Arsenio Frugoni, G. Villani, "Cronica", XI, 94

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INCONTRI, 1

Arsenio Frugoni

G. VILLANI, “CRONICA”, XI, 94 introdotto da Giampaolo Francesconi

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO 2015


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Incontri collana diretta da Massimo Miglio

Coordinatori scientifici: Redattore capo:

Isa Lori Sanfilippo Giampaolo Francesconi Salvatore Sansone

ISBN 978-88-98079-31-5


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L’Istituto ha una ricchezza immensa che è il suo patrimonio storiografico, sedimentato e stratificato in molto più di un secolo nel Bullettino e nelle Collane. Ma la memoria è labile, incostante, distratta. Bastano pochi anni per dimenticare, per riservare pagine eccezionali a pochi o per farle dimenticare del tutto. Soprattutto a chi è molto giovane. Questo ci dicevamo nei momenti migliori della vita dell’Istituto, quando è possibile parlare del nostro mestiere. Da questo parlare è nata una nuova iniziativa editoriale, che vorremmo avesse tanta fortuna perché dovrebbe essere anche un incontro tra generazioni, tra chi ha scritto molti anni fa e chi ancora riflette sulla storia; un incontro a cui vorremmo partecipassero tanti, soprattutto quelli che muovono i primi passi nella ricerca. Incontro è un termine amato da Arsenio Frugoni e da lui vissuto nel quotidiano e nella ricerca. Per questa ragione, e perché nel 2014 ricorre il centenario della sua nascita, il primo volume pubblica di nuovo un suo testo e il nome della collana è Incontri. Massimo Miglio dicembre 2014


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Nota editoriale

Il saggio introduttivo e il saggio di cui si offre la ristampa seguono criteri editoriali diversi. L’idea dell’incontro voleva, infatti, essere fermata anche attraverso una restituzione editoriale che mantenesse una dialettica fra la fedeltà alle norme redazionali in auge al momento in cui il saggio era uscito a stampa la prima volta, si trattasse del Bullettino o di altra collana, e le norme attualmente in uso in tutte le collane dell’Istituto. Il lettore si troverà di fronte, così, volutamente, ad apparati di note con strutture non sovrapponibili.

L’articolo di Frugoni fu pubblicato per la prima volta nel «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 77 (1965), pp. 229-255.


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Giampaolo Francesconi

Frugoni, Villani e Firenze Un «incontro» inquietante e inevitabile Perché non sono nato nell’ora tua Lorenzo? Come doveva esser bello vivere nel tuo tempo breve averti amico e in quel mondo creato da te operare. Aldo Palazzeschi

I. L’incontro fra Arsenio Frugoni e Firenze avvenne attraverso Giovanni Villani. Fu il testo della Nuova cronica a sollecitare il corto circuito che avrebbe innescato la riflessione dello storico bresciano sui motivi della crescita e della stagnazione fiorentina dei decenni iniziali e centrali del Trecento. Il saggio sul capitolo XI, 94 della Cronica, pubblicato a stampa nel 1965 sul «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano»1, si poneva come l’esito di alcune delle sollecitazioni che in quei primi anni Sessanta interessavano l’orizzonte storiografico, largo e plurale, di Arsenio Frugoni. L’orizzonte indomito di uno studioso che dalla costante


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Giampaolo Francesconi

e reiterata frizione fra filologia e storia2 aveva tratto la linfa per occuparsi di temi e problemi molto distanti come l’umanista Benedetto Colucci e, dopo l’incontro con Raffaello Morghen, dei fenomeni religiosi nella loro dimensione liturgica, culturale e addirittura di comprensione di una forma mentis aperta al sacro e all’assoluto3. Nodi e cruces che costituivano i tratti quasi originari di quella «intelligenza solitaria e pensosa»4 e che sarebbero divenuti ricorrenti all’interno di un tragitto di ricerca che aveva trovato nello studio sul Giubileo di Bonifacio VIII, nei saggi di Celestiniana e nei lavori preparatori all’edizione dell’Opus metricum di Jacopo Stefaneschi i momenti forse più compiuti e più omogenei5. Il percorso del Frugoni studioso era stato, del resto, un percorso pieno di bivi, di curiosità mai del tutto risolte e di un randagismo intellettuale che si prestava allo scarto e all’«incontro»6. La stessa predilezione, almeno per tutta una prima fase della sua vita di studioso, per il Rinascimento e poi la successiva tensione sui secoli XII e XIII non furono mai del tutto esclusive. In un cammino di ricerca scandito dal magistero di Giovan Battista Picotti e di Raffaello Morghen, il primo per l’affinamento di un rigoroso metodo filologico-erudito, il secondo per la maturazione di un interesse per la tradizione religiosa quale tratto fondante di una civiltà, un ruolo rivelatore, e forse anche chiarificatore, dovette assumerlo Giorgio Pasquali. Quello che era stato il suo docente di filologia classica, alla Normale di Pisa, dovette es8


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Frugoni, Villani e Firenze

sere anche l’ispiratore, in qualche modo il tramite intellettuale, di quella indomita curiosità, di quel controllatissimo migrare tematico, che proprio nelle pagine pasqualiane della Paleografia quale scienza dello spirito doveva aver trovato un argine metodologico, un argine che era anche un viatico in quel fissare la cultura medievale come il campo di una continua dinamica di incontri fra tradizioni e centri culturali differenti7. Una dinamica di «incontri» che nella ricerca di Frugoni – che era anche ricerca di un modo nuovo e più appagante di fare storia, che era anche una tensione al superamento di molte certezze «combinatorie» che animavano la medievistica nostrana del secondo dopoguerra – avrebbe avuto un approdo sicuro e costante nella tensione per la cura testuale, per quella «attitudine al restaturo» individuata da Giuseppe Sergi come uno dei tratti fondanti del metodo frugoniano8; un’attitudine che poteva fidare in una severa fedeltà alla testimonianza, alla sua critica, alla sua lettura in controluce. Incontro e testimonianza possono considerarsi due lemmi decisivi e rivelatori del «fare storia» per Arsenio Frugoni: incontro e testimonianza erano, del resto, gli architravi di un metodo il cui obiettivo prioritario era quello di produrre una “reazione”, di accendere una miccia nel testimone singolo, anche nel più minimo frammento che, letto nella sua individualità, osservato dall’interno del suo contesto, poteva arrivare a dar vita ad un punto di vista diverso e ad una verità, magari anche piccola, ma che risultava 9


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Giampaolo Francesconi

spesso più complessa e più sfumata9. Questo era stato il focus metodologico dell’Arnaldo da Brescia e lo stesso atteggiamento aveva guidato Frugoni nei suoi molteplici «incontri» nel e col Medioevo e il Rinascimento10. Entro quella temperie di metodo e quel cammino di curiosità deve essere inquadrato anche l’incontro con Giovanni Villani e con Firenze. Senza dimenticare, come ricordava Ovidio Capitani, che in Frugoni ogni interesse di ricerca, ogni «incontro» storiografico si originava nell’imperativo morale e conoscitivo di «costruire una ricerca storica che – avesse – in se stessa le sue giustificazioni»11.

II. Il capitolo XI, 94 della Nuova Cronica di Giovanni Villani – il XII, 94 nell’edizione critica di Giuseppe Porta del 199112 – s’inserisce alla fine di un quartetto di rubriche che avevano l’obiettivo di raffigurare il «podere ed entrata ch’avea il Comune di Firenze in questi tempi». Il tono encomiastico, di laudatio della propria città, così diffuso nella cronistica comunale e ben presente anche nel tessuto narrativo villaniano, assumeva qui la trama di un racconto che intendeva esaltare una grandezza. Una grandezza però che voleva essere misurata, che doveva essere calibrata sulla trama dei fatti e sull’aderenza dei numeri, con un pragmatismo espositivo che marcava una distanza anche rispetto al descrittivismo impressionistico di un Bonvesin da la Riva13. L’attenzione del cronista era tutta rivolta alla comprensione dello «stato» in cui si trovava la sua città e sul 10


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Frugoni, Villani e Firenze

rango economico e politico che aveva assunto all’interno di una dinamica intercittadina delicata come quella toscana e non solo toscana degli anni Trenta del Trecento14. Una gran parte del libro XI della Cronica (ma XII) era stata d’altra parte dedicata ai nove anni decisivi della storia di Firenze che si inscrivevano fra la grande alluvione del 1333 e la caduta di Lucca sotto il dominio pisano del 1342, un passaggio peraltro che avrebbe spalancato le porte all’instaurazione della signoria di Gualtieri di Brienne15. Vale la pena aggiungere che i 143 capitoli nei quali Villani aveva scandito la struttura di questo libro costituivano la materia quasi nefasta di un crescendo di calamità che fanno di questa parte del suo racconto una delle zone più cupe dell’intera cronaca, con lo stigma incombente del presagio malefico per la città e – come hanno già rilevato anche Enrico Artifoni e Andrea Zorzi – caratterizzato da un climax ascendente di «aversità»16. Il quadro politico di quegli anni era stato, del resto, segnato dalla minaccia concreta dell’espansionismo scaligero e dall’offensiva che Mastino aveva avviato in Emilia e nella stessa Toscana nell’intento di dare una prospettiva sovraregionale al proprio dominio17. Le alluvioni, gli incendi, le frane in Mugello, le epidemie di influenza e di vaiolo, l’eclissi di sole, la distruzione dei raccolti erano la cornice più larga e in qualche modo premonitoria, sullo sfondo delle guerre interregionali italiane e dei primi contraccolpi finanziari, di uno stato d’animo an11


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Giampaolo Francesconi

goscioso il cui collante era politico e il cui profilo era tutto da ascrivere alla «nostra guerra col Mastino di Verona»18. I quattro capitoli dell’esaltazione della grandezza fiorentina nascevano proprio sulle rovine della paura, entro la bolgia dello spavento per le sorti di una città da primato che ne sentiva vacillare le fondamenta. Il cronista – che naturalmente scriveva a cose fatte nella metà del decennio successivo – trovava lo scatto per ricordare e per cristallizzare il ritmo e la progressione di una crescita19. Quello scatto d’orgoglio narrativo si fondava evidentemente sul senso di una grandezza che doveva essere conservata e protetta, ma che in realtà si avvertiva come minata da più parti. L’apogeo fiorentino, declinato nei suoi fattori economici, produttivi e socio-culturali, assumeva la forza dunque di un messaggio, anche se da una visuale postuma, che era insieme legittimante, morale e performativo. Il Villani mercante, membro della classe dirigente fiorentina e intellettuale e cronista consapevole del proprio ruolo si assumeva l’onere di narrare le fonti della forza e della ricchezza della sua città e di costruirne una memoria che servisse anche da impegno morale per i futuri cittadini, per quei posteri che dovevano essere all’altezza di un compito tanto ingrato: perché i nostri successori che verranno per li tempi s’avegghino del montare o bassare di stato o potenzia che facesse la nostra città, acciò che per li savi e valenti cittadini, che per li tempi sa12


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Frugoni, Villani e Firenze

ranno al governo di quella, per lo nostro ricordo e asempro di questa cronica procurino d’avanzarla inn-stato e podere20.

Il «montare o bassare di stato o potenzia» doveva essere presentato e discusso affinché servisse da esempio per il futuro. L’oscillare della forza, di quello «stato e potenzia», era tutto scandito sulle cifre, la retorica lasciava lo spazio nell’analisi di Villani alla nuda evidenza dei numeri. L’oggettività dei dati faceva retrocedere lo sguardo interpretativo del cronista, che si affidava ai parametri probanti della «grandezza e stato della città di Firenze»: il numero degli armati, l’ammontare complessivo della popolazione della città e del distretto, la quantità e la qualità dei giovani alfabetizzati nelle scuole di «abbaco», di grammatica e di logica, la diffusione delle chiese e dei monasteri, la concentrazione delle botteghe dell’arte della lana, dei fondaci dell’arte di Calimala, dei calzolai e dei pianellai e, ancora, il conio del fiorino, il numero dei banchi del cambio e il consumo dei beni alimentari fondamentali come il vino, la carne e il grano. Firenze era, in sostanza, una lista di quantità che esprimevano la qualità di una grandezza.

III. I capitoli 91-94 della Nuova Cronica di Giovanni Villani, per la tensione statistica con la quale erano stati pensati e strutturati, costituiscono un’eccezione nel panorama della cronistica tardomedievale italiana21. Soltanto forse il già ri13


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Giampaolo Francesconi

chiamato De magnalibus Mediolani di Bonvesin, nell’esaltazione laudatorio-quantitativa della Milano di fine Duecento, può essere accostato alle rubriche centrali del libro XI (XII) della cronica villaniana, per quanto gli studiosi tendano a sfumarne l’aderenza realistica dei dati quantitativi, a vantaggio di un impressionismo encomiastico che mirava alle mirabilia22. I dati di Villani erano eccezionali ed erano tanto più eccezionali in quanto parlavano di Firenze. Parlavano, cioè, di una città che, un po’ per essere stata la patria di Dante23, un po’ per essere stata a lungo percepita come la culla incontrastata del Rinascimento italiano, un po’ per la sua oggettiva importanza storica, ha costituito un paradigma forte degli studi sul Comune italiano24. Un paradigma forte, ma anche distorsivo: Firenze è stata nella medievistica di una buona parte del secolo scorso, infatti, un polo di immancabile attrazione, ma anche l’oggetto di una ingombrante egemonia interpretativa per tutte quelle realtà comunali che non erano Firenze e che venivano studiate attraverso quel modello, piuttosto che iuxta propria principia25. Rimane il fatto che per una città che è stata un modello di riferimento storiografico le cifre di Giovanni Villani hanno rappresentato l’oggetto di una discussione continua e ricorrente. Da Armando Sapori a Gaetano Salvemini, da Enrico Fiumi a Ernesto Sestan, da Federigo Melis a Giovanni Cherubini fino a Luciano Palermo, seppur con sensibilità diverse e con interessi di ricerca talvolta anche molto distanti, tutti coloro che si 14


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Frugoni, Villani e Firenze

sono occupati della Firenze trecentesca hanno dovuto fare i conti con quei dati e inevitabilmente con il fascino evidente, ma pericoloso, del loro significato e della loro attendibilità26. Di quella teoria di studiosi che con Villani si erano a più riprese confrontati aveva fatto parte anche Arsenio Frugoni, con il saggio di cui si ripropone la ristampa a distanza di mezzo secolo dalla sua apparizione. Perché Frugoni, Villani e Firenze? La questione, per quanto di non semplice decifrazione non può essere elusa, soprattutto con lo sguardo postumo della riflessione storiografica e di una discussione che intende riproporre uno studio oramai abbastanza risalente. La triade enunciata nel titolo, e qui ripresa, riesce effettivamente poco familiare e di per sé abbastanza eterodossa, anche in un percorso di ricerca aperto alla pluralità e alla differenza tematica come quello di Arsenio Frugoni. Firenze non aveva mai costituito un reale interesse di studio per l’autore dell’Arnaldo da Brescia; Firenze che, peraltro, non è mai stata una città qualunque e ha sempre imposto, anche per quel che si è già detto, una titolatura di un qualche credito al circolo dei suoi cultori e dei suoi studiosi. E allora perché Frugoni guardò a Firenze e al capitolo XI, 94 della cronaca di Villani? Quell’«incontro» col Medioevo fiorentino dovette essere per Frugoni, innanzitutto, l’incontro con la testualità ricca e affascinante di Giovanni Villani e «con la realtà umana di un autore del 15


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Giampaolo Francesconi

passato, con i suoi processi mentali e i suoi condizionamenti tecnici e ambientali»27. Che era l’incontro con un passaggio che poteva essere rivelatore di un metodo di lavoro e con alcune delle fonti con cui era stata costruita la cronaca più importante del Medioevo italiano28. La riflessione su quel nodo filologico-testuale nascondeva e si portava dietro, d’altro canto, un problema ancora più grande, un problema storico di vasta portata, come quello dei fattori di crescita e di relativa crisi di una città, di un’economia, addirittura di una civiltà come quella fiorentina della fine del Medioevo e del primo Rinascimento29. Era, ancora una volta, l’incrocio fra la filologia e la storia che aveva dato alimento alla curiosità di Frugoni e alla possibilità di riflettere su un problema che non era solo fiorentino, ma che riguardava più in generale la città e la crescita urbana. Il capitolo XI, 94 costituiva, dunque, un’occasione importante per uno studioso dal fiuto naturale per le grandi questioni storiche e che aveva nel suo background un interesse significativo per i problemi della dimensione urbana, nelle sue molteplici implicazioni, come si arguisce dai contributi sulla Storia della città in Italia del 1956 e su Le repubbliche marinare del 195830. Questioni, peraltro, che dovevano avere avuto una gestazione lenta e un riaffiorare carsico nella riflessione frugoniana, se già nel saggio del 1950 dedicato a Dante e la Roma del suo tempo aveva mostrato una curiosità tutta particolare per la narrativa di Villani, per le modalità con cui aveva 16


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Frugoni, Villani e Firenze

accostato Firenze a Roma e aveva raccontato il Giubileo del 130031; ma erano già presenti in nuce anche gli interessi per Dante e per i fattori della crescita urbana, di quella che era stata, nello specifico, la crescita della Roma di primo Trecento, proprio in rapporto con la pagina villaniana che esaltava lo sviluppo fiorentino e su cui sarebbe tornato a scrivere in modo più ravvicinato quindici anni dopo32. Villani e Firenze erano, con tutta evidenza, due riferimenti inevitabili per chi, come Frugoni, proprio in quel periodo, aveva avuto modo di dare fondo ai suoi interessi danteschi con i saggi su Dante, Epist. XI, 24-5 del 1965, su La lettura del Canto X dell’Inferno del 1967, su Dante tra due Conclavi. La lettera ai cardinali italiani e su Il canto III del Purgatorio del 196933. E se non escludo che a far accostare Frugoni, in quei primi anni Sessanta, al tema fiorentino potessero aver contribuito anche le sollecitazioni che provenivano dal dialogo con uno studioso come Elio Conti, allora alunno presso la Scuola nazionale di studi medievali34, o ancora dal continuo e inevitabile confronto con un maestro come Raffaello Morghen, che proprio in quegli anni andava riflettendo sulla storiografia della Firenze trecentesca35, e così col più giovane allievo pisano Michele Luzzati che stava lavorando su Villani e la Compagnia dei Buonaccorsi36, mi viene tuttavia da pensare che il fondo duro di quella sua curiosità avesse un’origine ancora più radicata. Un’origine che traeva forse il suo ali17


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Giampaolo Francesconi

mento nell’«intempestività» del narrare villaniano. Se è vero, infatti, come ha scritto Giorgio Agamben, che «appartiene veramente al suo tempo, colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese»37 e che quella forma di inattualità diventa il motore di una più piena comprensione, attraverso uno scarto calibrato sull’anacronismo, credo di poter dire che Villani abbia colto quel che accadeva nella Firenze dei decenni centrali del Trecento proprio con lo sguardo di chi è pienamente contemporaneo, di chi vive il tempo che vive con la consapevolezza di esserne oltre. Quella stessa consapevolezza che consentiva lui di analizzare i fenomeni nella loro drammatica contraddittorietà, evidenziandone i tratti propulsivi, ma anche i segnali di interna e implicita fragilità. Era lo sguardo, del resto, di un uomo profondamente coinvolto nella vita sociale, economica, culturale della sua città, ma era anche lo sguardo di un uomo che se ne distanziava con un occhio che era insieme realistico e disincantato, partecipe ma già disposto al «troppo presto» o al «troppo tardi». Con la sua «intempestiva» contemporaneità Villani deve aver costituito un’attrazione quasi automatica per un’intelligenza altrettanto «intempestiva» come quella di Arsenio Frugoni. Un’intelligenza problematica, inquieta, che dall’insoddisfazione del troppo semplice e del troppo combinato aveva sempre voluto distaccarsi per andare oltre, per guardarvi dietro o più addentro, e che non poteva mancare di arri18


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Frugoni, Villani e Firenze

schiarsi in un incontro altrettanto problematico e inquietante come quello che gli offriva Giovanni Villani e l’«intempestività» di quelle sue cifre. La lista dei primati del 1338 dovette assumere, in questo senso, il profilo di un’occasione irrinunciabile. Si apriva in effetti alla verifica di uno dei nodi critici più frequenti del metodo frugoniano: quello della valutazione dell’esistenza del passato nella reazione fra lo stato d’animo del cronista e della realtà narrata con quello dello storico odierno e delle sue impossibili «ricostruzioni della verità»38.

IV. Quelle cifre erano, del resto, le cifre di una crescita prodigiosa e costante, ma lasciavano trasparire sullo sfondo anche le pieghe di una flessione, di quella stagnazione incombente che dai decenni centrali del Trecento andava aprendo le prime crepe nello sviluppo di Firenze e del sistema produttivo e bancario delle maggiori città italiane39. Erano i segnali di una generale impasse economica, finanziaria e produttiva che Ruggiero Romano aveva interpretato come il lato alto delle due crisi che avevano segnato l’Italia del Rinascimento40. E che nel racconto di Villani assumevano il profilo, però appena ammiccante, di una regressione demografica. Le 90.000 bocche richiamate dal cronista, infatti, nel capitolo XI (XII), 94, con riferimento al 1338 – «istimavasi avere in Firenze da LXXXXm di bocche tra uomini, donne e fanciulli, per l’aviso del pane»41 – erano state descritte con tratti più ottimistici nel 19


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Giampaolo Francesconi

capitolo IX, 39, all’atto di narrare le divisioni che avevano lacerato la città nel 1300: in quel caso Villani riferiva del «felice stato» di Firenze, di una grandezza e di una potenza che poteva fidare su una popolazione di circa 100.000 persone – «che più di XXXm cittadini aveva nella cittade, e più di LXXm distrittuali»42. Per il resto, i numeri erano i numeri del prodigio. Anche se erano i numeri di un prodigio che aveva esaurito la sua spinta. Arsenio Frugoni attorno a quei numeri e alla crux che si portavano dietro aveva costruito una gran parte del suo saggio e della sua proposta interpretativa. Quella che offriva, con le conoscenze e lo status storiografico di cui poteva disporre, era una lettura netta, con un’interpretazione dal tono quasi icastico: «La magnificenza di Firenze cantata dal Villani appare infatti la splendida conclusione, nei prodighi consumi, piuttosto che il dinamico evolversi di un’età»43. Frugoni era convinto, dunque, che le cifre di Villani fossero il punto più alto di una storia, il vertice di un movimento di sviluppo. E continuava affermando che gli sembrava «inutile cercare nella sua pagina – di Villani – la documentazione di una decadenza, se pure nei limiti di una regressione demografica»44. Sembra di poter dire che Frugoni non nutrisse dubbi sul fatto che il resoconto del maggiore cronista fiorentino avesse una coloritura celebrativa, e che proprio da quella disposizione laudatoria si potesse originare «una certa esagerazione o una qualche mancanza di 20


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Frugoni, Villani e Firenze

realistico controllo»45. Un aspetto, quest’ultimo, che ha avuto nel tempo una minore capacità di tenuta a fronte di una lettura che conserva per il resto tutta la sua bontà euristica, la sua forza propositiva e il fascino di una discussione ancora possibile. Il riferimento alla «mancanza di realistico controllo» sembra invece essere venuto meno col tempo, sotto i colpi di un progredire degli studi che, dall’ambito economico e sociale a quello dei livelli culturali e dell’istruzione – si pensi ai contributi di Giovanni Cherubini, di John Najemy, di Richard Goldthwaite, di Luisa Miglio e di Armando Petrucci46 –, ha via via confermato come la costruzione della pagina villaniana fosse stata ordita con un calibrato uso delle fonti e con una attendibilissima tessitura dei dati quantitativi. Oggi, insomma, in modo più convinto che ai tempi in cui Frugoni scriveva si tende a riconoscere la bontà di quelle cifre. E dire che Frugoni aveva impostato il suo articolo per il «Bullettino» con la chiara volontà, espressa sin dalle prime righe, di non voler cadere nella questione tanto dibattuta dell’attendibilità, della «verifica, compiaciuta o severa, di un collega»47. Di un collega peraltro che si chiamava Giovanni Villani. Che si trattasse del timore, dunque, di fare le bucce ad uno storico di quella fatta? Direi di no: non mi pare che Frugoni fosse studioso in grado lasciarsi intimorire da un tale livello di tensione o da una simile verifica. Semmai uno scavo di quel tipo avrebbe richiesto un’indagine più larga 21


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Giampaolo Francesconi

e più approfondita sulle fonti, sull’officina scrittoria villaniana: un aspetto che non doveva rientrare allora fra le sue priorità di ricerca. Mi pare di poter dire, invece, che il reale obiettivo del Frugoni fosse quello di indagare le finalità, gli intenti stessi, che avevano mosso il cronista fiorentino a inserire nel cupo tessuto narrativo del libro XI della sua cronaca il capitolo 94 e i tre che lo precedevano. Che quella fosse la più intima molla che lo aveva mosso – al di là della discussione non cursoria di quelle stesse cifre – se ne può trovare una conferma relativamente sicura nelle righe finali del suo saggio, allorché scriveva che l’obiettivo del Villani era quello di offrire un quadro di fioritura, ma che quel quadro era solo un «elogio» della grandezza di Firenze. Si trattava, in buona sostanza, di uno sforzo celebrativo che «sembra di poter collocare non nella storia o nella preistoria della Statistica, ma piuttosto, direi, nel cielo dell’epopea mercantile»48. Questa era la chiusa dell’articolo e questo voleva essere il senso ultimo di una lettura: indagare il retroterra di un’epopea come nel Giubileo aveva studiato la storia di una credenza49. Che è certo il senso di una lettura condivisibile e con un fascino che rimane inalterato. A distanza di mezzo secolo, tuttavia, da quelle righe con cui Arsenio Frugoni licenziava il suo saggio, e sappiamo quanto il quadro degli studi corra rapidamente, mi sembra di poter esprimere almeno un rammarico, quello che uno studioso della sua levatura non abbia almeno tentato di 22


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Frugoni, Villani e Firenze

guardare dal di dentro alla trama di quell’«elogio», se non altro per offrire una spiegazione, per comprendere il senso di una stagione luminosa della storia italiana e il lavoro degli uomini che di quell’«epopea» erano stati gli artefici. Frugoni avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto lavorare sul senso della grandeur fiorentina e viene da dire che lo avrebbe fatto benissimo. Rimane, forse, da apprezzare la cautela, l’equilibrio per sottrazione, con cui non intese sopravanzare di un eccesso interpretativo il racconto di Giovanni Villani. Anche la misura rimane il segno di un’alta lezione di storiografia e di impegno morale da spendere nel racconto della storia. Una lezione che, ne sono convinto, possa essere ancora tutta da meditare.

V. L’articolo del 1965, già ripubblicato nel 1979 nella silloge edita dal Mulino per le cure di Raoul Manselli50, costituisce una lezione ancora da meditare non foss’altro per la sua inalterata capacità di «inquietare»51. Per quella inconsueta, quanto naturale, propensione frugoniana di porre le questioni dalle prospettive meno semplici e meno comode: una propensione che rende una buona parte dei suoi scritti ancora attuali, se non altro da un punto di vista metodologico52. Molte delle questioni, del resto, che Frugoni si era posto e sulle quali aveva riflettuto hanno conservato tutta la loro freschezza euristica. Credo che al fondo, infatti, della domanda perché Frugoni e Firenze se ne celi una, se possibile, ancora più 23


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Giampaolo Francesconi

problematica. Una domanda certo di lunga durata. E, cioè, perché Firenze? Il che significa: perché quella città che non aveva ricevuto particolari favori dalla geografia e da una topografia tutta interna alla Toscana comunale e relativamente estranea alle principali vie di collegamento transappenninico aveva conosciuto quel prodigioso sviluppo nel pieno Duecento e nel primo Trecento? La questione è grande e ingombrante, dalla lunga e complessa tradizione e dal profilo quasi inaggirabile. Potrebbe bastare, a questo proposito, il ricorso alle parole di un grande storico come Gaetano Salvemini, che era stato lo studioso della politica fiorentina negli anni cruciali di trapasso fra Due e Trecento, e che in un saggio del 1957 dedicato a Firenze ai tempi di Dante l’aveva affrontata senza alcun timore reverenziale: Quel piccolo cantuccio della Toscana nordorientale, che fa capo a Firenze, non produsse solamente tra la metà del secolo XIII e la prima metà del XVI uomini d’affari che accumularono ricchezze non più sognate dopo di essi; produsse anche una stupefacente messe di genii in tutte le manifestazioni del pensiero: da Giotto e Dante a Leonardo e Michelangelo; poi mezzo secolo – la seconda metà del cinquecento – occupato da asteroidi; poi nella prima metà del Seicento un altro astro di primissima grandezza, Galileo; poi niente più che asteroidi. La sola Atene antica ha dato nella storia una simile esplosione di genia24


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lità. Atene e Firenze sono due misteri storici. Dante fa parte del mistero fiorentino. Per quei due misteri nessuna spiegazione sarà probabilmente trovata mai53.

Per Salvemini Firenze era un mistero storico. Era qualcosa di non spiegato e di inspiegabile. Il mistero che Frugoni si era limitato a discutere attraverso la narrativa celebrativa di Villani non sarà certo svelato qui. Si potrà, tuttavia, almeno tentare un costeggiamento di quel che la storiografia più recente ha aggiunto in termini di comprensione a quel «mistero» che nella lettura salveminiana del 1957 si esauriva nell’avverbio di negazione mai. Su Firenze si è scritto molto da sempre e si continua a scrivere dall’interno di tradizioni anche molto diverse. Firenze, durante l’età comunale, visse un relativo ritardo di partenza rispetto ad alcune città toscane come Lucca e Pisa54, fu caratterizzata da un profondo rimescolamento delle sue dinamiche sociali lungo il secolo XII, con un forte ricambio del ceto dirigente e una capillare signorilizzazione del suo comitatus55. Un rinnovamento delle strutture sociali che è stato interpretato come un fattore di potente propulsione per quei nuovi settori economici che andavano animando il panorama della ricchezza urbana come l’artigianato, il cambio e la mercatura56. Fu questo certo un sicuro fattore di crescita che non andava disgiunto da una significativa immigrazione dal contado verso la città57. La crescita demografica urbana fu 25


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uno dei fenomeni più vistosi della Firenze pienocomunale. Il contado fiorentino era peraltro, e anche questo è stato un fattore più volte discusso e ritenuto trainante, di grandi dimensioni con l’inclusione della diocesi di Fiesole e con la capacità di produrre un quantitativo importante di derrate alimentari58. La grande crescita fiorentina fu tutta duecentesca, i canali di quella crescita furono una specializzazione nella manifattura della lana e della seta, nella mercatura di vasto raggio e nelle attività bancarie59: quei canali poterono profittare dei caratteri strutturali che abbiamo sin qui rapidamente ricordato. Ma erano caratteri davvero così eccezionali rispetto alle qualità di altri centri urbani della Toscana o dell’Italia comunale? La domanda è legittima e la risposta relativamente scontata: quei fattori strutturali, anche se su scale variabili, non erano così potenti e così esclusivi da giustificare quel boom che avrebbe consentito a tutti gli indicatori della crescita di ritagliare per Firenze una collocazione da primato economico nell’Occidente medievale cristiano60. La Firenze del Duecento e del primo Trecento, e successivamente con caratteri diversi, ebbe la capacità di dar vita ad un sistema perfettamente integrato dei suoi comparti produttivi e di attivare una rete di relazioni commerciali e finanziarie di caratura internazionale61. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, anche la sola fenomenologia delle cifre villaniane ne costituisce una sintesi compiuta. Una progressione che poggiava per di più sui caratteri di una strutturale conti26


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nuità: basti richiamare che nel momento della flessione, già più volte ricordata degli anni centrali del Trecento, molte delle compagnie fiorentine sulla scena europea fallirono, ma subito altre furono in grado di sostituirle e di prenderne il posto: le 350 che si stima chiudessero i battenti fra il 1333 e il 1346, fra cui alcuni colossi come quelle dei Bardi e dei Peruzzi, furono con il tempo rimpiazzate da una serie di compagini anche più piccole ma non meno importanti in termini di giro d’affari e di raggio d’azione, come quelle degli Strozzi, dei Capponi, dei Medici, dei Serristori, dei Martelli e così via62. Pare del tutto evidente che nella Firenze della fine del Medioevo si fosse radicata una forte cultura mercantile nel giro delle famiglie più importanti, di un’élite politica ed economica con una propensione straordinaria per gli affari e per i guadagni. Si sono richiamate cose note, esito di una storiografia dalle diverse connotazioni ma dalla continua messa a punto di dati e di acquisizioni positive. Latita ancora un tentativo di risposta possibile al «mistero» salveminiano: perché proprio Firenze fu il teatro di un tale prodigio? La risposta sarà difficile da trovarsi, ma almeno la plausibilità di un’ipotesi si potrà tentare. Un’ipotesi che trae il suo primo spunto interpretativo da una considerazione che Giorgio Vasari, alla metà del ’500, inseriva all’interno della sua Vita del Perugino63. L’interesse del grande pittore, architetto e storico dell’arte era quello allora, come ha notato anche Peter Burke64, di capire dove si origi27


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nasse il grande contributo che Firenze aveva dato alle arti. E così Vasari per tentare di darsi una risposta doveva aver fatto ricorso alla ricca tradizione fiorentina dei testi di storia e di cronaca familiare, quasi certamente all’Istoria di Firenze di Goro Dati e ai Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli65. La sua era un’analisi che, scevra da condizionamenti apologetici, guardava al «mistero fiorentino» con un occhio condizionato da tutta una messe importante di testi di carattere laudatorio, ma che rivelava tuttavia l’ambizione di capire e di spiegare: Atteso che in quella città sono spronati gli uomini da tre cose: l’una, da ‘l biasimare che fanno molti e molto, per far quell’aria gli ingegni liberi di natura e non contentarsi universalmente dell’opere pur mediocri, ma sempre più ad onore del buono e del bello, che a rispetto del facitore considerarle; l’altra, che a volervi vivere, bisogna essere industrioso, il che non vuol dir altro che adoperare continuamente l’ingegno et il giudizio et essere accorto e presto nelle sue cose, e finalmente saper guadagnare, non avendo Firenze paese largo et abbondante, di maniera che e’ possa dar le spese per poco a chi sta, come dove si trova del buono assai. La terza, che non può forse manco dell’altre, è la ambizione che genera quell’aria, la quale in tutte le persone che hanno spirito, non pur consente che gli uomini voglino stare al pari, nonché restare in dietro a chi e’ veggono essere uomini come sono essi... ma gli si sforza bene spesso a desiderar tanto la propria grandezza66. 28


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Il lessico vasariano faceva ricorso al termine «aria» per tentare la via di una spiegazione: era quell’«aria» che si respirava nella Firenze di Dante, di Coluccio Salutati, di Michelangelo che generava successi, che sommava ricchezze, che produceva capolavori letterari e artistici. Che aveva alimentato i primati fiorentini narrati da Villani e aveva dato vita ad una stagione irripetibile come quella del Rinascimento fiorentino. Vasari andava poi oltre cercando di declinare che cosa si dovesse intendere con quel termine, invero, un po’ generico. E allora l’«aria» che a suo dire aveva costituito il motore della grandezza fiorentina era un misto di libertà – «ingegni liberi» –, di rifiuto della mediocrità e di tensione costante alla gloria, di propensione per le grandi imprese. Villani aveva cantato una grandezza per cifre, sulla base di quei parametri che potevano essere familiari ad un uomo abituato alla mercatura e alla concretezza, Vasari aveva cercato le ragioni di quei primati plurali in quella miscela di ambizioni, di tensioni ideali e morali, in quella voglia di essere grandi che sarebbe stato il tratto ricorrente della società e dell’economia fiorentina della fine del Medioevo67. A Firenze si sarebbe creato, in altre parole, un clima speciale per cui ogni attività, ogni movimento derivava da una continua concorrenza e da un’ancor più diffusa necessità di mostrarsi all’altezza di una città che non si fermava mai e che tutto fondava sulla competizione. Verrebbe da dire che la straordinaria forza di quella società che creava ricchezze, che 29


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produceva capolavori di ogni genere e che esportava merci e uomini in tutto il mondo era racchiusa in una indomita forza mentale, era il risultato smisurato dell’ambizione dei fiorentini di diventare grandi. L’idea di grandezza fu probabilmente il motore più segreto e meno visibile della grandezza fiorentina. Di una grandezza che si sarebbe tradotta e si sarebbe nutrita di una mentalità intessuta di una straordinaria consapevolezza e di una smisurata autocoscienza. Era ancora Giorgio Vasari, questa volta nella Vita di Lorenzo de’ Medici, a suggellare questo concetto in termini persino più espliciti: La difesa della libertà è stata spesso - a Firenze perseguita per espandere e rafforzare la mente68.

Potrà sembrare una tautologia, ma a dire di Vasari quella fiorentina sarebbe stata una grandezza costruita sulla forza di un’idea, al cui fondo si nascondeva un propellente straordinario che era l’esito di una concatenazione felicissima di fattori materiali e immateriali che potevano fidare su di una vera e propria rivoluzione culturale. La Firenze dell’apogeo comunale era una città divisa, era anche una città di usurai, di litigiosi mercanti, forse di invidiosi banchieri, ma era pure una città che aveva un sistema scolastico di prim’ordine e che poteva fidare su un livello culturale medio notevolissimo69. Non sarà un caso che nel 1338, proprio nelle cifre villaniane, si faccia riferimento ad un sistema formativo che pre30


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vedeva un numero di fanciulli alfabetizzati che si aggirava intorno agli otto o novemila su una popolazione complessiva di novantamila persone, dei quali circa un migliaio nelle scuole di «abbaco e algorismo» e circa cinquecento in quelle di grammatica e di logica. Non deve colpire – al di là della verificabilità di questi numeri e delle stesse perplessità espresse da Frugoni – se tra i fattori propulsivi di quella stagione si devono annoverare l’istruzione e la competitività, non sarà un caso se coloro che furono i protagonisti assoluti di quella straordinaria ricchezza furono anche, secondo la definizione di Christian Bec, dei mercanti scrittori70. Quello fiorentino, bisogna ricordarlo, fu il capitolo iniziale di un capitalismo fondato sulla cultura, sulla lettura e sulla scrittura71. Quegli uomini avevano innovato, avevano sperimentato e avevano conquistato il mondo allora conosciuto perché erano uomini che sapevano leggere, scrivere e fare di conto72. Qualcuno poi con una lungimiranza ancora più spiccata, come Francesco di Marco Datini73. Dante era tutto inscritto nel mistero fiorentino, secondo Salvemini, ma con lui e non meno di lui anche Giovanni Villani, Giovanni Boccaccio e gli operatori economici che avevano costantemente fatto ricorso alla scrittura per annotare, per fare memoria, per trasmettere conoscenze74. I mercanti, che fossero seduti nel loro fondaco o fossero in giro per il mondo, non lasciavano mai la penna75: questa potrebbe essere, allora, se non la ragione unica, quella forse più 31


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verosimile per capire una stagione che accanto al guadagno, accanto ai palazzi di Baccio d’Agnolo, di Giuliano da Sangallo o di Simone del Pollaiolo76, aveva prodotto alcuni fra i capolavori più duraturi di ogni letteratura come la Divina Commedia, il Decameron e il Principe. E la trama stessa della lingua italiana, costruita sul volgare illustre77. Arsenio Frugoni, in fondo, doveva essere stato spinto all’«incontro» con Villani e Firenze da quel senso del reale che lo induceva a guardare agli uomini del passato nella concretezza della loro persona e del loro ambiente78 e dallo stesso «mistero» che aveva attratto Gaetano Salvemini e tutti coloro che nel tempo sono rimasti stupiti da quella città e dagli uomini che l’avevano abitata fra la metà del Duecento e la metà del Cinquecento. Anche per questa ragione vale la pena di tornare a leggere questo saggio frugoniano scritto mezzo secolo fa, su di un tema tanto grande e inevitabilmente sempre aperto. Note

1 A. Frugoni, G. Villani, XI, 94, «Bulletino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 77 (1965), pp. 229-255. Colgo l’occasione per ringraziare Clara Gennaro per la cortesia con cui si è resa disponibile a dialogare su alcune delle ipotesi che andavo formulando. Massimo Miglio, Isa Lori Sanfilippo, Amedeo Feniello e Salvatore Sansone sono stati lettori puntuali e prodighi di consigli.

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Frugoni, Villani e Firenze 2 Su questo aspetto decisivo della formazione e del metodo di lavoro di Frugoni, cfr. G. Sergi, Arsenio Frugoni e la storiografia del restauro, in A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Torino 1989, pp. VII-XX e A. De Vincentiis, Storia e filologie. Il percorso di Arsenio Frugoni fino al 1950, in A. Frugoni, Il Giubileo di Bonifacio VIII, pp. 129-160. 3 Per un profilo biografico e bibliografico di Arsenio Frugoni, cfr. G. Sofri, Frugoni, Arsenio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 50, Roma 1998, pp. 619-622; una lettura critica e originale del percorso storiografico era quella offerta da R. Manselli, Arsenio Frugoni storico, in A. Frugoni, Incontri nel Medio Evo, Bologna 1979, pp. 11-21. Si veda inoltre C. Violante, Arsenio Frugoni, in Violante, Devoti di Clio, Roma 1985, pp. 27-53. 4 O. Capitani, Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici: tra due guerre e molte crisi, Bologna 1979, pp. 255 nota 50. 5 In particolare per i saggi di Celestiniana e per la ricerca di una Ecclesia spiritualis da parte di Frugoni, cfr. C. Gennaro, Introduzione in A. Frugoni, Celestiniana, Roma 1991, pp. VII-XVII. Si veda anche G.L. Potestà, Interpretazione storica e sensibilità spirituale in Arsenio Frugoni, cur. F. Bolgiani - S. Settis, Firenze 1991, pp. 63-68. 6 La propensione all’«incontro» in Frugoni è stata proposta e discussa da Manselli, Arsenio Frugoni cit. Cfr. anche le recensioni-discussioni di G. Miccoli, Gli «Incontri nel Medio Evo» di Arsenio Frugoni, «Studi medievali», ser. III, 24 (1983), pp. 469-486 e di E. Occhipinti, Gli «Incontri nel Medioevo» di Arsenio Frugoni, «Società e storia», 5 (1983), pp. 163-179. Merita qui ricordare anche cosa aveva scritto Raffaello Morghen dell’incontro di Frugoni col Medioevo e, nello specifico, del ruolo svolto nel suo itinerario di ricerca e di studio dalla permanenza presso la Scuola storica

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nazionale, annessa all’Istituto: «L’incontro con il Medioevo, nel senso di una più impegnata e approfondita ricerca, avvenne per il Frugoni alla Scuola Storica Nazionale dell’Istituto Storico per il Medio Evo, e fu un incontro inizialmente non privo di contrasti interiori, ma anche fecondo di felici maturazioni, poiché è fuor di dubbio che, nella produzione scientifica del Frugoni, quella che merita maggior rilievo appartiene al campo della storiografia medievalistica» [R. Morghen, Arsenio Frugoni storico, «Nuova rivista storica», 54 (1970), pp. 644-650: 645]. 7 De Vincentiis, Storia e filologie cit., pp. 137-138. Era stato lo stesso De Vincentiis a rilevare le aperture culturali che le pagine pasqualiane (Pagine stravaganti di un filologo, 1, Pagine stravaganti vecchie e nuove. Pagine meno stravaganti, cur. C.F. Russo, Firenze 1994), con affondi su personaggi come Aby Warburg, avevano avuto su una curiosità e una sensibilità inquieta e versata all’interdisciplinarità come quella di Frugoni. Cfr. anche E. Pispisa, Manfredi per Frugoni. Lettura di un'esperienza storiografica, in A. Frugoni, Scritti su Manfredi, Roma 2006, pp. 5-40: 10-11. 8 Sergi, Arsenio Frugoni cit., pp. XII-XIII. 9 G. Sergi, Sulla storia ‘possibile’ in Arsenio Frugoni, in Arsenio Frugoni cit., pp. 55-62: 60-62. 10 «Ecco i suoi ‘incontri’: un termine che gli era caro. Nessuna parola ha mai avuto per Frugoni così intensa pregnanza come questa: ‘incontri’» (Violante, Arsenio Frugoni cit., pp. 45-46). 11 Capitani, Medioevo passato prossimo cit., p. 276. 12 G. Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, Parma 1991, XII, 94, pp. 197-202. 13 Bonvesin da la Riva, Le meraviglie di Milano, Milano 2009. Cfr. anche il saggio introduttivo di P. Chiesa alle pp. IX-LXXXIV. 14 Sulle instabilità toscane degli anni ’30 del Trecento ha di recente appuntato la sua attenzione A. 34


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Zorzi, L’angoscia delle repubbliche. Il “timor” nell’Italia comunale degli anni trenta del Trecento, in The Languages of Political Society. Western Europe, 14th17th, cur. A. Gamberini - J-P. Genet - A. Zorzi, Roma 2011, pp. 287-324: 289-292. 15 Villani, Nuova Cronica cit., XII. 16 E. Artifoni, La consapevolezza di un nuovo assetto politico-sociale nella cronachistica italiana nel periodo del papato avignonese: alcuni esempi fiorentini, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Todi 1981, pp. 79-100; Zorzi, L’angoscia delle repubbliche cit., pp. 289-290. 17 L. Green, Lucca under many masters. A fourteenth-century Italian commune in crisis (1328-1342), Firenze 1995. 18 Villani, Nuova Cronica cit., XII, LV. Cfr. anche Zorzi, L’angoscia delle repubbliche cit., pp. 292-293. 19 Per le fasi di composizione della Nuova Cronica di Villani si rimanda a F. Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998, passim. 20 Villani, Nuova Cronica cit., XII, 94, p. 197. 21 Ibid., XII, 91-94, pp. 190-202. 22 Chiesa, Introduzione, pp. XIV-XVI. In una direzione di maggiore affidabilità dei dati si è mosso di recente P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto 2001, pp. 39-41 e 178-179. 23 Sul rapporto fra Dante e Firenze, nella sterminata bibliografia disponibile, si rimanda al recente lavoro di E. Brilli, Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica, Roma 2012. 24 In tempi recenti si sono espressi in questa direzione, seppur in contesti diversi, J.-C., Maire Vigueur, Il problema storiografico: Firenze come modello (e mito) di regime popolare, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del Quindicesimo convegno di 35


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studi (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia, 1997, pp. 1-16 e C. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000, p. 279. Mi permetto di rimandare anche ad un mio contributo di qualche anno fa: G. Francesconi, Pistoia e Firenze in età comunale. I diversi destini di due città della Toscana interna, in La Pistoia comunale nel contesto toscano ed europeo (secoli XII-XIV), cur. P. Gualtieri, Pistoia 2008, pp. 73-100. 25 Questi aspetti sono stati oggetto di discussione, anche se con prospettive distanti fra loro, da parte di A. Zorzi, «Fracta est civitas magna in tres partes». Conflitto e costituzione nell’Italia comunale, «Scienza &Politica», 39 (2008), pp. 61-87 e di P. Cammarosano, Ascesa e sviluppo dei comuni dominanti in Toscana, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centrosettentrionale nel processo storico dal primo Comune alla signoria. Atti del convegno di studio (Bologna, 3-4 settembre 2010), cur M.C. De Matteis - B. Pio, Bologna 2011, pp. 113-131. 26 A. Sapori, L’attendibilità di alcune testimonianze cronistiche dell’economia medievale, in A. Sapori, Studi di storia economica. Secoli XIII-XIV-XV, I, Firenze 1982, pp. 25-33; G. Salvemini, Firenze ai tempi di Dante (1958), in G. Salvemini, Opere, I/2, cur. E. Sestan, Milano 1972, pp. 371-383; E. Fiumi, Fioritura e decadenza dell’economia fiorentina, Firenze 1977; E. Sestan, Dante e Firenze, in Italia medievale, Napoli 1966, pp. 270-291; F. Melis, La vita economica a Firenze al tempo di Dante, in L’economia fiorentina del Rinascimento, cur. B. Dini, Firenze 1984, pp. 1-29; G. Cherubini, La Firenze di Dante e di Giovanni Villani, in Scritti toscani. L’urbanesimo medievale e la mezzadria, Firenze 1991, pp. 35-51; L. Palermo, Carestia e cronisti nel Trecento: Roma e Firenze nel racconto dell’Anonimo e di Giovanni Villani, «Archivio Storico Italiano», CXLII (1984), pp. 343-375. Può essere utile 36


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vedere quanto aveva scritto anche G. Fourquin, Storia economica dell’Occidente medievale, Bologna 1987, p. 360. 27 Violante, Arsenio Frugoni cit., p. 51. 28 Sul metodo di lavoro di Villani, cfr. G. Porta, Giovanni Villani storico e scrittore, in I racconti di Clio. Tecniche narrative della storiografia. Atti del convegno di studi, Arezzo 6-8 novembre, cur. Roberto Bigazzi, Pisa 1989, pp. 147-156; Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori cit., pp. 3-102. Cfr. inoltre, G. Ortalli, “Corso di natura” o “Giudizio di Dio”. A proposito di G. Villani, XI, 1-3, «La Cultura», XVII (1979), pp. 209-234. 29 Questi temi sono stati di recente oggetto della vasta ricerca di R. Goldthwaite, L’economia della Firenze Rinascimentale, Bologna 2013. 30 A. Frugoni, Storia della città in Italia, Torino 1956; A. Frugoni, Le Repubbliche marinare, Torino 1958. 31 A. Frugoni, Dante e la Roma del suo tempo, in Frugoni, Incontri nel Medioevo cit., pp. 299-337: 302303. 32 Ivi, p. 315. 33 A. Frugoni, Dante, Epist. XI, 24-5, in Frugoni, Incontri nel Medioevo cit., pp. 339-348; Frugoni, Dante tra due conclavi. La lettera ai cardinali italiani, in ivi, pp. 349-367; Frugoni, La lettura del Canto X dell’Inferno, in ivi, pp. 369-388; Frugoni, Il canto III del Purgatorio, in Frugoni, Scritti su Manfredi cit., pp. 85-108. Cfr. inoltre, Pispisa, Manfredi per Frugoni cit., pp. 3540; M. Zabbia, Manfredi di Svevia nella cultura storiografica delle città italiane tra Due e Trecento, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, cur. A. Mazzon, Roma 2008, pp. 897-914: 900-903. 34 G. Francesconi, «Gli anni favolosi dell’Istituto». Elio Conti, alunno della Scuola storica (1958-1963), in La Scuola Storica Nazionale e la medievistica. Mo37


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menti e figure del Novecento. Per i 90 anni della Scuola Storica Nazionale e di Studi medievali. Atti della giornata di studio (Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 16 dicembre 2013), cur. I. Lori Sanfilippo - M. Miglio, Roma 2015 (Nuovi Studi storici, 96), pp. 115-147. 35 R. Morghen, La storiografia fiorentina del Trecento: Ricordano Malispini, Dino Compagni e Giovanni Villani, in R. Morghen, Civiltà medioevale al tramonto, Roma-Bari 1985, pp. 91-113; Morghen, Dante e Firenze del «buon tempo antico», ivi, pp. 115141. Per una rassegna recente della storiografia fiorentina previllaniana, cfr. M. Zabbia, Prima del Villani. Note sulle cronache universali a Firenze tra l'ultimo quarto del Duecento e i primi del Trecento, in Le scritture della storia. Pagine offerte dalla Scuola nazionale di studi medievali a Massimo Miglio, cur. F. Delle Donne - G. Pesiri, Roma 2012, pp. 139-162. 36 M. Luzzati, Ricerche sulle attività mercantili e sul fallimento di Giovanni Villani, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 81 (1969); Luzzati, Giovanni Villani e la Compagnia dei Buonaccorsi, Roma 1971. Fanno riferimento allo stesso periodo di studio anche le voci che Luzzati stese per il Dizionario Biografico degli Italiani (15, Roma 1972) relative alla famiglia Buonaccorsi e ad alcuni membri come Gherardo, Giovanni e Lapo. 37 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in G. Agamben, Nudità, Roma 2009, pp. 19-32. 38 Capitani, Medioevo passato prossimo cit., p. 255. Si veda più di recente anche quanto ha scritto A. De Vincentiis, Eredità inquietante. Reazioni alla ricerca di Arsenio Frugoni (1950-1999), in Arsenio Frugoni cit., pp. 1-54: pp. 24-25. 39 Per il dibattito sulla crisi trecentesca, cfr. la rassegna di G. Cherubini, La ‘crisi del Trecento’. Bilancio e prospettive di ricerca, «Studi storici», 15 (1974), pp. 38


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660-670 e il recente contributo di F. Franceschi, La crisi del XIV secolo e l’Italia, in Una giornata con Ruggiero Romano (25 ottobre 2000), cur. L. Perini - M. Plana, Firenze 2001, pp. 13-22. Cfr. anche R.C., Mueller, Epidemie, crisi, rivolte, in Storia medievale, Roma 1998, pp. 557-584 40 R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 13-50. 41 Villani, Nuova Cronica cit., XII, 94, p. 198. 42 Ivi, IX, 39, p. 62. 43 Cfr. più avanti a p. 69. 44 Ibid., p. 70. 45 Ibid. 46 Cherubini, La Firenze di Dante e di Giovanni Villani cit., pp. 49-51; J. Najemy, Storia di Firenze. 1200-1575, Torino 2014, pp. 120-125; R. Goldthwaite, L’economia della Firenze rinascimentale, Bologna, 2013, pp. 388-389 e 482-483; A. Petrucci - L. Miglio, Alfabetizzazione e organizzazione scolastica nella Toscana del XIV secolo, in La Toscana del secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale. Atti del I convegno del Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo di San Miniato (1-5 ottobre 1986), Pisa 1988, pp. 465-484. Su quest’ultimo aspetto si possono vedere anche le considerazioni di D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere. Alfabetizzazione e istruzione nelle campagne toscane alla fine del Medioevo (XIV-XVI secolo), Pisa 2004, pp. 31 ss. 47 Cfr. più avanti, p. 47. 48 Ibid., pp. 79. 49 De Vincentiis, Storia e filologie cit., p. 157. 50 Frugoni, Incontri nel Medio Evo cit., pp. 263-287. 51 L’uso di questo lemma che ha costituito quasi un modus frugoniano di interpretare il lavoro storiografico è stato riproposto anche da De Vincentiis, Eredità inquietante cit. 39


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Giampaolo Francesconi 52 E qui il rimando corre d’obbligo a quanto aveva già potuto notare Sergi, Arsenio Frugoni cit., pp. XVIII-XIX. Sulla stessa scia era andata anche Occhipinti, Gli «incontri» nel Medioevo cit., pp. 163-164. 53 G. Salvemini, Firenze ai tempi di Dante, in Studi in onore di Armando Sapori, Milano 1957, I, pp. 467482: 482. 54 Per un quadro comparativo sulle progressioni delle città toscane durante l’età comunale, cfr. G. Cherubini, Città comunali di Toscana, Bologna 2003; Cherubini, Le città della Toscana, in Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali. Atti del diciottesimo convegno internazionale di studi (Pistoia, 18-21 maggio 2001), Pistoia 2003, pp. 325-341; M. Ronzani, L’affermazione dei comuni cittadini fra impero e papato: Pisa e Lucca da Enrico IV al Barbarossa (1081-1162), in Poteri centrali e autonomie nella Toscana medievale e moderna. Atti del convegno di studi (Firenze, 18-19 novembre 2008), Firenze 2012, pp. 1-57. 55 M.E. Cortese, Signori, castelli, città. L’aristocrazia del territorio fiorentino tra X e XII secolo, Firenze 2007, pp. 231 ss.; E. Faini, Firenze nell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze 2010, pp. 127-164. 56 Ivi, pp. 118-125. 57 J. Plesner, L’emigrazione dalla campagna alla città libera di Firenze nel XIII secolo, Firenze 1979; Faini, Firenze nell’età romanica cit., pp. 145-165. 58 G. Pinto, La Toscana nel tardo Medioevo. Ambiente, economia rurale, società, Firenze 1982, pp. 144 ss.; P. Pirillo, Costruzione di un contado. I Fiorentini e il loro territorio nel Basso Medioevo, Firenze 2001; Ch.M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione, traffici, Firenze 2005.

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Frugoni, Villani e Firenze 59 Goldthwaite, L’economia della Firenze rinascimentale cit., pp. 50-54 e passim. Cfr. anche S. Tognetti, Il banco Cambini. Affari e mercati di una compagnia mercantile-bancaria nella Firenze del XV secolo, Firenze 1991; S. Tognetti, Un’industria di lusso al servizio del grande commercio. Il mercato dei drappi serici e della seta nella Firenze del Quattrocento, Firenze 2002. 60 Cfr., da ultimo, alcune considerazioni di G. Pinto, Cultura mercantile ed espansione economica di Firenze (secoli XIII-XVI), in Vespucci, Firenze e le Americhe, cur. G. Pinto - L. Rombai - C. Tripodi, Firenze 2014, pp. 3-18: p. 5. 61 Goldthwaite, L’economia della Firenze rinascimentale cit., passim. 62 Ivi, pp. 241-242 e 453-455. 63 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, edd. L. Bellosi - A. Rossi, Torino 1991, pp., 528-537. 64 P. Burke, Cultura e società nell’Italia del Rinascimento, Bologna 2001, pp. 35 ss. 65 L’Istoria di Firenze di Gregorio Dati dal 1380 al 1405, illustrata e pubblicata secondo il Codice inedito stradiniano collazionato con altri manoscritti e con la stampa del 1735, ed. L. Pratesi, Norcia 1902; Giovanni di Pagolo Moreli, Ricordi, ed. V. Branca, Firenze 1969. 66 Vasari, Le vite cit., p. 529. 67 Cherubini, Firenze nell’età di Dante. Coscienza e immagine della città, in Cherubini, Città comunali cit., pp. 11-24. 68 Citato in Burke, Cultura e società cit., p. 37. 69 Ch. Davis, L’istruzione a Firenze nel tempo di Dante, in Ch. Davis, L’Italia di Dante, Bologna 1988, pp. 135-166; Petrucci - Miglio, Alfabetizzazione e organizzazione scolastica, pp. 470 ss.; Balestracci, Cilastro che sapeva leggere cit., pp. 31 ss.; Najemy, Storia di Firenze cit., pp. 53-54.

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Giampaolo Francesconi 70 Ch. Bec, Les marchands écrivains. Affaires et humanisme à Florence, 1375-1434, Paris 1967. 71 Rimangono per certi versi insuperate le molte pagine che Armando Sapori aveva dedicato ai mercanti italiani, al loro modo di operare, al loro sistema mentale, alla loro cultura: A. Sapori, La cultura del mercante medievale italiano, in Sapori, Studi di storia economica cit., pp. 53-93. 72 Ch. Bec, Cultura e società a Firenze nell’età della rinascenza, Roma 1981, pp. 105-131. Si veda anche quanto è stato recentemente ricostruito per l’attività scrittoria di un grande mercante come Francesco di Marco Datini: P. Nanni, Ragionare tra mercanti. Per una rilettura della personalità di Francesco di Marco Datini (1335 ca - 1410), Pisa 2010. Cfr. inoltre A. Feniello, Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca, Roma-Bari 2013, pp. 60-65. 73 Nanni, Ragionare tra mercanti cit. 74 Ch. Klapisch Zuber, L’invenzione del passato familiare a Firenze, in Klapisch Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento, Roma-Bari 1995, pp. 3-25; F. Pezzarossa, La tradizione fiorentina della memorialistica, in La «memoria» dei mercatores. Tendenze ideologiche, ricordanze, artigianato in versi nella Firenze del Quattrocento, Bologna 1989, pp. 39-149; A. Chicchetti - R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III/2, Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 11171159; G. Ciappelli, L’evoluzione dei modelli di memoria familiare: i libri di famiglia toscani (secoli XVI-XVIII), in Memoria, famiglia, identità tra Italia ed Europa nell’età moderna, cur. Ciappelli, Bologna 2009, pp. 201-233. 75 In quella che era peraltro, secondo la definizione di Duccio Balestracci, «una regione con la penna in mano» (D. Balestracci, La zappa e la retorica. Memorie

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Frugoni, Villani e Firenze

familiari di un contadino toscano del Quattrocento, Firenze 1984, pp. 15-31). 76 I palazzi e le architetture cittadine già nella prima metà del Trecento dovevano essere motivo di vanto per la città, i cittadini e gli stranieri che vi arrivavano: «Per la quale cosa molti di lontani paesi la vengono ad vedere, non per necessità, ma per bontà de’ mestieri e arti, e per la belleza e ornamento della città» (Villani, Nuova Cronica cit., XII, 94, p. 201). 77 Cfr. F. Bruni, L’italiano letterario nella storia, Bologna 2002, pp. 15-56; P. Manni, La lingua di Dante, Bologna 2014, pp. 11-52; G. Patota, La grande bellezza dell’italiano. Dante, Petrarca, Boccaccio, Roma-Bari 2015. 78 Violante, Arsenio Frugoni cit., p. 45.

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ARSENIO FRUGONI

G. Villani, «Cronica», XI, 94


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Non ripropongo qui la questione dell’attendibilità delle cifre offerte da Giovanni Villani nel famoso capitolo 94 del libro XI della Cronica1 nel senso di un’altra verifica, compiaciuta o severa, di un collega, si direbbe, nei riguardi di un collega in quanto cultori ambedue di storia economica e responsabili di tecniche valutazioni statistiche. Il discorso del Villani, anche se estremamente interessante come offerta di dati nella penuria di cifre che caratterizza la cronistica del medioevo, «le temps de l’à peu près», deve essere anzitutto inteso nello spirito non «scientifico» che lo muove. Le sue cifre non sono raccolte per tradurre una situazione in quantità, ma vogliono indicare, per il quadro di una prosperità mirabile di vita cittadina, un punto al quale dovranno riferirsi le generazioni future: che i nostri successori che verranno per li tempi s’avveggano del montare o abbassare dello stato e potenzia che facesse la nostra città, acciocché per li savi e valenti cittadini, che per li tempi saranno al governo di quella, per lo nostro ricordo e esempio di questa cronica, procurino d’avanzarla in istato e maggior potere.

Così poco «statistico» dunque il quadro della


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Arsenio Frugoni

sua Firenze, e così invece «esemplare», memoria e testamento, che la visiva rievocazione si trasferisce – è quasi un topos letterario, ma anche riscoperta genuina – alla immaginata esperienza di un forestiero, perché la meraviglia appaia più obiettiva. Che se si insinua nel ricordo della «dignità e magnificenza della nostra città di Firenze» la riserva per l’eccesso dei begli edifici che ogni cittadino popolano o grande andava costruendosi in contado, «e molto meglio che in città» – «e in questo ciascuno si peccava e per le disordinate spese erano tenuti matti» – la riserva, che è espressione di moralistica condanna del peccato di prodigalità da parte di un «uomo del passato»2, ma anche, direi, critica valutazione mercantile di agi e di lussi improduttivi, è subito superata dalla fierezza: E sì magnifica cosa era a vedere, che i forestieri non usati a Firenze, venendo di fuore, i più credevano per li ricchi edifici e belli palagi ch’erano di fuori alla città, d’intorno a tre miglia, che tutti fossono della città a modo di Roma... insomma si stimava che intorno alla città a sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze non avrebbono tanti.

E giova sottolineare in questo contesto quel confronto, mitico, con Roma, la cui grandezza il Villani, nonostante il patetico per il fatale «calare» aveva sentita intera per le imponenti memorie nell’anno giubilare3; e gli aveva destato in cuore la «visione di un mondo nuovo»4 e insieme 48


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G. Villani, «Cronica», XI, 94

la vocazione a scrivere il suo volume per celebrare l’altra grandezza della «figliola e fattura di Roma» che «era nel suo montare e a seguire grandi cose»; a ribadire l’ambito emozionale del suo discorso. Che era stato avviato, tre capitoli prima, «acciocché i nostri discendenti possano comprendere lo stato che aveva il nostro Comune di Firenze in questi tempi»5, cioè durante la guerra contro Mastino della Scala, tra il 1336 e il 1338, per offrire, si noti, una descrizione affatto celebrativa. Il Villani aveva chiarito come il bilancio del Comune si reggesse soprattutto «per prestanze e imposte sopra le ricchezze de’ mercatanti ed altri singolari cittadini con guidardoni sopra le gabelle». Aveva rilevato l’ammontare di queste gabelle «diligentemente de’ registri del Comune»: enormi cifre, che «sarebbe gran cosa a un reame». Ma la misura vistosa di queste entrate non riempiva affatto d’orgoglio a questo punto il nostro uomo; che anzi condannava le «sforzate gabelle per fornire le folli imprese». E perciò, dopo l’elenco delle tante gabelle, non direi «finale brusco, inatteso, in cui riappare di colpo il Villani moralista»6, questo: O signori Fiorentini, che mala provedenza e ria accrescere l’entrata del Comune della sustanza e povertà de’ cittadini colle sforzate gabelle per fornire le folli imprese! Or non sapete voi, che come è grande il mare è grande la tempesta, come cresce l’entrata è apparecchiata la mala spesa! Temperate, carissimi, i disordinati desi49


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Arsenio Frugoni

deri, e piacerete a Dio, e non graverete il popolo innocente !7.

Certo l’interesse profondo e vitale, nel Villani, per il mondo della politica e dell’economia, è incapace però di darsi una giustificazione teorica, onde il suo ricadere in un moralismo8. Ma in certi casi, quel moralismo, pessimistico, è anche espressione di un orientamento politico, che denuncia colpe, ma nel paragone di un diverso vagheggiato governo. Se anche, nel passo citato, si prospetta il pericolo che la disponibilità finanziaria sia sempre tentazione di disordinati desideri, l’affermazione si colloca in una puntuale riprovazione politica: ché al Villani il quadro di una salda fortuna economica appare compromesso se «le prestanze e le imposte sopra la ricchezza de’ mercatanti» si dissipano in imprese di guerra, che egli giudica folli, perché perseguite con un dispendio sproporzionato di mezzi e con «errori», traducendosi così in insuccessi e in sicura miseria per il rincaro della vita cittadina. Aveva detto precedentemente9, trattando appunto del tentativo fiorentino di acquistare Lucca dai Veronesi: E nota, lettore, l’errore e fallo de’ Fiorentini, che nel 1329 poterono avere Lucca da’ soldati del Cerruglio per ottantamila fiorini d’oro, e poi nel 1330 per patti de’ cittadini e di messer Gherardino Spinola per minore quantità... e poi vi spesono e vollono spendere disordinata somma di moneta. 50


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G. Villani, «Cronica», XI, 94

Per sì concludere: «io stimo che Iddio nol permettesse per purgare i peccati e mali guadagni de’ Fiorentini e de’ Lucchesi e eziandio de’ Lombardi»; che è un trasferire la storia su un piano provvidenziale, dove Dio tra l’altro disperde i mali guadagni quasi a risposta dell’inquietudine per il problema della ricchezza appassionatamente accumulata, ma non per questo è un cancellare la realtà dell’errore di valutazione, che costringe i governanti ora a una impresa disastrosa. Iniziata concordemente, contro il «disleale mastino e traditore»10, con una rivoluzionaria alleanza con Venezia e con un massiccio finanziamento delle compagnie di mercanti di Firenze – il Villani nota: «e in tra’ quali noi fummo di quelli»11. Ma poi egli è incline a sottolineare una certa imperizia militare – («se la nostra cavalleria avesse più studiato il cavalcare non ne campava uomo»12; oppure: «i nostri volonterosi di vincere più che accorti di guerra»13 –; e più il sostanziale rischio che è sempre nelle imprese di guerra, legate alla «fortuna fallace»14, nonostante il contrappunto, alla fortuna, della divina volontà. Afferma: «Nelle cose del secolo, spezialmente ne’ casi della guerra, non si dee avere niuna stabile confidenza»15, dove quello «spezialmente» è spia di una vocazione per un impegno di ordinata pacifica vita cittadina: avverso il Villani alle avventure guerresche, e anche alle smisurate avventure finanziarie (a proposito dei Bardi e dei Peruzzi distrutti dalla guerra franco-inglese nota che «fu a loro grande follia e cupidigia il guadagno a acquistar folle51


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mente, mettere a prestare così in grosso il loro e l’altrui in uno signore... e di ciò fu grande pericolo a loro e alla nostra città»16), ad ogni avventura politica, fomentatrice di discordie e di sopraffazioni, atteso che la «libertà della nostra città di Firenze» non deve essere posta al rischio di perdersi per «tirannia di signore»17. Condanna perciò quei popolani grassi che non davan «parte a’ grandi né a’ mezzani né a’ minori» e «non bastando la loro signoria del podestà e quella del capitano del popolo e quella dell’esecutore degli ordinamenti della giustizia contro i grandi e possenti, ch’erano ancora di soperchio al buono reggimento comune, si crearono l’ufficio del capitano della guardia», affidandolo ad Iacopo Gabrielli da Gubbio18. Si colloca dunque il Villani, per le sue apprensioni e per le sue speranze, in una zona politica conservatrice, convinta che gli ordinamenti di Giano della Bella dovessero costituire una stabile posizione di equilibrio, nella quale la vita politica fiorentina dovesse ormai svilupparsi con «sancta carità umana e civile»19 all’interno, e all’esterno con un dignitoso prestigio fatto più che di estemporanee alleanze e di fortunose guerre, di acquisti ed accordi, raggiungibili per la fioritura economica della sua industriosa città. Né occorre qui sottolineare la scarsa sensibilità per i problemi affatto conclusi delle forze in lotta («avversitadi per mal reggimento») e limiti di una posizione sentimentalmente vivace ma senza invenzione politica, in una situazione, invece, che denunciava incertezze e 52


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involuzioni. Ci basta aver riportato il «moralismo» del Villani non tutto in una «Weltanschauung» di «pregotischer Mensch», ma in una zona fiorentina di opinione, non disposta a mutamenti, a fazioni, ma conservatrice, nella persuasione che, anche se le improvvise crisi e gli assalti al potere minacciavano l’ottimistica fiducia («mi fa molto turbare la mente sperando peggio per l’avvenire»20), nonostante tutto, quella grandezza di Firenze poteva essere ormai una conquista e una realtà perenne, uno storico e provvidenziale «montare». Questa fiducia, che è un po’ sottesa a tutta la Cronica, è sempre pronta a documentarsi nel corso delle pur tormentate vicende, narrate certo nelle loro sconcertanti tortuosità e colpe, per rispetto della verità e non solo «a commendazione della nostra città di Firenze»21. Accanto, ad esempio, alle ansie per l’apparizione di due stelle comete, tetro segno di mali, «cioè fame, mortalità, novità»22, ecco l’affidarsi a una promessa gioiosa: all’uscita di giugno... del 1337 nacquero a Firenze sei leoncini della leonessa vecchia e delle due giovani sue figliole, la qual cosa, secondo l’augurio degli antichi pagani, fu segno di grande magnificenza della nostra città di Firenze. E certo in questo tempo e poco appresso, fu in grande colmo e potenza, come leggendo si potrà trovare23.

E troveremo, non importa, subito le due comete e poi la perorazione ricordata sulle sforzate gabelle 53


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per fornire le folli imprese e tante, tante vicende nefaste. Ma anche la perorazione si concludeva con l’affermazione che sarebbe bastata la temperanza dei disordinati desideri a ricondurre il sereno. Un sereno dunque, la grandezza e la magnificenza di Firenze, che è tale, per il Villani anche se nutrita, ma deve essere un episodio, di «sostanze e povertà de’ cittadini». Descritte e inventariate le entrate, il Villani era passato alle «spese ferme del Comune di Firenze e di necessità per anno»24. Una ridda di cifre, che per il Villani, figlio di un socio della compagnia di Bindo dei Cerchi e socio egli stesso della compagnia dei Peruzzi, di cui diresse la filiale di Bruges, e poi socio della compagnia dei Bonaccorsi, abituato a sentire in un bilancio la vitalità di una azienda, si traducevano in tante sollecitazioni alla sua fierezza di appartenere a una così grande città. Le cifre delle entrate, «somma di trecentomigliaia di fiorini «d’oro»25, erano già dimenticate come segno negativo per il loro servire a folli imprese, e si allineavano con le cifre delle spese, costituendo un orgoglioso bilancio: da ciò il capitolo 94 sulla «grandezza e stato e magnificenza di Firenze». Se in alcune di quelle cifre sarà la base, la verifica dei dati che calcolerà il Villani, è però dal loro complesso che nasce la commozione del nuovo discorso. Il quale, dunque, ha la sua giustificazione non già in una esigenza di completamento di rilevazioni, ma nel bisogno ormai di rappresentare il quadro definitivo di una grandezza esemplare. 54


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G. Villani, «Cronica», XI, 94

In questa rappresentazione, della quale si disperderà l’oratoria nei rivoli della nostra analisi, il primo dato della grandezza fiorentina è quello della sua popolazione attiva maschile: «troviamo diligentemente che in questi tempi avea in Firenze circa venticinquemila uomini da portare armi da quindici anni infino in settanta, tutti cittadini». Che la rilevazione sia stata diligente26, può essere confermato dal fatto che il computo matematico dell’intera popolazione, che noi possiamo fare moltiplicando gli «armabili» per il numero fisso 3,5 – numero che esprime generalmente il rapporto tra gli uomini atti alle armi, senza badare alle loro condizioni fisiche, e la popolazione27 –, coincide press’a poco con il calcolo che il Villani dirà di aver fatto della popolazione, in 90.000 bocche, «per l’avviso del pane che bisognava al continuo alla città»28. Ma la cifra di 25.000, per il 1338, ha un problematico riscontro nella diversa valutazione che lo stesso Villani ci aveva offerto nel libro VIII, cap. 39, parlando del 1300, celebrato anch’esso demograficamente: Nel detto tempo, essendo la nostra città di Firenze nel maggiore stato e più felice che mai fosse stata dappoi che ella fu redificata, o prima, sì di grandezza e potenza e sì di numero di genti, che più di trentamila cittadini avea nella cittade, e più di settantamila distrittuali d’arme avea in contado, e di nobiltà di buona cavalleria e di franco popolo e di ricchezze grandi, signoreggiando la Toscana ... 55


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Arsenio Frugoni

Il Salvemini29 interpretando la cifra di 30.000 come indicante l’intera popolazione aveva proposto per Firenze un andamento demografico cosiffatto: al tempo di Cacciaguida, poiché «tutti coloro che a quel tempo eran ivi / da portar armi, tra Marte e il Batista erano il quinto di quei che son vivi»30, attribuendo a Dante una mirabile intuizione valutativa, 6.000 persone; divenute 10.000 verso il 1200 per un elenco di 519 cittadini maschi dai 18 ai 60 anni appartenenti al sesto di S. Pancrazio (e perciò 519 x 6 x 3,50=10.000 circa)31; e poi, nel 1300 30.000 e nel 1338-9, 90.000. Ma la cifra di 30.000 sarebbe inammissibile proprio per quanto dice lo stesso Villani nel nostro cap. 94: nel 1280, quando era «la città in felice e buono stato... volea la settimana da ottocento moggia» di grano; il che significa che se la città di 90.000, nel 1338, consumava «ogni dì... centoquaranta moggia di grano», come è detto prima, Firenze nel 1280 avrebbe dovuto avere una popolazione di 75-80.000 abitanti circa32. E ancora, ci dice il Villani: Firenze nel 1338 aveva «duecento e più botteghe dell’arte della lana», e subito dopo: «da trenta anni addietro erano trecento botteghe o circa»; il che significa, nel 1308 («da trenta anni addietro» nei confronti del 1338), una situazione tutta positiva, che non riusciremo ad immaginare sbocciata sull’orlo del baratro demografico che, dopo il felice 1280, l’anno 1300 avrebbe visto aprirsi, spaventoso, nel silenzio di ogni fonte33. Il Salvemini aveva creduto di poter appoggiare la sua «progressione veramente meravigliosa» ri56


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cordando come le mura di Firenze dovettero estendersi «una prima volta nel terzultimo decennio del sec. XII, e nel penultimo decennio del sec. XIII si dové por mano a un nuovo cerchio di mura»34. Ma se consideriamo che la terza cerchia di mura, dopo l’intensa attività urbanistica a partire dai primi decenni del sec. XIII, fu sì deliberata nel 1284, ma fondata nel 1299 e finita solo nel 133335, non riusciamo a vederla, quella cerchia di mura, espressione di una vitalità espansiva prodigiosa quale si sarebbe verificata triplicandosi la popolazione tra il 1300 e il 1338, ma piuttosto testimonianza, nella sua grandezza di impostazione e nella sua lentezza di esecuzione, di una precedente espansione che aveva superato la misura del tempo della seconda cerchia e che aveva fatto sentire necessario ormai un anello che quasi quintuplicasse l’area prima murata: espansione fermatasi nel primo trecento, ché «rimase dentro assai del voto di casamenti con più orti e giardini», ci dice il Villani36. Il Salvemini non sarebbe caduto nel suo errore solo se avesse letto il passo del Villani in questione in Muratori, R.I.S, XIII, col. 364: «...più di XXXmila cittadini d’arme havea nella città e più di 70 mila distrittuali havea in contado». Non disponendo noi ancora di una edizione critica della Cronica del Villani, si potrebbe dire che una lezione vale l’altra; ma non in questo caso, dove la cifra di 30.000 perde la sua assurdità, non appena la si intenda riferita non alle bocche ma agli uomini d’armi, come appunto leggiamo nell’edizione muratoriana. 57


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Arsenio Frugoni

Ma la stessa cifra di 30.000 uomini d’arme, nel 1300, rapportata a quella di 25.000 del 1338, potrebbe suggerire che vi fu una cospicua regressione: una Firenze che dai suoi 105.000 abitanti – si ricordi il rapporto 3,5 – del 1300, si sarebbe ridotta via via nel 1338 a soli 90.000 abitanti37. Io non credo che si debbano costringere le due cifre villaniane su un piano di una rigorosamente comparativa valutazione, quasi che, perché cifre, abbiano naturalmente uno stesso impegno assertivo. Per il 1300, al traguardo cioè di una espansione quale non si era prima mai avuta, il Villani indicò 30.000 uomini d’arme con cifra esclamativamente arrotondata. Più tardi, forse a distanza di scrittura, e nell’ambito di una valutazione raccolta «diligentemente», indicò per il 1338, 25.000, e gli pareva cifra per i successori esemplare; e niente nel suo racconto di quegli anni rivela ch’egli avesse consapevolezza di una vistosa contrazione di popolazione. Si dovrà invece supporre che la cifra di 30.000, per il 1300, fosse dovuta, almeno in parte, al fatto che non essendo ancora gli abitanti dei popolosi borghi compresi dalla terza cerchia si consideravano però, di fatto e di diritto cittadini, e anzi, «fossero considerati cittadini quei parrocchiani di San Niccolò, di San Frediano, di San Piero Gattolino, ecc., che con la definitiva costruzione della terza cerchia si trovarono esclusi dalla città»?38 Avrebbe il Villani dovuto estrarre il suo numero di armati dai censimenti delle parrocchie; ma egli non ci dice nulla, di questo laborioso calcolo. Più facile, mi sembra, pensare che riferisse 58


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allora una cifra approssimativa, cifra che in un contesto di più impegnata valutazione avrebbe poi modificato, senza perciò avvertire di portare con sé l’ombra di un confronto deprimente: le sue cifre esprimono sì verità, ma nell’esattezza talora di una autentica impressione e non sempre di un dato calcolato o suggerito39. Diamogli dunque credito quando dice di aver trovato «diligentemente» che Firenze aveva nel 1338 circa venticinquemila uomini da «portare armi»; e poiché per il 1300 aveva invece affermato «che più di trentamila cittadini avea nella cittade» senza offrirci la garanzia della sua diligenza, accettiamo anche questa cifra, ma senza chiederle di darci la base per un computo dell’intera popolazione e senza pretendere che assuma il ruolo quasi di un teste di accusa incautamente convocato dal nostro Villani, che per essa voleva solo darci l’idea del «maggiore stato più felice» che mai Firenze avesse avuto prima del 1300. Alla cifra dei 25.000, s’accompagna invece, l’abbiamo già accennato, il dato dell’intera popolazione: Stimavasi di avere in Firenze da novantamila bocche fra uomini e femmine e fanciulli, per l’avviso del pane che bisognava al continuo alla città, come si potrà comprendere; [e si aggiungeva] ragionavasi avere continui nella città da millecinquecento uomini forestieri e viandanti e soldati; non contando nella somma de’ cittadini religiosi e frati e monache rinchiusi40. 59


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Mi pare di intendere che tra le bocche debbano calcolarsi i 1500 non stabilmente residenti, ma «continui» come media di presenza, se il calcolo era «per l’avviso del pane», e anche i religiosi41. Quanti allora i cittadini? Da un lato i forestieri e i religiosi, ma dall’altro gli assenti per affari42 e tutti coloro che se ne stavano con le famiglie in contado per mesi43: la somma delle bocche non poteva perciò corrispondere a quella dei cittadini. Ma il Villani tirava via; e del resto la cifra di 90.000, rotonda com’è non si guasta per qualche migliaio di più o in meno: cifra dunque soltanto orientativa, questa di 90.000 bocche44. Nel capitolo che stiamo analizzando il Villani ci dice che Firenze aveva 146 forni; ma non quanto pane vi si sfornava. Dirà più sotto invece: «Ogni dì bisognava alla città dentro centoquaranta moggia di grano, onde si può estimare quello che bisognava l’anno». Una cifra che il Villani ha trovato «per la gabella della macinatura e per li fornai», in uno sforzo preciso di documentarsi, tanto è vero che aggiunge subito quell’altro dato trovato nella stessa ricerca, e che gli serve solo per ribadire, anche senza rapportarlo a un consumo quotidiano, il «felice e buono stato» della Firenze del 1338: «troviamo nell’anno 1280, che era la città in felice e buono stato, che volea la settimana da ottocento moggia». Una media quel consumo giornaliero di grano? Il Villani invitava ad immaginare la montagna che quella cifra comportava per un anno, 60


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enorme anche se doveva essere diminuita, avvertiva subito, per il fatto che molte famiglie cittadine vivevano per mesi interi in contado. Avrà rilevato dunque il Villani il consumo annuo e ricavato il consumo giornaliero, con una correzione per le famiglie in contado, o più semplicemente avrà buttato lì una media approssimativa dei dati giornalieri trovati nei registri delle gabelle? L’andamento del discorso potrebbe far supporre che le cose fossero andate in questo secondo modo. E però quella cifra ci permette una qualche verifica del calcolo delle 90.000 bocche, tenendo presente che uno staio di grano al mese per bocca è la misura convenzionale, solita, e a volte superata quando si calcola uno staio non di grano ma di farina45. Un moggio corrisponde a 24 staia (uno staio fiorentino, l. 24,313); dunque 140 volte 24 staia, per 30 giorni, il risultato dà 100.800 bocche. Il Villani avrà forse valutato che i suoi fiorentini mangiavano di più dei 650 grammi di pane che uno staio di grano al mese avrebbe press’a poco comportato: 712 grammi pro die, secondo il calcolo del Fiumi46, che però, a questo proposito, si cimenta in una serie di precisazioni sui vari consumi di cereali – con verifiche, diciamo, sorprendenti, nel paragone dei consumi odierni –, che se offrono una raccolta di dati e notizie interessanti la vita medievale, non giovano però a rendere più di tanto persuasivo il calcolo del Villani, fatto, ripeto, solo per cifre orientative. Dunque nel 1338, 90.000 abitanti «per l’avviso del pane». Se il Villani avrà fatto un calcolo anche 61


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per il 1280, sarà potuto approdare a una cifra pari a 82.000 abitanti, o qualcosa di meno, se avrà, come per il 1338, calcato sulla misura del consumo fiorentino. Ma qui preme sottolineare, oltre all’espansione demografica avvertita come sicura nello scorcio del XIII secolo, che la valutazione delle 90.000 bocche è il dato che costituisce per il Villani il punto di riferimento per le successive affermazioni sulla consistenza della popolazione fiorentina che si farà a proposito degli anni seguenti: non certo i 30.000 cittadini, d’arme, vantati per il 1300. Tanto è vero che il Villani, trattando della grande pestilenza del 1340, dirà: e morinne più che ‘l sesto de’ cittadini, pure de’ migliori e più cari, maschi e femmine, che non rimase famiglia ch’alcuno non ne morisse, o dove due o tre o più... e più di quindicimila corpi tra maschi e femmine e fanciulli se ne seppellirono pure nella città, onde la città era tutta piena di pianto e di dolore, e non s’intendea appena ad altro che a seppellire morti47.

Un sesto, 15.000, dunque una popolazione di 90.000. Ed è perciò illegittimo adoperare uno solo di questi dati, cioè 15.000 morti, come fece il Rodolico, per inseguire una diversa valutazione della popolazione fiorentina calcolata sul numero dei battezzati di S. Giovanni, come diremo più avanti, in 125.000 persone48; ché 15.000 è un dato inseparabile da quello del sesto dell’intera popolazione. 62


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Nel 1338, 90.000, nel 1340, 75.000. Nella pagina sulla spaventosa carestia del 1346-749, il Villani ci ragguaglia sulla quantità di grano di cui fu possibile disporre nell’annata di fame: 26.000 moggia di grano, il che sarebbe stato bastevole, secondo il nostro matematico calcolo di uno staio mensile a testa, per dar pane a 52.000 persone. E invece trovassi in mezzo aprile nel 1347 che da novantaquattromila di bocche erano che n’avevano da dispensare per dì; e di questo sapemmo il vero dal mastro uficiale della piazza, che ricevea le scritte e polizze. Onde potete avvisare chi sa arbitrare come innumerabile popolo era ritratto per la carestia in Firenze a pascersi, e nel detto numero non v’erano i cittadini né loro famiglie ch’erano forniti, e non voleano pane di Comune, o comperavano dal migliore pane alla piazza e a’ forni danari otto l’uno... e non contando i religiosi mendicanti e i poveri che viveano di limosine, che erano senza numero, perocché di tutte le terre circostanti erano per lo caro ch’aveano accomiatati e ridotti in Firenze, ond’era una continova battaglia quella de’ poveri e di dì e di notte co’ cittadini.

E il Rodolico, anche qui, sulla base delle affermazioni di Giovanni di Pagolo Morelli (13711444), autore di Ricordi, scritti a blocchi successivi dal 1393 al 1491, che aveva valutato così quella lontana carestia: «credo non era nel centinaio venti che avessono pane o biada alcuna e quelli cotanti n’aveano poco»50, vedeva ribadito 63


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il suo calcolo dei 125.000 abitanti del 1338 – ma almeno ridotti a 110.000 dalla peste del 1340! – per le 94.000 bocche sfamate dal Comune, più il quinto che poteva fare a meno del pane del Comune e che, con i suoi laboriosi conteggi valutava, tra famiglie di grandi e di maestri delle arti, intorno a 25.800 persone51. Ma noi dobbiamo accogliere la cifra del Villani come quella che vuole indicare il più eccezionale concentramento, nel punto culminante della crisi che aveva svuotato la campagna affamata e aveva fatto riversare in città innumerabile popolo a consumarvi le scorte e le importazioni di grano del Comune52. Innumerabile, nei confronti dei 75.000 abitanti villaniani sopravvissuti nel 1340. E la crisi aveva moltiplicato i poveri di Firenze: che nel 1330 avevano beneficiato di una speciale elemosina in numero di 17.000 «tra maschi e femmine, piccoli e grandi, senza i poveri vergognosi e quegli degli spedali e pregioni e religiosi mendicanti... che furono più di quattromila», un numero enorme, che però il Villani giustificava avvertendo che «non solamente furono di Firenze, ma per le limosine che vi si fanno, traggono di tutta Toscana e più di lungi a Firenze»53. E in questo quadro giova sottolineare come le file di poveri del 1330, e quelle, più straordinarie del 1346-47, non siano tentazione per il Villani per sfumare la «grandezza» del Comune di Firenze, ma argomento semmai per esaltare le liberalissime elemosine. Come il grande peccatore è glorificazione della immensa misericordia divina. 64


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Concentrazione dunque eccezionale, quella dei mesi cruciali della carestia. E infatti, a proposito della pestilenza che seguì la carestia, e «durò fino al novembre del 1347, colpendo spezialimente in femmine e fanciulli, il più in povere genti»54, ecco il calcolo del Villani allinearsi con le solite cifre: «Arbitrando al grosso, ch’altrimenti non si può sapere in tanta città quant’è Firenze» – ed è confessione che poteva valere anche per la peste del 1340 – «ma in digrosso si stimò che morissono in questo tempo più di quattromila persone il più femmine e fanciulli: morirono bene di venti l’uno». Dunque nel 1340 un sesto pari a 15.000, e i 90.000 abitanti si erano ridotti a 75.000; nel 1347 la popolazione intorno a 80.000 era stata distrutta per un ventesimo, pari a 4.000, «arbitrando al grosso». Come avrebbe valutato il Villani lo sterminio del 1348? Purtroppo non gli fu dato di raccontarlo, ché ne fu vittima. Il Boccaccio diceva che «oltre a cento mila creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti»55. Giovanni di Pagolo Morelli, che aveva presente anche il quadro del Boccaccio, valutava lo scempio a «due terzi delle persone», ché «era stimato in Firenze avesse in quel tempo 120.000 anime che ne morirono, cioè de’ corpi, ottantamila»56; e il cronista Marchionne di Coppo Stefani, che scrisse la sua cronaca tra il 1378 e il 1385, ricordava che fu «fatto ordine in Firenze per lo Vescovo e gli Signori che si vedesse solennemente quanti sì moriano nella città di Firenze» 65


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e «si trovarono tra maschi e femmine, piccoli e grandi, dal marzo infino all’ottobre v’era morti novantaseimila»57. È chiaro che queste cifre non si possono assolutamente allineare con quelle date dal nostro Villani. Il continuatore della sua cronaca, il fratello Matteo, ricordando quella peste valutava che erano morti «tra nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre»58. Se si riferiva ai 76.000 abitanti sopravvissuti alla peste del 1347 secondo la valutazione approssimativa di Giovanni, poteva calcolare che erano scomparse 45.600 persone e ne erano rimaste 30.400. Tutte queste cifre, al di là della precisazione numerica, rappresentano anche una interpretazione, direi, della storia fiorentina: l’impressione che la consistenza demografica di Firenze della prima metà del 300 era stata colpita con una violenza tremenda dalla grande peste del 134859 e che per essa la popolazione non era più risalita alla grandezza antica. Qualche dato, per la seconda metà del sec. XIV soccorre per le ricerche d’archivio: sia per i cosiddetti libri della Sega degli anni 1352 e 1355, sia per gli estimi del 1379 e del 138060. Per l’estimo del 1380 – la Sega è una prestanza forzosa e perciò non completa nel numero che dà dei fuochi cittadini61 – sappiamo che Firenze aveva 13.074 fuochi e 54.747 bocche, con un rapporto di 4,1962. È evidente dunque che, dopo la peste del 1348 ci fu un ricupero demografico, sia tenendo presenti i calcoli sui dati del Villani (30.400), sia la valutazione del Morelli (40.000), ricupero più o meno consi66


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stente, e però tale da non ricostituire il valore della popolazione prima della peste. Una qualche rispondenza poi tra i 90.000 abitanti del 1338 e dopo il calo, per la carestia e le pesti, i 54.747 del 1380 ci è offerta dalle cifre del contado. Nel 1338, ci dice il Villani63 «ragionavasi avere in questi tempi nel contado e distretto di Firenze da ottanta mila uomini» cioè 280.000 bocche (il solito rapporto 3,5). Negli estimi pervenutici negli anni 1375 e 1384 i fuochi risultavano 30.110 e 30.01264, il ché significa una popolazione, se quattro anime per fuoco, nel 1375 sui 120.000, se cinque, sui 150.000. Al Fiumi, nel quadro della sua tesi, di una lenta e continua regressione demografica dai primi anni del Trecento, dove lo sterminio della peste risultava minimizzato, faceva difficoltà questa enorme riduzione della popolzione del contado e si sforzava di spiegare l’«errore» del Villani per il 1338 (e per il 1300, quando aveva affermato che Firenze più di settantamila distrittuali avea in contado65): «o il cronista ha ecceduto – nella cifra di 80.000 –, o la circoscrizione territoriale sulla quale i Fiorentini facevano assegnamento per trarne gli uomini d’arme era più vasta del territorio sottoposto all’estimo e considerato strettamente contado»66. C’era infatti, a provare l’errore, l’estimo del 134367, che indicava 22.599 fuochi nel contado (90.346-112.995 abitanti, a seconda che si calcoli quattro o cinque anime per fuoco): dunque né la peste del 1340, che rapì in città un sesto degli abitanti, ma «in contado non 67


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fu sì grande la mortalità»68, poteva avere ridotto quasi a un terzo la popolazione del contado, né, dopo il 1343, la carestia del 1346-7 e la peste del 1347 e del 1348 potevano essere responsabili di un tale scempio; e anzi l’estimo del contado del 1350 indicava 31.386 fuochi, un aumento dunque di nuclei famigliari, a smentire l’impressionante mortalità generalmente attribuita, anche nelle campagne, alla famosa pestilenza69. Ma il documento statistico del 1343, che era stato pubblicato da P. Ildefonso in Delizie degli eruditi toscani, XIII, p. 207, riguardava invece un anno intorno al 1470, come doveva lo stesso Fiumi ammettere in altro lavoro70, e però cercando di minimizzare lo sconquasso che ne derivava71. E perciò ecco la sequenza delle cifre, ovviamente senza alcuna perentorietà scientifica nei dati cronistici, e neppure, per le infinite perplessità sulla completezza e la modalità delle rilevazioni, nei dati archivistici, che potremmo suggerire: Città: 1338, 90.000; per la peste del 1348, 30.400; nel 1380, 54.747. Contado: 1338, 280.000; 1350, 126.544-156.930 (31.386 fuochi); nel 1375, 120.440-150.550 (30.110 fuochi). Dunque la popolazione cittadina, da 90.000 nel 1338 si sarebbe ridotta a un terzo, dopo la serie di sciagure sigillate dalla grande peste del 1348, per avere poi un ricupero, che 30 anni dopo la porta a un po’ più della metà della popolazione tra il 1300 e il 1338. La popolazione del contado, verso il 1375-84 sarebbe stata anch’essa circa la metà della popolazione del 1338. Ma con questa diver68


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sità: la peste forse non vi aveva inciso così violentemente come in città. E però i 31.386 fuochi del 1350 erano diventati nel 1384, 30.012: dunque non un ricupero, come in città, ma piuttosto forse un fenomeno di inurbamento, ad alimentare quel pur modesto ricupero cittadino. Il contado anche al tempo del censimento ordinato nel 1551 da Cosimo I, nei limiti del territorio al quale si riportano gli estimi del sec. XIV, e malgrado il decantato incremento delle popolazioni rurali, conterà ancora soltanto 38.053 fuochi (220.401 bocche)72 – la città, 59.023 abitanti. In questo quadro tanto, tanto approssimativo, nell’accostamento di cifre-impressioni e di cifre, la continua e lenta regressione demografica che il Fiumi credeva di poter dimostrare sulla scorta del Villani, a partire dal 1300, riducendo perciò l’importanza dello scoscendimento del quarto decennio, non ha appigli di dati. La grande frana è la peste del 1348. Preceduta certo da un tempo non più caratterizzato, come la seconda metà del sec. XIII, da una esplosione demografica, ma piuttosto da una situazione stabilizzata, nella quale non erano certo le premesse per un ricupero gagliardo e sicuro, dopo la mutilazione immane del 1348 – e invece era sì in corso, anche senza accompagnarsi alla improvabile regressione demografica, una profonda crisi politica ed economica73. La magnificenza di Firenze cantata dal Villani appare infatti la splendida conclusione, nei prodighi consumi, piuttosto che il dinamico creativo evolversi di una età. E il conservatorismo del Vil69


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lani, e di chi la pensava come lui, poteva avere in seno anche un’intermittente apprensione per quella grandezza, raggiunta e che imprese disordinate potevano compromettere, un bisogno di sicurezza che preferiva, per l’oggi, l’ieri, e rifiutava il domani, il senso, in una parola, che il «montare» aveva raggiunto la sua vetta e non era più il caso di affidarsi a chi poteva offrire solo avventure. Ma magnificenza vera, quella di Firenze, e che poteva sperare di trovare degno paragone nella Firenze dei successori, per i quali il Villani andava appunto tratteggiando l’immagine esemplare. Perciò è inutile cercare nella sua pagina la documentazione di una decadenza, se pure nei limiti di una regressione demografica. Se le cifre dei cronisti hanno di solito una tendenza esclamativa, nelle cifre del Villani potremo sì trovare lo scrupolo di una più precisa informazione, ma dovremo sempre tenere presente la tentazione, per la sua Firenze, celebrativa. E in questa disposizione d’animo giustificare, in qualche caso, l’esagerazione o la mancanza di un realistico controllo. A proposito, ad esempio, del numero dei battezzati: «Troviamo dal piovano che battezzava i fanciulli (imperocchè ogni maschio che si battezzava in San Giovanni, per averne il novero metteva una fava nera, e per ogni femmina una fava bianca) che erano l’anno in questi tempi dalle cinquantacinque alla sessanta centinaia, avanzando più il sesso mascolino che ‘l femminino da trecento in cinquecento per anno74. 70


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Dunque il piovano affermava che i battesimi, che venivano di solito impartiti il Sabato Santo e la vigilia di Pentecoste in San Giovanni, non nel 1338, ma in una serie di anni, ché egli dà una media, oscillavano tra i 5500 e i 6000. La cifra autorizzerebbe i più abbondanti calcoli sulla popolazione. I battezzati di San Giovanni erano ovviamente meno dei nati, che l’estate soprattutto soleva falcidiare. E però, anche eguagliando nati e battezzati, avremmo su una popolazione di 90.000 abitanti un tasso di natalità del 64 e mezzo per mille! Il prolificissimo Guatemala vanta una delle punte del mondo, un tasso del 48,8 per mille75 – l’Italia, 17,5 per mille. Ma il Rodolico, che voleva dimostrare che la popolazione di Firenze era stata di 125.000 persone, proponeva come punto di riferimento certi quartieri operai e poveri di grande città, come Berlino, Napoli, e trovava così tassi del 57,2 a Berlino (1894-6) e del 49,8 a Napoli (1881)76. Più sensato sarà raccogliere il panorama di cifre offerte dal Beloch, nella sua Bevölkerungsgeschichte Italiens (Berlin 1939): se possiamo così stabilire un tasso fino al 40 per mille, abbiamo una base per calcolare che i battezzati di San Giovanni sarebbero dovuti risultare da una popolazione dai 137.500 (5500 battezzati) ai 150.000 (6000 battezzati) – di 127.777 abitanti, secondo il tasso del 45 per mille che il Rodolico invece proponeva77. I 90.000 abitanti del Villani avrebbero dato, per un tasso del 40 per mille, solo 3600 bambini. Che ha mai dunque trovato il Villani dal pio71


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vano? Il Fiumi, per tentare di salvarlo, o meglio per dare ragione della vistosa contraddizione, sottolineava anzitutto il numero straordinario dei fuochi (1643, nel 1343 – ma il documento è, come si è detto, posteriore di più di un secolo – appartenenti al piviere di San Giovanni e però compresi nell’estimo di contado, e il fatto dei nobili cittadini residenti in contado ed esclusi dai ruoli dell’estimo, e di quei diocesani che pure non appartenendo al piviere di San Giovanni avrebbero portato i propri figli per devozione o più probabilmente con la mira di abilitarli all’ascrizione della cittadinanza fiorentina al bel San Giovanni78. Questa ultima considerazione darebbe perfino ragione della prevalenza dei maschi, che indicherebbe – oh piovano, piovano, che non sapevi queste cose! – un rapporto di 111 maschi (quando 300) o di 120 (quando 500) su 100 femmine, a differenza del rapporto che natura vuole e scienza ora registra di 105-679. Ma appartenenza di comitatini al piviere di San Giovanni, devozione o calcolo della «numerosa schiera di diocesani», non permettono di avvicinarci a quei 5500-6000 che il piovano avrebbe battezzato in media ogni anno. E allora? Il Villani ebbe certo le cifre dal piovano, e la sua curiosità di cronista gli fece accogliere perfino il dato del sesso mascolino avanzante il femmino. Ma non calcolò o non seppe calcolare se coerenti con la cifra di 90.000 bocche che gli risultavano «per l’avviso del pane» – in quest’ambito i calcoli gli erano ben più famigliari, per il computo delle ga72


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belle. E ce la riferì, sentendola certo una cifra rilevante, indice anch’essa della grandezza della sua Firenze. Non si pose il problema se credere più al numero che gli risultava dai registri delle gabelle, o a quello delle fave del piovano, veri perciò l’uno e l’altro. E lo storico oggi non può costringere quei numeri, diventati per scienza sua inconciliabili, a far lega. E più straordinari sono ancora i numeri che il Villani ci dà relativamente alla popolazione scolastica: «troviamo ch’e’ fanciulli e fanciulle che stanno a leggere, da otto a dieci mila. I fanciulli che stanno ad imparare l’abbaco e algorismo in sei scuole, dal mille in milledugento. E quegli che stanno ad apprendere la grammatica e loica in quattro grandi scuole, da cinquecentocinquanta in seicento»80. Basta un confronto: nel 1863-4 a Firenze, su una popolazione di 116.637 abitanti, gli alunni delle scuole elementari erano 4627, quasi il 4%, uno scolaro su 24,2 abitanti. Nel 1338, se la scuola fosse stata in analoga situazione, la popolazione fiorentina si sarebbe dovuta aggirare sui 227.000 abitanti! A meno che l’analfabetismo sia un fatto tutto moderno, e che Paolo di Certaldo fosse fuori del suo tempo, quando consigliava «e s’el’è fanciulla femmina, polla a te chuscire, e none a legiere, ché non istà troppo bene a una femmina saper legiere, se già no la volessi fare monaca»81. Ma il Fiumi allentava qui la sua sorvegliatissima esegesi dei dati del Villani, pur confessando che «quella frequenza scolastica risulta così straordinaria da sembrare quasi 73


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impossibile», e si sforzava di far tacere la tentazione scettica come «inopportuna», in una considerazione tutta mitica dell’amore della cultura che doveva aver presieduto all’età di Dante, di Petrarca e Boccaccio82. Ma se si considera una popolazione nel 1338 di 90.000 abitanti, e la cifra è accettata dal Fiumi, una popolazione scolastica di 3600 (4%) è cifra che non può assolutamente accostarsi alla media di 9.000 scolaretti che sarebbero stati compagnucci di Filippo Villani. Dunque, nonostante il «troviamo» e le cifre presentate come medie – ma il «da... a» vorrà dire piuttosto «press’a poco» ? – e riassuntive di situazioni perfino settorialmente distinte, dovremo concludere che il Villani ha avuto informazioni sbagliatissime, e non è stato in grado di valutarne l’inverosimiglianza. Le offriva invece ad esempio per i successori, ma anche serenamente alla verifica dei suoi contemporanei, in buona fede, con quel suo scrupolo di zelante trascrittore di una realtà tutta creduta, se pur magnificata, con quel suo senso di responsabilità e di dignità, che vuole avere il suo confronto, per ferma vocazione, nella storia degli antichi, «tutto sì come discepolo non fussi degno a tanta opera fare»83. Ma se la panoramica che il Villani presenta della vita cittadina, in settori dove la sua esperienza meno lo soccorra, può essere falsa, per cifre decisamente favolose, nel campo economico il suo discorso ha misura; semmai solo con un compiaciuto arrotondamento. Abbiamo detto del grano: nel capitolo 92, del libro XI, sull’«en74


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trata ch’avea il Comune di Firenze in questi tempi», aveva notato fra le tante gabelle «levate per noi diligentemente de’ registri del Comune», «le gabelle delle porte di mercatanzia e vittualia e cose ch’entravano e uscivano dalla città, fiorini novantamiladugento...; la gabella del «vino a minuto cinquattontomilatrecento e più». Il Comune segnava l’entrata che era frutto più spesso non di una gestione in economia, poiché il dazio veniva riscosso dalla società finanziaria che si fosse aggiudicato l’appalto per un anno o per un quinquennio attraverso una pubblica gara, scandita, dopo un prezzo base per la prima offerta, da successivi bandi che rendevano di pubblica ragione via via le «oblationes»84. È ovvio che, per concludere con un bilancio positivo, la società doveva calcolare, oltre la cifra da versare al Comune, e le spese di gestione, il presumibile ricavato dal dazio, rapportandolo all’andamento agricolo dell’annata o delle annate e al consumo medio dei cittadini. Dati concreti, ché ci andava di mezzo il danaro dei banchi privati. E dovremmo cancellare la capacità professionale del Villani, e non solo la sua vocazione di scrupoloso cronista, se dovessimo concludere che il nostro uomo di banco, diligente nel sommare le gabelle dei registri del Comune, non pensò a procurarsi notizie precise sui consumi. «Troviamo per la gabella delle porte ch’entrava l’anno in Firenze da cinquantacinque migliaia di cogna di vino, e quando n’era abbondanza circa diecimila cogna di più»85. Vino, ma per le società appaltatrici, de75


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naro, da valutarsi in un attento bilancio. E quindi per noi ancora la possibilità di una qualche verifica del numero dei Fiorentini. Un cogno (l. 406,8) corrispondeva a dieci barili e un barile a venti fiaschi. Firenze avrebbe importato hl. 223.740 di vino e negli anni di abbondanza di produzione hl. 264.420. Cioè negli anni normali, il consumo sarebbe stato pro capite, se 90.000 i fiorentini, di l. 248 all’anno. Quasi due volte e mezzo il consumo italiano odierno? Ma il vino, allora, era il nutrimento e il grande divertimento, e un mazzetto di testimonianze raccolte dal benemerito Fiumi86 si allinea agevolmente ai dati del Villani. Ancora, nel capitolo citato dell’«entrata»: «Le gabelle delle bestie e del macello della città valeva l’anno fiorini quindicimila d’oro; quella del macello del contado, quattromilaquattrocento d’oro... I mercati della città delle bestie vive valevano fiorini duemila d’oro»87. Su questo sfondo di rilevazioni ecco l’altra notizia: «Bisognava l’anno nella città tra buoi e vitelle circa quattromila; castroni e pecore sessantamila; capri e becchi ventimila; porci trentamila»88. Non è facile tradurre in media di consumo, come per il vino, quella fiumana di bestie, ché, se non altro, ci manca il rapporto fra buoi e vitelli. Ma sempre il Fiumi89, con una serie di considerazioni anche persuasive, ha tentato un suo calcolo, che si è concluso nella cifra di Kg. 3.480.000, qualcosa come un 38,7 chili a testa ogni anno, per i 90.000 Fiorentini. Una cifra che quasi corrisponde a quella, fiorentina, del 1809-12, di Kg. 76


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35,6, e del 1931, di Kg. 36,5 (ovviamente qui risulterà ridotta la percentuale della carne ovina e suina, a vantaggio della bovina), e, fatto estremamente interessante, a quella che per il sec. XIV calcolò, in base alle gabelle delle carni, il FallettiFossati per Siena, di Kg. 4090. Tutta una serie dunque di valutazioni, nel campo economico, che ci riconciliano con il nostro cronista mercante e ci mostrano come, se non seppe valutare e controllare le cifre dei battezzati o quella della popolazione scolastica, per le voci invece che avevano traduzione economica, in registri di gabelle e in buoni fiorini, il suo giudizio avesse miglior orientamento. Solo W. Sombart, proprio per quando il Villani raccontava delle 100.000 pezze di lana del 1308, credette di poter dimostrare che, poiché tutta la lana importata dall’Inghilterra in Italia verso la fine del sec. XIII non sarebbe bastata se non per 12.000 pezze all’anno, dunque il fiorentino aveva evidentemente sparato grosso91. Ma il Villani aveva detto, precisamente: Le botteghe dell’arte della lana erano [1338] dugento o più, e faceano da settanta in ottantamila panni, che valeano da uno milione e dugento migliaia di fiorini d’oro; che bene il terzo più rimaneva nella terra per ovraggio senza il guadagno de’ lanaiuoli del detto ovraggio, e viveanne più di trentamila persone; [e aveva aggiunto] ben troviamo che da trenta anni addietro erano trecento botteghe o circa, e facevano per anno più di cento migliaia di panni; ma erano più grossi e 77


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della metà valuta, perocché allora non ci entrava e non sapeano lane d’Inghilterra, come hanno fatto poi92.

Dunque, se lana inglese nel 1308 «non ci entrava», non conta la stima, se pur fosse corretta, del Sombart, per discutere le 100.000 pezze del Villani. Ma gioverà riprendere le cifre sopra ricordate, che ribadiscono l’errore del Salvemini, per negare che quelle 200 botteghe del 1338, ch’erano 300 nel 1308, possano valere come una riconferma della regressione della popolazione fiorentina; 105.000 nel 1300, 90.000 nel 1338, aveva proposto, si è detto, il Fiumi. Il discorso del Villani non deve e non può offrire questa prospettiva, ché il maggior numero delle botteghe e la maggiore produzione di panni, più grossi, non testimonia affatto una più grande popolazione, ma solo una diversa organizzazione di lavoro93, che non è detto affatto riguardasse un minor numero di persone, se il Villani commenta la fioritura del 1338 con la cifra esclamativa di 30.000 persone. Un quadro di fioritura dunque è quello che il Villani vuol consegnare, esempio e paragone, ai successori. Certo noi possiamo, nelle pagine della Cronica, cogliere taluni segni di una diversa realtà e perfino momenti di dubbio, di apprensione – ne abbiamo dato testimonianza. Ma il nostro capitolo è solo l’elogio della grandezza del Comune di Firenze. In quell’elogio abbiamo riscontrato elementi valutati con più sicura esperienza, altri 78


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con più approssimativa scienza, ma tutti concordi, celebrativi; con un loro alone di magnificenza. Ma cifre e non aggettivi, per l’elogio di Firenze. Il che ci sembra di poter collocare non nella storia o nella preistoria della Statistica, ma piuttosto, direi, nel cielo dell’epopea mercantile. Note

Citerò sempre dall’edizione: Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani secondo le migliori stampe, Trieste 1857. 2 Così F. CHABOD, nella sua nota La «concezione del mondo» di Giovanni Villani, recensione al volume di E. MEHL, Die Weltanschauung des Giovanni Villani, Lipsia 1927, in Nuova Rivista Storica, XIII (1929), p. 338. 3 Cron., VIII, 36. Si veda, per questo momento del Villani, quanto è detto nel mio saggio: Il Giubileo di Bonifacio VIII, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 62 (1950), pp. 105-6. 4 CHABOD, rec. cit., p. 337. 5 Cron., XI, 91 6 CHABOD, rec. cit., p. 337. 7 Cron., XI, 92. 8 CHABOD, rec. cit., p. 338. 9 Cron., XI, 44. 10 Cron., XI, 45. 11 Cron., XI, 50. 12 Cron., XI, 51. 13 Cron., XI, 52. 14 Cron., XI, 66. 15 Cron., XI, 5; e così anche XI, 64. 16 Cron., XI, 88. 17 Cron., XI,70. 1

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Cron., XI, 118. Cron., XI, 118. 20 Cron., XI, 118. 21 Cron., VIII, 36. 22 Cron., XI, 68. 23 Cron., XI, 67. 24 Cron., XI, 93. 25 Cron., XI, 92. 26 «In città – osservava E. FIUMI, in La demografia fiorentina nelle pagine di Giovanni Villani, in Archivio Storico Italiano, 1950, p. 105 – non scarseggiano esempi di accurate rilevazioni, alle quali non è improbabile che ser Giovanni avesse attinto: «quod eligantur homines in qualibet canonica et duo in qualibet cappella civitatis Florentie, qui faciant cinquantinam hominum, a. .XV. annis supra et a. .LXX. annis infra; civitatis, burgorum et subburgorum in quibus non mictant absentes, sed eos divisim ab aliis reducant in scriptis») Cfr. Consulte della Repubblica fiorentina, ed. da A. Gherardi, Firenze 1897, I, 242 [anno 1285]. 27 FIUMI, La demografia..., art. cit., p. 87; che ricorda come nel censimento del 1936 il rapporto fu di 3,26; ma si dovrà tener presente la diminuita mortalità soprattutto prima del limite d’anni degli «uomini d’arme». 28 E. FIUMI, Fioritura e decadenza dell’economia fiorentina, in Archivio Storico Italiano, 1958, p. 465: «...questo è importante, perché, se per censimento era conosciuto il numero degli uomini d’arme dai 15 ai 70 anni, é «dubbio che si conoscesse il rapporto matematico tra costoro e la popolazione «totale». 29 G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Torino 1960, pp. 49-50 (la prima edizione, è noto, è del 1899). 30 DANTE, Par., XIV, 46-48 – e avrebbe potuto ricordare come Dante avesse ribadito il suo «calcolo» in Par., XVI, 71-2: «...e molte volte taglia / più e meglio una che le cinque spade». 18 19

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G. Villani, «Cronica», XI, 94 31 Ma in verità non sappiamo se questo elenco è completo: cfr. P. SANTINI, Studi sull’antica costituzione del Comune di Firenze, in Archivio Storico Italiano, 1900, p. 328. Né è possibile delimitare nei rapporti tra città e suburbio la estensione territoriale alla quale il documento si riferisce: cfr. E. FIUMI, Fioritura..., art. cit., p. 463. 32 P. BATTARA nell’art. Le indagini congetturali sulla popolazione di Firenze fino al 1300, in Archivio Storico Italiano, 1935, pp. 226-27, credette di risolvere l’evidente contraddizione tra la cifra di 30.000, che intende, come il Salvemini, come bocche, e le troppe bocche del 1280, richiamando disposizioni del Comune in materia frumentaria, per affermare che il calcolo del 1280 riguardava città e contado insieme. Ma, osservava il Fiumi (in La demografia... cit. pp. 81-2), le disposizioni inserite nello statuto del Capitano e nello «statutum bladi» degli anni 1322-5 – e non è detto che fossero operanti nel 1280 e nel 1300 – dicono che tutto il grano portato in Firenze dai mercanti doveva essere venduto in Orsanmichele, e non già che tutti, cittadini e distrettuali, fossero tenuti ad acquistare il grano sul mercato di Orsanmichele. 33 L’errore del Salvemini fu subito avvertito da N. RODOLICO nella recensione a Magnati e Popolani, in Archivio Storico Italiano, 1900, p. 108, parendogli proponibile non una triplicazione, nel 1338, ma semmai una duplicazione della popolazione del 1300, e poi nell’art. Note statistiche sulla popolazione fiorentina del XIV secolo, in Archivio Storico Italiano, 1902, pp. 243 sgg., calcolando in 80.000 circa la popolazione del 1300 e in 125.000 la popolazione del 1338. 34 SALVEMINI, op. cit., p. 50. 35 Il Villani ricorda queste mura «diligentemente misurate ad istanzia di noi autore, essendo per lo Comune ufficiale sopra le mura» in Cron., IX, 256. 36 Cron., IX, 257; «il ritmo dell’espansione subur-

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bano » – scrive il FIUMI, Fioritura..., cit., p. 460 – «non fu, dopo il 1285, cosi gagliardo come la esperienza del recente passato aveva lasciato prevedere». 37 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., p. 106; ma in Fioritura..., cit., p. 465, pure affermando che la crisi demografica non deve avere il suo punto di partenza dalla peste del 1348, e che invece «il processo di regressione demografica era già in atto all’insorgere di quella», riduce, evidentemente per una inevitabile impressione di eccessiva regressione, la cifra di 105.000 a 95.000. 38 FIUMI, La demografia..., cit., p. 85. 39 E perciò trovo curiosa l’accusa di «superficialità», «frutto di una osservazione personale, ristretta ad un limitato numero di casi», che gli muove il FIUMI (La demografia, cit. pp. 103-4). Certo, quando il Villani dice che per la pestilenza del 1340 morì «più che il sesto de’ cittadini», e precisa «e più di quindicimila corpi tra maschi e femmine e fanciulli se ne seppellirono pure nella città» (Cron., XI, 114), questo numero si aggiusta bene con la popolazione che nel 1338-9 aveva calcolato di 90.000 bocche; ma solo matematicamente egli è erroneo, e non già come storico e teste sconvolto dall’immane moria, quando dice «non rimase famiglia ch’alcuno non ne morisse o dove due e dove tre o più», ché nell’indicare quei vuoti che colpiscono ogni famiglia non vuole essere coerente con la cifra dei 15.000, in un rapporto fuochi-popolazione, ma esprimere la generale desolazione. 40 Cron., XI, 94. 41 Il VILLANI calcolava (Cron., XI, 94) 500 monache, 300 monaci, 300 Cappellani, ma non dava il numero dei preti e dei presenti in dieci regole di frati. 42 Cron., XI, 94. «Erano trecento e più quegli ch’andavano fuori di Firenze a negoziare». 43 Cron., XI, 94: «la maggior parte de’ ricchi e nobili e agiati cittadini con loro famiglie stavano quattro mesi l’anno in contado e tali più». 82


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G. Villani, «Cronica», XI, 94 44 Sarei curioso di sapere per quale strada e calcoli il FIUMI, nell’art. Economia e vita privata dei fiorentini nelle rilevazioni statistiche di Giovanni Villani, in Archivio Storico Italiano, 1953, p. 208, poteva affermare: «agli effetti dei consumi saremo potuti giungere, tenendo conto di un maggior afflusso per le festività, a 92.000 bocche». 45 Cfr. FIUMI, Economia..., cit., pp. 208 sgg. 46 FIUMI, Economia..., art. cit., p. 211. 47 Cron., XI, 114. 48 RODOLICO, Note e statistiche..., cit., p. 252. 49 Cron., XII, 73. 50 Nell’edizione a cura di V. BRANCA, Firenze 1956, p. 291. 51 RODOLICO, Note e statistiche..., cit., pp. 252. 52 Si veda F. CARABELLESE, Le condizioni dei poveri a Firenze nel sec. XIV, in Rivista Storica Italiana, 1895, fasc. 3, pp. 406 sgg. 53 Cron., X, 165. 54 Cron., XII, 84. 55 BOCCACCIO, Decameron, ed. V. BRANCA, Firenze 1951, vol. I, pp. 25-6. Una cifra favolosa che dobbiamo imputare solo alla sua musa letteraria, ché egli scrivendo il suo proemio al Decameron pochissimi anni dopo la peste avrebbe potuto offrirci una più esatta impressione, se allo sterminio di Firenze avesse badato, e non al «seculum in antiquum redactum silentium» descritto da PAOLO DIACONO nella sua Historia Langobardorum, L. II, cap. 4. 56 GIOVANNI DI PAGOLO MORELLI, Ricordi, cit., p. 291. 57 MARCHIONNE DI COPPO STEFANI, Cronaca fiorentina, in RIS2, XXX, I, p. 232. 58 Cron., I, 2. 59 Non è il caso di riprendere qui il problema della reale grandezza di questa peste, per la quale, nonostante la molta letteratura, le valutazioni sono ancora tutt’altro che concordi, come risulta se non altro dal

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rapporto di C. CIPOLLA, I. DHONDT, M. POSTAN, PH. WOLFF, presentato e discusso nel IX Congresso Internazionale di Scienze Storiche, sezione I, Antropologia e demografia (Parigi 1950): per la Toscana la peste avrebbe colpito i tre quarti, i quattro quinti della popolazione, o invece, secondo la comunicazione del SAPORI, che si riferiva a dati relativi al mondo mercantile, un po’ meno del 50%. (Un dato, parzialissimo, fiorentino: morirono 78 frati dei 150 di Santa Maria Novella. Si dovrà dire qui che le comunità furono particolarmente colpite, o invece che, trattandosi di frati, non mal nutriti né ammassati, la cifra non può rappresentare una media?). Si veda anche Y. RENOUARD, Conséquences et interêts démographiques de la peste noire en 1348, in Population, luglio 1948, pp. 459-66, e la relativa nota di L. FEBVRE, La peste noire de 1348, in Annales, Il, 1949, pp. 102-3, e, più recenti, E. CARPENTIER, Autour de la peste noire: famines et épidémies dans l’histoire du XIVe siècle, in Annales, XVII, 1962, pp. 1062-1092; ID., Une ville devant la peste. Orvieto et la peste noire de 1348, Paris 1962; W. M. Bowsky, The impact of the Black Death upon Sienese Government and Society, in Speculum, XXXIX, genn. 1964, pp 1-34. 60 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., pp. 106 sgg. 61 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., pp. 109. 62 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., pp. 106. 63 Cron., XI, 94. 64 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., p. 94. 65 Cron., VIII, 39. 66 FIUMI, La demografia..., cit., p. 97. 67 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., p. 87 e p. 94. 68 Cron., XI, 114. 69 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., p. 95; d’accordo con la valutazione del CARABELLESE (La peste del 1348 e le condizioni della sanità pubblica in Toscana, Rocca S. Casciano, 1897, p. 51) che calcolava un 50.000 morti tra città e contado. 84


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FIUMI, Fioritura..., cit., p. 476. Nello studio sui rapporti economici tra città e contado nell’età comunale, in Archivio Storico Italiano, 1956, p. 30, riassumeva le sue valutazioni così: «È da ritenere che prima della grande peste le proporzioni fossero le seguenti: città, 90.000» – ma e le riduzioni affermate dal Villani per l’altra peste? – «contado, circa 200.000». 72 Cfr. FIUMI, La demografia..., cit., p. 97 e p. 101. 73 Non solo fiorentina. Si vedano ad esempio le conclusioni di E. PERROY, À l’origine d’une économie contractée. Les crises du XIVe siècle, in Annales, II, 1949, pp 167-187, secondo il quale i fenomeni favorevoli si sarebbero mantenuti fino al 1330 (p. 170) «c’est dans la dècade 1335-1345 que les royaumes d’Occident passèrent, sans en avoir le moins du monde conscience, d’une économie de paix à une économie de guerre que les événements devaient rendre permanente. Ils allaient donc connaitre les dures contraintes d’une fiscalité épuisante, la réduction de la production agraire et artisanale, celle des échanges interrégionaux, la crise de crédit et l’insécurité monétaire» (p. 172). 74 Cron., XI, 94. 75 Cfr. P. GEORGE, Manuale di geografia della popolazione, Milano 1962, p. 35. 76 RODOLICO, Note e statistiche..., cit., p. 251. 77 RODOLICO, Note e statistiche..., cit., p. 252. 78 FIUMI, La demografia..., cit., p. 86. 79 BATTARA, Le indagini congetturali..., cit., p. 228. Non è il caso di richiamare qui il fenomeno della maggior mascolinità dopo guerre e epidemie, o in periodi di «population croissante», come faceva il Cipolla nella discussione del rapporto citato (vol. II, Actes, p. 41), ché di un periodo siffatto non si tratta. 80 Cron., XI, 94. 81 Il libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo, documento di vita trecentesca fiorentina, a cura di S. MORPURGO, Firenze 1921, p. XC. 70 71

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FIUMI, Economia e vita privata..., cit., pp. 240-1. Cron., VIII, 36. 84 B. BARBADORO, La finanza della repubblica fiorentina, Firenze 1929, p. 390, e, per un esempio volterrano della meccanica meticolosa e complessa della licitazione per gli appalti, E. FIUMI, Sul sistema delle vendite all’incanto, in Archivio Storico Italiano, 19456, pp. 82-9. 85 Cron., XI, 94. 86 FIUMI, Economia e vita privata..., cit., pp. 230-3. 87 Cron., XI, 92. 88 Cron., XI, 94. 89 FIUMI, Economia e vita privata..., cit., pp. 220 sgg. 90 Cfr. C. FALLETTI-FOSSATI, Costumi senesi nella seconda metà del sec. XIV, Siena 1881, p. 23. 91 W. SOMBART, Il capitalismo moderno, trad. it., Firenze 1925, p. 89; e vedi però G. LUZZATTO, Sull’attendibilità di alcune statistiche economiche medievali, in Giornale degli Economisti, 1929, fasc. 3, pp. 124 sgg.; A. SAPORI, L’attendibilità di alcune testimonianze cronistiche dell’economia medievale, in Studi di Storia economica medievale, Firenze 1940, I, p.131 e E. FIUMI, La demografia.., cit., p. 79. 92 Cron., XI, 94. 93 Sul processo manifatturiero della lana, cfr. F. MELIS, Aspetti della vita economica medievale (Studi sull’archivio Datini di Prato), Siena 1962, I, pp. 459 sgg. 82 83

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Indice

G. Francesconi, Frugoni, Villani e Firenze. Un «incontro» inquietante e inevitabile . . . . . . . . . . . . pag. A. Frugoni, G. Villani, «Cronica», XI, 94 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

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