Il libro miniato a Roma nel Duecento. Riflessioni e proposte

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

NUOVI STUDI STORICI – 100

IL LIBRO MINIATO A ROMA NEL DUECENTO RIFLESSIONI E PROPOSTE a cura di SILVIA MADDALO con la collaborazione di EVA PONZI

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ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI

2016


Nuovi Studi Storici collana diretta da Massimo Miglio

Il presente volume è stato realizzato con il contributo assegnato dal MIUR al PRIN 2009 Libri miniati per i pontefici tra XII e XIII secolo. La formazione e lo sviluppo della biblioteca pontificia prima di Avignone, responsabile dell’Unità di Ricerca prof.ssa Silvia Maddalo (Univ. della Tuscia)

Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone

ISSN 1593 - 5779 ISBN 978-88-98079-46-9 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2016


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UN’INTRODUZIONE E QUALCHE RIFLESSIONE A MARGINE

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Cara Silvia, il progetto sulla produzione libraria a Roma nel Duecento mi pare ottimo e sono d’accordo. Ne riparliamo a voce, se vuoi, comunque puoi contare su di me per i cardinali. Faccio volentieri il punto e cercherò anche di segnalare codici che non erano stati segnalati. Niente di eccezionalmente importante, ma fa parte di un quadro che deve continuare ad essere ricostruito. […]

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Cito, quasi integralmente, da una lettera di Agostino Paravicini Bagliani, in cui, era il 3 gennaio del 2005, egli rispondeva, con la disponibilità e la generosità che lo hanno sempre contraddistinto, a una mia sollecitazione di qualche giorno prima. Dallo scambio epistolare in formato elettronico e dal successivo carteggio ebbe inizio la fase preliminare di una ricerca che, dopo molti anni, avrebbe portato alla elaborazione del volume che vado introducendo. Lo scambio epistolare e le riflessioni di cui si faceva portatore seguivano a una lunga e complessa indagine avviata al tramonto del Novecento per la preparazione della mostra Bonifacio VIII e il suo tempo, organizzata in occasione dell’anno giubilare, e per la redazione del relativo catalogo. Nel catalogo i codici miniati, se pure distribuiti all’interno del testo e messi in relazione con le varie sezioni della mostra, riconquistavano comunque le fila di una trama coerente e bene rappresentavano, a mio avviso, i due fili rossi che correvano, attraversandole, per le tematiche sottese all’intera operazione critica: da un lato disegnavano la situazione culturale al crinale tra il secolo XIII e il XIV, che coincideva quindi con il pontificato di Bonifacio VIII Caetani e con l’evento giubilare, dall’altro rintracciavano il cammino percorso da ideologie al potere, tensioni religiose, politica ed economia, ma anche da artisti, da committenze, tradizioni e relazioni culturali,


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e dal linguaggio figurativo in un secolo stretto tra due grandi pontefici teocratici, cammino che aveva condotto quasi fatalmente all’evento giubilare. Alla mostra e al catalogo, e poi agli incontri, ai seminari, alle lezioni tenute sull’argomento presso la Scuola di Specializzazione in beni culturali dell’Università della Tuscia che per chi scrive all’una e all’altro avevano fatto da corollario, sarebbero seguiti anni di silenzio, altre ricerche, nuovi studi. Ma quel fiume, che non era stato mai del tutto sommerso, continuava a fluire inarrestabile sino a riemergere grazie a una precisa contingenza. Una ricerca di gruppo, infatti, proposta all’interno di un PRIN (un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale inerente Il libro miniato e il suo committente: per la ricostruzione delle biblioteche ecclesiastiche del medioevo italiano, XI-XIV secolo) bandito nel 2009, dava innesco al progetto da cui scaturisce questo volume, nel contesto di una situazione resa matura nell’ultimo decennio da una rinnovata e significativa attenzione per la realtà figurativa della Roma duecentesca (si fa qui riferimento in particolare agli studi di Serena Romano che verranno più volte citati negli interventi che seguono).

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Queste le premesse, tracciate in estrema sintesi. Da esse prendo le mosse per una breve introduzione al complesso itinerario attraverso la Roma duecentesca e la sua produzione libraria miniata; nella consapevolezza che toccherò, in maniera non sistematica e senza pretese di completezza, solo alcuni dei punti salienti della ricerca che bene si riflette nei saggi pubblicati, riuscendo solo per approssimazione a restituirne la complessità. Inizierò quindi da Innocenzo III, il cui pontificato è alle sorgenti del nostro studio e della storia del codice miniato a Roma nel Duecento. Un papa, Lotario dei Conti di Segni (1198-1216), la cui ideologia politica e le cui scelte nel governo della Chiesa segnarono fortemente l’intero secolo (ne farò cenno via via nel corso di questa introduzione in connessione partitamente con l’editoria miniata), indirizzando, talora condizionando, l’azione di buona parte dei pontefici che si avvicendarono sul soglio di Pietro tra il secondo decennio del Duecento e l’avvio del Trecento. Tra quelle scelte di governo un ruolo non insignificante ebbe l’uso politico delle immagini, in scrittura e in figura (negli scritti che gli vengono attribuiti e nei programmi figurativi da lui patrocinati), che si palesò già all’indomani della sua elezione. «Ecce sacerdos magnus, qui in diebus suis placuit Deo», così l’incipit del sermo VII con cui papa Conti avviava, il 22 febbraio del 1198, il suo lungo pontificato. E, di seguito: «Fuit ergo B. Silvester sacerdos, non


UN’INTRODUZIONE

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solum magnus, sed maximus, pontificali et regali potestate sublimis»; nello stesso modo Innocenzo, suo successore, è secondo il dettato delle Scritture Rex regum et Dominus dominantium (re dei re, signore tra i signori della terra) (Ap 19), sacerdos in æternum, secundum ordinem Melchisedec (Ps 109). E di seguito: «Hos (i pontefici) enim elegit Dominus, ut essent sacerdotes et reges. Nam Constantinus […] ex revelatione divina per beatum Silvestrum fuit a lepra mundatus, Urbem pariter et senatum cum hominibus et dignitatibus suis et omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit […] et regnum sibi retinens Orientis», e ancora, con una vera e propria parafrasi di un passo del Constitutum: «Coronam vero capitis sui voluit (Costantino) illi conferre: sed ipse pro reverentia clericalis coronae, vel magis humilitatis causa, noluit illam portare; verumtamen pro diademate regio utitur aurifrigio circulari». Con queste premesse, con un richiamo neppure troppo implicito al Constitutum Constantini, assolutamente significativo perché proposto ad apertura di un secolo, il XIII, in cui raggiungeva il momento di massimo sviluppo e si concludeva la lunga stagione della teocrazia medievale (e non solo: un periodo in cui l’ideologia della Riforma gregoriana si ampliava dal piano più propriamente ecclesiologico e liturgico a quello politico-istituzionale), Innocenzo III faceva irruzione nel governo della Chiesa romana e nella realtà europea e lo faceva scegliendo, per il suo discorso inaugurale, dichiarazione d’intenti di potente densità scritturale, una data simbolo, il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro. Ed è forse inutile ricordare che lo stesso giorno, nell’anno 1300, sarebbe stato scelto da Bonifacio VIII per la proclamazione pubblica del primo Giubileo della storia della Chiesa. Su questa linea, rivestito della potestà sacerdotale e regale, Innocenzo avviava il suo pontificato e inaugurava una propria, attenta e lungimirante, se pure ben calibrata, strategia mediatica – in cui un ruolo non secondario hanno le arti figurative in quanto strumenti di comunicazione politica –, come emerge con chiarezza dai Gesta Innocentii che, insieme ai sermoni e alle decretali, rappresentano la fonte più significativa per gli anni del pontificato innocenziano. Nei Gesta, tuttavia, sono narrate in estremo dettaglio le vicende del pontificato, emergono le grandi questioni di politica interna al governo della Chiesa (la crociata e in prospettiva la riconquista di Costantinopoli, i rapporti con la Chiesa greca e con Armenia e Bulgaria, il sorgere e il consolidarsi delle eresie) e di politica internazionale (non la questione dell’Impero che è in pratica sottaciuta, ma i rapporti con le grandi monarchie europee), mentre sono solo brevemente evocati gli interessi culturali e le committenze artistiche di Innocenzo III. Lotario, scrive il bio-


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grafo, fu «munificus et studiosus […] circa cultum et ornamentum ecclesiarum», preoccupato dunque della cura e dell’ornamento dei luoghi di culto. Alla cattedrale di Roma donò infatti, cito ancora dai Gesta, preziosi paramenti e raffinate suppellettili; alla basilica di San Pietro, oltre alla «quartam partem oblationum de omnibus ministeriis», un pesante calice aureo (da diciassette once e mezzo, annota il biografo), una croce d’oro con piede d’argento dorato, una coppia di bacili d’argento e due candelabri, paramenti liturgici ad opus altaris, tra i quali «regalem pannum cum suis imaginibus mirabiliter auro contexto», e ancora «duos textus Evangeliorum pretiosissimos et pulcherrimos» (che la nostra ricerca non è riuscita a identificare), arricchiti di preziose legature «ex auro et smalto, cum margaritis et gemmis». Per concludere, accennando al rifacimento dell’abside costantiniana, unica vera impresa a carattere monumentale patrocinata dal pontefice, la fonte soggiunge: «absidam eiusdem basilicae fecit decorare musivo, et in fronte ipsius basilicae fecit restaurari musivum quod orat (per erat) ex parte magna consumptum».

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Tra le prime azioni intraprese da papa Innocenzo, la ‘rifondazione’ dell’abside della basilica petrina apriva il secolo, così come l’evento giubilare lo avrebbe concluso con il mosaico della Navicella giottesca, a manifesto ideologico del pontificato di Bonifacio VIII. E lo inaugurava con la realizzazione di un programma iconografico, profondamente innovato nei contenuti ideologici e nei tratti iconografici, che andava a sostituire il vecchio mosaico paleocristiano, forse consunto, certo superato e inattuale rispetto alla mutata ideologia papale. Così come la nuova traditio legis marcava continuità e discontinuità della politica innocenziana rispetto a quella dei primi pontefici dell’era cristiana, cui rimandano le origini stesse del soggetto. Se pure si deve tenere conto dell’opera di mediazione esercitata sulla proposta iconografica dalla ‘copia’ tràdita nell’Album del Grimaldi – e con questa ipoteca procedo ad analizzare quel programma –, le novità presenti nel mosaico innocenziano appaiono numerose e significative: in esso il Cristo in maestà, che sostituiva il Cristo stante della tradizione, è affiancato dai santi Pietro e Paolo identificati da iscrizioni bilingui, in latino e in greco (a sottolineare l’universalità del messaggio, in un momento in cui forti erano le preoccupazioni del pontefice per i rapporti con la Chiesa d’Oriente); in asse l’etimasia si connotava per la monumentale croce gemmata di memoria paleocristiana, mentre al di sotto l’agnello mistico, figura del sacrificio sulla Croce, lasciava zampillare ben evidente dal petto un fiotto di sangue, che veniva raccolto nel calice poggiato sul pianoro del Golgota. Sullo stesso registro, identificati da tituli in scrittura capitale, a


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