ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO NUOVI STUDI STORICI - 93
NOTARIATO E MEDIEVISTICA PER I CENTO ANNI DI STUDI E RICERCHE DI DIPLOMATICA COMUNALE DI PIETRO TORELLI Atti delle giornate di studi (Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana, 2-3 dicembre 2011) a cura di GIUSEPPE GARDONI E ISABELLA LAZZARINI
ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI PIAZZA DELL’OROLOGIO 2013
Nuovi Studi Storici collana diretta da Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio
Il presente volume è stato realizzato con il contributo dell’Accademia Nazionale Virgiliana
Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redazione: Salvatore Sansone
ISSN 1593-5779 ISBN 978-88-98079-14-8 ________________________________________________________________________________
GIUSEPPE GARDONI - ISABELLA LAZZARINI PREMESSA
Occuparsi di Pietro Torelli a trent’anni dalle ricerche che ne hanno segnato il centenario della nascita, e a Mantova, in quella Accademia Nazionale Virgiliana di cui Torelli fu figura cruciale per quasi trent’anni tra il 1919 e il 1948, è idea che nasce da una circostanza fortuita – i cento anni dalla pubblicazione del primo dei due volumi di Studi e ricerche di <storia giuridica> e diplomatica comunale – ma che deriva da due esigenze che fortuite in buona misura non sono. Nel 1980 infatti una ricchissima e rinnovata stagione di studi di comunalistica e diplomatica notarile era ai suoi primi passi, e avrebbe dato frutti importanti pur nella continuità di riferimenti e di discussione con i fondamentali studi precedenti in merito a quello che era – e resta – uno dei temi identitari del medioevo italiano. I torelliani studi di diplomatica comunale poi, anche per questo slancio di ricerche recenti, meritavano un’osservazione più attenta: come con un filo di ironia ricorda in questo volume Giuliano Milani, «insomma, mentre il libro su Mantova è stato poco citato, ma accettato e digerito, a quello sulla diplomatica comunale è avvenuto il contrario: lo hanno citato tutti, ma nella sua proposta più forte è stato di fatto respinto». Torelli, lo sappiamo, per un vario confluire di ragioni attraversa la medievistica italiana del Novecento (senza etichette disciplinari) in una scomoda – per gli altri – posizione di nicchia che a lui non sarebbe forse spiaciuta: il presente volume, frutto delle giornate di studio tenutesi a Mantova nella sede dell’Accademia e in Archivio di Stato il 2-3 dicembre 2011, si propone come un contributo a coglierne la difficile lezione come gli eventuali limiti, e insieme un affondo nella ricerca contemporanea su alcuni dei temi che gli furono cari. Quando è nata l’idea di progettare un incontro scientifico di questa natura, le istituzioni mantovane, cui Torelli dedicò molta parte della sua energia di studioso, hanno risposto con slancio: l’Accademia Nazionale Virgiliana, sede naturale di un evento di studio dedicato a questi temi;
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GIUSEPPE GARDONI
- ISABELLA LAZZARINI
l’Archivio di Stato, dove Torelli è stato direttore; e la Biblioteca Teresiana, che conserva i materiali dell’archivio personale dello studioso mantovano. L’Istituto Storico Italiano per il Medioevo ha patrocinato le giornate di studio e ospita nei suoi Nuovi Studi Storici gli atti che ne derivano. Fuori di ogni retorica e – da mantovani – con un pizzico di emozione, un ringraziamento sentito va dunque a Piero Gualtierotti, presidente dell’Accademia, e agli amici Eugenio Camerlenghi e Viviana Rebonato, come a tutti i colleghi che in Accademia hanno approvato e sostenuto il progetto, a Daniela Ferrari, direttrice dell’Archivio di Stato, che ha partecipato come studiosa all’impresa e ci ha aperto le porte della bellissima Sacrestia della Santissima Trinità, a Cesare Guerra, direttore della Biblioteca Teresiana, che ha messo generosamente a disposizione degli studiosi in questa occasione il prezioso materiale torelliano ancora in corso di inventario, a Massimo Miglio, presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, e a Isa Lori Sanfilippo, che hanno seguito con partecipazione le fasi preparatorie delle giornate, e la loro messa a stampa. La città di Mantova e la regione Lombardia, anche in momenti difficili come questi, hanno risposto generosamente all’appello dell’Accademia: ringraziamo in questa sede la Fondazione Comunità Mantovana Onlus, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Mantova, il Consiglio Notarile di Mantova, Autotransfert-Notares di Mantova e la Presidenza della Regione Lombardia. Le giornate di studio si sono svolte infine durante l’anno che ha ricordato, analizzato, celebrato il 150 anniversario dell’unità d’Italia: tenendo a mente l’impegno civile e politico di Pietro Torelli, divenuto da ultimo senatore della Repubblica per il partito socialista nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, ci piace sperare che non sia stata una coincidenza fuori luogo.
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I PIETRO TORELLI: ‘UN ENIGMATICO MAESTRO’?
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GIORGIO CHITTOLINI ALCUNE PAROLE D’AVVIO. TORELLI E LA STORIA DELLA PROPRIETÀ FONDIARIA
Vorrei ringraziare cordialmente gli organizzatori per l’invito al convegno, che mi consente di cercare di prestar omaggio, brevemente, alla grande figura cui il nostro incontro è dedicato, toccando un aspetto che il convegno non intende trattare in modo specifico, il tema della storia della proprietà: un tema cui pure per me, come per tanti medievisti, il nome di Torelli resta legato in modo speciale. La personalità dello studioso Torelli è certo molto complessa – come ben risulta dal volume commemorativo che oltre trent’anni fa, nel centenario della nascita, questa stessa Accademia Virgiliana gli dedicò1. Egli fu archivista, archivista militante, sin dai primi passi, compiuti sotto la guida del Luzio, e a fianco del Davari: in un archivio, come quello di Mantova, che dal 1899 aveva acquisito lo straordinario Archivio Gonzaga. Fu dapprima alunno (1903), poi sotto-archivista (1905), quindi primo archivista (1913), e direttore dal 1920, mantenendo per qualche tempo anche la direzione dell’archivio di Reggio Emilia (dove il suo passaggio fu segnato dalla edizione delle Carte degli archivi reggiani fino al 1050, del 1920: pubblicazione arricchita di sostanziose aggiunte una ventina d’anni dopo). Gran custode e grande indagatore di fondi archivistici, fu autore di ricchi e dettagliati inventari, di sistematiche serie di regesti di documenti, mantovani
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Convegno di studi su Pietro Torelli nel centenario della nascita (Mantova, 17 maggio 1980), Mantova 1981. Da ricordare è il saggio di G. De Vergottini, Pietro Torelli, commemorazione tenuta il 16 dicembre 1949 per conto della Università degli Studi e dell’Accademia delle Scienze, pubblicata in «Rendiconti delle sezioni della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna, classe di scienze morali», ser. V, 3 (1949-1950), pp. 11-60; ripubblicata nel volume P. Torelli (1880-1948), Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1959, pp. VII-LII. Per un profilo aggiornato del Torelli, dei suoi lavori, e degli scritti a lui dedicati, cfr. I. Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli (Mantova, 1880-Mantova, 1948), «Reti Medievali Rivista», 12/2 (2011), pp. 297-306.
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e non solo, come si è detto: un’attività, di censimento e di inventariazione, che oggi gli archivisti sembrano avere grosse difficoltà a praticare. Fu paleografo e diplomatista di vaglia, non solo nella lettura delle carte, ma nella straordinaria capacità di usare i raffinati strumenti esegetici che la paleografia gli offriva, di interrogarsi sui modi, sulle condizioni della produzione dei documenti, e sul significato che la forma del documento ci comunica. Fu studioso di storia delle istituzioni, con le sue ricerche sul vicariato imperiale, sulla storia del comune, del Comune di Mantova in particolare, nell’età della sua creazione e del suo sviluppo (tenendosi però al di fuori della «gazzarra» pubblicistica sulle «origini»: una gazzarra troppo infarcita di opinioni mal fondate, di indizi fragili e difficili da interpretare, di verbose dichiarazioni di principio, perché Torelli vi si sentisse a suo agio, senza però rinunciare a valersi di una straordinaria conoscenza delle notizie sulle origini e gli sviluppi di moltissimi altri comuni cittadini, e di un vastissimo orizzonte di riferimenti): in una impostazione di storia politica e nello stesso tempo di storia economica e sociale. Fu illustre studioso di storia del diritto: della letteratura giuridica medievale – e, in questo campo, promotore e autore di quel monumento che è l’edizione delle glosse accursiane, e di quelle di altri doctores (Irnerio, Bulgaro, Jacopo e Ugo), che egli aveva incontrato in questo e in altri lavori e che incontrava via via – ; ma anche studioso di storia del diritto intesa come storia di una quotidiana, effettiva pratica giuridica, quale si poteva ricostruire dagli innumerevoli documenti – acquisti, vendite, investiture, locazioni – che ne recano testimonianza, e di cui gli archivi mantovani sono pieni: nella volontà, insomma, di intenderne e di estrarne il “significato giuridico”, nel senso più lato2. Nell’ambito appunto della storia del diritto Torelli trovò una prestigiosa collocazione accademica, anche se la sua figura resta come sospesa fra discipline diverse: difficile da “classificare”, da intendersi nel suo complesso, come ben vide Ovidio Capitani, il quale, nella commemorazione poco sopra ricordata, si adoperò e si affannò ad analizzare i caratteri del suo “fare storia”, a discutere e a contestare le ricostruzioni, le interpretazioni, le disinterpretazioni, le citazioni, le pretermissioni, i “rifiuti” di cui il Torelli era stato oggetto da parte di altri studiosi; a cercare di ritrovare i suoi “paradigmi”, come egli diceva: ma con una dichiarazione finale, direi, di incertezza, di sospensione sulla figura dello studioso, in «quel suo oscil-
2 U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato, in Convegno di studi su Pietro Torelli cit., pp. 53-70.
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lare tra storia economica, storia giuridica, storia intenzionalmente politica», nella sua ambiguità, nella sua fisionomia di “enigmatico maestro”3. L’aspetto su cui vorrei soffermarmi è quello che, mi pare, domina il primo volume dell’opera Un comune cittadino in un territorio ad economia agricola, ma non è assente in varie altre ricerche del Torelli: la storia, in senso lato, della proprietà fondiaria, la storia, per citare il sottotitolo del volume, della “distribuzione della proprietà”, dello “sviluppo agricolo”, dei “contratti agrari”4; o, per dirla più sommariamente, il tema delle forme diverse in cui i diritti proprietari si presentavano nel Medioevo, quali possiamo intenderli attraverso lo studio dei “contratti agrari” e del “feudo”, gli argomenti cui sono dedicati i capitoli centrali del suo lavoro. E desidererei soffermarmi su questo aspetto anche perché mi pare che alcuni dei problemi che da lui furono messi in luce abbiano conosciuto in tempi recenti una nuova attenzione, così nella storia giuridica come nella storia economica, e che parecchie delle conclusioni cui egli era pervenuto restino ben vive e attuali: anche se non sempre ai lavori pionieristici dello studioso mantovano si è prestato adeguato riconoscimento. 1. Un ampio ventaglio di temi di ricerca Non è, quello della distribuzione della proprietà (e della natura della proprietà), l’unico tema forte del volume. Giustamente Capitani aveva visto nel vasto lavoro di raccolta di Torelli una «sistemazione di dati ad impianto pluridirezionale», rilevando come a quei dati avessero fatto ricorso studiosi di interessi diversi: da un Fumagalli, a un Castagnetti, a un Montanari5. Il volume pubblicato nel 1930 del resto si poneva come preliminare a uno studio degli assetti politici – anche se intesi in modo assai diverso di
3 O. Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli nella medievistica italiana contemporanea, in Convegno di studi su Pietro Torelli cit., pp. 53-70: 49. Capitani ricorda anche la definizione di «enigmatico maestro» data del Torelli dall’allievo S. Caprioli (ibid., p. 33). 4 Un comune cittadino in un territorio ad economia agricola, I: Distribuzione della proprietà - sviluppo agricolo - contratti agrari, Mantova 1930 (R. Accademia Virgiliana di Mantova, Serie miscellanea, 7). Nelle note che seguono ci riferiremo a questa opera (e più precisamente al primo volume) semplicemente col titolo abbreviato Un comune cittadino. A questo volume si intendono riferiti anche i semplici rinvii di pagina che compaiono all’interno del nostro testo. 5 Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli cit.
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quanto li intendevano vari studiosi suoi contemporanei – o, in una prospettiva più ravvicinata, allo studio “delle famiglie e classi al potere nel primo comune”, come si intitola il secondo volume: sviluppi di ricerca e di scrittura difficili da perseguire (Bognetti in una recensione rilevava – col senno di poi, ma certamente con senno – che «era stato proprio il primo volume a impedire al secondo di nascere»)6. E, accanto al preludiare intorno al tema del comune nel suo formarsi, al contesto politico e sociale entro cui esso prendeva forma, non mancavano altri temi più propriamente “economici”: l’accertamento del valore dei canoni, dei laudemi; la valutazione della loro “congruità”, nel loro variare o non variare, lo sforzo di confrontare la produttività di diversi tipi di terreni. Era un’attenzione che Torelli mostrava verso una economia di tipo nuovo che investiva il suo territorio, un’attenzione allo “sviluppo agricolo”, come suonava il sottotitolo del volume: a cercare anche in queste aree, ad economia agricola, il segno di quella generale crescita economica che contrassegnava l’Italia dei secoli XI-XIII su cui gli storici a lui contemporanei ponevano un forte accento. Sottolineando in particolare come nonostante alcuni elementi negativi – quell’incessante frazionamento delle quote di proprietà, quella «polverizzazione dei beni terrieri che il secolo XIII ci presenta infatti evidentissimo» (p. 286) – comparisse «una tendenza opposta di coagulazione», di ricomposizione al livello della conduzione7: e come appunto prendessero corpo forme nuove di conduzione, e figure nuove di proprietari, «una classe di produttori capaci, laboriosi, saldamente attaccati alla propria terra ed economicamente in grado di farla rendere» (pp. 294-295). Il che permetteva a Torelli di veder gli effetti di questa crescita anche nel campo delle manifatture, dei commerci; e di riscontrare come, pure in un territorio “ad economia agricola”, «anche la campagna rispondesse al movimento ascensionale evidente e noto in tutti gli aspetti della vita del periodo, e in quella specifica forma di sforzo individuale che ci ha tramandato i più bei nomi di mercanti e banchieri d’altre regioni». Egli cita, con un tono quasi celebrativo, un tono non dissimile da 6 G. P. Bognetti, recensione a P. Torelli, Un comune cittadino, «Archivio storico lombardo», ser. VIII, 80 (1953), pp. 343-355, ora in Bognetti, Studi sulle origini del comune rurale, cur. C. Violante - F. Sinatti D’Amico, Milano 1978, pp. 382-400. 7 Un processo di ricomposizione e di riorganizzazione «che ha ragioni e riscontri in tutti gli aspetti della storia del periodo, ma che forse non si è mai bene constatata in campagna» (p. 290). Il rinvio in nota è al saggio di G. Luzzatto, I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche nei secoli IX e X, Senigallia 1909, pp. 144, 180. Anche in altre parti del volume i lavori di Luzzatto, che pure era un costante referente del Torelli, appaiono oggetto di qualche rilievo critico.
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quello che Armando Sapori riservava negli stessi anni ai suoi mercanti imprenditori e banchieri fiorentini, i fratelli de Marçaneda, conduttori di trecento ettari di terra, avviati a occupare l’arringo della vita pubblica mantovana. Era il tema degli “inurbamenti dei ricchi del contado”: la via in cui «un comune cittadino come Mantova trovava forse la più forte ragione del suo sviluppo»: un tema che Torelli aveva il merito di proporre e di sottolineare, e che alcuni anni dopo i ben noti studi di Plesner estendevano anche a comuni caratterizzati da un’economia non solo agricola. Ed è parimenti ben avvertibile nel mantovano Torelli la forte partecipazione al tema della “vittoria” dell’uomo sulla natura incolta e selvaggia, sulle acque, sul fiume, e sulle devastazioni e le rovine che le frequenti inondazioni implacabilmente portavano, frenando il progredire dei dissodamenti, delle opere di bonifica e di messa a coltura. Se ad esempio qualcuno vorrà dirmi che qua o là, per una parte o per l’altra, molti hanno già studiato queste storie di terre offerte od usurpate, e redente e protette dai fiumi e dal bosco, e ridotte mano mano a pane ed a vino, ed amate, e da chi le amava, per un sacro diritto nato e cresciuto “in sudore vultus sui” man mano ritolte ai proprietari antichi ed estranei, non potrò più soltanto rispondere che tutto ciò non si è fatto per la mia terra, e che io scrivo storia di Mantova […]. (p. VII)
Egli non avvertiva grosse nostalgie per quel paesaggio di boschi immensi, di terreni selvaggi e incolti, di vaste paludi, quei paesaggi che in anni più vicini a noi hanno sollecitato l’immaginazione, e hanno portato allo studio di quei secoli secondo prospettive diverse: si sentiva piuttosto in forte sintonia con l’opera dura e faticosa dei roncatores e dei bonificatori, che procuravano pane e sicurezza ai contadini, e assicuravano il progresso agricolo. 2. Il tema della proprietà della terra, nella dottrina e nella “pratica” E tuttavia mi sembra che, fra i diversi elementi che compongono il quadro di un’opera così ricca, il tema della natura della proprietà resti il motivo di fondo. Torelli prende avvio dal tema dei contratti agrari: tema non certo assente dalla ricerca storico giuridica fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, anni in cui si erano prodotti anzi contributi fondamentali, e tema tuttora ben vivo, fra gli anni Venti e Trenta: un interesse sovente connesso anche al tema, più generale – e ben presente del resto
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anche all’attenzione di Torelli, come si è detto – della grande trasformazione agricola ed economica del periodo intorno al Mille. Ci si era soffermati a lungo, in particolare, sulle denominazioni e i contenuti che i “contratti agrari” assumevano. Questi discorsi già in sé direttamente presupponevano, in certo modo, la diversità delle forme di possesso, di proprietà e di uso della terra. E ciò spesso in stretta connessione con le polemiche che avevano accompagnato, esasperandosi soprattutto nel secondo decennio del secolo, la questione delle componenti germaniche e delle componenti romanistiche nelle istituzioni giuridiche italiane nell’età preirneriana8. Con le opere di Schupfer, Leicht, Pivano, Lattes, Solmi, che avevano frugato i documenti d’archivio sui livelli, particolarmente nei secoli X-XII, Torelli dialoga costantemente. E il nostro autore ha ben presente anche quelle ricerche che si indirizzavano agli aspetti più propriamente dottrinari del problema, attraverso l’analisi degli scritti dei doctores del XIII e anche del XII secolo (in consonanza del resto con le ricerche che egli stesso conduceva sui glossatori): le ricerche e i dibattiti sul cosiddetto “dominio diviso”, sulla origine “romanistica” o “canonistica” della riflessione sulla natura e varietà dei diritti di proprietà, così come erano stati studiati nelle opere del Landsberg e nella trattazione - «tanto più fine», nota Torelli - del Meynial9. Ciò che però allo storico mantovano soprattutto premeva – al di là delle teorizzazioni dei giuristi di scuola, nel loro itinerario spesso tortuoso, e spesso succedaneo – era l’emergere di pratiche effettive nel concreto operare di concedenti e concessionari, il concreto manifestarsi e consolidarsi di nuove istituzioni giuridiche, da ritrovare precisamente nelle carte e nelle fonti documentarie: il loro farsi “istituzioni giuridiche” nella vita della società agricola. E per intender questo – assai più che non i testi dei dottori, o le normative emanate dai comuni («la storia giuridica ed economica d’Italia non è tutta nelle nostre raccolte ufficiali di consuetudini e statuti», egli scriveva)10, valevano i documenti privati – «la massa tranquillante dei documenti consueti e normali» – in cui egli vedeva la base, le testimo-
8 P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano 1977, a p. 19 ricorda le implicazioni storiografiche e anche politiche di alcuni di quegli orientamenti di ricerca. 9 E. Landsberg, Die Glosse d. Accursius und ihre Lehre von Eigenthum: Rechts- und dogmengeschichtliche Untersuchung, Leipzig 1883; E. Meynial, Notes sur la formation de la théorie du domain divisé (domain direct et domain utile) du XII au XIV siècle, dans les romanistes, in Mélanges Fitting, II, Montpellier 1908, pp. 409-461. 10 Un comune cittadino, p. 93. De Vergottini avverte in questa frase l’eco, forse inconsapevole, della più recisa affermazione di Giuseppe Salvioli, nella sua Storia del diritto ita-
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nianze più reali delle istituzioni giuridiche, della «effettiva esperienza giuridica»: «nella vita agricola non hanno efficienza reale i contratti d’eccezione, fin che rimangono tali od almeno rimangono rari, ma quelli che trovano generale applicazione nel luogo e nel periodo, a noi non resta che identificare soprattutto questi ed esaminarli» (p. 234), controllandone anzi la distribuzione, la frequenza, la “intensità” luogo per luogo (p. 246). Era una storia che non poteva non essere anche storia dell’economia e della società, anche se volta a intenderne gli aspetti giuridici. E una storia che non si poteva immaginare nella sua pratica attuazione, se non relativamente a un territorio circoscritto, in una «determinazione locale e concreta» – per ragioni di serietà scientifica. Egli era convinto – come rileva Santarelli – che una storia delle istituzioni giuridiche italiane non si potesse fare attraverso trattazioni generali, rivolte allo studio di un istituto in tutto il territorio italiano, ma attraverso trattazioni ed indagini particolari. Di qui la scelta necessaria di un territorio: «una base non ristrettissima e abbastanza varia – perché le arse colline di Volta non sono la piana feracissima dell’oltre Po – ma che formi un sistema solo omogeneo e compatto, e dove alla genialità pericolosa dell’indovinare possiamo sostituire la lieta umiltà di constatare per certo» (p. VI). Questo metodo comportava degli scavi documentari imponenti, un enorme impegno di ricerca, cui di fatto Torelli si sottopose in modo quasi esclusivo, e con la consueta straordinaria laboriosità, in sei anni di lavoro indefesso, nella convinzione che tutto quell’ampio lavoro fosse, forse, «più utile di qualche preziosa spigolatura in campi mietuti» (p. 224); e che solo la padronanza della «larga massa di documenti che gli archivi ci offrono» consentisse di cogliere «l’evoluzione delle forme», e di conseguire quella «fine comprensione del Medioevo, che viene dalle fonti documentarie studiate davvero» (p. 237). Mai prima di lui nessuno certamente aveva sottoposto a un’analisi tanto rigorosa una massa documentaria così ingente e, quel che è di più, una massa documentaria che trovava una sua omogeneità e uniformità nell’unità geografica e giuridica del territorio mantovano, o per lo meno negli elementi di contiguità e di uniformità delle sue diverse aree – una diversità di contesti cui Torelli era sensibilissimo – e delle diverse consuetudini e usi che in esso si potevano cogliere: uniformità e varianti che era possibile registrare non episodicamente e saltuariamente, ma nella loro diffusione, nella loro durata, nel maggiore o minore radicamento. liano: «la storia del diritto italiano è scritta più nei documenti che nelle leggi» (cit. in De Vergottini, Commemorazione (1959) cit., p. XXI).
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C’è un brano del Torelli rivelatore di questo suo modo di guardare alle fonti, un brano che opportunamente anche Santarelli aveva segnalato in occasione della commemorazione del 1980: Occorrerebbe… piantare ben saldo nella mente dei nostri giovani che il documento singolo ci offrirà il caso speciale e curioso, ma per la storia giuridica dirà troppo poco, o non dirà nulla: è necessario dar fuori interi fondi documentari, perché una precaria, un livello, un’enfiteusi, un affitto comune, nulla di più rappresentano che un caso singolo di ripetizione, più o meno aderente, di schemi contrattuali ben noti: ma cento precarie e cento livelli, in un territorio determinato, in un periodo determinato, ne rappresentano la vita giuridica vera, cioè il senso della necessità di queste forme contrattuali, la tendenza reale all’una o all’altra come bisogno pratico del momento e del luogo11.
E in quel modo infatti, attraverso la ricognizione, la presentazione, lo studio di migliaia di documenti – in una prospettiva ben diversa da quella della “storiografia locale” che talora si è evocata a proposito del nostro autore – emergeva con ricchezza singolare la varietà, con tutta una serie di elementi che in quel contesto di ricerca si potevano cogliere e valorizzare. Ma era un’attenzione che l’autore, come si è detto, indirizzava soprattutto verso l’intrecciarsi delle forme di proprietà, della pluralità dei modi di possesso della terra, in inevitabile stretta connessione con i modi del suo uso e del suo sfruttamento. 3. Il problema del “dominio diviso” Già il Leicht – ricorda Torelli stesso (p. 237) – aveva sottolineato, nel suo minuto procedere, il «fluttuare continuo delle concessioni fondiarie medievali tra il concetto di proprietà e quello di locazione», le «forme dubbie tra la compravendita e la locazione, che erano così frequenti nel medioevo», ed erano comprese, in Lombardia come in Toscana, sotto l’ampia figura del livello. Questa ambiguità e apparente confusione dei diritti del concedente da un lato, del concessionario (o acquirente) dall’altro, costituiva il punto cruciale, il punto più delicato della ricerca che l’autore perseguiva:
11 P. Torelli, Metodi e tendenze negli studi attuali di storia del nostro diritto, Modena 1928 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, IV, n.
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Il fenomeno iniziale, ma anche il fenomeno motore, è piuttosto storicamente che giuridicamente una novità, ed è l’accentuarsi delle effettive alienazioni del diritto del conduttore: è cioè nuovo il fatto pratico, concreto, della rapidità e frequenza di queste alienazioni. Un fenomeno storico economico, in fine, il solo che ci possa spiegare perché dell’alienabilità del diritto di godimento si siano preoccupate, come la nostra, tante legislazioni statutarie, disposte viceversa per loro natura, ed è notissimo, ad abbandonare i rapporti contrattuali alle norme del diritto comune. (p. 242)
Ci si trovava di fronte a un fenomeno storico generale, l’importanza raggiunta dall’alienabilità dei diritti di godimento, un fenomeno attinente in maniera diretta al diritto di proprietà («perché l’alienare è, dopo l’abusus, la forma suprema del disporre»): un fenomeno storico – il sostanziale distacco dei due dominî, diretto e utile, «che era certo e saldo nella vita del nostro periodo a cominciare dalla metà del secolo XII» (p. 242). Di “dominio” era lecito parlare perché l’utilista poteva con molta libertà alienare, trasmettere in eredità, essere arbitro della gestione della terra, salvo il canone cui era tenuto. Come aveva scritto Meynial, «proprietario è chiunque goda della cosa»; di un terreno si possono avere diritti sui frutti, diritti di pascolo, diritti a un canone, diritto di controllo o di superiorità o di giustizia: ci sono più proprietari di una medesima cosa, nella misura in cui l’organizzazione sociale comporta dei cerchi concentrici che rinchiudono l’individuo, e nella misura in cui esistono modi diversi di usare o di trarre profitto di una cosa12. L’idea di un forte diritto del concessionario sulla res, sulla cosa, è stata ricondotta opportunamente a una caratteristica propria dell’ordine giuridico medievale, ben prima del XII secolo13: ma la distinzione e la giustapposizione fra i “due dominî” divenivano ora, nelle nuove condizioni dell’economia, nell’accentuarsi della divaricazione fra valore economico e valore sociale e politico dei beni, fra la nuda proprietà e le potenzialità produttive di essi, più evidenti, e anche più necessarie da chiarire e da regolamentare. E qui il Torelli non può fare meno di notare che quel “fenomeno storico” era «d’importanza molto maggiore degli sforzi compiuti dai glossatori per adattarvi il diritto romano, in sé irriducibile»; anche se, «bisogna 34), ripubblicato in P. Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 5-21: 15. Si tratta del discorso che Torelli tenne inaugurando il suo insegnamento modenese. Cfr. U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato in Convegno di studi cit., pp. 53-70: 59. 12 Meynial, Notes sur la formation cit., pp. 414-415. 13 E ciò per un «sentitissimo reicentrismo, per l’attenzione più alla cosa (primordiale entità produttiva) che al soggetto (proprietario), per il rispetto verso la cosa e la tutela della
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confessare che noi conosciamo molto meglio questi sforzi che non quel fenomeno, e li conosciamo soprattutto per merito del Landsberg e del Meynial» (p. 242). Ma era stata «la pratica del loro tempo, notissima a tutti loro che facevano tutti e facevano largamente gli avvocati» che aveva costretto i doctores alla famosa induzione da azione a diritto, attraverso un passaggio che alcuni di essi pure vedevano insostenibile (Jacopo Balduini, maestro dell’Ostiense, diceva «dominium utile est chimaera»), ma a cui la “pratica”, ovvero l’“officina della prassi”14 inesorabilmente spingeva. Sul piano teorico il riconoscimento del forte rilievo del dominio utile si era potuto forse registrare nella feudistica francese. Ma poiché in Francia lo sviluppo del senso pratico d’un nuovo diritto del conduttore è senza dubbio più tardo che da noi, io non dubito, per noi, della mediocre importanza di tutto questo di fronte al fenomeno grandioso che praticamente premeva (p. 243). E a p. 246 […] Tutti i iura in re aliena non sono più riguardati come semplice limitazione di un diritto di proprietà altrui, ma prendon figura a sé, si individuano fin quasi ad assumere talvolta l’aspetto di un diritto di proprietà limitata, affermandosi come potestà di godimento totale o parziale della cosa (p. 246, citando Salmi). […] Insomma la pratica aveva già fatto da tempo quello che nella teoria fece poi Bartolo, “en brisant en morceaux – per usare le incisive parole di Meynial – le droit de propriété et en réservant à chacune des pierres de l’ancien édifice la dignité et les caractères que revêtait autrefois l’édifice tout entier” (p. 243).
4. I contratti Questa profonda trasformazione, volle sottolineare il Torelli, non comportava che, per le diverse situazioni che si volevano porre in essere, per i vari tipi del rapporto che si voleva configurare, si dovesse far ricorso all’uso di contratti specifici, formalmente diversi. La forma del contratto poteva restare uguale, anche se usata a fini diversi15, così come la medesiproduzione è […], anche a costo di offuscare poteri e diritti del proprietario formale» da P. Grossi, Proprietà e contratto, in M. Fioravanti, Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari 2002, pp. 128-138. E cfr. ancora P. Grossi, Problematica strutturale dei contratti agrari nella esperienza giuridica dell’alto medioevo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto Medioevo (XIII settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 22-28 aprile 1965), Spoleto 1966, pp. 487-530. 14 Grossi, Proprietà e contratto cit. 15 Su questi temi la bibliografia è assai ampia. Violante ha messo spesso in luce la tensione fra livelli e feudo, la souplesse proteiforme del contratto livellario, e la sua dinamica
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ma substantia contractus poteva ritrovarsi sotto nomina differenti: nomi diversi («alias emphyteosis, alias precaria, alias libellus, alias canon, alias census, alias fictum, alias breve, alias scriptum, alias transversio […]»), che si sarebbero tenacemente mantenuti nel tempo «secundum varia idiomata terrarum», ma fra cui – come avrebbe scritto Ranieri da Perugia, «nullam credo fore inter eos differentiam assignandam, nisi dumtaxat in sono vocis»16. Non c’è bisogno di “scoprire” un nuovo contratto, «non c’è bisogno di scrivere un capitolo nuovo nella storia del diritto italiano privato, ma bisogna che ci sleghiamo noi dal vincolo di vecchie denominazioni da cui non si slegarono i glossatori e neppure in tutto i compilatori degli statuti comunali; inutile tenere negli occhi e nel cuore il concetto di proprietà romana […]» (p. 246). Così si modificava del resto anche il contratto feudale, in una vera e propria “degenerazione”, uno “snaturamento”: nonostante le difficoltà che da un lato i tribunali feudali al loro tempo, ma dall’altro lato ai nostri tempi anche «i moderni, non “ita subtiliter cernentes”» (p. 225), incontravano e incontrano a esplorare le trasformazioni dell’istituto, e a rendersene ragione (Torelli ben comprende il disagio che gli storici del diritto posti di fronte a quelle trasformazioni possono avvertire, «per il nostro modo di concepire istituti giuridici distinti da linee nette», p. 229). Sotto «il motore più vero e profondo degli avvenimenti», cioè «il fenomeno economico», si constata ora «l’indifferente mutare del rapporto personale, in pieno contrasto con lo spirito del feudo», il «fenomeno generale d’assorbimento del rapporto feudale da parte del contratto civile» (p. 225). Il servitium, nei feudi ecclesiastici soprattutto, si scolora; proteste, e liti fra vassalli e signori riguardano piuttosto usurpazioni vere o presunte da parte dei feudatari, non si trovano mai «prove pratiche d’una reale efficienza della giurata
interna, che gli ha permesso di attraversare il medioevo in quasi tutta la sua durata. Una rassegna recente dei dibattiti in corso si può vedere in L. Feller, Éléments de la problématique du fief en Italie, in Die Gegenwart des Feudalismus, cur. N. Fryde - P. Monnet - O.G. Oexle, Göttingen 2002, pp. 153-174; G. Rippe, Padoue et son Contado (Xe-XIIIe siècle), Rome 2003, p. 458, in particolare per la contrapposizione fra “realisti” (Leicht: il livello è un contratto a lunga durata, nelle sue innumerevoli varianti, e mira a dare sostanziali garanzie al locatario) e “nominalisti” (Pivano: si mette l’accento sulla forma del contratto, duo cartae uno tenore, come denominatore comune); P. Cammarosano, Gerbert et l’Italie de son temps, in Gerbert l’européen (Actes du colloque d’Aurillac, 4-7 juin 1996), cur. N. Charbonnel - J.E. Iung, Aurillac 1997, pp. 103-112; A. Spicciani, Benefici, livelli, feudi. Intreccio di rapporti tra chierici e laici nella Tuscia medievale. La creazione di una società politica, Siena 1996. 16 Ranieri da Perugia, Ars notaria, pars secunda, I, introducendo il discorso in tema di enfiteusi, cit. in Grossi, Problematica strutturale cit., p. 493.
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fedeltà dei vassalli» (p. 226); i piccoli feudi “di servizio” sono intesi piuttosto come un salario, in quella «promiscuità di concetti e di parole per cui continuerà a chiamarsi feudo perfino lo stipendio in moneta di un funzionario comunale» (p. 227). Addirittura talora si prevede il pagamento di un fictum; mentre per converso a un fittavolo si può richiedere il giuramento di una fidelitas «contra omnes homines»! (p. 229). Di qui, anche per i feudi, la «liberissima commerciabilità del dominio utile», riconosciuta già dai Libri feudorum; e ancora il riconoscimento da parte del comune cittadino della sua pignorabilità, e della “monetizzazione” del valore del diritto feudale nell’ambito del prezzo di stima (p. 231). Ad esiti analoghi portava l’evoluzione di altri istituti: livello, precaria, enfiteusi, che sembrano perdere la loro fisionomia propria, e fondersi nel termine generale di investitura ad fictum. «Se la parola investitura conserva pur sempre il suo significato di atto dell’investiente […], nei nostri esempi, e in cento altri, diventa anche il nome di un vero e proprio tipo di diritto reale, che nel dettato dei documenti si è sostituito anche materialmente al posto dei nomi di altri diritti simili – feudo, livello, enfiteusi – perché non risponde precisamente a nessuno di essi» (p. 245). Il termine del resto è accolto, sancito e regolato dagli statuti mantovani: «Nel legislatore era chiarissimo il senso del pratico formarsi di un istituto storicamente nuovo dalla fusione di quei vecchi istituti, sotto l’azione prevalente d’uno dei diritti dell’enfiteuta, indi del livellario, l’alienabilità della cosa» (p. 236). L’ investitura ad fictum fu il contratto cui si fece più continuo e generale ricorso. Un contratto che non ha scopo, o scopo principale, di miglioramento dei terreni, che può applicarsi a terre estesissime come a poche tavole di orto, e a case come a beni rustici, che nasce da un atto analogo all’investitura feudale e, come quella, non ha di regola termine fisso o scadenza ma s’intende perpetuo, che comporta canoni parziari o in derrate a quantità fissa o in danaro, non solo, ma così canoni insignificanti come fitti perfettamente congrui e rispondenti al valore reale dei beni ceduti […] (p. 243).
Persino nelle concessioni a canone parziario si poteva riscontrare una oscillazioni di significati, anche nelle mezzadrie: le une non molto dissimili nella sostanza dai contratti a canone fisso, mentre “le mezzadrie vere e proprie” prevedevano, commiste alle clausole più propriamente economiche sulla divisione dei frutti, clausole che implicavano un rapporto di tutela personale e fiscale del mezzadro da parte del concedente, che dal mezzadro attendeva un atteggiamento corrispondente (pp. 251-252).
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In generale, la tendenza era verso il pieno riconoscimento dei forti e consistenti diritti dell’investito. L’investitura ad fictum – non diversamente da altri contratti, che mantenevano il loro nome – riconosceva la divisione del dominio fra due figure: colui che tiene la terra, l’utilista, obbligato a corrispondere un canone al proprietario, il dominus, che però è un dominus dimezzato, semplicemente un direttario, «perché attraverso l’investitura il concedente vende»17. L’autore, dopo aver insistito sul significato di alienazione che l’investitura di fatto poteva assumere, vuole però anche mettere bene in luce la potenziale duttilità del contratto, che si definisce, caso per caso, a seconda del peso economico delle obbligazioni e della durata dell’accordo, a seconda cioè dei diritti che esso riconosce ai contraenti. Da un lato il diritto di alto dominio – per il direttario – confermato dal versamento da parte del concessionario, utilista, del canone (ora congruo, tuttavia, ora solo ricognitivo: o a mezzo fra gli uni e gli altri, in una vasta scala di possibilità e di graduazioni); e confermato da periodiche riaffermazioni del suo dominio, tramite i laudemi che egli percepisce in occasioni come successioni, vendite del dominio utile, etc. Dall’altro lato il diritto al dominio utile, da parte dell’investito: un diritto che gli assicura, pur nei limiti temporali, e secondo le clausole economiche previste, una disponibilità lunga, e quasi piena del fondo. Si manifestarono in questo tipo di rapporto due correnti opposte: dove il canone annuo spettante al proprietario del dominio diretto era elevato, restò il senso di un diritto preminente che, anche quando non in tutto assorbiva il dominio utile, s’incamminava tuttavia chiaramente verso la figura vera e propria della locazione; dove il canone era insignificante, il diritto seguì la preminenza economica dell’investito dell’utile e ne fece il proprietario vero, dando al canone il carattere di onere reale gravante sul fondo (p. 247)
come del resto era avvenuto col contratto feudale18. Si può notare incidentalmente che Torelli identificava chiaramente nella diversità delle sue investiture le medesime differenze che Toubert avrebbe riscontrato nei
17 Per cui «il termine di 29 anni imposto al vecchio livello per evitare la prescrizione a danno del concedente, e che del livello si ritiene da molti caratteristica normale, giuridicamente non ha più senso perché non si può estinguere per prescrizione un diritto che s’è perduto già al momento ed in forza della stipulazione del contratto» (p. 243). 18 Le stesse argomentazioni, spesso riprese alla lettera, si ritrovano nelle dispense che il Torelli usava: Lezioni di storia del diritto italiano. Diritto privato. La proprietà, dispense pubblicate a Milano nel 1948, anche se usate già da vari anni in edizioni litografate: cfr. pp. 44 ss.
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suoi due “grandi gruppi” di livelli del Lazio19. Là dove il canone era basso si delineava inoltre accanto ai contraenti veri e propri una terza figura20: quella del sub-investito, assai spesso un contadino, detentore anch’egli di diritti e di oneri, quei diritti e quegli oneri che gli derivavano dalla effettiva coltivazione della terra, regolati secondo gli “usi” dei luoghi e secondo le consuetudini. Compito dello storico, anche dello storico giurista, diveniva quindi – per intendere la diversa natura che il contratto poteva assumere, nelle diverse aree, nei diversi periodi, all’interno di diversi complessi proprietari – vedere, di fronte alla apparente uniformità dei documenti, o, al contrario, di fronte alle differenze nelle loro denominazioni, quale diverso valore le clausole temporali e le clausole economiche assegnavano alle varie investiture. E dunque quel capitolo su Valori e redditi delle terre, un ampio capitolo, che per di più richiede a proprio sostegno le più che duecento pagine di tabelle sui prezzi di vendita delle terre allodiali, sui prezzi di vendita del dominio utile, sui canoni, che sono appunto gli elementi da cui le diverse investiture traggono la loro fisionomia: diverse a seconda delle diverse aree del territorio (cui l’autore presta particolare attenzione); per la natura delle terre, per le rese economiche, per gli usi che ne regolano la coltivazione; a seconda delle figure dei proprietari (più forti, più deboli, più o meno attenti a un valore sociale o economico delle terre); a seconda della maggiore o minore capacità di resistenza o di reazione dei concessionari (coltivatori isolati, coltivatori titolari di contratti collettivi, forti comunità, livellari ricchi, cives, potentes). Così, grazie alla immensa documentazione, di migliaia di testimonianze, che si prolungavano nel tempo dall’undicesimo al tredicesimo secolo ed erano tratte da fondi documentari diversi, e che censivano, pecia per pecia, decine di migliaia di ettari, l’ampio spazio del territorio mantovano pressoché nella sua interezza, nella diversità dei luoghi, delle situazioni, degli usus ci si trovava squadernato davanti, con una ricchezza e precisione di linee che nessun altro territorio comunale poteva allora offrire.
19 P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, Rome 1973, pp. 516-533, p. 532. 20 B. Clavero, Enfiteusis. ¿Que hay en un nombre?, «Anuario de historia del derecho español», 56 (1986), pp. 467-519.
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5. Il ‘valore’ della terra, e la sua trasformazione E non era soltanto il quadro di una economia agricola. Era il quadro complessivo di una società, che era possibile esaminare nel suo insieme, nelle sue articolazioni, nelle sue gerarchie, appunto attraverso quell’elemento chiave che era il rapporto con la terra, e che appunto era ben venuto in luce grazie alle ricerche che l’autore aveva condotto. Non era solo una variegata tipologia di “contratti agrari”, che emergeva, nei loro elementi comuni, nelle differenze delle clausole e dei canoni: era il ruolo della terra – e la lezione valeva non solo per il territorio ad economia propriamente agricola – che si poneva come base ed elemento di organizzazione di tutta la società: la terra come materia fondamentale di ogni relazione economica, e anche come materiale di costruzione dell’edificio sociale sulla base del possesso fondiario. Erano i diritti che ognuno possedeva sulla terra, nella loro diversa natura, nella loro varietà e complementarità; erano le relazioni che la natura di quel possesso poneva fra le diverse persone e i diversi gruppi sociali – proprietari, possessori, coltivatori –, nelle loro varie modulazioni, nel loro intrecciarsi variegato, a configurare l’insieme (nella diversità dei ruoli dei singoli), a definire e riflettere la fisionomia sociale dei protagonisti, i loro rapporti, le gerarchie sociali entro cui essi si trovavano inseriti, i movimenti, le dinamiche, gli obiettivi, gli interventi di poteri pubblici. A costituire in definitiva quel social glue, come ebbe a scrivere Barbara Rosenwein21, che attraverso i rapporti dei singoli e dei gruppi con la terra trovava forma, era stabilita, era chiaramente riconoscibile. La terra era l’unica forma di “ricchezza” sociale: ma i parametri economici appaiono spesso secondari rispetto a un “valore” della terra che appare fondato soprattutto su altri elementi. A questo particolare e diverso “valore” molta attenzione è stata dedicata dalla storiografia recente, a mettere in luce i significati non solo economici che una terra aveva22 e i criteri (non immediatamente economici) cui il proprietario ispirava le sue scelte di gestione, ben oltre il calcolo di un valore solo economico, della congruità dei prezzi di vendita, dei redditi, degli affitti. E del resto non solo i contratti di affit-
21 B. H. Rosenwein, To be the neighbor of Saint Peter. The social meaning of Cluny’s pro-
perty, 909-1049, Ithaca - London, 1989, p. 202 e p. 4, sul “significato sociale” appunto della proprietà di Cluny, e sull’importanza della relazione che la proprietà della terra creava. 22 Si è discussa ampiamente ad esempio, alcuni anni fa, la possibilità o impossibilità di parlare, in termini propriamente economici, di un ‘mercato’ della terra nel medioevo: cfr.
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to, ma in generale tutte le transazioni relative alla proprietà della terra (donazioni, vendite, prestiti, pegni, etc.) si piegavano, materialmente e immaterialmente, al mantenimento della local social fabric, o anzi di tutto l’edificio sociale. Lo «svolgersi delle due correnti opposte», l’evolversi della investitura ad fictum verso la semplice locazione, oppure verso il configurarsi del dominio dell’utilista come del tutto preminente, posero in essere tuttavia una quantità di percorsi, diversi nel tempo e nello spazio. E la distribuzione fra i protagonisti del gioco di quote minori o maggiori di diritto e di vantaggi economici si evolveva continuamente, nella varietà di spinte e controspinte determinate da macrofattori economici (economia monetaria) e macrofattori politici (nel passaggio da un sistema signorile e feudale, quindi al comune, quindi al principato e agli stati regionali), dalle micro situazioni geografiche alle microconflittualità, in una storia affascinante in cui le parti fisse – direttario, utilista, coltivatore – portano in realtà vesti cangianti, impersonano personaggi diversi, intorno a quell’elemento centrale che è il diritto sulla terra. Stirpi nobiliari, monasteri, chiese, ecclesiastici, cives, potentes di varia qualità occupano ora l’uno ora l’altro dei ruoli che l’investitura ad fictum, o il feudo, o altri contratti prevedono, in posizioni ora diversificate, socialmente e politicamente, ora del tutto omologhe, in un sistema di relazioni di cui la terra costituisce il collante, nell’ambito di un sistema di scambi, di «generosità necessarie»23, di circolazione di beni e di servizi, in cui le relazioni fra gli uomini si definiscono attraverso negoziazioni sulla terra24. Erano rapporti “verticali” che si definivano anche al di fuori delle formule tecnicamente vassallatiche e feudali, in una serie di graduazioni che andavano dalle relazioni formalizzate di dipendenza fra sovrani, nobili, militi, al semplice fatto che il rustico che donava la sua terra al monastero veniva a far parte del vasto “vicinato” di cui quella chiesa faceva parte, o era il punto centrale. Erano rapporti “orizzontali” non formalmente definiti se non dal fatto stesso della cessione, della subinvestitura di ritorno, da doni collegati (valore relazionale della vendita), dalla iscrizione del laico donatore nell’obituario.
Il mercato della terra, secc. XIII-XVIII (Atti della “Trentacinquesima settimana di Studi”, 59 maggio 2003), cur. S. Cavaciocchi, Prato 2004, in particolare per i contributi di L. Feller e F. Menant, e le conclusioni di Ch. Wickham; Le marché de la terre au Moyen Âge, cur. L. Feller - C. Wickham, Rome 2005 (Collection de l’École Française de Rome, 350). 23 G. Duby, Guerriers et paysans, VIIe-XIIe siècle: premier essor de l’économie européenne, Paris 1973, pp. 68-69. 24 Cammarosano, Gerbert cit., p. 107. L’A. ricorda che tali reti erano formate non solo da una aristocrazia minore o maggiore, ma da un insieme abbastanza confuso di vescovi,
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6. La proprietà ecclesiastica Di grande rilievo è in particolare il quadro che Torelli offre di quella che siamo soliti definire “la proprietà ecclesiastica”. Non stupisce il rilievo che la trattazione di questo tema assume nel discorso dell’autore. La documentazione massiccia, preponderante, a Mantova come in tutta l’Italia, che chiese e monasteri ci hanno lasciato, per i secoli alti e centrali del Medioevo, non poteva che indirizzare lo studioso verso quelle fonti, e verso i problemi ad esse connessi. In particolare per l’area mantovana sono conservati alcuni monumenti documentari imponenti: quello relativo al monastero di San Benedetto di Polirone e quello relativo al vescovato; per non dire della cattedrale o di monasteri come Santa Chiara o Sant’Andrea. Anche l’Archivio Gonzaga – speculare, per così dire, a quelli degli enti ecclesiastici – conserva testimonianze imponenti, seppur soltanto per un periodo relativamente tardo. È una documentazione di straordinaria importanza, eccezionale, che come tale si conferma anche dopo che – ma a distanza di molti anni dal Torelli – altre aree documentarie sono state esplorate con altrettanta esaustività e minuzia, come Milano da parte di H. Keller, varie zone della Lombardia da parte di F. Menant, il Padovano da parte di G. Rippe – ci torneremo più avanti –, il territorio fiorentino da parte di E. Conti. Ma la storia della “proprietà ecclesiastica” assumeva per Torelli anche un altro significato, e uno speciale valore, oltre a quello di grande deposito documentario sui maggiori protagonisti delle vicende di quei secoli. Sulla proprietà delle chiese, più che su quella di laici e di potenti, i diritti del dominus si intrecciavano con i diritti di altri: i diritti di nobili e di sovrani; di coloro che pure donavano ad esse i loro beni; di quanti la lavoravano; di potenti, cittadini, contadini, poveri e comunità. Una proprietà quindi che anche sul piano giuridico si trovò come sollecitata a rendersi capace di comprendere in sé e sopra di sé le istanze e i diritti diversi che intorno ad essa e su di essa prendevano corpo, a configurarsi in forme particolari e via via differenti nel tempo (e, si può aggiungere, molte proprietà ecclesiastiche mantennero in parte questo carattere anche ben addentro nell’età moderna, sino al secolo XVIII, a configurare, si potrebbe dire, una perdurante, sostanziale divisione del dominio fondiario fra laici e chierici)25. La proprieabati, dei loro vassalli, advocati o gestores, famigli comitali, il cui patrimonio di terre e castelli era più o meno esteso e coerente; e ancora da una piccola folla di domini loci con poteri di banno, e militi non sempre inquadrati in sistemi coerenti di fedeltà. 25 Sul lungo mantenersi di questi concetti sulla proprietà, in «un mondo giuridico che si forma e si consolida nell’età medievale e post-medievale, arrivando, almeno nella sua
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tà ecclesiastica, pur formalmente intangibile, inalienabile, sacra, era soggetta a continue “usurpazioni”. Al succedersi di donazioni e di acquisti corrispondeva, in un costante incrociarsi di flussi, il ripetersi di occupazioni indebite e di perdite, in un contrappunto continuo. E non solo per le patologiche occupazioni di fatto, e le violenze, ma perché era come costituzionalmente, fisiologicamente predisposta ad essere ripartita in diverse quote di proprietà. Dalla ricerca del Torelli emergevano in effetti con chiarezza le situazioni di dominio fortemente diviso che molte terre della chiesa presentavano per la forza dei diritti dei concessionari laici (pur accanto ad altre terre in cui i diritti della chiesa apparivano più saldi e sicuri); ed emergevano con chiarezza, proprietà per proprietà – proprio grazie a quelle minuziose tabelle –, l’evoluzione nel tempo della ripartizione dei redditi economici, la stabilità o le trasformazioni dei contratti, il mantenersi o l’indebolirsi dei diritti sulla terra; ancora una volta a seconda delle figure dei proprietari (degli enti ecclesiastici, cioè, e dei prelati che li reggevano: più forti, più deboli, più o meno attenti a un valore sociale o economico delle terre; ora rigidi difensori dei bona ecclesiae, ora abati e vescovi “politici” e compromissori, ora potentes tutti impegnati nella costruzione di un proprio patrimonio familiare e dinastico). A seconda ancora della potentia, o della maggiore o minore capacità di resistenza o di reazione dei concessionari stessi (coltivatori isolati, coltivatori titolari di contratti collettivi, forti comunità, livellari ricchi, cives, nobiles); a seconda del sostegno che i contendenti, a proposito del valore economico o dei titoli di possesso delle terre, potevano trovare in coloro che governavano (nobili territoriali, comuni cittadini). A seconda infine degli interventi politici di chi governava: dapprima di quelli di regnanti e dinasti; poi dei comuni, a Mantova come altrove, con norme spesso energiche e spregiudicate, come quando nel 1217 gli statuti mantovani stabilirono che i concessionari potessero divenire pieni proprietari delle terre (la rubrica ad alodia facienda omnia ficta et decimas), dapprima nei territori urbani o più vicini alla città, quindi nel contado26: in consonanza, del resto, con analoghi provvedimenti, o analoghi accordi che
dimensione di prassi, fino alle soglie della Rivoluzione francese», cfr. Grossi, Proprietà e contratto cit., p. 128. Cfr. anche, per l’esame di alcuni casi, G. Chittolini, Alcune note sulle «enfiteusi ecclesiastiche» ferraresi, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, cur. L. Antonielli-C. Capra-M. Infelise, Milano 2000, pp. 11-33. 26 Un comune cittadino, pp. 247-249, e in altre parti del volume per la sua applicazione concreta in vari casi particolari. La disposizione doveva favorire l’allodiazione di case e terreni a fitto e a decima entro il raggio di tre miglia dalla città (e si stabiliva anche la legit-
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si prendevano in altre città comunali27. In non pochi comuni infatti, fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, per via di cosiddette “concordie” fra chierici e laici, o per via di iniziative unilaterali dei comuni stessi, si erano introdotte nella legislazione cittadina norme che avevano consentito ai concessionari laici di consolidare e trasformare in piena proprietà il dominium utile che possedevano su beni ecclesiastici, soprattutto urbani, in forza di concessioni livellarie o enfiteutiche: talora dietro semplice espropriazione delle chiese, talora dietro pagamento di una somma, una tantum, a titolo di riscatto28. Ma anche senza interventi così eversivi, quei contratti aprivano la strada a un più o meno rapido affermarsi della preminenza dell’utilista: per lo svalutarsi del canone, a causa della lunga durata dei contratti, per la difficoltà degli enti concedenti nel riscuoterlo, o per una certa loro disattenzione a tener memoria e prova dei diritti antichi. Il ricorso a contratti ad longum tempus e a clausole troppo permissive venne a più riprese limitato o
timità dell’assegnazione in solutum ai creditori dei beni dei debitori esecutati, anche quando questi fossero tenuti a titolo di investitura). La gran parte di questi beni erano terre di chiese e monasteri. Risulta da documenti di poco successivi che in ogni quartiere erano stati eletti due magistrati «ut ficta in alodium fiant». La disposizione non era coattiva, ma veniva applicata su richiesta della parte interessata; e progressivamente si estese anche in località distanti dal capoluogo. L’autore ricorda, sulla base di vari esempi, che le allodiazioni sono a titolo oneroso (p. 75 e passim). Cfr. anche M. Vaini, La distribuzione della proprietà terriera e la società mantovana dal 1785 al 1845. I, Il catasto teresiano e la società mantovana nell’età delle riforme, Milano 1973, pp. 75-153; Vaini, Dal comune alla signoria. Mantova dal 1200 al 1328, Milano 1986, pp. 30, 74. 27 Sul problema dei suoli urbani di proprietà ecclesiastica, problema comune a numerose altre città europee, dopo le pagine di H. Pirenne, La città medievale (ed. ital.), Bari 1977, pp. 41-50, sono numerosi i contributi recenti: cfr. fra gli altri Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XIIe XIIIe siècle), cur. O. Faron - H. Hubert, Lyon 1995; G.M. Varanini, Monasteri e città nel Duecento: Verona e S. Zeno, in Il Liber feudorum di S. Zeno di Verona, sec. XIII, cur. F. Scartozzoni - G.M. Varanini, Padova 1996, pp. VII-LXXIX: LXIX-LXXV; F. Bocchi, Monasteri, canoniche e strutture urbane in Italia, in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente (1123-1215), (Atti della settima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto-3 settembre 1977), Milano 1980, pp. 264-311; G. Andenna, Le grandi abbazie dell’Italia settentrionale, in Il monachesimo italiano nel secolo della grande crisi (Atti del V Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore Siena, 2-5 settembre 1998), cur. G. Picasso - M.Tagliabue, Cesena 2004, pp. 223-264: 25155; R. Rinaldi, Forme di gestione immobiliare a Bologna nei secoli centrali del Medioevo tra normativa e prassi, in Le sol et l’immeuble cit., pp. 41-70. 28 Per una breve rassegna cfr. G. Chittolini, Appunti su alcune bolle pontificie a favore degli “amfitiotici” nello Stato della Chiesa (secoli XIV – XVII), in Con la ragione e col cuore: studi dedicati a Carlo Capra, cur. S. Levati - M. Meriggi, Milano 2008, pp. 11-31.
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proibito dalle autorità ecclesiastiche, senza peraltro impedire il depauperamento. L’enfiteusi si rivelò un fondamentale meccanismo, un processo «sotterraneo, invisibile, lento, non divoratore ma roditore e corroditore, che non abbatteva ma indeboliva»29; un processo che finì per riguardare vastissime estensioni di terre. Nel secolo XIII, secondo i calcoli del Torelli, il vescovado era proprietario a vario titolo di forse 20.000 ettari (pp. 223-224): ma la gran parte di essi erano tenuti, per investitura o in feudo, da grandi famiglie del comune (spiccano ad esempio le due massicce investiture enfiteutiche ai Gonzaga nell’Oltrepò e nel Basso Oglio), di valore economico bassissimo, o nullo per l’episcopio. Numerose furono anche le investiture concesse a cives e nobili, a condizioni economicamente incongrue, da parte del capitolo, del monastero di Sant’Andrea, dell’abbazia bresciana di Leno; e da parte del ricchissimo monastero di San Benedetto, anche se le vicende di queste proprietà benedettine risultarono poi diverse, come vedremo30. Soggetto pure esso in età precomunale, comunale e signorile alla pressione fortissima dei Gonzaga e dei cittadini mantovani, frenato dalla resistenza degli homines che lavoravano le sue terre, fra il XV e il XVI secolo recuperò, grazie soprattutto all’impulso della Congregazione di Santa Giustina, di cui era entrato a far parte, molte delle antiche proprietà. Aveva dovuto rinunciare ai Gonzaga le terre della prepositura nel 1441: ma riuscì a mantenere un patrimonio imponente, che al tempo del catasto teresiano superava le 73.000 pertiche mantovane (quasi 25.000 ettari); uno dei più imponenti patrimoni monastici della Lombardia31. Torelli giungeva così a smitizzare l’idea di una “immensa proprietà ecclesiastica” nei secoli intorno al Mille, quasi essa fosse stata in piena disponibilità della Chiesa: una immensità del tutto illusoria, quando vista genericamente e da lontano; una proprietà che la Chiesa non aveva mai posseduto pienamente32. Si ritrova a indagare piuttosto l’intreccio in cui le
29 S. Placanica, Uomini, istituti e ricchezze della Chiesa meridionale nell’itinerario di uno storico calabrese, in Chiesa e società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, cur. P. Borzomati et alii, Soveria Mannelli 1998, I, pp. 703-725: 721-722. 30 Vaini, La distribuzone della proprietà, cit., pp. 96-97. 31 Un comune cittadino, pp. 17-26, 184-200, e passim; Vaini, La distribuzione della proprietà cit., pp. 96-97, 100-107, 199-215. Cfr. ora anche Registro delle concessioni di terre e beni del monastero di San Benedetto in Polirone (secolo XV), cur. F. Canova - G. Nosari, Bologna 2008. 32 Un comune cittadino, p. 224: si sottolinea appunto la «illusione comune dell’enorme proprietà ecclesiastica vista genericamente e di lontano».
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istituzioni, i beni, gli uomini di chiesa, gli oratores si trovavano intimamente collegati nell’età precomunale ai bellatores e ai laboratores, a un tempo integrati in una società che ad essi richiedeva una pluralità di compiti e di funzioni, così religiose come civili: una società in cui chiese e monasteri avevano modo di esercitare, per la loro presenza capillare e diffusa, una vasta influenza, e in cui le grandi proprietà ecclesiastiche erano centri e reti importanti di relazioni sociali e politiche, di cui vescovi e abati, a fianco dei potenti laici, potevano efficacemente valersi nella loro azione, così ecclesiastica come civile. Una società tuttavia che, fra XI e XII secolo, in concomitanza con la diffusione di una economia monetaria, con la diminuzione del valore “sociale” e “politico” delle terre, e con l’affermazione del comune, veniva mutando, e che proprio sulla base della distinzione fra chierici e laici distingueva ormai certe funzioni più propriamente laiche da quelle ecclesiastiche; e che anche per quanto riguardava quel fluido nebuloso che costituiva le proprietà della chiesa tendeva a distinguere fra coloro che potevano utilmente e pienamente disporne e coloro, gli ecclesiastici, politicamente sullo sfondo, che potevano mantenere (e non sempre, in caso di allodiazioni) un semplice dominio eminente, nell’ambito di un concetto nuovo di proprietà. In questi passaggi sono soprattutto da vedere le “crisi” della proprietà ecclesiastica, periodicamente denunciate in età comunale e signorile: nella dilatazione cioè di un uso propriamente economico della terra, un uso che la Chiesa dovette forzatamente cedere ad altri, in larga misura, con i relativi diritti di disporne33. Nel caso del vescovato l’ulteriore depauperamento, a fine Trecento, si rivelava massiccio: la mensa poteva valersi di alcune centinaia di biolche mantovane date a mezzadria, di proventi di varie investiture ad fictum effettivamente controllate: ma i beni più ricchi riguardavano vecchie investiture o feudi antichi e nobili, di cui gli eredi legittimi ottenevano gratuitamente la nuova concessione. Risultava pressoché inutile la puntuale registrazione dei canoni sui registri vescovili, una pratica che continuò sino agli inizi del Seicento (l’interruzione fu dovuta al sacco?): poi non si fecero più nemmeno quelle. In età teresiana nei “catastini” vescovili risultavano anco33 P. Cammarosano, Il ruolo della proprietà ecclesiastica nella vita economica e sociale del Medioevo europeo, in Gli spazi economici cit., pp. 1-17, sottolinea la lunga tenuta dei beni della Chiesa «sino a tutto il medioevo e in piena età moderna, con buona pace delle constatazioni di decadimento e di decesso, che sono state compiute ogni tanto dalla storiografia […] Nondimeno la storia della proprietà ecclesiastica nel medioevo non fu una storia di maestoso e incontrastato accrescimento, ma fu una storia anche segnata da fasi critiche, dove le crisi consistettero in relazioni nuove e diverse fra i poteri episcopali e abbaziali e l’insieme dei gruppi sociali che intorno ad essi ruotavano» (p. 14).
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ra iscritti 386 utilisti, possidenti circa 45.500 pertiche mantovane, pari a 3000 ettari per un valore capitale di 272.000 scudi; la mensa restava titolare di appena 25.000 pertiche34. Non diversa era la situazione di altre chiese e monasteri: la collegiata di S. Andrea, che i Gonzaga avevano costituito sulle spoglie dell’ex monastero benedettino, possedeva a catasto solo 567 pertiche definite allodiali, mentre 8.600 pertiche erano tenute da 236 livellari. Più raramente si manifestava dunque nei beni ecclesiastici l’altra delle due tendenze che Torelli aveva visto operare all’interno della investitura ad fictum, e che si verificava dove il canone annuo spettante al proprietario del dominio diretto era elevato. Qui restava il senso di un diritto preminente ed effettivo che, anche quando non in tutto assorbiva il dominio utile, consentiva di introdurre la figura vera e propria della locazione. Pur nella difficile fase dei contrasti con comuni e signori – fra XII e XIV secolo soprattutto, in conseguenza appunto dell’instabilità degli equilibri fra gruppi sociali, ceti urbani, signori – restarono alle chiese diritti sulle loro proprietà; diritti che non andarono perduti, e sopravvissero sino a momenti più favorevoli, nel secondo Quattrocento, e ancor più in seguito. Anzi alcuni monasteri, soprattutto quelli confluiti nelle congregazioni, come appunto San Benedetto di Polirone, riuscirono a recuperare terre, a conferire alle loro investiture un nuovo peso economico, più decisamente ancora che nelle proprietà laiche, e ad avviare spesso contratti di tipo apertamente locativo, in luogo di accordi precedenti35. Ciò avvenne talora a prezzo di conflitti non lievi con i coltivatori. Questi ultimi – massari, “terzaroli”, piccoli fittavoli – nella loro veste di concessionari di investiture, non avevano gran capacità, in genere, di volgere a loro vantaggio le clausole favorevoli del contratto, come poterono fare concessionari nobili e potenti. Ma queste possibilità si aprivano nella pianura bassa, che costituiva tanta parte del territorio mantovano; là dove le terre dovevano in primo luogo essere difese dalla furia dei fiumi e dal pericolo ricorrente degli impaludamenti, e solo grazie all’intenso e costante lavoro di tutti gli abitanti, attraverso la costruzione di argini, le opere di bonifica e di regolazione delle acque, potevano essere coltivate e rese produttive (pp. 202-203 e ss.). Frequenti furono allora i contratti stipulati con
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Vaini, La distribuzione della proprietà cit., pp. 97-98. F. Landi, Il paradiso dei monaci. Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma 1996; Landi, Storia economica del clero in Europa. Secoli XVXIX, Bologna 2005.
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gruppi di piccoli concessionari, o con intere comunità rurali: organismi comunitari che, rinsaldati da impegni, diritti, oneri comuni, mantenevano una maggior coesione, più forte che altrove, e potevano far valere un certo peso nei confronti di coloro – anche chiese, o potentes – che vantavano su quei luoghi un dominio eminente. Qui le chiese videro limitati i loro diritti: poterono nascere o mantenersi usi e diritti collettivi, beni comunitari, forme di “partecipanza”: non poche delle antiche partecipanze emiliane, che si mantengono ancora ai nostri giorni, come tante altre decadute via via nel tempo, trovano origine in antiche “investiture” enfiteutiche36. Di qui, dalla natura di queste terre e dalle particolari configurazioni sociali che prendevano corpo, la forte attenzione del Torelli ai contratti collettivi, come anche a quegli altri aspetti derivati, come il frazionamento del possesso e la polverizzazione della proprietà, che l’A. teneva in gran conto nella sua prospettiva di storia dell’economia agraria. Ai contratti “con enti collettivi” è dedicato uno dei capitoli più ampi e più densi del volume, e il tema ritorna costantemente in altri capitoli. Torelli ben vide in questi contratti l’origine di una situazione che avrebbe conosciuto, nel volger dei tempi, trasformazioni e conflitti37. 7. La proprietà della terra, l’origine del comune e i suoi svolgimenti Questo ampio quadro – della distribuzione cioè della proprietà fondiaria, delle sue forme plurime, del valore economico che le diverse figure che si accalcavano sulla terra traevano dai loro diversi diritti, dell’evoluzione che nei rapporti fra uomini e terre si veniva delineando – pareva al Torelli lo sfondo necessario per ricostruire la storia del “comune cittadino”. Era anche il modo di trovare i fondamenti di quel processo, di evitare le facili scorciatoie di una storia solo politica del potere. E, con la comparsa, al termine del primo volume, di potenti concessionari rappresentati da cives e 36 Su questi sviluppi cfr. Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze agrarie emiliane: da beni comuni a beni collettivi, cur. E. Fregni, Mantova 1992 (= «Cheiron», 8/14-15 [1990-1991]), e in particolare il saggio di F. Cazzola, Tra conflitto e solidarietà: considerazioni sull’esperienza storica delle partecipanze agrarie nell’Emilia, pp. 293-307. Cfr. ora La gestione delle risorse collettive. Italia settentrionale, secoli XII-XVIII, cur. G. Alfani - R. Rao, Milano 2011. 37 Per San Benedetto cfr. M. Vaini, Per una storia della società mantovana alla fine del Settecento. La proprietà fondiaria del monastero di S. Benedetto di Polirone e le vicende dei “terzaroli”, «Atti e memorie della Accademia virgiliana di Mantova», n. ser., 39 (1973), pp.
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da nobili residenti in città, i quali nella vita urbana, nelle nuove istituzioni che si venivano creando, trovavano il luogo delle loro contese e le vie primarie della loro affermazione, il discorso di Torelli tendeva naturalmente a rinviare ad un altro palcoscenico, quello urbano, su cui sarebbe andata in scena la nascita del comune. A quel punto, tuttavia, Torelli sembra essersi fermato. Una volta ricostruita la struttura agraria del territorio mantovano, nel primo volume appunto, veniva meno l’impulso ad approfondire le forme e i modi in cui le forze sociali e politiche prendevano forma, si organizzavano, si disponevano nell’agone cittadino. Bognetti, nell’ampia recensione al secondo volume, uscito nel 1952 col titolo Uomini e classi al potere, ben coglieva questa caduta di interesse, e si spingeva oltre, a domandarsi se «a dar fondo allo studio del crearsi di una società cittadina, allo studio di ciò che dà vita a un Comune di una città medievale italiana e ne ispira l’azione giovi aver impostato le cose soltanto come ricerca sulla formazione della proprietà terriera e sulle sue modificazioni»: spingendosi oltre ancora, giungeva ad esprimere la convinzione, come si è detto, «che era stato proprio il primo volume ad impedire al secondo di nascere»38. Ma sarebbe forse improprio leggere e valutare l’opera del Torelli riconducendola tutta all’interno di una storiografia “comunalistica” che si proponesse di seguire in tutte le sue fasi e di percorrere nei suoi passaggi e nei suoi momenti tutto il processo della costituzione del comune – nei suoi fattori economici, dapprima, e insieme negli sviluppi della nuova società urbana – in funzione dell’organizzazione nuova del potere, nelle sue pratiche e nelle sue istituzioni. Certamente il problema dell’origine del comune, anche come fatto politico, come costituzione di una nuova forma di potere, appariva a Torelli come il problema-quadro, come la prospettiva di fondo, che egli stesso esplicitamente riconosceva39. Ma egli era troppo con-
43-69. Per altri casi Chittolini, Appunti su alcune bolle pontificie cit.; per l’area veneta cfr. A. Stella, I beni fondiari di S. Giustina prima e dopo la secolarizzazione (dall’economia parziaria alla grande azienda), «Memorie della Accademia Patavina di scienze, lettere e arti. Classe di Scienze morali», 86 (1963-1964), pp. 93-109. Sulle reazioni dei contadini e sul “rustico furore”, innescato da iniziative monastiche per la trasformazione dei vecchi assetti contrattuali, si possono vedere le osservazioni del Cuiacio nel suo famoso trattato sul “furor rusticorum”: J. Cujacius [Jacques Cujas], Opera omnia in decem tomos distributa…, Neapoli, M.Aloysii Mutio, 1722. 38 P. Torelli, Uomini e classi al potere, postumo, cur. V. Colorni, Mantova 1952 (Pubblicazioni dell’Accademia Virgiliana di Mantova, Miscellanea, 12); Bognetti, recensione a P.Torelli, Un comune cittadino cit. 39 Nella prefazione al secondo volume V. Colorni ricorda «che i due volumi erano concepiti come un tutto unico; preparazione e base l’uno, costruzione e conclusione l’altro.
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vinto che il problema primo e originale fosse di accertare l’analisi dei fondamenti economici delle forze che sarebbero diventate effettive protagoniste nell’età comunale per non concentrare le sue energie su questo tema: il problema della ricognizione della ricchezza fondiaria, e dei suoi detentori, nel momento in cui si avviava la costituzione del Comune e la nuova società cittadina veniva consolidandosi nelle sue istituzioni (il monastero di Polirone, il vescovato, le maggiori chiese, in cui essa trovava la sua base economica e politica). «Protagonisti di questa storia non sono i gruppi sociali, ma le vicende dell’evoluzione delle proprietà fondiaria, che pertanto deve essere riconosciuta con la maggiore esattezza possibile». La “storia del Comune cittadino”, come ben sottolinea Ovidio Capitani, si muta immediatamente in storia della proprietà fondiaria. Ma non però, come Capitani sembra ritenere, risolvendosi poi in una storia agraria volta un po’ genericamente alla raccolta di nuovi materiali, a illuminare “lo sfondo economico” da cui potranno svilupparsi successivi approfondimenti, o da cui potrà nascere una storia politica e sociale. All’illustre storico bolognese «la storia del Torelli appare oggettivamente come una sistemazione di dati ad impianto polidirezionale di unica ricchezza, sistemazione tanto più pregevole quanto più puntigliosamente essa appare ordinata rispetto al magmatico impressionismo insito in certe tesi degli storici – tedeschi e italiani – degli inizi del secolo. Volpe compreso»40. Un’impressione di “sistemazione puntigliosamente ordinata”, di minuzioso scrupolo erudito, che appare condivisa anche da Vito Fumagalli: Dai primi anni del secolo ad allora – alla pubblicazione cioè del primo volume del Torelli – non v’è altro saggio così sistematicamente impegnato ad accostarsi agli aspetti più materiali delle vicende della terra, paragonabile ad esso per mole dei dati raccolti e la pazienza dell’analisi […] siamo quasi di fronte all’insorgenza della vecchissima erudizione locale41.
In realtà, come si è cercato di dire, con la sua “storia agraria” – al di là della storia delle coltivazioni, o dell’incolto, o dell’economia rurale, al di là della storia stessa dell’età comunale – il Torelli intendeva affrontare un problema più generale, che appunto la documentazione dei secoli XI-XIII Prima la storia della distribuzione della proprietà, con tutti i suoi riflessi tecnico-economici e giuridici; poi, come fenomeno connesso e spiegato dal precedente, la storia degli uomini e delle classi al potere e in lotta per il potere», Torelli, Un comune cittadino cit., II, p. VII. 40 Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli cit., pp. 37-38. 41 V. Fumagalli, Le campagne medievali dell’Italia del Nord e del Centro nella storiografia del nostro secolo sino agli anni ’50, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadi-
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squadernava e squaderna con chiara evidenza davanti agli occhi del ricercatore: la pluralità delle forme di proprietà e di possesso, e il loro intrecciarsi in una grande varietà di rapporti, individuali e collettivi, nella costituzione di tutta una rete di rapporti che lo studioso mantovano sentiva e definiva innanzitutto come “giuridici”42, ma perciò stesso anche sociali e politici. Quella «ibrida fusione» di elementi feudali, livellari, enfiteutici, cui, ammette Torelli, tutti gli storici «hanno accennato sommariamente, o a proposito di aspetti, o casi speciali», si rivelava come un grosso «tema a sé, da riprendere, per la storia giuridica italiana in genere, e potrebbe darci tutto un ampio lavoro» (p. 224). Come ben rilevava Santarelli nel 1980, «resta illuminante la lezione torelliana di leggere in modo spregiudicato l’emergere dei nuovi tipi contrattuali nell’esperienza giuridica medievale: una lezione che la riflessione di questi anni sembra pienamente confermare» (il riferimento è a Paolo Grossi). «Questa attenzione acuta del Torelli per la storia delle causae contractus – prosegue Santarelli – intesa non come meccanica mutazione di strumenti obbligatori, e per ciò mutevole fra esigenze emergenti nella società e “risposte” dell’ordinamento, è confermata dalla seconda delle due lezioni tenute alla Facoltà giuridica modenese […] nell’anno accademico 1929-30»43. Il problema reale per lo storico dell’esperienza giuridica è di leggere – sub specie juris e al di là delle variazioni delle contingenze di fatto – la stabilità della “diretta funzione sociale” e della “struttura economica” del rapporto, destinata come tale ad assumere una sua specifica rilevanza obbligatoria. Su quanto la prospettiva dell’autore fosse ispirata ai «canoni del materialismo storico», quanto all’esigenza «di un certo apparato indispensabile na, cur. V. Fumagalli - G. Rossetti, Bologna 1989, pp. 15-31: 23-24. L’A. sottolinea nell’opera del Torelli «la tradizionale rievocazione della ripresa agricola posteriore all’anno Mille»; e conclude che «il giudizio di immobilismo relativo ai secoli altomedievali non è superato, è solo articolato e disciplinato dalla raccolta di dati […], senza condurre a una serena valutazione di un’economia diversa, quella silvo-pastorale». 42 Non senza malizia, credo, a proposito del trasformarsi del diritto del concessionario in un vero e proprio diritto reale, Torelli chiosava (rivendicando il significato che egli assegnava alla storia giuridica): «Questo è il fatto storico: il lettore giurista avrà notato quanti riferimenti potrebbero trovare queste mie conclusioni nelle dispute da noi ancor fresche o ancor vive sulla natura dell’enfiteusi nella sua configurazione moderna. Ma io mi accontento di osservare come i giuristi puri – non ostante qualche introduzioncina storica … liberissima – ponendo il dubbio se proprietario sia il direttario o l’utilista, in rapporto ad un momento fisso e ad una legislazione ben determinata, mostrino, in questo, un senso della storia che potremmo forse invidiare»: Un comune cittadino, p. 247. 43 Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato cit., pp. 59-60.
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in ogni modo, di stampo economicistico, più che materialistico storico» ci si può forse interrogare44. Indubbio per lui era che il “motore più vero” del processo che avrebbe portato alla costituzione del comune, e che andava ricostruito minuziosamente in tutti i suoi aspetti, era il “fenomeno economico” (cfr. ad es. p. 224). E altrettanto indubbio che quel fenomeno storico si traduceva – e si poteva cogliere chiaramente – in un fenomeno di natura giuridica: nella «capacità di un fatto economico a creare nuovi concetti giuridici»45. Se rileggiamo il Comune cittadino, noi constatiamo ad ogni passo che l’analisi del Torelli non è che un continuo illuminare – con sensibilità lucida di giurista e con attenzione di storico di rango – la storia di un ordinamento e di un’esperienza giuridica come storia di una società concreta di uomini radicati nel loro tempo e nella loro terra. Per questo è un libro che non ha perso un’oncia del suo peso pur, dopo mezzo secolo da quando comparve46.
Sta di fatto che giungere al “traguardo politico” auspicato da Capitani47, alla trattazione delle istituzioni comunali, nel loro momento organizzativo, e poi nelle forme giuridiche e istituzionalmente conclamate che avrebbero assunto, e nelle dinamiche di governi e di fazioni che le agitavano: tutto ciò parve al Torelli meno interessante. Sappiamo che il secondo volume, uscito postumo, a oltre vent’anni dalla pubblicazione del primo, non era stato portato a compimento dall’autore e fu edito per cura dell’illustre allievo Vittore Colorni, che non poté non incaricarsi di una certa opera di riordino di un materiale certo incompiuto. Ma non si avvertono modifiche, o forzature rispetto a quella che possiamo immaginare fosse l’originaria impostazione del Torelli. Dopo una introduzione su “poteri civili dei vescovi e classi dominanti agli albori del Comune”, il secondo libro prosegue in realtà, quasi specularmente, il percorso del primo. Esso raccoglie i dati utili alla ricostruzione genealogica di oltre una quarantina di famiglie che fanno parte dei consigli del comune fra la metà del secolo XII e gli inizi del successivo (pp. 75-300). Ne raccoglie a migliaia, dalle fonti più diverse: liste di magistrati, liti e atti giudiziari, cronache,
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Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli cit., p. 41. P. Torelli, Le corporazioni medievali. Il contributo collettivo nelle affittanze agricole medievali: sue funzioni economiche e sociali [1930], ora in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 519-535: 529. 46 Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato cit., p. 63. 47 Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli cit., p. 43.
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testimoniali, etc.; e vengono non di rado segnalati, dell’uno e dell’altro personaggio, i vari impegni nella vita pubblica, i legami con altre famiglie, con alcuni protagonisti della vita comunale. Ma, ancora una volta, Torelli non segue i suoi personaggi nell’arengo cittadino: né a studiare l’evolversi delle istituzioni, cui dedica poche note, né tanto meno a seguire dinamiche di divisioni, di conflitti, partigianerie, o a ricostruire quella che si potrebbe chiamare la “vita politica” del comune mantovano. Ciò che a lui preme è piuttosto di richiamare – ponendosi ora dal punto di vista delle famiglie – i rapporti che esse avevano avuto o avevano con quei grandi enti ecclesiastici che fra X e XI secolo avevano posseduto – o, per meglio dire, quasi posseduto – l’enorme ricchezza fondiaria che costituiva il fondamento materiale – e immateriale, certamente – della forza sociale e politica dei protagonisti: una ricchezza e una forza che si erano variamente distribuite in gradi e misure diverse – diverse quanto diversi erano i gradi dei diritti di proprietà, di uso, di possesso, via via diverse nell’evolversi delle congiunture economiche e politiche; e che ora configuravano una nuova classe dominante, sostanzialmente emancipata, economicamente e politicamente, dai grandi domini direttari: il Vescovato, la Cattedrale, San Benedetto. Molti dei ficta erano diventati ormai semplici censi, e sovente non erano pagati; i diritti di opzione delle chiese non venivano esercitati, anche i laudemi era difficile riscuotere. Si trattava, per la maggior parte, dei grandi concessionari che Torelli aveva genericamente presentato nelle ultime pagine del primo volume, sottolineando le “figure intermedie” di coloro che alle terre tenute dal vescovo assommavano, con continui acquisti, le terre in dominio utile di piccoli concessionari, «predestinati per forza di cose a soggiacere a rovesci di fortuna che li costringevano a vendere il proprio e ad assumere altra terra nelle forme ben più pesanti della vera locazione o della mezzadria, o addirittura a lavorare l’altrui come giornalieri» (p. 293). Essi acquistavano dozzine e dozzine di piccoli appezzamenti – quel fenomeno di progressivo frazionamento che il Torelli aveva così puntigliosamente ricostruito, attraverso il confronto delle centinaia di atti che si riferivano alle medesime parcelle – e ricomponevano poi a livello di conduzione possessioni di centinaia e centinaia di ettari. «Con un così saldo appoggio economico nelle già ricche campagne dell’oltre Po non è difficile capire come s’aprisse [a questi ricchi imprenditori agricoli] l’arringo della vita pubblica di un comune cittadino, che trova forse la più forte ragione del suo sviluppo negli inurbamenti dei ricchi del contado» (pp. 294-295). Questo fattore di crescita non era solo di Mantova, come in pochi anni la ricerca avrebbe dimostrato. Ma ciò che qui preme sottolineare è che, se pure «l’arringo della vita pubblica del comune cittadino» con-
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tinuava ad apparire al Torelli lo sbocco finale, l’esito che dava un significato profondo e generale al processo che egli aveva studiato, pure, giunto a quella soglia, il suo interesse – di giurista privatista, direbbe Santarelli – veniva meno. Colorni, nella premessa al secondo volume sottolineava che i due volumi erano concepiti come un tutto unico: preparazione e base l’uno e conclusione l’altro. Prima la storia della distribuzione della proprietà, con tutti i suoi riflessi tecnico economici e giuridici; poi, come fenomeno connesso e spiegato dal precedente, la storia degli uomini e delle classi al potere e in lotta per il potere. Una concezione salda e chiara dal punto di vista storiografico ed esposta altrettanto limpidamente, pur fra le aspre difficoltà inerenti alla ricerca di una sintesi tanto intensamente materiata di elementi analitici (II, p. VII).
Ma la dinamica delle classi dominanti del comune, la storia degli uomini e delle classi al potere e in lotta per il potere, vennero in realtà pretermesse. Del resto, già alla fine del primo volume, egli preavvertiva il lettore del suo scarso interesse per i conflitti urbani: «Pazienza: se qualcuno vorrà dirmi che almeno per ora non si vede – ed assicuro che non si vedrà troppo neanche poi – qualche bell’episodio di vendetta contro le vicine città, o d’amore o di odio fra cittadini di parti avverse, io potrò in ogni modo rispondere ricordando ancora una volta – purtroppo senza umiltà – che studio e scrivo per la conoscenza di qualche elemento vitale della storia d’Italia» (p. VII). 7. Una eredità poco condivisa Questi campi di indagine cari al Torelli – la natura della proprietà fondiaria, la storia della proprietà fondiaria e della sua distribuzione – non attirarono però fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta l’attenzione degli storici, e nemmeno degli storici del diritto. Solo nel dopoguerra, a partire dagli anni Cinquanta, un nuovo impulso (non troppo dissimile forse da quello che tanti decenni prima aveva orientato nelle sue ricerche un vecchio storico “socialista”) si manifestò in una giovane generazione di studiosi di orientamento marxista, o vagamente marxista, che vollero identificare nello studio della evoluzione della distribuzione della proprietà fondiaria, lungo la storia d’Italia, la chiave per intendere l’articolarsi e la natura delle classi che avevano operato nella storia della penisola. Erano quasi tutti storici dell’età moderna, e molti fra essi si gettarono sulle fonti catastali: quelle fonti che sinteticamente e glo-
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balmente – una straordinaria scorciatoia rispetto al certosino lavoro di ricerca di singoli documenti, e di ricomposizione di tante minuziose ‘tabelle’, compiuto dal Torelli – offrivano il quadro della distribuzione della proprietà in una provincia, o in uno stato. Fra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta non pochi giovani modernisti – da Villani e Villari a Mirri, da Berengo a Vivanti, a Giorgetti, da Dal Pane e dai suoi allievi sino a Romani e ai suoi allievi: cito senza pretese di completezza, e senz’ordine – videro nella storia agraria e, più precisamente, nei catasti, un campo di indagine importante, che divenne in qualche modo connotativo del lavoro, se non di tutta una generazione, certamente di una porzione consistente e molto significativa di essa, e di una intera stagione storiografica. Storia dell’agricoltura, e storia della distribuzione del possesso fondiario, vennero considerate, ancora una volta, come una sorta di premessa per una storia complessiva della società, da comprendere in una «visione generale», «come un tutto», o «come un insieme»48. Si faceva storia agraria senza che ancora la storia agraria rivendicasse un suo proprio statuto, senza nemmeno che esistesse come disciplina accademica: era una storia agraria non rinchiusa in un campo di indagine proprio ed esclusivo, ma anzi ben capace di uscire da sé e dal suo specifico orizzonte disciplinare, storia agraria semplicemente come parte di una più vasta storia della società, di una “storia generale”. Minore impulso trovavano questi orientamenti nel campo della storia medievale: una disciplina largamente dominata, allora, dall’influenza di Raffaello Morghen, e dai temi che la cosiddetta “scuola romana” proponeva. E fu appunto uno studioso che proveniva dalla storia moderna e contemporanea, animato da un’ispirazione non dissimile da quella dei suoi coetanei modernisti ricordati sopra, Elio Conti, a tradurre e a proporre in un ambito medievistico quella medesima aspirazione di partenza. L’avvio fu offerto, non a caso, da un catasto, il “catasto” fiorentino, del 1427: ma il bisogno di ritrovare i contesti per i suoi dati catastali e le tappe precedenti della storia della struttura agraria lo spinsero come sappiamo a una ricerca a tutto campo, e di una grande ampiezza cronologica, sino a farlo risalire all’età comunale e precomunale. Fu allora che il Torelli di Un territorio ad economia agricola, ricomparve entro l’orizzonte delle ricerche dei medieva48 M. Mirri, La storiografia italiana del secondo dopoguerra fra revisionismo e no, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, cur. P. Macry - A. Massafra, Bologna 1994, pp. 27-102: 92. Qualche cenno in G. Chittolini, Il tema della città, in Tra Venezia e l’Europa. Gli itinerari di uno storico del Novecento: Marino Berengo (Atti delle giornate di studio su Marino Berengo storico, Venezia 17-18 gennaio 2002), Padova 2003, pp. 57-89.
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listi, seppure all’inizio solo parzialmente, come nota Capitani49, e si avviò lentamente a diventare un testo di riferimento per numerosi studiosi. In quegli anni del resto, e negli anni precedenti, fra il 1950 e il 1960, si era manifestato in vari paesi europei un rinnovato interesse per la storia dell’agricoltura, con la nascita di nuove riviste specialistiche, il moltiplicarsi degli studi50. Per l’Italia si è detto dell’interesse dei modernisti; ma anche in campo medievistico le ricerche e l’insegnamento di Violante, proprio perché orientato a una storia “globale”, e a temi prevalentemente sociali e politici, facevano spazio a temi di storia della agricoltura e della proprietà fondiaria a cui si applicarono numerosi allievi, da Fumagalli e Castagnetti a Cammarosano (mentre a Firenze cominciava ad operare Cherubini): ognuno di essi con propri orientamenti, all’interno di un orizzonte ormai diventato largamente presente, e comune. Nel 1965 la Settimana di Spoleto fu dedicata alla storia agraria51. Pochi anni dopo, la medievistica e la modernistica registrarono l’ingresso ufficiale della storia dell’agricoltura come disciplina speciale nell’ordinamento accademico italiano (una disciplina che, più di tante altre allora introdotte, dimostrò un certo spessore ed esercitò un notevole richiamo). L’accostamento alle ricerche e ai problemi che Torelli aveva affrontato era stato lento, del resto, anche da parte degli storici non italiani; non solo da parte di quelli, soprattutto tedeschi, attenti prevalentemente alle vicende politiche e sociali dell’età precomunale e comunale, da Goetz (1944) a Keller (1979), ma anche da parte di quegli storici francesi che avviarono negli anni Sessanta e Settanta, con Toubert, una fiorente corrente di studi sull’età precomunale e comunale in numerose regioni italiane e portavano seco la vocazione di Bloch e delle Annales a una storia “totale” dagli orizzonti assai ampi, e caratterizzata da una speciale attenzione al mondo rurale. Toubert stesso nelle sue ricerche, pubblicate nel 1973 – ricerche che con le problematiche sul Torelli strettamente si intrecciavano – non citava lo studioso mantovano. E fu necessario aspettare F. Menant e G. Rippe, perché il Torelli trovasse degli interlocutori più attenti ai suoi temi e provvisti di una base di studio adeguata. Una forte attenzione e un maggiore interesse sono ritornati in anni più recenti nell’ambito della storia giuridica, soprattutto per impulso, come è 49 50
Capitani, Presenza e attualità di Pietro Torelli cit., pp. 37-38. A. Grohmann, La storiografia economica relativa all’età medievale in Italia, in Due storiografie economiche a confronto: Italia e Spagna dagli anni ’60 agli anni ’80 (Atti della Tavola rotonda di Torino, 17-18 novembre 1989), cur. A. Grohmann, Milano 1991, pp. 74125: 115-123. 51 Agricoltura e mondo rurale cit.
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noto, di Paolo Grossi – una personalità di studioso, si noti per inciso, alquanto diversa da quella del Torelli, che era assai più legato a temi di storia economica; e di Grossi è superfluo ricordare l’insegnamento, sui diversi “modi” di possedere la terra, e sul ruolo che essa teneva nell’insieme del mondo del diritto. Ma non solo nell’ambito della storia “giuridica” i temi del Torelli sono tornati, poiché la necessità dell’analisi delle diverse forme di proprietà della terra è oggi largamente avvertita anche nell’ambito di ricerche di storia più propriamente economica: quando ad esempio gli storici economici, con maggior consapevolezza che in passato, si interrogano oggi su quanto di “proprietà piena”, su quanto di “diritti sulla terra” essi ritrovano per esempio nelle fonti catastali d’antico regime, o anche in una considerazione più generale della natura dei diritti di proprietà, di cui sempre più, mi pare, si sottolineano i condizionamenti, collettivi, di “altri soggetti”, nelle modalità di uso e di sfruttamento52. Un’ultima parola vorrei dire tuttavia più in generale sul Torelli. Un uomo che posso immaginarmi – come lo ricordavano i suoi allievi: Nicolini, Colorni – un po’ scontroso, burbero, anche se con atteggiamenti di grande umanità. Uno studioso che amava mettere i piedi su terreni scabrosi, come ricorda Caprioli53; uomo un po’ scontroso anche nella scrittura – alieno come era dalla ricerca di «forme troppo attraenti», pronto a reagire «contro certe pretese del nostro letteratissimo mondo, spesso amico e adulatore di maschere brillanti»54; e che con una certa rudezza, in questi termini si esprimeva ad esempio in alcune “conclusioni” o in prefazioni ai suoi libri: conclusioni e premesse che egli stesso vedeva si sarebbero potute «sopprimere», o almeno a «ingentilire». Sono scritti – non si possono citare ora per esteso – in cui egli manifestava senza eccessivo ritegno la sua scarsa considerazione per chi fosse troppo incline a generalizzare, ad esempio; o per chi scriveva libri «fatti su niente», derivati spesso dal materiale prodotto da ricerche di altri; o chi assecondava le «mode», come quella di vedere nel comune l’espressione di forze solo mercantili o artigiane; o anche quella che egli riteneva una moda recente, lo scrivere di storia agraria, che lui vedeva diffondersi proprio negli anni in cui, diceva, il suo libro l’aveva bell’e che fatto e finito.
52 M. Barbot, Gli estimi, una fonte di valore, in Ricchezza, valore, proprietà in età preindustriale, 1400-1850, cur. G. Alfani - M. Barbot, Venezia 2009, pp. 23-30. 53 Cit. in De Vergottini, Commemorazione cit. 54 Le parole sono dello stesso Torelli: applicate – in una sorta di autoidentificazione – a Luigi Schiaparelli (De Vergottini, Commemorazione cit., p. IX).
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E sono scritti in cui egli esprimeva con convinzione e con forza la sua fede di storico e di studioso. Da un lato egli presentava le sue ricerche con assoluta umiltà: con la evidentemente sincera disponibilità a rivedere e ridiscutere tutto quello che aveva fatto quando ci si trovasse di fronte a una documentazione nuova, a nuovi elementi, seppure circoscritti a quel «nostro piccolo territorio» cui, umilmente, ritornava costantemente, come a ricercare una solida base d’appoggio (p. 225). Egli intendeva i suoi lavori non «risultati, ma strumenti di indagine, o indagini soltanto preliminari», con la consapevolezza sempre vigile che altre fonti, altri documenti, potessero offrire aspetti o situazioni diverse da quelle che i “suoi” documenti gli avevano suggerito. Da qui forse la «scarsa assertività teorica» del discorso del Torelli55, un certo ritegno a enunciare in forma organica e compiuta i risultati del suo lavoro; e, di qui, forse, l’eco tutto sommato limitata delle sue ricerche, come sopra si è accennato. Dall’altro lato manifestava una quasi immodesta rivendicazione della portata del proprio lavoro, sia per quanto riguardava i risultati, anche parziali, che comunque esso avrebbe portato, sia per il senso di progresso del lavoro storico che in questo modo si realizzava: «umiltà francescana nell’indagine, minuziosa, paziente, compiuta: nessuna umiltà negli scopi». Se, studiando l’evoluzione delle forme documentarie – egli notava – noi troveremo gli elementi per sorprendere quel moto certo e continuo, se pur meno appariscente, avremo portato alla scienza un inapprezzabile contributo: se troveremo che l’umile sforzo di un notaio di portare alla pratica dell’arte sua la formula che racchiude una nuova norma che gli ha insegnato la scuola, ha vinto la comune riluttanza della vita vissuta ad ogni innovazione, noi avremo pure indicato un passo nell’umano pensiero.
E in altro luogo, a proposito della sua “mantovanità”: So molto bene che si potrà ritrovare anche in questo piccolo angolo del nostro paese “tutta la storia”; anzi io mi propongo sopratutto di saggiare e misurare alla prova di fatti locali e concreti, istituti e fenomeni d’ordine generale, o addirittura mi propongo di studiare sopratutto vitali elementi della storia d’Italia, fissati, per ragioni di serietà scientifica, in una loro determinazione locale e concreta; e ne assumo liberamente il peso e la responsabilità. Perché dei fragili facili procedimenti estensivi io non mi fido, e non credo al valore generale di fatti o norme riscontrati a Perugia e a Camerino, ed insieme e senza nesso in Val Trompia o Val Sabbia (p. VI). 55
Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli cit., p. 1.
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Quindi meglio, per ora, un ambito di ricerca circoscritto, «una base non ristrettissima […], ma che formi un sistema solo, omogeneo e compatto, e dove alla genialità pericolosa dell’indovinare possiamo sostituire la lieta umiltà di constatare per certo». «Di fronte a idee nuove di giovani o di vecchi rimessi a nuovo sento bene tutta l’inopportunità di volerli raggiungere». E gli avviene di chiudere con un guizzo che egli stesso avverte come «frase decrepita»: «io questa storia l’ho studiata sul serio!» (pp. VIVII).
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Non mancano buoni profili di Pietro Torelli, scritti anche in anni recenti, che non ripercorrerò perché l’intento non è quello di una rassegna, e la cui conoscenza preferisco dare per acquisita1. Eppure qualcosa ancora può essere detto, nei limiti di un contributo che deve fare i conti con altri interventi dedicati a Torelli storico del diritto, archivista, studioso di cronache, paleografo e diplomatista. Con un’espressione che ha avuto una certa fortuna, Severino Caprioli nel 1979 parlava di «questo enigmatico maestro di cui sperimentiamo ogni giorno la mancanza»2. In effetti viene
1
Per limitarci ai contributi monografici (perciò escludendo le recensioni a Torelli e le pagine a lui dedicate in studi di argomento più ampio), conosco e ho usato, in ordine di prima uscita: G. De Vergottini, Pietro Torelli, «Annuario dell’Università di Bologna», (1946-48), pp. 168-170; F. Calasso, Pietro Torelli, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», ser. III, 2 (1948), pp. 397-401, poi in «Annali di storia del diritto», 9 (1965), pp. 533537; G. De Vergottini, Pietro Torelli, «Rendiconto delle sessioni dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», Classe di Scienze morali, ser. V, 3 (1949-50), pp. 11-60, poi in P. Torelli, Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1959, pp. VII-XLVI, e in G. De Vergottini, Scritti di storia del diritto italiano, III, cur. G. Rossi, Milano 1977, pp. 13951430; U. Nicolini, Pietro Torelli, «Atti e memorie dell’Accademia virgiliana di Mantova», n. ser., 27 (1949), pp. V-XXX, poi in «Rivista di storia del diritto italiano», 23 (1950), pp. 229-254 e in «Rassegna degli Archivi di Stato», 28 (1968), pp. 648-671; Convegno di studi su Pietro Torelli, Mantova, 17 maggio 1980, Mantova 1981 (contributi di Eros Benedini, Giorgio Costamagna, Ugo Nicolini, Ovidio Capitani, Umberto Santarelli, Adele Bellù, Giovanni Praticò, Roberto Navarrini); O. Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 89 (1980-81), pp. 553-589, già (senza le note) in Convegno di studi cit., pp. 31-51; U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 10 (1981), pp. 221-235, già in Convegno di studi cit., pp. 53-70; R. Navarrini, Pietro Torelli archivista e M. Vaini, Pietro Torelli storico e i suoi inediti, «Postumia», 13 (2002), pp. 9-13, 15-39; I. Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli (Mantova, 1880-Mantova, 1948), «Reti Medievali Rivista», 12/2 (2011), pp. 297-306. 2 S. Caprioli, Una recensione postuma: la Glossa accursiana del Torelli, «Studi medievali», ser. III, 20 (1979), pp. 228-234: p. 234.
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da pensare che Torelli rimanga un po’ enigmatico anche perché qualcosa continua a sfuggirci della sua cultura storica e del suo rapporto con una tradizione. Vorrei fermarmi su alcuni temi utili in questa prospettiva: gli anni di formazione, fino alla pubblicazione del primo contributo a stampa di Torelli, che esce nel 1906 sull’«Archivio muratoriano» ed è dedicato alla cronaca milanese Flos Florum3; secondo tema, la questione, ineludibile per chi facesse storia nella prima metà del secolo, del giudizio da formulare rispetto alla transizione avvenuta dopo la Grande Guerra da una medievistica di taglio storico-sociale a una storiografia, peraltro assai meno medievistica, che dichiarava di agitare larghe idee e questioni importanti di storia dello spirito (per intenderci, pensiamo a quella specie di bollettino della vittoria costituito dall’articolo di Walter Maturi del 1930, La crisi della storiografia politica italiana, che salutava l’avvento di un nuovo fare storia che era «completa fusione d’individuale e universale, di pensiero e realtà, di uomini e classi dirigenti e popolo, di pensiero e sentimento e vita morale», non senza aver ricordato in esordio che l’Italia, giunta «a una svolta decisiva del suo cammino, ha bisogno di rifarsi alle sue origini prossime e non può pensare, almeno per il momento, agli interessanti cartari dei monasteri medievali»4); terza questione, che come vedremo ha un rilievo importante in Torelli, quella di una storia – lo dico ora in modo provvisorio – che non dimentichi il popolo (con un correlato politico che va ricordato subito: Torelli fu eletto senatore per il Partito socialista nell’alleanza del Fronte popolare nelle infuocate elezioni del 18 aprile 1948, e fu senatore per alcuni mesi fino alla morte, nel luglio dello stesso anno); in relazione al tema precedente e senza volontà di invadere campi specialistici, varrà anche la pena di mettere in rilievo una prospettiva particolare dalla quale è possibile guardare al tema notarile nel lavoro torelliano, una prospettiva, beninteso, legittimata dallo studioso stesso. 1. Sugli anni di formazione. Torelli, che è del 1880, si colloca sul margine estremo di quella grande generazione di storici e storici del diritto nati tra il 1870 e appunto, con qualche approssimazione, il 1880, formata da
3
P. Torelli, La cronaca milanese “Flos Florum”, «Archivio muratoriano», 1/3 (1906), pp. 89-120. 4 W. Maturi, La crisi della storiografia politica italiana, «Rivista storica italiana», 47 (1930), pp. 1-29: 28, 2 (conviene ricordare, con Maturi, che l’articolo parla di «crisi» per significare una «profonda trasformazione», p. 1). Il saggio è ripubblicato in W. Maturi, Storia e storiografia, cur. M. L. Salvadori - N. Tranfaglia, Torino 2004, pp. 81-112.
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figure che concorrono, ognuna con modi propri, al rinnovamento della medievistica italiana tra i due secoli. Per avere qualche riferimento, Salvemini, Rodolico e Solmi nascono nel 1873, Leicht e Besta sono del ’74, Volpe del ’76, Luzzatto del ’78, Melchiorre Roberti del ’79, Caggese, il più giovane della nidiata, nasce nel 1881. Per questa generazione il rapporto con i maestri si pone per più versi in termini intensi, perché da un lato i maestri sono riconosciuti come i numi tutelari e talvolta, nel caso dei più anziani, come gli iniziatori stessi di alcune discipline nell’ordinamento universitario nazionale, dall’altro lato si percepisce che la continuità non può essere lineare perché la nuova generazione si forma nel culto della scienza e di procedure che vedono nei metodi positivi un quadro di riferimento naturale; pensare al sapere, per molti giovani studiosi di storia nati negli anni Settanta, significava concepirlo in termini che si volevano scientifici. Di qui appunto un confronto costante con i maestri, di qui rivendicazioni di continuità alternate ai distinguo e a brusche rotture, nel segno di un rapporto che, come già detto, è intensamente vissuto5. Se veniamo a Torelli il quadro acquista qualche complicazione. Lo studioso mantovano si laurea a Bologna nel 1902 con Augusto Gaudenzi in Storia del diritto italiano, con una tesi intitolata Perché all’aprirsi del secolo XVI l’Italia perdesse il primato nelle scienze giuridiche, un lavoro non dato alle stampe. Si laurea nuovamente in Storia moderna nel 1906 con Pio Carlo Falletti Fossati (la storia medievale non esisteva come disciplina autonoma nell’ordinamento universitario di allora) discutendo la tesi La cronaca milanese “Flos florum”, pubblicata nello stesso anno, si accennava, nell’«Archivio muratoriano»6. Qui si aprono due diversi problemi, per il primo dei quali si può almeno ipotizzare una risposta, mentre per il secondo si dispone solo di qualche collegamento incerto. La prima domanda è se esista un rapporto fra questi lavori così diversi, qualche cosa che profili almeno una zona comune fra le due tesi di laurea. Non è una domanda di pura erudizione, perché si potrebbe arrivare a
5 Pur in una prospettiva soprattutto di storia istituzionale, è utile su questi temi M. Moretti, Appunti sulla storia della medievistica italiana fra Otto e Novecento: alcune questioni istituzionali, «Jerónimo Zurita», 82 (2007), pp. 155-174. Su maestri e allievi nella medievistica tra i due secoli si può vedere anche E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli 1990. 6 Cito i titoli nella forma registrata nell’Archivio storico dell’Università di Bologna, che fornisce anche le date delle discussioni: 10 luglio 1902 per la prima tesi, 27 giugno 1906 per la seconda (cfr. <http://www.archiviostorico.unibo.it>, Inventari d’archivio, Fascicoli degli studenti). Marino Zabbia, in questo stesso volume, prende in considerazione la possibilità di un errore di scrittura per la data della seconda tesi (1906 invece di 1905).
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vedere qualche traccia di una continuità di lavoro in questo Torelli giovanissimo. A tutta prima il rapporto sembrerebbe da escludere, stante la distanza fra gli argomenti, ma una parziale sovrapposizione esiste. Per un caso fortunato per noi, la tesi discussa con Gaudenzi fu presentata a un concorso per il premio Vittorio Emanuele presso l’Università di Bologna, conseguendo non il premio, ma una «menzione onorevole». La relazione finale, stesa da Gaudenzi stesso con data 5 gennaio 1903, fu pubblicata nell’«Annuario» dell’Ateneo bolognese ed è largamente riportata da De Vergottini nella sua bella commemorazione torelliana. Apprendiamo di qui che la parte migliore della tesi fu giudicata la seconda: «Più pregevole invece appare la seconda parte del suo lavoro; nella quale egli esamina l’opera dell’Alciato: dove con studi e osservazioni proprie egli arriva a risultati in parte nuovi»7. Studiare Andrea Alciato (o Alciati), il famoso autore degli Emblemata, significava di fatto immergersi negli ambienti della prima antiquaria e della storiografia umanistica e giuridica milanese della prima metà del Cinquecento. Conserviamo l’informazione e spostiamoci sull’articolo del 1906 dedicato alla cronaca Flos Florum, frutto della tesi con Falletti. È un contributo da manuale del metodo storico: elenco dei testimoni manoscritti (due già noti a Milano, uno a Mantova reperito da Torelli nell’archivio Gonzaga), uso della cronaca nella storiografia, proposte sull’autore e datazione. Attraverso un percorso che qui non si può riesporre nei singoli passaggi, lo studioso perviene a ritenerla compilata intorno al 1399 da materiali provenienti soprattutto da Galvano Fiamma e da Pietro Azario e ad attribuirla, sulla base di un’indicazione cinquecentesca (1529 o 1530) presente nel manoscritto mantovano, a Pietro Paolo «de Vicomercato», cioè a un esponente della famiglia milanese dei Vimercati8. Ciò che interessa qui, però, è che la storia della conoscenza di questa compilazione nei secoli successivi si presenta nell’articolo come un lungo percorso di alta competenza attraverso la storiografia umanistica milanese fra Quattro e Cinquecento, di cui Torelli mostra una conoscenza eccellente, un percorso che passa attraverso i vari Giorgio Merula, Tristano Calco, Bernardino Corio, Andrea Alciato e altri. È del tutto naturale collegare questa conoscenza al lavoro svolto per la tesi con Gaudenzi, forse poi appro-
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Cito da Annuario della Regia Università di Bologna. Anno scolastico 1902-903, Bologna 1903, pp. 47-48: 48 (si legge in <amshistorica.unibo.it>). Cfr. De Vergottini, Pietro Torelli cit., p. XIV (fra le tre edizioni dell’articolo, su cui cfr. sopra nota 1, mi riferisco a quella uscita in Torelli, Scritti cit.). 8 Torelli, La cronaca milanese “Flos Florum” cit., p. 104. Si veda in generale, sull’articolo e sulla cronaca, il contributo di M. Zabbia in questo volume. I molti passaggi dimo-
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fondito in modi che non possiamo conoscere. Per riassumere, l’importante ritrovamento del codice gonzaghesco della scrittura Flos Florum, dovuto al lavoro di archivista che Torelli svolgeva dal 1903 a Mantova con incarichi specifici riguardanti l’archivio Gonzaga9, trova posto dentro una cultura già pronta a ricostruire su un arco lungo le vicende successive di quel testo. Rimane aperta una seconda domanda, più rilevante, su quale fu in termini culturali il rapporto con i maestri Gaudenzi e Falletti. Per quanto riguarda Falletti non disponiamo di alcuna informazione, e anzi c’è motivo per pensare che, ammesso ma non provato che qualche vicinanza vi sia stata al di là della redazione della tesi in Storia moderna, fu interrotta da un distacco. A mia conoscenza Falletti non è mai ricordato negli scritti di Torelli: siamo in una situazione opposta a quella di altri suoi scolari, coetanei dello studioso mantovano, che lo rievocarono con affetto, come Niccolò Rodolico o Albano Sorbelli10. Di più, nel 1915 è pubblicata una raccolta di studi di allievi per il quarantesimo anno dell’insegnamento di Falletti, e Torelli non partecipa in alcun modo all’iniziativa11. Lascia interdetti anche che nel libro di Gaetano Gasperoni su Falletti, che esce nel 1932 e ha in appendice un elenco delle tesi seguite dal professore, non sia registrata la tesi di Torelli12. Di fronte a questi dati oggettivi altre considerazioni rischiano di essere impressionistiche. È vero che attraverso Falletti, che era allievo di Villari, Torelli poteva attingere una lontana matrice villariana e una sorta di cortocircuito che poi ritroveremo in lui tra storia e problemi contemporanei, ed è anche vero che Falletti nel suo libro sulla rivolta dei Ciompi esibisce un populismo cristiano – non teneramente Sestan lo
strativi hanno tratto in inganno De Vergottini, Pietro Torelli cit., p. XVI, che attribuisce la cronaca Flos Florum a Galvano Fiamma. 9 A. Bellù, Pietro Torelli archivista e direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, in Convegno di studi cit., pp. 71-82: 74-75. 10 Su Falletti e i suoi scolari il contributo più recente, con la bibliografia precedente, è M. Giansante, Ferruccio Papi e la scuola di Pio Carlo Falletti, in F. Papi, Romeo Pepoli e il comune di Bologna dal 1310 al 1323, Bologna 2011 (ristampa dell’ed. orig. Orte 1907), pp. 5-18. Ma ora si veda anche Giansante, Profilo di Pio Carlo Falletti (1848-1933), «Reti medievali Rivista», 14/1 (2013), pp. 549-553. 11 Studi di storia e di critica dedicati a Pio Carlo Falletti dagli scolari celebrandosi il XL anno del suo insegnamento, Bologna 1915. Torelli non è tra gli autori dei saggi e non compare neppure tra i molti «aderenti alla pubblicazione del volume» (pp. III-IV), promosso da un comitato composto da Gaetano Gasperoni, Mario Longhena, Niccolò Rodolico, Lino Sighinolfi, Albano Sorbelli (p. III). 12 G. Gasperoni, Pio Carlo Falletti. Un maestro e una scuola, Torino 1932, con elenco delle tesi alle pp. 140-146, divise in tesi «di argomento bolognese», «di argomento romagnolo», «di argomento locale e generale».
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chiamò «il veramente Pio Carlo Falletti»13 – che può avere avuto influenza su alcuni suoi discepoli (per esempio, certamente l’ebbe su Rodolico). Pensiamo, per farci una rapida idea, a questo passaggio della prefazione del volume fallettiano sui Ciompi: Oggi, come nel medio evo, i Minuti sorgono di fronte ai Grassi e ai Mediocri. [...] La quistione operaia, dopo lungo sonno si è ridestata ovunque nelle città e nelle campagne; la legge sull’ammonire, tanto oggi quanto cinque secoli fa, attira l’attenzione di molti; le classi lavoratrici, ai nostri giorni come nel 1378 prendendo le mosse dalle tristi condizioni economiche mirano, non tenendo conto delle idee più avanzate, all’uguaglianza politica. I mali, i bisogni, le nuove tendenze esistono? È inutile negarlo. Il Tumulto dei Ciompi è uno dei molti esempi, che la storia ne porge per ammaestrarci che l’uguaglianza dei doveri porta seco l’uguaglianza dei diritti, che non concedendo a tempo le riforme necessarie, il popolo si ribella e finisce per vincere; che il popolo vincitore, se non è preparato alla nuova vita, in breve sorpassa quei confini, segnati dalla natura stessa delle cose, entro cui vive la società; che queste intemperanze danno origine alla tirannia avvegnaché la libertà senza l’ordine non può sussistere. Le son cose vecchie, ma sventuratamente sempre nuove14!
Ma anche così il ruolo di Falletti non va sopravvalutato. Diverso è il caso di Gaudenzi, del quale tratta un altro contributo e su cui mi limito a dire le poche cose ora indispensabili15. Gaudenzi era uno studioso di storia del diritto di interessi disparati, vulcanici e magari un po’ indisciplinati, che andavano dalla storia della lingua alla storia dell’università di Bologna, ai dettatori e alla tradizione culturale bolognese, alla cronachistica e alle società popolari, e altri ancora16. Soprattutto poteva offrire tre cose a un giovane in cerca di riferimenti culturali: un rapporto stretto e un dialogo continuo con gli storici, dimostrato anche dalla sua dimestichezza con l’Istituto storico italiano presso cui pubblica molti lavori, tra il «Bullettino» e le Fonti per la storia d’Italia; era paleografo e diplomatista;
13 E. Sestan, Salvemini storico e maestro, [1958], in Sestan, Storiografia dell’Otto e Novecento, Firenze 1991 (Scritti vari, 3), pp. 305-344: 315. 14 C. Falletti-Fossati, Il Tumulto dei Ciompi. Studio storico-sociale, Roma 1882, pp. 1415. L’opera uscì in prima edizione a Firenze nel 1875 come Il Tumulto dei Ciompi. Studio storico. Sul contesto rimane importante E. Sestan, Echi e giudizi sul Tumulto dei Ciompi nella cronistica e nella storiografia, [1981], in Sestan, Storiografia dell’Otto e Novecento cit., pp. 183-220: 213-214. 15 Si veda in questo volume il saggio di F. Treggiari. 16 Per una prima introduzione rimando a B. Paradisi, Gli studi di storia del diritto italiano dal 1896 al 1946, [1946-47], in B. Paradisi, Apologia della storia giuridica, Bologna
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e infine fu il promotore della prima impresa di lavoro intenso in Italia sui glossatori e il loro tempo, la Bibliotheca iuridica medii aevi che esce tra 1888 e il 1901, iniziativa magari un po’ disordinata nella scelta di autori eterogenei, ma certamente una tappa importante. Proprio a questa impresa si indirizza, molto tempo dopo, un riconoscimento da parte di Torelli, non solo in rebus con il suo proprio lavoro monumentale sulla glossa di Accursio ma anche con una menzione sia pure non entusiasta di primogenitura, nel saggio La codificazione e la glossa, del 1934: «Precisamente un maestro della scuola di Bologna più di quarant’anni addietro iniziava una pubblicazione delle opere dei glossatori, con larghe intenzioni, quantunque con esito e fortuna in molta parte contrastati»; e prosegue notando che fu presto superato il tempo di iniziative personali17. Che dire? È ovvio che nella costruzione di una personalità di studioso ci sono sempre molti affluenti, ma questi affluenti non hanno tutti la stessa portata e mi pare che il ruolo di Gaudenzi nel processo di formazione meriti un certo rilievo. 2. Per affrontare il secondo punto è utile ripensare a quelle poche pagine, nervose e un po’ criptiche, che lo studioso scrisse nel 1930 come Premessa al primo volume della grande opera su Mantova, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola18. Sono pagine polemiche contro un’egemonia culturale che si constata ma non si vuole accettare. Si comincia prendendo a bersaglio la «gazzarra sulla questione delle origini [comunali]», si passa per l’attacco a una storiografia delle «linee generali che assumono frequentemente il valore della certezza anche se, frequentemente, dobbiamo credere piuttosto con fede che per ragionamento», si insiste sui «dispregi di tanta brava gente per gli storici che non credono mai d’aver materiale bastante a concludere», si professa ferma convinzione sulla «inutilità assoluta di scrivere ora, se si voglia andare avanti e non soltanto riassumere o dir meglio, una storia generale del Comune italiano». Per capirci, siamo nello stesso anno in cui Maturi pubblica l’articolo che ho citato poco fa, e siamo evidentemente dalla parte diametralmente opposta di un atteggiamento.
1973, pp. 105-172: 127-129, e alla voce Gaudenzi, Augusto, in Dizionario biografico degli Italiani, 52, Roma 1999. 17 P. Torelli, La codificazione e la Glossa: questioni e propositi, [1934], in Torelli, Scritti cit., pp. 263-278: 265. 18 P. Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, I, Distribuzione della proprietà, sviluppo agricolo, contratti agrari, Mantova 1930, pp. V-VII.
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L’acme di queste pagine di Torelli è in un riferimento a Croce, il nume tutelare della transizione storiografica dagli orizzonti economico-sociali a quelli etico-politici, chiamato non per nome ma con la trasparente metafora di un «uomo superiore, che non preferisce, in ogni modo la via delle minuzie». Dell’uomo superiore si riporta una «sentenza perfettissima» che suona così: «nei particolari, purché riferiti al loro centro, deve muoversi sempre la storiografia, la quale non conosce minuzie o minime determinazioni che le restino estranee». Le parole crociane parrebbero dunque avallare proprio quel dettagliatissimo lavoro di ricostruzione a cui lo storico si era dato con piena consapevolezza intraprendendo la ricerca sul territorio mantovano («Scrivo così senza troppa paura di riuscire minutissimo ove occorra per essere esatto»). In realtà Torelli è malizioso, perché la perfettissima sentenza, citata con lieve libertà testuale, fa parte di un discorso crociano più ampio e orientato nel suo insieme in una direzione contraria. La frase, anche se lo studioso mantovano non lo dice, proviene dalla Storia d’Italia, che era uscita nel 1928, e per capire l’intento polemico di questo usare Croce contro Croce da parte di Torelli è necessario leggere il passo per intero. Il filosofo sta parlando del trapasso, negli anni 1871-1890, da una storiografia civile legata alle idealità del Risorgimento alle bassure di un’angusta erudizione senza respiro: La storiografia politica e civile, che aveva spaziato nei grandi problemi della storia italiana e universale, come erano stati posti dal romanticismo e dall’idealismo, Pontificato e Impero, Germanesimo e Latinità, Comuni e Signorie, l’origine degli stati moderni, le lotte tra Chiesa e Stato, e simili, legandosi con questi problemi storici ai problemi pratici e attuali del moto della libertà e civiltà e dell’indipendenza dei popoli, e aveva perciò avuto efficacia morale e politica, ed era stata accompagnata dall’interessamento generale, si distaccò via via da quelli e simili temi o li continuò pigramente, e, peggio ancora, si distaccò dalla vita, e si fece cosa da eruditi e filologi, e il pubblico si distaccò da essa e non ne volle più sapere. Divenne contributo accademico, scrittura da archivî storici, monografia da presentare nei concorsi per le università e pei licei, si mosse non (come si suol dire) nei particolari, ché nei particolari deve muoversi sempre la storiografia, la quale non conosce minuzie o minime determinazioni che le restino estranee, ma nei particolari non riferiti al loro centro, e perciò disgregati e non animati, maneggiati ma non intesi, senza significato, senza interesse, che appassionavano, tutt’al più, i ricercatori stessi, nella loro caccia al documento, nella ricerca per la ricerca, e per qualche momento incuriosivano il pubblico,
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quando si atteggiavano a paradossi contro i racconti tradizionali e a rivelazioni più o meno scandalose su uomini e fatti passati19.
Non c’è dunque affatto, nel passo crociano, l’elogio di una storiografia che si qualifichi attraverso i particolari, che non sarebbe qualificazione sufficiente, appartenendo il particolare a ogni lavoro storiografico, ma in primissimo luogo la perorazione di una storiografia di significato civile e politico. Il richiamo ai particolari vale semmai a ribadire la necessità di collegarli costantemente a un centro ordinatore ideale. La selezione maliziosa di questo luogo crociano si spiega con una certa ostilità di Torelli nei confronti dell’idealismo storiografico, secondo un atteggiamento costante più volte ribadito negli anni. Nel 1914, nel saggio Un privilegio di Matilde per i Visdomini di Mantova, nota come «lo scarso interesse che i più accordano da noi a questi studi, derivi dal fatto che in generale ci si senta nati per altri entusiasmi; resta a vedere se siano entusiasmi diretti a scopi migliori»20; nel 1923, in Capitanato del popolo e vicariato imperiale dichiara di accingersi a una ricerca «fuori moda», a un’indagine sulle forme documentarie «sopportata a stento o addirittura cacciata dalle nostre scuole, ricordata con aria di dileggio da troppi di quei minores che hanno gran fretta di proclamarsi seguaci di teorie nuove e nessuna di penetrarle veramente»21; nella recensione del 1925 ai Diplomi di Ugo e di Lotario di Schiaparelli, ricorda come le ricerche di quest’ultimo uscite nell’anteguerra fossero il simbolo di una stagione felice, di una qualificata operosità che rese «tanto vivo quel breve periodo della nostra storiografia, da far dubitare che i vari giudizi datine recentemente siano, in fondo e nonostante il valore di qualcuno dei giudici, o non del tutto equi per amore di parte – scientifica, s’intende! – o senza colore per eccessivo studio d’imparzialità»22. Si potrebbe continuare con altre citazioni, ma mi fermo perché la conclusione non cambierebbe: ed è quella di una riaffermazione costante di fedeltà al complesso dei lavori medievistici prodotti a
19 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928, pp. 137-138 (in corsivo le frasi riportate da Torelli). 20 P. Torelli, Un privilegio di Matilde per i Visdomini di Mantova, [1914], in Torelli, Scritti cit., pp. 605-625: 625. 21 P. Torelli, Capitanato del popolo e vicariato imperiale come elementi costitutivi della signoria bonacolsiana, [1923], in Torelli, Scritti cit., pp. 375-480: 383, 382 (ma tutte le pp. 380-383 sono di grande interesse metodologico). 22 P. Torelli, rec. di L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 38), [1925], in Torelli, Scritti cit., pp.
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fine secolo e nel primo decennio del secolo nuovo su base storico-sociale e filologica, insomma a un insieme di ricerche che la montata idealistica metteva in discussione. Va detto ora che questo atteggiamento non si esauriva nella laudatio di una fortunata stagione che era stata sommersa dal mutare dei paradigmi. Conteneva invece una pars construens di metodo, di per sé non del tutto originale, ma significativa per la coerenza con cui veniva proposta e per il periodo in cui veniva formulata. Le punte di lancia di questa pars construens sono tre. Abbiamo in primo luogo la rivendicazione della liceità della storia locale, non in senso provinciale e appunto localistico, ma come luogo di verifica in vitro (cito dal primo volume di Un comune cittadino) di «istituti e fenomeni d’ordine generale, [...] vitali elementi della storia d’Italia, fissati, per ragioni di serietà scientifica, in una loro determinazione locale e concreta»23. Legato a questa posizione, un impegno di totalità documentaria, nella convinzione piena che non il «documentuccio singolo», come dice nel 192824, ci illumina, bensì la serie, il fondo, perché solamente la serie consente di individuare il rapporto giuridico che possiamo assumere come consueto: il «singolo documento miracolo» (di nuovo la Premessa a Un comune cittadino) dice poco se paragonato alla «massa più tranquillante dei documenti consueti e normali»25. È chiaro che ci spingiamo qui su un terreno delicato, quello della connessione fra quantità documentarie e valore di verità. In termini storiografici mi limito a dire che la riaffermazione di salda fiducia nella serialità delle testimonianze come via maestra verso il vero riporta a un apparato positivo di fine secolo, anche se Torelli non procede verso la direzione estrema, che pure alcuni praticarono tra Otto e Novecento, ovvero quella di una serialità da cui si potevano ricavare per induzione vere e proprie leggi di sviluppo storico26: di leggi storiche, salvo errore, non mi pare che Torelli parli nei suoi scritti. A questo punto, ed è la terza notazione, non stupisce che il tutto possa trovare un quadro, metaforico e certamente da non enfatizzare, nell’analogia, che rimanda anch’essa a un tipo di sensibilità che va all’indietro negli anni, con
687-696: 694. Cfr. il giusto rilievo attribuito agli scritti di Torelli su Schiaparelli da G. De Angelis, in questo volume di atti. 23 Torelli, Un comune cittadino cit. I, p. VI. 24 P. Torelli, Metodi e tendenze negli studi attuali di storia del nostro diritto, Modena 1928, p. 10. Cito dalla prima edizione, perché la ristampa del saggio in Torelli, Scritti cit., p. 15, riporta per un refuso «documentario» invece di «documentuccio». 25 Torelli, Un comune cittadino cit., I, p. VI. 26 Il dibattito sulle «leggi» storiche è un tema costante nelle discipline umanistiche tra i due secoli. Con riferimento alla medievistica cfr. alcuni spunti in: Artifoni, Salvemini e il
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le scienze esatte, come accade nel bellissimo saggio, uscito nel 1942, Tradizione romana e rinascimento degli studi di diritto nella vita pratica dei secoli XII e XIII: «le scienze dette in largo modo naturali, più procedono e più scoprono l’infinita complicazione del mondo delle cose: perché mai sarebbe semplice il mondo delle idee?»27. Quale che possa essere qui l’intensità del richiamo, la metafora scientista si inserisce abbastanza coerentemente dentro uno stile di pensiero. Introduco adesso un elemento di analisi su cui ha insistito Capitani, quello dell’influenza di Volpe su Torelli28, una giusta insistenza che può essere ulteriormente motivata. Torelli ha ben presenti soprattutto due lavori volpiani: le Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei comuni italiani (1904), circolante allora, e fino alla ripubblicazione del 1923 in Medio Evo italiano, solo sotto forma di opuscolo, di cui fa largo uso negli Studi e ricerche di diplomatica comunale; e Lambardi e Romani nelle campagne e nelle città, uscito in varie puntate nel 1904 e nel 1905 negli «Studi storici» di Crivellucci e più volte citato nell’opus magnum mantovano, dove anche, nella famosa Premessa, si ricorda tra gli esempi di importanti monografie locali un certo studio su Volterra, che è ovviamente l’omonimo volume volpiano del 192329. Si può tentare una verifica in specie assumendo come guida gli Studi e ricerche di diplomatica comunale. Gli Studi sono caratterizzati dalla capacità di far confluire lavori di provenienza diversa: tradizione giuridica italiana (Pertile, Lattes), diplomatica, storia delle procedure e storia giuridica di Medioevo cit.; E. Artifoni, Carlo Cipolla storico del medioevo: gli anni torinesi, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento, cur. G. M. Varanini, Verona 1994, pp. 3-31; per un esempio nella storia della letteratura, E. Artifoni, Storia comparata della fantasia: una nota su Graf medievista, in A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, cur. C. Allasia - W. Meliga, Milano 2002, pp. XVII-XXV. Ricco di considerazioni in merito è M. Moretti, Il giovane Salvemini fra storiografia e “scienza sociale”, «Rivista storica italiana», 104 (1992), pp. 203-245. 27 P. Torelli, Tradizione romana e rinascimento degli studi di diritto nella vita pratica dei secoli XII e XIII, [1942], in Torelli, Scritti cit., pp. 495-516: 497. Cfr. anche un passo di tenore analogo già in Torelli, Metodi e tendenze cit., p. 11 dell’ed. orig., pp. 15-16 della ristampa: «Perché i cultori di ogni altra scienza sanno bene che è vana l’ipotesi geniale, ove lo strumento può dare la prova certa, e non lo sappiamo noi, o sembriamo non saperlo soltanto noi? Nostri strumenti sono le vecchie, innumerevoli pergamene nostre». 28 Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., soprattutto pp. 556-557 nota 7, 570571 nota 29, 579, 581. 29 Torelli, Un comune cittadino cit., I, p. V: «chi ha studiato aspetti o momenti speciali della vita del Comune, chi ha scritto poniamo la storia di Firenze o di Volterra o di Bergamo o di Verona – e non proseguo per non tediare... ed anche per non esagerare – ha aggiunto qualche cosa di sostanziale; degli altri si deve forse soltanto dire che hanno vissuto o vivono, e spesso decorosamente, delle rendite avite».
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lingua tedesca (Harry Bresslau, Hermann Kantorowicz), precedenti studi italiani sull’organizzazione cancelleresca, reale o ideale, e con particolare evidenza Marzi, La cancelleria della Repubblica fiorentina (1910) e il bellissimo libro di Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati (1888), che offre un importante terzo capitolo di sintesi sulla cultura del notaio nelle città bassomedievali. Ma soprattutto, come è ben noto, il lavoro si fonda su un grande spoglio di fonti, che sono nettamente diverse tra la prima parte (1911) e la seconda (1915): nella prima, età consolare, si tratta delle raccolte di documentazione comunale allora edite; nella seconda, età podestarile, abbiamo in modo quasi esclusivo statuti e in più, con una posizione di netto rilievo, il Liber de regimine civitatum di Giovanni da Viterbo, pubblicato nel 1901 da Salvemini nella Bibliotheca di Gaudenzi. Ora, tornando a Volpe, non si può non notare che tutta la prima parte, al di là delle citazioni specifiche che si potrebbero fare, ha una salda impalcatura volpiana nella convinzione di Torelli che per buona parte dell’età consolare il comune sia un’organizzazione privata: «l’azione giurisdizionale dei comuni nascenti è azione pubblica esercitata da un ente costituzionalmente privato, in forma privata»30. In verità questa dottrina volpiana, dismessa nella medievistica dagli anni Sessanta del Novecento, non era neppure allora del tutto indiscussa, anche se certo era assai diffusa; se leggiamo, per esempio, la lunga recensione di Gerolamo Biscaro a entrambe le parti degli Studi e ricerche, uscita nel 1916, vediamo che soprattutto su questo punto si sollevano perplessità31; altro esempio, uno storico del diritto come Pier Silverio Leicht non aderì mai, anzi si distaccò esplicitamente dalla visione privatistica del primo comune32. Assumere questa posizione era dunque una scelta, nel caso di Torelli perfettamente coerente: perché serve a dare sostanza all’interpretazione che è in tutta la prima parte degli Studi e ricerche, di un’associazione comunale che si rivolge al notaio come può fare un cliente privato, che cioè si fa in qualche modo prestare dal notaio la fides publica. Come sappiamo, con uno stacco un po’ brusco fra le due parti la situa-
30 Cito dalla ristampa: P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 1980, p. 14. Il punto è stato colto bene da G. Milani, La fantasia costruirà il potere. Milani legge Bartoli Langeli, «Storica», 41-42 (2008), pp. 223-235 (rec. di A. Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006). 31 G. Biscaro, rec. di P. Torelli, Studi e ricerche cit., «Archivio storico lombardo», ser. V, 42/1 (1916), pp. 600-619: 601-605. 32 Devo rimandare a E. Artifoni, Per un profilo medievistico di Pier Silverio Leicht, di prossima pubblicazione negli atti del convegno La nazione e la scienza storica 1911-2011. Il centenario della Società storica friulana.
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zione cambia radicalmente nel secolo XIII e nell’età podestarile. Siamo dunque di fronte a un rifarsi allo storico di Pisa che non è omaggio di citazione ma si instaura in una zona strategica della ricostruzione di Torelli. D’altra parte, di là della questione privatistica, le letture volpiane di Torelli sono evidenti anche in taluni passaggi di scrittura, di chiara ispirazione volpiana nell’intreccio dei fattori, nelle scelte lessicali, nel ritmo. Come questo, dalla prima parte degli Studi e ricerche: Ma appunto nei decenni ultimi del secolo XII il comune ha preso, in tutte le esplicazioni della sua vita come in questa che andiamo studiando, una via chiara e decisa. Cosciente delle sue forze aspramente, gloriosamente provate, pensa con più tranquilla visione del domani al suo assetto interno, e raccoglie le norme slegate con che s’era retto fin qui nella più sicura compagine dello statuto. Si svolge allora e cresce con giovanile rapidità d’adattamenti e d’impulsi tutta la varia e molteplice attività dello stato e si esplica per organi nuovi, vari e molteplici: cresce, sotto, si ordina e si suddivide il lavoro, la falange innominata di quelli che ne fermano sulla pergamena gli atti via via più numerosi di amministrazione e di governo, che segnano le orme più umili e più sicure della storia33.
Oppure questo, dalla seconda parte: Seguendo, nella larga messe di documenti che gli archivi ci offrono, a volte una lenta evoluzione di forme, a volte un più rapido mutamento, riconoscendo l’intrecciarsi, il sovrapporsi di esse, l’abbandono definitivo dell’una, il ritorno di un’altra in altri luoghi o in altri momenti, noi seguiremo realmente il movimento del pensiero che apprende e foggia gli istituti della vita per cento modi più tardi o più rapidi, più netti o più complessi, per cento abbandoni e ritorni, dei quali il tipo fissato da una legge non è tanto l’espressione reale quanto l’irrigidimento di un aspetto momentaneo34.
3. Alla fine di una conferenza del 1946, ma pubblicata qualche anno dopo, Note sul tramonto dell’impero universale nel pensiero dei giuristi italiani fino al periodo di Dante, Torelli ha una specie di lampo visionario, un’accensione di scrittura che non gli è inconsueta. Certo, è giusto che a Dante si siano eretti monumenti, ma uno ancora manca: «penso ad un’altra statua di Dante poeta e cittadino del mondo, ove l’umana bufera che non resta mai spinga innanzi senza riposo, ai suoi piedi, mille piccoli uomini affannati alla conquista d’una “personalis proportio” che li migliori e li 33 34
Torelli, Studi e ricerche cit., pp. 96-97. Ibid., p. 382 (corsivo nell’originale).
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eguagli: – e a lui, fermo ed eretto nel superiore eterno impero dell’arte, agiti appena la lunga tunica»35. Questa idea (in cui risuona la bufera infernal, che mai non resta di Inf. V, 31) di una grande turba umana che lotta per ricavarsi una degna condizione dentro il vortice di una storia alla quale riesce a resistere con ostinazione, ecco, questa visione anima le convinzioni più profonde di Torelli, e già ben prima della data del 1946, che potrebbe far pensare alla possibilità di esprimersi più liberamente dopo la dittatura. Nella Premessa all’opera su Mantova (1930), il libro è presentato anche come una storia di «terre offerte od usurpate, e redente e protette dai fiumi e dal bosco, e ridotte man mano a pane ed a vino, ed amate, e da chi le amava, per un sacro diritto nato e cresciuto “in sudore vultus sui” man mano ritolte ai proprietari antichi ed estranei»36; nel 1942, nel saggio Tradizione romana e rinascimento degli studi di diritto, Torelli spezza una lancia in favore dell’esame ravvicinato delle formule documentarie, perché attraverso i lievi cambiamenti di formule attingiamo una storia «più intima, più profonda e veramente più grande». E perché non rimangano dubbi aggiunge che questa è la storia «di chi lavora sull’altrui per vivere e di chi vive e arricchisce sul lavoro altrui»37. Insomma, sembra pensare Torelli, non dimentichiamo mai che dietro un patto agrario, un canone, un’enfiteusi, una legge, è di uomini e di classi che si sta parlando e ciò che noi percepiamo è una sistemazione formale sempre provvisoria di un rapporto fra gli uomini, ed è in questo rapporto reale, di cui dobbiamo seguire le tracce, che dimora la dimensione profonda, il motore della storia. Siamo ovviamente dentro una concezione politica che sta dalla parte di chi «lavora sull’altrui per vivere», una concezione che era di Torelli e agisce in larghi tratti del suo lavoro storico. Agisce anche, lo dico per concludere e per indicare una possibile prospettiva di interpretazione, sulla sua concezione del ruolo dei notai. Il notaio aggiusta la norma e la formula per farle aderire a una situazione reale; ma non è un dottore di leggi, il notaio è la parte umile di un’intellettualità che vive nella vita vera giorno per giorno: «il notaio rilegge, volgarizza e spiega, cioè insegna fuori di scuola, in piazza, nel mondo di chi vende e di chi compera, [...] cioè nel mondo reale, scarso di cultura e di ideali, spesso non bello, ma vivo»38. Sono parole del 1942, ma non sono
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P. Torelli, Note sul tramonto dell’impero universale nel pensiero dei giuristi italiani fino al periodo di Dante, [1950], in Torelli, Scritti cit., pp. 349-374: 373-374. 36 Torelli, Un comune cittadino cit., p. VII. 37 Torelli, Tradizione romana cit., p. 514. 38 Ibid.
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distanti dalla significativa conclusione, più di venticinque anni prima, della seconda parte degli Studi e ricerche di diplomatica comunale, sul notaio come l’uomo dell’innovazione, colui che sa racchiudere in parole un progresso, diciamo pure un intellettuale mediatore39; e il rinascimento bassomedievale, che è progresso nelle condizioni di vita, lo vede protagonista. Il saggio del 1942 riprende dunque un tema antico, ribadisce un’idea nobile e progressiva del ruolo notarile, e allora sarà giusto chiudere con un’ultima, bella citazione proprio da Tradizione romana e rinascimento degli studi di diritto: Ma in fine, cos’è il rinascimento nella vita pubblica e privata, se non il senso di un muoversi più libero che deriva dalla nuova coscienza dei diritti di ciascuno e della possibilità di difenderli? L’elevazione delle classi inferiori è sopratutto in questo, e l’opera del notaio-maestro che anche ai minores avrà pur detto: «se questa terra non è tua non potrai tuttavia esserne cacciato fin che pagherai il canone», oppure: «il canone che tu paghi non può essere elevato perché contrattualmente fissato per sempre», l’opera del notaio che insegnava queste umili cose, ha indubbiamente contribuito al miracolo40.
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Torelli, Studi e ricerche cit., p. 382: «se troveremo che l’umile sforzo di un notaio di portare nella pratica dell’arte sua la formula che racchiude una nuova norma che gli ha insegnata la scuola, ha vinto la comune riluttanza della vita vissuta ad ogni innovazione, noi avremo pure indicato un passo dell’umano pensiero». 40 Torelli, Tradizione romana cit., p. 515.
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FERDINANDO TREGGIARI BREVE PROFILO DI PIETRO TORELLI SCRITTORE DI STORIA DEL DIRITTO
1.
«Chi da lontano si accosta a Torelli ed acquista familiarità con lui, presto lo scorge come un uomo di programmi vasti, oltre che di esecuzione minuziosa, ostinata. E vede le sue pagine, sorvegliate come poche altre (fino all’abnegazione), percorse da una vena programmatica rara: polemica aspra verso ogni tradizione storiografica era per lui apertura di una prospettiva, progetto di lavoro».
Cito queste parole, mai pubblicate, che Severino Caprioli scrisse per aprire un seminario su problemi di esegesi accursiana e preaccursiana da lui organizzato nel 1980, a cento anni dalla nascita di Torelli1, per ribadire il torto che si farebbe allo studioso mantovano volendo distinguere all’interno della sua opera vocazioni e linee di ricerca, che separate non possono stare. Il giudizio su Torelli editore di testi non può scindersi dal giudizio su Torelli scrittore di storia e tanto meno lo studioso di storia comunale può separarsi dallo storico del diritto, a meno di non convenire prima su cosa sia edizione di testi, storia comunale, storia del diritto. L’ecdotica praticata da Torelli nel decennio che assorbì l’impresa dell’edizione critica della Glossa accursiana (1928-1938) è tutt’uno con la storiografia da lui compiuta sulla sua Mantova (il primo volume di Un comune cittadino in territorio ad economia agricola apparve nel 1930 e si collocava dunque nel corso del lavoro accursiano) ed è tutt’uno con la sua visione e la sua «ostinata» analisi del fenomeno giuridico. C’è tenace unità di metodo nella sua ricerca; ma c’è anche unità di tempo e di contesto, se i nuovi propositi di studio gli sopravvenivano quando quelli in corso non erano stati ancora conclusi: ma, per esserlo, avrebbero dovuto appunto far largo ai nuovi. 1 Al seminario, tenuto a Roma presso l’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo presero parte, con Caprioli, Ovidio Capitani, Guido Rossi, Piergiorgio Peruzzi, Giovanni Gualandi e Girolamo Arnaldi.
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Se si coglie il modo in cui Torelli lavorava sulle fonti, lo spessore della sua indagine filologica e storica e la sua visione dell’esperienza del diritto, tutt’altro che limitata agli archivi o svilita nell’erudizione, si capisce che isolare una chiave di ricerca dall’altra sarebbe come operare una «vivisezione innaturale»2 del suo metodo e della sua opera, travisando l’uno e mortificando l’altra. 2. Per avvicinarmi a qualche aspetto del suo lavoro, prendo le mosse dalla prolusione modenese del 1928 su Metodi e tendenze negli studi attuali di storia del nostro diritto3. Al dibattito, che ancora in quegli anni dominava la storiografia giuridica, sui «fattori» o «elementi fondamentali» della storia giuridica italiana4, Torelli prende parte appassionatamente solo nelle prime battute del suo intervento, forse scegliendo la «strada comune e sicura» del «nuovo elemento italiano, in parte pre-romano, in parte deformazione volgare, ma indigena, di norme giuridiche romane», da rinvenire nascoste talvolta anche «sotto nomi germanici»5. Ma devia poi nettamente la sua attenzione rivolgendola al problema del metodo della ricerca storico-giuridica, coniugando la visione della storia generale e dei grandi problemi con quello che Francesco Calasso ha definito il «correttivo automatico» della sua ansia di ricerca: la «base documentaria»6. In queste pagine Torelli spiega il modo con cui lo storico deve indagare il fenomeno giuridico: misurandone l’effettività in un dato territorio e in un dato tempo, registrando la ricorrenza di regole e istituti, non lasciandosi suggestionare e deviare dall’apparenza dei nomi, che spesso tradiscono discontinuità di sostanza, regolando realtà, che ad un’indagine non superficiale si rivelano asimmetriche rispetto alle denominazioni tradizionali. «E solo se numerosi e continui, quei documenti ci riveleranno la formazione naturale e concreta dei tipi medi, chiave di volta della nostra pratica giuridica per secoli;
2 U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 10 (1981), pp. 221-235, ora in Santarelli, Ubi societas ibi ius. Scritti di storia del diritto, cur. A. Landi, I, Torino 2010, pp. 289*-309*: 289*. 3 P. Torelli, Metodi e tendenze negli studi attuali di storia del nostro diritto, Modena 1928 (= Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, [vol. IV], 34), poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano, Milano 1959, pp. 3- 21, da cui cito. 4 Su cui cfr. F. Calasso, Diritto volgare, diritti romanzi, diritto comune, in Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, pp. 209-216. 5 Torelli, Metodi e tendenze cit., pp. 8, 11. 6 F. Calasso, Pietro Torelli (1880-1948), «Rivista italiana per le scienze giuridiche», ser. III, 2 (1948), pp. 397-401, poi in Scritti di Francesco Calasso, «Annali di storia del diritto», 9 (1965), da cui cito, pp. 533-537: 534.
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medi fra l’enfiteusi [...] e la locazione, ma anche medi fra il vincolo feudale ed il puro contratto, cioè tra un istituto di diritto pubblico e uno di diritto privato; tipi che escono chiari, non dal nome che il notaio tradizionalmente vi appose, ma solo dal rapporto tra il canone o la prestazione, ed il reddito reale del fondo, provato non da uno, ma da cento, mille casi»7. Nei «tipi medi» – oltre, mi pare, il senso statistico dell’espressione e il riferimento alla costanza degli eventi giuridici, che la storiografia non può fare a meno di registrare per conoscere e attestare «la vita giuridica vera» e il «bisogno pratico del momento e del luogo» – Torelli identificava indirettamente anche quell’orizzonte della prassi giuridica, che si era venuto delineando sin dall’alto medioevo per effetto dei molteplici ibridi negoziali, frutto dello sviluppo incrociato dei diritti consuetudinari e dell’incontro dei diritti personali circolanti nella penisola: del miscuglio di leggi diverse sempre più slegate dal concetto di natio e via via sempre più accomunate, nello spirito e nella struttura, dalla riemergente tradizione giuridica latina. Dalla sua potente visuale, Calasso parlerà di “diritto romanzo”8: un diritto «non [...] circoscritto entro barriere di patrie, ma [...] comune, come per la lingua, a tutto [...] l’Occidente romanizzato»9.
7 Torelli, Metodi e tendenze cit., pp. 16, 15: «è necessario dar fuori interi fondi documentari, perché una precaria, un livello, un’enfiteusi, un affitto comune, nulla di più rappresentano che un caso singolo di ripetizione, più o meno aderente, di schemi contrattuali ben noti; ma cento precarie e cento livelli ed enfiteusi ed affitti in un territorio determinato, in un periodo di tempo determinato, ne rappresentano la vita giuridica vera, cioè il senso della necessità di queste forme contrattuali, la tendenza reale all’una od all’altra come bisogno pratico del momento e del luogo». La «massa più tranquillante dei documenti consueti e normali», e non già o solo il «singolo documento miracolo», costituirà la base del suo Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, I. Distribuzione della proprietà. Sviluppo agricolo. Contratti agrari, Mantova 1930, p. VI; e a p. 175, a proposito dei contratti con enti collettivi: «Io raccolgo quelli locali, ma dico addirittura che bisogna trovare tutti quelli che restano, che senza conferme e riconferme frequenti, estese, continuate e sicure, ogni illazione che se ne tragga, se non è addirittura illegittima è sempre pericolosa». 8 «diritto romano volgare, evolutosi sotto l’impulso delle correnti popolari come diritto romanzo»: Calasso, Diritto volgare cit., p. 232. 9 F. Calasso, Medio evo del diritto, I. Le fonti, Milano 1954, p. 262; Calasso, Diritto volgare cit., p. 225: «Sul tavolo anatomico, i diritti romanzi potranno rivelarci cose interessanti: tracce preromane […] e tracce di civiltà germanica. Ma il fatto storico non è [...] in queste tracce […]. Il fatto storico è proprio in questa spinta della vita che […] non trova né la regolamentazione di un legislatore né la guida di una dottrina […]; ma che, fra il secolo IX e il X, quando i documenti sono oramai numerosi e il loro linguaggio più ricco e tecnico e un’opera riflessa di carattere scolastico comincia a dare frutti non disprezzabili, ci pone di fronte ad una realtà immensamente istruttiva».
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Di questo fenomeno, che si inverava anche nel rapporto giuridico degli uomini con la terra, dando vita all’universo prismatico dei contratti agrari – da cui prendevano forma status, rapporti personali e prassi dominicali “divise”10 – Torelli registra la complessità e l’effettività, pur nell’ingannevole permanenza delle classificazioni e nella difficoltà di riferirle a discipline giuridiche differenziate. L’analisi delle varie forme contrattuali (enfiteusi, livello, precaria, investitura), con cui nel medioevo si attuava il rapporto tra concedente e concessionari di terreni, lo conduce a constatare che «la confusione giuridica di istituti contrattuali diversi» «è conseguente ad una fusione storica in un rapporto che non è precisamente nessuno di quelli così nominati»11: «se la parola investitura conserva pur sempre il suo significato di atto dell’investente, [...] nei nostri esempi ed in cento altri diventa anche il nome di un vero e proprio tipo di diritto reale, che nel dettato dei documenti si è sostituito anche materialmente al posto di nomi di altri diritti simili – feudo, livello, enfiteusi – perché non risponde precisamente a nessuno di essi»12. Le trasformazioni e le reciproche contaminazioni, cui la pratica contrattuale ha assoggettato gli istituti giuridici del passato, hanno lasciato sul terreno «detriti», che, fusi tra loro, hanno costituito gli «elementi formativi del nuovo rapporto»13. Convenendo vedere «quello che l’istituto è piuttosto che quello che non è più», a venire in luce, di questo nuovo rapporto, è soprattutto il fenomeno dell’alienabilità dei diritti di godimento, «l’accentuarsi delle effettive alienazioni del diritto del conduttore»14, che attesta l’avvenuto «distacco dei due dominii, diretto ed 10 Cfr. P. Torelli, Lezioni di storia del diritto italiano. Diritto privato. La proprietà, Milano 1948, pp. 38 ss. In tema cfr. G. Astuti, Aspetti del regime giuridico medievale della proprietà fondiaria e dei contratti agrari, in Atti del Convegno nazionale di diritto agrario (Firenze, 22-24 ottobre 1955), Milano 1958, pp. 65-82, poi in Astuti, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, cur. G. Diurni, II, Napoli 1984, pp. 1175-1194; P. Grossi, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale, Milano 1968; G. Diurni, Le situazioni possessorie nel Medioevo. Età longobardo-franca, Milano 1988 (su Torelli v. pp. 63 s.; la citazione di nota 45 è però da riferirsi alle Lezioni...La proprietà cit., pp. 41 ss.); E. Conte, Vetustas. Prescrizione acquisitiva e possesso dei diritti nel Medioevo, in E. Conte - V. Mannino - P.M. Vecchi, Uso, tempo, possesso dei diritti. Una ricerca storica e di diritto positivo, Torino 1999, pp. 70 ss.; Conte, Gewere, vestitura, spolium: un’ipotesi di interpretazione, in Der Einfluß der Kanonistik auf die Europäische Rechtskultur, I. Der Einfluß der Kanonistik auf das Bürgerliche Recht, cur. O. Condorelli - F. Roumy - M. Schmoeckel, Köln 2009, pp. 169-191; Conte, Diritto comune, Bologna 2009, pp. 89 ss.; E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2000, pp. 194-201. 11 Torelli, Un comune cittadino cit., pp. 237, 244. 12 Ibid., p. 245; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., p. 58. 13 Ibid., pp. 239, 240. 14 Ibid., pp. 240 s.
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utile», togliendo al diritto dell’investito il carattere di ius in re aliena ed elevandolo ad «un vero tipo di proprietà»15. L’alienabilità del dominium utile verrà in seguito accolta e disciplinata dalla legislazione statutaria e sarà ben presente ai glossatori, i quali si sforzeranno, però, «di far dire al diritto romano quello che non diceva», nel tentativo di far rientrare il nuovo fenomeno in categorie alle quali esso è invece «irriducibile»16. E bisogna confessare – aggiunge Torelli – «che noi conosciamo molto meglio questi sforzi che non quel fenomeno» e continuiamo «lo sforzo dei glossatori, costringendo vecchie parole a significare quello che non possono, ed insistendo a chiamare enfiteusi o precaria o livello un contratto che non ha scopo, o scopo principale, di miglioramento dei terreni, che può applicarsi a terre estesissime come a poche tavole di orto, e a case come a beni rustici, che nasce da un atto analogo all’investitura feudale e, come quella, non ha di regola termine fisso o scadenza, ma s’intende perpetuo, che comporta canoni parziari o in derrate a quantità fissa o in danaro, non solo, ma così canoni insignificanti come fitti perfettamente congrui e rispondenti al valore reale dei beni ceduti; un contratto in fine dove si stacca così profondamente il dominio utile da quello diretto, che la volontà del titolare di quest’ultimo non ha più nulla a che vedere con la sorte del primo, dove quindi il termine di 29 anni imposto al vecchio livello per evitare la prescrizione a danno del concedente, e che del livello da molti si ritiene la caratteristica normale, giuridicamente non ha più senso perché non si può estinguere per prescrizione un diritto che s’è perduto già al momento ed in forza della stipulazione del contratto»17.
Sono invece i documenti – da studiare limitatamente a «determinati luoghi e momenti, [...] per cogliere, in quanto ci sia possibile, l’aspetto della realtà nei rapporti giuridici»18 – a dirci spesso «le cose come sono»19. Sono i documenti a far emergere dalle investiture a fitto del XII-XIII secolo il nettissimo favore consuetudinario per il dominio utile: sia per la facoltà, riconosciuta all’investito, di «vendere» il proprio diritto di godimento20, sia per l’uso di garantire non solo agli eredi diretti, ma anche ai collaterali degli investiti la successione mortis causa nel contratto, a scapito del dirit-
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Ibid., pp. 246, 291; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., p. 46. Torelli, Un comune cittadino cit., p. 242; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., pp. 45-49. Torelli, Un comune cittadino cit., p. 243; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., pp. 56-57. Ibid., p. 51. Torelli, Un comune cittadino cit., p. 246 nota 2. Ibid.; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., p. 58.
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to di prelazione del dominus investente. Questi usi precedono di oltre un secolo e mezzo la legislazione locale, che li riceverà, come pure l’elaborazione dottrinale, che dalla «contorsione» dei testi giustinianei dedurrà, con Bartolo, l’obbligo del proprietario di rinnovare l’enfiteusi a favore del più vicino parente dell’ultimo concessionario21. Usi, che Torelli riconduce al tessuto socio-economico dell’epoca: al tenace vincolo familiare dell’ambiente agricolo mantovano e al regime di comunione che caratterizzava la conduzione delle sue terre22. 3. Su questa scia, l’attenzione per la storia delle causae contractus, ricostruita come sopravvivenza formale di strumentari contrattuali risalenti, ma piegati a corrispondere ad esigenze sociali nuove, gli faceva «sembrare – ma solo sembrare – il medioevo tutto un mosaico di vecchi pezzi acconciati a nuovo uso», come si legge nelle sue lezioni modenesi dell’a.a. 192930, dedicate a Il contratto collettivo nelle affittanze agricole medievali23. A proposito di queste pagine – e del «Corso di diritto sindacale e corporativo e legislazione del lavoro», a cui quelle lezioni appartenevano –, non è inutile ricordare che il 21 aprile del 1927 era stata approvata in Italia la Carta del Lavoro, che affidava alle Corporazioni «l’organizzazione unitaria della produzione»24 e il superamento dei conflitti di classe «nell’interesse supremo della Nazione»25 e che ancora un anno prima, il 3 aprile del 1926, era stata varata la legge n. 563 sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, strumento contrattuale che il fascismo aveva legificato attingen21 Torelli, Un comune cittadino cit., p. 160; Torelli, Lezioni...La proprietà cit., pp. 4950. Per la dottrina bartoliana della pluralità dei dominia basti il rinvio ad una lettura torelliana: E. Meynial, Notes sur la formation de la théorie du domaine divise (domaine direct et domaine utile) du XIIe au XIVe siècle dans les romanistes. Étude de dogmatique juridique, in Mélanges Fitting, II, Montpellier 1908 [rist. anast. Aalen-Frankfurt/Main 1969], pp. 409461 (442 ss.) e a G. Rossi, «Duplex est usufructus». Ricerche sulla natura dell’usufrutto nel diritto comune, I. Dai Glossatori a Bartolo, Padova 1996, pp. 359 ss. Pare invece riguardare Vincenzo Simoncelli il riferimento di Torelli ai «giuristi puri», i quali, «non ostante qualche introduzioncina storica ...liberissima, ponendo il dubbio se proprietario sia il direttario o l’utilista, in rapporto ad un momento fisso e ad una legislazione ben determinata», mostrano «un senso della storia che potremmo forse invidiare»: cfr. V. Simoncelli, Dell’enfiteusi, I, Napoli-Torino 19222, pp. 119-169 e 425. 22 Torelli, Un comune cittadino cit., pp. 155 ss., 234 ss. 23 P. Torelli, Le corporazioni medievali. Il contratto collettivo nelle affittanze agricole medievali: sue funzioni economiche e sociali [1930], in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 519-535: 527. 24 Per il testo della Carta cfr. A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965 (rist. Torino 1974), pp. 477-481. 25 Gran Consiglio del Fascismo, 7 gennaio 1927, cit. in Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario cit., p. 141.
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do inconfessatamente alle soluzioni già congegnate all’inizio del secolo dalla vivace e provvida giurisprudenza «empirica» dei collegi probivirali dell’industria26, tutt’altro che ispirandosi alla collaborazione di classe e all’armonia tra i vari fattori della produzione. Nella calda convalescenza di quegli eventi, le lezioni modenesi del 192930, in cui viene evocata non già la conciliazione degli interessi contrapposti, bensì (per due volte) la «lotta concreta, giornaliera degli uomini per la conquista d’un assetto economico e giuridico rispondente alla necessità concreta e giornaliera»27, mettevano in luce il passaggio, nelle terre rivierasche del Po, dal feudo di abitanza alle investiture di terre collettive pro diviso (concesse, ricorda Torelli, al prezzo di una gallina per tavola di superficie)28. Per Torelli, questa trasformazione del rapporto giuridico fondiario conseguiva alle mutate esigenze della comunità, che agli originari scopi militari di difesa armata del luogo contro le incursioni degli Ungari e dei Saraceni (quando le terre venivano concesse in uso col vincolo di conciare il castro e custodirlo)29 aveva sostituito quelli sociali ed economici di arginatura del fiume30, svuotando il feudo di abitanza del suo originario contenuto31 e promuovendo contratti stipulati fra enti collettivi (il monastero e il rispettivo Comune) elevati a contratti-tipo, «obbligatori in quella determinata forma e con quegli estremi determinati, per chiunque intenda assumere la conduzione di quelle certe terre»32. Sicché, conclude Torelli, «il precedente medievale del contratto collettivo, nel suo netto senso odierno, è certo»33. Alla ricerca delle «formazioni medie» (del «fatto normale») dei rapporti giuridici privati, impiegando gli strumenti delle «vecchie innumerevoli pergamene nostre, scritte non per la storia ma per le necessità della vita 26 Un furto, non un parto, di regime: cfr. S. Caprioli, Questioni di paternità, «Lavoro e diritto», 9 (1995), pp. 385-404. 27 Torelli, Le corporazioni medievali cit., pp. 525-527; l’osservazione è di Santarelli, Pietro Torelli cit., p. 226 (= 294*). 28 Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 530; Torelli, Un comune cittadino cit., p. 188. 29 Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 526. 30 «grandi concessioni di terre a tenue censo perché si facessero, si compissero, si difendessero gli argini»: ibid., p. 529; Torelli, Un comune cittadino cit., pp. 108 ss., 184, 195 («il colore feudale è rimasto, ma sotto si è formata man mano la figura prevalentemente civile d’un nuovo contratto»). 31 Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 530: «poiché il medio evo non crede e non vuole far nulla di nuovo, come già contro i barbari invasori, si adatta ora alla funzione nuova il vecchio tipo di abitanza, che fondeva l’antica forma del livello con quella del feudo»; Torelli, Un comune cittadino cit., p. 187. 32 Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 532; Torelli, Un comune cittadino cit., pp. 196-201. 33 Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 533; Torelli, Un comune cittadino cit., p. 174.
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d’ogni giorno, e proprio per questo prove insospettabili della storia vera»34; alla ricerca, dunque, sotto la patina delle parole, dei dati più ricorrenti dell’esperienza viva degli uomini, Torelli ricostruiva solidi frammenti dell’esperienza giuridica medievale. Pochi anni dopo, Emilio Betti35 avrebbe applicato un analogo metodo di indagine all’analisi dell’esperienza giuridica romana, sottolineando il ruolo centrale svolto dall’autonomia privata, che nel persistente impiego della veste dei negozi tipici e nel formale rispetto delle rispettive cause, ne deviava continuamente l’applicazione verso nuovi e diversi scopi sociali. Betti definirà il fenomeno come «riproduzione imitativa di negozi preesistenti», che le parti del rapporto utilizzavano rispettandone la struttura esteriore, ma piegandoli a nuove funzioni; una prassi che, alla lunga, provocava l’atrofizzazione degli elementi negoziali incompatibili con la nuova funzione e l’evoluzione del negozio, così deformato, verso una nuova tipicità, adatta al suo nuovo uso sociale. In analogo modo Torelli, studiando le antiche affittanze agricole del nord Italia e osservando la trasformazione dei contratti di conduzione della terra in funzione dei mutevoli scopi della concessione, individua nel contratto stipulato tra il monastero e il Comune uno schema di condizioni generali con funzioni di contratto-tipo, cui tutti quelli individuali erano chiamati a conformarsi; facendo emergere, sotto la costanza dei nomi, la sostanza dei rapporti o, a dir meglio, la «cultura reale, efficiente, pratica» del diritto36. L’indice sensibile di queste dinamiche di forma e di sostanza dei rapporti tra privati non poteva che essere il diritto. Torelli si era laureato in giurisprudenza a Bologna nel 1902 con una tesi in storia del diritto italiano; quattro anni dopo aveva preso la laurea in lettere e filosofia, sempre a Bologna, con una tesi in storia medievale e moderna, subito pubblicata37. Dopo la seconda laurea, aveva affiancato al lavoro presso l’Archivio di Stato di Mantova la libera docenza di paleografia e diplomatica a Bologna. Vinta nel 1926 la cattedra universitaria a Modena, dopo vent’anni di vita d’archivio e dopo numerose edizioni di regesti e codici diplomatici, aveva scelto di insegnare la storia del diritto italiano: di essere giurista tra giuristi, «per capire davvero, per avanzare davvero», come egli scrisse nel 1928
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Torelli, Metodi e tendenze cit., pp. 15-16. E. Betti, Diritto romano, I, Padova 1935, pp. 279 ss. Torelli, Le corporazioni medievali cit., p. 525. Cfr. G. De Vergottini, Pietro Torelli [1950], in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. XIV ss.; U. Nicolini, Pietro Torelli, «Rivista di storia del diritto italiano», 23 (1950), pp. 229-251: 229 ss.
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recensendo il lavoro di altri, ma in una chiave che, come ha suggerito Calasso, potrebbe intendersi anche autobiografica38. Se la storia ha fame di documenti inediti e se, per la bontà dei suoi risultati, ha necessità di concentrarsi su tempi e spazi definiti, ecco spiegata la sua predilezione per il problema delle origini e della storia del comune: indagato prima negli Studi e ricerche di diplomatica comunale (1911), con quella significativa aggiunta al titolo del secondo volume (1915), esteso anche alla storia giuridica (ma gli storici del diritto italiani e i «giudici di copertine» – come li chiama Calasso – non si sarebbero quasi accorti di lui neanche in seguito)39, poi nel saggio del 1923 sul Capitanato del popolo a Mantova40, e quindi nel gran libro Un comune cittadino in territorio ad economia agricola (1930), scritto, come si legge nella prefazione, «senza eccessivo rispetto dei termini sacri tra storia politica, giuridica, agricola»41 e in cui perciò «non vi è solo la storia giuridica, ma la storia senza aggettivi e senza limitazioni»42. 4. Proseguivano intanto, e in concomitanza, le sue ricerche filologiche e di storia della giurisprudenza civilistica medievale, testimoniate dagli studi su Pillio da Medicina43 e su Guido da Suzzara44. Ed iniziava l’impresa dell’edizione critica della Glossa Accursiana, che, malgrado l’enfasi istituzionale con cui fu avviata, vedrà poi Torelli solo a prepararla ed eseguirla45. L’edizione torelliana della Glossa di Accursio aveva avuto origine da una relazione letta il 9 luglio 1928 al Direttorio nazionale del sindacato
38 Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., p. 699; Calasso, Pietro Torelli cit., p. 535. 39 Calasso, Pietro Torelli cit., p. 534. 40 P. Torelli, Capitanato del popolo e vicariato imperiale come elementi costitutivi della
signoria Bonacolsiana, «Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 14-15 (1923), pp. 73-221, poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 375-480. 41 Torelli, Un comune cittadino cit., p. VI. 42 De Vergottini, Pietro Torelli cit., p. XXXIV. 43 P. Torelli, Distinctiones di Pillio nei codici Vaticani Chigiani E VII 221 e 218, Modena 1928 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, 29); Torelli, Per un’edizione integrale delle opere di Pillio, in Rassegna per la storia dell’Università di Modena e della cultura superiore modenese, fasc. I, Modena 1929, pp. 5158; entrambi poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 215-262. 44 Documenti su Guido da Suzzara (con E.P. Vicini), in Rassegna per la storia dell’Università di Modena cit., pp. 63-89; Torelli, Sulle orme di Guido da Suzzara, in Scritti varii dedicati al Prof. Eugenio Masè-Dari nel XXX anno di insegnamento della economia politica nella R. Università di Modena (1903-1933), Modena 1935 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, 61), 1935, pp. 58-78; entrambi poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 293-348. 45 Calasso, Pietro Torelli cit., p. 536; De Vergottini, Pietro Torelli cit., pp. XXXVI ss.
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avvocati e procuratori di Bologna da Pier Silverio Leicht, che per il compimento dell’opera aveva facilmente pronosticato, conoscendo la fibra dell’editore, «vari anni di lavoro assiduo, pazientissimo e costantemente vigilato»46. La genesi del programma e la sua cornice retorica, ripercorse attraverso la lettera che nel gennaio 1941 il guardasigilli Dino Grandi inviò a Luigi Federzoni, presidente della Reale Accademia d’Italia – lettera in cui il ministro, fra l’altro, proponeva di inserire l’Accursio criticamente ricostruito da Torelli tra i monumenti da esporre ad una «Mostra del diritto» dal titolo Dalle Dodici Tavole alla Carta del Lavoro, che avrebbe dovuto essere allestita nei padiglioni dell’Esposizione Universale di Roma «dopo la guerra vittoriosa» –, sono state raccontate da Severino Caprioli molti anni fa47 e non dà conto ripeterle, se non per sottolineare, sempre con Caprioli, che il compito di ricostruire criticamente la Glossa accursiana era stato messo sulle spalle di un professore «ch’era [...] l’opposto, fatto persona, d’ogni retorica»48. La magna glossa di Accursio – l’opera che raccoglie attorno al testo legislativo di Giustiniano le glosse dei maestri della Scuola di Bologna nel secolo e mezzo di lavorìo esegetico trascorso dall’insegnamento di Irnerio – è l’apparato interpretativo che dal Duecento ha accompagnato stabilmente, nei manoscritti e poi, a partire dal 1468 (anno del primo incunabolo datato), in tutte le stampe, il corpo di leggi giustinianeo49. La sua edizione critica avrebbe dovuto mirare a restaurarne il testo genuino depurandolo dalle aggiunte e dalle modificazioni apportate nella tradizione manoscritta e in seguito riprodotte e consolidate negli incunaboli e nelle stampe quattro-cinquecentesche. Malgrado l’enormità dell’impresa, l’opera solitaria di Torelli ha dato risultati cospicui ed esemplari, ancorché limitati ad un solo segmento dell’opera accursiana50: dai primi «propositi» di edizione critica della Glossa 46 P.S. Leicht, Per una nuova edizione della Glossa accursiana (1928), rist. in Leicht, Scritti vari di storia del diritto italiano, II 1, Milano 1948, pp. 192-197: 197. 47 S. Caprioli, Satura lanx 13. Una lettera per Accursio, ovvero filologia mistica, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 8 (1979), pp. 307-316. 48 Ibid., p. 309. 49 Un aggiornato profilo di Accursio e della sua opera è tracciato ora da G. Murano in Autographa. I.1. Giuristi, giudici e notai (sec. XII-XVI med.), cur. G. Murano con la collaborazione di G. Morelli, Bologna 2012, pp. 15-21. 50 F. Calasso, Criteri e primi risultati di una palingenesia della Glossa di Accursio, in Atti del Convegno internazionale di studi accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), cur. G. Rossi, II, Milano 1968, pp. 495, 498, 500: «I risultati erano quelli che tutti ammirammo con rispetto commosso di fronte a un eroismo di lavoro che lasciava semplicemente stupefatti»; Torelli ha dato agli storici del diritto «Non propriamente una lezione di paleografia o di raf-
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al I libro delle Istituzioni di Giustiniano, presentati nel 1933 al Congresso internazionale di diritto romano51 e accompagnati da uno specimen dell’edizione provvisoria52; ai criteri di edizione illustrati l’anno dopo nel volume Per l’edizione critica della Glossa accursiana alle Istituzioni53; all’edizione della Glossa al I libro delle Istituzioni, pubblicata nel 193954 e presentata l’anno dopo all’Accademia delle scienze di Bologna con l’illustrazione di numerosi esempi del lavoro di edizione svolto55; al programma del 1942 Per la conoscenza e la pubblicazione delle glosse preaccursiane56, rinnovato nel 194457, per avviare quel piano di Corpus glossarum anteaccursianum che trent’anni prima Emil Seckel non era riuscito a realizzare e a cui Torelli contribuì negli anni successivi con la ricostruzione critica di tre importanti gruppi di glosse antiche alle Istituzioni: di Irnerio (1939), di Bulgaro (1942), di Jacopo ed Ugo (1945), mentre rimasero incompiute le sue indagini sul gruppo di glosse di Martino58.
finata critica del testo», ma «prima di tutto e soprattutto una lezione di storia del diritto […], fornendoci uno strumento di precisione per la comprensione dell’opera di Accursio come fatto storico»; la parzialità dei risultati sta nel fatto che «la esemplare fatica del Torelli copre meno di un sessantesimo dell’opera di Accursio». 51 P. Torelli, La codificazione la glossa: questioni e propositi, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano (Bologna e Roma, 17-27 aprile 1933), I, Pavia 1934, pp. 329-343, poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 265-278. 52 Accursii Florentini Glossa ad Institutiones Iustiniani imperatoris ad fidem codicum manuscriptorum curavit P. Torelli in mutinensi studio juris antec. (Collegium accursiani apparatus editioni provehendae), Specimen, Bononiae (1933). 53 «Rivista di storia del diritto italiano», 7 (1934), pp. 429-586 e Bologna 1935 (Biblioteca della Rivista di storia del diritto italiano, 11). 54 Accursii Florentini Glossa ad Institutiones Iustiniani imperatoris (liber I) ad fidem codicum manuscriptorum curavit Petrus Torelli antecessor bononiensis (Institutionum Iustiniani Augusti libri IV - Corpus iuris civilis cum glossa magna Accursii Florentini auspiciis et consilio Regiae Academiae Italicae editum), Bononiae (1939). 55 La nuova edizione della Glossa accursiana alle Istituzioni. Risultati e speranze, in «Rendiconto delle sessioni della R. Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna». Classe di scienze morali, ser. IV, 3 (1939-40), pp. 98-113, poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 279-292. 56 In «Rendiconto delle sessioni della R. Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna». Classe di scienze morali, ser. IV, 5 (1941-1942), pp. 99-105, poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 23-29. 57 Linee di massima per la pubblicazione delle glosse preaccursiane, in «Rendiconto delle sessioni della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna». Classe di scienze morali, ser. IV, 8 (1943-1944), pp. 66-77, poi in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 31-42. 58 P. Torelli, Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Nota prima: glosse d’Irnerio, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, IV, Milano 1939, pp. 229-277; Torelli, Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Nota seconda: glosse di
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Gli aspetti salienti e i non pochi meriti del metodo seguito da Torelli per l’edizione della Glossa alle Istituzioni sono stati messi in luce da Severino Caprioli nella sua recensione postuma dell’Accursio torelliano59: la scelta, considerata la ricchezza della tradizione manoscritta, di scandagliare l’apparato accursiano procedendo per sondaggi; di compiere quei sondaggi su passi della compilazione di minore interesse per i giuristi, sui quali meno probabilmente potevano essere intervenute aggiunte o modificazioni; di chiudere la collazione dei manoscritti quando, per la ripetitività delle risultanze, la probabilità di incontrare varianti si approssimava allo zero. Un argomento, quest’ultimo, stretto parente della teorizzazione torelliana dei “tipi medi”, affacciata nella prolusione modenese del 1928: la costanza come tratto degli eventi storiograficamente meritevoli di accertamento60. L’edizione della Glossa al primo libro delle Istituzioni – «fra i risultati più alti che un’ecdotica lachmanniana abbia raggiunto»61 –, distinguendo nel testo le due redazioni dell’apparato accursiano, di cui Torelli fu deciso assertore62, si arricchiva nelle note delle varianti di valore dei manoscritti più importanti, richiamando le glosse corrispondenti dei preaccursiani e riferendo le varianti portate dalla tradizione manoscritta postaccursiana e dalle prime edizioni a stampa. Obiettivo di Torelli non era solo separare il testo accursiano dalle aggiunte posteriori, ma di farlo anche rispetto ai
Bulgaro, «Rivista di storia del diritto italiano», 15 (1942), pp. 3-71; Torelli, Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Nota terza: Iacopo ed Ugo, in «Rendiconto delle sessioni della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna». Classe di scienze morali, ser. IV, 8 (194445), pp. 90-153; si leggono tutte in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 43-214. 59 S. Caprioli, Una recensione postuma: la Glossa accursiana del Torelli, «Studi medievali», ser. III, 20 (1979), pp. 228-234; Caprioli, Satura lanx 14. Le carte accursiane di Torelli, ibid., 23 (1982), pp. 289-292. 60 Caprioli, Una recensione postuma cit., p. 231 nota 9 (con rinvio sia alla prolusione del 1928 sia a pagine di Un comune cittadino): «Tenendo presente che pure una scrittura deve trattarsi come evento, almeno per ciò che è il prodotto di un’operazione, si coglie agevolmente l’unità del metodo. Se oggetto d’indagine sono gli eventi in quanto costanti, l’accertamento degli eventi è compiuto quando appaia la loro costanza»; Caprioli, La critica del testo come scienza giuridica, ovvero Ecdotica more iuridico demonstrata, «Rivista internazionale di diritto comune», 19 (2008), pp. 41-92: 52 e nota 29. 61 Caprioli, Una recensione postuma cit., p. 232. 62 G. Diurni, La glossa accursiana: stato della questione, con l’appendice «L’inedita recensione torelliana di due glosse al secondo libro delle Istituzioni» (1991), in Diurni, Il ragionevole giuridico nella storia, Torino 2008, pp. 221 s. e 229 ss.; G. Astuti, L’edizione critica della Glossa accursiana, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano cit., I, pp. 323-336, poi in Astuti, Tradizione romanistica cit., I, pp. 263-376: 268 ss.; S. Caprioli, Due schede per l’ultima glossa d’Accursio, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, IV, Perugia 1981, pp. 447-459 (= Satura lanx 21, «Quaderni catanesi di studi classici e medie-
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materiali dei suoi predecessori, in modo da poter delineare meglio i contorni della personalità scientifica e il contributo di Accursio63. Per questo motivo Torelli – che dal 1935 insegnava storia del diritto italiano a Bologna, dopo aver rifiutato l’offerta della Facoltà di lettere di Firenze di succedere alla cattedra di paleografia e diplomatica lasciata da Luigi Schiaparelli – era passato a progettare l’edizione delle glosse preaccursiane, cominciando da quelle di Irnerio e dei quattro dottori alle Istituzioni e pubblicando la serie di Note già citate, nel tentativo di individuare l’apporto prestato da singole personalità di giuristi all’apparato di Accursio64. Anche questo progetto non avrebbe trovato modo e tempo di realizzarsi. Torelli avvertiva bene la mole del programma e quanto disperante fosse la ricerca di studiosi disponibili a cimentarvisi, «di fronte a tanta gioventù turbata e distratta» (eravamo in guerra), ma anche considerando le «innegabili e note tendenze generali a gettarsi per vie più facili e più rapide»65. Chiuse la sua vita di studioso da storico del diritto privato. Degli ultimi tre anni di vita è la pubblicazione in tre volumi delle Lezioni di storia del diritto privato, uno per anno (1946, 1947, 1948) e per argomento (persone, famiglia, proprietà); volumi asciutti e chiari come un libro di scuola
vali», 5 [1983], pp. 485-497); Caprioli, Satura lanx 23. Un dubbio di Valentini e una certezza ricevuta, «La cultura», 24 (1986), pp. 359-360; P. Peruzzi, Pietro Torelli editore e la Glossa di Accursio, ibid., p. 20 (1982), pp. 366-389. 63 De Vergottini, Pietro Torelli cit., pp. XL-XLI. 64 Caprioli, Una recensione postuma cit., p. 234. Lì pure l’indicazione delle nuove prospettive di edizione critica delle glosse preaccursiane; su cui vedi almeno Caprioli, Satura lanx 5. Linee d’un programma preaccursiano, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia», n.ser., 5 (1976), pp. 19-25; Caprioli, Per uno schedario di glosse preaccursiane. Struttura e tradizione della prima esegesi giuridica bolognese, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978, pp. 75-176; premessa a S. Caprioli - V. Crescenzi G. Diurni - P. Mari, Reliquie preaccursiane. I. Duecentotredici glosse dello strato azzoniano alle Istituzioni (const. Imperatoriam - Inst. 1,6), Roma 1978; Avvertenza a Glosse preaccursiane alle Istituzioni. Strato azzoniano, Libro I, cur. S. Caprioli - V. Crescenzi - G. Diurni - P. Mari - P. Peruzzi, Roma 1984 (Fonti per la storia d’Italia, 107); Caprioli, Visite alla Pisana, in Le Pandette di Giustiniano. Storia e fortuna di un codice illustre, Firenze 1986, pp. 37-98; Caprioli, La critica del testo come scienza giuridica cit., pp. 58 ss. (a p. 91 s. l’indicazione di altri lavori). Vedi anche P. Mari, Fenomenologia dell’esegesi giuridica bolognese e problemi di critica testuale, «Rivista di storia del diritto italiano», 55 (1982), pp. 5-42; G. Diurni, La glossa accursiana cit., spec. pp. 223 ss., da leggere nel riflesso di G. Astuti, La «Glossa» accursiana, in Atti del Convegno internazionale di studi accursiani cit., pp. 289-379, poi in Astuti, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea cit., I, pp. 277-369: 310 ss. e 346 ss. 65 P. Torelli, Per la conoscenza e la pubblicazione delle glosse preaccursiane (1942), in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 28-29.
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deve essere66. L’Avvertenza al primo volume, datata febbraio 1946, si conclude con un polemico riferimento alla manualistica di storia del diritto italiano in voga in quegli anni: «Mia intenzione fondamentale e non derogabile è stata ed è quella di far lezione a studenti di legge: per questo – non per altra ragione – sconsiglio tutti i manuali consueti e la maggior parte dei consueti corsi, rivolti, evidentemente ed indistintamente, non a studiosi di discipline specifiche, ma alle così dette persone colte»67. Da una pagina di quello stesso volume, a chiusura del paragrafo dedicato alla condizione giuridica degli ebrei, si ha poi la conferma che la redazione del corso sulle persone (come fu anche per la redazione degli altri due corsi) precedette di qualche buon anno la sua pubblicazione68. Il rapido cenno finale alla norma discriminatrice della capacità giuridica, che apriva il codice civile italiano (il cui libro I era in vigore dal 1° luglio 1939; la norma in questione, il terzo comma dell’art. 1, sarebbe stata abrogata nel 1944), la lascia infatti intendere ancora in vigore: «Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze di cui all’art. 1, terzo comma, del libro I del vigente c.c. – scrive Torelli – derivano da concetti d’ordine diverso, ed esulano in ogni modo dal campo delle nostre indagini»69. «Un gioiello di nicodemismo», secondo Caprioli70; un non poter e voler dire di quell’abominio, quando era poco opportuno, ma non sarebbe stato meno dignitoso farlo71.
66 P. Torelli, Lezioni di storia del diritto italiano. Diritto privato. Le persone, Milano 1946; [...] La famiglia, Milano 1947; [...] La proprietà, Milano 1948. 67 Torelli, Lezioni...Le persone cit., [p. III]. 68 Dettagli sui programmi dei corsi universitari di Torelli negli anni fra il ’30 e il ’40 in Santarelli, Pietro Torelli cit., pp. 230-234 (= 298*-302*): l’anno del corso sulle persone potrebbe essere il 1940-41. 69 Torelli, Lezioni...Le persone cit., p. 85. L’anacronismo era evidentemente sfuggito, nel 1946, alla rilettura dell’autore prima di licenziare il testo per la stampa. 70 Cito dall’intervento introduttivo del seminario ricordato in nota 1. 71 Sull’atteggiamento dei giuristi italiani di fronte alla normativa antisemita rinvio a F. Treggiari, Questione di stato. Codice civile e discriminazione razziale in una pagina di Francesco Santoro Passarelli, in Per saturam. Studi per Severino Caprioli, cur. G. Diurni - P. Mari - F. Treggiari, Spoleto 2008, pp. 821-868: 832 ss. (anche in Il pensiero giuridico di Francesco Santoro Passarelli. Giornata di studio in memoria, cur. B. Montanari, Torino 2010, pp. 17-63: 28 ss.); Treggiari, Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigrafica, in Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano. Razza diritto esperienze, cur. G. Speciale, Bologna 2013 (Quaderni di “Historia et Ius”, 3), pp. 105-122.
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1. Il lato opaco di una lunga carriera «Nella linea di un discorso di storia della storiografia, il nome del Torelli è l’ultimo al quale venga fatto di pensare». Nel 1980, quando Ovidio Capitani le pronunciò, queste parole1 fotografavano con impietoso realismo la posizione dello studioso mantovano nella medievistica italiana ed europea e, allo stesso tempo, fornivano lo spunto per meditare sulle ragioni di una paradossale assenza2 o, quantomeno, di una insolita (ancorché «duratura») «intermittenza»3. Certamente, esse valgono ancora (e anzi molto di più, dopo che al dibattito sul Torelli comunalista altre e autorevoli voci si sono aggiunte) quando si cerchi di collocare quel «maestro enigmatico» (stavolta le parole, notissime, sono di Severino Caprioli )4 «nella linea di un discorso di storia» degli studi paleografici e diplomatisti-
1 Si recuperano da O. Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 89 (1980-1981), pp. 553-589: p. 558 nota 8. Il contributo, letto in occasione di un incontro di studio su Torelli promosso da Severino Caprioli e tenutosi presso l’Istituto medesimo, era a sua volta una «ripresa e parziale rifacimento» (con alcune integrazioni e, per l’appunto, con l’aggiunta dell’apparato di note) della relazione già presentata al Convegno di studi su Pietro Torelli nel centenario della nascita (Mantova, 17 maggio 1980) e integralmente pubblicata nei relativi Atti (Mantova 1981, pp. 33-51) con il titolo Presenza e attualità di Pietro Torelli nella medievistica contemporanea. 2 Che taluni «casi di mancato ricordo» delle ricerche e degli insegnamenti torelliani abbiano assunto contorni autenticamente paradossali è detto con chiarezza (e abbondantemente esemplificato) da Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., soprattutto pp. 555556 e 563-565. 3 I. Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli (Mantova 1880 – Mantova 1948), «Reti Medievali Rivista», 12/2 (2011), <http://rivista.retimedievali.it>, pp. 297-306: 298. 4 S. Caprioli, Una recensione postuma: la Glossa accursiana del Torelli, «Studi Medievali», ser. III, 20/1 (1979), pp. 228-234, citazione a p. 234.
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ci. Discorso difficile per vari e oggettivi motivi, come si vedrà. E tuttavia discorso che vale la pena di tentare: partendo da quell’affermazione di Capitani che indubbiamente serve ancora a segnare un punto fermo sulla mappa; provando a vedere se anche per noi sia possibile invertire la rotta, o almeno cercare qualche nuovo approdo sicuro, senza naturalmente ignorare le difficoltà del percorso. È bene precisarlo: il discorso non è mai stato neppure avviato sul terreno della paleografia ed è stato affrontato su quello della diplomatica unicamente con riguardo a un aspetto specifico della ricerca torelliana – e però senz’altro il più originale e rilevante, di cui questa raccolta di scritti (e il Convegno che ne sta alle spalle) intende celebrare i cento anni del suo geniale prodotto. Soltanto gli Studi e ricerche di diplomatica comunale5, infatti, hanno conquistato al Torelli citazioni più o meno ampie nelle rassegne storiografiche e generalizzati riconoscimenti del suo pionierismo disciplinare; benché con altrettanto frequenti avvertenze di maneggiarli con cura nella prospettiva di una complessiva ricostruzione del notariato e (soprattutto) della documentazione comunali, per via della pesante ipoteca giuridico-istituzionale che su di essi gravava. Sono aspetti fin troppo noti, su cui non è il caso di insistere: si rileggano i giudizi di Fissore6, di Pratesi7, di Puncuh8, e vi si accosti, ora, l’equilibrata lettura di Bartoli Langeli:
5 Li si legga naturalmente nell’edizione anastatica, in volume unico, curata dalla Commissione per gli studi storici sul notariato italiano: P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 1980 (Studi storici sul notariato italiano, 5). 6 G.G. Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti. I modi e le forme dell’intervento notarile nella costituzione del documento comunale, Spoleto 1977 (Biblioteca degli «Studi Medievali», 9), in particolare pp. 124-127, e Fissore, Alle origini del documento comunale: i rapporti fra i notai e l’istituzione, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento. Atti del Convegno (Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989 (= «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 29/2 [103], fasc. 3), pp. 101-128: 101 nota 2, e pp. 102-103. 7 A. Pratesi, Un secolo di diplomatica in Italia, in Un secolo di paleografia e diplomatica (1887-1986). Per il centenario dell’Istituto di paleografia dell’Università di Roma, cur. A. Petrucci - A. Pratesi, Roma 1988, pp. 81-97: 86, e A. Pratesi, La documentazione comunale, ora in A. Pratesi, Tra carte e notai. Saggi di diplomatica dal 1951 al 1991, Roma 1992 (Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, 35), pp. 49-63: 50. 8 D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia: dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congrès de la Commission internationale de diplomatique (Gand, 25-29 août 1998), cur. W. Prevenier - Th. de Hemptinne, Leuven-Apeldorn 2000 (Studies in urban, social, economic and political history of the medieval and modern Low Countries, 9), pp. 383-406: 384, 389.
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oggi l’interpretazione del documento comunale si muove essenzialmente su due linee. La prima – più nuova, tipicamente fissoriana – è l’analisi formale e testuale dei documenti, che rende riconoscibile la natura consapevole, la qualità programmatica di certe soluzioni. Più tradizionale (ma non lo era quando Torelli la impostò) è l’analisi del rapporto che si stabilisce tra comune e notai redattori e del modo in cui i comuni organizzarono e articolarono la propria documentazione. I due piani in realtà fanno un unico tema9.
Sostanzialmente ignorate al loro apparire10 e recuperate solo nel secondo dopoguerra (dal Franco Bartoloni «reduce dagli studi sul Senato romano» e poi soprattutto da Giorgio Costamagna, che nel caso genovese scovava robusti motivi per ribaltarne la tesi di fondo)11, le ricerche torelliane di diplomatica comunale, comunque giudicate, comunque impiegate, rappresentano tutt’oggi un riferimento immancabile nel settore d’indagine che esse stesse inaugurarono: basti qui accennare alla loro costante presenza nei numerosi lavori intorno ai libri iurium, che, sulla via aperta da Antonella Rovere alla fine degli anni ’80 del secolo scorso12, continuano a prodursi in gran numero e praticamente in ogni regione della vasta area comunale italiana. In una zona d’ombra restano invece, come accennato, aspetti diversi di una carriera ultra trentennale, che proprio negli archivi, fra carte e scritture di età medievale, era iniziata. Converrà dunque partire da qui, dai luoghi della formazione e delle prime esperienze professionali di Pietro Torelli: la duplice dimensione (storica ed erudita) del mestiere di paleografo che egli intenderà (e soprattutto praticherà) negli anni a venire appare delinearsi con una certa chiarezza già in quegli ambienti, sin da quelle lontane prove.
9 A. 10 I
Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, p. 108. tempi non erano «maturi», notava correttamente Puncuh, il campo degli studi essendo anche in Italia pressoché interamente dominato dalla (se non «appiattito» sulla) grande tradizione tedesca di matrice “monumentista”, centrata sulla «diplomatica papale, imperiale e regia» (Puncuh, La diplomatica cit., p. 383). 11 Ancora ibid., pp. 389-396. 12 E inaugurata davvero, è il caso di dire, nel nome di Torelli: l’appello, lanciato a suo tempo dallo storico mantovano e rimasto a lungo inascoltato, per «uno studio d’assieme dei cartulari del comune», era significativamente richiamato (e idealmente raccolto) proprio in apertura del corposo saggio della Rovere, I “libri iurium” dell’Italia comunale, in Civiltà comunale cit., pp. 157-199, che per la prima volta si proponeva di considerare «tali raccolte» come oggetto di indagine globale, «raccogliendo sotto un unico denominatore le diverse esperienze, pur senza trascurare gli elementi qualificanti e peculiari delle singole realtà cittadine». E nella messa a punto degli aspetti teorici e metodologici di una simile indagine
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2. L’Archivio, la Scuola, l’Università Da poco laureato in giurisprudenza, Torelli entra a ventitré anni nell’Archivio di Stato di Mantova, dove il direttore, Alessandro Luzio, non tarda a riconoscere in quel «giovane dotato di così larga cultura, di così ammirevole e costante laboriosità», doti non comuni nella lettura e interpretazione di segni e grafie13. Nel 1910 – si legge ancora in una relazione stesa da Luzio – il giovane studioso «è maturo per una direzione, qui o altrove, e temo solo che l’insegnamento universitario finisca per toglierlo dagli archivi: aspira infatti ad avere una cattedra di paleografia e diplomatica e, data la scarsezza di cultori di queste discipline, la stima grandissima che del Torelli hanno lo Schiaparelli, il Cipolla, il Novati, credo che la via dell’università non possa tardare ad essergli dischiusa»14. Ottenuta la libera docenza in paleografia e diplomatica nell’Università di Bologna il 27 luglio 1912, le porte dell’Accademia in effetti si aprono, ma Torelli non intende rinunciare all’archivio della sua città natale: in forza di una dispensa ministeriale vi lavora nei giorni festivi15, portando a termine inventariazione e regestazione dell’Archivio Gonzaga16, raccogliendo materiali per uno studio sugli usi cronologici nella documentazione medievale mantovana17 e dando alle stampe, per i Regesta chartarum, il primo (e unico) volume del Regesto mantovano18. «Un lavoro», scriverà Torelli nella Prefazione, «che ebbe origine dall’incarico affidatomi d’ufficio […] e che del lavoro d’ufficio, non ostante l’adozione dei metodi stabiliti dall’Istituto storico italiano, conserva in
non si poté allora (e non si potrà in seguito) che prendere le mosse dalla definizione data dal Torelli stesso dei libri iurium: «essi raccolgono le prove scritte delle ragioni formali, o giuridiche, della vita del comune, dei rapporti col di fuori, dei diritti sul territorio dipendente» (Torelli, Studi e ricerche cit., p. 183). 13 Mantova, Archivio di Stato (d’ora in avanti ASMn), Archivio Direzione, Relazioni, 1907. 14 ASMn, Archivio Direzione, Relazioni, 1910; cfr. anche A. Bellù, Pietro Torelli archivista e direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, in Convegno di Studi su Pietro Torelli cit., pp. 73-82: 76. 15 Ibid., p. 77. 16 Successivamente rielaborata in vista di una pubblicazione monografica: L’Archivio Gonzaga di Mantova, ed. P. Torelli, I, Mantova 1920, cui, nel 1922, seguirà il II volume, per le cure di Alessandro Luzio. 17 P. Torelli, La data ne’ documenti medievali mantovani. Alcuni rapporti con i territori vicini e con la natura giuridico-diplomatica del documento, «Atti e Memorie della Regia Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 2 (1909), pp. 122-182. 18 Regesto mantovano. Le carte degli Archivi Gonzaga e di Stato di Mantova e dei monasteri mantovani soppressi (Archivio di Stato di Milano), ed. P. Torelli, I, Roma 1914 (Regesta Chartarum Italiae, 12).
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gran parte la natura»19. Si badi: «in gran parte», non interamente. Vi si rispecchiava infatti una «sana e larga concezione delle funzioni dell’archivista», al quale, oltre «al più umile scopo del far trovare il documento che lo studioso o l’interessato in genere ricercano», spetta il compito di mettere a punto un sistema di regestazione che sappia rispondere «a più varie ed elevate necessità scientifiche»20. È bene tener presenti queste parole del Torelli: con la stringatezza tipica dell’uomo di cui è ben nota la ritrosia a fornire indicazioni di metodo, esse gettano fin d’ora qualche spiraglio di luce su temi che più avanti si affronteranno21. Terminata la guerra, nominato direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, Torelli riprende le sue lezioni di paleografia e diplomatica presso l’Ateneo bolognese e la Scuola annessa all’Archivio del capoluogo felsineo22; e ricomincia, a un ritmo davvero frenetico, la sua attività editoriale. Tra il 1920 e il 1925 escono, in rapida successione, L’Archivio Gonzaga di Mantova, il I volume (fino all’anno 1050) de Le carte degli Archivi reggiani23, L’Archivio capitolare della cattedrale di Mantova fino alla caduta dei Bonacolsi24, più tre importanti articoli fra cui quello sugli elementi costitutivi della signoria bonacolsiana25. Alle pubblicazioni di fonti documentarie Torelli si dedicherà anche in seguito, dopo aver vinto il concorso per una cattedra di storia del diritto italiano (che
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Ibid., p. VI. Ibid. Se certamente non l’adozione delle norme editoriali stabilite dall’Istituto storico (dalle quali, come noto, Schiaparelli apertamente si discostò, mentre Torelli vi mantenne «una tacita ma fedele adesione»), l’ampiezza di respiro della regestazione, la sua compilazione «con intento essenzialmente storico», come scrisse il biellese nella prefazione al Regesto di Camaldoli, rappresentano senz’altro elementi utili a un primo confronto fra le elaborazioni concettuali e i metodi di lavoro dei due studiosi, su cui si tornerà diffusamente più avanti. Per un ottimo inquadramento storiografico su progetti, dibattiti e criteri di pubblicazione delle fonti documentarie italiane agli inizi del Novecento si veda ora A. Olivieri, Il Corpus chartarum Italiae e i Regesta chartarum Italiae. Progetti e iniziative di collaborazione internazionale per la pubblicazione delle chartae medievali italiane al principio del Novecento. Con una appendice di lettere di e a Paul Kehr, in Contributi. IV settimana di studi medievali (Roma, 28-30 maggio 2009), cur. V. De Fraja – S. Sansone, Roma 2012 (Quaderni della Scuola nazionale di studi medievali, 4), pp. 93-131: 111. 22 Bellù, Pietro Torelli archivista e direttore cit., pp. 77-78. 23 Le carte degli Archivi reggiani fino al 1050, ed. P. Torelli, con la collaborazione di A.K. Casotti - F. Tassoni, Reggio Emilia 1921. 24 L’Archivio capitolare della cattedrale di Mantova fino alla caduta dei Bonacolsi, ed. P. Torelli, con la collaborazione di P. Girolla - J. Nicora, Verona 1924 (Pubblicazioni della R. Accademia Virgiliana di Mantova. Monumenta, 3). 25 P. Torelli, Capitanato del popolo e vicariato imperiale come elementi costitutivi della signoria bonacolsiana, «Atti e Memorie della Regia Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 14-16 (1921-1923), pp. 73-221.
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occuperà nelle sedi di Modena, Firenze, Bologna). Ma negli anni ’30 esse appaiono ormai delle parentesi fra imprese ben più impegnative (e lavori non più «d’ufficio» ma di scuola, frutto della risolutiva colloborazione dei suoi allievi – diretti e indiretti –, tra cui Giorgio Cencetti): sono del 1938 e del 1939, collocati fra la sua più importante monografia di storia politica e sociale26 e l’avvio della grande impresa di edizione della Glossa accursiana alle Istituzioni27, i volumi II e III de Le carte degli Archivi reggiani, che si arrestano bruscamente al 106628. Le attenzioni, ora, si indirizzano prevalentemente verso la dimensione dottrinale dell’esperienza giuridica, ma Torelli non diviene, fra gli storici del diritto, filologo puro29 (e però senz’altro puro lachmanniano, «con l’inevitabile connotato di meccanicità» già rilevato da Severino Caprioli)30, come in precedenza, del resto, non era stato né diplomatista né paleografo puro. Poco propenso, indubbiamente, a riconoscere (e perciò tantomeno a difendere con orgoglio) una presunta autonomia disciplinare, e senza troppi interessi per le tradizionali, minuziose ricognizioni erudite. Altro era la paleografia, altro era la diplomatica, per Pietro Torelli. Per uno studioso dotato sin da giovane, a detta del Luzio, di «una laboriosità moderna nel senso pieno della parola», e di uno sguardo ampio che gli imponeva di essere «anche o prima nettamente uno storico», come egli stesso affermerà molti
26 P. Torelli, Un Comune cittadino in territorio ad economia agricola. I. Distribuzione della proprietà, sviluppo agricolo, contratti agrari, Mantova 1930 (Pubblicazioni della Regia Accademia Virgiliana di Mantova. Miscellanea, 7). 27 Annunciata sul n. 7 (1934) della «Rivista di Storia del Diritto Italiano», pp. 429586, e proseguita (ma solo per il primo Libro) sino al 1939. Sulla pianificazione (extratorelliana) dell’opera e le sue vicende editoriali vale sempre la pena di rileggere S. Caprioli, Satura lanx 13. Una lettera per Accursio, ovvero filologia mistica, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 8 (1979), pp. 307-316. Per altri spunti si rinvia naturalmente al contributo di Ferdinando Treggiari in questo volume. 28 Cfr., rispettivamente, Le carte degli Archivi reggiani dal 1051 al 1060, ed. P. Torelli, con la collaborazione di F.S. Gatta, Reggio Emilia 1938, e Le carte degli Archivi reggiani dal 1061 al 1066, ed. P. Torelli, in collaborazione con F.S. Gatta - G. Cencetti, «Studi e documenti, periodico trimestrale della R. Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna, Sezione di Modena», 2 (1938), pp. 45-64 e 237-256, e ibid., 3 (1939), pp. 49-64, 111-126, 237-250. 29 Una critica («accusa» è il termine impiegato da Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., p. 561) che pure, inizialmente, gli era stata mossa (da Calasso e da De Vergottini, soprattutto), e che valse almeno in parte a temperare i giudizi ripetuti in più occasioni (nel 1950, 1963, 1972) da Bruno Paradisi: li si legga ora in B. Paradisi, Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 165-166, pp. 199-201, p. 373. Ancor più netta (in un «istruttivo confronto» con Federico Patetta, chiamato a rappresentare la schiera dei “filologi puri”) la posizione di U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato, in Convegno di studi su Pietro Torelli cit., pp. 55-70: 67. 30 Caprioli, Una recensione postuma cit., p. 233.
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anni più tardi a proposito di Luigi Schiaparelli. E dunque: con quali occhi guardava Torelli le scienze della scrittura e della documentazione? È appunto venuto il momento di tentare una qualche accettabile collocazione dello studioso mantovano nel quadro storiografico della paleografia e diplomatica italiane di inizio Novecento; di chiedersi più approfonditamente in che modo egli considerasse quelle discipline, che insegnò all’università e nelle scuole d’archivio per oltre trent’anni ma sulle quali, in definitiva (se si escludono quelli di diplomatica comunale), non ha lasciato lavori di originale ricerca. E in testa alle edizioni di carte prefazioni assai scarne31 e ben poche indicazioni di metodo32, in coerenza con quella sua scarsa «assertività teorica» che, sin dalla commemorazione bolognese del dicembre 1949, rimarcarono con forza gli stessi allievi (a partire da Giovanni De Vergottini)33, e su cui di recente ha richiamato l’attenzione Isabella Lazzarini34. 31 Naturalmente come riflesso di una specifica scelta culturale: «[…] sono nemico dichiarato delle lunghe prefazioni scritte per sfruttare il più possibile i documenti che dovrebbero essere il solo scopo del libro, offrendoli poi malignamente al pubblico studioso già dissanguati e spolpati. La nostra funzione in lavori come questi è funzione di accurati editori, e non sarà male aggiungere che nessuno di noi è proprio convinto di non saper fare altro». Così Torelli scriveva nella seconda delle due paginette premesse all’edizione de Le carte degli archivi reggiani (1051-1060) cit. 32 «Nulla di speciale ho da dire per il metodo di pubblicazione» – scrisse Torelli in apertura de L’Archivio capitolare della cattedrale di Mantova cit., p. XII –, «seguo quello convenuto dai maggiori istituti italiani del genere», ben consapevole, certo, che «se si volesse scendere a particolari, le questioni cento volte dibattute risorgerebbero tutte». Riteneva opportuno, nelle edizioni critiche, attenersi a «criteri di modesto buon senso», come quelli che imponevano di rinunciare alla segnalazione, con il Sic, di una o più deviazioni dalla norma ortografica e grammaticale quando queste si presentassero con assoluta ricorsività negli usi di un determinato scriba e non fosse invece possibile al lettore contemporaneo «pensare ad un errore della stampa piuttosto che del testo originale» (ibid.). E poi, accanto al buon senso, una fedele sequela della «nostra logica» (pur con tutte le incertezze che davvero coincidesse «con quella dei notai d’allora»), con, per esempio, l’uniformazione alle parole scritte per esteso di compendi e troncamenti, senza parentesi a indicare gli scioglimenti o altri espedienti a generare quel «guazzabuglio tipografico» potenzialmente derivante dai «testi che Gabotto volle per la sua Biblioteca subalpina» (ibid.: corsivi di Torelli). 33 G. De Vergottini, Pietro Torelli, «Rendiconti delle sezioni dell’Accademia delle Scienze di Bologna, Classe di Scienze morali», ser. V, 3 (1949-1950), pp. 11-60; ristampato in P. Torelli, Scritti di storia del diritto italiano, cur. G. De Vergottini - V. Colorni - U. Nicolini - G. Rossi, Milano 1959, pp. IX-XLVI, e in G. De Vergottini, Scritti di storia del diritto italiano, cur. G. Rossi, III, Milano 1977, pp. 1395-1430. De Vergottini coglieva senz’altro nel segno, giuste le parole di Capitani, allorché affermava che fosse «mancata al maestro la volontà di cercare forme attraenti per le sue opere scientifiche: tutta la commemorazione tenuta il 16 dicembre 1949 all’Accademia delle Scienze di Bologna era quasi un’esaltazione della ritrosia, della non volontà torelliana di fornire una sintesi» (Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., p. 560). 34 Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli cit., pp. 297-298.
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In mancanza di fonti organiche «di prima mano», è necessario rivolgersi altrove. Cercare nelle (poche) valutazioni offerte da altri della figura del Torelli paleografo e diplomatista. Ricomporre le frammentarie indicazioni di metodo seguendo il filo di osservazioni sparse fra le carte inedite dell’archivio personale e soprattutto alla luce di un importantissimo documento: la lettura che Torelli diede dell’opera del più grande studioso italiano di storia della scrittura e della documentazione fra Otto e Novecento, Luigi Schiaparelli. 3. «Dalla decifrazione del segno al rilievo d’un fenomeno culturale» «Non v’è dubbio che alla sua ben nota perizia paleografica e diplomatistica il Torelli aggiunge un’ampia e meditata cultura e una non troppo comune disposizione a cogliere, con precisione e nettezza di intuito, il lato giuridico dei problemi storici.» Così Francesco Ercole, relatore della commissione che il 17 febbraio 1930 approvò all’unanimità la promozione a stabile «del prof. Pietro Torelli, titolare di storia del diritto italiano della Regia Università di Modena»35. Il giudizio di Ercole ci porta sulla giusta strada? Nell’itinerario delle ricerche torelliane le discipline paleografiche andavano considerate nella loro originaria, tradizionale strumentalità? Come arsenali di saperi tecnici da cui lo storico attingeva unicamente armi ben affilate per la critica delle testimonianze scritte? In prima istanza si sarebbe tentati di rispondere affermativamente. A tanto sembra portare la lunga carriera di Torelli, per il quale paleografia e diplomatica furono assai più materie di insegnamento che oggetto di riflessione e di pubblicazione. Ma che non si trattasse soltanto di insegnamento utile ad apportare quel pur necessario «lievito di praticità» risulta in tutta evidenza proprio dalle riflessioni del Torelli docente (e dal suo esserlo stato contemporaneamente presso le università e le scuole d’archivio). In una relazione del 18 luglio 1925 stesa in qualità di «insegnante di paleografia e diplomatica nella Scuola del Regio Archivio di Stato di Bologna»36 Torelli sosteneva «la necessaria fusione tra l’insegnamento uni35 Relazione della Commissione esaminatrice dei titoli presentati per conseguire la promozione a stabile dal prof. Pietro Torelli, titolare di storia del diritto italiano della R. Università di Modena, in Bollettino Ufficiale Ministero E. N., II. Atti di amministrazione, anno 57, vol. I, n. 17, Roma 1930, p. 1022. 36 ASMn, Archivio Direzione, Relazioni, 1925. Da qui anche la precedente citazione nel testo.
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versitario e quello archivistico» delle discipline: l’aspetto pratico – al quale dovevano soprattutto badare le scuole d’archivio – non doveva disgiungersi dalla «naturale ampiezza di vedute del lato teorico», cui egli stesso dava «corso» presso l’Università. Qualche anno dopo, nella minuta di una lettera indirizzata all’Amministrazione centrale degli Archivi di Stato, l’integrazione immaginata da Torelli va stringendosi: è necessario eliminare nelle scuole interne ogni tendenza ad isolamento e ad eccessiva, cioè gretta, praticità, data la missione altamente culturale dell’archivista; è altrettanto necessario preservare le scuole universitarie dalla tendenza opposta alla pura teoria che arrischia di darci eruditissimi paleografi […] che non sanno leggere documenti d’archivio37.
Nessuna difesa di schemi che rischiano sia di snaturare lo specialismo (e la funzionalità) delle scienze paleografiche, sia, all’esatto opposto, di ingabbiarle nel puro empirismo. Piuttosto una chiara formulazione dell’ampia visione storico-culturale che deve sovrintendervi. E dunque nessuna compartimentazione disciplinare, nessuna definizione di rigide gerarchie. Il 17 febbraio 1935, commemorando Luigi Schiaparelli nell’Aula Magna dell’Ateneo fiorentino38, Torelli sarebbe tornato sulla questione, derubricandola a falso problema: Non che [Schiaparelli] disconoscesse assolutamente, cioè all’infuori della scuola, il carattere di sussidio alla storia delle proprie discipline; ma non per questo le ritenne diminuite, né vide differenze di dignità ov’è identità di metodo e di responsabilità scientifica; io non so bene se negando valore concreto a certe graduazioni tra scienze e scienze si debba ancora chiedere perdono a qualcuno, ma non posso non ricordare che questo stesso modo di pensare non impedì allo Schiaparelli di giungere, occupandosi dell’antica paleografia latina, “alle prime file della scienza europea”39.
37 Mantova, Biblioteca comunale Teresiana, Fondi speciali. Pietro Torelli, busta n. 3 (numero provvisorio). Fondo davvero ricco, quello torelliano – che meriterà prima o poi riordinamento, inventariazione e studi d’insieme degni del materiale assai interessante che vi è conservato –, la cui consultazione mi è stata agevolata con grande cortesia dal personale della Biblioteca, che mi è particolarmente gradito ringraziare qui. 38 Pare che soprattutto Antonio Panella, allora direttore dell’Archivio di Stato di Firenze, si fosse speso perché il discorso commemorativo del paleografo biellese fosse affidato al Torelli, «che più di tutti» – così si legge in una lettera inviata allo storico mantovano – «è in grado di far conoscere e giudicare l’opera dello Schiaparelli»: cfr. Mantova, Biblioteca comunale Teresiana, Fondi speciali. Pietro Torelli, busta n. 5 (numero provvisorio). 39 P. Torelli, Discorso commemorativo (dalle Onoranze a Luigi Schiaparelli), «Archivio storico italiano», ser. VII, 92/4 (1934), pp. 171-195: 182.
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Lo spunto per questa osservazione veniva al Torelli da un allievo di Schiaparelli, Alfonso Gallo, che, esaltando la figura e le novità apportate dal maestro, aveva osservato che «la paleografia latina verso la fine del secolo decimonono si era ridotta ad una meschina precettistica di nomenclature e definizioni», ritenendosi allora «che il fine migliore da raggiungere fosse quello di saper leggere speditamente qualsiasi scrittura medievale»40. «Giudizio non lontano dal vero», chiosò Torelli, ma eccessivamente «sbrigativo». Bisognava andar cauti e distinguere, distinguere ancora una volta fra didattica e ricerca. Perché, continuava Torelli, se «lo Schiaparelli maestro ebbe sempre il buon senso di considerare già ottimo e difficile risultato il poter fare scolari in grado di leggere le scritture medievali», è sicuro, d’altra parte, «che per opera dello Schiaparelli la paleografia ha dimostrato di poter dare scientificamente di più». Via dal campo, dunque, certe «esagerazioni che lo diminuiscono»: alla questione «se la paleografia abbia carattere di vera scienza e si debba riconoscerle una vera autonomia lo Schiaparelli non aveva troppo tempo di pensare»41. Quest’ultimo è solo uno dei moltissimi passaggi del discorso in cui la voce del commemorato si confonde con quella del commemorante. O meglio: dove Torelli sovrappone deliberatamente la sua a quella di Schiaparelli, dando (finalmente) libero sfogo a certe radicate convinzioni. In parte lo aveva già fatto, del resto (e in toni e su temi che torneranno proprio nella commemorazione del ’35). Esattamente dieci anni prima, recensendo per il n. 83 dell’«Archivio storico italiano» l’edizione de I diplomi di Ugo e Lotario curata dal biellese42, Torelli non muoveva che una critica: certo, poteva anche «torturarsi», scrisse, «a cercare qualche piccolo neo, qualche svista insignificante»; ma lui, di «una generazione cronologicamente più giovane» di Schiaparelli, avrebbe soltanto «affermato con molta maggiore forza la somma ed il valore di tutti questi risultati»43. Intesi i «risultati» dell’intera opera schiaparelliana sui Diplomi dei re d’Italia dei secoli IX e X, che non poteva non leggersi nella sua unitarietà d’impianto, nella sua capacità di fornire «la materia prima del fenomeno storico in movimento»44. 40
A. Gallo, Luigi Schiaparelli, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 8 (1934), pp. 43-
47: 44.
41 42
Torelli, Discorso commemorativo cit., p. 182. P. Torelli, Recensione a L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 38), «Archivio storico italiano», ser. VII, 83/3 (1925), pp. 309-320. 43 Ibid., p. 316. 44 Ibid., p. 314.
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La grandezza dello Schiaparelli – tornava a ribadire Torelli nelle Onoranze fiorentine – di «quest’uomo che ha dedicata la vita a decifrare con esattezza assoluta la parola, la lettera, il segno», stava per l’appunto nel disinteresse nei confronti dell’«episodio», nella «tendenza ad evitare ogni dispersione»45. Ancora una sovrapposizione di voci, ancora un’eco inconfondibile del Torelli teorico: di quello che nella prolusione del 1928 all’Università di Modena su Metodi e tendenze negli studi attuali di storia del diritto invitava a «piantare ben saldo nella mente dei giovani che il documento singolo ci offrirà il caso speciale e curioso, ma per la storia giuridica dirà troppo poco o non dirà nulla: è necessario dar fuori interi fondi documentari», pubblicare «documenti nuovi il più possibile numerosi e continui»46, avendo chiara consapevolezza che «mettere in luce i documenti del passato è saper camminare sulla via maggiore dei bisogni dello spirito». Affermazione interessante, quest’ultima, assai poco in linea con la «schiettezza» (e “l’enigmaticità”) «di un uomo che reagiva con fierezza alla retorica ufficiale di allora»47. Trattavasi di professione esplicita di idealismo? Era un accostamento estemporaneo e nutrito di un diverso apparato concettuale, direi piuttosto, e comunque subito temperato dal riconoscimento che a poco «importa l’intuito», che «è vana l’ipotesi geniale ove lo strumento può dare la prova certa»48. Di qui, per Torelli, la necessità di mettere a punto «un indirizzo generale» e «definitivo» – quello che nel ’35 avrebbe esaltato in Schiaparelli, quello di un sano positivismo ricostruttivo: «documenti nuovi, documenti autentici, documenti esatti; cioè materiale provato»49. Era l’unificazione scientista di tradizioni erudite tipica del positivismo italiano in campo medievistico: «uno spazio di cultura» – lo ha sottolineato più volte Enrico Artifoni – attraversato da linee di forza e sensibilità diverse, vivacizzato da un «intreccio peculiare di erudizione, metodo storico, aspirazione alla scienza sociale»50.
45 46
Torelli, Discorso commemorativo cit., p. 172. P. Torelli, Metodi e tendenze negli studi attuali del nostro diritto, Modena 1928 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza di Modena, 34), citazioni alle pp. 10 e 13. 47 U. Nicolini, Tecnica e spirito nel Torelli editore di fonti, in Convegno di studi su Pietro Torelli cit., pp. 19-30: 24. 48 Torelli, Metodi e tendenze cit., p. 11. 49 Torelli, Discorso commemorativo cit., p. 173. 50 E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani tra Otto e Novecento, Napoli 1990 (Biblioteca. Nuovo medioevo, 38), p. 15.
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Ebbene, nello Schiaparelli – al quale, non dimentichiamolo, Torelli era in predicato di succedere sulla cattedra fiorentina51 – la compresenza di quelle componenti di varia provenienza sembrava essersi realizzata in profonda unità, di metodo e di «risultati». Stava ai lettori che, come il Torelli, ne condividessero il primo, mostrare «con molta maggiore forza la somma ed il valore» dei secondi, la loro ineliminabile storicità, il «concreto evolversi» nel tempo. Davvero e puramente storica era la lezione che Torelli traeva dal Codice diplomatico longobardo: «proprio in un campo», cioè, «dove i primi interessati, i giuristi, sono ostinatamente rimasti giuristi, cioè costruttori di sistemi, qualche volta anche contro la realtà storica», ad esempio ignorando (volendo ostinatamente ignorare) «che il carattere del periodo longobardo non sia soltanto di scioglimento e confusione dell’antico, ma soprattutto di graduale evoluzione del nuovo»52. Lo stesso, naturalmente, poteva dirsi per le ricerche schiaparelliane di ambito paleografico: partendo «dalla decifrazione del segno», ricostruendone pazientemente «l’origine, lo sviluppo, la durata, l’estensione nel territorio», esse avevano portato «al rilievo d’un fenomeno culturale» di più ampio significato53. Riflettendo sull’opera di Schiaparelli, l’«indirizzo definitivo» ricercato dal Torelli si precisava e diveniva piattaforma di lavoro. Il suo «storicismo positivistico» (come Bruno Paradisi lo definì)54 animava in quegli anni le indagini sulla vita comunale mantovana. E non poteva che innervare anche l’insegnamento della paleografia e della diplomatica: discipline – sosteneva Torelli rendendo esplicito una volta di più il pensiero dello Schiaparelli – solo «apparentemente aride». Ed è ormai chiaro, al di là dell’apprezzamento del metodo, quanto potesse evocare quel semplice – enfatizzato – avverbio. Fu certamente alle lezioni bolognesi del Torelli e dalla assidua frequentazione con lui – lo ipotizzava già Pratesi – che il giovane Cencetti maturò la convinzione della necessaria storicizzazione dei fenomeni paleografici55.
51 Cattedra da lì a poco effettivamente offertagli ma dal Torelli rifiutata, come ricordava De Vergottini nella commemorazione bolognese del ’49. Restano da comprenderne le ragioni, alle quali, forse, non fu estranea la sempre più netta connotazione di Torelli (e percezione di sé) quale storico del diritto e, soprattutto, il suo pieno coinvolgimento nella assai dispendiosa, appena avviata iniziativa di edizione della Glossa di Accursio. 52 Torelli, Discorso commemorativo cit., p. 178. 53 Ibid., p. 181. 54 Paradisi, Apologia della storia giuridica cit., p. 200. 55 A. Pratesi, Giorgio Cencetti dieci anni dopo: tentativo di un bilancio, «Scrittura e civiltà», 4 (1980), pp. 5-17: 11.
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Dell’essere la paleografia davvero una scienza dello spirito: come, in tono semiserio, aveva detto Giorgio Pasquali nel 1931, proprio prendendo le mosse da un lavoro di Schiaparelli (quello sul Codice lucchese 490, giudicato «il tentativo più esteso di valersi delle osservazioni paleografiche per tracciare la storia della cultura»)56. E come Torelli avrebbe ribadito, in più passaggi e con grande forza, nella commemorazione schiaparelliana: calando l’espressione crociana nel fitto intrico della storia; facendo suoi, interamente e seriamente, i metodi e i “risultati” del commemorato.
56 G. Pasquali, Paleografia quale scienza dello spirito [saggio del 1931], ora in G. Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, I, Firenze 1968, pp. 103-117. Sulla «necessaria» storicità del metodo paleografico e sulla disciplina stessa come «uno specchio della cultura anzi come un aspetto stesso della cultura» ha scritto pagine davvero illuminanti, fra echi (testuali) di Traube e rievocazioni di Pasquali (mediate e, per l’appunto, già fatte proprie dal suo «maestro bolognese» Pietro Torelli), A. Campana, Paleografia oggi. Rapporti, problemi e prospettive di una ‘coraggiosa disciplina’, «Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura», 41 (1967), pp. 1013-1030.
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ATTILIO BARTOLI LANGELI RILEGGENDO LA DIPLOMATICA COMUNALE DI PIETRO TORELLI*
Quando uscì negli Atti e memorie dell’Accademia Virgiliana il suo primo saggio di diplomatica comunale, nel 1911, Torelli aveva 31 anni. Laureato in giurisprudenza, con Augusto Gaudenzi, e in lettere, aveva preso servizio nel 1903, a 23 anni, presso l’Archivio di Mantova; qui avrebbe continuato a lavorare fino al 1930, quando lasciò definitivamente la carriera di archivista per quella universitaria. La seconda puntata usciva nel 1915, tre anni dopo l’ottenimento della libera docenza: tuttora in organico all’archivio mantovano, Torelli si era affacciato da poco all’insegnamento nell’università bolognese. I due testi danno l’impressione di un’opera a lungo meditata. Che Torelli, anzitutto, prevedesse fin dall’inizio la scansione in due puntate è reso evidente dalla chiusa della prima, che lancia un futuro: «Cercheremo di seguire l’accrescersi del loro [dei notai] numero, l’ordinarsi e il suddividersi del loro lavoro.» (p. 97). Ma anche da una piccola anomalia, un titolo di paragrafo che resta solo, seguìto da un I° che resta solo (p. 5): «gli organi che redigono il documento comunale. I° - Il periodo più antico».
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Ripeto qui le scarse parole che dissi al convegno, senza pretendere di arricchirle. Se già allora ascoltai poche relazioni, ora non ne conosco nessuna, e maggiore è il timore di scrivere cose sbagliate o dette molto meglio da altri. Non aggiungo referenze a piè di pagina, ma solo qualche citazione discorsiva. I riferimenti sono naturalmente a P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, I e II, 1911 e 1915; la paginazione citata è quella unitaria della ristampa anastatica, Roma 1980: I, pp. 1-97; II, pp. 99-384. Un riferimento personale. Il primo mio docente dal quale sentii parlare di Torelli fu Armando Petrucci, che negli anni ’60 del secolo scorso insegnava nella Scuola annessa all’Archivio di Stato di Perugia, l’una e l’altro allora diretti da Roberto Abbondanza. Nel 1968, ultimo suo anno d’insegnamento a Perugia, Petrucci fece un corso di diplomatica comunale; io frequentavo l’archivio per la tesi di laurea, e seguii quel corso a intermittenza, come esterno; ma conservo sia le fotocopie ingiallite dei due articoli di Torelli che egli ci distribuì sia le sue dispense del corso, ciclostilate.
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Quattro anni dopo, la nuova veste editoriale (una monografia con tanto di introduzione, conclusione e indice, e non un secondo articolo in rivista) e il nuovo titolo («Studi e ricerche di storia e diplomatica comunale») impongono a Torelli di lasciare a se stessa quella partizione incipiente. Che in realtà serve a capire come egli avesse progettato l’insieme: un solo argomento, Gli organi che redigono il documento comunale, diviso in due parti: nel «periodo più antico» e, ovviamente, in quello più recente. In effetti, nelle pagine finali del primo saggio hai la distinzione delle fasi («il primo periodo [...] - il momento in cui da quel periodo iniziale si passò ad un secondo [...]», p. 93) e la determinazione cronologica del passaggio («nei decenni ultimi del secolo XII [...]», p. 96). L’organizzazione della materia è lievemente più mossa nella prima puntata, che per un terzo ha un’impronta francamente saggistica e argomentativa: si allude, oltre che alle linee d’interpretazione suggerite in fine, alla larga discussione iniziale (pp. 5-31); in mezzo sta la paziente e ordinata esplorazione, in giro per le città «interne» dell’Italia settentrionale, delle evenienze documentarie circa qualifiche e ruoli degli estensori. Lo schematismo di questa rassegna è suggerito anche dal maiuscoletto che designa le città considerate, quasi a costituire tanti piccoli paragrafi. Ancora più regolata è la distribuzione della materia nella seconda puntata, là dove Torelli descrive, sulla scorta soprattutto delle fonti statutarie, gli uffici in cui si articolavano i governi comunali e i tipi documentari che questi uffici e i loro notai producevano: domina dunque un atteggiamento classificatorio e descrittivo, che risparmia però l’introduzione, dedicata alle fonti. Una doppia mappatura dunque: la prima, per luoghi; la seconda, per uffici. Lo schematismo ordinato con cui si procede non può che esser definito “scolastico”. Nel senso che l’opera di Torelli, a rileggerla secondo logica interna, rivela una natura primariamente didattica e disciplinare. Torelli, questa la mia impressione, intende proporre una guida, un sommario, un trattatello di diplomatica comunale; inventa la diplomatica comunale come materia d’insegnamento, nel senso che la battezza, ne fa per la prima volta il titolo di una pubblicazione. Non so dire se già nel 1911 (o meglio da due-tre anni prima, il tempo occorrente per compiere e scrivere la ricerca) Torelli tenesse qualche corso nella Scuola annessa all’Archivio di Bologna; nell’Ateneo bolognese poté cominciare a insegnare paleografia e diplomatica dopo la libera docenza nel 1912 – nella Facoltà di Lettere, credo, perché a Giurisprudenza le insegnava tuttora Gaudenzi. Più che una diretta esperienza d’insegnamento, perciò, l’idea dei suoi Studi e ricerche ha sicuramente alle spalle appunto Augusto Gaudenzi, suo maestro di storia del diritto italiano e di paleogra-
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fia e diplomatica. È questa scuola di paleografia e diplomatica, da tempo attiva all’interno della facoltà di giurisprudenza, l’ambito in cui nasce la diplomatica comunale, ben prima di Torelli. Di ciò si ha un preciso riscontro nella prolusione al corso che tenne nel 1888 Carlo Malagola, primo titolare dell’insegnamento nella Facoltà giuridica: nel programma del corso allegato alla prolusione, sotto la voce Elementi intrinseci del documento, figura come terza classe di documenti, dopo gli Atti pubblici sovrani e baronali e gli Atti pubblici ecclesiastici e prima degli Atti privati e pagensi, la categoria Atti pubblici comunali; nel sommario degli argomenti, il primo è «Ragione ed importanza della diplomatica comunale»1. Se poi si considera il profilo di Augusto Gaudenzi, che succedette in quell’insegnamento al Malagola nel 1898, è facile immaginare quanto spazio egli possa aver dato alla diplomatica comunale e quanti insegnamenti, per conseguenza, possa averne attinto il suo allievo Torelli. Il quale dunque non creò la diplomatica comunale dal nulla; egli s’incaricò di formalizzarla e quasi di canonizzarla – di qui l’impianto ordinato e sistematico che si diceva – ma anche di fondarla scientificamente, per via di studi e ricerche. La sottolineatura della diplomatica comunale come specifico campo della disciplina è fatto bolognese e non universale: nei manuali di Cesare Paoli, che pure era il comunalista che sappiamo, e di Harry Bresslau non ve n’è traccia – non che avvenga il contrario nei manuali in voga oggi, ma questo è un altro discorso. E Torelli aveva buone ragioni per rilevare la «pochissima cura presasi fin qui dai diplomatisti di studiare il documento emanato dai corpi e dagli ufficiali che reggevano i Comuni» (p. 4). Questa peculiarità bolognese merita riflessione. Certamente Bologna viveva allora una ricca stagione di studi comunali, da Hermann Kantorowicz (disponibile a Torelli il primo volume del suo Albertus Gandinus, uscito nel 1907) ad Alfred Hessel, fresco di stampa, senza dire dello stesso Gaudenzi; ma non c’è dubbio che vi ebbe incidenza anche l’appartenenza dell’insegnamento alla facoltà di giurisprudenza, un elemento questo istituzionale e disciplinare, e di qui culturale. Ciò non avveniva a Torino, a Firenze, a Padova, a Roma. Al riguardo può essere interessante la spiegazione che di ciò dava Carlo Malagola nella Prolusione sopra citata, adducendo la duplice accezione dell’autenticità: la diplomatica ha per fine di conoscere la verità o la falsità degli atti per mezzo degli elementi giuridici che determinano le forme genuine degli atti veri, dichia1 La cattedra di paleografia e diplomatica nell’Università di Bologna e il nuovo indirizzo giuridico degli studi diplomatici. Prolusione letta il dì 11 dicembre 1888 da Carlo Malagola, Bologna 1890, pp. 76-77; testo fornitomi da Antonella Ghignoli, che ringrazio.
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rando sospetti o falsi quelli che ne difettano. Onde parrà giusto che questo studio appartenga alla Facoltà di giurisprudenza e non già a quella di lettere e filosofia; dove invece, come trova giusta sede la storia generale, troverebbe sede adeguata una cattedra di critica storica, materia che appunto ricerca, non per mezzo delle leggi, ma col confronto dei dati storici, la verità dei fatti che nei documenti sono asseriti (p. 29).
Condividessero o meno questa motivazione, sta di fatto che non solo Torelli ma anche, prima di lui, Gaudenzi vollero laurearsi sia in giurisprudenza che in lettere. Fin qui ho provato a capire il perché e il come della “invenzione” torelliana della diplomatica comunale, forzando la discrezione di un autore notoriamente restio alle dichiarazioni di programma e d’intenzione. Ora accenno a qualche spunto di lettura di ciò che è scritto nero su bianco, specialmente nella prima parte degli Studi e ricerche. L’insieme delle conoscenze dispiegato nelle note è di primo livello: d’altronde Torelli aveva a disposizione la biblioteca universitaria bolognese, che era quanto di meglio potesse offrire l’Europa degli studi medievali. Lo studioso si confronta, con piglio deciso ma tranquillo, con la migliore letteratura specialistica, che era naturalmente tedesca: Bresslau, sopra nominato, il cui Handbuch Torelli conosce nella prima edizione del 1889; e poi Redlich, Oesterley, Mayer, Steinacker, Voltelini, Ficker, Bethmann... Di Oswald Redlich, per inciso, Torelli non poté compulsare Die Privaturkunden des Mittelalter, uscito nel 1911, ma solo dedicare ad esso una nota post scriptum. Questo quanto alla storia del notariato e della documentazione nel medioevo centrale. Nel saggio del 1915, invece, in introduzione c’è per un verso una buona disamina della produzione statutaria, «la parte pratica delle nostre fonti» (p. 108), con spunti che marcano una netta distanza rispetto alla tradizione positivistica; per l’altro una bella apertura su altre fonti (la letteratura podestarile, i formulari notarili), che dà modo a Torelli di mostrarsi perfettamente aggiornato, anche se gli fanno buona compagnia le opere di Gaudenzi, dalle edizioni di statuti bolognesi alla Bibliotheca iuridica medii aevi. Per il resto, la letteratura scientifica italiana non brilla granché, a riprova dell’appunto – riportato sopra – circa la grave arretratezza della storiografia diplomatica riguardo alla documentazione comunale: Torelli può citare Demetrio Marzi con il volume sulla cancelleria fiorentina, Francesco Novati col saggio su La giovinezza di Coluccio Salutati e poco altro. Estemporanei ma significativi i contatti con la letteratura comunalistica: per esempio sono citate (a parte il Saggio di ricerche su l’istituto del podestà di Vittorio Franchini a proposito della “letteratura pode-
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starile”) le Classi e comuni rurali di Romolo Caggese e le Questioni fondamentali di Gioacchino Volpe – dalla cui tonalità eroica Torelli si fa contagiare per un attimo, lui così tranquillo: «si tratta di quella poderosa forza riduttrice ed assimilatrice così vigorosamente rilevata dal Volpe» (p. 13). Rilevantissimo è l’apparato erudito. In realtà si tratta di due apparati completamente differenti: nella prima parte si ricorre alle edizioni di fonti documentarie, nella seconda alle edizioni di statuti comunali. Questo, un po’ per scelta (quella degli statuti è insistentemente motivata da Torelli), ma soprattutto per forza, com’è ovvio, intendendosi con ciò sia la tipologia oggettiva delle fonti comunali secondo i tempi sia il condizionamento delle edizioni disponibili. Come che sia, nella seconda parte è condotto lo spoglio sistematico di diciannove statuti, quelli di Lodi, Treviso, Milano, Verona (bis), Rovigo, Padova, Brescia (bis), Bergamo, Vercelli, Biella, Parma, Vicenza, Novara, Como (bis), Ferrara, Mantova, secondo l’elenco alle pp. 106-108; ma altri ne sono citati occasionalmente. Di questi, almeno tre erano inediti, e Torelli ne vide i manoscritti (Treviso, Verona 1270, Ferrara); dello statuto di Rovigo del 1227 ricevette la trascrizione da Roberto Cessi. Ancora più consistente l’elenco dei «comuni interni» (p. 33) la documentazione diplomatica dei quali Torelli legge, cita e utilizza nella prima parte. Sono ventisei: Bologna, Ferrara, Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Pavia, Tortona, Alessandria, Asti, Alba, Vercelli, Novara, Milano, Como, Lodi, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Verona, Vicenza, Padova (con Monselice ed Este), Treviso. Mi piace segnalare che, se la trattazione più lunga la merita Vercelli, la più breve è riservata a Mantova, ennesimo segno della discrezione di Torelli. È bene ragionare delle quantità, perché l’operazione torelliana ha dello stupefacente: chi mai prima di lui, chi mai dopo di lui ha così fortemente perseguito la totalità delle informazioni ottenibili, a Bologna e in locis? E non si trattò di una mera repertoriazione: Torelli lesse tutto, per poter selezionare, giudicare, comparare. Questa ambizione di completezza – per quanto circoscritta alle città “lombarde” e non alla totalità dell’Italia comunale – ribadisce il carattere fondativo della diplomatica comunale di Torelli. Preso atto di questo, si può cominciare a ragionare di limiti. Lo ha fatto da par suo Dino Puncuh, in una relazione che s’intitola a Pietro Torelli: La diplomatica comunale in Italia. Dal saggio di Torelli ai nostri giorni, del 2000. Uno dei punti di critica: il suo «ricorso massiccio alle norme statutarie» nella seconda parte degli Studi «ne rinchiudeva gli orizzonti entro il terreno istituzionale, limitandone l’indagine ai soli organi produttori della
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documentazione e trascurando l’esame delle forme della stessa»2. C’è semmai da rilevare, in questa seconda parte, la rinuncia programmatica di Torelli a considerare le fonti dirette, i registri d’ufficio dei Comuni: e non parlo tanto dell’esperienza diretta che egli doveva averne, lavorando, negli archivi di Bologna e Mantova, quanto del suo non voler citare quel poco che di questo materiale era stato studiato, in primis proprio a Bologna, e quel pochissimo che era stato pubblicato. Che so, non sarebbe stonata nel contesto del paragrafo Difesa dello Stato (pp. 97-101) un’allusione al Libro di Montaperti di Cesare Paoli, un capolavoro che Torelli non poteva non conoscere. In verità gli Studi e ricerche del 1915 scontano quell’impostazione alquanto rigida, “scolastica” si è detto, che si legge fin dalla dichiarazione d’apertura: «intendo esaminare le funzioni degli organi che suddivisi nei vari uffici del Comune ne redigono i documenti, e rilevare insieme la natura dei documenti stessi come preparazione necessaria all’esame diretto della loro forma» (p. 101). Notato che il “comune”, sempre minuscolo nella prima parte degli Studi, ora è diventato maiuscolo, si ammira l’esame particolareggiatissimo degli uffici e delle loro competenze, fondato sulla paziente collazione di tutti i capitoli statutari facenti al caso: ma quello resta un perfetto saggio di storia delle istituzioni, e meglio di storia degli istituti – lo stesso cambiamento del titolo, da Studi e ricerche di diplomatica comunale a Studi e ricerche di storia giuridica e diplomatica comunale lo denuncia –; non un saggio libero, propositivo, dinamico di diplomatica. Quale è invece la prima puntata, che in effetti è quella ancora oggi più attraente, e discussa spesso e volentieri. Facile, di nuovo, prendere le distanze dalla famosa affermazione di Torelli, secondo la quale nel secolo XII il comune stesso si trova ancora nelle condizioni di un ente privato rispetto alla documentazione degli atti propri. Essi non hanno valore di atti pubblici per ragione dell’autorità che li emana, bensì in quanto scritti secondo norme determinate da persone che il potere legittimo ha rivestite della facoltà di emanare atti in forma pubblica: i notai. È questo un fatto che non ha bisogno di prove.
2
D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia: dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congrès de la Commission internationale de diplomatique (Gand, 25-29 août 1998), cur. W. Prevenier - Th. de Hemptinne, Leuven-Apeldorn 2000 (Studies in urban, social, economic and political history of the medieval and modern Low Countries, 9), pp. 383-406.
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Gli studi di diplomatica comunale (e di storia del notariato) sono andati avanti, e oggi ragioniamo in maniera diversa. Ma, di nuovo, è ammirevole la franca autonomia dell’allora archivista mantovano nel prendere le distanze da studi autorevolissimi («Evito di proposito la questione di metodo trattata quasi esclusivamente in Germania [...] perché considero [...] tutte aprioristiche le soluzioni proposte», pp. 3-4) e il suo ardimento nell’operare quella che definirei una rivoluzione copernicana negli studi di diplomatica. Il brano è quello ancor più famoso (i corsivi sono di Torelli): I diplomatisti hanno trovato una cancelleria regia e una cancelleria papale con funzioni determinate; ma se noi ora, rispetto al comune, seguiremo a ritroso la loro via, e dalla presenza di funzioni analoghe vorremo dedurre l’esistenza di una cancelleria analoga a quelle, avremo creato un istituto che non è esistito mai. [...] È necessario seguire passo passo i documenti non per cercare se nel comune si trovino istituti di una determinata natura, ma per determinare la natura degli istituti che vi si trovano. (pp. 7-9)
Che, qualcuno direbbe, è uno scoprire l’acqua calda; ma è uno scoprire l’acqua calda detto splendidamente. Torelli è ben dentro la logica bipolare della diplomatica: documenti pubblici/documenti privati, cancellerie/notai, e, quanto ai notai, liberi professionisti/dipendenti. Ma il solo introdurre, da parte sua, la nozione di diplomatica comunale scompagina il campo, introduce variazioni, propone dubbi, anzitutto a lui stesso. Torelli non usa mai, per definire i documenti del primo comune, i termini che saranno di altri: non “semipubblici” di Pratesi, e tanto meno “ibridi” e “compositi” di Fissore. Ma la sua lunga disamina della produzione diplomatica dei comuni «interni» è un continuo andirivieni tra le due polarità, e con ciò conferisce elasticità e duttilità allo stesso mestiere del diplomatista. Giocava fin d’allora in lui quell’attenzione ai complessi documentari come specchio della «vita giuridica vera» (così nella prolusione modenese del 1928 su Metodi e tendenze attuali del nostro diritto), da considerare perciò con occhio realistico ed empirico, senza preoccupazioni di sistema. Torelli incarna un modello per chi, come noi, professa l’erudizione e la storia locale: proprio quella delle storie locali, studiate profondamente, avendo innanzi il grande problema di tutta la vita sociale e giuridica, è, specialmente per la storia del diritto pubblico, ma non per quella soltanto, la nostra via di salvezza; anzitutto perché muove dalla necessità di studiare documenti nuovi il più possibile numerosi e continui, ma anche perché l’indirizzo verso una più profonda indagine di storia giuridica e sociale, è ora, per tutti, il più vivo e sentito.
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Rispetto a lui, ai diplomatisti di oggi manca quel legame tra scienza del diritto e scienza del documento che era invece, per lui, nutrimento vitale. Dall’una parte e dall’altra, è assai difficile trovare chi, come Torelli, sappia mettere insieme la preparazione giuridica, la passione per la ricerca d’archivio, l’attenzione al reale dei fenomeni sociali e istituzionali.
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DANIELA FERRARI UN CONFRONTO TRA ALESSANDRO LUZIO E PIETRO TORELLI, DIRETTORI DELL’ARCHIVIO DI STATO DI MANTOVA TRA IL 1899 E IL 1930
Pietro Torelli (1880-1948) prende servizio all’Archivio di Stato di Mantova il 4 novembre 19031 dove è direttore Alessandro Luzio (18571946)2, che da subito lo stima moltissimo; i due sono certamente i più validi direttori che l’Istituto abbia avuto nel Novecento; diversi per formazione e per interessi, lavorano insieme per quasi 20 anni e producono i due inventari dell’Archivio Gonzaga speculari e complementari, pubblicati rispettivamente nel 1920 e nel 19223, che ancora oggi costituiscono lo strumento principe per accedere all’importantissimo fondo Gonzaga. Alessandro Luzio (1857-1946), frequenta Lettere e Filosofia a Roma, senza tuttavia conseguire la laurea, e interrompe gli studi per dedicarsi alla sua vocazione più vera: il giornalismo, che lo porta a dirigere la “Gazzetta di Mantova”, per undici anni (1882-1893). La condanna, seguita al processo per diffamazione intentatogli da Felice Cavallotti, lo costringe all’esilio 1 Mantova, Archivio di Stato (d’ora in poi ASMn), Archivio della Direzione, b. 219, Protocollo riservato 1900-1905; il 5 novembre 1903, Luzio «Annunzia che l’alunno Torelli ha il giorno 4 assunto servizio». Sulla figura e sull’attività di Pietro Torelli rimando al volume Convegno di studi su Pietro Torelli (Mantova, 17 maggio 1980), Mantova 1982; cfr. inoltre Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, Repertorio del personale degli Archivi di Stato, I (1861-1918), cur. M. Cassetti, con saggio storico-archivistico di E. Lodolini, Roma 2008, pp. 567-568. 2 Per Alessandro Luzio rimando agli atti del convegno Alessandro Luzio dal Risorgimento al Fascismo, (Mantova, 15 novembre 2008), «Bollettino Storico Mantovano», n.ser., 8 (gennaio-dicembre 2009), e alla bibliografia ivi contenuta; cfr. anche Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, Repertorio del personale degli Archivi di Stato cit., pp. 539-541. 3 P. Torelli, L’Archivio Gonzaga di Mantova, I, Ostiglia (Mantova) 1920; A. Luzio, L’archivio Gonzaga di Mantova. La corrispondenza familiare, amministrativa e diplomatica, II, Verona 1922; i volumi sono stati ristampati in forma anastatica, su iniziativa di chi scrive, nel 1988 e nel 1993.
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DANIELA FERRARI
viennese, dove ha modo di frequentare biblioteche e archivi, soprattutto le prime, perché i secondi all’epoca non erano ancora facilmente accessibili. Dopo la morte di Cavallotti, gli viene concessa la grazia sovrana; Luzio torna a Mantova e prende servizio presso l’Archivio di Stato l’8 gennaio 1899, senza una carriera pregressa nella amministrazione, senza una preparazione specifica, ma con una larghezza di vedute e un’esperienza di vita che contribuiscono a fare di lui un buon direttore. Dirige l’Istituto fino al 1918, quando è nominato Sovrintendente dell’Archivio di Stato di Torino, dove rimane fino al 1931. Qual è la situazione degli archivi a quell’epoca? L’Italia nei primi decenni postunitari avverte l’esigenza di organizzare i propri archivi unificandone la legislazione, secondo un progetto messo a punto dalla Destra storica per organizzare la conservazione della memoria scritta. Per lo stato unitario, riconoscersi come nazione significa indagare sulla propria storia recuperando le tradizioni del passato e la rete dei primi Archivi del Regno – che hanno sede nelle città già capitali di stati regionali – diventa strumento in grado di garantire il prolungamento del passato nel futuro con il compito di custodire la memoria-fonte del paese da tramandare ai posteri. Gli archivi vengono così unificati alle dipendenze del Ministero dell’Interno con il regio decreto n. 1852, del 5 marzo 18744. L’Archivio di Stato di Mantova era stato istituito qualche anno prima, con regio decreto n. 4511 del 24 luglio 1868; il primo direttore è Mauro Travaini Tozzoni (1868-1881), mantovano, già impiegato della Delegazione provinciale asburgica5, cui segue un altro mantovano, Ferruccio Partesotti, con la sola licenza liceale, che ha un incarico di reggenza dal 1893 al 1898, e quindi Alessandro Luzio dal 1899 al 1918. Pietro Torelli è direttore dal 19206 al 1930: con la qualifica di reggente dal 1920 al 1927, in parallelo ricopre l’incarico di docente di Paleografia presso l’Università
4 Tale dipendenza durerà esattamente un secolo, fino al 1974, quando verrà istituito il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, sotto il quale saranno ricondotti, non senza forti resistenze, anche gli Archivi di Stato e le Soprintendenze Archivistiche, accanto alle Soprintendenze per i Beni Archeologici, Architettonici, Artistici e Storici (prima dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione). 5 Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, Repertorio del personale degli Archivi di Stato cit., p. 353; l’elenco completo dei direttori dell’Archivio di Stato di Mantova dal 1868 al 1965 è pubblicato a p. 751. 6 ASMn, Archivio della Direzione, b. 219, Protocollo riservato 1914-1920, n. 9, 14 giugno 1920, «Il nuovo direttore Professor Pietro Torelli comunica d’aver preso possesso dell’Ufficio e propone una lode ai signori Partesotti e Bolza per la passata gestione».
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ALESSANDRO LUZIO E PIETRO TORELLI
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di Bologna e presso la Scuola di Paleografia annessa all’Archivio di Stato della stessa città – a Mantova la Scuola viene istituita soltanto nel 1958 – ed è direttore, a titolo gratuito, dal 1927 al 1930, mentre ricopre la cattedra di storia del diritto italiano presso l’Università di Modena (in seguito passa all’Università di Firenze e poi a quella di Bologna). Luzio ha grandi capacità organizzative, è un vulcano di idee e di iniziative; certamente porta una ventata di novità e un profondo rinnovamento all’Archivio di Stato di Mantova, grazie anche alla sua formazione di giornalista pubblicista e divulgatore. Sotto la sua direzione avviene il ricongiungimento all’Archivio di Stato dell’archivio Gonzaga, che il governo lombardo-veneto aveva ceduto alla Municipalità di Mantova nel 18667. A lui si deve anche la sistemazione dei locali della sede nell’ex Collegio dei Gesuiti e palazzo degli studi, dove ancora oggi si trova l’Istituto, e il trasferimento dal castello di San Giorgio alla nuova sede di numerosi fondi archivistici che là erano stati collocati, operazioni alle quali collabora fattivamente anche Pietro Torelli nei primi anni della sua carriera8. Luzio coltiva una rete di relazioni con studiosi nazionali e stranieri, ma si occupa anche dell’organizzazione della sede, del condizionamento fisico del materiale documentario, è particolarmente attento alle iniziative di promozione e di valorizzazione (costituisce la cosiddetta raccolta degli Autografi, per destare “impressione” nei visitatori, e per conferire maggiore visibilità all’Istituto, secondo una moda allora in voga, in barba, per altro, all’applicazione del metodo storico, che propugna il mantenimento, o la ricostruzione, della sedimentazione originaria dei documenti come si è formata presso i soggetti produttori o come essi hanno scelto di organizzarla e di tramandarla ai posteri). Luzio precorre inoltre i tempi della politica di valorizzazione dei documenti d’archivio (per esempio organizzando una mostra documentaria sulla storia delle medicina nel 1902, in occasione di un congresso medico ospitato a Mantova); sostiene che gli inventari debbano essere pubblicati, per avere una distribuzione e un circuito che travalichi gli angusti confini delle sale di studio, all’epoca ancora poco frequentate. 7 Torelli, L’Archivio Gonzaga di Mantova cit., p. L. Una copia della convenzione di deposito, approvata con regio decreto n. 502 del 19 luglio 1899, è in ASMn, Archivio della Direzione, b. 149, mentre il verbale di consegna con gli elenchi di consistenza è nella b. 216. 8 Ibid., b. 220bis, Relazioni annuali 1893-1914, n. 64, 26 gennaio 1910, Relazione attività 1909, All. D: «durante tutte le operazioni di ricollocamento dell’archivio del castello a Santa Trinità, fu il Torelli che presiedette a quel démenagement laboriosissimo, conciliandosi l’affetto e la deferenza degli operai, non sempre docili né ossequiosi in questa città. Tutto questo mentre egli dava l’ultima mano al regesto gonzaghesco, già pronto per la stampa appena l’Istituto Storico voglia imprendere l’edizione del volume [...]».
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La divulgazione delle fonti, la promozione dell’Istituto, l’incremento della rete di relazioni con ricercatori e studiosi, sempre bene accolti9, sono la sua preoccupazione costante, e contribuiscono ad aumentare quella fama di liberalità e prontezza, nel garantire un’assistenza qualificata agli studiosi, di cui l’Istituto gode ancora oggi, nel solco di una lunga tradizione, inaugurata proprio da direttori come Luzio e Torelli10. I due direttori si muovono su registri diversi che li portano a occuparsi di temi afferenti a periodi complementari: il primo studia e pubblica sul Rinascimento e sul Risorgimento11, il secondo sul Medio Evo. La feconda produzione di scritti di Luzio, che gli conferisce fama e notorietà, non è tuttavia sostenuta da altrettanto robuste capacità critiche e oggi il dibattito storiografico ne ritiene superata la visione: Luzio è stato un grande raccoglitore e divulgatore di documenti. Ben diversa è la fortuna critica di Pietro Torelli. Il volume sull’archivio Gonzaga curato da Luzio, riguardante la corrispondenza interna ed estera della famiglia che dominò sulla città per quasi quattro secoli, risponde più ai requisiti di una guida che di un inventario nell’accezione tecnica del termine. Contrariamente a Torelli, Luzio – occupandosi della sola corrispondenza gonzaghesca – non deve ricostruire l’architettura dell’archivio, che consiste nell’individuare la struttura delle serie documentarie in relazione alle vicende istituzionali di ciascun soggetto produttore e ai nessi di relazione esistenti tra le serie per definirne la successiva disposizione sequenziale; non lo deve fare perché tale struttura era già stata fissata a partire dalla fine del Cinquecento, nell’ambito delle riforme della cancelleria di Corte12.
9 Il concetto di disponibilità verso l’utenza è ribadito più volte: «gli studiosi poi che si recano a Mantova vi trovano la più cordiale assistenza»: ibid., b. 220bis, relazione annuale 1902, 7 febbraio 1903. 10 Così scrive, infatti, Alessandro Luzio nel 1907: «fu considerevole il numero di studiosi che usufruirono dell’Archivio Gonzaga ed ebbero il più largo e cordiale appoggio da questa Direzione e dagli impiegati cavalier Davari e dottor Torelli. Sono specialmente i giovani studenti di Università, in Lettere o in Legge, che qua si rivolgono fiduciosi, sia per avere indicazioni di materiale adatto a una tesi di laurea, sia per completare ricerche già altrove iniziate: e la loro aspettativa non è mai delusa, perché i tesori dell’Archivio Gonzaga possono dirsi inesauribili e costante è la preoccupazione e, oserei dire, l’ambizione del personale di farli meglio conoscere ed apprezzare» (ibid., b. 220bis, n. 45, 17 gennaio 1907, Relazione attività 1906). 11 L’elenco completo delle opere di Luzio è in Bibliografia di Alessandro Luzio, cur. M. Avetta, in La figura e l’opera di Alessandro Luzio nel centenario della nascita, cur. M. Bianchedi, San Severino Marche 1957, pp. 107-160. 12 Un ordine emanato nel 1592 imponeva agli ambasciatori gonzagheschi la restituzione di tutta la corrispondenza d’ufficio al termine del loro mandato, che già all’epoca era
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Luzio si avvale inoltre di lavori pregressi poiché il suo operato posa saldamente sui risultati dell’attività costante e silenziosa di Stefano Davari, che instancabilmente per oltre 30 anni aveva compilato schede, indici, elenchi, regesti, di tutte le serie dell’Archivio Gonzaga13. Torelli occupandosi della parte amministrativa della documentazione gonzaghesca, e con particolare attenzione per la documentazione pregonzaghesca, si trova ad affrontare compiti ben più complessi. L’Archivio Gonzaga era stato riordinato per materie a partire dalla seconda metà del Settecento. La manipolazione di archivi “naturali”, tipica del secolo dei lumi, fatta allo scopo di creare archivi “ideali”, collegati alle grandi categorie del sapere statistico, hanno interessato anche gli archivi mantovani, secondo un metodo oggi aborrito dalla dottrina archivistica poiché, considerando i documenti quali singole entità isolate e avulse dal loro contesto di pertinenza, va ad alterare la rete di relazioni e di nessi intercorrenti tra le singole unità, e soprattutto – infrangendo il vincolo archivistico – ostacola le ricerche di storia istituzionale, in quanto ottunde le competenze delle singole magistrature, le loro trasformazioni e modifiche. Torelli, laureatosi in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna nel 1902, entra in Archivio a 23 anni con la qualifica “Alunno” e inizia a occuparsi della documentazione pregonzaghesca (precedente al 1328); nel 1905
conservata per località di provenienza; gli ambasciatori avevano inoltre l’obbligo di restituire le lettere originali dei principi; le minute di cancelleria venivano conservate; nei copialettere veniva osservata la distinzione tra i documenti ordinari e quelli riservati (cfr. R. Quazza, La diplomazia gonzaghesca, Milano 1941, p. 18). Cfr. anche D. Ferrari, Interventi di riordinamento tra Cinque e Settecento. Il caso mantovano, in Salvatore Bongi nella cultura dell’Ottocento. Archivistica, storiografia, bibliologia. Atti del Convegno nazionale (Lucca, 31 gennaio - 4 febbraio 2000), cur. G. Tori, 2 voll., Roma 2003 (Pubblicazione degli Archivi di Stato, Saggi 76), II, pp. 809-833; lavoro parzialmente riproposto in Ferrari, The Gonzaga Archives of Mantua and their Rearrangements over the Centuries, along with an Overview of Archival Materials on Mantuan Jewry, in Rabbi Judah Moscato and the Jewish Intellectual World of Mantua in the 16th-17th Centuries, cur. G. Veltri - G. Miletto, Leiden-Boston 2012, pp. 145-160. 13 Cfr. A. M. Lorenzoni, Davari Stefano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 33, Roma 1987, pp. 115-117. Luzio riferisce nel 1903: «son continuati i lavori d’ordinamento a cui il Davari ha atteso nell’archivio Gonzaga e nel 1902 egli ha compiuto l’indice e transunto di ciascun documento della rubrica F. II. 7, minute della cancelleria e copie di lettere provenienti da stati esteri, dal 1399 al 1448» (ASMn, Archivio della Direzione, b. 220bis, relazione annuale 1902, 7 febbraio 1903), e prosegue circa «l’indice e transunto dei documenti più importanti della rubrica H.III.1, ragioneria, dazi, bilanci, ruoli ecc. dal 1318 al 1768 (pezze 750), indici coi quali è resa più agevole la ricerca in due delle rubriche finora meno conosciute dell’archivio Gonzaga. È da augurare che il signor Davari possa disimpegnare le sue mansioni ancora per lungo tempo, senza risentire gli acciacchi dell’età che cominciano purtroppo a intaccare la sua fibra robustissima».
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consegue una seconda laurea in Lettere ed è promosso “sotto archivista” di prima classe; il 2 settembre 1905 sposa Adelia Montanari, nata a Gazzuolo (Mantova) l’11 luglio 1881, e la loro unione è allietata dalle figlie Lina, nata il 3 luglio 1906, e Adele, nata il 20 ottobre 190814. Luzio si compiace delle sue capacità e dell’entusiasmo giovanile, ne elogia l’attività di inventariazione dell’archivio Gonzaga condotta con rigore scientifico15 e si ripete negli anni in una serie di giudizi lusinghieri che possiamo leggere nelle relazioni annuali relative all’attività dell’Istituto: «Nuovo acquisto eccellente di questo personale è l’allievo Torelli, poiché ha vero temperamento archivistico, essendo esatto, pacato, metodico. La cultura letteraria e giuridica di cui è fornito lo pone in grado di fare rapidi progressi nelle discipline storiche. Per meglio addestrarsi nella Paleografia con esercizi pratici, ha cominciato a sunteggiare le pergamene dell’Archivio Gonzaga, Rubrica “D”, concernenti i “Beni di diversi particolari passati in proprietà dei dominanti di Mantova”; e le schede da lui fatte in brevissimo tempo di 206 pergamene dagli anni 1113 al 1214 mostrano già molta sicurezza e precisione»16. Successivamente lo giudica: «un giovane promettentissimo», «giovane assai colto», «encomiabilissimo e già maturo per una direzione, ch’egli terrebbe con zelo, capacità e tatto esemplari»; «impiegato-modello per capacità, zelo, tatto, attaccamento all’ufficio», «impiegato di valore eccezionale», «ottimo, è il beniamino della direzione per le sue doti di ingegno e carattere», «il suo carattere è
14 Ibid., b. 208, n. 99, 15 gennaio 1914. b. 188, Economato e contabilità 1895-1934; altri familiari a carico sono la madre Vivaldini Adele, nata il 28 giugno 1853, e la sorella Iside Torelli, nata il 23 novembre 1882. 15 Dalle relazioni annuali relative all’attività dell’Istituto è possibile seguirne passo passo l’attività. Così si esprime Luzio nel 1906: «Quasi tutte le indagini riflettono l’archivio Gonzaga, nel quale ora, con l’acquisto di un ottimo elemento nel dottor Pietro Torelli si è dato mano all’inventario scientificamente condotto. Usufruendo dei lavori preesistenti dei vecchi archivisti e di tutti gli elementi già predisposti coi suoi diligentissimi spogli del sotto archivista Stefano Davari, il dottor Torelli ha preso a ripassare filza per filza tutte le serie dell’archivio, e benché l’opera sua dati da poco tempo, perché dovette prima attendere ad allenarsi nelle materie di esame per la sua promozione, pure egli è già quasi al termine della rubrica “B”, che concerne il dominio della città e stato di Mantova» (ibid., b. 220bis, 22 gennaio 1906). 16 Ibid., b. 208, n. 39, 14 giugno 1907, Luzio al Ministero dell’Interno. Informazioni sul personale: «Ottimo, è il beniamino della direzione per le sue doti di ingegno e carattere». Annotazioni: «Il dottor Torelli ha intrapreso importantissimi lavori di ordinamento nell’Archivio Gonzaga nel quale egli già virtualmente sostituisce il cavalier Davari»; ibid., n. 62, 9 febbraio 1911, Luzio al Ministero dell’Interno. Informazioni sul personale: «Il dottor Torelli è per doti intellettuali e morali encomiabilissimo e già maturo per una direzione, ch’egli terrebbe con zelo, capacità e tatto esemplari». La sua condotta verso i superiori
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veramente aureo, mai egli solleva quelle questioni tanto uggiose e pur tanto frequenti negli uffici del ‘non tocca a me’; ligio al dover suo è deferentissimo ai voleri della direzione, servizievole e cortese coi colleghi e con tutti [...] ha un alto sentimento della missione scientifica dell’archivista [...]»17. E quando non ha più a disposizione un giudizio di valore superiore rispetto alla gerarchia presente nei moduli ministeriali (ottimo, buono discreto, mediocre, infimo) Luzio prende a prestito dal francese un superbo hors ligne, dunque al di fuori di ogni classificazione possibile. Intuisce le capacità del giovane collega e soprattutto l’attitudine alla ricerca, manifesta tuttavia continuamente la sua preoccupazione, poiché ne presagisce l’allontanamento a vantaggio della carriera universitaria, che in effetti si realizzerà più tardi18. Nel corso del 1904 Torelli ha sunteggiato 337 pergamene dal 1215 al 1249 (Archivio Gonzaga, Rubrica D.IV.16), e, come osserva Luzio: «complessivamente la serie di questi atti risalendo ininterrotta e copiosa fino al 1113 è di sommo interesse per la diplomatica dell’atto privato e per la storia della forma giuridica di esso»19. Luzio riconosce accanto a una robusta cultura storica e giuridica la straordinaria sensibilità archivistica di Pietro di Torelli e le sue capacità di procedere con rigore scientifico: il giovane collega ha effettuato una ricognizione sistematica di tutte le filze dell’Archivio Gonzaga, a partire dalla “Rubrica B” che riguarda il dominio della città e dello stato di Mantova, è: «Ottima e improntata alla più squisita delicatezza»; prosegue Luzio: «non posso che ripetere la più alta soddisfazione su questo impiegato-modello per capacità, zelo, tatto, attaccamento all’ufficio e per i più lieti presagi per l’avvenire brillante che merita»; ibid., b. 208, n. 99, 16 gennaio 1914, Luzio al Ministero dell’Interno. Informazioni sul personale: «Impiegato di valore eccezionale». 17 Ibid., b. 220bis, n. 64, 26 gennaio 1910, Relazione attività 1909. 18 Luzio manifesta il timore che Torelli possa lasciare gli Archivi per la carriera universitaria e arriva per questo a chiedere un aumento al Ministero: «Allegato E): Ha aggiunto alla laurea in Legge quella in Lettere, e a me resta un solo timore: che un giovane dotato di così larga coltura, di così ammirevole e costante laboriosità possa esser sedotto da altre carriere meglio retribuite [...] non cessa per questo la sua condizione in Archivio di esser sempre quella d’un impiegato che io temo precario. Ed è perciò che invoco dal nuovo organico un miglioramento efficace, perché la buona fortuna di questo sotto archivista promettentissimo prima o poi non ci sfugga» (ibid., b. 220bis, n. 45, 17 gennaio 1907, Relazione attività 1906); di nuovo scrive nel 1913: «Temo purtroppo che la libera docenza a Bologna tramutandosi in incarico possa toglierlo a questo ufficio, per cui sarebbe una perdita dolorosissima» (ibid., b. 208, n. 85, 17 gennaio 1913, Luzio al Ministero dell’Interno, Tabelle informative del personale). 19 Ibid., b. 220bis, Relazioni annuali 1893-1914, n. 25, 12 gennaio 1905, Relazione attività 1904: «Torelli ha fatto sunti sommari di 337 pergamene (Allegato F), addentrandosi sempre meglio nella paleografia».
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documentazione di capitale importanza non soltanto per le vicende locali mantovane, del periodo più antico e meno noto delle dominazioni bonacolsiana e gonzaghesca, ma anche per la storia generale del Medio Evo; Luzio ha preso accordi con Giuseppe Mazzatinti – instancabile ricercatore di manoscritti e curatore di repertori bibliografici e archivistici ancora oggi fondamentali – per far pubblicare il lavoro di Torelli nella collana degli Archivi d’Italia20, ma in realtà il progetto si realizzerà soltanto nel 1920 per opera dell’Accademia Virgiliana21. Luzio allega alla propria relazione al Ministero un primo saggio dell’inventario dell’Archivio Gonzaga redatto da Torelli, accompagnato da una dettagliata relazione dello stesso Torelli nella quale possiamo già leggere in filigrana il suo programma di studiare fenomeni storici di carattere generale partendo dai documenti locali; al tempo stesso Torelli offre una prova di buonsenso e di sensibilità archivistica – oggi diremmo un esempio di buone pratiche – laddove afferma che non sarebbe possibile, né conveniente rimettere mano all’Archivio Gonzaga, stravolto dagli interventi di riordinamento per materie. Egli scrive infatti: «A tutto il 31 dicembre 1905 ho compiuto l’inventario delle prime sessanta buste dell’Archivio Gonzaga, tutte comprese sotto la lettera B-Rubriche I-XXIX [...]. La mancanza di ogni traccia sicura riguardante gli smembramenti avvenuti nel dare all’Archivio Gonzaga l’attuale ordinamento, rende ora impossibile, o almeno estremamente incerta, la reintegrazione dei singoli documenti nella loro sede originaria e naturale; e poiché d’altra parte quell’ordinamento, quantunque su base non attendibile, venne compiuto coscienziosamente, così che alle esigenze della ricerca pure in qualche modo risponde, un mutamento generale, completo, non sarebbe neppur conveniente». Torelli anticipa in questo caso un concetto che sarà teorizzato soltanto molti anni dopo dalla disciplina archi-
20 Così afferma Luzio nella relazione relativa all’attività dell’Istituto del 1905: «Mi gode l’animo di annunciare che per accordi già presi col Prof. Giuseppe Mazzatinti il lavoro del Torelli, fatto sempre colle mie direttive è destinato alla stampa e occuperà un intero volume degli Archivi d’Italia del Mazzatinti medesimo. Così l’Archivio di Mantova avrà il suo inventario pubblicato tra breve senza alcuna spesa del Ministero e con vantaggio degli studiosi. Che solo allora potranno valutare tutte le ricchezze finora poco men che ignorate o appena intravviste dei fondi gonzagheschi […]»; «Allegando il primo saggio d’inventario dell’Archivio Gonzaga, che è frutto degli studi del Dott. Torelli, esprimo la mia viva soddisfazione nel veder confermato i buoni presagi da me fatti sull’avvenire di questo eccellente giovane» (ibid., b. 220bis, n. 27, 22 gennaio 1906, Relazione attività 1905). 21 Torelli, L’Archivio Gonzaga di Mantova cit., cfr. nota 3. Pietro Torelli sarà inoltre Prefetto dell’Accademia Virgiliana dal 1929 al 1948.
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vistica, ovvero che ogni riordinamento d’archivio debba sì tenere conto della sedimentazione originaria delle carte, ma anche degli interventi di riordinamento sopravvenuti nel corso del tempo, che fanno parte della storia di ciascun complesso documentario. E prosegue, infatti, affermando: «Queste ragioni consigliano a toccare il meno possibile, nelle ragioni dell’inventario, l’ordine attuale delle rubriche e delle loro suddivisioni ed a rivolgere invece ogni cura a rendere chiare e sufficienti le indicazioni fornite dal titolo e dalle note cronologiche e numeriche di ciascuna. Per questo, nel nuovo inventario, i titoli saranno in gran parte mutati, e le indicazioni cronologiche non solo corrette ove occorra, ma fatte più abbondanti. Lo scopo, che intendo raggiungere così, è di mostrare per quali periodi storici ogni singola rubrica, ogni suddivisione di essa, sia più ricca di documenti o più scarsa, o addirittura lacunosa [...] poiché si è constatata la impossibilità pratica ed in parte anche la non convenienza di cambiare ora tutto l’ordinamento dell’Archivio, è pur necessario in qualche modo indicare tutto quanto quell’ordinamento nasconda o non rileva a sufficienza». Torelli sottolinea l’importanza dell’Archivio mantovano, che potrebbe essere ritenuto un archivio “minore” per quanto riguarda la mole: la quantità di documenti medievali confluiti nell’Archivio Gonzaga non è infatti particolarmente rilevante – e ciò è da porre in relazione anche all’incendio che distrusse il palazzo del podestà nel 1413 –, ma certo si tratta di un archivio non “minore” per la qualità e per la peculiarità delle fonti conservate. E proprio su questi punti ci propone interessanti riflessioni: «è naturale la loro massima importanza per la storia politica locale, pure anche riguardo a questa soltanto, nessuno storico fin qui, ha usato di questi documenti in modo compiuto e, sotto certi aspetti, neppur sufficiente. Ma poiché i documenti datano fin dal secolo XI, per il periodo comunale assurgono già alla importanza di elementi positivi per la storia generale di quella oscura epoca. E più, del passaggio dal Comune alla Signoria, e delle prime forme velate ed incerte di essa, i non pochi documenti bonacolsiani forniscono un esempio prezioso. Fuori della storia locale può dirsi brevemente che i documenti pubblicati dall’illustre professor Carlo Cipolla sulle relazioni tra Mantova e Verona non sono che una parte, quantunque considerevole, della ‘Rubrica XXVI’. Venezia, Reggio, Parma, Milano ecc., non ebbero colla nostra città minori rapporti di Verona, né sono essi meno riccamente illustrati da questa rubrica sola. E poi, dal 1300 fin verso la fine del 1400, tutta la intricata parte di storia italiana, che in senso più ampio può dirsi trovi il suo centro nella politica dei signori di Milano, è qui documentata in più che quattrocento atti, originali per la massima parte, ed anche in minute ricche di pentimenti, di correzioni preziose, uniche fonti
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per la conoscenza di intenzioni o desideri che l’atto finale ufficiale non rivela»22. Questo documento, a fronte di un Torelli maestro di se stesso, ritroso a fornire indicazioni di metodo, può essere letto come una lezione di archivistica e come una lezione di metodologia della ricerca storica, soprattutto della storia locale intesa come luogo di verifica e come cartina di tornasole della storia in generale. Tra i lavori archivistici di quegli anni si segnala l’inventario dell’archivio del Monferrato, o meglio di ciò che di esso era rimasto a Mantova, confuso tra le copiose serie gonzaghesche: «Si era finora creduto poco meno che totalmente disperso l’antico archivio del Monferrato di cui l’Austria nel 1729 aveva ordinato lo scorporo per ridonarlo alla corte sarda. Orbene, con la scorta di un indice di quell’archivio, che questa Direzione potè ottenere in dono da un generoso concittadino, il dottor Torelli sta ricostituendo quell’archivio, seguendone le vestigia nelle varie rubriche degli atti gonzagheschi, ed è non senza sorpresa e con legittima soddisfazione che si sta constatando come l’asserita dispersione delle carte monferrine sia stata meno dannosa di quanto temevasi [...]»23. Nel 1907 Stefano Davari lascia l’Archivio di Stato e Torelli lo sostituisce nell’attività di funzionario di sala studio assistendo studiosi e ricercatori con grande competenza, ma assolve anche il disbrigo di pratiche amministrative, partecipa alle operazioni di trasferimento di una mole enorme di materiale documentario dalla sede del castello alla nuova sede della Trinità24. Nel 1910 riordina le pergamene dell’Ospedale civile, in precedenza descritte solo parzialmente da Stefano Davari, esaminandole una a una (sono 3269), correggendo datazioni e arrotolandole accuratamente per collocarle in scatole, mentre prima erano ammassate in grossi rotoli25. Nel corso del 1911 proseguono i suoi diligentissimi spogli che portano al ritrovamento di lacerti di documenti medievali già riutilizzati come rile-
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ASMn, Archivio della Direzione, b. 220bis, n. 27, 22 gennaio 1906, inserto all. E. Ibid., b. 220bis, n. 45, 17 gennaio 1907, Relazione attività 1906. Una relazione di Torelli sull’archivio del Monferrato è nella medesima b. 220bis. 24 Ibid., b. 208, n. 48, 14 gennaio 1909, Luzio al Ministero dell’Interno: «Personale dell’Archivio. Dottor Pietro Torelli archivista, ha la vigilanza in sala di studio dell’Archivio Gonzaga, attende ai lavori di inventario del medesimo (regesto delle carte pregonzaghesche), collabora in caso di bisogno alle ricerche negli atti amministrativi, di cui parte si trova nella nuova sede attigua all’Archivio Gonzaga». 25 Ibid., b. 220bis, n. 67, 25 gennaio 1911, Relazione attività 1910. Le pergamene dell’Ospedale sono state restaurate e stese in cassettiera, su iniziativa di chi scrive, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
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gature26; continua nel frattempo l’incarico di docenza di Paleografia e Diplomatica presso l’Università di Bologna e presso la Scuola di Paleografia annessa all’Archivio di Stato di quella città, a titolo gratuito; come sottolinea Luzio, «per Torelli queste lezioni a Bologna non sono che puramente passive e quindi tanto maggiore agevolazione vuol essere accordata a chi onora gli studi e il personale archivistico»27. Nel 1915 è richiamato alle armi, è assegnato al Comando del quarto corpo d’armata e viene congedato il 19 gennaio 191928; presta servizio come soldato di fanteria addetto ai magazzini di rifornimento29.
26 Ibid., b. 220bis, n. 71, 25 gennaio 1912, Relazione attività 1911: «Si trovarono per esempio i seguenti fogli: ‘Liber ambaxatarum’ del 1283; foglio d’introiti de’ dazi del Comune del sec. XIV; foglio di spese ed entrate del Comune per il luglio 1325; tre fogli di minutari di notai ai banchi giudiziari, secolo XIV». 27 Ibid., b. 220bis, n. 82, 23 gennaio 1915, Relazione attività 1914. 28 Cfr. A. Bellù, Pietro Torelli archivista e direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, in Convegno di studi su Pietro Torelli cit., p. 77; ASMn, Archivio della Direzione, b. 208, n. 124, 19 luglio 1915, Luzio al Ministero dell’Interno: «il primo archivista dottor Torelli è stato richiamato in servizio militare presso il locale Distretto. Credevasi che la missione fosse temporanea, ma vengo assicurato che durerà invece sino alla fine della guerra; donde la necessità di provvedere alle esigenze di servizio in questo Archivio concentrando tutto il personale nella sezione Gonzaga. Con un impiegato di merito eccezionale qual è l’archivista Partesotti e con un ottimo aiutante quale l’economo Bolza [Oddone] non si avrà certo a verificare il menomo inconveniente nel disimpegno del servizio, malgrado questo dimezzamento del personale. Ne do alla Superiorità il debito avviso per ottenere l’approvazione in base alla quale farò diramare a giornali locali l’annuncio che a datare dal 1° agosto resta chiuso sino a nuovo ordine». Alla visita di leva risulta abile, per i dati somatici cfr. Reg. 303 Mandamento di Mantova, n. 200; ibid., b. 208, n. 117, 19 maggio 1915, Luzio al Ministero dell’Interno. Risponde a un telegramma del 18 maggio (ibid., n. 116) che chiede quali funzionari «richiamati o richiamandi conoscano bene la lingua russa, o inglese, o francese, o rumena» Oggetto: impiegati versati in lingue straniere: «gli impiegati richiamandi non sono che due: l’archivista dottor Torelli e l’aiutante dottor Capograssi. Il primo legge l’inglese e parla mediocremente il francese; l’altro legge soltanto il francese». 29 Ibid., b. 208, comunicazione del direttore Alessandro Luzio, 25 agosto 1915: «Gli impiegati di questo Archivio richiamati sotto le armi sono due. 1. Torelli Pietro, primo archivista, che presta servizio in qualità di soldato di fanteria presso il distretto di Mantova come addetto ai magazzini di rifornimento. 2. Capogrossi dottor Antonio, soldato della sanità militare addetto al 49° ospedaletto da campo, presidio di Tolmezzo». Risposta del direttore Partesotti al telegramma del Ministero dell’Interno che chiede i nominativi degli impiegati con il grado di ufficiale, 23 gennaio 1918 «I archivista Pietro Torelli sottotenente M. T. Fanteria classe 1880, categoria 3°, abile alle fatiche di guerra, passò cinque mesi al fronte, effettivo al distretto di Mantova, aggregato all’82° Battaglione territoriale e, in seguito a telegramma Ministero Guerra, per qualche ora del giorno a disposizione dell’Archivio». (Ibid., b. 208, 19 maggio 1915).
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Nel 1920 vede finalmente la luce il più volte citato volume sull’Archivio Gonzaga, in calce al quale sono pubblicati anche gli inventari dell’archivio del Monferrato e dell’archivio dell’Ospedale. Dunque vedono la luce i risultati dei suoi lavori di archivista eseguiti a partire dalla fine del 1903 e sostanzialmente completati intorno al 1914. Ma prosegue anche la sua feconda edizione di fonti: nel 1914 pubblica il Regesto mantovano. Le carte degli archivi Gonzaga e di Stato in Mantova e dei monasteri Mantovani soppressi; nel 1921 pubblica Le carte degli archivi reggiani fino al 1050; nel 1924 L’Archivio della Cattedrale di Mantova; nel 1925 L’Archivio dell’Ospedale Civile, lasciando da parte l’opus magnum della glossa accursiana rimasto incompiuto: lavori poderosi dai quali traspare un’approfondita conoscenza storica generale e locale, un’assoluta padronanza paleografica, un sicuro intuito ricostruttivo dei formulari. Come afferma il suo principale allievo, Ugo Nicolini, per Torelli «mettere in luce i documenti del passato è saper camminare sulla via maggiore dei bisogni dello spirito»30. Concludo il mio breve contributo con le parole dello stesso Torelli: «l’archivista che custodisce, ordina ed elenca senza occuparsi almeno di quella parte della vita intellettuale che nasce dai documenti del proprio archivio, in fondo non esiste […], perché la comprensione vera dei tesori che custodiamo, la comprensione necessaria proprio anche a ordinarli ed elencarli, nasce dalla loro elaborazione scientifica […]. E questa connessione immediata con la vita scientifica che si muove ed avanza è il riconoscimento non discutibile e, conveniamone, non del tutto tranquillante, dell’unica nostra via: via difficile e senza termine come tutte le vie del sapere, l’unica, in fine, per cui possiamo sfuggire alla questione terribilmente stupida e logica, se cioè quando tutto sarà ordinato, tutto elencato, quando la ricerca sarà un puro ed infallibile atto meccanico, noi dovremo scomparire, come tanti computisti di fronte ad una più perfetta macchina calcolatrice»31. Parole pronunciate un secolo fa, ben prima dell’avvento dell’informatica, ma che sembrano precorrere i tempi e prevederne i rischi. In un presente gravato da un senso diffuso di perdita della memoria collettiva, causato dalla perdita, e quindi dall’assenza di cultura, un modo per resistere sembra essere quello di rimanere nel solco della tradizione che i nostri maestri ci hanno lasciato. Torelli è stato uno di loro.
30 U. Nicolini, Tecnica e spirito nel Torelli editore di fonti, in Convegno di studi su Pietro Torelli, cit, pp. 17-30: 24. 31 Torelli, L’Archivio Gonzaga di Mantova cit., p. XV.
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II COMUNALISTICA E NOTARIATO
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MASSIMO VALLERANI
LOGICA DELLA DOCUMENTAZIONE E LOGICA DELL’ISTITUZIONE PER UNA RILETTURA DEI DOCUMENTI IN FORMA DI LISTA NEI COMUNI ITALIANI DELLA PRIMA METÀ DEL XIII SECOLO
Un momento importante nella definizione del ruolo delle scritture pubbliche nel medioevo comunale rimane l’edizione del Codice Diplomatico del Comune di Perugia curata da Attilio Bartoli Langeli1. L’autore individuava con chiarezza un nuovo oggetto di ricerca della diplomatica comunale: non l’edizione di una “fonte per la storia del comune”, ma «la capacità e i modi concreti di produrre e conservare, insomma di utilizzare documenti scritti», assumendo i documenti di questo periodo come «prodotti di una tensione intellettuale». Tensione tra le sollecitazioni poste in essere dall’azione del comune e le soluzioni escogitate dai notai sul piano documentario. Si trattò di una mediazione anche ideologica, come sottolinea giustamente l’autore, dove «la legittimazione [...] e la riflessione sul potere sono risolte in pure forme documentarie» 2. Naturalmente Bartoli si riferiva al primo comune, quando la documentazione pubblica doveva cercare una forma di validazione ancora interna al mondo notarile3. Tuttavia, credo che lo schema di analisi sia applicabile con profitto anche al Duecento maturo. 1 Codice Diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (11391254), I, 1139-1237, ed. A. Bartoli Langeli, Perugia 1983; premessa pp. XI-XXXIII: p. XV. 2 Un via già percorsa da Gian Giacomo Fissore che alle sperimentazioni documentarie dei notai astigiani aveva dedicato uno studio pionieristico e insuperato, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti, Spoleto 1977. 3 Cfr. anche A. Bartoli Langeli, Notariato, documentazione e coscienza comunale, in Federico II e le città italiane, cur. A. Paravicini Bagliani - P. Toubert, Palermo 1994, pp. 264-277.
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La tensione intellettuale, così evidente nelle pattuizioni della metà del XII secolo, non diminuì certo quando si trattò di organizzare documentalmente anche altre articolazioni del comune come ente pubblico nel corso del primo Duecento: per esempio le acquisizioni patrimoniali, l’elezione di ufficiali, le registrazioni delle entrate e delle uscite, i debiti e i crediti del comune. Di questa documentazione, gran parte tramandata nei libri iurium, vorrei richiamare solo un aspetto che emerge in maniera chiara come tratto unificante di situazioni per altro assai diverse: il carattere fondamentalmente patrimoniale delle azioni politiche del comune. Come ha scritto Paolo Cammarosano nell’introduzione al Caleffo vecchio, una delle caratteristiche della prima età comunale – e della prima documentazione comunale – era proprio quella di unire, e non di dividere, il momento del dominio politico da quello dell’acquisizione patrimoniale; da qui la «compresenza di un elemento patrimoniale, per cui il dominio sul territorio passava attraverso la proprietà giuridicamente definita di castelli e superfici, piazze, case, terreni, e di elementi di autorità pubblica espressi ancora in termini generici»4. Siamo ancora all’interno di una «concezione dell’esercizio dei poteri di natura pubblica come intrinsecamente connesso a forme di detenzione patrimoniale»5. Questa dimensione patrimoniale del potere pubblico caratterizzò profondamente la costruzione delle istituzioni comunali come organi di governo della città e della popolazione urbana: il comune era l’insieme dei beni comunali, dei suoi terreni, mura, strade, denaro circolante, abitanti e cives. La dinamica politica del primo comune, in altre parole, non poteva ignorare il nesso fra esercizio del potere e controllo “proprietario” dei beni pubblici, così come non poteva ignorare il peso delle condizioni personali dei residenti in città e nel territorio nei rapporti con l’istituzione comunale: diritti e doveri, oneri e privilegi andavano di volta in volta commisurati al tipo di relazioni che i cives potevano o dovevano intrattenere con l’ente comunale. Anzi, la tesi di fondo di questo studio, è che proprio la necessità del comune di dover tenere conto di uno “stato delle cose”, in senso materiale, rappresentò una delle spinte ideologiche più forti a trovare soluzioni documentarie innovative6; e che, in misura prevalente, queste solu-
4 P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al Caleffo vecchio del Comune di Siena, in Il Caleffo Vecchio del Comune di Siena, V, Siena 1991, pp. 5-81: 39. 5 Ibid., p. 40. 6 I processi documentari delle città medievali, non solo italiane, sono al centro di un’intensa stagione di studi della storiografia europea; si ricordano, solo come esempio:
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zioni tecniche, frutto di una continua tensione intellettuale verso la classificazione di cose e persone, presero la forma documentaria della lista e dei libri contenenti liste ed elenchi, selezionati secondo le diverse operazioni politiche che il comune poneva in essere. Classificare, contare, distinguere furono operazioni di base del sistema di connessione del comune con le sue res e con i cives. Il rapporto fra le liste e i sistemi di governo è stato già esplorato in ottimi studi sui processi documentari del comune maturo7. Qui si intende risalire di qualche decennio verso la fase formativa del comune podestarile, fra il 1200 e il 1250 circa, per ricostruire una sorta di “archeologia” del registro in forma di lista, esaminando i contesti politici in cui maturarono queste spinte e la natura delle soluzioni tecniche trovate dai notai per organizzare lo spazio di scrittura di documenti pubblici sempre più complessi. Alla fine di questo esame cercheremo di capire meglio i modi di affermazione della lista come strumento di governo: a quali funzioni ideologiche ubbidiva e come il comune la usò per inquadrare il reticolo fittissimo delle relazioni dei cives con le istituzioni pubbliche secondo categorie politiche determinate. La lista come strumento di classificazione illumina, in altre parole, le forme d governo che il comune cercò di imprimere alla società urbana nel corso del Duecento. 1. Le res communis e le inchieste pubbliche fra XII e XIII secolo L’arrivo del podestà forestiero segnò in moltissime città un ampliamento senza precedenti delle competenze del governo comunale e dei settori di intervento. In questi decenni, tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, il sistema documentario pubblico fu impegnato in lunghe operazioni di censimento e delimitazione dell’honor del comune in forma di inchieste
Pragmatische Schriftlichkeit im Mittelalter. Erscheinungsformen und Entwicklungsstufen, cur. H. Keller - K. Grubmüller - N. Staubach, München 1992 (Münstersche MittelalterSchriften, 65); Kommunales Schriftgut in Oberitalien. Formen, Funktionen, Überlieferung, cur. H. Keller - T. Behrmann, München 1995; Pragmatic Literacy East and West, 12001330, cur. R. Britnell, Woodbridge-New-York 1997; New Approaches to Medieval Communication, cur. M. Mostert, Turnhout 1999 (Utrecht Studies in Medieval Literacy). Per il 1200 come secolo di svolta, cfr. F. Menant, Les transformations de l’écrit documentaire entre XIIe et XIIIe siècles, in Écrire, compter, mesurer. Vers une histoire des rationalités pratiques, cur. N. Coquery - F. Menant - F. Weber, Paris 2006, pp. 33-50. 7 Mi riferisco naturalmente al saggio seminale di G. Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione duecentesco, «Rivista stori-
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pubbliche, tradotte spesso in elenchi di persone e di beni riuniti poi in quaderni. Sono inchieste non neutrali dal punto di vista tecnico: servono anzi a determinare un punto di partenza, uno status iniziale della ricchezza del comune, strappato a una gestione tradizionale basata sulla consuetudine e su una diffusa e impunita appropriazione dei beni comuni da parte dei concessionari. L’intervento del podestà – spesso accompagnato dalle altre componenti politiche della città, come i rappresentanti del Popolo – mostra bene il significato strategico di questi recuperi, che riguardavano direttamente il controllo giurisdizionale della città su ampie porzioni del comitato. Per esempio, l’inchiesta sui beni in Castelnuovo Bocca d’Adda a Cremona fu condotta nel 1183 dal podestà del comune insieme al podestà del Popolo Cremosiano Oldoini e si tradusse in un fascicoletto di 16 fogli con l’elenco delle persone e dei relativi redditi, usus et rationes «quas comune habet et habere debet»8. Così l’inchiesta del 1192 sull’appartenenza di Monticello a Piacenza, ad opera del podestà Rolando de Canussio, venne fatta «ad perpetuam rei memoriam super iurisdictione et subiecione quam commune Placencie dicit se habere et consuevisse habere»9. Il recupero dei beni pubblici di Vercelli fu guidato dai consoli del 1192 dopo un rumor collettivo contro le “chiusure” che impedivano l’accesso ai terreni pubblici per il pascolo («vociferando moltitudo populi»)10. I consoli interpretarono questa usurpazione come un vero pericolo per la città: «cuius cohartatione actus maximum dampnum seu periculum civitatis universitati conferebatur»; così, ascoltati gli anziani depositari della memoria collettiva, ridefinirono per scritto i confini dei beni comuni. A Novara le questioni relative alla tassazione del clero si intrecciarono strettamente con il controllo dei comunia e la preminenza giurisdizionale del vescovo. Anzi, almeno nelle città piemontesi, il comune non si limitò a riprendere il controllo dei terreni incolti, ma se ne appropriò in base
ca italiana» 108 (1996), pp. 149-229; e per un panorama regionale (Piemonte) L. Baietto, Elaborazione di sistemi documentari e trasformazioni politiche nei comuni piemontesi (secolo XIII). Una relazione di circolarità, «Società e storia», 98 (2002), pp. 645-679. 8 Edizione in Le carte cremonesi dei secoli VIII-XII, IV, ed. E. Falconi, Cremona 1988, pp. 4-14. 9 A Piacenza l’inquisitio in Registrum magnum del comune di Piacenza, edd. E. Falconi - R. Peveri, Milano 1984-1988, III, p. 217, n. 770. 10 Per l’inchiesta di Vercelli si veda R. Rao, I beni del comune di Vercelli. Dalla rivendicazione all’alienazione, Vercelli 2005, pp. 23-32. Il testo citato in Il libro dei pacta et conventiones del comune di Vercelli, ed. G. C. Faccio, Novara 1926, (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 97), pp. 128-129.
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«all’esercizio di diritti pubblici della città»11. Vale a dire che il podestà rivendicava i comunia non solo in base alla «lunga consuetudine», ma come beni già «pubblici», addirittura come regalia di pertinenza della città, anche se spesso dovette riconoscere una precedente titolarità episcopale sugli stessi beni12. Queste inchieste si traducevano, sul piano documentario, in complessi atti in forma di elenco, che attestavano le definitiones di beni o di persone soggette fiscalmente al comune. Il Liber potheris del comune di Brescia è uno dei massimi esempi di raccolta di atti patrimoniali pubblici in forma di lista-inventario13. Se i documenti del XII secolo erano soprattutto atti stipulati con singoli, nel primo ventennio del Duecento prevalgono invece gli inventari e le designationes o confinationes, operazioni molto più consistenti che dovevano avere anche in origine una forma di quasi-libro, o comunque di quaderni cospicui. Già in questi atti, le informazioni da inserire erano numerose – luoghi, nomi, estensioni, valori della terra – e si richiedeva ai notai una capacità tecnica originale per approntare la nuova documentazione in forma di libro14. Un processo simile, ma su materie diverse, si verificò anche a Treviso dove, fra il 1207 e il 1211, si formò una prima serie di quaterni di natura contabile: i quaterni extimarie, che contenevano la stima dei beni dei debitori del comune, cui si possono aggiungere, negli stessi anni, i quaterni dei distributores denariorum rerum venditarum pro comuni15. La materia, come
11 R. Rao, Comunia. Le risorse collettive nel Piemonte comunale, Milano 2008, p. 91; si veda anche E. Conte, Comune proprietario o comune rappresentante? La titolarità dei beni collettivi tra dogmatica e storiografia, «Mélanges de l’École Française de Rome», 114 (2002), pp. 73-94. 12 Si veda il caso di Ivrea, in Rao, Comunia cit., pp. 49-50. Utile anche l’esame comparato dei libri iurium piemontesi in “Libri iurium” e organizzazione del territorio in Piemonte (secoli XIII-XVI), cur. P. Grillo - F. Panero, Cuneo 2003 (= «Bollettino della Società per gli studi archeologici e artistici della provincia di Cuneo», 128 (2003) pp. 9-131). 13 Liber Potheris communis civitatis Brixiae, Torino 1899 (Historiae Patriae monumenta, XIX), su cui si veda R. Rao, Beni comunali e governo del territorio nel «Liber Potheris » di Brescia, in Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, cur. L. Chiappa Mauri, Milano 2003, pp. 171-199. 14 Si veda come esempio il Liber terrarum de emptione castri S. Genesi Canedo vicino a Casalmaggiore, in Liber Potheris cit., n. cxxiv, pp. 517-565: è in forma di lista, ma occupa lo spazio di un vero libro, intestato al podestà Loderengo de Martinengo: «Infrascripte terre sunt a sero parte clarani» e segue elenco; «hec sunt terre domini Delaiti fili q. Anselmi» con luogo, estensione, “precio” (= valore?). In totale si tratta di qualche centinaio di persone e qualche migliaia di petie estimate, per un totale di 791 libre. 15 Sottolinea la non casualità della documentazione in registro per questi estimatori G.M. Varanini, Nota introduttiva in Acta comunitatis Tarvisii del secolo XIII, cur. A.
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si diceva, è leggermente diversa, ma simile è il rapporto fra l’uso dei quaderni, fascicoli organizzati di atti seriali, e la difesa dei beni pubblici, in questo caso dei crediti del comune. Anche a Bologna, come ha mostrato bene Giorgio Tamba, i primi libri inseriti nel Liber Grossus erano di natura economica e attestavano alcuni negozi particolarmente rilevanti conclusi dal comune16, come l’acquisto dei mulini; proprio le operazioni più impegnative sul piano dell’acquisizione patrimoniale presero subito una forma di liber, ancorché imperfetta, riunendo tutti i contratti simili in un’unica unità archivistica provvista di autonoma intestazione17. È importante sottolineare questo aspetto schiettamente patrimoniale della politica comunale del primo Duecento perchè ha influenzato profondamente la produzione documentaria successiva, con la moltiplicazione di quaderni e atti seriali in forma di lista. D’altra parte, le scelte politicodocumentarie erano dettate anche dai forti conflitti politici fra le parti nel primo trentennio del Duecento, conflitti che coinvolgevano non solo il recupero e la centralizzazione dei beni comuni, ma anche le forme di tassazione e di ridistribuzione della ricchezza da parte del comune. 2. Libri e questione fiscale nel primo trentennio del Duecento Il problema fiscale aveva costituito il cuore delle relazioni con il governo imperiale delle città sotto Federico Barbarossa costringendo molte città a ripensare le forme di esazione e di finanziamento del comune da parte
Michielin, Roma 1998, (Fonti della Terraferma veneta, 12) pp. XXIV-XXV. Anche i procuratori, già nello statuto del 1207, devono avere due quaternos dove riportare settimanalmente le loro entrate e uscite, ibid., p. XXVIII. Si veda anche la rubrica statutaria successiva, Statuti del comune di Treviso, rub. cxxxv, p. 54, de pignore et libello dando: «res omnes (dei debitori) prout invenero et cognovero in quaternione extimarie per meum vel per meos notarios scribi faciam infra tres dies post quam scriptum fuerit in quaternione comunis». 16 Si veda ora I libri iurium del comune di Bologna, Regesti, I, edd. A.L. Trombetti - T. Duranti, Bologna 2010; preceduto da un convegno sul tema, Cultura cittadina e documentazione. Formazione e circolazione dei modelli, cur. A.L. Trombetti, Bologna 2009 (Quaderni del Dipartimento di paleografia e medievistica, 3). 17 G. Tamba, Note per una diplomatica del registro Grosso, il primo liber iurium bolognese, in Studi in onore di Giovanni Cassandro, Roma 1991, pp. 1033-1048; si hanno tracce di un liber continens emptiones molendinorum che conteneva forse originali in copia dei contratti e un liber comunis, atto di assoggettamento del comune di Triforcia; un liber comunis di condanne e un liber degli inquisitores racionum; Tamba, “Libri”, “libri contrac-
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dei cives. Il fisco, lungi dall’essere un semplice strumento amministrativo18, era al centro della definizione giuridica e politica della cittadinanza e dei suoi limiti. Un giurista di peso come Rolando da Lucca, che tra le alte cariche aveva ricoperto quella di iustitiator communis debiti lucani, aveva a lungo commentato il libro 10 del Codice, glossando con cura nella sua Summa le tipologie di contributi e gli honera che ricadevano sui cives: su tutti i cives, anche sui membri della militia, che pur avendo diritto a cospicui rimborsi per le spese di guerra, dovevano contribuire al bene della città19. Una visione politicamente avanzata del ruolo della militia urbana che riflette bene la natura del contenzioso politico interno alle città di fine XII secolo. La spinta data dalle tensioni interne alla città per il controllo delle risorse pubbliche è innegabile: i principali sistemi documentari sono nati dopo, o in occasione di rivolgimenti politici spesso violenti. In questi casi, la redazione di nuovi documenti di natura contabile e fiscale sembra far parte della soluzione, come se la via di uscita dal conflitto consistesse, in misura rilevante, nella creazione di regole istituzionali comuni, sotto forma di statuti, e nel controllo più accurato della ricchezza pubblica affidato a nuovi magistrati e a nuove forme documentarie. I casi di Milano e Piacenza sono in tal senso esemplari. Milano, come è noto, conserva pochissimi documenti in originale della prima metà del Duecento20. Eppure la breve serie di statuti dei primi podestà ci dice molto di questa prima fase di scritturazione. Dopo lo statuto del 1209 che ordinava la redazione scritta delle doti e delle emancipazioni, la testimonianza successiva riguarda un episodio con rilevanti ricadute istituzionali: si tratta di uno statuto del podestà Guglielmo di Lando del 1211, in cui, per la prima volta, si trova menzione di un estimo per facultate: tuum”, “memorialia” nella prima documentazione finanziaria del comune bolognese, «Studi di storia medioevale e di diplomatica», 11 (1994), pp. 79-110; riguardo al liber dei contratti Tamba scrive, p. 91: «la nuova unità documentaria era qualcosa di più della somma dei singoli contratti, i quali proprio dall’inserimento in essa traevano un rafforzamento della loro capacità certificatrice». 18 Tende a stemperare il valore politico P. Mainoni, A proposito della «rivoluzione fiscale» nell’Italia settentrionale del XII secolo, «Studi storici», 44 (2003), pp. 4-42; e sulla sua scia P. G. Nobili, Alle origini della fiscalità comunale. Fodro, estimo e prestiti a Bergamo fra fine XII e metà XIII secolo, «Reti Medievali - Rivista», n. 11/1 (2010), che attenua, appunto, il significato politico alle lotte per il sistema fiscale del primo Duecento. 19 Si veda la recente edizione, La Summa Trium Librorum di Rolando da Lucca (11951234). Fisco, politica, scientia iuris, cur. E. Conte - S. Menzinger, Roma 2012; specialmente Menzinger, Questioni di diritto fiscale, ibid., pp. CLIII-CLXXI. 20 Per un quadro generale cfr. P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto 2001.
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«Inde statuì che ciascun podestà fusse tenuto al mese de febraro fare inventario de le facultate de citadini, burghesi, rustici e nobili forensi»21. È da notare che la menzione dell’estimo si trova in un ordinamento che non solo mette fine a un momento di forte confusione istituzionale, ma affronta questioni generali relative alle basi politiche della cittadinanza. Le prime norme dell’ordinamento riguardavano anche la possibilità di inurbamento dei rustici, stabilendo «che li borghesi e contadini potessino venire a repatriare et habitare ne la città di Milano e che non fusseno obligati ad alcuna graveza rusticale». Si incideva sul corpo politico della città e dunque il tentativo di creare un “inventario” dei cittadini non rispondeva solo alla spinta, probabilissima, dei ceti popolari verso una migliore ripartizione dei carichi fiscali, quanto a una nuova definizione della cittadinanza nelle sue componenti socio-economiche. L’aspettativa era alta, forse troppo, sia per i mezzi a disposizione sia per il disaccordo ancora forte sui criteri di fondo dell’appartenenza alla città. E infatti di questo inventario non ci sono tracce, mentre i conflitti continuarono. Resta tuttavia la connessione stretta tra estimo e definizione delle categorie dei cives, tra inventario delle facultate e confini della cittadinanza. Le liti intorno al fisco costituirono lo strumento principale di classificazione delle persone e della loro relazione con la città ed in questo risiedeva la sua rilevanza politica fin dai primi anni del Duecento. Ne sono esempi rilevanti il caso di Cremona, con la pace tra la pars militum e il populus cremonese siglata dal vescovo Sicardo nel 1210, che prevedeva, almeno in teoria, una spartizione dei posti in consiglio e degli uffici (un terzo riservati al popolo) e la promessa di una più equa ripartizione dei carichi da ottenere con una nuova extimatio dei beni: «facta extimatione super habundantibus rebus per viros discretos»22. E ancora su questi temi fu la lite che contrappose milites e pedites a Piacenza fra il 1219 e il 1220, provocando una spaccatura e una duplicazione delle istituzioni. Si formarono due “comuni”, divisi in primo luogo
21
Gli atti del comune di Milano fino al 1216, ed. C. Manaresi, Milano 1919, n. 352, p. 471. Il documento, e i seguenti, sono conservati in forma volgare in Storia di Milano di Bernardino Corio, ed. A. Morisi Guerra, Torino 1978, p. 308. Sulla fiscalità milanese è ancora necessario G. Biscaro, Gli estimi del comune di Milano nel secolo XIII, «Archivio storico lombardo», ser. VI, 55(1928), pp. 343-495; si veda anche P. Grillo, L’introduzione dell’estimo e la politica fiscale del comune di Milano, in Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia settentrionale (secoli XIII-XIV), cur. P. Mainoni, Milano 2002, pp. 11-37. 22 Codex Diplomaticus Cremonae, cur. L. Astegiano, Torino 1898 (Historiae Patrie Monumenta, XXII), pp. 215-216 (da ora Astegiano, Codice diplomatico) .
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dalla squilibrata ripartizione delle cariche e dalle sperequazioni fiscali a favore dei milites, degli ecclesiastici e dei rustici dipendenti dai milites. Per questo le richieste dei populares al podestà bolognese Andalò, che provò a mediare la lite in una prima fase degli scontri, prevedevano la tassazione dei rustici dipendenti e la cassazione delle carte di libertà fatte dai milites nei loro confronti: et irritentur in totum preter societatem et specialiter ordinamentum factum per eos in rusticis et in militibus qui sunt extra civitatem et libertas facta per eos et omnes carte infringantur et cassantur facte super libertatem rusticorum23.
Le richieste furono raccolte dal podestà, che non solo cassò le carte di libertà concesse ai rustici, ma abrogò anche i provvedimenti presi dalla società dei milites che liberalizzavano l’uso dei beni nel contado (potevano essere venduti, scambiati e alienati anche fuori dal contado, senza limiti)24. Ancora una volta il criterio di sperequazione fiscale si sovrapponeva a una più simbolica distinzione sociale della cittadinanza. In questo caso erano i populares a volere estendere le gravezze rusticali ai contadini dei signori, per marcare una più netta differenza con lo status di cives. Negli stessi anni si riaccese a Milano un conflitto su questioni simili, in grado di modificare in profondità la struttura sociale e politica della città: l’accesso alle cariche maggiori del capitolo ambrosiano, riservato ai milites, l’esenzione dalle tasse come criterio di distinzione sociale, i privilegi legati alla partecipazione politica come segno di dominio, invocati e difesi dai milites. In un ordinamento del 1218, il Populus milanese aveva cercato di infrangere proprio questo monopolio, tassando i nobili e imponendo un controllo giurisdizionale diretto sul territorio. Insomma era un modo di essere che veniva messo in discussione, una forma generale dell’appartenenza alla città; se non si comprende bene questo punto, si perde una parte importante del significato che hanno assunto i processi documentari nelle città italiane nel primo trentennio del Duecento. Il compromesso che mise
23 Le richieste del Popolo in Archivio di Stato di Cremona, Fondo segreto, pergamena n. 567 (regesto in Astegiano, Codice diplomatico cit., I, p. 240, n. 316). 24 Pace di Andalò, 30 dicembre 1220, ibid. (regesto in Astegiano, Codice Diplomatico cit., I, p. 240, n. 318): «Eodem modo casso et irrito et infringo capitula ex parte societatis militum facta quorum capitulorum tenor talis est: § Non prohibebo alicui vel aliquibus de civitate Placentie vel burgis sive de districtu Placentie uti rebus suis ad voluntatem suam, vendendo, alienando, ducendo, extrahendo in civitate Placentie et districtu et extra districtum Placentie ubicunque voluerit et emendo de rebus alienis a quocumque ad voluntatem
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fine alla lotta, con il ritorno dell’arcivescovo in città dopo anni di esilio forzato, fu raggiunto il 10 giugno 1225 con l’ausilio di Onorio III e messo in atto dal podestà Aveno di Mantova. Si tratta di un insieme molto importante di regole e di strumenti di scritturazione di libri dal forte valore politico: in primo luogo andavano scritti – e dunque sottoposti al controllo pubblico – le condanne e i bandi, i debiti del comune, i rendiconti dei singoli uffici (che non potevano essere assegnati senza prima aver numerata pecunia), e inoltre, nonostante l’abolizione degli ordinamenti anti-nobiliari del 1218, si estese la raccolta delle imposte anche ai capitanei e ai valvassori che «dovesseno sustenere le unità de le gravezze de la republica», e si dispose nel testo del nuovo giuramento del podestà un inventario delle ricchezze: Item che in calende magio proximo facesse fare il conciglio de inquirere le facultate de citadini, borghesi o forensi, e piacendo al predicto conciglio, per homini idonei facesse fare tale descrizione25.
La strutturazione degli uffici pubblici ricevette un’ulteriore conferma nel 1228, quando un’altra importante riforma del podestà Aliprando Faba «territorializzò» le pratiche di registrazione: Item statuirono che li sei predicti havessino per li suoi notarii a fare tenere conto de l’intrata dil commune e nulla si numerasse se non prima fusse facta la scriptura ne li libri di tali sei, li quali anche haveano a dare opera che li potestate sindacasse li officiali de la administratione de la repubblica26.
Dunque gli stessi officiali che custodivano gli statuti dovevano scrivere tutte le entrate e le uscite del comune secondo le porte e dovevano al contempo aiutare il podestà a sindacare, cioè a sottoporre a revisione tutti gli ufficiali del comune. L’apparato documentario era di fatto funzionale a un
suam, preter quod non liceat alicui vendere nec alienare res immobiles alicui de alieno districtu». 25 Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, ed. F. Baroni, Milano 1976, p. 219, n. 148 r. 42; per gli uffici si stabilì che: «item che in ciascheduno mese per quello si facesseno li conti con li camerari, a li quali fusse comisso il governo della comunità e di ciò presso lui ne facesse fare publica et autentica scriptura […]- Item che tutti li officiali dil comune de Milano constrengerebbe al conto de tutta la pecunia havuta per la communità in termine d’ogni quattro mesi». 26 Ibid., p. 325, n. 229.
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apparato di controllo: ma un controllo finalizzato a una gestione meno esclusiva delle risorse, a una ripartizione concordata delle ricchezze e dei gravami che doveva basarsi su dati certi e verificabili. Inizia a chiarirsi, in sostanza, l’intreccio tra azione politica, documentazione, controllo delle risorse pubbliche e riproduzione di documenti per mezzo di documenti. I conflitti del primo periodo podestarile innescarono un meccanismo a catena che costrinse gli ufficiali del comune a elaborare sempre nuovi strumenti di definizione della cittadinanza e di ripartizione controllata delle risorse. La registrazione delle entrate e delle uscite e le liste di tassabili secondo la condizione giuridica si aggiunsero così a quegli elenchi di beni pubblici, o ricondotti sotto il dominio del comune, che prima abbiamo citato. Si tratta di una documentazione indubbiamente variegata, ma che trova un punto comune sul piano tecnico: la necessità di disporre nello spazio grafico del foglio un numero a volte rilevante di informazioni sintetiche; un quadro, appunto, di uomini, spese, somme dovute, o ricevute, che nel corso degli anni deve essere presentato in forme sempre più complesse sul piano giuridico. La singola informazione doveva essere non solo riprodotta nella sua completezza contabile, ma contenere anche gli estremi della sua legittimazione politica: chi aveva autorizzato la spesa, chi aveva convalidato quell’atto, quale notaio aveva scritto la carta e così via. 3. Sperimentazioni documentarie e dominio dello spazio grafico nella prima metà del Duecento La strutturazione dello spazio grafico dei documenti comunali che i notai del primo Duecento si sforzano di seguire risponde dunque a impulsi diversi: tecnici, economici, politici, uniti in un sistema complesso di administratio pubblica che doveva contemperare l’amministrazione fiscale con la qualità delle persone, la cittadinanza con l’adempimento degli obblighi verso il comune e la documentazione con le funzioni di memoria dell’azione di governo e di atto contabile sottoposto a controllo pubblico. Fu un processo di costruzione di competenze tecniche che durò per buona parte del Duecento, ma che ricevette una forte accelerazione fra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo. È interessante verificare sugli atti originali alcuni passi di questo processo, non solo per valutarne la gradualità e le diverse sperimentazioni che accompagnarono la sua realizzazione, ma per capire quali problemi e quali soluzioni sono state proposte sul piano
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grafico, quali forme si sono rivelate più utili a documentare le politiche amministrative del comune in questi decenni. Seguiremo inizialmente i casi di Cremona e di Pavia – con qualche esempio di Bologna – che dispongono di un insieme di frammenti documentari molto interessanti proprio per il primo trentennio del XIII secolo. La natura ancora incerta della documentazione cremonese, sospesa fra libri di lavoro e libri definitivi, ci permette di entrare nel dato tecnico della scrittura pubblica, di iniziare a indagare il ruolo della scrittura come tecnologia per la costruzione del sistema documentario comunale. Potremmo dire che i documenti cremonesi costituiscono una tappa intermedia delle prassi empiriche di uso delle liste che, nel Duecento maturo, conquistarono tutti gli apparati comunali delle città italiane. Ma, appunto, si tratta di un avvicinamento: nei documenti esaminati la forma di lista è ancora avvolta in un rete di grafica più ampia che arricchisce le singole voci di informazioni diverse. I primi documenti risalenti agli anni Venti sono liste di natura fiscale: si tratta di un insieme di strisce di pergamena che registrano insiemi selezionati di popolazione, individuati in base al pagamento del fodro nel contado. Sono lacerti di una revisione più generale dei criteri di esazione e di controllo della tassazione diretta, parallela a una serie di impegnative operazioni economiche che impegnarono il comune cremonese in quel torno di anni, come il grande debito contratto con alcuni prestatori per 1297 libre, «pro facto monete». In alcuni casi potrebbero essere delle liste di lavoro derivate da libri originari più ampi che non ci sono rimasti, anticipando la dialettica fra lista e libri già al 1225-26. Un primo esempio di lista derivata è la pergamena n.192 (fig. 1) con i nomi delle persone insolventi il fodro, una sorta di lista penale, come recita l’intestazione: «Isti sunt illi qui remanserunt ad solvere fodrum»27. La pagina è costruita come quella di un libro, su una colonna, in scrittura continua: è ordinata per località: il nome del villaggio è inquadrato in una cornice geometrica che lo isola dalle altre informazioni, ed è seguito dal nome della persona e dalla somma dovuta. L’elemento separatore, come appena detto, sembra essere il luogo di residenza, come se la lista seguisse un estimo delle ville del contado (in questo caso le ville della porta San Lorenzo) separate dalla riga seguente da una linea retta tracciata a penna. La derivazione di liste di secondo livello da un liber potrebbe trovare una conferma dalla pergamena 861 dello stesso anno (fig. 2) 28. Secondo
27 28
Solo regesto in Astegiano, Codice diplomatico cit., p. 251, n. 399. Ibid., p. 253, n. 401.
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l’intestazione, i nomi contenuti nella pergamena sono estratti da un liber fodri: «Isti sunt exemplati extra librum fodri in quo sunt scripti», ma attraverso una selezione più raffinata rispetto alla lista precedente: «Isti sunt illi qui portantur per villas quamvis non essent bene notificati nec noceat eis et fodro novo». Quindi una volta redatto il libro del fodro, si è passati a un esame dei singoli nomi, e si è visto che alcuni nomi del contado non erano “bene notificati”. Si preparò allora una lista secondaria, che divenne una lista di lavoro: ai nomi con l’indicazione delle cifre si aggiunsero note di rettifica e di cancellazione. Il foglio si complica, la divisione è più marcata perché le informazioni da contenere sono aumentate e soprattutto sono modificate nel tempo. Dalla semplice registrazione di uno status si sta passando alla registrazione dinamica dei cambiamenti di quello status (debitore del comune): una memoria attiva dei doveri fiscali delle persone rispetto al comune. È chiaro che i criteri di selezione delle informazioni determinano in maniera diretta la complessità dello spazio grafico. In tal senso – a parte altre liste di insolventi che si ripetono simili per il 1226-1227 – sono interessanti alcune operazioni economiche del comune, come il prestito pro facto monete ricevuto nel 1225 e ripagato nel corso dei tre anni successivi, fra il 1225 e il 1228. La pergamena 810 (fig. 3) contiene le relazioni di pagamento ai creditori del comune e ha come intestazione: «Hoc est debitum comunis factum tempore potestacie domini Rolandini Rubei [...] pro facto monete»29, che ammontava a 400 lire. Si tratta sicuramente di una lista di servizio, copiata da altri libri30, che contiene, in forma di elenco, la cifra del denaro restituito, il nome del prestatore, la data del prestito, l’ammontare dell’interesse e la durata (numero dei mesi per i quali si paga l’interesse). L’organizzazione delle informazioni segue ancora una forma “narrativa”, ordinando i singoli elementi in una sequenza unica di frasi rette dalla “quantità di lire” come soggetto. È uno schema diffuso quando si riportano micro-atti notarili in poche righe, una sorta di regesto dei pagamenti effettuati dal comune. Che questo elenco presupponesse un libro lo si evince da una menzione indiretta nel debito verso un certo «Petrus Aglocario» di 23 libre: «que reperiuntur in libro Oldoyni et socii». È probabile che il liber Oldoini fosse proprio il libro dei prestiti della capsa monete. Dunque
29 Edizione ibid., p. 252, n. 403. 30 I fori in alto ci dicono che probabilmente era legata ad altre, mentre le barre trasver-
sali indicano le cancellazioni; dunque la lista era usata come luogo di verifica
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il libro scritto nel 1224 doveva essere letto e rivisto periodicamente, sia perché il prestito durava un anno sia perché il comune pagava gradualmente i suoi creditori e doveva registrare la restituzione. Inoltre, di mano diversa, non sappiamo se nello stesso anno, si trova la scritta revisatus e il nome di una località, in questo caso Fossacapraria, Casalmaggiore e Polesine: la scritta indica che il credito è stato saldato trasferendo al creditore i redditi di quella località, secondo un ulteriore giro di posta che attesta la capacità dei governi consolari di connettere entrate diverse in un sistema di compensazioni unitario31. Naturalmente ci sono operazioni anche più complesse, come i bilanci comunali, le rationes di entrata e di uscita del comune di cui si conservano alcuni frammenti per questi anni. Si tratta di atti documentari importanti, sottoposti a continue revisioni e a cambiamenti di forma scrittoria, perché il bilancio sommario richiedeva un ricorso più consapevole all’incolonnamento e una più chiara gerarchia delle informazioni attraverso l’uso di segni paragrafali distintivi. I progressi delle tecniche sono in questo caso assai evidenti. Prendiamo due esempi: una lista del 1226 e un quaderno del 1234. La pergamena 811 del 1226 – «Ratio intrate sive lucri» – è un documento ufficiale che contiene un consuntivo finale delle entrate dei mesi di luglio e di agosto32 (fig. 4). Il compito di organizzare lo spazio sul foglio non è così semplice, perché si deve rendere conto, allo stesso tempo, della natura del cespite – “ritorni”, fodro, mutui, zovatico – di eventuali sotto divisioni, delle somme parziali di ogni entrata e della somma totale del mese. Il notaio doveva inoltre ordinare queste informazioni non solo distribuendole nello spazio del foglio, che oltretutto è estremamente limitato, ma differenziandole per rilevanza, con uso di segni grafici distintivi: ecco allora che la S di summa del mese è più grande delle singole S delle somme parziali, che sono incolonnate sotto, in lettere più piccole. La gerarchia delle spese trova una sua forma grafica nella dimensione delle lettere, che servono comunque come separatori spaziali delle diverse voci. Molto simile l’organizzazione delle uscite nella pergamena 1010 dello stesso anno33.
31
Sulla pratica del “ravisamento” cfr. Astegiano, Ricerche sulla storia civile del comune di Cremona fino al 1334, in Codice diplomatico cit., II, pp. 224-357: 341; una menzione in un atto del 31 dicembre 1220, in Astegiano, Codice diplomatico cit., p. 239, n. 308: Homobono Mainardi superstans fodri «dat et revisat Oldebertum de Sidole, in comune et vicinia Ardole de Rastellis in 5 solidos et dimidium, quos ipsa vicinia debebat dare comuni Cremone pro fodro suo, et Oldebertum habere a comuni ex causa mutui, soluto fodro suo». 32 Ibid., p. 256, n. 426 con edizione. 33 Ibid., pp. 255-256, n. 425.
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A distanza di circa otto anni, le tecniche di registrazione sembrano cambiare ancora e compare la prima testimonianza di un liber di natura contabile. Si tratta di un quaderno, di piccole dimensioni, di entrate e di uscite del 1234 (n. 822, fig. 5), con la ragione di spesa, la cifra uscita e il nome dei massari che l’hanno disposta34. Ogni capitolo, tuttavia, contiene una piccola relazione sulle giustificazioni delle entrate e delle uscite che i massari dovevano presentare in giorni precisi. Una sorta di rendiconto del versamento fatto tra l’11, il 14 e il 29 ottobre, condotto in momenti successivi. I massari hanno dovuto consultare i documenti della precedente attività, li hanno copiati nel nuovo registro mettendo in evidenza, questa volta, non tanto le differenze tra i singoli cespiti, ma l’elenco delle operazioni di entrata e di spesa: per questo la “S” di summa ha qui una funzione eminentemente paragrafale, divide ogni atto di spesa senza gerarchizzarlo. Si tratta di un forma di controllo ex post, e non di un semplice promemoria. È evidente che l’evoluzione tecnica dipende da questa spinta che è di natura palesemente politica: vale a dire che la conquista graduale di un dominio tecnico sullo spazio documentario avviene in funzione di un’organizzazione più razionale delle informazioni che dovevano essere sottoposte a controllo pubblico, con sempre maggiore insistenza negli anni Trenta e Quaranta del Duecento. La prassi di far redigere a ciascun notaio o ufficiale un quaderno di entrate e di uscite era del resto diffusa in molti comuni lombardi, come attesta un documento pavese del 1249 (fig. 6): un insieme di 74 precetti, fatti ai singoli ufficiali pubblici, di consegnare ogni avere comunis «ad inquirendum fraudes»35. La parte più interessante è il verbale di consegna riportato sulla coperta del registro. Sono 21 consegne per un totale di 75 quaderni. Ogni atto di consegna contiene il nome dell’ufficiale, i quaderni delle entrate e delle uscite, con la specificazione del numero delle carte scritte e di quelle non scritte. Si tratta ancora di una gestione individuale delle spese, affidate ai singoli ufficiali e non ad un’autorità centrale come i procuratori o i tesorieri a Milano. Probabilmente è un modello in crisi, come l’accenno alle frodi induce a pensare, ma testimonia bene lo sforzo del comune di creare un’amministrazione contabile regolata e verificabile, documentata da atti pubblici scritti secondo procedure unificate.
34 Edizione ibid., pp. 266-267. 35 Pavia, Biblioteca Comunale, Archivio civico, Registri comunali, 6 (280) 10: «Precepta
facta per dominum Syghembaldum de Hermelinis iudicem constitutum per comunem Papie ad inquirendum fraudes comunia et comunancium civitatis Papie ab anno novo proximo preterito primi dimidis anni».
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In questo contesto, come si è visto, hanno avuto un grande sviluppo le liste derivate, i conti parziali dei paganti, degli evasori, delle entrate: un bisogno di contare le differenze, di misurare gli scarti, i resti, le somme dovute che supera la funzione, in un certo senso ovvia, del controllo amministrativo e allude a una più pervasiva esigenza di registrare in “forma di conto”, distinto in attivo e passivo, l’attività degli ufficiali comunali. Una sorta di traduzione in bilancio dell’esercizio delle funzioni pubbliche. I libri di entrata e uscita consentivano infatti di pensare l’amministrazione in termini numerici, di cose avute e date, di beni passati da un soggetto all’altro, rendendo però esplicito quanto e a chi era stato dato, oppure, operazione altrettanto importante, quanto e da chi il comune doveva ricevere. Al dato politico della distribuzione si era unito, come si è visto, il dato più “ideologico”, oltre che economico, della contribuzione, del dovere di sostenere la civitas per avere riconosciuti i diritti di appartenenza. La contabilizzazione dell’attività di governo, in altre parole, portava con sé l’esigenza di una migliore classificazione degli attori sociali e dei loro ruoli. Nel corso del ventennio seguente, le prassi documentarie sperimentarono una maggiore autonomia degli atti seriali. Si moltiplicarono gli elenchi semplici come strumento ordinario per isolare, sul piano documentario, insiemi selezionati di informazioni che rispondevano a precise esigenze amministrative. La graduale diffusione del governo per “insiemi discreti” in forma di lista rappresenta forse la maggiore novità dei due decenni precedenti la metà del Duecento. 4. Le liste di governo: censimento e selezione delle componenti socio-economiche della città Il passaggio a un sistema documentario pienamente funzionante sulle liste generali e i documenti in registro sembra attuarsi nel corso del ventennio delle guerre federiciane, fra il 1230 e il 125036. In questi anni, soprattutto gli ultimi dal 1240 in avanti, la distribuzione dei carichi fiscali e la partecipazione all’esercito assunsero una rilevanza centrale: divennero segni importanti sia della natura politica dei munera pubblici da assolvere
36 Sul momento federiciano si veda Federico II e la civiltà comunale nell’Italia del Nord.
Atti del Convegno internazionale promosso in occasione dell’VIII centenario della nascita di Federico II di Svevia (Pavia, 13-15 ottobre 1994), Roma 1999; “Speciales fideles imperii”. Pavia nell’età di Federico II. Atti della giornata di studio (Pavia, 19 maggio 1994), cur. E. Cau – A.A. Settia, Pavia 1995.
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sia dei nuovi criteri di appartenenza alla città necessari per partecipare alla vita politica urbana. La perimetrazione della cittadinanza attiva passava attraverso una ridefinizione generale dei carichi fiscali da distribuire secondo le condizioni e i ruoli delle persone: dall’esenzione per i milites attivi nell’esercito cittadino, alle tassazioni forzate dei comitatini, alle prime forme aggiornate di estimi urbani, alla punizione degli evasori e dei traditori. Urgenze di natura militare ed economica si unirono con la necessità di reperire risorse per la guerra all’interno di un bacino più ampio della popolazione urbana. Un innesto non privo di tensioni ideologiche relative alla “salvezza” della città in un momento di pericolo, alla fedeltà agli schieramenti intercittadini e in generale alla tenuta del comune contro i sui nemici interni ed esterni. In molti casi, questo processo di ristrutturazione delle forme di partecipazione e di contribuzione alle necessità del comune prese forma in momenti solenni della vita politica cittadina. Si pensi alla grande assemblea tenuta a Milano nel 1247 dal legato pontificio Gregorio di Montelongo e da Martino della Torre, che ricopriva in quell’anno la carica di Anziano della congregazione di Sant’Ambrogio, il vertice del partito popolare milanese37. Lo spazio scenico volutamente teatrale creato dalle istituzioni milanesi inquadrava una serie di provvedimenti di natura tecnico-amministrativa di notevole portata politica, che seguiva all’approvazione dell’estimo già instaurato nel 1240 da Gregorio da Montelongo e dal podestà del Popolo Della Torre: si stabiliva ora l’istituzione di due tesorieri con compiti diversi, il controllo delle spese insieme al conteggio delle persone che entravano ed uscivano dalla città in tempo di guerra, presumibilmente attraverso liste di partecipanti all’esercito; l’elezione di due procuratori addetti al controllo dei beni comunali; la consegna delle due chiavi delle casse comunali al popolo e ai milites; la creazione di 12 estimatori delle facultate dei cives, che dovevano predisporre, e questa volta con successo, un estimo delle ricchezze realistico. Sul piano tecnico queste scelte comportavano un ricorso seriale a elenchi e a libri in forma di lista, secondo modalità molto simili a quelle riscontrate in altre città. Quasi ovunque le prime serie di liste si diffusero proprio
37 Gli atti del comune di Milano cit., p. 705, n. 491; cfr. G. Biscaro, Gli estimi del comune di Milano cit., p. 370; J.-C. Maire Vigueur, Religione e politica nella propaganda pontificia (Italia comunale, prima metà del XIII secolo), in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano (Trieste 2-5 marzo 1993), Rome 1994, pp. 75-83; M. Vallerani, L’affermazione del sistema podestarile, in Storia d’Italia, cur. G. Galasso, VIII, La Lombardia, Torino 1998, pp. 385-526: 476-477; Grillo, Milano in età comunale cit., p. 520.
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negli anni Quaranta del Duecento per classificare e suddividere cose e persone in insiemi discreti, isolati secondo criteri di natura politico-amministrativa scelti dai singoli comuni: liste di milites infedeli o di milites esenti, liste di banditi, di estimati, di rendiconti dei singoli ufficiali e altro ancora. Ci si può domandare cosa comportò la diffusione della lista non solo per la ristrutturazione del sistema documentario, ma anche per i sistemi logici di ordinamento della realtà da parte del potere pubblico. a. La lista come creazione di insiemi distinti Per capire la forza “ordinatrice” della forma lista seguiamo un precoce esempio bolognese, a mio avviso di grande qualità tecnica ed estetica. Si tratta di un abbecedario premesso al libro di banditi del podestà Ranieri Zeno de 1227 (fig. 7)38. Premettere un elenco di nomi dei banditi in ordine alfabetico al libro di bandi implica chiaramente un riordinamento dei libri stessi e una predisposizione a un uso frequente e veloce dei suoi dati. Un uso amministrativo, appunto, di routine, ma con un rilievo politico volutamente marcato, che insiste sulla natura coercitiva del potere comunale in grado di estirpare dal corpo sano della cittadinanza il “loglio” rappresentato dai banditi. Il proemio di liber contiene infatti una motivazione tecnica precisa: i banditi del comune, senza timore, cercano di interpolare gli atti pubblici per far perdere le tracce del loro bando; per questo il podestà ha deciso «de tante civitatis communitate huiusmodi vitium et lolium extirpare et bannitos […] a civitate pariter et districtu facere penitus alienos […]» ordinando «presentem librum per alphabetum». Un’operazione di igiene sociale, che isola i nomi dei reprobi dal resto della cittadinanza, rendendo immediatamente visibile la lista delle persone “in debito” con la città. Un debito penale, perché si sono rifiutate di comparire in giudizio, ma anche di natura economica, perché per uscire dal bando era necessario pagare una multa in denaro. La natura complessa delle relazioni con la città viene espressa in una sorta di “contabilità debitoria” a due dimensioni, una più ideologica e una monetaria. Un modulo che troviamo all’origine di numerose tipologie documentarie in forma di lista di questi anni.
38 Bologna, Archivio di Stato (d’ora in poi ASBo), Comune, Curia del podestà, Giudici ad maleficia, Accusationes, busta 1/a, reg. I; si veda Milani, Il governo delle liste cit., p. 168 nota 28.
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b. Liste di milites È assai probabile infatti, che proprio le tensioni politiche e sociali degli anni della guerra con Federico II – soprattutto degli ultimi anni, i più cruenti – abbiano accelerato questi processi di elaborazione dei criteri di appartenenza o di esclusione dai doveri collettivi di alcune categorie di cives. La lista permetteva di censire le persone secondo diverse tipologie di infrazioni, conferendo immediatezza visiva non solo ai singoli nomi presenti nella lista, ma agli insiemi sociali e politici che quei nomi rappresentavano una volta inseriti nella lista. Essere compresi nella lista era la presa d’atto pubblica di una peculiare condizione giuridica o economica che accomunava le singole persone elencate; è questa condizione collettiva che ora diventa il centro ordinatore della documentazione in registro. Le liste di milites furono tra le prime a subire una veloce riconversione di significato, da liste di appartenenza all’esercito cittadino, a liste di insiemi parziali di milites selezionati secondo i particolari rapporti che intrattenevano con il comune. Un modello semplice riguarda le liste dei presenti o degli assenti alle singole spedizioni militari. A Pavia – ma testimonianze simili sono presenti in altre città lombar39 de – sono rimasti alcuni frammenti di elenchi di milites chiamati a partecipare alle spedizioni militari di quegli anni. Si tratta di un residuo di una documentazione più ampia, che conteneva non solo l’elenco dei milites disponibili, ma anche di quelli effettivamente presenti alle singole cavalcate, con indagini sugli assenti e relative giustificazioni portate dai milites renitenti, come gli elenchi di assenti alle “cavalcate” a Torino, nel Monferrato e a Tortona, attestati in un registro del 124840. Gli assenti non giustificati, visto il momento di urgenza, erano puniti con una condanna pecuniaria e trascritti in forma di elenco semplice in registro, come mostra un liber di milites condannati nel 1246 dal podestà Bonacorso da Palude per non aver risposto alla chiamata del comune «in
39 A Cremona restano testimonianze indirette per il 1245, Astegiano, Codice diplomatico cit., p. 275, n. 550. 40 Pavia, Archivio Civico (d’ora in poi ACPv), Registri comunali, 6 (280) 9, esaminato da A.A. Settia, L’organizzazione militare pavese e le guerre di Federico II, in “Speciales fideles imperii” cit., pp. 145-179: 162. Un censimento dei cavalli da guerra era stato predisposto già nel 1214, ivi, p. 150. Spesso le ragioni dell’assenza erano dovute alla partecipazione parallela ad altre spedizioni, segno della confusione provocata nel controllo dei ruoli militari dalle intensissime campagne degli anni 1246-1249; ibid., pp. 169-171.
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Lomellinam apud Tromellum» (fig. 8)41. I nomi dei milites – divisi per porta e scritti su una sola colonna senza altre note – costituiscono una lista di persone accomunate dalla medesima omissione nei confronti degli ordini del comune, specificata in genere nell’intestazione del registro e dalla medesima pena (60 soldi). Un modello semplice che risponde in realtà a molteplici funzioni: indica subito i milites cittadini inaffidabili, che non si sono presentati in campo, qualificandoli, allo stesso tempo, come “debitori” del comune in quanto condannati. È questo nesso strettissimo fra l’omissione e il debito – fra il reato e la sua monetizzazione come mancanza verso i doveri della cittadinanza – che caratterizza le liste di natura penale. In altre parole, la lista consente di tradurre elementi di natura politicoamministrativa (quanti milites dovevano andare in guerra, quanti sono andati e quanti invece erano assenti) in dati contabili di natura economica, trasforma i renitenti in debitori. Nelle liste di natura giudiziaria questa trasformazione è relativamente meccanica, ma ci sono casi più complessi di elaborazione dei gruppi sociali secondo variabili non solo penali. A Bologna, negli stessi anni, una serie di registri in forma di lista fu usata per inquadrare la militia non solo in base alla fedeltà militare al comune, ma anche in base ai titoli per ottenere l’esenzione da alcune tasse, quindi secondo un criterio fiscale. Fu un’operazione complessa che si protrasse per qualche anno, attraverso la produzione di più liste diverse: un primo estimo del contado fu prodotto nel 1236, e da questo furono tratte liste di milites esenti; e poi, in alcuni casi, quando agli stessi milites esenti furono imposte particolari contribuzioni, si prepararono anche liste di bandi per il non pagamento delle tasse comunali 42.
41
ACPv, Registri comunali, 1246, 6 (280), 4: «Condempnationes facte per dominum Bonacursium de Palude, imperiali gratia Papie potestatem illorum militum papiensium qui non fuerunt in cavalcata facta pro comuni Papie in Lomellinam apud Tromellum occasione quod Mediolanenses debebant ibi venire, MCCXLVI, indictione quarta, quorum quilibet condemnatus in solidis sexaginta». L’elenco li distingue per porte, per un totale di 132 milites condannati. 42 È il caso di un registro di bandi del 1236: «Isti sunt nobiles et exempti comitatus Bononie de quarterio porte Sancti Proculi qui non solverunt collectam sex denariorum pro centenario secundum quod debuerunt, citati et cridati secundum formam statuti per Gualfredum nuntium comunis», ASBo, Curia del podestà, ufficio del giudice al disco dell’Orso, busta 1, reg.1; operazione ripetuta nel 1255, cfr. registro n. 3: «Hii sunt nobiles et exempti quarteri porte Steri qui non solverunt collectam VIIII bon. pro centenario impositam inter alios de dicto quarterio et illos de quarterio Sancti Proculi pro sellegata facta apud locum fratrum minorum de portanova, tempore domini Uberti de Ucino olim potestatis bononiensis, currente anno domini millesimo ducentesimo quinquagesimo quinto ind. duodecima», contiene un elenco di 326 nomi, con 67 cancellazioni per pagamento
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La struttura di questi libri è graficamente semplice, ma con un numero di informazioni molto sensibili sul piano giuridico e politico. Il Liber nobilium et exemptorum quarterii porte sancti Proculi del 1249 registra, ordinati per località, i nomi delle persone, il titolo – comes, capitaneus, valvasor – e i gradi di parentela tra le persone censite, specificando, in alcuni casi, la durata dell’immunità concessa (fig. 9)43. L’aspetto fiscale si rivela in questo caso un criterio sensibilissimo per definire la composizione sociale della nobilitas dove il titolo segna l’appartenenza alle famiglie anticamente distinte dal servizio pubblico e il riconoscimento dell’esenzione in base al valore politico di questo servizio nel comune, da tener distinto dal servizio armato prestato da cittadini non nobili o dai semplici milites del contado44. Un’operazione complessa di definizione di un ceto di privilegiati e allo stesso tempo un limite alla proliferazione di quel ceto, ristretto all’antica nobilitas, con esclusione dei nuovi cavalieri. Il ricorso alla lista è reso necessario dalla qualità dell’azione politica del comune – espressa nello statuto – che tende a selezionare gruppi sociali secondo i rapporti che hanno con il fisco pubblico. Liste derivate di questo tipo, del resto, sono frequenti nel contesto bolognese e sono tutte o quasi collegate alla dimensione fiscale delle condizioni giuridiche delle persone: o perché soggette o perché esenti da una determinata contribuzione. c. Elenchi di estimi Il caso bolognese ci ricorda che, alla metà Duecento, la tipologia di lista più importante era divenuta quella dell’estimo generale: un’opera di censimento e di valutazione delle ricchezze di grande significato politico e
avvenuto. Sugli estimi della prima metà del Duecento cfr. F. Bocchi, Le imposte dirette a Bologna nei secoli XII e XIII, «Nuova rivista storica», 57 (1973), pp. 273-312: 297. 43 ASBo, Comune, estimi, serie I, busta 2, 1249. 44 Sul significato politico delle classificazioni bolognesi si veda G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze fra XII e XIII secolo, «Studi medievali», ser. III, 17 (1976), pp. 41-79: 49: «la nobiltà proprio allora, a Bologna, si definisce come ceto privilegiato per diritto di sangue [...] sulla base della tradizioni cavalleresche di determinate famiglie, che le autorità comunali confortano a richiudersi su se stesse, in un ceto che escluda da sé i nuovi milites, quelli promossi al servizio cavalleresco “pro communi” da una recente ascesa sociale». Le classificazioni, inoltre, come aveva dimostrato Duby, non seguono sempre un rigido protocollo feudale, ma cambiano secondo gli elementi in rapporto ai quali si definisce il gruppo: signorile rispetto ai contadini, militare verso il comune, feudale verso i seniores sovralocali. Così nel registro del 1249 troviamo diverse forme di denominazione dei “nobiles”.
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di grande impegno tecnico-amministrativo45. Un significato su cui è forse opportuno insistere ancora: da un lato, l’estimo conteneva la lista ufficiale delle persone tassabili, che dovevano contribuire alle necessità del comune; ma allo stesso tempo elencava anche le persone riconoscibili ufficialmente come cives. In tutte le città del Duecento l’appartenenza alla civitas viene misurata e valutata, in primo luogo, attraverso la verifica dell’iscrizione all’estimo e del pagamento delle contribuzioni straordinarie imposte periodicamente dal comune (le taglie o collette), un nesso spesso dimenticato dalle letture solo contabili della fiscalità diretta. Torniamo al caso pavese, dove sono conservate serie fiscali di eccezionale valore documentario. Sebbene estimi precedenti siano attestati almeno dal 1228, come ha dimostrato Enzo Barbieri46, solo nel 1250 si avviò una vera opera di censimento generale della popolazione secondo livelli di ricchezza che culminò nell’estimo generale del 1254, ordinato dal marchese Oberto Pellavicino, signore della città47. Le singole dichiarazioni, divise in capitula, venivano copiate nei registri del comune, dai quali, a loro volta, erano tratti i libri di summe extimorum, presentazione in forma di lista dei valori attribuiti ai singoli capifamiglia, intestatari dei fuochi. Il registro con
45 M. Ginatempo, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e gestione del deficit nelle grandi città toscane (1200-1350 ca), Firenze 2000; e della stessa, Esisteva una fiscalità a finanziamento delle guerre del primo ’200?, in 1212-1214: el trienio que hizo a Europa, XXXVII Semana de estudios medievales (Estella 19-23 julio 2010), Pamplona 2011, pp. 279-341; P. Cammarosano, Le origini della fiscalità pubblica, «Revista de Historia medieval», 7 (1996), pp. 39-52, ora in Cammarosano, Studi di storia medievale: economia, territorio, società, Trieste 2009 (Collana Studi, Centro europeo ricerche medievali, 3), pp. 229-242. 46 E. Barbieri, I più antichi estimi pavesi (1228-1235), «Bollettino della Società pavese di storia patria», n.ser., 32 (1980), pp. 18-31; e Barbieri, Gli estimi pavesi del secolo XIII, «Ricerche medievali», 13-15 (1979-1980), pp. 59-117; in realtà gli estimi pavesi sono assai poco studiati come documenti in sé; si veda il vecchio saggio di R. Sòriga, Documenti pavesi sull’estimo del secolo XIII, «Bollettino storico pavese», 13 (1913), pp. 315-340: 318-324 e poi, molto più utile, ma di impianto soprattutto demografico, C.M. Cipolla, Profilo di storia demografica della città di Pavia, «Bollettino storico pavese», 6 (1943), pp. 7-87, che confronta le disposizioni statutarie di Voghera, derivate da Pavia, con l’estimo pavese, trovandone perfetta coincidenza. Accenni all’estimo del contado in A.A. Settia, Il distretto pavese nell’età comunale: la creazione di un territorio, in Storia di Pavia, III, Dal libero comune alla fine del principato indipendente, 1024-1535, tomo I: Società, istituzioni, religione nelle età del Comune e della Signoria, Pavia-Milano 1992, pp. 117-171; in appendice: Estimo delle terre del contado pavese nel 1250, pp. 155-164, un elenco di località premesso all’estimo vero e proprio. Per le collocazioni e una prima descrizione dei registri di estimo degli anni Cinquanta si veda www.lombardiabeniculturali.it/archivi/unita/MIUD01680A. 47 Lo stesso Pellavicino, tra l’altro, aveva ordinato un’operazione simile anche a Cremona nello stesso anno, Astegiano, Codice diplomatico cit., p. 365.
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la summa extimorum di porta Palacense redatto sotto Trinca di Foligno nel 125048 (fig. 9) è forse un libro di lavoro, ma presenta già i tratti di un’operazione documentaria a più dimensioni; le informazioni da inserire nello spazio della pagina sono infatti numerose: - il primo livello è la divisione per parrocchie, quindi topografico; - il secondo per nome dell’intestatario del fuoco, in alcuni casi riuniti per gruppi familiari (per esempio i Butigella si trovano tutti a c. 7r nella parrocchia di San Quirico) con l’indicazione dell’ammontare dell’estimo, in genere distinto in due righe: la prima con il valore totale dell’estimo, la seconda con una aggiunta sul valore dei possedimenti, pro iunta suarum possessionum (senza una chiara indicazione della differenza fra le due valutazioni); alla fine si trova la somma delle due voci, incorniciata da un linea di penna che separa il nome della posta successiva. In questo libro si trova anche una divisione ulteriore: alla fine delle registrazioni della parrocchia si legge infatti l’elenco delle persone senza terra: «Infrascripti de ipsa parrochia non habent terram in eorum estimis que possit extimari». Sono nomi che hanno estimi relativamente bassi, in alcuni casi nullatenenti, ma nell’insieme offrono una percezione immediata della composizione socioeconomica della città per livelli di ricchezza. Le differenze fra le singole parrocchie risulta subito evidente: quelle centrali, abitate dai gruppi familiari importanti, per esempio San Quirico, hanno ancora un rapporto favorevole: 36 estimati con possessi contro 13 senza; ma in altre il rapporto è inverso e a schiacciante favore dei nullatenenti: la parrocchia di S. Epifanio conta 37 estimati con possessi contro 178 senza; o la parrocchia di San Martino ha 63 estimati con e 214 senza. Di libri summarum ne sono rimasti altri quattro; due relativi alle summe extimorum compilate sotto il podestà Rolandino de Guidoboni fatte per 9 campsores, 9 Umiliati e 27 notai eletti dal consiglio, quindi con un notevole apparato amministrativo; e tre libri summarum per tre porte cittadine composti sotto il marchese Uberto Pellavicino. Il liber summarum di porta Marenche presenta un’organizzazione dello spazio molto più strutturata, segno evidente dei progressi tecnici intercorsi nei quattro anni passati dai primi esperimenti: maggiore chiarezza espositiva della scrittura; divisione funzionale dello spazio, mediante un uso geometrico della rigatura che separa le partite e allo stesso tempo collega il nome alla cifra di estimo; uso delle parentesi per unire i gruppi familiari in unità economiche coerenti49. 48 49
ACPv, Registri comunali, 6 (280) 14. Incipit in Barbieri, Gli estimi pavesi cit., p. 92. Si veda anche P. Lütke Westuhes – P. Koch, Die Kommunale Vermögenssteuer (“Estimo”) im 13. Jahrhundert. Rekonstruktion
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Il censimento generale delle ricchezze del 1254 non rimase un atto contabile isolato. Subito dopo la sua redazione si diede inizio a una delle più complesse operazioni di lavoro secondario e di produzione di libri derivati della metà del Duecento. Dai libri di estimo furono estratti i crediti e i debiti, anzi i nomi dei debitori e dei creditori, riportati in altri registri, Libri creditorum, divisi per porta e in ordine di nome, con sotto l’elenco dei creditori e l’ammontare del dovuto (fig. 10)50. Si tratta di un’operazione massiccia che consentiva un controllo della ricchezza mobile dei cives impegnata nell’interscambio di denaro, in una misura che raramente si ritrova in altri sistemi fiscali51. In parallelo, in base all’estimo erano raccolte le imposte dirette52, il fodro e il dacitum, con registri di nomi e la quantità di denaro pagato. Una lista che, a sua volta, ne generava un’altra, derivata, con i nomi di quelli che non avevano pagato il fodro. Ne è un esempio il registro del 1255, naturalmente in forma di lista: «Infrascripti non solverunt fodrum XII denariorum» imposto ai residenti di porta Palacense53, da cui si capisce che i fodri imposti in un anno erano diversi: in questo caso, nel 1255, almeno tre. Il carattere anche penale della lista è fuori dubbio, e si tratta di una penalità non solo fiscale, ma anche e soprattutto, giudiziaria: lo statuto pavese, nella sua versione tramandata a Voghera nel 1275, puniva con l’esclusione dalla protezione giuridica del comune gli evasori: Et si aliquis steterit quod predictum extimum non dederit et presentaverit ad predictum terminum [...] sit et esse debeat ipso iure in banno perpetuali comunis Viquierie, tamquam de maleficio ac si nominatim esset lectus in banno et eius bona sint aperta et publicata ipso iure.
und Analyse des Verfahrens, in Kommunale Schriftgut in Oberitalien cit., pp. 149-188. 50 Accenno in Soriga, Documenti pavesi cit., p. 325. 51 Già le norme di redazione dell’estimo erano molto particolareggiate relativamente alla denuncia dei crediti e dei debiti, la cui veridicità doveva essere provata con un instrumentum publicum integro; naturalmente per chi ometteva la dichiarazione la pena era l’invalidità del contratto stesso. Cfr. gli Statuti dell’estimo del 1270 in Le carte dell’archivio comunale di Voghera fino al 1300, cur. A. Tallone, Pinerolo 1918 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 49), pp. 195-212 e dello statuto del 1275, sempre relativo a Voghera in Soriga, Documenti pavesi cit., pp. 332-340. 52 Da ricordare l’elenco delle spese sostenute dal comune per raccogliere la libra grossa nel 1247 in ACPv, Registri comunali, 6 (280) 6: Rolando di Canisto ha comprato 38 fogli, cartule, da cui ha ricavato 23 quaderni; ha pagato la raspatura, rigatura e punctatura e poi la spesa, ai notai, per la copiatura: «ad exemplandum libros libre grosse et minutole». Si veda anche E. Barbieri, Notariato e documento notarile a Pavia (secoli XI-XIV), Firenze 1990 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell`Università di Pavia, 58). 53 ACPv, Registri comunali, 9 (283) 33.
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L’equivalenza fra debitore e reo di maleficio non poteva essere più chiara – arricchita dalla finzione successiva: “come se” fosse letto in banno – e segna un passaggio importante della disciplina del debito nei comuni italiani: il pagamento delle imposte, o comunque l’iscrizione all’estimo, era un segno di partecipazione diretta in grado di assicurare l’appartenenza di un individuo alla città e l’integrazione della persona nel sistema giuridico di protezione pubblica. Lo provano i documenti di altre città, Bologna in primo luogo, e lo confermano anche i processi del tardo Duecento per provare la cittadinanza – o meglio la qualità di civis – quando essere iscritto all’estimo e pagare le collette pubbliche era una condizione minima per essere considerati cives. Il contrario, non pagare le collette, portava, come nel caso pavese, direttamente a un bando penale, “per maleficio”. Il caso pavese testimonia, in sostanza, un momento importante di trasformazione che possiamo estendere anche ad altre città comunali. Il prolungato periodo di guerra negli anni federiciani fece prendere piena coscienza del valore ideologico della partecipazione attiva all’esercito: da qui la moltiplicazione delle liste di pedites e di milites in grado di servire la città, e soprattutto di milites effettivamente presenti alle spedizioni militari. L’assenza, ancorché giustificata, destava sospetto e si tradusse in una più cogente idea di fedeltà al comune, in un momento di forte scollamento dei contadi dalle rispettive città. La stessa idea di militia come tradizione di servizio armato pubblico fu usata per identificare e delimitare un ceto di privilegiati secondo il sangue, in una fase di trasformazione profonda di quello stesso ceto militare, ora alimentato da un’aristocrazia recente che nell’attività militare trovava una via di ascesa politica ed economica promettente. La militia cittadina, come ha notato Maire Vigeuer, era un gruppo sociale in continua espansione nel Duecento comunale54. Tuttavia, la difesa del privilegio, tradotto in termini di esenzione fiscale, si scontrava con un processo di segno contrario. La necessità di avere una forte solidarietà interna obbligò infatti i comuni a ricorrere a un più stretto controllo degli strumenti finanziari e annonari. Per evitare le appropriazioni indebite di risorse – anche in virtù di antichi privilegi sulla gestione riservata dei beni pubblici – fu istituito un corpo di ufficiali per designare e difendere i beni comunali, all’interno di un processo di ristrutturazione delle forme di finanziamento della guerra e del comune. È indubbia la spinta delle organizzazioni di Popolo verso una maggiore equità nella ripartizione dei carichi fiscali, soprattutto quando si diffusero prelievi for54
J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini, Bologna 2003.
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zosi per finanziare a breve le spedizioni militari55. In quei casi i privilegi, le esenzioni – specie se estese ai dipendenti rustici dei milites – furono contrastati violentemente già dagli anni Venti del XIII secolo dalle società di Popolo (indipendentemente da chi le guidava), perché in gioco non era solo la ripartizione dei carichi fiscali, ma le forme di dipendenza verso il comune e le possibilità di accedere al controllo delle sue istituzioni. Fu un processo molto ampio, che investì le società europee dal tardo secolo XII in avanti, ben descritto da François Ménant: re, principi e città dovettero mettere ordine nei territori dominati, superando le strutture sociali esistenti – fondate sul costume, la memoria individuale, la fedeltà personale – che non permettevano più «di identificare con precisione e di mobilitare gli uomini e le risorse»56. Identificare uomini e risorse richiese proprio questo: una trasformazione degli strumenti di connessione delle strutture sociali precedenti. Negli anni Quaranta queste spinte furono alla base dei primi estimi generali delle facultates, che certo non “inventarono” l’imposta diretta, ma ne accentuarono decisamente il significato politico, che non consiste tanto nel favorire una “parte”, ma nel tentativo, ben più importante, di ridisegnare i contorni dell’appartenenza civica sulla base di una durevole partecipazione alle spese sostenute dal comune. In questi anni gli estimi iniziarono a funzionare davvero, uscendo dall’indeterminatezza delle dichiarazioni di principio e diventando liste di accertamento delle ricchezze con pesanti conseguenze economiche e politiche: si penalizzò l’evasione, si legò all’estimo la cittadinanza, si usarono queste liste per delimitare il corpo politico della città e soprattutto si assegnò alla documentazione pubblica un valore giuridico di prova che finiva per far coincidere le cose esistenti con le scritture che le attestavano: nello spazio giuridico pubblico esisteva solo ciò che si trovava in actis, anzi in libri comunis57.
55
A Pavia sono testimoniati abbondantemente anche se in maniera indiretta, L. C. Bollea, Documenti degli archivi di Pavia relativi alla storia di Voghera, Pavia 1908, pp. 283284 (doc. 120 a. 1248), Settia, L’organizzazione militare cit., p. 168. 56 F. Menant, Les transformations de l’écrit documentaire cit., p. 49 «Les rois, les princes, les villes libres sont confrontés à partir du milieu du XIIe siècle à la nécessité d’organiser les territoires qu’ils ont rassemblés et dont les structures existantes – féodales et seigneuriales, fondées pour l’essentiel sur la coutume, la fidélité personnelle, la mémoire individuelle – ne permettent pas d’identifier avec précision les hommes et les ressources et de les mobiliser». 57 Statuti bresciani del secolo XIII, cit., ufficiali che obbligano a pagare i creditori con i beni venduti dei debitori: p. 256: «et nihil credatur nisi reperiatur scriptum in libro eorum, que scriptura sit facta propria manu notarii proprii». Per Vicenza Statuti del comune di
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In questo contesto deve essere situata la diffusione e la funzione creatrice dei libri in forma di lista, dove la doppia novità documentaria – del registro da un lato, come atto originale scritto direttamente in libro, e della lista dall’altro – rappresentò il principale strumento intellettuale per ripensare e attuare nuove forme di governo delle popolazioni urbane da parte delle istituzioni comunali. È indubbio, in tal senso, che la lista rappresentava forse lo strumento più flessibile per la definizione di un nuovo spazio grafico dell’amministrazione pubblica. L’antropologo Jack Goody, che ha dedicato alla lista un capitolo centrale del suo libro su L’addomesticamento del pensiero selvaggio, ha individuato proprio nella lista il mezzo grafico che rese possibile la traduzione scritta dell’azione economica: in origine la lista permetteva di elencare in colonna «persone obbligate dagli stessi doveri o in relazione allo stesso oggetto». Ma Goody distingueva anche fra liste “retrospettive”, di cose accadute, e liste delle cose da fare o shopping list, con cancellazione graduale delle voci trattate58. Questo secondo tipo serve a indicare l’azione futura, il programma o il percorso da compiere. È questa seconda funzione che ci interessa di più, perché è vero che molte liste sono nate come forma organizzata di memoria di nomi e di oggetti che appartengono a qualche insieme; ma la trasformazione importante che avvenne sotto i comuni fu proprio il passaggio da un “sistema memoriale”, che pure continuò per buona parte del Duecento, a un sistema attivo di liste che prevedevano o determinavano una specifica conseguenza politico-amministrativa in base alle azioni da compiere. Le liste erano contenitori organizzati di insiemi di persone la cui condizione giuridica dipendeva dalle relazioni che dovevano avere con il comune. Quello che sembra unificare le numerose liste derivate dei comuni italiani, non solo quelle di carattere economico, ma anche e soprattutto quelle di natura penale, è proprio lo status di “debitore” nei confronti del comune: debitore diretto nel caso delle tasse, indiretto nel caso delle pene e dei bandi, e in generale dei doveri non compiuti, che potevano essere sempre monetizzati trasformando appunto la pena in un debito. La natura economica del rapporto dei cives con le istituzioni affonda chiaramente le radici in quel
Vicenza MCCLXIV, Venezia 1886 (Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione veneta di storia patria), p. 98: «et nullus credatur esse bannitus nisi in libro comunis scriptus foret, nullusque credatur extractus de banno nisi mortificatus fuerit in libro forbannitorum cum signo et nomine notarii». 58 J. Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano 1976, p. 96.
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contesto di dominio patrimoniale del comune sulle res, ma mostra anche un processo di ampliamento importante di questa dimensione patrimoniale: una sorta di iscrizione delle forme di appartenenza alla cittĂ nella sopravvivenza materiale del comune. La contribuzione al comune non era solo un dovere civico, ma una condizione necessaria per definire lo status di civis. Si trattava in tutti i casi di un debito verso il comune; stava ai cives onorare questo debito o finire nei libri dei debitori insolventi.
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1. L’eredità divisa Nel suo bilancio del 1980 sull’influenza di Pietro Torelli nella storiografia medievistica, Ovidio Capitani rilevava due elementi in contrasto tra di loro: da un lato, un “mancato ricordo”, ovvero una fragorosa assenza del nome dello studioso mantovano nelle citazioni degli studi di storia medievale, anche quelli che trattavano di temi particolarmente vicini alla sua ricerca; dall’altro, un’accettazione nel merito e nel metodo della sua tesi: la continuità tra età precomunale ed età comunale ricavabile dallo studio dei documenti relativi alla proprietà fondiaria1. Capitani si riferiva in primo luogo al libro su Mantova2. Se oggi volessimo sottoporre allo stesso esame l’altra grande opera di Torelli, gli Studi e ricerche di diplomatica comunale3, e osservarne la fortuna negli ultimi decenni, quelli che ci separano dal bilancio di Capitani, giungeremmo, credo, a un risultato perfettamente speculare. In questo periodo infatti tutti coloro che hanno preso in esame la documentazione dei comuni hanno citato gli Studi torelliani. Come sappiamo, sono stati in molti.
1
O. Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per i Medio Evo», 89 (1980), pp. 553-589, già pubblicato come Presenza e attualità di Pietro Torelli nella medievistica italiana contemporanea, in Convegno di Studi su Pietro Torelli (Mantova, 17 maggio 1980), Mantova 1981, pp. 31-53. 2 P. Torelli, Un comune cittadino in un territorio a economia agricola. I. Distribuzione della proprietà, sviluppo agricolo, contratti agrari, Mantova 1930. 3 P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Spoleto 1980, edizione anastatica di Studi e ricerche di diplomatica comunale, parte I, «Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 4 (1911), pp. 5-99, e parte II, Mantova 1915 (Pubblicazioni della R. Accademia Virgililana di Mantova).
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Proprio dagli anni 1980 lo studio delle scritture documentarie, pubbliche, pragmatiche ha contribuito al rinnovamento della storia comunale4. Non stupisce che dovendo fornire pezze d’appoggio a questa rinascita di interesse per le fonti scritte si sia invocato sistematicamente il nome del primo studioso che alla diplomatica comunale aveva dedicato un libro che, peraltro, a tutt’oggi, rimane il più completo sull’argomento. Quel libro però non conteneva solamente un prontuario di tipologie di registri prodotti dalle cancellerie cittadine. Conteneva anche un’idea che per così dire travalicava il campo della diplomatica e invadeva quello della storia politica: l’idea per cui in origine il comune si era rivolto ai notai come un privato, per ottenere da loro, che l’avevano, la fides publica di cui aveva bisogno5. Questa idea è stata vivacemente contestata. A criticarla esplicitamente sono stati in primo luogo i diplomatisti più attenti al dialogo con la storia istituzionale6. Più in generale, del resto, nonostante qualche sparuto tentativo in senso contrario7, è la tesi di un origine privatistica del comune che a questa idea era strutturalmente connessa a non godere più di alcuna popolarità8. Insomma, mentre il libro su Mantova è stato poco citato, ma accettato e digerito, a quello sulla diplomatica comunale è avvenuto il contrario: lo hanno citato tutti, ma nella sua proposta più forte è stato di fatto respinto. La cosa appare tanto più sorprendente quanto più si considera che le due opere non solo erano state scritte dalla stessa persona, ma si fondava-
4 Un primo bilancio di questa tendenza è stato fatto da Giuliana Albini, nell’introduzione al reading Le scritture del comune, Torino 1998 (ora distribuito in formato digitale http://centri.univr.it/RM/biblioteca/scaffale/volumi.htm#Giuliana%20Albini). 5 D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congrés de la Commision internationale de Diplomatique (Gand 25-29 aout 1998), Leuven-Apeldoorn 2000 (Studies in urban, social, economic and political history of the medieval and modern Low Countries, 9), pp. 383-406. 6 Oltre al saggio di Puncuh cit. alla nota precedente v. G.G. Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel Comune di Asti. I modi e le forme dell’intervento notarile nella costituzione del documento comunale, Spoleto 1977; A. Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006. 7 Ha tentato di riaprire il dibattito sull’idea di un’origine privatistica del comune A. Barbero recensendo C. Wickham, Legge, Pratiche e Conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000, in Giustizia Medievale, Barbero legge Wickham, «Storica» 18 (2000), pp. 161-170. 8 Classiche contestazioni della tesi volpiana sono G. Cassandro, Comune (cenni storici), in Novissimo digesto italiano, III, Torino 1959, pp. 810-823: 815-816 e O. Banti, “Civitas” e “Commune” nelle fonti italiane dei secoli XI e XII, «Critica storica», 9 (1972), pp. 568-584.
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no su una visione in buona parte coincidente. In questa visione, connessa anche se in modo non sistematico, alle più aggiornate e raffinate categorie storiografiche disponibili all’epoca in cui scriveva, quelle proposte da Gioacchino Volpe9, proprio un comune nato dal seno del territorio, dall’economia agricola, e dunque dal contesto politico che a quella economia era strettamente legato, doveva aver avuto bisogno di quel prestito di legittimità che i notai, esponenti del sistema pubblico dell’impero, gli avevano fornito. Ma col passare del tempo due idee che al principio costituivano facce diverse della stessa medaglia, il radicamento agricolo del comune e la tesi della sua natura originariamente bisognosa di una legittimazione pubblica, hanno avuto nel corso del tempo due esiti divergenti. Perché? È un problema e merita una riflessione. Per condurla partirò dall’esporre le ragioni che penso abbiano portato alla divaricazione del destino di queste due idee e dunque alla contrastante eredità delle ricerche torelliane. Tali ragioni a mio modo di vedere non solo indicano ciò che di Torelli è stato sistematicamente accolto, ma per contrasto rivelano ciò che di Torelli non è stato pienamente utilizzato e che invece meriterebbe di essere ripreso. Per auspicare questa ripresa – che non può che avvenire nel segno di una suo notevole aggiornamento – avanzerò infine tre minime proposte metodologiche. 2. Ottimisti e pessimisti La responsabilità del doppio, contraddittorio, destino dell’eredità di storiografica di Pietro Torelli va ripartita equamente tra il testatore e gli eredi. In altre parole, da un lato, Torelli non ha lasciato molte tracce perché i suoi lettori potessero riconoscere la visione coerente con cui interpretava la storia comunale; dall’altro, questi lettori erano impegnati in un dibattito rispetto al quale quella visione era estranea. Dal canto suo, infatti, Pietro Torelli non ha mai esplicitato completamente le proprie posizioni. È questo, credo, il senso dell’aggettivo “enig-
9 Sull’ammirazione del Torelli per Volpe ha richiamato per primo l’attenzione Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., p. 556, n. 7. Importanti puntualizzazioni sulla teoria di Gioacchino Volpe sulle origini del comune si leggono in M. Vallerani, Modelli di comune e modelli di stato nella medievistica italiana tra Otto e Novecento, «Scienza e politica», 17 (1997), pp. 65-86 e in E. Artifoni, Gioachino Volpe e i movimenti religiosi medievali, «Reti Medievali. Rivista», 8 (2007), di respiro assi più largo rispetto a quanto suggerisca il titolo.
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matico” coniato per Torelli da Vittorio Caprioli, ripreso da Capitani e più recentemente da Isabella Lazzarini10. Se un enigma è una formulazione oscura di qualcosa da indovinare, una proposizione a cui manca un elemento perché possa essere correttamente intesa, allora possiamo affermare che a rendere Torelli enigmatico è l’incompiutezza del suo lavoro. Non dobbiamo dimenticare che i due grandi libri di questo studioso sono entrambi fortemente sbilanciati sulla prima parte a scapito della seconda. Il secondo volume dell’opera su Mantova fu pubblicato postumo e in forma di schede. Il secondo volume degli Studi di Diplomatica Comunale, benché ricchissimo di informazioni e di spunti, non presenta una tesi forte come il primo. In ognuno dei due casi, insomma, vediamo come la storia comincia, ma non come va a finire. Sappiamo che secondo Torelli il comune era nato in continuità con l’età precedente, e che, come si è già detto, per questo aveva avuto bisogno di farsi prestare la fides pubblica dai notai, ma non sappiamo altrettanto bene come Torelli pensava che il comune fosse diventato nei due secoli successivi. Certo, a giudicare da alcuni segnali sembrerebbe che l’idea di un comune cittadino originariamente ancorato nel “territorio ad economia agricola” non fosse destinata a risolversi in una svalutazione riduzionistica dell’esperienza comunale nella sua interezza, e che al contrario, nella visione di Torelli lo sviluppo del comune aveva costituito comunque una profonda innovazione politica e sociale nella storia d’Italia. Il primo segnale è il lungo elenco di attività amministrative, giudiziarie, deliberative ricavabile dalla schedatura riportata negli Studi di Diplomatica Comunale: un elenco che dà conto, nelle sua varie parti di un’evoluzione verso procedure sempre più complesse sviluppate nel corso del Due e del Trecento11. Il secondo segnale è in quella attenzione che Torelli espresse per la sostanza dei cambiamenti sociali e politici a cui il variare delle formule diplomatistiche nella sua visione rinviava: un’attenzione messa in rilievo da Massimo Vallerani a proposito del saggio su Vicariato imperiale e Signoria, che – occorrerà tornarci – descriveva il comune mantovano all’alba della presa del potere di Pinamonte Bonacolsi come un sistema pubblico per
10 I. Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli (Mantova, 1880 - Mantova, 1948), «Reti Medievali Rivista», 12/1 (2011), pp. 297-306: 297. Il riferimento, oltre al già citato articolo di Capitani è a S. Caprioli, Una recensione postuma: la glossa accursiana del Torelli, «Studi Medievali», ser. III, 20 (1979), pp. 228-234: 234. 11 Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, parte II cit.
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dominare il quale era necessario ottenere consenso12. Il terzo segnale, infine, lo si trova nel pervicace rifiuto dell’interpretazione secondo cui il termine “arimanni” andava interpretato come riferito alla totalità dei cittadini mantovani. Criticando questo rifiuto, Giovanni Tabacco ha voluto spiegarlo come motivato dalla profonda «riluttanza [di Torelli] ad assimilare quello che ai suoi occhi appariva come un relitto al mondo così vivo dei primi esperimenti comunali»13. Dando conto di questo rifiuto e di quell’attenzione, Isabella Lazzarini (da cui sto citando) ha invocato per Torelli «un’acuta sensibilità di matrice volpiana alla vivacità urbana e rurale» del pieno medioevo. Questi segnali insomma spingono a connettere la lettura evolutiva del comune proposta da Torelli a quel programma storiografico fondato sull’incontro tra ricerca economico-sociale e sensibilità alla vicenda giuridicoistituzionale che Gioacchino Volpe aveva in mente quando nel 1906 propose a Gaetano Salvemini la condirezione della rivista Studi storici14. Come dimostra la serie di importanti recensioni che lo stesso Volpe scrisse in quegli anni, poi solo in parte confluite nella raccolta Medioevo italiano, nel contesto di quel progetto culturale il comune aveva un ruolo centrale poiché segnava un momento di evoluzione dalla sfera privata alla sfera pubblica e costituiva un passo verso la formazione dello Stato15. Non mi pare azzardato attribuire una visione simile al Torelli autore dello studio su Mantova e di quello sulla diplomatica comunale. Ma questa lettura della vicenda comunale – interessata alla complessità, evolutiva, “volpiana” – non ha avuto alcun seguito. Non solo lo storico mantovano non poté o volle fare nulla per renderla accessibile, ma più in generale proprio negli anni in cui Torelli lavorava si era già persa la memoria del progetto da cui era scaturita. Come sappiamo, il programma che Volpe aveva allestito per lo studio della formazione e dello sviluppo del comune non ebbe successo16. Per varie ragioni la rivista che doveva mettere insieme le migliori menti della medievistica italiana non si fece e la
12
M. Vallerani, La città e le sue istituzioni. Ceti dirigenti, oligarchia e politica nella medievistica italiana del Novecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 20 (1994), pp. 165-230. 13 G. Tabacco, I liberi del re nell’Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966, pp. 172, cit. in Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli cit., p. 302. 14 E. Artifoni, Salvemini e il medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli 1990, pp. 145 ss. 15 M. Vallerani, Modelli di comune e modelli di Stato cit. 16 Ora disponiamo di un significativo abbozzo scritto nel 1906 di come Volpe pensava che il suo lavoro sui comuni avrebbe dovuto essere. Questo abbozzo, che presenta significativi riscontri con alcuni spunti che avrebbe ripreso Torelli, è in una lettera scritta da
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cosiddetta scuola economica-giuridica esaurì in pochi anni la sua parabola. Come ha rilevato Enrico Artifoni, cui si deve la ricostruzione di questa importante vicenda, in un articolo del 1930 Nicola Ottokar qualificò quel programma sotto il segno del «medioevo delle antitesi», criticando il meccanicismo delle spiegazioni di alcuni dei suoi esponenti che, invocando sempre l’opposizione tra feudalità e borghesia, tra nobili e popolani, tra conservazione e progresso, non davano conto della «viva realtà storica». In una certa misura Ottokar coglieva nel segno. Dagli stessi ambienti da cui Volpe e Salvemini avevano preso le mosse si erano infatti andati sviluppando approcci esplicitamente sociologici come quello di Gino Arias che costituivano in effetti applicazioni di un positivismo un po’ brutale alla storia comunale. Ma questi approcci non esaurivano ciò che la medievistica italiana aveva prodotto tra Otto e Novecento. Volpe, come per certi versi Torelli qualche tempo dopo, l’antitesi aveva tentato di superarla delineando un’evoluzione faticosa e non lineare che dal semplice conduceva al complesso e, nella sua visione, dal privato vedeva nascere il pubblico. Il risultato della critica di Ottokar e della proposta che l’accompagnava, ovvero la lettura élitista della storia comunale, fu in ogni caso quello di eliminare la lettura evolutiva volpiana dal tavolo e lasciare a disposizione degli storici una polarità radicale: quella tra la lettura in termini di lotta di classe, che in qualche modo, per il suo carattere progressista, richiamava la lunga stagione della storiografia “pedagogica” che aveva proposto agli italiani il comune come modello repubblicano e borghese, e che faceva capo a Sismondi, e quella che, ispirandosi alle teorie di Mosca, Pareto e Michels, vedeva la storia delle città italiane come campo di azione di stabili ceti dirigenti. A partire da allora, spesso sulla base di urgenze dettate da drammatici momenti di passaggio nella vita politica italiana, queste due letture della storia comunale si sono andate alternando, e, alternandosi, si sono irrigidite collegandosi ad altre divisioni interpretative antiche e moderne: quella tra la prevalenza dell’economia fondiaria o di quella commerciale, quella tra aristocrazia e popolo, quella tra preminenza della feudalità o egemonia del modello urbano. Se l’avvento del fascismo aveva infatti fatto riflettere sulla debolezza delle strutture democratiche dell’Italia giolittiana e dunque suggerito letture più pessimiste anche dei comuni17, le disillusioni del
Volpe a Benedetto Croce pubblicata per la prima volta da E. Di Rienzo, Volpe e Croce, origini di una lunga amicizia, «Nuova Storia contemporanea», 11 (2007), pp. 59, e lo si può leggere anche in Artifoni, Gioachino Volpe e i movimenti religiosi medievali cit., pp. 14 e 15. 17 Massimo Vallerani ha sottolineato questo processo in varie sedi dando particolare risalto al contributo degli storici del diritto: oltre a quelli già citati nelle note precedenti v.
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secondo dopoguerra contribuirono ad allontanare dal campo dei sostenitori della lotta di classe anche molti studiosi di formazione marxista. La crisi degli anni 1970 si accompagnò all’apparizione, nella Storia d’Italia Einaudi, di una sistematica critica del “mito della borghesia” nell’economia comunale da parte di Philip Jones18. Mentre alcuni studiosi accoglievano con favore questo approccio, altri reagivano e lo criticavano19, talvolta ricorrendo a paradigmi diversi, tra cui quelli che andava offrendo il repubblicanesimo della scuola di Cambridge20. Si tratta di sviluppi molto noti su cui esiste ormai una notevole letteratura21. Il risultato è che negli ultimi decenni sono andate costruendosi in questo modo due visioni tendenzialmente opposte: quella di un comune proteso verso il futuro, soprattutto popolare, repubblicano e quella di un comune ancorato alla società feudale, aristocratico e oligarchico. Non mi riferisco agli studi analitici sui comuni (disponiamo infatti di ricerche che ci consentono di cogliere molto meglio le sfumature della politica medievale), ma ai momenti di sintesi e soprattutto allo sfondo che emerge nelle introduzioni o nelle conclusioni di articoli e monografie. Benché nessuno affermi di credere più nel valore analitico di opposizioni come quelle tra borghesia e feudalesimo, non è infrequente trovare riferimenti tra sostenitori di un’immagine ottimista del comune, che sottolinea il suo carattere innovativo, la partecipazione di ceti nuovi, la creatività istituzionale e una pessimista, ad essa speculare, che insiste sul carattere obsoleto della città bassomedievale, il peso che in essa ebbero le aristocrazie tradizionali, il suo ruolo di ramo morto nell’evoluzione politica. Pochi esempi apparentemente disparati potranno forse chiarire cosa intendo dire. Nel 2006 Mario Ascheri ha pubblicato un pamphlet in cui con toni vivaci ha dichiaratamente cercato di ridare alla città medievale ita-
ora M. Vallerani, Comune e Comuni: una dialettica non risolta, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centro-settentrionale nel processo storico dal primo comune alla signoria. Atti del Convegno di studio (Bologna 3-4 settembre 2010), cur. M.C. De Matteis - B. Pio, Bologna 2011, pp. 9-34. 18 Ph. Jones, Economia e società nell’Italia medievale: il mito della borghesia, in Storia d’Italia, Annali I, Torino 1978, pp. 185-372. 19 R. Bordone, Tema cittadino e ritorno alla terra nella storiografia comunale recente, «Quaderni storici», 52 (1983), pp. 255-277. 20 Tra i più entusiasti utilizzatori del paradigma del repubblicanesimo nello studio del comune è Mario Ascheri, su cui tuttavia v. oltre. 21 Oltre alle opere di Vallerani e Artifoni già citate v. per una sintesi rapidissima G. Milani, I comuni italiani, Roma-Bari 2005, pp. 159-168.
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liana un ruolo importante, criticando chi in passato ne aveva sottolineato il carattere oligarchico, il pieno inserimento nell’evoluzione politica europea, la debolezza della penetrazione nel contado e più in generale la limitatezza del contributo alla storia politica dell’età moderna22. Le città italiane, sostiene Ascheri, avevano sistemi politici capaci di favorire la partecipazione sin dall’età consolare, erano diverse dai comuni del Nord Europa e rappresentarono la base per l’evoluzione politica successiva. Due anni dopo Andrea Gamberini in un saggio-rassegna ha voluto contestare una risalente tradizione secondo cui la città fu il principale elemento di organizzazione della società negli stati dell’Italia centro-settentrionale nel tardo Medioevo23. Di questa interpretazione Gamberini rileva il carattere anacronistico e vi oppone, sulla base di alcuni saggi recenti, alcuni dati forti relativi all’area milanese: la concessione da parte dei principi di privilegi a borghi e comunità, la ridefinizione di spazi politici diversi da quelli stabiliti dal comune, l’inefficacia di alcuni provvedimenti in favore dei cives. A tenere insieme questi due testi, diversi per argomenti, destinazione, estensione, tono, è l’orizzonte problematico cui rinviano: l’opposizione tra il primato della città e il suo contrario che, come emerge bene in entrambi i casi, è un orizzonte problematico ottocentesco, di cui oggi risulta difficile cogliere la fertilità. In entrambi i casi si ha l’impressione che gli argomenti usati (ad esempio il ruolo della città nell’evoluzione della partecipazione politica degli italiani sottolineata da Ascheri o, ancor di più, la ridefinizione degli spazi politici operata dai principi menzionata da Gamberini) risulterebbero più fertili se fossero sottratti alla secolare diatriba in merito al giudizio che occorre dare sui comuni e posti al servizio di una domanda diversa. Benché i due autori sostengano che quella che intendono combattere è una tesi egemone e da superare, insomma, ad apparire superata o forse insuperabile è l’intera questione di cui quella tesi è una delle due sole risposte possibili. L’impressione non cambia leggendo un saggio che non appare schierato sull’una o l’altra posizione, ma che al contrario cerca di passare in rassegna gli argomenti usati in merito a un altro aspetto della polemica sui comuni, il ruolo – cruciale – dei regimi di “popolo”. Mi riferisco alla sintesi su «conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del
22 M. Ascheri, Le città-stato, Bologna 2006. 23 A. Gamberini, Principe, comunità e territori nel ducato di Milano, spunti per una rilet-
tura, «Quaderni Storici», 42 (2008), pp. 243-266.
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Duecento», scritta da Alma Poloni nel 201024. L’autrice non esita a proporre un vero e proprio “processo al popolo” in cui cerca di stabilire, per mezzo di argomenti sostenuti da un’ipotetica Accusa e una Difesa, se i regimi di popolo ebbero rispettivamente carattere oligarchico o democratico. Nonostante l’accumulo di ragioni per l’una e per l’altra tesi la conclusione è che i regimi di popolo vadano assolti “per insufficienza di prove”, perché né l’una né l’altra tesi sono del tutto convincenti. Difficilmente si potrebbe trovare una dimostrazione più limpida della scarsa utilità di giudicare secondo le rigide categorie che abbiamo ereditato (popolo democratico o popolo oligarchico, popolo buono o popolo cattivo) e dunque della necessità di elaborarne di nuove. Considerando tutto questo appare più comprensibile perché l’obiettivo implicito della ricerca di Torelli, quell’attenzione “volpiana” all’evoluzione del comune da forme più elementari verso forme più complesse (che nella sua visione assumevano le forme del privato e del pubblico), sia divenuto sempre meno riconoscibile e perché la lezione di Torelli – così interessato a cogliere i segni di questa trasformazione senza asservirli a un’interpretazione teorica stabilita – non sia stata recepita nella sua interezza. Mentre la polarità tra ottimisti e pessimisti andava irrigidendosi fino ai livelli appena descritti, diveniva difficile comprendere che all’epoca della sua formulazione, era stato possibile immaginare una città che nel corso del tempo si era profondamente trasformata diventando da “sottoprodotto” della società feudale, bisognoso di riconoscimenti esterni, un centro politico importante in cui avevano avuto luogo formidabili scontri sociali che avevano lasciato traccia nel mutamento delle forme documentarie e istituzionali. Così, mentre ottimisti e pessimisti andavano combattendosi e occupando tutto lo spazio disponibile, delle opere di Torelli venivano assunte solo le parti che potevano essere utili a sostenere una delle due tesi in campo: l’origine rurale per i pessimisti, la ricchezza della documentazione due-trecentesca per gli ottimisti. Attenzione, con ciò non voglio dire che il pensiero di Torelli sia stato snaturato o che ogni utilizzazione dei suoi lavori abbia avuto un carattere selettivo e per questo falsante. Sono peraltro convinto che usare solo una parte del lavoro di uno studioso, al limite per confutarla, sia un’operazione perfettamente legittima. Resta il fatto che il problema che Torelli aveva provato a porsi mediante un lavoro empirico e sganciato dalla proposta di
24 A. Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Itala comunale del Duecento, Milano 2010.
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un paradigma forte (come un istituzione locale perfettamente inserita nell’economia e nella società delle campagne era riuscita a diventare qualcosa di profondamente diverso) è ancora lì, nascosto da un opposizione tanto generale quanto inutile, un’opposizione in cui nessuno sembra riconoscersi più e che tuttavia è tenuta in piedi dalla necessità di presentare chiari obiettivi polemici. Forse, per rendere degnamente omaggio al maestro mantovano, potremmo allora cercare di recuperare quanto di interessante conteneva quella nascosta e fragile lettura dell’esperienza comunale e saggiarne la capacità di costituire ancora oggi un modello. Per fare questo non potremmo tuttavia restare ancorati al solido ma circoscritto ambito delle fonti, ma dovremmo avventurarci per i sentieri assai più evanescenti della teoria, quei sentieri che Torelli non amava percorrere. Se, infatti, come ho accennato, proprio l’assenza di paradigmi in lui (come anche, con ben altro spessore, in Volpe) ha contribuito a impedire che la sua ricerca fosse continuata secondo le fruttuose direzioni che aveva tracciato, è dalla ricerca di paradigmi che occorrerà ripartire. Senza lo spazio e la capacità di proporne qui alcuno, vorrei comunque avviare una discussione su tre ambiti che a mio modo di vedere potrebbero aiutarci a continuare il lavoro torelliano e a uscire dall’impasse che ha impedito di proseguirlo: tre concetti fondamentali che continuiamo a usare trattando di comuni: gruppi, istituzioni, linguaggi. 3. Gruppi: dall’identità alle domande Come ha sottolineato Umberto Santarelli, una sensibilità speciale che il Pietro Torelli storico del diritto ebbe fu quella «di cogliere il processo per il quale un certo strumento contrattuale — elaborato per rispondere a determinate esigenze storiche — abbia sopravvissuto ad esse in una ‘continuità’ che gli consentì poi di rispondere in modo perfettamente adeguato ad altre emergenze del tutto nuove e diverse»25. A mio modo di vedere si tratta di uno spunto che andrebbe ripreso e applicato anche allo studio dei gruppi sociali. Al contrario, negli ultimi anni si è insistito molto sulle caratteristiche tipiche dei gruppi, sugli elementi che li rendono uguali a se stessi e poco sui meccanismi della loro formazione. In altre parole ci siamo chiesti trop-
25 U. Santarelli, Pietro Torelli storico del diritto privato, in Convegno di Studi su Pietro Torelli cit., pp. 221-235.
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po chi erano i gruppi e troppo poco cosa aveva unito e cosa teneva insieme i loro membri. Il dato non potrà stupire se si considera quanto si è provato a descrivere in merito all’irrigidimento delle categorie interpretative sulla vicenda comunale verso un’opposizione binaria sempre più pervasiva. È naturale che per capire come fossero due gruppi di cui si cercava in primo luogo il conflitto che li opponeva si sia insistito su ciò che li rendeva diversi. Siamo così giunti a una conoscenza approfondita, per esempio, dei valori professati dai milites e dal popolo. Come dimostra, tra i molti esempi possibili, il recente lavoro di Silvia Diacciati su Firenze che per questo aspetto sintetizza molte ricerche degli ultimi decenni, sappiamo bene che il “popolo” fiorentino si definiva come il gruppo cui appartenevano i sostenitori della pace, della concordia, della divisione del potere, dei meccanismi di controllo tra consigli e così via26. Sappiamo, in altre parole, tracciare i contorni dell’identità di questo grande gruppo politico e ideologico. Quello che tuttavia non sappiamo ancora bene è come questo “popolo” sia andato formandosi, secondo quali logiche di inclusione e di esclusione, secondo quali meccanismi di accesso. Sappiamo infatti, e le ricerche della Diacciati lo confermano, che all’interno del gruppo popolare esisteva una vasta pluralità di posizioni, una serie di domande diverse, ma spesso ci limtiamo a rilevare questa pluralità di sottoinsiemi senza elencarli e provare a coglierne la logica ordinatrice. Invece sarebbe importante provare a farlo. L’economia aiuta molto in questo senso. Gli importanti lavori di Alma Poloni su Pisa e su Lucca danno un contributo importante alla conoscenza delle diverse incarnazioni che il “popolo” ebbe in diversi momenti del Duecento27. Grazie a questi lavori siamo in grado di dire che il “primo” e il “secondo” popolo di due importanti città toscane avevano, in effetti, poco a che spartire, essendo quello egemonizzato da gruppi di piccoli commercianti, questo da grandi compagnie commerciali. Si tratta di una differenza cruciale che andrebbe approfondita per comprendere cosa di fatto condusse dal primo al secondo scenario. La grande ricerca di Sarah Rubin Blanshei su Bologna si avvicina a questo obbiettivo dando conto dei molti mecanismi di esclusione che condussero alla modifica della composizione
26 S. Diacciati, Popolani e Magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto
2011.
27 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un comune italiano: il popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004; Poloni, Lucca nel Duecento. Uno studio sul cambiamento sociale, Pisa 2009.
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e degli equilibri del popolo bolognese nel corso del periodo 1270-132628, ma purtroppo nel momento in cui si tratta di spiegare questi meccanismi si rifugia nel concetto di oligarchia che non mi pare riesca pienamente a esprimere la dinamicità del movimento descritto. L’unico gruppo per il quale disponiamo di una spiegazione esaustiva e al tempo stesso fertile è quello dei milites cittadini del XII secolo. Grazie al libro di Jean-Claude Maire Vigueur29 – il cui titolo contiene un implicito ossimoro che forse sarebbe piaciuto a quel collezionista di titoli ossimorici che fu Torelli – siamo in grado non tanto e non solo di comprendere l’identità dei valori dei milites cittadini (quella “cultura dell’odio” che in molti, specie tra i pessimisti, vanno citando), ma anche e soprattutto il modo in cui quel gruppo si formò. La scoperta della scarsa importanza di sistemi di selezione sociale “esterni” come l’inquadramento nei rapporti feudali o la concessione del cingolo cavalleresco permette di comprendere, da un lato, come la formazione e il successivo ampliamento della cavalleria cittadina furono un processo relativamente libero dal condizionamento dei poteri esistenti (il vescovo, l’impero, i conti), direttamente legato alla crescita economica e, dall’altro, come quel gruppo dovette trovare al proprio interno i meccanismi di distribuzione delle risorse e di soluzione delle controversie. Si tratta di elementi che forniscono un’immagine a tutto tondo di un gruppo e che ne chiariscono il funzionamento in modo complesso e fertile. Proprio la formazione libera della classe dei milites cittadini spiega perché essi furono sia gli edificatori sia i distruttori del primo comune, riuscendo prima a costruire un potere territoriale per risolvere i problemi di approvvigionamento e di giustizia legati alla loro crescita impetuosa e poi sperimentando le divisioni che portarono alla crisi di fine XII secolo, una volta che quel potere raggiunse i limiti del contado conquistato e le risorse cominciarono a diminuire. Focalizzare l’attenzione sui meccanismi di costruzione del gruppo, sulle domande che lo tenevano insieme, piuttosto che sulla sua identità statica è ancora più importante nel momento in cui si osservano le fazioni, oggetto, in questi ultimi anni di una vera esplosione di ricerche e di cui tuttavia ci sfugge ancora, spesso, il meccanismo fondante. Sappiamo molte cose sulla lunga durata dei termini di Guelfi e Ghibellini30, sul loro riuti-
28 29
S. Rubin Blanshei, Politics and Justice in Late Medieval Bologna, Leiden 2009. J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004 (ed. orig. Paris 2003) 30 Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, cur. M. Gentile, Roma 2005.
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lizzo per le esigenze più varie, ma ancor poco sulla formazione delle parti come reti clientelari, sul rapporto tra la formazione di queste reti e il cambiamento economico, sull’influenza su queste reti delle modifiche istituzionali. Forse c’è un serio problema di fonti per indagare questi aspetti, anche se si ha l’impressione che una serie di studi locali sui cruciali decenni dello scontro tra Federico II e il papato e sulla seguente crociata organizzata per la conquista del Regno di Sicilia potrebbero ancora dare qualche frutto. Si tratterebbe infatti di capire non tanto come individui e famiglie appartenevano da tempo immemorabile a reti clientelari stabili, ma piuttosto come i conflitti duecenteschi modificarono queste reti e impressero loro una forma destinata a durare o a essere modificata da eventi successivi. Sappiamo che tra questi eventi ebbero un ruolo cruciale le esclusioni, ma esiste forse un livello precedente ancora da approfondire. In questo senso l’elenco di motivazioni individuali e collettive fatto da Dino Compagni al fine di spiegare le ragioni di quella che ancora oggi resta la più enigmatica delle divisioni di parte, il perché certi fiorentini divennero bianchi e certi altri neri31, costituisce una sorta di lezione di metodo che andrebbe approfondita per la realtà fiorentina e estesa a molti altri contesti, precedenti e successivi. Infine l’attenzione al meccanismo di formazione del gruppo è cruciale per quanti continuiamo a chiamare magnati. Ma in questo campo non si può dire che non siano stati fatti passi avanti. Il confronto tra due libri dedicati ai magnati all’inizio e alla fine del periodo storiografico qui esaminato, quello di Carol Lansing e quello di Christiane Klapisch Zuber è rivelatore32. E non tanto perché, come la Lansing ha provato a riassumere in un recente contributo33, sia cambiata la risposta al problema, ma perché è cambiata la domanda. Mentre nel 1991 ci si chiedeva chi erano i magnati, nel 2008 ci si chiede come erano definiti. E con la domanda è cambiata più in generale la valutazione dell’importanza storica del fenomeno. Quello che pareva un residuo tribale dato nella società appare oggi come una delle categorie culturali costruite che maggiormente contribuirono alla tenuta del modello comunale sulla lunga durata.
31
[118]).
Dino Compagni, Cronica, ed. D. Cappi, Roma 2000, pp. 37-38 (Cronica I, XXII,
32 C. Lansing, The Florentine Magnates. Lineage and Faction in a Medieval Commune, Princeton 1991; C. Klapisch Zuber, Ritorno alla politica. I magnati fiorentini, 1340-1440, Roma 2010. 33 C. Lansing, Magnate Violence Revisited, in Communes and Despots in Medieval and Renaissance Italy, cur. J.E. Law – B. Paton, Farnham 2009, pp. 35-45.
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Dal momento però il gruppo magnatizio non fu tanto il frutto di un’autodefinizione, quanto il risultato di una definizione operata dall’esterno, dall’ambito istituzionale, sarà meglio passare al secondo concetto da analizzare, quello appunto di istituzione. 4. Istituzioni: dall’efficacia alle regole Al principio dei suoi Studi, Pietro Torelli scrive che il suo scopo non è di osservare i documenti per «cercare se nei comuni si trovino istituti di una determinata natura, ma per determinare la natura degli istituti che si trovano»34. Anche in questo caso si tratta di un suggerimento importante. Metodologicamente non vi è dubbio sul fatto che l’analisi delle vicende del comune non può passare per la verifica dell’esistenza di oggetti che assumiamo come “dati” (il giusto processo, il voto, la democrazia, o la rappresentanza), ma piuttosto per la ricostruzione di nuovi oggetti di studio che le fonti ci illustrano. È una legge che, come ho appena cercato di dimostrare, vale per i gruppi, che sarebbe più profittevole indagare nelle loro ragioni formative che non nella loro identità, e che tuttavia vale ancora di più per le istituzioni. Una volta infatti che si sia compreso come un gruppo sia sorto e quali interessi lo tenevano insieme diventa necessario capire come questi interessi furono canalizzati. Da questo punto di vista mi pare evidente che nel dopoguerra il testimone di Torelli è stato raccolto e portato avanti in primo luogo da chi, almeno nel giudizio di Capitani che citavo al principio, aveva pur criticamente riconosciuto il profondo ruolo propulsore della lezione torelliana, e cioè Giovanni Tabacco35. Fu lui a offrire ai medievisti italiani il concetto chiave con cui interpretare la loro storia: quello di istituzione quale strumento con il quale un gruppo persegue un obiettivo mediante delle regole condizionanti36. Ecco, mi pare che nella storia istituzionale degli ultimi trent’anni il focus si sia concentrato più sugli obiettivi che sulle regole. Non mi riferisco all’as-
34 Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale cit., p. 9. 35 Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli cit., pp. 578-580 che fa riferimento oltre che
a I Liberi del Re e ad altre opere di Tabacco anche, nello stesso senso, a G. Sergi - E. Artifoni, Microstoria e indizi, senza esclusioni e senza illusioni, «Quaderni storici», 45 (1980), pp. 1116-1127. 36 G. Tabacco, Storia delle istituzioni come storia del potere istituzionalizzato, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, cur. G. Rossetti, Bologna 1977, pp. 33-40.
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senza di studi sulla cultura delle regole che caratterizzò il mondo comunale rispetto agli orizzonti politici che lo avevano preceduto. Su questo esiste una letteratura avanzatissima sulla quale tornerò: ma sul fatto che in molti casi sentiamo ancora bisogno di stabilire se una data istituzione (il comune consolare, il podestà forestiero, la signoria) sia stato in grado di realizzare efficacemente lo scopo che era stato esplicitamente dichiarato (o quello che noi possiamo presupporre) più che di comprendere se quell’azione, al di là dell’obiettivo da cui era stata originata, portò a una effettiva trasformazione delle regole del gioco politico che magari con quello scopo esplicito non sempre coincidevano. Mi spiego con un esempio semplice. A lungo si è discusso e, come mostra l’articolo di Gamberini citato in precedenza, si continua a discutere, se i comuni siano pervenuti a un completo ed efficace assoggettamento del contado, ma uno storico del diritto di cui andrebbero indagati i legami con Torelli, Giovanni De Vergottini, rivelò già negli anni Venti del Novecento che al di là di questo, l’azione cittadina nel territorio aveva prodotto una regola nuova, ovvero la comitatitanza, la distinzione dei diritti dei cittadini da quelli degli abitanti del contado37. Sarebbe forse opportuno tornare a indagare con quello spirito, magari mediante la coniazione di nuove parole (come di fatto era “comitatitanza”), le trasformazioni dell’età comunale cogliendo quali furono gli effetti dell’allestimento del sistema consiliare (quale rappresentanza), del sistema di controlli operato dalla scritturazione di età podestarile (che magari non portò alla trasparenza immaginata, ma all’adempimento di nuovi obblighi e dunque al tentativo, anch’esso nuovo, di aggirarli), dei complessi sistemi di esclusione e rientro che connotarono i regimi di popolo e di parte, su cui tuttavia in verità, cominciamo oramai ad essere piuttosto informati. Come si vede non si tratta di domande enigmatiche che non hanno già possibili risposte negli studi disponibili, ma di domande che possono contribuire a far comprendere meglio come si articolarono i rapporti tra dimensione privata e dimensione pubblica, una via che non passa per il terreno familiare e rassicurante della contrapposizione binaria tra ottimisti e pessimisti, tra fan del pubblico e fan del privato, ma tenta quello della integrazione, adempiendo, in parte a ciò che Giorgio Chittolini andava auspicando per una migliore comprensione della storia politica tardomedievale38. 37 38
G. De Vergottini, Origini e sviluppo storico della comitatitanza, Siena 1929. G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, cur. G. Chittolini - A. Molho - P. Schiera, Bologna 1994, pp. 553-589 (ed. ingl. col titolo The ‘Private’, the ‘Public’ and the State, in The Origins of the State in Italy, «The Journal of Modern History», 67/suppl. [1995], pp. 34-61).
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5. Linguaggio politico: dalla propaganda al consenso Ogni progetto politico capace di concretizzarsi in un’istituzione e per questo di produrre delle nuove regole si basò in età comunale, ma direi più in generale nel medioevo, sulla ricerca di un consenso. E questa ricerca del consenso si fondò su un opportuno uso delle parole. E con questo vengo rapidamente all’ultimo punto. La comunalistica degli ultimi trent’anni ha dato al tema dell’uso della parola e dei suoi rapporti con la politica un’importanza sconosciuta in precedenza. Questo si deve ad Enrico Artifoni e a chi come lui ha deciso di indagare la relazione tra retorica e il potere39. C’è però un punto in cui il discorso sulla retorica del potere incontra il discorso sul pubblico e sul privato che non mi pare sia stato specificamente indagato. Se infatti gli interessi dei gruppi di privati vengono trasferiti sul piano pubblico mediante le istituzioni, i discorsi prodotti da quelle istituzioni, i nuovi concetti da queste elaborate, non solo mediante le regole vincolanti a cui facevo riferimento prima, ma mediante l’immissione di nuove parole d’ordine, nuove frasi fatte, nuove immagini, si vengono a diffondere nei singoli che li introiettano e cominciano a impiegarli anche individualmente per analizzare la realtà in cui vivono. Faccio un ultimo esempio ancora fiorentino. Quando Compagni parla di ingiustizia e giustizia nei modi in cui muoiono i protagonisti della lotta che racconta40, egli non è semplicemente un uomo del medioevo che ragiona con categorie antropologicamente separate dalle nostre per cui esiste una giustizia divina che punisce chi si è comportato male, ma un privato che impiega categorie desunte dalle evoluzioni più recenti del linguaggio pubblico della realtà politica cui partecipa. Tempo fa Andrea Zorzi ci ha fatto capire quanto il concetto e direi la parola stessa “giustizia” fosse per39
Di Artifoni, è doveroso citare almeno Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 157-182; L’éloquence politique dans le cités communales (XIIIe siècle), in Cultures italiennes (XIIe-XVe siècles), cur. I. Heullant-Donat, Paris 2000, pp. 269-296; Orfeo concionatore. Un passo di Tommaso d’Aquino e l’eloquenza politica nelle città italiane nel secolo XIII, in La musica nel pensiero medievale, cur. L. Mauro, Ravenna 2001, pp. 137-149; Prudenza del consigliare. L’educazione del cittadino nel Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia (1246), in Consilium. Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, cur. C. Casagrande – C. Crisciani – S. Vecchio, Firenze 2004, pp. 195-216. Tra gli studi successivi contributo importante è quello di B. Grevin, Réthorique du Pouvoir médiéval. Les lettres de Pierre de La Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècle), Roma 2009. 40 Compagni, Cronica cit., pp. 142-148 (III, XXVII-XLI [204-22]).
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vasiva nella Firenze dell’età di Dante (gli Ordinamenti di Giustizia, le Compagnie della Giustizia, il Gonfaloniere di Giustiza e così via)41. In virtù di questa pervasività, Dino impiegava quell’idea per leggere ciò che era accaduto. La storiografia degli ultimi trent’anni ha avuto una certa attenzione per questo ambito di indagini, in questo senso che ho appena detto e nel senso non troppo diverso che risulta dalla minuziosa analisi dei formulari degli atti documentari. Gli atti dei due convegni sui linguaggi politici sono lì a testimoniarlo42. Ma proprio la scelta metodologica rivendicata dai curatori di quei convegni, di conferire al termine di linguaggio politico un’accezione vasta, fa oscillare le ricerche che in questo contesto sono state fatte tra due estremi entrambi contestabili: da un lato un certo scetticismo nei confronti dei linguaggi, che tende a leggerli nei termini di una propaganda che è sovrastruttura, vestito leggero di una sostanza fatta di nudi rapporti di potere; dall’altro lato una fiducia, a mio modo di vedere eccessiva, nella nozione di atto linguistico come procedimento capace di operare quasi magicamente una trasformazione della realtà. Come Torelli segnalava già nel bellissimo saggio su Capitanato del popolo e vicariato imperiale perché un’espressione prodotta dal potere trovi cittadinanza e ascolto occorre che venga accettata e digerita. A Pinamonte Bonacolsi ci vollero parecchi anni per definirsi capitaneus generalis della città. E quella cautela pagò, quell’innovazione restò. Solo a partire da allora i mantovani percepirono i Bonacolsi come signori generali sciolti dall’orizzonte ordinario delle leggi43. Penso una prospettiva del genere potrebbe essere utilmente adottata non solo, come è avvenuto in tempi recenti, per il periodo dell’ultimo comune44, ma anche per i periodi anteriori così da riuscire a capire, per esempio, in che modo si giunse all’elaborazione di concetti chiave come
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A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario. Atti dell’incontro di studio organizzato dall’Archivio di Stato di Firenze (Firenze, 14 dicembre 1993), cur. V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 105-147. 42 Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento. Atti del Convegno (Pisa, 9-11 novembre 2006), cur. A. Gamberini - G. Petralia, Roma 2007; The Languages of Political Society, Western Europe, 14th-17th Centuries, cur. A. Gamberini - J.-Ph. Genet - A Zorzi, Roma 2011. 43 P Torelli, Capitanato del popolo e vicariato imperiale come elementi costitutivi della signoria bonacolsiana, «Atti e memorie dell’Accademia virgiliana di Mantova», n. ser., 1416 (1921-23), pp. 73-221. 44 Tecniche del potere nel tardo medioevo, cur. M. Vallerani, Roma 2010.
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quello di governo o quello di consiglio che, per quanto diamo per scontati, furono anch’essi frutto di una dialettica tra proposte dei governanti e risposte della cittadinanza. In questo modo l’eredità di Pietro Torelli potrebbe essere investita e fatta fruttare in modo da produrre, nella stessa ottica di quella «produzione storica dei luoghi» che è stata proposta dai modernisti italiani più agguerriti45, una produzione storica delle istituzioni e dei gruppi stessi.
45 A. Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma 2011.
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ALMA POLONI IL SECONDO POPOLO: CONFLITTI E RICAMBIO POLITICO NEI COMUNI POPOLARI NEI DECENNI TRA DUE E TRECENTO
Questo contributo affronta, pur da un’ottica limitata e specifica, la questione del ricambio politico nelle città comunali, che è strettamente connessa a un tema che ha una solida tradizione nella comunalistica italiana, quello della formazione e delle trasformazioni dei ceti dirigenti cittadini. Dopo un periodo di appannamento cominciato negli anni Ottanta del Novecento, nell’ultimo quindicennio il ricambio politico è tornato ad attirare l’interesse degli studiosi1. L’allontanamento dalla prospettiva elitista a lungo prevalente nelle ricerche sui ceti dirigenti ha però sollevato interessanti e in parte irrisolti problemi di metodo, di linguaggio, di modelli interpretativi2. Mi è sembrato perciò che l’argomento potesse trovare spazio in un convegno aperto alla discussione di temi cardine degli studi comunalistici. Mi scuso quindi se questo intervento abbandona il binario della riflessione sull’opera di Pietro Torelli. È evidente, comunque, che l’idea di ricostruire la fisionomia economica e sociale della classe politica comunale, e i suoi cambiamenti nel tempo, è tutt’altro che assente nel lavoro di Torelli, il quale si proponeva di svilupparla nel secondo volume di Un comune cittadino in territorio ad economia agricola. Essa percorre però in maniera carsica già il primo volume, che, a ben vedere, si apre proprio con un sondaggio prosopografico sul ceto dirigente del primo comune mantovano.
1 Un punto di riferimento essenziale rimane P. Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del XV Convegno internazionale di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 17-40; si veda anche R. Bordone - G. Castelnuovo - G. M. Varanini, Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari 2004. 2 M. Vallerani, La città e le sue istituzioni. Ceti dirigenti, oligarchia e politica nella medievistica italiana del Novecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico», 20 (1994), pp. 165-230.
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Nelle pagine che seguono mi soffermerò su un periodo circoscritto, quello compreso tra il 1280 e il 1320, e prenderò in considerazione un numero limitato di città, tutti comuni di popolo. Mi sembra tuttavia che anche da questo campione ristretto emergano alcuni dei principali nodi problematici relativi al ricambio politico, alle sue dinamiche, al suo rapporto con le trasformazioni economiche, la mobilità sociale, i conflitti politici. 1. Forme e dinamiche del ricambio politico Nella storia di tutti i comuni cittadini si possono individuare fasi di ricambio politico intenso e accelerato, nelle quali cioè, in un arco di tempo molto ristretto, giunse ad occupare posizioni di potere un numero elevato di individui e famiglie che fino a quel momento ne erano rimasti del tutto o parzialmente esclusi3. Tali fasi sono in genere il riflesso di importanti mutamenti negli equilibri politico-istituzionali. Anche in una situazione di relativa apertura del gioco politico e di ampia partecipazione, come era quella dei comuni di popolo duecenteschi, le famiglie che erano riuscite a consolidare la propria presenza all’interno del gruppo dirigente godevano di una rendita di posizione che rendeva improbabile, in condizioni normali, un ricambio molto consistente. Per questo motivo il ricambio politico non è mai una funzione diretta e immediata del tasso di mobilità sociale. La tendenza alla riproduzione delle élites politiche poteva essere interrotta da eventi esterni, più o meno traumatici, che mettevano in crisi le posizioni acquisite e aprivano nuovi spazi. Oppure la rottura dell’equilibrio poteva essere la conseguenza della pressione esercitata da movimenti politici organizzati, che rivendicavano una diversa distribuzione del potere all’interno della società cittadina. La storia dei comuni di popolo tra Due e Trecento offre esempi interessanti sia del primo che del secondo caso. Un esempio del ruolo giocato dai fattori esterni può essere individuato nelle vicende fiorentine degli anni Ottanta del Duecento. La pace del cardinale Latino Malabranca, legato papale, siglata dopo mesi di trattative nel
3 Il ricambio politico è stato in genere misurato attraverso l’analisi degli organi collegiali di vertice: consoli, anziani, priori, ma anche commissioni di sapientes. Questa prospettiva non è del tutto soddisfacente (cfr. M. Vallerani, Comune e comuni: una dialettica non risolta, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centro-settentrionale nel processo storico dal primo comune alla signoria. Atti del Convegno [Bologna, 3-4 settembre 2010], cur. M.C. De Matteis - B. Pio, Bologna 2011, pp. 9-34: 27-28, 30-31), ma mi pare che per il periodo qui considerato mantenga una sua validità. Non da ultimo perché proprio le regole per il reclu-
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febbraio del 1280, imponeva la creazione di una nuova magistratura, i quattordici, che andava a sostituire i dodici buoni uomini guelfi, l’organo di vertice degli ultimi anni di prevalenza guelfa. Ai quattordici dovevano avere accesso, a quanto pare in proporzioni definite, guelfi, ghibellini e neutrali4. Secondo Silvia Diacciati, con neutrali si intendevano sostanzialmente gli esponenti delle corporazioni di mestiere, considerate un elemento di equilibrio e stabilità, indipendente dalle divisioni partigiane5. Questo intervento esterno indebolì la posizione dominante esercitata nel periodo di prevalenza guelfa dalle grandi casate dell’aristocrazia guelfa e dalle poche ricche famiglie mercantili di origine duecentesca e popolare – Mozzi, Spini, Bardi – che erano riuscite a integrarsi in un’élite politica piuttosto chiusa. Ai quattordici, in effetti, ebbero accesso anche esponenti delle arti maggiori che non avevano avuto un ruolo di rilievo nei vent’anni precedenti. L’apertura improvvisa di nuovi spazi politici fece saltare gli equilibri consolidati e portò a un progressivo aumento del peso delle corporazioni, in particolare di quelle maggiori, imprimendo una forte accelerazione a un processo che era cominciato già negli ultimissimi anni di predominio guelfo. Ciò si tradusse, come in una reazione a catena, prima nel rafforzamento del ruolo delle arti nelle procedure di elezione dei quattordici, poi, nel giugno del 1282, nella fondazione di un nuovo organo collegiale, i priori delle arti, che dapprima affiancò i quattordici, i quali infine scomparvero dopo i primi mesi del 1283. Alla conclusione di questo processo, che si consumò nel giro di pochissimi anni, la città si trovò con un gruppo dirigente largamente rinnovato, all’interno del quale le potenti casate aristocratiche, sia guelfe che ghibelline, praticamente non trovarono più spazio. Resistettero per il momento le poche famiglie mercantili che negli anni del predominio guelfo avevano compiuto passi importanti verso l’assimilazione ai “grandi”, che tuttavia di lì a poco sarebbero state magnatizzate. Ma il priorato divenne soprattutto l’espressione politica di alcune famiglie che avevano costituito l’élite del primo popolo, ma che poi nel ventennio dei regimi ghibellino e guelfo non
tamento di questi organi furono al centro delle rivendicazioni dei movimenti politici dei decenni tra Due e Trecento. Si può quindi ritenere che l’analisi della composizione di questi collegi sia in grado di fornire informazioni relativamente attendibili sui ritmi del ricambio e sulle sue connessioni con i mutamenti dei rapporti di forza. 4 Per questa fase della storia fiorentina cfr. in particolare D. Medici, I primi dieci anni del priorato, in S. Raveggi- M. Tarassi - D. Medici - P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, pp. 165-237; S. Diacciati, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto 2011, pp. 303-353. 5 Ibid., pp. 342-343.
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avevano avuto accesso alle posizioni di potere, e di numerose famiglie nuove, che si erano affermate attraverso la mercatura nella seconda metà del Duecento, e tra il 1260 e il 1280 si erano soltanto affacciate alla partecipazione politica. Tra queste ultime si possono citare cognomi molto noti, grandi protagonisti del Trecento fiorentino, come Acciaiuoli, Strozzi, Medici, Peruzzi, Dell’Antella, Del Bene. I comuni duecenteschi offrono però anche esempi molto interessanti di fenomeni di consistente ricambio politico determinato da rivoluzioni originatesi dall’interno del sistema, per effetto dell’azione di movimenti organizzati che miravano a un cambiamento dei rapporti di forza tra le diverse componenti socio-politiche presenti nello spazio politico comunale. Un caso evidente è l’affermazione dei movimenti popolari intorno alla metà del Duecento nella maggior parte delle città dell’Italia centro-settentrionale. Tuttavia, in molti comuni di popolo si può individuare ancora un’altra fase, compresa più o meno tra il 1280 e il 1320, fortemente caratterizzata dalla pressione di forze organizzate che rivendicavano una redistribuzione del potere politico tra i gruppi sociali che pure si riconoscevano nel comune popolare. Tanto che si potrebbe parlare di una vera e propria seconda rivoluzione popolare, estendendo anche alle altre realtà la lettura già fornita da Giovanni Villani, che per Firenze coglie perfettamente la cesura rappresentata dal movimento di Giano della Bella, e parla appunto di «secondo popolo», dopo il «primo popolo» coincidente con l’affermazione del movimento popolare nel 12506. Questa seconda ondata popolare è forse stata un po’ sottovalutata dalla storiografia, anche perché essa si manifestò in contesti politici particolarmente esplosivi, nei quali le lotte del “nuovo popolo” si sovrapposero a conflitti di natura fazionaria, in particolare tra “bianchi” e “neri”, e in alcuni casi anche a tentativi di affermazione signorile, in un intreccio non facilmente districabile7.
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G. Villani, Nuova cronica, ed. G. Porta, Parma 1990-1991, IX, 1; per il «primo popolo» ibid., VII, 39. 7 A. Poloni, Il comune di popolo e le sue istituzioni tra Due e Trecento. Alcune riflessioni a partire dalla storiografia dell’ultimo quindicennio, «Reti Medievali-Rivista», 13/1 (2012), http://rivista.retimedievali.it.
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2. Il secondo popolo: alcuni esempi Arezzo era un comune di popolo dal 12568. Dal 1266 il vertice istituzionale era rappresentato dai ventiquattro del comune e del popolo, che avevano sostituito gli anziani. Come questi ultimi, i ventiquattro erano eletti sulla base della ripartizione topografica in quartieri. Alla metà degli anni Ottanta, tuttavia, la struttura istituzionale del comune subì importanti mutamenti. Fu infatti introdotto un nuovo ufficiale forestiero, lo iudex appellationum. Compare inoltre una nuova magistratura collegiale, i subpriores delle quindici arti, guidati da un prior, forestiero: nel 1285 priore e subpriori agivano al fianco dei ventiquattro in un importante atto di governo. La sfortunata situazione documentaria di Arezzo non consente neppure di capire esattamente quanti fossero i subpriori, che comunque erano espressi direttamente dal mondo delle arti. In ogni caso, dietro le modifiche dell’assetto istituzionale si intravede chiaramente la spinta di un movimento politico che aveva la propria base nelle corporazioni professionali. Lo iudex appellationum sembra una figura molto simile al giudice sgravatore che, in quegli stessi anni, veniva introdotto a Perugia: un ufficiale forestiero al quale era affidata la giurisdizione d’appello, cioè la possibilità di intervenire sulle sentenze del podestà e del capitano del popolo. Per Perugia, l’istituzione di questo magistrato forestiero è stata messa in collegamento con un mutamento negli equilibri politici, a favore di quello che un po’ approssimativamente viene in genere definito “popolo minuto”9. Anche ad Arezzo la comparsa del giudice degli appelli si inserisce in una fase nella quale il baricentro del comune di popolo si stava, per così dire, spostando a sinistra10. Nel 1287 il movimento ultrapopolare trovò un convinto leader nel lucchese Guelfo da Lombrici, in quel momento priore delle arti11. Le crona-
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C. Lazzeri, Guglielmino Ubertini Vescovo di Arezzo (1248-1289) e i suoi tempi, Firenze 1919; G. P. Scharf, Fiscalità e finanza pubblica ad Arezzo nel periodo comunale (XII secolo-1321), «Archivio storico italiano», 164 (2006), pp. 215-266; Scharf, Potere e società ad Arezzo e nel suo contado nel XIII secolo (1230-1320), in corso di stampa. 9 J. Grundman, The «popolo» at Perugia (1139-1309), Perugia 1992. Sara Menzinger ha tuttavia osservato che l’istituzione del giudice sgravatore rispondeva anche a problemi più complessi e con radici più antiche: S. Menzinger, Giuristi e politica nei comuni di Popolo. Siena, Perugia e Bologna: tre governi a confronto, Roma 2006, pp. 166-170. 10 A proposito degli anni 1285-1287 Gian Paolo Scharf parla di «“biennio rosso” del popolo aretino»: Scharf, Potere e società ad Arezzo cit. 11 Su questo personaggio A. Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane fra Due e Trecento: Guelfo da Lombrici, Giano della Bella, Bonturo Dati e Coscetto da Colle, in Esperienze di potere personale e signorile nelle città toscane (secoli XIII-XV). Atti del Convegno (Volterra, 21-23 ottobre 2011), cur. A. Zorzi, in corso di stampa.
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che non sono chiarissime su quanto accadde quell’anno, ma è probabile che priore e subpriori conquistassero un ruolo istituzionale di maggior rilievo, emarginando i ventiquattro12. In ogni caso, l’arrivo di Guelfo segnò il passaggio a una politica molto più radicale, e accesamente antinobiliare. Il fronte aristocratico, spaccato tra guelfi e ghibellini, ritrovò allora, sotto la guida del vescovo Guglielmino degli Ubertini, una momentanea unità nella reazione contro le arti e il loro pericoloso priore. Quest’ultimo, messo in fuga, fu catturato e tenuto prigioniero per qualche tempo; l’esperienza del governo delle arti fu bruscamente soppressa. Anche Lucca era un comune di popolo almeno dall’inizio degli anni Sessanta del Duecento13. Anche qui gli anziani, eletti sulla base della ripartizione topografica in porte, occupavano il vertice del sistema istituzionale. Nel 1292, però, compare un nuovo organo collegiale, i priori delle società delle armi, che erano diciassette, quante appunto erano le società: ogni compagnia, infatti, eleggeva direttamente un priore. L’affermazione dei priori fu piuttosto lenta14. Nel 1300, però, essi ottennero di affiancare gli anziani, sullo stesso piano, in tutti gli affari politici, e di condividerne tutti i poteri. I priori avevano una fisionomia sociale piuttosto diversa dagli anziani. Nel priorato si esprimeva in particolare un gruppo di famiglie mercantili di grande successo ma di origine recente, affermatesi nel commercio internazionale a partire dagli anni Sessanta del Duecento15. Accanto ad esse, come conseguenza del reclutamento dal basso, partecipavano anche altre componenti sociali, mercanti di minor calibro, piccoli imprenditori, bottegai, artigiani benestanti. Non sembra invece avere accesso al priorato nessuna delle famiglie più in vista del gruppo dirigente popolare, che avevano guidato il popolo nella prima metà del secolo e avevano poi dominato l’anzianato. Dal 1301, anzi, la presenza di queste famiglie diminuì notevolmente anche nell’anzianato. Molte di esse avevano
12 Gli avvenimenti aretini del 1287 sono narrati in Annales Arretinorum Maiores et Minores, edd. A. Bini - G. Grazzini, in R.I.S.2, 24, Città di Castello 1909, p. 9; D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, ed. G. Luzzato, Torino 1968, I, 6; Villani, Nuova cronica cit., VIII, 115; Le Croniche di Giovanni Sercambi, lucchese, ed. S. Bongi, Lucca 1892, I, p. 45. 13 A. Poloni, Strutturazione del mondo corporativo e affermazione del Popolo a Lucca nel Duecento, «Archivio storico italiano», 165 (2007), pp. 449-486. 14 Su questa fase della vita politica lucchese cfr. A. Poloni, Lucca nel Duecento. Uno studio sul cambiamento sociale, Pisa 2009, pp. 145-182. 15 Sul commercio e l’industria lucchesi nel Duecento cfr. I. Del Punta, Mercanti e banchieri lucchesi nel Duecento, Pisa 2004; Poloni, Lucca nel Duecento cit.
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infatti aderito alla fazione “bianca”, mentre lo schieramento ultrapopolare che si esprimeva nel priorato, avendo assunto posizioni guelfe radicali, è dai cronisti assimilato ai “neri” fiorentini e pistoiesi. All’inizio del 1301 i bianchi furono costretti ad abbandonare la città in seguito alla violenta reazione popolare causata dall’uccisione del giudice Opizo Opizi, molto vicino ai neri. Infine nel 1308, con la riscrittura degli statuti cittadini, le più influenti famiglie del vecchio gruppo dirigente popolare furono inserite nella lista di casastici et potentes, i magnati lucchesi, ed escluse dalle cariche riservate ai popolari, a cominciare da anzianato e priorato. Il movimento politico che si era affacciato sulla scena all’inizio degli anni Novanta, e che, a differenza che a Firenze, ad Arezzo e, come vedremo, a Perugia, non aveva trovato una base organizzativa nelle arti, ma nelle società armate popolari, aveva ottenuto un ricambio consistente del gruppo dirigente. Ma non era ancora finita. Nel 1310 il “popolo minuto” – uso questa definizione per comodità espositiva, nonostante sia inadeguata, e per di più assente dalle fonti lucchesi –, sotto la guida di Bonturo Dati, uno dei mercanti internazionali di successo, ma di origini oscure, che avevano avuto un ruolo di primo piano nella fondazione dei priori, impresse una nuova svolta radicale alla politica lucchese16. Molte famiglie del “popolo grasso” – tra le quali, presumibilmente, anche alcune di quelle responsabili della rivoluzione degli anni Novanta – furono cancellate dalle matricole delle società armate, cioè, di fatto, escluse dai privilegi riservati ai popolari, e, ovviamente, dal priorato. Il baricentro sociale del governo popolare si spostò ulteriormente verso il basso e il bacino di reclutamento degli organi di vertice, priorato e anzianato, si allargò a comprendere non solo esponenti delle arti minori, ma addirittura, a quanto sembra, settori del proletariato urbano, da sempre esclusi da qualsiasi forma di partecipazione politica. Questa esperienza durò soltanto tre anni, e anzi nel 1314 l’imposizione violenta della signoria di Uguccione della Faggiola costrinse all’esilio molti dei protagonisti della vivace stagione politica cominciata nei primi anni Novanta. Non è il caso di soffermarsi sul movimento fiorentino guidato da Giano della Bella, negli anni Novanta del Duecento, molto noto e studiato approfonditamente17. Si possono comunque notare le numerose somi-
16 Poloni, Figure di capipopolo cit. Sulle attività economiche di Bonturo, Poloni, Lucca nel Duecento cit., pp. 92-103, e Appendici, pp. 207-214. 17 Mi limito solo ai lavori più recenti, nei quali si può trovare un’esauriente bibliografia delle opere precedenti: P. Parenti, Dagli Ordinamenti di Giustizia alle lotte tra Bianchi e Neri, in Raveggi – Tarassi – Medici - Parenti, Ghibellini, guelfi cit., pp. 239-326; G. Pinto,
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glianze con le vicende aretine e lucchesi, compresa l’importanza, per la formazione e soprattutto la tenuta dei movimenti popolari radicali, di figure di leaders come appunto Giano, Guelfo da Lombrici, Bonturo Dati. Anche Perugia era un comune di popolo dagli anni Cinquanta del Duecento18. Dopo un lungo periodo di sperimentazione istituzionale, dal 1266 il vertice del comune era occupato dai cinque consoli della mercanzia. Ma anche nella città umbra dagli anni Ottanta si intravedono segnali evidenti di una crescente pressione per una diversa distribuzione del potere tra le componenti sociali del popolo, e anche qui, come a Firenze e ad Arezzo, le forze che si opponevano alla preminenza degli strati più elevati del mondo mercantile trovarono una struttura organizzativa nelle arti. I primi successi arrivarono già nel 1283-84, quando i consoli della mercanzia furono sostituiti dai consoli delle arti19. I membri del collegio erano sempre cinque e ai mercanti erano riservati due seggi. Un terzo seggio andava ai rappresentati dei cambiatori, mentre gli altri due erano ricoperti, a turno, da esponenti delle altre arti. La durata dell’ufficio fu però ridotta da sei a tre mesi, per poi essere portata a due mesi nel 1293, rendendo quindi più rapida la rotazione tra le arti. Anche l’introduzione del giudice sgravatore, a metà degli anni Ottanta, fu per molti versi una vittoria del movimento popolare fondato sulle arti20. Negli anni Novanta quest’ultimo continuò a ottenere risultati significativi: nel 1296, addirittura, fu stabilito che in caso di conflitto normativo gli ordinamenti delle arti dovessero prevalere sullo statuto del popolo21. Ma la svolta definitiva avvenne nel 1303. I consoli delle arti furono soppressi, e sostituiti dai dieci priori delle arti. Di questi, due dovevano provenire dalla corporazione mercantile. Gli altri otto seggi erano occupati a turno dalle altre arti. Nessuna arte, a parte i mercanti, poteva avere più di un priore per bimestre, e nessuna poteva avere un priore per due bimestri
Della Bella, Giano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 36, Roma 1988, pp. 680-686; A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti di Giustizia, in Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, cur. V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 105-147; Diacciati, Popolani e magnati cit., pp. 353-355, 365-387. 18 Grundman, The «popolo» cit.; J.-C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, VII, 2, Torino 1987, pp. 321-606: 454-458, 472-476,479-487. 19 Grundman, The «popolo» cit., pp. 142, 203. 20 Cfr. nota 9. 21 La rubrica statutaria che contiene questa disposizione è edita in J. Grundman, The Popolo at Perugia. 1139-1309, Ph. D. dissert., Saint Louis, Missouri, 1974, App. IV, pp. 558-559.
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consecutivi. Responsabili dell’elezione dei priori erano i rettori delle arti, che si riunivano alla scadenza di ogni collegio priorale per discutere i sistemi elettorali. Se le vittorie degli anni Ottanta e Novanta avevano indebolito la posizione dell’élite politica popolare, il cambiamento istituzionale del 1303 aprì le porte a un importante ricambio politico e all’ingresso nel gruppo dirigente cittadino di individui e famiglie provenienti da ambienti sociali diversi da quelli che si erano espressi nel consolato22. Poco dopo l’istituzione del priorato fu introdotto un altro nuovo ufficio, il vexillifer populi, le cui competenze non sono chiare. Si sa però che l’ufficio sopravvisse per quindici anni, e che per tutto questo tempo esso fu ricoperto, unica carica comunale a sfuggire alle regole della rotazione, dallo stesso uomo, il potente nobile Filippo Bigazzini23. Filippo era, di fatto, una sorta di nume tutelare del movimento popolare radicale. L’imposizione di nuove forze politico-sociali si sovrapponeva e si intrecciava con l’affermazione di una forma di potere personale per molti versi assimilabile alle eterogenee sperimentazioni signorili che in quegli stessi anni caratterizzavano molte città comunali. Si tratta di un’ulteriore conferma della complessità di questa fase politica, nella quale convivevano senza necessariamente confliggere, e spesso anzi convergendo in forme inedite, diversi progetti di potere. Nel caso di Bologna, tensioni sociali, lotte di parte e progetti di affermazione personale formano un groviglio particolarmente difficile da sciogliere. Nei primissimi anni del Trecento le trame di Azzo VIII d’Este, signore di Ferrara, Modena e Reggio, che mirava a impadronirsi anche di Bologna, provocarono una frattura all’interno del gruppo dirigente cittadino, una parte del quale appoggiava le ambizioni del marchese24. Il partito contrario a questa fazione (detta «marchesana») per rafforzare la propria posizione si avvicinò ai Lambertazzi e cercò una connessione con il coordinamento sovracittadino formato dai ghibellini romagnoli e dai “bianchi” delle città toscane. I marchesani si collegarono di conseguenza ai neri fiorentini, pistoiesi e lucchesi. La storiografia locale parla perciò anche per Bologna di bianchi e neri, ma gli schieramenti erano più mutevoli che nelle città toscane. Tra il 1301 e il 1306, comunque, prevalsero i bianchi. 22 Sulla politica di questo gruppo dirigente rinnovato si veda anche J. Grundman, Perugia and Henry VII, «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 105 (2008), pp. 277-407. 23 Grundman, The «popolo» cit., pp. 234 ss. 24 V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bologna 1901, pp. 75 ss; G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003 (Nuovi Studi storici, 63), pp. 377 ss.
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In questo contesto già complicato si inserì anche qui l’irrequietezza dell’eterogeneo fronte sociale che si esprimeva nelle organizzazioni popolari. Già nel febbraio del 1302 furono approvate alcune provvigioni che miravano a limitare l’influenza delle famiglie popolari più potenti – quello che a Firenze si sarebbe definito il “popolo grasso” – nell’anzianato25. Quello stesso anno venti società delle arti si unirono in una federazione. A capo di essa fu posto un difensore delle venti società, che negli anni successivi acquisì una posizione istituzionale di rilievo. Egli aveva un suo consiglio di quaranta membri e le deliberazioni di questo organo potevano essere sottoposte al consiglio del popolo. Il difensore andò inoltre a unirsi al direttivo composto dagli anziani, dal preconsole dei notai e dai ministrali delle due società preposte a turno alle altre. Questo vertice rinnovato all’inizio del 1303 emanò alcune provvigioni che rimettevano in vigore molte delle disposizioni degli ordinamenti sacrati e sacratissimi lasciate cadere negli anni precedenti e rafforzavano le leggi contro i grandi. Nel 1306 una serie di tumulti pose fine al predominio bianco. La transizione fu accompagnata e favorita da nuove agitazioni nell’inquieto mondo dell’associazionismo popolare. Sette società delle armi parteciparono in prima linea ai disordini di quell’anno, e poco dopo si unirono in una federazione. Il cambio di regime si rifletté sulla struttura istituzionale, con l’acquisizione di un ruolo centrale da parte dell’unione delle sette società26. Essa espresse due nuovi ufficiali, il barisello e il preministrale delle sette società, che si riunivano con gli anziani per gli affari di governo. Il nuovo assetto degli organi di vertice vide invece scomparire il difensore delle società delle arti, mentre anche i ministrali delle due società preposte alle altre vennero spinti in secondo piano. Come dimostra l’analisi condotta da Sarah R. Blanshei, le sette società coinvolte nella federazione erano quelle che avevano il più basso livello di preminenza familiare27: rispetto alle altre società, cioè, esse erano meno caratterizzate dall’egemonia di un gruppo ristretto di famiglie. Le sette società, insomma, avevano un profilo sociale particolare, in qualche modo più egalitario e “popolare” delle altre associazioni; pare quindi confermata l’intuizione di Gina Fasoli, che aveva notato come la federazione avesse il proprio centro nel quartiere di porta Stiera, «il meno aristocratico della città»28. 25 26
Vitale, Il dominio cit., p. 86. Ibid. pp. 111 ss.; G. Fasoli, Le Compagnie delle armi a Bologna, «L’Archiginnasio», 28 (1933), pp. 158-183, 323-340: 324-326. 27 S. R. Blanshei, Politics and Justice in Late Medieval Bologna, Leiden-Boston 2010, pp. 117 ss. 28 Fasoli, Le Compagnie cit., p. 325.
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La federazione delle venti società delle arti, nata anch’essa come una reazione popolare al protagonismo politico delle più potenti famiglie dell’aristocrazia ma anche del popolo, era apparsa troppo compromessa con la parte bianca; la carica di difensore, del resto, istituita per rappresentare un ampio ed eterogeneo aggregato sociale, era stata poi occupata da esponenti di rilievo di quella fazione. L’iniziativa delle sette società delle armi era volta quindi probabilmente sia ad affermare una linea guelfa radicale, contro il filoghibellinismo dei bianchi, sia di nuovo a rilanciare una politica di contenimento delle casate più influenti e di allargamento del gruppo dirigente cittadino. A complicare ulteriormente le cose, c’è da dire che la carica di barisello fu fino al 1321 costantemente ricoperta da Giuliano Raminghi e dai suoi figli, che appartenevano a una delle sette società, quella dei beccai29. Raminghi sembra dunque il leader del movimento radicale (ultraguelfo e ultrapopolare, come lo schieramento lucchese che aveva dato vita al priorato) organizzato intorno alle sette società delle armi. Ma gli anni di prevalenza delle sette società furono anche quelli nei quali si rafforzò l’egemonia personale del banchiere Romeo Pepoli, anche grazie ai rapporti stretti proprio con i Raminghi30. Sulla lotta di fazione e sulle rivendicazioni di una diversa distribuzione del potere si innestarono dunque anche, in uno scenario di grande complessità, due diversi progetti di affermazione personale e familiare, per di più non in contrasto tra loro, ma alleati. A Pisa nell’aprile del 1316 una sollevazione popolare portò alla fine della signoria di Uguccione della Faggiola31. Della situazione che si venne a creare all’indomani della cacciata del “tiranno” gli storici hanno messo in luce soprattutto l’emergere della figura del conte Gherardo (Gaddo), uno degli animatori della rivolta antiuguccioniana, con il quale di fatto iniziò la lunga fase della signoria filopopolare dei Donoratico32. Ma in quegli stessi anni la vita politica pisana conobbe anche un altro protagonista: Bonac-
29 Sulle competenze del barisello, Milani, L’esclusione dal comune cit., pp. 399-404. Il barisello aveva già fatto una fugace comparsa nella documentazione bolognese nel 1279. 30 M. Giansante, Patrimonio familiare e potere nel periodo tardo-comunale. Il progetto signorile di Romeo Pepoli banchiere bolognese (1250c.-1322), Bologna 1991. 31 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004, pp. 275 ss. 32 G. Rossi Sabatini, Pisa al tempo dei Donoratico. 1316-1347, Firenze 1938. Questa fase della vita politica pisana è stata recentemente al centro di un’importante rilettura: G. Ciccaglioni, Dal Comune alla signoria? Lo spazio politico di Pisa nella prima metà del XIV secolo, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 109 (2007), pp. 235-270.
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corso detto Coscetto da Colle, un piccolo mercante che gestiva con il fratello una bottega per la vendita di lana e pannilana. Il domenicano Ranieri Granchi nel De preliis Tuscie – un poema i cui primi sette libri furono composti probabilmente negli anni Trenta del Trecento, pochi anni dopo la morte di Coscetto – descrive una sorta di diarchia, nella quale Gherardo di Donoratico e il da Colle reggevano le sorti politiche della città stretti in un ambiguo rapporto di alleanza e di controllo reciproco, di sostegno e di delimitazione dei rispettivi spazi di potere33. La fortuna di Coscetto tramontò con la morte improvvisa del conte nel 1320. In seguito il da Colle incorse nella feroce ostilità di Ranieri di Donoratico, che lo portò alla morte nel 132234. Le fonti documentarie sembrano confermare questa immagine. A quanto pare, fino al 1319 il conte Gherardo non assunse alcun titolo formale, ma esercitò la propria influenza dall’interno delle commissioni di sapientes, che proprio in quegli anni, e come probabile conseguenza del mutamento degli equilibri politici, persero ogni carattere di eccezionalità35. Il Donoratico sedeva costantemente tra i savi; accanto a lui, e per lo stesso quartiere, quello di Kinzica, troviamo molto spesso Coscetto. Fu dunque attraverso le commissioni che l’influenza politica del conte e del da Colle trovò una dimensione istituzionale. Il conte era appoggiato dalle principali famiglie del gruppo dirigente popolare, che erano state duramente colpite negli anni di Uguccione della Faggiola36. Ma, nell’instabilità seguita alla caduta del Faggiolano, e protrattasi per alcuni anni, come dimostrano i ripetuti tentativi di rovesciare il nuovo regime, trovarono probabilmente spazio le richieste di quelle componenti della società cittadina che, come nelle altre realtà analizzate nelle pagine precedenti, rivendicavano un maggiore peso politico. Coscetto era il loro portavoce e il loro leader. L’anzianato, la magistratura di vertice del comune di popolo pisano, era espressione delle élites delle tre corporazioni mercantili – l’ordine del mare, l’ordine dei mercanti e l’arte della lana –, élites che, per altro, tendevano a sovrapporsi. Negli anni di Coscetto si riscontra un’apertura dell’anzianato a segmenti sociali che nel passato non vi avevano avuto accesso se non occasionalmente, in particolare all’ampio e poco definito “ceto
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R. Granchi, De preliis Tuscie, ed. M. Diana, Firenze 2008: «Totum Comune tenemus», fa dire tra l’altro il Granchi a Coscetto, rivolto al conte Gherardo (p. 221). 34 Poloni, Trasformazioni della società cit., pp. 310-315. 35 Ibid., pp. 283-294. 36 Ibid., pp. 339-355.
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medio” al quale egli stesso apparteneva, composto da mercanti di minore importanza, bottegai, piccoli imprenditori tessili: un’aggregazione sociale, insomma, per molti versi simile a quella che a suo tempo a Firenze aveva sostenuto Giano della Bella. Il da Colle garantiva l’adesione di questi gruppi al programma di ristrutturazione politica e istituzionale portato avanti dal “popolo grasso” e da Gherardo di Donoratico negli anni successivi alla conclusione della signoria di Uguccione. In cambio, tuttavia, Coscetto e le componenti sociali che rappresentava pretesero l’avvio di un processo di ricambio politico, attraverso un allargamento della base di reclutamento degli organi di vertice del comune di popolo. Non si può fare a meno di osservare, tra l’altro, che il rapporto tra il da Colle e il conte Gherardo ricorda per molti versi quello tra Giuliano Raminghi e Romeo Pepoli a Bologna. Esigenze di spazio impongono di interrompere qui le esemplificazioni, ma è probabile che un’analisi più estesa mostrerebbe che anche in altre realtà cittadine, in questi stessi decenni tra Due e Trecento, erano in atto dinamiche simili a quelle osservate per Arezzo, Firenze, Lucca, Perugia, Bologna e Pisa. È evidente, per esempio, che la fisionomia sociale di coloro ai quali lo statuto senese del 1286 riservava l’accesso alla magistratura dei nove – che dovevano essere «de mercatoribus […] vel de media gente»37 – era del tutto simile a quella dei protagonisti dei rivolgimenti analizzati nelle pagine precedenti. Le ricerche più recenti hanno appurato che i nove erano in gran parte proprio mercanti di media condizione, lanaioli, prestatori, qualche raro esponente del commercio alimentare; nessun giudice, nessun notaio, nessun mercante di caratura internazionale38. La definizione di «mercatanti […] overo de la meça gente» – così nel volgarizzamento del 130939 – , anzi, è in fondo più efficace di “popolo minuto” per descrivere la base sociale dei movimenti politici attivi tra Due e Trecento. 37 La rubrica è ora edita in A. Giorgi, Quando honore et cingulo militie se hornavit. Riflessioni sull’acquisizione della dignità cavalleresca a Siena nel Duecento, in Fedeltà ghibellina affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, cur. G. Piccinni, Pisa 2008, I, pp. 133-207: 201. 38 Ringrazio Sergio Raveggi per avermi fornito alcune anticipazioni sui risultati di un’importante ricerca prosopografica in corso sul gruppo dirigente popolare di Siena. Fino alla pubblicazione di queste indagini il riferimento rimane W. M. Bowsky, Un comune italiano nel medioevo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, Bologna 1986; Bowsky, The “Buon Governo” of Siena, 1287-1355. A Medieval Oligarchy, «Speculum», 37 (1962), pp. 368-381. 39 Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. M. S. Elsheikh, Siena 2002, II, p. 535.
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In tante città, insomma, la complessità degli scenari politici e la convivenza, in forme molto varie, di diversi progetti di potere non può nascondere l’esistenza di forti pressioni per un ampliamento e una maggiore diversificazione sociale del gruppo dirigente comunale. Dal punto di vista delle parole d’ordine e del programma politico, i movimenti che operarono in questa fase non inventarono nulla di nuovo, ma pescarono a piene mani dal repertorio “classico” del popolo. Le politiche attuate dalle forze radicali, dove esse giunsero al governo, si presentano come un’evidente ripresa dei temi che avevano animato le lotte del popolo fin dalla prima metà del Duecento. Fiscalità, giustizia, recupero e migliore gestione dei diritti e dei beni del comune, contenimento dei comportamenti violenti dei magnati – oltre, ovviamente, al contrasto alla concentrazione del potere nelle mani di pochi – sono ovunque i capisaldi dell’azione dei gruppi dirigenti trasformati dall’apporto di nuove componenti sociali. 3. Congiuntura economica, tensioni politiche e ricambio Naturalmente l’interrogativo più importante, ma anche quello al quale è più difficile rispondere, è perché i decenni a cavallo tra Due e Trecento si siano caratterizzati così fortemente, in molte realtà, per l’irrequietezza di ampi settori della società cittadina, che dimostrarono peraltro una spiccata capacità di incanalare la propria insoddisfazione in forme organizzate e di imporsi in modo efficace sulle piazze e nei consigli. Viene spontaneo considerare le espressioni di malcontento come una reazione quasi naturale a un peggioramento delle condizioni di vita, o a un restringimento degli spazi di espressione politica. E in effetti, quando si è tentata una spiegazione delle vicende qui considerate, essa è stata in genere cercata nel rallentamento dell’economia, nel manifestarsi cioè dei primi segnali della crisi trecentesca, e nell’oligarchizzazione che stava portando alla concentrazione del potere nelle mani di una ristretta plutocrazia e all’esclusione dai processi decisionali dei consigli più ampi e rappresentativi. Questo schema esplicativo lascia però piuttosto insoddisfatti, o perlomeno non sembra applicabile a tutti i contesti. Esso è, per esempio, del tutto inadeguato per dare conto dell’esperienza fiorentina di Giano della Bella. Non c’è davvero nessun indizio di difficoltà economiche nella Firenze dei primi anni Novanta, che anzi era sempre più decisamente avviata a divenire una superpotenza commerciale. Dal punto di vista politico, non sembra affatto che gli anni precedenti fossero caratterizzati da
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una chiusura delle istituzioni o da una compressione degli spazi di partecipazione. Al contrario, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta furono approvate importanti riforme, che ridisegnarono i sistemi di gestione delle finanze cittadine, inasprirono i provvedimenti contro i magnati e, soprattutto, portarono da sette a dodici – con l’inclusione di cinque arti mediane – il numero delle arti maggiori, alle quali era riconosciuto un ruolo politico di rilievo40. Del resto, sia Dino Compagni che Giovanni Villani osservano che il periodo subito precedente alla comparsa del movimento di Giano era stato caratterizzato da un’eccezionale prosperità e proprio queste condizioni particolarmente felici, nell’interpretazione moralistica dei due cronisti, avrebbero risvegliato la «superbia» dei cittadini, soprattutto dei nobili e dei grandi41. Anche a Lucca la fondazione del priorato, nei primi anni Novanta, seguiva una fase di grande espansione economica42. Per Pisa l’idea di una irreversibile decadenza economica conseguente alla sconfitta della Meloria del 1284 è stata ormai fortemente ridimensionata, se non abbandonata, e sembra difficile anticipare al secondo decennio del Trecento una crisi che effettivamente colpì la città tirrenica solo dopo la perdita della Sardegna, nel 132643. Per quanto riguarda le dinamiche politiche, è interessante notare come, ancora a Lucca, la svolta radicale di Bonturo Dati, nel 1310, non venisse affatto dopo un momento di chiusura degli spazi istituzionali, ma al contrario dopo il più grande processo di rinnovamento del gruppo dirigente cittadino che Lucca avesse conosciuto dall’affermazione del popolo a metà secolo. A Bologna l’esperienza delle sette società seguiva alcuni anni caratterizzati da un revival delle parole d’ordine del popolo grazie all’azione della federazione delle venti società delle arti. A Perugia la rottura del 1303 non seguiva una fase di chiusura, ma al contrario un quindicennio di progressivo e condiviso rafforzamento della posizione politica delle arti. Bisogna ammettere che le nostre conoscenze sull’economia delle città comunali tra Due e Trecento sono piuttosto insoddisfacenti, soprattutto se si esce dall’ambito del grande commercio internazionale, che peraltro interessò un numero limitato di realtà. Dove si è tentata un’analisi più appro40 L. Tanzini, Il più antico ordinamento della Camera del Comune di Firenze: le «Provvisioni Canonizzate» del 1289, «Annali di storia di Firenze», 1 (2006), pp. 139-179, <http://www.dssg.unifi.it/sdf/annali/annali2006.htm>; Diacciati, Popolani e magnati cit., pp. 359-364, 367. 41 Compagni, Cronica cit., I, 11; Villani, Nuova cronica cit., IX, 1. 42 Poloni, Lucca nel Duecento cit., pp. 87-110. 43 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento, Pisa 2002 [ed. orig. 1973].
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fondita, i risultati sono stati a volte sorprendenti. È il caso di una delle città citate nelle pagine precedenti, Arezzo, a lungo ritenuta poco più di un borgo agricolo. Da alcuni studi recenti emerge un’immagine del tutto diversa44. La città di inizio Trecento appare caratterizzata da un tessuto economico molto dinamico, con un settore produttivo e commerciale estremamente diversificato nel quale erano impegnati un numero consistente di addetti – artigiani, mercanti-imprenditori, commercianti al dettaglio – con ruoli e qualifiche differenziati. Le manifatture tessili, laniera soprattutto ma anche cotoniera, appaiono ben sviluppate e allineate, dal punto di vista tecnologico e organizzativo, alla ben più nota industria fiorentina. Eppure Arezzo non era inserita nei circuiti del commercio internazionale. Sembra quindi probabile che queste produzioni fossero destinate al consumo interno di una città che, per quanto piccola, raggiungeva allora la sua massima espansione demografica, ma anche, e questo è il dato su cui varrebbe la pena soffermarsi, alla distribuzione nel contado. In effetti, sappiamo pochissimo sui consumi nelle campagne di Due e Trecento. Uno studio di Charles Marie de La Roncière dimostra che il periodo compreso tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento è quello in cui il territorio fiorentino raggiunse il più alto livello di integrazione economica45. Il contado era coperto da una fitta rete di mercati di diverso livello – locale, sovralocale e sovraregionale – coordinati tra loro. Attraverso questa struttura capillare di luoghi di scambio i prodotti dell’artigianato e delle manifatture cittadine – in particolare, ancora una volta, tessili – raggiungevano gli angoli più remoti del territorio soggetto a Firenze. La redistribuzione dei tessuti fiorentini era gestita da operatori locali, attivi nei borghi e nei villaggi, che si rifornivano in città direttamente dai produttori (i lanaioli), ma anche da grossisti e venditori al dettaglio46.
44 F. Franceschi, Arezzo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali, in Petrarca politico. Atti del Convegno (Roma-Arezzo, 19-20 marzo 2004), Roma 2006, pp. 159-182. 45 C. M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione, traffici, Firenze 2005; si tratta della terza parte della thèse dello studioso francese, che non aveva trovato spazio in Prix et salaires à Florence au XIV siècle. 1280-1380, Roma 1982. 46 Questo quadro trova conferma in altri lavori dedicati a questi temi. Si veda per esempio un breve ma denso articolo di Thomas Blomquist nel quale lo studioso analizza l’attività di numerosi pannarii lucchesi come emerge già da un registro notarile del 1246. I clienti di questi piccoli imprenditori cittadini erano mercanti rurali che rivendevano i panni nelle località del contado: T. Blomquist, The Drapers of Lucca and the Marketing of Cloth in the Mid-Thirteenth Century, «Explorations in Economic History», 7 (1969), pp. 65-73; un’immagine simile emerge, per il periodo tra fine Duecento e inizio Trecento, dalla documentazione pisana analizzata da D. Herlihy, Pisa nel Duecento, Pisa 1973, pp. 161-192.
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Certamente non è questa la sede per affrontare temi così complessi. Questi pochi accenni dovrebbero tuttavia essere sufficienti a seminare almeno qualche dubbio sull’idea che le tensioni politiche di fine Duecento e inizio Trecento si inseriscano in un quadro di disagio economico e inquietanti segnali di crisi. In molte realtà questa fase fu caratterizzata non soltanto dal culmine dello sviluppo demografico, ma anche dalla massima penetrazione economica e politica della città nelle campagne, prima che dai decenni centrali del Trecento lo spopolamento, le guerre, fenomeni di affermazione neosignorile e rifeudalizzazione mettessero in crisi il rapporto delle città con il loro contado comunale. Non si può poi non notare che la vivacità economica che emerge dagli studi su Arezzo, o dal quadro di de La Roncière, doveva favorire proprio quei settori sociali che abbiamo visto protagonisti dei movimenti politici di questa fase, bottegai, piccoli imprenditori tessili, commercianti al dettaglio, artigiani, il cui benessere dipendeva strettamente dall’espansione dei consumi locali. I sociologi, del resto, hanno spiegato da tempo che il malcontento di un gruppo non è necessariamente legato a un peggioramento oggettivo delle sue condizioni economiche, della sua posizione sociale o delle sue possibilità di espressione politica. Al contrario, esso può essere la conseguenza imprevista di un accresciuto benessere o di un’ascesa del gruppo nella stratificazione sociale. L’insoddisfazione deriva da aspettative frustrate. La frustrazione può certo essere il prodotto di un deterioramento della situazione economica e sociale, ma può essere anche il risultato di un innalzamento delle aspettative. È l’idea esistente dietro il concetto di «privazione relativa», che implica quello di «gruppo di riferimento»47: la soddisfazione di un individuo o di un insieme di persone dipende dal gruppo con cui essi si confrontano. Banalmente, se ci si limita a confrontarsi con persone del proprio stesso status o di status inferiore, le aspettative restano basse e il malcontento rimane sotto controllo, mentre, se si è indotti a confrontarsi con persone in posizione più elevata nella stratificazione economica, sociale o politica – o tutte e tre –, le aspettative aumentano e la loro mancata soddisfazione può produrre frustrazione e tensione sociale. È possibile che in molti comuni di popolo tra Due e Trecento sia accaduto proprio questo. L’insoddisfazione dell’eterogeneo “ceto medio” composto da commercianti, piccoli imprenditori e artigiani potrebbe cioè essere stata determinata da una crescita delle aspettative e da un mutamento di prospettiva che lo portò a paragonare la propria condizione, e più 47 W.G. Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale: l’idea di giustizia sociale nelle classi lavoratrici, cur. A. Pichierri, Torino 1972.
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specificamente il proprio peso politico, con quelli dell’élite dirigente formata da ricchi mercanti, banchieri, giuristi. Il cambiamento del gruppo di riferimento e l’accentuazione del sentimento di privazione potrebbero essere la conseguenza, almeno in alcune realtà, di un aumento della prosperità e della forza numerica ed economica di questi segmenti della società cittadina. Si tratta comunque di un’ipotesi di lavoro che, a mio parere, varrebbe la pena verificare. L’ampia partecipazione politica, caratteristica distintiva dei comuni di popolo di fine Duecento, può a sua volta avere contribuito all’incremento delle attese. Il dato fondamentale da tenere in considerazione, poi, è la grande forza dell’ideologia popolare. Studi ormai numerosi, riguardanti, molto significativamente, anche regimi signorili, dimostrano la straordinaria vitalità, fino almeno al pieno Trecento, del discorso politico del popolo, con il quale ogni progetto di potere fu costretto a confrontarsi48. L’insoddisfazione diffusa tra Due e Trecento, qualunque ne fosse la causa, non rimase un disagio indeterminato, ma trovò facilmente parole d’ordine ampiamente condivise intorno cui aggregarsi, così come solide strutture associative – arti e società popolari – per organizzarsi. I movimenti attivi tra Due e Trecento non fecero che appropriarsi del linguaggio e del discorso del popolo, e su di essi costruirono la propria identità politica di gruppo. Le tensioni sociali e politiche che caratterizzarono questa fase potrebbero insomma non essere il riflesso della crisi del comune, e del comune di popolo in particolare, ma l’espressione parossistica della sua vitalità e dell’alto livello di politicizzazione della cittadinanza. Qualunque interpretazione se ne dia, sarebbe importante comprendere un po’ meglio questi fenomeni. Molte delle esperienze analizzate nelle pagine precedenti ebbero vita breve e i processi di radicale ricambio politico che esse avviarono furono nella maggior parte dei casi bruscamente interrotti. Tuttavia, in molte realtà la rivendicazione di una diversa distribuzione del potere politico riemerse in vari momenti nel corso dell’intero Trecento, da parte delle stesse componenti sociali che avevano animato i movimenti di inizio secolo. In alcuni casi, queste pressioni riuscirono ancora, anche se per brevi periodi, a rovesciare i rapporti di forza e ad allargare notevolmente il bacino sociale di reclutamento degli organi di vertice49. 48
Per i contesti signorili cfr. R. Rao, Signorie cittadine e gruppi sociali in area padana fra Due e Trecento: Pavia, Piacenza e Parma, «Società e storia», 118 (2007), pp. 673-706; Rao, Il sistema politico pavese durante la signoria dei Beccaria (1315-1356), «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge», 119 (2007), pp. 151-187. 49 Come per esempio a Firenze negli anni Quaranta e alla fine degli anni Settanta, e a Pisa alla fine degli anni Sessanta: J. M. Najemy, Corporatism and Consensus in Florentine
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IL SECONDO POPOLO
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Si tratta dunque di un aspetto non trascurabile dellâ&#x20AC;&#x2122;evoluzione politica e sociale della tarda etĂ comunale, che attende ancora di essere chiarito nei suoi tanti punti oscuri.
Electoral Politics, 1280-1400, Chapel Hill 1982, pp. 126 ss, 217 ss; G. Ciccaglioni, Priores antianorum, primi tra gli Anziani. Criteri di preminenza, cicli economici e ricambio dei gruppi dirigenti popolari a Pisa nel XIV secolo, in Firenze e Pisa dopo il 1406. La creazione di un nuovo spazio regionale. Atti del convegno (Firenze 27-28 settembre 2008), cur. S. Tognetti, Firenze 2010, pp. 1-48.
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PAOLO CAMMAROSANO ATTIVITÀ PUBBLICA E ATTIVITÀ PER COMMITTENZA PRIVATA DEI NOTAI (SECOLI XIII E XIV)
Questo mio contributo intende solamente impostare alcune linee di quelli che ritengo i possibili percorsi di ricerca sul tema che propongo: i percorsi mi sono chiari, ma non ho visto, se non molto parzialmente, fonti e letteratura. Naturalmente quest’apertura di cautela non avrebbe senso se sul tema esistesse una messa a punto generale e soddisfacente. Ma penso di poter dire, nonostante la carenza della mia ricerca di cui ho detto, che così non è. Il ruolo dei notai nella vita politica e culturale delle città comunali italiane, e in particolar modo il loro ruolo nelle scritture di matrice comunale è noto da tempo, ed ebbe un impulso formidabile, e anche il primo generoso tentativo di una descrizione sintetica, dalla persona che onoriamo in questo convegno. Ma non sarà fare un torto al grande Pietro Torelli, se si dirà di due limiti del suo lavoro. Uno, il fatto di essere fondato soprattutto sulla disciplina statutaria e aver considerato in misura molto ridotta la prassi dei notai nei diversi uffici comunali. Due, il fatto di non aver cercato di vedere la relazione tra il notariato nelle sue funzioni pubbliche e la prassi notarile ordinaria nella contrattualistica dei privati e di enti diversi dal Comune cittadino. Naturalmente fu solo il tempo che impedì a Torelli questi approfondimenti: nessuno come lui, per l’esperienza che aveva accumulato sia nel campo delle scritture private sia nel campo delle scritture pubbliche, avrebbe potuto compiere un’opera sintetica sul problema dell’interazione tra le due attività notarili. Certo numerosi studiosi successivi al Torelli, quali Giovanni Costamagna, Giorgio Tamba, Gian Giacomo Fissore, Attilio Bartoli Langeli ed altri, alcuni dei quali sono in queste giornate con noi, hanno portato numerose integrazioni e messe a punto, ma forse il dossier merita di essere riaperto. Cominciamo con lo sgomberare il campo dalle cose che tutti sanno e dalle domande alle quali è facile dare risposta. Non piove sul fatto che era normale l’operosità di un medesimo notaio in ambedue i versanti. Non
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piove nemmeno sul fatto che in un medesimo periodo un notaio poteva svolgere in contemporaneità i due rami di tale operosità. Si danno anche casi nei quali un notaio inserisce nel proprio registro, accanto ai documenti ordinari, atti promananti dalle autorità pubbliche; farò un esempio dagli atti, che sto studiando, del notaio di Colle Val d’Elsa Sovarzo di Bonafidanza, sul quale tornerò poi; ma ora ricordo solo un testo del giugno 1323 nel quale egli registrò una delibera del giudice assessore del Comune del podestà che esentava una persona, per sopraggiunta età di 70 anni e più (cosa desunta dall’aspetto della persona e confortata dal di lui giuramento), dagli oneri personali del Comune; conviene sapere che il notaio era in quel momento nel collegio di governo di Colle, i Dodici, e ricopriva anche l’impegnativo ufficio di camerario del Comune; l’imbreviatura di quell’atto di esenzione dagli oneri personali è registrata da Sovarzo fra un atto di quietanza e un contratto di mutuo; tutto normale1. Dunque nessuna incompatibilità e nessuna intermittenza dell’attività privata del notaio nei periodi del suo impegno in uffici del Comune. Non sono poi a conoscenza, ma questo è uno dei punti sui quali la mia ricerca è parziale, di eventuali divieti di cumulo e di eventuali sanzioni di temporanea incompatibilità in statuti comunali o in statuti delle corporazioni notarili. Altro è il problema della misura in cui un notaio impegnato presso il podestà o il Consiglio o presso le sessioni giudiziarie o in tempi di speciale redazione di atti fiscali e finanziari o affidatario della trascrizione in un cartulario comunale di pergamene sciolte avesse meno tempo, o non ne avesse alcuno, per la clientela privata. Per cogliere questo aspetto bisognerebbe avere chiari i tempi e i ritmi dell’attività del singolo notaio e averli in periodi nei quali egli era contemporaneamente impegnato sul fronte privato e su quello pubblico. Allo stato delle ricerche – ma anche qui attendo smentite o integrazioni dagli studiosi – non sono molte le evidenze disponibili. Prenderò gli esempi di due notai fiorentini e di due notai di Colle Val d’Elsa, la cittadina che sto studiando. Un ampio registro di atti privati, comprensivo di documenti degli anni 1298-1309, è stato edito fra quelli che furono prodotti dal notaio fiorentino Biagio Boccadibue. Egli rogò nel medesimo arco di tempo documenti di natura giudiziaria e nomine di procuratori, in registri anch’essi rimasti sino a noi, mentre agli anni 1311-1314 risale un registro contenente solo
1 Il registro di ser Sovarzo di ser Bonafidanza è in Archivio di Stato di Firenze, Notarile Antecosimiano, 19391; il testo che cito è a c. 13v.
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documenti di interesse della famiglia dei Bardi. Biagio ricoperse uffici, sempre legati alla sua professionalità notarile e scrittoria, presso la Mercanzia e presso gli organismi finanziari del Comune. Non ci sono pervenuti i registri della sua attività per il periodo in cui esercitò quelle funzioni diverse dalla sua attività ordinaria. Possiamo però seguire il ritmo della sua attività per la clientela privata, anteriormente a quei ruoli pubblici, e definirne il ritmo nella misura di circa nove atti al mese2. Analogo a quello di Biagio Boccadibue è il profilo del notaio colligiano ser Nerio di Chele di Paganello, del quale ci è rimasto un unico registro con documenti degli anni 1306-1311. La fisionomia sociale e il ruolo nei pubblici uffici di Nerio appaiono un poco più rilevanti nel confronto con il fiorentino Biagio. Nerio era figlio di una persona del notabilato “popolare” di Colle, che conosciamo partecipe nel 1280 di un’ampia pacificazione guelfo-ghibellina e membro nel 1287 del Consiglio del Comune. Se non si conoscono notizie su Nerio anteriori a quell’anno 1306 in cui egli rogò il primo dei contratti a noi giunti, ampia è però la vicenda della sua carriera pubblica, documentata dal 1311 (anno dell’ultimo dei contratti del registro) sino almeno al 1332 e culminata più di una volta nella partecipazione al collegio di governo della cittadina. Quanto al ritmo di operosità di Nerio per la clientela privata, lo calcoliamo tranquillamente in un atto ogni settimana o poco più. E così, anche se non disponiamo per lui, come non disponiamo per Biagio di Boccadibue, di registri risalenti al periodo in cui ricopriva uffici e incarichi comunali, possiamo però tranquillamente affermare che l’impegno pubblico e politico gli avrebbe lasciato ampio spazio per esercitare un’attività professionale ordinaria che non era intensissima3. La stessa cosa si può dire per l’altro notaio colligiano, Sovarzo di Bonafidanza, del quale ci è rimasto un registro di imbreviature che copre gli anni 1323-1328. Membro del collegio di governo dei Dodici nel 1318, camerario in quello stesso anno, di nuovo fra i Dodici nel 1320 e nel 1323, di nuovo camerario fra il 1320 e il 1331, Sovarzo fece spesso parte di quelle commissioni ad hoc che venivano correntemente costituite dai governi comunali ed avevano talora maggior peso degli organismi permanenti: così
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Biagio Boccadibue (1298-1314), I/1-3 [1298-1309], edd. L. De Angelis - E. Gigli - F. Sznura; I/4: Indici, cur. L. De Angelis - F. Sznura; Pisa rispettivamente 1978, 1983, 1984, 1986 (Università degli Studi di Firenze, Fonti di storia medievale e umanistica, I notai fiorentini dell’età di Dante). 3 Del personaggio e della sua attività di notaio ho parlato ampiamente nel libro Storia di Colle di Val d’Elsa, III/1: Gli anni ghibellini, 1300-1321, Trieste 2012 (Studi, 9); qui ho anche edito settantacinque atti scelti fra i circa trecento che Nerio rogò fra il 1306 e il 1311.
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nel 1319 era stato uno dei due ufficiali sulla stima dei beni «qui dantur in solutum» e l’anno seguente fu uno dei due notai incaricati di scrivere la “libra” di due quartieri della cittadina e delle “ville” ad essi pertinenti. Nel novembre del 1331, cioè pochi mesi dopo l’uccisione dell’arciprete Albizzo Tancredi che per circa dieci anni aveva retto Colle in signoria, Sovarzo redasse l’inventario di una serie importante di beni che aveva comperato per conto del Comune quando era camerario. Anche lui in definitiva, come il collega Nerio, attraversò indenne le diverse fasi della vicenda politica del suo Comune. E di lui, a differenza dagli altri due notai considerati sin qui, possiamo enumerare gli atti rogati nei periodi nei quali ricoperse uffici pubblici. Constatiamo così un numero di atti oscillante fra i quattro e i quindici contratti ogni mese, mentre nel maggio del 1324, quando sembra che non avesse alcuna pubblica incombenza, rogò nove atti. Il ritmo, insomma, era deboluccio come quelli di Biagio Boccadibue e Nerio di Chele4. Diversa ci appare invece la situazione dell’importante notaio fiorentino Matteo di Biliotto, i cui editori hanno condotto una bella ed ampia analisi comprensiva di una disamina della brillante carriera del notaio e, all’interno di essa, di un preciso discorso sulla carriera di ser Matteo e sul rallentamento della sua attività professionale in concomitanza con l’assunzione di uffici pubblici, attestata per lui dal 1293. Matteo fu operoso nelle vicende delle revisioni statutarie e nelle procedure di verbalizzazione negli anni difficili attorno alla promulgazione degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, svolse talora il ruolo di sapiens nei Consigli ed ebbe incarichi diplomatici di non piccola importanza. Era anche un notaio operosissimo nel campo dei rogiti ordinari e privati, con la confezione mediamente di due atti al giorno e punte di attività quali i settantadue atti rogati nel settembre del 1295. Ma gli editori hanno sottolineato bene la flessione del numero di rogiti di ser Matteo nei periodi nei quali egli assunse incarichi pubblici 5. La conclusione che si trae da questi pochi esempi è dunque davvero lapalissiana: per un notaio di intensa attività privata, che rogasse più di un 4 Di Sovarzo (per il suo registro cfr. qui sopra la nota 1) ha parlato in suoi lavori Oretta Muzzi, segnatamente nel bel saggio Attività artigianali e cambiamenti politici a Colle Val d’Elsa prima e dopo la conquista fiorentina, in La società fiorentina nel basso Medioevo. Per Elio Conti, Roma 1995 (Nuovi Studi storici, 29), pp. 221-253. Io spero di occuparmene con una certa ampiezza nel volume della mia storia di Colle successivo a quello di cui qui sopra alla nota 3. 5 Ser Matteo di Biliotto notaio, Imbreviature, I registro (anni 1294-1296), edd. M. Soffici - F. Sznura, Tavarnuzze-Firenze 2002 (Memoria Scripturarum. Testi, 1).
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atto al giorno, l’assunzione di uffici pubblici implicava un rallentamento, per chi lavorava in maniera più discontinua no. Fin qui siamo entro una problematica piuttosto semplice. Più complesso è il problema della modalità di scrittura e delle relazioni tra quelle che chiamerò per brevità scritture pubbliche e scritture private. Molto si è scritto e molto si è assodato sulla funzione del notaio come garante della publica fides, con l’estensione da tale ruolo nella contrattualistica privata (per cui il documento privato è comunque anch’esso un atto pubblico) a un ruolo di garante dell’autenticità delle scritture comunali. Libri iurium, registri delle delibere consiliari, registri della giustizia civile e penale, in misura minore gli atti derivanti dall’esercizio della fiscalità e della finanza, erano affidati al notaio in diversi momenti della redazione: talora redazione diretta di tutto o di parte dei testi, talora funzione di sovraintendenza, sovente ruolo autenticatorio. Conosciamo il profilo di più di un notaio impegnato in tutti questi rami: ricordo per tutti, perché particolarmente studiato, da Sonia Merli e poi da Attilio Bartoli Langeli, il perugino Bovicello di Vitello, eminente per professionalità notarile e cultura letteraria, operoso nella seconda metà del Duecento come cancelliere ed epistolografo del Comune, verbalizzatore delle delibere consiliari, sistematore degli statuti nelle loro procedure di revisione, redattore dei registri dell’imposta diretta 6. Sarebbe prezioso per valutare l’operosità complessiva di un notaio disporre di testi come un bastardello del notaio di Anagni Tommaso Pilozzi, edito e studiato da Anna Esposito e Nella Vano. È un testo che va oltre il mio termine cronologico, essendo del 1466. Ma mi sembra prezioso perché anzitutto testimonia la scrittura contemporanea, nello stesso anno, di atti privati, riformagioni, atti giudiziari (escussione di testi, accuse eccetera). Ma orienta anche su alcuni tipi di documenti privati nei quali i notai esplicarono una loro professionalità che aveva riflessi sul terreno delle scritture pubbliche: paci, inventari, descrizioni di terre eccetera, tutte cose che spiegano anche il ricorso ai notai nelle scritture di tipo fiscale7. Tutte queste attribuzioni ai notai derivavano come ognun sa dall’attribuzione ad essi della publica fides. Tale attribuzione derivava a sua volta da un ruolo e da una capacità professionale nella stesura documentaria in genere.
6 A. Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, pp. 211-236. 7 Anagni 1466. Il minutario del notaio comunale Tommaso Pilozzi, ed. A. Esposito, con la collaborazione di N. Vano, Anagni 2001 (Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale. Documenti e studi storici anagnini, 17).
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Sotto questo aspetto la scrittura privata fu certamente il prius. Nelle vicende dei singoli notai questo sembra anche un prius per così dire biografico: il notaio si faceva le ossa sul documento privato e poi assumeva incarichi pubblici ed anche politicamente rilevanti, senza per questo – si è visto – dismettere l’attività ordinaria. Ma la priorità della scrittura privata non è un fatto biografico, è una priorità culturale e strutturale. Se è vero che il grande mutamento del secolo XII, con la fine dell’egemonia ecclesiastica e monastica nelle scritture e l’avvento delle scritture di matrice laica, fu determinato in primo luogo dall’evoluzione politica, dall’affermazione delle sovranità e autonomie cittadine, tuttavia dal punto di vista della cultura documentaria le scritture promosse e tràdite dalla città comunali avevano la loro matrice in una esperienza professionale dei notai maturata da lunghissima data. Da lunghissima data in effetti, ben prima del fatidico secolo XII e con ovvia ascendenza nel mondo romano-ellenistico, i notai avevano affermato il ruolo di confezione con valore giuridico dei documenti privati, traducendo la volontà delle parti in formule giuridicamente e formalmente coerenti. Questo era stato conseguito assestando il documento privato entro una duplice intelaiatura, l’intelaiatura giuridica e l’intelaiatura diplomatistica. In età comunale ambedue queste intelaiature erano ampiamente consolidate. L’intelaiatura giuridica era fondata in maniera preponderante sul diritto romano, dal quale derivavano i concetti fondamentali del diritto civile: i concetti di proprietà, possesso e uso, le forme della locazione, i concetti relativi alle obbligazioni e alle loro garanzie personali e reali, il regime dotale, il testamento. Il che talora, come in tutta la scrittura notarile del tardo medioevo, implicava elementi contraddittori. Il più noto è quello che concerne le eccezioni di legge. Regolarmente le parti rinunziano a muovere l’eccezione doli mali, l’eccezione dell’epistola del divo Adriano eccetera, negli atti delle donne non manca mai la rinunzia all’eccezione del senatoconsulto Velleiano. Quanto all’intelaiatura diplomatistica, essa conosceva da secoli la struttura basata sulla dualità testo-protocollo e un paniere di formule sancite in formulari e prontuari e prima ancora tramandate sia per via scolastica sia per via “artigianale”. Nel corso del secolo XII questa crescente professionalità si era andata accompagnando ad una evoluzione paleografica e linguistica, la prima nel senso dell’adeguamento alla tipicità della littera antiqua, la seconda nel senso dell’adeguamento sempre più perfezionato ad un latino “scolastico”: due evoluzioni sulle quali manca una messa a punto comparativa e sintetica, dunque un apprezzamento delle diversità tra regione e regione d’Italia quanto ai tempi della, chiamiamola così, normalizzazione paleografica e linguistica.
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Fu questa professionalità che consolidò l’attribuzione ai notai della publica fides ed era stato con questa professionalità che l’alto medioevo e l’età romanica avevano consegnato il notariato alle pratiche di scrittura delle autorità comunali. Tali pratiche di scrittura si realizzarono lungo alcune tipologie fondamentali che ho implicitamente richiamato e che sono la redazione dei cartulari comunali (i libri iurium), la produzione legislativa (consuetudini e statuti), la registrazione delle delibere consiliari, che erano in buona misura alle basi della legislazione, la registrazione degli atti giudiziari e la congerie delle scritture finanziarie e fiscali. Il primo dei settori che ho elencato, quello dei libri iurium, di iniziativa podestarile e con affidamento a un notaio che non era solo copista e autenticatore, ma anche organizzatore della materia, è quello nel quale l’intervento del notaio era per così dire più semplice. Per la gran parte egli esemplava un tipo di documento, il diploma, che era di antica tradizione e che strutturalmente non vedeva differenza tra privato e pubblico, anche per l’adozione che si era realizzata in età carolingia e ottoniana degli strumenti privatistici al fine di trasferire poteri pubblici e diritti sovrani (come è stato chiarito in maniera definitiva in un celebre saggio di Giovanni Tabacco)8. E così, anche quando si vede il liber iurium recepire documenti in originale, questi non introducono alcuna alterazione in quella struttura consolidata. La stessa cosa deve essere detta per le procedure di registrazione pubblica degli atti privati, quali conosciamo per Bologna, per Trieste e per le città istriane. Si è discusso, a proposito dei vicedomini triestini e capodistriani, sui quali tornerà qui Miriam Davide, della misura in cui l’ufficio pubblico e potente della Vicedomineria avesse rappresentato una affermazione di egemonia politica a scapito del notariato, ma spero di aver dimostrato altrove che si tratta di un falso problema9. Molto più complesso è il problema del ruolo del notaio e dell’applicazione della sua professionalità in ambito privato alla redazione delle leggi e dei registri consiliari, giudiziari e fiscali. Che fosse affidata a notai, talora in collegio con altre persone, ma talora anche in via esclusiva, la redazione
8 G. Tabacco, L’allodialità del potere nel Medioevo (1970), poi in Tabacco, Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo [con una Premessa di G. Sergi], Torino 2000 (Nuova Didattica), pp. 15-66. 9 Nel contributo Scrittura notarile, registrazione pubblica e tradizione archivistica: il caso di Trieste, negli atti in preparazione del convegno Il notariato nell’arco alpino. Produzione e conservazione delle carte notarili tra medioevo ed età moderna (Trento, 24-26 febbraio 2011).
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di testi normativi, è cosa nota da molti esempi che gli studiosi hanno descritto. E non c’è dubbio che nel campo civilistico, e segnatamente nel campo delle obbligazioni che tiene così largo spazio negli statuti, l’esperienza notarile abbia giuocato un ruolo importante. La difficoltà di una valutazione precisa di tale ruolo è data, banalmente, dall’attuale relativa modestia delle edizioni di registri notarili. Questo impedisce di studiare il contrappunto fra consuetudini e statuti, da un lato, e dall’altro la contrattualistica privata. In quest’ultima è frequente il riferimento a norme statutarie vigenti, ad esempio alle norme sulla maggiore età o su norme di recente introduzione nella disciplina statutaria. Ciò suggerisce una indagine sulla dialettica fra documento privato e inserimento di norme e di prassi innovative nate all’interno del negozio privato, trasferite in normativa e recepite poi nuovamente nella contrattualistica. Un caso di particolare interesse è la creazione del titolo esecutivo contrattuale, l’atto guarentigiato; non avrei dubbi sul fatto che fu nella cultura notarile, nei suoi rapporti con la scuola, nel suo radicamento romanistico e nella sua capacità di innovazione dall’interno di esso che si affermò, prima, il giuramento di dare esecuzione, e poi la clausola di guarentigia che imponeva esecuzione immediata anche indipendentemente dal giuramento. L’innovazione venne recepita dagli inizi del Duecento negli statuti, ma è significativo, fra tutti, il fatto che gli statuti demandino al precetto notarile l’imposizione alle parti di una esecuzione immediata, extragiudiziale: «ego notarius praecepi etc.»; ciò che rientra in un più generale processo di attribuzione ai notai di funzioni giurisdizionali, quali la ricezione della confessio dell’obbligato o la ricezione delle testimonianze10. Il difetto di edizione che si è ricordato come ostacolo alla conoscenza delle relazioni fra pubblico e privato nel notariato quanto alle leggi è ancora più forte nel campo delle delibere consiliari e degli atti giudiziari. Perché qui vale egualmente il discorso sulla carenza di edizioni di registri notarili, ma in più, mentre consuetudini e statuti sono stati privilegiati nelle edizioni, questo non si può dire per i registri dei Consigli e dei tribunali. In ambedue i settori i notai hanno certamente trovato campo di applicazione a quella capacità di verbalizzazione, cioè di traduzione della parola parlata in parola scritta che era a fondamento della loro pratica privata di scrittura. E come nelle redazioni di contratti e testamenti, così nelle
10 Sul documento guarentigiato è ancora di grande pregio D. Bizzarri, Il documento notarile guarentigiato (genesi storica e natura giuridica), Torino 1932 (R. Università di Torino, Memorie dell’Istituto Giuridico, Ser. II, Memoria XVII).
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redazioni di delibere consiliari e di procedimenti giudiziari la sostanza dell’operazione consisteva in una riduzione drastica nello scritto di quanto era stato espresso a voce. È qui che si innestò non soltanto una generica capacità di traduzione della parola parlata in parola scritta, ma anche lo strumento tecnico che era stato sviluppato in campo privato e che andò trionfando nella redazione dei registri di delibere, cioè la pratica della minuta, della scrittura intermedia11. Ma nel campo consiliare e giudiziario non solo la riduzione dal parlato allo scritto, e la conseguente pratica minutaria, era molto più forte di quanto non accadesse nel campo delle scritture private, ma difettavano anche i formulari, si trattava di creare una tradizione di scrittura, di creare per così dire una nuova “diplomatica”, in un quadro che era molto meno unitario rispetto a quello formidabilmente comandato dal diritto civile romano-giustinianeo, un quadro adesso variegato, dove ciascun organismo comunale trovò sue soluzioni e ogni ambiente notarile ebbe il suo ruolo. Certamente all’interno di ogni città il ruolo dei notai nella redazione dei registri di atti consiliari e giudiziari fu quello di creare una uniformità di struttura, uno standard. Insomma anche qui i notai introdussero quell’ottica della normalizzazione, la quale derivava da una lunga tradizione di contrattualistica privata che era stata nel suo ambito formalizzante, tale cioè da ricondurre a uniformità le fattispecie non semplici. Ci fu una dialettica fra quella che chiameremo la direttiva politica, ad esempio il criterio che talora fu adottato di registrare solamente le delibere approvate, le limitazioni agli oratori nei consigli (talora si ammise uno ed un solo intervento sulla proposta) eccetera, e quella che fu la strutturazione notarile, che creò una nuova diplomatica della quale i diplomatisti si sono occupati in misura minore rispetto alla consolidata disciplina dei diplomata. Ma questo è un punto forse di controversia, certo di discussione. Due parole due, infine, sul peso che l’intervento presso le pubbliche autorità possa aver avuto sulla situazione sociale dei singoli notai. In principio va ricordato come la professione notarile fosse un normale culmine dell’ascesa sociale delle persone non nobili, e come normalmente i notai tendessero a consolidare questo approdo sociale con l’ottenimento della qualifica di giudice e con la prosecuzione familiare della professione. La presenza in uffici e in collegi, fino agli organismi di governo, è documen-
11 Bella disamina in quello che è allo stato attuale il lavoro più compiuto sulle delibere consiliari: M. Sbarbaro, Le delibere dei Consigli dei Comuni cittadini italiani (secoli XIIIXIV), Roma 2005 (Polus, Fonti medievali italiane, 2).
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tata con estrema ampiezza. Una ascesa ulteriore era ovviamente più rara, anche per quel fenomeno di restringimento del vertice sociale che a mio giudizio si era realizzato fra l’ultima generazione del Duecento e gli inizi del secolo seguente. Ma anche questo è un punto di discussione.
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MARINO ZABBIA MEMORIE CITTADINE E SCRITTURE NOTARILI NELLE RICERCHE DI PIETRO TORELLI (CON UN EPISODIO DELLA FORTUNA DEGLI STUDI E RICERCHE DI DIPLOMATICA COMUNALE)
Nella bibliografia di Pietro Torelli contenuta nella sua raccolta di Scritti di storia del diritto italiano compaiono due titoli che riguardano lo studio delle cronache medievali1. Si tratta del lungo saggio La cronaca milanese “Flos florum”, apparso nell’«Archivio muratoriano» di Vittorio Fiorini nel 1906 – la prima pubblicazione di Torelli – e dell’articolo Antonio Nerli e Buonamente Aliprandi, cronisti mantovani (a proposito della nuova edizione delle loro opere), edito nell’«Archivio storico lombardo» – all’epoca diretto da Francesco Novati – nel 1911 e quindi nello stesso anno in cui fu data alle stampe la prima parte degli Studi e ricerche di diplomatica comunale2. L’interesse mostrato da uno studioso di storia del diritto per le fonti narrative non era inconsueto nella comunità degli storici attivi tra fine Ottocento e prima metà del Novecento. Avevano studiato le cronache non solo per ricavarne notizie anche altri storici del diritto e dei più noti, come, per esempio, Nino Tamassia, in diverse occasioni, Pier Silverio Leicht, Carlo Calisse, Enrico Besta, Gennaro Maria Monti e Giovanni De Vergottini3. Ma lo storico del diritto che probabilmente più si era occupato di storiografia medievale fu Augusto Gaudenzi, il professore di Torelli
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Milano 1959, pp. XLVII-LII. Su questi due saggi si è brevemente soffermato U. Nicolini, Tecnica e spirito nel Torelli editore di fonti, in Convegno di studi su Pietro Torelli (Mantova, 17 maggio 1980), Mantova 1981, pp. 17-30: p. 23. 3 Senza alcuna pretesa di completezza, riporto solo qualche titolo: N. Tamassia, Le cronache romagnole ed emiliane dei secoli XV e XVI e i primordi del giornalismo, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna», ser. III, 17 (1899), pp. 213-228; Liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus, ed. C. Calisse, Roma 1904 (Fonti per la storia d’Italia, 29); P.S. Leicht, La prima edizione del frammento di Secondo da
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all’università di Bologna. In un quadro di interessi quanto mai largo, Gaudenzi si impegnò anche nell’attività di editore di cronache e partecipò alle iniziative dell’Istituto storico italiano e della ristampa muratoriana. Il principale risultato di questo suo impegno consiste nell’edizione di due cronache: quella di Riccardo di San Germano e quella del monastero cistercense di S. Maria di Ferraria, due opere dell’Italia centro-meridionale di cui Gaudenzi si occupò perché contenute entrambe in un manoscritto conservato nella biblioteca dell’Archiginnasio che solo le tramanda4. Ma si dovranno ricordare almeno ancora le sue ricerche sull’intricata questione del patrimonio di memorie storiografiche bolognesi che funsero da punto di partenza per il lavoro editoriale di Albano Sorbelli5. Nel caso di Torelli a far sorgere l’interesse per le cronache contribuì anche la decisione di conseguire, dopo quella in giurisprudenza, una seconda laurea in lettere. Sempre a Bologna, infatti, egli si laureò con lo storico Pio Carlo Falletti, e da quella tesi deriva il saggio pubblicato nell’«Archivio muratoriano»6. Sui motivi che indussero il mantovano Torelli (bolognese di formazione) a scegliere come argomento di tesi una compilazione di storia universale redatta a Milano alle soglie del Quattro-
Trento, «Memorie storiche cividalesi», 2 (1906), pp. 28-32; E. Besta, Nuove ricerche sul “Chronicon Altinate”, «Nuovo archivio veneto», n. ser., 15 (1908), pp. 5-71, e Besta, I trucchi della cosiddetta cronaca altinate, «Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», 74/2 (1914-1915), pp. 1275-1330; G.M. Monti, La cronaca di Partenope. Premessa all’edizione critica, «Annali del Seminario giuridico economico della R. Università di Bari», 5/2 (1932), pp. 72-119, poi in Monti, Dai normanni agli aragonesi. Terza serie di studi storicogiuridici, Trani 1936, pp. 31-77; G. De Vergottini, Il popolo di Vicenza nella cronaca ezzeliniana di Gerardo Maurisio, in Studi in memoria di Umberto Ratti, cur. E. Albertano, Milano 1934, pp. 643-661, e in «Studi senesi», 68 (1934), pp. 345-374, anche in De Vergottini, Scritti di storia del diritto italiano, cur. G. Rossi, Milano 1977, pp. 333-352. 4 Ignoti monachi Cisterciensis S. Mariae de Ferraria Chronica et Ryccardi de Sancto Germano Chronica Priora, ed. A. Gaudenzi, Napoli 1888 (Monumenti della Società napoletana di storia patria. Serie I, Cronache), edizione tratta da una miscellanea di testi storiografici compilata nell’Italia meridionale e conservata grazie ad un codice d’inizio Quattrocento segnato Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, A. 144. Egli pubblicò anche un’altra opera storiografica, il Liber de obsidione Ancone di Boncompagno da Signa in A. Gaudenzi, Un secondo testo dell’Assedio d’Ancona di Buoncompagno, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 15 (1895), pp. 157-194 (il testo è alle pp. 162-194). 5 A. Gaudenzi, La cronaca bolognese di Floriano da Villola e le fonti della storia miscellanea del Muratori, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», ser. III, 10 (1892), pp. 352-384. 6 Dal sito internet www.archiviostorico.unibo.it risulta che Torelli si laureò il Lettere il giorno 27 giugno 1906, forse però si dovrebbe leggere 1905, perché in data 26 giugno 1905 egli, presentato dal direttore dell’Archivio di Mantova Alessandro Luzio, spediva a Fiorini il manoscritto del suo saggio per l’«Archivio muratoriano», come risulta da una let-
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cento si è già soffermato in questa sede Enrico Artifoni. Qui vorrei solo aggiungere che, a mio avviso, non fu ininfluente la scoperta fatta dallo stesso Torelli di un manoscritto del Flos florum nell’Archivio di Stato di Mantova dove egli all’epoca era già funzionario. Infatti con queste parole lo storico ha aperto il suo saggio: «Erano noti finora di questa cronaca due manoscritti [...] Ne trovai un terzo io nell’Archivio storico Gonzaga»7. Il legame tra lo studioso ed il suo archivio, così ben evidenziato da Isabella Lazzarini nel profilo di Pietro Torelli pubblicato su Reti medievali, troverebbe in questo modo ulteriore conferma8. Tuttavia, se la scelta del tema fu in qualche modo casuale, non di meno, impegnandosi nello studio del Flos florum, Torelli entrava in un campo di ricerca che all’epoca era assai vivace e interessava numerosi storici9. La grande attenzione sollevata intorno alle fonti narrative dai programmi editoriali promossi dall’Istituto storico italiano e dai curatori della ristampa muratoriana (in particolare da Fiorini), fece mettere in cantiere numerose edizioni che produssero tanti studi preparatori. Tutte queste iniziative inoltre indussero alcuni studiosi, i più attenti, a superare l’ottica secondo cui l’analisi delle cronache fosse proficua solo per le informazioni che quegli scritti recavano a proposito del periodo in cui era vissuto il loro autore e per i decenni di poco precedenti – le opere dei così detti “cronisti sincroni”10 – e a comprendere come molti testi fossero utili pure per le notizie relative a tempi più remoti, anche perché in essi erano confluite, almeno in parte, opere altrimenti perdute. La complessa situazione del patrimonio di memorie storiografiche milanesi – cui appartiene anche il Flos florum studiato da Torelli – si presta particolarmente per questo
tera conservata nel Fondo V. Fiorini depositato presso l’Archivio storico dell’Istituto storico italiano per il medio evo, Roma. 7 P. Torelli, La cronaca milanese “Flos florum”, «Archivio muratoriano», I/3 (1906), pp. 89-120: p. 89. 8 I. Lazzarini, Profilo di Pietro Torelli (Mantova, 1880-Mantova, 1948), «Reti Medievali Rivista», 12/2 (2011), pp. 297-306. 9 L’attenzione degli storici di fine Ottocento per le fonti narrative è ben illustrata in C. Merkel, Gli studi intorno alle cronache del medioevo considerati nel loro svolgimento e nel presente loro stato. Prolusione al corso “Le cronache italiane nell’alto medioevo” inaugurato nella R. Università di Pavia, Torino 1894. Dal 1904, inoltre, sotto la direzione di Vittorio Fiorini si cominciò a pubblicare l’«Archivio muratoriano», l’unico periodico italiano dedicato ad ospitare esclusivamente saggi dedicati alle cronache medievali. 10 Esemplare il caso dei Cronisti e scrittori sincroni della dominazione normanna nel Regno di Puglia e Sicilia, cur. G. Del Re, vol. I, Storia della Monarchia. Normanni, Napoli 1845, vol. II, Storia della monarchia. Svevi, Napoli 1868, in cui, ad esempio, la cronaca universale compilata da Romualdo di Salerno si pubblica solo dal 1121.
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campo d’indagine. Già Pio Rajna aveva mostrato come una rivisitazione della tradizione potesse fornire importanti risultati11, ma in quest’ottica esemplare fu il lavoro che alla fine dell’Ottocento condusse Luigi Alberto Ferrai. Dopo avere intrapreso lo studio della produzione storiografica di Milano, questo storico non tardò ad accorgersi di come molte cronache fossero imparentate tra di loro e a cogliere il ruolo svolto nella codificazione della memoria storiografica dalle compilazioni di Galvano Fiamma, le quali prima avevano raccolto e compendiato le opere precedenti, poi erano servite da punto di partenza per nuove sintesi12. Per i tempi l’impostazione metodologica di Ferrai era all’avanguardia: simile a quella seguita, ad esempio, da altri due esperti editori di fonti come Carlo Cipolla e Giovanni Monticolo, mentre solo pochi anni dopo Vittorio Lazzarini avrebbe contribuito allo studio della cultura storiografica padovana pubblicando un antico elenco di fonti13. Ma i risultati cui giunse Ferrai non furono accolti senza discussioni: Francesco Novati per primo espresse il suo autorevole dissenso e su tale linea si posero più o meno apertamente altri autori e in particolare Armando Tallone14. Anche Torelli non risparmiò qualche criti-
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Cfr. P. Rajna, Il Teatro di Milano e i canti intorno ad Orlando e Ulivieri, «Archivio storico lombardo», ser. II, 4 (1884), pp. 5-28, dove le pp. 12-20 sono dedicate al Flos florum. 12 Cfr. almeno L.A. Ferrai, Benzo d’Alessandria e i cronisti milanesi del sec. XIV, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 7 (1889), pp. 97-137, con alle pp. 98-100 un quadro dei problemi sollevati dallo studio delle cronache milanesi (e a p. 99 un cenno al Flos florum); Ferrai, Gli “Annales Mediolanenses” e i cronisti lombardi del secolo XIV, «Archivio storico lombardo», ser. II, 7 (1890), pp. 277-313; Ferrai, Le cronache di Galvano Fiamma e le fonti della “Galvagnana”, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 10 (1891), pp. 93-128, con alle pp. 110-111 l’elenco delle opere che Galvano aveva affermato di conoscere. Che le tarde compilazioni fossero utili per riconoscere il profilo di opere altrimenti perdute era anche l’opinione espressa da I. Raulich, La cronaca “Valison” e il suo autore, «Rivista storica italiana», 8 (1891), pp. 1-11. 13 V. Lazzarini, Un antico elenco di fonti padovane, «Archivio muratoriano», 6 (1908), pp. 326-335, poi in Lazzarini, Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 1969 (Medioevo e umanesimo, 6), pp. 284-298. Cipolla si misurò con la stratificata tradizione testuale degli Annali veronesi e, pur essendo un editore tanto provetto quanto infaticabile, non giunse a stabilirne il testo: cfr. da ultimo C. Cipolla, “Annales Veronenses antiqui” pubblicati da un manoscritto sarzanese del secolo XIII, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 29 (1908), pp. 7-82, con citati i precedenti lavori dello studioso. Tra le opere di Monticolo – che P. Egidi, Storia medievale, Roma 1922, p. 37 ha definito «tra i più perfetti editori di fonti» – si veda il monumentale (e purtroppo interrotto) lavoro Le vite dei dogi di Marin Sanudo, ed. G. Monticolo, in R.I.S.2, 22/4, Città di Castello 1911. 14 F. Novati, Prefazione alla sua edizione di Bonvicinus de Rippa, De magnalibus urbis Mediolani, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 20 (1898), pp. 35-37, in cui Novati prende decisamente le distanze dalla valutazione nell’insieme positiva delle opere del
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ca a Ferrai e nel complesso – pur essendo allora molto giovane – entrò senza timidezze nel dibattito sulle cronache milanesi tardomedievali15. Egli illustrò la fortuna (piuttosto modesta in verità) del Flos florum, propose di individuarne l’autore in un altrimenti sconosciuto Pier Paolo da Vimercate e si soffermò con una certa ampiezza anche sul tema delle fonti utilizzate dal compilatore. Tuttavia quest’ultimo argomento – il cui rilievo gli studi di Ferrai avevano messo bene in risalto – non sembra averlo particolarmente appassionato: piuttosto che la ricostruzione della cultura storiografica milanese, a Torelli interessava individuare il modo migliore per utilizzare il Flos florum come fonte16. Da questo presupposto dipende anche la proposta editoriale che chiude il saggio dell’«Archivio muratoriano» e nella quale egli escluse l’opportunità di pubblicare integralmente quella lunga compilazione. Meglio sarebbe stato, a suo parere, procedere all’edizione del Chronicon maius di Galvano Fiamma, integrando quel testo con le notizie tratte dalle altre opere del frate e dal Flos florum, indispensabile quest’ultimo per il periodo dal 1216 al 1238 per cui non si conserva il testo del Chronicon maius. Pochi anni prima Ferrai si era comportato in modo simile utilizzando la cronaca di Bonincontro Morigia per colmare, almeno in parte, le lacune della Historia di Giovanni da Cermenate, giunta in un codice unico e mutilo17. Ma il piano editoriale pensato da Torelli fa venire piuttosto in mente
Fiamma proposta da Ferrai e sconsiglia un’edizione integrale delle opere del domenicano. Solo pochi anni prima il grande filologo aveva espresso opinione opposta a proposito della cronaca di Salimbene de Adam, la quale sarebbe stata da pubblicare integralmente anche nelle parti che agli storici potevano sembrare inutili perché recavano notizie errate oppure di fantasia: vedi Novati, La cronaca di Salimbene, «Giornale storico della letteratura italiana», 1 (1883), pp. 381-423, in particolare p. 388, per una presa di posizione di carattere generale. Cfr. inoltre A. Tallone Un libro di storia milanese di Antonio Astesano, «Archivio muratoriano», II/15 (1915), pp. 173-214. Per altri lavori sulla cronachistica milanese pubblicati all’inizio del Novecento da F. Savio, L. Grazioli e G. Biscaro si veda P. Tomea, Per Galvano Fiamma, «Italia medioevale e umanistica», 39 (1996), pp. 77-120. 15 Fu anzi decisamente duro, giungendo ad alludere che Ferrai neppure avesse letto il Flos florum: cfr. Torelli, La cronaca milanese “Flos florum” cit., pp. 113-115. 16 Rivela le convinzioni di Torelli un passo di questa sua ricerca in cui, dopo avere messo in luce l’importanza, ma anche i limiti, del Flos florum quale fonte, introducendo l’edizione di alcuni documenti conservati nello stesso manoscritto mantovano che tramanda la cronaca egli ha affermato: «Importantissima invece e senza limitazione di sorta è l’appendice del Flos florum compresa tra i fogli 203 e 211 del ms Gonzaga» (Torelli, La cronaca milanese “Flos florum” cit., p. 116). 17 Historia Iohannis de Cermenate notarii Mediolanensis (sec. XIV), ed. L. A. Ferrai, Roma 1889 (Fonti per la storia d’Italia, 2).
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il Corpus chronicorum Bononiensium che un altro allievo di Falletti, Albano Sorbelli, aveva cominciato a pubblicare proprio in quel 1906 nella ristampa muratoriana, dopo che nel 1902 Ludovico Frati aveva dato alle stampe nella medesima collana il Memoriale bolognese di Matteo Griffoni18. Nell’edizione di Sorbelli il risultato della codificazione della memoria storiografica bolognese che si realizzò tra la fine del Trecento e i decenni centrali del XV secolo, è stato fissato nella pagina a stampa pubblicando su due colonne parallele le tarde compilazioni note come Cronaca Rampona e Cronaca Varignana (che l’editore ha ribatezzato Cronaca A e Cronaca B), mentre nella parte inferiore della pagina trova posto la trecentesca cronaca di Pietro e Floriano Villola19. Questa soluzione – così scomoda soprattutto per chi voglia leggere l’opera dei Villola e non solo utilizzarla per estrarne qualche notizia – è il frutto di un compromesso destinato a ricomporre una disputa che aveva contrapposto per alcuni anni Gaudenzi a Fiorini, desiderosi entrambi di pubblicare le cronache bolognesi: Gaudenzi avrebbe voluto procedere ad una sorta di edizione sinottica del Memoriale del Griffoni e della cronaca dei Villola; Fiorini – che quando elaborò il suo progetto ancora non sapeva dello scritto dei Villola – pensava di pubblicare una delle compilazioni più tarde, integrandola con le altre cronache20. Magari a causa di tali premesse, rispetto alle soluzioni adottate o solo proposte da Ferrai, Cipolla e Monticolo, le scelte operate da Sorbelli sembrano dipendere da posizioni meno avanzate e questo ritardo pare condiviso anche da Torelli studioso del milanese Flos florum, ma ancora legato alla medievistica bolognese. Il saggio di Torelli piacque a Vittorio Fiorini che non solo accolse quello scritto nel suo «Archivio muratoriano», ma propose anche al giovane studioso mantovano di affiancare Giuseppe Calligaris nell’edizione delle cronache di Galvano Fiamma per la ristampa muratoriana. Torelli però non era intenzionato ad impegnarsi in quell’impresa e cortesemente decli-
18 Memoriale historicum de rebus Bononiensium, ed. L. Frati, con Prefazione di A. Sorbelli, in R.I.S.2, 18/2, Città di Castello 1902. Anche in questa edizione si era proceduto integrando le lacune del testo di Griffoni, giunto mutilo in un solo codice, con brani di un’altra cronaca, cioè l’opera dei Villola. 19 Corpus chronicorum Bononiensium, ed. A. Sorbelli, in R.I.S.2, 18/1, Città di Castello - Bologna, 1906-1939. Sulla cronachistica bolognese vedi M. Zabbia, Bartolomeo della Pugliola, Matteo Griffoni e Giacomo Bianchetti. Problemi di cronachistica bolognese tra Tre e Quattrocento, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», 102 (1999), pp. 99-140. 20 Cfr. G. Orlandelli, La vicenda editoriale del “Corpus chronicorum Bononiensium”, in Storiografia e storia. Studi in onore di Eugenio Duprè Theseider, Roma 1974, pp. 189-205.
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nò l’invito, giustificando il suo rifiuto con gli impegni di lavoro presso l’Archivio di Stato che, trattenendolo a Mantova, non gli avrebbero permesso di lavorare nelle biblioteche milanesi21. Il secondo ed ultimo saggio di Torelli dedicato alla cronachistica è una sorta di lunga recensione di due opere mantovane d’inizio Quattrocento: la breve cronaca di Antonio Nerli pubblicata nella ristampa muratoriana di Fiorini con in appendice il lungo poema storiografico di Bonamente Aliprandi22. In queste pagine lo storico si è soffermato in prima battuta ad analizzare l’edizione del Breve chronicon di Nerli – fondata su un codice conservato nella Biblioteca comunale di Mantova – e ha dimostrato tutta la sua competenza filologica individuando i non pochi errori commessi nell’edizione di quel piccolo testo latino da Begani, che nel suo lavoro non aveva seguito fedelmente la lezione proposta dal codice, come pure era stato annunciato nella premessa. Poi Torelli è passato ad analizzare la Cronica de Mantua di Aliprandi, senza però spingersi sino a Milano per collazionare il codice dell’Ambrosiana che era servito da base per quell’edizione. Invece in queste pagine un veloce sguardo al testo di Aliprandi è servito allo studioso come punto di partenza per alcune osservazioni sul volgare mantovano che egli ha svolto lasciando presto il poema per rivolgersi «a materiale anche più abbondante ed anche più genuino, nel senso che le fonti che or ora indicherò non ebbero a subire alcuna influenza di preoccupazioni letterarie»23. I testi cui Torelli si riferiva sono i documenti in volgare conservati all’Archivio di Stato di Mantova: si tratta delle epistole inviate dagli ufficiali dei Gonzaga, che dalla fine del Trecento sono spesso in volgare, delle gride, già in mantovano dalla seconda metà del XIV secolo, e di alcuni registri di natura finanziaria, anche questi in uso dalla metà del Trecento, dei quali lo studioso diede puntuale notizia. Presentati come materiali per lo studio del volgare mantovano, questi documenti furono subito utilizzati da Torelli per verificare l’attendibilità della cronaca di Aliprandi, mentre altre carte – tratte da «quella inesauribile miniera
21 Ricavo queste informazioni dalle lettere scritte da Torelli a Fiorini dal giugno 1905 al febbraio 1906 e conservate a Roma, nel Fondo Fiorini dell’Archivio storico dell’Istituto storico italiano per il medio evo. 22 P. Torelli, Antonio Nerli e Bonamente Aliprandi cronisti mantovani (a proposito della nuova edizione delle loro opere), «Archivio storico lombardo», ser. IV, 15 (1911), pp. 209230, discussione di Antonio Nerli, Breve chronicon monasterii Mantuani Sancti Andree ord. bened., ed. O. Begani, con in Appendice Bonamente Aliprandi, “Aliprandina” o “Cronica de Mantua”, in R.I.S.2, 24/13, Città di Castello 1908-1910. 23 Torelli, Antonio Nerli e Bonamente Aliprandi cit., p. 212.
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che è l’archivio Gonzaga » e trascritte con generosità – hanno permesso al recensore di riscrivere i profili biografici dei due cronsiti troppo rapidamente abbozzati da Begani nella prefazione dell’edizione delle loro opere. Rispetto al ponderoso saggio dedicato al Flos florum, questo sulle cronache mantovane è, dunque, uno scritto d’occasione, utile per comprendere meglio la fisionomia di studioso di Torelli e per vedere come egli era solito avvicinarsi ai testi narrativi. Se, infatti, le pagine volte alla ricostruzione delle biografie dei due autori rivelano ancora una volta il gusto per la ricerca d’archivio e per il documento inedito che Torelli aveva mostrato anche nell’articolo sul Flos florum, le osservazioni riservate al volgare mantovano permettono di cogliere meglio gli interessi filologici di quello storico del diritto. L’uso di affidare a saggi di piccola mole l’edizione di qualche testimonianza del volgare non era inconsueto tra gli storici d’inizio Novecento24, ma anche in questo lavoro di Torelli sembra lecito riconoscere – accanto all’esempio offerto da tante ricerche di Alessandro Luzio all’epoca direttore dell’Archivio di Stato di Mantova25 – l’influenza di Gaudenzi, il quale si occupò pure del dialetto bolognese e pubblicò in un bel libro molti brani di testi medievali bolognesi in volgare26. Inoltre in questo saggio mi pare anche di riscontrare un segno dell’influsso che su Torelli ha esercitato Francesco Novati: lo mostra l‘impostazione del testo che imita alcune lunghe recensioni di Novati, da cui riprende anche il vezzo di trovare nell’opera di cui si recensisce l’edizione un passo ad effetto che faccia da chiusura del saggio27. Ma l’alto livello dell’ammirazione di
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Per limitarci ad un solo esempio si veda un lavoro di un autorevole medievista apparso in quello stesso anno: P. Fedele, Briciole di romanesco antico. I. Note volgari del sec. XII in un ms. dell’arch. capitolare di S. Pietro, II. Documenti per la storia del palazzo Vaticano con note volgari del sec. XIII, «Archivio della Società romana di storia patria», 34 (1911), pp. 513-521. 25 Cfr. R. Pertici, Luzio, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, 66, Roma 2007, pp. 708-712. 26 A. Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole dell’odierno dialetto della città di Bologna. Studio seguito da una serie di antichi testi bolognesi inediti in latino, in volgare, in dialetto, Torino 1889. 27 Dopo non aver risparmiato critiche a Begani, Torelli in chiusura gli riconosce il merito di aver fornito un’edizione utile della cronaca di Aliprandi e scrive: «E questo compensa bene alcune disattenzioni anche non lievi: ripetiamo una massima buona e semplice dell’Aliprandi: chosì incontra a chi vol pur far bene» (Torelli, Antonio Nerli e Bonamente Aliprandi cit., p. 230). Qualche anno prima Novati chiuse una stroncatura ad A. Zenatti, Storia di Campriano contadino, in questo modo: «Costui che, volteggiando, si fa misto / in parecchi pericoli di morte / haver si vuol propitia qualche stella. / Finita la vostro honore è la novella. E così ripeteremo ancor noi, che ne è tempo» [«Giornale storico della letteratura italiana», 5 (1885), pp. 258-269]. Questa recensione dovette avere una certa notorietà per-
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Torelli per Novati si vede soprattutto nelle citazioni delle opere del grande filologo che – accanto alle ricerche pubblicate da Gaudenzi nella Bibliotheca iuridica medii aevi – compaiono negli Studi e ricerche di diplomatica comunale e sono tratte dai lavori dedicati a Coluccio Salutati oppure dal celebre saggio Il notaio nella vita e nella letteratura italiana delle origini28. Questi rimandi mostrano un apprezzamento incondizionato per gli scritti del grande filologo e colpiscono il lettore sia perché non ne compaiono di simili nelle pagine di Torelli – sempre parco di complimenti e invece propenso piuttosto alla critica, anche tagliente – sia perché Torelli, bolognese di formazione, aveva potuto sentire ancora le lezioni di Carducci che non faceva mistero della sua scarsa stima per Novati29. Dopo il 1911 non mi risulta che Torelli sia intervenuto di nuovo con contributi specifici sulla cronachistica. Egli ha però fatto ricorso con una certa frequenza alle cronache nelle sue ricostruzioni. Per esempio nel bel saggio Capitano del popolo e vicario imperiale come elementi costitutivi della signoria bonacolsiana, accanto ad altre cronache, si utilizzano molto – e con maestria – gli Annales Mantuani, una fonte così fededegna agli occhi di Torelli da fargli scrivere: «Io do agli Annales Mantuani per gli avvenimenti che senza dubbio l’autore conobbe direttamente, il valore pressoché assoluto di un documento»30. Anche negli Studi e ricerche di
ché costituisce una sorta di coda a quelle pubblicate durante un’aspra disputa che contrappose Novati e Renier a Morpurgo, Zenatti e Casini e in cui intervenne anche Alessandro Luzio: cfr. A. Stussi, Salomone Morpurgo (biografia, con una bibliografia degli scritti), in Stussi, Tra filologia e storia. Studi e testimonianze, Firenze 1999, pp. 145-227: 162-165. L’ipotesi che Torelli abbia avuto tra le mani proprio questo numero del «Giornale storico» è, inoltre, confortata dal fatto che nello stesso fascicolo trova posto un saggio che rientrava nei suoi interessi, cioè la prima parte di A. D’Ancona, Il teatro mantovano nel secolo XVI. E ciò senza contare che Luzio, che di Torelli fu – oltre che direttore – amico ed estimatore, era uno dei più assidui collaboratori del «Giornale storico», dove pubblicò anche alcuni saggi stesi in collaborazione con Renier, direttore insieme a Graf e Novati della rivista. 28 Pubblicato in F. Novati, Freschi e minii del Dugento, Milano 1908, pp. 299-328. Le altre opere cui Torelli ha rimandato sono Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati, Torino 1888, e Epistolario di Coluccio Salutati, ed. F. Novati, Roma 1891-1911 (Fonti per la storia d’Italia, 15-18). Cfr. P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, ristampa Roma 1980 (Studi storici sul notariato italiano, 5), p. 15, dove si dice che nell’Epistolario di Coluccio «il posto spettante al notaio nella vita privata e pubblica si delinea con precisione e abbondanza meravigliose». 29 Cfr. le critiche riservate da Carducci a Novati menzionate in Stussi, Salomone Morpurgo cit., pp. 161-162. 30 Pubblicato in «Atti e memorie della R. Accademia virgiliana di Mantova», n.ser., 1416 (1923), pp. 73-166, e ristampato in Torelli, Scritti di storia del diritto italiano cit., pp. 375-480, da dove (a p. 413) traggo la citazione. Bisogna aggiungere che quella avanzata da
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diplomatica comunale compaiono i nomi di alcuni cronisti ricordati in primo luogo per il posto che occuparono negli uffici comunali: si tratta di Caffaro e dei notai che continuarono gli Annali genovesi mentre erano impegnati a scrivere la documentazione comunale, e del milanese Landolfo di San Paolo, che nella sua cronaca si era definito consulum epistolarum dictator31. Inoltre Torelli non ignorava il ruolo riconosciuto alla grammatica e all’ars dictaminis nella formazione dei notai già nella seconda metà del XII secolo e poi nel Duecento32. Ed osservava anche come durante il XIII secolo si fosse formato un gruppo di notai dettatori cui era riservata la stesura degli atti più solenni. Di costoro Torelli riconosceva l’elevata formazione culturale che – come gli insegnavano Novati e Gaudenzi – costituiva il presupposto per l’attività letteraria (compresa, ma questa è una mia aggiunta, la scrittura delle cronache)33. In realtà Torelli era consapevole del largo ventaglio di problemi che gli si apriva davanti quando si metteva a studiare il notariato bassomedievale, ma – avendo deciso di redigere un’opera di sintesi – seppe resistere alla tentazione di allargare il suo orizzonte verso altre tematiche. Inoltre penso che a tener lontano questo storico dallo studio dei notai impegnati nella scrittura delle cronache abbia contribuito anche la forte influenza esercitata da Novati, il quale nei suoi studi ha riservato assai scarso rilievo alla produzione storiografica notarile34.
Torelli è una valutazione assai ottimistica, soprattutto se si considera la vicenda testuale degli Annales, giunti in copia unica in un codice quattrocentesco riconducibile all’intricata tradizione dell’annalistica veronese. Nello stesso contributo (ivi nota 41, pp. 392-393) l’attenzione del lettore è richiamata sulla stratificazione della memoria storiografica mantovana. Cfr. Annales Mantuani a. 1183-1299, ed. G. H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, 19, Hannoverae 1866, pp. 19-31. 31 Cfr. Torelli, Studi e ricerche cit., pp. 32-33 per i cronisti genovesi, e pp. 67-68 per Landolfo. 32 Anche in questo campo le ricerche di Gaudenzi sembrano aprire la strada agli studi di Torelli: cfr., ad esempio, A. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da Buoncompagno a Bene di Lucca, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», 14 (1895), pp. 85-174; oppure Boncompagni Rhetorica novissima, ed. A. Gaudenzi, Bologna 1892 (Bibliotheca iuridica medii aevi. Scripta anecdota glossatorum, 2). 33 Cfr. in particolare Torelli, Studi e ricerche cit., pp. 108-111, in cui si sofferma sui trattati di ars dictaminis e sui manuali podestarili, e pp. 161-178, dove l’attenzione è dedicata ai notai dettatori e al loro ruolo nei consigli cittadini. Si tratta in entrambi i casi di pagine pubblicate nella seconda parte degli Studi e ricerche. 34 In Novati, Il notaio nella vita e nella letteratura italiana delle origini cit., p. 307 (che riprende alla lettera Novati, La giovinezza di Coluccio cit., p. 74) , si legge un passo che sintetizza bene le caratteristiche della multiforme produzione storiografica notarile, alla quale tuttavia il grande studioso non rivolse mai le sue cure.
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Nelle pagine precedenti, ricostruendo l’approccio con cui Torelli si avvicinava alle cronache, ho portato qualche argomento utile anche per comprendere i motivi che si frapposero al suo incontro con la figura del notaio cronista. Sarà ora da vedere come, invece, quello di Girolamo Arnaldi con gli Studi e ricerche di diplomatica comunale sia stato un incontro molto fortunato35. E converrà dire subito che la caratteristica grazie alla quale il libro di Torelli è stato così utile ad Arnaldi è costituita dall’ampio ambito geografico che vi è preso in esame, e coincide, quindi, con una (forse la principale) ragione di dissenso manifestato contro gli Studi e ricerche da diplomatisti e storici del diritto. Dalla prima recensione di Gerolamo Biscaro alla più recente messa a punto di Dino Puncuh, infatti, all’opera di Torelli è stato rimproverato il carattere di ampia sintesi che talvolta mostra qualche rigidità e che è fondata sull’analisi di fonti edite e sullo spoglio degli statuti cittadini piuttosto che sul completo esame di una realtà locale36. Anche gli Studi sui cronisti della Marca trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano coprono un ambito geografico ampio, che supera i confini della dimensione cittadina. In quel libro Arnaldi, che all’epoca era nuovo alle ricerche di storia comunale, ha analizzato alcuni cronisti d’area veneta, quattro notai e un causidico: nell’ordine il veronese Parisio da Cerea, i vicentini Gerardo Maurisio (il causidico) Nicolò Smereglo e Antonio Godi, e il padovano Rolandino, soffermandosi molto a lungo sull’opera di que-
35 Che desta ancora maggiore attenzione perché si realizzò quando, negli anni Sessanta, i medievisti italiani mostravano scarsa attenzione per gli scritti di Torelli: cfr. O. Capitani, Per un ricordo di Pietro Torelli, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», 89 (1980-1981), pp. 553-589, e in particolare p. 556 e nota 6 per gli Studi e ricerche di diplomatica comunale, dove però non si fa cenno all’uso che di quel libro aveva fatto Arnaldi. 36 Sulla mancata fortuna delle ricerche di Torelli insiste D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia dal saggio del Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congres de la Commission internationale de diplomatique, Gand 2529 aout 1998, cur. W. Prevenier - T. de Hemptinne, Leuven- Apeldorn 2000 (Studies in urban social, economic and political history of the medieval and modern Low Countries, 9), pp. 383-406, dove vengono menzionate solo due recensioni degli Studi e ricerche di diplomatica comunale: quella di G. Biscaro in «Archivio storico lombardo», 43 (1916), pp. 600-619; e quella, assai elogiativa, di Romolo Quazza, all’epoca professore di liceo a Mantova, in «Archivio della Società romana di storia patria», 44 (1921), pp. 363-366, che sembra un tentativo di richiamare sul lavoro di Torelli, apparso già da qualche anno, l’attenzione degli studiosi. Proprio contro le rigidità della sintesi di Torelli Arnaldi era stato messo in guardia da G. Pistarino a proposito del caso genovese: cfr. G. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma 1963 (Studi storici, 48/50), ristampa anastatica con Postfazione di M. Zabbia, Roma 1998, p. 241, nota 2.
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st’ultimo con pagine in cui per la prima volta prese forma il profilo del notaio cronista37. Per ricostruire la fisionomia culturale e professionale dei notai che scrissero cronache Arnaldi poteva contare sul volume di Mattia Moresco e Gian Piero Bognetti dedicato ai quaderni delle imbreviature genovesi, sul profilo di storia del notariato italiano che qualche anno prima aveva steso Armando Petrucci, sulle prime ricerche di Gianfranco Orlandelli volte ad analizzare i formulari notarili della scuola bolognese, e sugli studi di diplomatica comunale che proprio in quegli stessi anni stavano pubblicando Giorgio Costamagna per Genova e Ottavio Banti per Pisa: nel complesso la sua era una bibliografia assai aggiornata e attenta anche a qualche saggio metodologico straniero edito da poco tempo38. Ma lo studio che Arnaldi ha più citato e quello che maggiormente gli è stato utile è il libro di Torelli, sia la prima parte, sia e soprattutto la seconda39. Proprio lo spoglio di statuti cittadini che constituisce il fondamento della seconda parte degli Studi e ricerche offrì ad Arnaldi un buon quadro sulle caratteristiche e le mansioni del notaio del podestà, ruolo che Rolandino aveva ricoperto a più riprese. Impegnato a scrivere i principali documenti del comune e le deliberazioni dei consigli, spesso al seguito degli ambasciatori e comunque sempre fisicamente vicino ai luoghi del governo, il “notaio di fiducia del comune” sembra posto in posizione ideale per conoscere tutte le vicende che riguardavano la sua città40. Inoltre dal 37 Riguardano Rolandino e la sua cronaca 130 delle 245 pagine che costituiscono l’intero volume appendici comprese: si tratta dei capitoli V La lettura pubblica della cronaca di Rolandino, VI Rolandino notaio e cronista, e VII I “Cronica” di Rolandino. 38 Tra gli studi citati da Arnaldi ricordo: M. Moresco - G.P. Bognetti, Per l’edizione dei notai liguri, Genova 1938; A. Petrucci, “Notarii”. Documenti per la storia del notariato italiano, Milano 1958; O. Banti, Per la storia della cancelleria del Comune di Pisa nei secoli XII e XIII, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», 73 (1961), pp. 141-164 (che non ricorda mai le ricerche di Torelli); G. Orlandelli, Appunti sulla scuola bolognese di notariato per una edizione dell’“Ars notarie” di Salatiele, «Studi e memorie per la storia dell’università di Bologna», n. ser., 2 (1961), pp. 1-54; G. Tessier, Diplomatique, in L’Histoire et ses méthodes, cur. C. Samaran, Paris 1961, pp. 633-676; G. Costamagna, Note di diplomatica comunale. Il “Signum Comunis” e il “Signum Populi” a Genova nei secoli XII e XIII, in Miscellanea di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1962, pp. 105-115 (in cui il rimando agli Studi e ricerche di Torelli ricorre assai di frequente). 39 L’indice dei nomi del volume di Arnaldi non permette di cogliere la frequenza del ricorso agli studi di Torelli perché in quella sede «i nomi degli autori moderni sono citati per le pagine in cui le loro opere vengono indicate in modo bibliograficamente completo» (p. 247). Ma in Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana cit., pp. 119-127, il nome di Torelli compare in ogni pagina. 40 “Notaio di fiducia del comune” è una definizione coniata da Torelli che Arnaldi ha fatto propria: cfr. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana cit., p. 124, con a nota 1 il rimando a Torelli, Studi e ricerche cit., pp. 27-28 della ristampa.
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quadro delineato da Torelli (questa volta nella prima parte degli Studi e ricerche) emerge il tipo di rapporto che si era formato tra notaio e comune in conseguenza del quale un libero professionista forniva i suoi servizi alle istituzioni: la credibilità riconosciuta alle scritture documentarie notarili, associata all’autorevolezza che veniva al notaio dal contatto con le istituzioni di governo, avrebbero avuto ricadute anche sulle sue opere storiografiche. Ma non basta. Il ripresentarsi negli uffici di prassi maturate nell’ambito della professione caratterizza un altro aspetto assai rilevante dell’opera di Rolandino: il notaio che ereditava l’attività del padre egli pure notaio, entrava in possesso dei quaderni delle imbreviature da questo rogate e poteva estrarne i munda anche quando si trattava di documentazione prodotta dal comune. Partendo da questi presupposti, Arnaldi ha interpretato il prologo della cronaca padovana, dove l’autore aveva fatto esplicito riferimento sia alla professione del padre, notaio a Padova, sia alle note di storia della Marca trevigiana che quello gli aveva affidato, giungendo alla conclusione che Rolandino si sentiva autorizzato a ricavare dagli appunti di suo padre il materiale per stendere la sua cronaca così come dalle imbreviature gli era lecito ricavare gli instrumenta. Anche nel saggio Uno sguardo agli Annali genovesi che, posto in appendice agli Studi sui cronisti della Marca trevigiana, chiude il libro, Arnaldi ha fatto ricorso ai risultati raggiunti da Torelli, questa volta però senza sfruttarli a pieno. In quella sede, infatti, ad Arnaldi premeva di più studiare il caso di Caffaro, un prestigioso membro del ceto dirigente genovese che, ormai in tarda età, cominciò a scrivere una cronaca cittadina per propria iniziativa, poi sottopose la sua opera al giudizio dei consoli e quindi la continuò – con l’aiuto di un notaio – dopo essere divenuto una sorta di pubblico storiografo genovese. Di conseguenza lo storico ha indagato con maggiore attenzione le tappe in cui prese forma l’opera del primo annalista e il ruolo svolto nella stesura della cronaca da Macobrio, il notaio che compare accanto a Caffaro nella miniatura che apre il codice autentico degli Annali genovesi, e si è soffermato brevemente sui continuatori di Caffaro che per molti decenni provennero dalle fila dei notai impegnati a scrivere la documentazione del comune41. Pochi anni dopo la pubblicazione degli Studi sui cronisti della Marca trevigiana Arnaldi ritornò sulla figura del notaio cronista in un breve saggio presentato al primo congresso internazionale della Società italiana di
41
Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana cit., pp. 225-245, Torelli è citato a p. 225, p. 226, p. 241.
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storia del diritto42. Di fronte ad un pubblico di storici del diritto egli ha pronunciato un sincero elogio degli Studi e ricerche di Torelli. Conviene citarlo, almeno in parte: Tra parentesi – e proprio tra parentesi tonde si legge questo brano – credo che pochi libri italiani del periodo precedente alla prima guerra mondiale siano invecchiati bene, o meglio non siano affatto invecchiati, come gli Studi e ricerche di diplomatica comunale di Pietro Torelli. La delineazione del processo per cui, dalla figura del notaio sacri Palatii, che presta occasionalmente la sua opera al Comune, si passa a quella del notaio del podestà, scelto nella cerchia dei notai di fiducia del Comune, per periodi di solito assai brevi e intervallati da una lunga vacatio; per arrivare infine a quella del cancelliere stabile, al servizio esclusivo del Comune, che a un certo momento non sarà nemmeno più, di necessità, un notaio; rappresenta tuttora uno dei discorsi più validi, e di applicazione più generale, che siano stati fatti a proposito della storia dei nostri comuni cittadini. E, anche ai fini puramente didattici, credo che non ci sia un metodo migliore per spiegare la natura giuridica del Comune, di quello consistente nel fare osservare che, materialmente, gli atti con cui vengono stipulate le leghe fra città italiane al tempo delle lotte con gli imperatori Svevi, erano scritti, non potevano essere scritti altro che da notai, i quali ripetevano dall’impero la loro investitura.
Da queste righe si vede bene l’attenta lettura che Arnaldi aveva riservato all’opera di Torelli: lo indica il riassunto - stringatissimo, ma completo - delle fasi attraverso cui si concretizzò il rapporto tra notariato e comune; e lo conferma la scelta assai pertinente dell’esempio della stesura documentaria dei patti tra le città, cioè di atti tra i più complessi che i notai dovevano scrivere per il comune. L’attenzione verso gli sporadici episodi di cronache ufficiali che si era manifestata nel libro del 1963 e soprattutto nel saggio del 1966 non compare più nei successivi lavori di Arnaldi, il quale – anzi – ha piuttosto stemperato certe affermazioni che gli saranno sembrate troppo decise. Già nel saggio Cronache “autentiche”, cronache con documenti e pubblica storiografia, che riprende una relazione tenuta nel 1973, gli Studi e ricerche di Torelli non erano più citati43. Ma quello che più conta è il fatto che nelle
42 G. Arnaldi, Il notaio-cronista e le cronache cittadine in Italia, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Firenze 1966, pp. 293-309; cfr. ivi pp. 300-301, per la citazione che segue. 43 G. Arnaldi, Cronache con documenti, cronache “autentiche” e pubblica storiografia, in Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del Congresso tenutosi in occasione del
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sue pubblicazioni degli anni Settanta e Ottanta Arnaldi ha posto l’accento su altri temi della cultura notarile che erano già trattati negli Studi sui cronisti della Marca trevigiana, ma che erano rimasti per così dire all’ombra del più affascinante (ma meno sostanzioso) tema della “pubblica storiografia”. Penso soprattutto al rilievo riconosciuto allo studio della grammatica e dell’ars dictaminis nella formazione dei notai ed in particolare di quel ristretto gruppo di notai che scriveva la più importante documentazione del comune. Si tratta di un tematiche che, si è visto, Torelli aveva presenti, ma che decise di non affrontare. Questo argomento, invece, Arnaldi ha saputo approfondire e la sua interpretazione ha trovato conferma sia dalle ricerche di storia della cultura, sia da quelle di storia della storiografia medievale e di diplomatica44.
90° anniversario della fondazione dell’Istituto storico italiano (1883-1973) (Roma 22-27 ottobre 1973), I, Roma 1976, pp. 351-374. 44 Per le ricerche che hanno preso spunto dal volume di Arnaldi si veda la mia Postfazione alla ristampa anastatica di Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana cit., alle pp. 8-10 cui va aggiunto il riconoscimento che ai risultati raggiunti da Arnaldi tributa G. Nicolaj, Lezioni di diplomatica generale, 1. Istituzioni, Roma 2007, nota 132 di p. 88.
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III NOTARIATO COMUNALE: RICERCHE REGIONALI
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ANtoNIo oLIvIeRI IL SALARIo deL NotAIo AD OFFICIA SPUNtI toReLLIANI e RICeRChe ReGIoNALI. IL CASo dI toRINo NeL tReCeNto e NeI PRIMI deCeNNI deL QUAttRoCeNto
Le pagine che seguono vorrebbero costituire un contributo periferico, per così dire, alla comprensione di un problema ampio qual è quello del rilievo che l’acquisizione di una carica politica o amministrativa aveva rispetto alla scala di valori propria delle élites delle società degli stati del tardo medioevo italiano1. Ci si accosterà a questo tema affrontando una questione di carattere tecnico, consistente nello stabilire la natura e la direzione dei flussi finanziari connessi con la gestione di una determinata categoria di offici dello stato principesco, offici minori di matrice prettamente comunale, quali quelli dei notai addetti alle curie decentrate2. Il problema iniziale che mi ero posto era, e in parte resta ancora, quello di stabilire la natura della retribuzione corrisposta ai notai in carica presso le amministrazioni cittadine soggette al potere principesco: questi notai percepivano un salario? Se sì, chi lo pagava? e come era regolato l’accesso alle cariche? Come si vedrà, anche se i modi e le forme di concessione e gestione di que-
1
Si veda, per una impostazione analoga del problema, G. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini. La società politica sabauda del tardo medioevo, Milano 1994, pp. 166 ss. 2 Una definizione efficace di officio, in contrapposizione con cariche più episodiche, meno definite, più legate all’arbitrio principesco e di maggior peso politico, quindi per il periodo anteriore all’uniformazione tardoquattrocentesca verificatasi, nel caso specifico, nel marchesato di Mantova, in I. Lazzarini, Gli officiali del marchesato di Mantova, in Gli officiali degli stati italiani nel Quattrocento, cur. F. Leverotti, Pisa 1997, pp. 83 ss. e Lazzarini, Fra un principe e altri stati. Relazioni di potere e forme di servizio a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga, Roma 1996 (Nuovi studi storici, 32), pp. 99 ss. Si veda anche M. Folin, Note sugli officiali degli stati estensi (secoli XV-XVI), in Gli officiali degli stati italiani cit., pp. 99-151: 101, 106 ss.
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sti offici rimandano sostanzialmente a prassi istituzionali di tradizione comunale, l’interazione tra signore e ceti egemoni urbani introdusse dei caratteri specifici derivanti, a prima vista, dalle esigenze politiche e finanziarie del principe e dalle esigenze di tutela degli spazi residui di autonomia dei ceti egemoni urbani. I quesiti che ponevo qui sopra – certo solo alcuni dei possibili – sono stati selezionati sulla base di un criterio di carattere unilaterale: qual era il valore economico di un officio siffatto? In tale selezione non c’è nulla di eccessivamente arbitrario, a patto di tenere conto del fatto, del resto evidente, che tale valore economico (fosse, come si vedrà, di segno positivo o negativo, importante per guadagnare o invece importante tanto da affrontare delle spese per assicurarsi l’officio stesso) era incardinato all’interno di un fascio di rapporti sociali e politici dai quali non poteva in alcun modo prescindere. L’officio insomma non può essere considerato una merce il cui valore potesse essere stabilito in seguito a una stima di carattere puramente economico3. Per converso ci si potrebbe naturalmente chiedere qual era il valore della scrittura notarile per il potere principesco e per le amministrazioni delle città dominate del tardo medioevo italiano. Come si vedrà, non sempre le cifre che si era disposti a pagare vennero ritenute sufficienti dai notai della città di cui ci si occuperà. In questo contributo offrirò prima alcune considerazioni di carattere generale, poi mi occuperò in modo particolare dei notai della curia civitatis di torino, principale centro urbano dello stato dei principi d’Acaia. A questi ultimi, appartenenti al ramo cadetto dei Savoia, era stata data in appannaggio la parte cismontana degli stati sabaudi, fatta eccezione per la valle di Susa, grazie ad un accordo concluso nel 1294 tra Amedeo v e Filippo principe di Acaia. Il principato d’Acaia sarebbe poi durato fino al 1418 quando, con la morte del principe Ludovico, i domini cisalpini tornarono al ramo principale dei Savoia con la successione di Amedeo vIII4. dedicherò un primo rapido sguardo ai notai al servizio dei principi sabaudi. essi non percepivano, come gli altri officiali sabaudi, un salario, ma ricevevano un emolumento per ciascuno dei documenti che rogavano, venendo quindi pagati ad acta. Questo accadeva sia che rilasciassero origi-
3 4
Cfr. Folin, Note sugli officiali cit., pp. 123-125. Per una narrazione delle vicende politiche e dinastiche del principato d’Acaia P. L. datta, Storia dei principi di Savoia del ramo di Acaia, signori del Piemonte dal MCCXCIV al MCCCCXVIII, 2 voll., torino 1832.
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nali a parti terze, esterne all’amministrazione principesca, sia che scrivessero per conto del principe, il quale li pagava come un qualsiasi cliente5. Sui segretari sabaudi non mancano ricerche, anche recenti6, ma gli storici hanno naturalmente preferito occuparsi degli officiali di maggiore caratura, esplorando anche, con risultati di grande interesse, la connessione tra concessione dell’officio, prestiti concessi al principe da parte dell’officiale all’atto della nomina e salario connesso alla carica7. I notai a servizio degli officiali periferici cui ho appena alluso erano certamente individui di minore rilievo sociale e politico. Questo sempre che si misuri tale rilievo su una scala di ampiezza regionale, dato che, come si vedrà, agli offici notarili di cui mi occuperò ebbero accesso anche membri delle maggiori famiglie torinesi. Un esame anche cursorio delle fonti rivela fatti di un certo interesse. tra questi non ultimi – in analogia con i problemi connessi con le figure di maggiore rilievo – i nessi rinvenibili tra la persona del notaio ad officia, le sue funzioni, l’emolumento che gli fruttava l’officio e – qui entriamo in un tratto specifico delle funzioni burocratiche di questi uomini – il dispositivo tecnico di cui si serviva per esercitare la sua funzione, i suoi protocolli, dei quali tuttavia qui non parlerò. Ma procediamo con ordine. Per quale ragione questioni del genere possono interessare in un convegno dedicato all’opera di Pietro torelli? Il pagamento dei segretari ad acta non costituiva in realtà una innovazione signorile. Proprio torelli nel suo lavoro del 1915 osservava che in genere i
5 A. Barbero, Il ducato di Savoia. Amministrazione e corte di uno stato franco-italiano, Roma-Bari 2002, pp. 38 ss., 48; Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini cit., pp. 184-189 e soprattutto G. Castelnuovo, Cancellieri e segretari tra norme amministrative e prassi di governo. Il caso sabaudo (inizio Trecento-metà Quattrocento), in Cancelleria e amministrazione negli stati italiani del Rinascimento, cur. F. Leverotti, Napoli 1994 (= «Ricerche storiche», 24), pp. 291-303. 6 U. Gherner, Un professionista-funzionario del Duecento: Broco, notaio di Avigliana, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 85 (1987), pp. 387-443; A. Calzolari - R. Cosentino, La prima attività contabile della cancelleria sabauda e l’organizzazione dell’ufficio a metà del secolo XIV, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 92 (1994), pp. 505-553; A. Barbaglia, Antonio Beczon: un notaio comitale nella Savoia del Trecento, ibid., 93 (1995), pp. 61-134. 7 Si veda sopra, nota 5; sulla connessione tra concessione di offici e utilità finanziarie per il principe cfr. G. Castelnuovo - C. Guilleré, Le crédit du prince: l’exemple savoyard au bas moyen âge, in Crédit et société: les sources, les techniques et les hommes (XIVe - XVIe s.). Rencontres d’Asti-Chambery (24-27 septembre 1998). Actes publiés sous la direction de J.M. Cauchies, Neuchâel 1999, pp. 151-164; A. Barbero, La venalità degli uffici: l’esempio del vicariato di Torino (1360-1536), in Barbero, Il ducato di Savoia cit., pp. 48-67; si veda inoltre il lavoro di Barbero cit. qui oltre, nota 20, pp. 217-220.
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notai del comune non ricevevano un salario fisso e che, in ogni caso, «percepivano dagli interessati un tanto per ogni documento che per loro redigevano» – ed è, per esempio, il caso di Mantova8. torelli citava poi Guglielmo durante, in un passo in cui il grande giurista duecentesco stigmatizzava l’avidità dei notai, che doveva essere proverbiale, e lodava quei regolamenti che fissavano tariffe precise per gli atti rilasciati dai notai di curia9. Guglielmo aveva del resto – prescindendo ora da quanto riferisce torelli – una esperienza diretta di questo genere di problemi: come uditore generale delle cause del palazzo papale aveva «satis bene», come si espresse, provveduto a ordinare la questione del salario per la redazione delle scritture forensi. Inoltre, divenuto più tardi rettore generale del Patrimonio di san Pietro, tra i numerosi statuti civili ed ecclesiastici da lui emanati ricordò, proprio nel capitolo dello Speculum iudiciale sul quale mi sto soffermando, di avere emanato un’ordinanza penale generale «super officialium salariis»10. tornando a torelli, va detto che, se non diede molto altro spazio alla discussione del problema dell’emolumento del notaio officiale, tuttavia le note che formano gran parte del suo libro costituiscono una vera miniera di informazioni sulla questione. esse consentono di introdurre una distinzione di massima tra: 1) gli atti posti in registri d’ufficio – in scriptis, oppure in actis, nel caso di registri giudiziari – e per così dire rilasciati in estratto o copia dal notaio officiale a un officiale di un’altra ripartizione per ragioni interne all’istituzione; e 2) gli atti, o anche istrumenti in senso proprio, rilasciati dal notaio a un terzo in rapporto con l’istituzione per ragioni di natura fiscale, economica, giudiziaria, ecc. tutto ciò sia che il notaio percepisse un salario fisso sia invece che non gliene fosse corrisposto alcuno. Si tratta di aspetti del lavoro del notaio per le istituzioni pubbliche ben noti a tutti gli studiosi di simili questioni. tuttavia mi sarà permesso fare degli esempi, in quanto essi consentono di vedere come la questione della remunerazione degli addetti alla scrittura degli atti comunali costituisse una preoccupazione costante nella legislazione comunale (e non solo, come si è già visto). 8
P. torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, II, Mantova 1915 (Pubblicazioni della R. Accademia virgiliana di Mantova, I) che cito dalla ristampa anastatica edita dal Consiglio Nazionale del Notariato dove il volume viene ripubblicato insieme con la parte prima degli stessi Studi, edita in origine in «Atti e memorie della R. Accademia virgiliana di Mantova», n. ser., 4 (1911): torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 1980, p. 147 ss. (la citaz. a p. 148), pp. 205 ss. 9 torelli, Studi e ricerche cit., p. 148; Speculum iuris Guillelmi durandi, pars prima, Augustae taurinorum 1578, f. 147r, De salariis procuratorum et tabellionum: «Sed quid erit in tabellionibus, qui ut plurimum inhumani sunt in salariis exigendis?».
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Per il primo tipo di atti, dopo aver ricordato i molti statuti che prescrivevano che i notai dei consoli di giustizia e del podestà non percepissero nulla per le scritture eseguite per conto del comune nei registri d’ufficio11, menzionerò uno statuto bresciano in cui si stabiliva che i redattori delle riformagioni – i dictatores comunis – dovevano rilasciare copia delle decisioni consigliari relative all’offitium massarii al titolare dell’ufficio stesso «sine prestatione alicuius pecunie»12. Quanto al secondo tipo, restando alle riformagioni, si potrebbero citare quegli estratti di decisioni consiliari «rilasciati – cito ancora torelli – a terzi interessati specialmente a quel determinato atto per il quale era necessaria l’approvazione o la pubblicazione in Consiglio»13. Ma c’è veramente l’imbarazzo della scelta, anche se va detto che il notaio che aveva certamente più frequente occasione di rilasciare scritture d’ufficio a privati era il notaio addetto alle curie giudiziarie. torelli studiò in modo analitico la sequenza degli atti scritti prodotti nel corso dei procedimenti giudiziari, precisando anche quali atti venissero rilasciati alle parti. Uno dei punti di forza del suo discorso verte sul processo di affermazione del «concetto che lo scrivere gli atti processuali spettasse all’autorità giudiziaria» e quindi del «principio [...] d’ordine pubblico per cui lo Stato provvede alla tutela degli interessi privati», principio che tuttavia, a suo dire, avrebbe avuto definitivo successo ben oltre l’età medievale14. Quest’ultima recava anzi tracce significative di sopravvivenza di situazioni anteriori, rilevate con grande acutezza da torelli, che notava, per esempio, come non fosse sempre vero
10 Speculum iuris cit., f. 147r: «et videmus aliquas curias satis bene in talibus ordinatas.
et nos dum essemus auditor generalis causarum palatii domini papae statis bene, quoad hoc, salarium ipsum procuravimus ordinari. Set et dum patrimonium Beati Petri temporaliter et spiritualiter gereremus, inter plura etiam statuta civilia et ecclesiastica quae ibi edidimus super officialium salariis, poenalem ordinationem facimus generalem». Si veda J. Gaudemet, Durand (Durant, Durante), Guillaume (Guglielmo), detto lo Speculatore, in Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 82-87. 11 Cfr. torelli, Studi e ricerche cit., pp. 234-238, e si veda in partic. p. 237 nota 1 per uno statuto bresciano che cito come esempio: «Notarii potestatis [...] debent facere omnia scriptura communis, nominatim testes qui recipiuntur per offitium, sine aliquo pretio». 12 torelli, Studi e ricerche cit., p. 168 nota 1 e p. 169 nota 1. 13 Ibid., p. 170 e nota 1. 14 Ibid., pp. 209 (dove si trovano entrambe le citazioni), 234 ss.; si veda anche la parte prima degli Studi, riedita nello stesso volume, pp. 17 ss. A proposito della tutela da parte delle autorità cittadine, in età tardo-comunale, degli interessi pubblici veicolati dalla documentazione si veda G.M. varanini, Nota introduttiva, in Gli Acta comunitatis Tarvisii del sec. XIII, ed. A. Michielin, Roma 1998 (Fonti per la storia della terraferma veneta, 12), pp. v-xLIv: xxxvII-xLIv; si veda ora anche il contributo di M. vallerani negli Atti in corso di stampa citati qui di seguito. torelli non precisò quale fosse il tempo in cui il principio da
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che la citazione del reo fosse un atto giudiziario15. In ogni caso, all’affermazione del principio, di cui ora si diceva, appare legata la questione degli emolumenti connessi con l’affidamento e la gestione delle scribanie delle corti di giustizia, in particolare quando si osservi che l’autorità pubblica provvedeva sì a garantire la tutela degli interessi legittimi, ma che il peso finanziario dei servizi di scrittura giudiziaria ricadeva completamente sulla tassazione degli atti relativi. Prima di procedere farò una precisazione. Le scritture d’ufficio cui ho appena alluso non erano naturalmente le uniche scritture connesse ai procedimenti giudiziari, anche prescidendo dai documenti allegati come prova dalle parti. tornando per un momento a Guglielmo durante, ricordo che quest’ultimo introdusse, nella breve trattazione relativa ai salari dei notai di curia e a proposito dei documenti relativi alle cause giudiziarie, una distinzione tra scritture forensi o giudiziali da un lato e scritture extragiudiziali dall’altro. Ripeto che si tratta in entrambi i casi di scritture connesse alle cause, ma che quelle dette extragiudiziali – esemplificate da durante con un «puta instrumentum depositi vel solutionis vel venditionis vel procurationis et huiusmodi»16 – erano del genere degli istrumenta e non degli acta burocratici, quali erano invece i documenti forensi, di cui pure il giurista diede ampia esemplificazione, parlando delle tariffe richieste pro termino scribendo, pro exceptione, pro citatione, pro litis contestatione, pro positione, pro articulo, ecc., con elencazione simile a quella del famoso canone del quarto Concilio Lateranense17. e qui sarà opportuna una precisazione: mentre gli acta venivano redatti da notai d’ufficio, per la redazione degli istrumenta extragiudiziali si poteva ricorrere a notai esterni alla curia, anche se questo non era assolutamente un obbligo. Le varia-
lui formulato avrebbe avuto definitivo successo. I dati ora disponibili per l’età moderna farebbero pensare piuttosto che la gestione semiprivatistica, o anche francamente privatistica, da parte dei notai-segretari delle scritture giudiziarie ebbe proprio in quell’età la più coerente realizzazione. Si vedano, a questo proposito, gli illuminanti saggi compresi negli Atti del convegno La documentazione degli organi giudiziari nell’Italia tardo-medievale e moderna (Siena, 15-17 settembre 2008), in corso di stampa, di cui ho preso conoscenza quando questo contributo era già terminato. 15 torelli, Studi e ricerche cit., pp. 218 ss., e nota 2 a p. 219 dove ricorre ancora, ponendola in rilievo, a una citazione di Guglielmo durante: «Quandoque citatio fit per partem». 16 Anche torelli offre degli esempi di scritture extragiudiziarie: cfr. p. es. torelli, Studi e ricerche cit., pp. 221 nota 2, 222 nota 1. 17 Conciliorum Oeconomicorum Decreta, curantibus J. Alberigo - P.P. Joannou - C. Leonardi - P. Prodi, Freiburg im Breisgau 1962, p. 228, can. 38 De scribendis actis, ut probari possint.
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bili sono numerose, non mi soffermerò su esse. L’altra distinzione – derivante da quella, introdotta da hermann Kantorowicz, tra Gerichsnotaren e Gerichsschreibern18 – può essere indicata, parafrasando una delle solite preziose note di torelli, come distinzione tra i notarii curie e i notarii ad curiam, vale a dire tra notai di curia e notai che operavano presso la curia. Questi ultimi erano «notai abilitati a compiere atti di parte nelle cause» in rapporto con il collegio notarile19. Ma è ora di rivolgere l’attenzione ai particolari della situazione torinese. Naturalmente nel secolo e più in cui durò il principato d’Acaia essa mutò. Quanto segue è basato essenzialmente sugli statuti cittadini del 1360, sulle franchigie concesse dagli Acaia a torino, sulle delibere del consiglio di credenza conservate, sia pur con lacune, per tutto il trecento e oltre a partire dal 1325 e sui rotoli di conti del vicariato di torino. torino, tradizionale capoluogo politico e religioso, era una piccola città e l’apparato amministrativo comunale, al cui vertice stavano due officiali sabaudi, il vicario e il giudice, integrati e coadiuvati dal clavario, era commisurato a queste piccole dimensioni20. Gli statuti del 1360 codificavano una consuetudine invalsa, basata su un accordo scritto intervenuto tra il principe e la città, come subito si vedrà, alcuni decenni prima. Prevedevano che, una volta eletti i quattro clavari comunali dal corpo dei credenziari, i quattro notarii curie, da rinnovarsi ogni tre mesi, venissero scelti per metà dai clavari appena detti e per metà dal vicario21. due erano quindi di parte sabau-
18 h.U. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafecht der Scholastik, I, Berlin 1907, pp. 56 ss. 19 torelli, Studi e ricerche cit., pp. 206, 210. 20 A. Barbero, La struttura dell’apparato signorile in città, in A. Barbero - G.S. Pene vidari, Torino Sabauda. Dalle lotte di parte e dalle congiure antisabaude a un nuovo equilibrio sociale e istituzionale, in Storia di Torino, II, Il basso Medioevo e la prima età moderna (1280-1536), cur. R. Comba, torino 1997, pp. 214-220. Sulla continuità delle tradizioni pubbliche in torino si veda G. Sergi, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere. Le aree delle marche di Ivrea e di Torino, in Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, torino 1985, pp. 5-27, e le pagine dovute allo stesso autore e a Renato Bordone in Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, cur. G. Sergi, torino 1997. 21 Gli statuti del Comune di Torino del 1360, ed. d. Bizzarri, torino 1933 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 138), p. 146, cap. 327; cfr. Statuta et privilegia civitatis Taurinensis, ed. F. Sclopis, in Monumenta historiae patriae, Leges municipales, I, Augustae taurinorum 1838, p. 544, che è il luogo delle franchigie emanate nel 1360 da Amedeo vI in cui venne stabilito che i quattro notai che dovevano essere eletti «ad officium notariae et curiae civitatis thaurini» tanto sulle cause civili quanto sulle criminali dovessero essere eletti ogni tre mesi «duo per vicarium, caeteri duo per commune [...] sicut est actenus consue-
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da e due di parte comunale. tutti erano però scelti tra i notai torinesi, i quali, com’è noto grazie agli studi di Alessandro Barbero, non erano organizzati e non lo sarebbero stati neppure in seguito – almeno, aggiungo, sino al 1454 –, in una loro società corporativa22. Per quanto mi risulta, le prime notizie superstiti di parte comunale su questo sistema risalgono al settembre 133523. Nei conti sabaudi del vicariato di torino invece si trova memoria dei pagamenti da parte dei notai che reggevano la firma Taurinensis curie, divisa in parti, sin dal 1315. In tale anno essa riguardò, data la natura della fonte, una porzione la cui entrata spettava agli Acaia: «de II florenis auri receptis de Iohanne Pistagni notario curie taurinensis de firma sue partis notarie taurinensis curie domini, finita in festo beati Iohannis Baptiste M°CCCxv°»24. Nello stesso rotolo di conti ora citato sono presenti le annotazioni relative alla quota, che ora si precisa essere quarte partis, dello stesso notaio Giovanni Pistagni per gli anni 1316-1318. Accanto alla quota di quest’ultimo anno sono presenti le annotazioni relative alle quote, pagate al clavario sabaudo, da altri due notai – Ardizzone Beimondi e oddoneto Cornaglia – per l’anno precedente, 1317, sempre ciascuno per la quarta parte25. Nel rotolo di conti per il periodo che andò dalla fine di ottobre 1326 alla fine di ottobre dell’anno successivo, venne precisato che l’ultima quarta parte dell’officium notarie di torino la teneva proprio il «clavarius domini ibidem existens pro domino nunc et per tempora preterita, ut moris est»26. Il quadro va dunque pre-
tum». Sulle franchigie emanate da Amedeo vI nel 1360 – dopo la sua conquista dei domini del cugino Giacomo d’Acaia, reintegrato nei suoi possedimenti due anni dopo – e sul nuovo liber statutorum che espresse l’autonomia normativa del comune riconosciuta dallo stesso Amedeo vI, G.S. Pene vidari, L’autonomia legislativa: gli statuti, in Barbero - Pene vidari, Torino Sabauda cit., pp. 241-257. Sui quattro clavari comunali, che nulla avevano a che fare con il clavario sabaudo ed erano scelti tra i membri del consiglio di credenza, ma dal vicario e dal giudice sabaudi, Barbero, Il governo comunale cit., pp. 220-223. 22 Nell’aprile del 1454 il duca Ludovico di Savoia concesse alla comunità e agli uomini di torino, tra le altre cose, che potessero costituire «colegium unum notariorum [...] ita et taliter quod aliquis non possit in futurum recipere aliquod instrumentum seu instrumenta aliqua inter cives et habitatores thaurini in ipsis civitate et finibus nisi primo fuerit per ipsum collegium approbatus et incorporatus in eo et in matricula ipsius civitatis descriptus. [...]»: torino, Archivio storico della città, Guardaroba delle quattro chiavi, n. 21. 23 Si veda oltre il testo relativo alla nota 50. 24 torino, Archivio di Stato, Sezioni Riunite, Camerale Piemonte, art. 75, Par. 1, Conti del vicariato di torino (d’ora in poi ASto, Conti del vicariato di torino), mazzo 1-2, rotolo 4. 25 Ibid., rotoli 5, 6, 7, 8 in cui continuano a essere attestate solo tre delle quattro parti (fino al 1326). 26 Ibid., rotolo 9.
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cisandosi. I proventi connessi con la firma notarie curie Taurinensis erano, fino agli eventi traumatici degli anni trenta del trecento, un affare tutto sabaudo. dopo la congiura del 1334 della parte ghibellina torinese contro Filippo d’Acaia27, i principi firmarono una convenzione con il comune di torino, nota solo per via indiretta, in base alla quale dominus princeps debeat tenere et ponere ad officium dicte curie taurini duos notarios, quorum unus sit deputatus ad maleficia et alius clavarius qui pro tempore fuit in taurino pro domino sit alius notarius. et duo alii notarii eligantur per comune seu per conscilium dicte civitatis. et mutantur de tribus in tribus mensibus iuxta dictam conventionem28.
Una delle conseguenze della conventio venne registrata nel computo del clavario Martino Gay per il periodo 2 ottobre 1336-31 gennaio 1338 per l’anno: mentre al notaio di parte signorile venne condonata la censiva dovuta al principe per il buon comportamento tenuto nel reggere l’officio, il censo che avrebbero dovuto pagare gli altri due notai (si ricordi che il quarto era per consuetudine il clavario) non venne computato: « non computat quia remissa est dicta censiva ex conventione facta cum comune taurini, ut in computo precedenti»29. Così nel computo dell’anno successivo (31 gennaio 1338-1 febbraio 1339) venne ripetuto che la censiva dovuta dal notaio di parte signorile era stata rimessa mentre de aliis censivis dicte notarie que valere solebant octo florenos pro medietate, et clavarius tenet more solito reliquam quartam partem, non computat quia remisse sunt de novo per dominum pro conventione facta cum comuni, ut dicitur in computo precedenti30.
Nei computi successivi la nota che avvertiva della mancata entrata fu stringatissima31.
27 A. Barbero, La repressione dell’opposizione politica, in Barbero - Pene vidari, Torino Sabauda cit., pp. 229-241; vedi ora M. Gravela, Processo politico e lotta di fazione a Torino nel secolo XIV: la congiura del 1334 contro Filippo d’Acaia, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 108 (2010), pp. 483-551. 28 ASto, Conti del vicariato di torino, mazzo 1-2, rotolo 12: la conventio venne stipulata il 12 settembre 1335. 29 Ibid., mazzo 1-2, rotolo 13. 30 Ibid., mazzo 3-4, rotolo 14. 31 Ibid., mazzo 3-4, rotoli 15-21, 23, 24, 26, 27; ibid., mazzo 5-6, rotoli 31-43; ibid., mazzo 7, rotoli 44, 46, 47; ibid., mazzo 8-9, rotoli 49, 52, 54; ibid., mazzo 10, rotoli 55, ecc.
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L’esclusione dai ruoli di notai di curia dei non residenti – regola presente nella conventio del settembre del 1335, applicata dal comune, come si vedrà più avanti, nei mesi di settembre e ottobre dello stesso anno, poi recepita negli statuti del 1360 – è un punto importante, anche se rimanda, naturalmente, alla tutela dei margini di autonomia cittadina consueti per le città dominate degli stati tardomedievali. Lasciando da parte ogni altra considerazione, risulta chiaro che lo statuto provvedeva a riservare l’emolumento connesso alla carica del notaio di curia, qualunque esso fosse, a cittadini torinesi. Alla remunerazione del notaio di curia – addetto «ad offitium notarie et curie civitatis thaurinensis», e si intenda sia il tribunale criminale sia quello civile – è dedicato un lungo e articolato capitolo statutario. esso stabiliva la taxatio – vale a dire una tariffazione – molto accurata di atti e istrumenti posti in essere in curia da rilasciare alle parti e la gratuità, invece, della scrittura degli atti nei libri curie32. La gratuità del servizio nei confronti del comune, se può non stupire dopo quanto si è detto in apertura di questa relazione, poneva però dei problemi. A parte questi ultimi, di cui si dirà tra poco, va aggiunto che fonti più tarde informano in modo esplicito ciò che si poteva dedurre dai conti del vicariato di torino successivi al 1335: il notaio di parte comunale all’atto di entrare in carica era tenuto a pagare una somma di denaro destinata per intero – così prevedeva la conventio stipulata con gli Acaia – alle casse comunali. Il comune considerava importante quest’ultima entrata per le sue finanze, e più ancora doveva considerare importante la possibilità di scegliere due dei quatto notai di curia. Quando perse le due firme quarte partis notarie che gli spettavano e insieme la facoltà di nomina ad esse connessa finì per avviare un’azione legale contro il procuratore fiscale del duca di Savoia – poco prima della metà del Quattrocento33. Nella supplica al duca la comunità affermava di disporre da tempo immemorabile del diritto di nominare due dei quattro notai di curia e del diritto di percepire gli emolumenti della metà del notariatus curie. di tali diritti aveva goduto fino al tempo in cui aveva esercitato l’officio di giudice a torino, sedici o più anni prima, un certo Giovanni de Draconibus. Questi aveva spogliato il comune dei suoi diritti sulla scribania – questo il termine usato – e scelto a suo arbitrio e contro la volontà dei cittadini i notai a servizio della curia, che risultavano quindi, come si disse espressamente, tutti di parte principesca. Ne era derivato un aumento insostenibile, che dura-
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Gli statuti del Comune di Torino del 1360 cit., pp. 135-142, cap. 323. Per quanto segue Statuta et privilegia civitatis Taurinensis cit., pp. 593-60.
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va ancora a metà del secolo, delle spese per il rilascio degli atti giudiziari per coloro che adivano la curia cittadina, a causa del comportamento rapace dei notai. La comunità cittadina riportò una sostanziale vittoria nella causa. Il giudice sabaudo Guglielmo da Confienza sentenziò che la comunità dovesse rientrare in possesso sì della metà della scribania, ma della sola «medietas scribanie civilium causarum» – anzi, per essere più precisi, della sola metà «scribanie civilium dumtaxat causarum ordinarie curie thaurini» – assolvendo il fisco sabaudo dalle altre pretese comunitarie. Queste ultime vertevano, come è noto da una successiva sentenza d’appello, sugli emolumenti relativi alla scribania sia delle cause civili sia della giustizia criminale. Si ricordi che già la conventio del settembre 1335 prevedeva che, dei due notai di nomina sabauda, uno fosse deputato ad maleficia. In ogni caso, per tornare alla causa quattrocentesca sulla scribania, il duca Ludovico nel maggio 1450 confermò definitivamente la sentenza e prescrisse che il vicario e il giudice di torino, insieme con due notai deputati dalla comunità, procedessero ad una nuova taxatio e moderatio delle scritture curiali. In cambio il duca pretese cento ducati d’oro. ora, il pagamento da parte del notaio entrante nell’officio di una somma con cui, in definitiva, acquisiva il diritto di esercitarlo, rientrava in una categoria analoga a quella dell’appalto degli uffici locali. Ma, in senso più largo, la prassi torinese in questione e tutte le altre analoghe pratiche locali relative all’assegnazione degli offici in cambio di denaro sono in qualche modo confrontabili con usi assai meno formalizzati ma, fatte le debite proporzioni, dal significato simile. Si tratta dell’«arrière-plan financier […] dans le jeu des offices», secondo l’efficace definizione di Guido Castelnuovo34. tale sfondo finanziario costituì un elemento comune alle dinamiche di distribuzione degli offici in buona parte delle organizzazioni politiche principesche del tardo medioevo35. Per restare agli stati dei principi di Savoia, intorno agli anni ottanta del xIv secolo il legame tra credito e amministrazione acquisì un carattere di prevalenza: cominciarono a moltiplicarsi le concessioni di offici in favore di prestatori dei principi, prestatori di grosse o piccole somme, contabilizzate oltralpe sotto la rubrica
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Castelnuovo - Guilleré, Le crédit du prince cit., p. 160. Si veda per esempio Folin, Note sugli officiali degli stati estensi cit., pp. 118 ss. di questo tema si è parlato anche, da un punto di vista diverso ma complementare, in diverse relazioni lette al convegno su «Banca, credito e principio di cittadinanza a Roma tra Medioevo e Rinascimento», tenutosi a Roma nel novembre 2011.
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dei mutua super officiis e rimborsabili infatti sulle entrate connesse agli offici assegnati ai mutuanti36. Sistematicità a parte, non dovette trattarsi di novità. Anche se i dati di cui dispongo riguardo al notariatus curie torinese sono largamente incompleti, varrà forse la pena di aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione sulle questioni accennate. Per comprendere quale rilievo avesse l’acquisizione di un officio come quello di notaio di una curia cittadina nei percorsi di affermazione personale e familiare delle élites cittadine, occorrerebbe procedere a una serie di indagini prosopografiche su singole figure di notai. Che cosa speravano di ricavare dall’esercizio dell’officium notarie i ventotto notai che nel 1335, come si vedrà, si iscrissero alla lista degli eligendi per i due quarti dell’officium spettanti alla pars comunis? Un conto economico della gestione dell’officio non potrà mai essere fatto, ma certo non se ne doveva ricavare molto se il comune ebbe difficoltà, anni dopo, a trovare chi si sobbarcasse l’impegno. Bisognerebbe redigere una lista quanto più completa possibile dei notai che ebbero accesso all’officium curie37. L’unico strumento disponibile è costituito dalla serie degli ordinati superstiti che, di tre mesi in tre mesi, elencavano i notai di parte comunale estratti a sorte per tenere l’officio. I conti del vicariato invece, come si è visto, tacciono sui notarii curie di parte comunale dopo il 1335, dato che non pagavano nulla al principe all’atto di entrare in carica. essendo un altro quarto dell’officium destinato, come da tradizione, al clavario di nomina principesca, da non confondere con i clavari comunali, l’ultimo quarto dovrebbe essere il solo a figurare nei rotoli di conti. In effetti nel conto comprendente parte almeno del 1336 (la pergamena è lacunosa nella parte iniziale) si legge che le casse principesche avevano ricevuto quattro fiorini «de Nicolino Malcavalerio notario dicte curie confirmato et constituto ad maleficia, deputato per dominam principissam et per dominum principem sicut apparet per eorum litteras usque ad beneplacitum eorundem», pagamento dovuto per la «firma quarte partis dicti officii notarie» terminata nella Pasqua del 133638. Già il computo successivo informa però che i quattro fiorini che 36 37
Castelnuovo - Guilleré, Le crédit du prince cit. Si dispone di elenchi sistematici dei principali officiali in carica presso gli uffici comunali – vicari, giudici, clavari –, elenchi compilati sulla base degli ordinati conservati presso l’Archivio Storico della città di torino: L’amministrazione civica: funzionari sabaudi e ufficiali comunali, in Il palazzo di città a Torino, II, torino 1987, pp. 269-341. tali elenchi non comprendono i notai di curia. 38 ASto, Conti del vicariato di torino, mazzo 1-2, rotolo 12.
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Nicolino avrebbe dovuto pagare alla festa di Pasqua 1337 non erano stati contabilizzati «quia dominus de gratia specialis remissit et quitavit dictam censivam dum ‹Nicolinus› benefecerit in eodem officio», facendogli grazia anche della censiva contabilizzata nell’anno passato e delle censive future «si habuerit in officio supradicto»39. Nicolino Malcavalerio, membro di una importante famiglia torinese di parte popolare40, non era nuovo all’incarico. Già notaio di curia nel 1327, il suo nome torna negli ordinati, pagina dopo pagina, per il 1328 e il 132941. In quest’ultimo anno Nicolino venne eletto massario del comune per un anno, coprendo quindi due importanti cariche nello stesso tempo42. Negli anni successivi continuò ad essere il notaio di curia di maggiore rilievo: le lacune nella conservazione dei libri consiliorum costringono a saltare fino al 1333, quando ancora, oltre che notaio di curia, fu massario per due mesi in attesa che si trovasse un individuo idoneo a coprire la carica, che fosse «persona religiosa vel alius forensis»; mentre l’anno successivo il notarius curie Nicolino Malcavalerio venne incaricato, come aiutante di due membri della credenza, di occuparsi dell’eterna questione del ponte sul Po: un incarico che comprendeva anche funzioni notarili. Poi venne eletto per la prima volta, per quanto se ne sa, in una commissione di sapienti43. La sua carriera di notaio di curia e di membro dell’oligarchia cittadina ai vertici delle istituzioni comunali sarebbe durata ancora a lungo. Certo è che si giovò molto degli esiti della congiura antisabauda: il principe gli affittò per tre anni, a decorrere dal gennaio 1340, il cosiddetto pedagium marchionis, di cui gli Acaia prendevano la terza parte e un terzo era 39
Ibid., mazzo 1-2, rotolo 13: il computo riguarda il periodo dal 2 ottobre 1336 al 31 gennaio 1338. 40 Si veda A. Barbero, Un’oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattrocento, Roma 1995, ad indicem, s. v. Malcavalerio. La famiglia proveniva da Carignano, da dove nei primi decenni del trecento i fratelli Nicolino e Antonio erano giunti a torino per esercitare la professione notarile: si vedano, nel volume citato, le pp. 48-50. 41 Libri consiliorum 1325-1329, Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, ed. M. Baima, torino 1996 (Fonti, Archivio Storico della città di torino, 1), pp. 117, 120, 122, 133 ss., 139, 151, 153, 167, 171 ss., 184, 195, 210 ss., 219, 237 ss., 261, 263, 273, 273, 288 ss., p. 294; ASto, Conti del vicariato di torino, mazzo 1-2, rotolo 10. 42 Libri consiliorum 1325-1329 cit., pp. 214 s., 223. 43 Libri consiliorum 1333-1339, Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, ed. M. Baima, torino 1997 (Fonti, Archivio Storico della città di torino, 2), pp. 12, 14, 24 ss., 27, 31 ss. (massario del comune per un mese, carica poi prolungata), 58 ss. (impegnato come notaio nel rifacimento dei fossati del ponte del Po), 62, 81, 91, 99 (membro di una commissione di sapienti sui beni dei fuoriusciti), 103, 114 ss., 125. Si veda anche ASto, Conti del vicariato di torino, mazzo 1-2, rotolo 11: «de IIII florenis auri receptis de Nicolino Malcavalerio pro firma alterius quarte partis dicti officii notarie finita in festo Paschatis hoc
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di pertinenza di una famiglia di fuoriusciti, gli eredi di Bertoloto Zucca, ai quali il pedaggio era stato sequestrato44; aveva appaltato inoltre la firma della gabella del sale e del ferro45; ed era, soprattutto, creditore del principe, come si evince dai rotuli computorum, in uno dei quali, per fare un solo esempio, la cosiddetta firma paratoriorum gli risulta assegnata «usque ad integram solutionem unius debiti centum florenorum in quibus dominus sibi tenebatur»46. Le sue fortune pubbliche poggiavano quindi su una salda base finanziaria. d’altra parte quando, nel settembre del 1346, il principe Giacomo di Acaia pretese che i detentori della casana di torino gli prestassero trenta fiorini, ordinando al giudice e ai clavari di torino che in caso contrario interdicessero «eis prestum dicti loci» e chiudessero la casana, uno dei quattro casanieri era, per l’appunto, Nicolino Malcavalerio47.
anno MCCCxxxIII et soluta dicto termino»; ibid., mazzo 1-2, rotolo 12: «de IIII florenis receptis de Nicolino Malcavalerio notario dicte curie confirmato et constituto ad maleficia deputato per dominam principissam et per dominum principem sicut apparet per eorum litteras usque ad beneplacitum eorundem de firma quarte partis dicti officii notarie finita in festo Pascatis MCCCxxxvI». 44 Ibid., mazzo 3-4, rotolo 16: l’affitto ammonta a 5 fiorini annuali da pagare a Natale. dallo stesso conto risulta che Nicolino godeva di un’altra risorsa principesca: «de sex denariis turonensibus grossis debitis de firma cuiusdam prati domini ultra Sturiam per manum Nicolini Malcavalerii non computat pro anno MCCCxL mense augusti, quia pactum fuit inter dominum et dictum Nicolinum quod si propter aliquam guerram godiri non posset ipsum pratum a dicto ficto esse absolutus Nicolinus predictus, ut per litteras domini quas hostendit in computo». Per un orto presso la chiesa di San Saverio preso in enfiteusi da Nicolino nel 1348 si veda ibid., mazzo 3-4, rotolo 24. Si veda anche, per il pedaggio, ibid., mazzo 3-4, rotoli 17, 18. I beni o alcuni beni dei fuoriusciti tornati in città, tra cui i pedaggi, furono loro restituiti tra il 1344 e il 1345: si veda ibid., mazzo 3-4, rotolo 19. 45 Ibid., mazzo 3-4, rotoli 17, 18, 19, ecc. 46 Si tratta del computo che va dall’ottobre 1344 all’ottobre 1345: ibid., mazzo 3-4, rotolo 19; e cfr. rotolo 20: dei 50 fiorini dovuti per metà della «firma paratoriorum et vaucarum» di torino da frate Giovanni Rivayre «cui concessa fuerunt per dominum usque ad duos annos finiendos […] non computat quia Nicholinus Malcavalerius, cui dicta firma erat assignata usque ad integram solutionem centum florenorum in quibus dominus sibi tenebatur, ipsos habuerit et recepit cum aliis quinquaginta florenis contentis in computo precedenti, pro duobus primis terminis dicti anni. et sic satisfactum est dicto Nicolino integre de dictis centum florenos, et cetera». Su una vendita di grano effettuata per pagare quattordici fiorini a Nicolino ibid., rotolo 27 (1352-1353), dove anche sono attestati crediti di Nicolino nei confronti del dominus per 25 fiorini. Si veda anche ibid., rotolo 28; ibid., mazzo 5-6, rotolo 29. Ancora alla fine degli anni ottanta-inizi anni Novanta del trecento si procede a una «exoneratio debiti Nicolini Malcavalerii», ormai morto da qualche decennio, se la restituzione venne fatta ad Antonio Malcavalerio, agente in nome di se stesso «et nomine heredum Iacobi Malcavalerii heredum quondam Nicolini Malcavalerii»: ibid., mazzo 8-9, rotolo 50. 47 Libri consiliorum 1342-1349, Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, ed. S.A. Benedetto, torino 1998 (Fonti, Archivio storico della città di torino, 3), pp. 190 ss. Per
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Intanto, nell’ottobre del 1335 per la prima volta è documentata una elezione di notai mediante la tecnica dell’estrazione dei nomi «de buxolis notariorum»: vennero estratti prima i nomi dei due notai «qui servire debent officium notarie tribus mensibus presentibus usque ad kalendas ianuarii proxime venturas», poi i nomi di altri due notai destinati ad occuparsi della registrazione in libro dei nomi dei cittadini atti al rifacimento delle strade. L’espressione de buxolis notariorum può risultare oscura. In realtà nel corso del precedente mese di settembre la materia relativa alla scelta dei notai aveva ricevuto una sua sistemazione. Per prima cosa la credenza aveva deciso di eleggere una commissione di otto sapientes che insieme con il vicario e il giudice sabaudi mettesse ordine nella questione delle coppie di notai e scegliesse un certo numero di persone adatte all’officio di notai del comune («ponendi per ordinem cobias notariorum et elligendi usque ad certum numerum personas suficientes ad dictum officium»). I sapienti agirono in fretta, recependo alla lettera le concessioni principesche sollecitate per il comune dalla parte guelfa che, nella disastrosa congiura antisabauda del 1334, era rimasta fedele a Filippo d’Acaia48. tali concessioni prevedevano, tra l’altro, che la coppia di notai pro commune cambiasse ogni tre mesi a partire dal prossimo ottobre. venne quindi ordinato che si gridasse per la città che chiunque tra i notai desiderasse servire nell’«officium notarie» della curia cittadina49 provvedesse a farsi iscrivere in una lista che doveva essere redatta da Nicolino Malcavalerio, il quale, come si è già visto, era «notarius curie pro domino principe». La redazione della lista era finalizzata alla preparazione dei brevetos che dovevano poi essere estratti a sorte. I notai che si fecero iscrivere furono ventotto50. I sapienti avevano deciso insieme con il giudice che la lista doveva essere esaurita prima che un notaio che aveva già servito in curia per un trimestre potesse servire una seconda volta e che i notai eletti dovevano servire «per se ipsos et non per substitutos». Insomma, tutti i notai iscritti alla lista dovevano avere parte nell’officio e godere del lucro connesso. Inoltre, di quest’ultimo si poteva godere soltanto servendo personalmente, non affidando il lavoro a propri dipendenti. una interessante figura di prestatore e notaio esperto di diritto, che operò tuttavia a un livello assai più alto rispetto a quello raggiunto da Nicolino Malcavalerio, si veda L. Castellani, Rolando Garetti, uomo di fiducia di Amedeo V di Savoia, in Lombardi in Europa nel medioevo, cur. R. Bordone - F. Spinelli, Milano 2005, pp. 180-183. Si veda anche, nello stesso volume, M. Montanari, Un lombardo alla corte di Savoia: Ludovico Costa, pp. 206-209. 48 Si veda sopra, testo relativo alla nota 28. 49 Come era stato concesso dal principe, cambiando la coppia di notai pro commune ogni tre mesi a partire dall’ottobre prossimo 50 Libri consiliorum 1333-1339 cit., pp. 132-137.
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Lascio da parte, per ovvie ragioni di spazio, la questione dei possibili sostituti dei titolari dell’officio, per tornare invece alla periodica rotazione dei notai di curia. Le testimonianze sono estremamente frammentarie: dopo quella del 1 ottobre 1335, si conosce l’elezione del 1 gennaio 1336, poi una del 1338, poi quella del 1 aprile 1339, del 1 aprile 1342, del 5 luglio 1342, del 10 ottobre 1342. Il sistema non doveva funzionare benissimo, se il 30 gennaio 1343 veniva messo all’ordine del giorno il problema della mancanza di notai che volessero essere estratti a sorte per servire presso la curia («quod notarii pro communi ponantur ad serviendum curiam cum brevetis non reperiantur»)51: la credenza deliberò che si gridasse la possibilità per i notai della città di essere posti ad brevetum per servire in curia, dove avrebbero avuto «partem lucri banche». difficile che quest’ultima fosse una innovazione: è possibile però che si volesse garantire ai notai di parte cittadina un riequilibrio dell’emolumento. Non sembra, infatti, che notai di parte sabauda fossero soggetti alla rotazione prevista per i notai di nomina comunale, come invece sarebbe stato esplicitamente previsto dagli statuti del 1360: il Nicolino Malcavalerio sul quale mi sono intrattenuto, continuò a essere menzionato come notaio di curia in tutti gli anni per cui sono conservati i verbali dei consigli, sino al 1343. di conseguenza i notai di parte sabauda dovevano essere molto più esperti dei meccanismi della burocrazia curiale e in migliore posizione per sfruttare il mulino dei proventi giudiziari. occorre aggiungere che la difficoltà non stava solo nel reperire chi volesse servire in curia come notaio di parte comunale. Anche per il notaio addetto «ad scribendum rationes communis» sussisteva un problema simile: un punto all’ordine del giorno di un consiglio generale del gennaio 1346 riferiva come i possibili candidati ritenessero che il salario fino ad allora connesso alla funzione fosse insufficiente: il consiglio decise che si cercassero uno o due notai idonei «pro meliori precio quo poterint»52. Insomma, anche in questo caso sembra che l’organizzazione amministrativa del comune avesse un gran bisogno di essere meglio regolata e che proprio il problema dell’emolumento dei notai fosse uno dei più stringenti. e lo era anche perché permaneva quel carattere starei per dire classico, duecentesco, torelliano, del notariato cittadino: la sua spiccata energia contrattuale, derivante dalla funzione cardine che esso continuava a esercitare tra i poteri costituiti e il singolo privato.
51 52
Libri consiliorum 1342-1349 cit., pp. 92 ss. Ibid., pp.169 ss.
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Mi fermo qui. Il mio scopo era soltanto quello di mostrare la fecondità del problema che mi sono posto, provando a pormi sulla scia del contributo torelliano. L’importanza di quest’ultimo risiede anche nell’ampio spazio riservato allo studio della prassi, che suggerisce di indagare anche le pratiche che a prima vista sembrerebbero di minore interesse. Nel tardo medioevo sabaudo il caso della scribania torinese prova come il collegamento tra il lucro che il principe e il comune ritraevano dalla concessione di un officio notarile da una parte, e gli emolumenti che il notaio poteva ragionevolente aspettarsi dall’esercizio di esso dall’altra, generassero un intreccio gravido di conseguenze, fra le quali quella dell’esosità dei servizi di rilascio dei documenti è solo la disfunzione più nota. Il tipo di organizzazione burocratica, con tutti i suoi difetti, che conseguiva dal collegamento dei due diversi tipi di lucro non mancò di essere imitata. A partire dagli anni Sessanta circa del trecento, per quello che è dato sapere, la curia vescovile di torino si ristrutturò sulla base di principi molto simili a quelli che, si è visto, presiedevano all’organizzazione della curia civile53. Ciò che più interessa tuttavia, di là dai meccanismi burocratici e dalla rilevazione dei flussi finanziari, è quanto si intravede dietro gli scarni dati prosopografici offerti per quella che fu certamente la più rilevante figura di notaio di curia torinese di parte signorile della prima metà del trecento. Nicolino Malcavalerio fu insieme un uomo dedito all’attività feneratizia e un notaio impegnato nella sfera pubblica, esperto nei maneggi amministrativi e documentari della curia secolare torinese. Non sembra – lo si è visto di sopra, quando si è accennato alle difficoltà di reclutamento dei notai di curia di parte comunale – che il bilancio tra il dare e l’avere della carica in questione dovesse essere sempre positivo. Certamente non si trattava di un affare in termini economici. eppure Nicolino ne fece un asse della sua carriera, una carriera di costante vicinanza al principe, come uomo attivo negli uffici cittadini, soprattutto con funzioni notarili, e come creditore degli Acaia. Si tratta solo di uno spunto, in attesa di ricerche più ampie sui profili degli uomini che occuparono gli uffici periferici del principato d’Acaia e dei più ampi spazi sabaudi, uno spunto che pone in luce il rilievo dei valori immateriali connessi all’esercizio di funzioni pubbliche anche nell’ambito ristretto di una città tutto sommato minore come torino. La gestione degli affari pubblici era un segno di distinzione ricercato tra i
53 Mi permetto di rimandare a A. olivieri, Protocolli vescovili, offici notarili ed emolumenti professionali a Torino tra XIV e XV secolo, in Sit liber gratus quem servulus est operatus. Studi in onore di Alessandro Pratesi per il suo 90° compleanno, cur. P. Cherubini - G. Nicolaj, I, Città del vaticano 2012 (Littera antiqua, 19), pp. 693-709.
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membri dei ceti egemoni urbani del tardo medioevo italiano, anche in una cittĂ discosta dalle grandi correnti della cultura politica dellâ&#x20AC;&#x2122;Italia centrosettentrionale, e lâ&#x20AC;&#x2122;esercizio di funzioni pubbliche notarili continuava a esserne uno dei canali privilegiati.
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nel corso della lunga storia che vede intrecciarsi in una fitta e complessa rete i rapporti tra il comune genovese e il notariato cittadino, i cui risultati più immediati si riflettono negli esiti documentari, si possono enucleare due momenti fortemente connotati e diversamente significativi di situazioni politico-istituzionali differenti e di altrettanto diversificati atteggiamenti e ruoli sia dell’apparato cancelleresco sia del notariato locale che con gli organi di governo devono rapportarsi e collaborare1. Il primo di questi periodi si può circoscrivere nei decenni compresi tra il 1122 e gli anni Quaranta del secolo, il secondo nello spazio del governo del capitano del popolo Guglielmo Boccanegra (1257-1262). Già all’inizio del dodicesimo secolo è possibile cogliere a Genova i primi segnali di trasformazione del rapporto comune-notaio in qualcosa di diverso e più profondo anche rispetto a quel legame di fiducia, pur stretto e continuato nel tempo, che molti comuni italiani verranno progressivamente instaurando con uno o alcuni notai, come peraltro fanno gli enti religiosi, e che non necessariamente sottendono un rapporto di tipo funzionariale. A partire dai primi anni del secolo, infatti, ci sono state conservate le più precoci attestazioni scritte dell’attività del collegio consolare: si tratta soprattutto di sentenze e decreti amministrativi, le cosiddette laudes che
1 Queste tematiche sono state studiate, almeno per il XII secolo, a partire da Giorgio Costamagna: G. Costamagna, La convalidazione delle convenzioni tra Comuni a Genova nel secolo XII, «Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano», n. ser., 1 (1955), pp. 111-119; Costamagna, Note di diplomatica comunale. Il “signum communis” e il “signum populi” a Genova nei secoli XII e XIII, in Miscellanea di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1964, pp. 105-115; Costamagna, A proposito di alcune convenzioni medievali tra Genova e i comuni provenzali. Primo Congresso storico Liguria-Provenza (Ventimiglia-Bordighera, 25 ottobre 1964), Bordighera-Aix-Marseille 1966, pp. 131-136; Costamagna, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Roma 1970 (Studi storici sul notariato italiano, 1).
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Attilio Bartoli Langeli, con una felice formula, ha definito «come perno del sistema documentario consolare, come espressione formalizzata e identificativa dell’agire dei consoli»2. Datano infatti al febbraio 1104 le prime testimonianze del nuovo rapporto: in due documenti riguardanti gli accordi intervenuti tra il vescovo e alcuni privati il notaio-giudice Guinigiso dichiara che «hec convenientia facta fuit per laudacionem nostrorum consulum» e, nella sottoscrizione, di avere scritto «per laudem eorum»3; lo stesso atteggiamento terrà alcuni anni dopo, nel 1109 e nel 1116, nel sottoscrivere due lodi redatti «per laudem suprascriptorum consulum»4. Analogamente un altro notaio-giudice, Gisolfo, in un lodo del 1111, denuncia «per laudamentum suprascriptorum consulum, hoc breve scripsi»5, la stessa formula che utilizzerà ancora nel gennaio del 11226. Il pronunciamento dei consoli, in forza del quale i due notai operano, formalizza, con buona probabilità anche attraverso una scrittura, il legame
2 A. Bartoli Langeli, Il notariato, in Genova, Venezia, il Levante Levante nei secc. XIIXIV. Convegno internazionale di studi (Genova-Venezia, 10-14 marzo 2000), cur. G. ortalli - D. Puncuh, Genova-Venezia 2001 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 41/1; Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), pp. 73-101: 93; sui lodi consolari genovesi e i publici testes v. A. Rovere, I “publici testes” e la prassi documentale genovese, secc. XII-XIII, Roma 1997 (Serta Antiqua et Mediaevalia, 1), pp. 291-332. 3 Il Registro della curia arcivescovile di Genova, ed. L. t. Belgrano, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», 2/2 (1862), pp. 268, 392. non sembra da identificarsi con lui il notaio Guinigiso che nello stesso anno o nel 1105 (il documento non è databile con esattezza per la discordanza degli elementi cronologici) scrive il più antico lodo pervenutoci sottoscrivendosi con la semplice formula «hanc laudationem scripsi»; con lui si sottoscrive anche il giudice Raimondo: «ego Raimundus scripto iudex subscripsit <così> in isto». La qualifica (non fa riferimento allo status di giudice) e il signum, diverso rispetto a quello del giudice Guinigiso (anche se il documento ci è pervenuto in copia il redattore ha riprodotto anche il signum), riconducono infatti a due diverse figure: Roma, Archivio Doria-Pamphili, Liber instrumentorum monasterii Sancti Fructuosi de Capite Montis. Codice A, c. 8r. 4 Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano di Genova (965-1327), ed. M. Calleri, Genova 2009 (Fonti per la storia della Liguria, 23), n. 104; Roma, Archivio DoriaPamphili, Liber instrumentorum cit. La parte che tramanda il documento del 1116, insieme ad altri lodi riguardanti il possesso dei falchi di Capodimonte, è tramandata in copia autentica redatta dal notaio Bonacursus de Bonacurso in data 11 maggio 1289 e riporta anche il signum del notaio confrontabile con quello del documento originale dello stesso, del 1109, conservato nelle carte del monastero di Santo Stefano. 5 Le carte del monastero di San Siro di Genova (952-1328), ed. M. Calleri, Genova 1997 (Fonti per la storia della Liguria, 5), n. 73. 6 torino, Archivio di Stato, Carte dell’abbazia di San Benigno, mazzo I, n. 11: si tratta di una copia semplice imitativa. Per l’edizione v. G. Salvi, Le origini e i primordi della badia di S. Benigno di Capodifaro di Genova, «Rivista Storica Benedettina», 9 (1914), pp. 116-119.
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che consente loro di omettere nelle sottoscrizioni le formule e il riferimento alle procedure – in quegli anni ancora tipiche della charta, sia pure ormai svuotate del primitivo significato – che porrebbero il comune sullo stesso piano di un qualsiasi privato. Il procedimento seguito sembra invece rivelare l’esistenza già a partire dal 1104 di un embrione di organizzazione finalizzata alla redazione del documento consolare – di certo non ancora strutturata in una vera e propria cancelleria, che com’è ben noto, si definirà solo nel 1122 –, organismo fondato su pochi notai (nel primo ventennio del XII secolo abbiamo notizia solo di questi due) attivi per periodi piuttosto lunghi (12 anni l’uno, 11 l’altro), probabilmente in forza di un unico decreto consolare7. La qualifica di giudice, ribadita da entrambi con regolarità nelle sottoscrizioni, a fronte dell’omissione di quella di notaio8, riporta inoltre a una categoria direttamente collegata all’autorità imperiale, alla quale il comune si rivolge, preferendola, in questa prima fase ai semplici notarii di nomina locale e quindi minati da un’intrinseca debolezza e per questo inadatti a offrire la massima garanzia agli atti comunali. Si delinea così una situazione analoga a quella prefigurata da Pietro torelli, secondo il quale nel XII secolo le scritture prodotte dal comune «non
7 Gisulfo è attivo come notaio tra il 1097 e il 1126: Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano cit., nn. 95 (una locazione del 1097 che il notaio sottoscrive con il tipico formulario della charta: «ego qui supra Gisolfus iudex, scriptor huis carte conveniencie, postraditam complevi et dedi»), 104; Le carte di Santa Maria delle Vigne di Genova (11031392), ed. G. Airaldi, Genova 1969 (Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 3), nn. 1, 2; Le carte del monastero di San Siro cit., nn. 66, 70, 73, 75, 79. tra il 1104 e il 1132 è attivo Guinigiso: Il Registro della curia arcivescovile cit., pp. 268, 292; Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano cit., nn. 103-105; Le carte di Santa Maria delle Vigne cit., n. 4; Le carte del monastero di San Siro cit., nn. 85, 88. Sempre nello stesso periodo si ha notizia solo di un altro giudice, Marchio, attivo tra il 1100 e il 1138: Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano cit., nn. 97, 100, 106, 108-110, 112, 125; Le carte del monastero di San Siro cit., nn. 56, 68, 93; Liber Privilegiorum Ecclesiae Ianuensis, ed. D. Puncuh, Genova 1962 (Fonti e studi di storia ecclesiastica, 1), n. 9. 8 Si verifica una situazione opposta rispetto a quella rilevata per i due secoli precedenti, quando di molti redattori di documenti si conosce la qualifica di iudex solo da notizie indirette, preferendo questi richiamare, nelle sottoscrizioni, quella di notarius: si può ricordare il caso di Silverado, attivo tra il 999 e il 1027, che si definisce solo notarius quando sottoscrive documenti, solo iudex, quando compare come testimone, usa la qualifica completa, notarius et iudex sacri palacii, in un unico caso, in un’aggiunta in note tachigrafiche al termine della completio di un documento: A. Rovere, Il notaio e la publica fides a Genova tra XI e XIII secolo, in Hinc publica fides. Il notaio e l’amministrazione della giustizia. Convegno Internazionale di Studi Storici (Genova, 8-9 ottobre 2004), cur. V. Piergiovanni, Milano 2006 (Consiglio nazionale del notariato. Per una storia del notariato nella civiltà europea, 7) pp. 291-322: 296.
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hanno valore di atti pubblici per ragione dell’autorità che li emana», il che accadrebbe solo durante il secolo seguente9. La situazione è però destinata a modificarsi rapidamente per lasciare spazio a un progetto unitario e organico che investe redattori degli atti, forma e struttura testuale, modalità redazionali e procedure di convalidazione della documentazione. Il primo passo è costituito dall’istituzione della cancelleria, percepita come un momento fondante nell’organizzazione globale che si tenta di dare all’apparato statuale, se Caffaro la ricorda negli Annali – al 1122 come si è detto, in coincidenza con l’istituzione del consolato annuale –, ponendo scribi e cancellieri sullo stesso piano dei clavarii, che prefigurano la costituzione di una struttura amministrativo-finanziaria10. Da questo momento il cancelliere – una figura difficilmente definibile e soprattutto connotata da caratteristiche differenti nel tempo – e i notai, progressivamente organizzati nelle scribanie che con la specializzazione dei diversi consolati e degli uffici si vengono differenziando, procedono all’individuazione di elementi caratterizzanti, all’elaborazione delle tipologie documentarie per mezzo delle quali i consoli svolgono la loro azione di governo e il comune si rapporta con l’esterno e all’individuazione di adeguati sistemi di convalidazione, il tutto in stretto rapporto con gli organismi politici11. Da sottolineare come cancellieri e scribi continuino a lungo a definire nella sottoscrizione il proprio rapporto con il comune attraverso il richiamo alla iussio o al preceptum, senza specificare la posizione occupa-
9 P. torelli, Studi e Ricerche di Diplomatica Comunale, I, «Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 4 (1911), pp. 3-99: 12; torelli, Studi e Ricerche di Storia Giuridica e Diplomatica Comunale, Mantova 1915 (Pubblicazioni della R. Accademia Virgiliana di Mantova, 1), pp. 101-288; entrambi i saggi sono ora raccolti in volume, col titolo della prima parte, nella collana Studi storici sul notariato italiano, 5, Roma 1980. Sull’argomento v. anche: D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congrès de la Commission internationale de Diplomatique (Gand, 25-29 août 1998), cur. W. Prevenier - th. De Hemptinne, Leuven-Apeldoorn 2000, pp. 383-406, anche in Puncuh, All’ombra della Lanterna. Cinquant’anni tra archivi e biblioteche: 1956-2006, cur. A. Rovere - M. Calleri - S. Macchiavello, Genova 2006 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 46), pp. 727-753. 10 Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, ed. L.t. Belgrano - C. Imperiale di Sant’Angelo, Roma 1890-1929 (Fonti per la storia d’Italia, 11-14 bis), I, pp. 17-18. 11 Sui cancellieri e i notai al servizio del comune v. A. Bartoli Langeli, Il notariato cit.; A. Rovere, L’organizzazione burocratica: uffici e documentazione, ibid., pp. 103-128; Rovere, Comune e documentazione, in Comuni e memoria storica: alle origini del Comune di Genova. Convegno di studi (Genova, 24-26 settembre 2001), Genova 2002 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 42), pp. 261-298; Rovere, Cancelleria e documentazione a
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ta nell’ambito dell’apparato burocratico, che talvolta conosciamo solo attraverso fonti indirette, prima fra tutte gli Annali12. Uno degli interventi iniziali si rivolge al sistema di datazione, sottoposto all’introduzione di un’indizione che, pur ponendo il 24 settembre come momento di inizio dell’anno analogamente a quella bedana, utilizzata dalle cancellerie maggiori, se ne differenzia perché segna un’unità in meno: l’indizione genovese appunto, che, affermatasi almeno a partire dagli anni Venti, connoterà tutta la documentazione pubblica e privata cittadina13. Un’azione significativa e totalmente imputabile alla volontà dei consoli è l’istituzione, nel 1125, dei publici testes (ancora una volta è Caffaro a darcene notizia) « qui se scribunt in laudibus et in contractibus », sottoscrittori quindi degli atti pubblici e dei documenti privati. Si tratta di testimoni qualificati, scelti tra i «periti viri venustate atque legalitate fulgentes», spesso giudici, ai quali è affidato il compito di «contractus et testamenta atque decreta manu notarii scripta, que legaliter fieri posse conspicerent eorum subscriptionibus firmarent»14 che, come ho avuto modo di verificare, sono presenti, almeno negli atti del comune, solo alla fase della scritturazione e che soppiantano, a partire dal 1130, gli usuali testimoni, presenti invece sia all’actio sia alla scriptio. La nomina da parte dei consoli, il ruolo che questi si impegnano a svolgere, per giuramento, e la posizione delle loro sottoscrizioni – dopo quella del notaio, a differenza dei testimoni delle charte che si sottoscrivevano prima di lui – sembrano connotarli come garanti nei confronti del comune del corretto operare dei notai. nello stesso periodo proprio i notai procedono invece all’elaborazione del lodo consolare, già iniziata nei primi anni Venti, come si può constatare nei pochi esemplari superstiti in cui sembra di poter cogliere una pro-
Genova (1262-1311), in Studi in memoria di Giorgio Costamagna, cur. D. Puncuh, Genova 2003 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 48/1- 2), pp. 909-941. 12 Al tema del rapporto notaio-comune, anche nella fase di prima costituzione della nuova realtà istituzionale cittadina, ha dedicato particolare attenzione G.G. Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti, Spoleto 1977; Fissore, Alle origini del documento comunale: i rapporti tra i notai e l’istituzione, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento. Atti del Convegno (Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 29/2), pp. 99-128; Fissore, Il notaio ufficiale pubblico dei comuni italiani, in Il Notariato italiano del periodo comunale, cur. P. Racine, Piacenza 1999, pp. 47-56; sul passaggio dal notariato al funzionariato v. A. Bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Culture et idéologie dans la genèse de l’état moderne, Roma 1985, pp. 38-45. 13 M. Calleri, Gli usi cronologici genovesi nei secoli X-XII, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser. 39/I (1999), pp. 25-100. 14 Annali genovesi cit., p. 23.
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gressiva definizione della struttura testuale, rispetto alle più antiche testimonianze, composte in forma libera. La trasformazione si fa più evidente verso la fine del decennio, per compiersi nel 1131, quando per la prima volta le caratteristiche di tutti gli elementi del testo, oltre che delle parti protocollari ed escatocollari, si cristallizzano in quella forma che rimarrà costante per quasi un secolo, differenziando nettamente il lodo dal coevo instrumentum. tra gli elementi più significativi si deve senza dubbio rilevare la costanza dell’intervento dei publici testes, che acquista un peso ancora più rilevante se rapportata al totale disinteresse dei privati nei confronti di questa garanzia che il comune aveva messo a loro disposizione: non un solo esempio ci attesta, infatti, il ricorso ai publici testes nei documenti privati, che pure per questo periodo ci sono stati conservati in buon numero. I lodi costituiscono, inoltre, l’unica tipologia documentaria comunale in cui il notaio è autorizzato a utilizzare il proprio signum personale: per altri atti, limitati come i lodi a una circolazione interna, vengono, infatti, ben presto introdotti signa particolari, per primo il signum comunis, attestato dal 1140 (con il quale viene convalidata la documentazione emanata dai consoli del comune), in seguito quelli distintivi dei consoli dei placiti e dei diversi uffici, in sostituzione del notarile15. Una rimarchevole e invasiva presenza a tutti i livelli degli organi istituzionali si concretizza inoltre nella procedura di autenticazione delle copie, che almeno dal 1144 vengono convalidate in forza di un lodo con il quale i consoli riconducono a sé il potere certificatorio, attribuendo all’exemplum lo stesso valore dell’«exemplar ad quod hoc factum fuit». Al notaio è riservato solo il ruolo di estensore, come si legge nelle sottoscrizioni, «precepto suprascriptorum consulum transcripsi», e verbalizzatore della procedura seguita16. Ben altro significato rivestono invece i documenti con i quali il comune si rapporta con l’esterno: i trattati e le convenzioni. Condizionati, anche dal punto di vista formale, dall’incontro di due volontà e dal diverso peso politico delle stesse, che rende difficoltosa l’individuazione dell’apporto di ogni parte, costituiscono però una vetrina di prim’ordine attraverso la quale è possibile rappresentare autonomia e forza documentaria. Alla metà degli anni trenta le convenzioni che vedono come attore il comune genovese presentano già la struttura testuale tipica: gli impegni sono
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Costamagna, Note di diplomatica comunale cit. A. Rovere, Notariato e comune. Procedure autenticatorie delle copie a Genova nel XII secolo, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 37/2 (1997), pp. 93-113.
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divisi in due parti distinte in un atto, la cui unicità è segnata dalla presenza di un solo escatocollo nel quale si colloca la data cronica, ma in cui spicca la mancanza di quella topica e delle presenze testimoniali, assenze che rappresentano l’elemento peculiare della costruzione genovese, unitamente alla convalidazione, affidata al sigillo e alla carta partita, usati contemporaneamente nello stesso documento o in alternativa. L’autenticazione sia dei patti bilaterali con altre istanze di potere a diversi livelli, sia dei documenti collegati agli aspetti amministrativi e politici limitati al dominium, è quindi affidata a due elementi di matrice e significato differenti e per certi aspetti contrastanti: la carta partita, caratterizzata da un procedimento meccanico, utilizzata in altre realtà per la convalidazione del documento privato, e il sigillo, prettamente cancelleresco, progressivamente adottato a partire dagli anni Quaranta da molti comuni italiani. La particolarità che li accomuna è l’essere entrambi svincolati dalla pratica notarile. Diverso significato riveste l’uso della bolla plumbea, simbolo di sovranità politica, oltre che di forza documentaria, già in uso a Genova dal 1146, che prefigura un’istituzione ormai in grado di attribuire al documento carattere di atto pubblico in forza della propria autorità. Un comune che guarda con tanta attenzione alle caratteristiche della produzione documentaria non può che essere particolarmente sensibile alla conservazione della stessa: tale cura è ben evidente e si manifesta da un lato con la precoce istituzione di un archivio17 nel quale accogliere anche le scritture d’ufficio, certamente i libri consulatus, attestati nei primi anni trenta, e i cartolari iteragentium, la cui più antica testimonianza risale al 1159, dall’altro attraverso la raccolta della documentazione in volume. Il secondo progetto trova la sua applicazione concreta all’inizio degli anni Quaranta, allorché, quasi simultaneamente a un’analoga iniziativa della sede arcivescovile, viene intrapresa la compilazione del più antico liber iurium, del quale ci rimangono solo attestazioni indirette, che costituisce la prova tangibile della presa di coscienza del valore fondante delle scritture e, nel contempo, della responsabilità di conservarne memoria18.
17 A. Rovere, Sedi di governo, sedi di cancelleria e archivi comunali a Genova nei secoli XII-XIII, in Spazi per la memoria storica. La storia dei Genovesi attraverso le vicende delle sedi e dei documenti dell’Archivio di Stato di Genova. Convegno internazionale di studi (Genova, 7-10 giugno 2004), cur. A. Assini - P. Caroli, Roma 2009 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 93), pp. 409-426. 18 D. Puncuh - A. Rovere, I Libri Iurium della Repubblica di Genova. Introduzione, Genova-Roma 1992 (Fonti per la storia della Liguria, 1; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 12).
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tutti gli elementi che sono stati fino a questo momento quasi solo elencati in un rapido excursus definiscono fin nel dettaglio un panorama nel quale i ruoli del governo cittadino e della cancelleria risultano delineati in modo netto. ne emerge un comune non solo fortemente coinvolto in tutti gli stadi della documentazione e sensibile alla conservazione, ma in grado di individuare, grazie alla collaborazione con il notariato locale, gli aspetti più significativi dei processi documentari che lo stesso notariato è poi chiamato a piegare alle nuove esigenze, dando applicazione concreta a scelte operate in sede politica. Istituzione di publici testes, adozione di signa alternativi rispetto a quelli notarili per la documentazione interna, ricorso a forme di convalidazione che non prevedono la mediazione della publica fides del notaio per quella pattizia, copie alle quali solo i consoli attribuiscono valore giuridico sono esito di interventi politici troppo limitativi del ruolo più alto di cui è investito il notaio, quello della convalidazione, per poter pensare che la cancelleria non li subisca, ben conscia forse della posizione di debolezza in cui la nomina locale pone il notaio, chiamato a mettere al servizio del comune solo la propria preparazione tecnica. La risposta del notariato a questa politica di spersonalizzazione e di limitazione della sua funzione più prestigiosa è immediata e a mio parere eloquente: l’elaborazione di un signum professionale atto a riassegnare all’intera categoria e al singolo la centralità che il comune sembra volergli negare. Il nuovo simbolo, che fa la sua prima comparsa negli anni trenta, perdurando immutato almeno fino a tutto il XIV e parte del XV secolo, si incentra, infatti, sul pronome Ego variamente elaborato, anche in forme monogrammate, e, con la sua unicità, rappresenta non solo il singolo, ma l’intera categoria. Difficile individuare se sulle scelte del comune possa essere stato determinante e abbia costituito un problema il dover far ricorso al notariato locale e quanto, quindi, siano state obbligate dall’impossibilità di trovare in città redattori di atti universalmente riconosciuti o se, piuttosto, non si tratti di una scelta deliberata a fronte di altre possibilità. Qualche piccolo segnale può essere illuminante. La scomparsa dalla scena dei due notai-giudici che avevano a lungo e fattivamente collaborato con i consoli proprio fino al gennaio del 1122, ancora presenti e attivi in ambito cittadino come redattori di documenti per il monastero di San Siro (Gisolfo almeno fino al 112619, Guinigiso fino al 113220) sembra significativa, pur non potendosi escludere con certezza che discontinuità nella conservazione abbiano occultato qualche interven19 20
Le carte del monastero di San Siro cit., nn. 75, 79. Ibid., nn. 85, 88.
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to; altrettanto eloquente la presenza in città come rogatari in questi decenni di almeno altri due giudici, Marchio, che non sembra fare mai parte della cancelleria21, e Arnaldo, la cui attività si allunga per circa un trentennio, che in un un’unica occasione, nel 1160, sottoscrive un lodo per ordine dei consoli22. I molti giudici che figurano tra i publici testes o tra i testimoni nei documenti privati, assumendo talvolta la carica di console, forse non hanno invece mai svolto la professione notarile, ma potrebbero avere messo la loro competenza in ambito giuridico e giudiziario al servizio del comune e dei privati. La prospettiva con la quale il governo consolare guarda al notariato sembrerebbe quindi radicalmente modificata: se nei primi due decenni della sua esistenza il ricorso a notai-giudici era parsa la soluzione più adeguata per supplire all’incapacità certificatoria del recente istituto, ora proprio gli stessi potrebbero far scivolare in secondo piano il ruolo nella convalidazione della documentazione a cui il comune aspira. In questa chiave di lettura non sembra casuale che il governo cittadino torni ad avvalersi di un giudice, Guglielmo Caligepalii, nominato cancelliere, al quale finalmente affida la convalidazione dei documenti pattizi, ma solo dopo il riconoscimento ottenuto dalla città da parte di Federico I nel 1162, che per la prima volta si rivolge consulibus et comuni Ianue, affermando la giurisdizione sul districtus da Monaco a Portovenere23. Inizia qui, nel momento in cui non è più così importante per il comune rappresentare la propria autonomia e sovranità politica attraverso la produzione documentaria, il percorso a ritroso del documento comunale genovese, al quale l’introduzione stabile dell’istituto podestarile imprime una brusca accelerazione che lo riporterà in linea con le esperienze di altri comuni per quanto riguarda sia le forme documentarie, sia i sistemi di convalidazione degli originali, sia, infine, le procedure di autenticazione delle copie. 21
Il giudice Marchio è attestato per un arco cronologico molto ampio, dal 1080 al 1136, e può essere ancora il rogatario di un documento del 1148 pervenutoci in copia autentica: ibid., nn. 56, 68, 93; Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano cit., nn. 97, 100, 106, 108-110, 112, 125. 22 Arnaldo è attivo dal 1148 al 1175: ibid., nn. 124, 126, 139, 152, 156, 159; Le carte del monastero di San Siro cit., n. 130 (lodo del 15 maggio 1160 da lui sottoscritto). 23 Il primo trattato sottoscritto da un notaio è quello con il re di Sardegna Barisone del 1164, convalidato solo attraverso le sottoscrizioni di Giovanni scriba, e, per parte sarda, di Ugo, vescovo di Santa Giulia: Genova, Archivio di Stato (d’ora in poi ASG), Archivio Segreto, 2720, n. 44 a. Guglielmo Caligepalii nel redigere i lodi fa riferimento alla sua posizione attraverso il richiamo al preceptum; solo in due documenti pattizi ricorda la qualifica di cancelliere: I Libri Iurium cit., I/2, ed. D. Puncuh, Genova-Roma 1996 (Fonti per la storia della Liguria, 4; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 23), nn. 408, 444. esclusivamente nella ratifica del trattato con l’imperatore Isacco Angelo ricorda anche
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Un dato certo è la sostanziale e costante estraneità dei cancellieri genovesi alla vita politica nel corso dei secoli: questi, infatti, non rivestendo mai un ruolo attivo e propositivo nei confronti delle scelte dei vertici istituzionali, risultano affidabili e la cancelleria può così permanere invariata nella composizione a lungo e con il cambiare dei regimi politici, garantendo nel tempo continuità documentaria e dando attuazione a progetti a lungo termine. Rispetto a questa completa autonomia costituisce un’eccezione il periodo del capitanato di Guglielmo Boccanegra, quando cancelleria e documentazione subiscono gli effetti della rapida realizzazione di un progetto volto all’accentramento del potere nelle mani di un’unica persona, della quale divengono duttile strumento24. L’effetto più immediatamente percepibile è la progressiva, ma completa scomparsa degli scribi che fino al momento dell’insediamento del Boccanegra erano attivi presso gli uffici comunali, sostituiti da un nuovo apparato cancelleresco, la cui organizzazione non sembra tuttavia essere soggetta a rilevanti cambiamenti strutturali e di funzionamento. La novità più significativa consiste, invece, in un rapporto più stretto e quasi personalistico tra gli scribi e il capitano del popolo – che con buona probabilità ha proceduto in piena autonomia alla loro scelta –, maggiormente avvertibile dal 1259, rapporto maturato forse nel contesto del progetto di una maggiore personalizzazione del potere conseguente alla congiura dei nobili che proprio in quell’anno il Boccanegra si trova a sventare: lo rivelano le qualifiche loro riconosciute di «notarii curie domini capitanei »25 o, in un caso, di «scriba domini capitanei et populi Ianue »26, che acquistano particolare valore perché estranee alla consueta prassi genovese. quella di giudice («notarius sacri Imperii et iudex ordinarius atque Ianue cancellarius»: ASG, Archivio Segreto, 2721, n. 40), manifestando una particolare sensibilità nell’instaurare rapporti gerarchici tra i trattati a seconda del peso politico della controparte e dell’importanza degli accordi. Puntualmente usa il formulario dell’instrumentum (rogatus scripsi) quando l’autore non è il comune, come nel documento del 1168 in cui opizzo Malaspina giura fedeltà all’arcivescovo di Genova e si impegna alla convenzione con il comune: I Libri Iurium cit., I/1, ed. A. Rovere, Genova-Roma 1992 (Fonti per la storia della Liguria, 2; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 13), n. 218; analogamente in una convenzione del comune con Guglielmo, marchese di Monferrato, del 1176, forse perché incaricato della scritturazione da entrambe le parti (ASG, Archivio Segreto, 2722, n. 6). 24 Sulla cancelleria e il documento durante il capitanato di Guglielmo Boccanegra v. Rovere, Comune e documentazione cit. 25 Questa qualifica è attribuita a cinque notai presenti in qualità di testimoni a un atto del 1261: I Libri Iurium cit., I/5, ed. e. Madia, Genova-Roma 1999 (Fonti per la storia della Liguria, 12; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 29), n. 882. 26 Così è definito nel 1259 Festa de Rivarolia: ibid., I/4, ed. S. Dellacasa, Genova-Roma 1998 (Fonti per la storia della Liguria, 11; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 28), n. 742.
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Il disegno del capitano del popolo di circondarsi di persone di fiducia culmina, forse nello stesso anno, con la scelta del cancelliere, il fratello ogerio, già presente tra gli scribi nel 125827. Si tratta di un personaggio di assoluta qualità e di elevate capacità professionali che lo porteranno, nel pieno della maturità e al termine dell’esperienza genovese – certamente a partire dal 1272 – al servizio dell’imperatore bizantino Michele VIII, con il quale era entrato in contatto probabilmente in occasione della stipula del trattato del ninfeo nel 1261. A lui il Boccanegra affianca altri personaggi appartenenti alla sua cerchia parentale in ruoli chiave del governo comunale, come il fratello Marino, direttore dei lavori nel cantiere del molo, e soprattutto ammiraglio alla guida della flotta genovese inviata nel 1261 in aiuto del Paleologo contro i Veneziani, e che con Rainaldo e Lanfranco nello stesso anno fa parte degli Anziani; un altro Boccanegra, Guglielmo, è podestà di Savona nel 1258. Ancora al 1259, anno cruciale nella vicenda politica del Boccanegra, risale gran parte degli interventi che toccano aspetti diversi della produzione documentaria, a partire dall’utilizzazione di forme particolarmente solenni (formula devozionale «Dei gratia capitaneus comunis et populi Ianuensis», arenga, narrazione, sanctio) nell’atto in cui viene dichiarata l’illegittimità dell’appalto dei redditi comunali di durata superiore a un anno e riassegnato al comune il godimento delle sue rendite con palese danno per le famiglie eminenti, private di una notevole fonte di guadagno. La partecipazione del popolo convocato a parlamento è sottolineata dal duplice fiat che sancisce il consenso a un’azione forte, alla quale non prendono 27 tutte le attestazione sul ruolo di scriba di ogerio Boccanegra e sulla sua attività anteriori al 1258 rintracciate da L. Pieralli, La corrispondenza diplomatica dell’imperatore bizantino con le potenze estere nel tredicesimo secolo (1204-1282). Studio storico-diplomatistico ed edizione critica, Città del Vaticano 2006 (Collectanea archivi vaticani, 54), p. 90, risalgono invece proprio a quest’anno o a quelli di poco successivi. Pieralli riporta infatti per errore al 1248 una convenzione tra il comune e l’arcivescovo di Genova, risalente al 1258, in cui il Boccanegra compare con la qualifica di scriba tra i testimoni (Liber privilegiorum cit., p. 346). negli altri due casi lo stesso attribuisce l’intervento dello scriba al 1251 e al 1254, data di due documenti tramandati in copia autentica. Il primo però è estratto in copia solo nel 1260 dallo stesso ogerio (divenuto nell’edizione Rogerius per cattiva lettura del nome scritto in literae elongatae) «de quaterno consilii», non redatto da lui: I Registri della Catena del comune di Savona, II/1, edd. M. nocera - F. Perasso - D. Puncuh - A. Rovere, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 26/2 (1986), «Atti e Memorie della Società Savonese di Storia Patria», n. ser., 22 e in Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 10, n. 18. Lo stesso è presente in qualità di testimone, come notarius comunis Ianue, alla copia e non alla redazione di un documento del 1254, realizzata il 4 settembre 1258: I Libri Iurium cit., I/6, ed. M. Bibolini, Genova-Roma 2000 (Fonti per la storia della Liguria, 13; Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 32), n. 1059.
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parte né podestà, né consiglio, esteriorizzata anche nella formalizzazione documentaria28. testimoniano della determinazione del capitano del popolo nell’accentrare sulla propria persona tutte le prerogative già di pertinenza di altre figure istituzionali i mandati delle copie autentiche e dei pochi originali estratti dai cartolari di notai defunti, che riportano sempre e solo a lui (fino a quel momento erano intervenuti in tal senso sia il podestà, sia il «gerens vices consulis Ianue de iusticia deversus burgum») che «statuens et laudans quod cum originali habeat vim eandem» riconquista quella posizione nodale nella convalidazione, alla quale i notai in questo periodo fanno sempre riferimento nei verbali di autentica, mentre negli ultimi decenni solo raramente se ne trova traccia. È possibile che sia invece da attribuire all’intervento del podestà Martino da Fano, giurista e autore di opere giuridiche, la comparsa, proprio a partire dal 1260, anno in cui riveste tale carica, di brani relativi alla presenza nella documentazione sia pubblica sia privata di giudici e giurisperiti «qui dictaverunt instrumentum», non potendo con ciò «advocare contra instrumentum quod dictaverint», forse come mezzo per garantire al documento un ulteriore elemento legittimante di matrice pubblica, da un lato, come garanzia al di sopra delle parti, dall’altro. Un’ultima azione riguarda infine la convalidazione degli atti di politica estera, e sembra volta a distinguere nettamente la nuova forma di governo: risulta, infatti, completamente abbandonata la bolla plumbea, quasi di sicuro perché considerata il simbolo più manifesto e identificativo dei precedenti regimi. ne dà ulteriore conferma la radicale trasformazione del sigillo cereo che, lasciata la consueta tipologia, si caratterizza per il simbolo pacifico dell’Agnus Dei cui si contrappone il motto quasi minaccioso « PLeBS IAnI MAGnoS RePRIMenS, eSt AGnUS In AGnoS»29. Il particolare riguardo in cui il Boccanegra tiene la produzione documentaria si manifesta anche con la ripresa della compilazione dei libri iurium, da lui voluta dopo che aveva segnato il passo per alcuni anni, e questa volta la finalità non sembra solo quella di marcare, attraverso un’ac28 29
I Libri Iurium cit., I/4, n. 741. Il sigillo genovese si discosta dalla quasi generalità di quelli dei governi popolari la cui raffigurazione riporta la figura del santo protettore della città. Il simbolo dell’Agnus Dei compare, oltre che a Genova, a Siena e a Bressanone, ma solo nel trecento: su questo argomento v. G.C. Bascapé, Sigillografia. Il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell’arte, Milano 1969, I, pp. 224-231, 258-262. L’immagine è riprodotta in Bascapé, Sigilli medievali di Genova, «Bollettino Ligustico per la storia e la cultura regionale», 13/1-2 (1961), pp. 17-20: 19.
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curata conservazione, il periodo del proprio governo, bensì di provvedere alla conservazione della memoria storica cittadina, prevedendo il recupero della più significativa documentazione risalente ad anni precedenti, sulla quale tuttavia non è possibile verificare se sia stata o meno operata una scelta mirata. Questi anni non trascorrono senza lasciare conseguenze nettamente avvertibili: nonostante all’indomani della deposizione del Boccanegra la cancelleria venga integralmente rinnovata nella composizione, così come era successo nel momento del suo insediamento, la posizione assunta da scribi e cancellieri durante il suo governo e in particolare lo stretto rapporto personale che si era venuto a creare compromettono la credibilità dell’intero apparato burocratico comunale. Sembra costituirne prova una disposizione statutaria – di cui i documenti ci danno notizia a partire proprio dal 1263 – in forza della quale si poteva procedere alla redazione definitiva degli atti attestanti le decisioni del Consiglio e di tutti quelli stesi nel cartolare « instrumentorum compositorum in consilio » per mano di un subscriba palacii solo dopo che erano stati sottoposti all’esame di una commissione, composta da un rappresentante di ogni compagna cittadina e da due giudici o giurisperiti30. Il ricorso a questa procedura per le delibere consiliari si può spiegare con il timore che, come probabilmente era già accaduto, il redattore, piegandosi alla volontà dell’autorità cittadina più influente, potesse verbalizzare in modo non del tutto corretto o, peggio, non tenesse nel dovuto conto delibere già assunte. Più difficile trovare motivazioni per l’applicazione della stessa disposizione oltre che alle vendite di diritti, terre e altri beni immobili al comune e alle ratifiche di trattati di pace31, ai trattati veri e propri sui quali ha ripercussioni più pesanti per quanto riguarda l’autonomia redazionale della cancelleria32. Un ulteriore effetto della crisi sembra da riconoscersi nella scelta di formare una commissione composta da quattro cittadini stimati e di sicura attendibilità, due dei quali esperti di diritto, alla quale affidare la redazione degli Annali cittadini; questa commissione, rinnovata inizialmente
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ASG, Archivio Segreto, 2724, nn. 36, 49, 50; 2737 A, n. 35: P. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni politiche della Repubblica di Genova (958-1797). Regesti, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 1 (1960), nn. 365-368. 31 I Libri Iurium cit., I/5, nn. 825, del 5 maggio 1267; 826, del 5 marzo 1267. 32 ASG, Archivio Segreto, 2724, n. 48; Lisciandrelli, Trattati cit., n. 364; I Libri Iurium cit., I/5, n. 824: si tratta della convenzione con Carlo I, re di Sicilia, del 12 agosto 1269 e di quella con Piacenza, del 31 marzo 1270.
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ogni due o tre anni, in seguito rimane in carica per periodi più lunghi e soppianta gli scribi e la cancelleria nel suo insieme che fino al 1264 se ne erano fatti carico su mandato degli organi di governo33. Anche questa è solo una breve parentesi: già con l’instaurarsi del governo dei due capitani del popolo, oberto Doria e oberto Spinola, nel 1270, la situazione sembra a poco a poco tornare alla normalità e nel XIV secolo, soprattutto nella seconda metà dello stesso e ancora nei primi anni del XV, decenni segnati da una persistente instabilità politica, solo la cancelleria sarà in grado di offrire garanzie alla documentazione prodotta e continuità conservativa, seguitando a esercitare la propria funzione senza bruschi scossoni al di là del continuo alternarsi dei dogi e dei diversi regimi politici. A questo proposito vale la pena di accennare brevemente a una figura di spicco attiva in questo periodo, ma esempio valido per tutte le epoche del costante attaccamento dei cancellieri ai compiti che vengono loro affidati e testimonianza di quanto abbiano acquisito la piena consapevolezza del rilievo del loro ruolo per quanto riguarda la conservazione della memoria di quelle azioni di governo alle quali partecipano direttamente e che attraverso le loro mani acquisiscono forme destinate ad assicurare loro forza giuridica. Si tratta di Antonio di Credenza, cancelliere e archivista del comune per molti decenni (il suo servizio continua per oltre un sessantennio), al quale vengono affidati numerosi e delicati compiti. Una funzione alla quale è chiamato assume un particolare significato in questo contesto: nel 1363 è incaricato di custodire gli iura et privilegia del comune e di continuare la redazione del nuovo liber iurium, mandato confermato nel 1413 e che svolge ancora almeno fino al 1427. Il risultato della sua fatica si quantifica in due esemplari del registro che contano 399 documenti, inseriti con diversi versamenti, coincidenti in genere con i periodi di maggiore stabilità politica, e attraverso i quali il cancelliere riesce «a tradurre in struttura
33
A partire dal 1225, dopo la morte di Marchisio, la stesura degli Annali viene affidata collegialmente a tutta la cancelleria e rimane rigorosamente anonima: G. Petti Balbi, Caffaro e la cronachistica genovese, Genova 1982, pp. 55-82. Dal 1264 al 1269 Guglielmo di Multedo svolge questo compito con regolarità fungendo, con molta probabilità, da elemento di continuità all’interno delle commissioni che via via si susseguono. Il racconto degli eventi dal 1269 al 1279 è affidato a un’unica commissione, che opera però in un momento imprecisato. A questo proposito e sull’opera di Iacopo Doria, che, dopo aver fatto parte della commissione, opera poi autonomamente, v. G. Arnaldi, Gli annali di Iacopo D’Oria, il cronista della Meloria, in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria. Atti del Convegno (Genova, 24-27 ottobre 1984), Genova 1984 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 24/2), pp. 585-620.
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documentaria le istanze del potere grazie a una precisa strategia nella selezione e disposizione»34. La singolarità del suo operare, al quale dà forza e continuità non un semplice mandato dogale, ma una disposizione contenuta nelle Regulae che guidano il nuovo governo comunale, costantemente richiamata dal cancelliere, consiste nella notevole autonomia con la quale sembra agire, soprattutto in alcuni periodi segnati dal disinteresse delle istituzioni. Lo rivela chiaramente la richiesta di una franchigia avanzata nel 1423 da Antonio per il figlio tomaso, nella quale scrive di avere tenuto presso di sé il registro «tamquam suum suisque impensis ac laboribus confectum», specificando «velut rem suam», espressione quest’ultima subito depennata probabilmente perché, pur corrispondendo al proprio atteggiamento, doveva essergli sembrata un’esternazione eccessiva, soprattutto a fronte del disinteresse del governo precedente al quale solo casualmente pervenisset ad aures la stessa esistenza del liber. Proprio «in premium et mercedem supradicti voluminis» il governatore visconteo e il consiglio degli Anziani gli concedono quanto richiesto (ossia che il figlio possa godere delle stesse immunità, franchigie ed esenzioni di cui lo stesso Antonio gode), pagando così al cancelliere un servizio che egli aveva continuato a svolgere per il comune anche nei periodi nei quali non aveva goduto di un mandato che legittimasse il suo operato.
34 F. Mambrini, Strategie cancelleresche e strategie di potere nella Genova trecentesca: il Liber iurium II, in Civis/Civitas. Cittadinanza politico-istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna. Atti del Seminario internazionale (Montepulciano, 10-13 luglio 2008), cur. C. tristano - S. Allegria, Montepulciano 2009, pp. 295-309: 309.
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VALERIA LEONI NOTAI E COMUNE A CREMONA TRA XII E XIII SECOLO NOTE SUI DOCUMENTI PATTIZI TRA IL COMUNE CREMONESE E LE CITTÀ DELLA REGIONE PADANA (1183-1214)
Nell’efficace quadro introduttivo alla diplomatica comunale che Attilio Bartoli Langeli traccia nel suo saggio dedicato al notaio Iacobino, attivo nell’ambito del Comune perugino tra periodo consolare e podestarile, l’autore esordisce sottolineando il significato ideologico-politico dei «documenti notarili di pertinenza comunale (ovvero i documenti comunali di genesi notarile), e specialmente [dei] documenti pattizi». E prosegue affermando: «Né ciò vale soltanto per il momento genetico [di essi] (commissione, elaborazione, formalizzazione scritta); anche il “dopo” dei documenti, i modi cioè della loro conservazione, lettura, utilizzazione […] rivela la sostanza ideologica e politica che in ambito comunale assunsero le pratiche documentarie»1. Ci sembra che a partire da tali considerazioni possano essere formulate alcune osservazioni sul caso cremonese. Pietro Torelli dedica a Cremona alcune pagine (circa quattro) nella prima parte dei suoi Studi e ricerche di diplomatica comunale2, soffermandosi soprattutto, secondo l’impostazione data alla ricerca, sulle tracce, in particolare sulla presenza di qualifiche, che aiutino a definire il rapporto
1 A. Bartoli Langeli, Tra consoli e podestà. Iacobino (Perugia, 1201-1218), in A. Bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, pp. 109-135: 109. Il saggio riprende per la prima parte, cui si riferisce la nostra citazione, un precedente scritto dello stesso autore: A. Bartoli Langeli, Notariato, documentazione e coscienza comunale, in Federico II e le città italiane, cur. J.-C. Maire Viguer - P. Toubert, Palermo 1995, pp. 264-277. 2 P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale [Parte prima], «Atti e memorie della Regia Accademia Virgiliana di Mantova», n. ser., 4 (1911), pp. 81-84 (ristampa anastatica P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 1980).
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tra notaio e Comune3. Gli esempi forniti sono pochi e discontinui: né poteva essere diversamente, data l’esiguità delle fonti edite4 e il carattere di novità, sottolineato dallo stesso Bartoli Langeli5, che le ricerche di Torelli avevano al tempo; notiamo, in particolare, che il Codice diplomatico cremonese di Lorenzo Astegiano, pubblicato poco più di un decennio prima, infatti, pur comprendendo un’esaustiva disamina sotto forma prevalentemente di regesto dei documenti del Comune di Cremona, fornisce dati occasionali ed esigui sui notai che li avevano prodotti6. L’attuale panorama delle fonti comunali edite o comunque approfonditamente studiate pare consentirci alcune più ampie considerazioni. L’edizione di documenti del Comune di Cremona e una sintetica presentazione del panorama delle fonti cremonesi è offerta da Le carte cremonesi, pubblicate da Ettore Falconi tra il 1979 e il 1988, il cui limite cronologico si colloca alla fine del XII secolo7. Più recentemente chi scrive ha curato in sede di dottorato, conclusosi nel 1997, l’edizione del Codice A dell’archivio del Comune di Cremona8, che, nel suo nucleo originario, redatto tra l’ultimo decennio circa del XII secolo ed i primi quindici-venti anni del XIII, può essere senz’altro considerato, uno dei più antichi libri iurium comunali9. In questa sede, tuttavia, si vorrebbe fare principale riferimento ad un lavoro che sempre chi scrive ha condotto in collaborazione con Massimo Vallerani: l’edizione cioè dei patti conclusi tra Cremona e le città della regione padana tra il 1183 e il
3 Torelli giunge alla conclusione che ancora nel primo decennio del XIII secolo «i notai comunali non si attribuiscono […] nella sottoscrizione loro alcuna carica espressa» (Torelli, Studi e ricerche [Parte prima] cit., p. 84). 4 Le citazione documentarie di Torelli sono tratte perlopiù da F. Robolotti, Repertorio diplomatico cremonese ordinato e pubblicato per cura del Municipio di Cremona, volume primo dall’anno DCCXV al MCC, Cremona 1878; L. Astegiano, Codex diplomaticus Cremonae (715-1334), Torino 1895-1898 (Regia Deputazione sopra gli studi di storia patria delle antiche provincie e della Lombardia. Historiae Patriae Monumenta edita iussu Caroli Alberti, Series II, XXI-XXII). 5 Bartoli Langeli, Tra consoli e podestà cit., p. 110. 6 Astegiano, Codex diplomaticus Cremonae cit.. 7 Le carte cremonesi dei secoli VIII-XII, cur. E. Falconi, Cremona 1979-1988 (Ministero per i Beni culturali e ambientali, Biblioteca statale di Cremona, Fonti e sussidi, I/1-4). 8 Il Codice A del Comune di Cremona, ed. V. Leoni. Tesi di dottorato in Diplomatica (IX ciclo), Università degli Studi di Genova, Facoltà di Magistero, Tutore e coordinatore: prof. Dino Puncuh, [1997]. 9 V. Leoni, Il Codice A del Comune di Cremona, in Comuni e memoria storica. Alle origini del comune di Genova. Atti del convegno (Genova, 24-26 settembre 2001), cur. D. Puncuh, Genova 2002 (Atti della Società Ligure di Storia Patria, n. ser., 42/1 [CXVI]), pp. 171-193.
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121410. Ci sembra infatti che da esso emergano alcuni dati di un certo interesse riguardo al ruolo svolto da alcuni notai in rapporto all’istituzione comunale e alla sua progettualità politica. L’ipotesi di partenza che, a nostro parere, giustificava un’edizione dei documenti relativi alle alleanze concluse tra il Comune cremonese e le città padane in quell’arco di tempo era anzitutto l’idea che, pur nella varietà dei soggetti interessati, esse non fossero il frutto di interventi occasionali ma fossero caratterizzate da una certa progettualità politica11. Di qui anche la decisione di non pubblicare i documenti individuati in semplice ordine cronologico ma di riunirli per “operazione pattizia”12. Ci sembra che l’ipotesi sia risultata confermata dal punto di vista storico-contenutistico, come evidenziano le analisi svolte da Vallerani nell’introduzione e nelle conclusioni, ma che essa abbia trovato giustificazione anche dal punto di vista della produzione e della tradizione documentaria. In questo ambito un ruolo non certo secondario fu svolto dai notai coinvolti nella produzione di tali documenti. I termini cronologici considerati, 1183-1214, collocano il periodo di nostro interesse proprio al passaggio tra comune consolare e comune podestarile13, un periodo che, come ripetutamente sottolineato da diplomatisti e storici medievali quali Paolo Cammarosano14, Attilio Bartoli Langeli15 e lo stesso Torelli, è sicuramente caratterizzato da una forte intesa tra notariato e comune. Questo vale sicuramente anche nel caso cremonese. 10 I patti tra Cremona e le città della regione padana (1183-1214), premessa e edizione dei documenti, repertori e indici cur. V. Leoni; introduzione generale e conclusioni M. Vallerani, Cremona 1998 (numero monografico di «Bollettino storico cremonese», 5). 11 Su progettualità politica e rapporti intercittadini nella regione lombarda tra XII e XIII secolo si vedano M. Vallerani, La politica degli schieramenti, in Vallerani, La politica degli schieramenti: reti podestarili e alleanze intercittadine nella prima metà del Duecento, in G. Andenna - R. Bordone - F. Somaini - M. Vallerani, Comuni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, Torino 1998 (Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, VI), pp. 427-453; M. Vallerani, I rapporti intercittadini nella regione lombarda tra il XII e il XIII secolo, in Legislazione e prassi nell’Europa medievale (secoli XI-XV), cur. G. Rossetti, Napoli 2001, pp. 181-254. 12 Riferimento ideale per il nostro progetto è stato senz’altro offerto dai volumi della collana Pacta Veneta, cur. A. Bartoli Langeli - G. Ortalli - M. Pozza - G. Ravegnani, pubblicati dal 1990 (inizialmente dalla casa editrice Il Cardo, Venezia, quindi dal 2000 da Viella, Roma). 13 Nel 1182 Cremona fu governata dal primo podestà forestiero, forma di governo che fino al 1216 tuttavia si alternò con regimi consolari e di podestà cittadini (cfr. Astegiano, Codex diplomaticus Cremonae cit., II, pp. 179-183). 14 P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al “Caleffo Vecchio” del Comune di Siena, Siena 1988; P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 125-150. 15 Si veda in particolare il saggio citato alla nota 1.
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Poche sono le tracce esplicite di un rapporto funzionariale notaioComune. Considerando i documenti del Comune di Cremona per il periodo indicato da noi editi nella tesi di dottorato Il Codice A e nel volume qui considerato, oltre a quelli contenuti nell’inedito Codice Iesu16, possiamo fornire le seguenti indicazioni: nel 1188 Lanfrancus de Crexenço e Oto de Ustiano compaiono quali testimoni al giuramento di un patto tra Cremona e Parma con la qualifica di «notarii de civitate Cremona»17, nello stesso anno i due notai citati compaiono unitamente al notaio Avantius sempre come presenti in un altro patto con Parma con la qualifica di «scribe potestatis»18, Avantius è menzionato nuovamente con la qualifica di «scriba potestatis» in un terzo documento relativo ad accordi commerciali tra Cremona e Parma del 118919. Tali scarne indicazioni relative alla menzione di qualifiche che facciano esplicito riferimento ad un legame “funzionariale” con il Comune non esauriscono certo le possibilità di indagine sul rapporto tra istituzione comunale e notariato cremonesi tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII. Dalla documentazione pervenutaci emerge senza dubbio una partecipazione del notariato – e di alcuni notai in particolare – in quanto protagonista impegnato su più fronti, tra i quali individuiamo senz’altro la partecipazione attiva all’elaborazione di operazioni documentarie complesse; la capacità di tradurre in testi giuridicamente e politicamente efficaci le istanze del Comune cremonese nei suoi rapporti con altri Comuni e autorità; il coinvolgimento dei notai nell’applicazione di modalità di produzione e trasmissione dei documenti comunali tali da garantire una più sicura conservazione, ma anche e soprattutto capaci di assicurare un facile reperimento e un’agevole disponibilità delle scritture: a questo ci sembra rispondano pratiche quali la scrittura dello stesso documento in doppio originale, su singola pergamena e su bifoli poi riuniti a formare codici, oltre alle stesse modalità di scrittura su un solo lato (carne) della pergamena dei bifoli stessi per facilitare inserimenti e spostamenti dei bifoli anche una volta raccolti in liber20. 16 Cremona, Archivio di Stato (d’ora in poi ASCr), Comune di Cremona, Fondo Segreto, Codici, n. 2. Su questo liber comunale sia consentito rinviare al contributo Leoni, Il Codice A cit., pp. 186-188. 17 I patti tra Cremona cit., pp. 49-54, n. I.3: 52. 18 Ibid., pp. 55-56, n. I.6: 56. 19 Edito in Il Codice A, ed. Leoni cit., pp. 427-429, n. 141; già edito in Le carte cremonesi, ed. Falconi cit., IV, p. 128, n. 683. 20 Per i documenti su “libro”, per riprendere un’espressione di Cristina Carbonetti, del Comune di Cremona sia consentito rinviare al contributo Leoni, Il Codice A cit..
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Ma esaminiamo ora alcune delle più importanti operazioni pattizie del Comune tra XII e XIII secolo, soffermandoci in particolare sul ruolo in esse svolto da alcuni notai21. Il primo patto incluso nella nostra edizione è quello del 1183 con Parma, confermato nel 1188, cui si affiancano tra il 1188 e il 1207 alcuni documenti tesi a stabilire un equilibrio tra le due città alleate e Piacenza22. I dodici documenti individuati e pubblicati in questa prima sezione sono rogati da notai diversi23, quattro di essi sono tràditi in forma di minuta non sottoscritta o copia semplice che non riporta la sottoscrizione dell’originale. Un ruolo di particolare rilievo sembra tuttavia svolgere il notaio Avantius, professionista che ritroveremo anche in seguito. Il testo del patto concluso il 18 agosto 1183 con Parma è molto tormentato24. Esso è costituito dal giuramento di alleanza dei Parmensi verso i Cremonesi; il documento presenta una doppia tradizione: è contenuto in copia autentica nel già citato Codice A del Fondo Segreto dell’archivio del Comune di Cremona e in copia semplice nel Codice Croce, conservato nello stesso fondo25. Entrambe le copie derivano da originali sottoscritti dal cremonese «Iohannesbonus notarius domini Frederici»: pur indicando la stessa data, presentando un testo in larga misura coincidente e riportando la sottoscrizione dello stesso notaio rogatario, le due copie non derivano tuttavia da uno stesso documento originale. A parte alcune lievi differenze nel dettato, che non sembrano attribuibili ai redattori delle copie, la copia tràdita dal Codice A presenta nella seconda parte alcune incongruenze difficilmente comprensibili: in particolare nelle clausole che fino a
21 L’edizione è suddivisa in otto sezioni, ciascuna delle quali riunisce i documenti relativi ad una stessa “operazione pattizia” che ha per protagonisti oltre naturalmente a Cremona una o , come nel caso delle reti di alleanze, più città. 22 I patti tra Cremona cit., pp. 37-69, nn. I.1-I.12. 23 Compaiono quali rogatari dei patti «Iohannesbonus notarius domini Frederici imperatoris», il parmense «Ranfredus notarius invictisimi imperatoris Frederici», «Avantius sacri palatii notarius», «Iohannes sacri palatii notarius», «Iohannes domini Henrici imperatoris notarius», «Otto notarius sacri palatii», «Nicola sacri palacii notarius». 24 I patti tra Cremona cit., pp. 44-49, n. I.2. 25 Il cosiddetto Codice Croce è un piccolo volumetto pergamenaceo, redatto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, in cui sono raccolti in copia semplice ventotto documenti, datati tra il 1157 ed il 1192: si tratta di atti relativi a rapporti tra il Comune di Cremona e il monastero di San Sisto per la giurisdizione su Guastalla, Luzzara e Castelnuovo Bocca d’Adda, di patti e accordi con altre città, di investiture di mulini da parte del Comune di Cremona e di privilegi concessi dagli imperatori Enrico VI e Federico I. Cfr. Leoni, Il Codice A cit., pp. 185-186.
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quel momento avevano espresso gli impegni dei Parmensi verso i Cremonesi i due soggetti della pattuizione risultano invertiti26. Le contraddizioni risultano spiegabili solo attraverso il confronto con un testo privo di formalità e sottoscrizioni, nel quale sono riconoscibili più strati di redazione, conservato anch’esso tra le pergamene del Fondo segreto dell’archivio del Comune di Cremona27. Il testo sembra essere a prima vista la minuta della conferma del 1188 del giuramento di alleanza dei Parmensi verso i Cremonesi del 1183: la data del 1188 che compare nelle prime righe tuttavia è sicuramente un’aggiunta successiva. Il testo principale fu scritto con ogni probabilità nel 1183. Esso contiene il giuramento dei Parmensi verso i Cremonesi ed è costituito, nella prima stesura, dalla versione scorretta, oggi tràdita dal Codice A, con correzioni apportate, pare proprio dalla stessa mano, nei punti che prima abbiamo definito incongruenti e che in effetti risultano corretti nel secondo documento rogato da Iohannesbonus e oggi tràdito in copia semplice dal Codice Croce. Comprende inoltre alcune clausole relative all’aiuto in guerra presenti nella conferma del 1188 e in nessuna delle due redazioni prima menzionate del 1183. Il testo completo e corretto del giuramento – corredato dalla data e da una clausola finale relativa alle modalità di approvazione in consiglio di modifiche e aggiunte al patto – corrisponde esattamente al documento datato 20 dicembre 1188, tràdito in copia semplice nel Codice Croce dove non è riportata la sottoscrizione del rogatario. I due patti confermano quindi l’utilizzo di scritture preparatorie, conservate dal Comune, sulle quali si lavorava anche a distanza di tempo per l’elaborazione di importanti operazioni, prolungate nel tempo, con altri Comuni. Ma l’esame del testo dei documenti già citati e di altri di questo primo gruppo attinenti ai rapporti con Parma e Piacenza permettono anche altre considerazioni relative al ruolo svolto dai notai. Il confronto paleografico tra la minuta del 1183/1188 e alcuni originali di Iohannesbonus consentono di affermare che essa non fu scritta da questo notaio. Essa fu molto più probabilmente scritta e corretta dal notaio Avantius. 26 A titolo puramente esemplificativo, alla clausola che nella nostra edizione si apre con
queste parole: «Item rationes faciam hominibus Cremone et episcopatus et districti per me vel per personas ad hoc constitutas secundum consuetudinem civitatis Parme» segue poco più sotto la clausola in cui si dice: «Et bona fide operam dabo ut potestas et consules Cremone iurent observare et attendere huiusmodi concordiam», in cui i soggetti della pattuizione risultano palesemente invertiti. 27 I patti tra Cremona cit., pp. 41-44, n. I.1.
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Avantius è uno dei pochi professionisti cremonesi esplicitamente citati da Pietro Torelli che afferma che tale notaio è menzionato come scriba del podestà cremonese comes Girardus, unitamente a due colleghi Oto de Ustiano e Lanfranchus de Crescente, in un documento, anch’esso compreso nella nostra edizione, datato 23 dicembre 1188, in cui si stabilisce una deroga al patto appena concluso tra Cremona e Parma, grazie al quale i Parmensi potranno concludere una pace con i Piacentini28. Esso è l’ultimo di tre documenti scritti di seguito, in copia semplice, nel Codice Croce dove non sono riportate le sottoscrizioni notarili. Nel testo tuttavia Avantius è esplicitamente citato con l’espressione «in presentia mei Avantii notarii», chiaro riferimento alla sottoscrizione del professionista non riportata dalla copia semplice. Dato che esso è l’ultimo di tre documenti, datati 20 e 23 dicembre 1188, relativi tutti allo stesso oggetto, i rapporti con Parma e scritti di seguito tutti in copia semplice senza sottoscrizione nello stesso Codice Croce, è possibile pensare che tutti e tre siano stati rogati in originale dallo stesso notaio Avantius che risulterebbe quindi essere autore dell’originale del giuramento dei Parmensi verso i Cremonesi, datato 20 dicembre 1188, del documento cioè tratto dalla nostra minuta nella sua ultima versione. Risulterebbero così avvalorate le considerazioni sul redattore della minuta del 1183/1188 da noi formulate sulla base del confronto paleografico. Sempre per quanto riguarda accordi tra Cremona e Parma, «Avantius, notarius et scriba potestatis», è rogatario di un documento, tràdito dal Codice A, ma non incluso nella nostra edizione di patti, datato 11 maggio 1189, contenente un accordo tra il conte Girardo, podestà di Cremona, e Alberto Sommi, console dei mercanti della stessa città, e Ugo di Tebaldo e Pegolotto di Oragnano, rispettivamente console e console dei mercanti di Parma, riguardante i contratti conclusi tra Cremonesi e Parmensi29. Notiamo che la qualifica di scriba potestatis compare nel testo del documento30, mentre nella sottoscrizione Avantius si qualifica «sacri palatii notarius» ed opera «rogatu suprascriptarum partium»31.
28 29
Torelli, Studi e ricerche [Parte prima] cit., p. 83. Edito in Il Codice A, ed. Leoni cit, pp. 427-429, n. 141; già edito in Le carte cremonesi, ed. Falconi cit., IV, p. 128 n. 683 30 Così si conclude il testo della pattuizione, prima della menzione dei testimoni: «Et unaquaque pars sibi ad invicem interroganti promisit suprascripta omnia deinceps firma et rata tenere. Ad eterne (sic) rei memoriam habendam et retinendam et ad plenam probationem habendam in his publicis actis redegi et scripsi parabola suprascriptarum partium ego Avantius, notarius et scriba suprascripte potestatis». 31 Questa la sottoscrizione completa: «Ego Avantius, sacri pallatii notarius, interfui et hec duo brevia in uno tenore facta rogatu suprascriptarum partium scripsi».
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Di nuovo, nel 1202 Avantius roga un istrumento, datato 29 agosto Parma, contenente il precetto di Corrado Sommi32, podestà di Cremona, a Guido Lupo, podestà di Parma, affinché i Parmensi impediscano il passaggio di merci sulla strada che conduce a Piacenza, sottoscrivendo, anche in questo caso, «Avantius notarius sacri palatii […] hanc cartam rogatus scripsi»33, senza menzionare la qualifica di scriba potestatis. La redazione di un testo concordie tra Cremona e altri soggetti ripreso a distanza di tempo dallo stesso o da altri notai caratterizza anche la seconda delle “operazioni pattizie” concluse da Cremona: la lega, per citare il termine usato da Vallerani, stretta inizialmente tra Cremona, Pavia e Bergamo e successivamente allargata temporaneamente, sotto l’egida dell’imperatore Enrico VI, a Lodi e Como34. Nel 1191 il notaio cremonese Avantius, all’epoca scriba potestatis del podestà di Pavia, il cremonese Alberto Sommi35, redige l’instrumentum che contiene il testo del giuramento di alleanza dei Pavesi verso i Bergamaschi; l’alleanza è poi giurata da Alberto Sommi, podestà di Pavia, dai rappresentanti del Comune di Bergamo e dai consoli di Cremona, tra i quali figura anche il console Girardo Sommi36. Notiamo che la qualifica di Avantius quale scriba del podestà non è menzionata né nel testo né nella sottoscrizione del documento del 119137, ma compare come riferimento indiretto nel documento del 119938, in cui, come vedremo, i Pavesi giurano alleanza con Bergamo e Cremona. Il ruolo del Comune cremonese appare formalmente defilato, ma in realtà l’operazione è orchestrata proprio da Cremona: il podestà di Pavia è un cremonese, il notaio rogatario è il suo scriba, il documento, destinato tra l’altro come vedremo a fungere da
32 Sulla famiglia Sommi, uno dei più potenti lignaggi vescovili, i cui membri occuparono posizioni di rilievo nell’ambito del Comune cremonese fin dalle sue origini, si veda F. Menant, Cremona in età precomunale: il secolo XI, in Storia di Cremona. Dall’Alto Medioevo all’età comunale, cur. G. Andenna, Azzano San Paolo 2004, pp. 106-197: 172-173. 33 I patti tra Cremona cit., pp. 63-64, n. I.10. La data topica dell’atto è «in pallatio civitatis Parme, in quo fit credentia Parme». 34 Ibid., pp. 71-75. 35 Sull’interscambio di podestà tra città alleate e sul ruolo guida assunto da Milano e Cremona quali “esportatrici” di podestà nella regione padana cfr. le pagine introduttive di Vallerani in I patti tra Cremona cit., pp. 10-12 e i suoi contributi ivi citati. 36 I patti tra Cremona cit., pp. 76-78, n. 2.1. 37 La sottoscrizione completa del documento è: «Ego Avantius sacri pallatii notarius interfui et hanc cartam concordie rogatu suprascriptarum partium scripsi et in publicam formam redegi», ibid., p. 78. 38 Ibid., pp. 96-98 n. 2.8. Nel documento del 1199 si fa esplicito riferimento al precedente del 1191 con queste parole: «Hec sunt nomina illorum de credentia Papie qui iura-
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testo-base per i successivi sviluppi dell’operazione, è conservato nell’archivio cremonese (pur non escludendo che dello stesso documento potessero essere stati rogati anche altri originali, oggi non più reperibili, conservati negli archivi delle altre città coinvolte). Il patto del 3 maggio 1191 si sviluppò in una più ampia alleanza promossa dall’imperatore Enrico VI che coinvolse, oltre a Cremona, Bergamo, Pavia, i Comuni di Como e Lodi e il marchese di Monferrato. Il 24 settembre 1191 presso Breme il marchese di Monferrato giurò l’alleanza verso Cremona, Pavia, Bergamo, Como e Lodi39; nei giorni 7 e 8 dicembre l’alleanza si estese formalmente anche a Lodi e Como i cui rappresentanti giurarono nel palazzo arcivescovile di Milano probabilmente alla presenza dello stesso Enrico VI40. Tale fase culminò nel 1192, quando il 9 giugno l’imperatore concluse un’alleanza con le città aderenti alla lega41. Il documento presenta la forma del diploma imperiale, si tratta tuttavia di un atto di natura sinallagmatica che nella prima parte contiene gli impegni dell’imperatore verso gli aderenti alla lega (il marchese di Monferrato, Cremona, Pavia, Lodi, Bergamo e Como), nella seconda parte la promessa di ciascuno dei partecipanti alla lega di salvaguardia, difesa e recupero dei diritti imperiali. Probabilmente furono emanati tanti diplomi quanti erano i soggetti coinvolti nella lega, tra questi si sono conservati i diplomi per Cremona e Como. La lega ebbe però una durata effimera e già nel 1194 essa sembra essere non più attiva. La coordinazione in funzione anti-milanese fra alcuni grandi Comuni tornò di attualità alcuni anni più tardi, nel 1199. Nel luglio di quell’anno il notaio Iohannes Valcosii, non altrimenti attestato a Cremona, rogò due
verunt versus Cremonenses et versus Bergamenses concordiam Cremone et Bergami secundum formam et tenorem primi et antiquioris instrumenti, quod fecit Avantius notarius, scriba tunc domini Alberti de Summo potestatis Papie». 39 Ibid., pp. 79-83, n. 2.2. Il documento è rogato dal notaio Bonusiohannes forse pavese (cfr. E. Barbieri, Notariato e documento notarile a Pavia, secoli XI-XIV, Firenze 1990, pp. 28-29 cita un Bonusiohannes notaio di sacro palazzo, attivo tra il 1159 e il 1186 e alle pp. 139, 144, 145 cita il notaio Bonusiohannes Butigella che sottoscrive un documento del Comune di Pavia del 1192). 40 I patti tra Cremona cit., pp. 83-85, n. 2.3. Il documento è rogato da «magister Parvus sacri pallatii notarius». Si tratta probabilmente di un notaio bergamasco (cfr. Le pergamene degli archivi di Bergamo aa. 1002-1058, edd. M. Cortesi - A. Pratesi, Bergamo 1995 (Fonti per lo studio del territorio di Bergamo, 12; Carte medievali bergamasche, II/1), p. 453; Le pergamene degli archivi di Bergamo aa. 1059 (?)-1100, cur. M. Cortesi - A. Pratesi, edd. G. Ancidei - C. Carbonetti Vendittelli - R. Cosma, Bergamo 2000 (Fonti per lo studio del territorio di Bergamo, 16; Carte medievali bergamasche, II/2), p. 110. 41 I patti tra Cremona cit., pp. 89-92, n. 2.5.
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instrumenta42 in cui viene esplicitamente ripresa e confermata l’alleanza tra Cremona e Bergamo nella forma del «primo et antiquiori instrumento societatis inter Cremonenses et Pergamenses» del 1191. Ma il definitivo rinnovo formale dell’alleanza tra Pavia, Cremona e Bergamo è sancito dal documento rogato in data 24, 25, 26 luglio 1199 dal solito notaio Avantius che contiene i giuramenti, svoltisi in tre giorni successivi e prestati dai membri della credenza e da Lantelmo Grugnus, console di Pavia, verso i Cremonesi e verso i Bergamaschi della «concordia Cremone et Bergami secundum formam et tenorem primi et antiquioris instrumenti quod fecit Avantius notarius, scriba tunc domini Alberti de Summo potestatis Papie»43. Interessante anche la tradizione del documento: il notaio Avantius rogò infatti due originali, potremmo dire, paralleli, uno contenente in inserto anche il «tenor antiquioris instrumenti» da lui stesso rogato nel 1191, l’altro privo di inserto; di entrambi i documenti originali in pergamena furono redatti altri esemplari ad opera dello stesso notaio, quindi in forma di doppio originale, su bifoli appartenenti al prima citato Codice A44. La redazione in doppio originale – su pergamena singola e su bifolio – caratterizzerà da questo momento in poi la tradizione di molti altri documenti pattizi. Questo è testimoniato anzitutto dai documenti dell’alleanza con Mantova conclusa nell’anno successivo, 1200, tràditi in originali plurimi su singole pergamene e su bifoli del Codice A, tutti rogati dal notaio «Petrus sacri palatii notarius»45. Dei due documenti che contengono rispettivamente il testo del giuramento dei Mantovani verso i Cremonesi e quello dei Cremonesi verso i Mantovani esistono anche testimoni mantovani, tràditi in copia nel Liber privilegiorum communis Mantue46. Gli esemplari mantovani sono sottoscritti da Petrus de Grogunçala o «Grogunçola notarius sacri palacii». Il confronto grafico tra i documenti in originale sottoscritti da «Petrus notarius sacri palatii» conservati tra le pergamene dell’archivio del Comune di Cremona47 e un documento originale del notaio 42 43 44
Ibid., pp. 92-95, nn. 2.6, 2.7. Ibid., pp. 96-98, n. 2.8. Il Codice A del Comune di Cremona, che, come sopra accennato, può essere considerato nel suo nucleo primitivo uno dei più antichi libri iurium comunali, è costituito nella sua parte originaria da bifoli scritti solo sul lato carne della pergamena, contenenti documenti in copia autentica o originale, datati tra il 1150 e il 1215 (cfr. Leoni, Il Codice A cit.) 45 I patti tra Cremona cit., pp. 101-110, nn. 3.1-3.7. 46 Liber privilegiorum comunis Mantue, ed. R. Navarrini, Mantova 1988, pp. 235-237, nn. 64 e 65, entrambi datati 2 agosto 1200. 47 Per le segnature dei documenti cremonesi si rimanda all’edizione degli stessi in I patti tra Cremona cit., pp. 101-110, nn. 3.1-3.7.
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Petrus de Grogunzola48 ha escluso che possa trattarsi della stessa persona, come l’omonimia aveva in un primo momento indotto a ipotizzare. Una più attenta lettura dei documenti ha invece portato a identificare con ogni probabilità il notaio cremonese con quel notaio Petrus de Botaiano49 che compare anche come testimone e come giurante di parte cremonese nei documenti di alleanza contenuti anche nel Liber privilegiorum communis Mantue50, adottando un comportamento speculare a Petrus de Grogunçola che, con la qualifica di «notarius comunis Mantue», compare invece tra i giuranti mantovani51. Per ampiezza dell’attività, per organicità rispetto all’attività diplomatica e amministrativa del Comune, per sofisticazione delle soluzioni trovate nella formulazione dei documenti di concordia, spicca senz’altro il notaio Oldefredus de Casamala. A tale notaio fu infatti affidata la produzione dei sette documenti con i quali si formalizzò quella che Vallerani definisce la «prima grande lega fra Cremona e le città mediopadane della costellazione estense, Mantova, Ferrara, Verona», datati tra il 5 e il 13 giugno 1208 da Mantova e Verona. Tutti i documenti sono contenuti in originale su bifoli che costituiscono il Codice A, per tre di essi disponiamo anche della redazione in originale su singola pergamena52. È probabile che nel caso degli altri quattro siano andati perduti gli originali su singola pergamena. Qui, come già per l’alleanza con Mantova, l’intera operazione pattizia è affidata ad un unico notaio, mentre viene riproposta la redazione in doppio originale, segno con ogni probabilità di un atteggiamento di razionalità e sistematicità dell’autorità comunale nella produzione e nelle modalità di conservazione di documenti politici di grande importanza strategica per il Comune. L’analisi condotta da Vallerani dimostra che i patti della lega del 1208 sono giurati con giuramenti incrociati da parte dei diversi contraenti sulla
48 Gli originali dei documenti sottoscritti da Petrus de Grogunçala, tràditi in copia dal citato Liber privilegiorum, sono deperditi. Il confronto grafico è stato condotto sul documento datato 23 marzo 1196 conservato a Mantova, Archivio di Stato (d’ora in poi ASMn), Ospedale civile, b. 3, regesto in Regesto mantovano. Le carte degli archivi Gonzaga e di Stato in Mantova e dei monasteri mantovani soppressi (Archivio di Stato in Milano), I, ed. Pietro Torelli, Roma 1914 (Regesta chartarum Italiae, 12), p. 357, n. 565. 49 Non è stato possibile giungere ad un’identificazione certa in quanto non sono stati reperiti originali rogati da Petrus de Botaiano tra i documenti notarili cremonesi entro la metà del XIII secolo, né egli compare nello stesso periodo quale sottoscrittore di copie autentiche. 50 I patti tra Cremona cit., pp. 101-106, nn. 3.1, 3.2. 51 Ibid., p. 108, n. 3.5. 52 Ibid., pp. 148-165, nn. 5.1-5.7.
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base di un testo fondamentale «che recupera e unifica le clausole di impegno politico-istituzionale prima usate in maniera episodica»; esso è completato in particolare da clausole, mai formulate in precedenza, che condizionano le possibilità dei contraenti di concludere patti con le fazioni nemiche presenti nelle città coinvolte al rispetto dell’alleanza con Cremona53. Procedure analoghe furono seguite dallo stesso notaio Oldefredus nel 1212, quando tra il 25 agosto e il 1° ottobre, Azzo d’Este, il conte Bonifacio di San Bonifacio, Cremona, Ferrara, Brescia, Verona rinnovarono sostanzialmente l’alleanza con Pavia, attaccata da Milano per aver scortato Federico imperatore eletto, con l’avallo tra l’altro del pontefice Innocenzo III, rappresentato in loco dal vescovo di Cremona e legato pontificio Sicardo54. Le procedure anche documentarie di questa nuova lega sono ulteriormente semplificate rispetto alla lega del 1208 ed è evidente il controllo esercitato dal Comune di Cremona – che si affida ad un professionista di fiducia, il notaio Oldefredus – sulla formulazione del patto e sulle operazioni di convalida dello stesso. Mentre nel 1208 i vari contraenti giurano ciascuno su un proprio testo, pur derivato da un nucleo unitario, in questo caso abbiamo un unico testo documentario, contenuto nel documento datato 25 agosto 1212, Verona55, cui viene giurato rispetto dai diversi contraenti che aderiscono al patto in date e luoghi diversi, richiamando esplicitamente l’«instrumentum factum ab Oldefredo notario»56. Né nelle sottoscrizioni, né indirettamente dal testo dei documenti a noi noti emerge mai menzione di una qualifica di Oldefredus de Casamala quale scriba del Comune o di un’autorità comunale, come avevamo visto ad esempio nel caso, peraltro assolutamente sporadico, di Avantius. Il legame, l’organicità, potremmo dire, di questo professionista rispetto all’istituzione comunale cremonese e alla sua politica è tuttavia strettissimo. Sempre rimanendo in tema di pattuizioni politiche e rapporti diplomatici, Oldefredus è rogatario di un documento del 1208 che attesta una delicata operazione, condotta nell’ambito delle relazioni tra Cremona e Brescia sulle quali non ci siamo soffermati in questa sede, grazie alla quale Cremona tentò di scongiurare l’alleanza tra Brescia e Milano57. Si tratta di 53 54 55 56
Ibid., pp. 145-147. Ibid., pp. 199-200. Ibid., pp. 204-207, n. 7.2. Ibid., pp. 207-214, nn. 7.3-7.7. I documenti sono datati 1212 agosto 26, 27, 28, Verona; settembre 8, Pavia; ottobre 1, Brescia. 57 Ibid., pp. 138-140, n. 4.6, 1208 aprile 23-26, Brescia.
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un’operazione pressoché segreta, che ha luogo di notte, in sedi non istituzionali: il fatto che l’instrumentum che la documenta sia stato affidato proprio a Oldofredus non può essere ritenuto un caso. L’attività di Oldefredus per altre istituzioni o soggetti appare sostanzialmente irrilevante58. Sempre per il Comune di Cremona intervenne invece nella produzione di circa 190 documenti di investitura di beni comunali, situati in particolare presso le mura urbane e nella zona detta Mosa che si estendeva appena oltre il limite meridionale della città. I documenti, tutti datati 1209, sono tràditi nella forma dell’originale su registro nel Codice Iesu dell’archivio del Comune, formato da bifoli scritti sul solo lato carne, in cui Oldefredus e sostanzialmente altri cinque notai scrissero poco meno di 1300 documenti, datati tra il 1206 e il 1225, relativi a tali sistematiche operazioni di investitura di beni comunali59. Oldefredus non solo rogò i documenti citati, ma intervenne anche come testimone in altri documenti del Codice rogati da colleghi, datati tra il 1209 e il 1212. Dagli esempi sui quali ci siamo soffermati sembra emergere progressivamente una maggiore razionalità e sistematicità sia nelle forme di produzione sia nelle modalità di tradizione dei documenti comunali pattizi, processo del resto che caratterizza più in generale la produzione documentaria del Comune cremonese nel periodo che abbiamo considerato. Alla «volontà programmatica di far rientrar i rapporti con le altre città in un alveo unitario di iniziative politiche guidate da Cremona»60 che culmina nelle leghe del 1208-1213, espressione «dello sforzo maggiore speso da Cremona per creare un fronte ampio e continuo di città alleate militarmente e soprattutto disposte a difender[la] dagli attacchi milanesi»61, corrisponde un’evidente evoluzione anche nella scrittura dei patti sia per quanto attiene alla formulazione dei documenti riferibili ad una stessa operazione, sia per quanto riguarda la produzione e la tradizione dei documenti.
58 L’affermazione si basa sullo spoglio pressoché completo di documenti provenienti da archivi di istituzioni cremonesi fino alla metà del secolo XIII. Abbiamo rinvenuto un solo documento rogato da Oldefredus per la famiglia cremonese dei da Dovara (ASMn, Archivio Gonzaga, b. 284, regesto con indicazione del rogatario in F.C. Carreri, Regesti dei principali documenti della casa di Dovara conservati nell’Archìvio Gonzaga in Mantova, Mantova 1889, p. 13). 59 Per il Codice Iesu cfr. supra, nota 16. I documenti rogati da Oldefredus de Casamala sono i nn. 1-63, 195-225, 298-393 secondo la numerazione apposta da mano ottocentesca ai documenti del Codice. 60 I patti tra Cremona cit., p. 13. 61 Ibid., p. 14.
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Evoluzione che coincide peraltro con l’emergere di alcune figure di notai, che, pur qualificandosi solo in modo assolutamente sporadico quali scribi del Comune o di autorità comunali, rivelano senz’altro un legame che potremmo definire “intrinseco” con l’istituzione comunale, la sua attività politica e la sua produzione documentaria.
GIuSePPe GARdonI noTAI e CoMunI neLLA MARCA VeRoneSe: I PRoTAGonISTI TRA AuTonoMIA e SuboRdInAzIone (SeCC. XII-XIII)
L’orizzonte geografico entro il quale si collocano le Ricerche di Pietro Torelli comprende, com’è noto, anche i comuni cittadini di area veneta, restituendoci in poche pagine una minuziosa e solida ricostruzione tanto nella prima parte (ove prevale il ricorso alla documentazione archivistica)1 quanto nella seconda2 («imperniata invero sugli Statuta piuttosto che sugli instrumenta»)3. A questo stesso ambito territoriale si torna a fare riferimento in questo primo e incompleto tentativo di esaminare alcuni aspetti delle relazioni intercorse fra notai e Comuni nel periodo compreso fra la prima attestazione dell’organismo comunale e i decenni iniziali del duecento, includendo così quell’età podestarile riconosciuta come momento decisivo per la circolazione tra i comuni italiani di esperienze amministrative e documentarie veicolate dai podestà professionali4.
1
P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, « Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova », n. ser., 4 (1911), pp. 3-99, ora in P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, Roma 1980 (Studi storici sul notariato italiano, V), da cui si cita, con particolare riferimento alle pp. 83-91. 2 Torelli, Studi e ricerche di storia giuridica e diplomatica comunale, Mantova 1915 (Pubblicazioni della R. Accademia Virgiliana di Mantova, 1), ora in Torelli, Studi cit., pp. 101-384. 3 A. Pratesi, La documentazione comunale, in Tra carte e notai. Saggi di diplomatica dal 1951 al 1991, Roma 1992 (Miscellanea della Società romana di storia patria, XXXV), pp. 49-63: 50. 4 Sul rapporto notaio-comune si sono soffermati in modo particolare G.G. Fissore, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti, Spoleto 1977; Fissore, La diplomatica del documento comunale fra notariato e cancelleria. Gli atti del Comune di Asti e la loro collocazione nel quadro dei rapporti fra notai e potere, «Studi medievali», ser. III, 19 (1978), pp. 211-244; Fissore, Alle origini del documento comunale: i rapporti tra i
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L’area alla quale ci si vuol riferire coincide con la Marca Veronese (Trevigiana dal 1236)5. Le città cui presteremo attenzione saranno quindi quelle di Verona, Vicenza, Padova e Treviso, con l’esclusione di centri “minori” come Ceneda, Feltre e belluno, o bassano e Monselice. non si accennerà nemmeno a Venezia, alla quale invece il Torelli guardò6. essa rappresenta “un altro mondo”7 anche per quanto attiene al notariato, come è noto8. Mi pare tuttavia importante dire che, nonostante per la città lagunare vi sia la disponibilità di una ricca documentazione e di numerose edizioni di fonti, gli studi specifici, come del resto in anni non lontani ha giustamente evidenziato Attilio bartoli Langeli9, incentrati sul notariato veneziano, sono ancora assai esigui10. notai e l’istituzione, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento. Atti del Convegno (Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 29/2), pp. 99-128 (ora in Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, cur. G. Albini, Torino 1998, pp. 39-60, da cui si cita); Fissore, Il notaio ufficiale pubblico dei comuni italiani, in Il Notariato italiano del periodo comunale, cur. P. Racine, Piacenza 1999, pp. 47-56; A. bartoli Langeli, Premessa, in Codice Diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (1139-1254), I, 11391237, ed. bartoli Langeli, Perugia 1983, pp. XI-XXXIII; bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Culture et idéologie dans la genèse de l’état moderne, Roma 1985, pp. 38-45 (ora in Le scritture del comune cit., pp. 155-171). Sulla figura e l’attività del notaio si veda da ultimo: M. zabbia, Notai e modelli documentari: note per la storia della lunga fortuna di una soluzione efficace, in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (secoli XII-XIV). Atti del ventitreesimo Convegno internazionale di studi (Pistoia, 13-16 maggio 2011), Roma 2013, pp. 23-38. 5 A. Castagnetti, La Marca Veronese-Trevigiana, Torino 1986; Castagnetti, Dalla Marca Veronese alla Marca Trevigiana, in Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del Convegno (Treviso 25-27 settembre 1986), cur. M. Knapton - G. ortalli, Roma 1988 (Studi storici, 199-200), pp. 12-22 (anche in Castagnetti, Le città della Marca Veronese, Verona 1991, pp. 21-38); G.M. Varanini, Retaggio imperiale, comuni cittadini e signoria in area veneta tra XIII e XIV secolo, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centrosettentrionle nel processo storico dal primo comune alla signoria. Atti del Convegno di studio (bologna, 3-4 settembre 2010), cur. M.C. de Matteis - b. Pio, bologna 1911, pp. 87-111; Varanini, Esperienze di governo personale nelle città dell’Italia nord-orientale (secoli XIII-XIV), in corso di stampa. 6 Torelli, Studi cit., pp. 31 e passim. 7 G. Cracco, Un “altro mondo”. Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986. 8 A. bartoli Langeli, Il notariato, in Genova, Venezia, il Levante nei secc. XII-XIV. Atti del Convegno internazionale di studi (Genova-Venezia, 10-14 marzo 2000), cur. G. ortalli - d. Puncuh, Genova-Venezia 2001 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 41/1; Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), pp. 73-101, ora in bartoli Langeli, Notai. Scrivere documenti nell’Italia medievale, Roma 2006, pp. 59-86, da cui si citerà. 9 Ibid., p. 59-60. 10 oltre agli atti in stampa del recente convegno Il notariato veneziano tra X e XV secolo (Venezia, 19-20 marzo 2010), svoltosi presso l’Ateneo veneto, è ora uscita a stampa per ini-
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d’altronde neppure per le città oggetto d’interesse in queste pagine disponiamo di simili studi. Al contrario, infatti, di quanto è accaduto per realtà come ad esempio quella genovese11, la storia del notariato e della documentazione comunali della Marca Veronese presenta sul piano storiografico uno sviluppo assai limitato, tanto che si è tentati dall’affermare che il tema “notariato comunale” può essere ancora oggi considerato negletto. Con una sola eccezione invero che riguarda Verona: un poco noto lavoro di beniamino Pagnin, nel quale, oltre a tracciare i legami intessuti fra i notai e il Comune, l’autore formulò pure delle osservazioni paleografiche e diplomatistiche sulla rara documentazione comunale veronese12. eppure anche per le città venete disponiamo di un maggior numero di edizioni di fonti rispetto all’epoca delle ricerche di Pietro Torelli. Relativamente a Verona in anni recentissimi sono state date alle stampe le carte della chiesa di Santo Stefano (dal sec. X al 1203)13, di San Pietro in Castello (dal IX secolo al 1196)14 e del monastero di San Giorgio in braida (sino ad ora ha visto la luce un primo volume relativo agli anni 1075-1150 curato da Giannina Tomassoli Manenti15). Ma vanno ricordati soprattutto i volumi oramai a molti familiari delle Fonti per la storia della Terraferma veneta giunti al ventisettesimo numero. È in tale collana che in anni vicini sono apparse fondamentali edizioni di fonti, accompagnate da importanti introduzioni (dove qua e là si fa riferimento anche ai “notai comunali”), quali quelle delle carte dei capitoli delle cattedrali di Verona e di Vicenza16, e, soprattut-
ziativa di Silvia Gasparini la tesi di laurea risalente al 1988 di F. Parcianello, Documentazione e notariato a Venezia nell’età ducale, premessa di A. bartoli Langeli, con un saggio di S. Gasparini, Padova 2012. 11 Si vedano almeno G. Costamagna, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Roma 1970 (Studi storici sul notariato italiano, 1), e A. Rovere, Comune e notariato a Genova: luci e ombre di un rapporto complesso, in questo volume. 12 b. Pagnin, Note di diplomatica comunale veronese, «Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova», 57 (1940-1941), pp. 5-21 dell’estratto. Il notariato comunale non costituisce argomento d’interesse in e. barbieri, Il notariato veronese del secolo XII, in Le carte del capitolo della cattedrale di Verona, I (1101-1151), ed. e. Lanza, Saggi introduttivi di A. Castagnetti - e. barbieri, Roma 1998 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 13) pp. LXI-LXX, dove l’articolo di Pagnin non viene citato. 13 Le carte della chiesa di Santo Stefano di Verona (dal sec. X al 1203), cur. G.b. bonetto, Verona 2000. 14 Le carte antiche di San Pietro in Castello di Verona (809/10-1196), cur. A. Ciaralli, Roma 2007 (Regesta chartarum, 55). 15 Le carte di S. Giorgio in Braida di Verona (1075 – 1150). Archivio Segreto Vaticano, Fondo Veneto I, ed. G. Tomassoli Manenti, Cittadella (Pd) 2007. 16 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I; Le carte del capitolo della cattedrale di Verona, II (1152-1183), ed. e. Lanza, Saggio introduttivo di G.M. Varanini, Roma
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to, edizioni di documentazione comunale come il Regestum possessionum comunis Vincencie del 126217, gli Acta comunitatis della stessa città ugualmente del secolo XIII18 e il volume dedicato a Mutui e risarcimenti del comune di Treviso (secolo XIII)19. non sorprenda che l’edizione di simili fonti attenga Treviso: città veneta che più delle altre conserva documentazione comunale piuttosto ricca dalla metà del XIII secolo in poi, ma per la quale, al pari delle altre, si registra il naufragio quasi totale di quella anteriore, della quale restano pochi relitti testimoni d’un insieme documentario d’età consolare e podestarile che si suppone essere stato assai articolato. non v’è dubbio alcuno quindi che nuovi strumenti siano stati dati alla ricerca, ma non è meno vero che molto resta ancora da fare se si pensa anche al solo fatto che per una città come Padova è sostanzialmente al Codice diplomatico del Gloria edito nella seconda metà dell’ottocento che si deve attingere20. orbene, queste pagine non colmeranno le suddette lacune. In esse non si affronterà in maniera esaustiva il complesso tema del notariato nelle città principali della Marca Veronese nei suoi rapporti con le istituzioni comunali per rispondere a tutte le domande sottese. un simile studio dovrà fondarsi, fra l’altro, su uno spoglio ampio se non completo dell’inedito oltre che dell’edito, dovrà avere una idea precisa per quanto possibile della sopravvivenza della documentazione che potremmo definire di pertinenza comunale da studiare dal punto di vista diplomatistico. Ci accontenteremo qui di ripercorrere i rapporti intercorsi fra i notai e i Comuni cittadini riannodandone i legami per quanto possibile attraverso la documentazione sino ad ora nota, ossia quasi esclusivamente sulla scorta dell’edito.
2006 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 22); I documenti dell’archivio capitolare di Vicenza (1083-1259), ed. F. Scarmoncin, Nota introduttiva di F. Lomastro - G.M. Varanini, Roma 1999 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 15). 17 Il «Regestum possessionum comunis Vincencie» del 1262, edd. n. Carlotto - G.M. Varanini, Roma 2006 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 23). 18 Gli Acta comunitatis Tarvisii del sec. XIII, ed. A. Michielin, Nota introduttiva di G.M. Varanini, Roma 1998 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 12). 19 Mutui e risarcimenti del comune di Treviso (secolo XIII), ed. A. Michielin, Nota introduttiva di A. Michielin - G.M. Varanini, Roma 2003 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 20). 20 Codice diplomatico padovano dall’anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), ed. A. Gloria, 2 voll., Venezia 1879-1881 (d’ora in avanti CDP).
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1. Alle origini: un’ineludibile necessità A Padova il Comune affiora dalle carte nel 113821. In quell’anno i consules civitatis furono chiamati a dirimere una controversia che opponeva i canonici della cattedrale e un loro vassallo, uguccione da baone, appartenente ad una importante famiglia signorile. I consoli sono ben diciassette e sono riconducibili al gruppo dei notabili cittadini vicini agli ambienti episcopali e in particolare ai vescovi Sinibaldo e bellino; almeno cinque di essi sono giudici e causidici22, uno dei quali è l’ugo causidicus cui fu affidata la redazione del documento che reca questa sottoscrizione: «ego ugo causidicus ac notarius hanc sententiam pro me et consociis protuli, ac iussu consociorum causa future memorie scripsi». Si noti: il giudice-notaio dichiara di aver agito per conto del collegio consolare del quale in sede di convalida esalta la capacità autoritativa attraverso l’impiego della iussio e non ricorda la formula tipicamente privatistica della rogatio. non è questo il solo atto redatto da ugo causidico e notaio. Qualche mese prima (febbraio 1138) era stato chiamato a realizzare la sentenza – si noti, ancora una sentenza – pronunciata per la lite insorta tra il monastero veneziano di Sant’Ilario e un privato23. Altri documenti li aveva rogati sia prima che dopo: nel 1129 delle vendite al monastero di Santa Giustina24; nel 1131 una donazione del vescovo bellino al monastero di Santa Corona25; nel 1133 una vendita di terre fra privati26; nel 1134 una donazione per San Pietro di Padova27 e una in favore dei chierici della città due anni dopo28; nel 1138 un livello in favore di San Giorgio di Venezia29; nel 1139 la conferma di beni e privilegi che il vescovo bellino elargì al monastero di San Cipriano30. 21 CDP, n. 339, 1138 maggio 13, Padova. 22 Castagnetti, Le città cit., pp. 112-115, si sofferma su questo gruppetto di uomini (cui
sarebbe bene tornare a guardare) e in particolare sul giudice Giovanni di Tado: esperto di diritto, svolse un ruolo di assoluto rilievo pubblico e politico, rivestì l’ufficio di visdomino nella Saccisica per l’episcopio, appare essere documentato in più occasioni dal 1102 al 1147, quando rappresentò la sua città all’importante trattato di Fontaniva. 23 CDP, n. 333, 1138 febbraio 27, <Padova>. 24 Ibid., n. 187, 1129 giugno 12, Padova; n. 188, 1129 giugno 20, Concadalbero; n. 189, 1129 giugno 27, Porto di Legnago. 25 Ibid., n. 216, 1131 gennaio 11, Padova. 26 Ibid., n. 255, 1133 ottobre 12, Padova. 27 Ibid., n. 271, 1134 ottobre 13, Padova. 28 Ibid., n. 293, 1136 marzo 4, Padova; nello stesso anno aveva rogato pure una transazione fra privati: ibid., n. 291, 1136 febbraio 24, Padova. 29 Ibid., n. 353, 1138 novembre 29, <Piave>. 30 Ibid., n. 361, 1139 marzo 15, Venezia.
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non vi sono dubbi: ugo era uno fra i professionisti più attivi del periodo, in contatto con l’episcopio padovano oltre che con alcuni enti monastici veneziani. non è tutto. Va evidenziato il fatto che era un causidicus. e sempre ad un “uomo di legge” il comune padovano si affiderà ancora una volta pochi anni dopo in una delle sue rare attestazioni: a nome della comunità tutta riunita in concio, le massime autorità cittadine (il conte e i consoli) nel 1141 permuteranno delle terre con i canonici della cattedrale con due documenti sottoscritti da «bernardus iudex vir legum dogmate prudens»31 (su questa peculiare auto-definizione si dovrà tornare a riflettere). e alla stessa categoria di esperti possiamo ipotizzare che il Comune padovano si sia affidato anche al momento in cui strinse i patti con Venezia del 114432. Le ricerche disponibili hanno dato il giusto risalto alla posizione rivestita da giudici e causidici in seno alla società urbana già nella prima metà del secolo XII. essi, pur non provenendo da famiglie tradizionalmente attive in ambito pubblico, affiancavano gli ufficiali pubblici nella amministrazione della giustizia; ben presto entrarono numerosi entro le curie vassallatiche dei principali enti religiosi; ebbero un ruolo non secondario sin dai primi momenti di vita dell’organismo comunale, alla cui attività parteciparono come consoli del Comune e, come stiamo osservando, finanche come redattori della documentazione comunale. Tale rilievo trova ragione nella preparazione tecnico giuridica propria dei giudici, nella loro esperienza soprattutto in ambito giudiziario (si pensi ai placiti), presupposti indispensabili per il funzionamento delle istituzioni comunali, per la loro sistemazione teorica e la loro evoluzione33. È a questa categoria direttamente collegata all’autorità imperiale che il Comune padovano (al pari di altri Comuni dell’Italia settentrionale) si rivolse, preferendola a quella dei soli
31 Ibid., n. 409, 1142 novembre 16, Padova; n. 410, 1142 novembre 16, Padova. Lo stesso notaio redasse vari atti per il monastero di San Cipriano di Murano: ibid., n. 390, 1141 febbraio 15; n. 391, 1141 febbraio15; n. 1141 febbraio 26; n. 395, 1141 maggio 6; n. 413, 1143 marzo 19; n. 414, 1143 marzo 19. 32 L’ipotesi si basa sulla possibilità di poter identificare Albericus notarius autore della pace (CDP, n. 440, 1144 ottobre 14 [in copia del sec. XIV]), con Albericus causidicus et notarius (ibid., n. 460, 1145 ottobre 26, Padova; n. 468, 1146 giugno 16, Vigodarzere; n. 480, 1147 gennaio 24, <Vigodarzere>; n. 489, 1147 maggio 12, <Vigodarzere>; n. 492, 1147 agosto 12, <Padova>. 33 G. Tabacco, La genesi culturale del movimento comunale italiano, in Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, pp. 328-335; Tabacco, Le istituzioni di orientamento comunale nell’XI secolo, ibid., pp. 339-368: 367; A. Padoa Schioppa, Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, in Atti dell’undicesimo Congresso di
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notai di nomina locale, perché capace di dare maggiore garanzia agli atti del Comune. In questa prima fase della vita del Comune il notaio-giudice è insomma chiamato a sorreggere con la propria capacità professionale la credibilità dell’istituzione emergente. L’esempio padovano non è isolato ed è stato interpretato come «effetto di una nitida e […] precoce percezione del fenomeno istituzionale, che porta ad inglobare nelle strutture del potere anche la funzione documentaria»34. Proprio la considerazione della sentenza padovana ha fatto dire al Torelli che «solo la qualità [...] di notaio o di giudice può dare all’atto, sia pur consolare, la fede di atto pubblico», cosicché le scritture prodotte dal Comune «non hanno valore di atti pubblici per ragione dell’autorità che li emana»35. A ben vedere però il voluto riferimento alla formula pubblica della iussio – se ne parlerà ancora – al momento della validazione dell’atto del 1138 non può non evidenziare l’intervento dei magistrati nella decisione di attuare la documentazione. e non è meno evidente che nemmeno nella sua prima fase di vita, il Comune ricorreva ad un qualsiasi notaio pubblico. Illuminante al riguardo mi sembra quanto si osserva a Verona. Qui, il 30 giugno 113636, l’avvocato del monastero di San zaccaria di Venezia locò ad Alberto Sordo e a Folcoino, figli di Maltoleto, una porzione del castello e della curia di Ronco. Il documento, tràdito tra le carte del monastero veneziano, rappresenta l’atto finale di una controversia legata all’eredità del conte veronese Alberto37, i cui eredi vennero chiamati in giudizio dall’ente monastico il quale rivendicava il possesso dei metà del castello giacché, contravvenendo a quanto disposto nel legato testamentario del conte Milone del 955, studi sull’alto medioevo, 2 voll., Spoleto 1989, II, pp. 512-518; G.G. Fissore, Origini e formazione del documento comunale a Milano, ibid., pp. 551-588: 582; G. Rossetti, Le istituzioni comunali a Milano nel XII secolo, ibid., pp. 81-112: 92-97. 34 Fissore, Alle origini del documento comunale cit., p. 49. 35 Torelli, Studi cit., p. 12. Cfr. anche d. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Actes du congrès de la Commission internationale de diplomatique (Gand, 25-29 août 1998), cur. W. Prevenier - Th. de Hemptinne, Leuven-Apeldoorn 2000, pp. 383-406, ora in Puncuh, All’ombra della Lanterna. Cinquant’anni tra archivi e biblioteche: 1956-2006, cur. A. Rovere - M. Calleri - S. Macchiavello, Genova 2006 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., 46), pp. 727-753. 36 G.b. biancolini, Dei vescovi e governatori di Verona, Verona 1757, n. 13, 1136 giugno 30, Verona; edito anche in A. Castagnetti, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam». Comune veronese e signorie rurali nell’età di Federico I, Verona 1984, n. 1. 37 Per il conte Alberto e le famiglie comitali veronesi si vedano A. Castagnetti, Le due famiglie comitali veronesi: i San Bonifacio e i Gandolfingi di Palazzo (secoli X-XIII), in Studi sul medioevo veneto, Torino 1981, pp. 43-93; Castagnetti, Le famiglie comitali della Marca
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avevano omesso di pagare il relativo contributo in derrate alimentari. Le parti raggiunsero un accordo alla stipulazione del quale non furono per nulla estranei i cittadini, come evidenzia la presenza di un nutrito numero di boni homines singolarmente nominati, i primi tre dei quali vengono qualificati come consules: «eleazar et odo Teuzonis filius et Chonradus de Cresencio consules»38. ne è redattore il notaio bonifacio, il quale in sede di convalidazione si limitò a fare riferimento alla rogatio. L’atto, nonostante la presenza dei consoli, è vero, potrebbe non essere considerato di pertinenza comunale: si tratta di una transazione fra privati, ancorché rappresentati da una famiglia comitale e da un ente monastico veneziano. Tuttavia la vicenda rivestiva una notevole importanza politica per la cittadinanza che fece intervenire propri rappresentanti (qui citati non a caso per la prima volta a breve distanza dalla morte del conte Alberto) a scongiurare la perdita del controllo del castello di Ronco, in posizione essenziale per la difesa del territorio veronese, ovvero a tutelare gli interessi della città. Ma come mai la realizzazione di quel breve dai risvolti così importanti per la collettività venne affidata proprio a bonifacio? Cosa sappiamo di lui? egli va identificato con il notaio Bonefacius/Bonifacius attivo dal 1085 al 113739. dei documenti da lui rogati va fatto riferimento in modo particolare a quello dell’estate del 110040, con il quale il duca enrico, figlio di Guelfo di baviera, pose fine ad una lite giudiziaria avente per oggetto – si noti – il castrum e la curtis di Albaredo, assegnati a bonzeno di Persenaldo, mercante di Verona, esponente della famiglia Crescenzi. Le analogie fra i documenti del 1100 e del 1136 sono evidenti. In entrambi i casi si tratta di atti finali di controversie giudiziarie aventi per oggetto rilevanti centri fortificati del territorio veronese, controversie che coinvolgono sia pur a diverso titolo famiglie di tradizione comitale, esponenti della società cittadina e forze “straniere” (in un caso un monastero
Veronese (secoli X-XIII), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medioevo: marchesi conti e visconti nel Regno Italico (secc. IX-XII). Atti del terzo Convegno (Pisa, 18-20 marzo 1999), Roma 2003 (nuovi Studi storici, 56), pp. 85-111. 38 Castagnetti, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam» cit., pp. 5-6 e 111-113; Castagnetti, Le città cit., pp. 103-107. 39 Le carte di S. Giorgio in Braida cit., n. 20, 1085 ottobre 8, Verona; 35, 1100 luglio 13, Verona; Le carte della chiesa di Santo Stefano cit., n. 28, 1109 gennaio 26, Verona; 30, 1111 giugno 4, Verona; n. 51, 11[2]8; Verona, Archivio di Stato (d’ora in avanti ASVr), San Nazaro e Celso, b. 14, n. 633, 1129 marzo 5, Verona. 40 Le carte di S. Giorgio in Braida cit., n. 36, 1100 novembre 39, este (in copia della prima metà del sec. XIII).
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veneziano, nell’altro il duca di baviera). Sono, insomma, atti cui non si può disconoscere un valore politico rilevante. non è tutto. bonifacio è soprattutto colui che nel 1123 aveva redatto un placito ducale41. nel settembre del 1123 il duca enrico sostò presso il monastero di San zeno, fuori Verona, sede tradizionale dell’autorità pubblica imperiale e dei suoi rappresentanti. Il duca era assistito da quattro giudici (già operanti nel decennio precedente nella Marca Veronese al servizio dell’imperatore enrico V), da dodici causidici, dai conti di Verona, Vicenza e Treviso, da alcuni capitanei provenienti dai territori di Verona, Vicenza e Treviso, da due avvocati di chiese e da altri numerosi boni homines. La composizione del collegio giudicante riflette l’evoluzione della società e delle istituzioni: i suoi membri rappresentano l’ordinamento pubblico tradizionale ancora vigente e preannuncia con la presenza fra i notabili cittadini di due fra i futuri quattro consules civitatis la nascita del Comune cittadino42. Il rilievo della sentenza giudiziaria del 1123 è determinato anche dalla natura della contesa, riconducibile alle consuetudini del diritto feudale. una disamina del testo ha rilevato una certa difficoltà da parte del notaio bonifacio nel descrivere la seduta giudiziaria e la sua complessità; mostrerebbe altresì di non conoscere la struttura della notitia iudicati43. Tuttavia da quanto detto è evidente la ragione per la quale proprio a bonifacio si ricorse per la redazione di atti pubblici importanti come quello in cui per la prima volta intervengono i consoli della città. 2. I decenni centrali del secolo XII: una fase di assestamento? Le difficoltà attribuite a bonifacio non si riscontrano nel notaio Paltonario, che qualche anno più tardi si trovò a redigere documenti attinenti a questioni del tutto analoghe, tanto che non solo dovette fare esplicito rife-
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Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 54, 1123 settembre 22, fuori Verona. La sentenza, giunta in copia autentica della metà del secolo XII di mano del notaio Paltonarius, già edita in Castagnetti, Le città cit. appendice I, n. 1; e in Castagnetti, Fra i vassalli: marchesi, conti, “capitanei”, cittadini e rurali, Verona 1999, n. 20, viene ora riproposta anche nel contributo citato alla nota seguente. 42 A. Castagnetti, Una sentenza feudale del duca Enrico IV di Carinzia (Verona, 1123), in nulla historia sine fontibus. Festschrift für Reinhard Härtel zum 65. Geburtstag, cur. J. Gießaus - G. bernhard, Graz 2010, pp. 119-131. 43 Castagnetti, Fra i vassalli cit., p. 166.
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rimento alla sentenza del 112344, mostrandosi ben più esperto nel padroneggiare il formulario specifico45, ma ne realizzò la copia a noi pervenuta46. egli avrebbe insomma avuto maggiori competenze giuridiche, riflesso forse di una migliore preparazione tecnica, confermata dai titoli di iudex e di iuris peritus o iuris doctus attribuitigli in alcune significative occasioni che subito citiamo. È in tale formazione che possiamo riconoscere la ragione per cui a lui si ricorse per la redazione di numerosi atti giudiziari47. ecco i più significativi. nel gennaio del 114048, nella curia dei vassalli (ne sono membri anche quattro giudici), riunitasi per discutere in merito ad alcuni feudi, si procedette all’escussione di due testimoni, i quali fecero riferimento a decisioni assunte in un’epoca antecedente nel chiostro dei canonici e in parlamento populi huius civitatis. Il successivo 10 febbraio è al lavoro per il console olderico Saketus, che con il consiglio degli altri consoli, citati fra gli astanti assieme ad alcuni giudici, promulga una sentenza in merito – si badi – ad una controversia feudale che opponeva i canonici della cattedrale ad alcuni privati. nel 1147 mette per iscritto il pronunciamento dei consoli della città chiamati a dirimere una lite fra la cattedrale e i conti di San bonifacio49. nel 1150 redige il placito presieduto da Federico conte di Garda durante il quale fu pronunciato il giudizio della causa apertasi fra il monastero bresciano di San Pietro in Monte e alcuni abitanti di Torri50. due anni dopo rogherà «ex iussione» del vescovo Tebaldo, di Alberto Tenca rector e di eliazario civi (si noti, è uno dei consoli del 1136) tutori del conte bonifacio51. 44
Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 98, 1139 settembre 16, Verona. 45 Castagnetti, Fra i vassalli cit., p. 167. 46 Cfr. nota 41. 47 Il notaio Paltonario è, ad esempio, redattore di alcuni degli atti del lungo processo che oppose il capitolo della cattedrale veronese agli uomini di Cerea: Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 78, 1137 dicembre 17, Cerea; n. 93, 1139 gennaio 26; Castagnetti, Fra i vassalli cit., n. 12, 1147 marzo 24, Cerea. Cfr. Padoa Schioppa, Il ruolo cit., p. 279, nota 65. 48 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 99, 1140 gennaio 11, Verona. 49 Ibid., I, n. 130, 1147 maggio 18, Verona. 50 Le carte del monastero di S. Pietro in Monte di Serle (Brescia) 1039-1200, edd. e. barbieri – e. Cau, con un saggio introduttivo di A.A. Settia, brescia 2000 (Codice diplomatico bresciano, I), n. 66, 1150 marzo 14, Torri; questa la completio: «ego Paltonarius notarius sacri palatii et iudex comitum Gardensium interfui et hanc sententiam dixi et hoc breve scripsi». Il documento è riproposto in A. Castagnetti, Comitato di Garda, Impero, duchi Guelfi, cittadini e comune di Verona da Lotario III ad Enrico VI, Verona 2002, n. 1. 51 ASVr, Ospedale Civico, b. II, n. 71b, 1152 giugno 23, Verona. Il documento è edito in V. Cavallari, Ricerche sul conte cittadino e sulle origini delle autonomie, Verona 1971, pp.
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di Paltonario restano anche numerose carte rogate per i vertici della Chiesa veronese52, ma è la sua opera di redattore dei summenzionati atti giudiziari ad esaltarne le capacità di gestire e di dare veste giuridica ad atti di interesse pubblico di rilievo. egli apparteneva alla stessa categoria del padovano ugo: il “ceto” dei “tecnici”, indispensabile per legittimare il funzionamento delle istituzioni comunali e per la loro attività amministrativa quotidiana. Certo, Paltonario non fu l’unico professionista degno di rilievo attivo negli anni a cavallo fra la prima e la seconda metà del secolo XII a Verona. Altri notai si distinsero per la loro attività e per essere stati chiamati talvolta a realizzare atti che coinvolgevano anche il Comune. Corre l’obbligo al riguardo di citare la sentenza consolare scritta nel 1140 da Trasmondo53, notaio longevo e considerato di indubbio prestigio54. eppure egli non parrebbe aver avuto alcun particolare rapporto lavorativo con il Comune. Si 225-227, da correggere con quanto osservato in Castagnetti, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam» cit., nota 81 di p. 96. 52 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 78, 1137 dicembre 17, Cerea; n. 79, 1138 gennaio 21, Verona; n. 80, 1138 febbraio 6, Verona; n. 81, 1138 marzo 8, Verona; n. 82, 1138 marzo 12, Poiano; n. 84, 1138 maggio 8, Verona; n. 85, 1138 maggio 22, Verona; n. 86, 1138 giugno 24, Legnago; n. 87, 1138 giugno, Verona; n. 89, 1138 settembre 11, Verona; n. 92, 1139 gennaio 21, Verona; n. 93, 1139 gennaio 26, Cerea; n. 94, 1139 marzo 23, Verona; n. 96, 1139 agosto 1, Verona; n. 97, 1139 agosto 1, Verona; n. 98, 1139 settembre 16, Verona; n. 99, 1140, gennaio 11, Verona; n. 101, 1140 marzo 30, Verona; n. 105, 1141 marzo 17, Verona; n. 106, 1141 aprile 14, Verona; n. 107, 1141 aprile 30, Verona; n. 112, 1142 marzo 25, Verona; n. 114, 1143 maggio 8, Verona; n. 115, 1143 settembre 16, Montorio; n. 117, 1144 <marzo 26>, [Verona]; n. 118, 1144 marzo 29, Verona; n. 119, 1145 aprile 13, Verona; n. 122, 1146 gennaio 2, Verona; n. 123, 1146 maggio 18, Verona; n. 124, 1146 dicembre 26, Verona; n. 125, 1147 dicembre 26, Verona; n. 127, 1147 marzo 15, Verona; n. 130, 1147 maggio 18, Verona; n. 131, 1147 maggio 19, Verona; n. 132, 1148 marzo 4, Verona; n. 133, 1148 dicembre 30, Verona; n. 136, 1150 agosto 8, Verona. Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, n. 6, 1154 [ante giugno 30, Verona]; n. 8, 1154 giugno 30, Verona; n. 9, 1154 luglio 16, Verona. 53 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 100, 1140 febbraio 10, Verona. 54 numerose sono le carte rogate da Trasmundus, documentato negli anni 1101-1141; si vedano ad esempio: Le carte della chiesa di Santo Stefano di Verona cit., n. 26, 1107 gennaio 9, Montorio; n. 35, 1115 luglio 19, Codognola; n. 36, 1115 dicembre 30, Verona; n. 37, 1116 dicembre 3, Verona; n. 38, 1117 gennaio 29, Placiola; n. 39, 1117 novembre 13, Verona; n. 40, 1118 marzo 10, Verona; n. 41, 1119 gennaio 5, Verona; n. 45, 1124 dicembre 13, Verona; n. 48, 1127 dicembre 31, Verona; n. 55, [1131] maggio [...], Verona; n. 56, 1132 aprile 28, Verona; n. 57, 1132 luglio 23, Verona; n. 59, 1141 luglio 10, Verona. Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., I, n. 4, 1101 settembre 15, Montorio; n. 25, 1114 giugno 17, Verona; n. 27, 1114 agosto 15, Verona; n. 38, 1117 maggio 30; n. 60, 1131 agosto 29, Verona; n. 63,1132 giugno 29, Verona; n. 65, 1133 <dicembre 13>, Verona; n. 66, 1133 dicembre 13, Verona; n. 67, 1134 febbraio 17, Verona; n. 83, 1138 aprile 11, Verona. un cenno a questo e ad altri notai «di evidente assoluto rilievo» legati a enti ecclesiastici di
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pensi anche a Vitale, al quale, sul finire del 1151, si affidò la scritturazione della sentenza relativa alla causa fra l’abate di Santa Maria in organo e un suo feudatario pronunciata per ordine del rettore Alberto Tenca55. o al redattore di un’altra importante carta di natura giudiziaria: la pubblicazione di una sentenza pronunciata dal già citato Alberto Tenca rector e scritta da Giovanni detto Baraterius56. Per nessuno dei notai appena citati si può parlare della sussistenza di legami professionali di qualche rilievo con l’istituzione comunale, ché anzi essi si caratterizzano per l’aver offerto i loro servizi soprattutto alle maggiori istituzioni ecclesiastiche nei cui ricchi archivi troviamo le carte che rogarono in notevole quantità. ovviamente queste nostre conoscenze risentono della particolare situazione archivistica veronese, ricca di fondi pertinenti chiese e monasteri57, ma confermano l’impressione che i notai, cui s’è fatto cenno, abbiano rogato “atti comunali” per incarico degli enti ecclesiastici che erano parte in causa. o meglio, lasciano intendere che in quei decenni si verificò una osmosi fra palazzo vescovile e palazzo comunale attraverso lo “scambio” di professionalità. 3. Osmosi tra palazzi Per mostrare come siano stati proprio alcuni grandi professionisti ad accompagnare il maturare della prassi documentaria e il consolidamento
particolare prestigio, riserva barbieri, Il notariato veronese cit., p. LXVI. A Trasmondo ha fatto riferimento anche A. Ghignoli, Pratiche di duplice redazione della carta nella documentazione veronese del secolo XII, «Archivio storico italiano», 157 (1999), pp. 563-584: 563. 55 ASVr, Santa Maria in Organo, b. II, perg. 84, 1151 dicembre 13, Verona. Il documento è trascritto in F. Gagliardi, Economia e società attraverso le carte del monastero di S. Maria in Organo con appendice di 115 documenti, anni 1100-1186, tesi di laurea, università di Verona, Facoltà di Lettere e filosofia, rel. A. Castagnetti, a.a. 1996-1997. Cfr. anche L. Simeoni, Le origini del Comune di Verona, in Simeoni, Studi su Verona nel medioevo, I, cur. V. Cavallari, Verona 1959 (Studi storici veronesi, VIII-IX), pp. 167-168. Il notaio Vitale rogò anche per il vescovo ognibene: ASVr, San Nazaro e Celso, b. 11, n. 441, 1165 settembre 10, 14, dicembre 13, Verona. nell’estate del 1163 aveva messo per iscritto una sentenza arbitrale pronunciata alla presenza del rettore di Verona Alberto Tenca: Castagnetti, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam» cit., n. 5, 1163 luglio 14, Verona. 56 Archivio Segreto Vaticano, Fondo veneto, I, n. 7005, 1156 gennaio 19, Verona; la sentenza, con la quale si poneva fine ad una vertenza che opponeva il monastero di San Giorgio in braida a englomario di Castello di Capodiponte, esponente di una ragguardevole famiglia cittadina, è pubblicata in L. Simeoni, Documenti e note sull’età precomunale e comunale a Verona, in Simeoni, Studi cit., I, appendice, n. 5; e in A. Castagnetti, Comitato di Garda cit., n. 3. 57 barbieri, Il notariato veronese cit., p. LXVI.
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istituzionale del comune cittadino è utile rifarsi alla situazione trevigiana e soprattutto, ancora una volta, a quella veronese, dove sono i “notai capitolari” a spiccare58. A Treviso, Vitale, qualificato come notaio del sacro palazzo e dell’imperatore Federico, era attivo al servizio tanto dei vescovi quanto del capitolo. nel 1178 venne incaricato dai consoli trevigiani di trascrivere il diploma concesso da Federico I alla città nel 1164, mentre nel 1188 faceva parte dei vassalli della curia vassallorum episcopale, e nell’anno successivo redasse l’elenco dei vassalli presenti nella curia riunita dal vescovo per il pagamento del fodro imperiale59. A Verona, gli arbitrati e le sentenze dei consoli e dei podestà degli anni Settanta e ottanta, «secondo una prassi che – afferma Gian Maria Varanini – durerà abbastanza a lungo»60, sono rogati dai notai dell’ente coinvolto nella controversia. Il notaio, qualificato sempre e soltanto come notaio imperiale o del sacro palazzo, in tali circostanze operava sulla base della semplice rogatio rivoltagli dal committente. eccone alcuni esempi significativi. nel 1163 una sentenza di Guido di Tedaldo Rubeo, giudice del rettore Alberto Tenca, presenti numerosi giudici e autorevoli esponenti della élite comunale, è rogata da Amizo, noto come “notaio capitolare”61. ed è Ademario a mettere per iscritto una sentenza consolare62 e l’impegno dei milites di bion-
58 Su questo tema si veda G.M. Varanini - G. Gardoni, Notai vescovili del Duecento tra curia e città (Italia centro settentrionale), in Il notaio e la città. Essere notaio: i tempi e i luoghi (secc. XII-XV). Atti del Convegno di studi storici (Genova, 9-10 novembre 2007), cur. V. Piergiovanni, Milano 2009 (Studi storici sul notariato italiano, XIII), pp. 241-272. Particolarmente ben studiato è il caso di Ivrea, dove alcuni notai importanti attivi per decenni per il vescovo, compaiono come sapientes credentie o come consoli della societas de communi, cfr. G.G. Fissore, Vescovi e notai: forme documentarie e rappresentazione del potere, in Storia della Chiesa di Ivrea dalle origini al XV secolo, a cura di G. Cracco, con la collaborazione di A. Piazza, Roma 1998, pp. 867-923: 872 ss.; Fissore, Un caso di controversa gestione delle imbreviature: notai, vescovi e comune a Ivrea nel secolo XIII, «bollettino storico-bibliografico subalpino», 97 (1999), pp. 67-88. 59 Per tutte le notizie relative a questo notaio si rimanda a d. Rando, I vassalli del vescovo di Treviso, 1179-1201. Scritture e strutture feudali nella prima età comunale in Vescovi medievali, cur. G.G. Merlo, Milano 2003 (Studi di storia del Cristianesimo e delle Chiese cristiane, 6),pp. 1-23 (già edito, in lingua francese, in Fiefs et féodalité dans l’Europe méridionale (Italie, France du Midi, Péninsule ibérique) du Xe au XIIIe siècle, cur. P. bonnassie, Toulouse-Le Mirail 2002), pp. 6-7, ove si parla di «identità tra i notai attivi presso il vescovo o il capitolo della cattedrale e quelli del comune»). 60 G.M. Varanini, Note sull’archivio del capitolo della cattedrale di Verona fra XII e XIII secolo, in Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, p. LV. 61 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, n. 36, 1175 novembre 20, Verona. 62 Ibid., n. 69, 1175 giugno 27, Verona.
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de di non costruire una fortificazione da loro progettata63. Ancora, nel gennaio del 1179 è Bonawisa a realizzare l’atto del podestà Guibertino dalle Carceri con il quale conferma il banno imposto dal vescovo, dall’arciprete del capitolo cattedrale e dall’abate di San zeno sulle fortificazioni erette nel distretto, decisione assunta «sub domo misterii de Foro», ove era riunita la «contio Verone maxima et plenissima», come con solennità il redattore scrisse64. Il notaio Pietro in quello stesso periodo venne chiamato (rogatus) a scrivere una confessio resa al giudice del podestà65. Tra i testimoni presenti ad alcuni dei documenti poc’anzi utilizzati si riscontra la presenza di alcuni notai (non è importante elencarli ora tutti e tantomeno soffermarsi su ognuno di essi), alcuni dei quali risultano a loro volta redattori di altri atti realizzati per il capitolo della cattedrale e/o per il Comune. Fra questi merita una menzione specifica Fatolino. egli è un importante professionista della scrittura, attivo perlomeno dal 115966, cui già il Torelli fece giustamente riferimento67. Sin dal 1168 presenziò ad un atto di grande rilievo politico: l’investitura di Garda ad un cittadino veronese da parte del presule trentino68. nel 1187 scrisse la sentenza pronunciata dai consoli veronesi nella causa che contrapponeva l’abate del monastero di San zeno a nicolò degli Avvocati per un edificio fortificato sottoscrivendosi così: «ego Fatolinus notarius domini Welfonis ducis et ab imperatore Frederico confirmatus postea rogatus predicti interfui et iussione con-
63 Ibid., n. 79, 1178 ottobre 4, Verona; lo affiancano come testimoni i notai Adamo, Amizo e Fatolino. L’anno successivo Ademario è richiesto della scrittura di un preceptum del giudice del podestà: ibid., n. 88, 1179 ottobre 31, Verona. 64 Ibid. n. 81, 1179 gennaio 7, Verona; rileviamo ancora la menzione fra i testimoni dei notai Adamo, Pietro e Fatolino. Si vedano altresì ibid., n. 82, 1179 gennaio 16, Cerea; n. 83, 1179 gennaio 17, bionde; n. 84, 1179 gennaio 18, Porcile. Rileviamo la menzione fra i testimoni dei notai Adamo, Pietro e Fatolino. un’altra attestazione si ha in G.M. Varanini, I mulini di Trevenzuolo nel 1179 e un processo di fronte ai giudici del podestà di Verona, in Studi in memoria di Paolo Soliman, cur. b. Chiappa, Sanguinetto (Verona) 2005 («Quaderni della bassa veronese», 1), pp. 50-52. 65 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, n. 85, 1179 luglio 16, Verona. di bonawisa sono anche Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, n. 105, 1182 marzo 21 e 22, <Verona>; Le carte della chiesa di Santo Stefano di Verona cit., n. 96, 1203 aprile 29, Verona: atto di Adelardo vescovo di Verona e cardinale. 66 G. zivelonghi, Strumenti e spunti di ricerca nei documenti dell’Archivio Capitolare di Verona, in Verona dalla caduta dei Carolingi al libero comune. Atti del Convegno (Verona, 24-26 maggio 1985), Verona 1987, p. 140. 67 Torelli, Studi cit., p. 00. 68 Castagnetti, Comitato di Garda cit., n. 6, 1168 aprile 29, Riva del Garda: Fatolinus notarius de Verona.
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sulum scripsi»69. era stato lui a rogare nel 1175 la tregua fra la Lega e Federico barbarossa70, e nel 1181 una sentenza dei rettori della Lega per le questioni di Conegliano e Cèneda71. e sempre lui nel 1183 interrogò i testimoni uditi nell’ambito d’una controversia relativa alla giurisdizione su Pontepossero alla presenza del podestà cittadino facendo riferimento esplicito nella sua sottoscrizione alla iussio del podestà e dei suoi giudici72. Alla iussio del podestà lo stesso notaio aveva fatto riferimento nel 1173 quando mise per iscritto le testimonianze attinenti alle consuetudini relative ai dazi da pagare alle porte e sul mercato di Verona73. e tre anni dopo fu sempre Fatolino a mettere per iscritto l’atto del podestà Turrisendo con il quale nella concio le precedenti consuetudini vennero promulgate: nella sottoscrizione figura ancora la iussio ricevuta dal podestà74. orbene, cambiavano i podestà alla guida del Comune veronese, ma Fatolino continuava ad essere un professionista di riferimento per il Comune che vi faceva ricorso allorché v’era la necessità di redigere documenti anche di notevole importanza, senza per questo dover pensare necessariamente alla sussistenza con l’istituzione di un rapporto di tipo “funzionariale”. Si tratta di un legame “preferenziale”, non formalizzato e tuttavia reale e durevole. Sulla base di quanto sin qui esposto, è evidente – lo aveva già colto del resto lo stesso Torelli – che i notai redattori di atti politicamente cruciali del Comune di Verona negli anni Settanta e ottanta del XII, come Ademario e soprattutto come Fatolino, erano gli stessi che rogavano per il vescovo e i canonici della cattedrale. In tale contesto il legame fra i diversi palazzi permase e, a lungo, elastico. Infatti, ancora nel 1211 Museto, notaio attivo per il capitolo della cattedrale, scrisse per conto di un giudice podestarile l’ordine indirizzato a un viator comunale di portare una senten-
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ASVr, Ospitale Civico, busta III, n. 137, 1187 luglio (?) 30 (?), Verona. C. Vignati, Storia diplomatica della Lega lombarda, Torino 1975, p. 260. Potrebbe essere identificato con l’omonimo notaio autore di una copia della tregua stabilita tra Federico e la Lega lombarda nell’estate del 1177: CDP, II, n. 1262, 1177 agosto 1, Venezia. 71 G. Verci, Codice diplomatico ecceliniano, bassano 1779 (Storia degli Ecelini, III), n. XLIV, 1181 gennaio 20, Verona: «[…] iussione predictorum rectorum et consulum et comitis […]». 72 Le carte del capitolo della cattedrale di Verona cit., II, n. 118, 1183 giugno 30, luglio 1, Verona, «in domo ubi placitum tenebatur». 73 C. Cipolla, Verona e la guerra contro Federico Barbarossa, in Scritti di Carlo Cipolla, II, Studi federiciani, cur. C.G. Mor, Verona 1978 (biblioteca di Studi storici veronesi, 12), pp. 354-357. 74 Cipolla, Verona e la guerra cit., p. 357-359.
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za al preposito del capitolo. La carta, che reca la sentenza, venne consegnata al preposito, che avrebbe dovuto conservarla «aput se» con l’obbligo di non consegnarla a nessuno «nisi ex precepto potestatis Verone»75. Insomma, sarebbero stati i notai vescovili e capitolari i grandi professionisti ad aver accompagnato «il consolidamento istituzionale del comune cittadino»76. Ci si potrebbe chiedere se tale interscambiabilità dei professionisti non abbia inciso sulle modalità di produzione e di conservazione della documentazione comunale e vescovile. 4. L’incipiente costituirsi di una burocrazia L’esempio del notaio Fatolino ci invita a tornare a riflettere sull’impiego da parte dei notai attivi per il Comune della iussio. basterà qui ricordare, rimandando a ben note pagine di Giacomo Fissore77, che la formula della iussio (ex iussione, ex precepto), tipica del documento pubblico (e in particolare dei placiti), esprime l’iniziativa dell’autorità pubblica nell’atto documentario. esprime un controllo di tipo cancelleresco sull’emissione dei documenti da parte del Comune che ne impone al notaio la produzione. È un supplemento di autenticità che s’aggiunge alla publica fides notarile senza sostituirsi ad essa, tanto che s’affianca nelle convalidazioni alla tipica completio notarile. L’autore della azione (nel nostro caso il Comune) non si sostituisce all’autore della documentazione, che è sempre il notaio. Lo stesso Fatolino adottò la forma composita di sottoscrizione accostando la rogatio alla iussio per l’appunto. A Padova, dove l’abbiamo vista impiegata già nel 1138, torna ad essere attestata dagli anni Sessanta del secolo XII e – forse non per caso – da parte di alcuni notai che costituiscono altrettanti esempi di osmosi fra palazzo vescovile e palazzo comunale. Per il 1166 si conoscono due atti: uno del marzo, quando un atto dei consoli è rogato in «communi palacio» dal notaio Faletrus78, noto per aver realizzato, fra l’altro79, numerosi docu75 Per questo notaio si veda Varanini, Note sull’archivio capitolare cit., pp. LV-LVI nota 122. 76 Ibid., p. LVIII. 77 Fissore, Autonomia notarile cit., pp. 158-177; Fissore, Alle origini cit., pp. 48-54. 78 CDP, II, n. 892, 1166 marzo 16, Padova. 79 Altri documenti che dobbiamo a questo notaio sono, senza pretesa di completezza: ibid., I, n. 484, 147 marzo 9, <Padova>; n. 589, 1153 gennaio 13, Padova; n. 591, 1153 aprile 27, Padova; n. 597, 1153 settembre 9, Padova; n. 605, 1154 gennaio 26, Padova; n. 606, 1154 gennaio 29, Padova; n. 607, 1154 febbraio 13, Padova; n. 899, 1166 ottobre 9, «in
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menti per il vescovo e i canonici80, notaio che in qualche occasione assunse la qualifica di causidicus81; l’altro del settembre, quando a scrivere su incarico dei consoli è il notaio Martino82, noto anch’egli per essersi posto al servizio del presule83 e del capitolo cattedrale84. È forse lo stesso notaio Martino chiamato a redigere la sentenza che il console ermanno pronun-
Apano»; n. 920, 1168 gennaio 23, Padova; n. 945, 1169?; n. 989, 1170 febbraio 11, Padova; n. 1054, 1171 dicembre 4, <Padova>; n. 1081, 1172 luglio 8, Padova; n. 1136, 1174 gennaio 4, Padova. 80 Ibid., I, n. 549, 1151 luglio 30, Padova, nella domus vescovile; n. 567, 1152, luglio 18, Padova; n. 594, 1153 giugno 12, Padova, «in camera episcopi»; n. 599, 1153 ottobre 3, Padova, nel palazzo episcopale; n. 600, n. 1153 ottobre 3, Padova, nel palazzo episcopale; n. 617, 1154 maggio 31, Padova; CdP, II, n. 664, 1156 giugno 21, Padova, nel palazzo episcopale; n. 673, 1157 , <Padova>; n. 678, 1157 aprile 3, Padova; n. 693, 1158 febbraio 11, Padova; n. 745, 1160 agosto, 24, Padova, nel palazzo episcopale; n. 754, 1160 dicembre 23, Padova; n. 832, 1163 novembre 2, Padova; n. 740, 1160 maggio 12, Padova; n. 924, 1168 marzo 20, Padova; n. 946, 1169 gennaio 3, Padova; n. 955, 1169 maggio 26, <Padova>; n. 1064, 1172 febbraio 21, Padova. 81 Ibid., II, n. 743, 1160 luglio 18, Padova, nel palazzo episcopale; si tratta di una sentenza pronunciata dal vescovo Giovanni, e Faletrus nella sua completio si qualifica «notarius atque causidicus» e dichiara di agire in virtù della iussio ricevuta dal presule. Identica qualifica aveva già assunto in precedenza: in una donazione e in favore dei canonici (ibid., I, n. 493, 1147 agosto 27, <Padova>, nella chiesa di Santa Giustina) e in una del vescovo bellino (ibid., I, n. 497, 1147 novembre 15, Padova, nel palazzo vescovile); in atti dei canonici (ibid., I, n. 512, 1148 dicembre 31, Padova) e del vescovo Giovanni (ibid., I, n. 521, 1149 settembre 5, Padova, nella cappella vescovile; n. 522, 1149 settembre 8, Padova, nella camera del vescovo); in una transazione riguardante il monastero di San Cipriano (ibid., I, n. 540, 1150 novembre 4, Padova); in un atto attinente ad un feudo vescovile (ibid., I, n. 556, 1152 gennaio 7, Padova, nel palazzo vescovile); in una transazione avente per oggetto terre di proprietà dei canonici (ibid., II, n. 661, 1156 marzo 21); in una donazione in favore del monastero di San Pietro di Padova (ibid., n. 681, 1157 giugno 28, Padova); in una vendita in favore del monastero di San Cipriano (ibid., n. 717, 1159 marzo 7, Pedraga). 82 Ibid., II; n. 896, 1166 settembre 2, Padova, «in communi palacio». nel 1169 una sentenza è messa per iscritto dal notaio Pietro che afferma di aver agito per ordine del giudice che a sua volta l’aveva emanata su incarico del console: ibid., II, n. 968, 1169 ottobre 29, Padova. Mi chiedo se questo notaio non possa essere identificato con l’omonimo notaio autore della nota pace di Fontaniva ove per la prima volta sono attivi i consoli vicentini. 83 Ibid., n. 898, 1166 settembre 29, Padova, nel palazzo episcopale; n. 901, 1167 gennaio 22, Padova, nel palazzo episcopale; n.. 957, 1169 giugno 1, Padova, nella camera del vescovo; n. 1147, 1174 aprile 22, Padova, nel palazzo episcopale; n. 1165, 1174 novembre 2, Padova; n. 1174, aprile 10, Padova; n. 1176 maggio 7, Padova; n. 1212, 1176 marzo 1, Padova, nel palazzo episcopale; n. 1217, 1176 maggio 10, Padova; n. 1233, 1176 settembre 5, Padova; n. 1313, n. 1178 dicembre 23, Padova; n. 1343, 1179 dicembre 2, Padova; n. 1461, 1182 ottobre 25, Padova. 84 Ibid., n. 911, 1167 maggio 19, Padova; n. 912, 1167 maggio 30, Padova; n. 914, 1167 luglio 16, Padova; n. 915, 1167 agosto 6, Padova; n. 916, 1167 agosto 31, Padova; n. 961, 1169 luglio 24, Padova.
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ciò nel 1173, ma in questa occasione non v’è alcun riferimento ad un eventuale incarico a lui affidato dal magistrato85. La formula precettizia torna nella completio del giudizio pronunciato dal podestà Alberto de Osa nella causa vertente fra il Comune di Monselice e Iacopino di Marsilio da Carrara86. Il notaio questa volta è natale, attivo per il capitolo della cattedrale padovana87 e autore di un’altra sentenza podestarile del 1178 ove adotta il più quotidiano richiamo alla rogatio88. dovrebbero risalire al 1180 circa, le testimonianze escusse alla presenza dei consoli padovani raccolte dal notaio Pasquale la cui completio restituisce informazioni interessanti anche in merito alle procedure di autenticazione adottate dal Comune nella convalidazione dei suoi atti. Il notaio infatti afferma di aver agito su ordine (iussio) dei consoli ma anche «iussu domini d. Armanni iudicis et consulis cum precone cum sigillo comunis eos vel eas attestationes constitutum est sigillari»89. un legame quello sotteso alla iussio non esclusivo del rapporto notaiComune. Si osserva infatti come i notai padovani la impiegassero non solo nei casi in cui rogavano per pubbliche autorità, bensì anche allorché lavoravano per enti religiosi e finanche per i privati. Sono sì ravvisabili dei deboli (deboli forse a causa della limitatezza delle fonti note) legami preferenziali fra alcuni notai e il Comune, ma questi professionisti – al pari di quanto abbiamo visto accadere a Verona – si distinguono per l’essere stati autori, talvolta per lungo tempo e con una certa assiduità, per l’episcopio o per il capitolo della cattedrale. Ciò nonostante il sempre più frequente impiego della iussio negli ultimi decenni del XII secolo pare essere un primo eloquente segnale di una incipiente definizione istituzionale dei rapporti notai-Comune, o comunque della volontà da parte della istituzione di incidere sui processi di produzione della sua documentazione e di rendere pubblico un tale intervento con la formula precettizia.
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Ibid., II, n. 1118, 1173 agosto 14, Padova, «in communi solario». Ibid., II, n. 1215, 1176 aprile 12, «Actum est hoc in Padua in laubia prefacte potestatis»; questa la sottoscrizione: «ego natalis sacri pal. not. interfui et iussu prenominate potestatis hanc sentenciam scribsi» (in copia del 1308). Lo stesso notaio redige una transazione fra privati nel 1177 stando «in solario communis»: ibid., II, n. 1281, 1177 dicembre 22. Per un ulteriore esempio si veda ibid., II, n. 1463, 1182 novembre 5, Padova, nel palazzo del vescovo; il notaio è Albertinus. 87 Ibid., II, n. 1235, 1176 ottobre 14, Padova; n. 1245, 1177 febbraio 3, Padova. 88 Ibid., II, n. 1297, 1178 maggio 16, Padova, «in solario comunis»; nella sottoscrizione il notaio si qualifica solamente come notaio del sacro palazzo. Qualche giorno più tardi roga per dei privati: ibid., n. 1298, 1178 maggio 20, Padova. Altri atti realizzati da natale: ibid., n. 1358, 1180 marzo 6, Padova. 89 Ibid., II, n. 1387, 1181 c., Padova.
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5. Una “burocrazia” poco “burocratizzata”? Le prime attestazioni della avvenuta burocratizzazione dei rapporti notai-Comune risalgono in quasi tutte le città della Marca Veronese agli anni novanta dell’undicesimo secolo. Tuttavia, lo si vedrà, nella pratica quotidiana i notai continuarono a lungo a redigere per il Comune utilizzando nelle loro sottoscrizioni la iussio e non una più esplicita qualifica funzionariale90. né vennero meno professionisti attivi per il Comune che continuarono a fare riferimento semplicemente alla rogatio. L’impressione andrebbe sottoposta a verifica: bisognerebbe meglio precisare quando, per rogare quali atti, per quali committenti questi diversi comportamenti si verificarono, aspetti sui quali non si può indugiare ora. occorrerebbe dimostrare altresì, se almeno in qualche periodo la definizione ufficiale di addetto alla scritturazione per il Comune fosse utilizzata solo in atti di “politica estera”, come negli accordi intercittadini. La mancanza di uniformità e di costanza nella adozione di definizioni ufficiali di subordinazione è comunque da intendere come segno significativo della indifferenza tanto da parte dei notai quanto dell’istituzione verso l’esplicitazione di qualificazioni funzionariali, del persistere della fluidità del rapporto notai-Comune. La stesura del rilevantissimo accordo del 1192 fra le città di Verona e Venezia, stipulato nella città dell’Adige, presenti numerose autorità veneziane (fra essi il cancelliere del duca) venne affidata dalle parti («fecimus anotari») alla mano pubblica di Corrado notaio del sacro palazzo «et comunis Verone», ma si dispose pure l’apposizione del sigillo comunale; fra i testi di parte veronese v’è pure Bonacausa notarius communis Verone91. non v’è dubbio: a quella data il Comune aveva già dato vita ad una sua “burocrazia notarile”, vigilava sulla produzione della propria documentazione e aveva adottato forme cancelleresche di convalida che si affiancavano a quelle proprie della tradizione notarile. C’è da dire però che siamo qui in presenza di un accordo con una città come Venezia, circostanza che potrebbe aver influito sulle formule e sulle modalità di emanazione dell’atto. nonostante una simile prova della sussistenza di una organizzazione, negli anni successivi solo alcuni dei notai chiamati a realizzare atti per il
90 Verci, Codice cit., n. LXX, 1202 luglio 13, Treviso; n. XCIII, 1220 maggio 23, Treviso. 91 C. Cipolla, Note di storia veronese, III, Trattati commerciali e politici del sec. XII, inediti o imperfettamente noti, «nuovo archivio veneto», 15/II (1898), n. 3, 1192 settembre 21, Verona.
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Comune veronese esplicitarono la loro subordinazione, il che potrebbe significare che non tutti erano “notai comunali” o che non tutti (e nemmeno l’istituzione) ritenevano fosse necessario esplicitare quell’eventuale subordinazione. Quanto detto ora trova conferma in un manipolo di documenti realizzati nel 1193 in occasione di un evento di grandissima importanza politica per il Comune92. Il podestà della città nel settembre di quell’anno si recò nella rocca di Garda e, presenti le universitates e i rappresentanti di numerosi centri abitati della Gardesana e di altre personalità, prese possesso della località con solennità e fece apporre il vessillo del Comune di Verona sulla sommità della torre. Toccò a Martino, notaio del sacro palazzo, fissare sulla pergamena quell’avvenimento93. Il giorno dopo, il podestà si spostò a Rivoli, dove, con analoga solennità, prese possesso dell’arx. Ancora una volta rogò il notaio Martino, che evidentemente era al seguito del podestà94. In entrambe le occasioni egli scrisse semplicemente «rogatus interfui et scripsi»95. Il mese successivo, Verona conclude un trattato commerciale con Venezia, atto di indubbio rilievo anche questo, scritto per «manu Jacobini tabellionis communis et domini Wilielmi de osa potestatis Verone»96; anche in questo caso si dispone l’apposizione del sigillo della civitas di Verona. Si tratta dello stesso notaio Jacobinus astante, e sempre con il titolo (già usato, come detto, nel 1192) di «notarius comunis Verone», ad uno degli atti relativi alla cessione da parte dell’Impero di Garda97. orbene, dal confronto delle citazioni, attinenti tutte ad atti politici di peso, è evidente che il Comune, pur dotato di notai propri (ci si chiede però se qualcuno di essi non sia entrato in carica con l’arrivo del de Osa alla guida della città), non ricorreva ad essi con regolarità, oppure lo faceva solo in specifiche occasioni. Si potrebbe però formulare anche un’altra ipotesi. non si può escludere infatti che Martino fosse un collaboratore dei “notai comunali”, i soli evidentemente autorizzati a definirsi tali, ai quali 92 93 94 95
Castagnetti, Comitato di Garda cit., pp. 181-196. Ibid., n. 8, 1193 settembre 15, Garda. Ibid., n. 9, 1193 settembre 16, Rivoli. Martino potrebbe essere identificato con l’omonimo notaio autore nel 1212 di una delibera del podestà utilizzando nella sottoscrizione la iussio: L. Simeoni, Il comune veronese sino ad Ezzelino e il suo primo statuto, in Simeoni, Studi su Verona nel medioevo, II, cur. V. Cavallari, Verona 1960 (Studi storici veronesi, X), n. VIII, 1212 maggio 12, Verona, nel palazzo del Comune. 96 Cipolla, Note di storia veronese cit., n. IV, 1193 ottobre 4, Verona. 97 G. Sandri, Nuove notizie sull’antico cartolario del comune di Verona, in Scritti di Gino Sandri, Verona 1969, pp. 9-25, app., n. 3a, 1193 settembre 7, Verona.
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sarebbe spettata la stesura degli atti ritenuti di maggior impegno quali potevano essere per l’appunto quelli stipulati con Venezia. Anche per gli anni successivi si conoscono documenti in cui agiscono magistrati comunali veronesi rogati da notai che non adottano alcuna qualifica che li dichiari funzionari del Comune98, tanto da poter indurre a presumere che il Comune continuasse a servirsi anche di liberi professionisti al pari di qualsiasi altro committente privato. Particolarmente eloquenti in proposito sono alcuni atti emanati nel secondo decennio del duecento dai consoli di giustizia del Comune attinenti ad uno stesso ente ecclesiastico e tràditi nel suo archivio: sono tutti rogati da notai diversi, nessuno dei quali ricorre ad una formula autenticatoria nella quale si evidenzino legami con il Comune o con un qualche magistrato99, salvo qualche rarissima eccezione invero100. Per il discorso che stiamo portando avanti sono illuminanti due documenti rogati a Treviso sullo scorcio del secolo XII attinenti ai beni di Maria figlia di Gerardino da Camposampiero sui quali gravavano ingenti debiti101. 98 Si vedano ad esempio ASVr, Ospitale Civico, busta III, n.142, 1188 dicembre 30, Verona; busta II, n. 126b, 1203 giugno 19, Verona; ASVr, San Silvestro, b. 1, n. 46, 1188 agosto 23, <Verona>; n. 50, 1190 settembre 25, Verona; n. 58, 1195 febbraio 22, Verona; ASVr, Parrocchia di Santo Stefano, b. I, n. 84, 1201 aprile 4, Verona; n. 89, 1203 luglio 9, Verona. Si veda anche e. bonetti, Aspetti economici e sociali e signoria rurale dalla documentazione del monastero dei Ss. Nazaro e Celso con un’appendice di 100 documenti dal 1166 al 1195, tesi di laurea, università di Verona, Facoltà di Lettere e filosofia, rel. A. Castagnetti, a.a. 2001-2002, n. 50, 1182 aprile 14, Verona; n. 65, 1188 luglio 28, Verona; n. 74, 1190 novembre 28, Verona; n. 88, 1194 ottobre 14 (copia del 1304), Verona; n. 97, 1195 novembre 8, Verona, nel palazzo del comunale. 99 ASVr, San Salvar in Corte Regia, b I, n. 52, 1209 settembre 11, Verona, nel palazzo comunale; n. 54, 1212 […], nel palazzo comunale; n. 55, 1214 luglio […], nel palazzo comunale; n. 21, 1214 agosto 21, Verona; n. 54, 1218 settembre 5; n. 54, 1219 […]; n. 54, 1219 luglio 6, Verona, nel palazzo comunale; n. 54, 1219 agosto 27, Verona, nel palazzo comunale; n. 59, 1220 luglio 3, Verona; n 60, 1220 luglio 6, Verona, nel palazzo comunale. una trascrizione di questi documenti si trova in L. zanetti, Le carte del monastero di S. Salvar in Corte Regia di Verona (1109-1220), tesi di laurea, università di Verona, Facoltà di Lettere e filosofia, rel. e. barbieri, a.a. 1995-1996. ASVr, Santi Nazaro e Celso, busta n. 11, n. 457, 1203 gennaio 30, Verona, nel palazzo comunale; n. 458, 1203 febbraio 12, Verona, nel palazzo comunale; busta n. 18, n. 979, 1213 ottobre 9, Verona, nel palazzo comunale; busta n. 11, n. 464, 1225 agosto 19, Verona, nel palazzo comunale. Altri esempi in S. Inama, La chiesa dei Santi Apostoli dal 1178 al 1230 (con un’appendice di 121 documenti inediti), tesi di laurea, università degli Studi di Verona, Facoltà di lettere e filosofia, rel. G. de Sandre Gasparini, a.a. 1994-1995, n. 57, 1201 marzo 9, Verona; n. 106, 1223 giugno 8, Verona. 100 ASVr, San Salvar in Corte Regia, b. 1, n. 53, 1211 gennaio 19 e 20, Verona nel palazzo comunale: «ego Albertus sacri palacii notarius rogatus interfui et iussu domini Lanfranci iudicis et consulis V(erone) iusticie scripsi». 101 I documenti in questione sono stati studiati da d. Rando, Evoluzioni istituzionali. Dal “giuramento d’ufficio” allo statuto, in Rando, Religione e politica nella Marca. Studi su
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Il caso in esame rimanda ad un momento ancora di sperimentazione, che restituisce una immagine delle istituzioni comunali nel loro divenire e forse proprio per questo particolarmente interessante. I consoli cittadini, dopo le ripetute istanze presentate dai creditori, decisero di eleggere tre uomini di chiara fama con il compito di stimare il patrimonio di Maria e di venderlo per dare soddisfazione ai creditori. La vicenda va collocata entro la più ampia questione delle vendite giudiziarie e della funzione svolta dagli stimatori del Comune, ufficiali preposti dal Comune, la cui mansione principale consisteva nel fare la stima e nel vendere i beni dei debitori insolventi. Si tratta di un ufficio che assunse grande importanza nelle strutture di governo a Treviso ma pure in altre realtà che andrebbero indagate anche da questo punto di vista. ebbene, l’atto, con il quale nel marzo del 1187 un podere di Maria viene alienato, è rogato nella domus comunis davanti ai consoli «et etiam cum eorum decreto», dal notaio erimanno su mandato dei consoli. un percorso del tutto analogo a quello osservato per Verona si verificò a Vicenza. Il giuramento di fedeltà del Comune e degli uomini di bassano e Margnano a Vicenza è scritto da Cirus che nell’escatocollo mette in evidenza la volontà certificatrice del Comune vicentino riferendosi al mandato ricevuto dal podestà102. Cirus non è personaggio sconosciuto, ma in nessun altro caso sino ad ora noto rogò come “notaio comunale”103. Altri professionisti negli anni successivi redigeranno per conto delle pubbliche autorità atti nella cui completio inseriscono formule di iussio104, ma nemmeno in questa città ciò avviene in modo costante105, non almeno sino al secondo decennio del secolo XIII106. In ben altra direzione conducono due attestazioni che Pietro Torelli interpretò come prove certe della già avvenuta svol-
Treviso e il suo territorio nel secoli XI-XV, I, Società e istituzioni, Verona 1996 (biblioteca dei quaderni di storia religiosa, I), pp. 87-94. 102 G. Gualdo, Contributo per un codice diplomatico vicentino, tesi di laurea, università degli Studi di Padova, rel. b. Pagnin, 2 voll., aa. 1952-1953, II, n. 139, 1175 ottobre 8, Vicenza. 103 Ibid., n. 95, 1160 maggio 29, Vicenza; n. 96, 1160 giugno 29, Vicenza; n. 120, 1166 febbraio 28, Vicenza; n. 147, 1178 aprile 17, Vicenza; n. 153, 1179 dicembre 16, Vicenza; n. 166, 1182 novembre 14, Vicenza; n. 127, 1173 gennaio 25, Vicenza. 104 e. Caliaro, Movimenti di capitale e lotte politiche a Vicenza tra XII e XIII secolo (1184-1222) sulla base di 122 documenti trascritti e pubblicati, università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e filosofia, rel. G. Cracco, aa. 1980-81, n. 24, 1196 dicembre 20, Vicenza. 105 Ibid., n. 58, 1206 agosto 23, Vicenza; n. 60, 1206 novembre 2, Vicenza; n. 73, 1210 aprile 3, Vicenza; n. 88, 1214 novembre 14, Vicenza. 106 Verci, Codice cit., n. LXXIX, 1212 aprile 18, Vicenza; Caliaro, Movimenti cit., n. 89, 1214 dicembre 19, Vicenza; n. 111, 1221 aprile 20, Vicenza; n. 112, 1221 agosto 28,
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ta in senso “funzionariale” del notariato comunale vicentino107. La prima, un atto del 1209 concernente la vendita di beni del Comune, proverebbe che alcuni notai agivano in quanto ufficiali del Comune108; la seconda, un atto rogato «in ponticello domus comunis Vincencie supra terram guarbam cancellarie»109, non lascerebbe dubbi sulla attività di un “ufficio” preposto alla produzione di documentazione del Comune. d’altronde che entro il primo decennio del XIII secolo anche a Vicenza vi fossero dei notai comunali “funzionari” dell’istituzione viene confermato dalla qualifica importante e rivelatrice («et nunc notarius camere») adottata da alcuni notai redattori di delibere dei consigli cittadini110. da quanto esposto si evince che nei decenni posti a cavallo dei secoli XII-XIII per quanto attiene ai rapporti notai-Comune si era ancora in una fase che potremmo definire di “sperimentazione”, di fluidità. Si era tuttavia innescato un processo destinato a maturare di lì a poco, sia pur in tempi e modi diversi da città a città. Vedremo che a Verona come a Treviso il processo di “assorbimento” pieno entro le strutture istituzionali del Comune dei notai autori di documentazione comunale giunse a compimento (almeno dal punto di vista normativo) proprio agli inizi del duecento. erano del resto quelli gli anni della definizione delle istituzioni comunali, dell’articolazione in uffici e dello sviluppo delle loro scritture. 6. La burocrazia “normalizzata” Il processo evolutivo istituzionale del Comune si può seguire per Treviso grazie alla fortunata situazione documentaria e in particolare alle ricche redazioni degli statuti, utili per conoscere modalità di reclutamento, numero e ruolo dei notai comunali. non è possibile entrare qui nel detta-
Vicenza; n. 113, 1221 novembre 25, Vicenza; n. 116e, 1222 aprile 20, Vicenza; n. 117a, 1222 agosto 27. Si veda anche P.M. Gheno, Le origini degli umiliati di Vicenza con appendice di 150 documenti inediti dal 1190 al 1260, 2 voll., università di Padova, Facoltà di Lettere e filosofia, rel. A. Rigon, a.a. 1990-1991, n. 9, 1218 novembre 30, Vicenza. 107 Torelli, Studi cit., p. 87. 108 Verci, Codice cit., n. LXXVII, 1209 novembre 16, Vicenza, «in domo comunis, in plenario […] consilio»; roga Andreas notaio del sacro palazzo. 109 Ibid., n. LXXVIII, 1211 febbraio 4, Vicenza; il notaio roga ex precepto. 110 Caliaro, Movimenti di capitale cit., n. 111, 1221 aprile 20, Vicenza; n. 116e, 1222 aprile 20, Vicenza; n. 117d, 1223 maggio 5, Vicenza. Si noti che è la stessa qualifica utilizzata in anni non lontani a Treviso (cfr. nota 114).
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glio. basterà pertanto richiamare l’influenza riconosciuta al notariato nell’amministrazione del Comune e la parallela crescita quantitativa della documentazione scritta con l’adozione di nuove forme documentarie in “forma di libro”, o meglio, di “quaderni” e “liste”111. I notai trevigiani attorno alla metà del secondo decennio del duecento ottennero dal podestà che la redazione dei documenti spettasse a cento di loro, anche se solo un numero ben inferiore avrebbe poi effettivamente occupato negli uffici (11 nel 1214)112. Con la specializzazione degli uffici e il loro moltiplicarsi, aumentavano il numero dei notai necessari, reclutati (tutto ciò è evidente confrontando le versioni statutarie del 1207 e del 1231)113: erano i cosiddetti notai de camera114. essi dovevano essere a disposizione del Comune in particolare per l’attività giudiziaria. Più che l’attività presso i singoli uffici comunali, infatti, era l’amministrazione della giustizia ad offrire ai notai maggiori opportunità di lavoro data la complessità delle procedure giudiziarie e il numero delle vertenze115. nel contempo si verificava una crescita degli atti redatti dai notai funzionari e delle loro tipologie, la loro articolazione in “libri” tenuti dai diversi uffici e dai loro notai, divenuti nel giro di un ventennio i veri protagonisti dell’espansione della produzione scritta comunale attentamente disciplinata dalle disposizioni statutarie116. discorso analogo si potrebbe fare per Verona. Il Liber iuris di quella città di Verona fissa le funzioni della burocrazia notarile del Comune: scrivere «Acta publica, seu scripturas publicas, ad causas sive placita vel ad comune Verone pertinentes aut sententias vel aliqua precepta»117. La medesima fonte attesta l’avvenuta designazione agli inizi del XIII secolo di notai addetti ai diversi uffici del comune118. Anche a Verona dunque, per 111 Su questi aspetti si rimanda a G. Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione duecentesco, «Rivista storica italiana» 108 (1996), pp. 149-229; L. baietto, Elaborazione di sistemi documentari e trasformazioni politiche nei comuni piemontesi (secolo XIII). Una relazione di circolarità, «Società e storia», 98 (2002), pp. 645-679, e ora al saggio di Massimo Vallerani in questo volume. 112 Gli statuti del Comune di Treviso, II, Statuti degli anni 1231-33 – 1260-63, ed. G. Liberali, Venezia 1951 (Monumenti storici della deputazione di storia patria, IV), p. 180. 113 G. Husmann, Sviluppo istituzionale e tecniche elettive negli uffici comunali a Treviso: dai “giuramenti d’ufficio” agli statuti, in Storia di Treviso, II, Il medioevo, cur. d. Rando – G.M. Varanini, Venezia 1991, pp. 103-134: 120. 114 Gli statuti del Comune di Treviso cit., II, p. 180. 115 Husmann, Sviluppo istituzionale cit., p. 119. 116 Gli statuti del Comune di Treviso cit., II, p. 37. 117 Liber iuris civilis urbis Veronae, ed. b. Campagnola, Verona 1728, posta 5. Cfr. Simeoni, Il comune veronese sino ad Ezzelino cit., pp. 5-105. 118 Liber iuris civilis cit., si confrontino le poste 34, 53, 166, 208.
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quanto ne siano rimaste scarse tracce nelle carte d’archivio superstiti, il Comune, oramai articolato in più uffici, aveva legato a sé un gruppo di notai con vincoli di tipo “funzionariale” addetti alla registrazione degli atti comunali su appositi libri119, libri d’ufficio, destinati cioè a raccogliere atti di materie diverse, come ad esempio quelli di carattere economico e giudiziario, e ad essere conservati nel pubblico archivio120. In anni non lontani pure a Padova l’attività dei numerosi notai impiegati entro le strutture del Comune venne normata121. e simili considerazioni potrebbero essere svolte, nonostante la penuria di fonti, per Vicenza122. di tutte queste “scritture pragmatiche” restano ben pochi testimoni persino per una realtà ben documentata come Treviso. Le prime notizie non sono anteriori agli inizi del secolo XIII. Interessa qui fare riferimento in modo particolare alla menzione di quaterni specificamente pertinenti alle singole magistrature, ovvero i prodotti della attività ordinaria dei singoli uffici. non è un caso che le più antiche attestazioni di documentazione in registro siano relative agli estimatori dei beni dei debitori insolventi, il cui ruolo – vi abbiamo già fatto riferimento – fu assai importante per la storia istituzionale del Comune trevigiano123. Mi limito a ricordare poi che un’addizione agli statuti del 1208 prevede che una volta effettuata, la stima del bene «in quaternione extimatorum et notarii in scriptis reducant»124. 119
Cipolla, Verona e la guerra contro Federico Barbarossa cit., p. 75: «Anno a nativitate domini nostri Iesu Christi millesimo centesimo octuagesimo quarto […] domino Vibertino de Carcere, Petro Lendenaria, domino Jacobo Montichi procuratoribus comunis Verone existentibus, Liber iste comunis ab eis constructus fuit, in quo omnia acta et ordinamenta civitatis Verone continentur et postea in sequentibus annis ab aliis continuatus fuit». Cfr. Pagnin, Note di diplomatica cit., p. 12. 120 Liber iuris civilis cit., poste 166 e 269, ove si prescrive l’iscrizione dei banditi «pro maleficiis, qui sunt scripti in libro comunis, in alio libro comunis Verone». Cfr. Pagnin, Note di diplomatica cit., p. 13. 121 Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, ed. A. Gloria, Padova 1873, XXII, De numero officialium ordinariorum et eorum salariis, n. 231: «Preterea eligantur sex notarii ad canipas comunis, duo notarii ad exigendum banna. Tres notarii cataverorum. duo notarii ingroxatorum […] duo notarii iusticieriorum […] Item eligantur duodecim notarii ad consules […] et sex notarii iudicum potestatis eligantur […] octo notarii ad officium sigilli. et decem notarii eligantur ad procuratores et extimatores […] et quadraginta notarii eligantur ad palacium coram iudicibus palacii […]». 122 basti ora rinviare a Statuti del comune di Vicenza MCCLXIV, (Monumenti storici pubblicati dalla R. deputazione veneta di storia patria), Venezia 1886, p. 98: «et nullus credatur esse bannitus nisi in libro comunis scriptus foret, nullusque credatur extractus de banno nisi mortificatus fuerit in libro forbannitorum cum signo et nomine notarii». 123 Per quanto esposto nel testo si rimanda a Varanini, Nota introduttiva, in Acta comunitatis Travisii cit., pp. XXIV-XXV. 124 Gli statuti del Comune di Treviso, I, Statuti degli anni 1207-1218, ed. G. Liberali, Venezia 1950 (Monumenti storici della deputazione di storia patria, IV), p. 82.
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osservazioni possono essere fatte relativamente agli uffici giudiziari. Risulta infatti che il giudice del podestà e i suoi colleghi dovevano far scrivere le sentenze «in quaternionibus usque ad condempnationem vel absolutionem antequam legantur». La normativa evidenzia il perfezionarsi delle procedure e del ruolo del notaio: nella compilazione degli anni 12311233 si precisa da parte del giudice «quod omni edomada legam meum quaternum cum quaterno notarii mei ad videndum si scriptura concordat»125. I notai dei consoli avevano un proprio quaterno126. Insomma, per Treviso è evidente come il processo di diversificazione della produzione documentaria entro un ordinamento amministrativo piuttosto strutturato avesse ben presto raggiunto un elevato grado di definizione. Va ricordato inoltre il «quaternus postarum» del 1209, (ne rimane un bifoglio mutilo) che raccoglie gli accordi stipulati fra il Comune con signori e comunità realizzato dal notaio Litaldino127. Si tratta di un notaio importante per la politica documentaria trevigiana. Con la sua attività accompagna lo sviluppo istituzionale del Comune per un quarantennio, dal 1169 (anno in cui roga «iussu consulum») sino alla fine del primo decennio del duecento. In tutti questi anni redasse per il Comune copie di atti pubblici di grande importanza come gli accordi con i da Camino (1195). Ma mai, per quanto è dato sapere, egli assunse una qualche qualifica che ne evidenzi il legame funzionariale con il Comune. eppure il suo profilo e la sua attività ne fanno un uomo di fiducia delle istituzioni, capace di rispondere alle loro esigenze di politica documentaria; un uomo che con la sua professionalità accompagnò il maturarsi dei processi documentari comunali. Litaldino ricorda altre analoghe figure. Si pensi al notaio veronese enverardo, in grado di gestire sullo scorcio del XII secolo una operazione tanto complessa quale fu la “pianificazione” della grande bonifica di Palù voluta dal Comune cittadino come testimonia il suo «Liber de divisionibus paludis comunis»128. di lui abbiamo ben poche altre attestazioni e soprattutto non risulta aver mai assunto il titolo di “notaio comunale”, anche se nel 1201 metterà per iscritto una delibera del consiglio cittadino «iussu domini Salinguerre potestatis»129. Si pensi inoltre a quel
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Gli statuti del Comune di Treviso II, cit. p. 91. Varanini, Nota introduttiva cit., p. XXVIII. Ibid. A. Castagnetti, Primi aspetti di politica annonaria nell’Italia comunale. La bonifica della “palus comunis Verone” (1194-1199), «Studi medievali», III ser., 13 (1974), pp. 363481: 414-481. 129 Simeoni, Il comune veronese sino ad Ezzelino cit., n. V, 1201 novembre 7, Verona.
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notaio Calvo cui venne affidata la compilazione del più antico corpus statutario veronese conosciuto, anch’egli non particolarmente noto130. Sono esempi eloquenti del permanere negli anni della normalizzazione dei rapporti notai-Comune e della comparsa delle qualifiche funzionariali di rapporti ancora fluidi, specchio della autonomia e della professionalità del notariato.
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Ibid., pp. 84-98.
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NOTARIATO NELL’ITALIA NORD-ORIENTALE: PRODUZIONE ERUDITA, PROSPETTIVE STORIOGRAFICHE
1. Il notariato nel Patriarcato Il primo studio sul notariato di area friulana si deve a Pietro Someda de Marco, che nel 1958 dava alle stampe un lavoro che si proponeva di offrire un quadro analitico dello “status” della questione dai primordi del notariato fino all’anno precedente all’edizione1. Le vicende del notariato e dei suoi protagonisti, le loro vite e percorsi, oggetto di veloci presentazioni o di più accurati approfondimenti, sono strettamente legate alle vicende politiche, ecclesiastiche e sociali che caratterizzarono la storia friulana. In seguito gli studi sul notariato di area patriarchina hanno focalizzato l’attenzione soprattutto sui registri prodotti dalla chiesa di Aquileia, che sono stati oggetto negli ultimi anni di edizioni critiche nel quadro delle pubblicazioni per le fonti della storia della Chiesa in Friuli. La prima analisi su tali registri fu proposta da Ivonne Zenarola Pastore, allora direttrice dell’Archivio di Stato di Udine, nel lavoro dedicato agli atti della cancelleria dei patriarchi rogati tra il 1250, anno che coincide circa con i più antichi documenti pervenutici attraverso l’archivio notarile conservato presso l’Archivio di Stato di Udine, e il 1420, anno nel quale il Patriarcato divenne parte della Terraferma Veneta2. L’autrice avanzava alcune caute ipotesi sull’origine della cancelleria patriarchina sulla quale sono poche le testimonianze fondate su esempi di documenti dell’ XI secolo e della prima metà di quello successivo. Le fonti prese in esame sono conservate nel1 P. Someda de Marco, Notariato friulano, Udine 1958. 2 I. Zenarola Pastore, Atti della cancelleria dei patriarchi di Aquileia (1265-1420), Udine
1983. L’organizzazione e la produzione documentaria della cancelleria patriarcale era stata
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l’Archivio di Stato di Udine, nella Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» e nel Seminario Vescovile e in un caso nella Biblioteca Marciana di Venezia. La dispersione archivistica di quello che sarebbe stato l’archivio della cancelleria patriarcale viene motivata con l’uso di affidare gli atti dei notai defunti ad altri notai. I registri notarili del Patriarcato iniziarono verso il 1200 quando, dopo un’interruzione piuttosto lunga durata per la seconda metà del XI secolo e la maggior parte del XII secolo, furono impiegati nella curia i primi notai professionisti. Si tratta di notai che non si limitavano a scrivere solamente documenti per i patriarchi, accettando sovente di rogare atti di diritto privato per conto di diversi committenti. I protocolli prodotti da questi notai contengono pertanto documenti di varia natura dove quelli prodotti per conto della curia patriarcale si giustappongono a quelli redatti per conto dei privati. La Zenarola Pastore propose la regestazione di circa duemila documenti dei quali sono fornite le collocazioni archivistiche. Un’ulteriore riflessione sulla cancelleria patriarchina, con risultati spesso contrastanti con quanto suggerito dall’autrice, fu avanzata nello stesso periodo dalla direttrice dell’Archivio di Stato di Trieste Maria Laura Iona. Essa confutava l’ipotesi dell’esistenza nel corso del Duecento di una cancelleria patriarchina, seppure caratterizzata da un basso livello organizzativo, tale comunque da essere in grado di predisporre una sorta di archivio dei documenti prodotti dal patriarca. Sulla scorta degli atti del XI e del XII secolo la Iona asseriva che non sarebbe mai esistito un gruppo identificato di notai curiali, mentre sembra fosse, invece, piuttosto diffuso l’uso di cercare saltuariamente le persone adatte a regestare i documenti tra i chierici e i notai operanti in regione3. L’esistenza di una sorta di processo di formazione per i notai assunti dalla cancelleria patriarchina e di coloro che si apprestavano a seguire la precedentemente oggetto di approfondimenti da parte di studiosi austriaci: nel 1870 Josef von Zahn pubblicò uno studio sui registri dei notai e della Curia patriarcale: Archivalische Untersuchungen in Friaul und Venedig, «Beiträge zur Kunde steiermärkischer Geschichtsquellen», 7 (1870), pp. 56-170: 136-140; 9 (1872), pp. 83-118: 99-112. Il testo propone una serie di elenchi con i nomi dei notai, indicando le caratteristiche degli atti rogati e il loro stato e luogo di conservazione. Nel 1933 Reiner Puschnig propose una riflessione sulla produzione diplomatica del Patriarcato fino ai primi anni Trenta del Trecento che, apparsa solo in forma dattiloscritta, non ha avuto un’ampia diffusione: Das Urkundenwesen der Patriarchen von Aquileia, Wien 1933 («Staatsprüfungsarbeit» dell’Institut für Österreichische Geschischtsforschung). L’autore si soffermò però solamente sui documenti singoli, in originale e in copia, trascurando la produzione in registro. Si veda ancora il lavoro di M. L. Iona, Note di diplomatica patriarcale, in Il Friuli dagli Ottoni agli Hohenstaufen. Atti del Convegno internazionale di studio (Udine, 4-5 dicembre 1983), Udine 1983, pp. 245-302 3 Iona, Note di diplomatica patriarcale cit. Sui primi lavori condotti sui registri notarili si veda la disamina di R. Härtel, Note sui registri patriarcali di Aquileia, in I registri vescovi-
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carriera ecclesiastica viene messo in evidenza, sempre per il medesimo periodo, da Cesare Scalon, che presenta una serie di testimonianze documentarie provenienti dall’Archivio Capitolare di Udine relative al periodo che va dal XII secolo alla metà del secolo successivo4. La produzione notarile aquileiese fino alla metà del XIII secolo venne in seguito esaminata con attenzione e minuzia dallo studioso austriaco Reinhard Härtel impegnato a portare a termine il progetto, voluto nel 1979 da Friedrich Hausmann, che auspicava la preparazione di quello che avrebbe dovuto essere il “Codice Diplomatico del Patriarcato di Aquileia” e che si proponeva di fare l’edizione dei documenti prodotti sino al 1250, anno in cui la tradizione documentaria conobbe un deciso mutamento imputabile a un cambiamento di natura politica con la nomina a patriarca di Gregorio di Montelongo, primo prelato di provenienza italiana dopo anni in cui il Patriarcato era retto da patriarchi di origine tedesca. La presenza di notai di origine italiana nella curia patriarcale avrebbe condizionato la produzione documentaria con l’introduzione della pratica della scrittura in registro, che determinò immediatamente un aumento considerevole della documentazione conservata5. Fino ad oggi sono stati pubblicati tre volumi che costituiscono una parte del codice e che seguono un percorso di tipo istituzionale6. Nell’ultimo periodo un progetto delli dell’Italia settentrionale (secoli XII-XV), cur. A. Bartoli Langeli - A. Rigon, Roma 2003 (Italia Sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica, 72), pp. 311-326. 4 C. Scalon, Diplomi patriarcali. I documenti dei patriarchi aquileiesi anteriori alla metà del XIII secolo nell’Archivio Capitolare di Udine, Udine 1983 (Quaderni e dispense dell’Istituto di storia dell’Università degli studi di Udine, 8), pp. 9-16. Lo Scalon ha peraltro posto l’attenzione sulla presenza di notai provenienti da altre regioni italiane prima del tardo Medioevo; in particolare, l’attenzione è stata rivolta alla figura di Romolo, canonico, cappellano e protonotaio, e poi vescovo di Concordia: Un documento aquileiese inedito del 1183, in Studi Forogiuliesi in onore di Carlo Guido Mor, Udine 1983, pp. 127-140. Sulla figura del notaio si veda inoltre R. Härtel, La carriera di Romolo,vescovo di Concordia, «Metodi e ricerche», n. ser., 13/1-2 (1994), pp. 13-30. L’iniziativa di Romolo è all’origine della stesura del Necrologium Aquileiense, ed. C. Scalon, Udine 1982 (Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli, 11). 5 Sull’edizione dei documenti del patriarcato d’Aquileia si veda R. Härtel, Il progetto di ricerca e di edizione. Urkundenbuch des Patriarchats Aquileia (Codice diplomatico del patriarcato d’Aquileia), «Memorie Storiche Forogiuliesi», 64 (1984), pp. 177-186. Dell’autore si legga Tre secoli di diplomatica patriarcale (944-1251), in Il Patriarcato di Aquileia. Uno Stato nell’Europa medievale, cur. P. Cammarosano, Udine 1999, pp. 229-262. 6 Sino ad oggi sono stati pubblicati: Die älteren Urkunden des Klosters Moggio (bis 1250), ed. R. Härtel, Wien 1985 (Publikationen des Historischen Instituts beim österreichischen Kulturinstitut in Rom. II. Abteilung, 6. Reihe: Vorarbeiten zu einem Urkundenbuch des Patriarchats Aquileia, 1) e Die älteren Urkunden des Klosters S. Maria zu Aquileia (1036-1250), ed. Härtel, Wien 2005 (Publikationen des Historischen Instituts
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l’Università di Graz, coordinato dallo stesso Härtel, ha affidato alla studiosa Anja Thaller un progetto per l’edizione e commento dei documenti riguardanti i rapporti esistenti tra il Patriarcato di Aquileia e il Comune di Treviso e i vescovadi di Feltre, Belluno e Ceneda. Sul periodo preso in esame da Härtel si è soffermato Marino Zabbia in uno studio fondamentale pubblicato insieme a Giordano Brunettin nel 2003 e apparso negli atti del Convegno sui registri vescovili dell’Italia settentrionale pubblicati nella serie «Italia Sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica»7. Entrambi gli studiosi concordano nell’indicare quale regione documentaria una zona territoriale precisa, che è identificata tra l’Isonzo e il Tagliamento. In questi territori l’“imprinting” dato dall’arrivo di notai provenienti dalle altre zone d’Italia avrebbe condizionato la produzione della cancelleria ma anche la scrittura degli atti privati dal momento che sovente i notai erano soliti rogare, come abbiamo già sottolineato, anche per una clientela privata. Un esempio di questa duplice produzione notarile può essere ritrovata nei registri di imbreviature di Maffeo di Aquileia, rispettivamente del 1321 e del 1332, oggetto di pubblicazione in un lavoro curato da Flavia de Vitt8. Gli atti editi rimandano ad una figura di notaio saltuariamente a servizio della curia patriarcale per conto del Comune di Aquileia e della gastaldia di Fiumicello e Turriacco (sono circa una decina gli atti che testimoniano questa attività) e costantemente impegnato a rogare atti vari di natura privata nel territorio di residenza9. L’analisi dei documenti contenuti nei
beim österreichischen Kulturinstitut in Rom. II. Abteilung, 6. Reihe: Vorarbeiten zu einem Urkundenbuch des Patriarchats Aquileia, 2). Le edizioni dei documenti dei monasteri di Rosazzo e Beligna sono in fase di conclusione, mentre quelle dei documenti del capitolo di Aquileia sono ancora in uno stadio preliminare. I documenti antichi della prepositura di S. Stefano di Aquileia (fino al 1251) sono stati pubblicati nella tesi di laurea di Anja Thaller e riproposti nell’«Archiv für Diplomatik» 52 (2006), pp. 1-147. Si veda inoltre Härtel, Itinerar und Urkundenwesen am Beispiel der Patriarchen von Aquileia (12. und 13. Jahrhundert), «Römische Historische Mitteilungen», 31 (1989), pp. 93-121. 7 G. Brunettin - M. Zabbia, Cancellieri e documentazione in registro nel Patriarcato di Aquileia. Prime ricerche (secoli XIII-XIV) in I registri vescovili dell’Italia settentrionale (secoli XII-XV) cit., pp. 327-372. 8 F. de Vitt, I registri del notaio Maffeo di Aquileia (1321-1332), Roma 2007 (Istituto Storico per il Medioevo - Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli dell’Istituto Pio Paschini, Serie Medievale, 4). 9 Tra gli atti di natura privata del notaio Maffeo sono numerosi i documenti di prestito, le compravendite e le nomine di procuratori. La curatrice attraverso l’analisi degli atti notarili ricostruisce il tessuto sociale ed economico della Aquileia di primo Trecento.
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registri mostra chiaramente che il notaio non era solito adoperare scritture differenti nella redazione dei documenti, che pure avevano una diversa committenza. Probabilmente Maffeo di Aquileia, che fu contemporaneo a cancellieri ben conosciuti, quali Gubertino del fu Ressonado da Novate, Eusebio di Iacopo da Romagnano e Gabriele del fu Enrigino da Cremona, offriva le proprie competenze alla curia patriarcale in modo del tutto occasionale e molto probabilmente non faceva parte dell’entourage dei collaboratori fissi del patriarca Pagano della Torre. La commistione di atti di natura privata e documenti rogati per conto del patriarca si ritrova anche in altri registri prodotti precedentemente al periodo in cui era attivo il notaio di Aquileia e in particolare durante il Patriarcato di Ottobono dei Razzi10. La De Vitt si era già occupata in passato del notariato friulano in un Convegno tenutosi del 2004 sulle Chiese e i notai tra i secoli XII e XV, dove aveva proposto un’analisi della documentazione prodotta da costoro per le parrocchie e le pievi, con un affondo sui registri battesimali, sui contratti matrimoniali e sui testamenti11. Ritornando alla produzione in registro, che iniziò nel Patriarcato alla metà del Duecento su influenza dei notai italiani chiamati a prestare i loro servigi sia nella curia patriarcale, guidata da presuli di origine italiana, sia per conto dei lombardi e dei toscani che si erano stabiliti in Friuli per esercitare attività creditizie e commerci, si deve sottolineare come molti siano gli aspetti che attendono ancora un’attenta riflessione. Si pensi, ad esempio, al ruolo dei notai di origine allogena, che non sono ancora stati oggetto di uno studio sistematico e che, dopo aver utilizzato a lungo la soluzione dell’instrumentum, iniziarono a raccogliere le loro imbreviature in appositi registri come si soleva fare nel resto d’Italia. Alcune osservazioni sull’attività dei notai allogeni sono state proposte da Cristina Moro, che ha esaminato le carte conservate nell’Archivio capitolare di Udine12. Parafrasando Marino Zabbia, possiamo dire che negli anni in cui lo Studium bolognese aveva prodotto ed elaborato gli strumenti professionali dei quali avrebbero dovuto tener conto i notai la presenza di professionisti di origine italiana nella curia dei patriarchi fu in grado di favorire la
10 La commistione di atti privati e di atti pubblici è rinvenibile, ad esempio, nei registri di imbreviature del notaio Alberghetto de Vandolis e in quelli del notaio Tommaso di Flambro, contemporaneo di Maffeo di Aquileia. 11 F. de Vitt, Chiese, notai e famiglie fra Tre e Quattrocento, in Chiese e notai (secoli XII-XV), Sommacampagna-Verona 2004 (Quaderni di storia religiosa, 7), pp. 219-224. 12 Carte dell’Archivio capitolare di Udine, I (1282-1340), ed. C. Moro, Udine 1991(Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli, 2).
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propagazione delle nuove idee dell’ars notariae in una zona che altrimenti sarebbe rimasta emarginata rispetto a quanto era contemporaneamente prodotto in materia nel resto d’Italia. Va peraltro ricordato che la produzione cancelleresca patriarchina non si limitava al territorio prima ricordato, ma si estendeva alle terre sulle quali il potere patriarchino esercitava il proprio potere: in primo luogo l’Istria, l’attuale Carinzia e la Carniola in Slovenia13. Nel 1995 è stata data alle stampe una raccolta di documenti rogati nel Patriarcato secondo un criterio territoriale: Božo Otorepec pubblicò in forma di regesti circa 1444 documenti, che vanno dal 1270 al 1405 e che sono conservati negli archivi e nelle biblioteche udinesi, isolando tutti gli atti che interessavano la storia della Slovenia. La gran parte dei regesti è relativa ad atti patriarcali14. Nel corso del Trecento i notai che operavano nel Patriarcato registravano ormai abitualmente gli atti in appositi protocolli, pratica che è attestata anche nel caso degli atti prodotti dalla curia patriarcale. I protocolli, che avevano come finalità quella di dare certezza giuridica dei negozi registrati, diventarono una prassi documentaria diffusa anche nelle zone marginali del Patriarcato. La maggior parte dei registri notarili trecenteschi si contraddistingue per l’assoluta promiscuità degli atti registrati, con documenti che riguardano la sfera del diritto privato, quali compravendite, mutui, affitti, livelli, divisioni di beni familiari, testamenti, e atti concernenti il diritto pubblico, come arbitrati, infeudazioni, tregue e paci. L’ordine delle imbreviature è spesso cronologico anche se non rigoroso. La peculiarità di numerosi protocolli sembra essere, inoltre, la stesura degli atti in registro successivamente, anche di poco, al momento della stipulazione del negozio. Le riflessioni sui notai friulani sono contenute sovente in testi che propongono l’edizione critica dei protocolli stessi, presentata nella maggior parte dei casi, come ho già avuto modo di accennare, nella serie delle «Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli». Sono state privilegiate le edizioni dei documenti prodotti dai notai della curia patriarcale nel tentativo di superare, attraverso una sistematica edizione integrale dei registri dei notai superstiti, la soluzione documentaria curata da Giuseppe Bianchi, che è oggi in larga parte antiquata15. Oltre ai lavori prodotti dall’Istituto
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Brunettin - Zabbia, Cancellieri e documentazione cit., p. 333. B. Otorepec, Gradivo za slovensko zgodovino v arhivih in bibliotekah Vidma (Udine) 1270-1405, Izdala Ljubljana 1995 (Viri za zgodovino slovene, 14). 15 G. Bianchi, Documenti per la storia del Friuli, 2 voll.: I (dal 1317 al 1325), Udine 1844; II (dal 1326 al 1332), Udine 1845; Bianchi, Indice dei documenti per la storia del Friuli dal 1200 al 1400, Udine 1877.
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Pio Paschini vanno ricordate le edizioni dei documenti del notaio Gubertino da Novate eseguite da Giulio Silano nel 1990 e da Giordano Brunettin nel 2001 e nel 200416. Silano ha pubblicato solamente gli atti del notaio rogati tra il 1328 e il 1336, mentre è più completa la pubblicazione ad opera di Brunettin. Il notaio Gubertino da Novate entrò a far parte della cancelleria patriarcale sotto la protezione di Pagano della Torre almeno a partire dal 1328 e rimase attivo anche dopo la nomina del nuovo patriarca Bertrando di Saint-Geniés nel luglio del 1334. L’attività del notaio presso la curia continuò anche durante i patriarcati di Ludovico della Torre e di Marquardo di Randeck quando le testimonianze di una sua presenza iniziano ad essere sempre più rarefatte. Non sappiamo ancora quale fosse il meccanismo di arruolamento dei notai nella curia patriarcale, se fosse fatto direttamente con una convocazione diretta da parte degli ufficiali del patriarca o tramite una mediazione da parte dei notai di fiducia della famiglia torriana e che già lavoravano per conto della curia17. Giulio Silano ha esaminato i primi quattro registri rimastici della lunga attività del notaio, conservati nella Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine e nell’Archivio di Stato cittadino, e ha proposto una regestazione ampia di 263 atti patriarcali, metà dei quali è edita con il testo latino completo. L’autore dichiarava nell’introduzione del libro l’intenzione di proporre regesti piuttosto corposi, includenti talora anche le formule notarili, con lo scopo di agevolare lo studio degli studenti sprovvisti di conoscenza della lingua latina18. L’autore si soffermava in particolare sulla dispersione dell’archivio patriarcale del quale, come abbiamo ricordato, si era occupata la Zenarola Pastore, che aveva sostenuto la possibilità di uno spostamento dell’archivio nella città lagunare dopo la conquista dei veneziani nel 1420. Silano, rigettando l’ipotesi suggerita dalla Zenarola e anche quanto sostenuto da Guglielmo Biasutti, che aveva ritrovato tra le carte del canonico settecen-
16 G. Silano, Acts of Gubertinus de Novate, Notary of the Patriarch of Aquileia , 13281336. A Calendar with Selected Documents, Toronto 1990 e G. Brunettin, I protocolli della cancelleria patriarcale del 1341 e del 1343 di Gubertino da Novate, Udine 2001; Brunettin, Gubertino e i suoi registri di cancelleria patriarcale conservati presso la Guarneriana di San Daniele del Friuli (1335, 1337, 1340-1341-1342), San Daniele del Friuli 2004. 17 Brunettin, I protocolli cit., pp. 16-20. 18 Il lavoro del Silano è stato criticato nella sua impostazione da Reinhard Härtel, che riteneva fosse migliore un’edizione integrale di tutti i testi in latino, non riuscendo a capire esattamente quali fossero i criteri adottati nello scegliere di editare interamente o meno un documento: cfr. Note sui registri patriarcali di Aquileia cit., pp. 320-323.
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tesco Orazio Liliano la notizia della distruzione dell’archivio patriarcale custodito a Venezia per un incendio, sosteneva che non vi fosse nessuna prova, almeno fino alla metà del Duecento, che attestasse l’esistenza di un notaio preposto alla conservazione dei documenti prodotti dalla curia patriarcale. Il Silano riteneva quindi che quanto distrutto nell’incendio fosse solamente una parte dell’archivio. Il canonico Orazio Liliano nel riferire dell’incidente si era premunito di ricordare che esisteva un’unica cassa che conteneva tutti i documenti patriarcali. Era presumibile pensare, quindi, che la custodia contenesse solamente una parte dei diplomi ed eventuali altri documenti ritenuti di solenne importanza per il Patriarcato19. L’autore, sulla base della considerazione che gli atti dei patriarchi aquileiesi fino al 1420 non presentavano elementi distintivi per quella che avrebbe dovuto essere la produzione dei cancellieri e per quella dei notai, negava in modo deciso l’esistenza di una cancelleria patriarcale fino almeno agli inizi del Cinquecento. Nel periodo precedente i patriarchi si sarebbero rivolti ai tanti notai presenti nelle città, una larga parte dei quali era peraltro forestiera, senza aver creato un apparato cancelleresco vero e proprio. L’ipotesi del Silano sembra eccessiva se consideriamo che da più parti possiamo identificare indizi certi di una struttura cancelleresca esistente nel Patriarcato almeno dalla metà circa del XIII secolo, mentre era patriarca Gregorio di Montelongo, che come abbiamo ricordato, cambiò in maniera determinante l’organizzazione dell’amministrazione patriarcale. Giordano Brunettin in maniera più precisa di quanto fatto dal Silano si è soffermato, invece, sulla produzione documentaria del notaio e sull’uso del protocollo, una pratica che era stata introdotta nella curia aquileiese nella seconda metà del XII secolo dopo essersi consolidata nella cancelleria della Curia pontificia. L’autore approfondisce il tema della trasmissione della professionalità in ambito notarile all’interno della curia aquileiese mettendo in risalto il ruolo fondamentale svolto dai notai che provenivano dall’esterno e che erano chiamati direttamente dai patriarchi per coadiuvarli in seno all’amministrazione. Il notaio Gubertino, del quale l’autore edita i protocolli del 1341 e del 1343, aderiva nel suo operare in maniera sostanziale alle formule e ai principi giuridici prodotti dalla scuola bolognese, che era poi solito utilizzare adeguandoli agli schemi in uso nella cancelleria patriarchina. Giordano Brunettin indugia poi sulle caratteristiche
19 Guglielmo Biasutti ha desunto la notizia dell’incendio dell’archivio patriarcale dalla raccolta epistolare di Orazio Liliano, un canonico cividalese del XVI secolo: cfr. Il Gazzettino del 22 agosto del 1963. Si veda dello stesso autore Mille anni di cancellieri e coadiutori nella Curia di Aquileia ed Udine, Udine 1967.
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dei protocolli superstiti, che sono oggi conservati presso l’Archivio arcivescovile di Udine in un unico volume pur essendo stati in origine sicuramente distinti, fornendo indicazioni archivistiche e diplomatiche. L’autore, dopo aver constatato il mancato ordine cronologico degli atti registrati nei protocolli, ha ipotizzato che potrebbe esserci stata una stesura in minuta di una disposizione del patriarca fatta verbalmente, una sorta di brutta copia dei documenti, che prevedeva un successivo trasferimento in un atto in mundum con la conseguente spedizione su ordine del principe ecclesiastico; solamente a quel punto l’atto era registrato nei protocolli dei notai. Era possibile, pertanto, che al notaio che operava nella curia spettasse l’inserimento della trascrizione tra gli altri atti che potevano essere stati prodotti in un momento precedente. Il protocollo acquisiva di conseguenza la valenza di convalida dell’atto prodotto e non di prima stesura del documento stesso. Di questo lavoro di ricopiatura si sarebbero occupati gli scribi operanti nella cancelleria potendo trovare in questa attività l’inizio di una carriera ecclesiastica come avviene, ad esempio, nel caso di Matteo di Moggio, citato come scriba nei protocolli di Gubertino e divenuto poi canonico del Capitolo di Aquileia20. Nel 2004 Giordano Brunettin pubblicò l’edizione critica dei protocolli del notaio Gubertino da Novate conservati presso la Biblioteca Guarneriana di San Daniele21. Negli stessi anni furono prodotti altri lavori sui cancellieri patriarcali. Nel corso del 2001 fu pubblicata dall’Istituto Pio Paschini a cura di Luca Gianni l’edizione di circa quattrocento atti prodotti tra il 1314 e il 1323 dal notaio Guglielmo figlio di Egidio da Cividale, conservati nel Fondo Principale della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine22. Nella pubblicazione viene dato ampio spazio alla biografia del notaio e chierico, che operò all’interno della curia aquileiese svolgendo delicati incarichi per conto dei patriarchi e assumendo nel contempo significative cariche ecclesiastiche, quale la prepositura di Cividale e quella di San Pietro in Carnia. In particolare il notaio assunse il ruolo di mediatore nelle paci che venivano stipulate tra le comunità friulane e fece parte della delegazione che nel 1333 si recò dal papa ad Avignone per richiedere l’elezione di un nuovo patriarca dopo la morte di Pagano della Torre. 20 Brunettin, I protocolli, cit., pp. 28-29. Matteo di Moggio è segnalato come canonico in Scalon, Necrologium cit., 67, a p. 47. 21 Brunettin, Gubertino e i suoi registri cit. 22 L. Gianni, Le note di Guglielmo di Cividale (1314-1323), Udine 2001. Il lavoro deriva dalla tesi di laurea Istituzioni ecclesiastiche, famiglia e vita politico-religiosa in Friuli. Dal registro del notaio Guglielmo di Cividale (1314-1323), tesi di laurea, Università di Padova, relatore A. Rigon, a. a. 1996-1997.
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Luca Gianni affrontava il tema dell’introduzione del protocollo nelle pratiche documentarie in uso nel Patriarcato e in particolare si soffermava sui registri del notaio preso in esame contenenti documenti appartenenti alla sfera del diritto privato quali ad esempio tra gli altri i contratti di mutuo e di livello, i testamenti e le compravendite e atti certificanti il diritto pubblico, come gli arbitrati, le tregue e le paci e, infine, le infeudazioni. In particolare l’autore riponeva attenzione sulle modalità con cui il chierico operava nel campo notarile essendo impegnato contemporaneamente anche nella carriera ecclesiastica. Nel 2006 le edizioni per le «Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli» sono continuate con l’edizione critica, curata da Andrea Tilatti, dei protocolli del notaio Gabriele da Cremona, del quale viene ricostruita la biografia. Il materiale esaminato è conservato nel Fondo Principale della Biblioteca Civica «Vincenzo Joppi» di Udine. Il notaio, che operò presso la curia patriarcale e che per la preparazione giuridica acquisita negli studi all’Università di Padova è spesso presente come procuratore in atti giudiziari e di natura patrimoniale, assunse anche incarichi di governo in particolare ad Udine, dove risiedeva e dove fu impegnato come consigliere nell’amministrazione cittadina23. I protocolli esaminati da Tilatti riguardano l’attività del notaio presso la curia nel periodo tra il 1334 e il 1336 e negli anni 1344 e 1350. Dopo aver preso in esame la figura di Gabriele da Cremona l’autore propone una riflessione sui notai impiegati nella curia aquileiese che si distinguevano tra coloro che appartenevano alla familia del patriarca e coloro che, invece, facevano parte della curia stessa. Si tratta di una divisione di ruoli molto sfumata soprattutto nel caso di notai che sono stati impiegati durante episcopati molto lunghi e in particolare durante il Patriarcato di Pagano della Torre, periodo nel quale l’entourage era costituito in larga parte da lombardi24. Tilatti si sofferma proprio sugli altri notai che operavano a fianco del patriarca, sia i chierici, quali Eusebio da Romagnano o Meglioranza da Thiene, sia i laici. Molti notai erano di origine forestiera anche se sono attestati esponenti del ceto notarile di origine locale. La compresenza di laici e di chierici è evidente anche nella lettura dei protocolli dove si alternano sacerdoti o chierici, quali i canonici della Chiesa di Aquileia o delle collegiate friulane o i pievani delle maggiori pievi, e gli
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A. Tilatti, I protocolli di Gabriele da Cremona. Notaio della Curia Patriarcale di Aquileia (1324-1336, 1344, 1350), Roma 2006 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo Istituto Pio Paschini. Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli, Serie medievale, I). 24 Sui lombardi in Friuli cfr. M. Davide, Lombardi in Friuli. Per la storia delle migrazioni interne nell’Italia del Trecento, Trieste 2008 (Studi, 2).
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ufficiali come i gastaldi, i capitani e i marchesi d’Istria. I documenti rogati dal notaio Gabriele riguardavano questioni relative ai benefici ecclesiastici, quali permute, rinunce e conferme abbaziali, problemi amministrativi e pastorali, atti concernenti la gestione patrimoniale di alcuni enti ecclesiastici soggetti al patriarca, come ad esempio l’affitto delle rendite dell’abbazia di Moggio, atti pertinenti l’attività giudiziaria criminale e civile, appalti e alienazioni temporanee di diritti pubblici, sia fiscali sia giurisdizionali. La serie delle «Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli» ha poi di nuovo ospitato la pubblicazione dei protocolli del notaio Pietro Dell’Oca da Reggio Emilia, che operò come scriba con i vicari del patriarca Marquardo di Randeck, Giorgio Torti da Pavia e Ottobono da Ceneda. L’autore del volume, Luca Gianni, ha ripercorso le vicende del notaio che faceva parte della comunità di reggiani che si era costituita in Friuli in seguito alla translazione alla cattedra di Santo Stefano di Concordia del vescovo di Reggio Emilia Guido Guizzi. Costui condusse con sé numerose famiglie di origine emiliana stanziatesi dapprima a Portogruaro e spostatesi poi negli anni successivi a Udine, Cividale e Gemona. I notai facenti parte dell’entourage del vescovo erano in larga parte ecclesiastici con una preparazione giuridica universitaria. Pietro Dell’Oca, in particolare, diventò scriba della curia patriarcale sin dal 1360 ma non sappiamo, per la mancanza di riferimenti precisi nella documentazione, se facesse parte della curia spirituale o di quella temporale. Dal 1365 il notaio iniziò a collaborare costantemente con i vicari in spiritualibus. Non si trattò comunque di una collaborazione esclusiva dal momento che anche questo notaio, come gli altri professionisti operanti nella cancelleria patriarchina, continuò a rogare privatamente soprattutto per i capitoli di Udine e di Cividale25. La maggior parte degli atti oggetto di edizione sono comunque connessi al ruolo di notaio per conto dei vicari e pertanto riguardano prevalentemente le violazioni del diritto comune e canonico compiute da ecclesiastici, il concubinaggio del clero, l’usura e le cause indette da laici per riavere la proprietà di beni ereditati dalle istituzioni religiose in quanto oggetto di lasciti pii. Luca Gianni ha continuato ad approfondire il ruolo dei notai e in particolare di coloro che erano anche chierici in alcuni saggi e contributi successivi26. 25 Gli atti del notaio Pietro dell’Oca sono stati editi a cura di Luca Gianni: Le note di Pietro dell’Oca da Reggio Emilia (1360-1375). Con un frammento del notaio Pietro da Fosdinovo (1375-1376), Roma 2006 (Fonti per la Storia della Chiesa in Friuli. Serie medievale, 2). 26 L. Gianni, Al servizio dei Patriarchi. Gaudiolo da San Vito scriba ufficiale della curia spirituale di Aquileia, 1358-1379, in San Vit: 87n Congrès, San Vît, ai 3 di Otubar dal 2010,
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Dagli studi sulla produzione cancelleresca della curia patriarcale emerge il cambiamento che ci fu durante i patriarcati di Ottobono dei Razzi, Pagano della Torre e Bertrando di Saint-Génies, dove l’imitazione delle procedure cancelleresche della curia papale corrispondeva ad una maggiore consapevolezza dell’istituzione patriarcale stessa, che trovava un suo diretto riscontro in una organizzazione della documentazione più precisa e attenta in grado di garantire la conservazione di una maggiore mole di documenti. L’incontro tra le esigenze istituzionali di razionalizzazione dei meccanismi di controllo amministrativo espresse da questi tre patriarchi in particolare e la preparazione dei notai di provenienza italiana favorirono l’attuazione di una politica cancelleresca più attenta nella sua forma di quanto testimoniato nel passato. La maggiore attenzione alle procedure fissate per il rilascio della documentazione e per il controllo della stessa può essere vista come indice chiaro di un impegno preciso verso il raggiungimento di una amministrazione degli affari ecclesiastici e temporali del Patriarcato di Aquileia più organica ed efficiente. Questa rinnovata attenzione alla forma del documento si riscontra nei protocolli sino ad oggi oggetto di edizione anche se passibile di approssimazioni ed errori. Va, peraltro, ricordato che la registrazione degli atti nella cancelleria aquileiese era sovente caratterizzata da una certa trasandatezza, o perlomeno da una certa soggettività e improvvisazione, al punto che il patriarca Marquardo di Randeck dedicò una sezione delle Constitutiones Patriae Foriiuli, emanate nel 1366, alla regolamentazione dei metodi di registrazione e di conservazione dei documenti notarili all’interno della normativa che andava a regolamentare l’attività notarile e le modalità di accesso alla professione. I notai furono così costituiti in collegi nei quali erano nominati dopo essere stati esaminati da quattro providi viri e aver ottenuto l’approvazione del patriarca. Nelle Costituzioni furono decretate, inoltre, le norme riguardanti l’ufficio, i doveri, la fede pubblica, l’escussione delle testimonianze, sulle quali permaneva l’obbligo al segreto fino alla pubblicazione per ordine del vicario e del patriarca, il rilascio della copia degli atti e vennero istituite le penalità a cui era sottoposto il notaio in caso di mancato adempimento delle leggi vigenti. La durezza delle pene comminate ai contravventori induce a pensare che l’applicazione delle normative previste fosse largamente disattesa 27. cur. P.C. Begotti - P.G. Sclippa, Udine 2010 (Società Filologica Friulana), pp. 547-560; Gianni, Andrea Monticoli, in Dizionario Biografico degli Italiani, 76, Roma 2012, pp. 330332; Gianni, Giovanni Monticoli, ibid., Roma 2012, pp. 332-333. 27 Constitutiones Patrie Foriiuli, in P. S. Leicht, Parlamento friulano, I, Bologna 19171925; II, Bologna 1955 (Atti delle Assemblee Costituzionali italiane dal Medio Evo al 1831,
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Tra le edizioni di fonti di tipo notarile va annoverata la pubblicazione delle imbreviature del notaio Supertino di Tommaso di Spilimbergo, circa un migliaio di documenti rogati tra il 1341 e il 1346, curata dal compianto Sante Bortolami, che scelse di pubblicare una campionatura di atti con criteri del tutto soggettivi, come ebbe modo di sottolineare nella prefazione al lavoro28. Si tratta della pubblicazione parziale di un registro trecentesco, proveniente dall’Archivio Privato degli eredi Spilimbergo-DomaninsSpanio di Venezia e contenente gli atti rogati tra il 26 dicembre del 1341 e il 24 gennaio del 1346. L’autore ritiene che la stesura degli atti, che garantivano la certezza giuridica dei negozi trattati, fosse stata compiuta di getto nel momento in cui si stipulava il contratto o in un momento successivo. Nella maggioranza dei casi gli atti riguardano la sfera del diritto privato con numerosi mutui, affitti, permute, compravendite, divisioni ereditarie, patti dotali e contratti di apprendistato e con un numero esiguo di atti redatti dall’autorità pubblica, quali tregue, infeudazioni, pacificazioni, arbitrati e pignoramenti. Nel registro sono trascritti solo due testamenti. Molto probabilmente il notaio, che era a sua volta figlio di un notaio, era solito, come era consuetudine diffusa, scrivere gli atti di ultima volontà in appositi registri. La clientela del notaio era piuttosto variegata come spesso accadeva soprattutto nei centri a forte vocazione economico- commerciale come era la Spilimbergo trecentesca, che trovava nel vicino Tagliamento il volano dell’economia. Si rivolgevano al notaio Supertino esponenti del mondo artigianale, contadini, ma anche persone appartenenti alle famiglie che avevano ruoli di prestigio presso la curia signorile, che egli conosceva bene essendo anche notaio della casata degli Spilimbergo. La preparazione giuridica di Supertino raggiungeva a malapena un livello sufficiente per svolgere la sua professione, come risulta da una frequente incuria nella formulazione degli atti. Nelle imbreviature sono molto ricorrenti gli errori grammaticali e di sintassi con numerose ripetizioni e cancellature. Sono molti i notai, soprattutto coloro che operavano nel con-
Serie I: Stati generali e provinciali, sezione VI), I, parte II, pp. 210-276: norma VII, De iuramento et officio notariorum, p. 217; norma VIII Quod duo notarii non scribant in una eademque causa sed unus de parcium concordia deputetur, p. 217; norma IX De actis cause continuatim et successive per notarios scribendis, p. 217; norma X, De actis iudiciariis partibus etiam extra iudicium ostendendis, p. 217; norma XI, De notariis compellendis copiam dare petentibus, pp. 217-218; norma De notariis curie non admittandis ad advocatum vel procurandum pro aliis, p. 218; norma XVIII (CCXXXVIII), De notariorum salario recipiendo pro scripturis causarum, pp. 262-263; norma XX (CXL), De salario notariorum, p. 263. 28 Spilimbergo medioevale. Dal libro di imbreviature del notaio Supertino di Tommaso (1341-1346), cur. S. Bortolami, Spilimbergo 1997 (Quaderni spilimberghesi, 4).
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tado, a non avere una preparazione giuridica di livello elevato. Il corpus notariorum delle cittadine friulane cambiò nel corso del Trecento con l’arrivo di numerosi notai provenienti dal resto d’Italia e con l’affermazione di una componente autoctona che utilizzò la professione notarile per concretizzare le proprie aspirazioni e raggiungere un livello di benessere sociale ed economico ragguardevole. Tra i pochi approfondimenti che sono stati condotti sulla composizione sociale della classe notarile friulana si segnalano i lavori di Michele Zacchigna, che si è soffermato in particolare sul caso udinese, dove la maggior parte dei notai proveniva dal ceto artigianale e aveva un’origine nel contado, dove gli antenati avevano spesso ricoperto ruoli di rilievo negli organismi di vicinia. Il lavoro più completo di Michele Zacchigna è condotto sulle memorie del notaio Quirino di Odorico Cerdone, che operò a Udine tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. Si tratta di un preciso e attento lavoro di analisi che non si limita a prendere in esame la sola produzione del notaio Quirino29. Il ceto notarile udinese si divideva in due gruppi che operavano in ambiti diversi tra loro, pur essendo entrambi impegnati a produrre instrumenta per una clientela privata: il primo ricopriva ruoli di rilievo nell’amministrazione pubblica cittadina, mentre il secondo era costituito da notai che al massimo potevano aspirare ad incarichi occasionali. I notai che operavano in seno alla pubblica amministrazione potevano aspirare ad assumere incarichi di rilievo per conto del Comune non tanto nell’ambito della cancelleria, che offriva poche possibilità e dove erano tenuti a registrare gli atti della cameraria e le delibere del consiglio, ma soprattutto nella diplomazia e nelle altre funzioni di rappresentanza. I notai avevano un ruolo forte anche nel settore della giustizia dove operavano come giurati e giudici, nella fiscalità come deputati ad exigendum, fino al contenimento delle lotte intestine e alle altre esigenze della comunità in cui si trovavano ad operare. Il ruolo dei notai in seno all’amministrazione pubblica udinese crebbe soprattutto dopo gli anni Settanta del secolo analogamente a quanto attestato in altre cittadine quali ad esempio Gemona e San Daniele. Molti notai ricoprivano inoltre posti di preminenza nelle confraternite, nelle istituzioni ospedaliere e in quelle ecclesiastiche. Si auspicherebbero altri indagini sul ceto notarile, condotte con metodo simile a quella eseguita da Zacchigna sulla città di Udine, per le diverse città del Patriarcato. I
29 Sulle carriere di questi notai cfr. M. Zacchigna, Le memorie di un notaio udinese al tramonto dello stato patriarchino: Quirino di Odorico Cerdone detto Merlico (1413-1426), Bagnaria Arsa (UD) 2003, pp. 168-169.
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protocolli di un notaio risentivano dunque strettamente della clientela cui era rivolto il suo operato e quindi un più ampio spettro di indagine potrebbe fornire ulteriori informazioni sul ceto notarile, sull’origine geografica dei suoi componenti e sulle origini sociali, che in Friuli affondano quasi sempre nel ceto mercantile. Un aspetto singolare della produzione notarile del Patriarcato è riscontrabile nell’uso del friulano antico nella redazione di atti pubblici di natura amministrativa e giudiziaria, di atti privati, quali testamenti, inventari di beni, contratti dotali, elenchi di testimoni e di contribuenti, e di documenti prodotti nell’ambito delle confraternite tra il XIV e il XV secolo. La documentazione è conservata in più sedi archivistiche, talora anche negli archivi parrocchiali, e la più ricca è senza dubbio quella tramandata nell’Archivio Comunale della Biblioteca “Valentino Baldissera” di Gemona. Si custodiscono in questa sede la serie dei “Quaderni dei massari” e quella dei “Quaderni dei camerari della confraternita di San Michele”, che presentano numerosi documenti scritti in lingua friulana utilizzata altrimenti per la produzione di minute e di documenti di stretta consultazione dei notai. Nell’archivio si conservano in totale 39 registri scritti interamente in lingua friulana, in parte pubblicati e in parte oggetto di una pubblicazione ancora in corso per conto della Società Filologica Friulana30. 2. La vicedomineria La pratica notarile non era uguale in tutto il territorio dell’Italia nordorientale e differiva in particolare nella Venezia Giulia e a Trieste dove era in uso la trascrizione integrale di tutti gli atti notarili di una certa importanza presso il pubblico ufficio della Vicedomineria, una pratica che era
30 Quaderni gemonesi del Trecento. Pieve di Santa Maria, 3 voll., Udine 2007-2009; Quaderni gemonesi del Trecento. Ospedale di San Michele massari del Comune, ed. F. Vicario, Udine 2011; Vicario, Osservazioni sul volgare friulano nei registri gemonesi del Trecento, in Gemona nella Patria del Friuli: una società cittadina nel Trecento. Convegno di studio (Gemona del Friuli, 5-6 dicembre 2008), Trieste 2009 (Atti, 1), pp. 121-132. La Società Filologica Friulana ha prodotto negli ultimi anni numerose edizioni di fonti scritte in lingua friulana antica. Si vedano ad esempio: Il quaderno dell’Ospedale di Santa Maria Maddalena, ed. Vicario, Udine 1999; Il quaderno della Fraternita di Santa Maria di Tricesimo, ed. Vicario, Udine 2000; I rotoli della fraternita dei calzolai di Udine, ed. Vicario, Udine 2001; Carte friulane antiche della Biblioteca Civica di Udine, ed. Vicario, 4 voll., Udine 2006-2009.
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comune in Istria31. Tale istituto, pur essendo presente in modo marginale anche nel Patriarcato, ha comportato lo smarrimento degli atti originali, la cui perdita nel resto del Friuli si deve solamente a episodi fortuiti quali ad esempio i bombardamenti che colpirono l’Archivio di Stato di Udine durante la seconda guerra mondiale con la conseguente rovina di intere serie notarili, in parte andate anche vendute a collezionisti, o l’incendio occorso alla fine del XVI secolo a Venezia che comportò la perdita di una gran parte della cancelleria patriarcale32. La costituzione dei registri pubblici della vicedomineria provocò, dunque, la perdita di tutti i protocolli e i registri notarili originali. La questione della pubblica registrazione dei contratti privati, e delle conseguenze che si ebbero sulla trasmissione degli atti di natura notarile in originale e in registro è stata presa in esame in alcuni studi e contributi, ma attende ancora un’indagine precisa in particolar modo per chiarire la specificità triestina nel quadro delle città istriane, dove la medesima pratica in uso non ha sempre determinato la perdita dei registri originali. Il caso triestino suscitò nella prima metà dell’Ottocento l’interesse di Pietro Kandler, il quale se ne occupò in un breve saggio apparso sulla rivista «L’Istria», dove proponeva l’ipotesi di una derivazione dei vicedomini dalle istituzioni veneziane, senza suscitare l’interesse di altri studiosi nel periodo immediatamente successivo33. La prima analisi della serie dei vicedomini, dopo quella proposta del Kandler, si deve a Delia Bloise, che, in una ben conosciuta guida sulle magistrature cittadine triestine edita nel 198234, si soffer-
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L’istituto della vicedomineria è presente negli Statuti di Muggia risalenti ai primi anni Quaranta del XIV secolo, fu introdotto a Pirano nel 1332, anche se era già operante almeno fin dal 1325, e a Isola nel 1338. La magistratura è attestata anche a Capodistria, dove non è possibile risalire alla data esatta della sua introduzione a causa dell’incendio che avrebbe bruciato proprio le carte della vicedomineria nel 1380: Le istituzioni di un comune medievale. Statuti di Muggia del sec. XIV, Trieste 1972 (Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia - Fonti e Studi, ser. I, Fonti, III); Isola e i suoi Statuti, ed. L. Morteani, «Atti e memorie della Società di Storia Patria», ser. I, 3/1-2 (1887), pp. 353-388; 4/1-2 (1888), pp. 349-521; 5/1-2 (1889), pp. 155-222; F. Mayer, Inventario dell’Archivio municipale di Capodistria, Koper 1910. 32 C. Pasqualini, Notariato e Archivio Notarile nel Friuli, dattiloscritto conservato presso la Biblioteca Civica «V. Joppi». Sull’incendio che distrusse i documenti patriarcali trasferiti a Venezia dopo il 1420 cfr. il già richiamato articolo del Gazzettino del 22 agosto 1963. 33 P. Kandler, Delle notifiche dell’Istria, «L’Istria», 1/19-20 (1846), pp. 75-80. Sulla magistratura dei vicedomini è stato condotto un lavoro di informatizzazione a cura di Daniela Durissini che si prefiggeva di garantire un servizio on-line che permettesse una maggiore fruizione del materiale disponibile. 34 Nel 1982 fu data alle stampe la guida che si proponeva di fare il punto sull’articolazione delle fonti prodotte in ambito comunale dai singoli uffici dell’amministrazione citta-
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mò sull’ufficio del vicedomino e sulle competenze della carica dedicando una particolare attenzione ai cambiamenti che furono imposti alla pratica della vicedominazione nella redazione statutaria del 1350, dove furono imposte modifiche sostanziali nel ruolo che i vicedomini erano soliti tenere nella procedura della compilazione testamentaria. Sia negli Statuti del 1350 sia in quelli posteriori è prevista la presenza di un vicedomino nella redazione del testamento e la successiva immediata vicedominazione del documento, nonché la conservazione dell’originale nella vicedomineria, da dove poteva essere tratto soltanto nel caso in cui si dovesse redigere un altro atto, successivo al primo35. Nella seconda parte del lavoro la Bloise presentava un’analisi della struttura e della composizione dei registri fornendo un primo inventario degli stessi36.
dina, da quelli preposti alla giustizia civile (cancelleria) e penale (banchus maleficiorum) a quelli responsabili delle entrate pubbliche (procuratori generali) e delle pubbliche spese (camerari) e infine veniva presa in esame la ricca serie documentaria dei vicedomini: D. Bloise - G. Brischi - A. Conti - L. Pillon - M. Zacchigna, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV. Guida e inventario delle fonti, Roma 1982 (Università degli Studi di Trieste, Lettere e Filosofia, Istituto di Storia Medievale e Moderna, n. ser., 2). 35 I testamenti triestini si sono tramandati in larga parte nella serie dei vicedomini. Dei testamenti si è occupata nei primi anni Ottanta Delia Bloise, che rielaborando la tesi di laurea ha proposto una riflessione sugli atti di ultima volontà delle famiglie triestine che tradizionalmente vengono ascritte alle tredici casate. L’autrice dedica un’ampia introduzione alla struttura della famiglia triestina riducendo a poche pagine descrittive l’approfondimento del fondo di provenienza dei testamenti, che è quello dei vicedomini, e delle norme statutarie in materia testamentaria: D. Bloise, Testamenti trecenteschi delle XIII casate, «Archeografo Triestino», ser. IV, 40 (1980), pp. 5-74; Aspetti istituzionali della famiglia triestina del secolo XIV. Introduzione storica e documenti, tesi di laurea, Università di Trieste, a.a. 1975-1976, rel. P. Cammarosano. Nella tesi era contemplato un elenco completo dei testamenti triestini del XV secolo sia originali sia tramandati attraverso la vicedominazione. Nel 1990 i testamenti furono di nuovo presi in esame da Daniela Durissini, che si era occupata del riordino e della inventariazione del fondo. L’autrice proponeva qui un’analisi dettagliata dei 576 documenti facendo precisi riferimenti alla normativa statutaria: D. Durissini, Introduzione allo studio dei testamenti triestini del 1400, «Archeografo Triestino», ser. IV, 50 (1990), pp. 181-190. L’autrice ha indicizzato una parte dei testamenti, depositata presso l’Archivio Diplomatico triestino, per una successiva messa on-line dei dati. La Durissini ha poi avanzato una nuova e più corposa riflessione sui testamenti nel libro Economia e società a Trieste tra XIV e XV secolo, Trieste 2005 (Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia, Ser. II, Studi, 10), pp. 172-190. 36 D. Bloise, I vicedomini e i loro registri, in Bloise - Brischi - Conti - Pillon - Zacchigna, Le magistrature cittadine cit., pp. 45-50, 66-74. Sulla storia dell’archivio della vicedomineria si veda F. Antoni, Archivi e storia politica a Trieste tra formazione e recupero della memoria storica, «Quaderni giuliani di storia», 11/1-2 (gen.-dic. 1990), pp. 27-77: 31-34. La produzione storiografica sulla città di Trieste e il suo territorio è stata oggetto di indagine in M. Davide, Recenti ricerche storiche e documentarie su Trieste nel tardo medioevo, «Quaderni giuliani di storia», 26/1 (2005), pp. 175-216.
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Dopo questo primo saggio, che si soffermava soprattutto sulle caratteristiche archivistiche della serie, ulteriori approfondimenti furono condotti da Maria Laura Iona e da Francesco Antoni tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Lo studio della Iona si soffermava in particolare sull’origine di tale istituzione: l’autrice rifiutava l’ipotesi che vedeva i vicedomini come una derivazione dai Memoriali bolognesi e confutava contemporaneamente l’idea che la carica dovesse essere studiata come ulteriore esempio di una pratica diffusa largamente in Istria, come aveva avuto modo di affermare Pietro Kandler, che aveva legato l’istituto dell’ufficio della vicedomineria triestina all’esistenza di un ufficio analogo attestato a Pirano sin dal 1274-1275 in un frammento degli statuti cittadini. La Iona, ritenendo che non fosse possibile individuare alcun motivo scatenante proveniente dall’esterno, concludeva il suo lavoro affermando che la vicedomineria e le pratiche notarili ad essa connesse appartenessero pienamente alla tradizione municipale triestina, dove furono documentate per la prima volta nel 1322. L’affermarsi della magistratura è pertanto visto come conseguenza dell’affermarsi di un’esigenza di corroborare la publica fides notarile con un’ulteriore forte sanzione da parte dell’autorità pubblica37. La Iona si era peraltro occupata l’anno precedente dei problemi di registrazione dei documenti di un’altra località della Venezia Giulia, Muggia, che nel corso del Trecento presenta analogie con quanto attestato a Trieste e nelle altre città istriane38. Una nuova attenta e precisa analisi dei registri dei vicedomini fu proposta nel 1990 da Francesco Antoni sulla rivista «Clio»39. L’autore mette in relazione l’istituzione dell’ufficio della vicedomineria con la problematica generale concernente la crescente esigenza nel tardo Medioevo di una maggiore sicurezza e tutela nelle pratiche giuridiche confrontando quanto attestato per il caso triestino con gli altri meccanismi di controllo sull’attività notarile istituiti dai diversi Comuni italiani. I vicedomini sono qui analizzati principalmente sotto due aspetti: da una parte la serie è esaminata alla luce della volontà di controllo sulla legalità della documentazione degli 37 M. L. Iona, I vicedomini e l’autenticazione e registrazione del documento privato triestino nel secolo XIV, «Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria», n. ser., 36 (1988), pp. 99-108. 38 M. L. Iona, Problemi di conservazione e di registrazione a Muggia nel XIV secolo, in Geschichte und ihre Quellen. Festschrift für Friedrich Hausmann zum 70. Geburtstag, Graz 1987, pp. 413-416. Dell’autrice si veda inoltre Le istituzioni di un comune medievale. Statuti di Muggia del sec. XIV cit. 39 F. Antoni, Documentazione notarile dei contratti e tutela dei diritti: note sui vicedomini di Trieste (1332-1732), «Clio», 25 (1989), pp. 319-335.
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atti espressa dalle autorità pubbliche, che di fatto finirono per espropriare l’autorità certificante dei notai a vantaggio di un’organizzazione burocratica al cui vertice si poneva il Comune, e dall’altra viene sottolineato il carattere processuale che li caratterizzava. Questo lavoro attento dell’Antoni trova una sua continuazione in un saggio apparso nel 1991 nell’«Archeografo triestino», dove l’autore ribadisce ancora una volta la necessità di comparare i vicedomini triestini con altre istituzioni analoghe nel panorama italiano40. Francesco Antoni auspicava di fatto nuove ricerche sui vicedomini al fine di chiarire l’incidenza di queste fonti in particolare sul notariato locale. Si rendeva, dunque, necessario uno spoglio sistematico dei registri che consentisse di confrontare le trascrizioni con quelle corrispondenti nei pochi atti originali ancora conservati e provenienti dall’archivio del capitolo della cattedrale, da quello del monastero benedettino dei Santi Martiri e da quello del monastero della Cella. Lo studioso sottolineava, inoltre, la necessità di approfondire la procedura giudiziaria per verificare quale fosse effettivamente la rilevanza che veniva data all’atto notarile e ai documenti vicedominati durante l’iter processuale41. L’analisi dei vicedomini triestini non può oggi prescindere da un confronto con quanto è stato prodotto nel corso degli ultimi anni dalla storiografia slovena sulla pratica della vicedominazione in Istria. Darko Darovec, in particolare, si è occupato di questo tema confrontando gli atti vicedominati in Istria con quelli triestini in due lavori del 1994 ed in un articolo apparso in un volume curato dall’Università di Lubiana nel 200642. La necessità di allargare geograficamente lo studio dei vicedomini è stata presa in considerazione da Elena Maffei, che ha pubblicato un articolo desunto dalla tesi di dottorato discussa presso l’Università di Milano sulla 40 F. Antoni, Materiali per una ricerca sui vicedomini di Trieste, «Archeografo triestino», ser. IV, 51 (1991), pp. 151-203. 41 Sulla giustizia e sui registri giudiziari triestini cfr. M. Davide, La giustizia criminale, in Medioevo a Trieste. Istituzioni, arte, società nel ’300. Atti del Convegno (Trieste, 22-24 novembre 2007), cur. P. Cammarosano, Roma 2008, pp. 225-244; Davide, I registri giudiziari tardo-medievali e della prima età moderna nel Patriarcato di Aquileia e a Trieste, in La documentazione degli organi giudiziari nell’Italia tardomedievale e moderna. Atti del Convegno di Studi (Siena, Archivio di Stato, 15-17 settembre 2008), cur. A. Giorgi - S. Moscadelli - C. Zarrilli, Roma 2012, pp. 223-248. 42 D. Darovec, Notarjeva javna vera- Notarji vicedomini v Kopru, Izoli in Piranu v obdobju Beneske Rebuplike, Koper-Capodistria 1994; Darovec, Vicedomini, notai e cancellieri tra professioni e potere nell’Istria Settentrionale (Vicedomini, Notarji in Kancelarji med poklicem in oblastjio v severni Istri), «Acta Histriae», 3 (1994), pp. 37-54; Istrski vicedomini in drugi podobni uradi ob Jadranu, in Vojetov Zbornik. Med Srednjo Europo in
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vicedominazione a Trieste e in Istria nel corso del XIV secolo43. L’autrice si contrappone all’ipotesi di una messa in discussione del ruolo dei notai dovuto alla pratica della vicedominazione, suffragata dagli studiosi che avevano affrontato precedentemente tale fenomeno, rifiutando l’idea che ci fosse stata una volontà precisa di colpire la categoria notarile, i cui elementi di spicco provenivano dalle famiglie più eminenti della città, affermando piuttosto che i vicedomini dovessero essere visti come l’affermazione di un maggior coinvolgimento della popolazione, che sarebbe stata costretta a sopportare un aumento dei costi previsti per la rogazione dei documenti ritenuti validi dalla pubblica amministrazione. La Maffei si distingue, inoltre, per l’ardita tesi che propone per spiegare l’adozione dei vicedomini a Trieste, a Muggia e in Istria ravvisandone un tratto comune nella volontà di accentramento della produzione notarile espressa dalle autorità pubbliche vista come espediente per mantenere sotto controllo le popolazioni slave che vivevano nei diversi contadi. Gli slavi che risiedevano sul Carso sopra Trieste conservavano abitudini e costumi e si rifacevano ad un quaderno delle consuetudini del Comune, che sarebbe stato custodito nell’ufficio della Vicedomineria, come è detto in un processo degli anni Quaranta del Trecento. In un’addizione agli Statuti del 1342, recepita poi nella redazione statutaria del 1350, fu demandato proprio ai vicedomini il compito di custodire tale quaderno. Nella norma era chiarito come ogni riferimento alle consuetudini prodotte non dovesse essere contrario a quanto prescritto negli Statuti. Nel caso in cui un cittadino ritenesse utile fare uso nel corso del dibattimento processuale di una consuetudine, avrebbe dovuto richiedere l’estratto di riferimento
Sredozemuem, Ljubliana 2006, pp. 157-169 (Zgodovinski inštitut Milka Kosa ZRC SAZU in Oddelek za zgodovino Filozofske fakultete Univerze v Ljubljani). Dell’autore si legga inoltre Arhivski viri Pokrajinskega arhiva Koper in objavljeni viri za zgodovino beneske Istre, «Acta Histriae», 2 (1993), pp. 71-80. Sui vicedomini in Istria cfr. A. Degrassi, Podestà e vicedomini d’Isola, «Atti e memorie della società istriana di archelogia e storia patria», n. ser., 17 (1969), pp. 9-12. Sulla produzione notarile in Istria si è, inoltre, soffermato M. Zabbia in un convegno internazionale tenutosi a Capodistria tra il 14 e il 16 aprile del 2011 intitolato «Tra liturgie di violenza e liturgie di pace: mediatori, arbitri, pacieri e giudici» con una relazione in fase di pubblicazione: Come cambia il linguaggio della mediazione. Notariato e documento notarile in Istria durante il XIII secolo. 43 E. Maffei, Attività notarile in aree bilingui: i vice domini a Trieste e in Istria nel 1300, «Nuova Rivista Storica», 89 (1999), pp. 489-542; Maffei, I vice domini a Trieste e in Istria (secoli XIII e XIV), tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, relatore G. Chittolini, a.a. 1994-1997. Sul tema si veda ancora S. Amendolagine, I vicedomini e il documento privato triestino, tesi di laurea in storia del diritto italiano, Università degli Studi di Bari, relatore G. Liberati, a.a. 2010-2011.
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ai vicedomini44. Le norme statutarie sembrano non essere state prese in considerazione nella loro interezza nel lavoro della Maffei che arriva a sostenere che la volontà di rendere validi solo i documenti vicedominati sottintenderebbe la necessità di un riconoscimento pubblico da parte dei contraenti, usi in molti casi al bilinguismo, nei confronti di un atto che veniva accettato e compreso nella redazione in lingua latina. In sostanza la studiosa vedrebbe la diffusione della magistratura della vicedomineria a Trieste e in Istria come conseguenza diretta della volontà di controllo dei ceti dirigenti sulla vita economica della popolazione, caratterizzata dall’elemento slavo nei distretti e da quello italiano in città. La magistratura dei vicedomini è stata di nuovo presa in esame in un lavoro di Daniela Durissini dedicato all’economia e alla società triestina del XIV e XV secolo. I vicedomini vengono approfonditi a partire dalla loro istituzione e nei successivi cambiamenti imposti attraverso le redazioni statutarie e in particolare viene sottolineato il delicato incarico di mediazione cui sono tenuti tra il potere da un parte e i cittadini dall’altra, una funzione che l’autrice ritiene essere prioritaria anche negli altri casi attestati nella regione dove fu istituita tale magistratura. La Durissini si sofferma, inoltre, anche sull’origine della vicedomineria e sui modelli, ai quali avrebbero attinto i legislatori triestini ritenendo che coloro che avevano introdotto tale pratica a Trieste fossero pienamente consapevoli delle esperienze precedentemente condotte in tal senso, quali ad esempio i Memoriali Bolognesi o l’istituto dei “visdomini” adottato a Venezia sin dal XIII secolo45. L’attenzione viene poi spostata sulla preparazione dei notai, che svolgevano la loro professione in città e che si erano formati negli Studia di Bologna e di Padova e viene affrontato il tema della diffusione dell’istituto della vicedomineria in Friuli, attestato nelle Costituzioni emanate da Marquardo di Randeck tra il 1366 e il 1371. Daniela Durissini ritiene, infatti, analogamente a quanto auspicato da Francesco Antoni, che la vicedomineria
44 U. Cova, Sul diritto penale negli Statuti di Trieste, «Archeografo Triestino», ser. IV, 27-28 (1965-1966), pp. 75-117: p. 80; il riferimento al quaderno delle consuetudini triestine si trova in Archivio Diplomatico di Trieste, Banchus Maleficiorum, II, c. 3r. La norma che assegna ai vicedomini il compito di tenere il quaderno delle consuetudini si trova in Statuti di Trieste del 1350, ed. M. de Szombathely, Trieste 1930, III.33, a pp. 337-338; Durissini, Economia e società a Trieste cit., pp. 61-62. 45 I visdomini veneziani erano impegnati soprattutto sui rapporti di natura finanziaria; la Durissini ritiene che possa essere fatto un raffronto con la magistratura dei vicedomini triestini per il modo in cui venivano registrati nei quaderni gli atti economicamente più rilevanti. Sui visdomini veneziani cfr. G. Zordan, I visdomini di Venezia nel secolo XIII. Ricerche su un’antica magistratura finanziaria, Padova 1971.
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MIRIAM DAVIDE
debba essere studiata attraverso un confronto con le altre esperienze simili, anche se non precisamente corrispondenti, facendo particolare attenzione alla presenza di istituti di questo tipo in ambito patriarcale. In particolare la Durissini prende in esame un manoscritto delle Costituzioni marquardine, già di proprietà del conte Giulio di Sbroiavacca, e oggi conservato presso l’Archivio Diplomatico di Trieste con l’intitolatura Statuti di Udine, nel quale si dimostrerebbe che la vicedominazione era stata proposta sempre nell’intenzione di garantire la pubblica fede al documento. Va tuttavia sottolineato che nel 1398 una gran parte di quelle funzioni che continuavano ad essere esercitate dai vicedomini triestini erano state ormai abbandonate da quelli friulani46. Sulla magistratura della vicedomineria si è infine soffermato recentemente Paolo Cammarosano in un convegno sul notariato tenutosi a Trento nel febbraio del 2011, dove ha sostenuto che l’esperienza triestina rientra nella tematica generale della registrazione pubblica del documento e ha evidenziato come sia importante comprendere appieno in quale misura le diverse forme di registrazione influirono sulla tradizione archivistica dei documenti privati. La pratica in uso a Trieste sarebbe un caso specifico di quella cura che le autorità comunali, a partire dal Trecento, avrebbero dato alla custodia dei contratti fra privati. L’evoluzione triestina, secondo quanto affermato da Cammarosano, andò verso una netta distinzione tra due uffici: il primo che prevedeva la formalizzazione dell’atto notarile e il secondo che riguardava l’inserimento dei contratti stipulati tra privati in un libro pubblico. In tal senso Cammarosano non ritiene vi sia stata un’espropriazione del ruolo del notaio attraverso la creazione di questo istituto47. Un altro aspetto di primario interesse concernente la vicedominazione è dato dal confronto tra la documentazione originale conservata e quella vicedominata, paragone affrontato da Daniela Durissini, che ha preso in esame come punto di partenza la serie che si è maggiormente tramandata in originale, ovvero quella dei testamenti. La norma del 1350, come abbiamo ricordato, aveva imposto la presenza di un vicedomino alla stesura dei testamenti, per evitare che vi fossero eccessivi condizionamenti da parte di singoli o di istituzioni ecclesiastiche e per controllare che venissero rispet-
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Durissini, Economia e società a Trieste cit., pp. 59-72. P. Cammarosano, Scrittura notarile, registrazione pubblica e tradizione archivistica: il caso di Trieste negli atti in preparazione del convegno Il notariato nell’arco alpino. Produzione e conservazione delle carte notarili tra medioevo ed età moderna (Trento, 24-26 febbra-
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tate tutte le norme previste dagli statuti cittadini in caso di dettatura dell’atto di ultima volontà da parte del testatore. Secondo l’autrice il compito di vigilanza assunto dai vicedomini sulla documentazione prodotta da privati, pur essendo formalmente incontestabile, non copriva in realtà una grossa parte della documentazione che molto probabilmente non era registrata. I vicedomini facevano attenzione soprattutto a che venissero registrati i documenti che riguardavano operazioni di natura finanziaria e commerciale e in particolare tutti quelli che concernevano accordi con transazioni di natura immobiliare48. Di certo rimangono aperte numerose questioni relative in primo luogo alla derivazione bolognese o veneziana dell’istituto o ad una sua autonomia determinata dalla specifica situazione di quella che era ancora una piccola città, mentre rimane ancora da chiarire in quale misura la vicedomineria fosse espressione di una supremazia dell’autorità pubblica sul complesso dei negozi privati.
io 2011). Ringrazio l’autore per avermi concesso di leggere il testo ancora in fase di pubblicazione. 48 Durissini, Economia e società a Trieste cit., pp. 242-249.
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ANTONELLA GHIGNOLI
SCRITTURA E SCRITTURE DEL NOTARIATO “COMUNALE”: CASI TOSCANI IN RICERCHE RECENTI
Nel titolo la parola “scrittura”, declinata al singolare e al plurale, non è una metonimia: indica proprio il tipo e i modi scribendi. Con l’attributo “comunale”, invece, si vuol alludere alla massa di professionisti potenzialmente reclutabili negli officia – col tempo sempre più numerosi, articolati e interrelati – del Comune mediante le procedure varie e diversificate che conosciamo dalle norme statutarie. La scelta di affrontare da questo angolo visuale il notariato comunale pone le riflessioni che seguiranno molto ai margini dell’impianto delle ricerche di Pietro Torelli1. Trattandosi dell’area toscana, però, tale scelta riguarda un nucleo di questioni forse stravaganti per il tema del rapporto notaio-comune2, nondimeno importanti. Non soltanto – come si capirà – per gli studi di storia della scrittura. Le sintesi sulla situazione grafica delle città comunali – che per motivi storici non possono che essere toscane – presentano generalmente due realtà compresenti che si fronteggiano, assai differenti fra loro per struttura in quanto frutto dell’applicazione di modelli scolastici e luoghi di formazione distanti: da una parte, la scrittura dei notai (la minuscola detta cancelleresca); dall’altra, la scrittura dei mercanti (la scrittura detta mer-
1 Non nella Prima parte degli Studi e ricerche di diplomatica comunale pubblicata nel 1911, bensì nella seconda, uscita qualche anno più tardi, egli avrebbe classificato nel capitolo II fra i «Requisiti necessari ad ottenere l’ufficio di notaio del Comune», un generico “grado di istruzione” ricostruito con una citazione del Liber de regimine civitatum per il requisito richiesto ai notai reclutabili del dictare et recte scribere (P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale. II, «Pubblicazioni della R. Accademia Virgiliana di Mantova», I, Mantova 1915, p. 36 nota 1). 2 All’interno di un quadro generale su questo tema, una breve rassegna degli studi per la Toscana, aggiornata al 1998, è presente in D. Puncuh, La diplomatica comunale in Italia
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cantesca). L’impiego di entrambe queste scritture nella copia di libri contenenti testi volgari assume quindi tutto il peso di un fenomeno principale sul piano storico-culturale. Sullo sfondo, a dare maggior spicco alle due realtà, un ulteriore diverso modello grafico: quello della textualis (altrimenti detta “gotica”), cui si affida il ruolo di marcare la cultura di livello superiore e universitaria e la cultura religiosa (con finalità liturgiche e devozionali) delle comunità ecclesiastiche. Tale quadro non manca – anche per il conforto di celebri fonti come Giovanni Villani, Cronica, XI, 93 – di una validità di fondo. È necessario tuttavia neutralizzare il rischio – affatto remoto, proprio per uno scambio continuo fra piani diversi d’indagine storica che esso presuppone – che un legittimo paradigma storico ingeneri una communis opinio condizionante il modo stesso di studiare le cose. 1. Notai che scrivono in textualis I libri iurium sono libri comunali che i notai redigono nella grande maggioranza dei casi nella loro minuscola “professionale”, vale a dire quella che impiegano per imbreviature e instrumenta: certi libri d’altronde portano documenti originali, e non potrebbe esser che così, in quei casi. È stata però coniata anche la definizione di «scrittura da cartulario», per indicare un livello più accurato di esecuzione della propria scrittura di professionista da parte del notaio copista di un liber contenente iura publica3. Una felice definizione-guida, che non può divenire una classificazione generale: nella esperienza dei notai è osservabile tanto il ricorso a differenti livelli di scrittura per testi con medesima funzione e dello stesso tipo4, quanto il costante mantenimento di un determinato assetto stilistico in testi tipologicamente e funzionalmente differenti. Vigoroso del fu Paradiso da Loro – notaio del Valdarno di Sopra, detentore anche di un officium per il comune di Montevarchi – scrive per quarant’anni, dal 1259 al 1299, nel medesimo modo, nei fascicoli di prima sistemazione dei rogiti, nei quater-
dal saggio di Torelli ai nostri giorni, in La diplomatique urbaine en Europe au moyen âge. Acte du congrès de la Commission internationale de Diplomatique. Gand 25-29 août 1998, cur. W. Prevenier - Th. De Hemptinne, Leuven-Apeldooan 2000 (Studies in urban, social, economic and political history of the medieval and modern Low Countries, 9), pp. 383-406. 3 G. Orlandelli, Il sindacato del podestà. La scrittura da cartulario di Ranieri da Perugia e la tradizione tabellionale bolognese del sec. XII, Bologna 1963. 4 Le numerose testimonianze di area fiorentina sono rilevate in termini di analisi grafica in I. Ceccherini, Tradition cursive et style dans l’écriture des notaires florentins (v.1250v.1350), «Bibliothèque de l’École des Chartes», 165 (2008), pp. 167-185.
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ni autentici delle imbreviature, nei munda5. La elegante minuscola cancelleresca di Feus del fu Cambio di Benvenuto, giudice e notaio pubblico fiorentino, osservabile nel monumentale liber privilegiorum compilato nel 1331 nel contesto di una operazione pubblica e “comunale” per la potente abbazia cistercense di S. Salvatore a Settimo6, non viene mutata per la scrittura degli instrumenta7. Si tratta, in effetti, di fatti di stile. Non mancano però libri iurium in cui le registrazioni dei documenti sono realizzate dai notai con una grafia che «raggiunge talvolta ottimi esempi di textualis formata»8. In textualis sono, invece, di regola scritti i testi delle norme cittadine portati dai codici statutari del Comune, intesi come libri ufficiali, concepiti per essere tali in un sistema che si compie sensatamente solo nel corso del secolo XIII per poi sopravvivere, perdendo molto del carattere originario, in un contesto più complesso nel secolo successivo9. A Siena tali codici presentano tutti i caratteri distintivi del libro di pregio: schemi di impaginazione accurati, scritture regolari del textus, apparati ornamentali complessi. Non sono caratteri presenti dappertutto, ma proprio per questo possono considerarsi eccezioni che bene riflettono le regole di un sistema. Nella Siena del Governo dei Nove un elemento pare oggettivamente fuori dall’ordinario: qui il notaio non è, come altrove, soltanto lo scriba pubblico responsabile materialmente della scrittura del textus – un vero calligrafo, nel caso dei testi senesi –, ma è anche rubricatore, miniatore, legatore dei libri del suo Comune, almeno fino al penultimo decennio del Duecento. I notai Iacobo Bastoni, Giovanni di Guidone e 5 A. Ghignoli, I ‘quaterni’ di ser Vigoroso (1259-1299), in Storie di cultura scritta. Studi per Francesco Magistrale, cur. P. Fioretti, Spoleto 2012 (Collectanea, 28), pp. 479-497: le Tavv. 1 e 4 riproducono la scrittura a tocchi del notaio, con tratti serrati, precisi, minuti (il modulo delle lettere è davvero piccolo e le parole grafiche risultano compatte), più vicina a una textualis semplificata che a una “normale” corsiva notarile. I registri sono in Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Notarile antecosimiano, 21108, 21109, 21110. I fascicoli di prima sistemazione dei rogiti sono il primo e secondo di 21108. Un instrumentum redatto in mundum di Vigoroso è ASF, Diplomatico, S. Bartolomeo a Ripoli, 1289 marzo 12 (codice 00022909). 6 Cfr. Carte della Badia di Settimo e della Badia di Buonsollazzo nell’Archivio di Stato di Firenze, edd. A. Ghignoli - A.R. Ferrucci, Firenze 2004, pp. XXVIII-XXX. 7 Un esempio di mundum di Feus: ASF, Diplomatico, S. Frediano in Cestello, 1331 maggio 31 (codice 00075578). 8 A. Rovere, I “libri iurium” dell’Italia comunale, in Civiltà comunale: Libro, Scrittura, Documento. Atti del Convegno (Genova 8-11 novembre 1988), Genova 1989 («Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. ser., XXIX/2), pp. 157-199: p. 175. 9 Per il problema in generale, v. Statuten codices des 13. Jahrhunderts als Zeugen pragmatischer Schriftlichkeit, cur. H. Keller - J. W. Busch, München 1991.
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Accursio – pagato dal Comune per miniare anche una cedula da esporre nei fontibus Comunis – non sono che quelli che conosciamo10. Se a partire dal primo Trecento nella decorazione dei manoscritti comunali subentrano le botteghe artistiche, sono sempre i notai a copiare i testi degli statuti. La scrittura del Costituto senese volgarizzato del 1309-131011 è realizzata in una bella textualis dalla mano del notaio Ranieri di Ghezzo da Gangalandi, che era anche l’autore del volgarizzamento, oltre ad essere personaggio politicamente impegnato nel reggimento del suo comune. Come scrive Attilio Bartoli Langeli, Ranieri dunque «era anche un bravo “scrittore”, secondo la migliore tradizione del notariato senese»12. Ma come si sarebbe formata quella “tradizione” a Siena? E soprattutto, scrivere in testuale era, a Siena o altrove, un sapere acquisito in via eccezionale per un notaio, una sua personalissima competenza? A partire dalla metà del secolo XIII nell’area toscana la littera moderna raggiunge la fase di sistema assestato. Se in questa stagione importante della sua storia i notarii coinvolti nella gestione politico-amministrativa del Comune hanno svolto un qualche ruolo, non possiamo conoscerlo. Come non conosciamo il peso relativo, nella formazione di un notaio di questo periodo, del modus scribendi librario, che pure è una realtà documentata – come si vede – nella sua esperienza grafica. Il fatto è che tali domande non hanno neppure agio per essere poste13. Nell’analisi paleografica, il termine “notarile” – ossia un concetto di natura storico-sociologica – è impiegato spesso in supplenza di una definizione della struttura del fatto grafico, per richiamare senz’altro il tipo di scrittura impiegata nei rogiti, imbreviature e munda. Non tutti i notai che possiamo documentare o immaginare esistenti nelle nostre città in questo periodo sono stati però “notai” nel senso di rogatari di documenti. A Pisa dove nel 1324 erano ben 115 gli uffici pubblici che richiedevano un notaio – saliranno a 150 fra uffici ordinari e straordinari a metà secolo – soltanto una davvero ristretta minoranza dei notai esistenti in città, come ha dimostrato Ottavio Banti, esercitava ininterrot10 Dal bel saggio di G. Orofino, Decorazione e miniatura del libro comunale: Siena e Pisa, in Civiltà Comunale cit., pp. 465-505. 11 Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. M. S. Elsheikh, 4 voll., Siena 2002 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fonti e Memorie, 1). 12 A. Bartoli Langeli, I manoscritti del Costituto, in Il Costituto del Comune di Siena cit., p. 3 (corsivo mio). 13 Nei manuali italiani di paleografia, nei due o tre capitoli tradizionalmente dedicati rispettivamente alla genesi, alla descrizione e alla diffusione della gotica libraria, è difficile imbattersi nella figura del notaio, ad eccezione forse del caso in cui vi sia l’esigenza di cita-
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tamente o esclusivamente la libera professione, aspirando i più a occupare posti dell’amministrazione pubblica14. Dal testo del Breve collegii notariorum di Pisa, databile al 1304 ma portatore di capitula indubbiamente risalenti a un periodo forse di qualche decennio più antico, sappiamo che a un notaio era permesso di insegnare l’ars a un apprendista, tenendolo per diversi anni presso di sé, soltanto se costui, oltre ad essere pisano e di età maggiore di 18 anni, avesse saputo già «convenienter scribere» e fosse già «in grammatica provectus sufficienter»15. Nelle scuole di gramatica che dunque tanti giovani frequentavano – viste anche le speranze che alimentava la professione – non potevano che esser impiegati libri in textualis. E se – come è ragionevole supporre – a quella fase di apprendimento era connessa anche una educazione grafica, era dunque in quel contesto che un futuro notaio imparava il modus scribendi librario. La formazione di una propria scrittura professionale, imbastita sulla tradizione documentaria, sarebbe dunque avvenuta dopo, presso il notaio maestro dell’ars. Attestazioni dirette della presenza a Pisa di numerose scuole di gramatica frequentate dai giovani rampolli del ceto dirigente, aspiranti a restar tali, e attestazioni dei nomi dei maestri che le reggevano – molti, non pisani – si hanno però soltanto per gli anni 1320-1330: e proprio nelle risposte dei testimoni presentati dai notai ‘novizi’ nell’atto di chiedere l’iscrizione al Collegio contenute nel registro che conserva i verbali delle approbationes16. Non è facile, come si capirà, aver prove della scrittura di personaggi capaci di scrivere ma non legittimati a lasciar tracce, come gli apprendisti non ancora notai. Per una casuale e fortunata circostanza, però, un paio ce l’abbiamo. Dell’attività di ser Vigoroso da Loro, notaio che abbiamo già incontrato17, si sono conservati oltre ai quaterni imbreviaturarum18 anche due fascicoli che rappresentano la redazione intermedia fra le schede e i re brevemente le ricerche di Orlandelli sulle origini della gotica a Bologna: come, per es., in A. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Roma 1992, cap. XXIII, p. 134, «a Bologna i primi esempi di gotica si notano nell’attività di Guido tabellio e della sua scuola». 14 O. Banti, Ricerche sul notariato a Pisa tra il secolo XIII e il secolo XIV. Note in margine al Breve Collegii Notariorum, ora in Banti, Scritti di storia, diplomatica ed epigrafia, cur. S.P.P. Scalfati, Pisa 1995, pp. 373-426; Banti, Il notaio e l’amministrazione del comune a Pisa (secc. XII-XIV), ibid., pp. 426-448. 15 Si tratta del Breve collegii notariorum, cap. XLVII cfr. Banti, Ricerche cit., p. 390. Una recente edizione del Breve sostituisce ora quella di Francesco Bonaini: Breve del collegio dei notai di Pisa dell’anno 1304, ed. O. Banti, Pisa 2005. 16 Banti, Ricerche cit., p. 403, nota 62. 17 V. supra, nota 5. 18 Si tratta propriamente di quaterni, infatti, non di “libri”: i registri attuali sono stati legati solo in epoca moderna. In generale, si deve registrare per la Toscana una perdita quasi totale di registri di imbreviature se si pensa che, in rapporto agli instrumenta redatti
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quaterni di imbreviature autentici, che serviva a mettere insieme i testi raccolti dalle schede sciolte (alcune ancora conservate fra le carte) e a generare la serie in ordine cronologico di imbreviature che il notaio avrebbe copiato nella sede ultima e autentica del suo quaternus imbreviaturarum. Una redazione intermedia, che ser Vigoroso – come presumibilmente i suoi contemporanei – affidava anche ai suoi aiuti. L’apprendista denominato “Mano B” collabora a quella redazione intermedia, nel 1259 e nel 1261, con la sua littera textualis19 (Fig. 1).
Fig. 1
Il risultato che può dare la ricerca sul piano dell’analisi paleografica è ancor più significativo. Irene Ceccherini, lavorando su un corpus di circa 1500 documenti grafici per il periodo tra il 1250 e il 1325 di area fiorentina, ha dimostrato, da una parte, una complessità inaspettata di soluzioni e stili della littera minuta cursiva20 impiegata dai notai di questo periodo; dall’altra, la parentela sostanziale – sul piano morfologico e, quel che più conta, sul piano dell’organizzazione della catena grafica – tra quel modus scribendi corsivo e l’altro che costituisce il sistema “moderno”, ovvero il modo librario della littera textualis21.
in extenso conservati nei fondi diplomatici toscani, pochissimi ne sono rimasti anteriormente al 1250 o nella seconda metà del secolo: v. L. Mosiici, Note sul più antico protocollo notarile del territorio fiorentino e su altri registri di imbreviature del secolo XIII, in Il notariato nella civiltà toscana. Atti di un convegno (maggio 1981), Roma 1985, pp. 171-238. Importanti riflessioni su come affrontare, per questo periodo e in questo stato della tradizione, il rapporto tra munda dei fondi diplomatici e registri di imbreviature superstiti sono in A. Meyer, La critica storica e le fonti notarili. Note su registri di imbreviature e pergamene lucchesi del secolo XIII, «Archivio storico italiano», 169 (2011), pp. 3-22. 19 Ghignoli, I quaterni cit.: la riproduzione della imbreviatura di “mano B” è alla Tav. 3. 20 Si impiega qui la definizione data – sulla scorta della ormai celebre testimonianza del ms. Leyda, Bibl. Univ., Voss. Lat. F. 21, cc. 12r, 213r, 114v – da E. Casamassima, Tradizione corsiva e tradizione libraria nella scrittura latina del Medioevo, Roma 1988, p. 97. 21 Ceccherini, Tradition cursive cit.
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Proviamo allora a tornare sulla scrittura del notaio Feus nel suo Liber privilegiorum della Badia di Settimo. Lo stile della tradizione documentaria mette la sua “marca” nell’interlinea, col trattamento delle aste che, nella fattispecie, sono eseguite nella tipizzazione che si definisce “cancelleresca” e che proprio in questo periodo, come si ricorderà più avanti, va formandosi. La tradizione libraria sovrintende invece all’esecuzione delle parole sulla base di scrittura secondo la sintassi della textualis: è evidente, in maniera lampante, quando si scrivono parole composte da lettere senza aste (Fig. 2).
Fig. 2
Come a Siena, anche a Pisa è esplicita – e non solo ragionevolmente presumibile – la responsabilità della mano di un notaio con funzione di scriba del Comune nella redazione del textus del codice statutario. Il codice di norme più antico, del 1287, rappresenta – è vero – un caso particolare, essendo il testimone di un esperimento politico-istituzionale eccezionale come quello di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, con il quale le cariche di podestà e di capitano del Popolo vennero assolutizzate, con conseguente unione dei rispettivi Brevi in un unico volumen e in un unico contextus22: esso è comunque scritto in textualis, mentre in littera minuta cursiva sono scritte le lettres d’attente e rare indicazioni coeve di correzione apposte sui margini. Per il periodo immediatamente successivo fino al terzo decennio del Trecento, è invece conoscibile un sistema coerente di scritture normative su codice 23, organizzato secondo una struttura ricorrente: nello specchio della pagina, il nucleo del testo in textualis; nei margini e nello specchio della pagina nelle carte finali bianche, microtesti in lit-
22 Si tratta del codice Archivio di Stato di Pisa (d’ora in avanti ASP), Comune, A1: v. I Brevi del Comune e del Popolo di Pisa dell’anno 1287, ed. A. Ghignoli, Roma 1998 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Antiquitates, 11), pp. VII-XXXVII. 23 ASP, Comune, A2, A3, A4, A5, A6; ASP., Roncioni, 323.
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tera minuta cursiva. I microtesti nei margini contengono integrazioni o indicazioni di vacationes relative ai capitoli del testo principale o indicazioni di “lettura” autentica degli stessi, e sono sempre accompagnati da sigle: per es. «C.U.», «Al.». I testi nelle carte finali bianche sono più lunghi: si tratta di eventuali nuovi capitoli interi aggiunti, quindi della dichiarazione autenticatrice dell’operazione complessiva, contenente la chiave per sciogliere le sigle che accompagnano i microtesti sui margini del codice, i nomi dei revisori (sapientes viri, iuris professores), il nome del notaio con funzione di estensore (scriba publicus) del textus o dei marginalia, infine la data dell’intera operazione24. La textualis dei Brevi del Comune e del Popolo del 1287 è di modulo piccolo, proporzionata e coerente, anche se l’assetto è caratterizzato dalla quasi sistematica rinuncia a fondere in nessi le curve contrapposte. Mantiene la stessa caratteristica la scrittura del codice del Breve del Comune immediatamente successivo, databile al 1305, (Fig. 3)25.
Fig. 3
Per il periodo precedente il volumen del 1287 si è conservato solo il testo di alcuni capitula riguardanti l’Opera della cattedrale di un Breve del Comune vigente nel 1275 al tempo del podestà Savarigi di Villa da Milano, ma in tradizione stravagante ovvero fuori dal codex, in copia coeva su foglio sciolto di pergamena26. A questa testimonianza si aggiunge un testo che deve considerarsi ugualmente prodotto nell’ambito “pubblico” e comunale, e concernente lo stesso ente che conserva i capitula sopra menzionati, l’Opera di S. Maria. Ma è scritto in volgare pisano: si tratta delle cosiddette “istruzioni per ser Iacopo”. Questo testo è stato datato finora sulla base di elementi interni agli anni 1230-123127. Di recente Ottavio 24 25 26 27
Cfr. I Brevi del Comune cit., pp. XLIV-LIV. Cfr. ASP, Comune, A2, c. 81v. ASP, Diplomatico, Primaziale, 1275 gennaio; cfr. I Brevi del Comune cit. p. LXX. Riproduzione e trascrizione in A. Castellani, La prosa italiana delle origini. I. Testi
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Banti ha proposto, sempre sulla base di elementi interni, di spostare la sua datazione agli anni 1263-126628. La scrittura dei capitoli tratti dal Breve del Comune del 1275 sulla pergamena dell’Opera Primaziale è il risultato di una mera “sovrapposizione” su una base libraria di pochi e nettamente distinguibili stilemi della tradizione documentaria (ma di livello alto, cancelleresco nel senso della diplomatica): scrittura di modulo grande per metà del primo rigo, lettere distintive iniziali di ogni periodo dei capitula, prolungamento delle aste delle lettere nel testo, stilizzazione per allungamento di ss e st in legatura. Si tratta di un innesto operato con precisione: la funzione evidente è quella di dare veste adeguata a una serie di capitula che rappresentano un privilegio riconosciuto all’Opera da parte del Comune, e l’operazione è senza dubbio realizzata nella sua cancelleria. Osservata nei luoghi in cui sono assenti lettere con aste o gli stilemi detti, la scrittura presenta la sintassi grafica del sistema moderno: l’uso di nessi di curve contrapposte è “irregolare”, spesso manca e spesso è sostituito da una compenetrazione per semplice contatto: ma è proprio questa, la caratteristica che rende “ariosa” in genere la textualis di matrice comunale (e non) pisana fino al Trecento avanzato. Un fatto d’ibridazione fra i diversi piani grafici testuale e documentario è forse visibile soltanto nel caso della lettera g: eseguita di regola libraria – con sezione inferiore spezzata in tre tratti e chiusa da un sottile tratto di frego –, essa è almeno una volta eseguita nella forma di tradizione corsiva, con la coda che scende verso sinistra, chiusa in un piccolo occhiello allungato orizzontalmente. L’affermarsi nel modo librario del sistema “moderno” di scrittura, rappresentato dalla littera textualis, e la misura dell’allontanamento dalla littera antiqua sono osservabili e riconoscibili per l’organizzazione dei rapporti fra i singoli tratti costitutivi delle lettere, individuando cioè fatti di struttura, come ormai è stato ampiamente argomentato negli studi29. Fondare il rilievo dell’analisi esclusivamente su fatti che riguardano l’esecuzione o lo stile (l’impiego di una penna tagliata in un certo modo, gusto per curve spezzate, angolosità “complessiva”), secondo un tradizionale canone descrittivo30, può distrarre dal cogliere proprio la sostanza storica di un docutoscani di carattere pratico, Bologna 1982, Tav. 26, n. 11, pp. 61-63, «Promemoria riguardante beni e privilegi della Primaziale di Pisa». 28 O. Banti, Istruzioni per ser Iacopo. Per la datazione di un testo in volgare pisano del secolo XIII, «Studi Medievali», ser. III, 52/2 (2011), pp. 847-864. 29 Basti il rinvio a S. Zamponi, La scrittura del libro nel Duecento, in Civiltà comunale cit., pp. 317-347. 30 Cfr. ibid., p. 318.
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mento grafico, specialmente se associato alle pratiche diffuse – e spesso inevitabili anche in paleografia – di descrizione finalistica dei fenomeni (ogni fatto grafico è descritto in funzione di un genere di scrittura che viene prima o uno che viene dopo, sistemati dallo storico in diacronia teorizzando un loro assetto ideale compiuto), che generano automaticamente la classe delle perenni “fasi di transizione” e impongono fatalmente definizioni tautologiche attraverso il ricorso a un elemento cronologico noto, ottenuto per i dati extragrafici contenuti nel documento stesso. Se si osserva allora l’organizzazione dei rapporti tra i singoli tratti costitutivi nella scrittura del testo delle “istruzioni” per il misterioso ser Iacopo impartite in volgare da un operarius31 dell’Opera, esse sono e restano – che siano datate al 1231 o al 1263 – testimonianza della littera moderna così come era usata ed eseguita da un rilevantissimo ufficiale del Comune, rappresentante della Pisanorum potestas32. Con lo stesso metodo sarebbe necessario riflettere anche sulla scrittura del più antico testimone che si conosca del testo dei Costituti della Legge e dell’Uso, la cui composizione si colloca nell’ultimo quarto del secolo XII: il cosiddetto “codice Yale” (Yale, ms Beinecke Library 415)33. La sua scrittura, opera di quattro mani diverse, è stata definita nel complesso scrittura «del periodo di transizione dalla littera antiqua, la minuscola carolina, alla littera textualis» con «caratteristiche che contraddistinguono in modo particolare la scrittura dell’ultimo quarto del secolo XII»34. Ora, della mano denominata nell’edizione «mano C», cui sono attribuite le
31 Su questa figura v. in generale per le origini M. Ronzani, Dall’aedificatio ecclesiae all’Opera di S. Maria: nascita e primi sviluppi di un’istituzione nella Pisa dei secoli XI e XII, in Opera. Carattere e ruolo delle fabbriche cittadine fino all’inizio dell’Età moderna, cur. M. Haines - L. Riccetti, Firenze 1996, pp. 7-70. 32 In Castellani, La prosa cit., p. 61, la definizione è infatti «littera textualis della prima metà del sec. XIII», secondo il giudizio di Emanuele Casamassima. Mentre in Banti, Istruzioni cit., p. 850, dopo aver argomentato una datazione su base interna al 1263, si descrive così la scrittura: «accurata scrittura con penna a punta larga e rigida, una penna da scrittura di stilizzazione “gotica”, di cui però, la mano che l’ha tracciata, non adotta in modo coerente i caratteri distintivi. Infatti mentre esegue alcune lettere con tratteggio a tratti spezzati, come vuole il canone, altre le esegue con tratteggio a tratti rotondeggianti, di segno pieno e tratti staccati pure rotondeggianti. In sostanza è una mano che rivela incertezza o discontinuità di stile, caratteristiche di una stilizzazione grafica in elaborazione, già in fase avanzata ma non ancora matura, caratteristiche che a mio parere portano ad assegnare questa scrittura agli anni intorno alla metà del secolo XIII». 33 I costituti della legge e dell’uso di Pisa (sec. XII), Edizione integrale del testo tràdito dal «Codice Yale»/ ms. Beinecke Library 415. Studio introduttivo e testo, ed. P. Vignoli, Roma 2003 (Fonti per la storia dell’Italia Medievale, Antiquitates, 23). 34 Ibid., p. XXIX.
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cc. 39r-62v, si osservino (Figg. 4-7) esempi di ordinamento della catena grafica e di esecuzione della lettera g – con elementi costitutivi (cinque) già moderni35 – tratti tutti da c. 62r del manoscritto.
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
35 Si confronti con Casamassima, Tradizione corsiva cit., p. 109, fig. 11 (seconda forma della lettera g).
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Torniamo al Duecento attestato. È assai probabile che l’esperienza poetica siciliana sia stata introdotta in Toscana proprio da Pisa36, ma sulla trasmissione materiale dei testi si sa ben poco, anche se sarebbe difficile immaginarli realizzati in ambienti estranei a quelli dei gruppi dirigenti che accoglievano Federico II e il suo seguito, di stanza in diverse occasioni fra il 1239 e il 1249 in città. Per i più tardi testi dei volgarizzamenti della prosa letteraria, pisani, è sicuro che alcuni in littera textualis siano stati copiati da ostaggi pisani detenuti a Genova dopo la sconfitta della Meloria, nel 1284. Di loro conosciamo anche i nomi: Taddeo, Neri Sampante, Bondì37. Lo status di prigionieri38 in questo caso conferma, se ce ne fosse il bisogno, che si tratta di cives partecipi della politica comunale, membri dunque di famiglie che dovevano esser presenti su tutti i fronti importanti dell’attività politico-economica nelle funzioni di Anziani, giudici, notai, mercanti. A Genova, tra il 1284 e il 1299, si tiene dunque sequestrato un campione significativo della società, maschile, cittadina: coloro che conosciamo come “copisti” di codici ne facevano parte.
36 L. Leonardi, Tra i Siciliani, i trovatori e Guittone: Pisa e la prima tradizione della lirica italiana, in Pisa crocevia di uomini, lingue e culture. L’età medievale. Atti del Convegno (Pisa 25-27 ottobre 2007), cur. L. Battaglia Ricci - R. Cella, Roma 2009, pp. 137-157: 141. 37 Copisti rispettivamente dei mss. Pisa, Biblioteca Cathariniana, 43 (i gradi di S. Girolamo); Milano, Biblioteca Ambrosiana, M 76 (Legenda aurea); Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana (d’ora in avanti BML), Pluteo 42.23 (volgarizzamento del Tresor di Brunetto Latini). Anonimo, ma prigioniero a Genova alla fine del secolo XIII e perciò probabilmente pisano, è anche il copista di Paris, Bibliothèque Nationale, fr. 1142: v. F. Cigni, I testi della prosa letteraria e i contatti col francese e col latino. Considerazioni sui manoscritti, in Pisa crocevia cit., pp. 168-173. Cfr. anche Cigni, Copisti prigionieri (Genova, fine sec. XIII), in Studi di filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, cur. P. G. Beltrami, Pisa 2006, I, pp. 425-439. 38 I pisani ostaggi politici a Genova si costituirono giuridicamente, com’è noto, in una universitas – la universitas carceratorum Pisanorum Ianue detentorum – munita di un proprio sigillo raffigurante due prigionieri in ginocchio ai piedi di Maria vergine (il primo a parlarne fu R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1981, II, 2, p. 342 nota 4). Già soltanto per questo – a non voler richiamare le caratteristiche di pregio dei codici prodotti in quel contesto, indubbie almeno nel manoscritto copiato da Bondì – il caso dei copisti pisani prigionieri a Genova sul finire del XIII secolo sarà da valutare con opportune distinzioni rispetto al modello di spiegazione che inducono ad adottare i casi documentati molto più tardi a Firenze, di recente raccolti da Marco Cursi – in un corpus di 33 mss. datati fra il 1334 e il 1472-73, di cui soltanto due sono trecenteschi – nell’ambito di una ricerca più ampia e in corso sul fenomeno della scrittura in carcere: cfr. M. Cursi, «Con molte sue fatiche»: copisti in carcere alle Stinche alla fine del medioevo (secoli XIV e XV), in Uno volumine. Studi in onore di Cesare Scalon, cur. L. Pani, Udine 2009, pp. 151-192.
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Di Bondì, copista di un volgarizzamento del Tresor, sappiamo anche il nome della sua famiglia dal momento che si sottoscrive col “cognome”39: la famiglia dei del Testa, o Testarii nelle fonti latine notarili, del Testaio in quelle volgari. Una famiglia di Popolo e di mercanti di media ricchezza, che ha, almeno dal 1271, membri eletti fra gli Anziani per il quartiere di Kinzica; che ha, sicuramente nel 1271 e nel 1310, almeno due membri attivi in città come notai rogatari. Un del Testaio è anche Puccio, poco più giovane probabilmente di Bondì, che ci ha lasciato le più antiche – per ora – lettere in volgare pisano. Le invia a Siena, nel 1319, a un frate del convento di S. Agostino, che possedeva a Pisa delle case ereditate da una piccola compagnia mercantile senese, di cui Puccio era conductor 40. La textualis del codice del volgarizzamento del Tresor di Bondì del Testa mostra nella sostanza lo stesso assetto delle scritture impiegate, con ovvie varietà di esecuzione, dagli scribae pubblici del suo Comune, fra la fine del secolo XIII e gli inizi del XIV, per redigere i libri di statuti. Alle quali, del resto, sono avvicinabili le principali mani, sempre pisane, che «in una littera textualis di modulo piccolo e coerente, diversa per stile dalle rigidità della rotunda delle sedi universitarie, scrivono i testi del Canzoniere Laurenziano (il ms. Redi 9)» 41. Potremmo avere anche un altro manoscritto copiato in textualis da un notaio pisano, datato all’ottobre 1287: l‘ipotesi che il codice ora fiorentino del volgarizzamento di Albertano da Brescia (il “Codice Bargiacchi”, per i filologi) sia opera di un notaio, sarebbe in effetti confortata dal tipo di scrittura, una textualis con indizi di tradizione documentaria rivelata proprio dal trattamento delle aste42. Ma sarebbe sorretta anche dal fatto che la dichiarazione di copia con indi-
39 «Bondì Pisano mi scrisse – Dio lo benedisse –, Testario sopranome»: cfr. A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana. I. Introduzione, Bologna 2002, p. 287 nota 53. 40 Cfr. A. Ghignoli, “Siete savio, sapete che ci chade a ffare”. Lettere da Pisa a un frate senese del primo Trecento, in Scrivere il medioevo: lo spazio, la santità, il cibo. Un libro dedicato ad Odile Redon, cur. B. Laurioux - L. Moulinier-Brogi, Roma 2001, pp. 233-248; A. Ghignoli - P. Larson, Due lettere pisane del 1319, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 7 (2002), pp. 372-395 (4 Tavv.). 41 S. Zamponi, Il canzoniere Laurenziano: il codice, le mani, i tempi di confezione, in I Canzonieri della lirica italiana delle origini. IV. Studi critici, cur. L. Leonardi, Firenze 2001, pp. 215-245: 238-239, il quale con l’occasione sottolinea nuovamente come la «geografia della scrittura testuale in Italia alla fine del Duecento, declinata secondo eventuali interpretazioni locali, assetti linguistici (Latino/volgare) e livelli codicologici» sia «in buona parte terra incognita» agli studi di paleografia. 42 V. l’analisi in I manoscritti della letteratura italiana delle origini. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cur. S. Bertelli, Firenze 2002 (Biblioteche e Archivi, 11), p. 89-90, n. 12.
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cazione della data è fatta seguire da una firma, cifrata con due litterae singulares: «Questo libro fu scripto socto anni Domini MCCLXXXVIII del mese d’octobre. U. B.»43. Particolare, questo, che non può non richiamare le pratiche messe in atto dai notai scrittori di codici di statuti, per rendere evidente l’autore di un testo aggiunto o vacato, che abbiamo ricordato proprio per il caso di Pisa. Ma pisanità e identità dello scrittore non sono sicure in questo caso; forse neppure ipotizzabili44. Passando in rassegna e riflettendo su casi di notai copisti di codici letterari di area toscana e soprattutto fiorentina, Teresa De Robertis ha reso evidente quanto siano significativamente numerosi i notai che copiano testi in textualis, specie nel secolo XIII, ma anche più avanti, nel secolo XIV, 43 44
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.III. 272-273, f. 103rB. Sul fronte linguistico, Castellani escluse la provenienza toscana occidentale per la presenza del vocabolo losneo, che sarebbe però presente anche in altri testi pisani: sulla questione v. ora P. Larson, Ancora su losneo/lusneo, «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 11 (2006), pp. 267-271. Sul fronte codicologico-paleografico, la “sigla” U. B. di f. 103rB viene sempre interpretata in stretta connessione con quanto si legge sul verso della stessa carta, scritto dalla stessa mano, come sembra: «Quicumque vult salvus esse oportet habere catholicam fidem. Dominus Binducius Tuscanus debo dare Bitino not(ario) de Butrio x sold(os) ven(etorum) gross(orum)». E viene sempre senza ragione trascritta V. B. (così anche in I manoscritti della letteratura italiana cit., p. 89-90). In M. Signorini, Il copista dei testi volgari (X-XIII). Un primo sondaggio delle fonti, «Scrittura e Civiltà», 19 (1995), pp. 138-139 – dove però si legge «dominus Binducius Tuscanus debet dare Bitino (... )» (corsivo mio), con lo stesso errore di una vecchia trascrizione di S. Ciampi, Volgarizzamento dei trattati morali di Albertano, giudice di Brescia, Firenze, 1832, p. 67 – si propone l’identificazione del copista con il notaio Bitino rammentato nell’annotazione di f. 103v sciogliendo la sigla in «V[itinus] B[utriensis]» sulla base di un generico argomento linguistico (scambio fonetico fra V e B). Maggiore cautela sull’ipotesi di un tale scioglimento in I manoscritti della letteratura italiana cit., p. 89-90 (dove però si legge « ... Binducius Tuscanus debo dare Bitino notarius... », corsivo mio). Generale accordo, invece, nel considerare Binduccio Toscano il committente del libro (in Cigni, I testi della prosa cit., p. 165 è dato però come copista). La prima obiezione da fare riguarda la lettura e l’interpretazione del primo grafema della firma siglata – U –, a cui si è sempre dato per scontato il valore consonantico di v come dimostrano le sue varie trascrizioni; è invece altrettanto, se non più probabile, che il nome del copista principiasse per vocale u (e giustamente ne conserva la forma originale l’edizione di F. Faleri, Il volgarizzamento dei trattati morali di Albertano da Brescia secondo il ‘codice Bargiacchi’ (BNCF II.III.272), «Bollettino dell’Opera del Vocabolario Italiano», 14 (2009), pp. 187-368: 368). La nota di f. 103v è, inoltre, introdotta dal symbolum di Atanasio e probabile è la sua funzione di “arenga” per quanto segue: una confessio debiti formulata in prima persona (debo per debeo). Che la somma dovuta sia il prezzo per la copia del libro è una congettura certo possibile, che non ha però la forza di sostenerne altre, come la congettura di Bitino = V[itino]. Ma è altrettanto possibile che il copista del codice – si chiamasse Ugolino o Vanni – si sia prestato per un qualche motivo a registrare sul libro che aveva appena terminato – e in una posizione adeguata – il ricordo di un debito che tale Binduccio Toscano doveva al tale notaio Bitino da Budrio (in provincia di Bologna): sarebbe allora più logico supporre come possessore (dunque committente del libro) il notaio creditore, visto
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quando nel libro è ammessa anche una alternativa alla littera moderna. Si copia magari con penne a punta sottile (penne non “gotiche” secondo il canone tradizionale), magari con stili nell’esecuzione che tradiscono una familiarità con la tradizione grafica corsiva, ma pur sempre di scrittura del textus si tratta. Inoltre se è vero che la letteratura volgare non è trasmessa principalmente in scritture di tradizione documentaria, De Robertis porta esempi che dimostrano anche che le scritture di matrice notarile nel codice non sono impiegate soltanto per scrivere il volgare 45. La continuità nel solco della tradizione, e dunque del codice in textualis, è d’altra parte testimoniata non solo dai codici dei volgarizzamenti, in ispecie quelli pisani46, ma anche dalla raccolta non certo secondaria di manoscritti della letteratura italiana delle origini conservati a Firenze47. Un gran numero di essi – la maggioranza, nella collezione della Biblioteca Nazionale Centrale – è scritta nella lettera del textus. E il fatto contrasta con la tendenza a pensare l’avvento di una letteratura volgare, ‘nuova’, legato per simmetria a forme grafiche ‘diverse’, in qualche misura contrapposte al preesistente, e a figure di copisti espressione, sempre per simmetria, di categorie sociologicamente connotabili come nuove ed emergenti. Lo stesso complesso di 42 codici (e 46 testimoni) della Commedia dantesca, datati e databili entro la cosiddetta antica vulgata (1355), conserva un solo manoscritto – e della metà del XIV secolo – realizzato nella scrittura propria – nei modi che vedremo fra poco – del ceto emergente per eccel-
sul verso della carta finale era registrata la memoria di un suo credito. Come che sia stato, le sole informazioni che siamo autorizzati a trarre dal testo sono: Binduccio è un giudice o un iuris professor o anche un miles per il titolo di dominus che lo accompagna; il debito è in denari veneziani grossi, e ciò costituisce un primo indizio (già fatto notare da Castellani) per immaginare un ambiente non toscano in cui si è contratto il debito, e probabilmente si è svolta la copia (indipendentemente dalla toscanità, se riconfermata dai segnali linguistici del volgarizzamento, del copista); il sopranome di Binduccio – «Tuscanus» – avrebbe senso pregnante, come ipocoristico, proprio in un contesto geograficamente lontano da quello di origine per chi “toscano” veniva soprannominato. 45 T. De Robertis, Scritture di libri, scritture di notai, «Medioevo e Rinascimento», 24, n. ser. 21 (2010), pp. 1-27. 46 I codici più antichi del Tesoretto scritti a Pisa o da pisani a Genova o provenienti dalla Toscana occidentale sono tutti in littera textualis: v. S. Bertelli, Tipologie librarie e scritture nei più antichi codici fiorentini di Ser Brunetto, in A scuola con ser Brunetto: la ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento, cur. I. Maffia Scariati, Firenze 2008 (Archivio romanzo, 14), schede 5, 6, 14, 20. 47 I manoscritti della letteratura italiana delle origini. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cit., in particolare pp. 33-73; cfr. anche I manoscritti della letteratura italiana delle Origini. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, cur. S. Bertelli, Firenze 2011 (Biblioteche e Archivi, 22).
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lenza nel quadro della società comunale, i mercanti. Ben 8 manoscritti sono in textualis; i rimanenti, in bastarda su base cancelleresca48. È la littera bastarda49 a rappresentare, infatti, la vera antagonista alla textualis nella redazione dei codici della letteratura italiana delle origini. Una delle attestazioni più antiche proviene da Firenze e dalla fine del secolo XIII: il Riccardiano 2908, volgarizzamento del Tresor, scritto evidentemente da un «professionista della penna che si potrebbe qualificare come di formazione notarile o cancelleresca, rappresentante cioè per questa scrittura il grado formalmente più avanzato»50. In conclusione, mi pare dimostrato da De Robertis che nel giudizio complessivo dell’esperienza grafica di questo periodo il passaggio della tradizione corsiva nel mondo del libro – qualora sia un notaio a svolgere mansione di copista – non può esser giudicato come obbligato in qualche misura, quasi come se i notai fossero «condizionati dalla propria educazione grafica, perché incapaci di scrivere in altro modo o perché inconsapevoli delle gerarchie grafiche, dei vincoli della tradizione»51. Sono maggiori,
48 S. Bertelli, La tradizione della “Commedia” dai manoscritti al testo. 1. I codici trecenteschi (entro l’antica vulgata) conservati a Firenze, presentazione di P. Trovato, Firenze 2011, v. in particolare il prospetto sinottico a p. 5. I mss. provengono tutti da Firenze con eccezione di 6 codici, tra questi il celeberrimo testimone Ash. del testo dantesco, ovvero BML, Ashb. 828, un codice in textualis, con datum in stile pisano, proveniente dalla Toscana occidentale, qui presentato con una datazione nuova – ante agosto 1335 –: ibid., p. 95-97, scheda 13, Tav. XVI. Il ms. presenterebbe diversi compendi giudicati estranei all’ambito della produzione manoscritta in lingua volgare e diffuso impiego della nota tachigrafica per con: caratteristiche che hanno indotto a pensare a un ambiente di produzione ecclesiastico (v. G. Pomaro, Appunti su Ash, in Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia. Una guida filologico-linguistica al poema dantesco, cur. P. Trovato, Firenze 2007, p. 323): potrebbero però esser anche indizi della provenienza da una ambito giuridico o istituzionale del suo copista; la nota per con è anche nei codici latini di norme statutarie in textualis. Notevole il caso, sempre tra i codici provenienti da fuori Firenze, del ms. BML Plut. 40.22, proveniente da Sassoferrato, datato 1355 feb. 8, scritto anch’esso in textualis ma in formato oblungo, che è il formato che siamo abituati a vedere in connubio con testi scritti nella scrittura mercantesca: ibid., scheda 7, Tav. IX. 49 Una scrittura impiegata senza sostanziali differenze nei libri e nei documenti e che solo per il pieno Trecento può dirsi in stretta relazione, quasi vincolante, col libro di poesia in volgare. Fondamenti e motivi per adottare questa definizione sono ben ricordati in T. De Robertis, Programma, in I manoscritti della letteratura delle origini. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale cit., pp. XII-XIV. Volendo continuare invece a impiegare, nelle stesse circostanze, la tradizionale definizione di “cancelleresche italiane”, si dovrà necessariamente aderire alle argomentazioni esposte in P. Cherubini - A Pratesi, Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo occidentale, Città del Vaticano 2010 (Littera Antiqua, 16), p. 500. 50 Bertelli, Tipologie librarie cit., p. 218 51 De Robertis, Scritture di libri cit., p. 14.
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così, le possibilità di cogliere meglio le scelte compiute da questi particolari copisti che sono i notai; quindi i rapporti essenziali tra il testo trasmesso e la sua scrittura. Come nel caso del celebre Andrea Lancia notaio fiorentino, che copia codici della Commedia e un volgarizzamento delle Epistole ad Lucilium di Seneca nella sua scrittura professionale – impiegata anche nei suoi autografi del volgarizzamento dello Statuto del Podestà del Comune di Firenze e di quello degli Ordinamenti e Provvisioni del 1355 e 1357 – e che invece per le sue chiose alla Commedia, nel ms. BNCF II. I. 39, sceglie la littera textualis52. Come nel caso di ser Francesco di ser Nardo da Barberino – di cui è stranota la “cancelleresca” delle sue copie della Commedia –, che copia in ottima textualis almeno due codici (un commento di Alberto Magno alle Meteore di Aristotele e il testo delle Vite di santi padri in volgare), firmandoli come aveva fatto altrove – e alla maniera dei notai, come abbiamo già visto53 – con la sua propria sigla: F.N. 2. «La lettera mercantesca è figlia della scrittura dei notai» È questa, una affermazione lapidaria – o una formidabile intuizione – che Emanuele Casamassima inseriva isolata nelle sue ampie “note paleografiche” sul rapporto fra scrittura corsiva dei notai e tradizione libraria fino al secolo XII presentate al Convegno tenuto nel 1981 su Notariato nella civiltà toscana54. Sarebbe stata pubblicata di lì a poco la raccolta dei più antichi testi di carattere pratico scritti in volgare italiano di Arrigo Castellani, con tavole e trascrizioni55, che Casamassima conosceva già bene, vista la collaborazione prestata per quell’impresa – sotto forma di giudizi paleografici – e l’amicizia con il suo autore. La questione sollevata da
52 Ibid., p. 18-22. Sulle “scritture” del Lancia – corsiva professionale, per documenti e libri, e littera textualis – v. ora I. Ceccherini, La cultura grafica di Andrea Lancia, «Rivista di Studi Danteschi», 10/2 (2010), pp. 351-367; per una recente identificazione della mano textualis del notaio Lancia: Ceccherini, Andrea Lancia tra i copisti dell’Ovidio volgare. Il ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, Italien 591, «Italia medioevale e umanistica», 52 (2011), pp. 1-26. Per le questioni generali poste dalle digrafie v. T. De Robertis, Una mano tante scritture. Problemi di metodo nell’identificazione degli autografi, in Proceedings of the XVIIth Colloquium of the Comité International de Paléographie Latine, cur. N. Golog, Turnhout 2013 (“Bibliologia”, 36), pp. 17-38. 53 De Robertis, Scritture di libri cit., p. 23-24. 54 E. Casamassima, Scrittura documentaria dei «notarii» e scrittura libraria nei secoli XXII. Note paleografiche, in Il notariato nella cività toscana cit., pp. 61-122:120. 55 V. supra , nota 27.
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quell’affermazione coinvolge ancora una volta la scrittura dei notai per un fenomeno, peraltro, che è, alle origini, prettamente toscano, anzi fiorentino. Un cenno è dunque necessario. La raccolta di testi pratici pubblicata da Castellani ha in effetti rappresentato uno spartiacque per lo studio della scrittura degli scriventi in volgare, e costituito una delle principali fonti per gli studi: tra quelli più importanti, dedicati al tema proprio della genesi della scrittura mercantesca, è lo studio di Luisa Miglio pubblicato nel 198656. Sono seguiti altri lavori, in particolare di Armando Petrucci57. Tutti hanno comunque tenuto in qualche considerazione – anche solo per confronto – la scrittura dei notai e il problema del suo rapporto con la genesi della “scrittura dei mercanti”. Restava però da compiere l’operazione fondamentale, con la quale si realizza il metodo-principe della paleografia (come della diplomatica): il confronto e la contestualizzazione dei documenti grafici per campioni significativi. Un ampio studio di Irene Ceccherini58 condotto su un corpus di testi “mercantili” significativamente più ampio (135 mani mercantili e di 77 testi volgari) di quello sinora considerato dagli studiosi, confrontato con un altrettanto significativo corpus di scritture notarili (1505 testimonianze grafiche, rappresentanti l’attività di 1607 notai fiorentini), per il periodo tra il 1250 e il 1350, ha portato di recente alla luce fatti grafici difficilmente confutabili, che dovranno esser integrati nei quadri generali di storia della scrittura e delle relative dinamiche socioculturali delineati per questo periodo. Tali fatti dimostrano che la base stilistica da cui ha preso le mosse la scrittura mercantesca è documentata da molte scritture notarili della fine del Duecento59. Anche molti degli assetti che, non proprio “mercanteschi”, erano stati individuati in uno studio da Armando Petrucci e ricondotti a una tipologia denominata con l’occasione “proto mercantesca”60, si
56
L. Miglio, L’altra metà della scrittura: scrivere il volgare (all’origine delle scritture mercantili), «Scrittura e Civiltà», 10 (1986), pp. 83-114. 57 Per una bibliografia ragionata degli studi intorno alla scrittura “mercantesca” si rinvia a I. Ceccherini, La genesi della scrittura mercantesca, in Régionalisme et internationalisme. Problèmes de Paléographie et de Codicologie du Moyen Âge. Actes du XVe Colloque du Comité International de Paléographie Latine (Vienne, 13-17 septembre 2005), cur. O. Kresten-F. Lackner, Wien 2008 (Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften), pp. 123-137. 58 I. Ceccherini, Le scritture dei notai e dei mercanti a Firenze tra Duecento e Trecento: unità, varietà, stile, «Medioevo e Rinascimento», 24, n. ser. 21 (2010), pp. 29-68. 59 Ibid., pp. 62-63. 60 A. Petrucci, Fatti protomercanteschi, «Scrittura e civiltà», 25 (2001), pp. 167-176.
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SCRITTURA E SCRITTURE DEL NOTARIATO
“COMUNALE”
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confermano ampiamente diffusi presso i mercanti dell’ultimo quarto del secolo XIII e dei primi due decenni del XIV, ma si dimostrano anche altrettanto diffusi prima e dopo questi termini cronologici presso i notai61. Riassumendo i risultati di Ceccherini: per tutto il primo quarto del Trecento tale assetto comune fra notai e mercanti continua ad esser documentato; dagli anni Venti di questo secolo esso comincia ad essere abbandonato nelle scritture notarili, dove contemporaneamente si compie il processo di scelta e di stilizzazione di particolari forme dei tratti dell’interlinea che condurrà di lì a poco alla affermazione della cosiddetta scrittura “cancelleresca”; soltanto dagli anni Trenta e Quaranta, perciò, scelte di stile – come quelle già da tempo segnalate in storiografia nelle scritture di alcuni mercanti, come Pacino Peruzzi o Albizzo Stefani – divengono generali e peculiari delle scritture mercantili; solo alla metà del secolo XIV, quindi, si ha la diffusione e la completa socializzazione del canone grafico della mercantesca. Le indagini sui metodi d’insegnamento e le dinamiche di apprendimento della scrittura condotte in parallelo sempre da Ceccherini aggiungono ulteriori elementi62. Essi sembrano indicare – grazie a fonti straordinarie e perlopiù sconosciute come gli esercizi di scrittura scoperti tra le carte della famiglia di mercanti Del Bene, e altre più note come la Cronica
61 La descrizione di questo stile comune nella scrittura “professionale” di certi notai e nella scrittura di alcuni mercanti (ibid. pp. 60-61, con tavole) è – per lasciare Firenze e portarci di nuovo su Pisa – perfettamente aderente alla scrittura di Puccio del Testaio – personaggio che abbiamo già conosciuto (v. supra nota 40) – per la quale la compresenza di pochi elementi mercanteschi – l’unico, veramente sicuro, la legatura ch – con più numerosi tratti tipici della pratica grafica notarile è stata già rilevata (Ghignoli-Larson, Due lettere pisane cit. pp. 377-378). Ritengo importante, allora, rilevare l’identità di assetto, salvo due precise varianti, tra la scrittura di Puccio attestata dalle due lettere in volgare del 1319 e la scrittura dell’anonimo, ma pisano, autore della traduzione in volgare di una lettera dell’Ilkhan di Persia a Filippo il Bello scoperta a Parigi, Archives nationales, Document AE III 203, pubblicata con riproduzione in V. Bertolucci Pizzorusso, Traduzione in volgare pisano di una lettera dell’Ilkhan di Persia al re di Francia Filippo il Bello (1305), «Bollettino storico pisano», 73 (2004), pp. 31-48. Le varianti sono quelle della lettera g che Puccio traccia con la inarcatura verso destra, mentre l’anonimo scrittore la dirige più normalmente verso sinistra (ma entrambe le esecuzioni sono attestate a Pisa), e della legatura ch che Puccio, a differenza dell’anonimo scrittore, esegue semplificando la h nello stile mercantesco (ma che non semplifica e traccia invece con cura quando è notabilior: Ghignoli-Larson, Due lettere pisane cit., p. 384 (lettera I, rigo 10 “ho no”), riprod. p. 386. 62 I. Ceccherini, Teaching, Function and Social Diffusion of Writing in Thirteenth- and Fourteenth-century Florence, in Teaching Writing Learning to Write. Proceeding of the XVIth Colloquium of the Comité International de Paléographie Latine, cur. P.R. Robinson, London 2008, pp. 177-192.
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di Donato Velluti – che al primo livello di apprendimento grafico, nel pieno Trecento, un giovane mercante imparasse a tenere la penna in mano facendo esercizi di imitazione della cancelleresca; essi sembrano inoltre confermare anche l’ipotesi che non fosse così netta, come finora si immaginava, l’alternativa fra scuole di latino e scuole d’abaco (dove circolavano libri scritti in textualis e cancelleresca)63. La specializzazione stilistica, nello scrivere, sarebbe dunque arrivata in un secondo momento, al secondo livello di apprendimento: fatto presso le apotechae notarili da coloro che sarebbero divenuti notai; fatto presso i magazzini mercantili da coloro che avrebbero esercitato l’attività mercantile. Affido la conclusione a un manoscritto che mi pare accolga in sé un po’ tutto, o quasi, il senso della complessità, sulla quale si è cercato di riflettere. Si tratta di un antico codice della tradizione della Commedia, non conservato a Firenze: il codice Ham, sempre per i filologi64. Fu scritto nei primi sei mesi del 1347 nella littera moderna o textualis. Il suo copista era un lucchese, che però in quel periodo dimorava a Pisa, nella contrada detta «Carraia di San Gilio», l’attuale Corso Italia per chi è pratico di questa città, probabilmente mercante, sicuramente figlio di mercante. Rivela tutto ciò una annotazione apposta alla fine del testo del poema (f. 98v): «Iste liber scrissit Tomazus olim filius Petri Benecti civi et mercatori lucano, anno Nativitatis Domini mcccxlvii, in primis sex mensibus de dicto anno, in civitate Pisana, in contrata dicta Carraia di San Gilio»65. Come si vede, soltanto nella parte finale, in quanto formula della datazione di tempo e di luogo, essa è scritta in un latino privo di incertezze e volgarismi. Ma è scritta, tutta, in una sicura cancelleresca: è, questa, la sottoscrizione del copista? Probabilmente non lo è, ma ne fa le veci. Tomaso andò a morire di peste, l’anno dopo, nella sua città, aveva diciotto anni ed era “discreto e sapiente”66.
63
Ibid., pp. 180, 182, con riferimenti e riproduzioni dai più antichi libri d’abaco con-
servati. 64 65
Berlin, Staatsbibliothek zu Berlin Preuss. Kulturbesitz, Hamilton 203. Trascrizione e riproduzione in F. Franceschini, Letture e lettori di Dante nella Pisa del Trecento (con una postilla su MART), in Pisa crocevia cit., pp. 235-278: 244-245. 66 Ne dà informazione una seconda annotazione scritta dopo la prima, a rigo nuovo. Dalla riproduzione (v. supra, nota 65) non è possibile asserire con sicurezza l’identità di mano rispetto alla prima annotazione. In via provvisoria le attribuirei entrambe a una stessa persona che conosceva bene Tomaso; la congettura ovviamente presuppone una produzione e destinazione di questo codice all’interno di un medesimo ristretto ambiente; situazione, del resto, più che probabile.
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INDICE GENERALE
Giuseppe Gardoni - Isabella Lazzarini, Premessa . . . . . . . . .
Pag.
5
I. Pietro Torelli: ‘un enigmatico maestro’? Giorgio Chittolini, Alcune parole d’avvio. Torelli e la storia della proprietà fondiaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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9
Enrico Artifoni, Pietro Torelli e la tradizione medievistica . . .
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43
Ferdinando Treggiari, Breve profilo di Pietro Torelli scrittore di storia del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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59
Gianmarco De Angelis, Pietro Torelli paleografo e diplomatista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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73
Attilio Bartoli Langeli, Rileggendo la diplomatica comunale di Pietro Torelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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87
Daniela Ferrari, Un confronto tra Alessandro Luzio e Pietro Torelli, direttori dell’Archivio di Stato di Mantova tra il 1899 e il 1930 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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95
II. Comunalistica e notariato Massimo Vallerani, Logica della documentazione e logica dell’istituzione. Per una rilettura dei documenti in forma di lista nei comuni italiani della prima metà del XIII secolo . . . . . . . . . . .
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109
Giuliano Milani, Lo strano destino della lezione di Torelli: ottimisti e pessimisti nella comunalistica italiana degli ultimi trent’anni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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147
Alma Poloni, Il secondo popolo: conflitti e ricambio politico nei comuni popolari nei decenni tra Due e Trecento . . . . .
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165
Paolo Cammarosano, Attività pubblica e attività per committenza privata dei notai (secoli XIII e XIV) . . . . . . . . . . . . .
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185
Marino Zabbia, Memorie cittadine e scritture notarili nelle ricerche di Pietro Torelli (con un episodio della fortuna degli Studi e ricerche di diplomatica comunale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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195
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334
INDICE GENERALE
III. Notariato comunale: ricerche regionali Antonio Olivieri, Il salario del notaio ad officia. Spunti torelliani e ricerche regionali. Il caso di Torino nel Trecento e nei primi decenni del Quattrocento . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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213
Antonella Rovere, Comune e notariato a Genova. Luci e ombre di un rapporto complesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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231
Valeria Leoni, Notai e Comune a Cremona tra XII e XIII secolo. Note sui documenti pattizi tra il Comune cremonese e le città della regione padana (1183-1214) . . . . . . . . . . . . . . .
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247
Giuseppe Gardoni, Notai e Comuni nella Marca veronese: i protagonisti tra autonomia e subordinazione (secc. XIIXIII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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261
Miriam Davide, Notariato nell’Italia nord-orientale: produzione erudita, prospettive storiografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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289
Antonella Ghignoli, Scrittura e scritture del notariato “comunale”: casi toscani in ricerche recenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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313