G. INGLESE - V. FORMENTIN - N. SCAFFAI, Leggere gli apparati (Testo e testimoni dei classici italiani), Milano 2012, pp. 27-71; M. CAMPANELLI, «Benché io l’aia ià fatta per lettera»: gli inserti latini nella Cronica dell’Anonimo romano, «Filologia e critica», 37 (2012), pp. 3-29; D. INTERNULLO, Ai margini dei giganti. La vita intellettuale dei romani nel Trecento (1305-1367 ca.), Roma 2016, pp. 313-315, 367-368 17 Cfr., da ultimo, L. PETRUCCI, Alle origini dell’epigrafia volgare. Iscrizioni italiane e romanze fino al 1275, Pisa 2010. 18 Cfr E. WERLICH, Typologie der Texte. Entwurf eines textlinguistischen Modell zur Grundlegung einer Textgrammatik, Heidelberg 1975; WERLICH, A Text Grammar of English, Heidelberg 1976. Cfr., da ultimo, M. PALERMO, Linguistica testuale dell’italiano, Bologna 2013, pp. 237-245; A. FERRARI, Linguistica del testo. Principi, fenomeni, strutture, Roma 2014, pp. 257-307.
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cronache si collocano senz’altro tra i testi narrativi, e per questo si distinguono dalle opere più propriamente storiografiche, che hanno anche caratteri propri dei testi espositivi-argomentativi. Ebbene, tra i testi narrativi sono state collocate anche le scritture esposte, almeno limitatamente alle iscrizioni commemorative19. In effetti, se noi prendiamo l’epigrafe del 1903 per il garibaldino Enrico Guastalla (Milano, corso Monforte), ci troviamo di fronte a una breve biografia, che sembra caratterizzarsi, rispetto a una possibile versione “libraria”, per l’uso del presente storico, ancor più che per il richiamo deittico (qui), circoscritto all’enunciato finale20: «ENRICO | GUASTALLA | ANIMA E MENTE | ITALIANA || CORRE VOLONTARIO ALLA PRIMA RISCOSSA | NEL 1848 | ALLA DIFESA DI ROMA G. GARIBALDI | LO ACCLAMA PER VALORE | “CAPORALE DI VASCELLO”. | È TRA LE FILE DEI CACCIATORI DELLE ALPI | NEL 1859 | A VARESE A SAN FERMO | COPRE GLI ALTI GRADI DEL COMANDO | SUI GLORIOSI CAMPI | DI SICILIA DI MILAZZO DEL VOLTURNO | RIANELA ROMA LIBERA | DALLA ALTURA DI ASPROMONTE | CHIUSA COSÌ LA SUA CORAGGIOSA | TENACE OPERA DI COMBATTENTE NEL 1866 | ALTRA CIVILE NE COMPIE | NEL PARLAMENTO NEGLI ISTITUTI PUBBLICI | CON SAGGIA MODERNITÀ DI PENSIERO || GLI AMICI | IL 1° OTTOBRE 1914 QUÌ NE INCIDONO I RICORDI | CON ALTO AFFETTO || N. 1826 M. 1903».
Se la deissi spaziale è esclusiva delle scritture esposte, non è del tutto estranea ai testi epigrafici neppure la deissi personale, che è ampiamente presente nelle cronache21. Nel Medioevo, anzi, come è stato rilevato da Giuseppe Porta, «il passaggio dalla cronistica latina a quella in volgare è reso possibile dalla costituzione del filtro rappresentato dall’esperienza personale. Il peso del contemporaneo acquista un valore incomparabile con lo spazio destinato alla memoria del passato lontano e del sentito 19 Così fa B. MORTARA GARAVELLI, Textsorten/Tipologia dei testi, in Lexikon der romanistischen Linguistik (LRL), cur. G. HOLTUS - M. METZELTIN - C. SCHMITT, IV, Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen 1988, pp. 157-168: 162. 20 Per l’edizione del testo mi permetto di rinviare a P. D’ACHILLE, Riflessioni sull’epigrafia commemorativa, in Testi brevi. Atti del Convegno Internazionale (Roma, 8-10 giugno 2006), cur. M. DARDANO - G. FRENGUELLI - E. DE ROBERTO, Roma 2008, pp. 279-307: 301 (rist. in D’ACHILLE, Parole: al muro e in scena. L’italiano esposto e rappresentato, Firenze 2012, pp. 119-154: 146-147). 21 In questo stesso Convegno alcuni interventi hanno trattato della presenza dell’io, su cui cfr. anche Colussi, Cronaca e storia cit., pp. 141-147.
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dire»22. Da qui deriva la prossimità con la memorialistica a cui accennerò alla fine dell’articolo, in rapporto ai testi semicolti23. Sempre a proposito dell’autorialità e della trasmissione dei testi24, rilevo che, nell’ambito delle scritture esposte, soltanto nel caso dei graffiti possiamo parlare di autografia; che gli autori dei testi epigrafici sono generalmente anonimi; che epigrafi e scritture dipinte sono, costituzionalmente, “copie” che gli scalpellini o i pittori realizzavano seguendo un modello, in cui la disposizione delle lettere negli spazi era fondamentale. Nel caso delle epigrafi, poi, contenitore e contenuto tendono più che mai a identificarsi: si parla infatti di iscrizione o epigrafe per riferirsi anche alla lapide (e viceversa) e ogni testo, di norma (in realtà, poi, non sempre è così)25, costituisce un unico esemplare. Se poi guardiamo all’aspetto sintattico-testuale, possiamo richiamare il parallelismo tra la struttura delle scritture esposte di carattere narrativo, in particolare delle didascalie che corredano i cicli di affreschi dedicati alle vite e i miracoli di santi, costituite spesso da proposizioni subordinate esplicite (per lo più prive di reggente) introdotte da come o quando26, e i titoli dei capitoli in cui si suddividono le cronache o delle rubriche che ne sintetizzano i vari contenuti, introdotti da come27. Su questa base, potrem-
22 G. PORTA, L’urgenza della memoria storica, in Storia della letteratura italiana, cur. E. MALATO, II, Il Trecento, Roma 1995, pp. 159-210: 167. 23 Per un approfondimento sul tema, rimando all’intervento di Raul Mordenti in questo stesso Convegno. 24 Riprendo e applico alle scritture esposte alcuni temi trattati in questo stesso Convegno da Marcello Barbato nel suo intervento. 25 Le poche eccezioni sono costituite da rifacimenti di epigrafi andate distrutte (per incuria, vandalismo o cause d’ordine politico, come guerre o attentati), da duplicati realizzati per apportare alla scritta aggiunte testuali o, in epoca moderna, per essere messi al posto delle lapidi originarie, trasferite all’interno di musei per riparlarle dalle intemperie. 26 Su strutture del genere cfr. N. DE BLASI, La Madonna del Crognale: le didascalie degli affreschi di Santa Maria di Propezzano (1499), in Documenti dell’Abruzzo teramano, cur. L. FRANCHI DELL’ORTO, II, La Valle del medio e basso Vomano, Roma 1986, 1, pp. 78-90: 8689; P. D’ACHILLE, Le didascalie degli affreschi di Santa Francesca Romana (con un documento inedito del 1463), in F. SABATINI - S. RAFFAELLI - P. D’ACHILLE, Il volgare nelle chiese di Roma. Messaggi graffiti, dipinti e incisi dal IX al XVI secolo, Roma 1987, pp. 109-183: 174175; C. CIOCIOLA, «Visibile parlare»: agenda, «Rivista di letteratura italiana», 7 (1989), pp. 9-77 (rist. Cassino 1992), §§ 14-15; D’ACHILLE, Didascalie e ‘istorie’ quattrocentesche nel Lazio, in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 223-260: 236 (rist., con una nota di aggiornamento, in D’ACHILLE, Parole: al muro e in scena cit., pp. 67-117: 89). 27 Segnalo un esempio di Giovanni Villani («Come i Guelfi usciti di Firenze furono presi nel castello di Capraia», libro VII, cap. 35; G. Villani, Nuova cronica, ed. G. PORTA, Parma 1990-1991, I, p. 322) e uno dell’Anonimo romano («Como fu cacciato de Fiorenza
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mo forse ritoccare la proposta terminologica di Sergio Raffaelli, che distingueva tra scritte testuali, cotestuali e contestuali28, e parlare, in questi casi, di scritte “paratestuali”; ovviamente, si tratterebbe del paratesto verbale di un testo figurativo29. In altri casi le scritte sono introdotte dal gerundio, modo anch’esso ben diffuso nelle cronache; ma va tenuto presente che nei cicli pittorici la categoria di riferimento è la temporalità, non la casualità che caratterizza i testi cronachistici e soprattutto quelli storiografici. 3. Le scritture esposte come cronache Vediamo ora più da vicino le scritture esposte che possono per qualche aspetto considerarsi cronache, se pure molto brevi. 3.1. Le epigrafi Nella sua importante raccolta di testi epigrafici romanzi dalle origini al 1275, Livio Petrucci dedica una sezione alle «memorie civili», intendendo per tali «le epigrafi commemorative di fatti senza attinenza religiosa e trascendenti interessi privati, seppure eventualmente promosse da un privato»30. Si tratta di un genere di scritte molto raro anche in latino, nel suo corpus rappresentato da due soli testi, che sono poi le «uniche iscrizioni italiane diverse da didascalie ed epitaffi: la Memoria di due spedizioni navali, Pisa 1243, e la Memoria dell’edificazione di un mulino comunale, Siena 1246, la prima promossa da un privato, la seconda dal Comune di Siena»31. Non sembra un caso che entrambi i testi si collochino nell’area toscana, proprio là dove, a partire dalla seconda metà del Duecento e nella prima metà del secolo seguente, «le cronache municipali in volgare si attestano saldamente»32. Iniziamo dal testo più antico, la scritta pisana, oggi nel Camposanto, un tempo sulla facciata di un palazzo sul lungarno, il cosiddetto palazzo
lo duca de Atena, e como morìo papa Benedetto e fu creato papa Chimento», cap. XII; Anonimo romano, Cronica, cit., pp. 8 e 90). 28 S. RAFFAELLI, Sull’iscrizione di San Clemente: un consuntivo con integrazioni, in SABATINI - RAFFAELLI - D’ACHILLE, Il volgare nelle chiese di Roma cit., pp. 35-66: 45-47. 29 È superfluo ricordare che il termine e il concetto di paratesto si devono a Gérard Genette. 30 PETRUCCI, Alle origini dell’epigrafia volgare cit., p. 66. 31 Ibid. 32 GUALDO, La scrittura storico-politica cit., p. 17.
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delle Vele, che forse assorbì il palazzo della famiglia di Duodo, il personaggio citato alla fine dell’iscrizione, da lui stesso commissionata, che peraltro non è stato identificato. Riporto il testo secondo la lettura che ne ha dato Livio Petrucci, con qualche minimo intervento33: «+ Die (San)c(t)e Marie de Secte<m>bre Anno D(omi)ni M(i)ll(esim)o CCXLIIII | Indict<(ione)> I. Sia manifesto a nnoi e al più dele p(er)sone | che nel tempo di Buanaco<r>so de Palude li Pisani | andaro {a} c(u)m galee c(ent)u e V e vac(checte) C <a> Portovener<i>. Stetter|vi p(er) die XV e guastaro tucto e avarebberlo p(re)so | non fusse lo conte Pandalo che n(on) volse ch’era | traitore dela Corona. E poi n’andanmo nel po|rto di Genova c(um) CIII galee di Pisa e C vacchecte e a|vare(n)mola co(m)baduta non fuss<e> che’l te(m)po no stro|piò. D<(omi)>n<(u)>s Dodus fecit puplicare hoc opus».
Il riferimento deittico (che definirei endoforico, perché riferito alla lapide stessa, e non al contesto spaziale)34 si ha solo nell’hoc opus della frase finale, che è in latino, al pari della data iniziale35. Per il resto la scritta è integralmente in volgare e narra due imprese pisane non andate a buon fine. Ma non si tratta di un racconto di tipo cronachistico: come è stato già
33
PETRUCCI, Alle origini dell’epigrafia volgare cit., pp. 113-118, che fornisce sia l’edizione diplomatica sia quella interpretativa. Da ricordare anche la precedente edizione dello stesso studioso: L PETRUCCI, Rassegna dei più antichi documenti del volgare pisano, in Fra toscanità e italianità. Lingua e letteratura dagli inizi al Novecento, cur. E. WERNER - S. SCHWARZE, Tübingen-Basel 2000, pp. 15-46: 24-27, e quelle di A. CASTELLANI, La prosa italiana delle origini, I, Testi toscani di carattere pratico, Bologna 1982, 1, Trascrizioni, pp. 163168; C. CASINI - O. BANTI, Iscrizione di Duodo, in I marmi di Lasinio. La collezione di sculture medievali e moderne nel Camposanto di Pisa, Firenze 1993, pp. 349-350; BANTI, Due epigrafi e una cronaca a confronto cit., tutte con importanti osservazioni testuali. Come particolarità della mia edizione segnalo che inserisco (tra parentesi uncinate) la vocale finale di Portovener (che però, conformemente a quanto scrive Petrucci, è per me -i e non -e, come per Castellani e Banti) e sposto, come fa Castellani, prima del toponimo la preposizione a che il lapicida anticipa di qualche parola, ponendola però tra parentesi uncinate (e inserendo tra parentesi graffe la stessa a nel posto in cui compare), cercando così di contemperare la fedeltà al testo con l’esigenza di ricostruire l’exemplum da cui il lapicida lo copiò. Mantengo invece le scrizioni c(ent)u e V e co(m)baduta, che Petrucci, nell’edizione interpretativa, corregge in C(ent)o e co(m)batuda. Nel primo caso, in cui – come ha convincentemente spiegato Castellani – lo scalpellino tentò di riparare a un suo errore, mi pare possibile anche sciogliere il compendio in c(ent)u(m), che eviterebbe una -u finale estranea al volgare locale. Preciso che le vacchecte sono piccole imbarcazioni 34 Cfr. D’ACHILLE, Riflessioni cit., pp. 140-141. 35 La data è stata oggetto di molte discussioni (cfr. anche STUSSI, Epigrafi medievali cit., p. 162) e ha avuto interpretazioni diverse da parte dei vari editori.
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rilevato dai precedenti editori (Banti, Petrucci), il testo presenta piuttosto affinità con formulari notarili, come dimostra l’attacco sia manifesto, col verbo al congiuntivo; ma questo non stupisce, perché è ben noto il nesso tra le cronache e l’ambiente giuridico-notarile36. Restando ai modi verbali, notevole è anche l’uso, iterato, del condizionale passato + congiuntivo imperfetto (non introdotto da se) per esprimere la controfattualità, così come il passaggio dalla narrazione oggettiva (andaro) a quella soggettiva (n’andanmo; un noi, peraltro, è anche all’inizio del testo). Le motivazioni della scritta non sono ancora del tutto chiare: Banti – a cui spetta il merito di aver affrontato per primo il problema – vi ha individuato uno scopo di polemica politica, per «asserire pubblicamente che durante il podestariato di Bonaccorso de Palude non tutto era andato bene»37; secondo Livio Petrucci, invece, l’epigrafe «potrebbe voler rispondere, o opporsi preventivamente, ad accuse d’inerzia o d’incapacità nei riguardi del podestà in carica»38; a mio parere i modi verbali presenti sembrano orientare verso questa seconda interpretazione. Forse la chiave risolutiva potrebbe essere offerta proprio dall’identificazione del committente e dall’individuazione della collocazione originaria della lastra. Le due imprese, infatti, non hanno alcun rapporto deittico col testo e appunto questo fatto avvicina la scritta al genere cronachistico. Molto meno problematico è il caso dell’epigrafe senese, che si riferisce all’erezione di un mulino. Ecco il testo39: «MCCXLVI | Al te(m)po | de Gualcieri || da Calcinaia | Podestà Gui|do Striga Ra|nieri Lodi Orla(n)d<i>no || da Casucca lo fe|ice».
Anche questa scritta, comunque, presenta una particolarità: rispetto a quanto avviene normalmente nelle epigrafi, il riferimento deittico esoforico al mulino costruito da Guido Striga, Ranieri Lodi e Orlandino da Casuccia (nel testo cc rende l’affricata palatale sorda intensa) è affidato semplicemente a un pronome, per di più atono (lo), anaforico dunque più che deittico, tanto che, a una lettura decontestualizzata, il testo sembrerebbe una frase tratta da una cronaca e non un’epigrafe completa, per quanto breve. Se dal Duecento ci inoltriamo nel Trecento, restando nell’ambito delle epigrafi incise, il panorama delle scritture esposte in volgare cresce note36 Cfr. almeno M. ZABBIA, I notai e la cronachistica italiana nel Trecento, Roma 1999 (e l’intervento dello stesso studioso in questo Convegno). 37 BANTI, Due epigrafi e una cronaca a confronto cit., p. 267. 38 PETRUCCI, Alle origini dell’epigrafia volgare cit., p. 66 nota 116. 39 Ibid., pp. 120-121.
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volmente, ma i testi che mostrano punti di contatto con le cronache coeve non sono poi molti. Se prendiamo, per esempio, le iscrizioni funerarie, il loro scopo fondamentale è quello di identificare il sepolto (e solo in subordine quello di indicarne la data di morte), e dunque – anche a prescindere dal loro carattere privato – i testi fanno riferimento allo spazio e non al tempo. La stessa cosa può dirsi per le numerose scritte in volgare che ricordano la costruzione di edifici o la realizzazione di opere d’arte, come quelle bolognesi studiate da Bruno Breviglieri40 o questa scritta romana del 1365, conservata a San Giovanni in Laterano, di cui propongo sia l’edizione diplomatica sia quella interpretativa41: –
–
–
«.+. INNOÏE. DNI. AM. ANNO. DNI. M.CCC | LXV. DELLOIMESE. – DEOTODRO. QV|ESSTACOLONNA. FECE. FARE. COLA | SCO. -P LANIMA. DELIELLO. VOCCHA |BELLA. SVO. PATRE». «In no(m)i(n)e D(omi)ni Am(en). Anno D<(omi)>ni M(illesimo) CCC|LXV dello {i} mese de otodro. Qu|essta colonna fece fare Cola | S(an)c(t)o p(er) l’anima de Liello Voccha|bella suo patre».
Si tratta certamente di una notizia – quella dell’edificazione, nel 1365, di una colonna nella cattedrale romana ricostruita dopo un incendio – ma sul piano testuale, se si prescinde dalla presenza della data, siamo alquanto lontani dalle frasi che si leggono nelle cronache. C’è però un esempio notissimo, a Venezia, che fa al caso nostro, che è stato segnalato e pubblicato da Alfredo Stussi42: si tratta della lunga epigrafe della lunetta soprastante una porta murata nel chiostro della Scuola di Santa Maria della Carità, caratterizzata dall’uso di lettere in rilievo e dorate in maiuscola gotica. Come ha notato lo stesso Stussi43, l’epigrafe
40
B. BREVIGLIERI, Il volgare nelle scritture esposte bolognesi. Memorie di costruzioni e opere d’arte, in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 73-99 41 Nella stessa forma, cioè, con cui ho pubblicato il testo in passato: cfr. P. D’ACHILLE, Iscrizioni votive e sepolcrali in volgare dei secoli XIV-XVI, in SABATINI - RAFFAELLI D’ACHILLE, Il volgare nelle chiese di Roma cit., pp. 67-107: 77; D’ACHILLE, Una nota sull’epigrafia volgare a Roma nel Medioevo, in Il romanesco ieri e oggi. Atti del Convegno del Centro Romanesco Trilussa e del Dipartimento di Scienze del Linguaggio dell’Università di Roma «La Sapienza», cur. T. DE MAURO, Roma 1989, pp. 3-12: 7 (rist., col titolo Una nota sull’epigrafia volgare a Roma nel Trecento e nel Quattrocento, in D’ACHILLE, Parole: al muro e in scena cit., pp. 19-28: 23-24). 42 Cfr. A. STUSSI, … lo | dì dela co(n)versio(n) d(e) s(en) Polo cerca ora d(e) bespero fo gran taramoto i(n) Veniexia…, Pisa 1993; Stussi, Epigrafi medievali cit., pp. 166-168. 43 Ibid., p. 167.
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presenta una vera e propria breve cronaca della tragica peste e del terremoto del 25 gennaio 1348 (1347 more veneto). Si tratta di una prosa narrativa ben costruita e non priva di tensione drammatica, dove ricorre il motivo dei vincoli familiari infranti, come nell’introduzione alla prima giornata del Decameron […]. Non stupisce dunque la notizia, riferita dal Tassini, che in seguito quel testo fosse fatto circolare riproducendolo a stampa su fogli volanti.
Ciò dimostra la possibilità di una sua fruizione “libraria”, che anzi si direbbe addirittura preferibile. C’è anche qui un riferimento deittico (questa Scola, con due occorrenze), ma, data la lunghezza del testo, ha un peso ridotto; inoltre la scritta presenta vari altri esempi di questo con semplice valore anaforico. Ecco il testo: «I(n) nome de Dio eterno e d(e)la biada vergene Maria. In l’ano dela Incarnacion | del nostro Signor miser Ie(su)m Cr(ist)o mcccxlvii a dì xxv de çener, lo | dì dela co(n)versio(n) d(e) s(en) Polo cerca ora d(e) bespero fo gran taramoto i(n) Veniexia e q|uasi p(er) tuto el mo(n)do e caçè molte cime de canpanili e case e camini e la glesia de | Se(n) Baseio e fo sì gran spave(n)to che quaxi tuta la çe(n)te pensava d(e) morir e no st(e)te | la tera de tremar cerca dì XI e può driedo que[s]to come(n)çà una gran mortilitad(e) | e moria la çe(n)te d(e) diverse malatie e nasio(n). Alguni spudava sangue p(er) la boca e âlguni | vegniva glanduxe soto li scaii e ale lençene e âlguni vegnia lo mal del carbo(n) p(er) le carne e pa|reva che q(ue)sti mali se piase l’un da l’oltro, çoè li sani dal’infermi (et) era la çe(n)te i(n) tanto spav|e(n)to che ’l pare no voleva andar dal fio, né ’l fio dal pare e durà q(ue)sta mortalitade cerca mexi | vi e sì se diseva comuname(n)tre ch’el iera morto be(n) le do parte d(e) la çe(n)te d(e) Veniexia et i(n) q(ue)sto te(n)|po se trovà eser vardia(n) d(e) q(ue)sta Scola miser Piero Trivisa(n) d(e) Barbana e vivè cerca mexi ii e morì | ello e cerca x di soi (con)pagni e co(n) plu de ccc de q(ue)li d(e) q(ue)sta Scola e fo la Scola in gran derota e | può a dì xx d(e) çugno fo fato vardian miser Iacomo Bon dala çudecha. Ancora in questo ano | ave li fedel cristiani una grandissima garcia da miser lo Papa, che in çascaduna parte ch’eli moria contriti deli soi pecadi, dal dì dela Asension de Cristo infina al dì de | Senta Maria Madalena, sença pena andese ala g[l]oria de vita eterna ala qual sì nde | con[du]ga lo onipote(n)te Dio, Pare e Fiol Sp(i)ri(t)o S(an)c(t)o, lo qual vive e regna in s(e)c(u)la s(e)c(u)lor(um), amen».
3.2. I graffiti A parte quest’unicum, per trovare un rapporto di prossimità maggiore con le cronache dobbiamo guardare a quelle particolarissime scritture
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esposte che sono costituite dai graffiti, nati, per usare le parole di Luisa Miglio44, da quell’esigenza comunicativa che, nei primi secoli dell’Impero o in età medievale, durante l’Inquisizione o la contestazione studentesca, spinse molti ad appropriarsi di spazi non destinati alla scrittura e a trasformarli in pagine di diario, in obituario, in libro di cronaca, in giornale.
Rispetto alle iscrizioni lapidarie, infatti, i graffiti hanno con il manufatto su cui furono incisi un rapporto stretto sì, ma «non di natura complementare o integrativa»45 e questo riduce il peso, all’interno dei testi, della deissi spaziale. È vero che i graffiti funerari si possono accostare alle epigrafi sepolcrali, perché hanno lo stesso scopo «di indicare il luogo di sepoltura di un individuo», ma i graffiti obituari, che sono invece «destinati a tramandare il ricordo della data di morte»46, si avvicinano di più alle cronache. Inoltre, se nei cosiddetti «graffiti di memoria» – che ricordano semplicemente la presenza di un individuo (lo stesso scrivente, il più delle volte) nel luogo in cui avviene l’azione di scrittura e, seppure non necessariamente, la data della sua presenza in loco – la deissi spaziale è ancora essenziale (le scritte dei pellegrini nei luoghi di culto non a caso sono frequentemente aperte dalla formula latina hic fuit), ben diversa è la funzione dei graffiti che Miglio e Tedeschi definiscono «commemorativi»47, destinati a tramandare il ricordo di avvenimenti storico-cronachistici: fatti attinenti alla storia locale (l’elezione di un vescovo, la presa di possesso di una chiesa) oppure alla “grande” storia (l’elezione o la morte di re, papi, imperatori), o ancora particolari eventi naturali (nevicate eccezionali, terremoti, eclissi). Inoltre, rispetto alla maggior parte delle iscrizioni, i graffiti, soprattutto in passato (quando costituivano una pratica di scrittura da considerare per molti aspetti normale e non “eversiva”), potevano essere anche piuttosto lunghi: «negli edifici sacri o civici del tardo medioevo, all’interno come all’esterno di essi, ci si può aspettare, infatti, di trovare testi lunghi, disposti su più righe e quindi talvolta occupanti spazi di considerevole ampiezza»48.
44 45 46 47 48
MIGLIO - TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali cit., p. 605. Ibid., p. 607. Ibid., p. 614. Ibid. Ibid., p. 613.
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Vediamo rapidamente alcuni esempi. Il primo è quello, ben noto, sulla parete destra verso l’abside nella chiesa di S. Zeno a Verona, il cui testo è il seguente49: «1239. | L’Adese piena | de l’Adese me|novò 3 po(n)ti | Preda Novo Nave a dì | 3 ot(obre)»
C’è qui un problema di datazione. Stussi rileva: «l’attestazione precoce d’un perfetto in -ò (e non in -à), la fisionomia complessiva della scrittura e il fatto che con la data dell’affresco non sembra di poter scendere al Duecento inducono a ritenere che si tratti di un graffito per così dire commemorativo dell’evento»50, che certamente si verificò nel 1239 (e non un secolo dopo, secondo una lettura alternativa della data che «il danneggiamento della seconda cifra potrebbe suggerire»)51. Lorenzo Tomasin, tornando sul testo, oltre ad aggiungere un dato linguistico (nel Duecento ci si sarebbe aspettati Adeso e non Adese), ha risolto la questione in questi termini52: La soluzione è a portata di mano, nel senso che basta allargare lo sguardo alla stessa parete dipinta per individuare altre iscrizioni analoghe, tracciate da una mano molto simile, se non proprio identica, a quella che verga il testo apparentemente più antico. E si tratta di iscrizioni riferite a fatti notevoli della storia trecentesca di Verona, come ad esempio il seguente: «1390 dì 25 de zugno fo robà Verona», ripetuto due volte. Posto che lo stato di lingua e la veste paleografica di questi graffiti meglio s’accordano con una datazione tardo-trecentesca o addirittura quattrocentesca, nulla vieta di considerare simili scritte come testimonianza di una seriore attività memoriale non troppo dissimile da quella, ancor più stratificata cronologicamente, che si osserva in altre città italiane dell’epoca – ad esempio, nei graffiti del Palazzo pubblico di Siena [...]
Nulla da obiettare. Però la distanza cronologica tra evento ricordato e momento della registrazione lascia un po’ da pensare, come pure il mutamento di progetto sintattico iniziale («L’Adese piena de l’Adese» ‘L’Adige… (la) piena dell’Adige’), che si giustificherebbe molto di più “in presa diretta”; altrimenti, bisognerebbe ipotizzare un errore di trascrizione, il che conferirebbe al testo il carattere di “copia” normalmente estraneo ai graffiti. 49 50 51 52
STUSSI, Epigrafi medievali cit., p. 163. Ibid., nota 50. Ibid. L. TOMASIN, Su filologia romanza ed epigrafia medievale, «Zeitschrift für romanische Philologie», 132 (2016), pp. 493-526: 521.
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Nel passo riportato Tomasin cita i graffiti senesi, sui quali esiste un esemplare studio di Luisa Miglio, che parla di «stravagante e anonimo diario»53 disteso per oltre un secolo dal 1433 in poi. Ne riporto qui solo qualche esempio: «1433 A di 25 d’aprile se n’a[n]do lo [im]peratore di sena e ando a roma e fe la via di marema | fecciali compania li sinensi insino al ponte a tressa con militi e altri». «1433 | a di 8 di Magio 1433 si levo via l’ofessa tra sanesi e fiorentini». «A di 5 di giugnio 1446 fu fatta la festa di sancta chaterina vergine e martire». «A di 6 di marzo 1447 fu facto papa nicola quinto». «A di […] di marzo 1455 mori papa nicola Quinto». «A di 14 di settenbre Mori papa adriano […] 1523». «[…] | a di 15 d’ottobre ven(ne) la novella | di papa pavolo in gioveddi | a ore 8 di notte 1534».
Anche se non rientra propriamente in questa categoria, in quanto si tratta di una scritta deittica che ricorda la costruzione di un fossato, segnalo, perché poco noto, il trecentesco graffito di Castellarso, tra Pitigliano e Ischia di Castro, che è stato recentemente scoperto e pubblicato da Angelo Biondi54 e che attende ancora uno studio approfondito: «Questu fosso fu facto lu MilleCCCXXVI».
Sul piano linguistico non si può non rilevare la terminazione in -u (normale in area amiatino-maremmana)55 nell’articolo e nel dimostrativo, ma non nel nome maschile e nel participio passato.
53 L. MIGLIO, Graffi di storia, in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 59-71 (la frase cit. è a p. 62). 54 A. BIONDI, Una scritta sconosciuta nel fossato di Castellarso tra Pitigliano e Ischia di Castro, «Biblioteca e società», 27 (2009), 2-3, pp. 6-11. 55 Cfr. A. CASTELLANI, I più antichi testi in volgare. Edizione e commento, Bologna 19762, p. 108.
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Più vicini al genere cronachistico sono vari graffiti quattro-cinquecenteschi recentemente pubblicati ancora da Luisa Miglio, provenienti dalla chiesa di S. Silvestro, a L’Aquila56: «Alli MCCCC68 ad dì octo de se(p)tebru cascò lu fulgminuM ad S(an)c(t)o Silvestro et dene i(n) nella torre». «1481 a dì 8 de abrile fo male tempo». «1497. Fo la moria i(n) Aquila». «MCCCCC a dì 29 de IUlli qu(and)o cascò LU Fulguro A ROMA». «1502 Se come(n)zò la moria i(n) Aq(ui)la». «1508 a dì 8 de aprile cascò bracciu unu de neve et durò p(er) dì et bassò tucti li fructi et ruinò tanti arbori». «fo Lu ter(r)am[uto] ad ore vinti […] et hogni homo fora de Casa p(er) paura. A dìi 23 de o(cto)bro Fo un gran(d)issimo ter(r)amuto ad o(re) 9 de noct(e) et duraro Insino all’ult(im)o del dicto me(se) et La noct(e) de dictu Ult(im)o fo Ter[amu]tu ad or(e)12 de noct(e) ch(e) guastò un ca(n)tone della Torre de questa cella».
La stessa studiosa riporta altri testi, tutti cinquecenteschi, da vari centri italiani57: «1508. A dì 8 d’ap(r)ile avem(m)o la neve XX4 hore» (Loreto Aprutino, S. Maria in Piano). «1531 tempestò forte die 17 aprilis» (Lenta, presso Vercelli, S. Maria dei Campi). «1578 a dì 9 de maggio fece neve nella montagna de Trevi» (Foligno, Palazzo Trinci). «A dì ultimo di iuglio 1590 si oscurì il sole» (Loreto Aprutino).
56 MIGLIO - TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali cit., p. 622. Nell’impossibilità di un’ispezione autoptica, la studiosa ha tratto i testi dalla tesi di laurea di L. LALLI, Cronaca graffita dell’abside della chiesa di S. Silvestro in Aquila (anni 1433-1515), discussa nell’a.a. 1965-66 presso l’Università di Urbino, relatore Augusto Campana. 57 MIGLIO - TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali cit., pp. 622-623.
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«A DÌ 5 DE APRILE 1595 NEVE ET STRINA ALTA DUI PIEDI PER TUTTA LA MARCA» (San Ginesio, Collegiata).
Ne aggiungo uno, dalla cappella della Misericordia di Tortoreto58: «Adì 7 dic(embre) 1572 Gioantonio de Bergamo morse qui a Turtoreto. | Dom(enica) […] majio».
Più ampi quelli, sempre di fine Cinquecento, che si trovano nella chiesetta di S. Rocco, ad Arsoli, che esemplifico con questi due esempi59: «1578 | A di 28 de genaro Jo Achille ven(n)e de Auricula | alla schola in Arsuli». «A dì 25 di magio 1591 Marco de Sciarra, Pacchiarotto et Petragnelo con 790 banditi asculani et del Tronto con 200 a cavalli scaramucciorno sei hore in Arsoli et dettero fuoco a più di 30 case nel borgo. Ci morseno da 18 banditi et doi homini d’Arsoli. Et la gente d’Arsoli per la fame pochi possavano resistere che il grano valeva da queste bande scuti vintisette il rubio, et in Roma arrivò a scuti 35 nel pontificato di Gregorio XIII. Sfrondati milanese, et ucciseno 15 vitelle et 15 somari. Morseno in questo anno gran quantità di genti per la fame et in Arsoli morseno 150 persone».
Come nota ancora Luisa Miglio (riferendosi ai testi da lei pubblicati), «non sarà sfuggita la struttura pressoché identica di tutte le iscrizioni, con la data in incipit»60; una struttura, aggiungo, che è simile a quella che si trova in molte cronache. Gli esempi presentati, provenienti da aree laterali e caratterizzati sul piano linguistico da tratti locali più o meno accentuati, si avvicinano inoltre alle scritture semicolte coeve di cui tra poco ci occuperemo, collocabili nei generi, prossimi alla cronaca, della diaristica e della memorialistica.
58
Il testo è edito s.v. Tortoreto, in Documenti dell’Abruzzo teramano cit., IV, Le valli della Vibrata e del Salinello, 3, Dizionario topografico e storico, Pescara 1996, pp. 808-816: 814. 59 Cfr. W. PULCINI, Affreschi e graffiti nella chiesetta di S. Rocco in Arsoli, «Aequa», 16 (2012), 51, pp. 70-73, da cui ho tratto il secondo passo; il primo è la mia trascrizione del graffito che si legge in una fotografia riportata nello stesso studio. I graffiti erano già stati segnalati da T. PASSERI, Arsoli e i nobilissimi signori Passeri, Roma 1871, da qui deriva, con tutta probabilità, l’accenno che se ne fa in MIGLIO - TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali cit., p. 620. 60 Ibid., p. 622.
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3.3. Cronache brevi come scritture esposte Ci si potrebbe chiedere se esista il caso speculare di cronache così brevi da poter essere accostate alle scritture esposte e in particolare ai graffiti sopra menzionati: ebbene, si possono considerare tali le annotazioni volgari (in caratteri greci) apposte, tra il 1492 e il 1573 sui margini dei libri liturgici del monastero di Ss. Elia e Anastasio a Carbone, oggi in provincia di Potenza61. Menzionerei anche i cosiddetti Annales Reatini, una breve cronaca universale dalla creazione del mondo al 1377, contenente alcune annotazioni che riguardano specificamente la città di Rieti, scritta prevalentemente in latino (a tratti alquanto “volgareggiante”), ma con alcune frasi o parti di frasi in volgare. Riporto solo queste ultime62: […] Anno Domini MCCL. Morio lu dictu imperatore. […] Anno Domini MCCLXVI. Lo re Carlo primo piglao lu rindu de Puglia. Anno Domini MCCLXVIII. Fo sconficto Coradino de die iovis ad XXIII die de mense augusti. Lu dictu Carlo lo sconfisse Coradino in Marsia prope Albam. Anno Domini MCCLXXXVIII. Fo coronato Carlo secundo a rRiete. Anno Domini MCCLVIL. Papa Celestino renunsò lu pa[pa]to. […] Anno Domini MCCCLVI. Se arse in Riete da Sanctu Nicola persì ad Sanctu Francischu con meso ponte. […]
61 Cfr. A.M. COMPAGNA PERRONE CAPANO - A. VARVARO, Capitoli per la storia linguistica dell’Italia meridionale e della Sicilia. II. Annotazioni volgari di S. Elia di Carbone (secoli XV-XVI), «Medioevo romanzo», 8 (1981-1983), pp. 91-132. Queste annotazioni sono state ricordate da Chiara De Caprio nel suo intervento a questo stesso Convegno. 62 Per le varie edizioni del testo (l’ultima delle quali, limitata ai passi in volgare e alla annotazione finale, che è tutta in latino, è quella di B. CAMPANELLI, Fonetica del dialetto reatino, Torino 1896, pp. 159-160) cfr. P. D’ACHILLE - C. GIOVANARDI, La letteratura volgare e i dialetti di Roma e del Lazio. Bibliografia dei testi e degli studi, I, Dalle origini al 1550, Roma 1984, p. 92. Riporto gli stessi passi editi da Campanelli dopo un controllo sul manoscritto (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano lat. 5994, cc. 87v-89v; i passi in volgare sono a cc. 88r e 89r/v). Sciolgo le abbreviazioni (senza segnalarle), metto in corsivo i sintagmi in latino, separo, ove necessario, le parole e seguo l’uso moderno per maiuscole, apostrofi e accenti. Integro tra parentesi quadre un’aplografia (pa[pa]to) e il nome del papa ([Gregorio]) prima del numerale. Segnalo che de Lenevele (o anche de le Nevele, come segmenta Campanelli) potrebbe forse essere corretto in delettevele (o sim.). Altrimenti, poiché il personaggio a cui si riferisce il cronista è certamente Roberto da Ginevra, che divenne l’antipapa Clemente VII, alla base del testo, guasto, del manoscritto potrebbe esserci l’etnico della città svizzera d’origine (Genevense > Ienevense > leneve(n)se > Lenevele) o la località dove risiedette, Villeneuve-lès-Avignon (> Leneuvele > Lenevele). Devo queste ipotesi all’amico Raimondo Michetti. Quanto alla data MCCLVIL, l’amica Claudia Montuschi, che ringrazio, mi suggerisce di interpretarla come 1250 (MCCL) + 44 (VIL, ovvero 50 - 6), cioè 1294.
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Anno Domini MCCCLXVIII. Moreo lu dictu papa [Gregorio] undecimo in mense Aprilis et in dicto anno et mense fuerunt duo papa. Primus vocatus et electus fuit archiepiscopus Vari, qui vocatus Bartolomeus postea vocatus papa Urbanus sestus. L’altru depò quistu fo chiamato lu cardinale de Lenevele. Et per occasione ista fo la corte et li cardinali in maxima discordia. Et Italia in bria remase, principale el territorio romano. […]
Come si vede, il testo presenta molti tratti linguistici tipici dell’area sabina63. 4. Le scritture esposte nelle cronache Vorrei affrontare ora il terzo tema che ho annunciato all’inizio: la presenza di scritture esposte all’interno delle cronache, grazie alle quali disponiamo di testi che altrimenti non ci sarebbero pervenuti. Il caso più noto e importante è quello della Cronica dell’Anonimo romano, che nel cap. XVIII contiene la descrizione delle pitture allegoriche fatte eseguire nel palazzo del Campidoglio da Cola di Rienzo, pitture che erano corredate da didascalie64.
63 Segnalo almeno: la conservazione (se pure non generalizzata) della -U finale atona latina; la metafonesi in quistu (il femminile ista sarà latinismo) e in rindu ‘regno’; il particolare consonantismo di questa parola, che si spiega per reazione all’esito -ND- > -nn- (il lat. -GN- in quest’area evolve in -n-); il betacismo in Vari ‘Bari’ (in contesto latino) e forse anche nell’enigmatico Lenevele; l’esito di bria ‘briga’, cioè ‘situazione complicata e difficile’; l’aggettivo meso ‘mezzo’ e gli indeclinabili depò ‘dopo’ e persì ad ‘fino a’; forme verbali come fo, morio/moreo e piglao. Sul piano sintattico, da rilevare l’anticipazione col clitico dell’oggetto (tematico) posposto al verbo (Lu dicto Carlo lo sconfisse Coradino). Documentano la tardiva datazione del testo il mancato rispetto della legge Tobler-Mussafia in se arse e il toscaneggiamento nell’articolo maschile el contrapposto al locale lu/lo (la distinzione tra maschile e neutro non è qui rigorosa) e nella desinenza del passato remoto renunsò ‘rinunciò’, usato transitivamente (con -s- postnasale ipercorrettistica invece della -z- corrispondente alla palatale toscana). Per un inquadramento linguistico dell’area sabina nel periodo medievale rimando al fondamentale studio di U. VIGNUZZI, Il volgare nell’Italia mediana, in Storia della lingua italiana, cur. L. SERIANNI - P. TRIFONE, III, Le altre lingue, Torino 1994, pp. 329-372. 64 Oltre a quelli sulla facciata del Campidoglio, l’Anonimo ricorda anche l’affresco corredato da scritte che Cola di Rienzo fece dipingere in Sant’Angelo in Pescheria («Agnilo, agnilo, succurri alla albergatrice nostra» e «Veo lo tiempo della granne iustizia e ià taci fi’ allo tiempo» (Anonimo romano, Cronica cit., p. 151). Sulle pitture e sulle immagini cfr. F.A. UGOLINI, Simboli profetici nella “Vita di Cola di Rienzo” dell’Anonimo trecentesco romano, in UGOLINI, Scritti minori di Storia e Filologia italiana, Perugia 1985, pp. 443-459 (che evidenzia i rapporti tra le pitture e la simbologia gioachimita); S. ROMANO, Eclissi di Roma. Pittura murale a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V (1295-1431), Roma 1992, pp. 278-280; M.M. DONATO, Immagini e iscrizioni nell’arte ‘politica’ fra Tre e Quattrocento,
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Ecco i testi65: «Questa ène Roma». «Queste citati per la iniustizia pericolaro e vennero meno». «Sopra onne signoria fosti in aitura. / Ora aspettamo qui la toa rottura». «Questa ène Italia». «Tollesti la balia ad onne terra / e sola me tenesti per sorella». «D’onne virtute fosti accompagnata. / Ora per mare vai abannonata». «O summo patre, duca e signor mio, / se Roma pere, dove starraio io?». «Questi so’ li potienti baroni, riei rettori». «Questi soco li mali consiglieri, sequaci delli nuobili». «Questi soco li faizi officiali, iudici e notari». «Questi soco li pupulari, latroni, micidiari, adulteratori e spogliatori».
Come ha segnalato Claudio Ciociola nel suo studio fondante sul «visibile parlare», la descrizione delle scritte (oltre che delle pitture) da parte dell’Anonimo è importante anche sul piano terminologico, per la «adozione con variatio stilistica di una precisa terminologia tecnica in volgare nella designazione dei tituli, con due occorrenze di soprascritto, sei di lettera, una di vierzo (verbo reggente è sempre ‘dire’)»66. Sull’attendibilità di questa testimonianza non ci sono dubbi. Che poi il testo proposto, quello della pur benemerita edizione critica della Cronica a cura di Giuseppe Porta, corrisponda esattamente all’originale, è un altro discorso: non è affatto detto che le scelte grafiche dell’Anonimo e della sua tardiva tradizione manoscritta siano le stesse di chi ideò le scritte; per esempio, è probabile che anziché iustizia il testo recasse iustitia; è quasi certamente da escludere
in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 343-396: 353-355; INTERNULLO, Ai margini dei giganti cit., pp. 327-328 (con ulteriore bibl.). Donato ricorda opportunamente anche la scritta alla porta di San Giorgio in Velabro: «In breve tiempo li Romani tornaraco allo loro antico buono stato» (Anonimo romano, Cronica cit., p. 151). 65 Li riporto attingendo, ovviamente, all’ed. Porta (ibid., pp. 145-147). 66 CIOCIOLA, «Visibile parlare»: agenda cit., § 19.
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che si leggesse aitura e faizi piuttosto che altura e falzi, visto che la iotizzazione di l preconsonantica compattamente documentata nella Cronica non ha riscontri nei testi romani medievali67. Altre volte le cronache conservano quelle che potremmo definire “scritture esposte effimere”, non destinate a durare nel tempo. In età contemporanea, per esempio, si possono ricordare le scritte risorgimentali dipinte sui muri di Roma riportate da vari cronisti68; nelle cronache medievali, c’è proprio un genere di scritture esposte che si è conservato soprattutto grazie alle cronache, quello delle scritte in versi che corredavano le cosiddette “pitture infamanti”, studiate alcuni anni fa da Gherardo Ortalli sul piano storico e da Franco Suitner dal punto di vista letterario69. La pratica della pittura infamante è ampiamente descritta dagli statuti di molte città centrosettentrionali. Ben presto alla rappresentazione del condannato si aggiunse un’etichetta identificativa, che poi si sviluppò in un breve componimento in rima. Il più antico esempio documentato, risalente al 1311, è la scritta di Riccardo Spadatratta, inserita nella Cronaca todina di Ioan Fabrizio degli Atti, capitano ghibellino della città umbra70: « […] lo decto meser Ricardo fo dipencto im piaza et a le porte, per traditore, cum uno breve che diceva: «Io so Ricardo Spadatracta: / el tradimento ordinai et non venne facta».
Particolarmente numerosi sono gli esempi riportati in una «cronaca senese (dal 1170 al 1431) conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri», che Suitner ha pubblicato sulla base del codice A.VII.44 della Biblioteca Civica di Siena71. Ne riporto a mia volta alcuni: 67
Cfr. F.A. UGOLINI, Per la storia del dialetto di Roma nel Cinquecento. I Romani alla Minerva, un’improbabile «madonna Iacovella» e un pronostico di un conclavista, «Contributi di dialettologia umbra», 3/1 (1983), pp. 52-62; G. ERNST, Die Toskanisierung des römischen Dialekts in 15. und 16. Jahrhundert, Tübingen 1970, pp. 75-80; V. FORMENTIN, Frustoli di romanesco antico in lodi arbitrali dei secoli XIV e XV, «Lingua e stile», 43 (2008), pp. 2199: 90. 68 Cfr. L. CECCARELLI, Voci scritte sui muri, «Strenna dei romanisti», 54 (1993), pp. 5162. 69 Cfr. G. ORTALLI, “… pingatur in Palatio…”. La pittura infamante nei secoli XIIIXVI, Roma 1979 (nuova ed. 2015); F. SUITNER, La poesia satirica e giocosa nell’età dei comuni, Padova 1983, pp. 179-212. 70 Cfr. F. MANCINI, La Cronaca todina di Ioan Fabrizio degli Atti, «Studi di filologia italiana», 13 (1955), pp. 79-166: 108. Il passo si può leggere anche in Le cronache di Todi (secoli XIII-XVI), ed. G. ITALIANI [et al.], Firenze 1979, p. 156. 71 SUITNER, La poesia satirica e giocosa cit., pp. 184 ss. Cfr. anche ORTALLI, “… pingatur in Palatio…” cit., pp. 102-110.
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«Voi che legete andate a questi brevi, / legete el mio e fiavi manifesto, / che per dare più molesto / al mio comuno per più tradimento / voltai la via del suo intendimento» (Orlando Malavolti e Antonio da Lataia). «Voi che guardate queste dipenture / mirate me, che per la mia avaritia / tradii con gran niquizia / la patria mia, per avere fiorini / Siena vendei a’ falsi Fiorentini». «Giurai in mano de’ traditori molesti, / e promisermi questi / di farmi rico e gli altri qui dipenti, / e robaremo gli amici e parenti». «Io giovanetto non sapendo el fatto / che fare volevano questi traditori, / [seguendo i loro errori] / in ballo in questa danza, / no mi scusa la mia ignoranza» (Francesco di Giglio Malavolti). «El malvagio consiglio di messer Orlando / m’à qui condotto per farmi vedere; / seguendo el suo volere, / io dipento qui per disleale, / così pategli la pena del mio male» (Domusdeo Malavolti). «Crudel rubaldo cavalier superbo, / privato di mia schiatta e d’ogni onore, / ingrato alla mia patria e traditore, / fra costor pendo iniquo ed acerbo» (Antonio di Mattia del Meglio).
Sia la deissi personale, che si esprime in molte formule autopresentative, sia quella spaziale endoforica, che a volte fa riferimento proprio ai versi, indicati come brevi, sia la struttura metrica di questi testi, che, come ha notato Furio Brugnolo, hanno spesso lo stesso schema metrico, quello dei congedi, «col primo endecasillabo irrelato e due distici metricamente asimmetrici (ABbCC)»72, richiamano altri esempi di “poesia per pittura”: quella civile rappresentata negli affreschi del Buono e del Cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti e quella del Trionfo della morte e della Danza macabra. Accostabile a questa produzione è anche un’epigrafe veneziana, quella della colonna di infamia di Baiamonte Tiepolo, di cui riporto il testo, edito anch’esso da Stussi73: «[De Baia]m[onte fo] | questo tereno e mo | p(er) lo so iniquo tradime(n)to | sé po[s]to in chomu(n) p(er) altru[i] | [spav]ento e (per) mostrar | [a tuti] senpre seno».
Infine, le cronache conservano talvolta epigrafi “letterarie”, che non 72 F. BRUGNOLO, “Voi che guardate…”. Divagazioni sulla poesia per pittura del Trecento, in «Visibile parlare». Le scritture esposte cit., pp. 304-339: 325. 73 STUSSI, Epigrafi medievali cit., p. 157.
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furono mai realizzate: è il caso dell’epitaffio in versi di Federico II di Svevia, con cui si conclude la “Cronaca volgare” isidoriana, testo tre-quattrocentesco abruzzese, che costituisce la traduzione dell’epitaffio latino, anch’esso in versi rimati, che si legge nel Chronicon originale74: «Frederico secundo re de Secilia […] fo l’ultimo ad sedere nella sedia imperiale. Et la soa fine fo in Apullia ad uno castello Fiorensola chiamato. Lo cui corpo fo portato in Sicila et nella cità de Palermo fo sepolto circa l’anni Domini milee CCLI allora correnti. Nel cui tumulo de la soa sepultura stando scripti li versi del sou pifafio che so quisti: «Se lla origene del nobile sangue / senso, probità, virtù et ricchizi / resistentia facessero et mitigizi / alla crudele morte che sempre langue / non forria della vita extinto / re Federico che qui iace dinto. / Mille ducento cinquanta più che uno / erano cursi da sì nacque colui / che cce portò salutifero duno, / quando l’anima del re Federico / alli vermi lassò lo corpo mendico; / passò de questo mondo in quella dia / che sse fa la festa de santa Lucia». Deo gratias Amen».
5. Cronache e scritture semicolte Come ho anticipato all’inizio, vorrei concludere trattando rapidamente dei rapporti tra cronache e scritture semicolte. Il termine semicolto ha avuto successo negli studi linguistici italiani grazie a un saggio di Francesco Bruni che tratta di due volgarizzamenti medievali e degli “errori” di traduzione che presentano75; lo stesso Bruni ha poi “lanciato” l’etichetta di «italiano dei semicolti» (o «italiano semicolto»), per indicare quella varietà linguistica che in precedenza veniva definita piuttosto «italiano popolare», facendo riferimento in particolare alle sue manifestazioni scritte76.
74
La “Cronaca volgare” isidoriana. Testo tre-quattrocentesco di area abruzzese, ed. P. D’ACHILLE, L’Aquila 1982, pp. 219-220. Cfr. anche ibid., pp. 48-51, dove è riprodotto pure l’epitaffio in latino (tramandato anche dalla Compilatio Chronologica di Riccobaldo Ferrarese), che è il seguente: «Si probitas, sempsus, virtutum copia, census, / nobilitas orti possent resistere morti, / non fuerit extinctus Fridericus qui iacet intus. /Annis millenis bis centum quinque denis /dives mendicus decessit rex Fridericus / illo namque die celebratur fextus Lucie». La data 1251 del testo volgare in corrispondenza del 1250 indicato nel testo latino si spiega con lo stile bizantino. 75 F. BRUNI, Traduzione, tradizione e diffusione della cultura: contributo alla lingua dei semicolti, in Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana. Atti del Seminario tenutosi a Perugia il 29-30 marzo 1977, Perugia 1978, pp. 195-234: 195-196. 76 F. BRUNI, L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura. Testi e documenti,
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Vediamo la definizione del termine che ne ha dato recentemente Rita Fresu77: Con il termine semicolto si designa lo scrivente che si serve dello strumento linguistico in modo deviante rispetto alla norma corrente, condivisa e accettata, e il cui comportamento linguistico per tale motivo è soggetto a forte stigmatizzazione sociale.
Si dovrebbe parlare di italiano dei semicolti, dunque, soltanto dopo che la norma è stata codificata e quindi solo a partire dalla metà del Cinquecento, non prima, quando una norma esplicita di riferimento non esiste. Ogni tanto, invero, l’etichetta di semicolto è stata riferita anche a qualche autore quattrocentesco, ma in genere i testi cronachistici dell’epoca vengono fatti piuttosto rientrare nella “prosa media” e presentano i tratti propri delle diverse koinài regionali. Le prime cronache scritte nell’italiano dei semicolti (pur se fortemente caratterizzato sul piano diatopico) risalgono appunto al Cinquecento: una delle più antiche se non forse la più antica, per la quale si dispone di un’edizione affidabile e di un ampio esame linguistico, è costituita dal diario degli anni 1544-1557 di Giorgio Franchi, parroco di Berceto, un paese dell’appennino emiliano in provincia di Parma, pubblicato (col titolo di Nove) e studiato da Giovanni Petrolini e riesaminato di recente anche da Enrico Testa, da cui riporto un breve brano78: Nocta che dalli 10 di zugno perfine a ozi, che è alli 25, li spagnolli e quelli dil Papa robone più de dieci milia co di bestiamo grosso alli poveri contadini del parmigian et tuto lo conducevano dellà del Taro; et quando non atrovavane bestiame, pilgiavani li poveri homini et li faciaveni fare talia, dandoli crodelissimi tromenti; vergognavani donzelle con mille desonestate, tanto che si pole chiamare asasinamenti, et non guere, qualle faceva fare Sua Sanctità et Sua Maistà per mantenire Christiani.
Torino 1984, pp. 144-196 e 401-433, in particolare pp. 170 ss. Cfr. anche P. D’ACHILLE, L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana cit., II, Scritto e parlato, pp. 41-79. 77 R. FRESU, Scritture dei semicolti, in Storia dell’italiano scritto cit., III, pp. 195-223: 195. 78 G. FRANCHI DA BERCETO, Nove. Diario di un paese dell’Appennino (1544-1557), ed. G. PETROLINI, Parma 1980; PETROLINI, Un esempio d’“italiano” non letterario del pieno Cinquecento, «L’Italia dialettale», 44 (1981), pp. 21-117; 47 (1984), pp. 25-109; E. TESTA, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Torino 2013, pp. 33-41 (il brano citato è a p. 36).
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Ho già accennato al rapporto tra la cronachistica e la memorialistica. Varrà la pena di richiamare il fatto che, come notato da Bruni, uno dei caratteri fondamentali del semicolto è quello di non saper andare oltre l’autobiografismo, all’interno del quale, infatti, si collocano le lettere e i diari79. Per le cronache dei semicolti si può parlare di un autobiografismo mediato: infatti, esse riescono a diventare racconto di fatti del presente, ai quali gli scriventi hanno assistito, ma non storia del passato, anche quando gli eventi raccontati non coincidono cronologicamente con il momento dell’enunciazione. Non credo tuttavia che sia illecito considerare questi particolari testi semicolti come gli epigoni della cronachistica volgare medievale, che ha non di rado un particolare rapporto con l’oralità e una medietà linguistica che la tiene ben lontana dalla prosa d’arte. La produzione semicolta, del resto, si caratterizza – a dispetto di quanti hanno in passato considerato l’italiano popolare come l’italiano del futuro, l’italiano «avanzato» – per la sua conservatività, che risulta chiaramente sia sul piano grafico, sia anche nella fedeltà a istituti che la produzione culta ha abbandonato: pensiamo al successo dell’ottava e di altri istituti poetici ormai arcaicissimi nei popolari poeti a braccio, attivi soprattutto in Toscana e nel Lazio80. Proprio parlando del diario di Giorgio Franchi, Testa81 afferma che […] racconta […] [i]n maniera assai poco moderna: fornisce per lo più numeri […] o lunghi elenchi di nomi […] distribuendo le notizie […] in base all’ordine progressivo dei giorni dell’anno. Nel fare ciò adotta formule del linguaggio cancelleresco (con Adì… o Nocta che adì… invariabilmente si aprono le sequenze del Diario) e procede secondo uno schema, mentale e compositivo, che risente più della cronachistica medievale che delle analitiche intraprese storiche a lui contemporanee.
C’è poi un particolare genere testuale della produzione semicolta che, avvicinandosi alla cronaca ed essendo anche una scrittura esposta, mi permette di chiudere il cerchio saldando i tre elementi del titolo: quello delle tavolette di ex voto, che non era sfuggito ad Armando Petrucci82. Spesso questi testi, che oggi si direbbero “multimodali” e che costituiscono documenti significativi della cultura e della religiosità popolare, offrono la rap-
79 «[…] lettere e diari sono le specie di un genere unico, l’autobiografia, parziale (affidata al frammento epistolare), o integrale» (BRUNI, L’italiano cit., p. 175). 80 Basti in questa sede il riferimento a L. SERIANNI, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma 2009, pp. 261-263. 81 TESTA, L’italiano nascosto cit., pp. 35-36. 82 PETRUCCI, La scrittura cit., pp. 109-111.
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presentazione del miracolo corredata da una scritta che lo racconta (a volte anche in prima persona). Tra gli esempi più antichi, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, ci sono le tavolette del santuario di Santa Maria della Quercia, a Viterbo; ne riporto due, della fine del secolo XV83: «Frate Lorenzo da Piano Casta(n)gnaro essendo infermo de | grave infermita et facti molti remedii [con] medecinali | ultimo saraco(m)manò alla V(er)egene Maria in questo luo|co et ebe la gratia an(no) D(o)m(in)i 14[..]». «Antrea da Motiliano avenno la freve aricoma|nas a la Madonna del Ce<r>qua e fu liberato».
Esempi più tardi si hanno un po’ dovunque, in Italia84. Ne riporto uno, seicentesco, che ho ricavato dalla rete: si tratta di una delle tavolette conservate nel santuario della Madonna del Bagno, presso Deruta (detta peraltro anch’essa Madonna della Quercia), caratterizzate dal fatto di essere dipinte su ceramica: «1667 || Christofono merciaro di Casalina | messe sopra la cerqua la ssa im(m)agine e | raccomandandoli la sua moglie agoniza(n)|te retornato a Casalina trovò la moglie | fuora di letto con perfetta sanità e che | scopava la casa». Certo, mi si obietterà facilmente che testi del genere rientrano nel campo dell’esperienza privata e individuale, ben al di qua degli orizzonti di chi scrive cronache e in effetti il rapporto con questo genere testuale si potrebbe istituire solo riferendosi al concetto più ampio di testo narrativo. Ma se noi considerassimo le tavolette non isolatamente bensì nel loro complesso, potremmo affermare che il “macrotesto” a cui appartengono sia una sorta di cronaca che racconta la funzione taumaturgica svolta nel corso del tempo dall’immagine venerata nel santuario.
83 Cfr. A. CAROSI - G. CIPRINI, Gli ex voto del santuario della Madonna della Quercia di Viterbo. Immagini e testimonianze di fede, Viterbo 1992; i due testi sono editi anche in D’ACHILLE, Didascalie e “istorie” quattrocentesche nel Lazio cit., p. 114. 84 Manca purtroppo un censimento complessivo, analogo a quello che è stato fatto per l’area (certamente molto più ristretta) della Svizzera italiana: Inventario degli ex voto dipinti del Ticino, cur. A. GAGGIONI - G. POZZI, Bellinzona 1999.
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6. Conclusioni Sono arrivato alla fine del mio discorso, in cui ho cercato di individuare affinità, parallelismi e rapporti tra cronache, scritture esposte e testi semicolti. È però innegabile che le differenze siano maggiori delle analogie: le scritture esposte rientrano tra i “testi brevi”85 e quindi non è possibile sostenere che la dispositio, sulla cui importanza nel campo storiografico ha giustamente insistito Gian Mario Anselmi nel suo intervento inaugurale, rivesta per esse particolare importanza: non può averla per costituzione (così come non può averla per le scritture semicolte, che non si distaccano se non in parte dall’autobiografismo). Altrettanto estranee ai nostri testi risultano le osservazioni che sono state fatte in vari interventi che mi hanno preceduto sulla stratificazione testuale, la trasmissione manoscritta e la complessità linguistica delle cronache medievali. Ma Marcello Barbato nel suo intervento ha definito le cronache come «memorie di avvenimenti contemporanei o recenti»; ebbene mi pare che questa medesima funzione memoriale sia propria delle scritture esposte e dei testi semicolti che abbiamo passato rapidamente in rassegna. Su un piano più propriamente storiografico, infine, non posso che riprendere, per quello che riguarda le epigrafi, le parole con cui si conclude l’intervento di Banti che ho citato in apertura86: Le epigrafi commemorative di avvenimenti dovute all’iniziativa di committenti privati […] costituiscono un genere particolare di fonti storiche. È metodologicamente corretto e opportuno confrontarle con le testimonianze […] delle cronache; ma esse richiedono un ascolto attento anche quando il loro messaggio non trova alcun supporto in fonti storiche di altro tipo. [...] Infatti, a questo genere di fonti storiche si dovrà soprattutto chiedere la testimonianza degli interessi, del sentire, della mentalità dei committenti, e, più generalmente, di come hanno sentito e vissuto, essi e i loro contemporanei, quegli avvenimenti storici che hanno voluto commemorare.
Quanto ai testi semicolti, è evidente che «quando non si limitano a narrare vicende private, ma comprendono almeno in parte eventi di carattere storico, […] possono […] essere utili come documenti di una “storia vista dal basso”»87 e dunque si possono accostare alle cronache propriamente dette.
85 86 87
Cfr. D’ACHILLE, Riflessioni sull’epigrafia commemorativa cit. BANTI, Due epigrafi e una cronaca a confronto cit., p. 268. P. D’ACHILLE - C. GIOVANARDI, Esiste la storiografia semicolta? Questioni generali e casi particolari, in Storia della lingua e storia. Atti del II Convegno ASLI Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Catania, 26-28 ottobre 1999), cur. G. ALFIERI, Firenze 2003, pp. 255-302: 256-257.
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JAMES HANKINS LEONARDO BRUNI AND MACHIAVELLI ON THE LESSONS OF FLORENTINE HISTORY
The subject of this article, at first sight remote from the theme of vernacular chronicles, requires a few words of justification. Leonardo Bruni wrote Historiae florentini populi (1416-1442); Machiavelli Istoriae Fiorentine (1520-1525). The titles may appear similar but the difference in wording is significant. In fact the difference points to a deeper fault line separating the aims of the two historians. Both historians are constructing “narratives” in the sense used by modern political journalists: they produce readings of the past designed to influence the actions of statesmen in their own day1. Both historians are concerned to improve their city’s performance in internal governance and foreign relations. Both regard factionalism as the major obstacle to Florence’s success throughout its history. But the solutions to the problem of factionalism that Bruni and Machiavelli each propose are mutually contradictory.
1 J. HANKINS, Teaching Civil Prudence in Leonardo Bruni’s «History of the Florentine People», in Ethik - Wissenschaft oder Lebenskunst? Modelle de Normenbegründung von der Antike bis zur Frühen Neuzeit, cur. S. EBBERSMEYER - E. KESSLER, Münster 2007, pp. 143157; published online in expanded form under the title, A Mirror for Statesmen: Leonardo Bruni’s «History of the Florentine People», on DASH: Digital Access to Scholarship at Harvard, <https://dash.harvard.edu/handle/1/2958221/>; G. IANZITI, Writing History in Renaissance Italy: Leonardo Bruni and the Uses of the Past, Cambridge Mass. 2012, cap. 6; M. JURDJEVIC, A Great and Wretched City: Promise and Failure in Machiavelli’s Florentine Political Thought, Cambridge Mass. 2014. On Bruni as an historian in general v. R. FUBINI, Storiografia dell’umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Rome 2003, capp. V-VII; IANZITI, Writing History; on Machiavelli as an historian in general v. F. GILBERT, Machiavelli and Guicciardini: Politics and History in Sixteenth-Century Florence, Princeton 1965; G.M. ANSELMI, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; M. MARTELLI, Machiavelli e la storiografia umanistica, in La storiografia umanistica. Atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), I, Messina 1992, pp. 113-152.
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Bruni, as the chancellor of the Priors, representing the Guilds and People of Florence, sees the Popolo – the broad middle ranks of society – as the key to the city’s stability and strength. He writes not only as the historian of the People but as their partisan. He wants the middle-class party, represented above all by the institution of the Priorate, to be empowered to govern the state. Magnates and the lowest of the plebs should be excluded from office. The former were too arrogant to rule well, the latter too vicious and passionate. Magnates who refused to moderate their behavior were rightly exiled. The Ordinances of Justice (1293/1295), which excluded the magnates from government, was a wise institution that should be preserved at all costs. Powerful popolani should participate in the regime only if they were capable of living as equals with their fellow citizens. Machiavelli, on the other hand, famously saw Florence as divided into two humors, the nobles and the people: the one wanted to command, the other not to be commanded. For him the difference between the magnate families excluded by the Ordinances and powerful popolani was superficial; they shared the same lordly humor; and the prospect of getting nobles to behave in a more egalitarian fashion was unrealistic, a violation of the laws of political physiology. In his late period, the period of the Istorie, Machiavelli proposed that the only way to end the toxic factionalism of Florence and channel the energies of class conflict in a positive direction – imitating the Roman republic and its salutary tumulti – was to introduce a radical change of constitution. The new constitution would break entirely with Florentine republican traditions. It would be designed to include every social class in the city’s government and disperse power among them in such a way as to defuse violent conflict, resolving clashes of interest through institutional devices. In this way the city would achieve a higher degree of unity and virtù than it had ever had in its previous history. Bruni and Machiavelli thus had completely different advice for Florentine statesmen, advice they justified each by his own interpretation of Florentine historical sources. Books II through VII of his narrative Bruni constructed from a careful selection and adaptation of materials from vernacular chronicles, principally Giovanni Villani’s. Machiavelli, in order to tell a different story with a different moral, was forced to go back to those same chronicles, make a different selection of materials, and interpret them differently2. Thus the Florentine chroniclers of the fourteenth 2 A.M. CABRINI, Le «Historiae» del Bruni: risultati e ipotesi di una ricerca sulle fonti, in Leonardo Bruni cancelliere della Repubblica di Firenze. Atti del Convegno di Studi (Firenze, 27-29 ottobre 1987), cur. P. VITI, Firenze 1990, pp. 247-319: 275-276.
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century were present, subterraneously as it were, in the histories of the two great Florentine political thinkers. In going back to the chroniclers Machiavelli, in effect, was carrying on a silent historiographical debate with Bruni, a dialogue with the dead, questioning Bruni’s choices as to what details were most pertinent, what were the real motivations of the historical actors, what were the near and long-term consequences of decisions made by those actors, what were the true dynamics of Florentine political life, and above all, what were the real lessons to be drawn from Florence’s history. Machiavelli’s wrestling match with Bruni’s interpretation is far fiercer and more extensive than one might expect from the one passing criticism he makes of him in the preface to his own work3. «Con quali ordini e modi nello scrivere procedevano» To understand Machiavelli’s debate with Bruni, we must begin with an overview of their sources and methods4. In Bruni’s case we must consider not only the Historiae but also the shorter De temporibus suis. The latter is sometimes referred to as an autobiography or a memoir, though it is neither; in fact it is a continuation of the Historiae in abbreviated form, a form Bruni referred to as commentarii, with some personal anecdotes added5. Between these two works Bruni employs no fewer than four distinct historiographical methods. In the celebrated first book of his Historiae, which covers Florentine history from its origins to 1250, Bruni has seemed to a number of modern historians to be practicing something like critical history6. He briskly 3 V. below, note 22. 4 For Bruni’s sources v. CABRINI, Le «Historiae»; and the apparatus to Leonardo Bruni,
History of the Florentine People, ed. J. HANKINS, 3 voll., Cambridge Mass. 2001-2007; the documention assembled by E. SANTINI for his edition, Leonardo Bruni, Historiarum florentini populi libri XII, in R.I.S.2, 19/3, Città di Castello-Bologna 1914-1926, is designed, in the tradition of Quellenkritik, to evaluate the accuracy of Bruni’s history and to identify new factual information not present in previous sources. For Machiavelli’s sources v. N. Macchiavelli, Istorie fiorentine, in Machiavelli, Opere storiche, edd. A. MONTEVECCHI - C. VAROTTI, 2 voll., Roma 2010 (Edizione Nazionale delle opera di Niccolò Machiavelli, II), I, pp. 77-446 and II, pp. 449-785; a useful specialized study highly relevant to this article is A.M. CABRINI, Per una valutazione delle «Istorie Fiorentine» del Machiavelli. Note sulle fonti del Secondo Libro, Firenze 1985; v. also the remarks of F. BAUSI, Machiavelli, Roma 2005, pp. 262-265, summarizing the recent literature on the subject. 5 IANZITI, Writing History cit., pp. 67-68, 274-276. 6 E. SANTINI, Leonardo Bruni Aretino e i suoi «Historiarum florentini populi libri XII», Pisa 1910; for others who embraced this conception of Bruni as a critical historian, v. IANZITI, Writing History cit., pp. 7-8, with bibliography on p. 315, notes 1-2.
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dismisses the beloved ethnocentric legends of the chroniclers, classical and Biblical, and begins where the ancient historical narratives began, namely with the foundation of Florence in the first century BCE. The foundation narrative is based carefully on Livy, Sallust, and Cicero. There is a look back to the Etruscans, whose history Bruni reconstructs using Livy, Plutarch, Vergil (and his commentator Servius), Horace, Pliny and Dionysius of Halicarnassus7. For imperial and medieval Florence Bruni uses Orosius, Petrus Diaconus, Einhard’s Vita Karoli Magni, and, for the high middle ages, Giovanni Villani’s chronicle. The result is a radically new, and much more critical, history of early Florence. It was this book that earned Bruni the accolade of “the first modern historian”, in the sense of critical historian, from scholars since the time of Berthold Luis Ullman8. But his method in the next seven books would seem to undermine that judgement. For in these books Bruni uses a second method – quite similar, in fact, to the method used by Machiavelli throughout his history -- which could be described as a selective rewriting of a single narrative source, with occasional side-glances towards other sources. Throughout Books II through VIII, Bruni mostly follows Giovanni Villani’s Cronica nuova, including the continuation down to 1366 made by Villani’s brother Matteo and Matteo’s son Filippo. Before that date he had occasionally relied on the chronicle of Marchionne di Coppo Stefani, and for the two decades from 1366 to 1386 the latter became his main narrative guide9. But two-thirds of the way through Book IX he was faced with a dearth of narrative sources which led him to invent a third, indeed revolutionary, method of historical writing. Even before 1386, when Stefani’s chronicle ended, there was no single source that could provide all the material Bruni needed. His story had now come down into the period of living memory, and it is clear that he was searching widely for other narrative materials preserved by his contemporaries, including Goro Dati, Giovanni Morelli, the Minerbetti chronicler, the Anonimo Fiorentino and possibly others as 7 G. CIPRIANI, Il mito etrusco nella Firenze repubblicana e medicea, «Ricerche storiche», 5 (1975), pp. 257-309. 8 B.L. ULLMAN, Leonardo Bruni and Humanist Historiography, «Medievalia et Humanistica», 4 (1946), pp. 45-61: 61; for criticism of this claim see IANZITI, Writing History cit., cap. 1. 9 V. the apparatus in Bruni, History cit.; the editions cited there are Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G. PORTA, 3 voll., Parma 1990-1991; Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani, ed. PORTA, 2 voll., Parma 1995; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, ed. N. RODOLICO, in R.I.S.2, 30/1, Città di Castello 1903.
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well. For the Ciompi revolt of 1378 he clearly used the chronicle of Alamanno Acciaiuoli which existed in many copies and could easily have been brought to his attention by Alamanno’s descendant, Angelo Acciaiuoli10. These sources solved some of his problems, but not all. None of them provided sufficient materials for that comprehensive picture of political dynamics, both internal and external, which it was one of Bruni’s aims as an historian to provide. By this time, however, Bruni was the chancellor of Florence; he had assumed this role in 1427, about a year or two before he published the first six books of his history (before April 1429)11. He was now sitting in the middle of an archive in the Palazzo Vecchio and had ready access to the registers containing the Florentine state correspondence (the missive, whose composition was his chief responsibility as chancellor), reports of ambassadors, copies of treaties, financial records, legislative acts and minutes of Florentine consultative assemblies (the Consulte e practiche)12. It is clear that as time went on, and especially from the beginning of Book IX, Bruni made increasingly wide use of this documentation, much of it composed by his mentor and predecessor as chancellor, Coluccio Salutati, whose distinctive hand he would have seen frequently in the registers. In third volume of the I Tatti edition of Bruni’s history the Index of Archival Sources lists well over a hundred documents that Bruni must have consulted for the last three books of his history. Thus circumstances made Bruni the first historian in the Western tradition to compose a history based principally on sources in government archives13. 10 Angelo Acciaiuoli served with Bruni on the Ten of War and was the dedicatee of his Commentaria rerum graecarum (1439), a paraphrase of Xenophon’s Hellenica. Alamanno’s chronicle may be found in Alamanno Acciaiuoli, Cronica (1378), in Il tumulto dei Ciompi, ed. G. Scaramella, R.I.S.2, 18/3, Bologna 1934, pp. 13-34. 11 J. HANKINS, Notes on the Composition and Textual Tradition of Leonardo Bruni’s «Historiarum Florentini populi libri XII», in Classica et Beneventana: Essays Presented to Virginia Brown on the Occasion of her Sixty-Fifth Birthday, cur. F.T. COULSON - A.A. GROTANS, Turnhout 2008 (Textes et études du moyen âge, 36), pp. 87-109. 12 Even before he became chancellor, it seems, he had some access to public archives since there are a few quotations of archival documents, mainly treaties (capitoli) in Books II through VIII; see IANZITI, Writing History cit., 351, note 6. 13 Ianziti (ibid., pp. 109, 119, 348 note 90, and 351 note 4) questions this judgment, citing D.S. BACHRACH, The Rhetoric of Historical Writing: Documentary Sources in the Diocese of Worms, ca. 1300, «Journal of the History of Ideas», 68/2 (2007), pp. 187-206, which studies the surviving fragments of two anonymous medieval chronicles (only recontructed in 1893), and CABRINI, Le «Historiae» del Bruni cit., pp. 277-278; he also mentions the occasional use of documentary materials by Thucydides and Polybius. Ianziti does not consider that large tracts of Bruni’s last three books are entirely based on archival docu-
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Bruni, finally, followed yet a fourth historiographical method in his commentaries on his own times, the De temporibus suis. As Bruni himself explained in a letter to Giovanni Tortelli, «[Historia] is more ample and thorough; [commentarii] more contracted and less detailed»14. In other words, it covers the same ground more rapidly. The average book of Livian history (excepting first books, which often span centuries and even millenia) covers about twenty years, more or less. This is true of Machiavelli’s Istorie as well. Bruni’s De temporibus covers about sixty years in roughly the same number of pages as a single book of Bruni’s history. His method in this work also differs markedly from the last books of the History because Bruni here seems to rely almost entirely on his memory. The only sources quoted are the later books of his own History, which he was composing around the same time, and his own published Epistulae familiares, which he quotes extensively. The historical narrative is interspersed with anecdotes which are always his own eyewitness accounts of important historical and cultural events15. Turning now to Machiavelli’s Istorie, the picture is much simpler. Bruni was a great innovator in the art of historical writing who experimented with a number of methods and genres; Machiavelli was an innovator neither in the discovery and critique of sources nor in his method of composition. The plain truth is that Machiavelli, while among the greatest of political theorists, was not a great historian. As numerous scholars from the sixteenth century onward have attested, the Istorie, just as history, is a bit of a dog’s dinner. For example, the great historian of the Grand Duchy of Tuscany, Scipione Ammirato (1531-1601), wrote: In sum [Machiavelli] mistakes the years, changes the names, alters the facts, confounds the causes, expands, adds, detracts, diminishes and does anything that his whim fancies […] perhaps because by so doing his writing might become more beautiful or less dry than if he had kept to the ments. None of these were noted in Santini’s edition cit., whose apparatus fontium stops short in the middle of Book IX. Bruni read through entire runs of archival documents, especially the Missive, Capitoli, and Consulte e pratiche, as a modern archival historian would, to form his picture of events; and only rarely cites them explicitly or uses them as part of a rhetorical-legal strategy of persuasion. Instead, Bruni silently paraphrases or summarizes documents in chancery Latin or Italian, a procedure quite different from the sparse documentary quotations introduced by the medieval chroniclers of Worms to confirm their claims of truthfulness. 14 Cited in IANZITI, Writing History cit., p. 275. 15 For the silent quotations from his own works, see J. HANKINS, The Dates of Leonardo Bruni’s Later Works (1437-1443), «Studi medievali e umanistici», 5-6 (2007-2008), pp. 140: 35-37.
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chronology and the facts, as if the subject matter had to accommodate the style, not the style the subject matter16.
He not only fails in the first duty of the historian, which is to get the facts straight, but he frequently invents what he thinks must have been the motives of historical actors. He not only puts words in their mouths but thoughts in their heads, and not only in the invented speeches, where he follows ancient models. The Istorie, as history, is not up to the standard of the best Renaissance histories; but what it is, unquestionably, is a brilliant piece of realistic political analysis, based on history, by a great political philosopher. As such, its originality and penetration has only recently begun to be appreciated by students of Renaissance political thought17. Machiavelli’s Istorie also differed from Bruni’s history by having a much narrower target audience. Bruni’s primary audience was the popolano statesmen who held the major civic offices (the Tre maggiori) and the men who advised them, a few hundred leading citizens. Machiavelli’s Istorie were initially intended for private manuscript circulation, and were not printed until 1532, years after Machiavelli’s death. They were dedicated to the Medici pope, Clement VII, who held de facto hegemony over the city-state of Florence. The dedication was no mere formality; the Istorie were also addressed to the pope in his capacity as head of the Medici clan. Machiavelli aimed to use his history to persuade the pope and the leaders of the Medici party to impose on Florence Machiavelli’s proposed constitutional reform of 1520, the Discursus Florentinarum rerum. Machiavelli promised that the pontiff that, if he would only allow the political theorist to whisper in his ear, he would have the opportunity to make himself into a new Solon or a new Lycurgus, refounding the city of Florence on sounder lines18. 16 Cited by R. BLACK, Machiavelli, London 2013, pp. 249-250, who discusses the work’s many methodological shortcomings; see also A.M. Cabrini, Machiavelli’s «Florentine Histories», in The Cambridge Companion to Machiavelli, cur. J. NAJEMY, Cambridge 2010, pp. 128-143: 134. 17 See G. SASSO, Niccolò Machiavelli, II: La storiografia, Bologna 1993, and especially JURDJEVIC, A Great and Wretched City cit., who argues that Machiavelli’s Istorie represents a distinct, post-Discorsi stage in the development of his political thought. I am much indebted to Jurdjevic’s interpretation in what follows. 18 Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in Machiavelli, L’arte della guerra. Scritti politici minori, edd. J.-J. MARCHAND - D. FACHARD G. MASI, Roma 2001 (Edizione Nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli, Sezione 1, Opere politiche, 3), pp. 621-641. Both the Discursus and the Istorie are available in English: Machiavelli: The Chief Works and Others, trans. A. GILBERT, 3 voll., Durham 1989, I, pp.
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«Se niuna lezione è utile a cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra le cagioni delle odii e delle divisioni delle città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti» Machiavelli’s Istorie is in effect an extended meditation on the problem of factionalism in Florentine political history. It is intended in part to answer critics of republicanism who argued that all republican government was by nature subject to factionalism, and so unstable that any republican constitution would sooner or later end in anarchy, ultimately requiring a monarch to restore order. This was the dominant view of republics in the Europe of Machiavelli’s day, based on a monarchist reading of Roman history19. Machiavelli’s counter-argument also pointed to Rome, which for centuries had maintained an acephalous republic with a positive balance of political “humors,” punctuated by benign tumulti. These were non-violent struggles between the nobles and the people that left the respublica stronger – so strong, indeed, that it was able to conquer the Mediterranean world. There was, in other words, good factionalism and bad factionalism. The kind of tumulti Rome experienced between the fifth and the second century BCE belonged to the good kind of factional struggle: they showed that the people were virtuous and vigorous in standing up for their rights, forcing the nobles to respect the common good, winning military victories to enhance their bargaining power with the rich and powerful. But when sette came under the control of ambitious nobles and dynasts in the first century BCE – when they were transformed into the clientage groups under the protection of great men – factionalism then became violent and destructive. What Machiavelli was trying to do in the Istorie was to show why Florence’s factionalism always, in the past, had ended up being of the negative kind. His goal was to demonstrate via historical narrative the need for a new, more permanent kind of constitution, the “well-ordered republic” he had proposed to the Medici in the Discursus. The Istorie diagnosed the disease and the Discursus prescribed the cure. This, in a nutshell, is what has recently been called Machiavelli’s “realist republicanism,” cha-
101-115 (Discursus) and III, pp. 1034-1425 (Istorie). A more literal version is found in Florentine History by Niccolò Machiavelli, trans. L.F. BANFIELD - H. C. MANSFIELD, Jr., Princeton 1988. 19 J. HANKINS, The Roman Republic in Renaissance Historical Thought, forthcoming in «Proceedings of the American Philosophical Society».
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racteristic of his final years and based upon his study of Florence’s republican experience20. It was to accommodate this new theory, I believe, that Machiavelli was forced to change his original design for the Istorie. In its initial conception it was to have begun with an introductory book, setting Florence’s modern history in the wider history of Italy from the fall of the Roman Empire. There would then have followed, in Book II, a much slower-paced narrative of the Medicean period from the rise of Cosimo in 1434. In other words the book would have been a vernacular sequel to Bruni’s history. But eventually Machiavelli must have realized that, if he were to instrumentalize the Istorie to promote his theory of faction in Florentine history, he would have to rewrite Bruni’s account of Florentine history, which carried quite a different set of lessons. So after his original Book I he added a second introductory Book, now Book II, which began (after a single brief chapter on Florentine history from her founding to 1215) with the traditional fons et origo of factionalism in Florence, the struggle between Guelfs and Ghibellines. The eventual Books II and III then proceeded to rewrite Bruni’s account, above all with regard to factionalism21. Machiavelli alludes to this change of plan in his Preface, where he explains why he has chosen to focus his narrative on Florence’s domestic politics and deal with external affairs only in summary fashion. He claims that Bruni and Poggio are excellent on foreign affairs but either silent or too brief on civil strife and internal hostilities («civili discordie e […] intrinseche nimicizie»)22. In the case of Bruni, this criticism is simply false. Bruni
20 JURDJEVIC, A Great and Wretched City cit., chapter 1. The contrast is with the earlier republicanism of the Discorsi, based on Machiavelli’s study of Roman history. 21 MACHIAVELLI, Istorie cit., I, 2.2, pp. 191-195, the chapter on early Florentine history, swiftly dispatches many of Bruni’s critical conclusions. The burden of Book I was to show that Italy’s divisions from the fall of Rome to the fifteenth century had been the fault of the papacy’s political ambitions; in a fashion similar to his treatment of Bruni, Machiavelli relies on Biondo Flavio’s Historiarum decades (1453) for historical information but reverses Biondo’s generally positive portrait of the papacy. 22 Proemio dell’autore in ed. cit., I, pp. 89-90: «… io mi pensava che messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo indrieto erano seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano, acciò che, imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perchè
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often deals at great length with internal discord, sometime at even greater length than Machiavelli does when the two are describing the same events. Machiavelli’s real objection is to what Bruni says, not his failure to say it. The problem is that Bruni’s account of the causes of factionalism and his advice about how to avoid it are at odds with Machiavelli’s analysis and prescriptions23. The Aretine’s approach is straightforwardly moralistic; he regards human vice as the ultimate cause of factionalism. Following Aristotle, Bruni thinks the highest and lowest classes in the state are naturally uncivil, the former because they are arrogant and the latter because they are needy. The broad middle classes – the Popolo – have the greatest capacity for civic virtue and are the part of the state that should rule. It is only the middle classes that have a real interest in observing the common good. It is only the medius populus who are capable of governing on a basis of friendship – another Aristotelian argument – because (unlike the aristocracy) their sense of honor is not bound up with their standing as the heads of clientage systems. They can identify their own interests more closely with those of the state. Bruni’s tripartite analysis of social class leads him to see the virtuous mean, the middle classes, as the key to a city’s stability and strength. That is why the other two classes, the arrogant nobility and the violent, ignorant, needy plebs, should be kept out of government. Exceptions could be made, to be sure. Certain individuals of proven virtue, men such as the nobleman Tegghiaio d’Aldobrando de’Adimari on the one hand and Michele di Lando, leader of the Ciompi, on the other, could under certain conditions make notable contributions to the state. It was a part of humanist ideology that any individual from whatever class, even the lowest, who proved his merit should be worthy of belonging to the ruling class. For Bruni as for other humanists, the real nobility in a state was neither a humor nor men who had inherited wealth and rank, but the men of learning and virtue24.
parvono loro quelle azioni si deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perchè temessero di non offendere i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare». 23 J. HANKINS, A Mirror for Statesmen: Leonardo Bruni’s History of the Florentine People, Unpuplished paper, Harvard University. 24 J. HANKINS, Machiavelli, Civic Humanism, and the Humanist Politics of Virtue, «Italian Culture», 32/2 (2014), pp. 98-109, which argues that Machiavelli’s political thought in this respect constitutes a rejection of mainstream humanist opinion; v. also HANKINS, Boccaccio and the Political Thought of Renaissance Humanism, forthcoming in A Boccaccian Renaissance, eds. M. EISNER - D. LUMMUS, Notre Dame, Indiana, forthcoming (Devers Series in Dante and Medieval Italian Literature).
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At this point I must register a dissent from the view of John Najemy, Robert Black, Riccardo Fubini and a younger James Hankins, that Bruni the orator and historian was simply a spokesman for the oligarchy, while Machiavelli was a champion of the people25. As I have shown elsewhere, Bruni – like his predecessor Boccaccio and his followers Palmieri and Poggio – positioned himself as on the side of philosophy and virtue, distinct from and above the rival factions that favored the ottimati or the guildsmen and sottoposti26. I do not think this positioning was a mere pose, hiding “objective” support for the oligarchs and/or the Medici party. By the same token, in his late political thought, Machiavelli, though surely a populist at heart, came to understand the limits of popular rule. He reluctantly accepted that the grandi would always demand a leading role in a well-ordered republic, but pleaded that the middle and lower ranks of society also needed to be included or represented somehow in political decision-making if the Florentine republic were to overcome its history of factionalism and become “perfected.” His belief that the Medici were the best placed to refound the republic on a sounder basis – however ironic that might sound to modern ears – did not mean he was merely a tool of the Medici27. The issue of inclusion was at the heart of Machiavelli’s disagreement with Bruni. In his late political thought, as in his great writings of the 1510s, Machiavelli always thought in terms of the verità effettuale: what flawed human beings were necessarily going to do, not what they should do. Good government for him was not a matter of moral struggle in the breast of a statesman, as it was for fifteenth century humanists. For him, individual virtue was enabled by culture and political institutions, not vice
25 R. FUBINI, La rivendicazione di Firenze della sovranità statale e il contributo delle Historiae di Leonardo Bruni, in Leonardo Bruni cancelliere della repubblica di Firenze. Atti del Convegno di studi (Firenze, 27-29 ottobre 1987), cur. P. VITI, Firenze 1990 (Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Atti di convegni, 18), pp. 247-319; R. BLACK, Humanism, in The New Cambridge Medieval History, VII: c.1415-c.1500, cur. C. ALLMAND, Cambridge 1998, pp. 243-77; J. NAJEMY, Civic Humanism and Florentine Politics, and J. HANKINS, Rhetoric, History and Ideology: The Civic Panegyrics of Leonardo Bruni, both in Renaissance Civic Humanism: Reappraisals and Reflections, cur. J. HANKINS, Cambridge 2000, pp. 75-104 and 143-178, respectively. The most effective recent argument for seeing Machiavelli as a democrat is John P. MCCORMICK, Machiavellian Democracy, New York 2011. 26 HANKINS, A Mirror for Statesmen cit.; HANKINS, Machiavelli cit., esp. pp. 103-105; HANKINS, Boccaccio cit. 27 JURDJEVIC, A Great and Wretched City cit., chapter 4; BLACK, Machiavelli cit., and MCCORMICK, Machiavellian Democracy cit., also emphasize Machiavelli’s intellectual independence from the Medici.
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versa. Solving a city’s problems required, therefore, a political philosopher to improve its institutions, and not a humanist educator to teach virtue to its elites. Since any political organism was always going to have the two opposing humors, it would never be possible or desirable to exclude whole classes of citizens from political power. Naturam expellas furca, tamen usque recurrit. For him, the Soderini regime fell because, after the expulsion of the Medici in 1494, the city decided to resume the form of a republic, but did not apply herself to adopting it in a form that would be lasting, because the ordinances then made did not satisfy all the parties among the citizens. […] The reason why all these regimes [since 1393] have been defective is that alterations in them have been made not for the fulfillment of the common good, but for the strengthening and security of a party28.
The fundamental humors of all political societies (two in the Discorsi, three in the Discursus) would always need to be «contented» or satisfied in some way, and malign sette would inevitably form if one or another umore were suppressed or excluded from power. The city itself needed the distinctive contributions that the different social classes could make: the honor and military skill of the nobles, the warlike power of a loyal and virtuous multitude. Villani between Bruni and Machiavelli It would be possible to give many instances of how Bruni selected from and reshaped Villani’s chronicle in order to illustrate moral and political lessons, and how Machiavelli returned to the same source to help him construct his own narrative against the grain of Bruni’s account. Space permits only a few characteristic examples.
28 Machiavelli The Chief Works cit., p. 103; Italian text in Machiavelli, Scritti politici minori cit., p. 625: «Dopo il quale, la città volle pigliare forma di republica, e non si appose ad appigliarla in modo che fussi durabile, perché quegli ordini non satisfacevano a tutti gli umori dei cittadini, e dall’altra parte non gli poteva gastigare. […] La cagione perché tutti questi governi sono stati defettivi è che le riforme di quegli sono state fatte non a satisfazione del bene comune ma a corroborazione e securtà della parte».
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a. The Ordinances of Justice. In order to strengthen support for his new constitution, Machiavelli knew that he would have to undermine reverence for the Ordinances of Justice (1293/1295), the document regarded by many Florentines as a founding document of the republic. This was the legislation that, after a long struggle with the magnates, put the People definitively in charge of the state and prevented it from being ruled by powerful noble clans. Bruni had celebrated the passing of the Ordinances of Justice in Book IV of his History as a triumph of popular courage and sound politics, and praised the Ordinances’ champion, Giano della Bella, as the greatest of Florentine statesmen29. Machiavelli by contrast presents the late Duecento attempts of the Popolo to exclude the magnates from power as ineffective, because their institutions remained too weak to prevent them from being influenced by the wealth and power of the grandi. The lesson he draws is that grandi were going to be part of the political equation whether they held formal power or not. Bruni tended to see the magnati as a defined group of thirty-eight malevolent families who had been deservedly expelled from civic offices, while Machiavelli saw them as simply one incarnation of a permanent political humor, those soi-disant nobles who had a need to lord it over others. Having lived the first twenty-five years of his life under the Medici, he understood, better than Bruni could, that actual office-holding was not the only or even principal way that the wealthy and powerful exercised influence. For Bruni the story of Giano della Bella was a tragic one, a tale of civic ingratitude towards the Popolo’s noblest hero. For Machiavelli, Giano’s self-exile counted as proof that the institutional structures he had created in the Ordinances of Justice were badly thought out and inadequate to constrain either humor in the city. The anti-magnate harshness of the Ordinances in fact soon revealed their poor design: almost immediately they had to be softened in view of the violent resistance of the nobles. The latter series of events, documented in Villani30, is omitted by Bruni but highlighted by Machiavelli. Machiavelli ends the chapter by inserting an indirect-discourse speech purporting to summarize the view of a group of wise mediators31. The speech warns the nobility that they should moderate their arrogance; their nobility could not by itself defeat the People owing to the latter’s superior numbers and wealth. The People are warned not to 29 30 31
BRUNI, History cit., I, pp. 359-373. Villani, Nuova cronica cit., II, 9.12, pp. 29-31. Machiavelli, Istorie cit., I, 2.14, pp. 219-221.
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try to exclude the nobles entirely from participation in the city or pass laws against them that would make them desperate. They should remember that the nobility had done honor to the city in its wars. The speech of the mediators is found in neither Villani nor Bruni; it is surely the voice of Machiavelli, telling Florentines that their political system has to find a different way to contain and regulate all its humors or risk dissolution. b. Walter of Brienne and the instability of tyranny. In 1342-3 Florence experienced an overt, formal tyranny, following upon a military coup, for the first and only time in its history. Both Bruni and Machiavelli were eager to turn this famous episode into an object lesson to demonstrate their respective views of history’s lessons. Bruni and Machiavelli differ about who was responsible for Walter’s tyranny. For Bruni it was the nobility who “raised Walter up” (sublevatus) but he himself who, sensing an opportunity in the regime’s weakness, plotted to make himself a tyrant; the logic of Walter’s plot is told from the Frenchman’s point of view32. Bruni leaves out Villani’s report of secret meetings between the nobles, the ottimati (leaders of the people) and the tyrant. Machiavelli by contrast, building on a phrase or two in Villani, constructs a picture in which alienated nobles and corrupt, debt-ridden popolani grassi conspire from the beginning to make Walter a tyrant33. Bruni, like Boccaccio before him34, tries to exonerate the medius populus – for him the true source of civic virtue – from responsibility for the tyranny. At the beginning of Walter’s rule, the medius populus, leaderless, had been overawed by the summary executions of Florentine optimates. That, indeed, had been Walter’s intention: he could not induce the Popolo as a whole to support his tyranny, so his only recourse was to intimidate them. Later, during the coup of 8 September, magnates and certain great popolano clans had brought Walter in and supported him during the coup; the faex plebis had acclaimed him signore a vita with enthusiasm. The rest of the Florentines had been subdued by the threat of violence from Walter’s men-at-arms and magnates with concealed arms. The Popolo had thus never endorsed the legitimacy of Walter’s rule, which was an illegal tyranny (to use Bartolus’ terms) ex parte exercitii, because it was only accepted under duress, propter metum35. 32 33 34 35
Bruni, History cit. II, 6.112, p. 265. Machiavelli, Istorie, cit. I, 2.33, pp. 262-265. HANKINS, Boccaccio and the Political Thought cit. Bruni, History cit., III, 6.113-116, pp. 264-268; v. Bartolus, De tyranno, in Politica e
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Machiavelli is far less protective of the Popolo’s reputation36. It was the incompetence of Twenty, who had botched the Lucca campaign, that led «il popolo di Firenze» to become angry with their rulers, and led the Twenty in turn to bring in Walter «either to check or remove the causes for slandering themselves»37. The executions, fines and exiles that Walter meted out to the leaders of the Lucca war frightened i mediocri cittadini – a phrase that seems modelled on Bruni’s medius populus. But Machiavelli goes further and describes how «ciascuno per mostrarsegli amico» had painted Walter’s arms on their houses. This detail, based on Villani but omitted by Bruni, shows that the Popolo was not just passively frightened, but intimidated into positive actions showing their solidarity with the Duke’s rule38. Most revealing of all, Machiavelli directly blames the Popolo – not the faex populi as had Bruni (and Boccaccio) – but the whole of the Popolo without qualification, for consenting via acclamation to Walter’s tyranny, thus granting it at least a veneer of legitimacy. Villani had made it clear that the acclamation had come from the lower orders (at the instigation of Walter and his elite supporters) – «wool-carders, the rabble, thugs who work for certain great men»39. Machiavelli, by contrast, says baldly that the cry of acclamation came from the Popolo, and that Walter was elected perpetual Signore «con il consenso del popolo»40. He nowhere explains that Walter was accompanied (according to Villani and Bruni) by his own men-at-arms and by magnates concealing weapons under their clothes, who implicitly threatened violence against opponents of his signory. Thus, in Machiavelli’s version of events, the People could not even disclaim responsibility for Walter’s tyranny propter metum. Nothing he had done to that point would have counted by the lights of a Bartolus as a
diritto nel Trecento italiano: il De tyranno di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), ed. D. QUAGLIONE, Firenze 1983, pp. 185-187 (=cap. 6); see also ibid., p. 184 (=cap. 5): «The tyrant of a city is he who does not rule the city by right» («… tyrannus civitatis est qui in civitate non iure principatur»). 36 This is a general characteristic of late Machiavellian republicanism; see JURDJEVIC, Great and Wretched City cit., chapter 4. The populism of the Discorsi had been by this time laid aside. 37 Machiavelli, Istorie cit., I, 2.33, p. 264. 38 Ibid., I, 2.34, p. 266. 39 Villani, Cronica nuova cit., 13.3: «ma com’era ordinato il tradimento, [one of the priors, Francesco Rustichelli] non fu lasciato più dire, a grido di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e masnadieri di certi grandi, dicendo: ‘Sia la signoria del duca a vita, a vita, e viva il duca nostro signore!’». 40 Machiavelli, Istorie cit., I, 2.35, p. 271: «Si gridò per il popolo “A vita!” […] in modo che, con il consenso del popolo, non per uno anno, ma in perpetuo fu eletto signore».
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tyranny ex parte exercitii. That only came later, when he began to abuse his new signorial power. Bruni and Machiavelli differ, finally, on the causes of Walter’s downfall. Bruni in typical fashion explains the tyrant’s evil fate as a failure of prudence and personal morality. Walter’s tyranny was unstable because of the “errors” Walter had made: his personal behavior was overbearing and uncivil; he showed disrespect for the Priors; he nullified honors and magistracies; he was untrustworthy in his alliances with various social groups; he was greedy, cruel and raised taxes; he treated citizens like slaves because, being French, he came from a culture where the common people were not respected. In short, he behaved as any magnate would and worse. He did not know how to behave like a magistrate who respected the city’s traditions, as Charles, the Duke of Calabria, had been able to do in 1326 under similar circumstances41. Machiavelli analyzes the reasons for Walter’s downfall in the form of a speech placed in the mouths of the Priors who came to him the night before the coup of 8 September42. Machiavelli, like Bruni, paints the Priors as good men who courageously spoke truth to power. They tell him frankly that they know he wants to seek illegal power, but, being unable to oppose him by force, they hope to convince him by argument that his coup will ultimately prove unsuccessful. The priors present a classic Machiavellian decision tree to calculate the consequences of Walter’s seizure of power. The speech is in effect a prophecy of what will in fact happen later in Walter’s reign. I. A city with a long tradition of liberty will never give that up. «Have you considered how important and how strong in a city like this is the name of liberty, which no force crushes, no time wears away, and no benefit counterbalances?» II. (a) Large forces are necessary to enslave a large city; (b) These can come from outside the city or from within. (b1) Those from outside, foreigners, will not be enough at every moment, and (b2) of those who support you from within the city (b2a) the powerful will discard you once they have used you to overcome their enemies, and (b2b) the common people (plebe) are fickle. So (c) eventually the whole city will be against you, and (d) nothing can protect a signore when an entire population opposes him:
41 Bruni, History cit. II, 6.121-22, pp. 272-274. While Bruni admires Charles, Machiavelli opines that Charles would have become a tyrant just like Walter had he not died shortly after his election. 42 Machiavelli, Istorie cit. I, 2.34, pp. 265-270.
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«he who fears all men cannot secure himself against anybody». (e) If you try an exemplary punishment of part of your opposition, the rest will just become more filled with hatred and the desire for vengeance. III. The reign of one signore is not enough time to stamp out liberty. The memory of liberty, even when lost, is powerful and hard to eradicate. It will be passed down lovingly through the generations and if liberty is ever regained, it will be held on to all the more tenaciously. Even if the fathers forget it, «i palagi publici, i luoghi de’ magistrati, le insegne de’ liberi ordini la ricordano: le quali cose conviene che sieno con massimo desiderio dai cittadini cognosciute». IV. You cannot win over the Florentines either by military conquests or good goverment. (a1) The glory of military triumphs will count as yours, not theirs; (a2) more peoples conquered by you will only increase the number of the Florentines’ fellow-slaves, because subject cities will be subject to you, not to them. (b) Good, pious, just government will not be enough to make you loved, because «to someone used to living unfettered, every chain has weight and every bond cuts». (c1) Good government and violence are inconsistent with each other. (c2) Since you can’t hope to please people by good government, you will have to use the utmost violence (a possibility already disproved in II) or you will have to be content with the constitutional power we, the Priors, have already given you.
The speech of the priors shows transparently the lessons Machiavelli hoped his Medici readers might draw from the story of the Duke of Athens. The Duke failed – as by inference the Medici would fail – because he did not understand the deep attachment of republics to liberty. The usual humanist solutions to the problem of obedience – military glory and good governance, what I have elsewhere called “virtue politics” – is dismissed as ineffective in the case of free peoples; the desire for freedom trumps even the best signorial or aristocratic governments43. Walter is not convinced, and Machiavelli allows him to make a reply (2.35), which, again, is found neither in Villani nor Bruni. Walter advances in response what had for centuries been the standard monarchical idea of liberty, an idea also embraced by most quattrocento humanists: that a virtuous order was tantamount to liberty, and a factionalized, disorderly city was eo ipso in a state of slavery. He omits only the usual corollary, derived from Stoic sources, that true liberty lay in obedience to a virtuous prince. Perhaps that addition, placed in the mouth of Walter, would have strained even Machiavelli’s loose standards for suspension of disbelief.
43
HANKINS, Machiavelli cit.
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A final point: a comparison of Villani’s account of this whole episode with that of Bruni and Machiavelli reveals that at least part of Machiavelli’s explicit criticism of Bruni in the Proemio is not without justice. Machiavelli claims that Bruni (and Poggio) neglected the subject of civil strife and internal hostilities, «either because they considered these affairs to be so trivial that they were not worth preserving in writing, or because they feared offending the descendents of those whom they would have to calumniate in their narratives»44. Machiavelli is wrong that Bruni neglected the subject of internal strife, but he is right that the Aretine, when discussing responsibility for Walter’s tyranny, avoided naming the names of the ancestors of Florentine families prominent in his own day45. Machiavelli is much more fearless in this regard, possibly because his history was narrowly directed to a Medici readership. The names Bruni does mention prove the rule: for example, while Machiavelli (following Villani) sharply criticizes Malatesta II da Rimini, the condottiere, as showing “little courage and less prudence” in the Lucca campaign, Bruni avoids criticizing him, even calling him “the most distinguished soldier of the time,” who had the misfortune to experience “little success” in Lucca. Possibly Bruni was bearing in mind that Malatesta’s descendent, the condottiere Carlo Malatesta, a touchy man, was a close political ally of Giovanni di Bicci and Cosimo de’Medici46. One person Bruni does criticize sharply was Francesco Brunelleschi, an ancestor of the architect Filippo, with whom Bruni had had a well-known public disagreement47. c. The Restoration of Popular Institutions in 1343. A key shift in Machiavelli’s late political thought, as presented in the Discursus and the Istorie Fiorentine, is his emphasis on including in appropriate ways all elements in society – the nobles, the middle classes, and the poor – within the constitutional order. Failure to do so would only continue the destructive cycle of factional struggle. Machiavelli had in his ear-
44 Gilbert translation, slightly modified; for the Italian text, see note 22. 45 IANZITI, Writing History cit., chapter 9. 46 J. HANKINS, The Humanist, the Banker, and the Condottiere: An Unpublished
Letter of Cosimo and Lorenzo de’Medici Written by Leonardo Bruni, in Renaissance Society and Culture: Essays in Honor of Eugene F. Rice, Jr., cur. J. MONFASANI - R.G. MUSTO, New York 1991, pp. 59-70, reprinted in HANKINS, Humanism and Platonism in the Italian Renaissance, I, Humanism, Roma 2003, pp. 123-135. Bruni dedicated his educational tract, De studiis et litteris, to Carlo’s daughter, Battista, in 1422/1426. 47 Bruni had ridiculed Brunelleschi’s scheme to flood Lucca as a ruse de guerre in his Memoirs 82, in Bruni, History cit., III, p. 371 and note 56.
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lier, “Roman” period of republican theory (to use Jurdjevic’s terms) held views of the relative worth in government of the grandi and the popolo not unlike those of Bruni. In his later, “Florentine” period, however, he came to reassess his views of both social groups: he now recognized the contributions the great families could make to Florence’s prestige and military strength, while casting a more jaundiced eye on the actions of the People when deprived of the balancing influence of the nobles48. However, from this act Bruni’s narrative of the restoration of popular institutions following the tyranny of Walter of Brienne thus represented a major obstacle to the lessons that Machiavelli wished to be drawn from Florentine history. After Walter was expelled, in Bruni’s account, the magnates had been able to insist on the restoration of their political rights. They had been a key force in the Fourteen, the conspiratorial countergovernment set up by the Bishop of Florence, Agnolo Acciaiuoli, to take power away from Walter. After Walter’s expulsion the Fourteen was temporarily the only magistracy upholding public authority, and the magnates used their influence on this board to shape the new form of government that was eventually set up in late 1343, which effectively overturned the Ordinances of Justice. Bruni’s account relied on Villani49 but added the following explanation: There were two principal reasons for this decision [to include the nobles in government]. One was concern for civic harmony. It was believed that the state would be tranquil and the spirits of its citizens quiet and peaceable if no part of the city were excluded from honors and thus driven to hate the present regime because of injustices to itself. The other reason was manifest merit, since the nobility had actively devoted its energies to expelling the tyrant. Their actions won still more approval in that the tyrant had granted many favors to their class, but they had preferred liberty and love of country to his acts of beneficence, which was a great proof of the sincerity of their public spirit. So for these reasons the nobility were allowed to share in the governance of the state. However, from this act a great political change ensued, and the ancient constitution was turned upside down. The two greatest safeguards of liberty which had hitherto preserved the republic – the Ordinances of Justice and the popular militia companies – were necessarily removed. For the Ordinances of Justice, as we showed [in History 4.26], were devised against the violence of the nobility, and the popular militia companies
48 JURDJEVIC, A Great and Wretched City cit., chapters 49 Villani, Nuova cronica cit., III, 13.18, pp. 342-345.
3 and 4.
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were designed to enable the weak to resist the great families. The latter had been wisely framed in the beginning and afterwards preserved in the state with salutary effect. But at this time, the body politic had been entirely equalized and through concord made as one; so with the sources of contention having lapsed, the safeguards against it lapsed as well50.
Bruni then illustrated his point that restoring political rights to the nobles was a mistake by showing how it led immediately to a renewal of factionalism and, eventually, to open and violent class warfare between the People and the grandi51. The People could not tolerate sharing office with the rich and powerful: For scarcely had the new priors been installed when the people were stirred up by this unaccustomed state of affairs; by that time the sharing of offices with the nobility was no longer in favor and was a cause of fear for the future. For it seemed likely that noblemen, leaders of great families, who were already formidable by themselves without any public power, would become intolerable if they acquired a magistracy as well, and people reckoned that they would not restrain themselves from acts of injustice. This reason was advanced as a pretext, and there was something to it52.
50 Bruni, History cit., II, 7.3, pp. 285-286: «Causae vero huius consilii duae potissimum ferebantur. Una concordiae civilis respectus. Ita demum enim quietis pacatisque civium animis, tranquillam fore rempublicam credidere, si nulla in ea pars honore exclusa, praesentem civitatis statum odisse per suam iniuriam cogeretur. Altera praesens meritum, quod in pellendo tyranno haud segnem nobilitas operam civitati navarat. Id autem eo fuerat gratius, quod a tyranno ipso permulta ei generi hominum indulta videbantur, cuius porro beneficiis amorem patriae libertatemque praetulisse maximum sinceri in rem publicam animi fuerat argumentum. His ergo rationibus ad communionem reipublicae gubernandae recepta nobilitas est. Caeterum ex eo facto permagna rerum mutatio sequebatur, antiqua gubernandi forma omnino convulsa. Duo siquidem maxima libertatis praesidia, quibus ante respublica steterat, necessario tollebantur; iustitiae constituta et populi societates. Nam et constituta iustitiae contra vim nobilitatis reperta ostendimus, et societates populi, quo grandioribus familiis resistere imbecilli homines possent, et ab initio sapienter excogitatae et postea salubriter conservatae in republica fuerant. Tunc autem, exaequato penitus civitatis corpore, ac velut uno per concordiam facto, contentionibus antiquatis, praesidia quoque antiquabantur» (Bruni’s use of antiquo here, as elsewhere, is non-classical). 51 Bruni is careful to blame the actual outbreak of violence on the plebs and not on the Popolo (History cit., II, 7.10, p. 292); Machiavelli (Istorie cit., I, 2.39, p. 280) blames the Popolo without qualification. 52 Bruni, History cit., II, 7.6, p. 289: «Vixdum enim magistratu inito, res insolita primo commovit animos; nec iam tunc communio grata erat, et in futurum metuebatur magis. Homines enim nobiles, magnarum principes familiarum, qui sine ulla potestate publica ipsi per se formidabiles erant, si magistratum insuper nacti forent, intolerabiles videbantur, nec temperaturos ab iniuriis extimabant. Haec praetexebatur causa, et erat sane nonnulla».
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Bruni is repeating here the arguments earlier put in the mouth of his hero, Giano della Bella (History 4.28-33)?. He then states that, with the breakdown of the Ordinances, «envy and contention, the usual civic diseases, […] returned to the city together with liberty»53. Civil war broke out, ending in victory for the People. The Ordinances were restored, and with them, a measure of civic tranquillity (History 7.15). Some noble families were degraded to popolano status, while others left for foreign courts, where they continued to plot against the city’s security (History 7.18). Thus, the brief period during which nobles were included in the regime was shown to be a terrible mistake; only rule by the People, buttressed by the Ordinances of Justice and the restoration of militia companies, could guarantee a virtuous magistracy whose interests were fully aligned with those of the respublica. The popular status quo ante was thus the correct default setting for Florentine government. This was precisely the view of republican government that the mature Machiavelli could no longer accept. Countering Bruni’s narrative led Machiavelli to introduce his most weighty critique of the traditional Florentine constitution and the reason why it had led to the crippling factionalism that had characterized her history from the beginning. This appears at the beginning of Book III as a kind of summing up of Florentine history to 1343. The previous book had ended with the defeat of the nobility in the civil war of late 1343 that followed upon the expulsion of the tyrant. In contrast with Bruni’s satisfaction at the defeat of the magnates, Machiavelli expressed regret for the military power and greatness of spirit that had been lost with the ruin of the nobles: « Il che fu cagione che Firenze non solamente di arme, ma di ogni generosità si spogliasse»54. Bruni had complimented the People on their restraint in punishing the nobles, and blames the multitudo infima for sacking and burning their houses55. Machiavelli ignores the mitigating remarks of Villani and Bruni and roundly condemns the action of the Popolo «and its most ignoble part»: «Il popolo intanto, e di quello la parte più ignobile, assetato di preda, spogliò e saccheggiò tutte le loro case, e i loro palagi e torri disfece e arse con tanta rabbia che qualunque più al nome fiorentino crudele nimico si sarebbe di tanta rovina vergognato»56. Even Florence’s worst enemy would have been ashamed to have acted as the People had done. 53 Ibid., 7.7, p. 289: «… invidia atque contentio, consueti dudum civitatis morbi, una cum libertate in urbem redierant». 54 Machiavelli, Istorie cit., I, 2.42, p. 291. 55 Bruni, History cit. II, 7.13, p. 295, based on Villani, Nuova cronica cit. II, 13.21. 56 Machiavelli, Istorie cit. I, 2.41, p. 290.
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Machiavelli then opens Book III with what appears to be a digression, comparing the enmity between the nobles and the people in ancient Rome and medieval Florence. This highly original analysis of good and bad partisanship refines his previous discussions of tumulti in the Discorsi57. Strife between nobles and the common people, Machiavelli claims, exists in all cities and is natural. Strife cannot be prevented, but it can have good or bad effects depending on how it is channeled by institutions, and depending on the ends sought by the contending parties: avvenga che nell’una e nell’altra città diversi effetti partorissero: perché le nimicizie che furono nel principio in Roma intra il popolo e i nobili, disputando; quelle di Firenze combattendo si diffinivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disaguaglianza grandissima quella città condussono, quelle di Firenze da una disaguaglianza ad una mirabile ugualità l’hanno ridutta58.
In other words, Rome’s divisions had good effects, and in particular they had made it strong militarily. The explanation for the difference between good Roman and bad Florentine partisanship was precisely the issue of inclusive institutions. The Roman people wanted just to share power with the nobles, so the conflict never became existential; the Florentine people wanted unjustly to ruin the nobility or make them conform to popolano ways. Roman partisanship thus led to positive effects, since the victories of the people made Rome stronger (più virtuoso), and gave the common people experience with magistracies and military commands; this enlarged the pool of talent that Rome could draw upon, another source of strength. The Florentine people on the other hand became weaker by excluding the nobles and ruining them. The strife between the classes resulted only in “blood and the exile of citizens”; laws became the expression of popular injustice, benefitting only the popular power and neglecting the common utility. Worse, the People’s demand that nobles should pretend to act like popolani ended by destroying the special gifts nobles could bring to a city:
57
V. the valuable discussion of these passages and much else in G. PEDULLÀ, Machiavelli in tumulto: Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», Roma 2011, cap. I. 58 Machiavelli, Istorie cit., I, 3.1, pp. 292-293.
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Di qui nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de’ tituli delle famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che quella virtù delle armi e generosità di animo che era nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più umile e più abietto divenne59.
The consequences produce a typically Machiavellian paradox: E dove Roma, sendosi quella loro virtù convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza avere un principe non si poteva mantenere, Firenze a quel grado è pervenuta, che facilmente da uno savio datore di leggi e potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata60.
The great virtue of the Roman republic could only end in the vice of pride, which in turn meant that it had necessarily to be brought under control by a prince. But Florence, since its institutions had failed so miserably, left an opening for a wise legislator to introduce radical reforms of the type Machiavelli was recommending in his Discursus. Machiavelli ends the chapter by stating that someone who has read the previous book – his rewriting of Bruni’s History, Books II-VII – will clearly understand this conclusion. If Machiavelli’s Medici readers did indeed read this far into his history, they would have had a demonstration, based on a carefully manipulated narrative, of the wisdom of the great political theorist’s final thoughts on the making of a perfect republic.
59 60
Ibid., p. 294. Ibid.
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INDICE GENERALE
Premessa, di Giampaolo Francesconi e Massimo Miglio . . . . . . . . Pag.
5
INTRODUZIONE Gian Mario Anselmi, Cronaca e narrazione. Dante e l’interpretazione della storia fra Impero Romano, Europa cristiana e Mediterraneo islamico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
11
TESTO, CODICE, ECDOTICA Francesco Montuori, Come “si costruisce” una cronaca . . . . . . . . . . » Marcello Barbato, Testo e codice. Le cronache volgari fino a Villani » Rosario Coluccia, Testi storici e fatti linguistici . . . . . . . . . . . . . . . . »
31 89 117
GEOGRAFIE Giorgio Cracco, Dante e le cronache dell’Italia settentrionale del suo tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Porta, La cronaca a Firenze: passione politica e travaglio compositivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giampaolo Francesconi, Una Toscana senza autori: Siena e dintorni Riccardo Gualdo, Le cronache dell’Italia mediana . . . . . . . . . . . . . Tommaso di Carpegna Falconieri, Note sulla cronachistica in volgare a Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chiara De Caprio, La scrittura cronachistica nel Regno: scriventi, testi e stili narrativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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139
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Raul Mordenti, Cronaca e memorialistica: la “sfera dei generi” . . . . » Paolo D’Achille, Cronache, scritture esposte, testi semicolti . . . . . . » James Hankins, Leonardo Bruni and Machiavelli on the Lessons of Florentine History . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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CONTATTI E AMBIENTI DI PRODUZIONE Marino Zabbia, Cronaca e mondo notarile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Senatore, Cronaca e cancellerie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giulia Barone, Ordini mendicanti e cronache volgari . . . . . . . . . . . Carla Frova, Le cronache in volgare e la storia dell’università . . . . INCROCI DI GENERE
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