Rinascimento italiano e committenza valenzana. Gli angeli musicanti della cattedrale di València

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

NUOVI STUDI STORICI – 88

RINASCIMENTO ITALIANO E COMMITTENZA VALENZANA GLI ANGELI MUSICANTI DELLA CATTEDRALE DI VALÈNCIA Atti del Convegno Internazionale di studi Roma, 24-26 gennaio 2008 a cura di MASSIMO MIGLIO ANNA MARIA OLIVA MARIA DEL CARMEN PÉREZ GARCÍA

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI

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Nuovi Studi Storici collana diretta da Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio

La pubblicazione si avvale del contributo di

Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Ilaria Bonincontro Redazione: Alessandro Pontecorvi

ISSN 1593 - 5779 ISBN 978-88-89190-82-1 Stabilimento Tipografico ÂŤPlinianaÂť - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2011

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El histórico descubrimiento de los ángeles músicos de la catedral de Valencia, y su posterior restauración, ha supuesto un hito de capital importancia para la historia del arte del renacimiento europeo, gracias al derroche de belleza y maestría que Paolo de San Leocadio y Francesco Pagano les imprimieron en su ejecución. Ahora, cuando hace más de quinientos años que fueron realizadas, y más de trescientos que fueron ocultadas por la bóveda barroca, podemos asistir a su contemplación gracias a una larga y meditada labor de restauración fruto del estudio, el consenso y la interdisciplinariedad de un buen número de especialistas que trabajaron en su recuperación para el goce y deleite de cuantos las contemplan. La importancia y repercusión que tienen en el mundo del arte las convierte en unas pinturas excepcionales en el tránsito del último gótico al pleno renacimiento, de ahí que fuese necesario su estudio, debate y análisis por los historiadores, restauradores e investigadores más sobresalientes del momento en un congreso, que analizase ese momento histórico desde diversos enfoques y puntos de vista. Sus aportaciones se ven ahora recogidas en este libro, que a buen seguro, será obra capital para el conocimiento de estas magistrales pinturas, que tuvieron lugar en tierras valencianas, en un momento de esplendor como no se había conocido antes en la ciudad de Valencia. Por eso, la Generalitat Valenciana, desde hace años, desarrolla una constante labor en favor de la conservación, restauración y difusión del patrimonio artístico existente en sus tierras a través del Institut Valencià de Conservació i Restauració de Béns Culturals o de las exposiciones que organiza la Fundación La Luz de las Imágenes, quienes desde el primer momento impulsaron la recuperación de estas pinturas. Pero, además, puso un especial énfasis en darlas a conocer por diversos medios como esta publicación, que incentivará a que muchas personas se acerquen y conozcan mejor este tesoro artístico que poseen los valencianos. Trini Miró Mira Consellera de Cultura i Esport


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MASSIMO MIGLIO PREMESSA

Come guardare dalla lente di un caleidoscopio. Erano pochi metri quadri di pittura quelli che potevo vedere ma, anche nel buio, la forza dei colori e la profondità del segno, aprivano un mondo infinito. I loro enormi occhi mi guardavano inquietanti come a chiedere qualcosa. Era facile immaginare, sperare, sognare di vedere altri angeli, altri strumenti, altri simboli. Sembra un tempo lontanissimo, ed era solo pochi anni fa. Poi ancora. Visti da vicino, come tra loro, come in una corte angelica. E poi ancora in volo nell’abside, tornati alla loro funzione d’origine, ministri di una liturgia che gli assegnava un ruolo di immensità. Dopo qualche tempo, a Roma, affollati in un luogo che aveva visto le visioni di Filippo Neri e che le lucide folli invenzioni architettoniche di Borromini aveva esaltato. Erano quindi tornati a suonare i loro strumenti in San Girolamo della Carità, l’antica casa di san Filippo. Una miscela di spazi e di situazioni che li aveva glorificati. Ma l’esaltazione del primo incontro aveva già affollato la mente di tante domande e aveva continuato a dilatare l’immaginazione. I due pittori avevano viaggiato per nave con Rodrigo Borgia e avevano visto svanire le coste d’Italia dove erano nati con la tristezza di un addio per sempre o con la speranza di un ritorno? avevano ascoltato dal loro mecenate il racconto delle ricchezze della terra che avrebbero conosciuto? avevano portato con loro album di disegni e immagini del rinascimento italiano, dei loro maestri e compagni d’arte? avevano nelle sacche qualche strumento per accompagnare la loro malinconia e allegria? Cosa speravano da quel viaggio? Perché Rodrigo aveva scelto loro? All’arrivo furono ancora più coscienti del potere, che pur conoscevano bene, di chi li aveva prescelti. L’incontro con la città fu disuguale per ognuno di loro: Francesco Pagano ricordò e intravide di nuovo qualcosa che aveva già visto a Napoli, non solo perché le città di mare si somigliano tutte; Paolo da San Leocadio sentì odori e atmosfere nuove, colori e profili diversi, fu colpito dalla luce intensa così lontana da quella dei suoi cieli.


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MASSIMO MIGLIO

Poco per volta conobbero una città ricca e popolata, dinamica e cosmopolita, multietnica per la presenza di italiani, francesi, castigliani, granadini, nordafricani, orientali, tedeschi, portoghesi, al centro di vaste coltivazioni di canna da zucchero e di industrie di produzione, con un’intensa attività mercantile, polo di rotte internazionali tra Mediterraneo e Atlantico, tra Europa del nord e Magreb. L’uno e l’altro capirono perché i catalani avevano tanto potere in Italia e a Roma, perché tra Valenza e Roma e tra Roma e Valenza viaggiavano di continuo chierici e laici, merci e idee, ideologia, lettere di cambio e lettere personali, denaro e merci; capirono perché qualcuno aveva potuto dire che Roma e Valenza si identificavano in tutto. Con il tempo impararono che quelli che in Italia chiamavano senza distinzione catalani, avevano identità diverse. Il contratto con i canonici per la realizzazione degli affreschi fu firmato il 28 giugno 1472; il lavoro fu concluso nel 1478, e non è difficile immaginare le reazioni di quanti per primi, liberato l’abside dalle impalcature, videro il trionfo di angeli e di cherubini e il Cristo con gli apostoli, che noi non vediamo più. Rimasero di certo stupefatti da angeli che sembravano disegnati in filigrana d’oro niellata a smalto, dall’esplosione dei colori, dalla ricchezza degli strumenti, dalla raffinata eleganza delle vesti, dalla ieraticità maestosa. Sicuramente non avevano mai visto nulla di simile: cori angelici, vestiti all’antica per una moda nuova, che esaltavano la tensione religiosa di una società comune e insieme profondamente diversa. Era un mondo nuovo che era arrivato da una terra lontana, ma era anche un altro dei tanti incontri che c’erano stati negli ultimi anni tra le due sponde del Mediterraneo. Rodrigo Borgia, dopo tanti anni di assenza, aveva portato d’Italia a Valencia il rinascimento più innovativo. Duecentodieci anni dopo la firma del contratto, nel 1682, gli angeli non servirono più. Quando i nuovi gusti artistici li nascosero dietro le nuove strutture barocche. Rimase solo un vago ricordo nell’erudizione, ma nessuno poté più vederli. Fino a quando il restauro della boveda barocca nel 2004 e la curiosità della ricerca non permise di riscoprirli da un foro dell’intonaco. Da quella piccola apertura tornò il dialogo di sguardi tra gli angeli e quanti poterono accostare l’occhio alla parete. Il seguito è storia recente. Gli angeli sono stati restaurati da Carmen Pérez García e dall’Institut Valencià de Conservació; è stato organizzato nel gennaio 2007 un Convegno nel Monastero di San Miguel de los Reyes di Valencia, per decidere il loro destino. Gli angeli sarebbero stati liberati: la boveda barocca sarebbe stata rimossa definitivamente. Così propose il Convegno e così decise il Capitolo della cattedrale.


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PREMESSA

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Durante l’incontro fu proposta anche una mostra a Roma dedicata agli angeli e un Convegno, che fosse un momento d’incontro tra studiosi di sensibilità diverse e che facesse conoscere gli angeli, che sono una delle prime grandiose proiezioni fuori d’Italia della cultura figurativa italiana del Quattrocento, e permettesse in qualche modo il loro ritorno a Roma, da dove erano partiti Rodrigo Borgia, Paolo da San Leocadio e Francesco Pagano. La mostra è stata realizzata dalla Comunitat Valenciana nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo, dal 17 dicembre 2007 al 22 gennaio 2008, con gli angeli riprodotti a dimensione naturale. Il convegno, promosso dall’Istituto storico e dall’Institut Valencià de Conservació si è svolto dal 24 al 26 gennaio del 2008; a conclusione il Gruppo Capella de Ministrers è tornato a far suonare gli strumenti a corda, a fiato e a percussione degli angeli, fedelmente riprodotti dai maestri liutai di Valencia, nella chiesa di San Girolamo della Carità con il coro della Generalitat Valenciana. La pubblicazione degli Atti è il momento ultimo di una intensa collaborazione tra la Generalitat Catalana, l’Institut Valencià de Conservació i Restauració de Béns Culturals, la S. I. Catedral de Valencia, altre Istituzioni culturali catalane e l’Istituto storico italiano per il medio evo, che hanno insieme ripercorso antiche strade e antiche consuetudini con uno spirito nuovo; ma è anche il momento d’avvio della riflessione sulle nuove prospettive scientifiche proposte dalle scritture dei relatori.


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MARIA DEL CARMEN PÉREZ GARCÍA - FRANCISCO JAVIER CATALÁ MARTÍNEZ EL MISTERIO DE LOS ÁNGELES MÚSICOS LAS PINTURAS DEL ALTAR MAYOR DE LA CATEDRAL DE VALENCIA, AL DESCUBIERTO

Estaban esperando durante siglos para volver a ser admiradas, dar cobertura a las grandes celebraciones catedralicias, ser ese cielo angélico que sus autores crearon para culminar un programa iconográfico completo del cual quedan doce ángeles músicos en las siete plementerías de la bóveda y algunos retazos en los paramentos verticales y que, por lo encontrado, podemos constatar que el conjunto debió ser espectacular y bellísimo. Será muy difícil volver a hallar unas pinturas ocultas de esta categoría. Aún nos estremecemos al recordar el momento en el que introdujimos una cámara digital por un pequeño orificio oculto por una decoración de madera, al observar la fotografía realizada a ciegas, aparecieron ante nosotros dos hermosas caras de ángeles músicos que parecían contemplarnos sorprendidos, como si no creyeran que fuera posible que, al fin, alguien se hubiera saltado las disposiciones ordenadas por el Obispo Luis Alonso de los Cameros, que los había condenado a permanecer ocultos y mudos como reos de un estilo en desuso y en nombre del nuevo estilo barroco [Fig. 13]. Han sido 330 años en la oscuridad, únicamente acompañados por palomas y roedores que accedían por unos orificios de ventilación desde el exterior. Nos miraban asombrados, incrédulos, incluso uno de ellos creemos que nos sonrió. Aparecieron en toda su plenitud, bellos, espléndidos en sus ropajes renacentistas, en su cielo de lapislázuli, entre estrellas de oro de doblón. A medida que fuimos abriendo las pequeñas catas en cada una de las plementerías, íbamos contemplando con auténtica admiración la perfección de sus rasgos realizados como una impecable miniatura, en la que se podían contar las pestañas una a una o estudiar los pliegues en la comisura de los labios, las distintas actitudes de las manos al tocar los instrumentos musicales y las grandiosas proporciones que guardan los ángeles, ya que miden aproximadamente cuatro metros cada uno de ellos.


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Nos recorrió una sensación agridulce de satisfacción, puesto que nuestra investigación había culminado según las expectativas que pretendíamos desde el inicio de la misma, aunque también éramos sabedores de que, hasta la finalización de la obra, el proceso resultaría complejo y no exento de diversos problemas. Por ese motivo vamos a hablar de ellos, a contar la maravillosa aventura en la que nos hemos visto envueltos los miembros del equipo interdisciplinar que, por estudiosos y tenaces, hemos tenido el gran privilegio de reencontrar la decoración renacentista más avanzada de su época. Estamos convencidos de que después de llevar a cabo el trabajo técnico, este publicación podrá novelarse, ya que los personajes que lo hicieron posible son dignos de una epopeya, como es el caso de Rodrigo de Borgia, Príncipe y Obispo de la Iglesia católica, gran estratega, político y futuro Papa, así como del Cabildo de nuestra Catedral, audaz y cauto al mismo tiempo, pues acató las órdenes de su Obispo que impuso a los dos artistas, pero marcando sus propias condiciones. Estos pintores formaron un dúo singular; uno muy joven y atrevido de nombre Paolo da San Leocadio, y el otro que le doblaba la edad, estaba llegando al final de su trayectoria artística de nombre Francesco Pagano. Además, hay que tener en cuenta que se trata de un momento histórico muy importante para la ciudad de Valencia, que está en un constante desarrollo cultural, político y económico. Es una ciudad abierta a todo tipo de influencias externas, con un alto potencial financiero que posibilita el florecimiento de las artes y las letras. Es el período histórico que se conoce como el Siglo de Oro Valenciano y que coincide con el papel relevante que jugó la ciudad de Valencia en la Corona de Aragón. En estos momentos la Catedral también estaba cambiando. Se concluye la construcción del Miguelete, se añade el segundo cuerpo al cimborrio y el último tramo del templo para unirlo al Aula Capitular y a la Torre. En 1416 se cierra la bóveda del Presbiterio y en 1432 se culmina la clave tallada por el escultor Joan Sanou a partir de un dibujo del mestre Martí. El pintor al que se le encomendó la decoración fue Gonçal Peris (Gonçal Sarriá), quien fue ayudado en la tarea por Garcia Sarriá, que era su sobrino. Paralelamente a todo esto el cabildo encarga la ornamentación integral del recinto a los pintores Gonçal Sarriá, Miquel Alcanyis, Felip Porta y Berenguer Matheu. El encargo consistía en pintar la bóveda con unos Ángeles de la Pasión, los Apóstoles y la Última Cena. La obra fue llevada a cabo en un tiempo record, ya que comenzó en el mes de julio y estaba finalizada en noviembre. El 21 de mayo de 1469 La Palometa, un incensario de la época, provoca una hoguera, tras el guardapolvo del Retablo del Altar Mayor que destruye


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la decoración gótica. El Cabildo reaccionó con prontitud enviando a mossen Joan Ridaura a Castilla, para buscar al mejor pintor del que tenían referencia, Niccolò Florentino, autor del Juicio Final de la Catedral de Salamanca, al que el Cabildo le exigió que realizara un fresco a modo de prueba, que todavía se conserva en la Capilla del Santo Cáliz. Pero Niccolò Florentino no pudo acabarla, apenas iniciada murió, por lo que la obra quedó paralizada. Otros intentos con pintores locales no dieron resultados satisfactorios. En 1472, el Cardenal Rodrigo de Borja, que también era Obispo de Valencia, es enviado por el Papa Sixto IV, para recabar fondos financieros para la Cruzada contra los turcos y subsanar, al mismo tiempo, algunos defectos de forma que tenía el matrimonio entre Isabel de Castilla y Fernando de Aragón, futuros Reyes Católicos. Como hombre del Renacimiento, el Cardenal Borja llega a Valencia con todo el fasto que su rango requiere: músicos, poetas y pintores formaban parte integrante del séquito. Precisamente dos de sus pintores, Paolo da San Leocadio y Francesco Pagano, serán propuestos por el Cardenal para que lleven a cabo la decoración de la Capilla Mayor, tanto de los muros como de la cúpula. El contrato, entre el Cardenal el Cabildo y los pintores, se firmó el 28 de julio de 1472, con un precio muy alto, tres mil ducados, lo que nos patentiza la importancia de la obra. El contrato dice así: «Item que en casqun pany dels canes pintaran dos angels ço es una angel en casqun pany, vestits a voluntat del dit honorable capitol, ab ses ales sembrades d’or fi molt bell». El primero de los dos artistas era un joven originario de Reggio Emilia, conocedor de la obra de Mantegna, de Marco Zoppo y de los pintores más relevantes de Roma, Venecia y Ferrara. De hecho, según la estudiosa Adele Condorelli debió conocer también el salón del Palacio Schifanoia y aprender allí la técnica del fresco. El segundo era natural de Nápoles, y de entre su obra podemos destacar la Sarga del órgano de San Efermo en Nápoles. Pese a su trayectoria artística y a que su mentor era el máximo representante eclesiástico, el Cabildo de Valencia les invitó a hacer una demostración de sus habilidades artísticas y, aunque en mal estado, todavía se conserva la representación de un Nacimiento, fruto de la prueba que realizaron para ello en el acceso ala Capilla del Santo Cáliz. En el siglo pasado el historiador Roc Chabás traduce el contrato donde se especifica el procedimiento pictórico a emplear que debía ser al buen fresco. Comenzarían por la clave que representaría a la Virgen; a su alrededor un coro de serafines en oro fino y en cada plementería dos Ángeles con las alas de oro y bellos colores. Los nervios tendrían que estar decorados con guirnaldas de hojas y frutos con oro fino de ducados, las ventanas doradas con el mismo oro y pin-


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tadas de azul Alemania (azurita) en la primera o primeras manos y de acre (lapislázuli) en el muro de fondo, así como en los laterales, por debajo de las ventanas, había de figurar una historia de los Apóstoles. Los capiteles debían ser dorados con oro fino y pintados con guirnaldas. En los pilares se tendrían que representar guirnaldas con hojas de vid, todo con oro fino. Los pintores se comprometieron a realizar la obra según estas disposiciones, pactaron no separarse mientras durasen los trabajos y se fijo un plazo de ejecución de seis años. Pero una vez acabado el trabajo, el Cabildo no quedó muy satisfecho. Les planteó un pleito donde les acusaba de no haber utilizado ni todo el oro ni todo el azul que se habían estipulado, por lo que recurrieron a un jurado para que emitiera una opinión al respecto, que estuvo compuesto por Manuel Salvador, Joan Ponç, Pere Joan Ballester, Jordi Alimbrot y Martí de Sant Martí. Éstos peritaron la obra y llegaron a la conclusión de que el trabajo era correcto en cuanto al procedimiento, pero no en cuanto al oro y al azul empleados. Una vez subsanado el asunto se les pagó y se presentó la obra a los fieles. Y así nos dejaron las pinturas renacentistas más avanzadas y espectaculares del momento, no sólo en nuestro país, sino en toda Europa. Evidentemente, todos los historiadores, que hubieran leído a José Sanchis Sivera o los libros de Fábrica de la Catedral, tenían que conocer esta historia, al igual que nosotros. Pero, a pesar de ello, no había suscitado el interés ni de los que acometieron la restauración en los años ’40, ni de los que la realizaron en los ’60, los cuales se limitaron a pintar las plementerías en un temple gris ocultando la decoración dorada barroca. Tampoco fue objeto de interés de aquéllos que redactaron el Plan Director que encargó el Ministerio en 1998, y no nos convence que por un bajo presupuesto no hubieran indagado en la bóveda, dado que un Plan Director está destinado a la investigación y al conocimiento a fondo del monumento que se pretende intervenir y éste no se hizo. La restauración integral de la Capilla Mayor de la Catedral nos fue encargada por un acuerdo entre el Molt Honorable President de la Generalitat Valenciana, Don Francisco Camps Ortiz, y Don Juan Pérez Navarro, Deán-Presidente de la Catedral. El equipo multidisciplinar lo han formado: - La Doctora Doña Mª del Carmen Millán, el Doctor Don Jorge Curiel, el Profesor Fernando J. García Diego, la Técnico en Conservación y Restauración de Bienes Culturales Francisca Sarrió Martín y el Doctor Don Juan Pérez Miralles, como responsables de la analítica de la U.P.V. - La Doctora Cristina Acidini y el Doctor Carlo Lalli, como responsables por parte del Opificio delle Pietre Dure di Firenze.


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- El Doctor Don José Luis Lerma, como responsable del digitalización en 3D de la bóveda y de la fotogrametría. - Don Pascual Mercé como fotógrafo. - La Doctora Doña Milagros Vaillant, como especialista en Conservación Medioambiental y Doña Mª del Carmen Sanchos Bargues, como bióloga. - Don Salvador Vila, como Arquitecto redactor del Proyecto. - Don Javier Catalá Martínez, como responsable de la Coordinación de los trabajos de Restauración. - El equipo de licenciados en Bellas Artes con la especialidad en Conservación y Restauración compuesto por: Doña Ana Cañizares Sales, Don Raúl Chuliá Rodrigo, Doña Patricia Taberner Vilar, Doña María Cartaya Farbregat, Doña Concepción Morales Carbó, Doña Inmaculada Navarro Vilar, Don Antonio Pagán Pérez, Doña Laura Fernández Sánchez, Doña Aurora Rubio Mifsud, Doña Rosa Maria Cordero Chamorro y la Dra. Margarita Doménech Galbis. - La Doctora Doña Carmen Pérez García, como Directora del Proyecto. Nos pusimos a trabajar en la redacción del proyecto de restauración y es en este momento cuando una tarde en la que nos acompañaba el Canónigo responsable del Patrimonio del Arzobispado de Valencia, Don Jaime Sancho, éste nos comentó a los dos su interés por llevar a cabo una investigación sobre las pinturas de las que hablaban los textos, cuestión ésta que también habíamos discutido. Con todo y con esto, propusimos un estudio basado en los documentos históricos ya citados; los textos de Sanchis Sivera, los Libros de Fábrica de la Catedral y el contrato traducido por Roc Chabás. Pensábamos realizarlo utilizando un endoscopio al que se le acoplaría una cámara de fotos o de video, dependiendo del caso y de lo que quisiéramos plasmar. Conocíamos también toda la trama de la decoración barroca, encargada por el Arzobispo Don Luis Alfonso de los Cameros, que ocupó la sede valentina desde 1668 y hasta 1676, según el Proyecto de Diego Martínez Ponce de Urrana – arquitecto de la Capilla de la Virgen de los Desamparados – y que ejecutó Pérez Castiel – según David Vilaplana Zurita éste introdujo numerosas mejoras ornamentales para que el conjunto tuviera mayor brillantez. La justificación para acometer esta remodelación, según los Libros de Fábrica, era que las pinturas existentes se hallaban ennegrecidas y en mal estado. En ningún momento dicen que las nuevas corrientes artísticas constituían la auténtica motivación de esta transformación. En ese momento se oculta un tramo importantísimo de la historia pictórica valenciana y uno de los capítulos más trascendentes del Renacimiento en España.


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Esta afirmación viene a ser corroborada por una serie de estudiosos del arte a quienes se ha consultado sobre el tema en cuestión, como es la especialista Adele Condorelli que nos dice, citando textualmente su informe, que «los historiadores del arte no podemos sino congratularnos del inesperado hallazgo de las pinturas del ábside de la Catedral que creíamos definitivamente perdidas». En otro párrafo comenta que «cuando se pueda sacar completamente a la luz el Concierto de los Ángeles será una gran aportación a la Historia del Arte del Renacimiento». Otra prestigiosa investigadora, la Dottoressa Cristina Acidini, Directora del Opificio delle Pietre Dure di Firenze, nos dice textualmente que «el reencuentro con la pintura mural de Paolo da San Leocadio y Francesco Pagano sobre la cúpula barroca de la Capilla Mayor de la Catedral de Valencia es seguramente un evento de extraordinaria importancia por la calidad artística de los ángeles músicos y será una gran contribución a la Historia del Arte europea y, en particular, a la española en un período de gran relevancia como es el Renacimiento, connotando la influencia internacional entre los países de Italia y España». El Presidente dell’Istituto storico italiano per il medio evo, Prof. Massimo Miglio, no dudó en comparar estas pinturas a las de la Capilla Brancacci en Florencia y Ximo Company, Catedrático de Historia del Arte por la Universidad de Lleida, nos dice en su informe que «debe concluirse y proclamarse con absoluta objetividad que se ha recuperado un extraordinario privilegio y muy significativo pedazo de la Historia de la pintura española del Renacimiento». Otros Catedráticos como Joaquín Bérchez, Fernando Marías, Rafael Gil Salinas, Román de la Calle o Fernando Benito, entre otros, se han manifestado en términos similares, porque está claro que son las primeras y las mejores pinturas renacentistas que existen en nuestro país y que constituyen un hito histórico y un testimonio innegable de la importancia de nuestra ciudad en ese momento de la Historia. Como describe el contrato, se trata de doce ángeles músicos engalanados con bellísimos ropajes de la época y enormes alas multicolores, además de detalles ornamentales como broches, cenefas, terciopelos, tisúes, gasas y brocados. Son de mayor tamaño que el natural, en cada plementería hay dos de ellos y uno a cada lado del arco que remata la bóveda. Los fondos son azurita cielo con estrellas doradas en relieve y rodeando la clave o pinjante, unos querubines en rojo y verde. Cuando el 22 de junio de 2004, a través de un orificio existente, introdujimos una cámara fotográfica digital y vimos por primera vez la cara de uno de los ángeles allí representados, experimentamos una gran emoción,


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no sólo por lo que en sí significa el reencuentro que, en cierta manera, era esperado, sino también por el magnífico estado de conservación en el que se hallaban las pinturas teniendo en cuenta el tiempo transcurrido desde su manufactura y los diversos avatares sufridos a lo largo del mismo, además del supuesto mal estado de conservación de las mismas que se había alegado para su supresión y que había trascendido y había quedado reflejado en estos términos en los Libros de Fábrica [Fig. 14]. Ninguno de los investigadores que formamos parte del equipo de trabajo pensaba encontrar esta magnífica obra en tan buen estado de conservación, ya que lo más frecuente es que las dos cúpulas estuvieran adheridas y las pinturas picoteadas para lograr que el revoque quedara fijado. Por esta razón nos decantamos para su prospección por un sistema de endoscopios. Pero, al poder acceder fotográficamente por un pequeño orificio oculto por una decoración de madera y nos encontramos las pinturas comprobamos la gran importancia de las mismas, así como el estado en el que se hallaban, tomando la decisión de practicar unas pequeñas catas en cada una de las plementerías para verificar el estado de conservación, que resultó ser muy bueno. Con todo y con eso, las pinturas presentan una dura problemática debida a las filtraciones de agua de la techumbre que han dado lugar a amplias zonas de sulfataciones, además de las complicaciones derivadas de la presencia de nidos y excrementos de palomas, que han dañado gravemente algunas zonas puntuales. Se consensuó el programa a seguir para la restauración de las pinturas, el cual consistió en la realización de fotografías con luz natural, luz rasante, luz tangencial, luz monocromática, luz infrarroja: en color y en blanco/nigro, reflectografía, termografía, radiografías, estudio de estereorradiografías y estratirradiografías, sistemas láser y sónicos, fotogrametría, levantamiento topográfico, métodos puntuales de: microscopia óptica, microscopia electrónica, tests microquímicos, espectrometría por transformada de Fourier, espectroscopias tanto atómica como molecular. Así mismo, se efectuaron métodos de datación a través del estudio de los pigmentos, analizando los elementos de traza, la relación entre los isótopos del plomo (método nuclear) y la datación del blanco de plomo por su contenido de uranio. Paralelamente a todo esto, se propuso el estudio multiespectral de las texturas a partir de sensores en espectro UV visible e IR cercano. El estudio multiespectral nos permitía representar gráficamente las diferentes tipologías pictóricas, pudiendo así representar gráficamente trazos y zonas homogéneas a nivel superficial e interior. De esta forma pudimos plasmar las distintas fases constructivas desarrolladas por los autores de la obra; jornadas de fresco, zonas de seco, altorrelieves.


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Queremos dejar constancia de que, desde un primer momento, nuestro interés estaba volcado en las dos decoraciones, la renacentista y la barroca, y que se plantearon los mismos estudios previos, analíticos y las mismas actuaciones, siempre y cuando éstos eran necesarios y aplicando en todo momento criterios de máximo respeto a ambas obras. Mientras tanto decidíamos la forma de actuación sobre las pinturas renacentistas, la actuación del equipo de trabajo se dirigió a la restauración de los paramentos verticales barrocos, detrás de los cuales no existía policromía renacentista, siempre aplicando los criterios de mínima intervención, máxima reversibilidad y total preservación y respeto de los elementos originales, así como en la elaboración de una documentación exhaustiva de los materiales empleados durante todo el proceso. La restauración del Barroco El proceso se inició el 24 de mayo de 2004 con la limpieza de las vidrieras, realizándose una serie de pruebas que nos permitieron elegir el método más adecuado. Se llevaron a cabo tres pruebas químicas, ofreciendo muy buen resultado el empleo de un jabón neutro aplicado con hisopos de algodón combinando con una acción mecánica para le eliminación de costras formadas por los depósitos carbonatados de tierra y polvo exterior. Los mármoles son el elemento decorativo por excelencia en el caso que aquí nos ocupa, y se encuentran en la zona baja del Altar, ya que a medida que ganamos altura, son sustituidos por madera imitando al mármol. Tenemos tres tipos diferentes de este material: el blanco de Carrara; el jaspeado; y el negro. Gracias a la analítica realizada, vimos que el producto que mejor resultado nos ofrecía era el Amberlite IR67440H disuelto en agua tibia. Este producto es una resina de intercambio iónico aniónico fuerte y granulometría fina, con un PH entre 3 y 5.5. La limpieza de los mármoles nos reveló que en anteriores intervenciones se habían utilizado anilinas hidrosolubles, tal vez con la intención de unificar los cortes de las piezas. También encontramos zonas de pasmados en el mármol negro por las humedades de capilaridad, decantándonos tras las pruebas por el empleo de Glicerina con un PH 7, aplicada durante seis meses y impermeabilizada por film plástico para evitar su secado prolongando su efecto. Para las reintegraciones volumétricas de los faltantes se buscó un material de fácil manejo, trabajando así con dos productos; el Templum y el Modostuc. Una vez finalizadas las reconstrucciones, la siguiente tarea a


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realizar fue la reintegración cromática de los mármoles, decidiéndose, en último lugar, dar un acabado final con bálsamo a base de cera microcristalina disuelta en White spirit. Las decoraciones doradas constituyen el elemento más abundante en la cúpula y los soportes de oro no son uniformes, sino diferentes. Tenemos madera, yeso y mampostería. El soporte de madera fue estucado, embolado y, por último, dorado, mientras que, por el contrario, el soporte de yeso sólo se emboló y se doró. En el caso de la limpieza del oro, ateniéndonos a la analítica y a las pruebas pertinentes, se optó por un 3A en una proporción del 40%, 57% y 3%, neutralizándolo con alcohol etílico. Para la consolidación de zonas afectadas con escamaciones se ha utilizado una solución de acril aplicada con jeringuilla. También fue necesario reconstruir piezas que, por el paso del tiempo, se habían perdido y entorpecían la correcta lectura del conjunto de la obra. Para ello se realizaron moldes con goma siliconada con reticulación por condensación de tipo RTV que son vulcanizables a temperatura ambiente mediante endurecedores. El positivado de las piezas se realizó con pasta de Araldit SV427 endurecida con el HV427 y aligerado con microesferas. La reintegración cromática se efectuó con oro español de 23, ¼ K. de los faltantes bruñéndose las zonas que así lo requerían. Por último, se optó por proteger la obra con Paraloid B72 disuelto al 5% en Tolueno. En las decoraciones florales doradas existentes en los paramentos verticales y en las plementerías, ocultas por una capa gris de pintura a la cola, se ha optado por una primera limpieza mecánica con bisturí para, por último, limpiar químicamente con una disolución de jabón neutro con alcohol etílico y agua desmineralizada en las siguientes proporciones: 10%, 20% y 70%. Al mismo tiempo, se recabó información documental de todo tipo y se propuso realizar una fotogrametría láser con el fin de poder reproducir a escala real la estructura de la Capilla y su ornamentación en previsión de futuras intervenciones arquitectónicas. La restauración del Renacimiento En cuanto a la restauración de las pinturas renacentistas, se ha estudiado y, después, descartado la posibilidad de acceder a ellas a través del espacio mínimo que existe entre las bóvedas, que en su parte más amplia es de 90 cm y en la más estrecha de 5 cm. Para ello se montó un andamio exterior y se desmontó el cubrimiento de una de las ventanas góticas y así poder acceder al interior. Se concertó una cita con dos funcionarios de


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Seguridad e Higiene en el trabajo, enviados por la Consellería d’Economia, Hisenda i Ocupació, Gabinet de Seguretat i Higiene en el Treball que emitieron, después de introducirse entre las dos bóvedas, un informe negativo debido a la incomodidad y peligrosidad que implicaba para los restauradores trabajar en esas condiciones. Por esta razón, la cual nosotros teníamos clara desde un primer momento, aunque no así los Servicios Técnicos de la Consellería de Cultura, nuestra propuesta consistió, y coincidimos totalmente con el Arquitecto Redactor del Proyecto, en que se realizara un desmontaje de las plementerías con estaco a masselo de todas y cada una de las zonas, numeradas y catalogadas previamente, que nos permitierá restaurar las pinturas. Esta cuestión fue aconsejada por todos los Técnicos, nacionales e internacionales, que visitaron la bóveda antes de su intervención y que tuvieron el inmenso placer de contemplar de cerca una obra renacentista de origen italiano de la importancia y trascendencia que este reencuentro histórico-artístico tiene, para poder así solucionar la problemática que presentan las pinturas. Se trata de un momento de la Historia del Arte valenciano muy especial y relevante que se había perdido y que, ahora, tenemos la oportunidad de recuperar en su máximo esplendor para el disfrute y contemplación de todos los valencianos. Hemos estudiado muy a fondo los principios de International Council on Monuments and Sites relativos a la preservación y a la conservación de la pintura mural establecidos en Victoria Falls en octubre de 2003, así como la legislación vigente en materia de patrimonio, como por ejemplo, el artículo 38 que habla de los criterios de intervención de monumentos y jardines, así como también lo hace el 41. Todas y cada una de estas consideraciones han sido tenidas en cuenta en todo momento, velando siempre por la correcta preservación de las obras de la Catedral Metropolitana de Valencia. El dilema estético, histórico y jurídico surge porque estamos ante la obra más relevante del barroco local ejecutada por el arquitecto Pérez Castiel, la cual oculta las pinturas más importantes del Prerrenacimiento en un momento en el que ni en la misma Italia se estaba realizando con tanta libertad y creatividad. ¿Qué es lo auténtico en este caso? ¿Las mejores pinturas al fresco de ese momento (1472) existentes en España o la decoración barroca de 1674? Indudablemente ambos momentos son de suma importancia y las dos decoraciones son muy valiosas. Existen puntos a favor y en contra para todos los gustos, de ahí el fuerte dilema. Se conservan muchas obras similares de Pérez Castiel en la Comunidad Valenciana como son el caso del Altar Mayor de la Iglesia Arciprestal de Santa María de Morella, la Iglesia Parroquial de Nuestra Señora de los Án-


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geles de Chelva, la Iglesia Parroquial de la Purísima Concepción de Calles o de la del Salvador en Requena, entre otras. La Catedral Metropolitana de Valencia resulta un tratado de arquitectura que, partiendo de la antigua mezquita árabe, conserva elementos tardorrománicos. Su momento constructivo más álgido fue el gótico, al que le debe toda su estructura y una de sus portadas. El Renacimiento, que converge con todo lo que se ha denominado el Siglo de Oro Valenciano, parecía estar poco representado, pues únicamente se conservaban La Logia de los Canónigos y el retablo de los Hernandos. Pero recientemente hemos comprobado que lo estaba mucho más, gracias al reencuentro producido con los frescos renacentistas de la bóveda del Altar Mayor y al comprobar también que los paramentos verticales estaban decorados de la misma manera, aunque con la ornamentación barroca la renacentista quedó prácticamente destruida. El período barroco tiene su mayor representación en la Capilla Mayor y en la puerta de los Hierros y más tarde Gilabert transformará todo el interior de la Catedral al gusto neoclásico. Todas estas modificaciones ya han pasado a integrarse en el conjunto de la Catedral y para cada período son auténticos. Para llevar a cabo estas actuaciones se recurrió siempre a los mejores y más destacados artistas, que colaboraron con su maestría al embellecimiento del inmueble. Por todas estas razones, el proyecto, que tras dos años de estudio y consultas, se propuso desde el máximo respeto hacia las dos ornamentaciones, consistió en el desmontaje totalmente reversible de las plementerías barrocas para poder acceder a la restauración de las pinturas conservando las nervaduras barrocas. Con esta solución se pueden contemplar los frescos renacentistas a través de ese gran marco barroco que constituyen los nervios. Por otra parte, las plementerías fueron desmontadas en 360 piezas con el sistema de staco a massello, de manera que podrán ser reconstruidas donde se considere oportuno [Fig. 15]. Así pues, la integridad del monumento se vio alterada, aunque no su autenticidad, puesto que cada una de las obras son auténticas dentro del período histórico al que pertenecen. Lo que variaría sería la integridad de la decoración barroca, aunque con el tratamiento propuesto puede ser recuperada, además de que los cambios estilísticos dentro del monumento no son ni excesivos, ni demasiado visibles, ya que la decoración barroca posconciliar desde la nave central de la iglesia sólo se aprecia en los paramentos verticales, que no se vieron afectados más que por una cuidada restauración que les ha hecho recuperar su dignidad y colorido originales, ocultos tras una película de pintura gris que se le dio en la “restauración” de los años 60 y que desvirtuaba por completo el conjunto.


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Únicamente cuando se está bajo la cúpula se puede apreciar el cambio y disfrutar de la decoración renacentista, que ha vuelto a coronar el retablo de los Hernandos, encargado 40 años después de esta actuación para culminar la Capilla y que se hallaba totalmente descontextualizado dentro de la ornamentación barroca. Hoy lo vemos muy claro, pero en aquellos momentos no lo estaba tanto. La Generalitat Valenciana, así como todos y cada uno de los técnicos del equipo interdisciplinar que trabajaron en la restauración de la Capilla Mayor de la Catedral Metropolitana de Valencia hicieron un enorme esfuerzo para solucionar este problema, que albergaba una gran complejidad. Pero la actuación llevada a cabo, ha permitido conservar ambas bóvedas con el máximo respeto hacia las dos y utilizando para ello las últimas tecnologías. En el momento en el que fue desmontada la bóveda barroca, pudimos apreciar con detenimiento el deterioro real de las pinturas renacentistas y estudiar los agentes que a lo largo del tiempo lo habían ido produciendo. Por una parte, teníamos los agentes internos que están directamente relacionados con los materiales que se emplearon en su ejecución y la manera en que fueron aplicados. Por otra parte, tenemos los agentes externos, que tiene que ver con condiciones ambientales inadecuadas, como ocurre con elevados niveles de humedad y temperatura o con la presencia de agentes biológicos como las palomas, los roedores, los insectos y los microorganismos. Antes de comenzar la restauración de las pinturas, se propusieron una serie de trabajos a realizar, como fue el caso del levantamiento topográfico, cuyo fin es determinar con exactitud un objeto en su espacio tridimensional. Para ello se traza una retícula de puntos que definan la morfología del elemento mediante el empleo de una estación total con distanciamiento láser. El proceso se inicia marcando unos puntos base, desde los cuales el aparato podrá triangular su posición dentro del área preestablecida de medición y, a continuación, se puede empezar a tomar puntos de distancia, recreando en este caso la cúpula barroca. El resultado es la medición exacta de la posición de todos los elementos constitutivos de la bóveda barroca, es decir, de las plementerías, las nervaduras o los elementos decorativos, entre otros. Esta técnica es imprescindible para el desmontaje de las plementerías, puesto que así, en el futuro proceso de reconstrucción, toda el área estudiada podrá ser colocada de nuevo en el lugar exacto de origen, permitiendo su total reversibilidad. Pero, dada la importancia del trabajo a realizar con el desmontaje y futura reubicación de la bóveda barroca, se propuso llevar a cabo un estu-


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dio fotogramétrico, que fue planificado en dos fases bien diferenciadas del proceso de restauración. La primera de ellas consistía en documentar gráficamente, así como en reproducir bidimensional y tridimensionalmente las pinturas renacentistas ocluidas bajo la bóveda barroca. La segunda fase abordó una documentación métrica de precisión, mediante fotogrametría y escaneado láser terrestre de la bóveda barroca previo a su desmontaje. La particularidad del trabajo realizado en la primera fase radica en que por primera vez fue posible visualizar el conjunto de las pinturas realizadas por los maestros Paolo da San Leocadio y Francesco Pagano, sin necesidad de desmontar total o parcialmente la bóveda barroca, lo que sirvió para que los organismos involucrados en la decisión observaran una imagen virtual previa del resultado posterior. Con respecto al segundo trabajo, cabe resaltar que nunca antes se había recogido una documentación métrica tan exhaustiva como la presente en la bóveda del presbiterio de la Catedral. En la primera fase se hizo una toma fotográfica de las plementerías góticas que soportan las pinturas renacentistas, a partir de las catas que se habían practicado en la doble rosca de ladrillos barroca. Fueron casi un centenar de imágenes digitales capturadas con condicionantes físicos bastante desfavorables y bajo una iluminación muy poco adecuada. Una vez completada la fase de adquisición de las fotografías correspondientes a las pinturas renacentistas, continuó el mismo proceso con la bóveda barroca. Gracias al conocimiento que teníamos sobre las coordenadas de cuarenta puntos de apoyo señalizados sobre la bóveda, junto a las imágenes digitales conseguidas, logramos definir un modelo matemático que se adaptase a la bóveda barroca sobre dicho modelo; se proyectaron desde los laterales las arcadas góticas, previa corrección de las imágenes digitales, a través de los ventanales comunes a los estilos, barroco – vistos desde el interior – y gótico – vistos desde el exterior. De esta manera se determinó un modelo digital sobre el que poder proyectar los mosaicos de imagen corregidos de distorsión geométrica, así como de color. La reproyección de los mosaicos de imagen al modelo digital de superficie dieron como resultado una sensación de volumen, tal y como si uno estuviera viendo la bóveda barroca desde arriba o desde cualquier otra posición y orientación espacial. Además, esta utilidad posibilitó la opción de poder mostrar el trabajo realizado a través de productos multimedia y/o Internet. La segunda fase también partió de una toma fotográfica y láser de las plementerías, lunetos y decoración barrocos desde múltiples posiciones espaciales y a dos alturas distintas. En total se realizaron dieciocho estaciones láser, dos por plementería a nivel superior, más cuatro a nivel de cor-


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nisa. El volumen de datos láser ascendió aproximadamente a 172 millones de puntos espaciales (x, y, z), junto a sus valores de intensidad (I). En todo momento se procuró que ne la fase de captura el espacio sobre la superficie de la bóveda barroca fuera de, al menos, 5 mm. Paralelamente al proceso de escaneado, se procedió a la captura fotogramétrica de toda la bóveda barroca a alta resolución. De este modo, la nube de puntos láser puede correlacionarse con las imágenes digitales a fin de poder contextualizar la información sobre texturas y definir con nitidez de bordes. La segunda fase consistió en referir a un único sistema de referencia objeto xyz el conjunto de nubes de datos láser capturados en sistemas de referencia instrumentales. Para ello se situaron esferas, además de dianas, con las que fue posible realizar un ajuste fino en bloque de todo los escaneados llevados a cabo. Las desviaciones obtenidas en el bloque fueron del orden de milímetros, consiguiéndose, por tanto, resultados muy satisfactorios. La analítica que se ha realizado es exhaustiva y comparada, ya que se ha efectuado desde la Universidad Politécnica de Valencia, a cargo de la Doctora Maria Carmen Millán y desde el Opificio delle Pietre Dure di Firenze, a cargo del Doctor Carlo Lalli. Con estas investigaciones se pretendía detectar la técnica de ejecución de las pinturas, así como constatar el estado de conservación de las pinturas, analizando especialmente las eflorescencias salinas halladas. A fin de estudiar la técnica de ejecución, se tomaron unos microfragmentos de los diferentes fondos cromáticos de la bóveda. Para el estudio de pigmentos, retoques y dorados, se ha utilizado la microscopía electrónica de barrido, porque esta técnica permite la caracterización e identificación de los elementos presentes en cada uno de ellos. Las sales que forman parte de la composición del agua son arrastradas desde el interior del muro, llegando a la superficie pictórica donde el agua evapora y éstas cristalizan. Las causas de exceso de humedad suelen ser: la acción de la lluvia sobre las pinturas, la higroscopicidad de los materiales que componen la obra y la humedad residual existente en los cerramientos. Además los elementos que componen la obra arquitectónica también afectan a las pinturas. La piedra, el adobe o el ladrillo pueden contener sales hidrosolubles que afectan química y mineralógicamente al muro. La alteración más acusada en estas pinturas eran las sales, que aparecían como velos blanquecinos y grandes eflorescencias que creaban pulverulencias y disgregación en los diferentes estratos. Las alteraciones encontradas se deben a varios factores que detallamos seguidamente: las sales solubles que se encuentran en el interior del muro, en sus repetidos ciclos de hidratación y recristalización, aumentan de volumen, lo que puede provo-


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car continua disgregación, pulverulencia, exfoliaciones y levantamiento de mortero y cuando las sales debido a las corrientes hídricas del interior del mortero cristalizan en la superficie, siendo la película pictórica la que se ve afectada. Las sales que provocan un mayor problema son los sulfatos de sodio, potasio, magnesio y calcio porque donde cristalizan alteran la cohesión de los materiales. El sulfato cálcico puede formar un velo blanquecino superficial que oculta la policromía. Procede de ambientes marinos, de los materiales que se utilizaron en el mortero, de ciertos microorganismos como son las sulfobactérias que pueden metabolizar formas reducidas de azufre y oxidarlas convirtiéndolas en sulfatos. Los nitratos son los más fáciles de eliminar y provienen de la descomposición de la materia orgánica. En cambio, los cloruros de sodio suelen ser depósitos superficiales que transporta el aire marino. Cuando pudimos contemplar las pinturas en su totalidad, vimos que su estado era aceptable, con graves afectaciones por sales, grietas de asentamiento, otras de tipo estructural, pérdida de película pictórica en algunas zonas, pero no muy importantes, actos vandálicos que provocaron los albañiles que realizaron la decoración barroca, que iban desde la clásica “peya” de yeso que cubre la boca o el ojo de un ángel a graffitis fálicos encontrados en la manga del ángel que toca la lira. Encontramos daños provocados por la decoración barroca en cuanto a anclajes y por ello picaron las zonas inferiores de las cenefas y de las medias cañas de los nervios renacentistas hasta dejar al descubierto la piedra gótica. También encontramos faltantes de mortero y aunque las zonas de dorados se encontraban en buen estado, estaban cubiertas por una gruesa capa de suciedad. Los dinteles de las ventanas presentaban graves craqueladuras y abolsamientos con peligro de perderse si no se trataban. Todas las plementerías se analizaron pormenorizadamente, y aunque se parecían bastante, los desperfectos en cada una de ellas se manifestaban de distinta forma según la penetración de agua que habían sufrido o como se habían ensañado con ellas los obreros del siglo XVII. Cuando todo estuvo estudiado y analizado comenzó la intervención directa. En primer lugar eliminamos las concreciones de yeso con hexametafosfato de sodio en agua desionizada al 10%, un desulfatante que ofreció muy buen resultado, actuando sobre las capas de yeso reblandeciéndolas y facilitando su eliminación mecánica por capas de forma controlada. Para la limpieza de la suciedad superficial, en primer lugar, se realizó una limpieza física y mecánica con goma Wishab y con bisturí rebajamos las concreciones y la limpieza química. Después de las pruebas que realizamos, nos decantamos por el hexametafosfato de sodio en agua tibia al


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10%. En el azul del cielo era demasiado agresivo. En este caso se efectuó una limpieza con consolidante con una mezcla de Klucel (una carboximetilcelulosa sintética) con hexametafosfato de sodio en proporción 9/1 sobre papel japonés que absorbía la suciedad tras un periodo 10 minutos. En la limpieza de dorados la solución que mejor nos funcionó fue una mezcla de alcohol y acetona al 50%. La eliminación de sales, tanto solubles como insolubles, el hexametafosfato de sodio puro en agua tibia al 10% es lo que mejor nos funcionó ya que no afecta a la pintura y tiene propiedades de limpieza, siempre tratando de evitar los brillos que puede producir. Las zonas donde los velos blancos eran más resistentes, se limpiaron con amberlite cationico en empacos de cinco minutos a través de papel japonés para que no moviese el color. En zonas resistentes se utilizaron empacos de sepiolita y por aplicación de pulpa de papel en procesos de humectación absorción de forma repetida sobre papel japonés. Para consolidar el intónaco se propuso una protección con papel japonés y vinapás disuelto al 10% en agua destilada para aquellas zonas que podían desprenderse. Esta proporción también serviría para evitar que el consolidante y el mortero manchen la pintura en el caso de que rebose por la grieta. Posteriormente se inyectaría una solución a base de agua y alcohol al 50% que humectaría la zona. Después se preparó una solución de AC33 y agua destilada al 20% inyectándose con jeringuilla. Cuando fue necesario se mezcló con un mortero de PLM-A que permite rellenar pérdidas internas. Si el soporte necesitaba ser consolidado, pero no había grietas, se practicaron micro perforaciones en las zonas menos perjudiciales. Durante la restauración en la plementería seis, por problemas de falta de adhesión, hubo que realizar un arranque y posterior recolocación de unas piezas de intonaco por el peligro de desprendimiento que tenían. Se protegió con papel japonés y klucel, reforzando la protección con gasa que vuelve a adherirse klucel. Cuando la protección se ha secado se desprende el fragmento con sumo cuidado, ayudándonos con un bisturí, pasándose a continuación sobre un soporte rígido y se fija a él de forma que quede fuerte y pueda ser intervenido con toda seguridad. Se eliminan los restos del reverso que molesten, dejando exclusivamente la capa del intonaco, para poder adherirla correctamente a la zona arrancada. Para una correcta adhesión se coloca una gasa quirúrgica en el reverso de la pieza con AC33 al 20% y se adhiere al intonaco. En el anverso de la pieza se coloca un film transparente y sobre este una plancha de corcho y un peso adecuado al tamaño para que presione de forma regular en toda


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la superficie que estamos adhiriendo. Este proceso debe mantenerse durante al menos 24 horas, controlando que la humedad de los adhesivos no afecte a la pintura. Transcurrido este periodo de tiempo, se elimina el peso, el corcho y el film y se deja que termine de secar al aire. Cuando la pieza ya se encuentra en condiciones adecuadas se humecta el intonaco con una solución de AC33 y agua al 10% para mejorar el nexo de unión del mortero de adhesión necesario para recolocar la pieza con el soporte. Se rellenan los huecos del soporte con PLM y se coloca la pieza dándole una preparación de AC33 con agua y PLM semiblando para que nos permita una correcta colocación. Una vez colocada la pieza se presiona de forma regular para que los excesos de masilla rebosen y se puedan retirar. Después se presiona a través del papel japonés y un panel de poliestireno extruido con un puntal telescópico hasta que notemos que han secado los adhesivos. Otro de los procesos necesarios para la restauración fue la reintegración volumétrica de las faltantes y de las grietas que consiste en reponer las zonas que se han perdido en los estratos superficiales que componen la obra de arte y se pretende con ello devolver la lectura a la obra por una parte y por otra añadir solidez a los bordes de las lagunas para evitar nuevas pérdidas. Esta tarea se realiza con morteros compatibles con los originales, fáciles de aplicar y que fragüen correctamente. Los más empleados son los morteros de cal, los comerciales de PLM y LEDAN o los mixtos que son los morteros de cal mezclados con los comerciales [Fig. 16]. Es muy importante la elección de los morteros ya que el resultado final depende de ellos. Las cargas son las mismas que se emplean en los morteros tradicionales como son áridos de distintos grosores, marmolinas, etc. Se puede añadir a la mezcla una resina sintética para conferir más elasticidad o añadir pigmentos inorgánicos para conseguir tonalidades neutras o para ayudar en las reintegraciones. Optamos por realizar los estucos con uno de la línea PLM añadiéndoles AC33 para aumentar la elasticidad y adhesión. Por último pasamos a la reintegración. Las lagunas en una obra son la falta accidental o intencionada de la película pictórica por tanto interrumpen la continuidad de la imagen. Como en todos los pasos seguidos en la restauración plateada, optamos por la mínima intervención posible. En las grandes lagunas sin documentación se optaría por reintegraciones neutras de color y en las zonas donde existían referencias de cualquier tipo se realizaron reintegraciones discernibles. Se buscó en un primer lugar la reversibilidad de los materiales, la compatibilidad con los materiales originales de la obra, que sean estables en el tiempo y que se puedan discernir las zonas reintegradas.


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Los materiales elegidos para la reintegración cromática fueron pigmentos puros y AC33 al 5%. Después de haber estudiado su perdurabilidad en la cámara de envejecimiento y ver cuál va a ser su comportamiento con el paso de los años se han realizado una serie de pruebas, en algunos casos exhaustivas, como queda reflejado en el libro Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia encaminadas a la consecución de los resultados más apropiados en cada uno de los trabajos que resultan indispensables para lograr una óptima conservación de las pinturas. Teniendo siempre presente la trascendencia mediática del hallazgo y la repercusión en el mundo de la historia del arte que esta aportación supone tanto por los artistas que las realizaron como por el periodo histórico así como por los mecenas que propusieron su realización. Ha sido un trabajo complicado a la hora de tomar decisiones como ocurre siempre en estos casos, hemos querido actuar con el máximo rigor y transparencia, por ello, se llevó a cabo el libro de estudios previos donde hay una exhaustiva relación de todos los materiales que se han investigado y por qué nos hemos decantado por los elegidos. La conservación preventiva En la actualidad se desarrolla un proyecto de seguimiento y conservación preventiva a cinco años vista en el que se están controlando las variaciones de humedad y temperatura por medio de unos chips-sensores que se han incorporado en la obra. Este seguimiento está realizado por el Departamento de Física Aplicada y el Departamento de Estadística e Investigación Operativa Aplicadas y Calidad de la Universidad Politécnica de Valencia. El seguimiento del microclima de los frescos renacentistas se lleva a cabo gracias a la instalación de 30 sensores de humedad relativa, 30 de temperatura, 1 sensor de lluvia y 4 sensores de encharcamiento. Los sensores de humedad/temperatura van siempre emparejados formando un solo dispositivo. De manera que hay 35 dispositivos de seguimiento instalados en diferentes puntos, pudiéndose clasificar en tres tipos diferentes según el soporte que están midiendo. En primer lugar se hallan los medidores de parámetros del aire exterior a la altura de las pinturas, físicamente se encuentran apoyados en los nervios barrocos de la bóveda. En segundo lugar se encuentran los que están midiendo el propio soporte de las pinturas insertados en un tubo cerámico de 20 cm de longitud y 1 cm de diámetro que penetra en la pintura en aquellas zonas elegidas, éstas se han buscado en los puntos de mayor afloración de sales y coincidiendo con zonas faltantes de pintura original.


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Por otra parte se encuentran los colocados en el intradós del muro exterior a la altura del dintel de la ventana barroca. A parte de esta clasificación existen 5 dispositivos, 2 situados en los extremos de la repisa de la bóveda y 3 en la cubierta de la misma, tomando respectivamente el ambiente exterior, la lluvia y el posible encharcamiento. Los datos se recogen mediante un microcontrolador almacenándose los datos en un disco duro de un PC. Ambos se encuentran emplazados en la parte central del ábside y en la zona más amplia de la repisa. Los valores de temperatura y humedad para cada dispositivo se toman en intervalos de 1 minuto, teniendo 64 datos por minuto. Estos datos se almacenan en formato .xls (excel) guardando también la fecha, hora y minuto en el que se adquiere el dato. En total obtenemos un total de dos millones de datos mensuales. Para el análisis de los datos se está utilizando una técnica denominada PCA, “Principal Component Analysis”, especialmente útil para analizar series temporales de datos. Esta técnica diferencia los datos en dos componentes, uno es la medida y otro la medida de la forma. Si esto se representa en una gráfica en dos dimensiones, un eje será la medida, es decir, si un sensor está más húmedo que otro y el otro eje la forma de la medida, es decir, si se comporta de diferente forma que el otro, esto puede deberse a su posición o que el fenómeno físico que está midiendo es interferido por algo. Así, lo que se consigue son unos mapas mensuales mediante los cuales podamos constatar cualquier estado anómalo de los frescos. Se cuenta además, con datos de humedad relativa, temperatura, velocidad y sentido del viento, pluviometría e insolación facilitados por el Instituto Meteorológico. Estos datos nos permiten cotejar la influencia de los agentes atmosféricos exteriores con los interiores creándose un patrón de seguimiento en las distintas estaciones del año [Fig. 17]. Estos trabajos los realizan Dr. Manuel Zarzo Castelló, Profesor de Estadística e Investigación Operativa Aplicadas y Calidad, por Dr. Fernando J. García Diego, profesor del Departamento de Física Aplicada y por D. Carlos Villanueva i Simón, Becario del Departamento de Física Aplicada, todos de la Universidad Politécnica de Valencia. Las radiaciones ultravioletas están siendo controladas ya que en la actualidad son mucho más agresivas que en el siglo XV y hay que vigilarlas constantemente. Se realizan seguimientos mensuales de los datos e forma coordinada con el profesor de la NASA, el Dr. Héctor d’Antoni. Se realiza un seguimiento de la contaminación por partículas sólidas. Las variaciones de temperatura de los muros se controlan por medio de la cámara térmica y mensualmente se fotografían las zonas que estaban afec-


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tadas por sales, para ver cómo reaccionan con el paso del tiempo. También se realiza un seguimiento con cámara termográfica de la cubierta exterior donde se han observado importantes diferencias térmicas sobre el mismo material y plano. Este seguimiento corre a cargo de Dr. Juan Pérez Miralles, Licenciado en Bellas Artes y responsable de la analítica de la Universidad Politécnica de Valencia. Por otro lado se está desarrollando una estadística comparativa entre la asistencia de personas y las variaciones de temperatura humedad. Para ello se han escogido tres zonas de tomas de datos situadas en el presbiterio, donde se encuentran las pinturas, en la nave central, por donde circula la gente y en la zona trasera, por donde accede y sale el público, controlándose la afluencia circulante junto a la hora en relación al valor de temperatura humedad. Este estudio lo desarrolla D. Carmen Sanchis Bargues, Bióloga y Especialista Universitaria en Patrimonio Pictórico Es la primera vez que se propone un proyecto de seguimiento tan exhaustivo y con tantos especialistas trabajando al unísono. Está previsto presentar resultados cada seis meses para acometer una efectiva conservación preventiva.


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Los espléndidos ángeles músicos que Paolo da San Leocadio y Francesco Pagano pintaron hace más de quinientos años sobre la bóveda gótica del presbiterio de la catedral de Valencia no los debemos únicamente a la pericia artística de estos pintores; son también, en gran parte, fruto del esplendor económico-cultural que conoció la Valencia del siglo XV, y en especial la Iglesia valentina, así como resultado de la decidida voluntad tanto del entonces obispo de esa sede, el poderoso y rico cardenal vicecanciller Rodrigo de Borja, como del cabildo de la misma. En otro lugar escribí ya sobre las circunstancias coyunturales, cuya conjunción hizo posible que se pintaran estos frescos, sobre todo la pujanza de la Valencia en la que se firmó el contrato para la ejecución de los mismos1. Ahora, quisiera profundizar en la personalidad del cardenal Rodrigo de Borja como factor determinante de la realización de esta empresa artística, unido al prestigio económico y cultural del cabildo valentino, un elemento cuyo peso, en la realización concreta del proyecto decorativo del presbiterio catedralicio, habrá que dilucidar con mayor precisión mediante un serio trabajo de investigación archivística que dejo para mejor ocasión. Por lo que respecta a la intervención del cardenal Borja no es exagerado afirmar que fue importantísima, pudiéndose asegurar que estos ángeles músicos que decoran la bóveda de la capilla mayor de la catedral de Valencia no hubieran llegado a realizarse sin la intervención decisiva del pur-

1 Véase mi colaboración: El contexto histórico de los frescos: la Valencia del siglo XV y el cardenal Rodrigo de Borja, dentro de la obra colectiva Los Ángeles Musicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, Valencia 2006, pp. 25-41: 25-32, donde describo «El esplendor de la Valencia cuatrocentista» y «La opulencia de la Iglesia valenciana en la segunda mitad del siglo XV».


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purado, quien trajo a Valencia en su séquito a los pintores italianos que los realizaron, quiso estar presente en la sesión del cabildo donde se firmó el contrato (sin duda para asegurarse de que éste se cerraba de acuerdo con su voluntad) y colaboró económicamente a la financiación de las pinturas. En cierto modo, la verdadera importancia y significado histórico del encargo de estos frescos son que nos obligan, por una parte, a revisar la figura del tan denostado Rodrigo de Borja, en especial lo relativo a su formación y sensibilidad cultural, puestas de manifiesto en el mecenazgo artístico que patrocinó, del que estas pinturas son una muestra más; y, por ende, nos lleva a considerar su figura desde parámetros más positivos y luminosos que aquellos tan y únicamente negativos con que lo marcó esa leyenda negra de los Borja, que se ha ido transmitiendo tercamente hasta nuestros días entre muchos historiadores sin crítica alguna. Por otra parte, dicho encargo pictórico nos invita a prestar atención a un sector de la historia valenciana poco tenido en cuenta: el de su cabildo catedral, tratando de determinar quiénes eran (es decir, la procedencia social, la formación y el nivel cultural, los gustos artísticos, el mecenazgo que desarrollaron y el influjo social que ejercieron) esos canónigos que, a finales del siglo XV, quisieron, impulsaron y financiaron la realización de los maravillosos frescos que hoy podemos contemplar; pues esas pinturas nos hablan, por necesidad, no sólo de los artistas que las realizaron, sino también de los hombres en la sombra que con su decisión y sufragio las hicieron posibles. La formación de Rodrigo de Borja Por lo general, la historiografía nos ha transmitido una imagen bastante oscura del cardenal Rodrigo de Borja y posterior papa Alejandro VI, en cuya descripción no voy a entrar, presentándolo como el compendio de todos los vicios de una época negra del papado2. Sin embargo, unos pocos 2

Un historiador tan ponderado y ecuánime como Ludovico von Pastor lo juzga así en el volumen VI de su Historia de los Papas desde fines de la Edad Media, Barcelona 1911, pp. 73-76: «ya al tiempo de la muerte de este desventurado Papa, fue muy desfavorable el juicio que se formó acerca de su vida y conducta. [...] Con una publicidad y falta de escrupulosidad sin ejemplo, se entregó Alejandro VI, durante los once años de su reinado, a sus propias inclinaciones y apetitos enteramente mundanos, y muchas veces reprobables. […] Su vida, así pública como privada, está afeada por graves manchas morales, que obscurecen completamente los pocos lados luminosos de su carácter. Su pontificado fue una calamidad para la Iglesia, a cuyo prestigio infirió las más graves heridas […], contribuyó más que otro alguno a que la corrupción se introdujese en la Iglesia de una manera avasallado-


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años antes de que Rodrigo se convirtiera en Alejandro VI, un contemporáneo suyo, Giacomo Gherardi da Volterra, lo definía como «hombre de ingenio, hábil para todo y de altos pensamientos», y añadía: «su palabra es elocuente, y aunque no posee más que un mediano conocimiento de las letras, tiene un estilo fácil. Es por naturaleza sagaz, y de admirable actividad en el manejo de los negocios. Celébranse sus riquezas y su prestigio es grande, por sus relaciones con los más de los reyes y de los príncipes […]. La multitud de sus alhajas, sus perlas, oro y sedas, tapices bordados y ornamentos sacerdotales, y sus libros sobre todas las ciencias, es muy grande, y todo ello de una magnificencia digna de un rey o de un papa»3. Ingenio, habilidad, ambición («altos pensamientos»), elocuencia, mediana pero suficiente y aceptable cultura (sobre todo bien aprovechada para sus intereses), sagacidad y diligencia en el desempeño de los negocios propios de su cargo, magnificencia en el porte y una vasta red de influencias: he aquí algunos de los rasgos más sobresalientes de la personalidad de Rodrigo de Borja, en el marco de los cuales hay que situar el encargo que realizó de los frescos objeto de estudio en este congreso. Veamos un brevísimo perfil biográfico del prelado que nos ayude a comprender su particular índole. Rodrigo nació en Xàtiva alrededor del año 1431, en el seno de una familia de la pequeña nobleza local formada por Jofré de Borja y Escrivà e Isabel de Borja, hermana de Alfonso de Borja, por aquel entonces obispo de Valencia y futuro papa Calixto III. Allí tuvo como ayo o preceptor a un tal micer Nogueroles, que le enseñó las primeras letras, y al que saludó cariñosamente cuando visitó Xàtiva en 1473. En marzo de 1437 murió su padre y el pequeño Rodrigo se trasladó a la capital del Reino junto con su madre y sus hermanos, para instalarse en el palacio de su tío el obispo, que se encontraba en Italia, al servicio de Alfonso el Magnánimo de quien era consejero. Poco sabemos de sus primeros años, que debieron estar dedicados al estudio bajo el patronazgo de su tío Alfonso, pues sabemos que en Valencia tuvo un maestro que cuidó de su educación, cuyo nombre, Joan Garcia, conocemos por el testamento de su madre. Es muy probable que allí frecuentara la escuela municipal de gramática, lógica y artes liberales, cuya

ra. La vida de aquel hombre, de desenfrenada sensualidad y entregado a los placeres, contradijo de todo en todo a los requerimientos de Aquél cuyo Vicario fue en la tierra». Sobre la formación de la leyenda negra de los Borja véase: M. Hermnann - Röttgen, La familia Borja. Historia de una leyenda, Valencia 1994. 3 Citado por Pastor, Historia de los Papas cit., V, p. 367, el texto original puede leerse en: Jacobi Volaterrani Diarium Romanum ab anno MCCCCLXXII usque ad MCCCCLXXXIV, en L.A. Muratori, R.I.S., XXIII, Mediolani 1733, col. 130.


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enseñanza se había agrupado con la de otras materias en un edificio situado en la calle de la Nave, con estatutos aprobados en 1412 por los jurados y el obispo Hug de Llupià. Mientras tanto, su tío, nombrado cardenal en 1444, velaba por su promoción eclesiástica, y gracias a su patronazgo comenzaron a lloverle las prebendas: en 1447 obtuvo una canonjía en la catedral de Valencia y otra en Lérida, a las que se añadió en 1449 la dignidad de sacristán de la catedral de Valencia. Debió ser en ese mismo año de 1449 cuando el cardenal Alfonso de Borja hizo venir a Roma a sus sobrinos, los hermanos Pere Lluís y Rodrigo de Borja, y al primo de éstos Lluís Joan del Milà. El primero, forzado como primogénito a heredar la condición nobiliaria de los Borja setabenses, fue enviado a la corte napolitana de Alfonso el Magnánimo, como camarero del monarca, mientras que los otros dos sobrinos, que el cardenal había determinado dedicar a la vida eclesiástica, fueron encomendados para mejorar su educación al humanista Gaspare da Verona, quien tenía en Roma una prestigiosa escuela que frecuentaban jóvenes parientes de muchos prelados y que se caracterizaba por introducir elementos humanistas en la enseñanza formal de la gramática, lo cual muestra que el prelado deseaba que sus sobrinos gozaran de una aceptable formación en los elitistas studia humanitatis que se estaban imponiendo en Italia entre las clases más cultas4. A este respecto, es importante señalar que el mencionado instructor quedó admirado de «la elocuencia, el porte y la afabilidad» de Rodrigo, del que más tarde esbozaría este sutil y penetrante retrato: «Es hermoso, de rostro alegre y aspecto risueño, tiene una manera de hablar elocuente y meliflua». Si bien también nos dejaría constancia de otro aspecto sobresaliente de su personalidad, la sensualidad, al añadir: «le basta mirar a las mujeres hermosas para cautivarlas y suscitar en ellas rendidos sentimientos de amor; las atrae de modo admirable, más que el imán al hierro». En ese mismo texto Gaspare cita de pasada al primo de Rodrigo, Lluís Joan del Milà, para destacar la diferencia, tanto intelectual como de carácter, que había entre

4 No está de más recordar aquí que Calixto III confirió a Gaspare da Verona el lucroso oficio de secretario papal, y poco después este humanista logró que el papa otorgase el mismo empleo a su discípulo predilecto, Falcone Sinibaldi. El nombramiento de estos dos literatos, al que siguió el de Lorenzo Valla, Enoch de Ascoli y Jacopo Ammanati, muestra, como ha puesto de relieve Montserrat Moli Frigola, que la pretendida hostilidad del papa español hacia los humanistas, de la que se le acusó, no es tal o al menos «non fu senza eccezioni», pudiéndose considerar un mito histórico que todavía perdura (M. Moli Frigola, Iakobo, en Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi. Atti del Seminario, 1-2 giugno 1979, Città del Vaticano 1980 [Littera Antiqua, 1/1], pp. 183203: 190).


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ambos, diciendo que éste «apenas se le puede comparar [a Rodrigo], pues [...] no posee la elocuencia, el aspecto ni la afabilidad del Vicecanciller»5. De hecho, el juicio de Gaspare coincide con el de otros contemporáneos, que consideraban al joven Rodrigo dotado de singular talento. Así pues, un dato importante a tener en cuenta y que a menudo se ha descuidado al estudiar a Rodrigo de Borja, es el de su formación humanista, no trivial ni insignificante, adquirida durante los años (que pudieron ser hasta tres) que estuvo al cuidado de Gaspare da Verona. Fruto de esta formación humanística fue un cierto gusto por los libros, sin duda motivado más por la ostentación y por la moda de hacer ver que participaba de los ideales humanistas que por una verdadera pasión por los clásicos, que se detecta en Rodrigo de Borja; un detalle que ha pasado casi desapercibido a los historiadores y apenas ha sido destacado por sus biógrafos. En efecto, pocos son los que han caído en la cuenta de que cuando Giacomo Gherardi da Volterra, al que hemos citado poco antes, describe en su Diario romano el elegante palacio que el cardenal vicecanciller se había edificado en Roma, uno de los más admirables de Italia6, magnificando las vajillas de plata, las joyas, los ricos ornamentos y otros objetos preciosos que lo decoraban, destaca, además, que el cardenal poseía en su residencia «una gran cantidad de libros de toda clase de doctrina»7. De tal manera que bien podría ser cierto lo que afirmaba el estudioso borgiano Peter de Roo, al escribir que nuestro hombre dedicaba a la lectura de libros el tiempo que le dejaba libre el servicio del culto divino o el despacho de los negocios de la Iglesia8. Consecuencia de esta afición por la lec-

5 «Vicecancellarius formosus est, laetissimo vultu aspectuque iocundo, lingua ornata atque meliflua, qui mulieres egregias visas ad se amandum gratior allicit et mirum in modum concitat, plusquam magnetes ferrum: quas tamen intactas dimittere sane putatur. Cardinalis Sanctorum Quatuor vicecancellario comparari minime potest. Nam, etsi illius frater sit, non est tamen ea eloquentia, vultu et affabilitate qua vicecancellarius est» (Gaspare da Verona, De gestis temporis pontificis maximi Pauli secundi, en Le vite di Paolo II di Gaspare da Verona e Michele Canensi, ed. G. Zippel, en R.I.S.2, 3/16, Città di Castello 1904-1911, p. 39). 6 Así lo calificaba su antiguo preceptor, Gaspare da Verona, quien escribía: «inter eximia palatia Italiae facile potest connumerari et summis laudibus tolli» (Gaspare da Verona, De gestis cit., p. 38). 7 Loando el palacio del cardenal Borja, el cronista volterrano dirá: «Vasorum argenteorum, margaritarum, vestis stragule et sacre ex auro et serico, ac librorum omnis doctrine vis maxima ei est, cuncta spetie et ornatu regio et pontificio» (Il diario romano di Jacopo Gherardi da Volterra dal VII settembre MCCCCLXXIX al XII agosto MCCCCLXXXXIV, ed. E. Carusi, R.I.S.2, 23/3, Città di Castello 1904-1906, p. 48). 8 P. de Roo, Material for a History of Pope Alexandre VI, his relatives and his time, II. Roderic de Borgia from the cradle to the trone, Brujas 1924, p. 285.


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tura fue la atención que prestó, una vez llegado al pontificado, a la Biblioteca Vaticana, a cuyo frente situó personas competentes y eruditas como Jeroni Pau, Pere Garcia, Juan de Fuensalida y el médico Gaspar Torrella, además del impulso que dio a la imprenta y a la producción de manuscritos miniados9. Uno de esos libros de la biblioteca del vicecanciller debió ser el hermoso códice con las Institutiones de Lactancio que se conserva en el archivo de la Catedral de Valencia (con la signatura: ms. 112), y que presenta todas las características formales del libro humanístico de lujo, destinado a formar parte de la biblioteca de un noble personaje o prelado, tanto por sus dimensiones (338 x 225 mm.) y el material en que está confeccionado, una fina vitela, como por sus características formales: la escritura humanística redonda, con capitales humanísticas doradas de gran belleza, provisto de amplios márgenes para las notas, ocupados en el folio primero por una rica orla ornamental, en cuyo margen inferior encontramos el escudo de Rodrigo de Borja, coronado por el capelo cardenalicio, acompañado en el margen superior por el escudo de su tío, Calixto III, en dimensiones menores. El códice no presenta indicios de uso, a excepción de unas breves notas marginales aisladas, escritas en humanística cursiva, que cabría estudiar si se deben a la mano de Rodrigo de Borja10. Con bastante probabilidad podemos atribuir la autoría de este códice al famoso iluminador alemán Joachim de Ries (nacido en esta localidad cercana de Rothenburg ob der Tauber), latinizado de Gigantibus, activo en Roma desde 1453, donde decoró diversos códices para la corte papal, y que trabajó también para el rey Ferrante de Nápoles, pues la primera página del manuscrito presenta los rasgos característicos de su estilo: la orla formada por un entretejido de motivos vegetales y geométricos, sobre fondo polícromo en azul, verde y carmín, enmarcando los cuatro lados del escrito, así como los animales y los putti que se insertan en la misma11. No está de más recordar que la obra de Lactancio era considerada por los humanistas como

9 Véase a este respecto cuanto escribe X. Company, Alexandre VI i Roma. Les empreses artístiques de Roderic de Borja a Itàlia, València 2002, p. 173, y la bibliografía que cita. 10 Sobre este códice, véase la ficha confeccionada por María Luz Mandingorra Llavata para la exposición Xàtiva, Els Borja: Una projecció europea. Catàleg de l’exposició. 1995, 4 de febrer - 30 d’abril. Museu de l’Almodí. Xàtiva, Xàtiva 1995, II, pp. 148-150; y E. Olmos Canalda, Códices de la catedral de Valencia: catálogo descriptivo, Valencia 1943. 11 Compárese el íncipit de nuestro códice con el del manuscrito de la Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4123, que contiene el De potestate Pape de Domenico Domenichi, obra ofrecida por el autor a Calixto III en 1456.


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uno de los máximos exponentes de los clásicos cristianos, hasta el punto de calificar a su autor como el Cicerón cristiano, y se encontraba entre las lecturas recomendadas por Leonardo Bruni y Lorenzo Valla. Ahora bien, el cardenal Alfonso de Borja no se limitó a proporcionar a sus sobrinos un simple “barniz” de humanismo. Como su intención era encomendarles grandes cargos, quiso que sus sobrinos tuvieran los grados académicos adecuados, de modo que nadie pudiera reprocharle su incapacidad para recibirlos, por lo que los envió a estudiar derecho canónico en la famosa Universidad de Bolonia, pues en aquel momento el eclesiástico, y en concreto el obispo, era visto más como un gobernante que como un pastor, de modo que los estudios de derecho canónico constituían la vía más segura para hacer carrera en la Iglesia. No sabemos con seguridad la fecha en que llegaron a Bolonia, pero nos consta que en agosto de 1452 Rodrigo ya se encontraba en la capital de la Romaña, pues aparece citado como testigo en dos documentos allí estipulados el 7 de agosto de dicho año. Y en Bolonia permanecía el 9 de marzo de 1453, día en que actuaba como testigo de un acta de procuración otorgada por su primo, Lluís Joan del Milà, recientemente nombrado obispo de las diócesis de Segorbe-Albarracín, por aquel entonces unidas12. Tan sólo con motivo de la elevación al sumo pontificado de su tío, con el nombre de Calixto III, sus sobrinos abandonaron Bolonia para trasladarse a Roma y participar en las solemnes ceremonias de la coronación y toma de posesión del nuevo pontífice; pero una vez concluidas éstas volvieron a Bolonia para continuar sus estudios en la Universidad, si bien Lluís Joan lo hizo investido del alto cargo de gobernador de la Romaña con potestad de legado a latere. Sabemos que en esta segunda etapa de su estancia boloñesa Rodrigo se alojó en el Colegio Gregoriano, fundado en 1371 por Gregorio IX, y que desde 1452 estaba regentado por los dominicos. Por aquel entonces la Universidad conocía un segundo momento de esplendor, debido a las reformas llevadas a cabo por el cardenal Bessarión, rector de la misma durante los años de su legación boloñesa, quien se había preocupado de la contratación y formación intelectual de muchos profesores13.

12 Los tres documentos han sido editados por J. Nadal Cañellas, La permanencia de Ro-

drigo de Borja (Alejandro VI) en el Estudio de Bolonia, según los documentos originales, «Acta historica et archaelogica Mediaevalia», 27-28 (2008), pp. 193-198. 13 Cfr. C. Zaccagnini, Storia dello Studio di Bologna durante il Rinascimento, Genève 1930, p. 79. Sobre los lugares de residencia de Rodrigo en Bolonia véase Nadal Cañellas, La permanencia de Rodrigo de Borja cit., pp. 182-183.


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El itinerario normal para la obtención del doctorado en derecho canónico era escuchar cinco años de dicha materia, pues aunque en 1432 se habían reformado los estatutos universitarios y aumentado a seis los años de estudio necesarios para el doctorado, en la práctica común parece que bastaba con cinco y no era difícil obtener dispensas para reducir aun más el tiempo de estudio, hasta el punto que, ante los abusos que se cometían, el papa Nicolás V tuvo que dirigir un breve al cardenal Bessarión, gobernador y legado, para que no se concediese el doctorado a quien no hubiese estudiado, por lo menos, cuatro años en el caso del derecho canónico14. Y éstos fue los que estudió nuestro Rodrigo, como han mostrado las recientes investigaciones del P. Juan Nadal Cañellas en los archivos boloñeses, quien escribe: «dando por demostrado que Rodrigo de Borja estaba en Bolonia en agosto de 1452, sabiendo que los cursos empezaban en octubre de cada año, hay que suponer que Rodrigo comenzó su estudio del Derecho Canónico en octubre de 1452. Sabemos luego que se examinó el 9 de agosto de 1456. De esto resulta que cursó cuatro años completos en el Estudio boloñés y que, por tanto, podía ser dispensado del quinto, a norma de lo establecido por Nicolás V»15. De ese modo se pone fin a las infundadas noticias de cuantos biógrafos supusieron una fugaz estancia de nuestro Borja en la Universidad de Bolonia, transcurrida «entre el estudio y el placer»16. Así, durante cuatro años, Rodrigo oyó las lecciones de derecho canónico; en concreto frecuentaba las clases del canonista Andrea Barbazza, uno de los más famosos maestros de la Universidad, asistiendo diariamente con interés y provecho a sus lecciones durante tres horas, pues lo testifica el mismo Barbazza en la dedicatoria de su obra Rubrica de Constitutionibus: «Domine Rodorice, magnifice prosapie de Borgia, sanctissimi domini nostri pape Calixto tertii nepos […], qui pro tuo in pontificias censuras amore auditorium istud quotidie prope tres horas colis et visitas»17.

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Cfr. Zaccagnini, Storia dello Studio di Bologna cit., pp. 65 y 69; C. Malagola, Statuti delle Università e dei Collegi dello Studio bolognese, Bolonia 1888, p. 113, r. LIV; A. Sorbelli, Storia dell’Università di Bologna, Bolonia 1940, p. 216; Nadal Cañellas, La permanencia de Rodrigo de Borja cit., pp. 189-190: «en tiempos de Rodrigo de Borja, las dispensas eran casi la regla en el Estudio de Bolonia». 15 Ibid., p. 191. 16 Así escribía I. Cloulas, Los Borgia, Buenos Aires 1989, p. 41: «Pasará allí [Bolonia] dieciséis meses, distribuidos entre el estudio y el placer, y en octubre de 1456 recibirá el título de doctor, para la obtención del cual el plazo normal es de seis años». 17 Andrea Barbatie, Super prima parte Decretalium, Bolonia 1517, I, f. X, col. 2.


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Una vez concluidos los cuatro cursos y superados los exámenes, el 9 de agosto de 1456 Rodrigo obtuvo la dispensa de la Universidad para poder acceder a la prueba doctoral sin haber cursado el quinquenio completo, como consta en los libros de matrícula: «eo quod non studuit per quinquenium, nec audivit decretum per integrum annun, nec etiam legit vel repetiit prout exigitur ex dispositione constitutionum dicti collegii, ad hoc ut continue ad privatum et rigorosum examen dicti collegii in jure canonico possit admitti»18. Así, el 13 de septiembre del mismo año, en presencia de los miembros del Colegio de Derecho Pontificio y del archidiácono Giovanni Anania, que presidió la sesión, Rodrigo fue examinado y declarado doctor, «tanquam sufficiens et idoneus», y le fueron conferidas las insignias doctorales19. Cuatro días después, se hacía público su nombramiento cardenalicio, que había tenido lugar en el consistorio del 20 de febrero de 1456, pero que su tío había querido mantener en secreto, no sólo por motivos de prudencia política, sino también por su estricta concepción del derecho, que le impedía conferir los cargos y prebendas eclesiásticas a quienes no tuviesen los títulos académicos requeridos o convenientes para ello. En conclusión, podemos decir que el cardenal Rodrigo de Borja poseía una cultura media, más que suficiente para su época, ciertamente no era un docto humanista como su colega el cardenal Bessarión, pero tenía una formación conveniente, tanto en humanidades como en derecho canónico, superior a la de muchos de sus colegas del Sacro Colegio, de tal manera que al poco de su elevación a la sede de Pedro el curial Girolamo Porzio decía de él: «es extraordinariamente elocuente y toda incultura está lejos de él»20. Como escribe Nadal Cañellas: «parece forzoso admitir que Rodrigo de Borja, papa Alejandro VI, que había vivido a la sombra de un eminente jurisconsulto como su tío Calixto III, fue también él un avezado jurista, habiendo asimilado perfectamente las enseñanzas teórico-prácticas recibidas en Bolonia, enseñanzas que, dotado como era de gran inteligencia, perfeccionó con la práctica jurídica de treinta y cinco años de dirección de la Cancillería pontificia»21. Juicio que concuerda con el que expresó Eneas Silvio Piccolomini, cuando nuestro Rodrigo fue agregado al colegio cardenalicio: «es joven por su edad, pero en lo que se refiere a las cos-

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Nadal Cañellas, La permanencia de Rodrigo de Borja cit., p. 203, doc. IX. Ibid., pp. 204-205, docc. X y XI. Cit. por Pastor, Historia de los Papas cit., V, p. 388. Nadal Cañellas, La permanencia de Rodrigo de Borja cit., p. 191.


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tumbres y sensatez es anciano, y da muestras de valer tanto en la doctrina jurídica como su tío»22. Por otra parte, en lo que respecta a la creación cardenalicia de Rodrigo, conviene recordar que ésta, junto con la de su primo Lluís Joan del Milà, se llevó a cabo en el mencionado consistorio del 20 de febrero de 1456 con el consenso unánime de los cardenales presentes, sin que ninguno pusiera óbice a la misma. Y si el nombramiento suscitó algunas críticas entre los contemporáneos, no fue en absoluto por la indignidad moral de Rodrigo – como algunos historiadores han dicho sin fundamento – sino por su juvenil edad (unos 23 o 25 años). Así, su contemporáneo Eneas Silvio Piccolomini, que sucedería en el papado a Calixto III con el nombre de Pío II, aunque deploraba que la edad del neocardenal era «aliquando minor quam tanta dignitas videretur exposcere», añadía: «doctrina tamen et circumspectio et morum suavitas id honoris haud iniuria consecuta censetur»23. Es cierto que más tarde, al redactar sus Commentarii, criticaría de nuevo la juventud de los sobrinos del papa elevados al cardenalato, «adeo iuvenes», pero precisando: «quamvis indolis optime»24. Así pues, no pueden aceptarse las opiniones de muchos autores modernos de manuales de historia eclesiástica o de historias del papado, que reprochan a Calixto la promoción de Rodrigo de Borja por ser notoriamente indigno y de vida licenciosa25, incurriendo así en un notable anacronismo, pues en este momento el joven Rodrigo no había dado todavía ningún escándalo y su conducta era juzgada favorablemente por los contemporáneos. Como reconoce Pastor, «del tiempo del pontificado de Calixto III no ha aparecido hasta ahora ningún testimonio desfavorable acerca de la conducta del cardenal Rodrigo»26, y su afirmación continúa siendo válida. Sólo al morir su riguroso tío Calixto fue cuando el joven cardenal Borja comenzó a dar muestras de «carnalidad» (es decir de sensualidad y, sobre todo, de amor desmedido por la propia familia); a la que se unió pronto un

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En su De moribus Germaniae: «giovane, è vero, per età, ma per costumi ed assennatezza vecchio, e che accenna di valere in dottrina, quanto lo stesso suo Zio» (cit. por A. Leonetti, Papa Alessandro VI secondo documenti e carteggi del tempo, I, Bologna 1880, p. 106). 23 Pii II De Europa, en Pii II Opera quae extant omnia [...], Basileae, ex officina Henricpetriana, [1571], p. 461. 24 Pii II Commentarii rerum memorabilium que temporibus suis contingerunt, ad codicum fidem nunc primum editi ab Adriano Van Heck, 2 voll., Città del Vaticano 1984 (Studi e Testi, 312), p. 88. 25 Así, por ejemplo, F.X. Seppelt - G. Schwaiger, Storia dei Papi, III. Da Bonifacio VIII (1294-1305) a Pio VI (1775-1779), Roma 1964, p. 228; K. Bihlmeyer - H. Tuechle, Storia della Chiesa, III. L’epoca delle riforme, Brescia 1960, p. 174. 26 Pastor, Historia de los Papas cit., II, p. 443.


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estilo de vida principesco, amante del lujo y el fasto, de la pompa exterior, elementos a tener en cuenta para comprender que años más tarde llevase consigo a Valencia a dos de los más prestigiosos artistas italianos del momento, a los cuales encargar la decoración de la bóveda de su catedral valentina. El cardenal Rodrigo de Borja y el sentido del mecenazgo artístico que patrocinó Rodrigo de Borja era un hombre del Renacimiento, que se distinguía tanto por su habilidad diplomática, sus dotes administrativas y su ingenio para los negocios mundanos, como por su afición al fasto y a un estilo de vida principesco, donde el mecenazgo artístico tenía una particular relevancia. No soy la persona indicada para hablar de la formación, el gusto o la sensibilidad estética, así como del amor por las artes que pudiera sentir nuestro Borja, pues hay especialistas mucho más autorizados para hacerlo. En este punto me limitaré a citar al profesor Ximo Company, que definía a nuestro personaje, en una publicación de 1996, como «un dels mecenes més destacats del Renaiximent italià tot i que poc i mal conegut»27; si bien debemos decir que ahora ya es bien conocido gracias a su amplio, riguroso e interesante estudio, que ya hemos citado anteriormente: Alexandre VI i Roma. Les empreses artístiques de Roderic de Borja a Itàlia. Me limito a considerar algunos aspectos del mecenazgo papal y cardenalicio del momento, útiles para entender el encargo de la pintura de los ángeles que realizó el cardenal de Valencia. Ante todo, no debemos olvidar que dicho mecenazgo estaba dirigido a mostrar el poder de quien hacía el encargo y de la institución a la que representaba (la Iglesia, el Sacro Colegio, la mitra episcopal, el cabildo, etc.). A este respecto, conviene recordar la importancia creciente que adquiere en este momento la personalidad propia de cada uno de los papas y de los cardenales, que en muchos casos se sobrepone a la del papado o a la del colegio cardenalicio en sí, y que se evidencia en el cuidado e insistencia que ponen en dejar bien grabados su nombre y sus armas nobiliarias en todas las obras que financian, especialmente las edilicias, para que manifiesten no sólo su autoridad política y espiritual, su poder y prestigio, sino además la conciencia que el comitente tiene de ello. A este respecto, cabe preguntarnos si acaso figuraba el escudo del cardenal Rodrigo de Borja en los frescos de la catedral de

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X. Company, El mecenatge artístic i cultural dels Borja, en Els temps dels Borja, València 1996, p. 136.


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Valencia, lo cual no sería improbable. El mecenazgo cumplía la función de transmitir una imagen fuerte del poder, del gobernante; debía reflejar la buena salud y la solidez de la institución eclesial, y en nuestro caso concreto el prestigio, poder y grandeza del obispado de Valencia. En efecto, importa señalar que la finalidad de toda esta política de mecenazgo era doble: por una parte, a nivel papal, hacer de Roma un centro de la cultura y el arte de su tiempo, a la altura de la importancia política que el papado había adquirido en el conjunto de los estados italianos. Lo cual puede extenderse al caso de Valencia: la preeminencia adquirida por ésta entre las ciudades de la Corona de Aragón exigía que el encargo pictórico de su catedral fuese de altura, considerable, impresionante, digno del rango de la ciudad y de su obispo, en consonancia con la importancia de ambos. Así pues, sin anular, por supuesto, la finalidad primera del encargo, que era de orden religioso, la obra pictórica encargada a Pagano y San Leocadio debía manifestar y exhibir visiblemente no sólo la gloria de Dios, sino, por añadido, la de los comitentes de la misma: el obispo y cabildo de Valencia. Ahora bien, seríamos injustos si no dijéramos que con este mecenazgo se perseguía también una finalidad religiosa, que era fortificar la fe de las gentes sencillas mediante la admiración de las grandes obras emprendidas por la Iglesia, que exhibía su grandeza y su poder para provocar la admiración y atraer de ese modo a las gentes sencillas, tal como expresó Nicolás V en su testamento. De ahí la aplicación y el uso desmesurado del arte y de la riqueza en los templos (al igual que en los palacios papales y cardenalicios), en disonancia con el espíritu de pobreza que proclama el Evangelio, pero que espíritus tan críticos como Lorenzo Valla apreciaban como algo justo, correcto, pues aparecía como un modo de honrar a Dios. Podemos decir que ambos fines se unían en el mecenazgo desplegado por Rodrigo de Borja: por una parte la ostentación del propio poder, dejar huella de su importancia, de su prestigio y riqueza, al tiempo que de su finura y sensibilidad artística y cultural, así como también – ¿por qué no? –, de su devoción mariana, de su piedad y sincero espíritu religioso, algo de lo que extrañamente parece dudarse al hablar de Rodrigo de Borja – Alejandro VI, como si se tratase de un incrédulo. A propósito de la devoción mariana del vicecanciller, cabe recordar que cuando vino a España, como legado del papa Sixto IV, antes de entrar en la ciudad de Valencia quiso hacer una vela de oración ante la imagen de la “Virgen del Puig”, y antes de abandonarla se dirigió a rezar ante la imagen de “la Verge Maria dels Ignocents”28. Y por lo

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De ello nos informa una fuente contemporánea, el Dietari del capellà d’Anfos el


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que respecta a su espíritu religioso, conviene citar los consejos que Rodrigo, una vez convertido en papa, daba a su hijo Joan el 31 de julio de 1493, cuando lo envió a Valencia para tomar posesión del ducado de Gandía: «Super omnia. Duc: si vols haver la gràcia i benedictió nostra, te manam que tu sies devot de la Nostra Dona gloriosa e bon cristià, tement e observant los manaments de nostre Senyor Déu, a quo cuncta bona procedunt, hoint cascún dia devotament ta missa. E guarda de ésser mentirós, xismer, ni reportador de noves, ni de dir enuig, ni injúria a persona del món, portan-te ab tos parents e tothom ab molta humanitat e cortesia, guardant-te de tota manera de paraules e inconvenients». En la misma carta le ordenaba que se guardase de toda clase de juegos de azar, «per quant qualsevol manera de joch és abominable e detestable, e offén granment la Divina Majestat, e és la ruhina de les cases e porta ab si diversos inconvenients»; en especial debía evitar el juego de los dados, «sub pena excomunicationis»; y unas líneas más adelante le amonestaba severamente: «te manam que tu contínuament dormes e menjes, quant poràs, ab la duquessa, e a aquella serva molta lealtat, e no t’empatxes ab negunes altres dones. E sobretot, per quant has cara la gràcia nostra, te guardes de anar de nit». No son éstas las palabras de un libertino descreído, sí las de un cristiano, aunque pecador29. En Roma, Pienza, Civita Castellana y otros lugares el vicecanciller había dado muestras del favor que dispensaba a las artes30. Y cuando en 1472 vino a su tierra natal en condición de legado papal, se le presentó una estupenda ocasión de patrocinar una obra que perpetuase su nombre entre sus paisanos y mostrase su grandeza a los ojos de todos los valencianos: la decoración al fresco de la capilla mayor de su catedral, arruinada por un incendio ocurrido tres años antes. Como esta obra debía estar a la altura de su dignidad y magnificar su nombre y perpetuar la memoria de su famiMagnànim, introducció, notes i transcripció per Josep Sanchis i Sivera, Valencia 1932, pp. 368 y 371. 29 La carta original, que se conserva en el Archivo de la Catedral de Valencia, Legajo 64/1, fue editada primero por R. Chabás, Alejandro VI y el duque de Gandía. Estudio sobre documentos valencianos, «El Archivo», 7 (1893), pp. 88-90, y posteriormente por J. Sanchis Sivera, Algunos documentos y cartas privadas que pertenecieron al segundo duque de Gandía don Juan de Borja. (Notas para la historia de Alejandro VI), Valencia 1919 (Anales del Instituto General y Técnico de Valencia), pp. 23-25. Cito de la transcripción más moderna, realizada por Vicente Pons, en M. Navarro Sorní – V. Pons Alós, L’epistolari i altres documents dels Borja a la catedral de València, en “Recull epistolar”. Edició facsímil de les cartes borgianes de l’Arxiu de la Seu de València, Valencia 2002, sin paginar, documento n. 1. 30 Cfr. el apartado titulado La comitència i l’impuls artístic de Roderic de Borja a l’època de cardenal (1456-1492), dentro de la obra del profesor Company, Alexandre VI i Roma cit., pp. 47-152.


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lia, el cardenal llevó consigo para ejecutar su idea a artistas experimentados, capaces de llevar a cabo ese grandioso proyecto, que asombrara a los espectadores, como más adelante se serviría de Pinturicchio para decorar sus apartamentos vaticanos. En concreto se trataba de los pintores Francesco Pagano, Paolo da San Leocadio y un desconocido “mestre Riquart”, que la autorizada opinión de Ximo Company identifica con Riccardo Quartararo. Sin duda el cardenal quiso que con la esplendorosa decoración de la capilla mayor se magnificara entre sus paisanos su memoria y la de los Borja, al tiempo que dejar una muestra de su amor por la tierra que le había visto nacer, pues a pesar de sus largos años de estancia en Italia y de su profunda asimilación del estilo de vida itálico, nunca olvidó que era valenciano31. De hecho, estos frescos no eran la primera intervención de mecenazgo que el obispo había emprendido en su catedral, pues en 1466 había dado a sus agentes en Valencia órdenes para desembolsar dinero con el que comenzar la construcción de la capilla de San Luis de Tolosa, proyectada por su tío Alfonso (Calixto III) para exponer las reliquias de este santo al culto público y ubicar allí su propia sepultura. Como es sabido, el obispo Alfonso de Borja no pudo llevar a cabo la obra propuesta, y fue su sobrino Rodrigo quien lo hizo, concluyéndola en 1486, para cumplir el piadoso deseo de su tío32. La legación del cardenal Borja en los reinos hispánicos y la estipulación del contrato para la pintura de la bóveda de la capilla mayor de la catedral de Valencia Con la elección de Sixto IV, en la que Rodrigo de Borja había tenido un papel destacado como elector, el vicecanciller comenzó a tener un pues-

31 En efecto, desde que fue nombrado obispo de Valencia, el cardenal vicecanciller dejó de lado los pomposos títulos que poseía para denominarse Dominus Valentinus, firmando así todos sus documentos; y antes de que su elección papal le hiciera concebir altísimos planes de convertir a los suyos en príncipes de Italia, había decidido establecer las bases del poder de su familia en la tierra natal valenciana, comprando para ello el ducado de Gandía, a fin de instalar en el mismo a su primogénito Pere Lluís de Borja. Cuando éste murió prematuramente y su hermano Joan vino a sucederle en el ducado, el papa le recomendó que cuidase mucho el aspecto de sus manos, «per que en nostra terra si mira molt», pues no había olvidado las costumbres patrias. 32 Cfr. J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia. Guía histórica y artística, Valencia 1909, pp. 267-269.


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to de mayor relieve en la política papal, como se vio en el hecho de que pronto el nuevo papa lo nombró uno de los cuatro legados a latere que había determinado enviar a distintos zonas de la cristiandad, con el fin de lograr la unión de las potencias cristianas en una cruzada contra el turco. En concreto el cardenal Borja fue destinado a los reinos hispánicos. Ahora bien, su labor era mucho más compleja que la del resto de los legados, pues, además del tema de la cruzada, llevaba en cartera asuntos de hondo calado político, como buscar la pacificación del Principado de Cataluña, levantado en armas contra el rey Juan II de Aragón, y tratar de mediar en la complicada crisis sucesoria que planeaba sobre Castilla a causa de la pugna suscitada entre la princesa Isabel y Juana la Beltraneja por la sucesión de Enrique IV; por otro lado estaba el espinoso asunto de los defectos de forma del matrimonio de Isabel de Castilla con su primo Fernando de Aragón, los futuros Reyes Católicos33. De hecho, el cardenal llevaba tantas facultades para el desempeño de su misión que se dijo que en lugar de un legado parecía un papa. El 15 de mayo de 1472 partió de Roma y se dirigió a Ostia, donde le esperaban dos galeras puestas a su disposición por el rey Ferrante de Nápoles, pues le acompañaba un séquito tan numeroso que no bastaba una embarcación. Tras un apacible viaje, el viernes 19 de junio avistó el Grao de Valencia y desembarcó en él. Pero al enterarse de su llegada, los regidores de la ciudad le rogaron que les diera al menos dos días para prepararle un recibimiento digno, por lo que el cardenal se retiró al monasterio de Santa María del Puig, donde permaneció dos días y el domingo 21, después de oír misa y comer, se puso en marcha hacia Valencia, la ciudad que había dejado hacía veintitrés años, cuando era un mozuelo, y a la que ahora volvía con la alta dignidad de príncipe de la Iglesia y a la cabeza de una legación pontificia. Dos fuentes valencianas contemporáneas, el Dietari del capellà y el Llibre de Antiquitats, se hacen eco de los honores y la pompa con que fue recibido, y que no voy a relatar34. Durante los días que permaneció en la

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No entro en los pormenores de esta legación, para conocer el contenido y el desarrollo de la misma puede consultarse la excelente obra de A. Fernández de Córdova Miralles, Alejandro VI y los Reyes Católicos. Relaciones político-eclesiásticas (1492-1503), Roma 2005, pp. 226-233. 34 Una descripción y análisis histórico de esta solemne entrada en V.J. Escartí, El cardenal Rodrigo de Borja en Valencia (1472-1473): representación social y poder, en El hogar de los Borja. Xàtiva. Museu de l’Almodí, antic Hospital Major, del 16 de diciembre de 2000 al 28 de febrero de 2001, Valencia 2001, pp. 109-123. En el apéndice documental de este artí-


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capital del Turia, el cardenal Borja desplegó una intensa actividad pública y privada, pues tuvo que dar recepciones a las autoridades, realizar consultas, departir con sus familiares y dar audiencia a viejos conocidos, reunirse con los canónigos y con el clero diocesano para solventar diversos negocios y atender asuntos domésticos y familiares. Finalmente el último día de julio el cardenal-obispo de Valencia dejó la ciudad, acompañado de una escolta de doscientos jinetes, y se puso en camino hacia Barcelona. Pero antes de partir quiso dejar cerrado un asunto que llevaba muy a pecho: la firma del contrato para pintar al fresco la bóveda y los muros del presbiterio de la catedral, pues, como ya hemos dicho, había traído expresamente para ello en su séquito a tres pintores italianos, si bien finalmente sólo dos intervinieron en el proyecto, Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, que optaron juntos al proyecto, probablemente porque su compañero “Riquart” no dio muestras de estar a la altura de ellos en el dominio del arte de la pintura al fresco o bien la prueba que realizó no satisfizo al cabildo por otros motivos35. La obra decorativa de la capilla mayor era necesaria, pues la noche del 21 de mayo de 1469 se había desatado un violento e inopinat incendio en el presbiterio de la catedral que lo arruinó por completo, al quemarse el retablo, fundirse las imágenes de plata del mismo y quedar ennegrecidas e irreparables las pinturas que decoraban la bóveda y los muros de la capilla mayor. Como ese día era domingo de Pentecostés y por la mañana había tenido lugar la tradicional celebración de la palometa, en que una gran paloma de cartón piedra descendía desde lo alto del cimborrio arrojando culo se encuentran citadas por extenso las fuentes valencianas contemporáneas que se hacen eco de la estancia del cardenal en Valencia. 35 Que la iniciativa de esta fase de decoración del presbiterio correspondió al cardenal Borja y que a él se debe la idea de confiarla a los pintores italianos, aparece claramente consignada en el Llibre d’obra, n. 1506, F del Archivo de la Catedral de Valencia, donde leemos en el f. 33: «Libre tercer de la dita pintura, la quall pintura en part a fet despesa la Seu als pintós venguts novament ab lo senyor cardenall e bisbe de València en Rodrigo de Borga, lo qual senyor mena los dits pintós per fer e revenir lo cap de la capella de la Verge Maria de la Seu, ço és de pintar al fresc, alls qualls pintós dien mestre Francisco e all altre mestre Paullo, hoc encara, un altre qui vench ab ells qui dien mestre Riquart, lo quall mestre Riquart no·s meté en rebada la dita pintura, e açò per ensays qui feren fer a la u e a l’altre qui mills faria la dita pintura». Igualmente se desprende de esta breve nota que la prueba realizada por el pintor “Riquart” no satisfizo al cabildo, por lo que su pintura «no·s meté en rebada»; la palabra “rebada” presenta una dificultad de interpretación, bien puede ser un error, en lugar de “rebuda”, o más bien por “revada”, en el sentido de turno, tanda, valoración o arancel. Cito del apéndice documental preparado por Lluïsa Tolosa y Ximo Company, publicado en X. Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura del Renaixement a Espanya, Gandia 2006, p. 411, n. 187.


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centellas de fuego por su boca, gracias a unos cohetes de pólvora que se colocaban en ella, para simbolizar la venida del Espíritu Santo sobre los apóstoles en lenguas de fuego, se achacó la causa del incendio a que alguna chispa había quedado en los guardapolvos del retablo y produjo el siniestro36. Diversos intentos de restauración, como los acometidos por los pintores Niccoló Fiorentino o Pere Reixac, no habían llegado a buen término, por lo que la capilla mayor, aunque adecentada para el culto, todavía presentaba un triste aspecto en comparación con la riqueza decorativa del resto de la catedral37. Sabedor de esto por información del cabildo y también de los jurados de la ciudad, quienes le escribieron una semana después del incendio, el 28 de mayo de 1469, informándole de lo sucedido y solicitando su intervención económica en la restauración38, el cardenal Rodrigo de Borja decidió traer consigo a unos pintores de Italia, expertos en la técnica de la pintura al fresco, para que decorasen la capilla y le dieran un esplendor ma-

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Así lo narraba el autor del Libre de Antiquitats. Manuscrito existente en el Archivo de la Catedral de Valencia, transcripción y estudio preliminar por J. Sanchis Sivera, Valencia 1926, pp. 19-20. 37 Para tener noticia de los avatares de la capilla mayor de la catedral véase la obra de Sanchis Sivera, La catedral de Valencia cit., pp. 139-159. 38 La carta de los jurados, conservada en el Archivo Municipal de Valencia, ha sido publicada por A. Rubio Vela, Epistolari de la València medieval (II), València-Barcelona 1998, pp. 177-179. Esta misiva es interesante, pues, además de ponderar el valor de las obras destruidas en el incendio, muestra que tanto el cabildo como la ciudad esperaban del cardenal-obispo una sustanciosa contribución económica a la restauración, pues, como le hacían saber: «principalment açò toca a vós, que sou cap e pastor nostre e·spòs de la dita ecclésia, e vos sou tengut a la reformació dessús dita segons los drets canònichs e divinals»; y confiaban en que «vostra senyoria, donchs, de pròpria substància, deu fer tal subvenció que sia sufficient satisfer al que sou tengut, e les gens prenguen spil e regla del que vostra senyoria farà perquè sien animats, axí ecclesiàstichs com seglars, en fer-hi tals tançats que brevíssimament tot sia reformat». En concreto le suplicaban que, además de una generosa contribución monetaria personal, el cardenal suplicase al papa que se dignase conceder a la catedral la indulgencia plenaria para la fiesta de la Asunción del año próximo, en los términos en que la concedió su tío Calixto III, levantando la suspensión de la misma que había decretado. Así debió hacerlo el vicecanciller, pues nos consta que en 1470 Pablo II concedió la indulgencia a dicho fin, tal como se consigna al inicio del «Primer libre de la pintura del cap de l’altar major de la Seu de València», donde se anotan en primer lugar «les pecúnies procehides de la indulgència per lo sant pare papa Pau a la dita Seu atorgada per obs de refer la dita pintura e altres neçessitats de la capella de la dita Verge Maria, per rahó del cremament fet inopinadament de l’altar major d’aquella» (Company, Paolo da San Leocadio cit., p. 395, n. 1). Una fuente contemporánea, el Dietari del capellà, cuenta que, cuando en 1472 el cardenal vino como legado, se predicó dicha indulgencia en la catedral, recogiéndose como producto de aquella 8.700 timbres (cfr. Dietari del capellà cit., p. 373, n. CCLXXXIII).


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yor del que tuvo en el pasado, pues lo harían siguiendo las pautas del arte más vanguardista del momento: el del Renacimiento italiano. Así pues, bien antes de llegar a Valencia o bien poco después de su entrada en la ciudad, Rodrigo de Borja debió exponer al cabildo su proyecto de acometer la restauración de la capilla con los pintores que traía expresamente para ello, instando vivamente a cerrar el asunto cuanto antes. Lo cierto es que a inicios del mes de julio los canónigos tenían alojamiento dispuesto para los pintores y dos andamios construidos, uno en el aula capitular y otro en la estancia llamada de la confraria, para que efectuasen una prueba de su pericia antes de firmar el contrato39. Sin embargo, el cardenal debió presionar mucho para que éste se concluyese y el tema quedase cerrado antes de su partida, pues el 28 de julio de 1472, en su presencia, y antes de que los pintores hubieran concluido las pruebas encomendadas, se firmaban las capitulaciones entre el cabildo, de una parte, y los pintores Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, de otra. Así lo da a entender Sanchis Sivera cuando escribe: «no se comprende que los pintores […] fuesen admitidos a hacer una obra de la importancia que era la que nos ocupa, sin cerciorarse antes de si podrían hacerla a satisfacción, a no ser por el interés que tenía el cardenal de que hicieran ellos los trabajos, y el buen deseo del Cabildo en complacerle»40. En el contrato, redactado por el notario Joan Esteve, se estipulaba detalladamente cómo y con qué materiales, colores y motivos debían pintar al fresco la bóveda de la capilla mayor. Tanto el precio convenido, que fue altísimo – tres mil ducados –, como el plazo estipulado para realizar la obra – seis años –, nos da una idea de la magnitud de ésta41. Entre otras cosas, en las capitulaciones se decía:

39 El 2 de julio el administrador de la obra escribía en el libro de cuentas: «per quant era estat pacte entre la reverència dels dits senyors de capítol e los pintós al fresc venguts de nou, los avien a dar cases franques e roba e tot lo necesari, axí com fon fet, me feren logar per a ells dits pintós mestre Francisco e mestre Paullo, les cases qui solien és[s]er del magnífic micer Gauderre, qui ara son de son nebot, un tall Soler, les quals logí a for de XII lliures». Y catorce días después anotaba: «A XVI de juliol los reverents senyors de capítol, ans de metre mans en la capella de la Verge Maria de la Seu, volgueren veure los senyors de pintors qui lo senyor cardenall havia amenat quin saber tenien, fer-los fer un ensag en lo capítol al fresch, e a un altre qui ab ells vench qui dien mestre Riquart». Cito de Company, Paolo da San Leocadio cit., p. 412, nn. 193, 195. 40 J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia cit., p. 150. 41 El contrato se encuentra en Valencia, Archivo de la Catedral, Notal de Joan Esteve, n. 3590. Transcrito en Company, Paolo da San Leocadio cit., pp. 415-417, n. 3.


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«E primerament los dits mestres prometen, se obliguen pintar al fresch a estall lo cap de la dita capella dalt abaix en la forma següent, ço es que pintaran la clau de la dita capella [...] tan ornadament com ells sabran fer, e entor de aquella pintaran un tro de seraphins ornat d’or fi molt bell. Ítem, que en cascun pany de les crues pintaran dos àngels, ço es un àngel en casqun pany, vestits a voluntat del dit honorable capítol, ab ses ales sembrades d’or fi e de belles colors. Ítem, que los crues sien pintats de fullatges ab fruyts d’or fi de ducat, segons parrà al dit honorable capítol. […] Ítem, que en lo enfront davall les finestres sia pintada una història e en los altres spays sien pintats los apòstols, a voluntat del dit honorable capítol. [...] Les quals coses los dits pintors prometen e se obliguen fer bé e perfetament, segons art e magisteri de pintura feta al fresch, per preu de tres milia ducats d’or de cambra de pes, los quals tres milia ducats los dits senyors de capítol prometran pagar en tres terces [...]. E los dits reverendíssim senyor cardenal e senyors de capitol e clero prometen e se obliguen donar [...] als dits pintors los dits tres milia ducats de cambra. Per les quals coses attendre e complir obliguen tots los bens de la mensa episcopal e 42 capítol» .

Veamos algunas observaciones, a tenor de lo dispuesto en las cláusulas del contrato. Ante todo, interesa destacar que el programa iconográfico a desarrollar viene dictado no por la imaginación de los artistas, sino por la voluntad expresa del cabildo. Machaconamente se insiste en que los pintores harán todo «a voluntat del dit honorable capítol», o «segons parrà al dit honorable capítol»; hasta el punto de consignar que los ángeles se vestirán «a voluntat del dit honorable capítol». Qué peso o qué influjo tuvo el cabildo valentino en la realización concreta de los ángeles, en detalles como los vestidos de los mismos o los instrumentos que debían sonar los ángeles es cuestión que tal vez nunca podamos dilucidar, pero me atrevo a aventurar que fue grande, tanto como el que pudo tener la inspiración propia de los artistas, y nos hace suponer que el nivel de cultura y la finura estética los integrantes del cabildo valentino, o al menos de los mas influyentes de sus miembros, era bastante alto, hasta el punto de aceptar y apreciar innovaciones estéticas en el campo pictórico como las que traían los pintores recomendados por el cardenal Borja. Dos años después de la firma del contrato los pintores italianos se pusieron manos a la obra y ejecutaron los hermosos frescos renacentistas que ahora vuelven a ver la luz, los cuales no agradaron o satisficieron plena-

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Cito de la transcripción indicada en la nota anterior.


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mente al cabildo, no tanto por su ruptura con la tradición pictórica local, como se ha dicho, o por el naturalismo de los mismos, como a veces se ha indicado, sino por el hecho de que, a juicio de los capitulares, las pinturas tenían menos oro del indicado en el contrato y faltaban algunos colores expresamente indicados en el mismo, por lo que se negaron a pagar lo que faltaba de la cantidad estipulada, hasta que los pintores remediasen dichos fallos. El litigio se presentó ante el gobernador del reino de Valencia, quien nombró un tribunal de cinco pintores valencianos que dictaminase si los frescos se ajustaban a las condiciones del contrato. Éstos decidieron que la obra era conforme a las capitulaciones, hecha «segons cascuna pràctica e usança de Itàlia e del dit art de pintura al fresch» (nótese cómo se destaca el «italianismo» de los frescos realizados, que no viene en absoluto censurado, sino más bien alabado, porque debió impresionar a los pintores locales que los contemplaron), y sólo pudieron criticar que, en efecto, los frescos tenían falta de oro y de algunos colores prescritos en el contrato. Durante dos siglos estos frescos decoraron la bóveda de la capilla mayor de la catedral, hasta que en 1674 el arzobispo Luis Alonso de los Cameros y el cabildo acordaron renovar toda la capilla en estilo barroco, encargando el proyecto al arquitecto valenciano Juan Bautista Pérez Castiel. El historiador Sanchis Sivera achacó el recubrimiento de las pinturas al paso del «tiempo, que todo lo envejece», y que «no había de respetar por privilegio estas pinturas, llegando a ennegrecerlas de tal manera el humo del incienso, de las lámparas y de la cera», que no hubo más remedio que sustituirlas por una nueva decoración43, dando fe a una nota del canónigo archivero Juan Pahoner, quien escribía en 1756 que la capilla mayor de la catedral estaba «tan denegrida que apenas se conocían las pinturas», y por esta razón se habían cubierto44. Pero lo cierto es que la nueva decoración de la capilla, cuya obra duró hasta mayo de 1682, no se debía tanto al mal estado de los frescos renacentistas cuanto a la sensibilidad estética del momento, que no los apreciaba, y prefirió esconderlos bajo una magnífica y espectacular ornamentación barroca más acorde con los nuevos gustos de la época45.

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Sanchis Sivera, La catedral de Valencia cit., p. 153. Valencia, Archivo de la Catedral, Juan Pahoner, Especies perdidas, I, p. 87 s. Véase sobre el particular: J. Bérchez - M. Gómez-Ferrer, El presbiterio barroco de la catedral de Valencia, en La Catedral de Valencia. Una ciudad y su templo, «FMR», Grand Tour, (1995), pp. 21-57.


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El auge del cabildo valenciano en la segunda mitad del siglo XV El desarrollo económico de Valencia a lo largo del siglo XV tuvo como efecto no sólo un florecimiento cultural y demográfico, sino también un incremento notable de la Iglesia valentina, pues aumentó su principal fuente de ingresos que eran los diezmos, con lo que creció el capital recibido por la Iglesia valenciana. Un dinero que, invertido sabiamente en la compra de censales y de propiedades, produjo un rápido enriquecimiento del alto estamento eclesial (obispo, dignidades y canónigos), pues, en la diócesis de Valencia dicho impuesto iba a parar íntegramente a manos del obispo y del cabildo, por especial privilegio de Inocencio IV (dado en 1245), cuando en otros lugares se dividía a partes iguales entre la fábrica de las iglesias, el clero parroquial, el obispo y su cabildo. De ese modo, en un tiempo relativamente breve, el obispado de Valencia se convirtió en uno de los más ricos de la provincia eclesiástica Tarraconense y, a mediados del siglo XV, era la mitra de mayor dotación económica de la Corona de Aragón, con 18.000 ducados de renta anual, superando ampliamente a diócesis más antiguas, como Gerona, que sólo tenía 11.500 ducados, y Barcelona, con 10.50046. Esto explica que la mitra valentina fuese una dignidad codiciada, que se proveía en personas de alta raigambre nobiliaria o en servidores fieles de los reyes y de los papas, como recompensa a los servicios prestados. Este fue el caso de los Borja, quienes recibieron el obispado valentino en 1429 en la persona de Alfonso de Borja, para premiar los destacados servicios que este insigne jurista prestaba al rey Alfonso el Magnánimo, y la mantuvieron en sus manos hasta octubre de 1511, sin residir en su diócesis. La pujanza de la Iglesia valenciana se manifestó de modo especial en la iglesia madre de la diócesis, la catedral. Cuando ésta se reinstauró en 1238, por obra del rey Jaime I, tuvo que utilizar como templo la mezquita mayor de la ciudad, apresuradamente acondicionada para ello, y contaba únicamente con trece canonjías, de las cuales sólo una era dignidad, el arcediano. En junio de 1262 el obispo Andreu d’Albalat inició la construcción de un templo catedralicio de nueva planta, de dimensiones modestas; sin embargo, a lo largo del siglo XV la catedral se amplía y se embellece notable46 Así se desprende de los estudios de S. Sobrequés i Vidal, L’afer de les diòcesis catalanes vacants en 1457-1460 i la politica italiana de Joan II, en La Corona de Aragón y el Mediterráneo. Aspectos y problemas comunes desde Alfonso el Magnánimo a Fernando el Católico (1416-1516), IX Congreso de Historia de la Corona de Aragón, III, Zaragoza 1984, pp. 327-345.


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mente: se concluye la construcción de la torre del Miguelete, se añade un segundo cuerpo al cimborrio y un nuevo tramo al templo para unirlo con el aula capitular y la torre que era exenta. El resultado es un amplio y magnífico templo, que da cabida a treinta y cuatro capillas y está ornado con un gran número de obras de arte que le confieren una singular belleza. Especialmente suntuosa era la capilla mayor, presidida por un rico retablo de plata dedicado a la Virgen María, y rematada por una airosa bóveda cuya decoración se encargó en 1432 a los pintores Miquel Alcañiz, Felip Porta, Berenguer Matheu y Gozalvo Sarrià. A la ampliación del templo correspondió un aumento del clero catedralicio, pues a lo largo del siglo XV la catedral llega a tener veinticinco canónigos, cuatro de los cuales tienen la dignidad de arcedianos (el Mayor, el de Xàtiva, el de Alzira y el de Morvedre), gozando de unas considerables rentas que van de las 378 libras que percibían los titulares del arcedianato Mayor y el de Xàtiva (que los Borja procurarán retener en sus manos) a las 200 que cobraba el de Alzira, pasando por 275 para el de Morvedre; después de los arcedianos había (en importancia económica) un deán (que presidía el cabildo y a quien correspondía el gobierno de la diócesis durante la vacación de la sede, y en el momento de la firma del contrato para la ejecución de los frescos era Nicolau de Monsoriu, quien sería sustituido por Joan Llopis en 1486), un sacristán (cargo que estuvo en manos de Rodrigo de Borja durante buen tiempo, antes de su promoción al cardenalato), un chantre y doce pabordes encargados de la administración y distribución de las rentas canonicales cada uno de los meses del año, un penitenciario y un vicario encargado de la parroquia catedralicia, San Pedro. Todos ellos eran canónigos. Además había cuatro domeros, dos diáconos, dos subdiáconos, dos sochantres, dos subsacristanes, un encargado de la conservación de la fábrica del templo (fabriquer) y un síndico47. El número de beneficios que se fundaban en la catedral iba en constante aumento, llegando a ser doscientos dos en 1461, para servir los cuales había un número similar de sacerdotes o clérigos beneficiados. Con lo cual tenemos casi 300 clérigos girando en torno a la catedral de Valencia y viviendo de sus rentas, lo cual nos da una idea de la importancia y riqueza de este templo. Con razón celebraban los jurados de Valencia, a inicios del XV, la grandeza de su iglesia catedral, «sa bellesa e claredat de dignitats e notables beneficis», tanta, decían, que «entre les altres seus del món, aquesta deu

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Véase a este respecto V. Pons Alós - Ma. M. Cárcel Ortí, La diócesis de Valencia durante los pontificados de los Borja, «Anales Valentinos», 53 (2001), pp. 93-96.


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ésser loada e dita que dignament posseex ses dècimes e fruyts abundosos per haver gran prelat qui la sostenga en pau e en justícia honorosament, a glòria de Déu e servey del senyor rey e lahor e fama de aquesta tan insigne ciutat»48. De hecho, la catedral valenciana despertaba la admiración de quienes la visitaban, impresionados por su belleza y suntuosidad, hasta el punto que Jerónimo Münzer escribía en su diario: «La catedral está exquisitamente edificada. Los asientos del coro están muy bien labrados, en número de 144. Tiene una torre muy alta, [...] octogonal, cuya anchura supera los 20 pasos. La fábrica de la iglesia catedral, como he dicho, es grandiosa, tiene 156 pasos de largo y 53 de ancho, y forma de cruz. En su interior hay más de 20 capillas colocadas entre las columnas y un total de 56 altares. Es alta y bien abovedada. Mucho se podría escribir de ella»49. En efecto, con la altura de su torre y cimborrio y la envergadura de su fábrica, la catedral sobresalía por encima del paisaje urbano y constituían un símbolo visible del poder de la Iglesia valentina, un reflejo del prestigio que ésta había alcanzado. Como era de esperar, la riqueza puesta en manos de los eclesiásticos favoreció el florecimiento del arte sacro, pues, gracias a las cuantiosas rentas de que disfrutaba el alto clero pudo ejercer un espléndido mecenazgo, todavía apreciable en la magnificencia del templo catedralicio, de la que en la actualidad sólo queda un pálido reflejo después de las diversas y graves devastaciones sufridas con el paso del tiempo. Por lo que respecta a la cultura de los miembros del cabildo valentino, comprobamos que a lo largo del siglo XV aumenta la presencia entre sus filas de canonistas y en menor grado de doctores en ambos derechos, pues ello era condición indispensable para poder ocupar el cargo de vicario general. Entre estos canonistas y juristas cabe citar a micer Macià Mercader, Nicolau de Monsoriu, Jaume Exarch, Bernat Rovira, Joan Marromà, Joan Llopis (después cardenal de Alejandro VI), etc. Igualmente hay que destacar que desde mediados de la centuria observamos la aparición progresiva entre los miembros del cabildo de teólogos, como mestre Antoni Bou, mestre Vicent Climent (que será nuncio de Alejandro VI en Inglaterra y Groenlandia), Martí de Pina, Lluís Guerau e incluso algún mestre en medicina.

48 Carta dirigida por los jurados de Valencia al obispo Hug de Llupià, el 28 de diciembre de 1409, conservada en el Archivo Municipal de Valencia, publicada por Rubio Vela, Epistolari de la València medieval, València 1985, pp. 81-82. 49 Traduzco de Hieronymi Monetarii Itinerarium Hispanicum, «Boletín de la Real Academia de la Historia», 85 (1924), p. 22.


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Este incremento de los canónigos teólogos se debió, indirectamente, también y en cierta medida a los Borja; en primer lugar a Alfonso de Borja, quien, siendo obispo de Valencia, en el sínodo diocesano que celebró el año 1432, instó a los clérigos a que se dedicaran «intensamente» al estudio de la teología, en orden a que, progresando en su conocimiento, «puedan informar al pueblo en la sagrada doctrina», aprovechando (decía) que «en nuestra sede y en otras iglesias y lugares de nuestra diócesis se explica permanentemente con insistencia»50. Y también a su sobrino y sucesor en la sede, Rodrigo de Borja, quien como obispo autorizó en 1482 que el Estudi General del municipio valentino pudiera tener cátedra de Teología, materia hasta ahora celosamente reservada por los prelados a su escuela catedral o a las de los monasterios, un paso que sería de gran trascendencia para la elevación diecinueve años después del incipiente Estudi valenciano al rango de Universidad, que llevaría a cabo él mismo como papa Alejandro VI, con la bula Inter ceteras felicitates, dada el 23 de enero de 1501. Aunque no nos constan las condiciones exigidas para ocupar las canonjías en Valencia, parece que la práctica era similar a la de cabildos como el de Lérida, donde en principio no podían ser canónigos «nisi fuerit nobilis vel de militari genere procreatus, seu altero iurium doctor vel licenciatus, aut in sacra theología, artibus vel medicina magister vel licenciatus, aut filius honorabilis civis eiusdem civitatis»51. De hecho, a lo largo del siglo XV observamos cómo progresivamente los canónigos dejan de pertenecer a la nobleza local y son en su mayor parte miembros de las familias de la oligarquía que gobierna la ciudad, hasta el punto que los jurados de Valencia obtuvieron un privilegio del papa Martín V por el que las canonjías, dignidades, beneficios y rectorías de la ciudad no se diesen más que a los naturales del reino de Valencia. Curiosamente, los Borja se rebelaron contra esta disposición, pues les impedía instalar en el cabildo a algunos de sus hombres de confianza que no eran naturales del reino, a los que se oponían los jurados y gran parte del cabildo, y por esta razón en 1437 el obispo Alfonso de Borja obtuvo una bula de Eugenio IV que anulaba la anterior de Martín V52. Sin embargo, si a principios del siglo XV las canonjías habían servido para compensar a personas del círculo del rey o del papa Benedicto XIII, y por tanto existía un alto grado de miembros extranjeros al reino, con los Borja vemos que la mayoría de canónigos son valencianos e hijos de la bur50

I. Pérez de Heredia y Valle, Sínodos medievales de Valencia, Roma 1994 (Publicaciones del Instituto Español de Historia Eclesiástica. Subsidia, 33), pp. 368-369. 51 J.L. Villanueva, Viage literario á las Iglesias de España, II, Madrid 1804, p. 40. 52 Cfr. Valencia, Archivo de la Catedral, Pergamino 354.


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guesía ciudadana, aunque todavía encontramos en el cabildo y clero catedral algunos nobles, como lo noble mossén Pere Roiç de Corella o lo noble don Jaume Cervelló, o el hijo de los condes de Oliva, Jordi de Centelles, y otro miembro de esta familia, Jeroni de Centelles. Exponente del alto nivel cultural del cabildo valenciano en este momento es el círculo literario del que algunos canónigos formaban parte, pues, amén de figuras conocidas como Roiç de Corella, el mencionado Jordi de Centelles (poeta y traductor del De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum de Antonio Beccadelli, el Panormita) o Macià Mercader, hay que hablar también de la adscripción a la catedral de personajes como mosén Bernat Fenollar, promotor de una tertulia literaria, o los poetas mosén Jeroni Fuster, Martí Enyego o Joan Vidal53. Los Borja encontraron en el cabildo catedral el primer colaborador de su gobierno, pues muchos de los canónigos habían sido nombrados con su favor y algunos de ellos formaban parte de su entorno familiar y otros más numerosos de su entorno clientelar. Esto tiene interés tambien para nuestro tema, pues quiere decir que en su mayor parte los canónigos eran hombres del cardenal Rodrigo de Borja, prontos a respaldar sus deseos e intenciones, como la decoración al fresco de la capilla mayor por sus pintores Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio. A la hora de firmar el contrato ninguno de los canónigos osó contradecir o poner en tela de juicio los designios del cardenal obispo para esta obra, aunque no siempre las relaciones entre el prelado y su cabildo estuvieron exentas de tensiones y conflictos. Concluyo reafirmándome en la idea que he expresado al inicio de mi ponencia: los maravillosos ángeles músicos de la catedral de Valencia nos dicen mucho en positivo de los canónigos que los financiaron y, sobre todo, nos desvelan las facetas más luminosas del cardenal Rodrigo de Borja: nos hablan de su gran personalidad, del amor a su tierra, de su espléndido mecenazgo, de su refinado gusto estético, un tanto gaio. Como ha señalado uno de los mejores conocedores de Alejandro VI, el P. Miquel Batllori: «su política podrá ser discutida; su vida privada, de cardenal y de papa, da pena; pero la gran personalidad de Rodrigo de Borja subyuga tanto a los que la contemplan con admiración y simpatía, como a los que la han envuelto de leyenda y de pasión: puede suscitar los sentimientos más contradictorios, excepto la indiferencia»54. Pues bien, también estos espléndi53 Sobre este particular, véase la obra de A. Ferrando Francés, Els certàmens poètics valencians del segle XIV al XIX, València 1983, pp. 127-147. 54 M. Batllori, La correspondència d’Alexandre VI amb els seus familiars i amb els Reis Catòlics, en Batllori, Obra completa, IV, València 1994, p. 168.


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dos ángeles músicos de la catedral de Valencia que el controvertido purpurado promocionó podrán suscitar entre los historiadores del arte y de la cultura pareceres contradictorios, opiniones encontradas y diversas, pero nunca la indiferencia.


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El proyecto Fue la visualización de las pinturas renacentistas que se encontraban ocultas tras la bóveda barroca de la capilla mayor de la Catedral, lo que originó el inicio del proceso de su recuperación. Se conocía su existencia, en los Libros de Fábrica se decía que se encontraban en muy mal estado, nada se sabía de su calidad. Durante las labores de restauración del barroco de la Capilla que dirigía el equipo de Carmen Pérez, a través de un pequeño orificio en la plementería barroca, se tomaron las primeras imágenes de las pinturas al fresco realizadas por Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio en 1477 por encargo de Rodrigo de Borgia, así como del contexto espacial arquitectónico en que se situaban y de su estado de conservación . Se comprobó además que las pinturas no sólo decoraban la plementería gótica, sino también, los lienzos interiores y las ventanas góticas, que del mismo modo, también permanecían ocultas tras la plementería y los ventanales barrocos realizados en 1687 bajo la dirección del arquitecto Juan Bautista Pérez Castiel en base a un proyecto de Martinez de Urrana [Fig. 18]. El día 20 de diciembre de 2004, subído a los andamios a diecinueve metros de altura, vi por primera vez las pinturas renacentistas. Sin ser un experto, me impresionó la belleza de lo que estaba contemplando y me pregunté entonces por las razones que habían llevado a ocultar semejante obra pictórica. La respuesta estaba en manos de los historiadores del arte y seguramente da la Contrarreforma eclesiástica, que propició a enmascarar entonces cuanto se refería al Papa Borgia, Alejandro VI. El espacio que había quedado entre ambas bóvedas era tan sólo de treinta centímetros en la clave [Fig. 19] y de algo más de un metro al aproximarse a las fachadas. Cuando la plementería de la bóveda descendía


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hasta los arranques el espacio, en caída unos ocho metros, se reducía totalmente. La dificultad, por tanto, de introducirse en la cámara para restaurar las pinturas, era máxima, lo que la intervención desde la cámara era inviable, tanto desde los informes sobre la seguridad en el trabajo, que entonces se solicitaron, como por lo que después, durante el transcurso de los meses en que se ha llevado a cabo la restauración de los frescos, se ha confirmado. Así pues no quedaba otra alternativa, si no se quería dejar perder las pinturas, que desmontar la bóveda barroca, para poder acceder a ellas con las suficientes garantías de seguridad y de aplicación del tratamiento que fuera necesario. La suerte fue que la bóveda barroca utilizaba como estructura sustentante los propios nervios góticos de sillería que fabricara Arnaldi Vitalis en la segunda mitad del siglo XIII por encargo del obispo Andrés de Albalat, y por supuesto los muros perimetrales que cierran el ábside. Pérez Castiel se había adaptado a estas estructuras cubriendo con la nueva plementería con lunetos hacia las cinco ventanas, tres de los ochavos y dos de los medios ochavos arrancando desde la propia clave estructural gótica, que aún se mantiene, eliminando para ello la parte de la decoración gótica de la misma que se perdió para siempre. Las palomas anidaban, durante siglos a la vista de los metros de altura de los excrementos que llenaban los senos entre ambas bóvedas, sobre la fábrica interior de la cámara que conformaba el extradós del amplio dintel curvo de cada una de las ventanas barrocas. Estas fábricas de ladrillo, así como las de las jambas, se apreciaba que no estaban trabadas con la fábrica gótica de sillería ni con las arquivoltas de las ventanas que ascendían libremente hasta la bóveda gótica hasta cerrarse en el arco gótico. Las pinturas renacentistas sobre las ventanas y los muros góticos, aunque en muy mal estado, aquí se dejaban ver, y todo hacía suponer que esta decoración iba a aparecer también en las partes bajas ocultas tras las ventanas barrocas hasta el alfeizar, como así se pudo comprobar en una cata que se realizó en su base [Fig. 20]. La profusa decoración con todo el repertorio barroco que ascendía desde la base del presbiterio hasta la clave a través de los nervios, disminuyendo en la calidad de los materiales conforme se elevaba desde la cornisa situada a once metros de altura – desde aquí ya no aparecen mármoles sino que todas las arquitecturas de ventanas, cornisas y nervios se terminan a base de pinturas con acabados marmoteados y dorados –, hacía pensar que no iba a ser posible eliminar la decoración barroca que envolvía los nervios, que lógicamente también soportarían pinturas de la época renacentis-


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ta como así se visualizaba desde la cámara. El arranque de la plementería barroca desde los muros interiores, supondría la realización de rozas en la sillería gótica, que por supuesto habría deteriorado sobremanera la decoración renacentista que aparecía en sus partes más altas. No menos dificultad iban a tener los trabajos encaminados a liberar las arquivoltas de los ventanales góticos con las pinturas renacentistas, ya que los dinteles barrocos atravesaban hasta el exterior en todo el espesor los muros incidiendo en la fachada que veía reducida la altura de las ventanas góticas en casi la mitad, ya que se sumaba a este enmascaramiento tanto la cubierta inclinada de teja curva, de la que se le había dotado a la girola en el siglo XIX, como las marquesinas inclinadas sobre cada una de las ventanas situadas al nivel de los dinteles barrocos exteriores [Fig. 21]. Con todas estas realidades formales más relevantes que se apreciaban en el conjunto, y en base siempre a posibilitar la mayor recuperación de la superficie decorada renacentista, se acometió la redacción del proyecto. Sin embargo, a todas las dificultades estructurales, constructivas y ornamentales que había que resolver, se sumaban las relativas a la justificación de la intervención dentro de la Ley de Patrimonio Cultural Valenciano, tanto la de 1998 como la de su Modificación de 2004, entonces en vigor. La Catedral de Valencia es un monumento declarado desde 1932. Como B.I.C. (Bien de interés cultural) todas sus partes aunque sean de diferentes épocas y superpuestas a fábricas originales están protegidas por la ley igualmente. Pero la ley también obliga a la preservación de aquellos elementos ocultos de valor que sean conocidos como no podía ser de otro modo. Las condiciones para la intervención en el caso de que deban ser eliminadas partes del bien para garantizar el mantenimiento de otras partes relevantes, sería doble: documentar cuanto se elimina y que el procedimiento elegido permita la reversibilidad. Con estas premisas se llevó a cabo el proyecto que fue expuesto durante su desarrollo en numerosas ocasiones a los técnicos responsables de supervisión de la Consellería de Cultura. Nunca fue consensuado por igual por cuantos participaron en el proceso de supervisión, aún cuando quienes se manifestaron en contra, jamás dieron otra alternativa posible para la consolidación y restauración de los frescos renacentistas que se habían encontrado. El reto proyectual no era pues nada despreciable. A trabajar en un entorno monumental como es la Catedral de Valencia, se sumaba que había que respetar al máximo todas las superposiciones de las arquitecturas que iban a ir apareciendo y que éstas iban a tener que conjugarse de la mejor manera posible, al menos durante el tiempo en que no se devolviera de nuevo el revestimiento barroco a la Capilla Mayor.


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Sin embargo, la Catedral de Valencia a lo largo de su historia ya habría pasado en más de una ocasión por semejantes situaciones. La puerta barroca de Conrad Rudolph, a la que también optó a construir Pérez Castiel pero no se le adjudicó la obra, es buena muestra. La Obra Nova, realizada por Miquel Porcar según las trazas de Gaspar Gregori (1566), supone la mayor actuación exterior en la Catedral con lenguaje renacentista. La intervención neoclásica de Gilabert, entre los siglos XVIII y XIX, deja aún vislumbrar restos de arcos sobre todo en el crucero bajo el cimborrio y en los que abren las capillas hacia las naves laterales. Son numerosas las capillas que participan de soluciones de los diferentes estilos, como suele ocurrir también en la mayoría de las catedrales. Aún así, la Catedral de Valencia es fundamentalmente una construcción de planta gótica, de carácter mendicante, donde la altura de la nave central y las dos laterales se diferencian muy poco, donde la luz inunda todos los espacios y con la sencillez cistercienses en sus decoraciones primigenias. Sus volumetrías de la cabecera con girola y absidiolos, sus portadas y sus grandes volúmenes de la torre campanario del Miguelete o de la antigua Sala Capitular, hoy Capilla del Santo Cáliz, y sobre todo el imponente cimborrio, todo ello de los siglos XIV y XV, lo atestiguan. El arquitecto Segura de Lago ya desde el año 1961 así lo entendió, ya que desde entonces, eliminando la decoración neoclásica, redescubrió el interior gótico que ha llegado hasta nuestros días [Fig. 22]. Del mismo modo se fueron recuperando las cubiertas originales planas de la nave principal y de las dos laterales, las del cimborrio y del ábside, que en su día habían sido recubiertas por un tejado inclinado de teja curva, totalmente inadecuado. Quedaban pues, las de la Sala Capitular, las de la girola y las de los absidiolos. Teniendo en cuenta todos los antecedentes más significativos que se han descrito, se terminó la realización del proyecto encargado por la Fundación Pública “La Llum de les Imatges” de la Generalitat Valenciana el día 25 de abril de 2005. Este proyecto incluía la definición y justificación de todas las obras que hacían posible la restauración de las pinturas renacentistas situadas en la bóveda, en los muros interiores desde la altura de la cornisa y sobre los ventanales góticos. No se desmontarían entonces, ni la decoración de jambas y dinteles de las ventanas barrocas, ni la decoración sobre los nervios góticos. Los datos generales que incluía la intervención consistían en la fragmentación de una plementería de ladrillo macizo de dos roscas con sus elementos ornamentales de yeso y el desmontaje del pinjante de madera que conformaba la clave barroca, la restauración de la cubierta del ábside y de las cinco fachadas exteriores, la liberación de las cinco ventanas góticas


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con la eliminación de los cobertizos que las tapaban y la recuperación de la cubierta original plana de la girola. Finalmente se adecuaría la iluminación, tanto interior como exterior del ábside. La obra Las obras se iniciaron el 13 de septiembre de 2005, teniendo la prioridad el desmontaje de la plementería de bóveda para que los restauradores pudiesen actuar cuanto antes sobre las pinturas y los lienzos murarios interiores. Había que decidir lo antes posible el sistema de corte más adecuado a la vista de lo que ya se estudiado durante el proceso del desarrollo del proyecto. Para ello, en los talleres de la empresa contratada, se construyó una simulación de la bóveda a escala reducida con el mismo tipo de plementaría y lunetos. Se llevaron muestras de ladrillo a empresas de alta especialización para ensayar sistemas de corte a base de rayos laser y mediante agua a altas presiones. Existían ya diseñadas máquinas capaces de realizar cortes limpios con ambos procedimientos a nivel de ensayos, pero se tendría que diseñar maquinarias específicas para poder trabajar sobre los andamios. El sistema de corte por agua a altas presiones es el primero que se desechó, ya que las dimensiones tan voluminosas que precisaba este sistema de corte eran tales, que para el entorno de la obra dentro de la Catedral lo hacían inviable, además de lo costoso, por singular, que suponía el fabricar a propósito los mecanismos finales para el corte y que pudiesen ser manipulados por el oficial de albañilería en una superficie curva. El caso del corte por rayos laser, siendo más preciso, fácil de manipular (hay que tener en cuenta que se utiliza habitualmente en cirugía además de la industria), necesitaba también de un diseño específico para trabajar a esa altura, era menos voluminoso y pesado que el de agua, pero más delicado y costoso. Sin embargo, fueron en ambos casos, los largos plazos que nos daban para la fabricación y adecuación de los equipos con el alto riesgo de no poder conocer a priori sus rendimientos, lo que nos decidió a seguir insistiendo en los sistemas tradicionales de corte. En la bóveda simulada se ensayaban al mismo tiempo distintas maquinarias tradicionales que estaban en el mercado, en base a sierras circulares o de vaivén eléctricas. Las condiciones que exigíamos para el corte eran: ni por su dimensión ni por su manipulación no podrían en ningún caso dañar las pinturas, el hueco que se perdía no debía ser mayor de un milímetro, el corte tenía que ser totalmente limpio y no debía de lanzar fragmentos sobre las pinturas. El sistema a base de radial era el más rápido, pero a


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cambio producía más polvo, mayor sonido y era menos preciso. El sistema a base de sierra eléctrica de vaivén era más lento, producía menos polvo y ruido ambiente, siendo a su vez más adaptable a todos los pequeños encuentros de la plementería con sus yeserías decorativas. Este último es el que se eligió finalmente y es con el que se ha llevado a cabo la obra. Lo primero que se desmontó fue la clave barroca de madera policromada, que estaba soportado mediante un tirante de hierro vertical, que atravesaba a través un orificio practicado en la sillería estructural la clave original gótica y la plementería. El tirante ascendía por la cubierta sujetándose a una fábrica de ladrillo troncopiramidal exterior, superpuesta a la cubierta, mediante unos travesaños también metálicos. La parte de la clave gótica, formada por un sillar poligonal que ha llegado hasta nosotros, presenta policromía en sus caras laterales, la piedra aparece picada en su paramento inferior, allí donde se situara la parte decorativa que desapareció al implantarse la clave barroca. El desmontaje del pinjante barroco permitió descubrir nuevas pinturas renacentistas que rodeaban la clave gótica y sobre todo el encuentro de los nervios góticos alrededor de la clave, su sección en piedra original y los restos de la policromía también del periodo renacentista, ya que sobre el espacio que tapaba los nervios la clave barroca no se había completado la decoración barroca de los nervios que encontramos desde la cornisa interior. La plementería barroca de ladrillo macizo, colocado plano de una o dos roscas y decorado a base de “trepa”, se iba desmontando de arriba abajo fraccionando piezas de unos cincuenta centímetros de altura para las tramos de superficies sin decoración [Fig. 23]. En el caso de las partes que incluían las yeserías, de mayor volumen y ancladas a la plementería mediante clavos metálicos, el despiece era mayor cuidando que el corte no fraccionara las partes más relevantes de sus decoraciones. Esto ya estaba previsto en el despiece dibujado en los planos del proyecto, en base al levantamiento topográfico previo que se había llevado a cabo con la toma de más de diez mil puntos de la clave barroca y gran número de fotografías. El despiece estaba replanteado sobre la bóveda, dibujado sobre el papel japonés que protegía toda la superficie. El desmontaje se realizó por ochavos alternativos con sus correspondientes lunetos y se tardó tres meses en culminar la operación, dando como resultado un total de trescientas cincuenta y seis piezas, que convenientemente protegidas e identificadas, se almacenan en la cripta de la capilla del Seminario de Moncada. Tras comprobar que el tipo de fábrica de la plementería gótica era igual a la del resto de las bóvedas de las naves de la Catedral, ya que hubiera sido posible que ésta por ser la más primitiva se hubiese construido en piedra


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como la bóveda que cubre el transepto este que conduce hacia la puerta románica, se procedió a reparar las fisuras más importantes que impedían a los restauradores realizar su trabajo [Fig. 24]. La fábrica, que es de ladrillo de una sola rosca colocada a tizón y de treinta centímetros de espesor, no presentaba roturas importantes en sus piezas y las fisuras seguían la estereometría de la fábrica de los ladrillos con pérdidas de los rellenos de las juntas que son de mortero de cal. En algunos casos hubo que proceder a realizar pequeños “extrapos” para liberar las superficies y poder rellenar las juntas, lo que se llevó a cabo siempre con el mismo material para no modificar el soporte de las pinturas. Era importante también garantizar la estanqueidad de la cubierta del ábside que cubre la bóveda gótica con las pinturas renacentistas. Para ello se procedió primero a realizar catas para reconocer el estado de las fábricas y su composición. Nos encontramos con una cubierta plana de ladrillo, reparada en la segunda mitad del siglo XX que constaba de mallazo e impermeabilizante, pero donde la oxidación de las armaduras ya había hecho su aparición y las láminas asfálticas presentaban perforaciones. Se procedió a sustituir toda la superficie con una solución similar pero haciendo hincapié en su perímetro, de modo que la impermeabilización llegase hasta las albardillas perimetrales, cosa que antes no sucedía. Se reconstruyó la fábrica troncopiramidal necesaria para volver a sustentar el pasador que sujetaba la clave barroca [Fig. 25], dejando en todo su recorrido el orificio pasante, pero dotándolo de un vidrio de cierre, de modo que en la actualidad el paso de la luz, atravesando todas las fábricas, se puede percibir desde el centro del interior del ábside, al dirigir el espectador la mirada hacia la clave gótica. Se cosieron y sellaron las fisuras que presentaban las cinco fachadas del ábside, rellenando las llagas de la sillería con morteros bastardos de cal que se tuvieron que entonar dadas las diferentes orientaciones. Se injertaron, mediante entalladuras, aquellos faltantes de sillería de zonas donde la piedra constituía en elemento de trabajo del muro o del arco del hueco, reparando con mortero aquellas roturas superficiales que suponían testimonios de intervenciones históricas, como por ejemplo las rozas que se hicieron para empotrar la cubierta inclinada de teja de la girola. Como se ha dicho, las pinturas renacentistas no estaban tan solo en la plementería gótica de la bóveda, sino también y en mayor superficie, en todos los cinco lienzos interiores y en las arquivoltas de las ventanas góticas. El trabajo de apoyo para posibilitar la restauración de las pinturas en todos estos paramentos se inició primero liberando las ventanas góticas de la penetración hasta el exterior de las fábricas de ladrillo de jambas y dinteles de las ventanas barrocas hacia el exterior [Fig. 26]. Se redujo el espe-


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sor de las mismas hasta permitir la restauración de las pinturas de modo que los dos ventanales quedan independientes, en el interior el barroco y en el exterior el gótico, este último de mayor anchura y sobre todo altura, que rebasando el dintel barroco asciende hasta la bóveda. Sin embargo el sistema de cierre de los huecos debía de ser único. Tal como estaba proyectado, se procedió a situarlo en el plano de la ventana gótica la que fuera su posición original. Pero esto planteaba el problema de la inserción de las cinco vidrieras de las ventanas barrocas que el Cabildo quería mantener. Éstas, lógicamente, eran de menor dimensión que el ámbito del hueco gótico. Para solucionarlo se diseñó una nueva vidriera capaz de cerrar todo el hueco gótico donde se impostara cada vidriera de la ventana barroca. Para el nuevo diseño, se tomó la referencia de las composiciones de las vidrieras cistercienses del siglo XIII, como aproximación a la que pudo haber existido en origen. Concretamente se partió de las vidrieras de Eberbach en Francia, simplificando su compleja composición pero manteniendo las soluciones geométricas de sus círculos entrelazados y su escasez de policromía. Antes de la instalación de cada vidriera completa, protegida exteriormente mediante un vidrio de seguridad y protección de los rayos ultravioleta, se restauraron las arquivoltas exteriores de cada ventana gótica [Fig. 27]. Para liberar los ventanales góticos por el exterior, era necesario eliminar la cubierta inclinada de teja de la girola construida en el siglo XIX, y que las mordía hasta casi la mitad de su altura dejando un pequeño patinillo. También para la construcción de esta cubierta, bajándola en posición lo mayor posible para no tapar las ventanas, se habían demolido al menos dos hiladas de sillería de la fachada de la girola, la propia albardilla perimetral y sus ménsulas de apoyo. La cubierta gótica original plana se encontraba debajo de los tabiquillos, en muy mal estado y con diversas refracciones. Habían restos de pavimentos de ladrillo y argamasas que conducían, incluso que en origen, la solución primigenia hubiese sido de “trespol”. Se optó por dotar a la cubierta con un acabado de ladrillo macizo como en el resto de la Catedral ya recuperada. Quedaba por saber las dimensiones y altura de la albardilla perimetral. La suerte quiso que apareciera la impronta del atraque de la albardilla original en ambos extremos al encontrarse con los respectivos muros, lo que nos proporcionó las dimensiones y nivel de las piezas que había que fabricar y su posición exacta. Se ejecutaron piezas de sillería con piedra de una cantera de Montesa, aproximando la molduración tanto de la albardilla como de las ménsulas inferiores con un sólido capaz, ya que no conocíamos con toda exactitud su configuración formal. Más compleja fue la decisión a tomar respecto a los remates de los contrafuertes de los ángulos de la fachada de la girola que se prolongan en las


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grandes gárgolas voladas y soportadas por pilares de sillería en cada extremo. Estos contrafuertes, truncados por la inserción de la cubierta inclinada, podrían suponer arranques de antiguos arbotantes que, como en el resto de las naves laterales de la Catedral, sirven de desagüe de la cubierta de la nave principal. La suerte de nuevo quiso que durante la restauración de los muros de las fachadas del ábside, aparecieran, dentro de su espesor y próximos a cada uno de los ángulos, bajantes de cerámica que originalmente eran los que desaguarían la cubierta del ábside. Tras asumir que no existieron arbotantes se procedió a reconstruir el sólido faltante superior de los contrafuertes de la girola, en base a la solución inclinada de los remates de los contrafuertes del ábside. Finalmente se restauraron las conducciones por debajo de estos contrafuertes y las propias gárgolas, de modo que de nuevo están cumpliendo la función para la que fueron creadas, desaguando la cubierta, que a su vez recoge el agua de lluvia del ábside y este a su vez de parte del cimborrio y de las naves del crucero [Fig. 28]. En el interior se seguía trabajando con los lienzos de las fachadas interiores recuperando las roturas que el arranque de las plementerías de los lunetos barrocos habían dejado en la sillería gótica. Se repararon con los morteros de soporte que nos solicitaban los restauradores de las pinturas, con el fin de poder reintegrar el máximo de la superficie pictórica como así se hacho. Tan sólo, una vez visualizados, dejábamos la impronta de los capiteles interiores en que se rematan las columnillas interiores de las ventanas góticas, demolidos por la ejecución de la bóveda barroca, y que fueran de las mismas características a como afortunadamente aún hoy podemos apreciar en las decoraciones de los ventanales de las naves del transepto. La última intervención ha consistido el dotar de un sistema de iluminación adecuado al interior y al exterior del ábside. Se optó, en el interior, por la utilización por la instalación de regletas y cilindros que contienen “leds”, cuya acción lumínica no daña en absoluto los valiosos frescos. La disposición de las luminarias es tal que permite la contemplación de los restos barrocos de la bóveda con una iluminación más tenue y cálida con la utilización de filtros, y la de las pinturas de las plementerías, sin filtros, propiciando una iluminación más fria y natural que resalta el cielo estrellado donde se sitúan los ángeles músicos que cantan a la imagen mariana, que se ubicara en la clave gótica, desaparecida tras la construcción de la bóveda barroca [Fig. 29]. Para la iluminación exterior del ábside, se han colocado en el centro de cada una de las fachadas, sendas luminarias de halogenuros, capaces de resaltar la arquitectura de esta zona de la Catedral. Los días 19 y 20 de enero de 2007, tuvo lugar en Valencia un simposio internacional de expertos sobre el futuro de los frescos renacentistas de la


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bóveda gótica de la Catedral, los cuales concluyeron que el desmontaje de la bóveda barroca se había realizado de forma impecable así como la restauración de las pinturas, y que los frescos de los ángeles dada su importancia y relevancia a nivel internacional, permanezcan vistos para la contemplación y estudios posteriores. Según un informe de la Dirección General de Patrimonio de fecha 29 de diciembre de 2007, se autoriza finalmente la supresión de la plementería de la bóveda barroca del ábside da la Catedral de Valencia y la conservación de los elementos resultantes del desmontaje. El conjunto de la intervención arquitectónica ha servido, como estaba previsto, para restaurar los frescos renacentistas que se encontraban ocultos tras la bóveda barroca y en parte tras los ventanales barrocos. Pero el proceso necesario, también ha servido para poner en valor parte del conjunto de la cabecera de la Catedral junto con el conocimiento de muchos de los aspectos que hasta ahora eran desconocidos y que deberán tenerse en cuenta para posteriores intervenciones. La relación entre un espacio arquitectónico y su envolvente, de ser posible, debe ser tan sincero y coherente como lo proyectara su constructor hace casi setecientos cincuenta años, y es nuestra obligación recuperarlo, preservarlo y divulgarlo, para las generaciones futuras.


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ADELE CONDORELLI IL CORO ANGELICO DI RODRIGO BORGIA Il 23 dicembre del 1471, durante il pontificato di Sisto IV, in un concistoro segreto, cinque cardinali furono nominati «legati a latere», per fare appello a tutto il mondo cristiano in difesa della fede cattolica. Tra questi, al cardinale Rodrigo Borgia venne assegnata la missione in Spagna1. Possiamo immaginare con quanta esultanza e profonda emozione Rodrigo Borgia abbia accolto tale importante incarico. Gli si offriva l’opportunità di fare ritorno in patria, carico di prestigio, onori e ricchezze, ostentando tutto il potere che gli era stato conferito dal ruolo affidatogli dal pontefice. Opportunità straordinaria per il cardinale, che a diciotto anni, pieno di entusiasmo e grandi speranze, era partito da Valenza nei modesti panni dello studente, chiamato a Roma dallo zio Alfonso Borgia, futuro papa Callisto III. Le ristrettezze economiche, dovute alla prematura scomparsa del padre2, quando egli aveva soltanto dieci anni, avevano caratterizzato l’infanzia e l’adolescenza di Rodrigo. La madre Isabel Borgia, sorella di Alfonso, fu costretta ad abbandonare il palazzo di Xàtiva per trasferirsi nella sede episcopale di Valenza con la numerosa prole composta da due maschi e quattro femmine. La famiglia viveva grazie alla ospitalità dello zio, vescovo di Valenza il quale, essendo divenuto cardinale, risiedeva a Roma nel convento dei Santi Quattro Coronati. Alfonso Borgia, noto per la sua austerità e grande parsimonia, inviava alla sorella Isabel modiche somme di danaro, che, aggiunte alle esigue rendite provenienti dalle terre di Xàtiva, bastavano appena al sostentamento quotidiano della famiglia. Tuttavia il cardinale non lesinava sulle spese per gli studi di Rodrigo il quale essendo secondogenito, secondo l’uso predominante nelle famiglie di un certo ceto sociale, era destinato alla carriera ecclesiastica.

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L. Pastor, Storia dei Papi, VII, Roma 1911, p. 44. Rodrigo era figlio di Jofré Borja, cavaliere di Xàtiva, il quale aveva sposato la cugina Isabel Borgia. 2


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Il giovane Rodrigo, dall’intelligenza pronta e vivace, a Valenza studiava alacremente per non deludere lo zio cardinale, uomo coltissimo e insigne giurista, che nel nipote aveva riposto grandi aspettative. Dalla straordinaria carriera dello zio, che da umile fraticello proveniente dal piccolo borgo rurale di Torre de Canals, in provincia di Xàtiva, era assurto ai vertici della gerarchia ecclesiastica, Rodrigo aveva ben compreso che, in mancanza di alto lignaggio e di un cospicuo patrimonio alle spalle, l’unico mezzo per rivaleggiare e prevalere sulla superba arroganza dei rampolli delle potenti famiglie dell’aristocrazia, aggressivi e bellicosi, i quali disdegnavano lo studio ritenendolo incompatibile con una educazione virile, era il possesso di una solida cultura umanistica e giuridica. L’apprendimento di queste materie, iniziato a Valenza, fu da Rodrigo completato nella Università di Bologna, dove soggiornò dal 1452 al 1456, anno in cui gli venne conferita la laurea in diritto canonico. Questo ambito cronologico si ricava da documenti custoditi nell’archivio notarile di Bologna, pubblicati per la prima volta nel 1976 da Celestino Piana e, visto il persistere di errate affermazioni che vogliono Rodrigo Borgia laureato dopo un solo anno di frequenza universitaria, riproposti in edizione da Juan Nadal Cañellas in un esauriente saggio che mette in luce la solida dottrina giuridica acquisita da Rodrigo nei quattro anni trascorsi a Bologna3. La profonda conoscenza di questo ramo del diritto divenne strumento indispensabile per l’esercizio della funzione di vicecancelliere, carica assegnatagli dallo zio nel 1456 ed esercitata con tale competenza da renderlo insostituibile nella amministrazione e tutela dei beni della Chiesa, tanto che tutti i papi successivi a Callisto III, fino a quando egli stesso non ascese al soglio pontificio, nel 1492, preferirono mantenerlo a capo della Cancelleria piuttosto che affidarla ad esponenti della loro cerchia familiare, secondo gli usi del tempo. Con la missione diplomatica in Spagna, al potente vicecancelliere veniva ora offerta l’occasione di fare un ritorno trionfale nella sua amata Valenza e, nello stesso tempo, di mettere in atto i suoi meditati progetti che avrebbero dato superbi frutti nel campo politico, personale e artistico. Infatti, per merito del suo acume politico e della sua abile diplomazia, Rodrigo Borgia determinò eventi di straordinaria portata storica favorendo, 3 C. Piana, Nuovi documenti sull’Università di Bologna e sul Collegio di Spagna, Bologna 1976 (Studia Albornotiana, 26), pp. 902-923; J. Nadal Cañellas, La permanencia de Rodrigo de Borja (Alejandro VI) en el Estudio de Bolonia, según los documentos originales, «Acta Medievalia. Revista de Historia Medieval de la Facultad de Historia de la Universidad de Barcelona», 27-28 (2007-2008), pp. 173-205.


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tra l’altro, l’unione dei regni di Aragona e di Castiglia, con l’abolizione della scomunica che gravava su Ferdinando e Isabella, i quali, essendo cugini, si erano resi colpevoli di avere contratto matrimonio contro il volere papale. Ciò, di fatto, rese possibile la formazione del regno di Spagna. Sul piano personale, con l’acquisto del ricchissimo ducato di Gandía, conteso dalla casa reale aragonese, assicurò alla sua discendenza un terreno fertile dove porre profonde radici, che dettero origine anche ad un santo, il bisnipote Francesco Borgia, duca di Gandia, successore di Ignazio di Loyola, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti. Infine, per quanto riguarda l’arte, a Rodrigo Borgia va assegnato il merito di avere introdotto, nel 1472, la pittura del Rinascimento a Valenza. A Roma, nei cinque mesi che lo separavano dalla partenza per la Spagna, avvenuta il 15 maggio 1472, il vicecancelliere pianificò con estrema cura il suo fastoso e costoso viaggio per il quale ipotecò parte delle proprie rendite. Il seguito di Rodrigo Borgia era veramente principesco e tanto numeroso che il cardinale fu costretto ad affittare, a proprie spese, due galere veneziane. Facevano parte del seguito cardinalizio due pittori, il napoletano Francesco Pagano e il reggiano Paolo da San Leocadio. Evidentemente era intenzione del cardinale lasciare un’impronta indelebile della propria visita nella città, dove aveva trascorso gli anni più belli della sua prima giovinezza, facendo affrescare da artisti italiani la cappella maggiore della Cattedrale. Rodrigo Borgia, vescovo di Valenza, non aveva mai dimenticato che le prebende ricevute dalla diocesi valentina erano state determinanti per il proseguimento degli studi a Bologna. L’orfanello cresciuto nel palazzo episcopale, all’ombra delle possenti mura della cattedrale, ora aveva modo di rendere grazie per gli incommensurabili doni che la sorte gli aveva elargito, abbellendo con una innovativa opera d’arte il luogo sacro dove nella sua infanzia aveva appreso a pregare accanto alla madre ed ai fratelli. Ritengo, pertanto, che il tema dell’Alleluia, canto di esultanza, di gioia e di lode che gli angeli musici della cappella maggiore innalzano con foga impetuosa verso l’Alto dei Cieli, sia frutto di una precisa scelta di Rodrigo Borgia. La notizia, che nel 1469 un devastante incendio aveva distrutto il retablo d’argento, dedicato alla Vergine, e gli affreschi, che decoravano la cappella absidale della cattedrale, doveva avergli procurato un grande dolore. Dobbiamo supporre che il cardinale fosse a conoscenza delle serie difficoltà incontrate dai canonici del Capitolo nel reperire in situ pittori esperti nella tecnica dell’affresco, che doveva essere eseguita secondo l’usanza d’Italia, come si era soliti dire in Spagna. Rodrigo Borgia, uomo colto e di gusto raffinato, doti derivate dalla sua formazione umanistica, comprese che, intervenendo nella committenza per il rifacimento degli affreschi della


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cappella maggiore della Cattedrale, avrebbe potuto lasciare a Valenza una impronta indelebile, introducendo i nuovi canoni del Rinascimento italiano e assumendo in tal modo il ruolo di illuminato mecenate. Non si può escludere del tutto che Rodrigo Borgia abbia voluto emulare il celebre umanista cardinale Bessarione, patriarca di Costantinopoli, suo grande amico, il quale nella basilica romana dei Santi Apostoli, tra il 1464 e il 1468, aveva fatto decorare la cappella destinata alla propria sepoltura con un ciclo di affreschi commissionati ad Antoniazzo Romano. La cappella, per la bellezza delle decorazioni, la cui iconografia era stata dettata in ogni particolare dallo stesso Bessarione, con la volta azzurra punteggiata da stelle d’oro, i nove troni della gerarchia angelica, assiepata nella conca absidale ai lati del Redentore, e gli scomparti, nella parete, con le storie di san Michele, era considerata uno dei luoghi più importanti e ammirati del Rinascimento romano. In quegli anni Antoniazzo Romano, pittore dell’Urbe e, al contempo, grande imprenditore, costituiva il perno intorno al quale ruotava una vasta cerchia di collaboratori. Essendo il pittore di fiducia della curia vaticana e in particolar modo degli alti prelati spagnoli, a lui venivano assegnate le più importanti committenze per affrescare chiese e conventi. La sua bottega in piazza Cerasa, oggi piazza Rondanini, era un imprescindibile centro d’incontro per artisti italiani e stranieri che giungevano a Roma in cerca di lavoro e di notorietà e dei quali Antoniazzo si avvaleva per portare a termine le numerose committenze che egli sempre accettava, a prescindere dalla mole di lavoro da cui era oberato. In questo ambiente Rodrigo Borgia, sempre attento alle espressioni artistiche più innovative del suo tempo, potrebbe aver incontrato il pittore Francesco Pagano, proveniente da Napoli ed esperto nella tecnica del buon fresco. In vista del suo ritorno in Spagna, nella fervida immaginazione dell’ambizioso vicecancelliere dovette prendere forma la visione di una superba decorazione per la cappella maggiore della sua cattedrale, decorazione che avrebbe dovuto riflettere lo stile rinascimentale imperante in Italia. Occorreva, pertanto, trovare pittori in grado di eseguire un compito di tale entità e, inoltre, disposti ad una lunga trasferta oltremare. Rodrigo Borgia aveva grande familiarità con i migliori architetti, scultori e pittori, presenti a Roma in quegli anni, avendo fatto erigere e ornare il suo magnifico palazzo, denominato dai romani Cancelleria Vecchia, ora Sforza Cesarini, che, secondo i cronisti del tempo, poteva essere paragonato alla Domus Aurea per la fastosità e il lusso degli arredi. Si suppone che le volte a crociera dei saloni di rappresentanza fossero ricoperte di affreschi, ma di essi purtroppo resta solo la menzione di una camera delle stelle, il cui soffitto era decorato con i segni zodiacali, sullo sfondo di un cielo azzurro riful-


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gente di stelle. Non è improbabile che Francesco Pagano, uno dei due pittori condotti a Valenza da Rodrigo Borgia, avesse conquistato la piena fiducia del cardinale avendo già dato prova di grande maestria nella tecnica dell’affresco decorando i soffitti del suo palazzo. Tuttavia Rodrigo Borgia doveva essere consapevole che Francesco Pagano, napoletano, ma residente a Roma, secondo quanto egli stesso dichiara nel testamento dettato a Valenza nel 14764, non sarebbe stato in grado di eseguire da solo gli affreschi della cappella maggiore della cattedrale valentina, non tanto per la mole di lavoro e l’età matura del pittore, quanto per il fatto, che, essendo prevalentemente un decoratore – come è possibile desumere dai documenti custoditi nell’archivio della cattedrale di Valenza5 –, avrebbe incontrato non poche difficoltà nell’esecuzione della spettacolare iconografia che, suppongo, il cardinale avesse già ideato, con le grandi figure degli angeli di straordinario vigore plastico improntate ai nuovi modelli rinascimentali che, nella seconda metà del Quattrocento, iniziavano a diffondersi nell’Urbe. Rodrigo Borgia, pur apprezzando la sapiente tecnica a fresco del pittore napoletano, la cui personalità artistica si era formata tra Napoli e Roma, in un’epoca di transizione dal tardo Gotico al Rinascimento, doveva essere ben conscio che questi non avrebbe potuto esprimersi appieno nel nuovo linguaggio figurativo che intendeva introdurre a Valenza. Con ogni probabilità il repertorio iconografico di Francesco Pagano, «pintor al fresch», come egli stesso si definisce nel testamento del 1476, era in massima parte costituito dai motivi decorativi più richiesti dai committenti per affrescare i saloni dei loro palazzi, cioè i consueti festoni colorati di fiori e frutta, i cieli azzurri risplendenti di auree stelle, di reminiscenza gotica, i fregi con palmette, mascheroni e candelabra derivate dall’Antico e divulgate a Roma dai lapicidi lombardi che avevano scolpito porte e camini nel Palazzo Venezia, fatto erigere dal cardinale Pietro Barbo, divenuto papa, con il nome di Paolo II, nel 1464. Per mettere in atto l’ambizioso progetto di far decorare la cappella maggiore della cattedrale di Valenza, il cardinale doveva necessariamente affiancare a Francesco Pagano un pittore della nuova generazione, che avesse forgiato il proprio stile in un ambiente dove gli innovativi canoni del Rinascimento si fossero già manifestati in tutto il loro splendore.

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L. Tolosa - X. Company, Pinturas murales de la Catedral de Valencia. Apendice documental, in Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia, Valencia 2006, p. 382, par. 23. 5 A. Condorelli, Problemi di pittura valenzana. Il maestro Riquart e Francesco Pagano, in Antonello e la pittura del Quattrocento nell’Europa mediterranea. Atti del seminario internazionale (Palermo, 10-11 ottobre 2003), cur. M.A. Malleo, Palermo 2006; Tolosa - Company, Pinturas murales cit., p. 384, par. 30.


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Ancora una volta abbiamo la dimostrazione del felice, quanto sapiente, intuito di Rodrigo Borgia nello scegliere Paolo da San Leocadio, allora ventiquattrenne, che, da quanto è possibile dedurre dai suoi superstiti dipinti su tavola custoditi in Spagna, si era formato a Ferrara nella prestigiosa bottega di Cosmè Tura, pittore di corte del duca Borso d’Este, signore di Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Paolo, nato a Reggio Emilia il 10 settembre 1447, era il sesto figlio di Pietro Lazzaro da San Leocadio6. Dei suoi fratelli, Stefano, il maggiore, che Giovanni Pio Palazzi ha scoperto di recente essere un sacerdote7, nel 1471 ricopriva la carica di massaro della fabbrica della Cattedrale di Reggio Emilia, come ci rivela la scritta «masarii fabricae sancto Leucadi»8, rinvenuta su due lati dell’abaco di un capitello. Anche Luca era un religioso, come si evince da un documento in cui è definito chierico9, ma non ci è nota l’occupazione di Niccolò, il quale nel 1470 aveva sposato Isabetta, sorella del notaio Gabriele Cambiatori, prima della partenza di Paolo alla volta di Valenza10. Paolo doveva aver manifestato tendenze artistiche, meritevoli di essere coltivate in un ambiente più consono alle sue ambizioni, rispetto a quanto avrebbe potuto offrire la sua città natale in quegli anni. Gli evidenti influssi della pittura ferrarese, ravvisabili nei dipinti di Paolo da San Leocadio, ci inducono a supporre che il genitore possa avere assecondato le aspirazioni del figlio conducendolo a Ferrara, prestigioso centro d’arte, dove, fin dai tempi di Lionello d’Este, affluivano i più celebri artisti forestieri richiamati dall’illuminato mecenatismo dei suoi signori. A Ferrara, grazie all’intelligente politica culturale di Lionello e Borso, si era venuto a creare uno stile cosmopolita in grado di soddisfare il gusto aristocratico della corte e quello delle cerchie umanistiche, di cui Cosmè Tura, che

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Giovanni Pio Palazzi ha appurato che Pietro Lazzaro da San Leocadio, dopo Paolo, ebbe altri cinque figli, due maschi e tre femmine. Da alcuni documenti rinvenuti dal Palazzi e allegati al mio articolo: Notizie sulla famiglia d’origine di Paolo da San Leocadio, Appendice I, ad annum 1421, 1436 e 1439, apprendiamo che Pietro Lazzaro era un sarto, come lo era stato suo padre Stefano, che aveva esercitato anche il mestiere di “cimatore”, cioè colui il quale, dopo aver bagnato i panni ed averli asciugati sotto pressa, ne tagliava il pelo in varie misure. 7 Appendice I, ad annum 1470, 1470-1471. 8 La notizia del rinvenimento del capitello recante la scritta e l’evidente collegamento alla famiglia di Paolo, è stata pubblicata da G. Grassi - M. Severi, Sui restauri della Cattedrale di Reggio Emilia, «Taccuini d’Arte», 2 (2007), pp. 45-63: 49. Che si tratti di Stefano da San Leocadio, fratello di Paolo, è possibile dedurlo dai due documenti del 1471 pubblicati nell’Appendice I. Infatti, nello stato di famiglia del 1471 il nome di Stefano, primogenito di Pietro Lazzaro, è preceduto dal titolo di Don ad indicare lo stato sacerdotale. 9 Appendice I, ad annum 1463-1464. 10 Ibid., ad annum 1470, 14 marzo.


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aveva lavorato accanto a miniatori, orefici e decoratori attivi nella corte estense, ne fu il più illustre interprete. Egli, inoltre, conosceva perfettamente la tecnica fiamminga dell’uso del legante oleoso per la pittura su tavola, retaggio del soggiorno di Roger van der Weyden alla corte di Lionello d’Este. Tale tecnica era a quel tempo sconosciuta alla maggior parte degli artisti italiani. Sappiamo che nel 1456 Cosmè Tura, con la carica di pittore di corte, era alloggiato nel palazzo estense di Ferrara, dove presumiamo avesse la sua bottega. Poiché si ha notizia delle importanti relazioni di Pietro Lazzaro da San Leocadio con alcuni membri dell’aristocrazia di Reggio Emilia che prestavano servizio alla corte di Borso d’Este11 e ai quali sarebbe stato possibile affidare la sorveglianza del fanciullo ancora in minore età, abbiamo motivi per ritenere che Paolo fosse stato condotto a Ferrara per apprendere l’arte nella costosa bottega di Cosmè Tura, dove giungevano apprendisti anche da altre regioni del nord Italia12. Della primigenia cultura ferrarese, frammista a quella padovana, danno piena testimonianza le opere eseguite da Paolo da San Leocadio nel territorio valenzano, a partire dagli angeli musicanti della cattedrale, unica sua opera eseguita a fresco che ci sia pervenuta, mentre nei retabli e nei quadri devozionali, dipinti in epoche successive, egli rivela tutta la sua perizia nella tecnica della pittura a olio su tavola, prediletta dai committenti spagnoli13. Purtroppo resta ancora insoluto il problema della giovanile produzione 11 Dall’atto di battesimo di Paolo, Appendice II, ad annum 1447, apprendiamo che Paolo, oltre alla madrina, contessa Beatrice Manfredi, aveva avuto come padrino Gian Giacomo Bebbi, esponente di una delle più antiche ed illustri famiglie di Reggio Emilia, il quale ebbe importanti incarichi al servizio di Borso d’Este in qualità di sovrintendente delle fortificazioni della città di Reggio e in seguito, insignito del titolo di conte, di massaro della Camera Ducale (G. Giovanelli - P.L. Ghirelli, Leguigno, vicende di contea e parrocchia, Felina (RE) 1998). Non si può escludere del tutto che Gian Giacomo Bebbi si sia preso cura del suo figlioccio Paolo, assicurandogli la sua protezione e favorendone l’istruzione. 12 Adolfo Venturi ci informa, a proposito della rinomanza della bottega di Cosmè Tura nelle corti del Nord Italia, che il duca di Milano Galeazzo (e non Gian Galeazzo), nel 1461, inviò a Ferrara un suo giovane protetto perchè apprendesse l’arte «sotto alla direzione del rappresentante più completo e più glorioso della scuola ferrarese». La notizia deriva da una lettera di Borso d’Este a Ludovico Casella, capo della sua cancelleria, datata da Belriguardo il 23 febbraio 1461, nella quale il duca scrive: «Dirai a Cosmo depintor che a quello garzon del Sig. Giovanni Galeazzo non intendemo punto far noi le spese e che l’habbia pur intendere lui con il prefato Sig. Giovanni Galeazzo». Il Venturi aggiunge che sarebbe utile determinare quale fosse l’artista di Milano che attese allo studio della pittura a Ferrara. Desumiamo da questa missiva che la retta pagata dagli allievi di Cosmè Tura fosse molto costosa e che la bottega dovesse trovarsi nell’ambito del palazzo estense dal momento che Borso non intende accollarsi le spese per il mantenimento del giovane milanese. A. Venturi, Relazioni artistiche tra le Corti di Milano e Ferrara nel secolo XV, «Archivio storico lombardo», 12/2 (1885), pp. 225-280: 228 e nota 3. 13 Questo tema è stato da me trattato in A. Condorelli, El “concierto de los angeles”. La


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artistica di Paolo da San Leocadio, svolta in Italia prima della partenza per Valenza, ma non è da escludere che a Ferrara egli abbia potuto far parte di quella folta schiera di aiuti e “garzoni” i quali, diretti da Cosmè Tura e Francesco del Cossa, affrescarono il Salone dei Mesi nel Palazzo di Schifanoia, impresa terminata nel 1470, data a partire dalla quale ebbe inizio l’esodo dei più illustri pittori ferraresi allora presenti alla corte di Borso d’Este. Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, ormai privi di committenze degne della loro arte, lasciarono Ferrara dal momento che Borso d’Este, prediligendo quelle opere considerate di “arte minore”, quali la miniatura, i vistosi gioielli, i preziosi broccati e i ricami in oro, con i quali faceva ornare persino le livree dei suoi servitori, richiedeva prevalentemente ai suoi pittori di corte disegni per opere tessili, oreficeria e cartoni per arazzi. Opere effimere di cui non resta traccia, alle quali potrebbe essersi dedicato Paolo da San Leocadio agli esordi della sua carriera. Grazie alle mirate ed accurate ricerche di Palazzi, effettuate negli archivi di Reggio Emilia e di Modena, ora sappiamo con certezza che nel 1470 Paolo da San Leocadio si trovava nella casa paterna. Lo studioso emiliano ha raccolto numerosi ed interessanti documenti su Paolo e la sua famiglia, che finalmente mettono in luce alcuni aspetti della esuberante vita del ventenne pittore prima che lasciasse definitivamente la sua città natale. Sulla base delle fonti rinvenute, gli studiosi leocadiani potranno trarre nuovi spunti per tentare di dissipare la nebbia che avvolge il percorso artistico del giovane Paolo, quando ancora lavorava nei territori degli estensi e nelle zone limitrofe. Il fatto che fino al 1471-147214 suo padre lo includesse nello stato di famiglia dimostra che, in quegli anni, le sue presumibili assenze da Reggio Emilia, per motivi di lavoro, fossero di breve durata. Da un documento dell’archivio della cattedrale di Reggio Emilia, reperito da Palazzi, apprendiamo che, l’allora ventenne Paolo da San Leocadio aveva un figlio nato nel 146815 e battezzato nel battistero di Reggio Emilia con il nome di Eleocadius. Con questo nome il bimbo compare, insieme al padre Paolo, nel documento del 1470-1471, lo stato delle anime riguardante la composizione della famiglia di Pietro Lazzaro da San Leocadio. Finora Palazzi, che con metodo e perseveranza prosegue le ricerche archivistiche sulla famiglia dei da San Leocadio, non ha trovato traccia della madre del piccolo Leocadio: forse un figlio naturale affidato alle cure del nonno, quando Paolo pintura de Paolo da San Leocadio en la Catedral de Valencia. Actas del Seminari d’Història de la Pintura (Lleida, 24-26 d’Octubre de 2005), Lleida 2009, pp. 5-24. 14 Appendice I, ad annum 1471-1472. 15 Appendice I, ad annum 1468, 4 gennaio.


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lascia definitivamente Reggio Emilia alla volta di Roma. Evidentemente il giovanissimo Paolo, pur non avendo formato ancora una sua famiglia, sentiva fortemente la paternità, con i doveri che essa comporta. Infatti, alcuni anni dopo, a Valenza, dal testamento di Paolo del 4 luglio 147816 apprendiamo che aveva un altro figlio naturale in tenerissima età, affidato ad una balia, alla quale lascia doni di un certo valore e tutto il danaro necessario per pagarne il salario fino a quando ella finirà di allevare suo figlio «emperò que acabe de criar lo dit mon fill». In seguito Paolo da San Leocadio si sposò due volte e fu marito e padre esemplare. Di ciò abbiamo conferma nella stima incondizionata che la pia duchessa di Gandia, María Enríquez, nuora di Rodrigo Borgia e sua mecenate17, nutriva nei confronti del pittore italiano che aveva accolto a corte con la sua famiglia. Uno dei motivi che, forse, indusse Paolo da San Leocadio ad allontanarsi per sempre dalla città natale e dagli affetti più cari, potrebbe esserci rivelato dal tenore di una lettera di Pietro Lazzaro da San Leocadio, indirizzata al suo signore Borso d’Este il 29 aprile 147018 e rinvenuta da Palazzi nell’Archivio di Stato di Modena. L’accorato appello di Pietro Lazzaro da San Leocadio «all’Illustrissime princeps et Ex.me D.ne», affinché intervenga con la sua autorità a porre fine alle continue persecuzioni di cui erano oggetto due dei suoi quattro figli da parte delle autorità locali, è di straordinario interesse storico-sociale, poiché ci consente di penetrare nella vita quotidiana di Reggio Emilia nel Quattrocento e assistere ad una furibonda rissa generata da «certa gelosia di femmene» che ha per protagonisti due dei figli di Pietro Lazzaro, verosimilmente Luca e Paolo, dal momento che il maggiore, Stefano, era sacerdote e massaro della fabbrica del Duomo ed il secondogenito Niccolò si era appena sposato19. Il tenore della lettera di Pietro Lazzaro, che rivela il disagio di due dei suoi figli dovuto ad intrighi di bassa lega, rende più plausibile l’ipotesi, già da me avanzata, che Paolo da San Leocadio si fosse allontanato da Reggio Emilia aggregandosi alla numerosa scorta che accompagnava Borso d’Este allorché questi, nella primavera del 1471, da Ferrara si recò a Roma per ricevere le insegne ducali dalle mani di Paolo II. L’imponente corteo al seguito del signore estense, per il fasto e il numero degli illustri personaggi, destò grande ammirazione e fu celebrato dai 16 17

Tolosa - Company, Pinturas murales cit., p. 385, par. 36. A. Condorelli, Paolo de San Leocadio y la familia Borja, in La llum de les imatges, Xàtiva 2007, pp. 261-279. 18 Appendice III. 19 Appendice I, ad annum 1470, 14 marzo.


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cronisti dell’epoca. Intraprendere un viaggio al seguito di Borso d’Este era una occasione imperdibile per il giovane artista in cerca di nuove esperienze e di lavoro. Inoltre, grazie alla preziosa lettera ritrovata dal Palazzi, possiamo dedurre che per l’esuberante Paolo fosse più prudente allontanarsi da Reggio Emilia al fine di sottrarsi ad eventuali vendette generate da vicende amorose poco ortodosse. Paolo da San Leocadio giunse a Roma con un bagaglio che presumiamo contenesse, oltre al consueto repertorio di disegni, lettere di presentazione stilate da un autorevole personaggio della corte estense quale era il suo padrino di battesimo Gian Giacomo Bebbi. In un articolo del 199720 avanzai l’ipotesi che fosse stata la lombarda Vannozza Catanei, futura madre dei figli prediletti di Rodrigo Borgia, a presentare il giovane pittore giunto dal Nord al potente vicecancelliere. Vannozza, di origine mantovana, o forse bresciana, era figlia di un certo Jacopo pittore e consanguineo di Antonio da Brescia, lo scultore che dal 1468 lavorava per Paolo II nel Palazzo di Venezia, essendo uno dei maggiori esponenti di quel nutrito nucleo di artisti lombardi che operavano a Roma nella seconda metà del XV secolo. Pertanto Vannozza aveva una notevole competenza nel campo delle arti e conosceva personalmente gli artisti provenienti dal Nord, che gravitavano intorno alla sua famiglia. Non è inverosimile che il giovane Paolo, appena giunto a Roma, abbia goduto della protezione dell’autorevole dama lombarda la quale, conscia delle eccezionali qualità del giovane pittore, potrebbe averlo segnalato a Rodrigo Borgia. Tuttavia il cardinale avrà certamente preteso una prova della sua abilità, a meno che non avesse già avuto modo di ammirare qualche dipinto di Paolo a noi, purtroppo, non pervenuto. Forse tracce di affreschi sia di Paolo da San Leocadio, sia di Francesco Pagano giacciono sepolti sotto strati di calce nel palazzo della Cancelleria Vecchia, più volte ristrutturato nel corso dei secoli dalla famiglia Sforza Cesarini. Riteniamo che Rodrigo Borgia, nei mesi che precedettero la sua partenza per Valenza, ebbe modo di meditare sull’iconografia da raffigurare nella cappella maggiore della cattedrale. Anche se, formalmente, la scelta della iconografia sarebbe spettata ai canonici del Capitolo, chi avrebbe osato opporsi ai desideri del potente legato pontificio e, per di più, vescovo di Valenza? Basti considerare con quanta rapidità fu liquidato quell’oscuro mae-

20 A. Condorelli, Una nuova attribuzione a Ferrando de Llanos e un “ritrovato” Cristo portacroce di Paolo da San Leocadio, in Scritti in onore di Alessandro Marabottini, Roma 1997, pp. 103-110.


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stro Riquart, che si era presentato nella cattedrale a contendere il lavoro ai due pittori italiani condotti dal cardinale, pretendendo di essere ammesso, anche lui, alla prova per l’assegnazione dell’appalto. Il contratto tra Francesco Pagano, Paolo da San Leocadio e i canonici del Capitolo venne stipulato alla presenza del cardinale il quale, già da tempo, doveva aver preso visione dei disegni preparatori per gli angeli musici della volta, dato che, presumibilmente, il loro significato simbolico era stato da lui stesso elaborato. A mio avviso, la predilezione di Rodrigo Borgia per il lusso raffinato, traspare negli angeli musici di Valenza che, in netto contrasto con gli abiti austeri di quelli affrescati a Roma nella cappella del cardinale Bessarione, sono abbigliati con ornamenti sontuosi, ricchi di nastri, ricami, broccati e preziosi gioielli21. Gli angeli valentini, cantando e danzando al suono dei loro strumenti, sembrano prendere parte ad uno spettacolo di corte, messo in scena da uno straordinario coreografo [Fig. 29]. Questa sensazione scaturisce dal motivo ritmico, puntualmente ripetuto in tutte le vele, delle grandi ali degli angeli, una ripiegata in basso e l’altra svettante verso l’alto per raggiungere, con perfetto sincronismo, quella del compagno [Fig. 30]. I due angeli, che a destra e a sinistra dell’arco absidale con le loro trombe annunciano l’angelico concerto [Figg. 31-32], sembrano evocare le vittorie alate poste nei triangoli ai lati degli archi di trionfo eretti in onore degli imperatori dell’antica Roma. Valenza aveva riservato al suo vescovo una accoglienza trionfale, degna di un monarca. Dal porto dove era sbarcato, Rodrigo Borgia, tra l’esultanza del popolo, aveva percorso le strade della città, fino alla cattedrale, sotto un grande baldacchino sostenuto dai notabili, seguito da un imponente e sfarzoso corteo il cui ricordo ci è stato tramandato dalle cronache del tempo. Gli affreschi della volta furono iniziati nel luglio del 147222 e portati a termine tra la fine del 1475 e il febbraio del 1476, da quanto possiamo dedurre da un documento, datato 7 marzo 147623, che contiene un inventario del legname della prima impalcatura servita per dipingere gli angeli della cappella maggiore. L’impalcatura, quindi, era stata smontata a fine lavoro

21 Occorre tener presente che Paolo da San Leocadio fin dall’infanzia, nella bottega del padre sarto, si era aggirato tra stoffe pregiate, ricami e vari ornamenti usati per confezionare gli abiti. 22 Il 21 dicembre 1472 Paolo da San Leocadio, con un atto di rara generosità, invia al padre Pietro Lazzaro ben 100 fiorini d’oro, cioè due terzi della somma ricevuta in acconto per gli affreschi della cappella maggiore, Appendice I, ad annum 1473, 25 febbraio. 23 Tolosa - Company, Pinturas murales cit., p. 382, par. 20.


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e in margine si precisa che il legname si custodiva nella casa del Capitolo. È possibile che l’impalcatura sia stata rimontata in un secondo momento per aggiungere ancora oro e azzurro agli affreschi, in seguito alle rimostranze del Capitolo, che accusava i pittori di avere risparmiato su questo costoso materiale. Francesco Pagano e Paolo da San Leocadio affrescarono affiancati il coro angelico della volta, ma è bene distinguere i differenti ruoli dei due pittori, messi in chiara evidenza dal documento del 23 settembre 147624, nel quale si legge che, a causa dei continui litigi insorti tra i due maestri, i canonici, al fine di evitare ulteriori scandali ed inconvenienti, decidono, per il restante lavoro da eseguire, di separare drasticamente i compiti dei due pittori affidando a Francesco Pagano la fastosa decorazione, purtroppo andata perduta, delle pareti della cappella maggiore, sotto i capitelli che delimitano la conca absidale, mentre Paolo da San Leocadio dovrà dipingere, nella parte superiore dell’abside, la Maestà Divina circondata dai serafini, una scena sacra raffigurante l’Ultima Cena e gli apostoli tra le finestre. Abbiamo, così, una idea di come tra i due pittori fossero distribuiti i compiti nell’esecuzione del coro angelico: Francesco Pagano, esperto nei decori, componeva motivi ornamentali, mentre Paolo da San Leocadio si dedicava alle figure sacre, delle quali le uniche superstiti sono gli angeli della volta che rivelano appieno il suo stile di ascendenza ferrarese-padovana. Siamo, quindi, alla presenza di due pittori con due ruoli ben distinti, così come, probabilmente, aveva predisposto e voluto Rodrigo Borgia nel selezionare a Roma gli artisti che, affrescando la cappella maggiore della cattedrale di Valenza, avrebbero avuto il prestigioso compito di introdurre l’arte del Rinascimento in Spagna. Forse, tra i due, il più anziano Francesco Pagano era quello maggiormente esperto nella tecnica del buon fresco. Sembra che Paolo da San Leocadio, il quale, peraltro, dipingeva egregiamente anche ad olio su tavola, non esitasse a sovrapporre sulla pittura a fresco ritocchi a secco e ad olio, pur di ottenere l’effetto desiderato. Un accurato esame delle differenze presenti nella tecnica usata negli affreschi della volta, messe in evidenza nel corso del restauro, potrebbero indurre a nuove considerazioni sulla collaborazione tra i due pittori, tenendo conto dei loro continui litigi forse dovuti anche alla maniera poco ortodossa con cui, a volte, il giovane Paolo eseguiva la pittura a fresco mettendola a repentaglio. Le decorazioni eseguite soltanto da Francesco Pagano, sulle pareti della cappella maggiore, sono scomparse sotto le sovrastrutture barocche e con

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Ibid., p. 384, par. 30.


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esse la possibilità di individuarne lo stile; le sue tracce si perdono a Valenza alla fine del 1481 e la sua figura rimane problematica. Il Rolfs, nella sua storia della pittura napoletana25, sostenne, senza il supporto di una benché minima prova, che quel Francesco di Napoli, il quale il 21 ottobre 1489 aveva ricevuto otto ducati per un ritratto del duca di Calabria, era anche conosciuto come Francesco Pagano, il pittore a fresco tornato da Valenza nel 1481. Questa identificazione di Francesco di Napoli con Francesco Pagano fu accettata passivamente e confermata nella voce del ThiemeBecker, a lui dedicata, acquisendo in tal modo un valore quasi dogmatico. Tale identificazione, mai messa in discussione, è divenuta la base su cui poggia il castello di ipotesi di una presunta produzione artistica di Francesco Pagano a Napoli intorno al 148926. Risalendo alla fonte utilizzata da Rolfs per la sua affermazione circa l’identità di Francesco Pagano, cioè alle cedole della Tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli per gli anni 1460-1504, pubblicate da Nicola Barone27, leggiamo che il 21 ottobre 1489 «a Francesco, cartaro di Napoli, è data la somma di 8 d. per un’immagine, che ha fatta a similitudine del Duca, la quale da sua signoria fu offerta al Beato Jacopo della Marca in S. Maria la Nova». Il duca qui citato è Alfonso d’Aragona, figlio del re Ferrante e duca di Calabria il quale, in segno di devozione alla memoria del frate marchigiano, morto a Napoli nel 1487 in odore di santità, fece eseguire da «Francesco cartaro di Napoli» un ex voto con la sua immagine, da porre accanto alla sepoltura del frate nella chiesa di Santa Maria la Nova. Scorrendo tutte la cedole della tesoreria aragonese apprendiamo che con il termine “cartaro” si intendeva indicare un artigiano, disegnatore di trionfi e di carte da gioco, o un venditore di pergamene28. Mi chiedo il motivo per il quale tutti gli studiosi, iniziando dal Rolfs, che identificano Francesco Pagano con il Francesco di Napoli citato nella cedola di pagamento del 1489, abbiano sempre accuratamente omesso di aggiungere al suo nome la qualifica di “cartaro”, che indica a chiare lettere il mestiere da lui esercitato. Non è possibile, pertanto, immaginare che il superbo Señor Pintor di Rodrigo Borgia, il quale a Valenza aveva guada-

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W. Rolfs, Geschichte der Malerei Neapels, Leipzig 1910, pp. 92, 119, 155. F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura, Napoli 1977, pp. 183 e ss. N. Barone, Le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli, dall’anno 1460 al 1504, «Archivio Storico per le Province Napoleane», 10 (1885), p. 7. 28 Mi sono soffermata su questo argomento in: A. Condorelli, El cardenal Rodrigo de Borja mecenas de Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, in Els fills del senyor papa. Actes del II Simposi internacional sobre els Borjas (València - Gandia, 21-23 novembre 2007), «Revista Borja», 2 (2008-2009), pp. 359-378 (www.elsborja.org/revista.php).


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gnato una ingente somma di danaro per gli affreschi della cattedrale, sia riapparso a Napoli, a distanza di otto anni dal suo presunto ritorno in patria, nelle vesti di un umile fabbricante di ex voto. Sarebbe più logico supporre che Francesco Pagano fosse tornato a Roma, dove aveva la sua dimora29 e dove poteva sempre contare sulla protezione del suo mecenate, il possente cardinale Borgia. Uno spiraglio di luce scaturito da un documento rinvenuto, nel gennaio del 2008, da Marià Carbonell nell’Archivio del Regno di Maiorca30, consente oggi di aggiungere un dato importante alla scarna biografia di Francesco Pagano e di avanzare alcune ipotesi sulla sua primigenia formazione artistica avvenuta a Napoli, prima che lasciasse la città natale per recarsi a Roma, alla ricerca di più vasti orizzonti nel mondo dell’arte. Il documento rivela che Francesco Pagano nel 1457 si trovava a Napoli, dove con atto notarile entra a far parte di una società composta da altri tre pittori: «Die mercurii IIII mensis madii, anno predicto [1457]. Eodem die fuerunt firmata capitula super quadam societate facta inter Raphaelem Thomas de Barchinona, Jacobum Barreta de Neapoli, Paulum Burriello et Franciscum Pagano de Neapoli pictorum, sunt in cohopertis presentis manualis»31. Non avendo motivo di dubitare che il Francesco Pagano menzionato nell’atto notarile del 1457, ritrovato a Palma di Maiorca, non sia lo stesso che appare a Valenza nel 1472, abbiamo ora una fonte degna di fede che consente di rafforzare l’ipotesi sulla iniziale formazione artistica tardo gotica del pittore, acquisita a Napoli. Innanzi tutto dal documento maiorchino possiamo dedurre con una certa approssimazione la data di nascita di Francesco Pagano che potrebbe essere collocata tra gli anni 1435 o 1437, se non prima, supponendo che nel 1457 egli avesse almeno venti anni per poter firmare un patto di collaborazione con un pittore già rinomato quale 29

Ciò si evince dal testamento di Francesco Pagano, redatto a Valenza il 25 giugno 1476, nel quale il pittore dichara di essere «neapolitano, habitante en Roma». Tolosa - Company, Pinturas murales cit. p. 382, par. 23. 30 Archivio del Regno di Maiorca, Protocolos, notaio Joan Castell, protocollo 2579, f. 21v. Il documento si trova nei registri del notaio Joan Castell, originario di Tarragona, al servizio di Alfonso il Magnanimo, nella corte napoletana, dove ricopriva la carica di giudice della curia reale. Tornato in patria Joan Castell si stabilì a Palma di Maiorca continuando ad esercitare la professione di notaio. 31 Ibid., 4 maggio 1457. Marià Carbonell, cui sono molto grata per avermi segnalato questo interessante documento, mi informa che nell’Archivio del Regno di Maiorca si trovano soltanto alcuni protocolli frammentari del notaio Joan Castell, contenenti atti e carte del periodo napoletano. Nel protocollo 2579 è conservato l’estratto, manca infatti il testo dell’atto. In realtà il documento rinvenuto afferma che i capitula, ossia i patti firmati, «sunt in cohopertis presentis manualis», ma questa “cohoperta” non si è conservata.


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era Rafael Thomàs, o Tomàs come appare in altri documenti. Questo maestro, esponente della pittura gotica catalana, si era formato a Barcellona nella bottega di Jaume Huguet. Nel 1455 si trovava a Cagliari dove dipinse, in collaborazione con Joan Figuera, il retablo di San Bernardino per i frati di San Francesco di Stampace, un’opera a tempera su tavola [Fig. 33], ora custodita nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari e della quale si conserva il contratto di allogazione firmato dai frati e dai due pittori catalani il cui compenso stabilito era di duecento quaranta fiorini d’oro. Dai documenti, conservati negli Archivi dei Pirenei Orientali di Perpignan e pubblicati da Marcel Durliat32, sappiamo che Rafael Thomàs dal 1463 al 1482 lavorò a Perpignan nelle chiese di San Giacomo e di San Matteo. Poiché le opere eseguite a Perpignan sono andate perdute, il retablo cagliaritano, del quale la critica33 assegna a Rafael Thomàs la parte centrale, quella di maggior pregio pittorico con l’im-magine del santo e le storie della sua vita, costituisce l’unica testimonianza del suo stile che riflette i canoni della pittura ispano-fiamminga imperante in quegli anni nei territori della Corona d’Aragona. La presenza di Rafael Thomàs a Napoli nel 1456 era già nota per merito di un documento custodito nell’Archivio di Stato di Cagliari, citato e commentato da Gabriella Olla Repetto nel 196434. Si tratta di un protesto causato da una lettera di cambio firmata da Rafael Thomàs a Napoli il 24 aprile 1456 e consegnato l’11 dicembre 1456 a Joan Figuera, residente a Cagliari, affinché estinguesse il debito contratto dal socio. Da tutto ciò si evince che il pittore catalano, nei primi mesi del 1456, avesse abbandonato la Sardegna alla volta di Napoli, lasciando al suo socio l’onere di portare a compimento il retablo di San Bernardino, a meno che l’opera non fosse già stata interamente eseguita, come del resto era previsto nell’atto di allogazione del 1455, che assegnava ai pittori il termine di un anno per l’esecuzione del retablo. Sulla base del documento cagliaritano è stato affermato che Rafael Thomàs soggiornò a Napoli prima del 1455, ma ciò non risulta dall’attenta disanima del protesto35. La presenza a Napoli del pittore catalano e la 32 M. Durliat, Arts anciens du Roussillon, Peinture, Perpignan 1954, p. 255; vedi anche:

J. Gudiol - S. Alcolea i Blanch, Pintura gotica catalana, Barcelona 1987, p. 201. C. Maltese - R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del 500, Schede e apparati di R. Coroneo, Nuoro 1990, p. 97. 34 G. Olla Repetto, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento, «Commentari», 15 (1964), pp. 119-127: 123. Il documento, che si trova a Cagliari, Archivio di Stato, Atti notarili sciolti Pere Steve, vol. 1164, f. 14v, è riprodotto nell’Appendice IV. 35 Cultura Quattro-Cinquecentesca in Sardegna. Retabli, restauri e documenti, Catalogo della mostra (Cagliari, 26 novembre 1983 - 20 gennaio 1984), Cagliari 1985, pp. 114-117. 33


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sua familiarità con l’ambiente artistico napoletano sono testimoniate soltanto dalla lettera di cambio del 1456 e dall’atto di costituzione della società con i tre pittori napoletani stipulato nel 1457. Purtroppo ignoriamo quali opere abbia eseguito Rafael Thomàs nella città partenopea; presumibilmente queste erano di notevole entità se egli ritenne di entrare in società con i tre pittori napoletani il cui stile doveva essere affine al suo, vincolato ai modelli ispano-fiamminghi36. Tuttavia è bene ricordare che la corte aragonese impegnava i propri artisti anche nell’esecuzione di opere effimere, quali gli scenari per le rappresentazioni della Settimana Santa o nella decorazione sontuosa di cimieri e scudi usati nei frequenti e fastosi tornei organizzati da Alfonso e da Ferrante, lavori questi molto ammirati, ma destinati a rifulgere per brevissimo tempo. Il soggiorno napoletano di Rafael Thomàs potrebbe essersi protratto per qualche anno ancora dopo il 1457, ma occorre tener presente che nel 1463 il suo nome appare nei documenti degli archivi di Perpignan. Da quanto esposto possiamo dedurre che, a quel tempo, lo stile di Francesco Pagano non si discostasse molto da quello di Rafael Thomàs e dei vari maestri iberici attivi a Napoli al tempo di Alfonso il Magnanimo. Ignoriamo in quale anno egli abbia lasciato Napoli, presumibilmente non prima che il suo socio catalano tornasse in patria, ma sappiamo con certezza che nel 1472, anno della sua partenza per Valenza, risiedeva a Roma. Non possiamo escludere che Francesco Pagano, avendo lavorato a fianco di Rafael Thomàs a Napoli, nell’ambito della corte aragonese di Alfonso il Magnanimo e di Ferrante I, conoscesse la lingua catalana, prerogativa che a Roma gli avrebbe consentito di entrare più facilmente al servizio del potente vicecancelliere Rodrigo Borgia. Forse proprio il fatto che Francesco Pagano parlasse il catalano potrebbe aver indotto il cardinale ad affiancarlo all’emiliano Paolo da San Leocadio, il giovane talento da lui scoperto e, con felice intuito, prescelto per affrescare, a Valenza, la cappella maggiore della “sua” cattedrale. Malgrado i due pittori provenissero da ambienti artistici totalmente diversi: quello ispano-fiammingo della corte aragonese Francesco Pagano e quello rinascimentale della corte estense di Ferrara Paolo da San Leocadio, Rodrigo Borgia dovette considerare che il maturo pittore napoletano, il quale presumiamo godesse della sua fiducia e la cui età, nel 1472, doveva aggirarsi intorno ai quarant’anni, sarebbe stato un indispensabile supporto per il

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Degli altri due pittori napoletani, Jacopo Barreta e Paolo Borriello, soci di Rafael Thomàs e Francesco Pagano, non ho trovato notizie.


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giovane ventiquattrenne emiliano dato che, potendo esprimersi in catalano, avrebbe facilitato i rapporti sia con i canonici della cattedrale, sia con la mano d’opera locale, necessaria per intraprendere un’opera così complessa quale era la decorazione a fresco della cappella maggiore. Se Paolo da San Leocadio fosse stato condotto da solo a Valenza avrebbe incontrato non poche difficoltà, perdendo tempo prezioso. Infatti, nei primi anni del loro soggiorno a Valenza, Francesco Pagano godette di maggior prestigio agli occhi dei canonici del Capitolo con i quali poteva più facilmente colloquiare, rispetto a Paolo da San Leocadio, e soltanto al maestro napoletano venivano effettuati i pagamenti da ripartire con il suo giovane socio. Quello che non previde il cardinale nell’associare due pittori così diversi tra loro, accomunati soltanto dalla loro perizia nel dipingere a fresco, furono i loro furibondi litigi che perdurarono negli anni fino al completamento dell’opera avvenuta nel 1481, anno a partire dal quale non si hanno più notizie di Francesco Pagano, che forse lasciò definitivamente la Spagna. Paolo da San Leocadio, invece, preferì restare a Valenza. Gli angeli della cattedrale lo avevano reso celebre e la sua abilità nel dipingere ad olio su tavola gli consentiva di soddisfare le innumerevoli richieste della committenza spagnola eseguendo grandi retabli e quadri devozionali. Il suo legame con la famiglia Borgia perdurò nel tempo. Considerato dai suoi contemporanei «el mas solemne pintor de España», Paolo da San Leocadio divenne pittore di corte di María Enríquez, duchessa di Gandía e nuora di Alessandro VI. Ammirando il superbo coro angelico ci chiediamo come, nel 1674, l’arcivescovo di Valenza Luis Alfonso de los Cameros abbia potuto decretarne la scomparsa in favore di una leziosa volta bianca ornata da stucchi dorati raffiguranti gioiosi puttini intenti a giocare tra le volute barocche. Decisione, forse, presa a cuor leggero trattandosi di un’opera ispirata da un papa su cui gravava il peso dell’ingiusta “leggenda nera”. Ma nel luglio del 2004 la sorte ha voluto che si invertissero le parti. Inaspettatamente, dall’involucro barocco che per oltre tre secoli lo aveva imprigionato, il coro angelico è riapparso nella cattedrale in tutto il suo originario splendore a perenne testimonianza del gusto raffinato e della “moderna” visione nel campo dell’arte di Rodrigo Borgia, audace innovatore in una Valenza ancora, a quel tempo, saldamente vincolata a stilemi gotici. Concludo con le parole di Eugenio Müntz il quale, alla fine del XIX secolo quando più che mai imperversavano le fosche leggende che ammantavano la figura di Alessandro VI, così si espresse nei suoi confronti: «Un pape qui se présente devant la postérité escortè de maîtres tels que Bramante, les San Gallo, Michel-Ange, le Perugin, Pinturicchio, Caradosso –


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qu’il ait spontanément choisi ces artistes ou qu’il ait bénéficié indirectement de leur presence – aura toujours droit à l’admiration, sinon à la gratitude de la postérité»37.

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E. Müntz, Les arts à la cour des papes. Innocent VIII, Alexandre VI, Pio III (14841503), Paris 1898, p. 145.


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APPENDICE I Notizie sulla famiglia di Paolo da San Leocadio* 1396, 20 novembre: Niccolò da San Leocadio, cittadino e notaio reggiano, detta il proprio testamento. Sposato con Caterina de’ Caffis, abita nella vicinia1 di S. Prospero di Castello e chiede di essere sepolto nella stessa chiesa di S. Prospero. Fa lasciti alla moglie e nomina eredi i due figli, Stefano per due terzi e Simona per il rimanente terzo (Reggio Emilia, Archivio di Stato, in seguito abbreviato ASRe, Archivio del Comune, Memoriali, anno 1397). 1420: Stefano da San Leocadio nel testamento dell’agosto 1420 chiede di essere sepolto nella chiesa di S. Prospero di Reggio e fa lasciti alla madre Caterina de’ Caffis e alla moglie Cupina. Nomina suoi eredi i figli Paolo e Pietro Lazzaro (ibid., anno 1420). 1421, 15 novembre: Donna Caterina, figlia di Giovanni de’ Caffis, moglie del fu Niccolò da San Leocadio, già cittadino reggiano della vicinia di S. Prospero di Castello, ava paterna e tutrice di Paolo e Pietro Lazzaro, pupilli, fratelli e figli del fu Stefano da San Leocadio, cimatore2, vende terre nel territorio di Correggio a Tommaso Bassi, ivi residente, per una cifra pattuita di 28 lire. Atto rogato dal notaio Giroldo Fiordibelli (ibid., anno 1421, c. 92r). 1424: Inventario dei beni mobili e immobili di casa San Leocadio realizzato nel 1421 nel momento in cui a Caterina de’ Caffis viene affidata la tutela dei nipoti (ibid., anno 1424, c. 16r). 1429: Caterina de’ Caffis, vedova di Niccolò da San Leocadio, tutrice di Pietro Lazzaro di Stefano, affitta terre di proprietà del nipote (ibid., anno 1429). * 1 2

A cura di Giovanni Pio Palazzi. Vicinia = Parrocchia. Cimatore era colui che tagliava il pelo ai tessuti, prima bagnati e asciugati sotto una pressa. Mestiere a volte correlato con quello di sarto, come nel caso di Stefano da San Leocadio, nonno di Paolo. I cimatori venivano iscritti alla matricola dei sarti.


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1436: «Nota di quelli che furono e oggi sono descritti nella matricola dell’arte dei Sarti:«[…]Stefano de S.to Locadio3 […]» (ASRe, Corporazioni di Arti e mestieri, Arte dei Sarti, b. 2356). 1439, 29 luglio: Pietro Lazzaro da San Leocadio, di professione sarto, cittadino di Reggio Emilia, abitante nella vicinia di S. Prospero di Castello, di età inferiore a 25 anni e superiore a 19, costituito dinnanzi a Prospero Donelli, giudice di Reggio il quale, data la minore età, gli affianca quale tutore Jacopo de Zacheris, dichiara di aver ricevuto da sua moglie Caterina, figlia di Andrea de’ Ricchi, parte della dote e si impegna a rispettare quanto previsto dall’accordo matrimoniale. L’atto viene rogato nella casa di Pietro Lazzaro dal notaio reggiano Gabriele Calcagni (ASRe, Archivio del Comune, Memoriali, anno 1439, c. 37v). 1444: Stato di famiglia di Pietro Lazzaro da San Leocadio, nella vicinia di S. Prospero di Castello, composta da Pietro Lazzaro di 24 anni e dal figlio Stefano di 1 anno (ibid., Atti di Stato civile, Frammenti dei libri dei fuochi). 1458: Stato di famiglia di Pietro Lazzaro da San Leocadio. Pietro Lazzaro, anni 40; figli: Stefano, anni 18; Niccolò, anni 15; Luca, anni 14; Paolo anni 11(ibid., Estimo, Liber focorum et boccarum 1458-1459). 1463-1464: Luca da San Leocadio, inquisito dalla giustizia criminale, presenta il documento della sua ordinazione a chierico, avvenuta il 5 marzo 1463 a titolo di patrimonio4 (ASRe, Archivi Giudiziari, Libri delle Denunzie e delle Querele, ad annum). 1468, 4 gennaio: nasce a Reggio Emilia un figlio di Paolo da San Leocadio di nome Eleocadio, battezzato nel Battistero del Duomo. Ha come padrino Don Gaspare Tacoli e come madrina la moglie di Andrea Magnani (Reggio Emilia, Archivio della Cattedrale, Battistero, Registri Battesimali, reg. 1450-1478).

3 La matricola inizia con l’anno 1436, ma il titolo dice chiaramente che vi sono annotati quelli che furono e sono al presente iscritti all’arte, è per questo motivo che vi troviamo Stefano, che sappiamo già morto nel 1421. Non figura invece mai iscritto alla stessa Pietro Lazzaro nonostante che, in molti atti conservati nei Memoriali, venga definito sarto. 4 Presumibilmente in questo modo Luca cercava di essere giudicato dall’autorità ecclesiastica, che riteneva forse più indulgente nei suoi confronti, piuttosto che da quella civile certamente più severa.


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1470, 14 marzo: Pietro Lazzaro, figlio di Stefano da San Leocadio, dichiara di ricevere da Gabriele, del fu Guidone Cambiatori, civis e notaio5 reggiano, una rata della dote per il matrimonio di Isabetta, sorella di Gabriele, e Niccolò figlio di Pietro Lazzaro. L’atto è stipulato dal notaio Gaspare Lanzi. (ASRe, Archivio del Comune, Memoriali, anno 1470). Da un successivo atto del 20 aprile 1479, apprendiamo che Gabriele Cambiatori versa un’ulteriore rata della dote e che lo strumento dotale era stato stipulato il 20 febbraio 1469 dal notaio Gabriele Ariberti (ibid., anno 1479). 1470, 29 aprile: lettera di Pietro Lazzaro da San Leocadio a Borso d’Este (Modena, Archivio di Stato, in seguito abbreviato ASMo, Particolari, b. 1280). 1470, 6 agosto: Pietro Lazzaro da San Leocadio è estimatore del comune di Reggio (ASRe, Archivi Giudiziari, Libri dei danni dati, 1470 II semestre). 1471: Pietro Lazzaro da San Leocadio nel 1471 figura tra i 40 consiglieri che amministrano la città di Reggio (ASMo, Rettori dello Stato, Reggio, b. 166). 1471: Nell’Archivio del Battistero della Cattedrale di Reggio Emilia, nel Libro dei battezzati6, alla data del 15 ottobre 1471 è annotato che il massaro della Cattedrale, Don Stefano da San Leocadio, alla presenza del vescovo Bertrando7 e di molte altre persone, ordina che la campana del Duomo ven-

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Dobbiamo forse a lui il fatto che il nipote Vincenzo abbracci la professione di notaio, visto che nella famiglia dei San Leocadio questa era ormai stata abbandonata da tre generazioni. Troveremo Gabriele Cambiatori anche come teste nell’atto del 1473 con cui Pietro Lazzaro dichiara di ricevere una certa somma di denaro inviata da Valencia dal figlio Paolo pittore. Considerata la sua professione di notaio e l’appartenenza ad una delle famiglie più quotate della città, il notaio Cambiatori doveva essere una persona di alto prestigio ed è evidente che anche i parenti acquisiti facevano ricorso a lui nel trattare affari importanti concernenti la vita della famiglia San Leocadio. 6 I registri dei Battezzati erano generalmente riservati all’annotazione dei battesimi, poteva però capitare che il soggetto preposto alla registrazione inserisse anche fatti di cronaca locale o riguardanti la vita della Chiesa o dei vari Stati come ad esempio lo scoppio di una guerra, un trattato di pace, un’epidemia, la morte di un regnante. In questo caso si tratta del rifacimento della campana maggiore del Duomo e tutti sappiamo dell’importanza che tali strumenti musicali avevano nel medioevo, quando col suono delle campane si trasmettevano ai cittadini e alle comunità gli avvenimenti, gioiosi o infausti, della città. Nel racconto dell’accaduto il ruolo da protagonista è svolto da Stefano da San Leocadio, il Vescovo è solo presente ma non partecipe. 7 Antonio Bertrando detto ‘Trombetta’, vescovo di Reggio dal 1466 al 1478.


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ga distrutta per rifarla migliore della precedente (Reggio Emilia, Archivio della Cattedrale, Battistero, Registri Battesimali, reg. 1450-1478, c. 233r.). Senza data, attribuibile al periodo 1460-1470: vicinia di S. Maria Maddalena, famiglia di Pietro Lazzaro da San Lochadio: maschi 5; femmine 3 (ASRe, Annona, Congregazione dell’Abbondanza, Descrizione delle bocche e biade, 1442-1632, b. 1340). Senza data, attribuibile al periodo 1471-1472: vicinia di S. Maria Maddalena, Stato di famiglia di Pietro Lazzaro da San Leocadio: Pietro Lazzaro, anni 51; Don Stefano, anni 30; Nicolò, anni 28; Luca, anni 27; Paolo, anni 24; Leocadio, anni 48;Vincenzo, anni 1 circa o pochi mesi9. Bocche complessive 910 (ibid., Archivio del Comune, Atti di Stato civile, Frammenti dei libri dei fuochi). 1473, 25 febbraio: «Il giorno 25 del mese di febbraio, Pietro Lazzaro, figlio di Stefano di San Leocadio, cittadino reggiano della vicinia di S. Maria Maddalena, ha e riceve realmente e manualmente, in presenza di me notaio e dei testi infrascritti, da Tommaso, figlio di Bertolino dei Bozacchi, cittadino reggiano della vicinia di S. Lorenzo, 100 fiorini papali d’oro, ricevuti dallo stesso Tommaso dai denari propri di Paolo, pittore, figlio del detto Pietro Lazzaro, dal venerabile Don Giovanni Andrea, fratello del detto Tommaso, e allo stesso Don Giovanni Andrea inviati dal detto Paolo per lettera di cambio da Valentia, tramite il banco di Carlo Ricii, su richiesta del detto Paolo, e sul banco dei Medici della Curia Romana da una prima (lettera) di cambio fatta da Valentia su richiesta del detto Paolo il giorno 21 dicembre 1472 e successivamente inviati dal detto don Giovanni Andrea al detto Tommaso, con lettera data da Roma il 9 febbraio 1473, e successivamente da me notaio vista e letta a questo fine e detti Pietro Lazzaro e Tom-

8 Come visto dall’atto di battesimo sopra riportato, sappiamo che Leocadio è figlio di Paolo. 9 Alla luce dei documenti esaminati si può ritenere che Vincenzo sia figlio di Niccolò, anche se non è stato possibile trovare l’atto di battesimo. Può essere nato fuori città e questo spiegherebbe l’assenza dell’atto: solo i bambini nati nelle parrocchie cittadine, infatti, ricevevano il primo dei sacramenti nel Battistero urbano. 10 Purtroppo nei vari ‘boccatici’ o ‘libri dei fuochi’ le femmine venivano indicate solo con un numero, senza che fosse mai citato il nome di battesimo. La registrazione del nome sarebbe avvenuta, forse, solo se si fosse trattato di una donna con mansioni di capofamiglia. Non possiamo quindi sapere chi fossero le due donne che facevano parte della famiglia: una era sicuramente la moglie di Niccolò, l’altra forse la moglie di Pietro Lazzaro.


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maso confessano che ciò è vero e, a richiesta di me notaio, che stipula e riceve a nome e per conto del detto Paolo, dei quali 100 fiorini detto Pietro Lazzaro fece la ricevuta come sopra e detto Pietro Lazzaro fece, di mano propria, tre lettere che diede e consegnò al detto Tommaso dichiarando Pietro Lazzaro di averla ratificata sotto la pena suddetta e sotto obbligazione sua e dei suoi beni, mobili e immobili, presenti e futuri. Fatto a Reggio, nella bottega di panni di Giovanni Montanari, sotto la casa di Malaguzzi, presso la piazza di Reggio, presenti Gabriele Cambiatori, Antonio de Trentis notaio e Leonardo de Medijs capitibus tinctore tutti cittadini reggiani, testi noti, vocati e roganti» (ibid., Memoriali, 1473, cc. 14v15r; cfr. anche ibid., Notai, Lanzi Gaspare, bb. 58, 52). 1473: Stato di famiglia11 di Pietro Lazzaro da San Leocadio nella vicinia di S. Maria Maddalena, Pietro Lazzaro da S. Leocadio, anni 55; Don Stefano, anni 30; Nicolò figlio, anni 29; Luca figlio, anni 26; Vincenzo, figlio di Niccolò, anni 3; Francesco, figlio di Niccolò, anni 1; femmine, 3. Frumento staia 50; fava staia 30; spelta staia 30 (ibid., Annona, Congregazione dell’Abbondanza, Descrizione delle bocche e biade, 1442-1632, b. 1340). 1477: vicinia di S. Maria Maddalena, famiglia di Pietro Lazzaro da San Lochadio, bocche 11 (ibid.). 1482: Pietro Lazzaro da San Leocadio, padre di Paolo, figura come teste in un atto (Ibid., Archivio del Comune, Memoriali, anno 1482). 1490: Vincenzo da San Leocadio, figlio di Niccolò e nipote di Paolo, è un notaio iscritto alla matricola nel 1490. Anche suo figlio Pietro Lazzaro è notaio, iscritto alla matricola dal 1523 (Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Manoscritti, mss. regg. C 103, Indice dei notai descritti nella matricola dal 1300 al 1600). 1503, 27 settembre: Niccolò, figlio del fu Pietro Lazzaro da San Leocadio, erede suo e del fratello Stefano, già sacerdote e cittadino reggiano, concede 11 In questo stato di famiglia mancano Paolo e Leocadio, il primo sappiamo che all’epoca si trovava in Spagna; Leocadio (o Eleocadio) possiamo supporre sia morto e questo potrebbe aver influito sulla decisione di Paolo di partire per l’estero dove avrà occasione, essendo ancora molto giovane, di rifarsi una vita. Le donne della famiglia vedono, invece, aumentare il loro numero di un’unità, considerato che non siamo a conoscenza di matrimoni o di nascite di femmine, possiamo supporre si tratti di una domestica, che verrebbe considerata parte integrante della famiglia.


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la procura ad Antonio di Giovanni Antonio Mantovani ad agire per suo conto e nome a difesa dei propri interessi (ASRe, Notai, Martelli Paolo, b. 217). 1519, 1 novembre: «nocte seguenti circa hora quinta». Testamento di Vincenzo, figlio di Niccolò da San Leocadio, notaio e cittadino reggiano, sano di mente ma alquanto infermo nel corpo, che dispone di essere sepolto nella chiesa di S. Prospero di Castello. Lascia alla moglie Antonia la dote che aveva portato con le nozze. Lascia alcuni legati ai servi e tutto il resto dei beni, in parti uguali, ai figli Pietro Lazzaro e Francesco. Nel caso entrambi dovessero morire senza eredi dispone che la sua eredità passi alla chiesa di S. Prospero di Castello (ibid., Notai, Bonzagni Franchino iunior b. 96). 1520, 29 dicembre: con atto rogato nella camera superiore della propria casa, nella vicinia di S. Maria Maddalena, Vincenzo da San Leocadio compra terre a Rivalta (ibid.). 1560, 11 dicembre: Pietro Lazzaro di Vincenzo da San Leocadio, marito di Angelica di Angelo Scutellari e padre di Laura e Cornelia, sottoscrive un accordo con la moglie e le figlie che pone fine ad una lite in corso per la gestione dei beni di famiglia. Laura è sposata con Giulio Carminati, mentre Cornelia è ancora nubile (ibid., Notai, Rodigi Rodigo, b. 772). 1576: Fra le “bocche”, descritte nel 1576, appartenenti alla vicinia di S. Maria Maddalena è registrata: Cornelia de Sanlucati12, 15 staia di frumento, 2 staia di fava e 2 staia di vezza (ibid., Annona, Congregazione dell’Abbondanza, Descrizione delle bocche e biade, 1442-1632, b. 1340). 1589: Nella vicinia di S. Maria Maddalena viene registrata Cornelia Sanluca13 (ibid.).

12

Nel dialetto reggiano le parole San Leocadio (o Locadio) e Sanlucati hanno un suono simile per cui il compilatore del boccatico scrive quello che sente pronunciare senza preoccuparsi troppo dell’esatta grafia del cognome. 13 È l’ultima variazione del cognome, che poi scompare con l’estinzione della famiglia.


Cornelia

Francesco

Lodovica n. 20 ago. 1445 Reggio Emilia

Eleocadio n. 4 gen. 1468 Reggio Emilia

Paolo (pittore)* n. 10 sett. 1447 Reggio Emilia m. post 1520 Valencia?

gio 1458), Maddalena (n. 2 giugno 1454), Caterina (n. 31 gennaio 1457) e Caterina (n. 5 ottobre 1458).

* Dopo Paolo, da Pietro Lazzaro e Caterina nacquero altri cinque figli: Simone (n. 2 novembre 1449), Prospero (n. 14 gennaio 1453 - m. prima del 19 mag-

Laura sp. Giulio Carminati

Pietro Lazzaro (notaio) sp. Angelica Scutellari

Luca (chierico) n. 20 ott. 1443 Reggio Emilia

Francesco Gabriele n. 24 mag. 1472 Reggio Emilia

Niccolò Venerio n. 6 nov. 1441 Reggio Emilia sp. Isabetta Cambiatori

Vincenzo (notaio) n. nel 1470 ca. - m. post 1521 sp. Antonia

Jacopina Stefano (sacerdote) n. 26 dic. 1438 n. 5 mar. 1440 Reggio Emilia Reggio Emilia m. post 1474

Paolo

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Pietro Lazzaro n. nel 1418 ca. - m. post 1483 sp. Caterina de’ Ricchi

Stefano m. nel 1420 ca. sp. Cupina

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Simona

Niccolò (notaio) m. nel 1396 ca. sp. Caterina de’ Caffis

Prosperino

Johannino da San Leocadio

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APPENDICE II Atti di Battesimo* 1438, 28 dicembre: Jacopina, figlia di Pietro Lazzaro da San Leocadio, fu battezzata dal soprascritto [Don Marchixium]1. Padrino Magister Fabiano da S. Croce2 (Reggio Emilia, Archivio della Cattedrale, Battistero, Registri Battesimali, reg. 1430-1449, c. 116r). 1439, 1 agosto: Caterina, moglie di Pietro Lazzaro di San Leocadio, è madrina al battesimo di Giacomo Ferrari (ibid., ad annum). 1440, 5 marzo: Stefano, figlio di Sogari de S.to Locadio3, fu battezzato dal soprascritto. Padrini: il nobile uomo Giovanni Giacomo de Vallisneri e Helena figlia del fu Gabriele di casato sconosciuto (ibid., ad annum). 1441, 6 novembre: Niccolò Venerio4, figlio di Pietro Lazzaro da San Leocadio, fu battezzato dal soprascritto. Padrini: Giovanni de Rachixius e la moglie di Niccolò Caselini (ibid., c. 155r). 1443, 20 ottobre: Luca, figlio di Pietro Lazzaro di San Locadio, fu battezzato dal soprascritto. Padrini: Magister Habraam de Carbonibus e la moglie di Niccolò Caselini (ibid., ad annum). 1445, 20 agosto: Lodovica, figlia di Pietro Lazzaro di San Locadio, fu battezzata dal soprascritto. Padrini Magister Abram de Carbonibus e la moglie di Giovanni Parolari (ibid., c. 205r). 1447, 10 settembre: «Die Dominico X September 1447» Paolo [Venerio],

* 1 2

A cura Giovanni Pio Palazzi. Si trattava di tale Don Marchixium che battezzerà tutti i figli di Pietro Lazzaro. S. Croce è una delle porte della città di Reggio ed indica uno dei quattro quartieri nei quali era suddivisa la città medievale. 3 La prima riga ha subito una evidente correzione, l’inchiostro è molto più marcato. Il non aver mai trovato riscontri su di un de S.to Leocadio che si chiamasse Sogari, la comune desinenza in “ari” fra Sogari e Lazari fa pensare ad una errata correzione. 4 S. Venerio è compatrono di Reggio e a ciò si deve la diffusione del suo culto nel reggiano.


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figlio di Pietro Lazzaro da San Leocadio, fu battezzato dal soprascritto. Padrini: Giovanni Giacomo Bebbi e Donna Beatrice contessa de’ Manfredi (ibid., ad annum). 1468, 4 gennaio: «Die lune IIII ianuarii» Eleocadio, figlio di Paolo di S. Eleucadio fu battezzato dal soprascritto5. Padrini: Don Gaspare Tacoli e la moglie di Andrea Magnani (ibid., reg. 1450-1478).

APPENDICE III 1470, aprile 30, Reggio Lettera di Pietro Lazzaro da San Leocadio a Borso d’Este6. Modena, Archivio di Stato, Particolari, b. 1280.

Illustrissime princeps et exellentissime domine domine mi singolarissime. Havendo hauto longa et dura patientia, adesso strecto me convene exclamare apresso la vostra justissima excellentia de le molestie facte agli mei per questo Contestabile da la piaza qui. Il quale, da puoi che è venuto qui, pare habia preso uno et anche duj de mei figluoli in tanto odio che non li vuole lasciare vivi. Si che tuto procede da certa gilosia di femene, la quale pare sia stata tra uno suo aprovixionato et uno de questi mei figluoli et la quale lui si ha ficta nel cuore. Dil che ben me son dogliuto cum il Cancellero, qui et il quale pur heri me dixe chio havesse patientia insino a dimane che gli provederia et cossì era deliberato […]a. Anch’oj che è domenica epso Contestabile, passionatissimo verso questo mio figliolo, ritrovandolo in piaza, lo prese per il copeto assai disonestamente, dicendo che si ritrovava

5

Il nome del ministrante era indicato solo nell’atto all’inizio del foglio. In questo caso si trattava di Don Giovanni de’ Lanci (Lanzi). 6 Rinvenuta da Giovanni Pio Palazzi.


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condenato de una condenaxone facta già bon tempo et che il voleva lo andasse impresone. Di che epso mio figluolo gh’offerse buon segurtade et più, ma in effecto deliberava de fargli ogni danno et vergogna, non havendo alcun risguardo nj ala festa nj ad alcuno altro rispecto, ma solum asatiare il suo disordinato apetito. In effecto pare che, sopragiongendo li uno altro mio figluolo, fusseno ale manne et etiam uno altro mio parente in modo che il primo si partite et usite de le sue mane. Et jo oldendo il tuto andai a ritrovare epso Contestabile per intendere e riparare a quanto me fusse possibile, ma como arivaj a luj el me asaltò de mordente et sinestrissime parole et maxime, che sel non fusse in quelo offitio chel me faria andare vestito de bruna per amore de mei figluoli, il che oldendo et afogato da lui gli risposte como corezato et in effecto de ciò non ne seguite altro. Ma pare che de ciò lhabia facto querella apresso al Massaro e Cancellero, qui li quallj segondo intendo hanno tolto quelle informatione che gli ha date et non punto hanno ricevute quelle che jo ho alincontro et per o me eparso dare questa mia a vostra excellentia cum supplicargli la se degni fare tale provixione, che questo Contestabile non ne habia a cazare da regio mi nj mei figluoli, li qualli sono quatro et li qualli in vero in ogni loco del mondo seriano cossì apti a servire vostra Excellentia como epso Contestabile, il quale, voglia che la Vostra Excellentia sapia, che tuto quelo chel fece contra mio figluolo in questo dì el lo ha facto contra la comissione del Massaro et Cancellero per quelo chio intendo. Il che voglio adimandare de gratia a vostra celsitudine se degni dare tale Comissione a chi gli pare et piace, che debba intendere questa cossa e le justificatione mie et de li mei et puoi inteso il tuto fare tale provixione, che possiamo vivere soto lombra de vostra excellentia ala quale devote me racomando. Regii penultimo aprilis 1470, fidelissimus servitor Petrus Lazarus de S.to Laucadio. Illustrissime et excellentissime domine dominationi vestre


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Modena, Archivio di Stato, Particolari, b. 1280, lettera di Pietro Lazzaro da San Leocadio a Borso d’Este.

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APPENDICE IV* 1456, dicembre 11, Cagliari Protesto di una lettera di cambio, del valore di XXI lire cagliaritane, firmata da Rafael Thomàs a Napoli il 24 aprile 1456, a favore di Ludovico Spinalbosa e consegnata a Cagliari l’11 dicembre 1457 a Joan Figuera, pittore residente a Cagliari, affinché estinguesse il debito contratto dal suo socio. Cagliari, Archivio di Stato, Atti notarili sciolti, notaio Pere Steve, vol. 1164 (1456-1464), f. 14v.

Die sabbati XIa decembris/ anno predictoa Noverint universi quod die sabbati intitulata XIa menis decembris anno a nativitate Domini M°CCCCLVI, existente venerabilib Johanne Figuera, pictore Castri Calleri habitatore, subtus portico hospicii Bartholomei Talladrur, habitatoris Castri eiusdem, comparuit Ludovicus Spinalbosa, mercator Castri predicti, qui, in presencia discreti Gabrielis Serra, notarii subrogati iurati mei notarii infrascripti et honorabilium Gabrielis Mombru, patroni navis, et Jacobi Xarch minoris dierum, habitatoris dicti Castri, qui obtulit et presentavit eidem Johanni Figuera quandam literam cambii quam petiit et requisivit eidem Johanni Figuera per eundem subrogatum et iuratum mei dicti notarii infrascripti ad hunc actum faciendum et requirendum convocatum cuius quidem superioris scripturis tenor sequitur prout et cetera:«Al molt honrat lo senyor en Raffael Thomàs en Càller, segona». Et de illis que ab intrinsecus sunt tenor est talis «+ Jhesus Napols a XXIIIIc d’abril 1456 + Pagats per aquesta segonad de cambi alusat, si per la primera feta la present jornada pagat no haveu a·n Luis Spinalbosa o, en absència sua, a·n Pere Burgués vint e una lliura de moneda corrent de Càller, dites XXI lliure de·la sus dita moneda e són per la valor, yo són así content del dit Luis Spinalbosa al temps feu bon compliment e sia Jhesús ab

*

a

Trascrizione di Stefania Rusconi.

Atto cassato @@@ b Segue cassato Joha, Ludovico Spinalbosa mercatore Castri Calleri habitatore @@@ c XXIIII scritto in interlinea su XXVIIII cassato @@@ d segona scritto in inter-


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tots. Raffael Tomàs». Yo Anthoni Portell so tengut en lo present cambi com a principal predor e pertant quee yo no se scriure, facz fer la present de mà d’en Miquel Salavert Qua quidem littera presentata, lectaque et intimata per eundem subrogatum ipsi Johanni Figuera, ilico dictus Ludovicus Spinalbosa dixit et protulit hec vel similia verba saltem in effectu ipsa dirigendo dicto Johanni Figuera: «Senyor en Johan Figuera, yo so açí ni volrets complir la present letra de cambi com a deutor qui son d’en Raffel Thomàs e axí us ho requir la mi complixcats, en altra manera yo protest contra vós e lo dit/ Raffel Thomàs e béns de cascún de vosaltres e de neguació de pagua del present cambi e de tots dans, missions e despeses e interessos que a·mi convendrà fer e sostenir, per rahó del present cambi en qualsevol manera, denunciant vósf per les dits cambig, messions, despeses, dans e interessos que yo pendre recambi contra vós e lo dit Raffel Thomàs e béns de cascú de vosaltres, segons cambis valran d’açí en Nàpols, requirent a vós notari, com a surogat del notari davall scrit, de açò mi façats carta pública, una e moltes si necessari sera, ensemps ab la resposta per lo dit Johan Figuera fahedora, sots hun mateix acte per haver memòria en sdevenidor de·les dites coses». Qui quidem Johannes Figuera, auditis predictis, statim respondit per hec vel similia verba in effectuh ipsa dicto Ludovico Spinalbosa dirigendo: «Senyor, ara quant al present yoi no ha manera de paguar, ni complir lo present cambi». Que fuerunt acta loco, die, mense / et anno predictis.

linea su primera cassato @@@ e que scritto in interlinea su qui cassato @@@ f segue cassato yo prende @@@ g dits cambi in interlinea @@@ h in effectu in interlinea, segue ipsa cassato @@@ i yo in interlinea.


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XIMO COMPANY COMPONENTES FORMALES E ICONOGRÁFICOS DE LOS ÁNGELES DE LA CATEDRAL DE VALENCIA Delante de los ángeles tañeré para ti (SI. 137, I)

Tal y como ya expresé en el Istituto Storico Italiano per il Medio Evo de Roma, el viernes 25 de enero de 2008, día en que expuse ante el público el contenido de esta ponencia, deseo en primer lugar felicitar a quienes organizaron aquel bienvenido y siempre oportuno Congreso angélico. Hablar de los ángeles de la catedral de Valencia redescubiertos en 2004 sigue y seguirá siendo, durante mucho tiempo, una iniciativa fecunda y muy oportuna. En segundo lugar quiero agradecer a los organizadores de aquel Congreso: Institut Valencià de Conservació i Restauració de Béns Culturals de la Generalitat Valenciana (dir. Dra. Carmen Pérez) e Istituto Storico Italiano per il Medio Evo (Presidente Prof. Massimo Miglio), la amable invitación que me hicieron a participar en ese encuentro internacional de reconocidos colegas y amigos. Mi agradecimiento se extiende también hacia la Dra. Anna Maria Oliva, competente organizadora científica del Congreso desde Roma, y hacia la Sra. Mila González, organizadora asímismo, en la sombra valenciana, de buena parte del feliz desarrollo del mencionado encuentro. Debo advertir que un buen clima relativo a cuestiones de organización e intendencia posibilitan, o al menos coadyuvan, a un mayor y fecundo desarrollo de todo lo científico. De ahí que me sea permitido dejar constancia también de mi sincero agradecimiento a todos los miembros de la Escuela Española de Historia y Arqueología de Roma que contribuyeron a que mi estancia en Roma los días 23 al 27 de enero de 2008 fuera enormemente grata y fructífera; mi recuerdo y agradecimiento se hace concreto y personal hacia al director D. Ricardo Olmos y a la vicedirectora Dña. Ma. Trinidad Tortosa y a Dña. Cristina Jular, científica titular.


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1. Cuestiones iconográficas Todo el programa iconográfico de las pinturas murales del altar mayor de la catedral de Valencia [Fig. 29], realizadas entre 1472 y 1481, responde de un modo inequívoco a la exaltación de la Majestad Divina de Jesucristo, si bien, como es sabido, todo lo cristológico va siempre indefectiblemente unido a lo mariológico. Tanto en temas teológicos, como sobre todo artísticos, Jesucristo y su madre, la Virgen María, estan y van siempre muy unidos. Aunque es cierto que de cuestiones iconográficas se habla muy poco en el contrato de 1472, algo se comenta. Conviene que nos detengamos a examinar dichas referencias. Se alude, por ejemplo, a un trono de serafines circundando la clave central de la bóveda, a dos ángeles en cada crugía de la misma, vestidos según convengan los canónigos del cabildo catedralicio, a decoraciones a base de «hojas con frutos de oro y frutos de la vid», a una historia central no especificada, a unos apóstoles a ambos lados de la mencionada historia y realizados de nuevo según deseen los canónigos («a voluntat del dit honorable capítol»), a unos textos en el espacio del muro frontal realizado con letras clásicas, romanas o latinas «lletres antigues» entre bordones de oro, y a capiteles y pilares también de signo clásico, como así han resultado ser los capiteles y las columnas (no pilares como reza en el contrato) que se han descubierto tras la intervención recuperativa efectuada1. 1 El mencionado contrato puede verse entero en R. Chabás, Las pinturas del Altar Mayor de la Catedral de Valencia, «El Archivo», 5 (1891), pp. 376-402. Revisado y actualizado también puede verse en L. Tolosa - X. Company, Apéndice Documental. Paolo da San Leocadio en los archivos: reflexiones sobre los documentos de su vida y obra, en X. Company, Paolo da San Leocadio y los inicios de la pintura española del Renacimiento, edición bilingüe en valenciano y castellano, Gandía 2006, pp. 385-494, Apéndice II, pp. 415-417, n. 3. En el punto 1 se menciona que pintarán la clave de madera de la bóveda [gótica] de la capilla mayor (sin especificar si esta estaría o no figurada) «tan ornadamente com ells sabran fer», y a su alrededor: «un tron de seraphins ornat d’or fi molt bell». Y se comenta también, ya en el punto 2, que en cada uno de los entrepaños de la mencionada bóveda se pintarán dos ángeles, vestidos según parezca al cabildo de la catedral: «en cascun pany de les crues [crugías] pintaran dos àngels, ço és, un àngel en cascun pany, vestits a voluntat del dit honorable capítol ab ses ales sembrades d’or fi e de belles colors». En el punto 5 se precisa que enfrente y debajo de las ventanas se pinte una historia (sin precisar más: «sia pintada una història»), y en los otros espacios sean pintados los apóstoles («sien pintats los apòstols») a voluntad de dicho cabildo o capítulo. Y nada más se menciona en el contrato en cuanto a iconografía figural. Sobre el proceso de recuperación de los ángeles de la catedral de Valencia véase M.C. Pérez García - J. Català Martínez, Estado de conservación de las pinturas renacentistas de la Capilla Mayor de la Catedral Metropolitana de Valencia, en Los Ángeles Músicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, cur. M.C. Pérez García, Valencia 2006, pp. 95-152. Véase además la importante ponencia de los dos autores citados publicada en este mismo volumen.


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Si bien a un nivel figurativo sólo hay alusiones a un trono de serafines, a ángeles y a apóstoles, sabemos por otras fuentes del siglo XVII2, que hubo algo más. La mencionada fuente describe lo siguiente: «la capilla estaba hermoseada con aquella Cena de Apóstoles que vemos pintada sobre los claros de los cuatro arcos que tiene, y en la bóveda aquella gloria de ángeles que con diversidad de instrumentos músicos alaban al Señor del universo. Puedo discurrir todo esto por lo denegrido del oro y colorido de los ropajes»3. Por otro lado, sabemos, por documentación fehaciente del archivo catedralicio de Valencia, que la clave central de la bóveda estaba decorada con una talla de madera de álamo, obra del mestre Ferrando en 1472 (ayudado del mestre Lluc Colomer y del herrero Alony, este último autor de una corona dorada que él mismo incrustó en la cabeza de la Virgen), donde aparecía representada la Asunción de la Virgen María4. Poseemos, pues, información suficiente como para sostener que la iconografía de los frescos de la catedral de Valencia estaba estrechamente relacionada con la Majestad Divina de Jesucristo y, como acabamos de ver, con la Asunción de la Virgen María. Recuérdese, en lo que se refiere a la presencia mariana, que la catedral de Valencia, y aún más, su altar mayor, estaban y están dedicados, como cita Roque Chabás, a «Nuestra Señora, Madona Santa María»5. El mismo fraile dominico, el erudito José Teixidor, ya escribió en 1767 que: «el Rey Don Jaime, como devotísimo de la Virgen, le dio título [a la catedral de Valencia] de Santa María»6. Esta es la advocación más aceptada por todo el mundo, aunque Felipe Ma. Garín Ortiz de Taranco proclamó en 1959 que la de Valencia era la «Catedral de la Asunción»7; no deja de tratarse, en cualquier caso, también en la propuesta más específicamente asuncionista de Garín, de una clara alusión y advocación mariana. Desde un punto de vista iconografíco puede ser pertinente recordar aquí el extraordinario papel de la Virgen María en la historia del pensa-

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J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia. Guía histórica y artística, Valencia 1909, pp. 151-152. El autor cita una fuente manuscrita del siglo XVII, que nunca hemos podido encontrar; cfr. Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura cit., p. 214. 3 Ibid. 4 Tolosa - Company, Apéndice Documental cit., Apéndice I, pp. 413-414, nn. 206-210. Se habla aquí, con toda claridad, de «la clau de dita capella hon [mestre Ferrando] féu escolpida la Asomsió de la Verge Maria» (n. 210). 5 Chabás, Las pinturas cit., p. 377. Apunta Chabás que la misma advocación tienen «todas las iglesias principales de las poblaciones conquistadas por D. Jaime I de Aragón» (ibid.). 6 J. Teixidor, Antigüedades de Valencia (manuscrito de 1767), ed. R. Chabás, 2 vols., Valencia 1895, I, p. 219. 7 F.Ma. Garín Ortiz de Taranto, Valencia monumental, Valencia 1959, p. 16.


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miento y la liturgia de los cristianos, amén, por todo lo que acaba de decirse, en la historia del discurso artístico de la cultura occidental. Leemos, por ejemplo, en el Libro de los Proverbios, que María es el trono de la sabiduría: «El Señor me estableció al principio de sus tareas, al comienzo de sus obras antiquísimas. En un tiempo remotísimo fui formada, antes de comenzar la tierra. Antes de los abismos fui engendrada, antes de los manantiales de las aguas. Todavía no estaban aplomados los montes, antes de las montañas fui engendrada. No había hecho aún la tierra y la hierba, ni los primeros terrones del orbe. Cuando colocaba los cielos, allí estaba yo» (Prov. 8, 22-27)8. Es verdaderamente extraordinaria y omnipresente la figura de María, ya desde el Antiguo Testamento, como se desprende también de los textos de algunas antífonas de entrada del Común de Santa María Virgen (misas de la memoria de Santa María en el sábado y misas votivas de la Virgen). En Tiempo de Navidad, por ejemplo, las dos antífonas de entrada poseen un contenido asombroso: «Virgen Madre de Dios, el que no cabe en el universo, al hacerse hombre se encerró en tu seno», o bien: «La Madre de Dios engendró al Rey, que tiene nombre eterno; su gozo de madre se une al honor de Virgen. Nadie ha sido semejante a ella, ni antes ni después»9. Otra antífona de entrada, no menos espectacular en cuanto a contenido, proclama: «Salve, Madre santa, Virgen, Madre del Rey, que gobiernas cielo y tierra por los siglos de los siglos!»10. Todo son ejemplos claros del elevado culto recibido siempre por la Virgen María, a menudo, además, descrita en términos artísticos: «prendado está el rey de tu belleza [...]. Ya entra la princesa bellísima, vestida de perlas y brocado» (Sal. 44, 11 y 14). Por lo tanto, a pesar de los pocos datos iconográficos que aparecen consignados en la capitulación de 1472, podemos afirmar que el conjunto pictórico que contrataron Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio el 28 de julio de 1472 estaba destinado, como se ha dicho, a la exaltación de la Virgen María asunta al cielo y a la proclamación de su hijo Jesucristo como Majestad o Cristo Rey, (la Majestad Divina de Jesucristo, como bien expone Condorelli)11, quien aparecía sentado en la parte central de todo el con8

Se narra en la liturgia de la palabra de las misas comunes de Santa María Virgen. Véase Misal Romano Completo. Texto litúrgico oficial, preparado por A. Pardo, II, Barcelona 19815 (Biblioteca de Autores Cristianos), p. 1214. 9 Ibid., p. 1211. 10 Ibid., p. 1206. 11 A. Condorelli, El hallazgo de los frescos de Paolo de San Leocadio en la catedral de Valencia y algunas consideraciones acerca de Francesco Pagano, «Archivo Español de Arte», 310 (2005), pp. 175-201: 176.


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junto pictórico; en concreto en el eje del muro frontal, seguramente representado en una especie de mandorla, rodeado de ángeles. De hecho, así se deduce del fragmento del pie izquierdo de Jesucristo, con los estigmas de la crucifixión, que aún se conserva en el mencionado muro frontal, y del que también se conserva, junto a él, un fragmento del ala polícroma de un ángel. Y esto sí que son datos reales, fidedignos e irrebatibles. Es decir, durante el proceso de restauración de los ángeles (2004-2007) pudimos observar in situ los mencionados fragmentos cristológicos12. Parece, por tanto, que no hay ninguna duda de que la figura de Jesucristo aparecía en el centro del muro frontal del presbiterio de la catedral de Valencia; seguramente, como acabamos de comentar, entronizado y rodeado de ángeles. Recuérdese que, cuando Ezequías, rey de Judá, oró en el templo ante la persecución inminente de Senaquerib, rey de Asiria, dijo: «Señor Dios de Israel, sentado sobre querubines: Tú solo eres el Dios de todos los reinos del mundo» (2 Re 19, 15; lo que está en cursiva es nuestro). También en el mencionado muro central, y aún en las paredes laterales, debieron estar los apóstoles (según la citada fuente del siglo XVII), aunque de estos, desafortunadamente, nada se sabe en la actualidad13. No se conserva ningún testimonio visual de cómo pudieron haber sido dichas figuras14. Sin embargo, gracias a un valioso documento de 1518 en que el pintor autóctono Miquel Esteve contrata las pinturas de la Capilla de los Jurados de Valencia, sabemos que éste debía imitar el Cristo en Majestad («la Maiestat de nostre Senyor Déu Jesucrist») que Leocadio y Pagano habían realizado en la catedral y, además, los doce apóstoles, unos de pie, otros sentados («stant o seyts»), que también habían realizado Paolo da San Leocadio y Francesco Pagano en la catedral, es decir: «segons estan pintats los apòstols de la capella de la Seu de València»15. Pero sabemos, además, por el mencionado contrato de 1518, que los apóstoles de la catedral de Valencia tenían en las espaldas un dosel («ab doser a les spales»), y

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Company, Paolo da San Leocadio cit., pp. 213-214, figs. 205-206. En la restauración realizada entre junio de 2004 y enero de 2007 no ha aparecido el más minimo vestigio de los mencionados apóstoles. 14 Tal vez durante la restauració realizada entre 2004-2007 se hubiera podido acometer alguna cata en los muros para tratar de verificar la posible existencia de restos pictóricos de dichos apóstoles, pero eso nunca se hizo. Quien redacta este texto está convencido de que algún resto debe quedar y que su estudio, aunque sólo hubiera sido a un nivel parcial (a partir, como se ha dicho, de alguna cata en el muro central), hubiera podido ser muy oportuno y concluyente. 15 L.Tramoyeres Blasco, La capilla de los Jurados de Valencia, «Archivo de Arte Valenciano», 5 (1919), pp. 73-100: 94-96.


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que en una mano sostenían el atributo de su martirio y en la otra un libro («tenint en la una mà cascú les insígnies de son martiri [...], e en l’altra mà, hun llibre, «segons» – y repetimos de nuevo este dato fundamental – «estan pintats los apòstols de la capella de la Seu de València»)16. En la parte superior (en la bóveda gótica) estaban los doce extraordinarios serafines descubiertos en 2004, y circundando la clave central un anillo de impactantes querubines polícromos [Fig. 29]17. Finalmente, el contrato y la realidad de la obra pictórica conservada nos hablan de unas decoraciones áureas y vegetales (casi siempre circundando las ventanas góticas, en color y en grisalla): «fullatges ab fruyts d’or fi de ducat» o «una vite [vid] ab sos fullatges d’or fi e atzur e ses colors necessàries», como se cita en el documento; además de unos capiteles de orden fantástico flanqueando las referidas ventanas: «los capitells dels pilars», y de unos frisos corridos que recorren los flancos de los nervios de las plementerías de la bóveda, decorados a base de palmetas y mascarones en grisalla de origen clásico, con algunos toques dorados sobre un fondo alternativo de franjas pintadas de rojo y verde18.

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Ibid., p. 94. Aunque nos referiremos en breve (en texto y notas) al tema de las categorias angélicas, debemos advertir que desde un punto de vista exclusivamente artístico, plástico sobre todo, no existe una diferenciación rotundamente clara entre cuáles son las formas concretas de los serafines y cuáles las de los querubines. Hay confusiones. Procede señalar, sin embargo, que los serafines son los ángeles más bellos, los más hermosos, los que se encuentran en el más alto grado y plano celestial; los que están más cerca de Dios. En cambio los querubines, al menos a grandes rasgos, frecuentemente han pasado a ser representados como niños alados. De todos modos, si nos acogemos a lo que aparece en las capitulaciones del contrato de 1472, debemos aceptar y reconocer que de forma muy explícita se dice que los serafines de la catedral de Valencia son los que conforman el anillo central en torno a la clave. Se dice así en el primer punto del documento: «e entorn de aquella [la clave: «la clau de la dita capella»] pintaran un tron de seraphins ornat d’or fi molt bell». Pero también es cierto que donde en dicho contrato se habla de pilares hay columnas, que no se habla de estrellas y las hay, o que no se habla de las palmetas ni de mascarones y los hay. La cuestión sigue siendo un tanto confusa, aunque nada de todo ello modifica el extraordinario valor estético de las pinturas en su conjunto. A la postre, también podría admitirse con indudable lógica que el «tron de seraphins» de que habla el documento fuera en realidad el bellísimo conjunto de los doce ángeles que tocan instrumentos y cantan para la Virgen María asunta al ciclo. Cfr. C. Proverbio, La figura dell’angelo nella civiltà paleocristiana, Todi 2007. 18 Ilustraciones de todo lo referido pueden verse en Company, Paolo da San Leocadio cit., pp. 229-230 y 235.


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2. Alusiones angélicas Desde un punto de vista figurativo es sabido que los ángeles alados de la cultura cristiana deben su formas a las Nikés o Victorias griegas, del mismo modo que los angelitos se inspiran en las formas de los Eros niños o Cupidos paganos19. Nos encontraríamos, pues, una vez más, ante un proceso lógico de adopción de formas paganas con contenido cristiano. Panofsky ha hablado para ello, en acertados términos, de interpretatio christiana, aplicada de forma fértil a la totalidad de la plástica europea20. Otra advertencia básica que procede recordar en el presente trabajo es que el arte cristiano comenzó representando a los ángeles como jóvenes ápteros (es decir, carentes de alas, tal y como se observan, por ejemplo, en los mosaicos de Santa María la Mayor de Roma), pero en ciertos sarcófagos paleocristianos y en el mosaico del ábside de Santa Prudencia (Pudenciana, fines del siglo IV, Roma) ya vemos a los primeros ángeles alados de la iconografía cristiana. Y a partir de aquí es bien sabido que se impusieron irreversiblemente y por doquier los ángeles con alas inspirados en las victorias y los genios alados del arte grecorromano. Desde la Jerarquía Celeste establecida por el teólogo bizantino Pseudo Dionisio Areopagita (siglos V-VI d.C.) las cinco jerarquías angélicas establecidas por san Pablo pasaron a nueve, aceptada esta nueva ordenación por el papa san Gregorio el Magno y consagrada posteriormente por la autoridad teológica de santo Tomás de Aquino en el siglo XIII. Desde entonces teólogos y artistas han aceptado que los ángeles están divididos en nueve jerarquías, en cuyo primer orden y a la cabeza de éste están los Serafines. Y por supuesto, a la cabeza y presidiéndolos a todos está la Virgen María, reina de todas las categorías angélicas21.

19 Es bien sabido que los ángeles cristianos tienen también antecedentes en la cultura persa (recuérdese los Querubines – de kherubim – o toros alados de Nínive), pero su principal fundamento formal descansa en la cultura greco-romana, por ejemplo en el dios griego Hermes (el Mercurio de los romanos), quien, como los ángeles, es un mensajero alado de Dios (el dios Zeus griego o el dios Júpiter romano); de hecho Hermes es conocido como el mensajero y furriel de Zeus; cfr. L. Reau, Iconografía del arte cristiano. Iconografía de la Biblia. Antiguo Testamento, Barcelona 1996, p. 59. 20 E. Panofsky, Renacimiento y renacimientos en el arte occidental, Madrid 19813 (1a ed. 1960), p. 136. 21 Las nueve jerarquías están agrupadas en tres órdenes. El primer orden incluye a los Serafines (los más imporantes), Querubines y Tronos. En el segundo orden están las Dominaciones, Virtudes y Potestades. En el tercer orden los Principados, los Arcángeles y los Ángeles. Cfr. Pseudo Dionisio Aeropagita, Obras Completa. Los nombres de Dios. Jerarquía


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Ya en el nacimiento de Jesús en Belén los ángeles se posaron en el techo de paja de la cabaña para entonar el Gloria in Excelsis Deo (Lc 2, 14), siendo éste el primer concierto del cristianismo de voces e instrumentos en honor al Hijo de Dios recién nacido, concierto que se repite en la bóveda de la catedral de Valencia y en tantas otras representaciones angélicas de la Europa medieval y moderna. Aunque en puridad y en sus orígenes los serafines son hexápteros o con séis alas según la visión de Isaías (Is 6, 2)22, la tradición artística occidental ha simplificado el aparato volador y los ha representado casi siempre con dos únicas hermosas alas polícromas, a menudo decoradas o simplemente rematadas con fileteados y otras decoraciones áuricas. En el caso de la catedral de Valencia los ángeles llevan todos, además, unas voluminosas aureolas doradas, algunas con gruesas inscripciones en relieve.

celeste. Jerarquía eclesiástica. Teología mística. Cartas varias, cur. T.H. Martín, Madrid 2002. Véase también F. Eiximenis, Llibre dels àngels, ed. microforma 2004 de la Biblioteca de la Universitat de Girona, obtenida de la versión de la Biblioteca Municipal de Marseille, ms. 284; en versión castellana puede verse F. Eiximenis, Libro de los santos ángeles, Fadrique de Basilea, Burgos 1490. Desde un punto de vista exclusivamente formal quisiera advertir que el grabador suizo o germanico: Maestro E S, activo hacia 1450-1467, tiene un grabado con la Virgen con el Niño jugando, Santa Margarita y Santa Catalina, en cuyos extremos superiores aparecen dos ángeles musicos (uno con arpa, el otro con laúd) que en cierto modo podríarnos considerar antecedentes de los ángeles valencianos; el plumaje de las alas, por ejemplo, es similar. Ocurre algo parecido en un grabado del Maestro de la Pasión de Berlín, identificado por Geisberg (1974) con Israel van Meckenem, el padre, activo entre 1457 y 1466, donde se representa la Virgen y el Niño rodeados de ocho santas: los dos casos mencionados aparecen ilustrados en M. Hébert, Inventaire des gravures des Écoles du Nord, 14401550 (de la Biblioteca Nacional de París), I, París 1982, p. 43, n. 77 y p. 61, n. 155, respectivamente para los dos grabados mencionados. En cuanto a los coros angélicos pueden verse dos grabados de Lucas Cranach el Viejo (1472-1553): Muerte de la Virgen y Coronación de la Virgen, ilustrados también en Hébert, Inventaire des gravures cit., p. 188, n. 881 y p. 189, n. 882, respectivamente; aquí de nuevo comprobamos que los serafines, de cuerpo entero, ocupan el lugar o categoría más alta de todos los ángels representados. 22 «Había ante Él [el Señor, Dios] serafines, que cada uno tenía séis alas: con dos se cubrían el rostro y con dos se cubrían los piés, y con las otras dos volaban» (Is 6, 2-3); para todas las citas bíblicas de este trabajo se ha consultado la Sagrada Biblia, Madrid 1967 (Biblioteca de Autores Cristianos, 22), p. 894. Esta escena aparece representada en el abside central de la iglesia de Santa Maria d’Aneu (Lérida, España); se trata de una pintura románica de finales del siglo XI, que actualmente se conserva en el Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcelona. Los serafines son de cuerpo entero, excelsos, con cabeza, tronco y extremidades de proporciones humanas reales. Pueden verse también los «Angeli reggicandelabro in cartone e cartapesta policroma della metà del XV secolo» (Strinati) que, procedentes de la colección Wurts, se consevan en el Museo Nazionale di Palazzo Venezia, cfr. Gli angeli alla corte dei Medici. Fragili apparati scenici per le grandi feste popolari, cur. C. Strinati et alii, Roma 2007.


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Tanto los serafines como los querubines no ejercen de mensajeros, sino que, como sucede en el ejemplo de la catedral de Valencia, se mantienen exclusivamente, y siempre, circundando el trono de Dios, a quien veneran, cantan y adoran. Como nos cuenta Isaías, «había ante Él serafines [...] y los unos y los otros se gritaban y se respondían: ¡Santo, Santo, Santo Yavé de los ejércitos! Está la tierra llena de su gloria» (Is 6, 2-3). Los unos y los otros, especialmente los serafines, si se acepta que estos son los de categoría suprema dentro de la jerarquía angélica, suelen ser bellísimos, rubios (de cabellos dorados), e irradian por doquier luz divina y pureza inmaculada; aparecen vestidos con túnicas de colores o de blancura nívea ceñidas a la cintura por gruesos cordones, con diademas rematadas en cruz en las cabezas y con ricos broches de orfebrería para sujetar albas, capas y ricas dalmáticas. Así son a grandes rasgos, como veremos de inmediato [Figs. 34-35], y como a ellos ya se refirió también Adele Condorelli en su magnífica ponencia del 25 de enero de 2008, los hermosos ángeles de la catedral de Valencia y tantos otros coros angélicos del arte cristiano occidental. De acuerdo con la mencionada Condorelli23 resulta evidente que los ángeles de la catedral valentina exaltan a la Divinidad al modo con que aparece recogido en el salmo 150, el último del salterio, que es un himno a toda orquesta en el que diez veces resuena la aclamación alabad. Aunque es cierto que son muchos los salmos y las alusiones bíblicas dedicados a la exaltación y alabanza de la divinidad, muchas incluso también con un tono y contenido musical, coincidimos con Condorelli en que el salmo 150 es muy importante a la hora de explicar y comprender la temática angélica representada en la bóveda de la catedral de Valencia. Dice así el mencionado salmo: «1 ¡Aleluya! Alabad al Señor en su templo, alabadlo en su firmamento. 2 Alabadlo por sus obras magníficas, alabadlo por su inmensa grandeza. 3 Alabadlo tocando trompetas, alabadlo con cítaras, 4 alabadlo con tambores y danzas, alabadlo con trompas y flautas, 5 alabadlo con platillos sonoros

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Condorelli, El hallazgo de los frescos cit., p. 176.


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alabadlo con platillos vibrantes. Todo ser que alienta alabe al Señor. ¡Aleluya!»24.

De todos modos, y como ya se ha dicho, debemos advertir que hay otros salmos, fragmentos y pasajes de la liturgia cristiana que abundan igualmente en la exaltación divina a través de vítores y signos musicales, cual acontece en el programa iconográfico de los ángeles de la catedral de Valencia. Se trata de una temática frecuente tanto en el Antiguo como en el Nuevo Testamento. De hecho, tanto en el pueblo judío como en el cristiano se ha predicado siempre que alabar a Dios no sólo ha sido el primer mandamiento, sino un motivo de gozo y realización de los designios providentes en el conjunto y la individualidad de la historia de la salvación humana: «Dichoso el pueblo que sabe aclamarte: caminará ¡oh Señor!, a la luz de tu rostro. Porque el Señor es nuestro escudo, el Santo de Israel nuestro rey» (Sl 88, 1619). Por otro lado, en la antífona de entrada de la misa de los santos arcángeles Miguel, Gabriel y Rafael (29 de septiembre) se canta: «Bendecid al Señor, ángeles suyos, poderosos ejecutores de sus órdenes, prontos a la voz de su palabra» (Sl 102, 20). Y en la antífona del día de los Santos Ángeles Custodios (2 de octubre) se recita: «Ángeles del Señor, bendecid al Señor, ensalzadlo con himnos por los siglos» (Dan 3, 58). Pero también en la citada misa de los Santos Arcángeles se canta en el salmo responsorial algo básico para todo el pueblo cristiano, y que tan bien armoniza con el contenido angélico de nuestro trabajo: «Delante de los ángeles tañeré para ti» (Sl 137, 1). En efecto, delante de los ángeles y por los siglos de los siglos, artistas, pueblo llano y autoridades eclesiásticas han cantado siempre la grandeza del Señor y la grandeza a su vez de la doncella de Nazaret, la Virgen María, en quien el mismo Dios se encarnó. Así, por ejemplo, en el salmo responsorial del sábado de la primera semana de Adviento (Sl 146, 1 y 7) se recita: «1 ¡Aleluya. Alabad al Señor, que la música es buena; nuestro Dios merece una alabanza armoniosa». «7 Entonad la acción de gracias al Señor, tocad la cítara para nuestro Dios».

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Salmos. Texto oficial litúrgico (introducción y notas de L. Alonso Schökel, revisión de J. Ma. Valverde), Madrid 19723, salmo 150, p. 412. No aparece alusión alguna al órgano (en Valencia el ángel quinto toca un órgano portátil) porque este es un instrumento medieval, inventado con posterioridad a los orígenes de los salmos del Antiguo Testamento.


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El martes de la segunda semana de Adviento, en la misa de medianoche de Navidad, y en la de los días 29 y 31 de diciembre, la liturgia repite las dos primeras partes del salmo 95 (1 y 2), que de nuevo es un «himno al Señor Rey»25: «1 Cantad al Señor un cántico nuevo, cantad al Señor, toda la tierra; 2 Cantad al Señor, bendecid su nombre, proclamad día tras día su victoria».

En el salmo del tercer domingo de Adviento (ciclo B) se canta el Magníficat (Lc 1, 46-50) con fragmentos en boca de María que de nuevo presentan claras alusiones a la alabanza y grandeza de Dios: «46 Proclama mi alma la grandeza del Señor, 47 se alegra mi espíritu en Dios mi salvador; 48 porque ha mirado la humillación de su esclava. Desde ahora me felicitarán todas las generaciones. 49 Porque el Poderoso ha hecho obras grandes por mí: Su nombre es Santo 50 y su misericordia llega a sus fieles de generación en generación».

Ese mismo día (tercer domingo de Adviento), pero esta vez en el ciclo C, en el salmo, se recitan los siguientes pasajes del profeta Isaías (Is 12, 5-6): «6 Gritad jubilosos: ¡Qué grande es en medio de ti El santo de Israel. 5 Tañed para el Señor, que hizo proezas, anunciadlas a toda la tierra; 6 gritad jubilosos, habitantes de Sión».

En la misa del viernes de la tercera semana de Adviento, el cuarto versículo del salmo 66 (67) es igualmente jubiloso: «4 Oh Dios, que te alaben los pueblos, que todos los pueblos te alaben».

En el cuarto domingo de Adviento (ciclo C), el segundo versículo del salmo 88 (89) reza lo siguiente: «2 Cantaré eternamente las misericordias del Señor». 25

Ibid., Salmo 95 (96), p. 268.


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En el salmo de la misa del 21 de diciembre, dentro de la cuarta semana de Adviento, se recitan los versículos siguientes, enormemente musicales (Sl 32, 1-3): «1 Aclamad, justos, al Señor 2 dad gracias al Señor con la cítara, tocad en su honor el arpa de diez cuerdas; 3 cantadle un cántico nuevo, acompañando los vítores con bordones».

El día de Navidad, el 2, 3 y 4 de enero y el sexto domingo de Pascua (ciclo B) se canta el versículo I del salmo 97, casi idéntico al recitado en el mismo versículo del salmo 95. Pero aún son más musicales los versículos 4, 5 y 6. Aquí, de nuevo, estamos ante un «Himno al Señor rey». Dicen así: «1 Cantad al Señor un cántico nuevo, porque ha hecho maravillas. 4 Aclama al Señor, tierra entera, gritad, vitoread, tocad: 5 tañed la cítara para el Señor, suenen los instrumentos: 6 con clarines y al son de trompetas aclamad al Rey y Señor».

El jueves de la cuarta semana de Pascua se recitan los versículos 2 y 6 del salmo 88 que dicen así: «2 Cantaré eternamente las misericordias del Señor. 6 El cielo proclama tus maravillas, Señor, y tu fidelidad, en la asamblea de los ángeles».

Y así podríamos referirnos también, entre otros muchos ejemplos de la liturgia y las oraciones cristianas, a los versículos 1 y 2 del salmo 148 y a los versículos 1 y 3 del salmo 149, este último recitado en la sexta semana de Pascua: «1 ¡Aleluya! Alabad al Señor en el cielo, alabad al Señor en lo alto; 2 alabadlo todos sus ángeles». «1 ¡Aleluya! Cantad al Señor un cántico nuevo, resuene su labanza en la asamblea de los fieles. 3 Alabad su nombre con danzas, cantadle con tambores y cítaras».


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3. Cuestiones de índole atributiva Aunque con toda lógica y naturalidad debamos admitir que Francesco Pagano pudo intervenir en algunas partes más o menos destacadas del programa pictórico valenciano (sobre todo en las partes más decorativas como citan los documentos), hoy más que nunca debemos proclamar (como hiciera Condorelli en 2005) que recaen en los estilemas y usos pictóricos del joven Paolo da San Leocadio (Reggio Emilia 1447 - Valencia 1520) las intervenciones más audaces del mencionado programa. Todo ello se deduce con bastante claridad de un reflexivo cotejo analítico entre las formas y los estilemas reflejados en los ángeles de la catedral [Figs. 29, 34-37] y las formas y los estilemas que se exiben en numerosas tablas pictóricas que Paolo da San Leocadio realizó en el reino de Valencia, con posterioridad a los ángeles, a lo largo de sus más de cuarenta años de estancia y trabajo en suelo valenciano [Fig. 37]26. En lo relativo a Paolo da San Leocadio es evidente que estamos ante un pintor formado en el ambiente ferrarés de Cosmè Tura y Francesco del Cossa, aunque sin duda influenciado y seducido también por lo que Andrea Mantegna pintó algo más al norte de Ferrara, en el ambiente véneto de Padua entre 1450 y 1470. Creo fundamental, en este sentido, como se verá de inmediato, la consulta del los restos de pintura mural de la Capilla Ovetari de Padua, realizados en parte por Mantegna [Fig. 36], o bien la documentación fotográfica que se conserva de las mencionadas pinturas, realizada antes de su parcial – aunque muy considerable – destrucción en los bombardeos de la Segunda Guerra Mundial27. De todos modos, es bastante verosímil que Paolo da San Leocadio hubiera visitado Roma en el entorno de 1470, quizá, como expone Adele Condorelli, con motivo de la visita de Borso d’Este al papa Barbo, Paulo II, en 1471. Tal vez entonces, de la mano de Vannozza Catanei, de origen mantuano, o tal vez bresciano (lombardo, en cualquier caso, al menos a

26

Véase Company, Paolo da San Leocadio cit.; Company, Àngels borgians amb música i policromia de Déu, ponencia invitada en Els fills del senyor papa. Actes del II Simposi Internacional sobre els Borjas (València - Gandia, 21-23 novembre 2007), «Revista Borja», 2 (2008-2009), pp. 379-407 (www.elsborja.org/revista.php); Company, Paolo da San Leocadio y los ángeles de la catedral de Valencia, «Taccuini d’arte. Rivista di Arte del territorio di Modena e Reggio Emilia», 3 (2008), pp. 9-28; Company, Il Rinascimento di Paolo da San Leocadio, Palermo 2009. Cfr. F. Marías. Affreschi nella cattedrale di Valencia, «FMR», 22 (2007), pp. 49-72. 27 Andrea Mantegna e i maestri della cappella Ovetari. La ricomposizione virtuale e il restauro, cur. A. De Nicolò Salmazo - A.M. Spiazzi - D. Toniolo, Milano 2006.


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grandes rasgos como también fue considerado Leocadio en España), madre de algunos hijos de cardenal Rodrigo de Borja, y sobre todo hija de un pintor y conocida protectora del grupo de artistas lombardos que circulaba y trabajaba en la Roma de aquellos años, pudo conocer el ambiente borgiano con el que tanta fortuna y lazos profesionales desarrollaría muy poco después en España. Pudo entonces conocer también al que sería su socio Francesco Pagano (quizás trabajando en las desaparecidas pinturas murales del palacio Borja de la Cancelleria Vecchia)28, pero además pudo ver de cerca las influyentes y acreditadas pinturas de Antoniazzo Romano y otros pintores activos en Roma por aquellos años. De Antoniazzo son los frescos de la Capilla Bessarione en la Basilica dei Santi XII Apostoli, de Roma, realizados entre 1465 y 1468 [Figs. 3435]. Su bóveda también estaba pintada de azul con estrellas doradas, aunque con los años sufrió muchas mutilaciones (Rainaldi en el XVII, Fontana y Rusconi en el XVIII). Aunque no todo es de mano de Antoniazzo Romano, como bien señala la directora de la restauración de dichas pinturas, Angela Negro, éste sí pudo haber realizado (ideado cuando menos) la composición de todo el ciclo pictórico. Debo la advertencia de la posible relación de las pinturas romanas de Antoniazzo Romano con Paolo da San Leocadio a mi colega y amigo Fernando Marías, a quien agradezco sus comentarios al respecto en el encuentro internacional que sobre los ángeles tuvo lugar en Valencia en enero de 2007. Luego debo a Adele Condorelli un grupo de fotografías de las mencionadas pinturas obtenidas del Gabinetto fotografico de la Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico. Finalmente, en enero de 2008, pude estudiar in situ las mencionadas pinturas. Es evidente que Paolo y Pagano pudieron ver las mencionadas pinturas con ángeles alados, afines, cuando menos, a los desarrollados en la catedral de Valencia29 [Fig. 34]. Todo esto es muy cierto y puede y debe tenerse en cuenta, pero desde luego la distancia de calidad entre ambos conjuntos es muy notoria (ampliamente a favor de lo mucho más exquisitamente realizado por Paolo y

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Este palacio contenía la famosa “camera delle stelle” y otras dependencias muy suntuosas. Cfr. T. Magnuson, Studies in Roman Quattrocento Architecture, Stockholm 1958, p. 230. X. Company, Alexandre VI i Roma. Les empreses artístiques de Roderic de Boria a Itàlia, Valencia 2002, pp. 48-56. 29 Cfr. A. Negro - A.F. Caiola, Restauro della Cappella del Cardinale Bessarione, Chiesa dei Santi XII Apostoli, Roma, 8 novembre 2007, Ministero dell’Interno, Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, Roma 2007. Véase también V. Tiberia, Antoniazzo Romano per il Cardinale Bessarione a Roma, Perugia 1992.


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Pagano en Valencia), con lo que el programa formal y estilístico valenciano aún cobra más relevancia e interés. Recuérdese, además, que cronológicamente lo de Valencia también es anterior a los ángeles de Melozzo da Forlí que, procedentes de la misma Basílica de los Santos Apóstoles de Roma, se conservan en la Pinacoteca Vaticana (1480), o a los que el mismo pintor y Luca Signorelli realizaron en la Basílica de la Santa Casa de Loreto (ca. 1480). Es decir, tras todo lo dicho, la novedad de lo pintado en Valencia emerge, cobra valor y se afianza mucho más a partir de lo conocido hasta ahora en el ambiente pictórico italiano de los años sesenta y setenta del siglo XV. E incluso creo que se trata de una novedad bastante significativa a un nivel de pintura mural europea del siglo XV [Figs. 34-37]. Y desde luego es del ambiente ferrarés y paduano de donde más y mejor se nutren las categorías mentales de los autores de los ángeles de Valencia. Algo que refuerza de nuevo la preponderante autoría de Paolo en los ángeles, pues quizás sólo él, en calidad de reggiano (o al menos presumiblemente mucho más que el napolitano Pagano), pudo ver tan de cerca los programas pictóricos de la mencionada zona italiana. Porque, desde luego, el dinamismo figural que se observa en Valencia poco tiene que ver con el estatismo de los ángeles de Antoniazzo (y taller) realizados en la Capilla Bessarione de la Basilica dei Santi XII Apostoli de Roma. Algunas imágenes que en clave comparativa proyecté en la presentación de mi ponencia en Roma el 25 de enero de 2008 [Figs. 29, 34-37] nos permitieron descubrir y afianzarnos en la consideranción de la grandeza de los ángeles valencianos, en los incuestionables débitos formales e iconográficos que estos han contraído con todo lo realizado en el citado ambiente paduano-ferrarés y, de un modo muy especial, en la asombrosa personalidad de Paolo da San Leocadio, a quien, creo que con justa razón, los jurados de Castellón ya consideraron en 1490 como «lo pus [el más] solempne [solemne] pintor d’Espanya»30.

30 A. Sánchez Gozalbo, Iglesia de Santa María de Castellón. El Altar Mayor, «Boletín de la Sociedad Castellonense de Cultura», 4 (1977), p. 373, doc. XXIII. Tolosa - Company, Apéndice Documental cit., Apéndice II, p. 459, doc. 164.


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FERNANDO MARÍAS LOS ÁNGELES DE VALENCIA Y SU FORTUNA EN LA PINTURA Y LA HISTORIA: PROBLEMAS ABIERTOS

Nadie los había vuelto a ver desde 1682 cuando, a propuesta del arzobispo de Valencia Luis Alfonso de los Cameros, se iniciaron las obras de una nueva capilla mayor que ocultó, con su bóveda barroca de ladrillo y yeso, la antigua fábrica gótica de piedra de su catedral1. Comenzaron a poder vislumbrarse, a través de pequeños agujeros que horadaban la plementería seiscientista, durante el verano de 20042. Nos miraban desde la

1 Este ensayo parte de y amplia nuestro previo trabajo Iconographia. Angélico Borja (Frescos en la catedral de Valencia), «FMR», 22 (2007), pp. 49-72. No deja de ser sorprendente que G. Mayáns y Siscar (1699-1781), al referirse a la escuela valenciana de pintura en su texto de 1776-1781 del Arte de pintar (Valencia 1854 y 1991, citamos por G. Mayáns y Siscar, Arte de pintar, cur. A. León, Huelva-Madrid 1996, p. 150), solo citará las pinturas de la capilla mayor a través de la fuente documental del pago de 22 de marzo de 1481 a los dos italianos (Francisco Neapoli y Pablo de Aregio), por su trabajo de nueve años, señalando que de «sus asuntos no sé que haya memoria cierta, no habiéndose conservado dichas pinturas». Es posible que Mayáns hubiera podido consultar el manuscrito de 1767 de su amigo el dominico Fray Josef Teixidor y Trilles (1694-1775), Antigüedades de Valencia, solo publicado en Valencia en 1895 (ree. Valencia 2001), y quien a su vez citaba un manuscrito de Onofre Esquerdo (†1630), f. 114, y el Resumen historial de la fundación y antigüedad de la ciudad de Valencia, Valencia 1738 (reed. Valencia 1805 y 1979, p. 52, n. 15) de Pascual Esclapés de Guilló (†1755). Por su parte, Antonio Ponz (Viage de España [1789], 4 voll., Madrid 1988, I, p. 656), confunde los ahora documentados Pablo de Aregio y Francisco Neápoli con los autores de las puertas del altar mayor (Fernando Yáñez de la Almedina y Fernando de los Llanos). Nada dice Marcos Antonio de Orellana (1731-1813), Biografía pictórica valentina: o vida de los pintores, arquitectos, escultores y grabadores valencianos, ed. X. de Salas, Madrid 1930 [1936] y Valencia 1967. Solamente en 1919 L. Tramoyeres Blasco, La capilla de los jurados de Valencia, «Archivo de Arte Valenciano», 1919, pp. 73-100: 92, n. 3, señaló de pasada que «la bóveda falsa cubre la antigua, en la cual aún se conservan restos de la pintura de Pagano y San Leocadio». 2 Los frescos fueron descubiertos, pues existían vagas noticias de la conservación de algunos de sus restos desde 1919, con motivo de los trabajos de restauración de la bóveda del siglo XVII, por el equipo dirigido por la Doctora Carmen Pérez García; véanse algunos


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oscuridad, con sus enormes ojos castaños de larguísimas pestañas, contra un cielo de lapislázuli tachonado de estrellas de oro. Sus rostros juveniles, unos serenos y otros llenos de ansiedad, estaban enmarcados por ondulados o encrespados rizos, que caían como bucles por encima de sus temporales o se proyectaban hacia arriba, como si fueran coquetas Gorgonas desmelenadas. Los perfiles de sus cabezas se recortaban en los nimbos de oro, con sus anillos de letras hebraicas y ornamentos antiguos, y sus pares de alas multicolores de plumas rojas, verdes y moradas, perfectamente delimitadas por trazos de oro, los identificaban como ángeles. Algunas de estas figuras estaban sorprendentemente limpias, otras heridas por las manchas blancas de las eflorescencias salinas de la bóveda sobre la que estaban pintados. Después se vieron en su totalidad, de los pies apoyados sobre nubecillas rosadas a la cabeza; más tarde apareció – circundando la clave principal – una gloria circular de serafines rojos y querubines azul verdoso, con sus tres pares de alas entrecruzándose con sus brazos de forma rebuscada, en actitudes variadas de adoración y reverencia; todavía durante 2006 se han recuperado las zonas más bajas del conjunto, con grandes candelabros a la antigua, rodeados de guirnaldas sostenidas por putti, que contribuirían con sus llamas de ficción a iluminar la capilla mayor catedralicia, radiante de luz filtrada y coloreada a través de sus cinco ventanas vidriadas [Figs. 38-39]. Los visitantes comenzaron a experimentar admiración por la elegancia de las figuras, de complicados y coloristas vestidos y de complejos plegados, y por la grandiosidad de sus rasgos; por el dinamismo de sus movimientos, saltando para apoyar una rodilla o uno de sus pies sobre los nervios de la bóveda y sostener los instrumentos musicales de rara y antigua belleza; por la capacidad de sus autores de manejar los escorzos y reconducir nuestra mirada hacia la distancia, como si en lugar de encontrarnos a pocos centímetros nos halláramos sobre el pavimento de la capilla y contempláramos desde abajo unos ángeles volantes, cantando y tañendo entre las nervaduras de la bóveda gótica de la catedral, pero de las que se ayudaban para equilibrar entre sus manos un órgano portátil, una cítara, un laúd, un salterio. Sintieron asimismo estupor por la dimensión de unos ángeles enormes vistos desde una distancia, la de los andamios, a la que solo habrían tenido acceso sus propios autores y sus ayudantes, y por el precioso y cuidado detallismo en la representación de tantos objetos y ornamentos a la antigua – mascarones, palmetas, guirnaldas, acantos – que habrían dejado de ser verdaderamente perceptibles al desmontarse el andamiaje que habían utilizado en el Quattrocento. También experimentaron la satisfacción por haber recuperado lo que se sabía que había existido y se intuía que quizá podría existir todavía,


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desde el momento en que los frescos de la capilla mayor de la catedral valenciana dejaron de verse y se convirtieron, menos de cien años después de su eclipse seiscientista, en objetos arqueológicos, solo recuperables a través de los documentos históricos de los archivos. De hecho, desde el siglo XVIII se sabía que dos pintores italianos – Francisco Neapoli y Pablo de Aregio – se habían ocupado de decorar con su arte la capilla catedralicia; pero su huella había desaparecido y, a pesar de que en la Valencia de 1472, 1483, 1491, 1518 y 1525, se hubiera querido imitarlos, no había quedado ninguna descripción literaria del conjunto. Revisados los textos de los principales viajeros, llama la atención la falta de su mención en relaciones como las del doctor de Nürnberg Hieronymus Münzer (1494), siempre atento a las novedades, y el noble flamenco Antoine de Lalaing (1501)3, o en las del humanista Alonso de Proaza4, el archero y corógrafo de Felipe II Hendrik/Enrique Cock (1586)5, o Cassiano Dal Pozzo en 16266. El eco renacentista de los ángeles Nuestros ángeles habían dejado su huella inmediata en la ciudad de Valencia. Aparecieron ángeles ya en 15 de noviembre de 1472, indicándose el modelo catedralicio – que todavía estaba por iniciarse – para decorar el presbiterio de la iglesia parroquial de Santa Catalina7; reaparecieron diez

de sus trabajos preliminares en Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, cur. M.C. Pérez García, Valencia 2006, donde se pone al día la documentación sobre los frescos; también A. Condorelli, El hallazgo de los frescos de Paolo de San Leocadio en la catedral de Valencia y algunas consideraciones acerca de Francesco Pagano, «Archivo Español de Arte», 310 (2005), pp. 175-179. 3 Quien no olvidó citar la catedral y su retablo de plata; véase J. García Mercadal, Viajes de extranjeros por España y Portugal desde los tiempos más remotos hasta fines del siglo XVI, I, Madrid 1952, pp. 338-344 (para Münzer) y pp. 477-479 (para Lalaing). 4 Alonso de Proaza, Oratio luculenta de laudibus Valentie, Valencia 1505; cfr. F. Marías, La ciudad de Valencia en la encrucijada arquitectónica del siglo XV: lo moderno, lo antiguo y lo romano, «Anuario del Departamento de Historia y Teoría del Arte», 12 (2000), pp. 25-38. 5 García Mercadal, Viajes de extranjeros cit., pp. 1390-1412. 6 Pasó sin describir prácticamente la catedral Cassiano Dal Pozzo en 1626; véase Il diario del viaggio in Spagna del Cardinale Francesco Barberini scritto da Cassiano dal Pozzo, ed. A. Anselmi, Madrid 2004, pp. 287-289. 7 Valencia, Archivo del real Colegio del Patriarca de Valencia (en lo sucesivo APPV), Protocolos, escrivano publico Jordi del Royo, Leg. 26.279. Se proponía por parte de los parroquianos «fer pintar la dita capella [mayor] o volta de aquella axí como la capella del cap de la Seu» y que en ella se pudiera enterrar el ciudadano Luis Bou.


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años después, cuando en 1483, se estableció en el contrato de Pere Cabanes para el retablo de Santa Catalina del monasterio de Sant Agustín, que se usara no solo como modelo de la Virgen la del retablo mayor de la Seo, sino que se pintaran nueve ángeles, ocho que «sonen diversos instruments e lo angel nove que sera en mig tinga un titol en la ma en un vers escrit [...]»8; y regresaron veinte años más tarde, en 1491, ya finalizada la pintura de la catedral, contratados con el pintor Francisco Cardona para la capilla de Luis de Santángel en el monasterio de la Trinidad de Valencia, aunque no pueda confirmarse como referencia directa, al mencionarse solamente cuatro ángeles9. Todavía en 1525 se contrató, con el pintor Jordi Oliver, la pintura de las paredes y bóveda con serafines y ángeles con instrumentos sobre fondo azul de la capilla de la Virgen de la Paz, en la parroquia de Santa Catalina10. En 1518 se dieron referencias evidentes, aunque aparentemente fueran a ser las últimas, en las capitulaciones de las pinturas (1518-1520) de la Capilla – construida en 1517 y desaparecida en 1860 – de la Casa de la Ciutat, donde por tres veces se hizo mención al presbiterio de la catedral como modelo11. Esta decoración se concertó el 18 y 20 de septiembre de 1518 entre los jurados de la ciudad y los pintores Miguel Esteve12 y Joan Martí, comprometiéndose el primero a pintar una serie de ángeles de alas doradas y policromadas – «segons stán los ángels dela capella de la seu» – con diferentes intrumentos músicos, ángeles menores con filacterias con los improperios de la Pasión, y en los medios puntos de sus paredes, un

8

J. Sanchis Sivera, Pintores medievales en Valencia, «Estudis universitaris catalans», 67 (1912), pp. 444-471 y «Archivo de Arte Valenciano», 15/1 (1928), pp. 3-36; ibid., 15/2 (1929), pp. 3-64 y ibid., 16-17 (1930-1931), pp. 3-116: 70-71 y como Pintores medievales en Valencia, Valencia 1930 (reed. Valencia 1996). Menor importancia tiene la referencia para la factura de otro retablo, para la iglesia de Nuestra Señora de Jesús, de 1506, donde se indicaba precisamente que «lo camper sia atzur e les steles relevades». 9 «[...] teneamini depingere quatuor angelos qui deorsum in quadris tecti dicte capelle positi sunt et etiam signa dicti principalis mei sita et posita in parietibus dicte capelle coloris videlicet de brocat vert», en Valencia, Archivo del Reino, notario Luis Spinal, Leg. 3.096, 27 de enero de 1491, referencia que he de agradecer a Mercedes Gómez-Ferrer Lozano. 10 M. Gómez-Ferrer Lozano, Arquitectura en la Valencia del siglo XVI. El Hospital General y sus artífices, Valencia 1998, pp. 443-444 (documento del 12 agosto de 1525). 11 Tramoyeres Blasco, La capilla de los jurados cit., pp. 73-100; y ahora X. Company, Ángeles de azul y oro en la catedral de Valencia. Estudio histórico y estilístico, in Los ángeles músicos cit., pp. 43-94: 59-60, y X. Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura del Renaixement a Espanya, Gandía 2006, Apèndix documental. 12 Con la colaboración, desde el 9 de abril de 1519, de Miguel de Prado.


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Cristo en majestad rodeado de un coro de querubines – «segons está en la magestat de la capella de la seu de Valencia» – y, por último, los doce apóstoles, sentados, con los símbolos de su martirio y un libro – «segons están pintats los apostols de la capella de la seu de Valencia»13 – [Figs. 40-41]. Aunque esta huella pueda reportarnos alguna información sobre la obra de 1472-1482, no es totalmente seguro, como veremos, que los apóstoles catedralicios se agruparan sentados en torno a la majestad de Cristo o solamente les prestaran sus libros a los apóstoles de 1518. La pérdida de toda la sección inferior de la capilla mayor catedralicia conlleva que algunos de los problemas que analicemos queden todavía abiertos, y a pesar de la documentación, nuestro saber lleno de lagunas difícilmente colmables.

13 «[...]entre los cruers de la dita capella en lo pla, ángels que han de esser a[m]b tota perfecciò acabats e tenint cascù de aquells en les mans, sos struments de música e que les ales de aquells sien daurades e matizades de colors, segons stan los angels de la capella de la seu, pintats e que lo instrument de cascù sia diferenciat de altre, de modo que en tota la capella no y haua dos instruments de una mateixa manera. Item que en lo pla dels cruers dels racons ha de pintar ángels de chiqua forma, tenint en les mans scrits, e en los scrits, pintats tots los improperis de la pasio de nostre senyor Jesucrist. Item que en lo entorn de la dita capella, que y ha certs migs redons los quals son finicions de les voltes de la dita capella ha de pintar primerament en lo mig redon principal que ve damunt lo altar la maiestat de nostre señor Jesucrist e en lo entorn de aquella hun arch de cherubins, molt ben acabats, segons esta en la magestat de la capella de la seu de Valencia, e en los altres mig redons ha de pintar los dotze apostols, molt ben acabats, estan seyts en hun banch ab doser a les spales tenint en la una ma cascu les insignies de son martiri, segons se acostumen de pintar apostols, e en laltra ma, hun libre segons estan pintats los apostols de la capella de la seu de Valencia [...]». Dado que ésta es la referencia más directa a la capilla de la Seo, podría indicarnos que la escena principal de la catedral no era una Asunción de la Virgen (como alguna vez se ha apuntado, por ejemplo, por Sanchis Sivera, Pintores medievales cit., pp. 151-152 nota 2, citando un manuscrito del siglo XVII que se refería a una Última Cena) sino una majestad de Cristo, y tal vez que los apóstoles se presentaban sentados en un banco con dosel, con un libro en la mano y tal vez con los instrumentos del martirio. Algunas de estas pinturas de los seis/doce medios puntos se conservan todavía, aunque en pésimo estado, en el Museu de la Ciutat; otras se reprodujeron en el artículo de Tramoyeres. El número depende de la lectura de las capitulaciones y la reconstrucción de la capilla; si esta hubiera sido octogonal – como hoy parece a partir de J. Bérchez, Arquitectura renacentista valenciana (1500-1570), Valencia 1994 – podrían haber sido solo siete medios puntos u ocho plementos de la bóveda, incluyéndose en ellos tanto parejas de apóstoles (San Bartolomé y San Mateo) como santos individuales, como tal vez san Pedro, san Pablo y san Juan Evangelista.


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De los documentos visuales a los documentos de archivo Como tantas veces ocurre, si hasta 2004 faltaba la obra, por contra se conocían prácticamente todos los detalles de su encargo y su realización. Desde 1891 había visto la luz el contrato de 1472 de esta obra al fresco, y hoy podemos decir que lo sabemos casi todo de las circunstancias y los pormenores más menudos de su ejecución, pues se han conservado además las facturas y recibos, documentos de los pleitos y litigios entre los dos pintores italianos, incluso los testamentos de ambos, de 1476 y 1478 respectivamente14. Incluso conocemos la prehistoria de esta obra, que comenzaba

14 La sucesión de documentos relativos a las pinturas fueron publicados por R. Chabás, Las pinturas del Altar Mayor de la catedral de Valencia, «El Archivo», 5 (1891), pp. 376-402 y Chabás, Adiciones y correcciones, in Teixidor, Antigüedades de Valencia cit., I, pp. 240-260: 232-239, quien había sostenido que Pablo de Aregio o Saulo de Santa Leucalia era un famoso pintor borgoñón, autor con Francisco Neapoli de los frescos y también del retablo del altar mayor, citando para aquéllos el Dietari del capellán de Alfonso el Magnánimo. También Barón de Alcahalí, Diccionario de artistas valencianos, Valencia 1897; J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia. Guía histórica y artística, Valencia 1909 (reed. Valencia 1990); Sanchis Sivera, Pintores medievales en Valencia cit.; Libre de Antiquitats, ed. J. Sanchis Sivera, Valencia 1926; Dietari del Capellà d’Anfós el Magnànim, ed. J. Sanchis Sivera, Valencia 1932: «En lany MCCCLXXI [sic] feren venir dos maestres Pintors Florentins molt sobtils e aptes en lart de la Pintura per pintar lo cap de la Seu dels Angels e de les altres coses de pintura al fresch». L. Cerveró Gomis, Pintores valentinos. Su cronología y documentación, «Archivo de Arte Valenciano», 27(1956), pp. 95-123; ibid., 31 (1960), pp. 226-257 y ibid., 43 (1972), pp. 44-57. Las referencias quedan ahora sustituídas por la nueva e íntegra transcripción de L. Tolosa Robledo - X. Company Climent, Pinturas murales e la catedral de Valencia. Apéndice documental, in Los ángeles músicos cit., pp. 369-399. Otros documentos menores – que ha recuperado la Prof. Mercedes Gómez-Ferrer, a quien agradezco vivamente su gentileza – se conservan en Valencia, Archivo de la Catedral (el lo sucesivo ACV), Protocolo de Joan Esteve, Leg. 3.682, que pueden completar nuestra información: 1) 30 de abril de 1475, en el Inventario del armario de la Seo, aparecen «Item hun banch encaxat del en Luch ara lo tenen los pintos a casa sua» y «Item tres banquetes per a les portes, les dos tenen los pintors»; 2) 1 de julio de 1475, se le pagan a Anthonius Mico pictor 47 sueldos de complemento de 7 libras, por «carriculas sive corrioles ferri cum poliges de coure ad opus capelle maioris dicte sedis»; 3)1 de febrero de 1477, se le pagan 100 sueldos a «Arnaldus del Morer magister finestrarum vitrearum faciet illa duo panys vitreae assumpcionis Virginis Marie in finestra capellae eiusdem hiis condicionibus quam (sic) los dits dos panys faciet ex vitreis eiusdem ut consimilis conloris quemadmodum sunt reliqua vitra antiqua et, si non fuerint talia que reficere ille teneat, dum dicti domini canonici sint contenti»; 4) 31 de julio de 1477, en el Inventario de lo que constaba en la llamada «domo dicte fabrice», aparecen «La meytat del cel que estava cuberta la capella» y «Dos teles del dit cel e les altres tenen los pintors», aparentemente telas – más que cartones rigidos – usadas como materiales preparatorios para las pinturas. Sobre tales elementos preparatorios, v. C.C. Bambach, Drawing and Painting in the Italian Renaissance Workshop: Theory and Practice, 1300-1600, Cambridge 1999; 5) 13 de febrero de 1478, «Domini de capitulo ecclesie Valentine in domo capitulorum eiusdem ca-


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cuarenta años antes, en 1432, cuando un equipo de pintores locales, dirigidos por Gonçal Peris Sarriá, pintó un coro de ángeles con los instrumentos de la Pasión, en torno a la clave de bóveda que, diseñada por maestre Martí, había sido tallada por el escultor Joan Sanou, y un conjunto de apóstoles, probablemente sentados a la mesa de la Última Cena; no se puede olvidar que desde 1432 se encontraba en Valencia, y desde 1437 en su catedral al ser donado por Alfonso V el Magnánimo, un cáliz de orfebrería islámica – con caracteres cúficos – y antigua taza de irisada cornerina oriental que se identificaba como el Santo Cáliz y se ha venerado desde entonces como su más preciada reliquia. Esta pintura, sin embargo, quedó absolutamente dañada en el incendio de la capilla mayor que tuvo lugar en 1469; para repintarla fue llamado a Castilla el florentino Niccolò Delli, quien contrató una obra en calidad de prueba en 1469 pero murió al año siguiente, tras sufrir enfermedades y un accidente, y poner de los nervios a los encargados de la pintura de la catedral, quienes llegaron a comentar en el libro de cuentas «Deus queus guart de pintors» (Dios nos guarde pintores). Las cosas no mejoraron con el contrato del pintor local Pere Rexach y del presbítero mossén Antonio Canyçar en 1471; iniciaron la obra pero fueron despedidos a causa de sus carencias al año siguiente, tras un año de pleito. La historia se inicia, en consecuencia, en el momento en que el capítulo debió de apelar, para encontrar un nuevo pintor italiano al fresco, a la ayuda del obispo de Valencia Rodrigo Borja (ca. 1431-1503)15, nacido en la valenciana Játiva y a la sazón vicecanciller de la Curia pontificia, obispo de Albano y cardenal de San Nicola in Carcere, dado que además estaba preparando su legación a los reinos de Castilla y Aragón desde comienzos de 1472.

pituli congregati, in quo fuerunt presentes domini Jacobus Exarch, vicarius generalis, Ioannis Pelegri, Gondizalvus de la Caballería, Johannes Marromà, Iacobus Martí Cervelló, Franciscus Martini, Berengarius Clavell, Bernardus Esplugues, Bartholomeus Vallescar, Janfridius Serra, Michael Gomis, omnes canonici prebendati dicte ecclesie unanimes et concordes comiserunt dictis honorabilibus viris dominis Janfridio Serra et Michaeli Gomis quatenus deinde videant tam super picturam capellae maioris Virginis Marie quam super so[lucionem (sic)] dicte picture quam convenit et concordarunt cum pictoribus dicte capelle ita quod predictis et cetero non habeant agere amplius cum dominis de capitulo nec referre eisdem aliquid»; 6) 15 de abril de 1478, pagos a «Honoratus de Carpentras illuminator finestrarum ex vitro» y, entre otras ventanas, se mencionan «Quinque finestre que sunt in capella maiori Virginis Marie». 15 Los titulares de la sede valenciana no fueron arzobispos hasta 1492.


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Tres pintores en Valencia Llegó el futuro papa Alejandro VI a Valencia el 18 de junio y entró en la ciudad el 21; con él vinieron tres pintores. El primero era el napolitano Francesco Pagano (act. 1471-1489/1492) o Francesco de Neapoli, instalado en Roma, del que ahora ni conocemos obras anteriores16, ni posteriores a su estancia española, que concluyó en 1482, y que le habían sido atribuídas en Nápoles17; hoy disponemos de un nuevo documento, que nos lo

16 La hipótesis (A. Condorelli, Alcuni aspetti del mecenatismo di Alessandro VI e il Giubileo del 1500, in Los Borgia y su tiempo, Roma 1998 y recogida con entusiasmo por X. Company, Alexandre VI i Roma: Les empreses artístiques de Roderic de Borja a Itàlia, Valencia 2002, pp. 54-55 y ahora también en A. Condorelli, Problemi di pittura valenzana. Il maestro Riquart e Francesco Pagano, in Antonello e la pittura del Quattrocento nell’Europa mediterranea. Atti del Seminario Palermo 2003, cur. M.A. Malleo, Palermo 2006, pp. 67-89) de una intervención pictórica de Francesco Pagano en la decoración estrellada y zodiacal de la desaparecida Camera delle Stelle del palacio romano de Rodrigo Borja, en la antigua via di Montserrato, hoy Palazzo Sforza Cesarini (ca. 1458-1492) – frente a la que la atribuía al Pier Matteo d’Amelia de la Cappella Sistina vaticana – no tiene todavía apoyatura ninguna. Su descripción (tomada de L. von Pastor, Historia de los Papas, VI, Barcelona 1911, p. 508) parte de la que recogiera en 1462 Pio II en sus Commentari: «aedes [...] altissimas et amplissimas usque ad caelum sublime erexit, in quo multa et varia suspendit mirabilia», comparando la casa con la Domus Aurea neroniana («fulgens auro domus sicut Neronis»), pero no fue citada por el propio cardenal Ascanio Sforza en su descripción de 1484, dirigida a su hermano el duque de Milán Ludovico el Moro, de cuatro salas con tapices historiados y capocieli de raso carmesí y terciopelo (en E. Müntz, Les arts à la cour des papes Innocent VIII, Alexandre VI, Pie III (1484-1503), Paris 1898, p. 23 nota 3). Tal vez una fecha anterior a 1462 fuera por una parte demasiado temprana para un Francesco Pagano en Roma, pero no puede tampoco excluirse que interviniera más tarde en otras obras de pintura, incluso en las decoraciones murales a graffitto – de ovas y palmetas y piña – del patio. Véase ahora Ch. L. Frommel, Il Palazzo Sforza Cesarini nel Rinascimento, in Palazzo Sforza Cesarini, Roma 2008, pp. 23-44. También se ha atribuído a Pagano (A. Condorelli, Riflessi di Antoniazzo Romano in Castiglia, in Per la storia dell’arte in Italia e in Europa. Studi in onore di Luisa Mortari, cur. M. Pasculi Ferrara, Roma 2004, pp. 261-268) el fresco de la vajilla (Piattaia) del Palazzo Altémps de Roma, construído entre 1471 y 1481 por el nipote Girolamo Riario, que habría pintado a su regreso de Valencia en 1482. Además, A. Condorelli (Una nuova attribuzione a Fernando de Llanos e un ‘ritrovato’ Cristo portacroce di Paolo da San Leocadio, in Scritti in onore di Alessandro Marabottini, cur. G. Barbera - T. Pugliatti - C. Zabbia, Roma 1997, pp. 103-110 y Condorelli, Alcuni aspetti del mecenatismo cit.) ha señalado la posibilidad de que Paolo entrara en contacto con la amante del cardenal, Vannozza Catanei, a través del supuesto tio de esta (hija de un pintor de nombre Jacopo), activo en el Palazzo Venezia, el escultor Antonio da Brescia. 17 Su último documento valenciano está fehado el 8 de enero de 1482. A este último periodo le habrían correspondido las obras que se le habían atribuido, como San Sebastián y Santa Catalina para las puertas del órgano de la iglesia de Sant’Efremo Vecchio de Nápoles (Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini), pues otras atribuciones – como el retablo de San Michele de la iglesia napolitana de San Michele e Sant’Omobono – no han recibido un


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sitúa en Nápoles ya en 145718. Sería en esta fecha un pintor activo en la Nápoles del entorno del rey Alfonso el Magnánimo (1416-1458), y constituía una compañía de pintores en 1457 con el catalán Rafael Tomàs de Barcelona (quien ya había trabajado con Joan Figuera de Cervera en 14551456 en el retablo de San Bernardino del convento de San Francesco di Stampace en Cagliari, en la isla de Cerdeña, hoy en la Pinacoteca Nazionale di Cagliari), y los pintores napolitanos Jacobo Barreta y Paolo Burriello. Hemos de suponer que Pagano podría haber nacido hacia 1428 o incluso antes, que contara con más de cuarenta años llegar a Valencia y fuera veinte años mayor que Paolo; es posible, además, que a la muerte del Magnánimo se hubiera trasladado a Roma. A pesar de ello, la obra de Pagano vuelve a ser absolutamente desconocida al margen de su actuación en Valencia, con su Natividad y sus Ángeles músicos en colaboración, incluso tras su supuesto regreso a Nápoles19.

acuerdo unánime. Véase F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura, Napoli 1977, pp. 183-201; F. Navarro, La pittura a Napoli e nel Meridione nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, II, Milano 19872, pp. 446-477, en part. 460-464 y 722-723. También Quattrocento Aragonese. La pittura di Alfonso e Ferrante d’Aragona, Napoli 1997. No obstante, la atribución fundacional de Bologna del lienzo de Nápoles se ha venido abajo y parece que debería de atribuirse, por contra, a Riccardo Quartararo; T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale 1484-1557, Napoli 1998, pp. 21-47: 27-28, parece haber desmontado la atribución al conectar convincentemente el lienzo con el políptico de La Virgen con el Niño, San Antonio Abad y Santa Ágata (1489) de Castelbuono de Palermo. Sin pruebas se mantiene a veces la atribución de Ferdinando Bologna (Napoli e le rotte mediterranee cit., pp. 183-201) de la vista de la ciudad de Nápoles que conocemos como la Tavola Strozzi (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte), a pesar de las nuevas hipótesis de G. Donatone, Il lettuccio donato da Filippo Strozzi a Ferrante d’Aragona: la Tavola Strozzi, in Napoli e l’Europa. Ricerche di storia dell’arte in onore di Ferdinando Bologna, cur. F. Abbate - F. Sricchia Santoro, Napoli 1995, pp. 107-111 y de F. Sricchia Santoro, Tra Napoli e Firenze: Diomede Carafa, gli Strozzi e un celebre ‘lettuccio’, «Prospettiva», 100 (2000), pp. 41-54. 18 Véase M. Carbonell i Buades, Sagreriana Parva, «Locus Amoenus», 9 (2007-2008), pp. 7-18, 22-23, a quien agradezco la consulta de su texto en prensa. Sobre su compañero Tomàs, que reaparece en 1463 en Perpignan (M. Durliat, Arts anciens du Roussillon, Perpiñán 1954), véase C. Aru, Raffaele Thomas e Giovanni Figuera, pittori catalani, «L’Arte», 23 (1920), pp. 136150; G. Goddard King, Pittura sarda del Quattro-Cinquecento, cur. R. Coroneo, Nuoro 2000, pp. 10-11 y 77-80; F. Melis, I pittori catalani in Sardegna, en VIII Convegno internazionale dell’Aisc, Napoli 13-15 ottobre 2005 (http://aisc.cat/Assets/pdf/Napoli2005/Melis.pdf). 19 A. Condorelli, El cardenal Rodrigo de Borja mecenas de Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, in Els fills del senyor papa. Actes del II Simposi internacional sobre els Borja (València - Gandia, 21-23 de novembre 2007), «Revista Borja», 2 (2008-2009), pp. 359-378 (www.elsborja.org/revista.php), ha desmontado la tradición que identificaba con Pagano a un pintor Francesco de Napoli, activo en 1489 como retratista de la corte real partenopea (documento citado por N. Barone, Le cedole di Tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli dall’anno 1460 al 1504, «Archivio storico per le Province Napoletane», 10 (1885), pp. 5-47:


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En segundo lugar, el “lombardo”20 Paolo da Reggio (nell’Emilia) (14471520), Paolo da Milano21, Paolo di Pietro Lazzari da Sancto Locadio o Paolo da San[to] Leocadio22, o quizá incluso Paolo da Santo Luca da Reggio o Paolo di Leucadio23, bautizado en la basílica de San Prospero della via Galgana de Reggio el 10 de septiembre de 1447 como «Paulus filius Petri Lazzari de Sancto [E]Lochadio»24; quizá por ello debiéramos denominarlo Paolo di Sant’Eleucadio da Reggio en lugar de la forma en la que se le conoce actualmente, Paolo da San Leocadio. Quizá procediera de la propia Roma25, aunque tras un aprendizaje en el valle del Po, pues se sostiene que se 7, e identificación de W. Rolfs, Geschicte der Malerei Neapels, Leipzig 1910, pp. 117 nota 1 y 154 nota 1), aunque en realidad se trataría de una imagen de un ex voto del duque de Calabria Alfonso de Aragón destinada a la tumba del beato Jacopo della Marca en Santa Maria la Nova de Nápoles, realizada por un Francesco cartaro (naipero) activo ya en 1482. Rolfs (ibid.) identificó a Francesco Napolitano con Pagano y con un Francesco Pappalettera autor de un cuadro leonardesco de la Raccolta [Bonomi] Cereda de Milán. 20 Tendría sentido este adjetivo toponímico si consideramos que la ciudad de Reggio nell’Emilia, en la via Emilia, se denominó antiguamente como Reggio di Lombardia. 21 Véase el documento de 3 de marzo de 1475 en Tolosa Rebledo - Company Climent, Pinturas murales cit., p. 382, doc. 19. 22 La primera vez que aparece documentado, tras el acta bautismal, con este nombre es en 1478. Se ha identificado este apellido como toponímico (A. Venturi, Storia dell’arte italiana: la pittura del Quattrocento, VII/3, Milano 1914, p. 1102) con el actual pueblo de San Valentino di Castellarano, del que era señor el condottiero ferrarés Giacomo Sacrati (†1506); no obstante, este pueblo debería de haberse denominado de Sant’Eleucadio, tomando su nombre del santo arzobispo de Ravenna (†112), cuya iglesia se conservó hasta el siglo XII en el Puerto (Classe) de Ravenna. 23 Aparece así en ya en ápocas de 1476 y en la visura de 1478 respectivamente. 24 Reggio Emilia, Archivio della Curia Vescovile, Registro primo (1430-1449), citado por P. Carri, Brevi studi sul Quattrocento emiliano, Reggio 1922, p. 10, y por X. Company, La Adoración de los Reyes de Pablo de San Leocadio, conservada en Gandía y nueva aportación documental sobre el nacimiento del pintor, «Archivo Español de Arte», 249 (1990), pp. 8491: 91. Véase también B. Morini - D. Morini - G.P. Palazzi, Paolo da San Locadio o Pablo de Aregio: un pittore reggiano in Spagna nelle terre dei Borgia, «Strenna del Pio Istituto degli Artigianelli», 12/2 (2003), pp. 65-73; estos autores han precisado la ascendencia de Paolo da Sant’Elecuadio o da San Locadio en una familia reggiana de notarios (padre Pietro Lazzaro, abuelo paterno Stefano, bisabuelos paternos notario Niccolò (†1397) y Caterina de’ Cassi, tatarabuelo Prosperino hijo de Giovannino de Coaluno de Sancto Leocadio) originaria de la parroquia (pieve) o pueblo de Santo Locadio (San Valentino di Castellarano). 25 Se ha lanzado la hipótesis de que a Roma hubiera llegado en el séquito de Borso d’Este (1413-1471), I duque de Modena y Reggio desde 1452 y I duque de Ferrara desde abril de 1471, cuando en este último año visitó Roma para recibir de Paulo II el nuevo título ducal con el conde de Scandiano Matteo Maria Boiardo (visita de la que ha quedado la relación del podestà de Castellarano Francesco di Princivalle Ariosto (ca. 1415-1484)), o que abandonara el ducado a la muerte de aquél en agosto de 1471, y su sustitución por parte de su hermano Ercole I d’Este (1431-1505). No se han examinado sus eventuales vínculos con el obispo de Reggio, Antonio Beltrando “il Trombetta” (1466-1476), cuyas rela-


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habría formado en la Ferrara de los años Sesenta26, en la obra de los frescos del Palazzo Schifanoia (1470-1471), en el ambiente de Francesco del Cossa (ca. 1436-1478) y Cosmè Tura (1436-1495). Nuevos datos lo sitúan en la propia Reggio en los bienios 1467-1468 – un hijo, aparentemete ilegítimo le nació a fines de 1467, siendo bautizado como Eleocadio el 4 de enero de 1468 – y 1470-1471, en la casa paterna, cuando su hijo Leocadio contaba 4 años de edad27. Se estableció en Valencia y allí vivió y trabajó hasta su muerte, aunque jamás volvió a hacerlo como fresquista. Casi toda su obra conocida hasta ahora, sin embargo, procede del periodo valenciano más tardío28.

ciones con el franciscano escotista Fra Antonio Trombetta (1436-1517), profesor de la Universidad de Padua y más tarde obispo de Urbino y autor de un De caelo et mundo (Venetia 1490), ignoramos por completo. 26 Ch. R. Post, A History of Spanish Painting, VI, Cambridge Mass. 1935, pp. 192-196; ibid., VII/2, Cambridge Mass. 1938, pp. 883-891 y ibid., XI, Cambridge Mass. 1953, p. 19; D. Angulo Íñiguez, Pintura del siglo XVI, in Ars Hispaniae, XII, Madrid 1954, pp. 31-38; R. Longhi, Una Pietà del Maestro del Cavaliere di Montesa, «Paragone», 14 (1963), pp. 5557; A. Condorelli, Paolo de San Leocadio, «Commentari», 14 (1963), pp. 134-150 y 246-253 y Condorelli, Problemi di pittura valenciana, ibid., 17 (1966), pp. 112-128; National Gallery Catalogues. The Spanish School, cur. N. Maclaren - A. Braham, London 1970, pp. 83-86; C. Volpe, Paolo da S. Leocadio, en Mostra di opere d’arte restaurate nelle provincie di Siena e Grosseto, Siena 1981, pp. 168-169; X. Company i Climent, Pintura del Renaixement al Ducat de Gandía. Imatges d’un temps i d’un país, Valencia 1985; Company i Climent, La pintura paduano-ferraresa del Quattrocento y sus relaciones con España, Lérida 1989 y Company i Climent, Paolo da San Leocadio cit., pp. 153-167, insistiendo en su supuesta formación como garzone del taller de Francesco del Cossa en el Palazzo Schifanoia de Ferrara, y pp. 204 ss., para la obra del pintor. 27 Véase Company i Climent (Pintura del Renaixement cit., pp. 33 ss.) quien añade a estas influencias la de las pinceladas flamencas de algunas obras de Roger van der Weyden realizadas para los Este. Sin embargo, véase ahora, sin referencia alguna, V. Sgarbi, Francesco del Cossa, Genève-Milano 2003; Palazzo Schifanoia a Ferrara: Architettura e decorazione a fresco, cur. S. Settis - W. Cupperi, 2 voll., Modena 2007; Cosme Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, cur. M. Natale, Ferrara 2007. 28 Habría que considerar dos excepciones; por una parte, la controvertida tabla de la Virgen del Caballero de Montesa Fray Lluís Despuig (ca. 1473-1476/1478, óleo sobre tabla de 102 x 96 cm), del Museo del Prado de Madrid, que quizá hubiera constituido un retablo con dos alas laterales que serían una Anunciación de Munich y una Adoración de los Magos de Bayonne, encargo de este maestre de la Orden (1453-1482) y virrey de Valencia (1472-1478), viajero a Roma en 1471 para cumplimentar al recién elegido Sixto IV della Rovere; no obstante, también se han retrasado a 1485/1490 al depender esta última de un grabado de Martin Schongauer de 1480-1482. Por otra, Sacra conversación o más bien el Matrimonio místico de Santa Catalina de Alejandría ante la presencia de Santa Ágata y Santa Lucía (ca. 1486-1492, óleo sobre roble de 43,5 x 23,3 cm) de la National Gallery of London, firmado “PAVLVS” y [supuestamente] “AV” en la orla del vestido de la Virgen (en monograma); esta tabla procedería de Italia, del Palazzo Cerretani de Florencia, conservándose en la Sebreight Collection de Beechwood Park hasta 1935.


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El tercer pintor era maestro Riquart, identificable con el siciliano de Palermo Riccardo Quartararo de Sciacca (1443-1507)29, quien fue también aceptado por el cabildo como concursante, y se le hizo asimismo una prueba que indudablemente perdió a tenor de los acontecimientos; debió regresar a Italia, pues no consta en ningún otro documento30. En la actualidad, tampoco poseemos pruebas suficientes para defender esta identificación con Quartararo – un pintor que jamás trabajó al fresco y en la tradición antonelliana de los pintores sicilianos – y tal hipótesis debiera quedar por ahora en suspenso a la espera de nuevos datos y documentos. El contrato y la realización de la capilla mayor Un primer contacto con los dos primeros artistas tuvo lugar el 2 y 3 de julio de 1472, y al día siguiente el capítulo catedralicio decidió aceptar su propuesta e iniciar una prueba a partir del día 16, que realizaron en la sala del cabildo catedralicio. Superada con éxito la prueba por parte de la compañía formada por los dos y abonada una fianza de 200 libras el 27 de julio solo por parte de Francesco Pagano – lo que indica a las claras la jerarquía empresarial de éste en la compañía, como el de mayor edad y principal responsable económico, y hemos de suponer que también artístico, de la pareja de pintores –, la obra fue finalmente contratada el 28 de julio de 1472 de acuerdo con precisas cláusulas31. 29

A partir de la propuesta oral de Ferdinando Bologna, seguida por A. de Bosque (Les artistes italiens en Espagne du XIVe siècle aux Rois Catholiques, Paris 1965) y a pesar de las dudas, justificadas por su errónea lectura del documento en catalán de 1472, expresadas por A. Condorelli, La leyenda de ‘Mestre Riquart’ y de Riccardo Quartararo, «Archivo español de Arte», 295 (2001), pp. 285-291. Es absurda, en cambio, la identificación de Bosque de la prueba de Riquart con la Natividad, conservada en los muros de la sala capitular, todo o en parte. Se ha supuesto erróneamente que algunos de los miembros del cabildo valenciano le consideraron como más sabio pintor al fresco, aceptándolo el 16 de julio como “concursante” y sometiéndolo igualmente a una prueba que, ejecutada en la sede de la cofradía de la catedral, indudablemente perdió. 30 Sobre Quartararo, véase M. Andaloro, Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, «Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte», (1974-1975), pp. 80-124; T. Pugliatti, Riccardo Quartararo: una personalità da rivedere, in Arte d’Occidente. Temi e metodi. Studi in onore di Angiola Maria Romanini, cur. A. Cadei et alii, Roma 1999, pp. 1063-1070 y Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale 1484-1557, Napoli 1998, pp. 21-47; ya hemos señalado la hipótesis errónea de Condorelli, La leyenda de ‘Mestre’ Riquart cit., pp. 285-291, sobre la que ha vuelto a insistir en Condorelli, Problemi di pittura valenzana. Il maestro Riquart cit., pp. 67-89. 31 ACV, Protocolo de Joan Esteve, Leg. 3.590; Chabás, Las pinturas del Altar Mayor cit.,


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Recibirían conjuntamente la importantísima suma de 3.000 ducados de oro por pintar, en un plazo de seis años, desde la clave tallada, con un relieve de la Asunción de la Virgen que se les entregó a mediados de 1473, y los nervios de la bóveda hasta los pilares de la estructura arquitectónica gótica, con vides eucarísticas trepando a su alrededor. Entre medias pintarían un trono de serafines [y querubines] circundando la clave («un tron de seraphins ornat d’or fi molt bell»), al que rodearían parejas de ángeles en cada paño de la bóveda, hasta contar una docena («dos ángels, ço és, un ángel en cascun pany, vestits a voluntat del dit honorable capítol amb ses ales sembrades d’or fi e de belles colors»); y a la altura de las ventanas, una historia que no se precisa («una historia e en los altres spays sien pintats los apòstols, a voluntat del dit honorable capítol»), pero que incluiría a Cristo – del que se han descubierto los pies entre una gloria de angelitos que se denominan serafines en la documentación – y expresamente a los apóstoles, quizá una Ultima Cena o, más probablemente, una Ascensión32. Además, «los capitells dels pilars sien pintats d’or fi de ducat amb sos bells fullatges, a voluntat del dit honorable capítol, ço és, aquella part ques sguarda dins la capella que huy se mostra ésser pintada» y «lo arch fronter, la part davall sia pintada amb un bell fres de fullatges ornat d’or fi a voluntat del dit honorable capítol, e los bordons d’or fi, e lo fronter de l’arch amb lletres antigues». Por último, «los pilars que stan entorn de la dita capella sien pintats de una vite amb sos fullatges d’or fi e atzur e ses colors necessàries». Se han conservado decenas de albaranes y ápocas que nos han permitido durante décadas seguir minuciosamente los avatares económicos de la obra33; también dos testamentos y un codicilo, que nos hablan de enfermedades y de las desavenencias e incluso odios que se gestaron entre un joven Paolo y un Francesco que le ocultaba los dineros, un pleito y visura de pp. 380-383; Chabás, Adiciones y correcciones cit., p. 244; Sanchis Sivera, La catedral de Valencia cit., p. 151. 32 En 1480, al contratarse la pintura de la Santa Cena que debía pintar Martín Torner en el refectorio de las monjas de Santa Clara, se especificó que debían representarse los apóstoles y la maiestat de Jesucrist, esto es, simplemente el Cristo en el centro de la Última Cena, al hacerse referencia al Santo Grial («[...] davant la Maiestat de Jesuchrist lo sanct greal ab hun [...] dins e en mig entregue [...]); citado por Sanchis Sivera, Pintores medievales en Valencia cit., pp. 78-80. 33 Si, como hemos visto, la clave con la Asunción de la Virgen se entregó el 5 de mayo de 1473, para entonces debía estar bien avanzada la preparación de la bóveda y las telas y cartones para la pintura, que al inventariarse en julio de 1477 en la fábrica catedralicia debían haberse dejado ya de usar para esta fecha. De hecho, el segundo tercio comenzó a cobrarse un año después, el 21 de mayo de 1474. El tercer tercio de la paga total, y hemos de suponer que la obra había alcanzado un estado muy avanzado, se comenzó a percibir


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1478, que testimonia los recelos de sus colegas locales, que dudaban de la técnica empleada por los italianos, quizá por el lombardo34; también han llegado hasta nosotros las decisiones de los canónigos, deseosos de que evimenos de dos años más tarde, el 28 de marzo de 1476. Sin embargo, la situación comenzó a cambiar a mediados del año 1476 y las relaciones entre ambos pintores empezaron a deteriorarse de forma espectacular. Por una parte, el 25 de junio de 1476 otorgó testamento el napolitano de Roma Pagano, enfermo, y precisó que debía entregar a su compañero Paolo la cantidad de 200 ducados que le guardaba, como responsable de las cuentas de su compañía, en una caja de la sacristía de la catedral. Por otra, el 15 de julio ambos fueron acusados de fraude pictórico por otros artistas locales, quienes denunciaron que no ejecutaban la obra verdaderamente al fresco y el cabildo decidió incoar una investigación el 16 de agosto; cuatro días después – el 20 de agosto – se decidió quitar el andamio de la “muestra” de la pintura, entrada que se ha solido identificar con la de la prueba de 1472, pero que quizá fuera más correcto pensar que fuera una muestra de su técnica realizada de inmediato. Para un inventario de bienes que Pagano tenía en su casa – incluyendo “mostres” e “histories” – y para la obligación de ambos pintores, del 11 de octubre de 1476, de reparar los andamios de la capilla, véase la aportación documental de M. Gómez-Ferrer Lozano, Nuevas consideraciones sobre el pintor Francesco Pagano, en este mismo volumen. Para esta fecha de agosto, Francesco debía de estar recuperado de su enfermedad, pues el 30 entregó los 200 ducados que adeudaba a Paolo y el cabildo se comprometió a entregarle a su vez a Pagano la caja de la sacristía. A pesar de ello, Paolo debió de tensar la cuerda amenazando con marcharse, dado que el 13 de septiembre el cabildo acordó que no abandonaría la obra sino bajo una pena nada menos que de 1.000 florines de oro. El 23 de septiembre, Francesco recibió la caja. Ante esta situación, ambos pintores firmaron una concordia este mismo día del 23 de septiembre de 1476 sobre sus diferencias sobre las cuentas y percepciones de dineros (Tolosa Robledo - Company Climent, Pinturas murales cit., p. 384, doc. 30); se comprometieron a que Francesco recibiría 150 ducados y nuevamente, al final de la pintura, otros 50, quedando el resto para Paolo. Este acuerdo demuestra que Pagano engañaba, como responsable de la economía y probable maestro principal de la compañía, al todavía joven Paolo. Un documento aparentemente extraño aparece el 30 de octubre de 1476, al devolvérsele a sus dueños el mástil de un barco, una galeaza, que se había tenido y utilizado «tot lo temps qui la seu a hobrat en la capella de la Verge María per rahó de la pintura». Parece indicar que la pintura se había concluído y se desmontaba un elemento central de la estructura del andamiaje. 34 El 13 de febrero de 1478, los capitulares se reunieron y comisionaron a los canónigos Jofre Serra et Miquel Gomis para que vieran la pintura y se concordaran con los pintores («[...] quatenus deinde videant tam super picturam capellae maioris Virginis Marie quam super so[lucionem (sic)] dicte picture quam convenit et concordarunt cum pictoribus dicte capelle ita quod predictis et cetero non habeant agere amplius cum dominis de capitulo nec referre eisdem aliquid»). En estos momentos de 1478, sin embargo, surgió un nuevo problema. Esta vez fue Paolo el que cayó enfermo y fue él quien otorgó testamento, fechado el 4 de septiembre de 1478, al que siguió un codicilo el día siguiente, el 5 de septiembre. En un rasgo de pacificación, Paolo le perdonó a Francesco las 50 libras que debía abonarle al finalizar la pintura o, más precisamente, su cobro. Esto tenía lugar quince días antes de que Pagano, por su parte, el 22 de agosto de 1478, otorgara un documento hasta hoy inédito por el que se comprometía con el canónigo Guillem Serra a concluir la obra solo si llegaba a ser necesario (ACV, Protocolo de Joan Esteve, Leg. 3.682, 22 de agosto de 1478). Una aparente visura – «es stada e deu esser feta de pintura» – y tasación de las calidades del fresco en su aspecto técni-


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taran los comportamientos escandalosos de los artistas y se cumplieran los plazos pero remisos a la hora de pagar. Finalmente, a pesar de estos avatares, la obra estaba concluída a finales de 1478, aunque no se acabara de abonar hasta 1481; el 22 de diciembre Pagano firmó el finiquito definitivo por los 3.000 ducados del encargo pictórico y por las 210 libras de la fianza, documento que por su parte firmó Paolo da Reggio el 13 de febrero de 148235.

co tuvo lugar entre el 8 y el 12 de octubre de 1478 por parte de los pintores valencianos Manuel Salvador, Joan Ponç, Pere Joan Ballester, Jordi Alimbrot y Martí de Sant Martí. 35 San Leocadio, por su parte, intentaba asegurarse por estas fechas un sobresueldo por otros medios, como la venta de objetos de su propiedad y su alianza con un candelero italiano Antonio da Bologna. Dos documentos inéditos – del 31 de mayo de 1481 y 10 de enero de 1482 – nos lo muestran concertándose en una compañía con el maestro italiano y después disolviéndola. Parece como si Paolo intentara volver a Italia y vendiera parte del ajuar que había acumulado durante su década de estancia valenciana. Véase APPV, escrivano publico Manuel d’Esparça, Leg. 11.383, 31 de mayo de 1481 y 10 de enero de 1482: «Die jovis XXXI madii anno a Nativitate Domini MCCCCLXXX primo. In Christi nomine amen. Nos Didacus de Medina mercator ex una et Anthonius de Bolunya candelerius sepi ex alia et Paulus de Sancto Luca [sic] pictor ex altera, omnes in civitate Valencie moram trahentes gratis etc. confitemur una pars nostrum alteri et altera alteri ad invicem etc. et super negociacionem infrascriptam videlicet de fiendis candelis sepi per dominum Anthonium de Bolunya fuerunt inhita concordata et firmata capitula que secunt[ur]. Item mes es convengut e concordat que cascun any durant la dita negociacio los dits en Diego de Medina e mestre Anthoni de Bolunya en la quaresma conven e sien tenguts contat de tota la negociacio que en aquell any hauran fet e levat de procehit de aquella tot com que lo dit en Diego de Medina haura bestret en aquella se haia a partir per mitat entre los dits en Diego de Medina e lo dit Nanthoni de Bolunya [...] lo dit mestre Anthoni sia tengut de pendre e prengua en conte e de ço que restara de la part del dit mestre Anthoni lo dit Diego de Media li restara done e sia tengut donar al dit Paulo de Sancto Luca [sic] huyt lliures de voluntat de dit Anthoni com aquell les degua al dit Paulo. Item mes es convengut e concordat entre los dits en Diego de Medina e Paulo de Sancto Luca [sic] que lo dit Paulo a[m]b los presents capitols ven e realment lliura al dit en Diego de Medina los bens desus escrits per los preus infraseguents: Primo una caldera gran de aram per coure que lo seu la qual esta engastada en un fornal e dos capites de aram, una piqua, e una gran e una pala, dos culleres, una rahedora de ferre e dos balances de lanto foradades per preu de nou lliures. Item una premisa [sic] a[m]b sa roda pastera per preu de tres lliures. Item tres talles de tallar panillos [sic] per quatre sous sis diners. Item dos palanques de ferre per pastar lo seu e quatre destrals de camises per tallar lo seu per vint sous. Item una destral e una pala de ferro per cinch sous. Item tres romanes, dos grans e una xiqua per preu de quaranta sous. Item un pes ses balances e banch per preu de deu sous. Item una raula encaxada, hun artibanch de dos caxons xich e una estora xiqua que esta en la paret e hun banch de pastar seu per preu de vint y quatre sous. Item un armari gran e quatre scabegs e dos cadires per deu s[ous]. Item dos canelobres xiqs tres sous, una paella e dos calderetes de aram, hun foguer de ferro e arreus de cuyna per quinze sous. Item la caxa de la forma de la seu, CIII vergues per fer les caneles e quatre bastiments de obrador e tots los arreus del offici, una serra, tres portadores, dos lances, dos spasses per sexanta sous. Item hun poal de fusta a[m]b sa


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Los lugares de San Leocadio y Pagano De forma paradójica y desconcertante, a pesar de todo lo que sabemos de estos ángeles músicos valencianos, no somos verdaderamente capaces de reconocer en estas pinturas a nuestros dos artistas, Francesco y Paolo; quizá porque nos enfrentamos a una colaboración en la que pretendemos vislumbrar dos modos diferentes de expresión, todavía enredados en el anacronismo de querer lidiar ya en el Quattrocento con lo que Jorge Luís Borges llamó «el hallazgo romántico de la personalidad»36, y que, en este ámbito de términos historiográficos, redefiniríamos como personalidad estilística37. Estamos todavía lejos de comprender enteramente nuestros ángeles, empantanados – a pesar de nuestro orgullo y nuestra negativa a la duda – en algunas de las trampas de la investigación histórica. Ni siquiera nos ponemos de acuerdo en la interpretación del citado documento de la concordia del 23 de septiembre de 1476, que ha dado pie a una lectura a nuestro juicio abusiva de las respectivas responsabilidades pictóricas de los dos artistas, adjudicando exclusivamente a San Leocadio las figuras y dejando a

corda, una scala, hun cofre pintat e huna caxa vella per vint sous. Item sis sachs de tela, una vela una corriola per a pesar, hun lit de posts, cabaços e menudècies de casa tot per vint sous. Item hun matalas de lana, dos coxins de lana per a dormir, una flaçada grosa, hun parell de lançols, hun llit de posts, hun banch per a davant llit, hun davantal de llit vell, altre matalas e una marfega per a moços e una exada, tot per cinch lliures [...]». «Insuper vero die jovis decima jannuarii, anno a Nativitate Domini MCCCCLXXXsecundo. De voluntate dictorum Diego de Medina et Anthonio de Bolunya fuit cancellatam predictam societatem quoad dictam negociacionem tallim (sic) etc. et etiam dictus Anthonio de Bolunya renunciavit facultati recuperandi bona per Paulum de Sancto Luca [sic] cum instrumento predicto venditionis dicto Diego de Medina talus (sic) quod, dicta facultate non obstante, dictus Didacus possit fare de ipsis sua omnimoda voluntate. Testes honorabiles Petrus Bellviure et Bernardus Valldaura mercatores». 36 J.L. Borges «La postulación de la realidad», en Borges, Discusión, Buenos Aires 1932. 37 El documento de reparto de la obra tras la enfermedad de Pagano, del 23 de septiembre de 1476, sobre el que han insistido Chandler R. Post, Adele Condorelli y Ximo Company, es poco revelador, pues excluye definir la autoría – ¿compartida? – de la parte más alta de la bóveda, con los ángeles músicos, que tendrían que haberse pintado lógicamente antes. Ahora cabría reiniciar el estudio de ambos artistas a partir de las que podría ser dos obras si no seguras sí altamente probables y que parecen de manos diversas. Por una parte la controvertida tabla de la Virgen del Caballero de Montesa Maestre Fray Lluís Despuig (ca. 1474), del Museo del Prado de Madrid, encargo de este maestre de la orden (1453-1482) y virrey de Valencia (1472-1478), viajero a Roma en 1471 para cumplimentar al recién elegido Sixto IV della Rovere. Por otra, la Sacra conversación, o más bien el Matrimonio místico de Santa Catalina de Alejandría ante Santa Ágata y Santa Lucía (ca. 14861492) de la National Gallery de Londres, firmado “PAVLVS” y “AV” – como monograma


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Pagano solo como el pintor de decoraciones arquitectónicas o vegetale38. Sin embargo, según las condiciones del contrato de 1472, Pagano y San Leocadio comenzarían lógicamente a trabajar en la parte superior de la bóveda de la capilla mayor, y descenderían a medida que se fueran concluyendo las diferentes franjas de la obra al fresco, y si el 28 de marzo de 1476 habían comenzado a cobrar por el último tercio de la obra, ésta debía de estar ya muy avanzada. De hecho, se especificaba que Pagano pintaría desde los capiteles había abajo («los capitells e tota la part jussana sota aquells») y San Leocadio desde los capiteles hacia arriba, con «los Apòstols i la Majestat a[m]b los seraphins e altres coses»; esta Majestad no podría identificarse con la circundada por los ángeles músicos sino por la que rodeaba al Cristo hoy semiperdido, pues indiscutiblemente – en una cultura volcada al discernimiento claro de las distintas jerarquías angélicas – los serafines no se podrían haber confundido con los ángeles músicos de la plementería de la bóveda39. Desde este punto de vista, una interpretación más lógica sería la de que nos encontramos ante una obra de estricta colaboración, en la que el trabajo de composición de las figuras se debiera al especialista en la pintura de grandes cartones y al fresco, Pagano, terminadas en superficie y a secco por el especialista de pintura sobre tabla, San Leocadio, pues en esta superficie se da una técnica de tabla en términos miniaturísticos más que estrictamente de fresquista, aunque las jornadas fueran aparentemente pequeñas (una mano, una cabeza). Así pues, ambos artistas habrían recorrido toda la obra en sentido descendente, primero Pagano y después San Leocadio; y esta práctica habría explicado la intervención de los colegas valencianos que dudaron de la especificidad técnica de la obra final.

– en la orla del vestido de la Virgen. No obstante, la obra que – al fresco – parece alejarse más de estas dos y al mismo tiempo presenta claros vínculos con algunos motivos de las figuras de los ángeles es la Natividad realizada como prueba en la propia catedral valenciana en 1472. 38 Tanto a Condorelli, El hallazgo de los frescos cit., pp. 175-179, como a Company, Ángeles de azul y oro cit., pp. 43-94: 44 y Company, Paolo da San Leocadio cit., pp. 209-210, les «parece incuestionable», a partir de su lectura del documento, que el autor principal y casi único fuera Paolo, mientras que a Francesco solo se le debió la decoración. Sin embargo, los elementos arquitectónicos y decorativos aparecen tanto en la Natividad de 1472 como en La Virgen del Caballero de Montesa y la Sacra conversación de Londres; y dependen en su tipología en muchos casos del ambiente paduano-veronés del que saldría San Leocadio. 39 Mercedes Gómez-Ferrer, en este mismo volumen, interpreta la situación de 1476 como un reparto exclusivo de la obra del muro de la capilla mayor, habiéndose acabado ya para entonces la bóveda, puesto que se procedería de inmediato a quitar parte del andamio.


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Nos faltan, como vemos, muchas de las piezas de sus varios contextos, como son las teselas del mosaico de la pintura del Quattrocento romano, de la época del pontificado de Paulo II Barbo, a la que estrictamente pertenecían los artistas venidos de Roma en 1472, más que a una pintura valenciana que solo respondió a ellos tardía y parcialmente40. La desaparición de muchos de los ejemplos de este panorama paolino dificulta todavía que entendamos plenamente la capilla valenciana41. Tendemos a intentar reconstruir, buscando analogías formales con otras obras pictóricas, unos itinerarios visuales de los artistas (de la Padua de Andrea Mantegna, Niccolò Pizzolo (†1453) y Bono da Ferrara a la Ferrara de Francesco del Cossa42), más que aquellas imágenes que los clientes tení-

40 Aunque nuestros ángeles músicos emparentan sobre todo con los ángeles de la Ascensión de Cristo, rodeado por los apóstoles, del ábside de la basílica de SS. Apostoli de Roma, de Melozzo da Forlì (1438-1494), hoy en la Pinacoteca Vaticana y el Palazzo del Quirinale [Fig. 42] y tal vez en el Museo del Prado (n. 2.843), su cronología (1472-1474, para el cardenal Giuliano della Rovere, o 1478-1480, para Pietro Riario) excluye una dependencia de Valencia respecto a esta obra. Para una fecha tardía, N. Clark, Melozzo da Forlì. Pictor papalis, London 1990, pp. 13-17 y 61-71; Melozzo da Forlì. La sua città e il suo tempo, cur. M. Foschi - L. Prati, Milano 1994; M. Guidi, Guida ai luoghi di Melozzo, Milano 1994, pp. 57-70 e I. J. Frank, Melozzo da Forli and the Rome of Pope Sixtus IV (1471-84), Ph. D. Diss., Cambridge Mass. 1991, Ann Arbor - Michigan 1993, I, pp. XVIII-XXIV y 115-188, y Cardinal Giuliano della Rovere and Melozzo da Forlì at SS. Apostoli, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 59 (1996), pp. 97-122:121, quien data la obra después de 1477. Nadie ha seguido la hipótesis de C. Ricci, Melozzo da Forli, Roma 1911, que los fechaba hacia 1470. Para una fecha 14721474, D. Brown, Cardinal Giuliano della Rovere. Patron of Architecture 1471-1503, M. Phil. Diss., London 1987, pp. 73-74, y L. Finocchi Ghersi, Francesco Fontana e la Basilica dei Santi Apostoli, «Storia dell’arte», 73 (1991), pp. 332-360, y Melozzo e l’architettura, in Le due Rome del Quattrocento, Melozzo, Antoniazzo e la cultura artistica del ’400 romano. Atti del Convegno (Roma, 21-24 febbraio 1996), cur. S. Rossi - S. Valeri, Roma 1997, pp. 65-76. 41 Véase V. Golzio, La pittura a Roma e nel Lazio, in V. Golzio - G. Zander, L’arte in Roma nel secolo XV, en Storia di Roma, XXVIII, Bologna 1968, pp. 267-292, y ahora A. Pinelli, La pittura a Roma e nel Lazio nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento cit., II, pp. 414-436; S. Rossi, Tradizione e innovazione nella pittura romana del Quattrocento: I maestri e le loro botteghe, in Le Due Rome del Quattrocento cit., pp. 19-39; M.G. Bernardini, Il ’400 a Roma. La nascita delle arti da Donatello a Perugino, Milano 2008. 42 Véase ahora Pisanello und Bono da Ferrara, cur. B. Degenhart - A. Schmitt - H.J. Eberhardt, München 1995; Andrea Mantegna e i Maestri della cappella Ovetari: la ricomposizione virtuale e il restauro, cur. A. de Nicolo Salmazo - A. M. Spiazzi - D. Toniolo, Milano 2006 y Mantegna a Padova 1445-1460, cur. D. Banzato - A. de Nicolo Salmazo - A. M. Spiazzi, Milano 2006; también Mantegna e le Arti a Verona 1450-1500, cur. S. Marinelli - P. Marini, Venezia 2006; Mantegna a Mantova 1460-1506, cur. M. Lucco, Milano 2006; C. Bertelli, Mantegna e Piero della Francesca a Ferrara y N. Zuccoli, Decorazione architettonica e aura mantegnesca, in Nel segno di Andrea Mantegna. Arte e cultura a Mantova in età rinascimentale, «Civiltà Mantovana», ser. III, 41 (2006), rispettivamente pp. 62-67 e 68-87.


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an en su retina y querían reduplicar para sí mismos, fueran en este caso el obispo Rodrigo Borja o los canónigos valencianos que se ocuparon realmente de controlar y dar el visto bueno a los proyectos de Francesco y Paolo. Aquél había vivido en Bolonia y Ancona43, y en el Collegio di Spagna de la ciudad universitaria no habría dejado de contemplar el retablo (14611468) de Marco di Antonio di Ruggero “lo Zoppo dello Squarcione” (14331478), así como sus miniaturas en textos clásicos44. Y en la Roma de Paulo II sobresalían pinturas angélicas como las de la capilla funeraria del Cardenal Basilio Bessarione, dedicada a San Miguel, Santa Eugenia y San Juan Bautista (1464-1467/1468)45, que acababa de pintar Antoniazzo Romano (ca. 1440-ca. 1508) y su amplio taller en la basílica de SS. Apostoli46 [Fig. 43]. Tampoco conocemos con detalle las decoraciones profanas del palacio romano de los Barbo o Palazzo Venezia (1470-1472)47, realizadas justo

43 Rodrigo Borja (ca. 1431-1503) vivió en Bolonia, como estudiante del Collegio del Cardenal Albornoz, entre 1453 y 1456, y en Ancona, como gobernador de la Marca de Ancona en el bienio 1456-1457. También estuvo en Mantua con Pio II y Bessarione en 1459 y frecuentó Pienza en 1459-1460; asimismo volvió con el papa Piccolomini a Ancona en 1464, año en que regresó finalmente a Roma. 44 C. Volpe, Il polittico di San Clemente di Marco Zoppo. Un esercizio di lettura iconografica, in El Cardenal Albornoz y el Colegio de España, cur. E.Verdera y Tuells, V, Bologna 1979, pp. 63-75; D. Biagi Maino, Il Polittico del Collegio di Spagna, in Marco Zoppo. Convegno internazionale di studi sulla pittura del Quattrocento Padano, cur. D. Biagi Maino - A. Conti, Cento 1993. También M. Lucco, La pittura a Bologna e in Romagna nel secondo Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento cit., I, pp. 240-255. 45 Ha permanecido también oculta desde 1708 hasta 1960 tras el muro del crucero de la nueva iglesia, ocultando sus frescos quattrocentescos de su bóveda con las nueve jerarquías angélicas alrededor del Padre Eterno. Los documentos principales fueron ya publicados por E. Müntz, Les arts à la Cour des Papes pendant le XVe et le XVIe siècles. Paul II (1464-1471) [Paris 1879], Hildesheim 1983, pp. 82-83, 298-304 y G. Noehles-Doerk, Antoniazzo Romano. Studien zur Quattrocentomalerei in Rom, Ph. D. Diss., Münster 1973, pp. 231-233, n. 85. También véase, C. Busiri Vici, Un ritrovamento eccezionale relativo all’antica Basilica di SS. Apostoli, «Fede e Arte», 7 (1960), pp. 70-93; C. Haas, A proposito degli affreschi nella Cappella funeraria del Card. Bessarione ai SS. Apostoli di Roma, «Ricerche di storia dell’arte», 13-14 (1981), pp. 131-138; F. Lollini, La cappella di Bessarione ai Santi Apostoli: una riconsiderazione, «Arte cristiana», 742 (1991), pp. 7-22; V. Tiberia, Antoniazzo Romano per il Cardinale Bessarione a Roma, Todi 1992; A. Paolucci, Antoniazzo Romano. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1992, p. 30, n. 2. 46 También se ha hipotizado la presencia de otros artistas como Lorenzo da Viterbo (ca. 1444-1472), o el Maestro de Tivoli (tal vez Battista de L’Aquila), a quien se le han atribuído obras como la Anunciación de la Virgen del Pantheon de Roma (ca. 1475) o el Cristo juez de la tumba del obispo Juan Díaz de Coca de Santa Maria sopra Minerva (ca. 14701473). 47 Vinculadas con el taller del fraile camaldulense florentino Fra Giuliano Amadei (activo 1447-1496), miniaturista y pintor que estuvo en Roma durante el pontificado de Pao-


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antes de la partida del séquito borgiano. O los miniadores de Rodrigo Borgia, quizá vinculados a las nuevas tendencias que, al calor de Francesco di Giorgio Martini, venían desde el norte a través de la Siena de Girolamo da Cremona y Liberale da Verona (ca. 1445-1529). Es en este ambiente plural donde reconocemos a grandes rasgos los orígenes de nuestras pinturas, entre la Bolonia y la Venecia de Marco Zoppo, la Padua de Mantegna y Bono, y la Ferrara de los Este y de los “ángeles” de los llamados Tarocchi del Mantegna, con su sentido del movimiento violento48 [Fig. 44]; pero también de la Roma paolina, de los frescos de Antoniazzo y de algunas obras de la clientela eclesiástica española49 [Fig. 45]. Y algunas de estas imágenes, como los grabados angélico-estelares, podían haber sido también compartidas en su experiencia visual por los canónigos de Valencia. Entre éstos se encontraban personajes como el doctor en decretos y vicario general Jaume Prats, el archidiácono de Alzira Gonzalo de la Caballería50, Fernando de Arenós o Guillem Serra, quienes todavía tendrían en

lo II, tanto a su servicio como al de su nipote el Cardenal Marco Barbo. Dirigió aparentemente los trabajos de la decoración de Palazzo di San Marco (la Sala Regia y los Paramenti del Palazzo Venezia, entre 1470 y febrero de 1472, con escenas de trabajos de Hércules), con la colaboración de los hermanos Cristoforo y Francesco Cole della Villa; dejó asimismo pintados los frescos en la loggia del Palazzo dei Cavalieri di Rodi (1470-1471) de Roma, para el propio Marco Barbo, y también un tríptico en la abadía de Caprese (hoy Caprese Michelangelo). Véase S. Petrocchi, Ancora su Giuliano Amadei, artista della corte di Paolo II, «Roma nel Rinascimento. Bibliografia e note», 1998, pp. 95-103 y Petrocchi, La pittura a Roma all’epoca di Paolo II Barbo. Giuliano Amidei Papae familiari, in Le Due Rome del Quattrocento cit., pp. 225-235; A. Staderini, ‘Primitivi’ fiorentini dalla collezione Artaud de Montor II: Giuliano Amadei e Domenico di Michelino, «Arte cristiana», 824 (2004), pp. 333342. Sobre el palacio, Ch. L. Frommel, Der Palazzo Venezia in Rom, Kleve 1982, pp. 7-29 y Frommel, Francesco del Borgo: Architekt Pius’ II. und Pauls II. Palazzo Venezia, Palazzetto Venezia und San Marco, «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 21 (1984), pp. 71-164; y M.G. Barberini - F.R. Quintiliani, Palazzo Venezia, il palazzetto e il suo lapidarium: un viaggio tra i frammenti della storia di Roma, Roma 2006. 48 Los ángeles conectan en cierto sentido con imágenes transportables como el conjunto de estampas ferrareso-venecianas de ca. 1465 (en su primera versión o ‘serie E’ a la que siguió una ‘serie S’ invertida de ca. 1470/1480), que incluían las siete circunferencias planetarias, y las representaciones “angélicas” de la octava (Octava Sp[ha]era) de las estrellas fijas y del Primum Mobile, o Causa Primera, espacio en el habitaba Dios, la novena y última de las esferas materiales supuestamente invisible y en contacto directo con Dios, de quien tomaría su infinita velocidad. 49 Como los de la tumba del obispo de Calahorra Juan Díaz de Coca (1402-1477), con su Cristo juez con ángeles trompeteros (ca. 1470-1473/1477) de la Cappella della Conversione di San Paolo e San Giovanni Battista, de Santa Maria sopra Minerva, atribuídos a Antoniazzo, Melozzo o al Maestro di Tivoli (¿Battista de L’Aquila/Marcantonio Aquili?). 50 Gonzalo de la Caballería parece haber mantenido relaciones amistosas con pintores, como el alemán Jordi Alimbrot, quien actuó como su testigo en un documento de 1476;


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su horizonte visual las pinturas angélicas de 1432 y pensarían que sus ángeles deberían de adecuarse a cuanto se había escrito sobre ellos51. Y no nos referimos tanto a san Dionisio Areopagita en su De coelesti hierarchia como al más próximo de los estudiosos de estos seres espirituales, el catalán Francesc Eiximenis, que había dedicado precisamente en Valencia, en 1394, su Libre des àngels al maestre racional del reino Pere d’Artés52; no deja de ser

información de Mercedes Gómez-Ferrer. Sobre la familia de éste, véase F. Pereda, Las imágenes de la discordia. Política y poética de la imagen sagrada en la España del cuatrocientos, Madrid 2007. El más conocido habría sido el Doctor Pedro de la Caballería, zaragozano del linaje del caballero Gonzalo de la Caballería (Vidal ben Lavi’) y maestre racional del reino de Aragón, que fue autor hacia 1450 del texto Zelus Christi contra Judaeos, Sarracenos, et Infideles, aunque solo se publicaría en 1592, en Venecia, como Tractatus Zelus Christi contra Judaeos, Sarracenos et Infideles. 51 La biblioteca de la catedral valenciana conserva todavía hoy diferentes códices medievales con los textos de Dionisio Areopagita (Angelica Hierarchia, cod. 249, seculo XIV) y un texto titulado De angelis, en un códice con obras de Vincent de Beauvais (Tractatus varii) y Santiago Prior (De testibus in iudicio, cod. 48, copia del cod. 45, de Santiago Prior, Miscelanea Teologica); también una Angelica Hierarchia del dominico Juan Vercelense, y una Differentia mundanae atque divinae Theologiae de Hugo de San Víctor, comentario de la Angelica Hierarchia de Dionisio (cod. 259, seculos XIV-XV). Véase E. Olmos y Canalda, Códices de la Catedral de Valencia. Catálogo descriptivo, Madrid 19432. En Valencia también existía un interés previo biblista, como demostraría a las claras el hecho de que su obispo auxiliar, prior agustino y exégeta Jaime Pérez de Valencia (1408-1490) escribiera unos comentarios que arrancaban de Nicolas de Lyre, aunque también de fuentes hebreas (de Abraham Ibn Ezra, Rashi y Maimónides). Fray Jaime era agustino y obispo de Christópolis (Neápolis de Tracia) desde 1468 (nombrado por Paulo II), fervoroso inmaculadista y más tarde inquisidor del tribunal de Valencia (1484). Sus obras, tanto su Expositio centum et quinquaginta Psalmorum David (Valencia 1484) y Commentaria in omnes Psalmos Davidis (Valencia 1493), como su Expositio Canticorum laudum Cantici Virginis Mariae, Canticorum Zachariae, Symaonis et Angelorum, Cantici Sancti Ambrosii et Sancti Augustini. Tractatus contra Judeos. Expositio in Cantica Canticorum (Valencia 1485, Paris 1498 y Venetia 1498), son posteriores a las fechas que nos interesan. Véase F. Pereda, Le origini dell’architettura cubica: Alfonso de Madrigal, Nicola da Lira e la Querelle Salomonista nella Spagna del Quattrocento, «Annali di Architettura», 17 (2005), p. 50, n. 76, quien desarrollará este argumento en un trabajo próximo y a quien agradecemos que haya compartido con nosotros su hallazgo; también M. Peinado Muñoz, La hermenéutica de Jaime Pérez de Valencia (1408-1490) en su perspectiva histórica, Granada 1989 y Peinado Muñoz, Juan Pérez de Valencia (14081490) y la Sagrada Escritura, Granada 1992; J. Pérez de Valencia, Tratado contra los judíos, edd. J. Formentín Ibáñez - M. J. Villegas Sanz, Madrid 1998; M. Villegas Rodríguez, Jaime Pérez de Valencia (1408-1490), agustino, obispo e insigne biblista, «Revista Agustiniana», 1998. Otros personajes podrían ser el administrador de la obra de la pintura, el presbítero beneficiado Bernat Segú, y el canónigo de Valencia y procurador de Rodrigo de Borja en 1474 Martí Enyego. Tampoco podemos olvidar la traducción, al vernáculo valenciano, de la Biblia de Bonifacio Ferrer (Valencia 1478). 52 En el inventario de 1489 de Guillem Serra (†1489), se contaba un Libre del Crestià y una Natura angelica, más probablemente el texto de Eiximenis que el de Giorgio Benigno Sal-


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interesante que algunas de las imágenes más próximas a la gloria y los ángeles valencianos aparecieran en las ediciones impresas, más tardías, del libro de este franciscano, como las publicadas en francés en 1478 y en 148653. También habría que tener en cuenta algunos relevantes personajes extranjeros que habían acompañado a Valencia a Rodrigo Borja. Precisamente, en el contrato de 28 de julio de 1472 habían actuado como «testes reverendus dominus Nicolaus, episcopus farensis54, magister Michael Aragonés, sacrarum literarum professor, ad premissa vocatis rogatis, specialiterque electis», en este último caso un connacional. Aunque la homilía del sínodo que se celebró en Valencia fue obra de otro importante religioso extranjero, Jacopo Piccolomini Ammannati (1422-1479), obispo de Pavía (1460) y Lucca (1470) y cardenal de San Crisógono (1461), no parece que fuera pronunciada por él, que permaneció en Italia55.

viati/Juraj Dragišic, solo escrito y publicado posteriormente (Firenze 1499). Véase J. Guia, Dades documentals d’interès literari (València, segle XV), in Momenti di cultura catalana in un millennio. Atti del VII Convegno dell’AISC, Napoli 2000, cur. A.M. Compagna - A. De Benedetto - N. Puigdevall i Bafaluy, Napoli 2003. Sobre Eiximenis, Edició crítica del “Libre dels àngels” (1392) de Francesc Eiximenis, ed. S. Gascón Uris, Tesis doctoral, Bellaterra (Barcelona) 1993; y F. Eiximenis, Àngels e demonis, ed. S. Martí, Barcelona 2003. Véase también La societat catalana al segle XIV. Francesc Eiximenis, cur. J. Webster, Barcelona 1980; A.G. Hauf Valls, D’Eiximenis a sor Isabel de Villena. Aportació a l’estudi de la nostra cultura medieval, ValenciaBarcelona 1990 (Biblioteca M. Sanchis Guarner, 19); Corrientes espirituales valencianas en la Baja Edad Media (siglos XIV y XV), «Anales Valentinos», 48 (1998), pp. 261-302; y Corrientes teológicas valencianas siglos XIV y XV: Arnau de Vilanova, Ramón Llull y Francesc Eiximenis, in Teología en Valencia: Raíces y retos. Buscando nuestros orígenes de cara al futuro, Actas del X Simposio de Teología Historicas (3-5 marzo 1999), Valencia 2000, pp. 9-47. Sobre algunos casos de iconografías eiximenianas, véase J. B. Sobré, Eiximenis, Isabel de Villena and some Fifteenth Century Illustrations of their Works, in Estudis de Llengua, Literatura i Cultura Catalanes. Actes del I Col.loqui d’Estudis Catalans a Nord-America, Urbana - Illinois 1978, Abadía de Montserrat 1979, pp. 203-213. 53 Francesc Eiximenis, Livre des saints Anges, Genève 1478 y en 1486 Eiximenis, Le livre des saints anges, Lyon 1486. Más tarde aparecieron en castellano (Libro de los santos ángeles, Fadrique [Biel] de Basilea, Burgos 1490, y como La natura angélica, 1516) y en catalán como Llibre dels angels (Barcelona 1494). 54 El ya citado vicario patriarcal veneciano Nicolò dalle Croci (†1473), obispo de Chioggia (1457-1463) y Hvar (isla de Lesina o Pharia, 1463-1473) en Dalmacia. Previamente había sido rector en Venecia de las dos parroquias de San Geminiano e San Giuliano, antes de ser promovido a vicario general del primer Patriarca di Venecia, san Lorenzo Giustiniani (1381-1456) y de su sucesor Maffeo Contarini, aparentemente el tercer Patriarca. Fue elegido obispo sucesivamente por Calixto III y Pio II. 55 J. Sanchis i Sivera (El Cardenal Rodrigo de Borja en Valencia, «Boletín de la Real Academia de la Historia», 84 (1924), pp. 120-164) identificó a los cuatro obispos que habían acompañado a Borgia, aun sin dar nombres, con los de Fano (que tendría que haber sido el franciscano comentarista de la Divina Commedia Fra Giovanni V Enrico de Tonsis, 1445-


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No obstante, hoy vuelan finalmente desemparedados los ángeles músicos y su compañía de serafines y querubines. Uno de ellos, el ángel con flauta doble, presenta una inscripción en el cuello del vestido, «[MA]RIA † SALVE REGINA MATRE [sic]», que procede de la Antífona del Breviario de la Santísima Virgen María56, y puede tal vez situarnos en el lugar del canto de la catedral de Valencia en 1472 [Figs. 11, 55]. No podemos olvidar la tradición poética contemporánea en alabanza de la Senyora dels angels Regina del cel fuera desde el ámbito de la ciudad57, o desde el coro y el altar.

1482, a quien Stefano Infessura daba por muerto en 1474), Asís (tal vez Francesco Insegna todavía obispo en 1484), Orto (no sabemos si Orte o tal vez Porto, sede ocupada por Filippo Calandrini entre 1470 y 1476) y un cuarto cuya sede no ha quedado identificada. Es más probable que se tratara del citado episcopus farensis, el Ortanensis, Antonio canónigo de Castro (1464-1473); y el Antibarensis, de Antivari (Épiro en el Montenegro entonces veneciano o Bar), Simón de Montana o Simone da Montona en Istria (1461-1473). Véase J. Fernández Alonso, Legaciones y nunciaturas en España de 1466 a 1521, I. 1466-1486, Roma 1963, pp. 82-83, doc. 57. Iacopo Ammannati Piccolomini. Lettere (1444-1479), ed. P. Cherubini, 4 voll., Roma 1997, III, pp. 1750-1753, n. 686, ha identificado a los dos últimos como Carlo da Nepi de Assisi y Cesare di Castro de Orte. 56 «Salve Regina (Mater) misericordiae, / Vita, dulcedo, et spes nostra, salve. / Ad te clamamus, exsules filii Evae; / Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle. / Eia ergo, advocata nostra, illos tuos / misericordes oculos ad nos converte. / Et Iesum, benedictum fructum ventris tui, nobis / post hoc exilium ostende. / O Clemens, O pia, / O dulcis (Virgo) Maria». 57 El 11 de febrero de 1474 se celebró un certamen en honor de la Virgen, organizado por el virrey Lluís Despuig y el presbítero y poeta mosén Bernat Fenollar (1435/14401516), con motivo de la entrega a la cofradía de Sant Jordi de una joya – un drap de vellut negre – que se debería sacar todos los años en la fiesta de la Encarnación del 25 de marzo; los 45 poemas entregados (40 en catalán, 4 en castellano y uno en toscano) se publicaron ese mismo año como Obres o trobes, en lahors de la Verge Maria (Valencia 1474). Algunos de estos poemas recogían temas centrales de nuestra bóveda: «Mare de deu dels angels alegria / Font de saber dels apostols maestra / Pilar de fe dels martres sants deuisa / Flor odorant deles vergens bandera»; «Alt en lo cel la geraxia canta / Mottes lahors de vos senyora pura / Entre les quals mon voler se decanta / Aquelles dir que lescripture santa / De vos escriu a[m]b tal noble figura / Que sou del sol molt ricament vestida / Hils vostres peus teniu sobre la luna / Corona dor portau tota guarnida / Ab dotze grans esteles circuida / Significant lo que dire cascuna»; «Angels del cel iames acabarien / Dir lahors tals con vos pertany senyora / Angels del cel meten bona penyora / Lo ques merex de vos dir no porien / Angels del cel vos colen per regina / Emperadriu Mare verge pus sancta / Angels del cel vos conexen mes tanta / Que nos pertany alhonor cerafina». También publicó B. Fenollar et alii., Lo Passi en Cobles, Valencia 1491 y 1493. La Istòria de la Passió, de Bernat Fenollar i Pere Martines i la Contemplació a Jesús crucificat, de Bernat Fenollar i Joan Escrivà, ed. M. García Sempere, Tesis doctoral, Alicante 1998 y García Sempere, La tradición y la originalidad en la Istòria de la Passió de Bernat Fenollar y Pere Martínes y en la Vita Christi de Isabel de Villena, «Revista de Lenguas y Literaturas Catalana, Gallega y Vasca», 6 (1998-1999), pp. 47-68.


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Pues esta antífona se rezaba desde las primeras vísperas del domingo de la Trinidad hasta la nona del sábado antes de Adviento y se cantaba, como antífona solemne, para el Magníficat en las fiestas de la Purificación, la Anunciación y la Natividad de la Virgen, y para el Benedictus en los Laudes de la Asunción. El obispo fray Jaume Pérez escribiría por estos años unos comentarios a los cánticos evangélicos del Oficio Divino «Benedictus (Zacarías), Nunc dimittis (Simeón) y Gloria in excelsis Deo» (Cántico de los Ángeles) sobre Lucas (2, 16), en los que la Iglesia – Peregrinante y Triunfante – hacía una adición «Laudamus te, benedicimus te» y se asociaba con los ángeles, de acuerdo con su doble función, dar culto de Latría a Dios y pedir por sus propias necesidades. Los ángeles valencianos parecen también cantar las antífonas en honor de la Virgen y de su fiesta de Asunción, por encima de Cristo y los apóstoles y los fieles de la ciudad. Nada semejante se ha conservado de la Roma de Paulo II y Melozzo da Forlì aún no había su Ascensión con gloria de ángeles de SS. Apostoli, ni nada similar se había visto hasta entonces en Valencia, que solo había disfrutado de algunos frescos menores que Gherardo Starnina y Niccolò di Antonio habían pintado setenta años atrás. Solo Toledo – con el mismo Starnina – y Salamanca – con Dello Delli – habían podido contemplar espacios arquitectónicos poblados densamente por seres de la ficción pictórica; sin embargo, ninguno de ellos era comparable con la nueva capilla de Valencia. Sus serafines y querubines monócromos a la mantegnesca, sus dinámicos ángeles de complejas poses y lujosas vestimentas con inscripciones “a la hebrea”, que pretendían testimoniar la lengua de Dios y de los seres sobrenaturales, con sus preciosos peinados – casi botticellianos – al viento, como ejemplos preclaros de su agitación emocional y no solo física, y sus maravillosos instrumentos modernamente “a la antigua”58, serían seres casi vivos para sus espectadores atónitos. Su lujo de color, desde las pálidas nubes rosáceas, casi venecianas, en las que algunos ángeles se encaramaban, hasta los intensos naranjas, blancos y amarillos, carmines y verdes en vibrantes tornasoles de sus túnicas, contra el azul del cielo, y su riqueza de oro, desde las telas de brocado de sus camisas a las estrellas e instrumentos musicales repujados, y de materiales, desde sus azules de lapislázuli a sus verdes de malaquita, no solo justificarían su precio exorbitado, sino que convertían la capilla en un verdadero espacio de gloria celeste. La tri-

58 La esfinge del arpa-salterio del ángel naranja reaparece en la decoración del trono de la Virgen del Caballero de Montesa.


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dimensionalidad de las figuras, sin embargo, con sus manos y pies bien torneados gracias al detalle y las sombras propias, las mejillas hinchadas por el esfuerzo al soplar un aulós o una chirimía, o la naturaleza pulsable de los instrumentos de cuerda o teclado, devolvían al mundo real, o al menos al deseo de que los ángeles bellos – que nos pudieran auxiliar – fueran de carne y hueso y pudiéramos mirarnos en sus hermosos ojos castaños abiertos como luminarias en sus oscuros bosques de pestañas.


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Nell’opera La civiltà del Rinascimento in Italia, l’autore, lo storico Jacob Burckardt, nel tratteggiare in una serie di quadri eleganti e fedeli l’evoluzione della cultura rinascimentale, ha tracciato anche un quadro dell’uomo rinascimentale e del suo modo di vestire: «Ora, quanto meno le differenze di nascita conferiscono un privilegio determinato, tanto maggiore ogni individuo, come tale, sente lo stimolo a mettere in evidenza i suoi pregi personali, e tanto più la vita sociale deve tendere per proprio impulso a restringersi in una cerchia speciale ed a nobilitarsi. Il sorgere della individualità e il raffinarsi della vita sociale diventano due fatti necessari, deliberatamente pensati e voluti. Già l’apparenza esterna dell’uomo e le cose che lo circondano e gli ozii della vita quotidiana mostrano in Italia un’eleganza e un raffinamento maggiore, che in qualsiasi altro paese. […] Il vestire mutò a tal segno che è impossibile istituire un completo paragone con le mode degli altri paesi, tanto più che, dal finire del secolo XV in poi, spesso si adottarono queste ultime. Ciò che i pittori italiani ci rappresentano come costume di quel tempo è in generale quanto di più bello e di più accomodato ci fosse allora in Europa, ma non si potrebbe dire con certezza, se quel modo di vestire prevalesse generalmente e se i pittori, ritraendolo, siano stati sempre esatti. Quello però che è fuori di dubbio è che in nessun luogo si tenne del vestire quel conto, che si teneva in Italia. La nazione era alquanto vanitosa; ma, oltre a ciò, anche uomini molto gravi non esitavano a riconoscere in un vestito quanto più si potesse bello e ben fatto un ornamento non dispregevole aggiunto alla persona»1. Queste considerazioni del Burckardt testimoniano come si possa ricostruire un’epoca e una civiltà percorrendo tante strade e quella dei costumi è una di esse2. 1 2

J. Burckardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Roma 1987, pp. 313-314. M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna 2008, p. 260.


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Nel corso del Rinascimento, conversazioni e discussioni nei vari galatei e trattati sul comportamento “cortigiano” sono una chiara testimonianza dell’interesse crescente in Italia per il vestire. Alla fine del Quattrocento Leonardo da Vinci parlava di regole indumentarie, suggerendo di assecondare quelle della corte d’appartenenza per non risultare sgraditi3. A tal proposito è importante rilevare il ruolo svolto da Leonardo presso la corte di Ludovico il Moro: nella memorabile Festa del Paradiso, svoltasi il 13 gennaio 1490 nel castello di Milano, i costumi e le macchine sceniche scaturirono dal «grande ingegno ed arte di Maestro Lionardo Vinci fiorentino»4; fra l’altro, egli si interessò anche di disegni per ricami, di decori e lustrini per ornare borse e abiti5. Nel 1528 Baldassar Castiglione con Il libro del Cortegiano, resuscitando le discussioni tenute nella cerchia intorno a Lorenzo il Magnifico, tracciava l’immagine del “perfetto cortigiano”, che doveva studiare il proprio comportamento e in cui anche l’abito aveva un suo ruolo. L’uomo di gusto abbinava al rispetto delle convenienze un’eleganza calcolata e il vestito, discriminante sociale, aiutava l’individuo a costruire il proprio aspetto ufficiale: «Dico bene che ancora l’abito non è piccolo argomento della fantasia di chi lo porta […]. E non solamente questo, ma tutti i modi e costumi, oltre alle opere e parole, sono giudizio delle qualità di colui in cui si veggono»6.

3 D. Davanzo Poli, Il sarto, in Storia d’Italia. Annali, 19. La moda, cur. C.M. Belfanti F. Giusberti, Torino 2003, p. 540; cfr. R. Mischi De Volpi, La contribution de Léonard au costume de la Renaissance, in Actes du premier Congrès International d’Histoire du Costume, Venezia 1952, p. 134. 4 Le rime di Bernardo Bellincioni (1493), ed. P. Fanfani, Bologna 1878, sonetto CI, pp. 208-222. 5 P. Peri, Il gusto e lo sfarzo di una duchessa italiana Regina di Polonia, in Bona Sforza. Regina di Polonia e duchessa di Bari, Catalogo della Mostra (Bari, 27 gennaio - 26 aprile 2000; Cracovia, 14 settembre - 19 novembre 2000), cur. M.S. Calò Mariani - G. Dibenedetto, I, Roma 2000, p. 79. Cfr. G. Butazzi, Elementi “italiani” nella moda sullo scorcio tra il XV e il XVI secolo, in Tessuti serici italiani 1450-1530, Catalogo della Mostra (Milano, 9 marzo - 15 maggio 1983), cur. C. Buss - M. Mulinelli - G. Butazzi, Milano 1983, p. 62: «Alla corte milanese, Leonardo collabora sia alla festa del 1488 per le nozze di Gian Galeazzo Sforza, che ai costumi della giostra del 1490, vinta dal conte di Caiazzo, per le nozze di Ludovico il Moro, e si occupa di acconciature, di trucco e di decolorazioni»; cfr. M.L. Angiolillo, Leonardo feste e teatri, Napoli 1979, p. 92. 6 B. Castiglione, Il Cortigiano, ed. A. Quondam, Milano 2002, p. 136; cfr. Quondam, Tutti i colori del nero. Moda “alla spagnola” e “migliore forma italiana”, in Giovanni Battista Moroni. Il Cavaliere in nero. L’immagine del gentiluomo nel Cinquecento, Catalogo della Mostra (Milano, 2 ottobre 2005 - 15 gennaio 2006), cur. A. Zanni - A. Di Lorenzo, Milano 2005, pp. 30-34.


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L’abito, dunque, era l’elemento costitutivo della “grazia” che doveva contrassegnare il gentiluomo e sulla scia di queste argomentazioni si ricordano, inoltre, il Dialogo de la bella creanza delle donne scritto da messer Alessandro Piccolomini nel 1540 e il Galateo ovvero de’ Costumi (1552) di monsignor Della Casa7. «Vestire onesto, non burbanzoso; e onorevole, non abbietto; è una laudabile, e gloriosa virtù della Temperanza; veramente richiesta sempre a ciascuna persona»8: dallo stato dell’abito, dunque, si risale alle qualità intrinseche dell’individuo e attraverso queste asserzioni si evoca l’autorità di Quintiliano e Cicerone9. Quintiliano (Istituzione oratoria VIII, Proemio 20) diceva: «cultus concessus atque magnificus addit hominibus […] auctoritatem» (un abbigliamento lecito e molto bello accresce l’autorevolezza delle persone)10. Ovvia è anche la funzione originaria del vestito in Cicerone (Sull’oratore 3, 155): «La veste fu scoperta originariamente come rimedio contro il freddo, poi si cominciò a considerarla un ornamento e una dignità per il corpo (ornatum etiam corporis et dignitatem)»11. A partire già dal XV secolo, ma soprattutto verso il suo termine, all’Italia si guardava da tutto il mondo civile, non soltanto per l’alto grado culturale e artistico raggiunto, ma anche per la ricercatezza e l’eleganza del vestire, cosicché verso la fine del Quattrocento essa aveva realmente conquistato un primato nella moda in Europa e ciò durò fin oltre la metà del secolo successivo12. Di notevole interesse è anche rilevare le caratteristiche comuni del costume in Italia, per cui si parlava di fogge alla “taliana”13, con espressioni, però, non sempre omogenee perché bisogna tener conto non solo delle diverse tradizioni culturali, ma anche della presenza o meno di un centro di elaborazioni e irradiamento, come la corte. Le manifestazioni più interessanti, infatti, coinvolgevano in particolar modo l’area padana, dove la presenza di donne come Isabella d’Este Gonzaga e uno splendido guardaroba come quello di Lucrezia Borgia stabilirono un primato in fatto di moda14.

7 Sull’argomento cfr. M. Fantoni, Le corti e i «modi» del vestire, in Storia d’Italia cit., p. 741; cfr. Davanzo Poli, Il sarto cit., p. 540. 8 G. Della Casa, Galateo, edd. G. Manganelli - C. Milanini, Milano 1977, p. 94. 9 Fantoni, Le corti cit., p. 741. 10 F. De Martino, Abiti quotidiani, in Abiti da Mito, cur. De Martino, Bari 2008, p. 15. 11 Ibid., p. 10. 12 R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, II, Milano 1967, p. 219. 13 Ibid. 14 Butazzi, Elementi “italiani” cit., p. 56; cfr. A. Luzio - R. Renier, Delle relazioni di Isabella d’Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice d’Este, «Archivio Storico Lombardo», 16 (1890), p. 387.


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La lettura del passo dei Diari di Marin Sanudo, il cui titolo risulta il seguente: «Ordine di le pompe e spectaculi di le noze de madona Lucretia Borgia, venendo a Ferara a marito, nel carnevale, a l’ultimo di zener 1501. Et prima il sposo, don Alfonxo, andò a incontrar la sposa a Mal Albergo, et poi séquita», consente di conoscere alcuni particolari riguardo all’abbigliamento elegante di Lucrezia Borgia e dei dignitari al suo seguito e permette, oggi, solo di intuire gli effetti rilucenti e scintillanti che accompagnavano l’apparire in pubblico delle dame con abiti ricamati con perle, gemme e con guarnizioni in oro e argento, secondo una regia studiata nei minimi particolari, per comunicare il complesso e raffinato esercizio del potere15. Se durante i primi decenni del Quattrocento le fogge si arricchirono e, anzi, si complicarono con modelli che richiamavano alla mente le fioriture architettoniche del gotico flamboyant e il verticalismo delle sue guglie, nella seconda metà del secolo la ricerca e lo studio del mondo antico, insieme alla nuova floridezza economica, concorsero a rivalutare la personalità dell’individuo. L’apporto umanistico, con il suo rigoroso ritorno alle fonti classiche, esercitò sul costume un’azione crescente16. Nell’ambito del grandioso programma di rinnovamento culturale avvenuto in Italia nel corso del XV secolo, gli artisti si proposero la renovatio o il “rinascimento” dell’antico, perché essi credevano nell’arte classica. Le prime scoperte archeologiche e la ricostruzione filologica di fonti antiche non furono la premessa, ma la conseguenza del rinnovamento artistico. L’antico non era repertorio di modelli da imitare, ma coscienza storica del passato e del suo inevitabile rapporto con il presente: per tutti gli artisti e i letterati l’antico era la vera storia, quella decisa ed attuata, non quella subìta dal caso.

15 «[…] L’habito de la sposa era una vesta d’oro, tirato, galezato, de raso cremesino, con le maniche de camisa a la castiliana, una albernia sopra, schiapata tutta da uno canto, de raso morello, fodrata de zebelini; el pecto scoperto, con la camisa schiapata a la foggia sua; al collo uno vezo di perle grosse, con uno balasso pendente, forato con una perla in pero; la testa senza lenza con una sol scufia d’oro. Quello di madona marchesana havea una veste de veludo verde, carica di passatori d’oro, uno robbono de veluto negro, fodrato de lupi servieri; in testa havea uno scuffioto d’oro; al fronte uno cerchiello d’oro; e al collo uno cerchiello d’oro con diamanti dentro. Madona duchessa de Urbino era vestita de una vesta de veluto negro, caricha de ziffre d’oro […]», I Diari di Marino Sanuto (I aprile MCCCCCI - XXXI marzo MCCCCCIII), IV, ed. N. Barozzi, Venezia 1880, coll. 222-223, citato da L. Laureati, Da Borgia a Este: due vite in quarant’anni, in Lucrezia Borgia, Catalogo della Mostra (Ferrara, 5 ottobre - 15 dicembre 2002), cur. Laureati, Ferrara 2002, p. 80. 16 Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, pp. 213-224.


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A Roma, nel corso del XV secolo, all’interno della corte pontificia, tra i segretari papali e gli scrittori pontifici, figuravano numerosi umanisti, come Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Maffeo Vegio, Giovanni Aurispa, Biondo Flavio: «La ricerca e la filologia storica, l’antiquaria, la teorizzazione sull’autonomia dell’individuo, la conoscenza di testi antichi della cultura greca e latina, l’acquisizione di nuove tradizioni dei testi antichi, il rispetto per le testimonianze sopravvissute del passato, il culto del mondo classico, la necessità di biblioteche private, vengono da loro imposti al mondo intero come altrettanti momenti di cultura comune. Finiscono per trasformarsi nella proposta di un modello totalizzante»17. Con il ritorno della corte papale da Avignone a Roma e con l’elezione l’11 novembre 1417 di papa Martino V Colonna, Roma aveva riacquistato, dopo poco più di cento anni, il suo ruolo di sede del potere papale e capitale della cristianità18. L’attività di restauro e ricostruzione della città, promossa da Martino V, che riguardò in particolar modo alcuni edifici simbolo come il Laterano, il Vaticano e il Campidoglio19, si trasformò di fatto in una vera e propria renovatio Urbis, in particolar modo durante i due Anni Santi del XV secolo: quello celebrato da Niccolò V Parentucelli nel 1450 e quello preparato da Sisto IV della Rovere nel 147520. In questo clima di rinnovamento e restauro di Roma emerse la personalità del cardinale Rodrigo Borgia, in seguito papa Alessandro VI dal 1492 al 1503. Egli era molto capace nell’allacciare rapporti di amicizia con gli artisti e fu considerato anche abile diplomatico. Nel 1472, infatti, nelle vesti di legato pontificio, fu inviato in Spagna dal papa Sisto IV per raccogliere fondi per la crociata contro i turchi21.

17

M. Miglio, Il progetto culturale nel Quattrocento a Roma. Scelte pontificie e aspirazioni culturali, in Il ‘400 a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, Catalogo della Mostra (Roma, 29 aprile - 7 settembre 2008), cur. M.G. Bernardini - M. Bussagli, Milano 2008, p. 109. 18 M.L. Gualandi, «Roma Resurgens». Fervore edilizio, trasformazioni urbanistiche e realizzazioni monumentali da Martino V Colonna a Paolo V Borghese, in Roma del Rinascimento, cur. A. Pinelli, Bari 2007, p. 123. 19 Ibid., p. 125. 20 Pinelli, Roma del Rinascimento cit., p. XII. 21 A. Condorelli, Paolo da San Leocadio y la famiglia Borja, in La llum de les imatges, Lux Mundi, Libro de estudios, Xativa 2007, pp. 261-279. Per una ricostruzione delle origini della negatività che da sempre contrassegna Papa Borgia cfr. M.C. De Matteis, Alessandro VI: alle origini di un mito negativo, in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, Atti del Convegno (Città del Vaticano - Roma, 1-4 dicembre 1999), cur. M. Chia-


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L’importante missione diplomatica, che perdurò sino al settembre 1473, fu, per Rodrigo, l’occasione per ritornare nella sua amata patria e per condurre a Valencia i due artisti italiani Paolo da San Leocadio e Francesco Pagano, da lui ritenuti idonei per eseguire gli affreschi della cattedrale22. Le fonti documentarie attestano che, a seguito di un incendio divampato nella cattedrale valenciana nel 1469, per ornare la cappella maggiore di pitture murali, i canonici del capitolo assunsero i due pittori italiani condotti sul posto nel 1472 dall’allora arcivescovo di Valencia, il cardinale Rodrigo Borgia23. Richiamandosi al pensiero di san Gregorio Magno secondo cui: «La scrittura è per il lettore, ciò che le immagini sono per gli analfabeti»24 e dunque, l’arte figurativa era uno strumento attraverso il quale anche le persone più semplici e chi non sapeva leggere poteva apprendere le verità della fede, il cardinale Borgia, uomo colto e raffinato, intendeva testimoniare e far conoscere nella sua patria, in terra di Spagna, l’alto grado di abilità e raffinatezza raggiunto dagli artisti italiani rinascimentali del XV secolo. Nel 1674, la decisione dell’arcivescovo di Valencia, Luis Alfonso de los Cameros, di restaurare la cappella maggiore, inesorabilmente comportò il “sacrificio” degli affreschi rinascimentali preesistenti, i quali così furono sottratti alla vista dalla decorazione barocca25. Circa quattrocento anni dopo, il 20 giugno 2004, a Javier Catalá, capo dell’equipe di restauro diretto da Carmen Pérez García, nel corso dei lavori nell’abside della cattedrale valenciana, coperti dal rivestimento barocco all’interno dello spazio delle vele della volta absidale, si sono rivelati in tutta la loro magnificenza dodici Angeli musicanti, ciascuno con uno strumento musicale diverso, così come è scritto nel salmo CV della Bibbia26.

bò - S. Maddalo - M. Miglio - A.M. Oliva, I, Roma 2001, pp. 85-98: 93: «L’amore, infine, per l’arte e il suo mecenatismo non sembrano bastevoli a sottrarre l’immagine di Alessandro VI alla pesante e penalizzante rappresentazione comunemente proposta». 22 Ibid. 23 Ibid.; Sull’argomento cfr. D. Morini - G.P. Palazzi - B. Morini, Nacque nel 1447 in via Galgana, «Reggio Storia», 114 (2007), pp. 3-12. 24 Sancti Gregorii Papae I Epistolarum libri quatordecim, lib. XI, epist. 13, in J.P. Migne, P.L., 77, Parisiis 1896, col. 1128. 25 Morini - Palazzi - Morini, Nacque nel 1447 cit., p. 2. Cfr. F. Marías, Affreschi nella cattedrale di Valencia, «FMR», 22 (2007), p. 50: «Nessuno li aveva più rivisti dal 1682 quando, su proposta dell’arcivescovo di Valencia Luis Alfonso de los Cameros, ebbero inizio i lavori di una nuova cappella maggiore la cui volta barocca di mattoni e gesso nascose l’antica costruzione gotica di pietra della cattedrale». 26 Morini- Palazzi - Morini, Nacque nel 1447 cit., pp. 2-4; cfr. Condorelli, Paolo da San Leocadio cit., pp. 261-279.


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I biondi Angeli dalla musicalità divina, che volteggiano in un cielo azzurro punteggiato da luminose stelle d’oro, sono una preziosa testimonianza del rinnovamento artistico avvenuto in Italia nel corso del XV secolo. Se nei primi decenni del Quattrocento Firenze è stata la protagonista di questa “rinascita” e i suoi artisti gli artefici principali, nella seconda metà del secolo, tra i poli della cultura artistica italiana emerse Ferrara capitale della signoria degli Estensi. La pittura ferrarese, che ebbe come rappresentanti eccelsi Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, sbocciò poco dopo la metà del Quattrocento in un terreno culturale propizio: Lionello era un principe “illuminato” e durante la sua breve signoria (1441-1450) l’Università ferrarese acquistò un nuovo rilievo. Guidava lo studium ferrarese il Guarino, allievo del Crisolora e, come lui, appassionato cultore del greco. La corte ospitava artisti come Pisanello, Mantegna, Piero della Francesca e il fiammingo Rogier Van der Weyden. Per comprendere, dunque, l’opera dei tre grandi artisti ferraresi, di cui Cosmè Tura è il caposcuola, è necessario ricordare le coordinate entro le quali si muoveva la cultura figurativa ferrarese. Ed è proprio all’interno di questa cerchia culturale che, secondo gli studi condotti dalla storica dell’arte Adele Condorelli, si sarebbe formato il pittore emiliano Paolo da San Leocadio, diventato in seguito «Lo pus solepmne pintor de Spanya»27. «Il sapiente e delicato lavoro di restauro, eseguito con rispetto e perizia, ci ha restituito una preziosa testimonianza di inestimabile valore per la conoscenza della storia dell’arte rinascimentale e la palese impronta padovana - ferrarese di questi affreschi conferma appieno quanto fu sancito nel documento del settembre 1476, dove si stabilisce che gli Angeli e le altre immagini della volta sarebbero stati dipinti esclusivamente da Paolo da San Leocadio»28. L’altro pittore, il napoletano Francesco Pagano, esperto nell’affrescare splendidi decori, secondo il documento del 1476, dipinse ed affrescò i capitelli e tutta la parte sottostante ad essi29. Nel complesso, gli Angeli musicanti ritrovati nella cattedrale di Valencia attestano una maestosa compostezza di linea, intimamente permeata di classicismo: il fluire largo e maestoso delle stoffe sulle forme corporee amplifica le figure senza alterarne le proporzioni ed è, anzi, evidente quel concetto di sintesi semplificatrice che trionferà nel Cinquecento, valorizzando gli effetti volumetrici30. 27 L. Tolosa - X. Company, Apéndice documental, en Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura del Renaiximent a Espanya, Gandia 2006, p. 459. 28 Condorelli, Paolo da San Leocadio cit., pp. 261-279. 29 Ibid. 30 Levi Pisetzky, Storia del costume cit., III, p. 16.


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I dodici Angeli indossano lunghe tuniche e preziose vesti broccate con eleganti sopravvesti di velluto bordate da lampassi dorati, dal carattere affascinante per semplicità e purezza di linea, risentendo fortemente dello spirito classico del costume greco-romano. È tesi ormai condivisa fra gli studiosi del costume che, proprio fra i greci, sia nata la prima espressione della moda come concezione dell’eleganza individuale. Ciò è testimoniato non solo dalle numerose possibilità combinatorie offerte dagli abiti drappeggiati, ma anche dalla varietà delle decorazioni, dei gioielli e degli accessori prodotti dalla civiltà greca nel corso dei secoli31. Se osserviamo l’Angelo musicante con il salterio a corde pizzicate [Fig. 3], notiamo che egli indossa un’elegante sopravveste di velluto (ciò si evince dal gioco di luce netto emanato) di intenso color arancio, con bordo in lampasso dorato, dalla linea sinuosa e fluente caratterizzata dall’armonia del drappeggio. Essa è puntata sulla spalla destra da una fibula d’oro di chiara reminiscenza classica ed è cinta da preziose fasce di seta bianca, che producono un vaporoso rimbocco in vita e ai fianchi, messo in evidenza dal movimento dell’Angelo. La sopravveste ricorda, per la foggia, il chitone o peplo greco, l’indumento più importante dei greci antichi, quasi sempre lungo per le donne, corto o lungo per gli uomini, che variò la sua foggia durante i secoli32. 31 L. Cocciolo - D. Sala, Storia illustrata della Moda e del Costume, Verona 2001, p. 28; cfr. De Martino, Abiti quotidiani cit., pp. 15-17: «Nonostante la perdita delle monografie greche sull’abbigliamento di Cleante di Asso, Del modo di vestire (PerÈ stol>@); di Polemone, Sul modo di vestire a Cartagine (PerÇ tön ®n KarchdÖni p®plwn); di Apollodoro di Atene, Sul modo di vestire degli dei (PerÈ qeøn stol>@) e la sopravvivenza di due sole latine, il De Pallio e il De Virginibus Velandis di Tertulliano, è possibile una ricostruzione e uno studio del costume greco-romano grazie alle numerose testimonianze iconografiche e letterarie disponibili». 32 G. Marangoni, Evoluzione storica e stilistica della moda. Dalle antiche civiltà mediterranee al Rinascimento, Milano 1977, pp. 59-87. Cfr. C. Giorgetti, Manuale di Storia del Costume e della Moda, Firenze 1992, p. 74: «I poemi omerici fanno cenno agli indumenti maschili e femminili sempre citando il termine “tunica”; il termine “peplo” sarebbe invece da attribuire al vestiario femminile». Cfr. S. Piccolo Paci, Parliamo di moda. Manuale di storia del Costume e della moda. Dalla Preistoria al Trecento, I, Bologna 2004, pp. 70-76: «L’abbigliamento greco segue uno sviluppo corrispondente a quello che avviene contemporaneamente nella società e nell’arte e gli studiosi sono concordi nel riconoscere tre periodi principali: periodo arcaico (750-500 a.C.), periodo classico (500-323 a.C.), periodo ellenistico (323-31 a. C.) […]. In età classica il capo-base dell’abbigliamento maschile e femminile era il chitone. Normalmente il chitone è composto da due teli rettangolari di lino cuciti assieme sui lati lunghi e parzialmente su uno dei lati corti, in modo da formare tre aperture, due per le braccia e una per la testa. […] Il peplo è forse il termine con il quale si può indicare l’abito dorico, fissato con spilloni, per il quale nome però non vi è certezza letteraria, in quanto esso si trova spesso usato nelle opere omeriche, ma non identifica una veste precisa, sebbene sembri indicare sempre una veste femminile».


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Nella Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro e nella spiegazione di un proverbio greco, peplo rovente di Zenobio, è riassunto il mito, al centro delle Trachinie di Sofocle, dell’abito intriso col sangue del centauro morente Nesso, che Deianira manda al marito Eracle: il vestito è chiamato ora peplo, ora chitone33. In un episodio, invece, del romanzo di Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte, è ripetuto più volte solo il termine peplo in riferimento alla tunica femminile34. La parola chitone, probabilmente di origine semitica, designava tra i Greci del periodo arcaico una specie di tunica “di sotto”, fermata su un fianco da una cucitura ed è assimilabile al termine aramaico kitoneth, che sta a indicare un tessuto di lino. Dalla Fenicia questa tipologia passò presumibilmente in Caria, dove si diffuse tra gli Ioni dell’Asia Minore35. Il chitone del periodo classico era costituito da un drappo di lino, o più comunemente di lana, avvolgente la persona. Puntato variamente da spilloni o fibule d’oro e d’argento o da cuciture, in modo da conferire una linea sciolta e morbida, aveva definizioni diverse, a seconda che venisse fissato su entrambe le spalle, chitone amphimàschalos, o su una spalla soltanto, chitone eteromàschalos. Questo tipo di veste era di lunghezza variabile e se arrivava fino alla caviglia era detto podéres36. Talvolta il chitone, come il cosiddetto peplo, era formato da teli assai più lunghi della persona; l’eccedenza in lunghezza veniva rappresa mediante una o due cinture di cuoio o di corda, che producevano un vaporoso rimbocco in vita. Tale rimbocco era denominato Kolpós37, mentre sulla parte superiore dell’indumento, grazie al sapiente uso di spilloni o fibule, che trattenevano sulle spalle il tessuto, poteva formarsi una specie di balza detta diploide38. Un’accurata trascrizione di queste particolari fogge, che poteva assumere il costume greco, è rilevabile nell’“abbigliamento angelico” di Valencia. 33

Pseudo-Apollodoro, Biblioteca 2, 151-2 e 157-60; Zenobio 1, 33; De Martino, Abiti quotidiani cit., pp. 15 e 48. 34 A. Tazio, Leucippe e Clitofonte V, 3, 4-7; A. Di Pasquale, Mitologia su stoffa, in Abiti da Mito cit., pp. 184-185: «Mi trovavo per caso davanti allo studio di un pittore. Voltatomi, vidi lì un quadro che conteneva allusioni a un fatto simile; tema del dipinto era lo stupro di Filomela, la violenza di Tereo e il taglio della lingua. Il dramma vi era rappresentato in ogni sua parte: il peplo (Ô p®plo@), Tereo, la mensa. Una schiava, in piedi, teneva il peplo spiegato (tšn p®plon ºplwm®non eÅst>kei kratoäsa qer¡paina). Accanto a lei, Filomela indicava puntando il dito i disegni del ricamo.[…] Così il pittore aveva rappresentato il disegno ricamato sul peplo (ÿde men tìn toä p®plou graf>n ëfhnen Õ zwgr¡fo@)». 35 Giorgetti, Manuale di Storia cit., pp. 72-74. 36 Ibid.; cfr. Piccolo Paci, Parliamo di moda cit., p. 72. 37 Marangoni, Evoluzione storica cit., p. 74; cfr. Piccolo Paci, Parliamo di Moda cit., p. 78. 38 Giorgetti, Manuale di Storia cit., p. 79.


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Nella Grecia classica coloro che indossavano il chitone stretto in vita con ricche fasce dette mitre erano chiamati “dai chitoni mitrati”(mitrochítones)39; se osserviamo le sopravvesti degli Angeli della cattedrale valenciana, esse risultano cinte da preziose fasce di seta. Il chitone della corrente ionica, avvalendosi nella maggior parte dei casi di un tessuto leggero come il lino, si arricchì di fitte pieghettature e, a partire dal V secolo, splendida epoca, inizialmente caratterizzata dai canoni del periodo “severo”, cui seguì l’affermazione del classicismo, i tessuti pieghettati furono sostituiti da corposi e fluenti panneggi40. Esempi particolarmente significativi sono le Due Cariatidi dell’Acropoli di Atene e il ciclo delle Menadi attribuito a Callimaco [Fig. 46]: in particolar modo in quest’ultimo esempio, le figure sono assorbite, quasi cancellate, nel vortice dei veli ritmicamente agitati intorno ai corpi. I solchi fitti delle pieghe, rifluendo in onde ritmiche, formano aloni di luce vibrante41. Questa complessità di panneggi si ritrova nelle eleganti sopravvesti di velluto, bordate da lampassi dorati, degli Angeli musicanti di Valencia. Essi, muovendosi con slancio, le agitano ritmicamente, facendole aderire in alcuni punti al corpo, mentre in altri, il soffio del vento ne gonfia i bordi. Fogge simili a queste sopravvesti si riscontrano in numerose opere rinascimentali che raffigurano Angeli o figure mitologiche: «nel Rinascimento tutte quelle figure che stanno fra il mitico e l’irreale, primi fra tutti gli

39

De Martino, Abiti quotidiani cit., p. 16: Ateneo (12, 523d) riferisce, a proposito dell’abbigliamento degli abitanti di Siri, che «Divenne infatti un loro caratteristico costume indossare tuniche dai ricami multicolori, stringendole alla vita con ricche fasce dette mitre – ragion per cui le genti vicine li chiamavano dai chitoni mitrati (mitrochítones) – in conseguenza del fatto che Omero chiama dai chitoni non mitrati (amitrochítones) quelli che non usano cinture». Cfr. Piccolo Paci, Parliamo di moda cit., p. 79: «Per sistemare le vesti venivano usate cinture e stringhe, sia in tessuto che in pelle. Al pari delle fasce per il seno, anche le cinture venivano riccamente decorate e potevano avere più significati, non solo funzionali ma anche simbolici: la cintura poteva essere anche un talismano di protezione, cingendo il corpo lo “isolava” magicamente dai pericoli; poteva poi essere simbolo di verginità e di maternità e per questi motivi veniva donata alle dee che proteggevano il focolare e la gravidanza». 40 Giorgetti, Manuale di Storia cit., pp. 74-78. 41 Un esempio di quanto fosse diffuso l’uso di vesti drappeggiate lo ritroviamo in Ateneo 12, 523 c. L’autore riferisce che Iberi e Marsigliesi usano vesti tragiche, sia pure con esiti differenti: «Per contro gli Iberi, anche se avanzano drappeggiati in vesti degne di attori tragici, a vivaci ricami, e portano tuniche lunghe fino ai piedi, non sono affatto ostacolati da questo nel combattere con vigore; gli abitanti di Marsiglia invece, che adottano il medesimo abbigliamento degli Iberi, sono caduti nell’effeminatezza»: De Martino, Abiti quotidiani cit., p. 16.


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Angeli, sembrano portarsi dietro la polvere dell’antichità dove la religione e la mitologia si mescolavano»42. Tra gli innumerevoli esempi cui poter fare riferimento, si possono citare le vesti dei Putti musicanti di Agostino di Duccio, scolpiti lungo il pilastro della Cappella di Isotta, nel tempio Malatestiano a Rimini [Fig. 47]; o le vesti degli Angeli che volteggiano in circolo, sullo sfondo di una raggiera d’oro nella parte superiore della Tavola di Sandro Botticelli, Pala di San Marco [Fig. 48]. In riferimento alle vesti delle figure mitologiche, invece, un mirabile esempio è la tempera su tela di Andrea Mantenga, Il Parnaso [Fig. 49]: qui la scena raffigura le divinità greche che danzano in circolo sullo sfondo di un paesaggio naturale. Il centro della composizione è occupato dalla danza delle nove muse ispirate da Apollo che suona la lira: il gruppo dominante delle leggiadre danzatrici, che presiedono alle arti e alle scienze, indossa l’antico chitone. Nella tavola di Botticelli, Natività mistica, conservata presso la National Gallery di Londra, gli Angeli, che volteggiano in circolo nella parte superiore della composizione, indossano vesti simili. «Ormai, nel Rinascimento, l’iconografia angelica è del tutto formata. […] Anche se l’abbandono di una tipologia non è mai definitivo nell’ambito della produzione artistica, […] gli artisti, che oltretutto devono aver perduto cognizione di gran parte delle implicazioni simboliche relative alla veste angelica del primo Cristianesimo, possono tranquillamente forzare la mano e assecondare il gusto per la classicità»43. Anche i motivi decorativi, che ornano i bordi di maniche, tuniche e cintole degli Angeli di Valencia, traggono ispirazione dalle decorazioni di gusto classicheggiante. La decorazione greca era formata da ricche, svariate e ritmiche composizioni. È assai arduo enumerare tutti i particolari che contribuivano a caratterizzare lo stile decorativo greco. Per citare qualche esempio, vi sono motivi tratti dalla flora (acanto, lauro, edera, aloe, ecc…) e motivi geometrici costruiti intersecando tra di loro linee dritte, spezzate, curve: l’impiego di tali decorazioni, così esteso nell’arte ellenica, ha fatto loro meritare il nome di “greche”44. A tal proposito, significativa è l’Anfora geometrica del Dipylon di Atene [Figg. 50-50a] e questo particolare motivo decorativo lo ritroviamo su alcuni bordi di sopravvesti e tuniche degli Angeli di Valencia [Fig. 51].

42 43 44

M. Bussagli, Storia degli Angeli, Milano 1995, p. 184. Ibid., pp. 184-187. Marangoni, Evoluzione storica cit., p. 60.


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Da queste antiche idee, l’arte decorativa di tutti i tempi ha tratto ispirazione: il motivo decorativo della “greca” compare nel sottarco che incornicia la scena nell’affresco di Raffaello, Parnaso (Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura), ed è presente, per citare un altro esempio, nelle modanature tra il soffitto e la parete con fregio dipinto a grottesche in Casa Romei a Ferrara. L’elemento decorativo contribuisce, dunque, per gli artisti rinascimentali, ad evocare la classicità. Tra i motivi ornamentali classici, molto frequente è anche quello che compare sul bordo del Cratere con Amazzonomachia del V sec. a. C. [Fig. 52], proveniente da Ruvo e che possiamo ammirare nel Museo Nazionale di Napoli: tale decoro si può confrontare con il particolare ornamento sul bordo manica della tunica di una delle figure angeliche di Valencia [Figg. 7, 53]. Inoltre, tra gli elementi decorativi che ornano le loro sopravvesti e tuniche, notiamo anche caratteri grafici antichi di derivazione ebraica45 [Figg. 4, 54] e numerosi elementi vegeto-floreali presenti sulle maniche. Nei tessuti rinascimentali era ricchissimo il repertorio dei decori naturalistici, come ad esempio la palma o “l’albero della vita”, la melagrana, il loto, la pigna, il fiore di cardo, la quercia, le foglie d’acanto, la vite, il cappero, la rosetta, fino al tulipano e al garofano. Fra tutti questi motivi ornamentali, nel Quattrocento era dominante quello del melograno, delle foglie, dei fiori e del frutto46. Il melograno era, secondo alcuni, originario dell’Africa settentrionale (Punicum granatum è il suo nome latino) e dell’Asia Occidentale e, comunque, il suo uso era largamente esteso nelle regioni mediterranee; nelle antiche religioni orientali simboleggiava immortalità, fecondità, fertilità e abbondanza47. La religione cristiana ha assunto il simbolismo della fecondità sul piano spirituale e la melagrana è spesso accostata alla figura di Maria, alludendo alla “fruttuosa virtuosità”, mentre il colore rosso sanguigno dei chicchi allude al sacrificio di Cristo e al martirio48. Il disegno della melagrana veniva realizzato sui tessuti più costosi, come i velluti e gli scintillanti broccati d’oro, destinati ad essere impiegati 45 46

Marías, Affreschi nella cattedrale di Valencia cit., p. 50. D. Davanzo Poli, Il naturalismo decorativo delle stoffe occidentali, «Quaderno», 7 (1995), p. 21. 47 Ibid. 48 Ibid.; cfr. R. Bonito Fanelli, The Pomegranate Motif in Italian Renaissance Silks: a Semiological Interpretation of Pattern and Color, in La seta in Europa Secc. XIII-XX, Atti della XXIV settimana di Studi dell’Istituto F. Datini, cur. S. Cavaciocchi, Firenze 1993, pp. 507530; cfr. R. Orsi Landini, Alcune considerazioni sul significato simbolico dei velluti quattrocenteschi, «Jacquard», 33 (1997), p. 4; cfr. Orsi Landini, La seta, in Storia d’Italia cit., p. 378.


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nelle cerimonie fastose di corte e nelle occasioni più solenni della Chiesa. Il motivo della melagrana connotava, dunque, “lusso-potere-sacralità”49. Il motivo base del disegno, che caratterizzava il decoro naturalistico dei tessuti rinascimentali, era racchiuso entro cornici di forma ovoidale, mentre il soggetto predominante, tra cui la melagrana, o il fiore di cardo o di loto, o la pigna, dominava la parte centrale della decorazione. Se si osserva la parte alta della manica in velluto broccato dell’Angelo con il doppio flauto, si può notare il motivo decorativo costituito da un fiore di cardo centrale, con elementi vegeto-floreali che si stagliano attorno: foglie d’acanto, fiorellini a sette petali e bacche [Figg. 11, 55]. La melagrana rinascimentale, raffigurata con l’elemento in sommità ad imbuto, da cui si fa uscire un ciuffo di fiori, è spesso confondibile con l’immagine del fiore di cardo50. Il particolare decorativo presente nella zona superiore della manica nell’Angelo con l’organo portatile, invece, raffigura una mezza pigna al di sotto della quale c’è l’elemento floreale circondato da foglioline [Figg. 5, 56]. La pigna, come la melagrana, simboleggia l’abbondanza per i suoi numerosi e commestibili semi nascosti51. Tra i motivi decorativi, purtroppo non sempre chiaramente leggibili, delle “vesti angeliche” di Valencia compaiono anche foglie d’acanto, spighe, melagrane e uva52 [Figg. 10, 57]. Chiaramente leggibile è, invece, il decoro 49

R. Bonito Fanelli, Il motivo della melagrana nei tessuti italiani al tempo di Piero della Francesca, in Tessuti italiani al tempo di Piero della Francesca, Catalogo della Mostra (Sansepolcro, 7 maggio - 31 agosto 1992), cur. R. Della Rina - G. Puletti, Sansepolcro 1992, pp. 36-37. 50 Davanzo Poli, Il naturalismo decorativo cit., p. 21: «Tale erba molto comune, di carattere spontaneo, rintracciabile ovunque dall’Europa, all’Africa, al Giappone, era anche soggetta a coltura, essendo i suoi “fiori” o “capolini” essiccati adatti a cardare e a pettinare la lana. La sua natura spinosa ne ha fatto emblema di austerità e misantropia, ma l’aspetto raggiato della sua cima gli conferisce un valore completamente diverso, in relazione all’irraggiare della luce. […] L’associazione con l’incoronamento di spine di Cristo, ne ha fatto anche simbolo della Passione». Cfr. Orsi Landini, Alcune considerazioni cit., p. 4. 51 Davanzo Poli, Il naturalismo decorativo cit., p. 21. Cfr. Orsi Landini, Alcune considerazioni cit., p. 4: «La pigna può essere il frutto del pino, simbolo della benignità, della generosità, di purezza di vita interiore. Ma la pigna è anche il frutto del cedro del Libano, l’albero da cui, secondo la tradizione, fu tratto il legno della croce. […] Come la melagrana, la pigna, che contiene molti frutti, è usata anche come simbolo della Chiesa di Cristo, interprete della Rivelazione». 52 Cfr. J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, pp. 383 e 423. Cfr. Davanzo Poli, Il naturalismo decorativo cit., p. 21: «Il motivo decorativo dei rami e delle foglie d’acanto, come tutte le erbe provviste di spine, è simbolo di terra non coltivata e quindi di verginità. […] La pianta della vite nelle più antiche religioni si identifica nell’albero stesso della vita. Il suo simbolismo è altamente positivo, tanto che il Cristo si riconoscerà in essa».


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presente sulla parte alta della manica in velluto blu broccato in fili di seta dorati dell’Angelo con il salterio a corde pizzicate [Figg. 3, 58]. All’interno di una cornice polilobata con decori esterni vegeto-floreali, vi è un mazzo di fiori costituito da tre tulipani e due gigli legati da nastro: il giglio è simbolo di purezza53. Nella tavola San Paolo e San Maurelio con Bartolomeo Roverella dipinta da Cosmè Tura e conservata presso la Galleria Colonna di Roma, si rileva una decorazione simile nella parte alta del piviale indosso al santo [Fig. 59]. Tutte le tipologie ornamentali di carattere naturalistico presenti sulle maniche delle “vesti angeliche” di Valencia, le ritroviamo in numerose opere pittoriche rinascimentali. In alcune di esse è ben evidente la presenza di preziosi ricami e broccature d’oro con il motivo dell’infiorescenza, simbolo di rinascita e vita eterna, posizionato sulla parte alta del braccio. La ritrattistica fiorentina del tempo offre una panoramica completa dei più preziosi tessuti serici prodotti in città in quel periodo. Le donne, generalmente nei loro abiti di matrimonio, sono dipinte di profilo e a mezzo busto, ma l’inquadratura è sufficiente a una descrizione completa e dettagliata delle ricchezze che indossano54. Il Ritratto femminile di Piero del Pollaiolo è solo uno tra i tanti esempi che si potrebbero citare [Fig. 60]. La struttura caratteristica dei tessuti rinascimentali, impostata su uno schema a rete di maglie ovali a doppia punta, dove, all’interno di ogni scomparto, era racchiuso il motivo decorativo centrale, si contrapponeva alla fantasia medievale con una concentrazione su alcuni temi. A partire dalla metà del Quattrocento furono elaborati i due disegni fondamentali: la “griccia” e il “cammino”55. Questi due termini compaiono nel Trattato dell’arte della seta del 1487, opera di un anonimo setaiolo fiorentino: in questo “trattato” il setaiolo illustrò con grande chiarezza il particolare mo-

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Cfr. Hall, Dizionario cit., p. 200. Orsi Landini, La seta cit., pp. 379-380. M. Carmignani, Tessuti, Ricami e Merletti in Italia, Milano 2005, p. 18. Cfr. C. Buss, Problemi di datazione e attribuzione: approccio interdisciplinare, in Tessuti serici italiani 1450-1530 cit., pp. 17-18: «Il disegno detto a griccia ha origine, secondo il Cox, a Venezia e l’attribuzione è accettabile, in mancanza di una documentazione più precisa, in base al raffronto con i disegni nei velluti veneziani tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, ed è ulteriormente avallata dai due disegni, rispettivamente di Jacopo Bellini e del Pisanello (Parigi, Museo del Louvre) in cui appare già evidente la struttura a griccia. Nella seconda metà del Quattrocento però, questo disegno, sempre abbinato alla tecnica sopradescritta, è prodotto in gran quantità a Firenze, ed è infatti un setaiolo di quella città che ci fornisce la descrizione e del disegno e della tecnica di tessitura, a Genova ed in Catalogna»; cfr. R. Cox, Les soieries d’art depuis les origines jusqu’ à nos jours, Paris 1914, p. 140.


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tivo decorativo “a griccia”56 e anche se la terminologia, come è stato specificato da alcuni studiosi57, è impropria, in quanto la “griccia” è un modo di montare il telaio e non un disegno, è stata usata comunemente dagli storici del tessuto per distinguere questa produzione dall’altra contemporanea detta “a cammino”58. I velluti quattrocenteschi con il fondo d’oro e con il disegno “a griccia” li troviamo raffigurati con meticolosa cura nei baldacchini o dossali della Vergine in trono, nelle vesti di alti prelati, di angeli, di regnanti59. Un mirabile esempio è il pannello centrale del Trittico di San Giovanni, Madonna in trono con Bambino e quattro santi, opera di Hans Memling [Fig. 61]. Tale tipologia disegnativa, seppur non chiaramente leggibile, sicuramente è presente anche sulle vesti delle figure angeliche di Valencia. Il disegno della composizione “a griccia” è costituito da un tronco ondulato con andamento verticale culminante in un’ampia foglia a cinque o più lobi, contenente la pigna, il cardo, la palmetta o la melagrana, comunque definiti dalla nomenclatura corrente “motivi a melagrana”60. Gli studi sono concordi nell’attribuire la derivazione di questo decoro agli schemi orientali, interpretazione del fior di loto delle stoffe cinesi, definite negli inventari ad pineas e la dipendenza del tronco dai più sottili tralci presenti nelle sete cinesi61. L’altra tipologia decorativa, che il setaiolo fiorentino nel 1487 definì “a cammino”, utilizzando anche in questo caso un termine tecnico che con il tempo è andato a caratterizzare il disegno, è costituita da un motivo specu-

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I capitoli più significativi del Trattato dell’arte della seta sono stati pubblicati in M. Bussagli, La seta in Italia, Roma 1986. 57 Cfr. Orsi Landini, Alcune considerazioni cit., p. 2 nota 1. 58 Carmignani, Tessuti cit., pp. 28-31. 59 Orsi Landini, Alcune considerazioni cit., p. 2. 60 Carmignani, Tessuti cit., p. 28. Cfr. Butazzi, Elementi “italiani” nella moda cit., p. 56: «Nelle liste di corredo, gli abiti sono indicati quasi sempre con la tipologia dei tessuti utilizzati, senza precisazioni sul disegno. Si può però assumere che il brochato d’oro o d’arzento, ricorrente in sfarzosa sequenza nei corredi signorili senz’altra indicazione che il colore del fondo, sia riferito a tessuti operati che, secondo i suggerimenti dell’iconografia, riguarderebbero principalmente l’adozione di disegni a grandi motivi, definiti dalla tradizione ottocentesca, tout court, del melograno». 61 Carmignani, Tessuti cit., p. 28; cfr. F. Podreider, Storia dei tessuti d’arte in Italia, Bergamo 1928, p. 109; cfr. R. De Gennaro, Velluti operati del XV secolo con il motivo delle «gricce», Firenze 1985, p. 3; cfr. Orsi Landini, Alcune considerazioni cit., pp. 2-6: il tronco serpentinato è il simbolo della croce, il lignum vitae, che rinasce e si rigenera nel frutto della melagrana, in tutte le culture riconosciuta come segno di fertilità, ma anche di resurrezione e di eternità. In questa lettura cristologica il fondo oro diventa la luce e la rivelazione e il rosso il colore dell’amore divino.


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lare, composto da una teoria di grandi cornici polilobate, tangenti tra di loro, disposte lungo l’asse orizzontale e allineate anche in verticale. Esse racchiudono al centro una pigna fiorita o fiore di cardo, di melagrana, o una palmetta che, come nel caso precedente, rientrano nella tipologia “a melagrana”62. Il decoro dei tessuti rinascimentali, dunque, più che vario era costruito all’interno di uno spazio delimitato, secondo una concezione di equilibrio e il disegno si svolgeva con ordine, mentre la materia tessile preferita era il velluto, che esaltava la superficie mediante il rilievo63. I ricchi e pregiati velluti operati utilizzati nel Rinascimento si caricavano di valori simbolici non solo legati al motivo della melagrana, ma anche per le complesse elaborazioni tecniche e per i preziosi materiali che, nel corso dei vari decenni, furono utilizzati da esperti tessitori veneziani, fiorentini, milanesi e genovesi64. I drappi vellutati possono essere concepiti quasi come una scultura a basso rilievo, perché il velluto, anche nella sua accezione più semplice, unito e tagliato, ha una terza dimensione e un peso notevole. Il peso corrispondeva alla quantità di materiale prezioso utilizzato, seta e spesso oro, mentre i disegni dei velluti quattrocenteschi si riducevano a un ventaglio ridotto di tipologie, legate ai simboli della Passione di Cristo, della Resurrezione e della vita eterna, come nel prezioso velluto “a griccia”65. La cornice che racchiudeva l’elemento centrale si arricchiva sempre più fino a diventare una fitta ghirlanda fiorita, costituita da numerosi elementi vegetali: fiori e fitte foglioline, come è possibile ammirare sulle vesti in velluto broccato degli Angeli musicanti di Valencia.

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Carmignani, Tessuti cit., p. 31. Ibid., p. 19. Peri, Il gusto e lo sfarzo cit., p. 83. Cfr. A. Quattrocchi, Alessandro VI: il cerimoniale del possesso tratto dai modelli dell’antico trionfo, in Roma di fronte all’Europa cit., II, p. 608: «I velluti di seta neri dopo quelli di colore rosso erano i più pregiati e rappresentavano la massima pompa nell’abbigliamento cerimoniale. La preziosità derivava dal peso, dalla lavorazione e dalla difficoltà nell’ottenere il colore “nigro” così come il damasco, caratterizzato dalla giustapposizione di motivi lucidi e opachi di chiara origine orientale (nella duplice, vivace compresenza del verde e del pavonazzo) manifestava, in maniera evidente nella ricercatezza del tessuto della veste, l’eccellenza del personaggio e del suo ruolo nel contesto politico e sociale». 65 Ibid.; cfr. C. Buss, Velluti. Collezione Antonio Ratti, Milano 1996, p. 10; cfr. R. Orsi Landini, All’origine della produzione moderna: il differenziarsi della produzione per l’abbigliamento e arredamento nei velluti fra Cinque e Seicento, in Velluti e moda tra XV e XVII secolo, Catalogo della Mostra (7 maggio - 15 settembre 1999), cur. A. Zanni - M. Bellezza Rosina M. Ghirardi, Milano 1999, pp. 17-22.


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Per quel che riguarda le stoffe, oltre ai decori, altra particolarità dei secoli XV e XVI erano i tessuti “sforbiciati”: la caratteristica richiesta a questi tessuti era quella della compattezza e del peso66. Di solito si usavano orditi e trame di seta tinta in due colori diversi al fine di evidenziare i tagli, realizzati anche nelle forme più inconsuete, ma sempre con lo scopo di far risaltare il contrasto cromatico, come si può notare sulle maniche delle “vesti angeliche” di Valencia. I tagli erano eseguiti dal sarto per mezzo di forbici, oppure utilizzando minuti punteruoli affilati; dopo la tessitura si eseguiva l’operazione di taglio sulla stoffa per realizzare il decoro67. In pieno Quattrocento l’impiego dei tessuti “sforbiciati” era frequente soprattutto nelle maniche di vesti e sopravvesti sia maschili, che femminili: la fenditura poteva partire dall’attaccatura fino al gomito e anche oltre, fino al polso. Se osserviamo gli Angeli di Valencia, questa moda quattrocentesca è facilmente riscontrabile lungo le maniche delle loro vesti [Fig. 9]. Nel corso del XV secolo le leggi suntuarie di varie città cercarono di impedire l’impiego di questi tessuti “sforbiciati”, perché i tagli implicavano sprechi di stoffa68. Le proibizioni venivano però ignorate dalla moda del tempo che, invece, induceva il sarto a creare sempre più nuove forme ornamentali, che così raggiungevano splendidi effetti di virtuosismo: una significativa testimonianza iconografica è la tavola di Vittore Carpaccio Due dame (1493-1495 ca.) conservata presso il Museo Correr di Venezia [Fig. 62]. Questi tagli, noti con il grazioso nome di “finestrelle”, inizialmente furono creati con lo scopo di dare libertà ai movimenti ma, in seguito, giocarono un ruolo decorativo fondamentale69. Le maniche erano tagliate e cucite a parte e spesso risultavano allacciate all’abito attraverso le magiette, o magliette, o mazete, da non confondersi con

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D. Davanzo Poli, Tessili antichi a Treviso, in Tessuti Antichi. Tessuti - Abbigliamento - Merletti - Ricami - secoli XIV-XIX, Catalogo della mostra (Treviso, 16 giugno - 13 novembre 1994), cur. Davanzo Poli, Treviso 1994, p. 12. 67 Ibid. 68 Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 469. 69 Ibid., p. 395. Cfr. Butazzi, Elementi “italiani” nella moda cit., p. 59: «La manica aveva avuto in Italia un sensibile ridimensionamento dopo il 1460, a conclusione della grande fioritura nel primo Quattrocento di maniche “ad ale” o «a guarnazzone». Le maniche tornano strette (strette o pizinine è l’indicazione nei corredi), spesso uscenti da quelle più ampie della sopravveste. [...] L’aderenza della manica, condotta all’estremo, diviene pretesto per una serie di tagli, prima in senso trasversale e in seguito anche longitudinale, attraverso i quali compare il tessuto sboffante della camicia. [...] Questa tendenza che si approfondisce durante gli anni Ottanta e Novanta, sembra avviarsi alla sua conclusione verso la fine di questo decennio».


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le asole, perché queste ultime erano più grandi70. Nelle magiette si passavano dei cordoncini forniti di puntali preziosi detti agugielli: il nome poi passò a designare il cordoncino stesso, che poteva essere di tessuto prezioso71 e ciò è evidente su alcune maniche delle “vesti angeliche” di Valencia [Figg. 2, 63]. Magiette e agugielli rotondi erano inseriti e cuciti nella stoffa; negli inventari le magiette o mazete potevano essere elencate anche a filze72. Bottoni e asole, invece, sono ben evidenti lungo la manica dell’Angelo con la chitarra [Figg. 9, 64]73 e nella parte alta del braccio nell’Angelo con lo strumento a fiato (chirimía) [Figg. 10, 57]. Le maniche, dunque, staccabili e allacciate all’abito per mezzo di nastri o bottoni, mettevano ben in vista ampie porzioni della camicia sottostante che, in alcuni casi, così come è attestato dai corredi quattrocenteschi, poteva essere ornata di ricami d’oro74. Le maniche staccabili, confezionate con tessuti diversi dal resto dell’indumento, avevano anche il vantaggio di essere intercambiabili e adattabili a più di un abito75: «l’uso di “mutar maniche” era così diffuso e radicato nel costume che divenne sinonimo di “cambiare situazione”. L’espressione italiana “è un altro paio di maniche”, dipende proprio dall’abitudine quattrocentesca di cambiare letteralmente le maniche della veste, secondo il tipo di situazione da affrontare»76. Per le maniche staccabili, concepite inizialmente con lo scopo di fare economia, venivano utilizzati i tessuti più ricchi, di solito seta e spesso broccati o ricamati d’oro: la preziosità delle maniche è testimoniata dalla loro registrazione in alcuni corredi di nozze del Quattrocento77. 70 71

Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 395. Ibid.; cfr. Bussagli, Storia degli Angeli cit., p. 149; cfr. P. Venturelli, Gioielli e gioiellieri milanesi. Storia, arte, moda (1450-1630), Milano 1996, p. 169. 72 Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 396. Cfr. M. Bellezza Rosina, Tre corredi inediti della seconda metà del Quattrocento, in Tessuti serici cit., p. 64: «L’inventario (8 giugno 1462) è stato pubblicato da Alessandro Giulini nel “Bollettino R. deputazione di storia patria per l’Umbria” del 1911. […] Item paro uno de maniche de damaschino verde et argento con le mazete de argento. Item paro uno de maniche d’oro cremexi in damaschino con le mazete de argento. Item paro uno de maniche de veluto morello soyro con le mazete de argento. Item paro uno de maniche de veluto verde soyro con le mazete de argento. Item paro uno de zetonino velutato cremexili con le mazete de argento. […]». 73 Cfr. Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 396: nel Quattrocento i bottoni sono più frequenti, fino alla fine del secolo, soprattutto nel costume maschile: di oro per i più ricchi, per gli altri in argento dorato o in argento. 74 Ibid., p. 272. 75 Orsi Landini, La seta cit., p. 379. 76 Bussagli, Storia degli Angeli cit., p. 151; cfr. Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 273. 77 Nella descrizione del corredo di Eleonora d’Aragona si legge un «monile de veludo


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Questa moda di impreziosire le maniche dell’abito non era comunque esclusivamente femminile e ciò è testimoniato anche dagli inventari, dalle cronache, dai libri di conti e dalle lettere (sia pubbliche, che private). Per citare un esempio, tra i numerosi gentiluomini al seguito di Hermes Sforza, fratello di Gian Galeazzo, duca di Milano, giunto nel dicembre 1488 per sposare per procura Isabella d’Aragona, compare il marchese Rolando Pallavicino che «aveva una manica carica di perle grosse da conto, Zafiri e balassi de pretio de 25 mila ducati»78. Per il matrimonio di Ludovico il Moro con Beatrice d’Este, avvenuto il 18 gennaio 1491, le maniche degli abiti di Gian Galeazzo e Ludovico erano così sovraccariche di gemme e perle da poter essere agevolmente valutate oltre centomila scudi d’oro79. Se osserviamo l’Angelo di Valencia che suona l’organo portatile è ben evidente il ricamo con perline su una manica affaldata della sua veste [Figg. 5, 56]: altra consuetudine del tempo era quella di ripiegare una sola manica, affaldarla, come si diceva. Questo uso rispondeva al gusto quattrocentesco di interrompere la simmetria della veste, affinché non risultasse monotona80. Un altro chiaro esempio di manica staccabile e affaldata è offerto dall’Angelo musicante con il salterio a corde pizzicate [Figg. 3, 58]. Nell’insieme, dunque, le vesti dei dodici Angeli sono una preziosa testimonianza tutta rivolta “a mettere in musica” un’affascinante sinfonia che riflette il gusto estetico dominante nel Rinascimento: per alcuni aspet-

negro cum una manega longa, cioè la manega stanca, rechamada de perle fodrà de taffettà negro»: Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 273. Cfr. Venturelli, Gioielli e gioiellieri cit., p. 168: «Malgrado non sia dichiarato, è facilmente comprensibile il valore della manica inserita nella lista dotale del 1465 di Ippolita Sforza, figlia di Francesco duca di Milano, sposa ad Alfonso, figlio del re Ferdinando d’Aragona, con l’impresa della “muraglia” ricamata con 108 perle di diversa grossezza e quattro rubini legati in “bottoni”». Cfr. Bellezza Rosina, Tre corredi inediti cit., pp. 65-68: «Nel corredo datato 14 marzo 1489 delle seconde nozze di Chiara Sforza con Fregosino da Campofregoso compaiono […] Balassi tre sopra una manega in lavore de recame ducati sexanta el pezo […]. Albore uno in recamo alla dicta manega cum diamante uno a losenghe facte a facete ducati ducento. […] Roseta una de robini posta nel recame de dicta manega ducati sexanta. […] In la qual suprascripta manega sono anchora altre gioie ut infra in le zoie donate per il predicto illustrissimo Fregosino. […] Recamo uno de perle sopra a una manegha de la quale sopra se fa mentione in la manegha del recamo del arbore posso essere da once trentasci in quaranta che valeno ducati dece per onza sono ducati quattrocento. […] Smeraldo uno quadro facto a facete ducati vinti quale nove poste suprascripte sono insiema in la manegha et recamo suprascripto […]». 78 P. Venturelli, “Non si vedeva se non broccati d’oro, d’argento, e gioie”. Forme e funzioni del lusso alla corte sforzesca (1488-1500), in Bona Sforza cit., p. 69. 79 Venturelli, Gioielli e gioiellieri cit., p. 169. 80 Levi Pisetzky, Storia del costume cit., II, p. 276.


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ti esse risentono fortemente della tradizione classica e, per altri, rispecchiano fedelmente la superba eleganza del costume italiano dell’epoca.


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MARCO BUSSAGLI IL CORO ANGELICO DI VALENZA E I SUOI SIGNIFICATI

Non sembri ambizioso un titolo di questo tipo perché, in realtà, il significato del coro angelico di Valenza è del tutto evidente. La presenza di dodici angeli musicanti nel catino absidale del coro della cattedrale di Valenza, divisi da sei nervature dorate, è infatti chiaramente connessa ai versi del Salmo 150 che citano gli strumenti musicali per lodare Dio. Il riferimento non deve neppure essere dimostrato, tanto è palese e suffragato da una tradizione iconografica secolare, che annovera capolavori come la Maestà di Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima, dove una schiera di angeli musicanti si cimenta in melodie celestiali, come del resto fanno quei singolarissimi angeli musicanti appollaiati come uccelli sui rami degli alberi fronzuti nella Madonna con il Bambino e donatore di Gentile da Fabriano, conservata a Berlino. Nel Quattrocento, che è il secolo che ci interessa, poi, gli esempi si moltiplicano e vanno dai celebri gruppi del Polittico di Gand, dipinto da Jan van Eyck, al Polittico Roverella, agli angeli di Melozzo da Forlì che stavano in Santi Apostoli intorno alla Gloria del Redentore oggi murato nel palazzo del Quirinale, fino all’affollatissima cupola del Duomo di Saronno, dipinta da Gaudenzio Ferrari la quale, però, con il suo 1532, appartiene ormai al secolo successivo1. È appena il caso di ricordare che la medesima tradizione iconografica è ben presente in Spagna e a Valenza in particolare, con le medesime modalità. Basterà ricordare la Madonna del latte di Lorenzo Zaragoza, databile al 1390 e conservata presso il Museo della Cattedrale di Valenza, dove alcuni angeli suonano la ribeca, la lira da braccio, la mandola e l’organo portativo. Non diver1

Sul capolavoro di Lorenzetti e sui significati della musica: M. Bussagli - R. Simongini, La musica, Milano 2006 (I grandi temi della pittura, 21), pp. 18-19 e passim. Per il polittico di Gand, quello Roverella e gli angeli musicanti di Melozzo da Forlì: M. Bussagli, Storia degli Angeli. Racconto di immagini e di idee, Milano 2003, pp. 280-283. Per il grande affresco di Gaudenzio Ferrari: L. Lazzaroni - A. Artioli - A. Di Lorenzo - S. Boccardi, Il concerto degli Angeli. Gaudenzio Ferrari e la cupola del Santuario di Saronno, Cinisello Balsamo 1990.


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samente, nella scena dell’Incoronazione della Vergine dipinta da Pere Nicolau nel 1404, che occupa il registro superiore del Retablo con la Vita della Vergine, i due protagonisti sono circondati da una schiera di angeli musicanti. Possiamo poi ricordare la Madonna con Bambino e angeli, attribuita al Maestro di Bonastre, databile intorno al 1450 e conservata presso la Collezione Abello di Madrid. Infine, per rimanere ancora a Valenza ed attestarci su una data a ridosso di quella del coro, rammentiamo che la Madonna del latte di Valentì Montoliu, databile al 1460 e conservata nella chiesa di San Félix a Xàtiva, è pure circondata da angeli musicanti2. Tutte queste varianti trovano la giustificazione scritturale nel ricordato Salmo 150 nel quale si può leggere: «Alleluja, / Lodate il Signore e il suo santuario, / lodatelo nel firmamento della sua potenza, / lodatelo per i suoi prodigi, / lodatelo per la sua immensa grandezza, / lodatelo con squilli di tromba, / lodatelo con arpa e cetra, / lodatelo con timpani e danze / lodatelo sulle corde e sui flauti, / lodatelo con cembali sonori, / lodatelo con cembali squillanti, / ogni vivente la lode al Signore. Alleluja»3. Come si vede, il Salmo non cita gli angeli, ma tutta la tradizione patristica vi fa riferimento ed individua nel testo il punto di partenza per considerare quella musica di lode il modello della musica naturalis, ovvero l’armonia del cosmo e dell’anima, ben diversa da quella strumentale che gli uomini riescono a suonare nel maldestro tentativo d’imitare la prima4. Che ci sia un riferimento al Salmo è sicuro anche senza la presenza di uno strumento come l’organo portativo o portatile che compare quasi sempre in questi contesti. Come si è visto nella corretta traduzione dall’ebraico, che viene da quel capolavoro di esegesi che è il testo di commento ai Salmi di Monsignor Ravasi, l’organo non viene nominato. Né poteva essere altrimenti perché si tratta di uno strumento d’invenzione medievale. La sua presenza nell’iconografia dipende, com’è noto, dalla cattiva traduzione del termine ebraico ugab, che in realtà vuol dire “flauto”, ma che nelle versioni latine dei salmi venne reso come organum, parola latina che, in realtà, vuol dire “strumento” in generale e poi “strumento musicale” e che solo più tardi venne utilizzato per l’organo, come dire, lo “strumento musicale” per eccellenza5. Giusto in tempo

2 Per le opere citate, si veda: X. Company, La Época Dorada de la pintura valenciana (Siglos XV y XVI), Valencia 2007, pp. 34-36, 79-82, 151-153, 214-217. 3 Sull’esegesi del Salmo 150, l’ultimo del Salterio, si veda il celeberrimo testo di G. Ravasi, Il Libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, III, Bologna 1986, pp. 995-1006. 4 Sulla concezione della musica e sul rapporto fra questa e gli angeli musicanti: Bussagli, Storia degli Angeli cit., pp. 272-276. 5 Per gli strumenti citati nel Salmo e il rapporto con le traduzioni tradizionali: Ravasi,


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per costituire lo spunto per l’iconografia. La presenza di questo strumento, ovvero di un organo portativo con tanto di mantice, prova la bontà del nostro riferimento al Salmo. Non per nulla, al testo sacro rimanda pure la presenza del salterio, il nebel ebraico, ovvero la cetra orizzontale che la tradizione attribuisce a Davide come strumento musicale utilizzato per comporre i suoi versi6 [Fig. 4]. Anche il riferimento visivo al cielo stellato, si sposa perfettamente con il secondo verso del Salmo che invita: «lodatelo nel firmamento […]», al di là della concessione al gusto e alla moda di allora, di decorare le chiese e gli ambienti importanti con volte celesti trapunte di stelle, come in Santa Maria sopra Minerva, ma soprattutto come nella celebre Sala delle Stelle del Palazzo della Cancelleria di Rodrigo Borgia, come ha notato Adele Condorelli7. Fin qui gli elementi direttamente derivati dalla lettura del Salmo, come il riferimento alla danza. Le forzature, se così possiamo definirle, invece, stanno nell’aver portato a dodici il numero degli angeli con chiaro riferimento al percorso dell’anno, che può intendersi come l’invito ad una lode perenne e la presenza dei due angeli con le trombe, contigui all’arco trionfale, proprio a sottolineare questo annuncio della lode al Signore che regna sull’universo. Anzi, c’è in questi due angeli, come ha notato la Condorelli, un chiaro riferimento alla cultura classica perché gli angeli trombettieri, per postura e collocazione ricordano assai da vicino le Vittorie alate che ritroviamo su tanti monumenti romani, a cominciare dall’Arco di Costantino8. Del resto, anche le vesti tormentate dalle pieghe e le sciarpe di seta svolazzante rimandano alla classicità, come pure i singolari sbuffi intorno alle maniche che, come ho dimostrato altrove, proprio da lì derivano9. Piace anzi ricordare il bel rilievo della Cappella Basso della Rovere, che ha un corrispettivo nella lunetta pinturicchiesca con il medesimo soggetto, dove gli angeli hanno questa caratteristica veste che Paolo da San Leocadio anticipa di una quindicina d’anni e che poi lui stesso non utilizzerà più fino al

Il Libro dei Salmi cit., pp. 1004-1005. In particolare, per la traduzione di ugab come organum: p. 1004. 6 Ibid. 7 A. Condorelli, Paolo da San Leocadio y la Familia Borja, in Exposició La llum de les imatges, Lux Mundi, Xàtiva 2007, pp. 261-279. Per la questione del Palazzo della Cancelleria di Rodrigo Borgia, si veda: Ch. L. Frommel, L’architettura del Quattrocento romano, in M.G. Bernardini - M. Bussagli, Il ‘400 a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, Catalogo della mostra (Roma, Museo del Corso, 29 aprile - 7 settembre 2008), I, Milano 2008, pp. 22-24. 8 Condorelli, Paolo da San Leocadio cit., p. 272. 9 Bussagli, Storia degli Angeli cit., pp. 179-185.


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Christus patiens della Collección Serra de Alzaga, databile fra il 1495 ed il 1500 e all’Annunciazione della medesima raccolta, databile fra il 1505 ed il 1509. Va infatti notato che nella Vergine della Grazia della chiesa di San Michele a Enguera, gli angeli, che pure sono musicanti, vengono dipinti da Paolo da San Leocadio in abiti talari, secondo una tradizione iconografica decisamente fiamminga, come dimostra per esempio il vantaggioso confronto con gli Angeli musicanti di Hans Memling, nelle tre tavole dell’organo di Anversa, conservate presso il Koninklijk Museum voor Schone Kunsten10. Questo nostro intervento, tuttavia, non vuole affrontare il problema musicale, che sarà trattato in maniera più dettagliata dai contributi di Laura Mauri Vigevani e Joaquín Bérchez. Il nostro intento era quello di sottolineare come il significato primario degli affreschi fosse quello della lode a Dio ed alludesse alla rappresentazione dell’armonia del creato da intendersi anche in termini temporali (dodici angeli dodici mesi) e cosmica (la volta celeste). Il vero problema che vogliamo affrontare è quello della posizione delle ali degli angeli, che non può passare inosservata e per il quale si può proporre una lectio facilior ed un’ipotesi ben più sofisticata, ma forse, proprio per questo, più veritiera. Nel primo caso, infatti, ci si dovrà limitare a dire che non v’era altro modo d’incastrare le figure angeliche e che per una mera ragione compositiva si dovette ricorrere alla singolare posizione di un’ala protesa in avanti e di un’ala reclinata verso il basso. Per la verità, si sarebbe potuto semplicemente reclinarle ambedue verso il basso riempiendo lo spazio rimanente con un motivo decorativo, con la stilizzazione della luce, che proviene dal gruppo centrale dei serafini, oppure con i nastri delle vesti o, ancora, con altre soluzioni, che avrebbero potuto evitare la postura sicuramente innaturale delle ali. Nasce, allora il legittimo sospetto che possa esserci una ragione teologica o testuale che abbia spinto il committente ad individuare una soluzione di questo tipo. Una ragione che, nel corso del dibattito emerso dagli interventi del Convegno, è stata sicuramente confermata, almeno per quanto riguarda gli intenti simbolici esperiti nel corso del XVII secolo11. Tuttavia, quand’anche non ci fosse, sarebbe assai difficile cedere alla lectio facilior,

10

Per il rilievo della Cappella Basso della Rovere: ibid., p. 185. Sulle ricordate opere di Paolo da San Leocadio: Company, La Época Dorada de la pintura valenciana cit., pp. 262286 e 300-302. Su Memling: G.T. Faggin, L’opera completa di Hans Memling, Milano 1969, pp. 100-101. 11 Si vedano gli interventi di Joaquín Bérchez e Mercedes Gómez-Ferrer in questo stesso volume relativi al simbolismo della cattedrale come Tempio di Salomone: «Vestir a lo


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che sarebbe dovuta essere ragione unica e sufficiente per un’impresa che durò ben tre anni, e che doveva costituire, come in effetti fu, la gloria stessa della cattedrale. Per cercare una ragione che non sia banale, bisogna partire dalla constatazione che l’iconografia dei cherubini, gli angeli del secondo coro angelico partendo dall’alto, come quella di alcuni altri angeli della Gerarchia divina, non è univoca. Tuttavia, come ho dimostrato in una lunga serie d’interventi cui rimando, il motivo di questa ambiguità dipende dalla presenza di due testi che, nonostante tutti gli sforzi fatti da teologi ed iconografi, sono antitetici: la descrizione dei cherubini sull’Arca, sul propiziatorio (Esodo 25, 19-20; 37, 6-9), nel Tempio di Salomone Primo Libro dei Re (6, 23-28) e la visione di Ezechiele (1, 1-14; 10, 1-12). In quest’ultimo caso, com’è noto, infatti, i cherubini vengono descritti dal profeta come aventi quattro ali cosparse di occhi, quattro teste e, sotto i piedi (che però nel testo sono descritti come zampe di bue), delle ruote. Questo è l’aspetto dei cherubini che troviamo, per esempio, negli affreschi della Cripta di Anagni [Fig. 65]. Anche qui, però, dobbiamo subito osservare che le ali sono diventate sei per la contaminazione con la descrizione che Isaia (6, 1-3) dà dei serafini e che mancano le ruote, ma la presenza degli occhi e il contesto assicurano che si tratti proprio di cherubini12. La descrizione dei passi dell’Esodo, invece, è molto diversa. Si tratta di angeli con due sole facce e due sole ali, che si stendono in avanti a protezione sia dell’Arca, sia del propiziatorio. Possiamo, infatti, leggere le istruzioni di Jahweh: «Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’un verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio»13. Questa diversa e più antica descrizione dei cherubini che, come ho spiegato altrove, dipende dalla frequentazione di sfingi di derivazione egizia come quella di Megiddo e di grifoni dell’area anatolica, produsse, nell’ambito della pittura medievale europea, una nuova iconografia, quella di cherubini come angeli a due ali. Ne abbiamo una cospicua serie di esempi, a cominciare da quello monumen-

moderno»: La remodelación barroca del presbiterio de la Catedral de Valencia. Per quanto riguarda i primi documenti su Paolo da San Leocadio: A. Condorelli, Paolo da San Leocadio, «Commentari», 13 (1963), pp. 134-150; ibid., 14 (1964), pp. 246-253. 12 Sull’immagine dei cherubini della Cripta di Anagni: M. Bussagli, Angeli. Origini, storie e immagini delle creature celesti, Milano 2006, pp. 418-419. Per le vicende e i significati del monumento: L. Cappelletti, Gli affreschi della Cripta anagnina. Iconologia, Roma 2002, in particolare: pp. 74-79. Sul restauro: A. Bianchi, Il restauro della Cripta di Anagni, Roma 2003. 13 Esodo, 25, 19-20.


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tale di Germigny des Prés, per continuare con la Bibbia di Gundoino [Fig. 66] dove addirittura compare la scritta Cyrubim che toglie ogni equivoco14. Un altro esempio importante compare sulle travi della copertura lignea della chiesa di Santa Croce a Firenze15. Nell’ambito del Quattrocento, dobbiamo ricordare il celebre affresco, che occupa la parete sinistra della Cappella Bolognini nel San Petronio di Bologna, dipinta dal Maestro Bolognini verso il 1410. Qui l’identificazione, come ho scritto altrove, è assicurata dalla lettera K e dalla scritta Plenitudo scientiae, che si trova sul libro aperto che i Cherubini tengono in mano16. Di trent’anni più tardo è il retablo del Maestro Albrecht, proveniente dalla chiesa del Carmine di Vienna, conservato nel monastero di Klosterneuburg17. Sicuramente alla diffusione di questa iconografia concorse la riflessione di un filosofo e teologo della portata di Rabano Mauro che, nel suo De Cherubim et Seraphim circa crucem scriptis et significatione eorum, con le sue celebri immagini teologiche, il grande pensatore prevedeva, in una stessa pagina, la doppia iconografia dei cherubini, in alto con sei ali (per la contaminazione con l’iconografia dei serafini, pure ricordati nel testo concepito dal grande pensatore) e in basso con quella derivata dai passi dell’Esodo con due sole ali. Anzi, la figura in basso mostra una singolare posizione delle ali, che si spiega con quel passo del Primo Libro dei Re (6, 23-28) nel quale si descrive la posizione dei cherubini nella cella del Sancta Sanctorum, i quali «[…] avevano le ali spiegate; l’ala di uno toccava la parete e l’ala dell’altro l’altra parete; le loro ali si toccavano in mezzo al tempio, ala contro ala». Così, i cherubini, cui allude l’immagine di Rabano Mauro, altro non sono che quelli del Tempio, al centro del quale sta, nel testo biblico il Sancta Sanctorum che, a sua volta, contiene l’Arca dell’Alleanza. Coerentemente con la visione cristiana, nella miniatura del Codice Reginense della Vaticana, da cui è tratta questa immagine concepita da Rabano Mauro, al posto dell’Arca c’è la Croce [Fig. 67]. Non è infatti un caso che al centro della miniatura sia proprio la Croce la quale sostituisce l’Arca della religione ebraica. Si spiega allora perché sui bracci della Croce stia scritto: «En arx alma Crucis en fabrica sancta salutis» (verticale) e «En thronus hic regis haec conciliatio

14 Per gli esempi citati: Bussagli, Angeli. Origini, storie cit., rispettivamente pp. 204205 e 408-409. 15 L’opera è citata, senza trarne conseguenze iconografiche, in: B. Briderer Eichberg, Le neuf choeurs angélique. Origine et évolution du thème dans l’art du Moyen Âge, Poitiers 1998 (Civilisation Médievale, VI), p. 66. 16 In proposito: Bussagli, Storia degli Angeli cit., pp. 294-296. 17 Si veda: Briderer Eichberg, Le neuf choeurs angélique cit., p. 71.


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mundi» (orizzontale). Ovvero «Ecco il baluardo dell’alma Croce, ecco la fabbrica santa della salvezza», «Ecco qui il trono del re, questa unione del mondo»18. A questo punto, il significato della singolare posizione delle ali degli angeli di Valenza dovrebbe essere chiaro. Anche le loro ali si toccano «in mezzo al tempio, ala contro ala». Ne deriva che la cattedrale di Valenza si configura come Tempio di Salomone perché è a lui che Jahweh si rivolge quando spiega come si devono scolpire e concepire i cherubini. Si obietterà subito che è una sola ala ad essere spiegata, mentre l’altra è piegata verso il basso. Al di là degli aspetti pratici di realizzazione in una composizione complessa come questa, si può rispondere che il motivo sta nel fatto che gli angeli sono nell’abside, al di sopra dell’altare, che è il propiziatorio dell’Arca, e che a questa sostituzione semantica alludono. L’altra osservazione, che è emersa nel corso del dibattito successivo a questa esposizione al Convegno, è stata relativa all’assenza di immagini di cherubini musici. Tuttavia, se non vogliamo considerare probante la presenza dei rossi angeli musicanti nella Madonna e santi di Gentile da Fabriano (Berlino, Gemäldegalerie), che potrebbe dar adito a dubbi per la presenza di due sole ali (ma che pure – per le ragioni dette – potrebbe costituire una prova), credo sia utile ricordare gli affreschi della volta della Cattedrale di Albi, nella regione dei MidiPirenei. Ai lati dell’Incoronazione della Vergine, fra la decima e l’undicesima campata, infatti, possiamo scorgere serafini (a sei ali) e cherubini (a quattro ali) che accompagnano gli altri suonando il flauto19. L’opera, databile fra il 1509 ed il 1512, mostra – credo – con sufficiente chiarezza due dati. Da una parte che nulla osta all’impiego di questa iconografia con la funzione di angeli musicanti e, dall’altra, che la presenza contigua di angeli musicanti a due ali indica una sorta d’intercambiabilità di ruoli o, almeno, certo di funzione. Anzi, proprio su questo punto, sembra essere esplicita la decorazione del portale settentrionale della cattedrale di Valenza, il cui fregio più esterno segue l’alternanza di cherubini e di angeli musicanti che, dal mio punto di vista, possono essere la successione di cherubini secondo la doppia iconografia che ho illustrato in precedenza20. 18 Per l’immagine di Rabano Mauro: Bussagli, Angeli. Origini, storie cit., pp. 412-413. Sui carmina figurata di Rabano Mauro: I. Biffi, La croce e il Crocifisso nella teologia e nella spiritualità medievale (secoli VII-IX), in Il Crocifisso di Ariberto. Un mistero millenario intorno al simbolo della cristianità, cur. E. Brivio, Milano 1997, pp. 13-24. 19 Sulla cattedrale di Albi v. J.L. Biget, Albi. La cathédrale Sainte-Cécile, Tolouse 1998, p. 74. Ringrazio la Prof.ssa Michèle Humert che mi ha segnalato l’affresco. 20 Si ringrazia la Prof.ssa Laura Mauri Vigevani per la segnalazione. Tuttavia, la studiosa interpreta il significato del fregio come la dimostrazione della non sovrapponibilità dei ruoli fra cherubini e angeli musicanti.


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LAURA MAURI VIGEVANI GLI STRUMENTI MUSICALI DEGLI ANGELI AFFRESCATI NELLA CATTEDRALE DI VALENCIA: UNA PREZIOSA FONTE PER LA MUSICA DEL QUATTROCENTO*

Nel cielo stellato della cattedrale di Valencia dodici giganteschi angeli cantano e suonano tra i costoloni degli spicchi della volta della capella mayor, sette come il numero dei pianeti conosciuti nel Quattrocento. Cinque spicchi corrispondono alle pareti dell’abside pentagonale e ognuno di essi è formato da due vele, impostate sui sottostanti archi a sesto acuto. In questi spicchi vediamo cinque coppie di musicanti davvero singolari, poiché nessuno degli angeli, impegnati in duo strumentali assolutamente consueti, è situato in modo da poter guardare il suo compagno di musica, come invece avviene anche nelle compagnie angeliche. Gli angeli valentini, infatti, si volgono le spalle, o per meglio dire le ali, delle quali l’inferiore è ripiegata e la superiore aperta verso l’alto, come se gli angeli fossero fermi a cantare e suonare e nello stesso tempo quasi pronti a librarsi in volo. * Desidero anzitutto ringraziare Giacomo Baroffio (Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia di Cremona) per essere stato tramite della mia partecipazione al convegno. Desidero inoltre ringraziare per la paziente discussione delle ipotesi di lettura degli strumenti Febo Guizzi (Università degli Studi di Torino), in particolare per gli aerofoni e l’idiofono Roberta Tucci (Regione Lazio), per i cordofoni Tiziano Rizzi e Claudio Canevari (Civica Scuola di Liuteria di Milano), Franco Pavan (Conservatorio di Verona), Claudio Amighetti (Scuola Internazionale di Liuteria di Cremona), Federico Lowenberger (Genova), Sergio Cingolani (Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia di Cremona) e Mara Galassi (Accademia Internazionale della Musica di Milano), per la ciaramella Isacco Colombo (Schola Cantorum Basiliensis, Basilea), per l’organo Giovanni Pradella (Berbenno di Valtellina), Walter Chinaglia (Cermenate, Como) e Antonio Delfino (Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia di Cremona). Ringrazio Francesco Rossi (Accademia Carrara di Bergamo) per l’identificazione del modello del cammeo posto sull’organo, Doris Esch (Roma) per avermi segnalato l’affresco del Monastero di Tor de’ Specchi, Donatella Melini (Conservatorio di Trieste) e Rodolfo Baroncini (Conservatorio di Adria) per l’attenta lettura del contributo, Antonello Ricci (Sapienza Università di Roma) per la fotografia della ciaramella calabrese e Pierluigi Bontempi (Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia di Cremona) per il fotomontaggio ciaramella affrescata-ciaramella reale.


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I due spicchi contigui all’arco d’ingresso all’abside, di minore superficie, ospitano ciascuno un solo angelo. Questi due angeli sono trombettieri e “aprono la scena” introducendo solennemente alla gloria della Reyna del cielo: in mezzo alla corona di serafini sulla chiave di volta si vedeva in origine una rappresentazione dell’Assunta1. I concerti angelici affrescati sono un’esuberante caratteristica peculiare dell’arte italiana in particolare tra Quattro e Cinquecento; per la maggior parte sono legati alla rappresentazione dell’Assunzione e dell’Incoronazione di Maria. La capella mayor de la Verge Maria de la Seu fu affrescata nell’ottavo decennio del Quattrocento dai pittori italiani Francesco Pagano e Paolo da San Leocadio, giunti a Valencia nel 1472 al seguito del cardinale Rodrigo Borgia, vescovo della città2. Alcuni strumenti, della stessa tipologia di quelli della volta, erano già stati scolpiti all’esterno del Duomo nella lunetta del portale settentrionale (dei dodici apostoli) e all’interno in un arco della porta che segnava il passaggio tra la navata centrale e il presbiterio3; i suonatori sono in sequenza continua. I musicisti della volta formano invece duetti. Al centro della compagnia angelica della volta, come quasi sempre nei concerti angelici italiani quattro-cinquecenteschi, stanno liuto e viola4, accanto a loro da una parte arpa e chitarra, dall’altra organo e salterio a percussione, infine ciaramella e bicalamo, psalterium decem chordarum e cornice a sonagli. Si potrebbe osservare che uno strumento qui usato in funzione monodico-melodica (liuto a plettro, organo, ciaramella, psalterium

1 Cfr. F. Marías, Affreschi nella cattedrale di Valencia, «FMR», 22 (2007), pp. 49-72: 63. 2 Secondo Fernando Marías gli affreschi della cappella furono eseguiti tra il 1472 (anno

del contratto) e il 1478 (ibid., p. 66). Dai documenti sembra invece che non fossero ancora terminati nel 1479 (cfr. L. Tolosa Robledo - X. Company Climent, Pinturas murales de la catedral de Valencia. Apéndice documental, in Los angeles musicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, cur. C. Pérez García, Valencia 2006, pp. 369-399: 390 documento 75; l’acuerdo, datato 12 novembre 1479, prevede la restituzione del deposito cauzionale «cuando se termine la pintura de la capilla mayor»). Erano sicuramente finiti ante dicembre 1481, quando il contratto è sciolto e i pagamenti sono stati completati (ibid., p. 392 documento 93, datato 22 dicembre 1481). 3 Nella lunetta del portale dei dodici apostoli sono raffigurati otto angeli che suonano flautino, tamburo, viella, mandora, organo portativo, cembali e uno strumento non identificato (un angelo è mutilo delle braccia); nelle arcate del portale oggi nella capella del Santo Cáliz sono raffigurati angeli con organo portativo, flautino a tre buchi e tamburo, doppio fiato, salterio e altri cordofoni e aerofoni. 4 Molto spesso nel Quattrocento come cordofono ad arco troviamo accanto al liuto una ribeca.


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decem chordarum) è accompagnato da uno strumento qui usato in funzione di sostegno armonico-ritmico (viola ad arco, salterio a percussione, bicalamo, cornice a sonagli). Le associazioni di strumenti che troviamo all’interno di ogni spicchio sono praticabili5, frequentemente attestate nelle fonti letterarie e iconografiche quattrocentesche. Non è certo funzionale al suonare insieme la posizione di spalle6. Ma se la ripresa dal vivo integralmente fedele è estranea al contesto paradisiaco e all’arte del periodo, non per questo possiamo, a mio parere, escludere l’ipotesi di considerare gli strumenti musicali della volta come la puntuale raffigurazione di strumenti quattrocenteschi. Alcune particolarità, che a prima vista al nostro occhio ormai abituato alle codificazioni dei trattati e agli standards delle ricostruzioni moderne degli strumenti antichi sembrerebbero irreali, potrebbero invece essere preziose attestazioni di modalità di costruzione e di prassi finora non riconosciute7. Nelle rappresentazioni artistiche gli angeli musicanti sono gli angeli più vicini agli uomini, i messaggeri più diretti dell’armonia cosmica e della possibile armonia umana. Le raffigurazioni di canto, musica e strumenti musicali individuano il punto visibile di congiunzione tra il mondo umano e il mondo divino, tra la liturgia celeste e la liturgia terrestre8. Alla musica e agli strumenti musicali è dunque affidato un ruolo importante. È difficile

5 Non vediamo a Valencia il liuto in duo con la ciaramella come nella pala di Pesaro del Savoldo (1525) oggi a Brera. Cfr. L. Mauri Vigevani, Contemplata aliis tradere: ciaramella e liuto, un organico mariano? Savoldo contemplativo, in Giovan Gerolamo Savoldo. La pala di Pesaro, cur. M. Olivari, Milano 2008, pp. 116-126. 6 Jordi Ballester, perplesso di fronte a molte particolarità organologiche degli strumenti, ha giustamente sottolineato la magistrale combinazione di realtà e fantasia negli affreschi della volta, ma ha ecceduto, a mio parere, nel non dare credito a una rappresentazione degli strumenti dal vero nel suo Los instrumentos musicales de los frescos de la Catedral de Valencia, in Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos cit., pp. 347-367). Dopo il convegno di cui sono qui editi gli atti ha cambiato gran parte delle sue interpretazioni, pubblicando An unespected discovery: the fifteenth-century angel musicians of the Valencia cathedral, «Music in art», (2008), pp. 11-17, dove non cita neppure il suo precedente scritto. Il presente contributo propone una lettura diversa. 7 I trattati di Sebastian Virdung (1511), Martin Agricola (1529, 15452) e Michael Praetorius (1619-1620), che contengono raffigurazioni di strumenti, sono posteriori agli affreschi e ciascuno di essi rappresenta una selezione dello strumentario. Pochissimi sono gli strumenti quattrocenteschi giunti sino a noi. L’iconografia, sottoposta a opportuno vaglio critico, rimane il prevalente tramite di conoscenza per gli strumenti quattrocenteschi. 8 Sulla musica celeste come fondamento e origine di ogni altra musica, compresa quella degli strumenti, cfr. L. Mauri Vigevani, Angeli musicanti a Pavia tra Quattro e Cinquecento, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 105 (2005), pp. 291-323: 307-309, 313.


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il contributo di Paola Nitti in questo stesso volume. strumenti procedendo da nord a sud è: tromba, cornice a sonagli, psalterium decem chordarum, salterio a percussione, organo, liuto, viola, arpa, chitarra, ciaramella, bicalamo, tromba.


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veva tralasciare di partecipare alla gloria celeste. Ed è probabile che tanto più il committente era esigente tanto più richiedeva attenzione anche nella raffigurazione di strumenti musicali a lui contemporanei collocati in una realtà eterna. I trombetti che danno inizio alla sacra rappresentazione reggono strumenti dalla forma annodata, una tra le forme di tromba quattro-cinquecentesche11. Le magnifiche trombe d’oro [Figg. 1 e 12], munite dei drappi da parata, sono riccamente ornate, con motivi a squame di pesce e a linee diagonali nelle sezioni del canneggio, a foglie d’acanto sul padiglione. L’angelo a destra dell’arco d’ingresso all’abside tiene la tromba con la sinistra e suona mentre con la mano destra sostiene un lembo della veste, l’angelo di sinistra regge verticalmente lo strumento senza suonarlo e alza la mano sinistra in un gesto di presentazione e di stupore. Il gioco d’ombre proiettate su angeli e strumenti al centro della volta (si notino quelle dell’archetto e dei crini sulla tavola armonica e sulla fascia di sinistra della viola) indica che la principale fonte di luce viene dall’alto. Il liutista canta e suona un liuto armato a cinque ordini (9 corde e 9 piroli sono ben visibili), come consueto nel Quattrocento [Fig. 6]. Il modello tondeggiante, la posizione pressoché centrale e il profilo ovale della rosetta rimandano agli strumenti d’area ferrarese12. Impressiona la definizione di particolari quali la marezzatura delle doghe nel guscio, le venature o la maschiatura della tavola armonica13, le punte del ponte, il traforo della rosetta, l’usura della vernice sul legno del manico, il budello attorcigliato delle corde. Le corde sembrano quasi dello stesso spessore e dunque la differenza di nota delle corde libere potrebbe in gran parte dipendere dalla diversa tensione, come talvolta avviene in Grecia nell’odierna ricostruzione della lira classica. Il plettro, una penna divisa in due tenuta tra pollice e indice, pizzica la corda, in questo caso il cantino, come di norma tra la rosetta e il ponte. Molto realistica la posizione delle mani delicate e la resa delle dita che tastano il manico, provviste di vistose unghie lunghe. Il mignolo preme il primo ordine di corde, l’anulare il quarto, l’indice e il medio presumibilmente il quinto oppure l’indice il quinto e il medio il quarto (in sequenza con l’anulare).

11 12

Cfr. G. Cassone, La tromba, Varese 2002. Si veda, ad esempio, la somiglianza con la forma tondeggiante del liuto dipinto da Ercole De Roberti nel concerto conservato alla National Gallery di Londra (penultimo decennio del XV secolo). 13 La maschiatura (o “unghiate dell’orso”) è una sorta di ondulazione delle venature della tavola armonica; il termine scientifico è introflessioni.


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Si potrebbe notare che non si vede il pollice della sinistra sbucare dal retro del manico, mentre generalmente, almeno nei liuti dotati di legacci, il palmo della mano aderisce al retro del manico e di conseguenza il pollice risulta visibile. Ma la posizione piuttosto avanzata dell’intera mano e del polso costringono a rimanere dietro il manico il pollice, che dunque giustamente non si vede. La tecnica è in relazione con l’assenza di tasti sul manico, che rende necessaria una maggiore pressione delle dita. Il manico infatti, correttamente proporzionato alla lunghezza della tavola armonica, non porta i tasti che generalmente corredano i liuti suonati in Europa nel Quattrocento. Anche se non mancano testimonianze di strumenti senza tasti, come nella pala dipinta intorno al 1480 da Giovanni Bellini per la chiesa di San Giobbe a Venezia (oggi alle Gallerie dell’Accademia), dove il liuto senza tasti è suonato con le dita. L’assenza dei tasti e il modo di tenere il plettro sono accostabili alla prassi dell’ud arabo. Probabilmente era gradita una sonorità diversa da quella del liuto coi tasti, si voleva ottenere un suono certo meno brillante e netto, ma “modulabile” negli attacchi e nei passaggi in effetti timbrici, attraverso la possibilità di variare liberamente la pressione delle dita sul manico. Il liuto suonato con il plettro era uno strumento essenzialmente monodico, spesso accompagnato da una viola di sostegno armonico. A una funzione prevalentemente accordale sembra infatti destinato il ponticello piatto della viola dalle fasce lievemente incurvate verso l’interno, impreziosite da un motivo a quadrati accostati per un vertice [Fig. 7]. A Napoli, negli stessi anni in cui era affrescata la volta di Valencia, Johannes Tinctoris scriveva il trattato De inventione et usu musicae offrendolo a Beatrice d’Aragona, nella quale aveva posto l’unica speranza e ratio dei musici14. Secondo il Tinctoris la forma «ex utroque latere incurvata» era la più frequente nella «viola», che egli (al pari dei suoi contemporanei) considerava come un unico strumento da suonare sia ad arco sia a pizzico. La viola «hispanorum invento», accordata come il liuto (per quarte e terza centrale) era d’uso accordale e le corde sfregate dall’archetto risuonavano simultaneamente, mentre la viola «a grecis (ut aiunt) comperta», per lo più 14

«[…] divam Beatricem Aragoniam: Hungarorum ac Bohemorum reginam celo simillimam: in qua musicorum unicam spem ac rationem hucusque posui […]». Cfr. K. Weinmann, Johannes Tinctoris (1445-1511) und sein unbekannter Traktat “De inventione et usu musicae”, Tutzing 19612, p. 28. Il trattato, pervenuto solo in parte, fu stampato a Napoli probabilmente tra il 1481 e il 1483; il manoscritto originale dell’intero trattato fu completato verosimilmente entro i tre-quattro anni precedenti la stampa. Cfr. R. Woodley, The printing and scope of Tinctoris’s fragmentary treatise De inventione et usu musicae, «Early Music History», 5 (1985), pp. 239-268: 245.


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a tre corde (a differenza del liuto accordate per quinte), dava al suonatore la possibilità di sollecitare con l’archetto una sola corda per volta, lasciando le altre corde inattive a suo piacimento15. La viola affrescata a Valencia può avere qualche relazione con lo strumento inventato dagli Spagnoli secondo la testimonianza del Tinctoris. La forma lievemente incurvata verso l’interno è diffusa nei cordofoni ad arco raffigurati nell’arte italiana del Tre-Quattrocento; si considerino ad esempio la viola a cinque corde dipinta nella Madonna del Belvedere da Ottaviano di Martino Nelli (primo decennio del Quattrocento)16, la viola a tre corde nella tavola con la Madonna dell’Umiltà di Domenico di Bartolo (1433)17, la viola a tre corde della Madonna orante incoronata da angeli affrescata in una chiesina vicino ad Assisi (1484 circa)18. Questa forma senza C nelle fasce richiama alla memoria quella di alcuni strumenti italiani cinquecenteschi giunti sino a noi, come la viola di Giovanni Maria da Brescia datata al primo quarto del secolo, uno dei più antichi reperti di strumenti ad arco giunti a noi19. L’eleganza del modello e l’armonia nei rapporti dimensionali tra i vari elementi della viola affrescata a Valencia sono tipiche del secondo Quattrocento. Da notare la convessità della tavola armonica, caratteristica che è stato supposto essere stata introdotta nel secondo Quattrocento nei cordo15

«Siquidem: hispanorum invento: ex lyra processit instrumentum quod ipsi ac Itali violam Gallici vero dimidum leutum vocant. Que quidem viola in hoc a leuto differt: quod leutum multo majus ac testudineum est: ista vero plana: ac (ut plurimum) ex utroque latere incurvata. Alia tamen viola est: a grecis (ut aiunt) comperta: non solum forma (sicut illa) differens a leuto: sed etiam chordarum dispositione ac pulsatione. Enimvero: sive tres ei sint chorde simplices ut in pluribus: per geminam diapentem: sive quinque (ut in aliquibus) sic et per unisonos temperate: inequaliter. hoc est tumide sunt extente: ut arculus (quom chordas ejus pilis equinis confecta: sit recta) unam tangens: juxta libitum sonitoris: alias relinquat inconcussas». Cfr. Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 42. 16 La tavola con la Madonna del Belvedere è in S. Maria Nuova a Gubbio. Cfr. P. M. Della Porta - C. Fratini - E. Genovesi - E. Lunghi, Iconografia musicale in Umbria nel XV secolo, Assisi 1987, pp. 111-112. 17 Considerata il capolavoro del pittore, è conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena. Cfr. M. Mangiavacchi, Opere d’arte, in Un così bello e nobile istrumento. Siena e l’arte degli organi, cur. C. Mancini - M. Mangiavacchi - L. Martini, Siena 2008, pp. 95-186: 126127. Sulla Madonna dell’Umiltà cfr. D. Melini, Un tema di iconografia musicale tra XIV e XV secolo: la Madonna dell’umiltà e angeli musicanti, «Trasparenze», 29 (2006), pp. 15-25. 18 L’affresco, ora nel Palazzo Comunale di Assisi, proviene dalla chiesa parrocchiale di Mora, nei pressi di Assisi (Della Porta - Fratini - Genovesi - Lunghi, Iconografia musicale cit., pp. 95-96). 19 La viola di Giovanni Maria da Brescia, conservata a Oxford, è datata tra il 1500 e il 1525 (cfr. D. Boyden, Catalogue of the Hill Collection of Musical Instruments in the Ashmolean Museum, Oxford 1979, n. 1).


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foni ad arco di costruzione italiana20. Sono correttamente collocati e minuziosamente descritti la cordiera, sulla quale è raffigurata una testina, e il suo attacco, il manico, la tastiera e il cavigliere, la progressione del diametro delle corde crescente dalla più acuta alla più grave. La viola monta cinque corde fissate a cinque fori nella cordiera, ma sei piroli si distinguono nel cavigliere a falcetto terminante a testa di leone21. Le cinque corde sono avvolte su un unico pirolo, cosa difficile da spiegare. Se volessimo prendere in considerazione come veridico anche questo particolare, si potrebbe forse ipotizzare un espediente per regolare ulteriormente la tensione. Se infatti le corde fossero prima tutte avvolte sul pirolo “in più” e poi ognuna di esse andasse al suo proprio pirolo, il pirolo “in più” potrebbe fungere come una specie di capotasto regolabile, magari anche per le aggiustature di diapason. Potrebbe svolgere una funzione analoga a quella del cilindretto su cui erano avvolte le due corde di bordone della lira da braccio prima di andare ciascuna al suo pirolo22. L’ipotesi è azzardata, però il caso di Valencia non è singolo. È da sottolineare, infatti, come sei piroli e cinque corde che sembrano avvolgersi sullo stesso pirolo siano dipinti anche in un quadro, probabilmente di un pittore romano del Cinquecento, che mostra una scena musicale: un vecchio intento a suonare la viola da gamba e un giovane che suona la spinetta23. L’opera non è di alto rilievo artistico, ma di grande interesse musicale per la precisione con cui sono raffigurati gli strumenti. Il pittore descrive correttamente i dettagli della spinetta Benedetto Floriani 1569, è improbabile che abbia inventato i dettagli della viola. Tornando alla nostra viola, sulla tavola armonica sono aperti fori armonici a C che si guardano, così larghi e vicini quali mai un moderno liutaio potrebbe concepire, poiché giudicherà che questi fori indebolirebbero proprio l’area primaria di produzione acustica e il suono risulterebbe, a suo giudizio, debole e fiacco. Ma non possiamo attribuire al Quattrocento 20 21

Ringrazio Federico Lowenberger per avermi comunicato questa ipotesi. La terminazione a testa di leone del cavigliere negli strumenti ad arco è testimoniata in numerose iconografie italiane tra Tre e Settecento e in strumenti barocchi giunti sino a noi; termina a testa di felino il cavigliere dello strumento dipinto nella Madonna col Bambino e angeli in S. Esteban a Valencia (fine sec. XV; cfr. G. Gregori, La liuteria nell’iconografia cremonese, in Strumenti, musica e ricerca. Atti del convegno internazionale [Cremona, 28-29 ottobre 1994], Cremona 2000, pp. 71-117: 111). 22 Questo particolare si può ben vedere, ad esempio, negli strumenti dipinti a Venezia da Cima da Conegliano (1459-1517) nella Sacra conversazione con san Giorgio e da Vittore Carpaccio nella Presentazione di Gesù al tempio (firmata e datata 1510), conservate alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. 23 Il quadro è conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, numero di catalogo 1195.


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le esigenze di sonorità di un mondo che doveva ancora venire24. Bisognerà invece valutare che fori di questa forma e larghezza sono abbondantemente testimoniati nelle iconografie italiane tre-quattrocentesche di viole25; inoltre fori a C così vicini si trovano in alcuni strumenti conservati26. Vogliamo escludere che si cercasse una sonorità più intima e delicata? Gli ambienti e le occasioni in cui erano impiegati questi strumenti non richiedevano un’elevata potenza di suono. Nel nostro caso, per suonare insieme al liuto la viola non necessita di un gran volume. Potrebbe sembrare che la mano sinistra fosse in azione sul ponticello27; la posizione dell’archetto tra il ponticello e la cordiera vanificherebbe la possibilità d’effetto sulle corde dell’eventuale diteggiare sulla tastiera28. Se però si osserva l’angelo, si noterà che non sta affatto suonando (forse si sta preparando a suonare?): tiene lo strumento per il manico (comincia a mettere in posizione le dita sulla tastiera?), ma lo strumento forse eccessivamente lontano dal corpo, quasi sospeso in aria più che appoggiato alla gamba per un’agevole prassi, il modo di tenere l’archetto (che non è impugnato) e la posizione rilassata delle braccia non sembrano adatti a un’azione sulle corde. Pare che l’angelo voglia solo appoggiare l’arco alle corde o sfiorarle. Sta cantando, volto e sguardo protesi verso l’Assunta come il suo compagno liutista, e dà la precedenza al più importante strumento musicale, la voce umana. Non desta stupore che non stia suonando. Quasi sempre nei concerti angelici a molti strumenti qualche angelo non suona (talvolta è intento al-

24 I reperti di cordofoni ad arco europei giunti sino a noi sono tutti posteriori al Quattrocento, ad eccezione della «violeta» di santa Caterina de’ Vigri conservata nella chiesa del Corpus Domini a Bologna, di tipologia costruttiva del tutto diversa rispetto alla viola affrescata a Valencia. 25 I fori della viola affrescata a Valencia sono simili a quelli delle viole dipinte da Domenico di Bartolo, Ottaviano di Martino Nelli e dall’anonimo affrescatore della chiesa di Mora nelle opere sopra citate. 26 Si vedano ad esempio gli strumenti di Antonio Brensio (Antonius Bononiensis, 1612) e di scuola bolognese del Settecento al Castello di Milano (schede di Claudio Amighetti in Musei e gallerie di Milano. Museo degli strumenti musicali, cur. A. Gatti, Milano 1997, pp. 20-23) e la viola al Museo Civico Medievale di Bologna (J.H. Van der Meer, Strumenti musicali europei del Museo Civico Medievale di Bologna, Bologna 1993). 27 L’anulare starebbe tastando la prima corda sotto il terzo tasto e il medio la quarta corda in corrispondenza del terzo, pollice e indice semplicemente impugnano il manico e il mignolo è “fuori campo” rovesciato all’indietro per spontaneo bilanciamento della tensione delle altre dita. 28 Ballester afferma che i crini dell’archetto passano sotto le corde (Ballester, Los instrumentos cit., p. 360 e Ballester, An unespected cit., p. 14), ma scambia per crini le ombre dei crini e dell’archetto proiettate sulla tavola armonica dalla fonte di luce posta in alto, sopra lo strumento.


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l’accordatura, attività non priva di rimandi di significato). A Valencia questo angelo e uno dei due trombettieri non stanno suonando. La bocca dischiusa nel canto, l’arpista imbraccia uno strumento che per la pregevole ornamentazione potremmo considerare come il corrispettivo quattrocentesco dell’arpa Barberini29 [Fig. 8]. Le caratteristiche costruttive e decorative dello strumento rimandano alle arpe italiane, in particolare dell’Italia centrale, del secondo Quattrocento. Lo strumento è composto da quattro elementi; a cassa armonica, cavigliere e colonna frontale, i tre elementi costituenti anche le arpe moderne, si aggiunge un elemento, con funzione strutturale, di raccordo tra il cavigliere e la cassa armonica30. L’incontro tra la colonna frontale e il cavigliere arretra in una testa di leone, molto diversa da quella scolpita sul cavigliere della viola31; la colonna frontale risulta dalla sovrapposizione di due balaustrini (a scanalature e giri di foglie), l’inferiore dei quali è retto da una corona di puttini dai molti riscontri in ambiente lombardo e veneto e accostabili anche a quelli scolpiti sul basamento dell’ancona in marmo che nel 1473 il cardinale Rodrigo Borgia, vicecancelliere del Papa, commissionò ad Andrea Bregno per l’altare maggiore di S. Maria del Popolo a Roma32. La cassa armonica è decorata con figure geometriche e non (tra le quali una tromba); sono riprodotti fedelmente non solo le scanalature delle cornici, ma anche gli spessori diversi e combacianti di profili e cornici delle diverse sezioni dello strumento. 29

Per l’aspetto decorativo e per la sostanziale integrità l’arpa Barberini, conservata presso il Museo nazionale degli strumenti musicali di Roma, è forse l’arpa barocca più famosa del mondo. 30 Ha quattro lati anche l’arpa a 21 corde intarsiata nello studiolo di Federico da Montefeltro a Gubbio (ante 1482, ora al Metropolitan Museum di New York). Nell’arpa, di maggiori dimensioni e numero di corde rispetto all’arpa valentina, che il Pinturicchio dipingerà per Rodrigo, divenuto papa Alessandro VI, nella sala delle arti liberali degli appartamenti vaticani (1492-1498) l’elemento di raccordo tra cassa armonica e cavigliere, nettamente individuato nell’arpa affrescata a Valencia, diventa sagomatura che continua la linea del cavigliere; la cassa armonica è a parallelepipedo basso, come a Valencia. Sul progetto iconografico della sala cfr. X. Company, La comitencia artística de Alejandro VI en Italia, in De València a Roma a través dels Borja. Congres conmemoratiu del 500 aniversari de l’any jubilar d’Alexandre VI (València, 23-26 de febrer de 2000), cur. P. Iradiel - J.Ma. Cruselles, Valencia 2006, pp. 329-394: 392-393. 31 Una testa di leone tra il cavigliere e la colonna è dipinta nell’arpa a 34 corde del polittico di Taddeo di Bartolo di Mino proveniente dalla chiesa di San Francesco al prato (1403, ora alla Galleria Nazionale di Perugia; cfr. Della Porta, Iconografia musicale cit., p. 106). Simili dimensioni della cassa e pronunciato arretramento verso il cavigliere della parte alta della colonna mostra l’arpa a 23 corde circa della Madonna dell’orchestra di Giovanni Boccati (1460 circa, dal convento di S. Simone del Carmine a Perugia, ora alla Galleria Nazionale di Perugia; cfr. ibid. pp. 128-133). 32 Sull’ancona in marmo, oggi conservata nella sacrestia di S. Maria del Popolo, cfr. Company, La comitencia artística cit., pp. 358-359.


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Proporzionato secondo i canoni rinascimentali di «modo» e «mensura», questo splendido strumento ha dimensioni, ricavabili approssimativamente dal rapporto con la lunghezza delle mani, poco più ampie di quelle di un’arpa della prima metà del XV secolo giunta sino a noi33. Porta 13 corde, in budello ritorto di spessore variato non in progressione continua; lo spessore massimo è quello della corda più corta. Non sia giudicato esiguo il numero delle corde. Tra le diverse tipologie di arpe dipinte, scolpite o intarsiate nel Quattrocento e nel primo Cinquecento, quando non esisteva certo un modello unico per nessuno strumento, troviamo un numero di corde anche inferiore a tredici34. Le prestazioni richieste allo strumento erano adeguate alla musica che vi si voleva proporre. Sul cavigliere (o modiglione) ai tredici rettangolini corrispondenti alle caviglie, collocate sul lato non visibile dello strumento, se ne aggiunge, vicino alla colonna, un quattordicesimo (non utilizzato nell’armatura dello strumento) forse per montare all’occasione una corda supplementare oppure per legare una cinghia a sostegno dell’arpa quando si suonava in piedi, da fermi o camminando. L’estensione potrebbe essere di una dodicesima e la nota corrispondente alla prima corda, la più corta e di diametro decisamente maggiore, potrebbe essere rientrante rispetto alla successione dall’acuto al grave, cioè più grave della nota corrispondente alla seconda corda35. Anche in questo strumento, come in tutti gli strumenti della volta, è strabiliante l’intento di precisa definizione dei minimi dettagli di costruzione, decorazione, prassi. Ciò da una parte non comporta che ogni particolare sia comprensibile per le nostre attuali conoscenze e dall’altra neppure autorizza la categorica presunzione di integrale veridicità36.

33 L’arpa, decorata a fiori di giglio, è conservata al Louvre; ha lunghezza massima di 42 cm e larghezza massima di 23 cm; sulla colonna in avorio sono raffigurati la Natività, l’Adorazione dei magi e la Strage degli innocenti; cfr. F. Crane, Extant medieval musical instruments: a provisional catalogue by types, Iowa City 1972, n. 342.2. 34 L’arpa dipinta da Giovanni Boccati nella Madonna del pergolato (1447, Galleria Nazionale di Perugia) è costituita da quattro elementi e porta 17 corde (cfr. Della Porta, Iconografia musicale cit., pp. 125-127); a 10 corde sono l’arpa degli intarsi in Santa Giustina a Padova (1467-1477, con testa di animale grottesco; cfr. G. Pellini, Strumenti musicali in tarsie italiane dal 14. al 16. secolo esistenti in Italia, tesi di diploma in Paleografia e Filologia Musicale, Università degli Studi di Pavia - sede di Cremona, 1991, tav. a9) e l’arpa intarsiata nello studiolo di Isabella d’Este nel castello di Mantova. Circa 13 corde ha l’arpa che accompagna una danza in una miniatura del De pratica seu arte tripudii di Guglielmo Ebreo da Pesaro (1463). 35 Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare l’accordatura: sol2 - la2 - si bemolle2 - do3 - re3 - mi3 - fa3 - sol3 - la3 - si bemolle3 - do4 - re4 - nota rientrante. 36 Sarebbe questo un errore di segno opposto (rispetto a quello di quanti presumono


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La scanalatura, che nel lato non visibile del cavigliere si trova sotto le caviglie o piroli, poteva servire da capotasto per innalzare le corde di un semitono; con un dito di una mano si premeva contro il cavigliere la corda, che si pizzicava con l’altra mano37. Con il medio della destra il nostro arpista sembra proprio pigiare la quarta corda contro il “capotasto”38, pronto a pizzicarla con il pollice della sinistra, la quale nel momento ritratto sta pizzicando un’altra corda con il medio, che è in posizione più bassa rispetto alle altre dita; il pollice della destra sta sollecitando la corda più corta. La posizione delle mani è documentata nell’iconografia quattrocentesca. La mano destra suona in posizione liutistica, cioè piegando il pollice sotto l’indice, e tiene le dita rivolte verso l’alto, una posizione che scompare dalla pratica nel Cinquecento. La mano sinistra suona invece con le dita rivolte verso il basso e il pollice che si piega sopra l’indice, una tecnica più moderna. L’azione delle dita corrisponde a quella indicata dalla trattatistica cinquecentesca, che prevede per la sinistra l’utilizzo prevalentemente di secondo e terzo dito e per la destra l’utilizzo di primo e secondo dito nelle scale di moto ascendente e discendente39. Entrambe le mani pizzicano le corde vicino ai loro punti periferici. La sinistra infatti pizzica in basso in prossimità della tavola armonica e la destra in alto vicino al cavigliere. Questo induce a supporre una tensione delle corde alquanto bassa40. In Italia e Spagna, secondo la testimonianza del Tinctoris, il canto è più frequentemente accompagnato dalla «viola sine arculo» che dal liuto41. La

errori e fantasie del pittore ogni volta che trovano particolarità non in accordo con la corrente vulgata organologica), ma di uguale nefasto effetto per un’indagine scientifica. 37 Per suonare i semitoni sull’arpa «se a de poner el dedo a cerca de las clavijas». Cfr. A. Mudarra, Tres libros de música en cifra para vihuela (Sevilla, 1546), ed. E. Pujol, Barcelona 1949 (Monumentos de la Música Española, 7), p. 18. 38 A titolo puramente esemplificativo, se partiamo dall’ipotesi d’accordatura sopra riportata, la quarta corda corrisponderebbe al si bemolle. Attraverso la riduzione della lunghezza vibrante della corda, ottenuta con la pressione contro il cavigliere, l’angelo potrebbe innalzare a si bequadro il si bemolle. 39 «En la harpa, se desciende y sube con el primero y segundo dedos de la mano derecha, cruzando el pulgar sobre el segundo dedo, y con el segundo y tercero de la mano yzquierda». Cfr. H. Angles, La musica en la corte de Carlos 5. Con la transcripción del Libro de cifra nueva para tecla, Harpa y Vihuela de Luys Venegas de Henestrosa (Alcalá de Henares, 1557), Barcelona 1944 (Monumentos de la música española, 2), p. 159. 40 Sono grata a Mara Galassi per l’identificazione della prassi dell’arpa in questo affresco. 41 «Et quamvis aliqui ad hoc instrumentum id est leutum: quaslibet cantilenas (ut supra tetigimus) jocundissime concinant: ad violam tamen sine arculo in Italia et Hispania frequentius» (Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 45).


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«viola sine arculo» di Valencia [Fig. 9], o viola da mano o chitarra, segue il modello a fasce con C allungate e appuntite, che circa venti anni dopo sarà ripetuto simile, benché di proporzioni molto diverse, nello strumento affrescato a Roma dal Pinturicchio negli appartamenti vaticani per lo stesso Rodrigo, nel frattempo divenuto papa Alessandro VI42. Lo strumento a

42 Lo strumento affrescato dal Pinturicchio ha in particolare un manico assai più lungo. Spero di non scandalizzare usando il termine chitarra per uno strumento che solitamente negli studi moderni è denominato viola da mano. La questione terminologica è spinosissima in particolare per la musica antica. Il problema era già avvertito dall’autore del primo trattato a stampa sugli strumenti musicali, Sebastian Virdung, il quale scriveva nel 1511: «In realtà non capisco che una sola cosa: lo strumento che uno ha denominato Harpfe è indicato come Leyr da un altro, e così via» (C. Meyer, Sebastian Virdung Musica getutscht. Les instruments et la pratique musicale in Allemagne au débout du XVIe siècle, Paris 1980, fol. Diij, p. 38). Dal punto di vista della classificazione organologica lo strumento affrescato a Valencia rientra nella famiglia delle chitarre. I cordofoni a pizzico e manico a collo distinguono infatti la famiglia delle chitarre, che presentano una cassa formata dall’assemblaggio di vari elementi, dalla famiglia dei liuti, che presentano una cassa a guscio. Dal punto di vista linguistico il termine chitarra è frequentemente attestato nel Trecento (cfr. Dizionario storico della lingua italiana e Vocabolario dell’Accademia della Crusca, entrambi consultabili on line). Dante lo usa nel Convivio (I, cap. 8, p. 34) distinguendolo dalla cetera (I, cap. 9, pag. 38). Ovviamente molte sono le differenze con lo strumento moderno e neppure possiamo supporre una precisa tipologia di chitarra nel Trecento e nel Quattrocento, quando non esisteva un modello unico per nessuno strumento. La specifica «da mano» (come la specifica «da gamba») non è quattrocentesca bensì cinquecentesca. Nel secondo Quattrocento e all’inizio del Cinquecento il termine viola poteva indicare sia lo strumento ad arco sia lo strumento a pizzico. Strumenti di forma uguale erano suonati sia ad arco sia a pizzico, ovviamente con diversi accorgimenti relativi all’armatura. Il Tinctoris, che, come abbiamo visto, considera come un unico strumento la viola sia suonata ad arco sia suonata a pizzico, dal punto di vista della terminologia ne definisce l’uso distinguendo la viola cum arculo dalla viola sine arculo (Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 45). Anche Isabella d’Este chiamava viola sia lo strumento ad arco sia lo strumento a mano (cfr. W.F. Prizer, Isabella d’Este and Lorenzo da Pavia, “master instrument-maker”, «Early Music History. Studies in medieval and early modern music», 2 [1982], cur. I. Fenlon, pp. 87-118: 105). Osserviamo che i due strumenti sono raffigurati insieme nella stessa tarsia del suo studiolo nel castello di Mantova. Dunque, volendo usare la terminologia contemporanea all’affresco, potremmo correttamente chiamare lo strumento affrescato semplicemente viola, o viola senza arco, generando però, in un comune lettore non esperto di strumenti antichi, confusione per l’omonimia con lo strumento ad arco che ben conosce. Se ritenessimo corretto utilizzare un termine almeno cinquecentesco, non saremmo costretti ad usare la denominazione viola da mano, dal momento che il termine chitarra, riferito a uno strumento parente di quello affrescato a Valencia, è attestato addirittura in fonti musicali di quel secolo. Consideriamo infatti, per esempio, che quattro fantasie per «chitarra de sette corde» sono inserite da Melchiorre de Barberiis nell’Opera intitolata contina, Intabolatura di lauto. Libro Decimo, Venezia 1549 (cfr. Pellini, Strumenti musicali cit., I, pp. 233-234). Nel Seicento strumenti a quattro ordini doppi sono chiamati premières guitarres (M. Mersenne, Harmonie universelle contenant la théorie et la pratique de la musique, Paris 1636, ed. in fac-


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dieci corde (cinque ordini di corde doppie) porta sette tasti sul manico; il cavigliere a falcetto terminante a testa di rapace parrebbe tipicamente italiano, poiché le vihuele de mano spagnole hanno un cavigliere piano e inclinato all’indietro43. Tra le spalle, in posizione consueta nel XV secolo, è situata la dorata rosetta a rilievo, una losanga entro cerchio; sembra una decorazione applicata, non un foro armonico, poiché non si vedono gli spazi scuri delle aperture. Sulla tavola filettata e profilata in oro sono evidenti tracce di maschiatura44. La magnifica decorazione delle fasce è ad intarsi oro su fondo blu con il motivo degli spicchi infilzati tipico delle tarsie a toppo italiane, in bicromia ripresa dall’alternarsi dei colori dei piroli45. Il pittore si è persino fermato a notare che il secondo tasto è stato spostato dalla sua consueta posizione (segnata) per essere avvicinato al primo tasto. Ciò corrisponde al sistema d’accordatura descritto nel Cinquecento dal veneziano Silvestro Ganassi, allievo dello spagnolo Ramón de Pareja, per la viola da gamba e il liuto46. Lo strumento è suonato con le dita (una prassi considerata cinquecentesca) e l’uso dei polpastrelli richiede unghie corte, a differenza del liutista che (come abbiamo visto) per esigenze differenti le porta lunghe. La tecnica è assai diversa da quella a plettro esibita da Tersicore sulla piccola chitarra nei tarocchi cosiddetti del Mantegna (1465 circa, attribuiti alla scuola ferrarese)47, una chitarra dalla forma incurvata senza C nelle fasce come le chitarre dell’iconografia valenciana, tutte posteriori alla xilografia italiana [Fig. 68].

simile F. Lesure, Paris 1975, III, p. 95). A mio parere anche «chitarra» può godere di un suo legittimo uso per l’antico strumento. Se proprio volessimo usare una terminologia contemporanea agli affreschi, allora dovremmo utilizzarla per tutti gli strumenti, chiamando «arpicordo» il clavicembalo, «dolcemele» il salterio a corde percosse e così via. Preferisco aiutare chi legge usando la denominazione chitarra, a mio parere non meno propria della denominazione viola da mano. 43 Ballester, Los instrumentos musicales cit., p. 358. 44 Le modalità costruttive dello strumento sono state attentamente analizzate in C. Gonzalez, El ángel vihuelista de los frescos de la catedral de Valencia, «Hispanica Lyra, Revista de la sociedad de la vihuela», 7 (2008), Suplemento iconográfico. Vi si ipotizzano anche le misure (lunghezza totale 88 cm). 45 L’alternanza dei colori si trova anche nelle chitarre dei secoli successivi. 46 S. Ganassi, Lettione seconda pur della pratica di sonare il violone d’arco da tasti, Venezia 1543, cap. IIII «regola di mettere li tasti». Il sistema di accordatura è stato interpretato come temperamento mesotonico (cfr. M. Lindley, Lutes Viols and Temperaments, Cambridge 1984, pp. 60-66). 47 Sui tarocchi cfr. la scheda di M. Faietti in Le muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano, cur. di A. Di Lorenzo - A. Mottola Molfino - M. Natale - A. Zanni, II, Modena 1991, pp. 431-437.


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La mano sinistra dell’angelo tasta il manico (mignolo sul primo ordine, anulare sul quarto, medio sul quinto e indice sul terzo), mentre la destra con il pollice in fuori è nell’assetto tipico per un accordo e perché l’indice possa ribattere le note. Ancora ci richiama il Ganassi nel «percotere la corda in suso con el dedo indice» e nello «sguarzo overo travagliare la corda con el dedo police in zoso»48. Nella facciata ad ala l’organo [Fig. 5], posato tra il costolone e la gamba dell’angelo, porta nove canne, con bocche allineate e profilo a mitria del labbro superiore. In corrispondenza delle prime sei canne dal grave la disposizione è su quattro file, in corrispondenza delle rimanenti tre canne verso l’acuto la disposizione è su sei file, per un totale di quarantadue canne, un numero vicino a quello riscontrabile in altri organi quattrocenteschi, ad esempio nell’organo rappresentato negli intarsi del Duomo di Siena (1483-1502) [Fig. 69]49. L’andamento della curva del listello di legatura delle canne, rosso profilato in oro come le altre cornici della cassa, ricorda quello dell’organo intarsiato nello studiolo di Federico da Montefeltro a Gubbio (1474-1480)50. Le canne sono scalate seguendo una progressione corretta51. È evidente, a partire dalle canne in corrispondenza della canna di facciata quarta (procedendo dal grave all’acuto), uno spazio vuoto in mezzo alle quattro (o sei) canne; questo spazio divide le canne in gruppi di due (o tre) canne da una parte e due (o tre) canne dall’altra. Lo spazio potrebbe ospitare una legatura interna, ma principalmente potrebbe avere una funzione acustica: dividere il blocco sonoro e permettere che le bocche delle canne più interne, probabilmente disposte verso lo spazio vuoto, grazie ad esso possano meglio parlare, senza essere soffocate dalla compressione in un unico blocco. Lo strumento potrebbe così più facilmente avvicinarsi alla suavitas e dulcedo, alla «dulcis et optima vox», alla «perfettisima sonoritade e suavitade» richieste agli organi nell’Italia del Quattrocento52.

48 Ganassi, Lettione cit., cap. VIII «Modo che regola la mano del corpo de l’Istromento». 49 La tarsia di Antonio Barili, proveniente dalle spalliere del coro della cappella di S.

Giovanni Battista nel Duomo di Siena (commissionate nel 1483, consegnate nel 1502), è dal XVIII secolo nel coro della Collegiata di San Quirico d’Orcia. Cfr. Mangiavacchi, Opere d’arte cit., p. 146. 50 Lo studiolo di Gubbio di Federico da Montefeltro si trova oggi al Metropolitan Museum di New York. 51 Sono grata a Giovanni Pradella e Walter Chinaglia per le osservazioni relative alle modalità costruttive dell’organo. 52 Queste caratteristiche sonore sono richieste nei contratti per organi. Cfr. P.P. Donati, L’arte degli organi nell’Italia del Quattrocento, IV. Gli ideali sonori, i protagonisti, «Informazione organistica», n. ser., 16 (2007), pp. 3-55: 3-4.


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L’allineamento delle sommità delle canne nelle file non impedisce l’emissione di note diverse; scartata infatti l’ipotesi di un somiere su più livelli, è probabile che i piedi delle canne abbiano lunghezze progressive. Quest’ultimo accorgimento facilita la pronuncia in quanto la collocazione delle bocche su piedi di diversa lunghezza permette loro di non essere tutte alla stessa altezza come nelle canne di facciata (che però, non avendo altre canne davanti, non hanno problemi di compressione). Le canne posteriori potrebbero parlare verso l’esterno dello strumento e dunque il nostro organo potrebbe avere questa analogia costruttiva con il già citato organo intarsiato nel Duomo di Siena, uno strumento a doppia facciata peraltro di diversa tipologia (a più registri)53. L’organo di Valencia potrebbe avere un registro doppio di cui una fila orientata sul davanti e l’altra sul retro. Dal punto di vista della decorazione osserviamo come l’organo affrescato a Valencia e l’organo intarsiato per il Duomo di Siena portino entrambi un significativo inserto figurativo sul fianco destro: a Siena due stemmi (del committente e dell’Opera del Duomo)54, a Valencia uno splendido cammeo che potrebbe avere, a mio parere, un valore identificativo simile a quello di uno stemma, potrebbe essere un’impresa o un’allusione legata al proprietario dello strumento e committente degli affreschi. Il bassorilievo del cammeo raffigura Ercole che lotta con il leone Nemeo, la prima delle dodici fatiche (simbolo di coraggio, forza, saggezza, prosperità e della vittoria del bene sul male), un tema molto diffuso nelle gemme antiche. Il cammeo è l’evidente rielaborazione di una placchetta quattrocentesca di scuola italiana, a sua volta derivante da una gemma antica firmata da Dioskourides55. Mentre il cammeo rappresenta Ercole che lotta con il leone Nemeo, gemma e placchetta rappresentano Ercole che lega Cerbero, ma la postura dell’eroe è quasi uguale e variazioni di questo genere sono relativamente frequenti56.

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Pier Paolo Donati ha ipotizzato che la tarsia rappresenti un organo a tre registri, forse l’«organetto a la moderna con le tire» costruito da Lorenzo da Prato nel 1460 per Santa Maria della Scala a Siena (P.P. Donati, L’arte degli organi nell’Italia del Quattrocento, «Informazione organistica», n. ser., 14 (2006), pp. 99-128: 116 nota 65, 119. 54 Le tarsie per le spalliere del coro della cappella di S. Giovanni Battista nel Duomo di Siena furono volute dal rettore dell’Opera del Duomo Alberto Aringhieri; gli stemmi sono dell’Aringhieri e dell’Opera del Duomo (cfr. Mangiavacchi, Opere d’arte cit., p. 146). 55 Cfr. Musei civici Brescia. Placchette. Secoli XV-XIX. Catalogo, cur. F. Rossi, Vicenza 1974, p. 5. 56 Ringrazio Francesco Rossi (Accademia Carrara, Bergamo) per avermi indicato il modello del cammeo.


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Mi pare piuttosto interessante ricordare che a Roma il cardinale Barbo, divenuto nel 1464 papa Paolo II, faceva fondere placchette bronzee a imitazione delle gemme antiche che andava raccogliendo nella sua sempre più ricca collezione. A Palazzo Venezia, dal 1458 sua sede, disponeva direttamente di una fonderia. Caso eccezionale tra i principi dell’epoca, il Barbo distribuiva con zelo le placchette, contribuendo in maniera determinante alla diffusione tra gli artisti di modelli dell’antichità classica57. Questa circostanza storica così puntualmente definita contribuisce a rafforzare ulteriormente una plausibile ipotesi di provenienza degli strumenti. Non possiamo infatti scindere l’aspetto decorativo dall’aspetto funzionale-acustico quasi fossero due entità del tutto separate e non, come invece era, progettate insieme. L’estetica rinascimentale prevedeva che gli strumenti musicali, almeno quelli d’alto livello artistico, soddisfacessero sia l’udito sia la vista. Lo confermano le iscrizioni così frequenti, dal Cinquecento in poi, sui coperchi di spinette, virginali, clavicembali e clavicordi58. Lo strumento musicale è un insieme unico, solo un atteggiamento moderno può accettarne la frantumazione. La tastiera dell’organo, come in molti strumenti del Medioevo e del primo Rinascimento, sporge dalla cassa. Sono visibili quindici tasti diatonici. Potrebbe esserne ipotizzato un sedicesimo, nascosto dal corpo dell’angelo, perché il tasto più acuto è quasi a filo con lo spigolo destro della cassa del vento e si sarebbe indotti a pensare che anche il più grave sia quasi a filo con lo spigolo di sinistra della cassa del vento (dalla metà del XV secolo costruita in noce e chiamata pancone in Toscana e nel centrosud Italia dopo il 1460)59. Ma i tasti potrebbero essere proprio quindici, considerando che anche le moderne ricostruzioni prevedono questa piccola asimmetria60. L’estensione potrebbe essere di circa due ottave, ad esempio fa2 - fa4. In genere le canne di facciata sono in numero superiore a quello dei tasti, mentre qui abbiamo quindici o sedici tasti e in facciata nove canne.

57 D. Lewis, Mantova e la produzione di placchete nel XV secolo, in Placchette e rilievi di bronzo nell’eta del Mantegna. Catalogo della mostra (Mantova, Museo della Citta di Palazzo San Sebastiano, 16 settembre 2006 - 14 gennaio 2007), cur. F. Rossi, Milano 2006, pp. 3-15: 8-10. 58 Affermazioni come «Rendo lieti ad un tempo e gli occhi e ’l core», «Non alle orecchie sol ma agli occhi piaccio». 59 Il termine “somiere” appare a Padova nel 1478 e viene usato nel nord e in Emilia Romagna (cfr. Donati, L’arte degli organi cit., p. 112). 60 Cfr. ad esempio alcuni portativi costruiti da Marco Fratti (Campogalliano, Modena).


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D’altra parte un numero di tasti superiore alle canne in facciata è testimoniato da altre iconografie e da moderne ricostruzioni61. Accuratezza e perfezione nella corrispondenza dei dettagli costruttivi sono tali da renderci pressoché certi che l’artista abbia copiato uno strumento dal vero. Non sarebbe possibile infatti che avesse inventato o ridisegnato a memoria tutte le finezze tecniche, coerenti sia nel particolare a sé stante sia nell’insieme dei particolari. Ogni cornice e ogni profilo corrisponde perfettamente con cornice e profilo coi quali deve raccordarsi, ad esempio la profondità del listello di legatura delle canne combacia con la larghezza del bordo esterno della cornice che racchiude il cammeo e così via. Alla base, grazie alla vista da sotto in su, vediamo l’apertura determinata dallo spessore della cornice inferiore, che funge da piedistallo. Ma i particolari più stupefacenti sono nella definizione del mantice a cuneo, stretto e lungo, posto parallelamente al lato lungo della cassa del vento; ne vediamo quindi la testata. Sono fedelmente ricopiate dal vero le rigature dello spessore del legno nel bordo della testata, l’increspatura del cuoio (in particolare nella falda inferiore della più alta delle tre pieghe), le strisce in pelle più chiara di rinforzo al contorno delle pieghe; su queste strisce addirittura possiamo vedere le teste dei chiodini che fissano il mantice ai telaietti interni. No, non può aver giocato di fantasia o di ricordi vaghi il nostro pittore, sicuramente deve aver copiato dal vero; può aver commesso qualche errore, ovviamente, ma ha copiato dal vero. L’angelo canta e con la sinistra aziona il mantice; l’accorta variazione di pressione nell’aprirlo e chiuderlo può generare effetti espressivi. Con la mano destra l’angelo aziona i tasti; il pollice è sopra il sesto (o settimo) tasto, l’indice sul dodicesimo (o tredicesimo), il medio sul quattordicesimo (o quindicesimo). I tasti non sono tutti abbassati alla stessa altezza, le tre note probabilmente sono in successione. Sopra il capitello a foglie d’acanto (specularmente ripetuto, sotto il cordone, in forma rovesciata e rossa con profili d’oro) quattro puttini (dai moltissimi riscontri in ambiente lombardo, ad esempio nella cerchia dell’Amadeo e della Certosa di Pavia) reggono sulle spalle la base di sostegno del salterio a percussione [Fig. 4]. Cornici dorate e modanate proteggono e ornano i bordi della cassa rettangolare; sulle fasce corre un motivo a ghirlande e nastri svolazzanti che nella sobria linearità rimanda a molte analoghe decorazioni del secondo Quattrocento; il suo disegno impacciato, che stupisce a

61 Cfr. il repertorio iconografico al sito http: www.portativo.it curato da Sergio Chierici e l’organo costruito da Johannes Rohlf, con 15 tasti diatonici e 9 cromatici e solo 12 canne in facciata (cfr. il sito www.orgelbau-rohlf.de/home.htm).


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fianco dell’elegante scioltezza degli altri elementi figurativi, ancora una volta induce a pensare che gli strumenti affrescati siano copie di reali strumenti. Quattro ordini doppi di corde metalliche sono tesi su quattro ponticelli dorati a sezione triangolare, sospesi a sostegni intagliati e dorati; i ponticelli laterali sono ad altezza minore rispetto ai centrali. I ponticelli determinano le porzioni in cui ciascuna corda viene divisa e la relativa altezza di ogni porzione. Come i rapporti dimensionali delle canne nell’organo, così la divisione delle corde nel salterio deriva da calcoli matematici; le altezze sono intonate secondo un sistema proporzionale. Salterio a corde percosse e organo, spesso associati nella pratica musicale, trovano spazi contigui anche nella trattatistica62. Con i bastoncini incurvati-martelletti, correttamente tenuti tra indice, medio e pollice, l’angelo sta percuotendo le corde con un movimento alternato delle braccia e guarda attentamente lo strumento. Il salterio a corde percosse non compare nell’iconografia valenciana dei secoli XIV-XV63. È invece diffuso in Italia nel XV secolo; ne vediamo un esempio, accostabile per costruzione e prassi al salterio di Valencia, suonato da un angioletto nella Madonna dell’orchestra attribuita a Giovanni di Piermatteo detto Boccati (1460 ca.) [Fig. 70]64. La ciaramella sembra un lontano parente della ciaramella senza pirouette ancor oggi usata nel Lazio e in altre zone dell’Italia centro-meridionale [Fig. 10]65. Nella tradizione popolare italiana la ciaramella è costituita da due pezzi di legno (uno per la campana, un altro per il corpo) spesso di diversa essenza66, mentre nella tradizione spagnola gli strumenti sono costruiti con un pez-

62 Negli affreschi della sala della musica di Viboldone (Milano) gli strumenti musicali di fine Quattrocento sono distribuiti in dodici finestroni, secondo precisi criteri di classificazione e di prassi. Organo, clavicembalo e salterio a percussione sono nello stesso finestrone (cfr. L. Mauri Vigevani, La sala della musica di Viboldone, «Cà de sass», 136 [1996], pp. 14-21). 63 Cfr. Ballester, Los instrumentos musicales cit., p. 354. 64 La tavola rappresentante la Vergine col Bambino e angeli musicanti (1460 ca.) era sull’altare dell’oratorio della Compagnia del Santissimo Sacramento nel convento di San Simone del Carmine a Perugia; è conservata nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Un altro esempio di salterio a corde percosse accostabile al nostro è nella Madonna che allatta il Bambino di Marco Zoppo (1455), conservata al Louvre. 65 La pirouette, una specie di piccolo imbuto dal quale sporge parzialmente l’ancia, offre una certa protezione all’ancia stessa e aiuta ad evitare l’affaticamento delle labbra. Il suonatore preme le labbra contro il bordo della pirouette e tiene entro la bocca la parte di ancia sporgente dalla pirouette. L’ancia, chiusa tra la la pirouette e la bocca, non può essere direttamente controllata dalle labbra e risultano assai difficili variazioni dinamiche. 66 Le essenze possono essere ad esempio bosso per il canneggio e ciliegio per la campana, il cui legno è acusticamente ininfluente.


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zo unico di legno. La ciaramella affrescata è costruita in due pezzi e la fascia sporgente vicino alla campana nasce dalla necessità di rinforzare il punto di unione dei due pezzi di legno67. È dunque da escludere l’ipotesi di una fontanella mal rappresentata e posizionata68, che oltretutto risulterebbe inutile in uno strumento soprano; dalla proporzione con le mani del suonatore risulta infatti una lunghezza approssimativa di 60-65 centimetri. I fori visibili sono sei, un settimo foro probabilmente è nascosto dall’anulare sinistro. La distanza tra il foro sotto il medio sinistro e il foro vicino all’indice destro, maggiore della distanza tra gli altri fori, è assolutamente plausibile, in quanto i fori devono essere raggiungibili facilmente da tutte le dita senza doverle divaricare troppo; si trova anche nelle ciaramelle di odierna fabbricazione69. La «celimela», uno strumento ad ancia descritto nel trattato del Tinctoris, era dotata di sette fori. Se i fori erano ben proporzionati si poteva eseguire ogni melodia e lo strumento era detto «tibia […] perfectissima»70. Forse la ciaramella affrescata a Valencia è in relazione con lo strumento descritto dal Tinctoris. Le raffigurazioni dell’ancia doppia e del suo supporto sono, a parere di Febo Guizzi e mio, la più esatta descrizione fino ad oggi conosciuta di questi elementi nell’arte del Rinascimento e la loro più antica testimonianza in strumenti affini alla ciaramella dell’Italia centro-meridionale. Dimensioni e forma del supporto e dell’ancia facilitano il dominio dell’ancia da parte del suonatore, favorendo un’emissione più controllata, migliore intonazione e variazioni dinamiche. Sono chiaramente individuabili le due lamelle di canna che costituiscono l’ancia doppia71. La proporzione tra la lunghezza delle lamelle contrap-

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Se i due pezzi di legno sono di diverse essenze possono anche esserci problemi per i diversi coefficienti di dilatazione. Nel caso di innesto a vite della campana, il rigonfiamento ospita la filettatura. 68 Cfr. Ballester, Los instrumentos musicales cit., p. 365 e Ballester, An unespected cit., p. 16, dove l’ipotesi è parzialmente smentita. La fontanella è un barilotto di legno traforato a protezione della chiave, la quale permette al mignolo di chiudere il foro più basso quando questo si trova troppo lontano perché il dito riesca a raggiungerlo agevolmente. 69 Si provi a digitare «ciaramella» in Google. Si vedranno molti attuali strumenti simili alla ciaramella affrescata a Valencia, come la ciaramella molisana in legno d’ulivo che ne ricorda anche il colore. 70 «Discursu vero temporis eo ventum est: ut tibia que vulgo celimela nuncupatur: nunc septem foraminum sit. Quibus quidem arte recta proportionatis ad omnem cantum proferendum: ipsa tibia effecta est perfectissima». Cfr. Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 36. 71 Il tratto di ancia che poggia sul labbro inferiore presenta una leggera curvatura.


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poste e la lunghezza del supporto (incluso il raccordo tronco-conico) equivale perfettamente a quella delle ciaramelle italiane senza pirouette (e delle rispettive zampogne) della tradizione attuale. Le ance di questi strumenti si distinguono nettamente da quelle di tutti gli “oboe” di tradizione europea e extraeuropea per essere le più grosse e allungate, con lamelle di profilo rettangolare e non triangolare, inserite in un supporto dal diametro più largo e meno rastremato. Queste caratteristiche, in particolare quelle relative a dimensione e forma delle lamelle, fanno sì che la ciaramella senza pirouette sia in grado di sfruttare (in modo non riscontrabile in altri “oboe”) il tratto dell’ancia, collocato tra le labbra, in cui le lamelle sono maggiormente assottigliate e flessibili, lasciando non imboccato né trattato il tratto ben più lungo di canna scoperta72. L’accostamento della ciaramella affrescata a una ciaramella calabrese impressiona per la corrispondenza delle proporzioni dell’ancia, delle sezioni del supporto, degli anelli di tornitura [Figg. 71-71a]. Siamo oggi solitamente abituati ad associare alla ciaramella un suono penetrante e squillante. Esso è presente in alcune tradizioni locali, ma va considerato espressione di una mutazione moderna del timbro, limitata appunto ad alcune zone. In altre zone la voce dello strumento è di regola mitigata da una tecnica esecutiva intrisa di vibrato e di smussature, rese possibili proprio dalle dimensioni e dalla morfologia dell’ancia. Non siamo attualmente in grado di stabilire se e quale rapporto vi sia tra la ciaramella senza pirouette munita di questa particolare ancia e alcune tibiae coniche della Roma imperiale, che presentano ance ad essa accostabili per dimensione e forma. Se infatti l’attuale ciaramella dell’Italia centromeridionale può sembrare un discendente della ciaramella affrescata a Valencia, il cala-

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Fanno eccezione alcune rare pratiche di virtuosismo esasperato, in cui il suonatore è in grado di compiere escursioni longitudinali delle labbra per andare a coprire tratti di canna normalmente destinati ad essere lasciati scoperti, al fine di ricavare glissandi ascendenti (con eventuale relativo ritorno) oppure di estendere temporaneamente verso l’acuto, di una seconda maggiore o di una terza minore, la gamma di note disponibili. Era il caso di Cesare Perilli di Villa Latina (Frosinone), che ancora negli anni Ottanta del Novecento riusciva ad eseguire Stille Nacht (che ha un’estensione di una undicesima) con la ciaramella, che solitamente non oltrepassa la nona. Queste pratiche eccezionali richiedono, oltre che un orecchio e un’intonazione speciali, anche una forza notevole, poiché si tratta di far vibrare nel suo tratto più rigido un’ancia già molto dura in partenza, senza perdere in qualità timbrica; sono quindi indispensabili fiato e controllo dei muscoli facciali eccezionali. Per imitare il Perilli senza possederne le qualità qualcuno provò ad aggiungere alla ciaramella quattro chiavi da clarinetto. Sono grata a Febo Guizzi per le informazioni su modalità costruttive, caratteristiche timbriche e prassi tipiche della ciaramella senza pirouette.


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maulos inciso sulla pietra tombale del musicista Eutychianus (sec. I-II d.C.) potrebbe sembrare un antecedente suo e della relativa canna di zampogna (canna di bordone non suonata con le labbra, ma tramite una riserva d’aria)73. Sicuramente è impossibile stabilire filiazioni dirette saltando arditamente dall’attualità al Rinascimento all’antichità classica. Ciononostante è non solo scientificamente corretto, ma a mio parere indispensabile rilevare sorprendenti analogie. L’angelo che nel bordo del manto porta scritto, vicino alla fibbia, le parole iniziali e una parte della parola finale dell’antifona mariana Salve Regina è intento a suonare un bicalamo [Fig. 11]74. Lo strumento appartiene probabilmente alla numerosa famiglia di aerofoni ad ancia semplice dei cosiddetti doppi clarinetti, documentati in tutta l’area del Mediterraneo fin dall’antichità e presenti nell’iconografia medievale e nella tradizione popolare italiana75. Non è da prendere in considerazione, a mio avviso, l’ipotesi di doppio flauto dolce76, uno strumento pure presente nell’iconografia medievale e nella tradizione popolare italiana. Infatti non v’è traccia di finestrella77, né vi era prima del restauro78, né potrebbe esserci dal momento che il posto dove la finestrella dovrebbe essere collocata è coperto dalla banda del distanziatore. Inoltre il rigonfiamento delle gote per lo sforzo è eccessivo per un flautista e forse in duo con la ciaramella parrebbe più appropriato un altro strumento ad ancia.

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Sul calamaulos, effigie in pietra conservata al Museo Nazionale Atestino di Este (Padova), cfr. F. Guizzi, Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lucca 2002, p. 219 e Guizzi, The oboe of Quintus Appeus Eutychianus. A rare representation of a roman single conical reed-pipe, «Imago Musicae», 18 (2002), pp. 121-154. Come la ciaramella affrescata a Valencia anche il calamaulos sembra costruito in due pezzi; si può evincere dalla linea tra la campana e il canneggio. 74 A destra della fibbia la croce, fondamento di ogni attività dei cristiani (negli organi era posta a contrassegno della canna relativa alla prima nota), introduce le parole iniziali dell’antifona: SALVE REGINA MATRE (sic!). A sinistra della fibbia troviamo la parte finale dell’ultima parola dell’antifona: [MA]RIA [Fig. 55]. 75 Cfr. A. Baines, Strumenti musicali e tradizioni popolari in Italia, cur. R. Leydi - F. Guizzi, Roma 1984, pp. 285-292. 76 Cfr. Ballester, Los instrumentos musicales cit., p. 366. Lo strumento affrescato è stato ricostruito come doppio flauto dolce da Monika Musch e esposto anche alla mostra Gli Angeli musicanti di Valencia a Roma (Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 17 dicembre 2007 - 26 gennaio 2008). 77 La finestrella, caratteristica dei flauti diritti, è la fessura frangi-aria posta sotto l’imboccatura. 78 Cfr. P. Mercé, Fotografía inicial de los Ángeles Músicos de la Catedral de Valencia, in Los ángeles músicos cit., pp. 153-251: 231.


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La convinzione, persistente tra alcuni musicologi, che nel Rinascimento non esistessero strumenti ad ancia singola al di fuori dei bordoni delle zampogne (o cornamuse) può talvolta forzare la lettura dei documenti iconografici, nei quali a parere loro dovrebbero obbligatoriamente esserci errori ogni volta che il testo iconografico non collima con la vulgata corrente. In questo modo spesso si perde la conoscenza e il valore delle fonti, fermo restando che la massima cautela va usata prima di considerare fonte documentaria un’iconografia. Nel caso del nostro bicalamo mi pare veramente una inaccettabile forzatura supporre che un pittore di questo livello e con questo concreto intento descrittivo, di una stupefacente precisione fin nel più minuto particolare, abbia dimenticato l’esistenza della finestrella. Per di più lo strumento affrescato è assolutamente credibile senza finestrella. Dunque, perché dobbiamo noi correggere l’affresco? Le indicazioni acutamente espresse da Aurelio Roncaglia a proposito di un valido esercizio della critica testuale valgono anche per l’iconografia musicale: è antistorico ogni giudizio sui fenomeni introdotto dall’esterno con pretese di assolutezza; i concetti astrattamente sintetici falsano o distruggono i fenomeni individuali nel loro libero dispiegarsi; bisogna evitare il rischio d’irrigidire in astrazioni tipologiche il discorso critico, il quale, se correttamente impostato, non propugna in sede programmatica soluzioni-tipo, bensì la consapevole annessione degli arricchimenti conoscitivi che ogni nuova soluzione comporta; è necessario interpretare caso per caso sulla base del contesto79. Lo strumento potrebbe essere una sorta di doppio clarinetto del tipo a canne divergenti e di diversa lunghezza. Ciascuna canna è dotata di quattro fori. Appena sotto l’imboccatura il distanziatore ferma le canne (ad andamento conico e non cilindrico come nei veri e propri clarinetti) nella posizione comoda per il suonatore. La divergenza piuttosto pronunciata consente un notevole avvicinamento, tramite opportuna smussatura, delle due imboccature, che vanno così a formare un’imboccatura relativamente compatta, facilitando l’immissione del fiato nei due canali80. Il suono emesso è continuo, senza pause per respirare. Infatti, comune a tutta la famiglia dei doppi clarinetti (e alle launeddas che sono triple) è la tecnica della respirazione circolare; permette di alimentare le ance senza interruzione inspirando dal naso e convogliando parte dell’aria nella cavità orale, che, fortemente enfiata, funge da riserva d’aria81. 79 Cfr. A. Roncaglia Saggio introduttivo, in E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956, pp. VII-XXXIX: IX, XIII, XXIX, XXXVIII. 80 Cfr. E. Di Fazio, Gli strumenti musicali nei Monti Lepini, Bologna 1997, p. 52. 81 Cfr. R. Tucci, Catalogo, in Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari. La collezione degli strumenti musicali, cur. P.E. Simeoni - R. Tucci, Roma 1991, pp. 55-378: 272.


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Il canneggio sembra formato dalla congiunzione di diverse porzioni di canna82. Le decorazioni a motivi circolari blu e scanalature potrebbero essere collocate nei punti di congiunzione. Queste decorazioni e gli eleganti motivi ornamentali sul distanziatore rendono il bicalamo affrescato l’interpretazione raffinata di uno strumento noto all’antichità (anche all’antichità classica) e alla tradizione popolare. La canna sinistra (destra per chi guarda) è solo sostenuta dalla mano dell’angelo, che non agisce su nessuno dei quattro fori. Forse nel momento colto dal pittore emette la nota base dello strumento, che non richiede l’occlusione di alcun foro. Oppure non è utilizzata perché l’esecuzione è all’inizio e il suonatore ha cominciato a suonare sulla canna destra, ma non ha ancora aggiunto la sinistra alla sua “composizione”. Sulla canna destra (sinistra per chi guarda), di lunghezza inferiore a quella sinistra, l’angelo sta diteggiando; con la seconda falange del medio chiude completamente il secondo foro83, con l’indice chiude parzialmente il primo foro e con il pollice potrebbe agire su un ipotizzabile foro posteriore84. La distanza tra il secondo e terzo foro della canna sinistra è esattamente uguale alla distanza tra il terzo e quarto foro della canna destra; i fori paiono collocati con estrema precisione. Come per gli altri strumenti affrescati nella capella mayor, potrebbe dare risultati interessanti il rilievo e lo studio accurato delle misure. Non sappiamo se scrivendo della duplex tibia il Tinctoris alludesse anche a strumenti di tipologia affine a quella del bicalamo affrescato, poiché non si sofferma a indicare le caratteristiche dell’ancia85. Certamente non va trascurata la possibile analogia del bicalamo affrescato con quelle varietà di doppi clarinetti dei laziali Monti Lepini che potevano essere utilizzate sia imboccate dal suonatore sia, attraverso l’inserimento in un blocco di legno, come bordoni alimentati dalla sacca della zampogna. Pensiamo alle zampognelle di

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In canna erano costruiti strumenti ad ancia singola nel Medioevo (cfr. Munrow, Instruments of the Middle Ages cit., p. 9) e in canna sono costruiti strumenti ad ancia singola nella tradizione popolare italiana (cfr. Di Fazio, Gli strumenti musicali cit.). 83 Il suonatore di launeddas (un tipo assai particolare di doppio clarinetto) chiude i fori con la prima o seconda falange delle dita (cfr. Tucci, Catalogo cit., pp. 272-273). 84 Gli strumenti di tradizione spagnola non sono muniti di foro posteriore. 85 Probabilmente la duplex tibia del Tinctoris è ad ancia doppia. Con tibia infatti allude allo strumento ad ancia doppia che in tre diverse taglie forma la famiglia delle bombarde. Egli considera la duplex tibia uno strumento imperfetto in quanto non in grado di suonare convenientemente una melodia: «Et quamvis solus tibicen nonnullorum cantuum duas partes: duplici tibia personare possit: quia tamen hec paucis aut pene nullis sufficit cantilenis: imperfecta plurimum est» (Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 37).


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canna, dove la canna «ritta» è munita di quattro fori anteriori e un foro posteriore e la canna «manca» è munita di quattro fori senza foro posteriore86. Nella cornice a sonagli sono inserite coppie di piattini alternate a coppie di bubboli con al centro un piattino [Fig. 2]87. A una corda che la attraversa diametralmente sono appesi altri bubboli; è un espediente per rafforzare la sonorità, oggi in uso anche negli strumenti della campagna romana88. In un pannello dello studiolo di Gubbio a un cordofono a pizzico (l’arpa) è associato un idiofono (la cornice a sonagli). Così a Valencia alla cornice a sonagli è associato un cordofono a pizzico89. Secondo la tradizione ripresa dal Tinctoris, Davide aveva predisposto lyrae (cordofoni) e cymbala (idiofoni) «ut sonarent in excelsis sonitu leticiae». Infatti «Christum lyra personat: et in decacordo psalterio ab inferis excitat resurgentem»90. Per forma, grandezza, colore e posizione negli spicchi della volta, il psalterium decem chordarum è lo strumento che più di tutti gli altri si impone al nostro sguardo, l’unico ben visibile da ogni punto della navata e l’unico che non possiamo ricondurre a modelli d’uso nella normale pratica musicale né a una univoca identificazione organologica [Fig. 3]91. Immediate suggestioni ci colgono nel vederlo e ci portano in direzioni diverse. Ha qualche elemento del salterio, la sua forma ricorda la lira (strumento musicale classico sia mitologico sia della vita reale), le volute superiori possono rimandare alla cetra classica … parrebbe uno di quegli strumenti ibridi nati dall’incontro tra modelli antichi e strumenti contemporanei92, 86 Cfr. Di Fazio, Gli strumenti musicali cit., p. 71. 87 La forma dello strumento appare ovale, come nel

tamburello dipinto da Benvenuto di Giovanni tra il 1470 e il 1475 in Apollo e le Muse (Detroit, Institute of Arts); cfr. Mangiavacchi, Opere d’arte cit., p. 133. 88 Cfr. R. Tucci, I Suoni della campagna romana, Roma 2003, p. 43. 89 Il tamburello è provvisto di membrana, mentre la cornice a sonagli è senza membrana. 90 La lyra suona Cristo e nel salterio a dieci corde chiama su dagli Inferi il risorgente. Cfr. Weinmann, Johannes Tinctoris cit., p. 43. 91 Nella famiglia dei salteri le corde corrono parallelamente alla tavola armonica, mentre nella famiglia delle arpe le corde presentano un angolo d’incidenza con la tavola armonica. Questo aspetto potrebbe portare a definire il psalterium decem chordarum come «salterio a pizzico in forma di lira». I salteri a pizzico possono essere suonati sia tenuti orizzontalmente (su un piano d’appoggio o sulle ginocchia) sia tenuti verticalmente, contro il petto. Nell’iconografia del XV secolo la posizione verticale prevale quasi totalmente su quella orizzontale. Al contrario dello strumento affrescato, i salteri a pizzico portano corde di diversa lunghezza. Questo cordofono di Valencia è uno strumento anomalo che sfugge a una rigida classificazione organologica, pare un singolare incrocio tra un salterio quattrocentesco e una lira classica. Preferisco dunque chiamarlo psalterium decem chordarum. 92 Si pensi a strumenti cinque-seicenteschi giunti sino a noi, come i chitarroni in forma


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come gli strumenti per gli spettacoli segnalati dal Winternitz, fantasiosi, ma realmente costruiti e utilizzati in quelle occasioni93, e come gli «stromenti non pure alla moderna, ma alla greca e all’antica» suonati negli «studi di musica»94 e rappresentati nell’arte del Quattro-Cinquecento95. Gli artisti nel riprendere i modelli antichi (dalle raccolte di disegni di antichità in circolazione o dall’osservazione diretta delle antichità) potevano incorrere in qualche errore interpretativo, scambiando, ad esempio, il fondo di un bassorilievo per una tavola armonica e aggiungendola così impropriamente alla lira96. Lo strumento di Valencia è emblema di una visione cristiana del mondo fondata su un sincretismo totale, che innesta il pensiero teocratico medievale nell’humus rinnovato della tradizione classica97. Il nostro psalterium decem chordarum è armato appunto con dieci corde, di uguale lunghezza, tese tra dieci piroli forse cordiformi98 (infissi nella fascia superiore della cassa armonica) e il ponticello, che funge anche da cordiera, come avviene ancora nel Cinquecento in cordofoni di sicura identificazione organologica99.

di lira o lire attiorbate conservati al Kunsthistorisches Museum di Vienna e al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. 93 Cfr. E. Winternitz, Musical Instruments for the Stage in Paintings by Filippino Lippi, Piero di Cosimo and Lorenzo Costa, in Musical Instruments and their Symbolism in Western Art, New York 1967, pp. 211-224: 213. Ad esempio, la lira classica dotata di manico (simile alla lira chitarra di moda durante l’Impero francese) suonata da Parthenice in un affresco di Filippino Lippi della cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze è uno strumento inventato dallo stesso Lippi o da uno stage designer secondo il Winternitz (ibid., p. 223 e tav. 74). 94 Cfr. F. Sansovino, Venezia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, cc. 138v-139r, citato in R. Meucci, Le collezioni di strumenti musicali in Italia tra Rinascimento e Barocco, in Meraviglie sonore. Strumenti musicali del barocco italiano. Catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, 12 giugno - 4 novembre 2007), cur. F. Falletti - R. Meucci - G. Rossi Rognoni, Firenze 2007, pp. 29-47: 35. 95 Su questo particolare genere di strumenti cfr. anche R. Silva, Strumenti musicali “alla greca e all’antica” nel Rinascimento, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, cur. S. Settis, I, Torino 1984, pp. 363-372. 96 Cfr. Winternitz, Musical Instruments cit. 97 Sui fondamenti storico-culturali del nuovo impero cristiano cfr. M. Miglio, Roma dopo Avignone. La rinascita politica dell’antico, in Memoria dell’antico cit., pp. 73-111: 98. 98 Teste dei piroli a forma di cuore sono nella quattrocentesca «violeta» di Santa Caterina de Vigri e in cordofoni del Cinquecento, per i quali cfr. C. Donzelli, Su un pirolo d’età romana dal teatro di Scolacium, «Studi Musicali», 23/2 (1994), pp. 231-240: 233. 99 Si veda la cetera affrescata nel castello di Malpaga (Bergamo) verso la metà degli anni Trenta del Cinquecento. Cfr. L. Mauri Vigevani, “Fioritura” di strumenti musicali in terra di Venezia: gli affreschi con le virtù del castello di Malpaga, in Miscellanea marenziana, cur. M.T.R. Barezzani - A. Delfino, Pisa 2007 (Diverse voci, 9), pp. 533-576: 561.


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Si noti la precisione nella raffigurazione dell’avvolgimento delle corde intorno ai piroli e del loro annodamento al ponticello e nella raffigurazione di ogni particolare costruttivo, oltre che decorativo. Può essere uno strumento progettato con preciso intento simbolico su esplicita richiesta del committente, ma ciò non implica necessariamente, come abbiamo visto, che lo strumento non sia stato realmente costruito. L’angelo tocca delicatamente le corde con le prime dita. Sulla tavola armonica, dalle venature e dal colore diversi rispetto a quelli del liuto (più tendente al rosso) e della chitarra (più tendente al giallo chiaro)100, una rosetta ovale a traforo è inserita in un incavo a rettangolo con il lato minore per base. Sul ponticello, bianco come le sfingi e la fascia superiore della cassa, una semplice linea è dipinta a profilare il bordo e arricchita da punteggiature nei baffi. L’intaglio “a squame”, che caratterizza le fasce laterali, è molto simile a quello della cinquecentesca (o seicentesca) ribeca in forma di delfino costruita da Baptista Bressano101. Le fasce laterali e la base sono delimitate da cornici, dorate come la lunetta a coronamento dello strumento. Nella lunetta sono scolpite alcune figure: sulla destra un giovane vigoroso a torso nudo, simile a una divinità fluviale, è sdraiato su un fianco, ha un’acconciatura o un copricapo (orientaleggiante?); dallo spazio entro il gomito su cui il giovane è appoggiato sembrano uscire le spire di un serpente la cui testa parrebbe nell’angolo, accanto a quella del giovane; a sinistra un putto alato. L’iconografia (un’allusione ai quattro elementi?) potrebbe avere una fonte classica (sarcofago?). Sulla base, nella luce del colore chiaro le sculture di due bellissime sfingi dallo sguardo severo si stagliano ai fianchi del psalterium, quasi “a guardia” dello strumento, e ne connotano l’identità, legata alla straordinariamente soave e attraente armonia delle virtù celesti: «Ipsum quoque psalterium instar instrumenti musici nominatum esse non dubium est, eo quod in ipso contineatur caelestium virtutum suavis nimis et grata modulatio»102.

100 Il colore della tavola della viola si stacca nettamente da quello delle tavole dei cordofoni a pizzico, è più scuro e di diversa tonalità. 101 Lo strumento è conservato al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna (inv. n. 1758). È stato datato al XVI secolo (L. Cervelli, Mostra di antichi strumenti musicali, Modena 1963, scheda n. 64; Winternitz, Die schönsten Musikinstrumente des Abendlandes, München 1966, p. 84) e a fine XVI - inizio XVII secolo (J.H. Van der Meer, Strumenti musicali europei cit., scheda n. 117). 102 Cassiodoro, De musica, 2 V.3.


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La sfinge alata, divinità solare dell’antico Egitto, trasmigrò nei misteri cristiani come simbolo del «Signore dei due orizzonti» (l’Oriente e l’Occidente: la nascita e la morte di Gesù), del Dio della luce, della sorgente stessa della sovrabbondanza, del detentore e possessore degli eterni segreti103. In questa accezione teologica la sfinge alata è scolpita nel pulpito della chiesa di San Cesareo de Appia a Roma104, sulla facciata di San Nicola a Bari e in un pilastro della porta della Cappella Colleoni a Bergamo, è miniata in un antifonario dell’Italia settentrionale del secondo Quattrocento, dove occupa quasi metà del fregio della cornice105, e appare nella decorazione del trono della Madonna del Caballero de Montesa106. Avviene poi, come per altre figure originariamente dense di significato, che nel volgere dei secoli la sfinge sia ripetuta inconsapevolmente nelle decorazioni, magari accanto alla classica lira alla maniera dei modelli antichi107. Il psalterium decem chordarum di Valencia sembra nascere dall’incontro tra l’antico e il contemporaneo, dall’accoglimento e dalla trasfigurazione, nell’alveo della civiltà cristiana, di diverse culture (mondo pagano classico e orientale, ambiente giudaico). In questo biblico psalterium decem chordarum le sfingi conservano il loro forte significato cristologico: privilegiano il Decalogi decacordus, che, primo fra tutti gli strumenti musicali, rivela come la musica sia fortemente connessa, mescolata con la religione: «In ipsa quoque religione [musica] valde permixta est, ut sunt Decalogi decacordus, tinnitus cytharae, tympana, organi melodia, cymbalorum sonus»108.

Tutti gli strumenti erano usati in chiesa? Certamente non tutti durante la liturgia; ogni varietà di strumenti poteva invece partecipare a sacre rap-

103 Cfr. F. Moretti, Specchio del mondo. I bestiari fantastici delle cattedrali. La Cattedrale di Bitonto, Fasano 1996. 104 Il pulpito proviene dalla basilica di San Giovanni in Laterano. 105 Cremona, Archivio Storico Diocesano, Antifonario del 1482, codex VI, c. 2v. 106 Cfr. Marías, Affreschi nella cattedrale cit., p. 72. 107 Tra i tanti esempi, gli affreschi ottocenteschi della sala principale di palazzo Raimondi a Cremona (Aula magna dell’attuale sede della Facoltà di Musicologia). Conserva invece una connessione con significati esoterici l’arpa-lira ottocentesca italiana con due sfingi sul basamento e la raffigurazione di sole e luna a coronamento dei bracci della “lira”. Lo strumento, firmato da Carlo Scalfi, è conservato al Metropolitan Museum di New York (Winternitz, Die schönsten Musikinstrumente cit., pp. 242-243). 108 Cassiodoro, De musica cit. La frase precede immediatamente quella citata sopra. In una lettera attribuita a s. Gerolamo un psalterium decacordum di forma rettangolare è interpretato simbolicamente: le dieci corde rappresentano i dieci comandamenti e i quattro lati della cassa i quattro vangeli (cfr. W. Apel, Harvard Dictionary of Music, Cambridge 1972, p. 705).


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presentazioni e processioni. In queste occasioni capitava che fanciulli-angeli cantassero dolcemente e che tutti gli strumenti fossero suonati, come a Roma nel 1462 durante la solenne affollatissima processione per il trasferimento dalla Grecia della testa di sant’Andrea o a Viterbo, nello stesso anno, durante la processione del Corpus Domini. Incuriosisce constatare che in entrambe le processioni gli allestimenti di Rodrigo Borgia avevano studiato con grande cura la partecipazione della musica. Nella processione romana della Domenica delle Palme (11 aprile 1462) gli apparati di Rodrigo per onorare il passaggio della reliquia decisamente superavano quelli che gli altri cardinali avevano predisposto presso i loro palazzi lungo il percorso tra Campo dei Fiori e San Pietro. Il Borgia aveva ornato anche le case dei vicini e la piazza, rifulgente d’oro come la domus aurea, sembrava un paradiso pieno di soavi suoni e canti109. Due mesi dopo a Viterbo, dov’era ospite la corte papale in fuga dalla peste romana, per la processione del Corpus Domini (17 giugno 1462) il vicecancelliere Rodrigo, che era stato prefetto della città, offriva scene viventi. Canto, trombe, organi e innumerevoli strumenti prendevano parte a una rappresentazione drammatica tra angeli, re, armati. Dopo la Divina Liturgia fu rappresentata l’Assunzione della Vergine, alla quale parteciparono le schiere degli spiriti celesti cantando e suonando i loro strumenti110. All’inizio del Quattrocento appartiene il Misterio Asuncionista della cattedrale di Valencia111. Non so se nella seconda metà del Quattrocento la cattedrale fosse teatro di sacre rappresentazioni, se fosse prevista la partecipazione di strumenti musicali e se la Confraria de la Verge Maria, che appare insieme al Capitolo nei primi documenti sugli affreschi112, promuovesse anche questo genere di attività. La concezione generale del concerto angelico nella capella mayor, la coreografia dello spazio celeste è d’ispirazione italiana. All’arte italiana ri-

109 Pio II (Enea Silvio Piccolomini), I Commentari, ed. M. Marchetti, Siena 1997, p. 448. 110 Ibid., pp. 466-469. È stato ipotizzato che il concerto angelico in onore dell’Assunta,

affrescato da Gaudenzio Ferrari nella cupola del Santuario di Saronno (1535-1536), sia in connessione con le sacre rappresentazioni che avvenivano nel santuario, durante le quali esseri umani vestiti da angeli suonavano reali strumenti musicali (cfr. A. Di Lorenzo, Gaudenzio Ferrari e la cupola di Saronno, in L. Lazzaroni - A. Artioli - A. Di Lorenzo - S. Boccardi, Il concerto degli angeli. Gaudenzio Ferrari e la cupola del Santuario di Saronno, Cinisello Balsamo [Milano] 1990, pp. 20-31: 24-26). 111 Cfr. C. Magraner, El silencio de los ángeles, in Los ángeles músicos cit., pp. 337-346: 338. 112 Cfr. Tolosa Robledo - Company Climent, Pinturas murales cit., p. 378, documento 196, datato 18 luglio 1472.


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mandano le peculiarità costruttive e decorative degli esemplari di strumenti musicali affrescati113. Negli ángeles músicos, affrescati a Valencia nell’ottavo decennio del Quattrocento, riemerge una straordinaria presenza d’ispirazione prevalentemente italiana in terra spagnola che impone alcune riflessioni anche per la sua precocità. La viola affrescata a Valencia grazie all’intervento del cardinale Rodrigo, un modello vicino a quello diffuso nelle prime rappresentazioni e a quello dei primi reperti di viola “da gamba”, precede tutte le testimonianze iconografiche spagnole riportate da Ian Woodfield a sostegno della sua ipotesi d’origine della viola da gamba. Questa, a parere dello studioso che non poteva conoscere gli affreschi riscoperti nel 2004, sarebbe arrivata dalla Spagna in Italia grazie al determinante contributo dei due papa Borgia, Callisto III e Alessandro VI114. La viola di Valencia è di costruzione italiana o spagnola? Difficile stabilirlo. Altrettanto difficile, ritengo, poter individuare origine e sviluppo lineare di uno strumento, specialmente per un’epoca in cui non esisteva standardizzazione, non esisteva “il” liuto, “la” viola ecc., ma un’incredibile varietà di modelli per ogni tipologia di strumenti. Occorre, a mio parere, essere molto prudenti e nello stesso tempo non trascurare nessun indizio. Il Tinctoris scrive che gli Spagnoli inventarono la viola “da gamba”, ma non afferma che la inventarono in Spagna. La sua testimonianza dunque non costringe a escludere l’ipotesi che gli Spagnoli possano aver dato il loro contributo determinante per un’affermazione significativa dello strumento nell’ambiente italiano d’influenza aragonese, cioè tra Napoli - Ferrara e forse Roma, che nella seconda metà del Quattrocento era una città veramente co-

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Un esempio romano poco noto di concerto angelico si trova al Monastero di Tor de’ Specchi nell’affresco, datato 1468, che rappresenta il transito di santa Francesca Romana, opera stilisticamente assai lontana dagli affreschi di Valencia, dove però dodici angeli musicisti suonano un insieme di strumenti (tra i quali un bicalamo) paragonabile a quello di Valencia. Cfr. D. Esch, Musikinstrumenten in den römischen Zollregistern, in Studien zur italienischen Musikgeschichte XV, cur. F. Lippmann, Laaber 1998 (Analecta musicologica, 30/I), pp. 41-68: 66-68 [Fig. 72]. 114 I. Woodfield, The Early History of the Viol, Cambridge 1984; La viola da gamba dalle origini al Rinascimento, cur. R. Meucci, Torino 1999. L’unico dipinto con viola ad arco (con C nelle fasce) che potrebbe essere contemporaneo agli affreschi è la Madonna in trono col Bambino e angeli musicanti di San Feliu a Játiva (tav. 38 ed. italiana). Le proposte di datazione agli anni Settanta / Ottanta o al «1473 circa» sono però assolutamente ipotetiche. La maggior parte dei dipinti valenzani con viole furono eseguiti tra il 1485 e il 1510 (ibid., p. 75).


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smopolita, dove la mescolanza di culture diverse e le corti dei cardinali favorivano in modo eccellente lo sviluppo di ogni attività artistica115. Nel gioco di sponde sul Mediterraneo, di cui Massimo Miglio parlava in apertura del convegno, in via del tutto ipotetica si può provare a invertire la direzione del flusso Spagna-Italia supposta da Woodfield per la viola da gamba? Forse proprio il viaggio di Rodrigo a Valencia nel 1472 e la grandiosa iconografia del Duomo possono aver agito da propulsore dello strumento in Spagna? Allo stato attuale delle ricerche, molto carenti riguardo l’iconografia e i documenti relativi agli strumenti musicali quattrocenteschi tra Napoli Ferrara e Roma116, è sicuramente azzardato affermarlo, ma secondo me è altrettanto azzardato negare almeno un ragionevole dubbio in proposito. I pittori Francesco Pagano e Paolo da San Leocadio arrivarono a Valencia nel 1472 insieme al cardinale Rodrigo appositamente per dipingere la cappella117. Certamente dovettero concordare con lui la loro proposta. Forse avevano portato con loro dall’Italia cartoni e disegni preparatori, forse li approntarono successivamente in accordo con Rodrigo, di fatto il committente degli affreschi118. Comunque sia ebbero tutto il tempo di disegnare nei minimi dettagli di costruzione, decorazione, prassi gli strumenti musicali e i suonatori, copiandoli dal vero. A Roma Rodrigo sicuramente disponeva di cantori e strumentisti nel suo sontuoso palazzo, uno dei più belli di tutta l’Italia119. Come abbiamo

115

Cfr. W.F. Prizer, Cardinals and courtesans: secular music in Rome, 1500-1520, in Italy and the European Powers. The Impact of War, 1500-1530, cur. C. Shaw, Leiden-Boston 2006, pp. 253-277. 116 Per la storia degli strumenti musicali a Roma nel Quattrocento si segnala l’interesse di Esch, Musikinstrumenten cit. 117 «Libre tercer de la dita pintura, la qual pintura en part a fer despesa la Seu als pintós venguts novament ab lo senyor cardenall e bisbe deValència en Rodrigo de Borga, lo qual senyor mena los dits pintós per fer e revenir lo cap de la capella de la Verge Maria de la Seu, ço ès de pintar al fresc alls qualls pintós dien mestre Francisco e all altre mestre Paullo, hoc encara, un altre qui vench ab ells qui dien mestre Riquart, lo quall mestre Riquart no-s mete en rebada la dita pintura, e açò per ensays qui feren fer a la u e a l’altre qui mills faria la dita pintura, an se’n ensegit algunes mesións e són les rebudes lo segent per obs de la dita pintura any MCCCCLXXII». Cfr. Tolosa Robledo - Company Climent, Pinturas murales cit., p. 378, documento 187. 118 Formalmente il contratto, datato 28 luglio 1472, è tra i pittori Paolo da San Leocadio e Francesco Pagano e il Capitolo della cattedrale di Valencia (ibid., p. 380, documento 5). 119 T. Magnuson, Studies in Roman Quattrocento Architecture, Stockholm 1958, p. 230, citato da X. Company (Alexander VI i Roma. Les empreses artístiques de Roderic de Borja a


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visto, era in grado di esibirli con eccellenti risultati. È assai verosimile che il cardinale Borgia avesse una collezione di strumenti musicali120. Gli strumenti affrescati sono citazioni precise di oggetti reali, sono copie di esemplari individuali di strumenti. E se a Valencia fossero stati affrescati gli strumenti di Rodrigo? La magnificenza decorativa (e forse il significato di alcuni soggetti e “imprese”) degli strumenti potrebbero appoggiare questa ipotesi. Se proprio ad essi il cardinale, in anni decisivi per l’affermazione del suo prestigio121, avesse affidato memoria di sé negli affreschi più importanti della sua Valencia? Gli strumenti affrescati a Valencia rappresentano una preziosa fonte per molti aspetti musicali, una fonte che rivoluziona una parte delle nostre conoscenze e un’altra parte integra con una ricchezza stupefacente di dati precisi e significativi. Gli affreschi dimostrano, a mio parere, l’esistenza nel Quattrocento di strumenti condannati al silenzio dai posteri (gli strumenti ad ancia semplice), attestano in modo mai così puntualmente notato prima particolarità di costruzione (mantici dell’organo, ancia e suo supporto della ciaramella …), di prassi (modo di suonare l’arpa e la chitarra …), impongono forti dubbi su alcune ipotesi consolidate (generalmente ormai date per scontate) circa il luogo di affermazione di alcuni strumenti rinascimentali e così via come si è andato osservando in queste pagine. Itàlia, Valencia 2002 [Biblioteca Borja, 1], p. 43), che sottolinea il carattere esuberante dello stile decorativo del palazzo romano di Rodrigo cardinale vicecancelliere. 120 Non a caso le prime testimonianze su collezioni di strumenti musicali riguardano Ferrara e Napoli. Nel palazzo degli Estensi a Ferrara al tempo di Ercole I era destinato un locale alla loro conservazione. Infatti una lettera del 1481 fa riferimento alla «camera de la musica» in cui erano riposti gli strumenti (cfr. lettera di Franciscus Siccus de Aragona a Federico Gonzaga, datata 4 maggio 1481, Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, busta 1229, citata in L. Lockwood, Gli strumentisti, in La musica a Ferrara nel Rinascimento. La creazione di un centro musicale nel XV secolo, Bologna 1987, pp. 178-186: 186). A Napoli alla collezione di Ferdinando I d’Aragona non mancava nessuna tipologia di strumenti, come risulta dai beni elencati alla sua morte (1494): «nullum musicis instrumentum quod manu, pectine, ore pulsari posset desiderabatur» (Roma Biblioteca Casanatense, ms. 805, Raffaello Lippo Brandolini, De musica et poetica opusculum, ff. 16v-18r, pubblicato in A. De La Fage, Essais de diphthérographie musicale ou notices, descriptions, analyses, extraits et reproductions de manuscrits relatifs à la pratique, à la théorie et à l’histoire de la musique, Paris 1864, ediz. anast. Amsterdam 1964, pp. 62-65). Sono convinta che una ricerca nei fondi archivistici relativi a Roma nel Quattrocento darebbe risultati molto interessanti. 121 Durante il pontificato di Sisto IV Rodrigo Borgia concesse la condizione di «familiares» a più di 220 persone. Gli anni Settanta furono d’importanza fondamentale per l’affermazione del potere politico del cardinale Borgia. Cfr. M. Vaquero Piñeiro, Valencianos en Roma durante el siglo XV: una presencia en torno a los Borja, in El hogar de los Borja. Catalogo della mostra (Xátiva, Museu de l’Almodi, Antic Hospital Major, 16 XII 2000 - 28 II 2001), Valencia 2000, pp. 185-198: 191.


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Ma non è solo per questo che siamo grati a chi più di cinquecento anni fa li fece eseguire e a chi oggi ce li ha restituiti. Fermiamoci davanti a questi angeli, incredibilmente riapparsi d’improvviso e velocemente recuperati al nostro sguardo grazie al sapiente intervento degli amici spagnoli. Fermiamoci. Ne abbiamo bisogno. Plastici come sculture o fittili bassorilievi, dai colori netti, accostati per forti contrasti, quasi miniature ingigantite e accuratamente rifinite in ogni più minuto particolare, maschi e vigorosi come mai angeli erano stati dipinti (colli rigonfi, mascelle volitive …), questi angeli prepotentemente ci invitano, ci conducono a guardare verso il cielo. Anzi, siamo trascinati dalle loro ali gigantesche verso l’Altissimo: «la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli»122.

122

«Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini, che stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta». Questo ci ricorda papa Benedetto XVI nel discorso pronunciato durante l’incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins (Parigi, venerdì 12 settembre 2008).


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JORDI BALLESTER TRADICIÓN, FANTASÍA Y REALISMO EN LOS INSTRUMENTOS MUSICALES REPRESENTADOS EN EL ALTAR MAYOR DE LA CATEDRAL DE VALENCIA*

Los ángeles músicos simbolizan, en la iconografía de Occidente, la armonía celestial que emana de Dios y que rige todo el universo. De acuerdo con este concepto elaborado por la teología medieval a partir de la filosofía pitagórico-platónica heredada de la Antigüedad, la música de los ángeles no es humana sino divina, y representa la sublimación de la idea terrenal de “música”. Dicha sublimación convierte la música de los ángeles en una música perfecta y, en consecuencia, inaccesible al oído humano. Es en este marco simbólico en el que Francesco Pagano y Paolo de San Leocadio representan en los frescos de la catedral de Valencia el coro de ángeles tañendo instrumentos musicales, no cabe duda de que, a los ojos de cualquier espectador, dichos instrumentos resultan absolutamente sorprendentes, no solo por sus enormes dimensiones – totalmente infrecuentes en la iconografía valenciana de la época – sino especialmente por su apariencia impecablemente realista. Ciertamente, la tendencia al realismo en el arte del siglo XV no es nada nuevo. Tanto la pintura como la escultura del arte gótico están salpicadas de detalles que nos remiten a la realidad contemporánea. En el caso de las representaciones de instrumentos musicales ese realismo ha sido objeto de numerosos estudios, algunos de ellos en el ámbito de la propia Corona de Aragón, que ponen de manifiesto el valor musicológico y organológico de muchas representaciones de ese período1. Como es bien conocido, ade* Este trabajo ha sido posible gracias a una subvención del Ministerio de Ciencia e Innovación del Gobierno de España al proyecto de investigación: La evolución de la música histórica en Valencia y su comunidad: fuentes, géneros, escenario y mercado (siglos XV a XVIII). 1 V.J. Ballester, Els instruments musicals a la Corona d’Aragó (1350-1500): els cordòfons, Sant Cugat del Vallès 2000.


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más, la tendencia al realismo, lejos de declinar, se acentúa todavía más en el arte renacentista con la aparición y el desarrollo del pensamiento humanista que insta a pintores y a escultores a mirar hacia el mundo clásico y a sus valores y modelos artísticos. La obra de Francesco Pagano y Paolo de San Leocadio en la bóveda del altar mayor de la catedral de Valencia es – al menos desde el punto de vista musical – un auténtico paradigma de la encrucijada en la que se encuentra el arte y la iconografía durante la segunda mitad del siglo XV: tradición medieval y modernidad renacentista se combinan en unos frescos que, en su conjunto, nos sitúan ante la vanguardia artística de su época, al menos a lo que a Valencia y a la Corona de Aragón se refiere. De este modo, aunque el tema iconográfico de los ángeles músicos no tenga nada de original (de hecho nos remite a uno de los temas habituales del arte bajo-medieval), la interpretación que Pagano y San Leocadio hacen de él nos sitúa ante una concepción estética nunca antes vista en la Península Ibérica. He de confesar que mi primera impresión, al observar los instrumentos musicales pintados en los frescos, fue la de hallarme ante unas imágenes casi fotográficas y aparentemente tomadas a partir de modelos reales. Prácticamente todos ellos son instrumentos identificables y susceptibles de ser comparados a simple vista con otras fuentes iconográficas, documentales y arqueológicas de la época. Los hay de viento, de cuerda y de percusión. Se trata de dos magníficas trompetas bastardas, una chirimía, un órgano portátil, un aerófono de dos tubos (presumiblemente un instrumento de lengüeta tipo “aulós”), un laúd, un arpa, una vihuela de mano, una viola o vihuela de arco, una dulcema (o salterio percutido), una cítara, y un aro con sonajas y cascabeles2. Sin embargo, llama enseguida la atención la heterogeneidad del conjunto instrumental. Una combinación francamente inverosímil que, por cierto, nos remite clara y directamente a las tres categorías de instrumentos mencionadas en el Salmo 150 (viento, cuerda y percusión)3. Parece que los artistas estaban más interesados en reflejar los textos sagrados que en pintar un conjunto instrumental real. Solo así se explica la mezcla de ins-

2 J. Ballester, Los instrumentos musicales de los frescos de la Catedral de Valencia, en Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, cur. M.C. Pérez García, Valencia 2006, pp. 347-367. 3 «Alabad a Dios al son de las trompetas, / alabadle con el salterio y la cítara. / Alabadle con tímpanos y danzas, / alabadle con las cuerdas y la flauta. / Alabadle con címbalos sonoros, / alabadle con címbalos resonantes».


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trumentos “altos” – capaces de emitir un gran volumen de sonido – con otros de escasa potencia sonora, o la abundancia de instrumentos de tesitura aguda frente a la práctica ausencia de instrumentos graves. Además, el conjunto incluye una mezcla de instrumentos plenamente vanguardistas, aparecidos en el panorama musical europeo pocos años antes de la realización de las pinturas (como la vihuela de arco, la vihuela de mano o la trompeta bastarda), junto a otros que prácticamente habían caído en desuso y nos remiten a la tradición iconográfica medieval al presentar características totalmente arcaizantes (como el órgano portátil o el arpa de dimensiones reducidas) e incluso instrumentos cuya apariencia nos remite al mundo de la antigüedad grecorromana (como el aerófono de doble tubo o la cítara). Unos problemas sin duda irrelevantes en un conjunto de música celestial, pero absolutamente determinantes para la interpretación de música terrenal4. Por otra parte, el análisis pormenorizado de cada uno de los instrumentos pone de relieve que, si bien en su mayoría presentan detalles claramente basados en instrumentos musicales perfectamente identificables, son muchos los aspectos que indican que no se trata de reproducciones exactas de instrumentos reales. No en vano estamos ante una obra de arte en la que los pintores recrearon la realidad, la transformaron con el objetivo de mostrarnos su visión de un mundo angélico absolutamente idealizado, en el que el ser humano y los objetos del mundo cósmico no son sino pálidos reflejos de la sublime perfección divina. En definitiva, podemos afirmar que, inspirados en instrumentos musicales contemporáneos, tomando a la vez modelos iconográficos procedentes de la vasta herencia occidental y partiendo de su formación renacentista italiana, los artistas pintaron los frescos combinando imaginación y realidad, mezclando tradición y modernidad y consiguiendo de este modo un espectacular efecto de realismo absolutamente acorde con el ideal estético de su tiempo. En mi opinión, no cabe ninguna duda de que, en cuanto a los instrumentos musicales se refiere, Pagano y San Leocadio pusieron de manifiesto en los frescos su voluntad de ser “modernos”: aplicaron en su pintura todo aquello que habían aprendido en Italia y especialmente lo que habían visto en Roma, lo enriquecieron con lo que vieron y conocieron en Valencia durante los años en que duró la ejecución de la obra, atendieron 4 Sobre las combinaciones de instrumentos musicales en la Edad Media y el Renacimiento v. T. McGee, Medieval and Renaissance Music. A Performer’s Guide, Toronto 1988; y Performance Practice. Music before 1600, cur. H.M. Brown - S. Sadie, New YorkLondon 1989.


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a la vez los deseos y las indicaciones del cabildo (que actuaba como comitente) y todo ello, además, sin dejar de respetar la tradición iconográfica de los ángeles músicos. Para ilustrar esta hipótesis, centraré mi exposición en tres de los once instrumentos representados en la bóveda valenciana: la vihuela de arco, el órgano portátil y la cítara. Estos tres instrumentos ejemplifican perfectamente, a mi parecer, la sorprendente y extraordinaria combinación de influencias y de modelos que los artistas conjugaron en los frescos, ya que encarnan respectivamente la modernidad, la tradición medieval y la fantasía inspirada en el mundo grecorromano. La vihuela de arco Entre los instrumentos claramente vanguardistas representados en la bóveda de Valencia destaca la vihuela de arco [Fig. 7]. Se trata de una de las primeras representaciones del instrumento a partir del cual se desarrolló, justamente en esos años, la “viola da gamba” renacentista. De hecho, la aparición de este tipo de instrumentos en el panorama musical europeo se sitúa en la segunda mitad del siglo XV: es decir, muy pocos años antes de la realización de los frescos de la catedral de Valencia. Según la tesis de diversos autores, entre los que destaca Ian Woodfield, el nacimiento y el primer desarrollo de la vihuela de arco tuvo lugar precisamente en Valencia – y por extensión en la Corona de Aragón – cuando empezaron a tocarse con arco las primitivas vihuelas de mano (una de las cuales aparece también representada en los frescos)5. No es pues casual que ambos instrumentos presenten características comunes: los dos son instrumentos con caja de resonancia de fondo plano, ambos tienen mango, y sus clavijeros son similares. El caso es que los estrechos vínculos de la Corona de Aragón con la Península Italiana facilitaron una rápida expansión de estos nuevos instrumentos hacia Italia – sin duda la familia Borja contribuyó activamente en este proceso de difusión – donde muchos constructores y músicos debieron proponer pequeñas modificaciones que ayudaron a convertir el instrumento aragonés en la que hoy conocemos como la familia de las violas “da gamba” del siglo XVI.

5

Ver I. Woodfield, The Early History of the Viol, Cambridge 1984, pp. 61-79; y Ballester, Els instruments musicals cit., pp. 131-143.


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En cualquier caso, el instrumento pintado en la catedral de Valencia responde, en líneas generales, a las características que hasta ahora conocíamos de las vihuelas de arco: presenta una caja de resonancia con la cintura entallada; la tabla armónica es ligeramente convexa y se encuentra unida al fondo de la caja por medio de aros; y el mango – con trastes – está rematado por un clavijero en forma de hoz que culmina con una cabeza de león tallada en su extremo. Además, tal como es habitual en las primitivas representaciones de la vihuela de arco, la forma alargada del instrumento y la poca profundidad de la caja confieren al conjunto una apariencia marcadamente ligera y esbelta6. No obstante, vale la pena detenerse un instante en algunos de estos aspectos y examinar algunas de las peculiaridades de la obra de Pagano y San Leocadio. En primer lugar, llama la atención la curva que describe el entallado de la caja: se trata de una línea sorprendentemente suave en comparación con el entalle anguloso que suelen presentar no solo las primitivas vihuelas de arco valencianas – que significativamente recuerdan la caja de la vihuela de mano de la bóveda de la catedral – sino también la mayoría de violas da gamba de los siglos siguientes [Fig. 73]7. Esta característica, a mi entender, da a la vihuela un aire de modernidad y la vez de italianismo, ya que esta silueta nos remite a cierto tipo de violas de arco, que solo encontramos en la iconografía italiana – que no en la valenciana – del siglo XVI. Resulta, además, que este es el tipo de entallado que se popularizó entre algunos luthiers italianos de la segunda mitad del siglo XVI. Uno de los ejemplos más representativos es el del constructor Gasparo da Salò (1540-1609), de quien se conservan interesantes violas “da gamba” con siluetas muy similares a la pintada en Valencia aunque construidas a partir de 1570, es decir unos cien después de que fuesen pintados los frescos

6 Ciertamente, existen múltiples variantes en cuanto a la forma de la caja de las vihuelas primitivas en la iconografía. Algunas tienden a la forma rectangular – con los hombros elevados y formando ángulo recto con el mango –; otras presentan una silueta de hombros caídos, etc. Aunque nos encontramos en el terreno de la iconografía, es posible que estas variantes reflejen más o menos de cerca la realidad, dado que el instrumento se hallaba en una fase de experimentación en el que, tal como sugieren las representaciones, los constructores probaban constantemente con diseños alternativos. 7 Otra representación valenciana de la primitiva vihuela de arco, que merece ser comparada con el instrumento de la bóveda de la catedral, es, por ejemplo, la que aparece en la tabla con la Virgen de la Leche, Santiago y san Matías, pintada hacia 1468 por Valentí Montoliu (segunda mitad del siglo XV) para la Ermita de Sant Feliu de Xàtiva, hoy en el Museo de la Iglesia Colegial de Santa María de la misma población. Esta pintura se encuentra reproducida en Woodfield, The Early History cit., p. 62.


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valencianos. En mi opinión, pues, es muy probable que el modelo (iconográfico o real) que inspiró a los pintores procediese de Italia, donde la vihuela de arco aragonesa habría sufrido diversas transformaciones en los años inmediatamente precedentes. También son indicativas de esta modernidad y de la influencia italiana las dos aberturas en forma de C que se observan sobre la tabla armónica. Es precisamente este tipo de abertura la que caracterizará la vihuela de arco del siglo XVI, en contraste con la arcaizante preferencia por las oberturas circulares, propias de la vihuela de mano y del laúd, que predominan en las pinturas valencianas del siglo XV. Respecto al clavijero, hay que señalar que, aunque la forma de hoz se encuentra en una buena parte de la iconografía aragonesa de la época, en algunas representaciones de la segunda mitad del siglo XV los artistas optaron por clavijeros planos y perpendiculares al mango – con una apariencia que recuerda al de los laúdes contemporáneos –. A mi entender, es muy posible que esa fuese la forma de los clavijeros de las primitivas vihuelas por lo que, de nuevo, nuestro fresco nos sitúa ante una de las representaciones más modernas de este cordófono. Digno de mención es también el puente que eleva las cinco cuerdas del instrumento – cifra que, por cierto, coincide con el número de cuerdas habitual en la iconografía aragonesa y que concuerda plenamente con las referencias a la “viola da gamba” que aparecen durante la primera mitad del siglo XVI, tanto en tratados teóricos italianos como alemanes8 –. Se trata de un puente extraordinariamente plano, que coincide con la mayoría de representaciones del siglo XV y contrasta con los puentes mucho más arqueados del siglo XVI. Cabe decir, en este sentido, que los puentes planos permitían al intérprete tocar las distintas cuerdas del instrumento simultáneamente sin ninguna dificultad, lo que hacía posible tocar a la vez una melodía y un acompañamiento o, simplemente convertir la vihuela de arco en instrumento acompañante, útil para proporcionar un entorno sonoro a otros instrumentos de mayor capacidad melódica como el laúd o el arpa. De hecho, algunas de las primitivas representaciones valencianas ni siquiera presentan puente, sino que muestran simplemente una barra cordal plana encolada sobre la tabla armónica (parecida a la barra cordal de un laúd) a la que se atan directamente las cuerdas, lo que no solo facilitaría que estas se tocaran simultáneamente sino que obligaría a ello (ex-

8 Ver, por ejemplo, C. Gottwald, Die Musikhandshriften der Universitätsbibliothek München, Wiesbaden 1968.


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ceptuando quizás las cuerdas extremas que con cierta destreza podrían tocarse separadamente). Debemos añadir, además, que la vihuela de la catedral, a diferencia de estos modelos valencianos, no solo tiene el puente claramente visible, sino que presenta las cuerdas atadas a un cordal triangular: justamente la solución constructiva que encontramos en algunas violas medievales y, significativamente, en las representaciones más antiguas de la viola “da gamba” en Italia9. Sin embargo y en contraste con estos rasgos de modernidad y de realismo que acabamos de describir, sorprende que Pagano y San Leocadio fuesen tan poco precisos en otros detalles del instrumento. Uno de esos detalles “incoherentes” lo encontramos en la falta de correspondencia entre el número de cuerdas – cinco – y el número de clavijas – siete – que pueden verse en clavijero que remata el mango. Obviamente, el número de cuerdas debería corresponder al número de clavijas, ya que cada una de estas está destinada sujetar una cuerda y a facilitar su afinación, y por tanto carece de sentido que haya clavijas sin su correspondiente cuerda. Es cierto que este tipo de incoherencias es habitual en las representaciones iconográficas de cualquier época y estilo artístico, pero es sorprendente que esto suceda en unos frescos donde los pintores demostraron una y otra vez su preocupación por los detalles. Otra incoherencia evidente se encuentra en el punto de contacto del arco con las cuerdas que se sitúa por debajo del puente – justo en la mitad inferior de la tabla armónica: sin duda esta posición anularía el efecto de la presión de los dedos de la mano izquierda sobre las cuerdas en el mango (que producen las notas), ya que la porción vibrante de la cuerda termina en el puente. A esto hay que añadir además que, antes de la restauración de los frescos, podía apreciarse perfectamente como la crin del arco pasaba por detrás de las cuerdas de la vihuela, una técnica que, si bien se utiliza en ciertos instrumentos de arco orientales, es absolutamente ajena a la tradición Occidental10.

9 Ver, por ejemplo, las dos violas pintadas por Lorenzo Costa (hacia 1460-1535) en su tabla con Madonna e Bambino, 1497, para la Iglesia de San Giovanni in Monte (Bologna); o la viola de arco representada por Timoteo Viti (1469-1525) hacia 1501-1505 en su Madonna e Bambino, Brera (Milano) – obra procedente de Urbino y pintada justo después de la ocupación de los Borja. 10 Es posible que la disposición de la crin por detrás de las cuerdas antes de la restauración fuese debida a la pérdida de pigmento de la pintura de la crin (quizás a causa de una acción corrosiva del dorado de las cuerdas): en este caso, obviamente, estaríamos ante un problema debido estrictamente al deterioro de la pintura y no ante un error del artista.


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Por otro lado, también es poco habitual la sujeción del arco con la palma de la mano hacia abajo en una vihuela en posición descendente como la que nos ocupa. Esta forma de sujetar el arco es más bien propia de los cordófonos tañidos en posición ascendente y es la que normalmente encontramos en las representaciones iconográficas de las fídulas medievales. Ciertamente, esta forma de tocar no impediría que el instrumento sonara pero, por lo que sabemos, los intérpretes de vihuela de arco tomaron como modelo la técnica propia de los rabeles descendentes (derivados del rabab árabe) que consistía en colocar la mano con la palma hacia arriba, lo que ampliaba la movilidad de la muñeca y, por tanto, aumentaba las posibilidades musicales del instrumento11. En definitiva, y a pesar de estos pequeños detalles, la vihuela de arco de Francesco Pagano y Paolo de San Leocadio nos sitúa ante un instrumento absolutamente moderno, que refleja una práctica musical totalmente vanguardista. A mi entender, no hay duda de que para pintar este instrumento los artistas se basaron en una vihuela de arco real o, a lo sumo, lo copiaron de algún modelo iconográfico directamente inspirado en la realidad de su tiempo. El órgano portatil En contraste con la moderna vihuela de arco, el órgano portátil pintado en los frescos de la catedral de Valencia, lejos de representar un instrumento contemporáneo, es en mi opinión una clara evocación a la tradición iconográfica y musical de la baja edad media [Fig. 5]. A juzgar por la gran cantidad de representaciones iconográficas de órganos portátiles en el arte de los siglos XIV y XV, este debió ser un instrumento muy apreciado en todo el continente europeo a fines de la época medieval. De hecho, la iconografía de la Corona de Aragón es especialmente rica en representaciones de órganos portátiles durante ese período. Se conservan más de 50 representaciones aragonesas, catalanas y valencianas de ese tipo de instrumentos entre 1350 y 1500, a las que hay que añadir el testimonio de los documentos de la Casa Real de Aragón que, entre las últimas décadas del siglo XIV y los primeros años del siglo XV, citan con frecuencia los órganos “de coll” (“de cuello” – para llevar colgados con una correa por detrás del cuello) o “petits orguens” (“pequeños órganos”)12.

11 12

Ver Woodfield, The Early History cit., pp. 15-37. Ver J. Ballester, Retablos tardomedievales con ángeles músicos procedentes del antiguo


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Pero la realidad es que el órgano portátil había caído en cierto desuso en la época en que fueron pintados los frescos, eclipsado por los órganos positivos de tamaño mediano. A diferencia de los órganos portátiles, que se caracterizaban por sus reducidas dimensiones, que los convertían en instrumentos aptos para ser transportados por el propio músico mientras tocaba (con una mano pulsaba las teclas y con la otra accionaba el fuelle del aire), los órganos positivos – por su tamaño – debían descansar en el suelo y requerían dos personas para poder funcionar (una se encargaba del teclado y la otra de accionar los fuelles). A pesar de este cambio de tendencia en el tipo de órganos usados durante la segunda mita del siglo XV, una simple ojeada al fresco valenciano basta para comprobar que la intención de Pagano y de San Leocadio no era la de representar un órgano positivo sino un órgano portátil a la antigua usanza: el ángel sostiene el instrumento al mismo tiempo que toca las teclas con la mano derecha y acciona el fuelle situado en la parte trasera con la mano izquierda. El propio fuelle, de forma circular y con mango, que los artistas pintan con extremo detalle (en él pueden apreciarse incluso los clavos o tachuelas que sujetan la piel o membrana a la estructura de madera), coincide plenamente con el tipo de fuelles habitualmente representados en la iconografía de los siglos XIV y XV [Fig. 74]. Sorprende, no obstante, la gran cantidad de tubos pintados en el fresco y su disposición en el instrumento. En contraste con la tradición iconográfica tardo-medieval, en la que los pequeños órganos suelen presentar únicamente dos o excepcionalmente tres hileras dotadas de entre ocho y doce tubos cada una (los que supone un total de entre 16 y 24 tubos), nuestros pintores optaron por una distribución irregular compuesta por la desorbitada cifra de 42 tubos, los dieciocho de menor tamaño dispuestos en tres hileras de seis tubos, y los veinticuatro restantes en seis hileras de cuatro tubos. Sin duda alguna, el peso que comportaría tal número de tubos lo convertiría en un instrumento difícilmente transportable por el músico, especialmente si este pretendiese tocar al mismo. Ciertamente, una observación atenta del fresco muestra como los pintores se molestaron en representar el instrumento apoyado en la pierna izquierda del ángel, como de hecho sucede en otras muchas representaciones anteriores de órganos por-

reino de Aragón. Catálogo, «Revista de Musicología», 13/1 (1990), pp. 123-201; y K. Marshall, The organ in 14th-century Spain, «Early music», 20/4 (1992), pp. 549-557. En cuanto a los documentos de la Casa Real de Aragón ver: M.C. Gómez, La música en la Casa Real CatalanaAragonesa, 1336-1442, Barcelona 1979.


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tátiles, lo que parece indicar que esa podría ser una posición cómoda para el músico a la hora de tañer tales instrumentos portátiles. Sin embargo, creo que ni aún así sería sencillo tocar y al mismo tiempo sostener el peso de un órgano como el que nos ocupa. En mi opinión estamos pues ante un órgano híbrido, a medio camino entre los órganos portátiles de la tradición iconográfica tardo-medieval y los órganos positivos que se utilizaban en la práctica musical de la época, de mayor tamaño y, por supuesto, con muchos más tubos. Lo más probable es que los artistas diseñaran su órgano a partir de una combinación de modelos iconográficos que habían visto en obras anteriores y de los órganos positivos que existían en su época y que ellos sin duda habían visto tanto en Italia como en Valencia. La misma ambigüedad la encontramos en el teclado. En él se distinguen claramente quince teclas rectangulares, lejos ya de los teclados con pequeños “botones” propios de los órganos portátiles de la iconografía del siglo XIV13. Sin embargo, a pesar de su aire “moderno”, sorprende el reducido número de teclas del instrumento, ya que en la iconografía de la época (incluida la iconografía de la región levantina) suelen encontrarse teclados de veinte o más teclas con cierta frecuencia. Del mismo modo, sorprende la ausencia de teclas “negras” – las destinadas a los semitonos cromáticos – que durante el siglo XV se encuentran ya de forma habitual en todo tipo de instrumentos de teclado. Si bien esta ausencia no implica necesariamente que el instrumento no pudiese funcionar (de hecho, un teclado simple – sin teclas “negras” – puede afinarse perfectamente alternando semitonos diatónicos y cromáticos), de lo que no cabe duda es de que no estamos ante un instrumento de vanguardia. Por otro lado, no podemos dejar de señalar el detalle simbólico implícito en la representación del pequeño medallón que decora la parte central de la estructura del órgano. En él vemos a Hércules luchando con el león, un tema mitológico habitual en monedas y medallones de la Antigüedad, que sin duda sorprende en el entorno religioso en el que se encuentran las pinturas. A mi entender, más allá de demostrar la completa formación humanística de los pintores y su conocimiento de modelos iconográficos del mundo antiguo, tan propio por otra parte de los artistas italianos del renacimiento, la presencia de este motivo solo tiene sentido si lo 13 Ver, por ejemplo, el teclado del pequeño órgano pintado a finales del siglo XIV por el artista catalán Pere Serra (documentado hacia 1357-1409) en el Retablo de la Virgen de Tortosa, que se conserva en el Museu Nacional d’Art de Catalunya (Barcelona). Un detalle de dicha representación se encuentra reproducido en J. Ballester - R. Escalas - J. Garrigosa, Història de la Música catalana, valenciana i balear: dels orígens al Renaixement, Barcelona 2000, p. 134.


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entendemos como una metáfora referida a la genealogía heroica de Rodrigo Borja, su patrón, a quien Pagano y San Leocadio indudablemente pretendían homenajear14. Todo indica pues que el órgano de los frescos valencianos estaba destinado no tanto a plasmar un órgano portátil real como a evocar al espectador el concepto abstracto de órgano. En definitiva, un concepto cargado de connotaciones simbólicas que por un lado nos remiten a la tradicional asociación del órgano con la iglesia y con la música religiosa, y por otro a la magnificencia y a la solemnidad propias de un príncipe de la Iglesia como Rodrigo Borja, reflejado aquí en la heroica fortaleza y en el mítico triunfo de Hércules. La cítara El tercer instrumento al que voy a referirme es fruto, a mí entender, de la extraordinaria capacidad creativa y de la desbordante imaginación de Francesco Pagano y Paolo de San Leocadio, sin duda estimulada por el ideal renacentista de recuperación de la cultura grecorromana. Se trata de un cordófono formado por una caja de resonancia con las cuerdas dispuestas en paralelo a la tapa armónica, es decir, lo que en el campo de la organología se conoce como un instrumento tipo cítara [Fig. 3]. Sin embargo, ni en el repertorio iconográfico procedente de la antigua Corona de Aragón, ni en la iconografía italiana de la época, ni en ninguna otra fuente iconográfica europea, existe cítara alguna con la apariencia del instrumento representado en la catedral de Valencia. El cordófono más parecido que he podido hallar hasta ahora representado en el arte del siglo XV, desde un punto de vista estrictamente organológico y estructural – que no en lo referente a la decoración del instrumento –, se encuentra en una tabla gótica con la Coronación de la Virgen [Fig. 75]. Esta tabla, pintada hacia 1411-1416 por el artista catalán Lluís Borrassà (ca.1360-1426), forma parte de un Retablo de la Virgen procedente del monasterio de Santes Creus y en la actualidad se conserva en el Museu Diocesà de Tarragona15. 14 Es posible incluso que la inclusión de estos detalles simbólicos en los frescos valencianos responda a un programa escenográfico diseñado por el propio Rodrigo Borja, tal como sugirió la profesora Adele Condorelli, a quién agradezco sinceramente su opinión. 15 También puede observarse cierto parecido, aunque mucho más lejano, con un instrumento pintado por Jaume Serra (documentado hacia 1358-1389) hacia 1361 en su Coro-


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Ambos instrumentos poseen una caja de resonancia con tapa y fondo planos y presentan un número reducido de cuerdas (diez en el caso del instrumento valenciano) que se extienden verticalmente sobre la tapa – y no horizontalmente como en los salterios y otras cítaras de la época. Dichas cuerdas, además, son tañidas directamente con los dedos de la mano derecha (mientras la izquierda sujeta el instrumento, como puede verse claramente en el fresco de la catedral) y no mediante plectros o púas. Por otro lado, en el centro de la caja se abre, en ambos casos, una boca circular con un rosetón de dimensiones considerables. Pero lo que resulta francamente curioso es la posición de los instrumentos que, en lugar de descansar sobre el fondo (apoyado contra el pecho del músico o sobre otra superficie) como es habitual en la mayoría de salterios o dulcemas medievales y renacentistas, se sostiene verticalmente sobre una base o peana rectangular. Es en este sentido que estos instrumentos recuerdan, y posiblemente derivan, de la llamada arpa-salterio o arpa-cítara, instrumento medieval híbrido, a medio camino entre el arpa y el salterio, que poseía la caja de resonancia de un salterio – con las cuerdas dispuestas en paralelo a la tapa armónica, aunque en un número mucho mayor que el de los instrumentos que estamos analizando – y se tocaba en una posición similar a la de un arpa16. Más allá de las similitudes, no obstante, existen dos diferencias básicas entre la cítara de Borrassà y la de Pagano y San Leocadio que convierten esta última en un instrumento único: la forma de la caja y su decoración. No hay duda de que el instrumento pintado en la catedral de Valencia tiene una silueta muy peculiar, ancha en la mitad inferior y estrecha en la mitad superior, que recuerda la forma de una lira clásica. Yo mismo he realizado la experiencia de mostrar la representación a diversos músicos, musicólogos e historiadores del arte, y la primera impresión de la mayoría de ellos ha sido siempre la misma: identificar el instrumento con una lira. Tal como hemos visto, sin embargo, no se trata de un instrumento de la familia de las liras, ya que estas se caracterizan por tener la caja de resonancia dotada de dos brazos unidos por un travesaño, algo que obviamente no aparece ni por asomo en la representación valenciana. De hecho, si com-

nación de la Virgen del Retablo de la Resurrección que se conserva en el Museo de Zaragoza. A pesar de que tanto la posición de este instrumento como la disposición de las cuerdas y el uso de los dedos para puntearlas coincide con la cítara valenciana, el número de cuerdas pintadas por Serra es mucho mayor. 16 V. C. Page, Voices and Instruments in the Middle Ages, London 1987, p. 123; y R. Álvarez, Los instrumentos musicales en la plástica española durante la Edad Media: los cordófonos, Tesis doctoral, Madrid 1981, I, p. 470 y III, pp. 52-53.


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paramos nuestro instrumento con cualquiera de las muchas representaciones iconográficas de una lira clásica, que se conservan en la cerámica de los siglos V, IV y III a.C., veremos que realmente no existe parecido alguno. En todo caso, la relación visual la establecemos con las representaciones renacentistas de la lira, que nos muestran instrumentos idealizados y estilizados, muy distintos a los cordófonos grecorromanos17. Sorprendentemente, no obstante, resulta que estas representaciones renacentistas datan en su mayoría del siglo XVI y, por tanto, son posteriores a las pinturas de Pagano y San Leocadio. En mi opinión, pues, estamos ante una de las primeras evocaciones de la lira antigua en el arte del Renacimiento. Una evocación que nuestros artistas crearon, animados por el nuevo pensamiento humanista, a partir de modelos iconográficos medievales de instrumentos poco frecuentes – como la cítara de Borrassà – que adaptaron a su “idea” de lira a través de una profusa decoración de inspiración clásica. Efectivamente, en mi opinión, no hay duda de que la impresión de instrumento “antiguo” que destila la cítara se debe sobretodo a la decoración con la que la revistieron los pintores: colocaron volutas en cada uno de los cuatro ángulos de la caja, situaron dos esfinges o arpías flanqueando la base del instrumento y remataron la parte superior con un frontón en el que se aprecia una escena en la que se intuye una figura que sugiere una divinidad fluvial acompañada por un pequeño “putto” o querubín alado. En definitiva, unos motivos ornamentales típicamente renacentistas, basados en la mitología y en el arte clásico, que inequívocamente nuestros artistas tomaron de los maestros italianos de mediados del siglo XV18. En suma, los tres ejemplos analizados demuestran, a mi parecer, que Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio pintaron los instrumentos de la bóveda del altar mayor de la catedral de Valencia combinando magistralmente realidad, tradición y fantasía. Representaron algunos instrumentos musicales absolutamente vanguardistas, tomados de la práctica musical

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Una de las representaciones renacentistas de la lira con la que nuestra cítara valenciana tiene mayor similitud es, en mi opinión, la que pintó el florentino Perin del Vaga (1501-1547) en la Sala Paolina del Castel Sant’Angelo, en Roma, entre 1544 y 1547. La lira de Perin del Vaga tiene diez cuerdas, como el instrumento valenciano, y además tiene la peculiaridad de presentar un batidor detrás de las cuerdas – situado entre los dos brazos de la lira – en el que se encuentra un rosetón circular parecido al valenciano. 18 Especialmente significativa es la influencia de Andrea Mantegna (ca.1431-1506) y de los pintores de la escuela ferraresa de la segunda mitad del siglo XV, tal como demostró X. Company, Ángeles de azul y oro en la Catedral de Valencia. Estudio histórico y análisis estilístico, en Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia cit., pp. 43-94.


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contemporánea – como la vihuela de arco –, otros basados en modelos iconográficos de tradición medieval, salpicados eso sí de detalles más o menos “modernos” – como el órgano portátil –, y un tercer grupo de instrumentos fantásticos, inspirados en el arte clásico, que tienen el objetivo de evocar la antigüedad grecorromana – como la cítara –. En cualquier caso, el resultado son unos frescos espectaculares, capaces de causar al espectador un sorprendente efecto de realismo, fruto sin duda de los nuevos ideales renacentistas y de la extraordinaria habilidad de los pintores.


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JOAQUÍN BÉRCHEZ - MERCEDES GÓMEZ-FERRER “VESTIR A LO MODERNO”: LA REMODELACIÓN BARROCA DEL PRESBITERIO DE LA CATEDRAL DE VALENCIA*

La catedral de Valencia sorprende a quien se acerca a su estudio por el cúmulo de intervenciones modernizadoras operadas sobre su originario núcleo. No es un conjunto armónico que permita el recorrido escalonado de los siglos, con sus secuencias ordenadas según épocas y estilos. La radical remodelación neoclásica de su interior emprendida en 1774 y concluida al finalizar el siglo, envolvió su originario núcleo medieval de tres naves con una tupida piel clásica de entablamentos y pilastras, arcos y pilares, perfectamente articulados en un riguroso lenguaje académico, con capillas laterales de nueva planta, homogéneas e independientes, con sus propias fuentes de luz, y dotó al conjunto de una alta distinción clásica con sus cromáticos estucos y jaspes. Expresión de la realidad artística y académica, religiosa e ilustrada que presidió la vida valenciana de los últimos años del siglo XVIII, esta envoltura clásica ocultó durante casi dos siglos la estructura medieval del edificio catedralicio. Cuando fue desmantelada en los años setenta del siglo anterior no surgió la virginal catedral gótica imaginada, sino un fragmentado caudal arquitectónico producto de numerosas imbricaciones históricas. Las profundas huellas que ha dejado el discurrir de los siglos, se ofrecen, no sin sorpresa a quien en la actualidad recorre su interior. Los vestigios se solapan entre sí en una extraña armonía que nace muchas veces de la fuerza sustantiva del fragmento antes que de la composición históricoartística general de su estructura. Admiramos en las naves la severidad de su temprana fábrica gótica de los años finales del siglo XIII y primeros del

* El presente trabajo se enmarca dentro del proyecto de investigación I+D HAR 200913302 del Ministerio de Ciencia e Innovación, “Representación fotográfica y coltura arquitectónica hispánica en la Epoca Moderna”.


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XIV, o el exhibicionismo canteril de la llamada “arcada nova” – tramo inmediato a la fachada principal – construida en las últimas décadas del siglo XV –, pero también reclaman nuestra atención la presencia, tan escenográfica, de las luminosas capillas neoclásicas con sus pulcros frentes articulados con órdenes. Entre esta estructura híbrida despunta enérgicamente el monumental cimborrio medieval con su doble superposición de cuerpos, de caladas tracerías y sin contrafuertes, cuya desnuda ingravidez gótica apea en trompas revestidas a la clásica y pilares – algunos rehechos en fechas posteriores – embutidos en órdenes compuestos tanto de época barroca como neoclásica, en una ágil e inesperada convivencia de formas [Fig. 76]. No existe pues en esta catedral una única memoria histórica, hay muchas y diversas. Pero, existe, se ha creado a día de hoy, un particular idiolecto histórico-artístico, donde los diversos registros, de una entidad monumental insólita, señorean por sí mismos, como si sólo consistieran en sí, engastados en una estructura solidaria con su diversidad. El presbiterio, en tanto lugar privilegiado del templo, cobra un particular énfasis desde esta perspectiva. En su acotado espacio se depositarían usos y adaptaciones litúrgicas múltiples, con modos artísticos siempre de primera entidad, algunos alterados y remodelados por circunstancias diversas, entre ellas incendios, guerras o también la más reciente puesta en valor de sus contenidos artísticos, ocultos en épocas históricas (como es el caso de las pinturas de los ángeles músicos cuatrocentistas). Producto de épocas distintas, el presbiterio de la catedral valenciana configura un palimpsesto arquitectónico exclusivo, de una diacronía histórica dispar. Así, el que fuera el primitivo altar mayor, fue sustituido al siglo siguiente – último tercio del siglo XIV – por un gran retablo de plata encargado al orfebre del rey, Pere Bernés. Más tarde, en 1432, se había contratado la pintura de unos ángeles para la bóveda del presbiterio y un apostolado en el muro a un grupo de pintores encabezados por Miguel Alcañiz y Gonzalo Sarriá, dos de los más insignes representantes de la pintura del gótico internacional. Delimitando su espacio, figuraba, desde 1460, la gran reja de hierro de Pons Aloy adornada con imágenes de cobre ejecutadas por el platero Juan Castellnou. El pavoroso incendio de 1469, obligó a una profunda transformación del presbiterio, al haber dañado las llamas irreparablemente el retablo y las pinturas. Con tal motivo se contrató nuevo retablo de plata, nuevas pinturas en las bóvedas y muro – encargadas a los italianos Francesco Pagano y Paolo de San Leocadio – y puertas para el retablo, concertadas con los Hernandos en 1507. Con la terminación de la pintura de estas puertas concluía la renovación prevista tras el


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incendio, pudiendo considerarse todas estas actuaciones como hitos de primera entidad en el panorama artístico de su tiempo1. El presbiterio, al igual que otros espacios catedralicios como el coro, el deambulatorio, la sacristía o las capillas, acusaría remodelaciones y adaptaciones al compás de las nuevas necesidades litúrgicas. Una de ellas, poco tenida en cuenta y de gran significación cultual en un panorama moderno, fue la que, en 1630, se llevó a cabo con el objeto de facilitar la comunicación entre el presbiterio y el trasagrario, siguiendo los dictados trentinos de clara exaltación eucarística. La presencia de un trasagrario en la catedral de Valencia es una de las más tempranas de cuantas se conocen en las catedrales españolas, muy anterior a las disposiciones emanadas en el Concilio de Trento, que impulsó el culto y la veneración a la Eucaristía especialmente a partir de la sesión décimo tercera celebrada en 1551. La construcción de un lugar denominado sagrario, donde reservar el Corpus Domini tras el altar mayor, se remonta a mediados del siglo XV (1458-1460), cuando por orden del papa Calixto III, se mandó construir un «sacrari darrere lo altar major» adornado con sus armas. El erudito Josef Rodríguez, en 1757, la describiría en estos términos: «devemosle (a Calixto III) la fabrica que haze espaldas al altar mayor, que es muy perfecta en pinturas, y en labores de oro, cristales y alabastro»2. Este sagrario concebido ya como verdadero trasagrario por situarse detrás del presbiterio, también se vio afectado por el incendio de 1469 y esta vez, sería el cardenal Rodrigo de Borja, quien en 1483 mandó realizar un retablo pintado por Rodrigo de Osona. Durante el siglo XVI, se alude significativamente a este trasagrario como el «altar del Corpus Domini», y bajo él se situaría la capilla de la Resurrección3, realizada en alabastro en el primer cuarto del siglo XVI. Presumiblemente se trataba de un espacio de reducidas dimensiones, concebido como repositorio donde custodiar la Eucaristía decentemente: «lo sacrari per conservar e reservar lo cors precios de Jesucrist»4. 1 La monografía más completa sobre la catedral sigue siendo la de J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia. Guía histórica y artistica, Valencia 1909. 2 J. Rodríguez, Biblioteca Valentina, Valencia 1757, p. 24. No obstante la referencia exacta a un sagrario ya se menciona en la segunda mitad del siglo XV (Valencia, Archivo de la Catedral [en lo sucesivo ACV], 1507, Libro de fábrica de 1458 y ibid., Protocolos, notario Joan Esteve, 3679, 4 de febrero de 1460). 3 Este apelativo aparece en el documento publicado por J. Martínez Rondán, El retaule de la resurrecció de la Seu de València, Sagunto 1998, en el testamento de 1530 de Gaspar Eiximeno, patrono de la capilla, «Elegesch sepultura apres ma fi, esser feta al meu cos en la insigne seu de Valencia en lo vas de la mia capella, que yo ara novament per concessio dels molt reverents capitol e senyors de canonges a mi feta, he fet e construit daval lo altar del corpus domini». 4 A. Rubio Vela, Epistolari de la Valencia medieval, II, Valencia 1985, p. 177, Valencia,


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La primera gran reforma de este trasagrario fue realizada solo un año antes de las directrices sinodales del arzobispo Aliaga, y se contrató en 1630 con el destacado arquitecto Francesc Figuerola5. Consistió en adecuar el espacio del presbiterio a la nueva disposición que ya comenzaban a tener los trasagrarios valencianos, entre los que destacaba el de la iglesia del Colegio del Patriarca, donde se facilitaba una fluida y ordenada comunicación con el presbiterio, al permitir al oficiante acceder por una puerta, depositar el viril con la sagrada forma en el tabernáculo y regresar al presbiterio por otra puerta. La reforma emprendida en la catedral de Valencia en 1630 recogería estas mejoras que afectaban directamente al decoro litúrgico del sacramento eucarístico, al establecer un marco arquitectónico – funcional y artístico – al desplazamiento del sacerdote portador de las sagradas formas por este templum domini que era el presbiterio. El trasagrario catedralicio, situado a un nivel superior a las espaldas del altar mayor, se hizo accesible desde el presbiterio abriendo puertas y elevando escaleras, engastando a su nueva fábrica jaspes de Tortosa y mármoles de Génova que cubrieron tanto el interior del sagrario como los accesos y pavimento por encima de la bóveda de la capilla de la Resurrección. A pesar de las profundas transformaciones operadas en este espacio por la reforma neoclásica de finales del siglo XVIII, aun se conserva la decoración pictórica que acompañó la transformación del trasagrario con claros motivos de prefiguración eucarística [Fig. 77]. Así, en los paños laterales del muro frontal se pueden observar representaciones de ajuar eclesiástico – la jarra o la mesa de los panes – extraídas de contemporáneas reconstrucciones gráficas del Templo de Salomón, temprana expresión de los afanes arqueológicos bíblicos que cobran carta de naturaleza en el arte religioso del momento. Igualmente la decoración de los estrechos pasadizos acogen profusamente grutescos, ahora al modo eucarístico, inmersos en un nuevo ciclo figurativo a la vez que religioso, es posible que símil, acaso residuo, de una antigüedad bíblica, no pagana, y ello en estricto paralelismo al que por esas mismas fechas observamos en otros ámbitos de la geografía hispana, tanto en pinturas, ornatos en yeso, cantería o bronce, de bóvedas, cúpulas o retablos6. En la realización de esta obra del presbiterio, la estela de artistas vinculados al Archivo Municipal, Lletres Misives, 26, 278-279. Carta a Rodrigo de Borja, 28 de mayo de 1469, «E no solament tot aquell retaule mas encara lo respalle de dit altar, qui era altre retaule de Cena Domini fet per la bona memoria de vostre oncle Calixte, papa terç, hon era lo sacrari per conservar e reservar lo cors precios de Jesucrist, se es tot la una part y la altra cremat, que no y a restat res [...]». 5 ACV, J. Pahoner, Especies Perdidas, 14 voll., Valencia 1757, ms., I, f. 215. 6 J. Bérchez - F. Marías, Fra Juan Andrés Ricci de Guevara e la sua architettura teologi-


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círculo artístico del Patriarca Ribera es evidente. El arquitecto Francesc Figuerola, tan activo en la obra del Colegio del Patriarca, fue quien la ejecutaría, siendo una de sus últimas obras antes de su fallecimiento. En las labores pictóricas debió intervenir el pintor Gaspar Beltrán7, documentado ese mismo año en la pintura del órgano de la catedral y relacionado a su vez con la decoración del colegio del Patriarca desde 1610. En este sentido cabe señalar la similitud entre esta decoración del trasagrario de la catedral y la anterior de la capilla de las reliquias del Colegio del Patriarca, tan innovadora en la profusión de temas eucarísticos organizados en acotados registros, debidas al pintor mallorquín Jerónimo Chavarri a partir de 1607, pintor relacionado con Antonio Ricci y el círculo de pintores escurialenses8. Las disposiciones sinodales del arzobispo Aliaga redactadas en 1631, tan solo unos meses después de las obras catedralicias, parecen transcribir esta reforma y convertirla en paradigma litúrgico de una tipología a seguir: «quando se edifique la iglesia dexese detrás de la pared de la capilla mayor, a la qual ha de estar arrimado el altar mayor un espacio competente y proporcionado para la dicha capilla, que ha de ser y llamarse del sagrario. […] En las iglesias que tuvieren trasaltar y se rodeare por él la capilla mayor se ha de disponer esta del sagrario detrás del altar mayor sin ocupar el dicho trasaltar […]»9. El nuevo presbiterio en la cultura moderna del siglo XVII «Es reputada dicha capilla por la primera de España, por su hermosura de jaspes finisimos, marmoles excelentes, piedra negra, que bruñida imita al azavache en el color, a los espejos en su lucimiento, las colunas salomonicas de finisimos jaspes, las pilastras, corniza y cartelas de variedad de piedras […] El oro que se gastó en las molduras, arcos, clave, bóveda y pulseras del altar y los seis cuerpos del altar patrones de la ciudad que son de la estatura de un hombre, importo cinco mil quinientas libras» así describía Pahoner en 175710 el presbiterio de la catedral, una vez terminada la ca, «Annali di architettura. Rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio», 14 (2002), pp. 251-279. 7 Sanchis Sivera, La catedral cit., p. 529, menciona al pintor Gaspar Beltrán en la catedral, mientras que para el colegio del Patriarca aparece en F. Benito, Pinturas y pintores en el Real Colegio del Corpus Christi, Valencia 1980, pp. 38-40. 8 Sobre este pintor que aparecía en la documentación del Patriarca como Xaveri, ver M. Carbonell, Cendres de Troia. El pintor Miquel Bestard (1592-1633), Mallorca 2007, p. 30. 9 I. Aliaga, Advertencias para los edificios y Fábricas de los Templos …, Valencia 1631. 10 ACV, Pahoner, Especies perdidas cit., ff. 87 ss. La documentación original en ibid.,


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remodelación auspiciada por el arzobispo Luis Alfonso de los Cameros, a partir de 1671. La rotunda transformación del presbiterio en el último tercio del siglo XVII, que acabaría ocultando los famosos ángeles músicos con una nueva bóveda, respondió a una nueva concepción litúrgica del ámbito del altar mayor, presidido por la ritualización de las virtudes eucarísticas y un renovado frenesí bíblico proclive a la salomonización del presbiterio al modo de un Sancta Sanctorum, todo ello inmerso en una comprensión de la cultura clásica “moderna”, si se quiere, barroca. A los antecedentes referidos – adaptación a los nuevos requerimientos eucarísticos impulsados por la Contrarreforma –, habría que añadir otros más directos como fueron la progresiva remodelación en un lenguaje clásico o, también, la modernización desde las categorías lumínicas de la cultura arquitectónica de su tiempo, de algunas de las primitivas capillas góticas de la catedral desde comienzos del siglo XVII. La reforma del presbiterio no pudo ser ajena a las renovaciones de capillas sucedidas a comienzos del siglo XVII. Es significativo que ya en 1606, se insistiera en la necesidad de construir un cimborrio en la capilla – no conservada – de San Gil y San Bernardo, «per estar escura»11. Sería una propuesta de renovación muy similar a la que sí se realizó en la capilla de los Covarrubias cercana a la puerta de los pies, donde a comienzos del siglo XVII se construyó una bóveda vaída con su linterna, mientras que sus paredes se habían adornado con hermosos sepulcros de mármoles. Más inmediata en el tiempo, la capilla de Santo Tomás de Villanueva se había remodelado a partir de 1664, igualmente con una cúpula y linterna pero añadiendo numerosas decoraciones, en parte similares a las que se introducirían en el presbiterio, ya que su autor fue el mismo Diego Martínez que hizo el primer proyecto de la reforma del presbiterio12. Protocolos, notario Crispín Pérez, 3099, 23 de septiembre de 1630, Capitulacio de la faena que se ha de fer en lo sagrari del altar major de la Seu de Valencia. 11 ACV, Deliberaciones, 301, 12 de septiembre de 1606, en esta fecha Francesc Comos renunciaba a la capilla de San Sebastián que sería entregada al canciller Covarrubias y pasaba a establecerse en la de San Gil y San Bernat, decidiendo «que per estar escura se haga un cimborrio en ella y todas las obras necesarias». 12 La reforma de esta capilla en ACV, Protocolos, notario Juan Tortrella, 3137, ff. 933946, 18 de noviembre de 1664, «Item se ha de perficionar la llanterna fent huit cruceros en la cupula chiqueta adornats en florons y almoadilles entre floro y floro, llafardant dita llanterna y adresant la de alcheps comu deixant los huit camps trepats de alabastre corrent totes les cornises, alquitraus y pilastres conforme está en la traza y en lo anell fer un caroniza en son fris y alquitrau en huit carteles en lo fris que reben les pilastres y aixi mateix se ha de fer huit cruceros en la cupula gran los florons que seran menester per a que estiga be y entre floro y floro fer almoadilles y llafardar los huit camps y repararlos y treparlos de alabastre».


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El argumento que hasta ahora se había sostenido para justificar la remodelación del presbiterio de la catedral, la supuesta negritud de las pinturas de Pagano y San Leocadio, no deja de ser una frase redactada por el erudito Juan Pahoner, escrita en 1756 cuando éstas ya estaban ocultas. Pahoner señalaba que estaba «la capilla mayor tan denegrida que apenas se conocian las pinturas», y esto, retomado por autores posteriores como Sanchis Sivera, fue aceptado como razón suficiente para ocultarlas. Sin embargo, en ningún momento se alude a ello en los documentos originales de la reforma, y a su vez en el proceso de restauración ha quedado probado que se trataba de un razonamiento infundado al haberse encontrado las pinturas en un razonable buen estado de conservación, al menos a la altura de la bóveda13. Quizá parecería necesario diferenciar entre el estado de conservación de las pinturas de la bóveda y el de los muros del presbiterio, ocupados por la Majestad y los Apóstoles, presumiblemente mucho más afectados por el humo de velas e incensarios. De ello, nos advierte la noticia de la restauración efectuada en el año 1583 por el pintor Juan Sariñena, quien el 13 de septiembre cobraba 15 libras por la pintura del «rostro, cos y braços de la Majestat que está damunt lo retaule major de la Seu de Valencia», una de las escasísimas referencias al estado de las pinturas antes de ser ocultadas por la reforma del presbiterio14. Acaso haya que considerar a la vista de estas noticias otras razones, algunas de carácter tan perentorio como la de su escasa visibilidad en lo alto de la bóveda, apenas perceptible sin iluminación artificial. De todos modos tuvo que ser la posibilidad de reconvertir todo el espacio del presbiterio en un ascua dorada, al modo de un verdadero Templum Domini, lo que debió originar esta profunda remodelación, actuando siempre de escenografía elocuente a lo que los contemporáneos consideraron auténtica joya del altar mayor: el retablo de plata y sus puertas. Las descripciones del presbiterio de la catedral en las visitas reales, de Felipe II y Felipe III, no dejan

13 De todos modos, desconocemos si el estado de negritud al que se refiere Pahoner pudiera referirse al apostolado de los muros. 14 F. Benito, Juan Sariñena (1514-1619), pintor de la contrareforma en Valencia, Cat. Exp. Valencia 2007, p. 24, donde se indica que «Pinta el rostro, cuerpo y brazos de una figura de la majestad que remataba el retablo mayor de la Catedral» siguiendo a Sanchis Sivera, La catedral cit., p. 544. Comprobada la noticia documentalmente en el Archivo de la Catedral, se trata de la pintura de la Majestad al fresco, por encima del retablo, ACV, Libro de fábrica de 1583, signatura 1388, f. 39: «Yo Juan Sarañena confese haver rebut del señor mosen Vicent Espinosa sotsobrer del present any quinze lliures y son per la pintura del rostro, cos y braços de la Majestat que está damunt lo retaule major de la Seu de Valencia, fet de ma propia ma a 13 de setembre de 1583».


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dudas de la admiración profesada al retablo de plata, así como de los significativos silencios que despiertan las pinturas de los ángeles: «Su Magestad con todos los demás presentes estuvieron mirando el rico y devoto altar mayor de la capilla de la Seo que estaba de frente el dosel de su majestad, como esta dicho y abierto todo aquel dia demostrando sus ricas figuras y hermosas ymagines de plata fina, labradas de mazoneria y hechas de bulto todas ellas»15. La observación de Teixidor en el siglo XVIII apunta a lo que parece constituir la clave más importante para entender la reforma barroca del presbiterio, al señalar que se hizo «para que luciera mas este precioso retablo». Además de resaltar los temas marianos, presentes tanto en el retablo como en las puertas del mismo, todos ellos dedicados a la Virgen, titular de la catedral, observamos también un enriquecimiento del programa iconográfico en el conjunto del presbiterio, plenamente acorde con el momento vivido por la iglesia valenciana en el siglo XVII. El presbiterio se convertía así en el lugar de exaltación de los patrones de Valencia, como san Vicente Ferrer o san Vicente Mártir, pero también en el de los nuevos santos valencianos, representados en esculturas o relieves, algunos de los cuales acababan de ser canonizados, como santo Tomás de Villanueva (1658), san Pedro Pascual (1670), san Francisco de Borja o san Luis Beltrán (1671), y otros beatificados como san Pascual Bailón. Mártires, beatos o santos pasaban a ser parte destacada de la historia de la iglesia valenciana al situarse en el privilegiado lugar del altar mayor. En el proceso de remodelación del presbiterio debió ejercer un papel primordial el nuevo arzobispo Luis Alfonso de los Cameros quien llegaba a Valencia en 1668 procedente de Sicilia donde había vivido numerosos años. Capellán mayor y maestro de ceremonias del virrey, duque de Alcalá desde el año 1631, fue elegido juez ordinario de la delegación Apostólica del Reino, siendo capturado por los franceses durante su viaje a Madrid. El rey Felipe IV lo mandó de nuevo a Sicilia en calidad de Primer Inquisidor del Santo Oficio y en 1651 se hizo cargo de la diócesis de Patti (Messina), hasta ser nombrado en 1656 arzobispo de Monreale. Interesado por la arquitectura, auspició la restauración de los mosaicos de la catedral, de las columnas de mármoles y pórfidos, de las ventanas con sus vidrieras, así como del deteriorado techo del coro. Dotó a la catedral de un impresionante órgano e hizo retirar el muro del coro que impedía la vista del conjunto de la catedral, parte de los laterales y lo alargó con escalinatas y una

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F. de Gauna, Relación de las fiestas celebradas en Valencia con motivo del casamiento de Felipe III, ed. S. Carreres Zacarés, Valencia 1926.


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cancela de bronce, permitiendo gozar la contemplación del conjunto de la iglesia desde el ingreso16. Estas reformas emprendidas en la propia catedral de Monreale, demuestran el interés del arzobispo Luis Alfonso de los Cameros por sumarse a proyectos que también se estaban operando en otras catedrales como la de Palermo, a cargo de Cosimo Fanzago en 1651 o el menos radical de Francesco Buonamici en 1656. En Valencia, sustituiría a Ambrosio Ignacio Spinola, quien había sido promovido a la sede de Santiago de Compostela donde precisamente se estaba realizando de modo paralelo a la valenciana la importante sistematización barroca del presbiterio. Ambas recogerían de manera diversa la idea de tapizar y circundar el frente de la girola con hileras de columnas salomónicas, envolviendo el baldaquino o altar mayor, de forma similar a la experimentada por Bernini en los balcones relicarios de San Pedro de Roma. La reforma, además de la persona de Luis Alfonso de los Cameros, contó con la entusiasta participación de los miembros del cabildo, a los que se cita en diversas ocasiones colaborando en la toma de decisiones, argumentando sobre las varias propuestas y, sobre todo, contribuyendo a una adecuación de un proyecto inicial que no fue ni mucho menos homogéneo. De la lectura de la documentación se extrae la impresión de encontrarnos ante una obra que se fue gestando paulatinamente, sujeta a numerosos cambios en los que impera una consideración “moderna” del lenguaje arquitectónico, deseo de modernidad aludido en repetidas ocasiones en la documentación original. Estas vacilaciones se advierten desde los primeros momentos del encargo de las obras. La capitulación inicial para la reforma de febrero de 1671 se concertó con el maestro Juan Pérez, pero preveía la adecuación de la obra a un modelo realizado por Diego Martínez por el que el maestro debía pagar la elevada suma de 200 libras17. Presumiblemente, este modelo venía también acompañado por una serie de dibujos en papel, realizados por el pintor Pablo Pontons, acaso ceñidos a pormenores decorativos. En el momento de la firma de las capitulaciones, Juan Pérez aún no era maestro de la catedral, nombramiento que se hizo efectivo en junio de 1672, y parecía tener que ajustarse sin apenas poder realizar cambios a lo exigido por el cabildo, que venía dictaminado por el citado modelo. Pero,

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M. Del Giudice, Descrizione del Real Tempio e Monasterio di Santa Maria Nuova di Morreale, Palermo 1702. Cap. Vite degli Arcivescovi, Abbati et Signori di Morreale alle pp. 110-114. Agradecemos al prof. Marco Nobile las referencias bibliográficas. 17 La primera capitulación con Juan Pérez publicada en S. Aldana, “El arquitecto barroco Juan Pérez Castiel”, «Boletín de la Sociedad Castellonense de Cultura», 43 (1967), pp. 248-279; ibid., 44 (1968), pp. 55-87.


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entre la exigencia inicial y el desarrollo posterior de las obras, se sucedieron una serie de acontecimientos que marcaron definitivamente el proceso. La obra concebida inicialmente no fue la ejecutada con posterioridad, antes bien fue resultado de sucesivas capitulaciones con sustanciales cambios y mejoras que afectaron tanto a los materiales como al trazado de las composiciones y a la concepción de los órdenes. Previsiblemente el proyecto inicial parece deudor del modelo del arquitecto Diego Martínez, de quien conocemos su participación en obras relevantes del tercio central del siglo XVII. Participó en las trazas de las capillas de comunión de las iglesias de Santos Juanes o Santo Tomás, de la basílica de los Desamparados. Acababa a su vez de presentar para la catedral un interesante proyecto de remodelación de la nueva capilla de Santo Tomás de Villanueva (hoy desaparecida) que preveía una decoración de “trepa” o esgrafiado en la nueva cúpula con linterna y elementos decorativos de florones o “almohadillas”, lo que nos permite presumir un proceder no muy alejado de los que aun podemos observar en la calota original de la cúpula de la basílica de los Desamparados. Hasta ahora se conocía la existencia de unas segundas capitulaciones, firmadas en febrero de 167518, donde se afirmaba que el maestro Juan Pérez había realizado ya una nueva traza. Estas segundas capitulaciones incidían especialmente en un cambio de materiales empleados en su construcción, sustituyendo el abundante empleo de ladrillos y losas, especialmente en la zona de la cornisa, por un uso protagonista de mármoles y jaspes de Tortosa, hecho que dificultó su ejecución y que desembocaría en el conocido pleito entre el cabildo y el maestro Juan Pérez, como consecuencia del encarecimiento motivado por las modificaciones introducidas19. Gracias a esta nueva documentación, podemos valorar de forma más certera el proceso de cambio, las alteraciones realizadas sobre el proyecto original, así como la decisiva intervención en estas mejoras de los canónigos y los expertos que confluyeron en las nuevas directrices. El proyecto inicial, ajustado conforme al modelo realizado por Diego Martínez, contenía los elementos básicos del recubrimiento del presbiterio

18 Las segundas capitulaciones publicadas en F. Pingarrón, Arquitectura religiosa del siglo XVII en la ciudad de Valencia, Valencia 1998, pp. 584-589. 19 Las diferencias entre el cabildo y el arquitecto Juan Pérez llegaron a tal punto que el maestro huyó hasta que fue capturado por los alguaciles, y se determinó en una visura o inspección en julio de 1679, el estado de la situación. Los datos completos sobre esta visura en ACV, Protocolos, notario Juan Bautista Queyto, 3154, 26 de julio de 1679, Inspección de la obra de la capilla mayor, ff. 1550-1606.


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antiguo a partir de la altura de la cornisa, desde donde se tendían las nuevas bóvedas de ladrillo tabicado, con sus lunetos y nuevas ventanas por debajo de las bóvedas góticas [Figs. 78 e 79]. Debajo de la cornisa ordenaba las arcadas góticas con destacadas pilastras, entablamento y arcos de medio punto recrecidos a partir de los góticos apuntados. Todo ello se adornaba con cartelas y ángeles en los netos de pilastras. También contemplaba las dos puertas de comunicación con la claustral, es decir con la girola de la catedral, y las dos credencias, perfectamente detalladas en su ordenación y sus detalles escultóricos, a partir del modelo. La idea de ocultar la bóveda gótica con una nueva bóveda estuvo siempre presente en todo el proceso y fue uno de los elementos principales de la reforma. Pero será precisamente en la elección pormenorizada de los sistemas de órdenes arquitectónicos dispuestos y en los elementos decorativos que se despliegan en todo el conjunto donde se observa un giro importante, giro acorde con una nueva concepción que – como detallan los documentos – entra en una consideración moderna, “a lo moderno”. Dos detalladas memorias, hasta ahora inéditas20, nos advierten de la sustitución – en las dos puertas del interior de la capilla mayor – de las medias columnas dóricas con arquitrabes, previstas en el modelo de Diego Martínez – por columnas salomónicas de “orden compósita”, ya que – se afirma – pareció a los «dichos comisarios que aquellas no estaban a lo moderno». Este cambio fue decisivo puesto que inicialmente se había previsto una simplificada ordenación dórica con medias columnas, que fue de inmediato sustituida por columnas salomónicas con orden compuesto, diseñadas según las trazas nuevas entregadas por Juan Pérez. El salomonismo de los órdenes se debió extender a la composición de las credencias, situadas a los lados de estas portadas. Puede colegirse este proceder de las críticas que los comisarios realizaron a la presencia de unas hermas en las trazas de las credencias, las cuales consideraron «cosa indecente en la capilla mayor», determinando que «se hizieran traças en el modo y forma de las portadas de relieve entero». Por tanto se comprende que las credencias también tuvieron que modificarse y hacerse con columnas salomónicas. También las ventanas se vieron sometidas a modificaciones ya que inicialmente también tenían hermas igual que las credencias. En este caso se determinó que «el adorno de las ventanas que en el modelo ay unos termos con un genero de 20

Estas memorias se conservan en el ACV, Varios, 1517, n. 20, Papel que comienza «Memoria de las mejoras que de orden del señor arçobispo y comisarios se han hecho en la capilla mayor de la santa iglesia metropolitana de Valencia» y Papel que comienza «El marmol que resa en el primer capitulo». Cifrar Apéndice Documental.


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architectura antigua, pareció a los dichos señores comisarios que no estaba bien para la capilla aquellas figuras y de orden de los dichos se han adornado aquellas en diferente variedad de obra como es de orden composita poniendo aquellas en mas proporción añadiendo columnas salomónicas». Todo el presbiterio quedaba de este modo ordenado bajo el dictado del orden compuesto, mejor, “compósito”, en la acepción exacta con el que fue concebido en la cultura arquitectónica moderna y española del momento. No se trataba de un orden compuesto en la concepción vignolesca tradicional, como reunión del jónico y del corintio. El compósito fue el orden que permitió comprender – con una generosa categoría de orden – las libertades de los tiempos modernos. Su aceptación entusiasta en círculos cultos vino determinada por un sentimiento de superación moderna, más “universal”, del Antiguo, al permitir incluir novedades y variaciones nacidas del espíritu cultural de su propio tiempo – entre ellas el salomonismo de la antigüedad bíblica –, siempre a partir de una culta interpretación, de un buen gusto, no ciego, de las sentencias de la antigüedad clásica. De forma casi coetánea a su formulación en el entorno cultural de catedral valenciana, tratadistas españoles como fray Juan Andrés Ricci o Juan Caramuel de Lobkowitz, o matemáticos con proclividades arquitectónicas como Carlos Sigüenza y Góngora en el lejano virreinato de Nueva España, no dudarían en teorizarlo y aceptarlo con radical entusiasmo («se explayó la libertad compósita», exclamaría Carlos Sigüenza en 1680)21. Este orden compósito es el que, por indicación de canónigos y expertos matemáticos, gravitaría sobre la reforma del presbiterio de la catedral de Valencia, desde el previsto inicialmente sólo para las pilastras mayores de sus frentes, hasta para las columnas de los cuerpos menores (portadas, credencias y ventanas), un compósito en éste caso que incluía enterizos fustes helicoidales de senos torsos, en el más estricto vanguardismo salomónico. Un renovado lenguaje decorativo acompañó la nueva ordenación del presbiterio: cartelas, tarjas, capiteles, cornisa con decoraciones, florones de talla, fruteros, muchachos, tambanillos y otras guarniciones [Figs. 80 e 81]. Presumiblemente esta mayor riqueza de elementos decorativos obligó igualmente a ornamentar con mayor profusión otras partes del presbiterio. Entre ellos destacan los modillones de la cornisa, que debían tener entre ellos, un «relampaguillo de talla», los arcos de las bóvedas que simplemente debían tener «muchachos y fruteros a la parte de abajo y pareció a los dichos comisarios que quedarían pobres y determinaron se vistiesen de

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Véase, Bérchez - Marías, Fra Juan Andrés Ricci de Guevara cit., pp. 251-279.


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talla por las tres caras con bandas de diferentes tarjas viscainas, serafines, fruteros y muchachos». Las aristas de las lunetas que «en el modelo corre una moldura de mala proporción pareció que quedaba pobre» y fue adornada por parras, bandas, laureles, rosas y azucenas. Igualmente en el medio de las lunetas «que no había nada en el modelo» se añadió una tarja de medio relieve de escultura, con cartones, serafines y otros adornos. También el gran arco toral que solo contemplaba un adorno de muchachos y fruteros por la cara de abajo se decidió vestir de diferentes motivos escultóricos por las tres caras. Ante todos estos cambios el florón o llave central en medio de la bóveda quedaba ridículamente reducida ya que solo tenía «una nube y otros muchachos sin otro adorno». Para la nueva clave fue necesaria la entrega de varios modelos de barro decidiéndose por una clave mucho más elaborada que fue la finalmente ejecutada. La obra del presbiterio de la catedral de Valencia, como ocurriría pocos años más tarde con la remodelación de la iglesia de Santos Juanes, o el proyecto de la fachada de la misma catedral, no hacen sino replantear una vez más un vicio común a la historiografía del arte, tan proclive a concentrar en la persona de un artista el protagonismo exclusivo de la obra, su autoría. Un análisis más detallado de los ambientes culturales que rodearon su construcción, con sus complejas rectificaciones, nos permiten comprender el papel tan decisivo que jugaron en la gestación de la cultura arquitectónica del barroco valenciano representantes de la nueva ciencia, matemáticos, novatores, como Tomás Vicente Tosca, Juan Bautista Corachán o Félix Falcó de Belaochaga, éste último tan activo en el curso de las obras del presbiterio. Hasta ahora solamente se conocía la intervención de Félix Falcó en las deliberaciones sobre la gran puerta principal de la catedral en fecha más tardía, pero su papel en el proceso de modificación de las trazas iniciales para el presbiterio de la catedral fue de gran importancia. Pero además, junto a él, la nómina de miembros del cabildo catedralicio y artistas que los acompañan, juzgando y opinando desde categorías arquitectónicas, es muy amplia. No solamente destacan los dos comisarios nombrados en las capitulaciones iniciales para seguir el proceso de la obra, los canónigos don Francisco Fenollet y don Cristóbal Marco, sino también otros miembros del cabildo, el canónigo Paulin, el canónigo Chabert, entre otros, acompañados por una serie de expertos. Entre los maestros que aconsejaron destacan Julio Capuz y Sebastián Martínez, escultor y cuñado de Juan Pérez. También el arquitecto Juan Claramunt, que había colaborado con Diego Martínez en la obra de la capilla de los Desamparados, es nombrado en varias ocasiones y ello probablemente debido a su experiencia pues trabajó en la cartuja de Vall de Crist, en Nules y en Ara Christi, todas ellas


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con destacadísimas cúpulas. Pero de entre todos los nombres mencionados se percibe con insistencia la confianza del cabildo en el parecer del escultor Tomás Sanchis, quien comparte en diversas ocasiones su opinión con los canónigos. Tomás Sanchis se perfila como uno de los maestros más influyentes en el proceso y estas noticias afianzan la valía de su personalidad artística. Autor de destacadísimos retablos donde ya emplea la columna salomónica, como el de Santo Domingo, y otros posteriores como el de Lliria o Torrent, debió ser uno de los principales maestros del momento, pues en su taller se formarían escultores de la talla de Bussy22, quien convive con Sanchis durante los años en los que reside en Valencia. Su formación no se debió reducir al ceñido campo de la escultura, y a él se atribuye un proyecto para la fachada principal de la catedral, hasta ahora desconocido23. Las noticias determinan punto por punto la intervención en cada uno de los cambios. En el cambio de trazas solicitado a Juan Pérez intervinieron los dos comisarios, y el entonces obispo de Segorbe, quienes se reunieron en casa del también canónigo Corbi, para «determinarlas». Fenollet y Marco igualmente tomaron la decisión de modificar las trazas de las credencias, y en este caso tras inspeccionar el modelo inicial que se encontraba en la sala capitular, convocaron a los expertos Tomás Sanchis, escultor quien estuvo acompañado por Félix Falcó. Falcó también aconsejaría en el cambio de construcción de la cornisa, para que no tuviera más de una junta. La documentación es muy expresiva para entender los pormenores de su realización. Nos permite observar a los canónigos totalmente involucrados en el proceso, con sus reuniones en torno al modelo custodiado en la sala capitular, o las reuniones en algunas casas particulares para determinar cambios, nos proporcionan a la vez instantáneas de los mismos situados a pie de obra, subiendo a los andamios para decidir por ejemplo los cambios a realizar en la decoración de los arcos, y así salpican varias veces la documentación expresiones como «se subieron a la obra y dieron orden al maestro». Todo ello nos sitúa ante una obra viva que fue ajustándose para adaptarse a los cambios propuestos. En diciembre del año 1677 se estaba en disposición de proceder al dorado de buena parte de los elementos decorativos, que nuevamente son citados de forma exhaustiva en el contrato firmado con el dorador Gaspar 22 M.J. López Azorín, Estancia y presencia de D. Nicolás de Bussy en Valencia, in Nuevas Aportaciones al estudio del escultor barroco Nicolás de Bussy, Mursia 2005, pp. 17-30. 23 ACV, Provision, 5360, se le paga por parte de Petronilla Dionisia Mont a Tomás Sanchis escultor a conte del modelo o traça que ha de fer per la portalada que se ha de fabricar en la present iglesia (27 de enero de 1670).


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Asensi. En ellos se concretan ya algunos elementos escultóricos realizados por Tomás Sanchis y José Artigues, a los que se sumarían otros capitulados en diciembre del año siguiente 167824. Con estos dos contratos se completaba el proceso que preveía por parte de los escultores la realización de una serie de figuras en madera que también se dorarían. En el primer contrato de dorado se menciona ya el gran florón o llave central, las decoraciones del arco toral, las decoraciones de los cruceros, las imágenes de los santos situados por encima de la cornisa, las decoraciones en las ventanas, y las tallas de pilastras, jambas, ángeles sobre los arcos, portadas y credencias. El contrato de escultura es igualmente muy detallado y precisa el tipo de serafines, ángeles, tarjas, tallas, roleos realizados todos en madera, que son los que con una calidad extraordinaria se aprecian en el conjunto del presbiterio. Solamente las piezas de mármol y los angelitos sobre las puertas se encargarían en 1679 a Génova para ser ejecutados por el escultor Daniel Solaro (1634-1698), siguiendo los diseños de Pablo Pontons, que fueron enviados en forma de modelos en unas cajas para servir de pauta. Las cuatro tablas de mármol se situaban por encima de puertas y credencias junto a los 8 angelillos, dos cada lado de las tablas, con dos escenas de martirio, el de san Eugenio25 y el de san Bernardo y sus hermanas Gracia y María de Alzira y dos visiones eucarísticas, la de san Francisco de Borja y san Pascual Bailón26. Venían a sumarse a la representación de otros tantos santos especialmente venerados en Valencia que se situaban por encima de la cor-

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Capitulaciones mencionadas en Pingarrón, Arquitectura cit., y consultadas en ACV, Protocolos, notario Juan Bautista Queyto, 3151, 1 de diciembre de 1677, Capitulaciones para aparejar dorar y bruñir y immitar jaspes diferentes y piedras y demás circunstancias que se ofrecen en la obra de la capilla mayor con Gaspar Asensi dorador y José Caudí pintor y dorador y ibid., notario Juan Bautista Queyto, 3153, 16 de diciembre de 1678, ff. 2256-2271, Capitulaciones de escultura para la capilla mayor con Tomás Sanchis y José Artigues. 25 San Eugenio según el P. Tomás Serrano, Fiestas seculares del tercer siglo de la canonización de San Vicente Ferrer, Valencia 1767, p. 262, fue el primer obispo de Valencia. 26 A. Buchón, Ignacio Vergara y la escultura de su tiempo en Valencia, Valencia 2006, pp. 33-34. Recoge la bibliografía específica donde se encuentra el encargo de estas piezas en P. Boccardo, Produzione e scambio in un emporio internazionale, capítulo Il seicento. Artista e comittenti nel segno del Barocco, en La scultura a Genova e in Liguria. Dal Seicento al Primo Novecento, Genova 1998, II, pp. 241-259: «il martirio di sant Eugenio […] e d’altri suoi compagni […] patirono tormento del fuoco e furono decollati, il martirio di san Bernardo e delle sue sorelle santa Grazia e santa Maria in un bosco […] san Francesco Borgia gesuita inginocchiato inanzi ad un altare dove sta la custodia del Santissimo Sacramento e ai suoi piedi il bastone di capitano Generale e tre cappelli di cardinale che lasciò […] avvertendo che la faccia di san Francesco Borgia ha da essere somigliante alla sua vera efigie che si troverà nella Chiesa di Sant Ambrogio di Genova e il beato Pasquale Baylon inginocchiato davanti il santissimo Sacramento […]».


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nisa, san Pedro Pascual, san Lorenzo, san Vicente Mártir, san Vicente Ferrer, santo Tomás de Villanueva y san Luis Bertrán. Aun en nuestros días sigue sorprendiendo el presbiterio de la catedral de Valencia por la magnitud de su compleja indumentaria – «vestido» – barroca, concebida como una majestuosa gruta a manera de un Sancta Santorum bíblico, en contraste con el refulgente fanal que es el cimborrio gótico [Fig. 82]. Fue expresión de los afanes litúrgicos de un tiempo altamente imbuido por un esencialismo religioso que buscó en las artes la expresión de la idea de Templum Domini, dentro de la boga contrarreformista de una teología mosaica, proclive a la revitalización de un cristianismo fiel a las Sagradas Escrituras. El famoso Baldaquino de San Pedro de Roma (1624-1633), obra de Bernini, y sobre todo la cerrada trama de las logias de las reliquias con las auténticas columnas salomónicas provenientes de la basílica constantiniana, debió actuar de modelo, susceptible de adaptar al peculiar espacio del presbiterio valenciano, con su altar del Corpus Domini a modo de trasagrario conectado con el admirado altar mayor de plata de la cabecera, cumpliendo las funciones del baldaquino romano. Sin embargo, este kilómetro cero del cristianismo valenciano que alcanzó a prefigurar el presbiterio de la catedral, pronto perdió argumentos. Desaparecido el altar de plata en la guerra de Independencia, faltó la piedra angular de la recreación salomonista de este espacio. Ya antes, con la reforma neoclásica e ilustrada de la catedral – en el proyecto del arquitecto académico Vicente Gascó – se había intentado suprimir, su compleja escenografía barroca de órdenes compósitos, de rutilantes fustes salomónicos, de ángeles y serafines gravitando alrededor del altar, ceñidos en metopas, entre modillones, o de declamatorias imágenes de santos vinculados a una triunfante iglesia valenciana. No se llegó a realizar. El proyecto de Antonio Gilabert, más templado en su clasicismo, respetó este espacio, pero esta reforma dejó constancia de un nuevo modo de entender la liturgia y la religiosidad, de un filojansenismo nada proclive al culto extrovertido y salomonista que tan exaltadamente representaba el presbiterio. En pleno siglo XX, en los años posteriores a la guerra civil, Vicente Traver realizaría un postrero esfuerzo por recrear de un modo más mimético la lección de Bernini en San Pedro de Roma, al disponer por un breve periodo de tiempo un potente tabernáculo delante del altar. En los últimos años, dentro de una nueva concepción de las artes religiosas imbuida por una privilegiada mirada histórico-artística, se han recuperado las magníficas pinturas de San Leocadio y Pagano, que tanto debieron asombrar en su momento. Nunca como ahora, se precisa tanto la historia, la memoria escrita de sus contemporáneos, para comprender los anhelos culturales, religiosos y artísticos del tiempo y lugar que la propiciaron.


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APÉNDICE DOCUMENTAL sin fecha,Valencia Intervención de los canónigos en el proceso de la renovación del presbiterio de la catedral. Valencia, Archivo de la Catedral, Varios, 1517, n. 20.

Memoria de las mejorias que de orden del señor arçobispo y comisarios se han hecho en la capilla mayor de la santa iglesia metropolitana de Valencia: Teniendo obligación de poner el mármol del mejor que huviere en el reyno y no hallándose cosa de importancia, pareció a los señores comisarios se pusiera de Génova. Item en las portaladas de dentro la capilla, teniendo obligación de hazerlas conforme están el modelo, como son de orden dórica y de medias columnas y alquitraves lisos, pareciendo a los dichos comisarios que aquellas no estavan a lo moderno, mandaron hazer nuevas traças como son las que se executan de orden compósito, haziendo cartelas, tarjas, capiteles que avian de ser de piedra negra, alquitraves acodillados, la cornisa encarreronada en garlapagos de baxo los frontispicios y en las frentes de dichos frontispicios, florones de talla, tambanillos con sus fruteros, haziendo el segundo cuerpo de serramiento que en el modelo está abierto. Item en las credencias, haviendo en el modelo unas media figuras como son unas termas y en medio un jarrón, pareciendo a los dichos comisarios que las termasa) era cosa indecente en la capilla mayor, determinaron que se hizieran traças en el modo y forma de las portaladas de relieve entero en las propias circunstancias que las dichas portaladas. Item que haviendo hecho y labrado los alquitraves para portaladas y credencias de piedra jaspe de Tortosa en diferentes piezas, pareció los dichos

a)

Meno probabile hermas.


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comisarios que fuesen de una pieza, las piedras que coronan las portaladas y credencias, y los pies derechos de dos lo más, para esto, han arrancado y traído las piedras nuevamente de Tortosa y de las pilastras del arco toral. Item en la cornisa principal, aviéndose concertado de hazerla en modillones pareció a los dichos comisarios que entre modillón y modillón se pusiese un relampaguillo de talla. Item que la cornisa que reza el capítulo, que ha de ser de tres o quatro hiladas y que unas piedras entrasen y otras no, pareció a los dichos comisarios que aquellas fueran de dos piesas para evitar de juntas y para que entrasen todas en la pared y que assi mesmo se vaciase por arriba la última hilada para más seguridad de aquella. Item que entre los arcos o cruzeros de la capilla, que avian de tener de relieve medio palmo pareciendo a los dichos comisarios que se rebaxavan sobrado las bobedas pareció dexar aquella palmo y medio más altas, y lo que se sigue de averlas dexado más altas, es dexar los arcos dos palmos de testera. Item que en los dichos arcos, teniendo obligación de hazer unos muchachos y fruteros a la parte de abaxo conforme está en el modelo, pareció a los dichos comisarios quedarían aquellos pobres y determinaron se vistiesen de talla por las tres caras, con bandas diferentes tarjas viscainas, serafines, fruteros y muchachos. En el margen, item que no teniendo obligación de poner yerros en los cruzeros de adentro, se han puesto en todos los muchachos y tarches y ventanas de orden del dean Fenollet y del canónigo Chavert en parecer de Juan Claramunt. Item que en las aristas de las lunetas, que en el modelo corre una moldura de mala proporción, pareciendo a los dichos comisarios que aquello quedaba pobre, determinaron se adornasen aquellas en parras, bandas, laureles, rosas y azucenas y en los medios de las lunetas que en el modelo no ay nada, pareció a los dichos comisarios se hiziese en cada una de aquellas una tarja de medio relieve de escultura, cartones, serafines y otros adornos. Item en el rebanco que corre sobre la cornisa que en el modelo ay unas cartelas y lo restante está liso, pareciendo quedaría aquel pobre, dieron orden los dichos comisarios se hiziese de relieve en diferentes tarjetillas y codillos.


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Item que en el adorno de las ventanas, que en el modelo ay unos termos con un género de architectura antigua, pareció a los dichos señores comisarios que no estava bien para la capilla aquellas figuras; y de orden de los dichos, se han adornado aquellas en diferente variedad de obra, como es de orden compósita, poniendo aquellas en más proporción, añadiendo columnas salomónicas, tarjas, muchachos, tambanillos, guarnición cortadas de ojas; esto es a cada una de aquellas y una urna en cada una de aquellas. Item que el arco toral que en el capítulo dize se ha de adornar por la cara de abaxo con muchachos y fruteros, pareció a los dichos comisarios quedaría aquel pobre, por no estar vestida más que por la una cara y determinaron se hiziese modelo para vestir las tres caras en diferentes adornos de escultura y en medio se hiziesse un tarjón y para asegurar toda la dicha escultura y talla mandaron se pusiesen barras y palanquetas de yerro. Item que el florón o llave de en medio la capilla que en el modelo ay como una nube y unos muchachos sin otro adorno, y pareciendo a los dichos comisarios que aquella no dezía con el resto de la obra, mandaron mejorar aquella y que se hiziese modelo y que se executase aquel. Más doscientas libras que el señor arçobispo me ofreció estando la obra a su gusto las quales están por auto del notario. (Sin foliar y sin numerar en el mismo legajo) El mármol que resa en el primer capítulo se mercó con orden del illustre canónigo Marco, aviendoselo comunicado al arzobispo y el dicho mármol se ha mercado en dos partidas, y la una la consertó el dicho canonigo Marco en persona y la segunda el maestro de la obra en orden de dicho canónigo Marco. En el segundo capítulo que habla de las portaladas, que se hizieron nuevas traças de orden del señor dean Fenollet y el señor canónigo Marco y el señor arzobispo de Segorbe y para determinarlas se juntaron los sobre dichos en casa del señor canónigo Corbi y me dieron orden de executarlas. En el capítulo que habla de las credencias, asi mesmo me dieron orden de hazerlas los sobre dichos, y se determinó en casa del sobre dicho canónigo y después de determinadas las dichas traças, pareciendo al maestro mudar algunas cosas, lo comunicó al deán Fenollet y al canónigo Marco. Y de orden de los dos, llamarán al señor Feliz Falcó y a Tomás Sanchis. Y entraron en el


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capítulo donde está el modelo y les pareció a los dichos canónigos y maestros que se pusiera en execución las dichas portaladas y credencias y lo añadidob) a ellas, para lo qual firmaron las traças el deán Fenollet y el canónigo Marco. En el capítulo que habla de la frontera de las credencias, estando el maestro en Tortosa, escrivió el canónigo Marco que les truxera de una pieza (verificar carta). En el capítulo que habla de un relampaguillo de talla entre los modillones de la cornisa, ese no se lo ha mandado nadie al maestro sino que necessita de ello. En el capítulo que habla de la cornisa, en orden a que no huviera más de una junta, me dió orden de ello el canónigo Marco y de que se vaciase por arriba el canónigo Bernardo Vidal y el señor Don Manuel Catalá y el señor canónigo Chavert aconsejados de Don Felix Falcó. En el capítulo que habla de los cruzeros, se hizo orden del señor canónigo Marco aconsejado del señor Mosen Bruno que subieron los dos juntos a la obra y me dió orden el dicho canónigo Marco para que lo hiziera. En el capítulo de adornar los arcos, se hizo de orden del señor canónigo Marco y el señor canónigo Chavert que los dos subieron a la obra y dieron orden al dicho maestroc). Item en el capítulo que habla de las lunetas, se hizo orden del señor canónigo Marco entrando a ver el modelo en compañía del señor canónigo Paulin y de Thomás Sanchis (ver si se acuerdan los señores canónigos Paulin y Thomás Sanchis). En el capítulo que habla del rebanco, no está hecho aún, pero se ha de hazer de necesidad por que lo trae asi el resto de las ventanas y demás obras que también estava comunicado con el señor canónigo Marco y Tomás Sanchis.

b) En el lateral, (Ver si están en memoria dello Felix Falcó y Thomás Sanchis). (No se haze papel de esto pues parece basta las trazas firmadas). c) En el lateral, (item que no teniendo obligación de poner yerros en los cruzeros de dentro, se han puesto en todos los muchachos y tarjas y ventanas de orden del deán Fenollet y del señor canónigo Chavert en parecer de Juan Claramunt, todos nos acordamos).


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En el capítulo que habla del adorno de las ventanas, se hizo de orden del señor canónigo Marco y el señor canónigo Chavert en parecer de Tomás Sanchis, y Sebastián Martínez y de Julio Capuz. En el capítulo que habla de la llave, mandó al maestro que hiziera un dibujo que excediera al que ay en el modelo y que dixera con la obra de los arcos. Esto fue de muy ante mano y al tiempo del poner en execución la dicha llave, hizieron diferentes modelos de barro Thomás Sanchis y el Maestro y uno de ellos se ha puesto en execución de orden del señor Don Manuel Catalá y del canónigo Marco. En el capítulo que habla del arco toral, se ha adornado aquel de orden del señor canónigo don Bernardo Vidal y el canónigo Manuel Catalá, y el señor canónigo Chavert, aconsejados del señor obispo de Segorbe. En el capítulo que habla de los alquitraves, estando el maestro en Tortosa, le escrivió una carta al señor canónigo Marco, que necesitaba la obra fuesen los alquitraves de una piesa y que avia ocasión buena y me respondió el señor canónigo Marco por una de su mano que lo rexese que no reñiríamos, si el señor canónigo Marco se lo comunicó al señor Manuel Catalá, o no, no lo sé.


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MERCEDES GÓMEZ-FERRER NUEVAS CONSIDERACIONES SOBRE EL PINTOR FRANCESCO PAGANO*

Los recientes estudios sobre los frescos de los ángeles músicos de la capilla mayor de la catedral valenciana han puesto de relieve la importancia del descubrimiento y puesta en valor de estas relevantes pinturas. Han sido varias las publicaciones que han ofrecido una consideración en el contexto de la pintura renacentista, a partir del análisis de la propia obra de arte, a las que se han sumado diferentes aproximaciones a su autoría y a la figura de los pintores italianos, Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio1. Se ha procedido a ordenar la cuantiosa información documental que existía, alguna ya conocida y otra de reciente aparición que venía a intentar esclarecer el proceso artístico. Al contrato, las ápocas de pago, las diferencias económicas entre los dos artistas, el pleito y desavenencias con el propio cabildo, el seguimiento más o menos detallado del propio desarrollo de la obra, se han sumado otros datos ajenos al proceso de la pintura al fresco del presbiterio relativos a la vida en Valencia de los pintores, como testamentos, negocios o venta de bienes2. A pesar de que el medio valenciano ha ofrecido una

* Estos datos no se pudieron presentar en su día en el congreso habido en Roma en enero de 2008 y que recoge la presente publicación. Son fruto de la investigación posterior sobre este mismo tema y agradezco vivamente al Prof. Massimo Miglio y a la Prof. Anna Maria Oliva la posibilidad de publicarlos en este volumen junto a las ponencias del citado congreso. 1 Son varias las publicaciones que se han realizado y hay en este mismo volumen número otros artículos que recogen el estado actual de la investigación. Véase F. Marías, Los ángeles de Valencia y su fortuna en la pintura y la historia: problemas abiertos, pp. 105-129. 2 La mayor parte de los documentos han sido publicados en el apéndice documental de Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia. Estudios previos, ed. C. Pérez García, Arzobispado de Valencia - Generalitat Valenciana, Valencia 2006 y retomados en X. Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura del Renaixement a Espanya, Gandía 2006 (Centre d’estudis i investigacions comarcals Alfons el Vell). Algunos documentos inéditos se encuentran en el artículo citado de F. Marías en este mismo volumen.


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información rica sobre determinados aspectos de la obra, especialmente los referentes a los propios frescos en la catedral, aún quedan muchas incógnitas sin resolver. Fundamentalmente, y aunque se han lanzado sugerentes hipótesis, sigue habiendo grandes lagunas relativas a la actividad de Pagano y San Leocadio en Italia y a las conexiones con los prelados valencianos. Por otro lado, las dudas son incluso mayores en todo lo relativo a la diferenciación de autorías y a las supuestas obras ejecutadas después de dar cumplimiento al contrato de la pintura al fresco, un conjunto de tablas de irregulares y de difícil adscripción. Pero, la documentación no siempre tiene una interpretación unánime y en el caso de la obra al fresco de los ángeles músicos hemos asistido a distintas aproximaciones, especialmente en cuanto a la consideración de la autoría o grado de responsabilidad de uno u otro maestro3. Una compañía entre dos pintores o incluso la asociación entre miembros de una misma familia en un taller suele provocar diversas valoraciones para establecer la paternidad de unas pinturas. Y esto en el medio valenciano es especialmente frecuente, pues al caso que nos ocupa, se suman otros muchos como el de los Osona, los Hernandos o los Macip por citar algunos de los más relevantes. Por tanto, en este proceso cualquier nuevo documento que pueda ofrecer alguna luz es especialmente significativo y eso es lo que se pretende en este trabajo. Cuando ya se pensaba que se habían explorado todas las posibles referencias a los frescos en el archivo de la catedral de Valencia, aparecen unos datos en lugar insospechado, desclasificado, que pueden ayudarnos a poder interpretar este complejo proceso pictórico. Se trata de dos documentos custodiados en el archivo de la catedral valenciana, que se encuentran en un volumen de procesos y papeles sueltos del notario Jaume Esteve4. En los protocolos de este notario figuran la mayor parte de los datos sobre la pintura del presbiterio de la catedral. Pero este volumen no es un protocolo de un año concreto, sino un conjunto de papeles ligados entre sí, relacionados con diversos procesos de justicia, con fechas que oscilan entre 1475 y 1500, absolutamente desordenados. Solamente algunos documentos son el borrador de actos que luego 3 Creemos que este es uno de los aspectos más controvertidos porque se ha primado mucho la figura de Paolo da San Leocadio, en detrimento de Francesco Pagano. Véase A. Condorelli, El hallazgo de los frescos de Paolo de San Leocadio en la catedral de Valencia y algunas consideraciones acerca de Francesco Pagano, «Archivo Español de Arte», 310 (2005), pp. 175-179 o X. Company, Paolo da San Leocadio i els inicis de la pintura del Renaixement cit. 4 Mirar apéndice documental. Archivo de la Catedral de Valencia, Procesos y Papeles sueltos del notario Jaume Esteve, Legajo 3691. Agradezco a F. Vilanova el haberme advertido sobre este volumen.


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figuran en los correspondientes protocolos, pero en su mayoría son procesos sueltos, lo que explica que hayan pasado desapercibidos hasta la fecha. El primer documento en cuestión está incompleto y no tiene datación precisa. Se sitúa inmediatamente detrás del testamento que Francesco Pagano había redactado el 25 de junio de 1476 y que también se encuentra en el correspondiente volumen de protocolos del citado notario, sin que en ese volumen exista mayor información que el citado testamento. Por un lado, recoge el inventario de los bienes muebles que se encontraban en su casa y por otro el contenido de una caja de su propiedad que estaba en la sacristía de la catedral. El otro documento, situado unas hojas antes en el mismo volumen de procesos sueltos, está fechado el 11 de octubre de 1476 y se trata de la obligación de los dos pintores, Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, de reparar los andamios utilizados en la pintura, con la precisa indicación de que se descontará de su paga si necesitan alguna reparación. Esta documentación por tanto se puede situar en un periodo clave para comprender el proceso de la realización de la obra de los frescos. Como es de todos sabido, la pintura se había iniciado en julio de 1472 y en la fecha en la que se puede situar la documentación, 1476, ya se llevaban cuatro años de trabajos. El año 1476 fue un momento especialmente complicado en el transcurso de todo el proceso pictórico5. Francesco Pagano se encontraba enfermo y redactaba testamento el 25 de junio de 1476, indicando que se debían entregar a Paolo da San Leocadio, 200 ducados que él tenía de la administración de las cosas de la capilla de la Seo. A los pocos días, el 15 de julio de ese mismo año, ambos fueron acusados de fraude pictórico por no realizar la pintura verdaderamente al fresco, por lo que fueron investigados, y posiblemente obligados a realizar una prueba para demostrar que su técnica era totalmente correcta6. El 30 de agosto, se insistía en la entrega a San Leocadio de los 200 ducados que Pagano tenía en una caja en la sacristía mientras que los canónigos se comprometían a dar a Pagano, lo que quedaba del dinero y sus otras posesiones. Paolo da San Leocadio no debió recibir este dinero como se intuye por la documentación posterior y debió amenazar con marcharse de la obra, lo que explica un documento del 13 de septiembre, siempre de 1476, en el que se le impedía abandonar la obra, bajo fianza de 1000 florines de oro. La situación se debió solucionar y del 23 de septiembre se conservan dos documentos importantes: la concordia realiza5

Los principales documentos del proceso pictórico en Los ángeles músicos de la Catedral de Valencia cit. 6 Estamos de acuerdo en la interpretación de F. Marías sobre este documento, ya que no creemos que sea de la prueba inicial realizada en 1472.


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da para repartirse el trabajo que faltaba en la capilla mayor, el desembolso a San Leocadio de una parte del dinero debido y el compromiso de completar el pago al final de la obra, junto a la entrega por parte del cabildo de la caja y otras posesiones que estaban en la sacristía a Francesco Pagano. Por tanto, se vuelve a insistir en el tema del dinero, que era la principal causa de desavenencias con la obligación, esta vez sí, de que fueran entregados a San Leocadio 150 ducados de la caja que Pagano tenía en la sacristía y los 50 restantes, hasta completar el total de 200 que Leocadio reclamaba, se darían al final de la obra por parte del cabildo. Pagano, por otro lado, se podía quedar con el resto del dinero que había en esta caja y sus otras pertenencias. Parecían quedar todos satisfechos, pues Pagano se ahorraba 50 ducados que serían los que se comprometía a dar el cabildo, y San Leocadio recibiría todo lo exigido. Los datos de 1476 se completan con una referencia de 30 de diciembre relacionada con los andamios empleados en la obra y la retirada en ese día de un mástil de galeaza que se había utilizado en la pintura. Es en este contexto en el que situamos los documentos encontrados. Presumiblemente la fecha en la que se decide inventariar las posesiones de Pagano se puede ubicar en torno a los días posteriores a la redacción del testamento, 25 de junio de 1476, momento en el que se debería haber abierto la caja de la sacristía. La redacción de un inventario de bienes es extraña si no se ha producido la publicación del testamento y lectura pública tras la muerte del testador, cosa que como sabemos no sucedió. Quizá se explica precisamente por todo el pleito habido con su colega Paolo de San Leocadio y por la necesidad de aclarar e inventariar las posesiones del pintor, antes de la entrega del dinero estipulado. Por otro lado, la fecha de 11 de octubre de 1476 relativa a unos nuevos andamios concuerda perfectamente con el desarrollo del proceso pictórico y explica el misterioso documento sobre el mástil de la galeaza retirado unos días después. Analizando la situación por partes, el documento de las posesiones de Pagano se refiere al inventario de propiedades en su casa. Es necesario señalar que posiblemente las desavenencias entre ambos maestros les habían llevado a decidir vivir por separado, ya que en un principio parece que compartieron casa. A su llegada a la ciudad de Valencia, se les alquiló para vivienda la casa de Soler, sobrino de un tal micer Gauderre, y se proveyó de todo lo necesario. De hecho en 1475 aún seguían compartiendo la misma casa como indica un dato referido a un banco de madera «que ara tenen los pintors a casa sua»7. Quizá toda la disputa habida entre ambos motivó ya

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Este documento no aparecía en la relación de documentos de los libros ya publica-


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en esta fecha un abandono de la vivienda inicialmente compartida por uno de los dos maestros, porque en el inventario aparece claramente referido como los bienes muebles de la casa de “mestre” Francisco pintor. Como se ha señalado, el inventario está incompleto porque faltan muchos bienes relacionados con la vida diaria, ajuar de la cocina o del dormitorio, pero sí que hay una serie de ítems directamente vinculables a la pintura y de sumo interés. A los materiales concernientes estrictamente con el proceso pictórico como los colores «verdet, groch, judi, bolirmini, adzerco, blanquet, atzur»8, se suman otros relacionados con el proceso de dorado, algunas herramientas, para el trabajo en relieve, como hierros, cuchillos o punzones, 88 papeles para contener oro, cera, y varias alusiones a las hojas de papel de estaño. La cera-resina y la capa de estaño tal y como se ha comprobado en la restauración eran la base sobre la que luego se aplicaban los dorados, en nimbos, brocados, pasamanería de trajes, estrellas, o arcos de las ventanas. A esto se añade una caja con letras de colores, quizá las letras “antigues” que se debieron colocar en el arco principal y que no se conservan. Pero los datos más significativos son la mención de los tres rollos de papel de “mostres”, claramente dibujos previos que pudieron ser las propias muestras de la obra. Junto a 17 hojas de papel de “histories”, más difíciles de interpretar aunque igualmente identificables con una colección de dibujos figurativos o de historias que servirían para emplear en la pintura. La palabra “histories” siempre hace referencia a motivos humanos que narran algo y no pueden confundirse nunca con elementos decorativos o adornos. Por otro lado, se alude a una mesa de dibujar, que no ofrece lugar a dudas. Y finalmente, dos libros, uno simplemente indicado como libro de papel y otro un libro de papel que hizo el papa Juan sobre los Evangelios9, por ahora, no identificado y que no sabemos si tenía relación directa con la pintura. A esto se sumaba las pertenencias de la famosa caja de la sacristía, con una cantidad muy superior a los 200 ducados tantas veces aludidos. En

dos, se encuentra en Valencia, Archivo de la Catedral, Protocolo de Joan Esteve, signatura 3682, 30 de abril de 1475, en el Inventario del armario de la Seo, aparecen «Item hun banch encaxat del en Luch ara lo tenen los pintors a casa sua» y «Item tres banquetes per a les portes, les dos tenen los pintors». 8 Todas estas referencias están relacionadas con pigmentos para el trabajo pictórico, colores verdete o cardenillo, amarillo, judea, arcilla ferruginosa (bolirmini), blancos, azules et cetera. 9 Resulta difícil de interpretar y se ha pensado en la posibilidad de que fueran algunos comentarios a los Evangelios, que no hemos podido localizar, de los papas y que por cronología podrían ser anteriores a estas fechas Juan XXII (1249-1316-1334) o el antipapa Juan XXIII (1369/1370-1410-1415-1419).


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ella, había un pañuelo con 280 ducados y otro saquito con 117 ducados, también un zafiro engastado en un anillo y otros dos zafiros sueltos, y nuevamente, colores y papeles relacionados con la pintura. Este inventario por tanto nos permite resituar la figura de Francesco Pagano como el pintor que controlaba el proceso pictórico, recibía los pagos, tenía en su poder los colores y el oro, y lo que es más importante, dibujaba en su mesa, custodiaba las muestras y los papeles con las historias. Estamos por tanto de acuerdo con la hipótesis de un trabajo conjunto de ambos maestros desde el primer momento de la obra y no podemos aceptar la interpretación que minimiza el papel de Pagano en la pintura de los ángeles músicos de la catedral de Valencia, excluirlo o desterrarlo a la mera realización de los elementos decorativos es una interpretación muy restringida10. De hecho, posteriormente, la enfermedad de San Leocadio en verano de 1478, que le llevó incluso a redactar testamento, hizo que Pagano se comprometiera en el caso que fuera necesario, a acabar él sólo la pintura11. A su vez nuevos datos documentales de reciente aparición van configurando la personalidad de Francesco Pagano y lo sitúan como un pintor activo en el medio napolitano del entorno del rey Alfonso el Magnánimo, como demuestra su presencia en la compañía de pintores formada en 1457 con Rafael Tomás de Barcelona, Jacobo Barreta y Paolo Borriello12. Quizá tras la muerte del Magnánimo decidió probar fortuna en Roma, donde debió estar cierto tiempo, como ha sido señalado, porque en su testamento insiste en que era habitante de Roma, aunque hacía ya más de cuatro años que había dejado la ciudad italiana13. Un pintor por tanto, de firme trayectoria, de una cierta edad, con una actividad a sus espaldas, y dueño de los medios necesarios para el proceso pictórico.

10 11

Mostramos acuerdo con la tesis expuesta en el trabajo de F. Marías. Valencia, Archivo de la Catedral, Protocolo de Joan Esteve Legajo 3682, 13 de febrero de 1478, «Domini de capitulo ecclesie Valentine in domo capitulorum eiusdem capituli congregati in quo fuerunt presentes domini Jacobus Exarch, vicarius generalis, Joannis Pelegri, Gondizalvus de la Caballería, Johannes Marromà, Jacobus Martí Cervelló, Franciscus Martini, Berengarius Clavell, Bernardus Esplugues, Bartholomeus Vallescar, Janfridius Serra, Michael Gomis, omnes canonici prebendati dicte ecclesie unanimes et concordes comiserunt dictis honorabilibus viris dominis Janfridio Serra et Michaeli Gomis quatenus deinde videant tam super picturam capelle maioris Virginis Marie [quam] super so[lucionem (sic)] dicte picture quam convenit et concordarunt cum pictoribus dicte capelle ita quod predictis et cetero non habeant agere amplius cum dominis de capitulo nec referre eisdem aliquid». 12 Sobre este dato que sitúa a Francesco Pagano en la corte del Magnánimo, agradezco la referencia a Marià Carbonell i Buades, en Sagreriana Parva, «Locus Amoenus», 9 (20072008), pp. 61-78. 13 Adele Condorelli llamó la atención sobre este hecho y ha desmentido el que se pueda


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Todas estas consideraciones se completan con el tema relacionado con los andamios, aparentemente de menor importancia, pero que sirve para resituar el proceso cronológico de la obra. Creemos que en este año, gran parte de la pintura de la bóveda debía estar terminada y lo que faltaba se centra tal y como se lee en el documento de la concordia entre los dos pintores en los muros de la capilla mayor. Pagano tenía que pintar desde los capiteles había abajo («los capitells e tota la part jussana sota aquells») y San Leocadio desde los capiteles hacia arriba, con «los Apòstols i la Majestat a[m]b los seraphins e altres coses»; es decir, debajo de las ventanas como señalaba el contrato inicial, una historia, (la Majestad con ángeles) y en los otros espacios, los Apóstoles14. Pero en cualquier caso, se está tratando del tema del muro de la capilla mayor y no de la bóveda, lo que se confirma con la mención del tipo de andamio utilizado. Los andamios que aparecen mencionados en octubre de 1476 son claramente los que se iban a construir para «los pilars entorn» de la capilla de la Seo, es decir, los pilares que se sitúan en los muros15. La retirada del palo central que sustentaba la estructura de andamiaje anterior, el mástil de la galeaza, se debía haber hecho con anterioridad, no encontrando a nadie que lo quisiera devolver al Grao hasta el 30 de diciembre de ese mismo año, debido a sus enormes dimensiones.

identificar a Pagano con un pintor que regresa a Nápoles y se encuentra documentado en 1489. A. Condorelli, El Cardenal Rodrigo de Borja mecenas de Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio, in Els fills del senyor Papa. Cinquè centenari de la mort de Cèsar Borja (15072007). Actes del II Simposi internacional sobre els Borjas (València - Gandia, 21-23 novembre 2007), «Revista Borja», 2 (2008-2009), pp. 359-378 (www.elsborja.org/revista.php). Realmente lo único fidedigno que sabemos es que desaparece de la documentación valenciana en 1482, debiéndolo considerar como un pintor de edad avanzada en esta fecha. 14 Sobre este tema ver la nueva interpretación de un dato que había pasado desapercibido por estar confundida su localización en J. Sanchis Sivera, La catedral de Valencia, Valencia 1909, p. 544, quien citaba que Juan Sariñena pintaba en una Majestad del retablo mayor de la catedral de Valencia en 1583. Cuando lo cierto es que se refería a la obra al fresco de la Majestad, situada por encima del retablo mayor. Ver J. Bérchez - M. Gómez-Ferrer, “Vestir a lo moderno”. La remodelación barroca del presbiterio de la catedral de Valencia, en este mismo volumen. 15 Ver apéndice documental. Se insiste en la madera que se les prestará para poder hacer los andamios entorno a los pilares.


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APÉNDICE DOCUMENTAL

1 posterius 1476, junio 25 Inventario de los bienes del maestro Francisco Pagano pintor, a continuación del testamento escrito con fecha de 25 de junio de 1476. Valencia, Archivo de la Catedral, Procesos y papeles sueltos, notario Joan Esteve, Legajo 3691, sin foliar

Inventari dels bens mobles que foren atrobats dins la casa de mestre Francesco pintor los quals son los seguents: Primo una taula de menjar la qual stava dins la cambra sobre la qual foren atrobades les coses seguents: primo una ymatge de cera negra vestida de stamenya Item una capça ab letres de colors Item tres ferrets de obrar e dos punchons e un ganivet. Tres rolls de papers de mostres Item un libre de paper que feu papa Johan sobre los evangelis Item un altre libret de paper Item LXXXXVIII querns de paper per a tenir or Item un saquet d’aluda de verdet Item un paper ab un poch de judi Item en miga olla en que havia un paper ab un poch de groch Item altre paper ab un poch de groch Item altre paper ab verdet Item una vixiga ab atzerquo Item un troç de pa de cera Item un poch de bolirmini Item un paper ab blanquet Item un quern de paper vermell ab trosos fulla d’estany Item XVII fulls de paper de histories Item una tauleta de deboxar Item un matalaff ab la cara blanca e la sotana blava Item una catifa ques diu que es penyora


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Item tres peces de cortinatge ques diu eren penyora Item una vanova de mostra de rosetes Dins la caxa: Primo una capa morada nova Item una alna de blanqueta Item un gipo de seda blava Item un gipo de fustany olda ab miges manegues de seda negra Item un sayo morat de drap sotil Item un jaquet negre Item unes calces negres velles Item unes calces de grana sotils Item unes calces de grana noves Item unes calces blaves desguarnides Item unes calces usades Item altres calses grisses velles Item dos bonetes vells Item un gonell de drap blau Item un saquet de aluda en que ha verdet Item un saquali ab atzur Item altre saquali ab atzur Item un bolich de atzur Item una bossa de en que un poch de atzur Item un bolich de retals Item un capot de anar Item un spill gran Item un bolich de paper de full en que y ha full d’estany Item un caxo dins lo qual hi havia deu plechs de full d’estany Les coses e pecunies que foren atrobades en una caxa de mestre Francisco napoleta pintor al fresch de la capella maior de la Seu de Valencia son les seguents. Les quals coses foren enventariades dins la sacrestia de la seu en presencia dels senyors del capitol. Primo en un bolich de drap o dins un mochador foren atrobats doscents huytanta dos ducats d’or Item quaranta timbres Item un çafir enguastat en una anell Item dos çafiros, un petit e altre maioret


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Item en un braho de gipso de drap squexat foren atrobats cent e deeset ducats Item dos troรงos de chamellot morat Item alguns papers e saquet ab atzur e altres colors e coses de la dita pinturaa).

2 1476, octubre 11 Obligaciรณn de los dos pintores Francesco Pagano y Paolo da San Leocadio de reparar los andamios utilizados en la pintura. Valencia, Archivo de la Catedral, Procesos y papeles sueltos, notario Joan Esteve, Legajo 3691, sin foliar

Mestre Francisco de Napols e Paulo de Regio pintors al fresch de la capella de la Verge Maria de la Seu de Valencia constituhits davant lo magnifich mosen Francesc Corts canonge havent comissio dels senyors del capitol sobre la pintura de la dita capella prometeren es obligaren que aquella fusta que sera emprestada a ells de la dita Seu per obs de fer bastiments entorn del pilars de la seu de la dita capella que si de la dita fusta troceiaran e trencaran que refaran lo dan de la dita fusta e si non pagaren o satisfeyen que los senyors del capitol se puxen reintegrar de los diners de la darrera terรงa que han de hacer los dits pintos per raho de la dita pintura. Testimonis foren mestre Pere Comte, obrer de vila; en Johan Sala e en Melchior Fores, notari.

a)

En el folio anterior, (Presents foren per testimonis lo reverent mestre Melchior Miralles e Melchior Lorenzo presbiter de la Seu).


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BOLOGNA Museo internazionale e Biblioteca della musica inv. n. 1758: 185 CAGLIARI Archivio di Stato Atti notarili sciolti, notaio Pere Steve, vol. 1164: 71 CITTÀ DEL VATICANO Biblioteca Apostolica Vaticana Vat. Lat., 4123: 26 CREMONA Archivio Storico Diocesano Codex VI: 186 PALMA DE MALLORCA Archivo del Reino Protocolos, notaio Joan Castell, 2579: 70 MANTOVA Archivio di Stato Archivio Gonzaga, b. 1229: 190 MODENA Archivio di Stato Particolari, b. 1280: 77, 83 Rettori dello Stato, Reggio, b. 166: 77


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INDICE DELLE FONTI MANOSCRITTE

REGGIO EMILIA Archivio della Cattedrale Battistero Registri Battesimali, regg. 1430-1449: 82; 1450-1478: 76, 78, 83 Archivio della Curia vescovile Registro Primo 1430-1449: 114 Archivio di Stato Annona, Congregazione dell’Abbondanza Descrizione delle bocche e delle biade, 1442-1632, b. 1340: 78-80 Archivi Giudiziari Libri delle denuncie e delle querele: 76 Libri dei danni dati, 1470 II semestre: 77 Archivio del Comune Atti di Stato civile Frammenti dei libri dei fuochi: 76, 78 Memoriali, anno 1397: 75 anno 1420: 75 anno 1421: 75 anno 1424: 75 anno 1429: 75 anno 1439: 76 anno 1470: 77 anno 1473: 79 anno 1479: 77 anno 1482: 79 Estimo, Liber focorum et boccarum 1458-1459: 76 Corporazioni di Arti e mestieri Arte dei Sarti, b. 2356: 76 Notai Lanzi Gaspare, bb. 52, 58: 79 Martelli Paolo, b. 217: 80 Bonzaghi Franchino iunior, b. 96: 80 Rodigi Rodigo, b. 772: 80 Biblioteca Panizzi mss. regg. C 103: 79 ROMA Biblioteca Casanatense ms. 805: 190


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INDICE DELLE FONTI MANOSCRITTE

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VALENCIA Archivo de la Catedral Cod. ms. 45: 125 48: 125 112: 026 249: 125 259: 125 375-392 Juan Pahoner, Especies perdidas, 14 voll.: 40, 210 Deliberaciones, Leg. 301: 212 Legajo, 64/1: 33 Llibre d’obra o Libro de Fábrica, Leg. 1506: 36 Libro de Fábrica, Leg. 1507 (a. 1458): 209 Libro de Fábrica, Leg. 1388 (a. 1583): 213 Pergamino, 354: 44 Protocolos y notales comunes notaio Joan Esteve, 3590: 38 3679: 209 3682: 110, 118, 233, 234 notaio Crispín Perez, 3099: 212 notaio Juan Bautista Queyto, 3151: 221 3153: 221 3154: 216 notaio Juan Tortrella, 3137: 212 Procesos y Papeles sueltos notaio Jaume Esteve, 3691: 230 Provisiones de gastos y acuerdos, 5360: 220 Varios, 1517, 20: 217, 223 Archivo del real Colegio Seminario de Corpus Christi Protocolos notaio Jordi del Royo, Legajo 26279: 107 notaio Manuel d’Esparça, Legajo 11383: 119 Archivo del Reino notaio Luis Spinal, Legajo 3096: 108 Archivo municipal Lletre Misives, 26, 278-279: 210


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Abraham Ibn Ezra, 125 Acidini Cristina, 4, 6 Adria (Rovigo), Conservatorio, 159 Africa, 142-143 Agostino di Duccio, 141 Agricola Martin, 161 Aiguamurcia (Tarragona), - Monastero de Santes Creus, 203 Albalat Andreu (Andrés) d’, vescovo di Valenza, 41, 48 Albi, cattedrale, 157 Albornoz Egidio, card., 123 Alcañiz (Alcanyis) Miquel, pittore, 2, 42, 208 Alessandro VI, papa (Rodrigo Borgia), 2- 3, 21-39, 42-45, 47, 57-62, 65-70, 72-73, 102, 111-112, 123-126, 135-136, 153, 160, 168, 170, 187-190, 203, 209 Alfonso II d’Aragona, duca di Calabria e re di Napoli, 69, 114, 149 Alfonso V, detto il Magnanimo, re d’Aragona e I re di Napoli, 23, 24, 41, 70, 72, 111, 113, 234 Aliaga Isidoro, arcivescovo di Valenza, 210 Alighieri Dante, 171 Alimbrot Jordi, pittore, 4, 119, 124 Aloy Pons fabbro, 208 Altura (Castellón), Certosa di Vall de Crist, 219 Alzira, loc., 42 Amadei Giuliano, fra, 123 Amadeo Giovanni Antonio, 176 Ambrosi Melozzo di Giuliani degli v. Melozzo da Forlì Amighetti Claudio, 159, 167 Ammannati Piccolomini Giacomo, card., 24 Anagni, Cattedrale, Cripta, 155 Anania Giovanni, arcidiacono, 29 Ancona, 123 Andrea, s., apostolo, 187 Antivari, diocesi, 127 Antoni Héctor d’, 19 Antonia, moglie di Vincenzo da San Leocadio, 80

Antoniazzo Romano, Antonio Aquili detto, pittore, 60, 102-103, 123-124 Antonio, canonico di Castro, 127 Antonio da Bologna, candeliere, 119-120 Antonio da Brescia, scultore, 66, 112 Antonius Bononiensis v. Brensio Antonio Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, 154 Apollo, mit., 141 Apollodoro, pseudo, 139 Apollodoro di Atene, 138 Aquili Antonio v. Antoniazzo Romano Aquili Marcantonio, 124 Ara Christi v. Puzol Aragona, Corona d’, 2, 32, 41, 71, 193-194, 196, 200, 203 Aragona, regno di, 59, 111 Aragona Beatrice d’, regina d’Ungheria, 164 Aragona Eleonora d’, 148 Aragona Isabella d’, 149 Arenós Fernando de, canonico di Valenza, 124 Ariberti Gabriele, notaio, 77 Aringhieri Alberto, rettore dell’Opera del Duomo di Siena, 174 Ariosto Francesco, podestà di Castellarano, 114 Ariosto Princivalle, padre di Francesco, 114 Artés Pere d’, maestro razionale del regno di Valenza, 125 Artigues José, 221 Asensi Gaspar, doratore, 220-221 Asia Minore, 139 Asia Occidentale, 142 Assisi, 127 - Palazzo Comunale, 165 Atene, 140-141 - Acropoli, 140 Ateneo di Naucrati, 140 Aurispa Giovanni, umanista, 135 Avignone, 135 Bailón Pascual, s., 214, 221 Ballester Jordi, 161, 167


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INDICE DEI NOMI

Ballester Pere Joan, pittore, 4, 119 Bar v. Antivari Barbazza Andrea, canonista dello Studium di Bologna, 28 Barberiis Melchiorre de, 171 Barbo, famiglia, 123 Barbo Marco, card., 124 Barbo Pietro v. Paolo II, papa Barcellona, 36, 70-71, 113, 202, 234 - diocesi, 41 - Museo Nazionale d’Arte di Catalogna, 96 Bari, Basilica di San Nicola, 186 Barili Antonio, 173 Baroffio Giacomo, 159 Baroncini Rodolfo, 159 Barone Nicola, 69 Barreta Jacobo, pittore, 70, 72, 113, 234 Bartolomeo, s., apostolo, 109 Basilea, Schola Cantorum, 159 Batllori Miquel, 45 Battista de L’Aquila, pittore, 123-124 Beauvais Vincent de, 125 Bebbi Gian Giacomo, padrino di Paolo da San Leocadio, 63, 66, 83 Beccadelli Antonio, detto il Panormita, 45 Belén (Betlemme), 96 Bellini Giovanni, pittore, 164 Bellini Jacopo, pittore, 144 Bellviure Petrus, mercante, 120 Belriguardo, loc., 63 Beltrán Gaspar, pittore, 211 Beltrán Luis v. Bertrán Luis Beltrando Antonio v. Bertrando Antonio Benedetto XIII, antipapa (Pedro de Luna), 44 Benedetto XVI, papa (Joseph Alois Ratzinger), 191 Benito Fernando, 6 Benvenuto di Giovanni, pittore, 183 Berbenno di Valtellina, 159 Bérchez Joaquín, 6, 154 Bergamo, - Accademia Carrara, 159 - Cappella Colleoni, 186 Berlino, 151 - Gemäldegalerie, 157 Bernardo di Alzira, s., 221 Bernés Pere, orafo del re, 208 Bernini Gian Lorenzo, 215, 222 Bertolotti Gasparo v. Gasparo da Salò Bertrán Luis, s., 214, 222

Bertrando Antonio, detto “Trombetta”, vescovo di Reggio Emilia, 77, 114 Bessarione Basilio, card., 27-29, 60, 123 Biondo Flavio, umanista, 135 Boccati Giovanni di Piermatteo, 168-169, 177 Boiardo Matteo Maria, conte di Scandiano, 114 Bologna, 27, 28-29, 58-59, 123-124 - chiese e basiliche: Corpus Domini, 167 - - S. Giovanni in Monte, 199 - - S. Petronio, 156, Cappella Bolognini, 156 - collegi: Gregoriano, 27 - - Spagna (Collegio del card. Albornoz), 123 - musei: Civico Medievale, 167 - - Internazionale e Biblioteca della musica, 184-185 - Università (Studium), 27-29, 58 Bologna Ferdinando, 113, 116 Bolognini Bartolomeo, pittore, 156 Bono da Ferrara, pittore, 122, 124 Bontempi Pierluigi, 159 Bonzaghi Franchino iunior, notaio, 80 Borges Jorge Luís, 120 Borgia, famiglia, 22-24, 34, 41-42, 44-45, 73, 196, 199 - Alfonso v. Callisto III - Francesco, s., 59, 214, 221 - Isabel, madre di Rodrigo, sorella di Callisto III, 23, 57 - Joan, II duca di Gandía, figlio di Rodrigo, 33-34 - Jofré v. Borgia y Escrivà Jofré - Lucrezia, 133-134 - Pere Lluís, figlio di Rodrigo, primo duca di Gandía, 34 - Pere Lluís, fratello di Rodrigo, 24 - Rodrigo, v. AlessandroVI Borgia y Escrivà Jofré, padre di Rodrigo, 23, 57 Borrassà Lluís, artista catalano, 203-205 Borriello Paolo, pittore, 70, 72, 113, 234 Bosque Andrée de, 116 Botticelli Sandro, pittore, 141 Bou Antoni, teologo, 43 Bou Luis, 107 Bozacchi Bertolino dei, 78 Bozacchi Giovanni Andrea dei, don, fratello di Tommaso, 78 Bozacchi Tommaso dei, figlio di Bertolino, 78-79 Bracciolini Poggio, umanista, 135


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Bramante Donato, 73 Bregno Andrea, pittore, 168 Brensio Antonio (Antonius Bononiensis), 167 Bressano Baptista, 185 Bruni Leonardo, umanista, 27, 135 Bruno mossen, 226 Buonamici Francesco, 215 Buonarroti Michelangelo, 73 Burckardt Jacob, 131 Burgués Pere, 86 Burriello Paolo v. Borriello Paolo Bussy Nicolás de, scultore, 220 Caballería Gonçalo de la, componente il Capitolo valentino, 111, 124-125, 234 Caballería Pedro de la, maestro razionale del regno d’Aragona, 125 Cabanes Pere, 108 Caffis Caterina de’, moglie di Niccolò da San Leocadio, 75 Caffis Giovanni de’, padre di Caterina, 75 Cagliari, Archivio di Stato, 71, 86 - Pinacoteca Nazionale, 71, 113 - Stampace, Convento di San Francesco, 71, 113 Caiazzo, conte di v. Sanseverino Galeazzo Calandrini Filippo, card., 127 Calcagni Gabriele, notaio, 76 Calle Román de la, 6 Calles, Chiesa de la Purísima Concepción, 11 Callimaco, 140 Callisto III, papa (Alfonso Borgia) 23-24, 26-27, 29-30, 34, 37, 41, 44, 57-58, 126, 188, 209 Cambiatori Gabriele, notaio, 62, 77, 79 Cambiatori Guidone, padre di Gabriele, 77 Cambiatori Isabetta, moglie di Niccolò da San Leocadio, sorella di Gabriele, 62, 77 Cameros Luis Alfonso de los, arcivescovo di Valenza, 1, 5, 40, 73, 105, 136, 212, 214215 Campofregoso Fregosino da, 149 Campogalliano (Modena), 175 Camps Ortiz Francisco, presidente della Generalitat Valenciana, 4 Canevari Claudio, 159 Canyçar Antonio, presbitero, 111 Cañizares Sales Ana, 5 Caprese Michelangelo (Arezzo), abbazia di San Martino a Tifi, 124

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Capuz Julio, 219, 227 Caramuel de Lobkowitz Juan, trattatista, 218 Carbonell i Buades María, 70, 234 Carbonibus Habraam de, magister, 82 Cardona Francisco, pittore, 108 Caria, regione, 139 Carlo da Nepi, 127 Carminati Giulio, marito di Laura da San Leocadio, 80-81 Caradosso, Cristoforo Foppa detto il, artista, 73 Carpaccio Vittore, pittore, 147, 166 Carpentras Honoratus, miniatore, 111 Cartaya Farbregat María, 5 Caselini Niccolò, 82 Casella Ludovico, capo della cancelleria di Borso d’Este, 63 Cassi Caterina de’ v. Caffis Caterina de’ Castelbuono (Palermo), 113 Castell Joan, notaio, 70 Castellarano, loc., 114 Castellnou Juan, argentiere, 208 Castellón, loc., 103 Castiglia, 3, 35, 59, 111 Castiglione Baldassar, 132 Catalá Manuel, canonico della Cattedrale di Valenza, 226-227 Catalá Martínez Javier, 5, 136 Catalogna, Catalunya, 144 - principato, 35 Catanei Vannozza, 66, 101, 112 Caudí José, pittore, 221 Centelles Jeroni de, nobile e canonico di Valenza, 45 Centelles Jordi de, nobile e canonico di Valenza, 45 Cerbero, 174 Cermenate (Como), 159 Certosa di Ara Christi v. Puzol Cervelló Jaume Martí, nobile componente il clero della Cattedrale, 45, 111, 234 Cesare di Castro, 127 Chabás Roque, 3, 5, 91 Chavarri Jerónimo, pittore maiorchino, 211 Chavert Laudomio, canonico della Cattedrale di Valenza, 219, 224, 226-227 Chelva, Chiesa de Nuestra Señora de los Ángeles, 10, 11 Chierici Sergio, 176 Chinaglia Walter, 159, 173 Chuliá Rodrigo Raúl, 5


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Cicerone Marco Tullio, 133 Cima da Conegliano, pittore, 166 Cingolani Sergio, 159 Città del Vaticano: 25 - Biblioteca Apostolica, 26, 156 - Cappella Sistina, 112 - Palazzo Vaticano, 135, 142; - - Appartamento Borgia, 171; Sala delle arti liberali, 168 - - Stanze di Raffaello, Stanza della Segnatura, 142 - Pinacoteca Vaticana, 103, 122 Civita Castellana, loc., 33 Claramunt Juan, architetto, 219, 224, 226 Clavell Berenguer, componente il Capitolo valentino, 111, 234 Cleante di Asso, 138 Climent Vicent, mestre, teologo, nunzio, 43 Cock Enrique, 107 Cole della Villa Cristoforo, 124 Cole della Villa Francesco, 124 Colombo Isacco, 159 Colomer Lluc, mestre, 91 Colonna Oddone v. Martino V, papa Comos Francesc, 212 Company Ximo, 6, 31, 120 Comte Pere, obrer, 238 Condorelli Adele, 3, 6, 92, 97, 101-102, 120, 137, 153, 203, 234 Condulmer Gabriele v. Eugenio IV, papa Contarini Maffeo, Patriarca di Venezia, 126 Corachán Juan Bautista, matematico, 219 Corbi Tomás, canonico della Cattedrale di Valenza, 220, 225 Cordero Chamorro Rosa Maria, 5 Corella Pere Roiç de, nobile, componente il clero della Cattedrale di Valenza, 45 Corona d’Aragona v. Aragona Corts Francesc, canonico della cattedrale di Valenza, 238 Cossa Baldassarre v. Giovanni XXIII, antipapa Costa Lorenzo, pittore, 199 Covarrubias Diego, 212 Cox Raymond, 144 Cranach Lucas il Vecchio, 95 Cremona, Palazzo Raimondi, 186 - Facoltà di Musicologia, 159, Sala principale, 186 - Scuola Internazionale di Liuteria,159 Crisolora Manuele, 137

Cupina, moglie di Stefano da San Leocadio, cimatore, 75, 81 Curiel Jorge, 4 Dalle Croci Nicolò, vescovo di Chioggia, 126 Dalmazia, 126 Dal Pozzo Cassiano, 107 Davide, bibl., 153, 183 Deianira, mit., 139 Del Cossa Francesco, pittore, 64, 101, 115, 122, 137 Delfino Antonio, 159 Della Casa Giovanni, monsignor, 133 Della Rovere Francesco v. Sisto IV, papa Della Rovere Giuliano v. Giulio II, papa Delli Dello, pittore, 128 Delli Niccolò, pittore, 3, 37, 111, 128 De Roberti Ercole, pittore, 64, 137, 163 Despuig Lluís, viceré, 127 Detroit, Institute of Arts, 183 Díaz de Coca Juan, vescovo di Calahorra, 123-124 Diego (Didacus) de Medina, mercante, 119, 120 Dionigi (Dionisius) Areopagita, pseudo, 95, 125 Dioskourides, 174 Doménech Galbis Margarita, 5 Domenichi Domenico, 26 Domenico di Bartolo, pittore, 165, 167 Donati Pier Paolo, 174 Donelli Prospero, giudice di Reggio, 76 Dragišic Juraj v. Giorgio Benigno Salviati Durliat Marcel, 71 Dürer Albrecht, pittore, 156 Eberbach, loc., 54 Egitto, 186 Eiximenis Francesc, 125 Eiximeno Gaspar, 209 Eleocadio v. San Leocadio Leocadio da Eleucadio, s., arcivescovo di Ravenna, 114 Emilia, via, 114 Emilia Romagna, 175 Enguera, Chiesa di San Michele, 154 Enoch d’Ascoli, 24 Enrico IV, re di Castiglia, 35 Enríquez Maria, duchessa di Gandía, nuora di Alessandro VI, 65, 73 Enyego Martí, poeta, canonico di Valenza e procuratore di Rodrigo Borgia, 45, 125


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INDICE DEI NOMI

Epiro, 127 Ercole, mit., 124, 139, 174, 202-203 Ermes (Mercurio), mit., 95 Esch Doris, 159 Esclapés de Guilló Pascual, 105 España, 5, 10, 32, 211 Esparça Manuel d’, notaio, 119 Espinosa Vicent, sotsobrer, 213 Esplugues Bernat, componente il Capitolo valentino, 111, 234 Esquerdo Onofre, 105 Este (Padova), Museo nazionale Atestino, 180 Este, famiglia, 124 Este Alfonso I d’, duca di Ferrara, 134 Este Beatrice d’, 149 Este Borso I d’, duca di Ferrara, 62-66, 77, 83, 101, 114 Este Ercole I d’, duca di Ferrara, 114, 190 Este Gonzaga Isabella d’, 133, 169, 171 Este Lionello d’, duca di Ferrara d’, 62-63, 137 Esteve Jaume, notaio 230 Esteve Joan, notaio, 38, 110, 118, 209, 230, 233-234 Esteve Miquel, pittore, 93, 108 Eugenio, s., 221 Eugenio IV, papa (Gabriele Condulmer), 44 Europa, 4, 96, 131, 133, 143, 164 Eutychianus, 180 Exarch Jaume, vicario generale del vescovo di Valenza, 43, 111, 234 Eyck Jan van, pittore, 151 Ezequias, re dei Giudei, 93 Ezechiele, profeta, 155 Fabiano da Santa Croce, magister, padrino di Jacopina da San Leocadio, 83 Falcó de Belaochaga Félix, matematico, 219220, 225-226 Fano, loc., 126 Fanzago Cosimo, 215 Fenicia, 139 Fenollar Bernat, poeta e presbitero, 45, 127 Fenollet Francisco, decano del Capitolo della Cattedrale di Valenza, 219-220, 224-226 Ferdinando I d’Aragona v. Ferrante I d’Aragona, re di Napoli Ferdinando II detto il Cattolico re d’Aragona, 3, 35, 59 Fernández Sánchez Laura, 5 Ferrante I d’Aragona, re di Napoli , 26, 35, 69, 72, 149, 190

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Ferrara, 3, 62-65, 72, 101, 115, 122, 124, 134, 137, 142, 188-189, 190 - Casa Romei, 142 - palazzi: Estensi, 190 - - Schifanoia, 3, 115; Salone dei Mesi, 64 - Università (Studium), 137 Ferrari Gaudenzio, pittore, 151, 187 Ferrari Giacomo, pupillo di Caterina de’ Ricci, 82 Ferrer Bonifacio, 125 Ferrer Vicente, s., 214, 222 Fieschi Sinibaldo v. Innocenzo IV, papa Figuera de Cervera Joan, pittore, 71, 86-87, 113 Figuerola Francesc, architetto, 210-211 Filippo II, re di Spagna, 107, 213 Filippo III, re di Spagna, 213 Filippo IV, re di Spagna, 214 Filomena, 139 Fiordibelli Giroldo, notaio, 75 Firenze, 6, 14, 144 - chiese: S. Croce, 156 - - S. Maria del Carmine, Cappella Brancacci, 6 - - S. Maria Novella, 184, Cappella Strozzi, 184 - Opificio delle Pietre Dure, 4, 14 - Palazzo Cerretani, 115 Floriani Benedetto, 166 Fontana Carlo, architetto, 102 Fores Melchior, notaio, 238 Francesca Romana, s., 188 Francesco di Giorgio Martini v. Martini Francesco di Napoli, cartaro, 69, 113-114 Francia, 54 Franciscus Siccus de Aragona, 190 Fratti Marco, 175 Fuensalida Juan de, 26 Fuster Jeroni, poeta, 45 Gabriele, padre di Helena madrina di Stefano da San Leocadio, 82 Gabriele, s., arcangelo, 98 Galassi Mara, 159, 170 Ganassi Silvestro, 172-173 Gand, polittico di, 151 Gandía, ducato, 33, 34, 59 Garcia Joan, maestro di Rodrigo Borgia, 23 Garcia Pere, 26 García Diego Fernando J., 4, 19 Garín Ortiz de Taranco Felipe Ma, 91


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Gascó Vicente, architetto, 222 Gaspare da Verona, 24-25 Gasparo da Salò, liutaio, 197 Gauderre micer, 38, 232 Geisberg Max, 96 Genova, 144, 159, 210, 221, 223 - Chiesa di S. Ambrogio, 221 Gentile da Fabriano, pittore, 151, 157 Germigny des Prés, loc., 156 Gerona, diocesi, 41, 124 Gesuiti, Ordine dei, 59 Gherardi da Volterra Giacomo, 23, 25 Giacomo I, re d’Aragona, 41, 91 Giappone, 143 Gil Salinas Rafael, 6 Gilabert Antonio, 222 Gilabert Ponce Luis, 11, 50 Giovanni XXII, papa (Jacques d’Euse di Cahors), 233 Giovanni XXIII, antipapa (Baldassarre Cossa), 233 Giovanni II, re d’Aragona, 35 Giovanni Evangelista, s., 109 Giovanni Maria da Brescia, 165 Girolamo, s., 186 Girolamo da Cremona, 124 Giulini Alessandro, 148 Giulio II, papa (Giuliano Della Rovere), 122 Giustiniani Lorenzo, s., Patriarca di Venezia, 126 Gómez Ferrer Lozano Mercedes, 108, 110, 118, 121, 125, 154 Gomis Miquel, canonico del Capitolo valentino, 111, 118, 234 Gonzaga Federico, III marchese di Mantova, 190 González Mila, 89 Gracia de Alzira, s., 221 Grecia, 140, 163, 187 Gregori Gaspar, 50 Gregorio Magno, s., papa, 95, 136 Gregorio IX, papa (Ugolino di Anagni), 27 Groenlandia, 43 Guarini Guarino, 137 Guarino da Verona v. Guarini Guarino Gubbio, loc., 165, 168, 173, 183 - Chiesa di S. Maria Nuova, 165 Guerau Lluís, teologo, 43 Guglielmo Ebreo da Pesaro, 169 Guizzi Febo, 159, 178-179

Helena, figlia di Gabriele, madrina di Stefano da San Leocadio, 82 Hernandos los v. Llanos Hernando de los e Yáñez de la Almedina Hernando Huguet Jaume, pittore, 71 Humert Michèle, 157 Hvra, isola, 126 Infessura Stefano, 127 Inghilterra, 43 Innocenzo IV, papa (Sinibaldo Fieschi), 41 Insegna Francesco, vescovo di Assisi, 127 Isabella I, detta la Cattolica, regina di Castiglia, 3, 35, 59 Isaia, 96, 191 Istria, 127 Italia, 10, 23-25, 34, 37, 40, 59-60, 63-64, 115-116, 119, 126, 131-134, 137, 147, 168, 170, 173, 175, 177-179, 186, 188-189, 195, 198-199, 202 Jacopo, pittore, padre di Vannozza Catanei, 66, 112 Jacopo della Marca, s., 69, 114 Játiva v. Xàtiva Juan Vercelense, domenicano, 125 Juana di Castiglia detta la Beltraneja, 35 Jular Cristina, 89 Klosterneuburg, Monastero di, 156 Lalaing Antoine de, 107 Lalli Carlo, 4, 14 Lanci de’ v. Lanzi Lanzi Gaspare, notaio, 77, 79 Lanzi Giovanni, 83 Lattanzio Lucio Cecilio Firmiano, 26 Lazio, 177 Leonardo da Vinci, 132 Lepini, monti, 182 Lerida (Lleida), 6, 24, 96 - Chiesa di S. Maria d’Aneu, 96 - Università, 6 Lerma José Luis, 5 Lesina v. Hvra Libano, 143 Liberale da Verona, 124 Lippi Filippino, pittore, 184 Londra, National Gallery, 115, 120, 141, 163 Lorenzetti Ambrogio, pittore, 151 Lorenzo, s., 222


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Lorenzo da Prato, 174 Lorenzo da Viterbo, artista, 123 Lorenzo Melchior, presbitero della Cattedrale, 238 Loreto, Basilica della Santa Casa, 103 Lowenberger Federico, 159, 166 Loyola Ignazio de, s., 59 Luca d'Egidio di Ventura v. Signorelli Luca Ludovico il Moro v. Sforza Ludovico Llanos Fernando de los, 11, 12, 105, 208, 230 Lliria, 220 Llopis Joan, card., 42-43 Llupià Hug de, vescovo di Valenza, 24, 43 Macip Juan Vicente, 230 Macip Vicente, 230 Madrid, 214 - Collezione Juan Abelló, 152 - Ministerio de Ciencia y Innovación, 193, 207 - Museo del Prado, 115, 120, 122 Maestro Albrecht v. Dürer Albrecht Maestro Bolognini v. Bolognini Bartolomeo Maestro della Passione, 96 Maestro di Bonastre, pittore, 152 Maestro di Tivoli, artista, 123, 124 Maestro Ferrando, 91 Maestro Martí, 2, 111 Magnani Andrea, 76, 83 Maimónides v. Moische ben Maimon Mayáns y Siscar Gregorio, 105 Malaguzzi, famiglia, 79 Malalbergo (Ferrara), 134 Malpaga (Bergamo), castello, 184 Manfredi Beatrice, contessa, madrina di Paolo da San Leocadio, 63, 83 Mantegna Andrea, pittore, 3, 101, 122, 124, 137, 141, 172, 205 Mantova, 123 - Castello, 169, 171; Studiolo di Isabella d’Este, 169, 171 Mantovani Antonio, figlio di Giovanni Antonio, 80 Mantovani Giovanni Antonio, 80 Marca di Ancona, 123 Marchixius don, 82 Marco Cristóbal, canonico della Cattedrale di Valenza, 219, 220, 225-227 Marco di Antonio di Ruggero, pittore, 123 Maria de Alzira, s., 221 Marías Fernando, 6, 102, 160, 229, 231

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Marromà Joan, membro del Capitolo valentino, 43, 111, 234 Marsiglia, 96, 140 - Biblioteca Municipale, 96 Martelli Paolo, notaio, 80 Martí Joan, pittore, 108, Martínez Ponce de Urrana Diego, architetto, 5, 47, 212, 215-217, 219 Martínez Sebastián, scultore, 219, 227 Martini Francesco, componente il Capitolo valentino, 111, 234 Martini Francesco di Giorgio, pittore, 124 Martino V, papa (Oddone Colonna), 44, 135 Massa Marittima, loc., 151 Matheu Berenguer, pittore, 2, 42 Matteo, s., apostolo, 109 Mauri Vigevani Laura, 154, 157 Meckenem Israel van, 96 Medici, banco dei 78 Medici Lorenzo il Magnifico de’, 132 Medijs Leonardo de, tinctore, 79 Mediterraneo, mare, 180, 189 Megiddo, loc., 155 Melini Donatella, 159 Melozzo da Forlì, pittore, 103, 122, 124, 128, 151 Memling Hans, 145, 154 Mercader Macià, micer, membro del Capitolo valentino, 43, 45 Mercé Pascual, 5 Michael Aragonés, 126 Michele, s., arcangelo, 98 Mico Antonio, pittore, 110 Midi-Pirenei, 157 Miglio Massimo, 6, 89, 189, 229 Milà Lluís Joan del, 24, 27, 30 Milano, 63 - Accademia Internazionale della Musica, 159 - Castello sforzesco, 132, 167 - Civica Scuola di Liuteria, 159 - Pinacoteca di Brera, 161, 199 - Raccolta Bonomi Cereda, 114 Millán Maria del Carmen, 4, 14 Miralles Melchior, reverent mestre, 238 Modena, 64 - Archivio di Stato, 65 Moische ben Maimon, 125 Moli Frigola Montserrat, 24 Mombru Gabriele, patrono di nave, 86 Monastero de Santes Creus v. Aiguamurcia


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Moncada, Cappella del Seminario, Cripta, 52 Monreale, Cattedrale, 215 Monsoriu Nicolau de, 42-43 Mont Petronilla Dionisia, 220 Montanari Giovanni, 79 Montefeltro Federico da, duca d’Urbino, 168, 173 Montenegro, 127 Montesa, loc., 54 Montoliu Valentí, pittore, 152, 197 Mora (Assisi), 165, 167 Morales Carbó Concepción, 5 Morella, Chiesa di Santa Maria, altare maggiore, 10 Morer Antonio del, magister finestrarum, 110 Müntz Eugenio, 73 Münzer Hieronymus (Jerónimo), 43, 107 Musch Monika, 180 Nadal Cañellas Juan, 28-29, 58 Napoli, 3, 60-61, 69-72, 86-87, 112-113, 164, 188-190, 235 - Archivio di Stato, 69 - chiese: S. Eframo Vecchio, 3, 112 - - S. Maria la Nova, 69, 114 - - S. Michele e S. Omobono, 112 - musei: Archeologico Nazionale di Napoli, 142 - - Nazionale di Capodimonte, 113 Navarro Vilar Inmaculada, 5 Neapolis di Tracia, 125 Negro Angela, 102 Nelli Martino, 165 Nelli Ottaviano, pittore, 165, 167 Nemeo, 174 Nesso, mit., 139 Newport, South Wales, Beechwood Park, Sebreight Collection, 115 New York, Metropolitan Museum, 168, 173, 186 Nicolas de Lyre, 125 Nicolau Pere, pittore, 152 Niccolò V, papa (Tomaso Parentucelli) 28, 32, 135 Niccolò Fiorentino v. Delli Niccolò Nitti Paola, 162 Nobile Marco, 215 Nogueroles, precettore di Rodrigo Borgia, 23 Nueva España, viceregno, 218 Nules, 219 Nürnberg, 107

Oliva Anna Maria, 89, 229 Oliva, contea di, 45 Oliver Jordi, pittore, 108 Olla Repetto Gabriella, 71 Olmos Ricardo, 89 Omero, 140 Orte, loc., 127 Osona Francisco de, pittore, 230 Osona Rodrigo de, pittore, 209, 230 Ostia, loc., 35 Oxford, 165 Padova, 101, 122, 124, 175 - Cappella Ovetari, 101 - Chiesa di S. Giustina, 169 Pagán Pérez Antonio, 5 Pagano Francesco, pittore, 2-3, 6, 13, 32, 34, 36, 38, 45, 47, 59-61, 66-70, 72-73, 92-93, 101-103, 105, 107, 112-114, 116-121, 123, 136-137, 160, 189, 193-195, 197, 199-201, 203-205, 208, 213, 222, 229, 231-238 Pahoner Juan, erudito, 40, 211, 213 Palazzi Giovanni Pio, 62, 64-66, 82-83, Palermo, 116 - Cattedrale della Vergine Maria Santissima Assunta, 215 Pallavicino Rolando, 149 Palma di Maiorca, Archivio del Regno, 70 Panizzi, Biblioteca, 79 Panofsky Erwin, 95 Paolo, s., apostolo, 95, 109 Paolo II, papa (Pietro Barbo), 37, 61, 65-66, 101, 114, 122-125, 128, 175 Paolo da Milano v. San Leocadio Paolo da Paolo da Reggio v. San Leocadio Paolo da Paolo da Santo Leocadio v. San Leocadio Paolo da Paolo da Santo Luca da Reggio v. San Leocadio Paolo da Paolo de Aregio v. San Leocadio Paolo da Paolo di Leocadio v. San Leocadio Paolo da Paolo di Pietro Lazzari da Sancto Locadio v. San Leocadio Paolo da Paolo di Sant’Eleucadio da Reggio v. San Leocadio Paolo da Pappalettera Francesco, pittore, 114 Pareja Ramón de, 172 Parentucelli Tomaso v. Niccolò V, papa Parigi, 144 - Collège des Bernardins, 191 - Museo del Louvre, 169, 177


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Parolari Giovanni, 82 Parthenice, 184 Pau Jeroni, 26 Paulin Pedro, canonico della Cattedrale di Valenza, 219, 226 Pascual Pedro, s., 214, 222 Pastor Ludwig von, 22, 30 Patti (Messina), diocesi, 214 Pavan Franco, 159 Pavia, - Certosa, 176 - Università, 159 Pedro de Luna v. Benedetto XIII Pelegri Joan, canonico del Capitolo valentino, 111, 234 Pérez Crispín, notaio, 212 Pérez Castiel Juan Bautista, architetto, 5, 10, 40, 47-48, 50, 215-217, 219-220 Pérez de Valencia Jaime, vescovo ausiliare di Valenza, 125, 128 Pérez García Carmen, 5, 47, 89, 105, 136 Pérez Navarro Juan, decano della Cattedrale di Valenza, 4 Pérez Miralles Juan, 4, 20 Perilli Cesare, 179 Perin del Vaga, Pietro di Giovanni Buonaccorsi detto, 205 Peris Gonçal v. Sarriá Gonçal Perpignano, 71-72, 113 - Archivi dei Pirenei Orientali, 71 - chiese: S. Giacomo, 71 - - S. Matteo, 71 Perugia, - Chiesa di S. Francesco al prato, 168 - Convento di San Simone del Carmine, 168, 177; Oratorio della Compagnia del Santissimo Sacramento; altare, 177 - Galleria Nazionale dell’Umbria, 168-169, 177 Perugino, Pietro Vannucchi detto il, pittore 73 Pesaro, 161 Pharia v. Hvra Piana Celestino, 58 Piccolomini Alessandro, 133 Piccolomini Enea Silvio v. Pio II, papa Pienza, 33, 123 Pier Matteo d’Amelia, 112 Piero della Francesca, artista, 137 Pietro, s., apostolo, 109 Pina Martí de, teologo, 43

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Pinturicchio, Bernardino di Betto detto il, pittore, 34, 73, 168, 171 Pio II, papa (Enea Silvio Piccolomini), 29-30, 112, 123, 126 Pisanello, Antonio Pisano detto il, pittore, 137, 144 Pizzolo Niccolò, pittore, 122 Po, valle del, 114 Polemone di Ilio, 138 Pollaiolo Piero del, pittore, 144 Ponç Joan, pittore, 4, 119 Pons Vicente, 33 Pontons Pablo, pittore, 215, 221 Ponz Antonio, 105 Porcar Miquel, 50 Porta Felip, pittore, 2, 42 Portell Anthoni, 87 Porto - Santa Rufina, sede suffraganea della diocesi di Roma, 127 Porzio Girolamo, curiale, 29 Post Chandler Rathfon, 120 Pradella Giovanni, 159, 173 Prado Miguel de, 108 Praetorius Michael, 161 Prats Jaume, dottore in decreti, vicario generale, 124 Proaza Alonso de, umanista, 107 Puig, loc., Monastero di Santa Maria, 35 Puzol, loc., Certosa Ara Christi, 219 Quartararo Riccardo, 34, 36, 38, 67, 113, 116, 189 Queyto Juan Bautista, notaio, 216, 221 Quintiliano Marco Fabio, 133 Rabano Mauro, 156 Rachixius Giovanni de, padrino di Niccolò Venerio da San Leocadio, 82 Raffaele, s., arcangelo, 98 Raffaello Sanzio, 142 Rainaldi Carlo, architetto, 102 Ra÷i di Troyes (Šlomo ben Yöìaq), 125 Ratzinger Joseph Alois v. Benedetto XVI Ravasi Gianfranco, card., 152 Ravenna, porto, 114 Reggio v. Reggio Emilia Reggio di Lombardia, v. Reggio Emilia Reggio Emilia, 3, 62-66, 76-77, 79, 82, 101, 114-115 - Archivio di Stato, 75 - Battistero, 64, 76; Archivio, 77


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- chiese e basiliche: Cattedrale di San Pietro, 62, 65; Archivio della Cattedrale, 64; Fabbrica, 65 - - S. Prospero, 114 - Porta di Santa Croce, 82 - Via Galgana, 114 Reixac Pere, pittore, 37 Requena, loc., Chiesa del Salvador, 11 Rexach Pere v. Reixac Pere Riario Girolamo, signore di Imola e Forlì, 112 Riario Pietro, card., 122 Ribera Juan de, Patriarca di Antiochia ed arcivescovo di Valenza, 211 Ricii Carlo, proprietario di un Banco, 78 Ricci Andrea, padre di Caterina, suocero di Pietro Lazzaro da San Leocadio, 76 Ricci Antonello, 159 Ricci Antonio, pittore, 211 Ricci (Ricchi) Caterina de, moglie di Pietro Lazzaro da San Leocadio, 76, 81-82 Ricci Juan Andrés, trattatista, 218 Ridaura Joan, mossen, 3 Ries Joachim de, miniatore, 26 Rimini, 141 - Tempio Malatestiano, 141; Cappella di Isotta, 141 Riquart, mestre, v. Quartararo Riccardo Rivalta, loc., 80 Rizzi Tiziano, 159 Rodigi Rodigo, notaio, 80 Rodríguez Josef, erudito, 209 Rohlf Johannes, 176 Rolfs Wilhelm, 69 Roma, 3, 24-27, 32-33, 35, 57, 59-61, 65-68, 70, 72, 78, 89, 101-102, 112-115, 118, 120, 122-124, 128, 135, 159, 171, 175, 179, 186-190, 195, 229, 234 - Arco di Costantino, 153 - Campidoglio, 135 - Campo dei Fiori, 187 - Castel Sant’Angelo, Sala Paolina, 205 - chiese e basiliche: SS. Apostoli, 60, 102-103, 122-123, 128, 151; Cappella card. Bessarione, 67, 102-103, 123 - - S. Cesareo de Appia, pulpito, 186 - - S. Giovanni in Laterano, 186; Palazzo del Laterano, 135 - - S. Maria del Popolo, Altare maggiore, 168; Cappella Basso Della Rovere, 153-154; Sacrestia, 168

- - S. Maria Maggiore, 95 - - S. Maria sopra Minerva, 123, 153; Cappella della Conversione di san Paolo e san Giovanni Battista, 124; Tomba di Juan Díaz de Coca, 123-124 - - S. Pietro, 187, 215; Baldacchino, 222 - - S. Pudenziana, 95 - Domus Aurea, 60, 112 - Escuela Española de Historia y Arqueología, 89 - Istituto storico italiano per il medio evo, 6, 89 - monasteri: SS. Quattro Coronati, 57 - - Tor de’ Specchi, 159, 188 - Museo nazionale degli strumenti musicali, 168 - palazzi: Altémps, Piattaia, 112 - - Barberini, Galleria Nazionale, 112 - - Barbo v. Palazzo Venezia - - Borgia v. Palazzo della Cancelleria - - Cancelleria vecchia (ora Sforza Cesarini), 60, 66, 102, 112; Sala delle Stelle, 102, 112, 153 - - Cavalieri di Rodi, 124 - - Colonna, Galleria Colonna, 144 - - Laterano, 135 - - Quirinale, 122, 151 - - San Marco v. Palazzo Venezia - - Venezia, 61, 66, 96, 112, 123-124, 175; Museo Nazionale; Collezione Wurst, 96; Sala regia, 124 - Pantheon, 123 - Piazza Cerasa (ora piazza Rondanini), 60 - Regione Lazio, 159 - Università degli Studi ‘La Sapienza’, 159 - Via di Montserrato, 112 Romagna, 27 Roncaglia Aurelio, 181 Roo Peter de, 25 Rossi Francesco, 159, 174 Rothenburg ob der Tauber, loc., 26 Rovira Bernat, membro del Capitolo valentino, 43 Royo Jordi del, notaio, 107 Rubio Mifsud Aurora, 5 Rudolph Conrad, 50 Rusconi Camillo, architetto, 102 Rusconi Stefania, 86 Ruvo, loc., 142 Sacrati Giacomo, condottiero, 114


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Sala Johan, notaio, 238 Salamanca, 128; Cattedrale Santa María de la Sede, 3 Salavert Miquel, 87 Salvador Manuel, pittore, 4, 119 Salviati Giorgio Benigno, 125-126 Sancto Elochadio v. San Leocadio da San Leocadio da, famiglia, 64, 75, 77, 114 - Caterina, figlia di Pietro Lazzaro, sorella di Paolo, (n. 1457), 81 - Caterina, figlia di Pietro Lazzaro, sorella di Paolo, (n. 1458), 81 - Cornelia, figlia di Pietro Lazzaro notaio, 80 - Eleocadio v. San Leocadio Leocadio da - Francesco, figlio di Vincenzo, 81 - Francesco Gabriele, figlio di Niccolò, 79, 81 - Jacopina, figlia di Pietro Lazzaro, sorella di Paolo, 81-82 - Johannino, padre di Prosperino, 81, 114 - Laura, figlia di Pietro Lazzaro notaio, 8081 - Leocadio (Eleocadio), figlio di Paolo, 64, 76, 78-79, 83, 115 - Lodovica, figlia di Pietro Lazzaro, sorella di Paolo, 81-82 - Luca, chierico, fratello di Paolo 62, 65, 76, 78-79, 81-82 - Maddalena, figlia di Pietro Lazzaro, sorella di Paolo, 81 - Niccolò, notaio, padre di Stefano, bisnonno di Paolo, 75, 114 - Niccolò Venerio, fratello di Paolo, 62, 65, 76-82 - Paolo, pittore, 2, 3, 6, 13, 32, 34, 36, 38, 45, 47, 59, 62-68, 72-73, 75-79, 81-82, 92-93, 101-103, 105, 107, 112, 117-121, 123, 136137, 153-155, 160, 189, 193-195, 197, 199201, 203-205, 208, 213, 222, 229, 231-232, 234-235, 238 - Paolo, fratello di Pietro Lazzaro, 75 - Pietro Lazzaro, figlio di Vincenzo, notaio, 79-81 - Pietro Lazzaro, sarto, padre di Paolo, 6265, 67, 75-79, 81-84, 114 - Prosperino, trisavolo di Paolo, 81, 114 - Prospero, figlio di Pietro Lazzaro, fratello di Paolo, 81 - Simona, sorella di Stefano cimatore, 75, 81

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- Simone, figlio di Pietro Lazzaro, fratello di Paolo, 81 - Stefano, cimatore, padre di Pietro Lazzaro, 62, 75-79, 81, 114 - Stefano, sacerdote, massaro della Cattedrale, fratello di Paolo, 62, 65, 76-79, 81-82 - Stefano, figlio di Sogari de S.to Locadio, 82 - Vincenzo, notaio, figlio di Niccolò, 77-81 San Lorenzo, vicinia, 78 San Prospero di Castello (Reggio Emilia), vicinia, 75-76, 80; Chiesa di San Prospero, 75, 114 San Quirico d’Orcia, loc., 173 San Valentino di Castellarano (Reggio Emilia), 114 Sanchis Tomás, scultore, 220-221, 225-227 Sanchis Bargues Carmen, 20 Sanchis Sivera José, 4-5, 38, 40, 213, 226 Sancho Jaime, 5 Sanchos Bargues Maria del Carmen, 5 Sangallo Antonio da, il Giovane, 73 Sangallo Antonio da, il Vecchio, 73 Sanluca Cornelia v. San Leocadio Cornelia da Sanlucati Cornelia de v. San Leocadio Cornelia da Sanou Joan, scultore, 2, 111 Sanseverino Galeazzo, 132 Sant Martí Martí de, pittore, 4, 119 Santa Maria Maddalena (Reggio Emilia), vicinia, 78-80 Santiago de Compostela, 215 Sanudo Marin, 134 Saragozza, Museo, 204 Sardegna, 71, 113 Sariñena Juan, pittore, 213, 235 Saronno, Santuario della Beata Vergine dei miracoli, Duomo, 151; Cupola, 187 Sarriá Garcia, 2 Sarriá Peris Gonçal (Gonzalvo), pittore, 2, 42, 111, 208 Sarrió Martín Francisca, 4 Saulo de Sante Leucalia v. Paolo da San Leocadio Savoldo Giovan Gerolamo, pittore, 161 Scalfi Carlo, 186 Schongauer Martin, 115 Sciacca, 116 Scutellari Angelica, moglie di Vincenzo da San Leocadio, 80-81 Scutellari Angelo, suocero di Vincenzo da San Leocadio, 80


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INDICE DEI NOMI

Segú Bernat, presbitero, 125 Segura de Lago Juan Pedro, architetto, 50 Senaquerib, re di Assiria, 93 Serra Gabriele, notaio, 86 Serra Guillem, canonico del Capitolo valentino, 118, 124-125 Serra Jaufridus (Jofré), canonico del Capitolo valentino, 111, 118, 234 Serra Jaume, pittore, 203 Serra Pere, artista catalano, 202 Sforza Ascanio Maria, card., 112 Sforza Chiara, 149 Sforza Francesco, I duca di Milano, 149 Sforza Galeazzo, duca di Milano, 63 Sforza Gian Galeazzo, duca di Milano, 63, 132, 149 Sforza Hermes, 149 Sforza Ippolita, 149 Sforza Ludovico Maria, detto il Moro, duca di Milano, 112, 132, 149 Sforza Cesarini, famiglia, 66 Sicilia, 214 Siena, 124 - Chiesa, S. Maria della Scala, 174 - Duomo di S. Maria Assunta, 173-174; Opera del Duomo, 174; Cappella di S. Giovanni Battista, 173-174 - Pinacoteca Nazionale, 165 Signorelli Luca, pittore, 103 Sigüenza y Góngora Carlos, matematico, 218 Simón de Montana v. Simone da Montona Simone da Montona, vescovo di Antivari, 127 Sinibaldi Falcone, 24 Sisto IV, papa (Francesco Della Rovere), 3, 32, 34, 57, 115, 120, 135, 190 Sofocle, 139 Sogari de S.to Locadio v. San Leocadio Pietro Lazzaro da Solaro Daniel, scultore, 221 Soler, nipote di micer Gauderre, 38, 232 Spagna, 5, 10, 32, 57-60, 62, 68, 73, 79, 96, 102, 135-136, 151, 170, 188-189 Spinal Luís, notaio, 108 Spinalbosa Ludovico (Luís), 86-87 Spinola Ambrosio Ignazio, 215 Starnina Gherardo, pittore, 128 Steve Pere, notaio, 86 Strinati Claudio, 96 Taberner Vilar Patricia, 5

Tacoli Gaspare don, padrino di Eleocadio da San Leocadio, 76, 83 Taddeo di Bartolo di Mino, pittore, 168 Talladrur Bartholomeus, 86 Tarragona, 70; Museo diocesano, 203 Tarragona, provincia ecclesiastica, 41 Tazio Achille, 139 Teixidor y Trilles Josef, erudito, 91, 105, 214 Tereo, mit., 139 Tersicore, mit., 172 Tertulliano Quinto Settimio Florenzio, 138 Thomàs (Tomàs) Rafael, pittore, 70-72, 8587, 113, 234 Tinctoris Johannes, 164-165, 170, 178, 182183, 188 Toledo, 128 Tommaso d’Aquino, s., 95 Tonsis Giovanni V Enrico de, vescovo di Fano, 126 Torino, Università degli Studi, 159 Torner Martín, pittore, 117 Torre de Canals (Xàtiva), 58 Torrella Gaspar, medico, 26 Torrent, 220 Tortosa, 210, 216, 223-224, 226-227 Tortosa Maria Trinidad, 89 Tortrella Juan, notaio, 212 Tosca Tomás Vicente, matematico, 219 Toscana, 175 Tramoyeres Blasco L. , 105, 109 Traver Vicente, 222 Trentis Antonio de, notaio, 79 Trento, Concilio di, 209 Trieste, Conservatorio, 159 Trombetta Antonio fra, professore dello Studium di Padova, vescovo di Urbino, 115 Tucci Roberta, 159 Tura Cosmè, pittore, 62-64, 101, 115, 137, 144 Turia v. Valenza Ugo da S. Vittore, 125 Ugolino di Anagni v. Gregorio IX, papa Urbino, 199 Vaillant Milagros, 5 Valenza, 2-3, 12, 21-23, 31-36, 38, 41, 44-55, 57-62, 64-67, 69-70, 72-73, 77-78, 93, 98, 101-103, 107, 111-113, 115, 119, 122, 124126, 128, 139, 141-142, 144-149, 151-152, 157, 160-161, 164-168, 171, 173, 177-180,


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INDICE DEI NOMI

183-184, 186, 188-190, 194-195, 197, 202, 214-215, 220-221, 229, 232 - Archivo Histórico Municipal, 37, 43 - Basilica de la Virgen de los Desamparados, 5, 216, 219 - Casa de la ciudad, Capilla de los Jurados, 93, 108 - Cattedrale del Santo Cáliz, 2, 6, 10-13, 21, 24, 31-32, 34, 37, 41-43, 45, 49, 51-52, 5456, 68, 73, 89-90, 93-94, 96-98, 102, 108, 111, 127-128, 137, 151, 157, 159-160, 187, 189, 193-194, 196-197, 200, 203-205, 207, 209-210, 214, 216, 234-235 - - Archivo General, 26, 61, 91, 213 - - Biblioteca, 125 - - Cappella maggiore de la Verge Maria e Presbiterio, 2-4, 6, 9, 11-13, 21, 34, 36-38, 40, 42, 45, 47, 49-50, 59-61, 67-68, 72, 93-94, 107-111, 128, 160, 189, 194, 196, 213, 218-219, 221-223, 230-231, 235, 237-238 - - cappelle: los Covarrubias, 212 - - - S. Cáliz (già Sala Capitolare), 2-3, 50, 160 - - - S. Gil e S. Bernardo, 212 - - - S. Luigi di Tolosa, 34 - - - S. Sebastián, 212 - - - S. Tomás de Villanueva, 212, 216 - - Casa del Capitolo, 67 - - Loggia de los Canónigos, 11 - - Museo, 151 - - Porta de los Hierros, 11, 50 - - Torre del Miguelete, 2, 42 - chiese: del Collegio del Patriarca, 210-211 - - Nuestra Señora de Jesús, 108 - - S. Catalina, 107; Cappella de la Virgen de la Paz, 108 - - S. Esteban, 166 - - S. Juanes, 216, 219 - - S. Tomás, 216 - Colección Serra de Alzaga, 154 - Confraternita di Sant Jordi, 127 - conventi e monasteri: S. Agustín, 108 - - S. Clara, refettorio, 117 - - S. Domingo, 220 - - Trinidad, Cappella de Luis de Santángel, 108 - Estudi General, Studium, 44 - Generalitat Valenciana, 4, 12, 89; Consellería d’Economia, Hisenda i Ocupació, 10; Consellería de Cultura, 10, 49; Dirección

261

General de Patrimonio cultural, 56; Fondazione “La Llum de les Imatges”, 50 - Institut Valencià de Conservació i Restauració de Béns Culturals, 89 - Museo Històric de la Ciutat, 109 - Quartiere: Grao, 35 - Universidad Politécnica, 14, 18-20; Dipartimento di Fisica applicata, 18; Dipartimento di Statistica, 18 - Via de la Nave, 24 Valenza, diocesi, 41 Valenza, regno di, 40, 44, 101 Vall de Crist v. Altura Valla Lorenzo, 24, 27, 32 Valldaura Bernardus, mercante, 120 Vallescar Bartomeu, componente il Capitolo valentino, 111, 234 Vallisneri Giovanni Giacomo de, nobile, padrino di Stefano da San Leocadio, 82 Vegio Maffeo, umanista, 135 Venerio, s., 82 Venezia, 3, 124-126, 144, 166 - chiese: S. Geminiano, 126 - - S. Giobbe, 164 - - S. Giuliano, 126 - Gallerie dell’Accademia, 164, 166 - Museo Correr, 147 Venturi Adolfo, 63 Verona, Conservatorio, 159 Viboldone (Milano), Sala della Musica, 177 Vicente mártir, s., 214, 222 Vidal Bernardo, canonico della Cattedrale di Valenza, 226-227 Vidal Joan, poeta, 45 Vienna, Chiesa del Carmine, 156 - Kunsthistorissches Museum, 184 Vigri Caterina de’, s., 184 Vila Salvador, 5 Vilanova Francisco, 230 Vilaplana Zurita David, 5 Villa Latina, Frosinone, 179 Villanueva Tomás, s., 214, 222 Villanueva i Simón Carlos de, 19 Virdung Sebastian, 161, 171 Vitalis Arnaldus, 48 Viterbo, 187 Viti Timoteo, pittore, 199 Weyden Roger van der, 63, 137 Winternitz Emanuel, 184 Woodfield Ian, 188-189, 196-197


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INDICE DEI NOMI

Xarch Jacobus, 86 Xaveri Jerónimo v. Chavarri Jerónimo Xàtiva, 23, 57 - Chiesa di San Félix, (San Feliu), 152, 188, 197 - Collegiata di Santa Maria, Museo, 197 Yáñez de la Almedina Hernando, 11-12, 105, 208, 230

Zacheris Jacopo de, 76 Zaragoza Lorenzo, 151 Zarzo Castelló Manuel, 19 Zenobio, 139 Zeus, mit., 95 Zoppo Marco, pittore, 3, 124, 177


TAVOLE


PAGINA BIANCA


Fig. 1 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con tromba (1472-1481).


Fig. 2 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con cornice a sonagli (1472-1481).


Fig. 3 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con psalterium decem chordarum (1472-1481).


Fig. 4 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con salterio a corde percosse (1472-1481).


Fig. 5 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con organo portatile (1472-1481).


Fig. 6 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con liuto (1472-1481).


Fig. 7 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con viola (1472-1481).


Fig. 8 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con arpa (1472-1481).


Fig. 9 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con chitarra (1472-1481).


Fig. 10 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con ciaramella (1472-1481).


Fig. 11 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con bicalamo (1472-1481).


Fig. 12 - Valencia, Cattedrale, volta della Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con tromba (1472-1481).


Fig. 13 - Valencia, Catedral, primera imagen obtenida de las pinturas renacentistas.

Fig. 14 - Valencia, Catedral, Carmen PĂŠrez y Javier CatalĂĄ observando el registro abierto en la plementerĂ­a.


Fig. 15 - Valencia, Catedral, proceso de desmontaje de la plementería barroca.

Fig. 17 - Valencia, Catedral, Juan Pérez y FernanFig. 16 - Valencia, Catedral, intervención de restau- do García comprobando las condiciones de las pinturas. ración.


Fig. 18 - Valencia, Catedral, la decoraciรณn barroca.

Fig. 19 - Valencia, Catedral, la cรกmara cerca de la clave.


Fig. 20 - Valencia, Catedral, ventanal gรณtico tras la decoraciรณn del dintel barroco.

Fig. 21 - Valencia, Catedral, cubierta inclinada de la girola.


Fig. 22 - Valencia, Catedral, espacio interior.

Fig. 23 - Valencia, Catedral, fragmentaciĂłn de la plementerĂ­a.


Fig. 24 - Valencia, Catedral, fisuras de la plementerĂ­a gĂłtica.

Fig. 25 - Valencia, Catedral, nervios gĂłticos ocultos.


Fig. 26 - Valencia, Catedral, la vidriera del ventanal gĂłtico.

Fig. 27 - Valencia, Catedral, el nuevo diseĂąo de las vidrieras.


Fig. 28 - Valencia, Catedral, exterior รกbside y girola.

Fig. 29 - Valencia, Catedral, la bรณveda iluminada.


Fig. 30 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, particolare di una delle vele della volta (1472-1481).

Figg. 31-32 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, particolare degli angeli della volta posti accanto all’arco absidale (1472-1481).


Fig. 33 - Cagliari, Pinacoteca Nazionale, Rafael Thomàs e Joan Figuera, Retablo di san Bernardino.

Fig. 34 - Izquierda: Roma, Basilica dei Santi Apostoli, Cappella Bessarione, Antoniazzo Romano, Ángel, detalle (ca. 1464-1468); derecha: Valencia, Catedral, bóveda de la Capilla mayor, P. da San Leocadio y F. Pagano, Ángel quinto con órgano portátil (14721481).


Fig. 35 - Izquierda: Valencia, Catedral, bóveda de la Capilla mayor, P. da San Leocadio y F. Pagano, Ángel octavo con arpa y detalle de la columna del arpa (1472-1481); derecha: Roma, Basilica dei Santi Apostoli, Cappella Bessarione, Antoniazzo Romano, detalle de una columna (ca. 1464-1468).

Fig. 36 - Izquierda: Valencia, Catedral, bóveda de la Capilla mayor, P. da San Leocadio y F. Pagano, Ángel cuarto con dulcema, detalle (1472-1481); en el extremo superior derecho, en blanco y negro: Padova, Capilla Ovetari, Andrea Mantegna, Milagro de Santiago en el camino de su martirio, detalle de un rostro masculino; en el extremo inferior derecho: detalle del Ángel cuarto con dulcema.


Fig. 37 - Izquierda: Valencia, Catedral, bóveda de la Capilla mayor, P. da San Leocadio y F. Pagano, Ángel noveno con viola de mano, conjunto y detalle (1472-1481); derecha: Valencia, Enguera, Paolo da San Leocadio, Ángel músico (ca. 1482-1484), detalle de La Virgen de Gracia.

Fig. 38 - Valencia, Catedral, Serafines y querubines.


Fig. 39 - Valencia, Catedral, Candelero con Putti.

Fig. 40 - Valencia, Museu de la Ciutat, San Pedro.


Fig. 41 - Valencia, Museu de la Ciutat, San Pablo.

Fig. 42 - Roma, Palazzo del Quirinale, Melozzo da Forlรฌ, Ascensiรณn de Cristo.


Fig. 43 - Roma, SS. Apostoli, Antoniazzo Romano, Cappella Bessarione.

Fig. 44 - Londra, British Museum, Anónimo, Tarocchi “del Mantegna”, Primo mobile.


Fig. 45 - Roma, Santa Maria sopra Minerva, Tumba DĂ­ez de Coca.

Fig. 46 - Roma, Musei Capitolini, Menade (marmo), copia neoattica di un originale del ciclo attribuito a Callimaco (V sec. a.C.).


Fig. 47 - Rimini, Tempio Malatestiano, Agostino di Duccio, Putti musicanti, pilastro della Cappella di Isotta (1449-1457).

Fig. 48 - Firenze, Galleria degli Uffizi, Sandro Botticelli, Pala di San Marco (Incoronazione della Vergine) (1490 ca.), particolare.


Fig. 49 - Parigi, MusĂŠe du Louvre, Andrea Mantegna, Il Parnaso (1497), particolare.

Fig. 50 - Atene, Museo Nazionale, Officina del Dipylon, Anfora geometrica (ceramica), dal Dipylon di Atene (760-750 a.C. ca.). Fig. 50a, Particolare.


Fig. 51 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con liuto (1472-1481), particolare.

Fig. 52 - Napoli, Museo Nazionale, Cratere con Amazzonomachia (ceramica), da Ruvo (fine V sec. a.C.), particolare.

Fig. 53 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con viola (1472-1481), particolare.


Fig. 54 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con salterio a corde percosse (1472-1481), particolare.

Fig. 55 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con doppio flauto (1472-1481), particolare.

Fig. 56 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con organo portatile (1472-1481), particolare.


Fig. 57 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con strumento a fiato (chirimĂ­a) (1472-1481), particolare.

Fig. 58 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con salterio a corde pizzicate (1472-1481), particolare.

Fig. 59 - Roma, Galleria Colonna, Cosmè Tura, San Paolo e san Maurelio con Bartolomeo Roverella, particolare.


Fig. 60 - Firenze, Galleria degli Uffizi, Piero del Pollaiolo, Ritratto femminile (1475 ca.).

Fig. 61 - Bruges, Memlingmuseum, Hans Memling, Madonna in trono con Bambino e quattro santi, pannello centrale del Trittico di san Giovanni (1474-1479 ca.).


Fig. 62 - Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr, Vittore Carpaccio, Due dame (14931495 ca.).

Fig. 63 - Valenza, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con sonagliera (1472-1481), particolare.


Fig. 64 - Valenza, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con chitarra (1472-1481), particolare.

Fig. 65 - Anagni, Cattedrale, Cripta, Cherubino con tetramorfo (sec. XIII).


Fig. 66 - Autun, Bibliothèque Municipale, Vangelo di Gundoino, 3, f. 12v, Cristo in trono affiancato da due cherubini (754).

Fig. 67 - CittĂ del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Reg. 124, f. 11v, Rabano Mauro, De Cherubim et Seraphim circa crucem scriptis et significatione eorum, carme figurato (sec. XII).


Fig. 68 - Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Scuola ferrarese, Tarocchi “del Mantegna”, La musa Tersicore (1465 ca.).

Fig. 69 - San Quirico d’Orcia, Collegiata, A. Barili, Intarsio con organo, 1483-1502, proveniente dal Duomo di Siena.


Fig. 70 - Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, Giovanni di Piermatteo detto Boccati (attr.), Madonna dell’orchestra (1460 ca.), particolare con angioletto che suona il salterio a corde percosse.

Fig. 71 - Valencia, Cattedrale, Cappella maggiore, P. da San Leocadio e F. Pagano, Angelo con ciaramella (1472-1481), particolare.

Fig. 71a - Fotomontaggio di una ciaramella calabrese accostata alla ciaramella affrescata nella volta della Cattedrale di Valencia.


Fig. 72 - Roma, Monastero di Tor de’ Specchi, Transito di santa Francesca Romana (1468), particolare del concerto angelico.

Fig. 73 - Palma de Mallorca, Museu de Mallorca, Rafael Moger (documentado ca. 1453-1486), Ángel músico tañendo una vihuela de arco, detalle del retablo de la Virgen del Santo Novicio, ca. 1453-1479 (foto: Barcelona, Institut Amatller d’Art Hispànic).


Fig. 74 - Barcelona, Colección particular, Anónimo aragonés, Ángel músico tañendo un órgano portátil, detalle de un retablo con la Virgen y ángeles, mediados del siglo XV (foto: Barcelona, Institut Amatller d’Art Hispànic).

Fig. 75 - Tarragona, Museu Històric Diocesà, Lluís Borrassà (1360-1426 ca.), Ángel músico tañendo una cítara, detalle de la Coronación de la Virgen del Retablo de la Virgen (1411-1416 ca.) (foto: Barcelona, Institut Amatller d’Art Hispànic).


Fig. 76 - Valencia, Catedral, vista general (foto: J. Bérchez).

Fig. 77 - Valencia, Catedral, decoración pictórica del trasagrario (foto: J. Bérchez).


Fig. 78 - Valencia, Catedral, pintura de los ángeles músicos y bóveda tabicada del presbiterio construida en el siglio XVII (foto: J. Bérchez).


Fig. 79 - Valencia, Catedral, detalle de la bĂłveda del presbiterio en la actualidad (foto: J. BĂŠrchez).


Fig. 80 - Valencia, Catedral, credencia del presbiterio con columnas salomónicas (foto: J. Bérchez).

Fig. 81 - Valencia, Catedral, detalle de serafín i ángeles del presbiterio (foto: J. Bérchez).


Fig. 82 - Valencia, Catedral, presbiterio (foto: J. BĂŠrchez).


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Indice generale

Trini Miró Mira, Saluto

Pag.

V

Massimo Miglio, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

VII

Maria del Carmen Pérez García - Francisco Javier Catalá Martínez, El misterio de los ángeles músicos. Las pinturas del altar mayor de la catedral de Valencia, al descubierto . . . . .

»

1

Miguel Navarro Sorní, El cardenal Rodrigo de Borja y la importancia y significado histórico del encargo por él realizado . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

21

Salvador Vila Ferrer, La restauración de los frescos de la catedral de Valencia. La problemática técnica del soporte arquitectónico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

47

Adele Condorelli, Il coro angelico di Rodrigo Borgia . . . . . . .

»

57

Ximo Company, Componentes formales e iconográficos de los Ángeles de la catedral de Valencia . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

89

Fernando Marías, Los ángeles de Valencia y su fortuna en la pintura y la historia: problemas abiertos . . . . . . . . . . . . . .

»

105

Paola Nitti, Le vesti degli angeli e la moda rinascimentale . . . .

»

131

Marco Bussagli, Il coro angelico di Valenza e i suoi significati . .

»

151

Laura Mauri Vigevani, Gli strumenti musicali degli angeli affrescati nella cattedrale di Valencia: una preziosa fonte per la musica del Quattrocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

159

Jordi Ballester, Tradición, fantasía y realismo en los instrumentos musicales representados en el altar mayor de la catedral de Valencia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE GENERALE

Joaquín Bérchez - Mercedes Gómez Ferrer, «Vestir a lo moderno»: la remodelación barroca del presbiterio de la catedral de Valencia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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207

Mercedes Gómez Ferrer, Nuevas consideraciones sobre el pintor Francesco Pagano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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229

Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice delle fonti manoscritte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» » »

239 241 247

Durante i lavori del Convegno è stata presentata anche la relazione di Paulino Iradiel, La società valenzana ed il contratto per gli affreschi della cattedrale, che non è stato possibile acquisire agli Atti.


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Composto e impaginato nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo Finito di stampare nel mese di aprile 2011 dallo Stabilimento Tipografico  Pliniana  Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG)

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STUDI STORICI Fasc. 1-131 pubblicati sotto la direzione di RAFFAELLO MORGHEN Fasc. 132-147 pubblicati sotto la direzione di RAOUL MANSELLI

Vol. I. Fasc. 1-4. GIOVANNI TABACCO, La casa di Francia nell’azione politica di Papa Giovanni XXII, Roma 1953, pp. XVI-372. Vol. II. Fasc. 5. RAOUL MANSELLI, Studi sulle eresie del sec. XII, Roma 1953, pp. VIII-125. (esaurito) IIa edizione ampliata, Roma 1975, pp. VI-341. Vol. III. Fasc. 6-7. ARSENIO FRUGONI, Celestiniana, Roma 1954, pp. VII-189. (esaurito) Vol. IV. Fasc. 8-9. ARSENIO FRUGONI, Arnaldo da Brescia nelle fonti del sec. XII, Roma 1954, pp. X-200. (esaurito) Vol. V. Fasc. 10. EDITH PÁSZTOR, Per la storia di San Ludovico d’Angiò (1274-1297), Roma 1955, pp. IV-88. Vol. VI. Fasc. 11-13. CINZIO VIOLANTE, La Pataria milanese e la Riforma ecclesiastica. I. Le premesse (1045-1057), Roma 1955, pp. XII-224. (esaurito) Vol. VII. Fasc. 14-18. PAOLO LAMMA, Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel sec. XII, Roma 1955, vol. I, pp. XX-322. (esaurito) Vol. VIII. Fasc. 19-21. RAOUL MANSELLI, La «Lectura super Apocalipsim» di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medioevale, Roma 1955, pp. IV-246. (esaurito) Vol. IX. Fasc. 22-25. PAOLO LAMMA, Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel sec. XII, Roma 1957, vol. II, pp. IV-344. (esaurito) Vol. X. Fasc. 26-27. TULLIO GREGORY, Studi sul platonismo medievale, Roma 1958, pp. 159. (esaurito) Vol. XI. Fasc. 28-30. LUDOVICO GATTO, Il pontificato di Gregorio X (1271-1276), Roma 1959, pp. VI-261. (esaurito) Vol. XII. Fasc. 31-34. RAOUL MANSELLI, Spirituali e Beghini in Provenza, Roma 1959, pp. VI-358. (esaurito) Vol. XIII. Fasc. 35-39. BRUNO NARDI, Dal «Convivio» alla «Commedia» (Sei saggi danteschi), Roma 1960, pp. IV-384. (esaurito) Vol. XIV. Fasc. 40-41. GIOVANNI MICCOLI, Pietro Igneo. Studi sull’età gregoriana, Roma 1960, pp. VI-358.

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Vol. XV. Fasc. 42-44. PAOLO LAMMA, Momenti di storiografia cluniacense, Roma, 1961, pp. VI-208. (esaurito) Vol. XVI. Fasc. 45-47. G. FASOLI, R. MANSELLI, C. G. MOR, G. ARNALDI, E. RAIMONDI, M. BONI, P. TOSCHI, Studi Ezzeliniani, Roma 1963, pp. 227. (esaurito) Vol. XVII. Fasc. 48-50. GIROLAMO ARNALDI, Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma 1963, pp. XII-253 (esaurito) Voll. XVIII-XIX. Fasc. 51-68. ELIO CONTI, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino. Vol. I. (Le campagne nell’età precomunale), Roma 1965, pp. XII-480. Vol. III, parte 2a. (Monografie e tavole statistiche sec. XV-XIX), Roma 1965, pp. 470. Vol. XX. Fasc. 69-70. NICOLA CILENTO, Le origini della Signoria Capuana nella Longobardia minore, Roma 1966, pp. 200. Vol. XXI. Fasc. 71-72. FRANCESCO MANACORDA †, Ricerche sulla dominazione dei carolingi in Italia, Roma 1968, pp. 190. I fascicoli 73-74 non sono stati pubblicati. Vol. XXII, Fasc. 75-76. ANDRÉ GUILLOU, Régionalisme et indépendance dans l’empire byzantin au VIIe siècle. L’exemple de l’exarchat et de la pentapole d’Italie, Roma 1969, pp. 348. Vol. XXIII. Fasc. 77. ANNA M ORISI, Apocalypsis Nova. Ricerche sull’origine e la formazione del testo dello pseudo-Amadeo, Roma 1970, pp. 96. Vol. XXIV. Fasc. 78-79. CLAUDIO SÁNCHEZALBORNOZ, Estudios Visigodos, Roma 1971, pp. 380. Vol. XXV. Fasc. 80-82. CHIARA SETTIS FRUGONI, «Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem». Origine, iconografia e fortuna di un tema, Roma 1973, pp. 350. Voll. XXVI-XXVII. Fasc. 83-92. Studi sul Medioevo cristiano offerti a R. Morghen, Roma 1975, vol. I, pp. 1-552; vol. II, pp. 553-1081. Vol. XXVIII. Fasc. 93-96. RANIERO ORIOLI e LORENZO PAOLINI, L’eresia a Bologna fra XIII e XIV secolo. Roma 1975, parte I, pp. 174; parte II, pp. 158.

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Vol. XXIX. Fasc. 97-98. GIOVANNA PETTI BALBI, Genova e Corsica nel Trecento, Roma 1976, p. 195. Vol. XXX. Fasc. 99. PAOLO BERTOLINI, Figura velut que Christus designatur. La persistenza del simbolo della croce nell’iconografia numismatica durante il periodo iconoclasta: Costantinopoli e Benevento, Roma 1978, pp. 129. Vol. XXXI. Fasc. 100-102. MARTA CRISTIANI, Dall’unanimitas all’universitas, da Alcuino a Giovanni Eriugena, Roma 1978, pp. 196. Vol. XXXII. Fasc. 103-105. Studi su Pietro da Eboli, a cura di Raoul Manselli, Leonida Pandimiglio, Carla Frova, Teresa Sampieri, Marta Gianni e Raniero Orioli, Massimo Miglio, Chiara Frugoni, Roma 1978, pp. 216, tavv. 27. Vol. XXXIII. Fasc. 106-108. Ernesto Buonaiuti storico del Cristianesimo a trent’anni dalla morte, a cura di Raffaello Morghen, Alberto Pincherle, Raoul Manselli, Boris Ulianich, Fausto Parente, Roma 1978, pp. 194. Vol. XXXIV. Fasc. 109. STEFANO GASPARRI, I duchi longobardi, Roma 1978, pp. 116. Vol. XXXV. Fasc. 110-111. Studi Malatestiani, a cura di P. J. Jones, A. Vasina, Ch. Mitchell, P. Sampaolesi, P. G. Pasini, F. Gaeta, Roma 1978, pp. 196. Vol. XXXVI. Fasc. 112-114. R AFFAELLO MORGHEN, Tradizione religiosa nella civiltà dell’Occidente cristiano, Roma 1979, pp. XII-292; tav. I-X. Vol. XXXVII. Fasc. 115-118. ROBERTO RUSCONI, L’attesa della fine. Crisi della società, profezia ed Apocalisse in Italia al tempo del grande scisma d’Occidente (1378-1417), Roma 1979, pp. 382. Vol. XXXVIII. Fasc. 119-121. MARIA LUDOVICA ARDUINI, Ruperto di Deutz e la controversia tra Cristiani ed Ebrei nel secolo XII, con testo critico dell’Anulus seu dialogus inter Christianum et Iudaeum, a cura di Rhabanus Haacke, Roma 1979, pp. 286. Vol. XXXIX. Fasc. 122-124. FRANCESCO PAOLO LUISO, Studi sull’Epistolario di Leonardo Bruni a cura di Lucia Gualdo Rosa, Roma 1980, pp. XXXI, 247. Vol. XL. Fasc. 125-126. GIACOMO TODESCHINI, Un trattato francescano di economia politica: il De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1980, pp. 114. Vol. XLI. Fasc. 127. ELENA GIANNARELLI, La tipologia femminile nella biografia e nell’au-

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tobiografia cristiana del IV secolo, Roma 1980, pp. 103. Vol. XLII. Fasc. 128-130. AGOSTINO PERTUSI, Martino Segono di Novi Brdo, vescovo di Dulcigno, Roma 1981, pp. 421. Vol. XLIII. Fasc. 131. GLAUCO M. CANTARELLA, Ecclesiologia e politica nel papato di Pasquale II, Roma 1982, pp. 123.

Nuova Serie Vol. I. Fasc. 132-135. I ricordi fiscali (14271475) di Matteo Palmieri, a cura di Elio Conti, Roma 1983, pp. XXIV, 360. Vol. II. Fasc. 136-139. ELIO CONTI, L’imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (14271494), Roma 1984, pp. 409. Vol. III. Fasc. 140-142. LUCIA GUALDO ROSA, La fede nella ‘Paideia’. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI. Roma 1984, pp. XVI, 306; tav. I-VIII. Vol. IV. Fasc. 143-145. GENNARO SASSO, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi. Roma 1984, pp. XII, 262. Vol. V. Fasc. 146-147. I DEUG SU, Cultura e ideologia nella prima età carolingia, Roma 1984, pp. 158. Vol. VI. Fasc. 148-149. Ricerche e studi sul «Breviarium ecclesiae Ravennatis» (Codice Bavaro), a cura di A. Vasina, S. Lazard, G. Gorini, A. Carile, V. Fumagalli, P. Galletti, G. Pasquali, M. Montanari, B. Andreolli, T. Bacchi, Roma 1985, pp. 193. Vol. VII. Fasc. 150-151. ALBERTO FORNI, La questione di Roma medievale. Una polemica tra Gregorovius e Reumont. Roma 1985, pp. VIII, 153. Vol. VIII. Fasc. 152. Silvia Ronchey, Indagini ermeneutiche e critico-testuali sulla Cronografia di Psello, Roma 1985, pp. 81. Vol. IX. Fasc. 153. G. Z ANELLA , Itinerari ereticali: Patari e Catari tra Rimini e Verona, Roma 1986, pp. 129. Vol. X. Fasc. 154-162. Un pontificato e una città Sisto IV (1471-1484), a cura di Massimo Miglio, Francesca Niutta, Diego Quaglioni, Concetta Ranieri, Roma 1986, pp. 826. Vol. XI. Fasc. 163-173. B. PARADISI, Studi sul Medioevo giuridico, Roma 1987, pp. 1204. Vol. XII. Fasc. 174-177. A. MARCHETTA, Orosio e Ataulfo nell’ideologia dei rapporti romanobarbarici, Roma 1987, pp. I-VIII, 420. Vol. XIII. Fasc. 178-179. G. M. CANTARELLA, La costruzione della verità Pasquale II,

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un papa alle strette, Roma 1987, pp. VIII, 186. Vol. XIV. Fasc. 180. C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l’origine dello Stadium bolognese, Roma 1987, pp. VIII, 68.

Vol. XV. Fasc. 181-183. A. PIAZZONI, Guil-laume de Saint-Thierry. Il declino dell’ideale monastico nel secolo XII, Roma 1988, pp. 231. Vol. XVI. Fasc. 184-192. Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, Roma 1988, pp. XXXVII, 864.

NUOVI STUDI STORICI Pubblicati sotto la direzione di GIROLAMO ARNALDI e MASSIMO MIGLIO

Vol. XVII. Fasc. 193-196. R. Orioli, Venit perfidus heresiarcha, Roma 1988, pp. 374. Vol. XVIII. Fasc. 197-198. P. GOLINELLI, Indiscreta Sanctitas. Studi sui rapporti tra cul-ti, poteri e società nel pieno medioevo, Roma 1988, pp. 220. Vol. XIX. Fasc. 199-200. Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV) sulle tracce di G.B. Verci, a cura di G HERARDO O RTALLI e M ICHAEL KNAPTON, Roma 1988, pp. 428. 11. Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medio Evo: marchesi, conti e visconti nel Regno Italico (secc. IX-XII), Roma 1988, pp. 343. 12. SANDRO CAROCCI, Tivoli nel basso medioevo. Società cittadina ed economia agraria, Roma 1988, pp. 629. 13. AGOSTINO PERTUSI, Fine di Bisanzio e fine del mondo: significato e ruolo storico delle profezie sulla caduta di Costantinopoli in Oriente e in Occidente. Edizione postuma, a cura di Enrico Morini, Roma 1988, pp. XX-280. 14. ROBERTO LAMBERTINI, Apologia e crescita dell’identità francescana (1255-1279), Roma 1990, pp. x-196. 15. ANDREA TABARRONI, Paupertas Christi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324), Roma 1990, pp. X-129. 16. SILVIA RONCHEY, Indagine sul martirio di San Policarpo, Roma 1990, pp. 242. 17. ÉTIENNE HUBERT, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Roma 1990, pp. 396. 18. GIAN LUCA POTESTÀ, Angelo Clareno. Dai poveri eremiti ai fraticelli, Roma 1990, pp. 342. 19. GIROLAMO ARNALDI, Natale 875. Politica, ecclesiologia, cultura del papato altomedievale, Roma 1990, pp. 138.

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10. LUCIA GUALDO ROSA e PAOLO VITI, Per il censimento dei codici dell’epistolario di Leonardo Bruni, Roma 1991, pp. IX-202. 11. Repertorio della cronachistica emilianoromagnola (secoli IX-XV), a cura di AUGUSTO VASINA, Roma 1991, pp. 301. 12. La caduta di Gerusalemme. Il commento al Libro delle Lamentazioni di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di MARCO BARTOLI, Roma 1991, pp. LXXII-99. 13. S. Anselmo vescovo di Lucca (1073-1086) nel quadro delle trasformazioni sociali e della riforma ecclesiastica, a cura di CINZIO VIOLANTE, Roma 1992, pp. 453. 14. ELISABETH PAVAN CROUZET, Espaces urbaines, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, Roma 1992, pp. 1121. 15. ANGELA LANCONELLI - RITA LUISA DE PALMA, Terra, acque e lavoro nella Viterbo medievale, Roma 1992, pp. 244. 16. ARSENIO FRUGONI, Celestiniana, ristampa anastatica dell’ediz. 1954, con introduzione di Clara Gennaro, Roma 1991, pp. XVII189. 17. Le origini e lo sviluppo della cristianità slavo-bizantina. Il battesimo del 988 nella lunga durata, a cura di S. SWIERKOSZLENART, Roma 1992, pp. XV-484. 18. BRUNO NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia” (sei saggi danteschi), ristampa anastatica dell’ediz. 1960, con premessa di Ovidio Capitani, Roma 1992, pp. XXIX382. 19. STEFANO GASPARRI, I Milites cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, Roma 1992, pp. 155. 20. Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), a cura di M. CHIABÒ, G. d’ALESSANDRO, P. PIACENTINI, C. RANIERI, Roma 1992, pp. 688.

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21. Nuovi studi ezzeliniani, a cura di GIORGIO CRACCO, Roma 1992, pp. 768. 22. Censimento dei manoscritti dell’Epistolario di Leonardo Bruni. I: Codici non italiani, a cura di LUCIA GUALDO ROSA, Roma 1993, pp. 288. 23. SANDRO CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici del Duecento nel primo Trecento, Roma 1993, pp. 496. 24. Lettere a Raffaello Morghen. 1917-1983, scelte e annotate da GABRIELLA BRAGA, ALBERTO FORNI e PAOLO VIAN, Introduzione di Ovidio Capitani, Roma 1994, pp. LXIV, 289. 25. MICHELE MACCARRONE, Nuovi studi su Innocenzo III, a cura di R. Lambertini. Presentazione di Ovidio Capitani, Roma 1995, pp. XXIV, 438. 26. COSTANTINO MARMO, Semiotica e linguaggio nella Scolastica: Parigi, Bologna, Erfurt 1270-1330. La semiotica dei Modisti, Roma 1994, pp. 526. 27. GERMANA GANDINO, Il vocabolario politico e sociale di Liutprando di Cremona, Roma 1995, pp. 308. 28. LUCIA TRAVAINI, La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995, pp. VIII-488. 29. La società fiorentina nel basso Medioevo. Per Elio Conti (Dipartimento di storia dell’Università di Firenze. Istituto storico italiano per il Medio Evo. Roma-Firenze, 16-18 dicembre 1992), a cura di RENZO NINCI, Roma 1995, pp. XV, 273. 30. JEAN COSTE, Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, Roma 1996, pp. VIII, 575. 31. CRISTINA LA ROCCA, Pacifico di Verona. Il passato carolingio nella costruzione della memoria urbana, con una nota di Stefano Zamponi, Roma 1996, pp. 266. 32. ISABELLA LAZZARINI, Fra un principe e altri stati. Relazioni di potere e forme di servizio a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga, Roma 1996, pp. XVI, 523. 33. ALESSANDRO D. CONTI, Esistenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del Tardo Medioevo, Roma 1996, pp. 324. 34. VICTOR CRESCENZI, Esse de Maiori Consilio, Legittimità civile e legittimazione politica nella Repubblica di Venezia (secc. XIII-XVI), Roma 1996, pp. XX, 461. 35. Storiografia e poesia nella cultura medioevale (Dipartimento di studi sulle società e le culture del medioevo. Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Atti del

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Colloquio, Roma 22-23 febbraio 1990), Roma 1999, pp. XI, 336. 36. RAOUL MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo bassomedievali, introduzione e cura di PAOLO VIAN, Roma 1997, pp. C, 749. 37. FEDERICO MARAZZI, I “Patrimonia Sanctae Romanae Ecclesiae” nel Lazio (secoli IVX). Struttura amministrativa e prassi gestionali, Roma 1998, pp. XI, 339. 38. FRANCESCO PANARELLI, Dal Gargano alla Toscana: il monachesimo riformato latino dei Pulsanesi (secoli XII-XIV), Roma 1997, pp. IX, 321. 39. Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medio Evo: marchesi, conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII), vol. II, a cura di CINZIO VIOLANTE, Roma 1996, pp. 443. 40. Europa medievale e mondo bizantino. Contatti effettivi e possibilità di studi comparati (Tavola rotonda del XVIII Congresso del CISH - Montréal, 29 agosto 1995), a cura di G. ARNALDI e G. CAVALLO, Roma 1997, pp. 305. 41. ALBERTO FORNI, Lo storico delle Tempeste. Pensiero e azione in Luigi Tosti, Roma 1998, pp. 228. 42. M. NADIA COVINI, L’esercito del Duca. Organizzazione militare e istituzioni al tempo degli Sforza (1450-1480), Roma 1998, pp. XI, 486. 43. FRANCA RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel trecento, Roma 1998, pp. XV, 256. 44. FRANCA ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini del Duecento agli inizi del Quattrocento, Roma 1998, pp. IX, 269, 5 tavole, 6 pieghevoli. 45. L’Etat angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle. Actes du colloque international organisé par l’American Academy in Rome, l’Ecole française de Rome, l’Istituto storico italiano per il Medio Evo, l’U.M.R. Telemme et l’Université de Provence, l’Università degli studi di Napoli «Federico II» (Rome-Naples, 7-11 novembre 1995). Roma 1998, pp. 730, 16 tavole fuori testo. 46. MARINA MONTESANO, Superstizioni, “incantamento” e “maleficia” nella predicazione francescana osservante del Quattrocento italiano, Roma 1999, pp. XX, 224. 47. GORDON GRIFFITHS, The justification of florentine foreign policy offered by Leo-

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nardo Bruni in his public letters (14281444), Roma 1999, pp. 188. 48. MASSIMO GIANSANTE, Retorica e politica nel Duecento. I notai bolognesi e l’ideologia comunale, Roma 1999, pp. 162. 49. MARINO ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999, pp. XIII, 385. 50. NICOLANGELO D’ACUNTO, I laici nella Chiesa e nella società secondo Pier Damiani. Ceti dominanti e riforma ec- clesiastica nel secolo XI, Roma 1999, pp. XXIII, 476. 51. I podestà dell’Italia comunale. Parte I: Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII-metà XIII secolo, a cura di Jean-Claude Maire Vigueur, I, Roma 2000, pp. 3-690; II, Roma 2000, pp. 693-1230. 52. FRANCESCO PAOLO TOCCO, Niccolò Acciaiuoli. Vita e politica in Italia alla metà del XIV secolo, Roma 2001, pp. XXIII, 460. 53. GIACOMO FERRAÙ, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meridionale, Roma 2001, pp. XLIV, 309. 54. Scritti in onore di Girolamo Arnaldi (offerti dalla Scuola nazionale di studi medioevali), a cura di Andrea Degrandi, Orsola Gori, Giovanni Pesiri, Andrea Piazza, Rossella Rinaldi, Roma 2001, pp. XXXVIII, 622. 55. Innocenzo III. Urbs et orbis, a cura di Andrea Sommerlechner, vol. I, Roma 2003, pp. VIII, 748; vol. II, Roma 2003, pp. IV, 749-1379, 40 tavole fuori testo. 56. Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medioevo: marchesi, conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII), vol. III, a cura di Amleto Spicciani, Roma 2003, pp. XIV, 345. 57. ISA LORI SANFILIPPO, La Roma dei Romani (Arti, mestieri e professioni nella Roma del Trecento), Roma 2001, pp. VIII, 574. 58. La storiografia di E. Duprè Theseider, a cura di A. Vasina, Roma 2002, pp. VI, 463. 59. PIETRO ZERBI, « Philosophi » e « Logici ». Un ventennio di incontri e scontri: Soissons, Sens, Cluny (1121-1141), Roma 2002, pp. XII, 196. 60. MARCO PELLEGRINI, Ascanio Maria Sforza. La parabola politica di un cardinaleprincipe del Rinascimento, tomo I, Roma 2002, pp. XIV, 438; tomo II, Roma 2002, pp. IV, 439-891. 61. Itineranza pontificia. La mobilità della curia papale nel Lazio (secoli XII-XIII), a cura di Sandro Carocci, Roma 2003, pp. VI, 344.

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62. GENNARO SASSO, Dante, l’imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. X, 329. 63. GIULIANO MILANI, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003, pp. IV, 515. 64. Il Lazio e Alessandro VI. Civita Castellana, Cori, Nepi, Orte, Sermoneta, a cura di G. Pesiri, Roma 2003, pp. VI, 275. 65. Censimento dei codici dell’Epistolario di Leonardo Bruni. II: manoscritti delle biblioteche italiane e della Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di Lucia Gualdo Rosa, Roma 2004, pp. XX, 494, 97 tavole fuori testo. 66. RAIMONDO MICHETTI, Francesco d’Assisi e il paradosso della minoritas. La Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, Roma 2004, pp. 370. 67. La norma e la memoria. Studi per Augusto, Vasina, a cura di T. Lazzari, L. Mascanzoni, R. Rinaldi, Roma 2004, pp. VI, 749, 16 tavole a colori fuori testo. 68. ERMANNO ORLANDO, « Ad profectum patrie ». La proprietà ecclesiastica veneziana in Romània dopo la IV crociata, Roma 2005, pp. 231. 69. La cristianizzazione degli slavi nell’arco alpino orientale (secoli VI-IX), a cura di A. Tilatti, Roma 2005, pp. IV, 203, 16 tavole fuori testo. 70. Petrarca politico. Atti del convegno (Roma-Arezzo, 19-20 marzo 2004). Comitato Nazionale VII centenario della nascita di Francesco Petrarca, Roma 2006, pp. 193. 71. Stato della ricerca e prospettive della medievistica tedesca (Roma, 19-20 febbraio 2004), a cura di M. Matheus - M. Miglio, Roma 2007, pp. 235. 72. ARSENIO FRUGONI, Scritti su Manfredi, con una presentazione di Enrico Pispisa, Roma 2006, pp. 121. 73. CHRISTINE SHAW, The Political role of the Orsini family from Sixtus IV to Clement VII. Barons and factions in the papal states, Roma 2007, pp. 291. 74. BARBARA BOMBI, Novella Plantatio Fidei. Missione e Crociata nel Nord Europa tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo, Roma 2007, pp. 334. 75. L’eredità culturale di Gina Fasoli. Atti del convegno di studi per il centenario della nascita (1905-2005). Bologna-Bassano del Grappa 24-25-26 novembre 2005, a cura di Francesca Bocchi e Gian Maria Varanini, pp. 683.

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21/04/2011, 9.49


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