Raffaele Licinio, Uomini, terre e lavoro nel Mezzogiorno medievale (secoli XI-XV)

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

NUOVI STUDI STORICI -­ 103

RAFFAELE LICINIO

UOMINI, TERRE E LAVORO NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE (SECOLI XI-­XV)

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI PIAZZA DELL’OROLOGIO

2017


Nuovi Studi Storici collana diretta da Massimo Miglio Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone ISSN 1593-­5779 ISBN 978-­88-­98079-­56-­8 ________________________________________________________________________________ Stabilimento Tipografico «Pliniana» -­ V.le Nardi, 12 -­ 06016 Selci-­Lama (Perugia) – 2017


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PREMESSA Mi dicono che tra i medievisti d’oggi serpeggia la segreta speranza che la copertina del loro ultimo libro sia pubblicata sulla pagina di un social che ha nome (la pagina) “Medioevo buio”? “l’immondizia della storia?” E basta, su…. (raccomando la lettura attenta dei punti e degli apici, delle virgole, dell’auspicio finale, di tutto). La pagina è curata, naturalmente, da un medievista, attento ai nasi dei Templari, che ama i papaveri rossi, i Beatles e Castel del Monte, che è un cinefilo, che è osservatore attento e non distaccato delle disavventure sociali e politiche italiane. Un medievista precedentemente Professore ordinario, che ora continua nel regno del virtuale il suo lavoro di docente (perché questo è il valore del suo impegno) con una serie di album: Le foto degli amici di castelli medievali, Una fortificazione al giorno, Biancaneve: una principessa “medievale”, Le filmografie. Il medioevo erotico-boccaccesco, Vampiria, Vampiri di un altro mondo. Ha molti amici, virtuali e reali, che si riunivano (questi ultimi), con il pretesto dei Mercoledì con la storia (naturalmente i politici di Bari non se ne sono accorti), allo Chalet per digiunare (dicevano, mitizzando da mitridati), ora si incontrano al Doc (ma con qualche mugugno, mio; l’uno e l’altro sono noti ristoranti baresi) e poi andavano alla Laterza per parlare di storia (ma questo era un vizio di chi era stato precedentemente professore). Il professore dialoga sui media virtuali anche di storia e talvolta si pone, con l’aiuto della Treccani, una Domanda della domenica a proposito della cultura, per chiedersi se l’ignoranza della storia sia una delle culture possibili (un tempo poteva sembrare un’ipotesi impossibile). La risposta può sorprendere solo un ingenuo: «… se lo è, ha davvero bisogno di accompagnarsi all’arroganza per esprimersi sino in fondo nelle istituzioni?». Lo studioso di storia non ama l’arroganza e non la ama neppure nella ricerca. Questo dice questo libro, questa raccolta di saggi scritti da Raffaele Licinio, ora e allora professore (come sarebbe bello se questa parola riacquistasse tutta la sua complessa, articolata, profonda dignità semantica). Aggiungo solo una nota personale: mi piacerebbe vedere la copertina di questo libro in “Medioevo buio”?. Massimo Miglio, 1 gennaio 2017


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VICTOR RIVERA MAGOS NOTA INTRODUTTIVA

Questo volume è un omaggio dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo a Raffaele Licinio, storico medievista e intellettuale del Mezzogiorno d’Italia. Docente nelle Università degli Studi di Bari e Foggia, Licinio è stato anche direttore del “Centro di Studi Normanno-Svevi” di Bari dal 2002 al 2011 e membro sin dal 1979 della Redazione della rivista “Quaderni Medievali”. Tra i fondatori del “Centro di studi per la storia delle campagne e del lavoro contadino” di Montalcino, all’attività scientifica ha sempre associato una vivace e rigorosa attività didattica svolta sia nelle Università pugliesi sia nei contesti culturali regionali e nazionali, nei quali ha lavorato fondando e dirigendo, tra gli altri, il sito internet “Mondi Medievali”, la “Scuola-Laboratorio di Medievistica” di Troia (Foggia), e l’“Associazione del Centro di Studi Normanno-Svevi”. A livello scientifico, le sue ricerche sono incentrate in particolare sui rapporti tra le strutture sociali e quelle produttive, l’assetto del territorio e le realtà istituzionali del Mezzogiorno bassomedievale, con particolare riferimento alla Puglia. Attraverso l’analisi della società, dell’economia e dei quadri politico-istituzionali, senza trascurare il ruolo e la specificità dei dati giuridici e normativi, la produzione di Raffaele Licinio coglie le funzioni e le forme, le continuità e i mutamenti, le dinamiche e le contraddizioni che soprattutto nei secoli XI-XV hanno contraddistinto la storia della Puglia e dell’Italia meridionale. Interessi delle sue ricerche sono in particolare quelli afferenti al campo dell’indagine sulla storia agraria pugliese e a quello relativo alla complessa vicenda delle strutture fortificate regionali, in un’ottica che mira a riconoscere sul lungo periodo la composizione sistemica del paesaggio fortificato del Regno. Le pagine che si propongono costituiscono una coerente selezione tematica tra i numerosi interventi pubblicati da Licinio tra gli anni Novanta e Duemila in alcuni importanti contesti scientifici. Si tratta, in particolare, delle none, dodicesime e quattordicesime “giornate normanno-sveve” orga-


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nizzate dal “Centro di Studi Normanno-Svevi”, dei convegni internazionali di studio organizzati tra il 2004 e il 2006 dal “Centro interdipartimentale per la storia dell’Ordine teutonico nel Mediterraneo” e dei contributi confluiti nei volumi di studi offerti a Giosuè Musca e Cosimo Damiano Fonseca, rispettivamente nel 2000 e nel 2004. Si tratta di pagine scelte per la loro organicità tematica, legate l’una all’altra dal filo doppio del lavoro e dei lavoratori nel Regno di Sicilia tra XI e XV secolo. Sono pagine popolate soprattutto da un complesso e talvolta silenzioso mondo di artigiani, commercianti, agricoltori e massari, muratori e manovali, fabbri e lavoratori dei tessuti, delle pelli, del legname, dai salariati sino ai più noti e altamente specializzati magistri e protomagistri largamente presenti nelle fonti meridionali. Dai costruttori delle chiese del romanico pugliese sino a quegli architetti che, alla fine del Quattrocento, lavorano al rinnovamento delle strutture fortificate del Regno. A questo complesso mondo di uomini e al loro contesto lavorativo sono dedicate le sintesi tematiche che aprono il volume, strettamente limitate all’età normanna e sveva. Sono uomini che in alcuni casi tentano di uscire dall’anonimato del mondo operaio, come quel Brizio, fabbro di Salpi che all’inizio del Duecento, in pochi anni, trova la sua emancipazione mettendo in valore la ricca dote della moglie prima acquistando una terra, poi migliorandola ed edificandola, sino a compiere il suo inurbamento in una casa in città; «è la scala delle scelte e dei valori di un artigiano medio», scrive Licinio, di per sé un caso raro tra i “vuoti” documentari e i silenzi sociali atrofici che, tra XII e XIII secolo, impediscono agli artigiani meridionali di «far parte degli uomini “degni di fede”», di «qualificarsi come imprenditori, come borghesia». Scelte e valori in qualche modo imposti dalla Corona meridionale, incasellati in particolare dall’«atteggiamento pragmatico» di Federico II che regolamenta e controlla l’attività degli artigiani, i luoghi della produzione, sino a monopolizzare il mercato sovralocale, impedendo loro di trovare uno “sbocco corporativo” in grado di mettere il Mezzogiorno a confronto con i ceti imprenditoriali extraregnicoli (pp. 18 e 33-34). Il mondo del lavoro contadino e di bottega è un universo incombente anche nei contributi incentrati sulla presenza e diffusione dell’Ordine teutonico, oggetto negli ultimi due decenni di una consistente e innovativa indagine i cui risultati sono editi nella ricca collana “Acta Theutonica”, ancora in corso. Essi sono preceduti da un intervento di ampio respiro, incentrato sugli aspetti relativi all’economia degli Ordini religioso-cavallereschi nel Mezzogiorno normanno e svevo, con un titolo suggestivo: La Terrasanta nel Mezzogiorno: l’economia. Nel riferirsi indirettamente alla


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composita geografia degli insediamenti crociati meridionali, si richiama alla dimensione europea e mediterranea al contempo occupata dal Regno di Sicilia, anche a causa di queste presenze, nel corso del XII e XIII secolo. Una dimensione che spinge il Mezzogiorno verso l’Oriente latino anche grazie alla tessitura delle relazioni esistenti tra gli insediamenti degli Ordini, la produzione delle campagne meridionali e l’esportazione, in parte gestita dagli exteri, in altra dalla Corona e dagli stessi Ordini, di derrate alimentari e prodotti della terra soprattutto dai vivaci porti pugliesi e siciliani verso la Terra Santa, in un contesto integrato dove «non ci sono due civiltà che si confrontano, c’è una dialettica composita di valori e interessi riconducibili ad un’unica per quanto articolata civiltà» (p. 76). La Capitanata e la Terra di Bari sono il centro propulsore di quel “laboratorio” economico e politico pugliese1 nel quale si insediano templari, gerosolimitani e teutonici, questi ultimi con la capacità di resistere a lungo anche alla complessa, pluristratificata e conflittuale geografia del potere regionale, essendone a tutti gli effetti tra i principali attori. Essi sono portatori di progettualità, di un «intento di ricomposizione produttiva […] in modo da garantire una organica valorizzazione delle proprietà» (p. 94). In Puglia essi organizzano la loro presenza attraverso una “organica rete” di aziende produttive di tipo misto «in cui si stabiliscono e funzionano interrelazioni economiche, scambi, interventi di sostegno, senza tuttavia che l’insieme giunga mai a farsi pienamente sistema (per quanto ad esso tenda), un sistema capace di superare i limiti dell’autoconservazione, e naturalmente della necessaria appartenenza identitaria» (p. 118). Una rete che non produce sviluppo, innovazione, trasformazione, arroccata com’è sull’esistente e sulla specializzazione locale della produzione. Questo conservatorismo, tuttavia, come lo stesso Licinio evidenzia, «non è in sé un valore negativo» e, anzi, le aziende agricolo-pastorali dell’Ordine in Capitanata, le più longeve, sono nel secolo XV pienamente inserite nel sistema produttivo stagionale aragonese, a differenza delle più prestigiose ed antiche Case di Barletta, Bari e Brindisi, che a partire dal secolo XIV scontano, oltre allo spostamento dell’asse istituzionale teutonico dal Mediterraneo verso il Baltico, anche il graduale passaggio da un’economia bilanciata tra agricoltura e allevamento verso una “forte preminenza” del secondo sulla prima (p. 140). I lunghi decenni caratterizzati dal conflitto permanente tra le dinastie della casa d’Angiò, sigillate dall’arrivo nel Mezzogiorno della casa d’Ara1

R. Licinio, I poteri territoriali: re, signori, vescovi e città, in Storia della Puglia, cur. A. Massafra - B. Salvemini, Roma-Bari 1999, pp. 130-149: 142.


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gona e dall’inserimento del Sud Italia nel suo ambizioso progetto di dominio del Mediterraneo, costituiscono il fondale sul quale si stagliano i cambiamenti e le resistenze dell’economia regnicola, del lavoro contadino e artigianale, attraverso la presenza di un potere in permanente conflitto eppure in grado di influenzare il paesaggio produttivo e militare del Regno. Dalla prima metà del Quattrocento prende avvio la parziale ruralizzazione delle aree interne della Puglia, “decastellate” in particolare in Capitanata, e per contro, si sviluppa un nuovo impulso “incastellante” in alcune aree in particolare costiere per spinta della stessa Corona, che fortifica le strutture dei porti da Brindisi a Barletta, e soprattutto della feudalità regnicola, con un grande protagonista: il principe di Taranto Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, figura valorizzata da una recente quanto corposa produzione storiografica promossa, tra gli altri, dallo stesso Istituto Storico Italiano per il Medioevo2. A questo tessuto di uomini potenti, riconosciuti e riconoscibili, che fa da contraltare alla parcellizzata fauna operaia e commerciale dei secoli XI-XIII, tutto è ora possibile. Protagonisti di una nuova scena politica e militare, nelle pagine di Licinio i signori feudali della tarda età angioina e di quella aragonese sono potenti signori belligeranti, ai quali è lecito “ruinare” castelli. Essi, tuttavia, l’11 agosto 1480 si trovano di fronte a un pericoloso nuovo attore della scena militare meridionale: il Turco. Non si tratta più dei “saraceni” deportati da Federico II dalla Sicilia a Lucera e divenuti elemento riconoscibile del paesaggio produttivo della Capitanata, né dei viaggiatori osservatori e cartografi che nei secoli XI e XII descrivono la terra “del latte e del miele” e poi il Regno di re Ruggero. Nel secolo XV la minaccia cogente dei turchi di Maometto II diviene presto corpo tremendo della memoria occidentale. Il saccheggio di Otranto da parte delle truppe di Gedük Ahmed Pasha e quelli nel brindisino operati dai veneziani due anni dopo impongono una revisione della politica militare aragonese, e con essa la ristrutturazione delle obsolete strutture castellari meridionali e lo sviluppo di una nuova “arte fortificatoria”. Con essa, nel Quattrocento, si “innesta” una trasformazione che avrebbe trovato il suo pieno compimento solo nel secolo successivo. Un innesto tardivo, costoso e non omogeneo, secondo Licinio, quello avviato da Ferrante d’Aragona a partire dagli anni Ottanta del secolo XV, peraltro «del tutto inadeguato rispetto agli eserciti che, di lì a poco, avrebbero oltre2

In proposito, rimando alla Nota bibliografica curata da Francesco Violante in questo volume. Inoltre, si veda Dal Giglio all’Orso. I Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, cur. A. Cassiano - B. Vetere, Galatina 2006 (Collana del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia. Sezione Storia e Arte in Terra d’Otranto, 2).


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passato i confini settentrionali del regno» aprendo anche nel Mezzogiorno la lunga stagione delle Guerre d’Italia (p. 183). Un innesto che, tuttavia, mantiene anche allora l’antica e radicata caratteristica delle fondazioni castellari urbane, semiurbane e rurali del Regno, demaniali o baronali poco importa, e cioè quella di “proteggere e dominare” il territorio, organizzarlo, identificarlo sia attraverso la presenza regia sia grazie a quella, talvolta meno pervasiva ma certamente incombente e autoritaria, dei signori locali. Quello proposto nelle pagine seguenti, dunque, è un percorso che trova la sua rappresentazione nell’intervento dell’uomo sulla complessa geografia territoriale del Regno di Sicilia, e in particolare della Puglia medievale, elemento imprescindibile di coesione politica e culturale che scandisce il senso del tempo. L’organizzazione economica, produttiva, fiscale e militare dei paesaggi meridionali immaginata e in alcuni casi tentata con un senso di coerenza, spesso incompiuto, si trovano nelle dense pagine ricche di dati e riferimenti che Licinio, sempre ancorato metodologicamente alle fonti e agli uomini come impellente elemento di riconoscibilità intellettuale, offre alla sua terra, della quale è egli stesso riferimento e guida. La raccolta di questi testi, selezionati dallo stesso Autore, e la loro ricomposizione in questo quadro d’insieme è stata possibile grazie alla proposta dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e del suo Presidente, Massimo Miglio. A lui e all’Istituto, anche per conto dell’Autore, va il grazie sentito di quanti qui, con entusiasmo, hanno lavorato perché in pochi mesi quest’opera fosse pronta: in particolare, quello di Mariolina Curci, di Francesco Violante e di chi scrive, ai quali sono imputabili anche sviste, errori, mancanze. I lavori qui presentati sono originariamente usciti nelle seguenti sedi: L’artigiano, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle none giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1989), cur. G. Musca, Bari 1991, pp. 153-185. I luoghi della produzione artigianale, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1995), cur. G. Musca, Bari 1997, pp. 327-353. La Terrasanta nel Mezzogiorno: l’economia, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 2000), cur. G. Musca, Bari 2002, pp. 201-224. Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV, in L’Ordine Teutonico nel Mediterraneo. Atti del convegno internazionale di studio


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(Torre Alemanna [Cerignola]-Mesagne-Lecce, 16-18 ottobre 2003), cur. H. Houben, Galatina 2004, pp. 175-195. Aspetti della gestione economica di San Leonardo di Siponto all’epoca dei Teutonici, in San Leonardo di Siponto. Cella monastica, canonica, domus Theutonicorum. Atti del Convegno internazionale di studio (Manfredonia, 18-19 marzo 2005), Galatina 2006, pp. 153-165. I Teutonici in Terra di Bari: aspetti di storia economica, in L’Ordine Teutonico tra Mediterraneo e Baltico: incontri e scontri tra religioni, culture e popoli. Atti del Convegno internazionale di studio (Bari-Lecce-Brindisi, 14-16 settembre 2006), cur. H. Houben - K. Toomaspoeg, Galatina 2008, pp. 65-90. Dalla «licentia castrum ruinandi» alle disposizioni «castra munienda». Castelli regi e castelli baronali nella Puglia aragonese, in Studi in onore di Giosuè Musca, Bari 2000, pp. 297-329. La torre di Putignano nel Trecento: prime indagini, in Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, cur. G. Andenna - H. Houben, 2 voll., Bari 2004, II, pp. 699-714. Il lavoro di editing, per volontà dello stesso Autore, è stato operato con interventi mirati e leggeri, mantenendo inalterata la composizione dei singoli contributi, senza apportarvi integrazioni bibliografiche − se non in pochi casi di opere al tempo in uscita e poi pubblicate − ma limitandosi unicamente a uniformare i riferimenti presenti, adattati ai criteri redazionali dell’Istituto. Una nota bibliografica, anch’essa leggera e certamente non esaustiva, è stata curata da Francesco Violante e chiude il volume. Mariolina Curci si è occupata dell’elaborazione di un indice dei nomi degli Autori citati e dei nomi e dei luoghi, per consentire al lettore un migliore orientamento nel testo. Barletta, 15 dicembre 2016


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UOMINI, TERRE E LAVORO NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE (SECOLI XI-XV)


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«In quale stato fossero l’Arti in Italia, allorché qui regnò la barbarie, s’ha ora a vedere. Altre son l’Arti necessarie all’Uomo; altre che servono al comodo suo, ed altre inventate per suo piacere. Per conto delle prime, e di buona parte ancora dell’altre s’ha da tener per fermo, ch’esse non cessarono mai in Italia; e se non ci fossero state, seco le avrebbero portate i conquistatori [...]. Non v’era allora paese alquanto colto in Europa, che ignorasse e non praticasse i mestieri, de’ quali abbisogna la vita degli uomini, e che non amasse le comodità e i piaceri del corpo e dell’animo. Di queste Arti non verrà mai meno l’esercizio [...]. Ne’ tempi barbarici adunque non è da dimandare se qui si trovassero Fornai, Tessitori, Calzolai, Fabbriferrari, Muratori, Barbieri, Orefici, Sartori, Vasai, e simili»1. Così Muratori apriva la XXIV dissertazione delle Antiquitates, individuando il carattere diffuso e quasi intuitivo della presenza dell’artigiano nel mondo medievale, e proponendo allo stesso tempo una prima classificazione delle arti, tra quelle, primarie o manuali, «che servono al comodo» dell’uomo, e le altre, «inventate per suo piacere». Il mio intervento si occuperà solo delle prime, delle arti manuali, tralasciando figure di operatori-intellettuali, il medico, l’artista, l’architetto, il notaio, che pure le fonti segnalano, in abbondanza, come magistri. L’artigiano, dunque, come produttore di manufatti e utensili. Devo qui confessare subito due difficoltà. La prima è nel dover ricondurre ad unità una serie composita di ruoli, realtà territoriali, specializzazioni produttive, rapporti con il mercato e la committenza. L’omologazione in una categoria generale di lavoratori che invece differiscono per tipo di attività e col1 L.A. MURATORI, Dissertazioni sopra le Antichità italiane, I, Monaco 1765, Dissertazione XXIV: Delle Arti degl’Italiani dopo la declinazione dell’Imperio Romano, p. 281; a p. 284 sono ricordate le attività artigianali che il Capitulare de villis indica come indispensabili: «artifices, idest fabros ferrarios, et aurifices vel argentarios, sutores, tornatores, carpentarios, scutatores, precatores, accipitores, idest aucellatores, saponarios, siceratos, idest qui cervisiam, vel pomarium, sive piratium [...] facere sciant, pistores, retiatores»; v. anche la Dissertazione XXV: Dell’Arte del Tessere, e delle Vesti de’ Secoli rozzi, pp. 301-330.


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locazione sociale, può produrre un’immagine illusoria dell’artigiano, una sorta di assemblaggio pericolosamente simile alla cinquecentesca Allegoria dell’ortolano di un Arcimboldi. Ma non sempre, ed è qui la seconda difficoltà, le fonti normanne e sveve rispecchiano compiutamente quella complessità. Lo notava già Gina Fasoli nel 1983, nel corso delle seste giornate normanno-sveve, quando lamentava la modesta, quasi evanescente presenza di artigiani nella documentazione meridionale2. Lo si è ripetuto in più recenti occasioni e, nell’87, al convegno di Palmi sui mestieri in Calabria3. Ben altra appare la situazione dell’Italia centro-settentrionale (o del Mezzogiorno angioino e aragonese), che grazie a fonti specifiche, dai libri di conto agli inventari, consente analisi meno aleatorie, lungo quegli itinerari di ricerca che proprio Cherubini indicava nel suo intervento introduttivo al convegno di Pistoia dell’81, su Artigiani e salariati4. Certo, non si può dire che fabbri e falegnami, sarti e ciabattini affollino le carte normanno-sveve, ma nemmeno che il loro numero sia irrilevan2

G. FASOLI, Organizzazione delle città ed economia urbana, in Potere, società e popolo nell’età sveva. Atti delle seste giornate normanno-sveve (Bari-Castel del Monte-Melfi, 17-20 ottobre 1983), Bari 1985, pp. 183ss.; cfr. anche FASOLI, Città e ceti urbani nell’età dei due Guglielmi, in Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi. Atti delle quarte giornate normanno-sveve (Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979), Bari 1981, p. 161. 3 Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi. Atti dell’VIII Congresso storico calabrese (Palmi, 19-22 novembre 1987), Soveria Mannelli-Messina 1993; se ne può leggere un dettagliato resoconto, a firma di Iris Mirazita, «Quaderni medievali», 25 (giugno 1988), pp. 257-265. Cfr. ancora V. D’ALESSANDRO, Note per una storia della masseria siciliana nel medioevo, e di G. e H. BRESC, Lavoro agricolo e lavoro artigianale nella Sicilia medievale, in La cultura materiale in Sicilia. Atti del I Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 12-15 gennaio 1978), Palermo 1980, rispettivamente pp. 83-90 e 91-139; riferimenti all’artigianato normannosvevo anche in diversi interventi, per lo più relativi alla Sicilia bassomedievale, in I mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi. Atti del II Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 26-29 marzo 1980), Palermo 1984. Infine, ricordo gli Atti del XXI Convegno del Centro Studi sulla spiritualità medievale (Todi, 12-15 ottobre 1980), Lavorare nel Medio Evo. Rappresentazioni ed esempi dell’Italia dei secoli X-XVI, Todi 1983; del Colloque international de Rennes (26 mai 1983), Artistes, artisans et production artistique au Moyen Âge, II, Le travail, Paris 1988; e del Colloque international de Louvain-laNeuve (21-23 mai 1987), Le travail au Moyen Âge. Une approche interdisciplinaire, édd. J. Hamesse - C. Muraille-Samaran, Louvain-la-Neuve 1990. 4 G. CHERUBINI, I lavoratori nell’Italia dei secoli XIII-XV. Considerazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in Artigiani e salariati. Il mondo del lavoro nell’Italia dei secoli XIIXV. Atti del X Convegno internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte di Pistoia (Pistoia, 9-13 ottobre 1981), Pistoia 1984, pp. 126. Sull’argomento sono utili punti di partenza il «classico» P.S. LEICHT, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano 1946, e i due volumi su Artigianato e tecnica nella società dell’Alto Medioevo occidentale, Spoleto 1971 (XVIII Settimana di Spoleto).


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te. Il problema non è nella quantità delle presenze registrabili, ma nella natura stessa delle fonti disponibili, e dunque nella qualità delle informazioni che ce ne vengono trasmesse. Ancora la Fasoli precisa che «questa scarsità documentaria di artigiani può trovare la sua spiegazione nel fatto che ci troviamo di fronte a carte provenienti da archivi ecclesiastici e pertinenti agli interessi dei singoli enti religiosi, ma ciò non toglie che i dati relativi agli artigiani siano pochi»5. Pochi e, aggiungo, tali da determinare un risultato parziale e sfocato anche se guardiamo alle fonti normative e cronachistiche, o alla corrispondenza regia. Dalle prime, sulle attività artigianali ci viene poco, ad eccezione di alcune disposizioni sveve, su cui poi tornerò, e di qualche riferimento a precedenti consuetudini negli Statuti cittadini dell’età angioina ed aragonese; ancor meno sembrano dirci i cronisti, che sappiamo poco interessati, per dirla con Bloch, ai «lavori senza gloria», e perciò anche ai laboriosi «sforzi degli artigiani»6, e la trattatistica sul valore e la «mistica cristiana» del lavoro manuale7. Non è detto, per altro, che il «relativo silenzio» delle fonti, di un certo tipo di fonti, non sia preziosa testimonianza, di per sé, di un atteggiamento, di una cultura e di una società in cui il mondo della produzione appare elemento di secondo piano. Non è facile, scorrendo le cronache di età normanna e sveva, imbattersi in artigiani; in artigiani, preciso, che non siano semplicemente i «magistri ingenii», i costruttori di armi, torri e mac-

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FASOLI, Organizzazione delle città cit., pp. 185-186. M. BLOCH, Le invenzioni medievali, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari 1974, pp. 201-219: 204; analoghe le considerazioni di F. BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Torino 1977 (ediz. orig. Paris 1967), p. XXI, sul mondo del lavoro medievale, «il cui peso fu immenso e il rumore appena percettibile», e di J. LE GOFF, Discours de clôture, in Le travail au Moyen Âge cit., p. 424, sul «silence relatif» e sulla «censure qui pèse sur le travail dans la conscience et la mémoire de la société médiévale [...]. Malgré tous les documents qui, Dieu merci, nous permettent de l’approche quand même, le travail, sous toutes ses formes, n’est pas un bon sujet pour le Moyen Âge». 7 C.V. TRUHLAR, Labor Christianus, Roma 1961 (con ampia bibliografia alle pp. 161173); B. LACROIX, Travailleurs manuels du Moyen Âge roman: leur spiritualité, in Mélanges offerts à René Crozet, cur. P. Gallais - Y.J. Riou, I, Poitiers 1966, pp. 523-529, spec. p. 523: «Ces ouvriers manuels, illettrés pour la plupart, avaientils une spiritualité? Les quelques textes que nous possédions, ceux de Théophile, de Suger, les chroniques, les lettres, chartes et autres documents contemporains, sont loin d’être explicites. A supposer même que ces ouvriers aient été au courant d’une certaine mystique du travail manuel, comment prouver? On court le risque d’imposer à ces voix du silence des perspectives étrangères à leurs préoccupations». Per una lettura «in controluce» delle fonti cronachistiche, agiografiche e legislative, cfr. nella recente traduzione del lavoro di A. BORST, Forme di vita nel Medioevo, Napoli 1988 (ediz. orig. 1973), le pagine sulla «Fucina del demonio», pp. 226-232; «L’architetto del duomo», pp. 232-238; «Tecnica», pp. 238-241; «Artigiani», pp. 409-413.


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chine di vario tipo, come gli artifices che, nella Benevento del 1119, «stolii manus operantes», dice Falcone Beneventano, preparano «lignorum machinationes» per una processione di reliquie8. O che non siano i costruttori di grandi edifici cultuali e del potere politico: gli artifices Amalfitani e Lombardi, e quelli Bizantini «peritos in arte musiaria et quadrataria», chiamati da Desiderio a Montecassino, secondo Leone Ostiense; i costruttori, a Palermo, degli edifici che destano la meraviglia di Romualdo Salernitano, Alessandro di Telese, Ugo Falcando, e che, dice Ibn Giobair, «abbagliano gli occhi con la loro bellezza»; o le maestranze saracene cui Ruggero II affida, come a Bari nel 1132, l’edificazione di strutture castellari9. In rari casi la trasmissione del nome dell’artigiano interessa il cronista. Dovremo allora utilizzare queste fonti soprattutto per i loro riferimenti indiretti, annotando la qualità dei prodotti esaltati da Alessandro di Telese a proposito dell’incoronazione di Ruggero II, drappi, tappeti, selle e briglie decorate d’oro e d’argento, piatti e bicchieri preziosi, sontuosi vestiti di seta10; sottolineando brani come quelli di Ugo Falcando sulle officine 8 FALCONE BENEVENTANO, Chronicon de rebus aetate sua gestis, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, I, Dominazione normanna, Napoli 1845, p. 179. Com’è noto, nei testi medievali il termine artifex indica comunemente sia l’artigiano che l’artista; solo verso la fine del secolo XIII, ad esempio in Salimbene da Parma, si inizia a distinguere con il termine artista «una persona dotata di particolare capacità tecnica»: E. CASTELNUOVO, L’artista, in L’uomo medievale, cur. J. Le Goff, Bari 1987, p. 241. 9 ALESSANDRO DI TELESE, De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV, in DEL RE, Cronisti e scrittori cit., I, p. 114: «Saracenos, quos ibi ad aedificium munitionis suae [Ruggero II] delegaverat»; per la data esatta della costruzione del castello rinvio a R. LICINIO, Bari e il suo castello: scelte insediative, problemi politici, funzioni istituzionali, parte I: Dall’età prenormanna agli ultimi Svevi, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», XXXI (1988), pp. 227-229 e nota 44. Sugli edifici palermitani: IBN GIOBAYR, Rahlat ’al Kinânî (Viaggio del Kinânî), in M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula. Raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, la biografia e la bibliografia della Sicilia, 2 voll., Torino-Roma 1880-1881, p. 161; ROMUALDO SALERNITANO, Chronicon, in DEL RE, Cronisti e scrittori cit., I, pp. 16-17; ALESSANDRO DI TELESE, De rebus gestis cit., p. 103; UGO FALCANDO, Liber de regno Sicilie, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la Storia d’Italia, 22), p. 35 (e v. anche PIETRO DA EBOLI, De rebus siculis Carmen, ed. E. Rota, in Rerum Italicarum Scriptores (R.I.S.2), XXXI, Città di Castello 1904-1910, p. 15: «celsa palacia»). Per i «peritissimis artificibus tam Amalfitanis, quam et Lombardis» di Montecassino cfr. LEONE OSTIENSE MARSICANO, Chronica monasterii S. Benedicti casinensis, ed. W. Wattenbach, in Monumenta Germaniae Historica (M.G.H.), Scriptores, VII, Hannover 1846, p. 717, in apparato critico; p. 718: «Legatos interea Constantinopolim ad locandos artifices destinat [...], peritos utique in arte musiaria et quadrataria [...]. Non tamen de his tantum, sed et de omnibus artificiis quecumque ex auro vel argento, aere, ferro, vitro, ebore, ligno, gipso, vel lapide patrari possant»; e MURATORI, Dissertazioni cit., p. 286. 10 ALESSANDRO DI TELESE, De rebus gestis cit., p. 103. Vedi poi FALCONE BENEVENTANO, Chronicon cit., p. 181, sulle vesti di seta e sugli oggetti preziosi esposti dagli


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tessili di Palermo, il tirâz, «dove i serici bozzoli si assottigliano in fili distinti a vari colori», e di Riccardo da San Germano sulle «imagines lapideas» e sui manufatti prodotti dagli artifices della corte sveva11; o, infine, valutando l’atteggiamento mentale dei cronisti verso il lavoro artigianale anche da certe loro comparazioni: in Pietro da Eboli, tra la goffa cornacchia e il fabbro; in Jamsilla, tra Manfredi e il «sapiens opifex» che «da prima fa i necessari apparecchi, e poi quando le cose di che fa mestieri sono in pronto, si pone alla destinata opera»12. Diremo allora che la relativa assenza di artigiani dalla cronachistica non è immediatamente assenza del mondo del lavoro manuale. È, se mai, l’impossibilità, un’emblematica impossibilità, di registrare l’artigiano come elemento di potere e come soggetto politico. Chiarite queste difficoltà, va tentata l’individuazione di elementi e tendenze anche per l’età normanna e sveva, a partire dalla collocazione per rami di attività e per aree territoriali omogenee degli artigiani documentati. Collocazione e distribuzione, più che classificazione. Non nel senso che sia inutile o arbitraria, tutt’altro, una distinzione degli artigiani in grandi categorie lavorative: nei lavori sui metalli, ferrarii e fabri, cultellarii e catenazarii, balistarii, asbergerii e altri specialisti nella fabbricazione delle armi, ma anche, nell’oreficeria, argentarii e aurifici; nei settori del legno, carpenterii, buctarii, carrocerii; nella cantieristica edile, calcararii, petraroli, quartararii, tufaroli, fabricatores. Mastri muratori, carpentieri e fabbri lavoravano in stretta e costante interdipendenza di tecniche, attrezzi e prodotti, al punto di suggerire al Thomson, nella Storia della tecnologia, l’incisiva definizione di «triumvirato degli artigiani medievali»13; ma è una definizione Amalfitani in occasione della visita di papa Callisto II, nel 1120. Inoltre F. POTTINO, Le vesti regali normanne dette dell’incoronazione, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Ruggeriani (Palermo, 21-25 aprile 1954), Palermo 1955, pp. 277-294, e M.S. CALÒ MARIANI, I fenomeni artistici come espressione del potere, in Potere, società e popolo tra età normanna ed età sveva. Atti delle quinte giornate normanno-sveve (Bari-Conversano, 26-28 ottobre 1981), Bari 1983, pp. 215-250, in particolare le note 1 e 7. 11 UGO FALCANDO, Liber cit., p. 35; RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronicon, ed. C.A. Garufi, in R.I.S.2, VII, Bologna 1937, p. 216: nel 1240 Federico II ordina di trasportare da Napoli a Lucera, a spalle, le «imagines lapideas». 12 PIETRO DA EBOLI, De rebus siculis Carmen cit., p. 84: «Ut cornix aquila strepitatam quam plurima visa / [...] Versat [ut] inverso malleus ere vices»; NICCOLÒ JAMSILLA, De rebus gestis Friderici II imperatoris ejusque filiorum Conradi et Manfridi Apuliae et Siciliae regum, in DEL RE, Cronisti e scrittori cit., II, Napoli 1868, p. 139: l’atteggiamento di Manfredi è quello del «sapientis opificis, qui primo apparatum facit, et tunc demum destinatum opus aggreditur, cum necessariorum, quae jam parata sunt, defectus aliquis non timetur». 13 R.H.G. THOMSON, L’artigianato medioevale, in Storia della tecnologia, cur. Ch. Singer - E.J. Holmyard - A.R. Hall - T.I. Williams, II: Le civiltà mediterranee e il Medioevo, Torino 1962 (ediz. orig. Oxford 1956), p. 402.


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che per il Mezzogiorno normanno-svevo sottovaluta quanti, numerosi, operavano nel settore del cuoio e dei pellami, consatores, confectarii, corrigiarii, pelliparii, e poi sellarii e bardarii, corviserii (i ciabattini), e calceolarii; nei diversi rami della manifattura tessile, parmenterii, cannabarii, bambacarii, sutores, accimatores pannorum; e nella fabbricazione di oggetti in creta, ceramica, vetro, e di utensili varii, dagli ollarii ai pectinarii. Agli artigiani vanno poi assimilate altre figure del mondo del lavoro: i barbieri e quei produttori, fornai, saponai, speziali, macellai, che partecipavano direttamente alla commercializzazione dei loro prodotti; e infine quanti, spesso a metà tra salariati e artigiani, lavoravano in attività rurali o nella pesca14. Per quanto non esaustiva e in molti casi astratta, dati i frequenti incroci tra una attività e l’altra, una distinzione fondata sui diversi scomparti lavorativi vale senza dubbio a indicarci una gerarchia dei mestieri; a darci ragione della maggiore o minore presenza di un certo tipo di magistri, in certe aree e in certi periodi; a far emergere le varianti locali nella terminologia dei mestieri: penso qui agli arabosiciliani chareri e hariri, rispettivamente tessitori e setaiuoli, ai marammerii o muratori di Termini Imerese,

14 R.M. DENTICI BUCCELLATO, I mestieri della città. Palermo tra Due e Trecento, in Travail et travailleurs au Bas Moyen Âge. Atti del Convegno di Quebec (18-23 maggio 1986), in corso di stampa (ho potuto consultare il saggio in bozza, grazie alla cortesia dell’Autrice [n.d.r. il saggio è stato pubblicato in «La Fardelliana», 3 {1986}, pp. 19-44]), propone di dividere in cinque settori le attività lavorative, «in relazione ai servizi resi al mondo cittadino: 1) alimentare, 2) del legno e dei metalli, 3), del cuoio e della pelle, 4) tessile, 5) dei prodotti di lusso», precisando tuttavia che in quella sede intende occuparsi esclusivamente «dei mestieri della città e che si svolgono nella città», cui vanno per altro ricondotti i mestieri della costruzione, quelli collegati ad attività agricole e marinare, ed altre figure professionali, dal barberius al notaio; è ivi ricordato l’ordeo cereorum, elenco trecentesco relativo alla festa palermitana dei ceri (15 agosto), che enumera e distingue 44 mestieri diversi. Notizie su attività e tecniche artigianali dell’Italia meridionale, nei settori dei metalli, del legno, del cuoio, del vetro, delle ceramiche, e sulla preparazione del miele e della cera, nei saggi del volume Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle ottave giornate normanno-sveve (Bari, 20-23 ottobre 1987), Bari 1989: P. CORRAO, Boschi e legno, pp. 135-164; A.M. NADA PATRONE, Pelli e pellami, pp. 165-201; I. NASO, Apicoltura, cera e miele, pp. 203-240; F. PORSIA, Miniere e minerali, pp. 241-271; F. D’ANGELA, Ceramica e vetro, pp. 273-291. Di una particolare, importante attività produttiva si è occupato P. CORDASCO, I lavoratori delle pergamene nella Puglia federiciana, «Archivio Storico Pugliese», XXXI (1978), pp. 113-131. Sempre utili i saggi di R. BEVERE, Arredi, suppellettili, utensili d’uso nelle province napoletane dal XII al XVI secolo, «Archivio storico per le province napoletane», XXI (1896), pp. 626-664; Ordigni ed utensili per l’esercizio di arti ed industrie in uso nelle province napoletane dal XII al XVI secolo, ivi, XXII (1897), pp. 702-738, e Vestimenti e gioielli in uso nelle province napoletane dal XII al XVI secolo, ivi, pp. 312-341.


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ai fiolarii napoletani15 e, nella microtoponomastica, al mercato palermitano Lattarini, dall’arabo ’attarin (speziale), alle località salentine Tafuri, dall’arabo taifuri (scodellaio), e Zuccalíu, dal greco tsoukaleÇou (fabbrica di pentole), da cui anche il cognome Zuccalà, pentolaio16; e si potrebbe continuare con l’onomastica, tenendo presente che proprio in quei secoli tendono a fissarsi i cognomi, specialmente in rapporto ai mestieri. Occorrerà allora procedere in ulteriori scomposizioni e riaggregazioni, inserendo i dati a nostra disposizione in un orizzonte meno elementare ed omogeneo, che consideri altri fattori e altre distinzioni; in primo luogo la condizione sociale. In genere, i magistri (i capi-officina) e gli artifices che appaiono nelle carte sono uomini liberi, i «cuiuscumque professionis homines» della gerarchia sociale dei sudditi disegnata da Ruggero II nella Monitio generalis del 114017; ma solo a volte si tratta di boni homines e di esponenti del notabilato locale. La stessa identificazione totale tra ceto artigianale e mediani si rivela spesso una forzatura18. Intanto, sappiamo di artigiani dipendenti da monasteri, come i tessitori che nel 1130 lavorano per il monastero napoletano dei Santi Severino e Sossio, o monaci essi stes-

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Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia, ed. B. Capasso, II, parte I, Napoli 1885, n. 11, 924, p. 24: Giovanni «Fiolarius» (in nota: la fiola era un’unità di misura per «vasculum vel oleaream»); G. BRESC - BAUTIER - H. BRESC, Maramma. I mestieri della costruzione nella Sicilia medievale, in I mestieri cit., p. 146 per marammerii (dall’arabo maramma); BRESC - BAUTIER, Lavoro agricolo e lavoro artigianale cit., p. 92 per chareri, tessitori; p. 98 per hariri, setaiuoli. 16 G. ROHLFS, Dizionario toponomastico del Salento. Prontuario geografico, storico e filologico, con due Appendici di Emilio Panarese, Ravenna 1986, ad voces Tafuri, in agro di Galátone (Lecce), e Zuccalíu, località di Ruffano (Lecce); altri toponimi di mestiere: Amplári, vignaiolo, dal greco ‘ampel¡rez; Torchiarolo, torchiaiuolo; Uttaru, bottaio; Vardaru, sellaio; Furnarèa, fornaio. A lungo la via palermitana Lattarini si identifica con il mercato dei profumi o degli speziali, in arabo suk el attarine: C. TRASSELLI, Aspetti della vita materiale, in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, p. 610; C. DE SETA - L. DI MAURO, Palermo, Bari 1980 (Le città nella storia d’Italia), p. 30. Sull’argomento: G. CARACAUSI, Arabismi medievali di Sicilia, Palermo 1983; C.A. MASTRELLI, Le denominazioni dei mestieri nell’alto Medioevo, in Artigianato e tecnica cit., I, pp. 297-328; G.B. PELLEGRINI, Tradizione e innovazione nella terminologia degli strumenti di lavoro, ivi, pp. 329-408. 17 F. BRANDILEONE, Il diritto romano nelle leggi normanno-sveve, Torino 1884, p. 97: «Monemus principes, comites, barones maiores atque minores, archiepiscopos, episcopos, abbates cunctos denique qui subditos habent cives, burgenses, rusticos sive cuiuscumque professionis homines eos humane tractare». Sul termine magister, capo-officina: G. GALASSO, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, p. 98, e G. ROHLFS, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), I, München 1956, p. 340, mèsciu = «maestro, operaio direttore, titolo che si dà agli artigiani». 18 Mi limito qui ad indicare come esempi, nella vasta bibliografia sull’argomento, la tesi sui mediani espressa a suo tempo da R. TRIFONE, La famiglia napoletana al tempo del


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si, come il Corbiserius dell’abbazia pugliese di Santa Maria dell’Incoronata, ricordato in un documento del monastero di Montevergine alla metà del 110019. Ma non mancano esempi di artigiani servi: basterà ricordare il «Robertus faber» citato, in un falso quanto emblematico diploma attribuito a Roberto il Guiscardo, tra i rustici donati a S. Maria della Matina, nel Cosentino; il murarius fra i 30 villani di cui dispone alla fine del secolo XI il monastero di S. Bartolomeo di Lipari; il villano Unfredo che ha la qualifica di magister nella Ostuni normanna20. Distinzioni vanno colte, in effetti, anche sugli esiti sociali, di agiatezza o di povertà, dell’esercizio della professione; sui mestieri femminili, la filatura in primo luogo, occupazione tipica delle donne: vi si dedichino, ordina Federico II, anche quelle ancelle di servizio nel palatium regio di Messina che trascorrono il tempo inoperose e nell’ozio, «ut panem non concedant otiosum», e femminile è la manodopera ebraica importata forzosamente a Palermo da re Ruggero dopo la conquista di Atene, Corinto e Tebe, nel 1147; mestieri femminili, va precisato, che non sembrano limitati solo al tradizionale settore del «filatum spandere» e dell’«arculillo», se presso Eboli, nel 1174, la figlia di tale Giovanni Torcifezza, Gemma, viene

Ducato, «Archivio storico per le province napoletane», XXXIV (1909), in partic. p. 709, e le osservazioni in merito di G. CASSANDRO, Il ducato bizantino, in Storia di Napoli. Storia politica ed economica, I, Napoli 1975, p. 377. 19 Codice Diplomatico Verginiano, ed. P.M. Tropeano, III, Montevergine 1979, n. 290, 1149, p. 368: sono settanta monaci, tra cui appunto il Corbiserius, appartenenti a Santa Maria dell’Incoronata, che chiedono ed ottengono dall’arcivescovo di Salerno di passare al servizio del monastero di San Salvatore del Goleto. Sui tessitori: Monumenta ad Neapolitani cit., II, parte II, Napoli 1892, n. 17, 1130, p. 105: «Johanne sartore qui nominatur Caputo defiso supradicti monasterii»; p. 107: «Dominici tessitore homine suprascripti vestri monasterii»; v. anche ivi, parte I cit., n. 604, 1112, p. 365: «Scictino presbiteri qui vocatur Tessitore». 20 A. PRATESI, Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Città del Vaticano 1958, n. 2, 1065, p. 9: sono i «rusticos qui habitant in vico qui vocatur Pratum». Sul murarius: S. TRAMONTANA, La monarchia normanna e sveva, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983 (poi Torino 1986 e 19932), p. 605, p. 153, nota 4, in cui si ricordano anche i «villani et unum ferrarium et unum piscatorem» di un documento siciliano del 1104. Su Unfredo: C.D. POSO, Il Salento normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina 1988, p. 217, nota 58. Non mancano, ovviamente, artigiani servi prima del Mille: nel Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, ed. V. Federici, Roma 1925-1938 (Fonti per la Storia d’Italia, 58-59), I, p. 184, è notizia per il 779 di quei «magistros, hoc est villanos, qui cum mannarias suas soliti fuerant in [...] curte magisterium facere»; e tra i beni e i servi della chiesa di Sant’Angelo di Isernia nell’881, di un «Sabiianus faber ferrarius», famulus del monastero di San Vincenzo al Volturno (p. 372).


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detta calceolaria21. E distinzioni sui livelli di specializzazione e sulla connotazione etnica degli artigiani: c’è qualche bottaio slavo, ci sono fabbri greci e armeni22, ma soprattutto ci sono ebrei, che eccellono nella lavorazione della seta e nell’arte tintoria23, e saraceni, abili tessitori, sellai, carpentieri, intarsiatori e specialisti nella produzione di armi, come quei magistri che nel 1240, dopo lo sradicamento dalla Sicilia, lavorano per la curia regia, «tam de ferro quam de arcubus et aliis operibus», a Melfi, Canosa,

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H. TAVIANI, Les archives du diocèse de Campagna dans la province de Salerne (Documents inédits des XI et XII siècles), Roma 1974, n. 58, 1174, p. 51, in regesto: Gemma vende a Ruggero «Vindemia» una vigna alberata in territorio di Campagna, in cambio di 48 tarì salernitani e di una quota dei prodotti; garante della vendita è Nicola «Corviserio». Testimonianze dell’«arculillo» o «filatorium» in Codice Diplomatico Amalfitano, ed. R. Filangieri di Candida, I, Le pergamene di Amalfi (9071200), Napoli 1917, n. 169, 1161, pp. 304-305 (a p. 306 l’espressione «filatum spandere»); n. 178, 1169, p. 325. Sulle ancelle del palatium e sugli altri lavori nelle officine messinesi: G. AGNELLO, Aspetti ignorati dell’attività edilizia federiciana in Sicilia, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano, Palermo 1956, pp. 1318; sulla manodopera ebraica trasferita a Palermo, OTTONE DI FRISINGA, Gesta Friderici I. imperatoris, ed. R. Wilmans, in M.G.H., Scriptores XX, Hannover 1868, lib. I, cap. 33, p. 370: «opifices etiam, qui sericos pannos texere solent [...], captivos deducunt», per «artem illam texendi suos edocere» (ma il brano di Ottone è contestato dal MURATORI, Dissertazioni cit., p. 307, che gli contrappone quello di Ugo Falcando sugli opifici palermitani). 22 Di un buttarius Sclavus è notizia in Codice Diplomatico Barese [CDB] VI, Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo svevo (1195-1266), ed. F. Nitti, Bari 1906 (rist. anast. 1976), n. 64, 1236, pp. 100-101; comunità armene sono testimoniate, tra l’altro, in Capitanata e nelle campagne del Barese: Codice Diplomatico Pugliese [CDP] XXI, Les chartes de Troia. Édition et étude critique des plus anciens documents conservés à l’Archivio Capitolare (1024-1266), ed. J.-M. Martin, Bari 1976, n. 128, 1211, p. 361, Rubino «quondam magistri Armeni filium naturalem»; G. MUSCA, L’espansione urbana di Bari nel secolo XI, «Quaderni medievali», 2 (dicembre 1976), p. 70; su presenza e ruolo degli artigiani baresi in età sveva e angioina MUSCA, Sviluppo urbano e vicende politiche in Puglia. Il caso di Bari medievale, in La Puglia tra Medioevo ed Età moderna. Città e campagna, Milano 1981, pp. 29ss., spec. pp. 42, 59-60, 67; M. PETRIGNANI - F. PORSIA, Bari, Bari 1982 (Le città nella storia d’Italia), pp. 35ss.; ed ora i saggi compresi nella Storia di Bari diretta da F. Tateo, II, Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, cur. G. Musca - F. Tateo, Bari 1990; in partic. nel cap. VII, Architettura e arti figurative: dai Bizantini agli Svevi, cfr. P. BELLI D’ELIA, Dai Bizantini ai Normanni, p. 286: si è ipotizzato «con sufficiente fondamento che nella stessa Bari fossero allogate botteghe o laboratori di qualificati artigiani, soprattutto intagliatori d’avorio, forse di origine islamica, in analogia con quanto negli stessi decenni poteva verificarsi nelle città della costa tirrenica, a Salerno o ad Amalfi». 23 Per l’Italia meridionale Benjamin bar Jonah ricorda nel suo Sefer Massa’ot, scritto nel settimo decennio del secolo XII, solo gli artigiani di Brindisi, «nella terra di Puglia, il paese di Pul», dove «vivono una decina di Ebrei, che fanno i tintori»: BENJAMIN DA TUDELA, Libro di viaggi, ed. L. Minervini, Palermo 1989 (ed. condotta su quella curata da M.N. Adler, The Itinerary of Benjamin of Tudela, London 1907, rist. New York 1964), p.


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Lucera24. Manodopera qualificata sempre richiestissima sul mercato: agli inizi del secolo successivo, all’epoca della feroce repressione della colonia saracena di Lucera, re Carlo II d’Angiò si preoccuperà, con un ordine inviato il 26 gennaio 1301 al giustiziere di Terra di Bari, di far giungere a Napoli, «sub tuta custodia», «omnes illos Saracenos artistas», ovvero «armaturarios seu factores armorum, factores etiam balistarum, arcuum, temptoriorum, budarum, coriorum rubeorum et cossinorum, magistros muratores, magistros bardarios et magistros carpentarios»; e qualche giorno più tardi, il 6 febbraio, in un dispaccio al giustiziere di Terra d’Otranto, specificherà che ogni maschio saraceno può essere venduto per 2 once d’oro, a meno che «non sit artifex utpote faber de argento vel ferro, incisor, aut sutor robarum tentarum seu cultrarum et farcectorum, maccionerius, carpinterius, corbiserius, magister arcuum aut balistarum vel testor»: in questi casi il valore non potrà essere inferiore alle 3 once «et plus, si vendi plus poterunt», esattamente il triplo del valore di una donna saracena di più di dodici anni25.

47; anche Massa’oth, in C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, «Archivio Storico Pugliese», XXVIII (1975), pp. 81-100. Più numerose le notizie sulle attività artigianali ebraiche nelle località orientali: a Salonicco, ad esempio, dove gli Ebrei «sono oppressi e si dedicano alla manifattura della seta»; a Tebe, abitata da circa duemila Ebrei che sono «i migliori artigiani del paese dei Greci nel lavorare tessuti di seta e di porpora»; a Costantinopoli, dove «la fortezza è empita di tessuti di seta e porpora e di oro», nel quartiere ebraico operano «artigiani della seta»; a Tiro, dove alcuni Ebrei «fabbricano il bellissimo vetro di Sur, apprezzato in tutti i paesi»: pp. 48-49, 51-52, 55. Ancora, oltre al Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia, ed. B. e G. Lagumina, Palermo 1884-1895, e al volume di A. MILANO, Storia degli Ebrei in Italia, Torino 1963, cfr. C. COLAFEMMINA, Insediamenti e condizione degli Ebrei nell’Italia meridionale e insulare, in Gli Ebrei nell’Alto Medioevo, Spoleto 1980 (XXVI Settimana di Spoleto), pp. 197-239. Devo a Franco Porsia la segnalazione della presenza a Taranto, nel 1247, dell’ebreo «Sire» Sanson, testimone dell’intervento federiciano «ut augmentaretur tinctoria ad lucrum et comodum imperialis curia» (ora in F. PORSIA - M. SCIONTI, Taranto, Bari 1989 (Le città nella storia d’Italia), pp. 37-39). 24 J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi (d’ora in poi HB), 6 voll., Paris 1851-1861 (rist anast. Torino 1963), V, 2, Paris 1859, 21 febbraio 1240, p. 764, mandato di pagamento per i «magistris sarracenis, tarisiatoribus, carpentariis, magistris facientibus arma [...] et ceteris magistris qui tam de ferro quam de arcubus et aliis operibus laborant ad opus nostrum in Melfia, Canusio et Luceria»; anche M.S. CALÒ MARIANI, Federico II e le «artes mechanicae», in Federico II e l’arte del Duecento. Atti della III Settimana di studi di storia dell’arte medievale dell’Università di Roma (15-20 maggio 1978), cur. A.M. Romanini, II, Galatina 1980, pp. 269-270, 273-274, e CALÒ MARIANI, L’età sveva, nel cit. capitolo VII del II volume della Storia di Bari, p. 324. 25 Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, ed. P. Egidi, Napoli 1917, n. 447, 26 gennaio 1301, p. 209, e n. 456, 6 febbraio 1301, pp. 215-216; e vedi anche: «ad tendendum tentoria», n. 220 b, 1297, p. 85, e «pro reparandis eisdem tentoriis», n. 226 a, 1298, p. 224.


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L’individuazione dell’utenza e della committenza ci aiuterà a comprendere ritmi di lavoro e qualità del prodotto, diversi a seconda che l’artigiano sia al servizio del signore feudale o dell’ente ecclesiastico, del mercato locale o del grande mercante centro-settentrionale, della stessa popolazione rurale, a sua volta diretta produttrice dei generi necessari all’esistenza quotidiana e perciò, come è stato rilevato, «essa stessa primitivamente e inconsapevolmente artigiana»26, o infine della corte e delle sue esigenze di consumo militare e di rappresentanza, nelle massarie e nelle aratie, nei cantieri e negli arsenali. Insomma, se fanno parte di un’unica categoria lavorativa il sellaio che opera in un borgo rurale della Capitanata, e i bardarii di Messina cui vengono ordinate due selle per l’armatura dello svevo Corrado27, la distanza che ne separa condizione e carriera non consente eccessive generalizzazioni. Da quali processi è interessato un mondo così differenziato? Per evitare la tentazione del mero descrittivismo, mi si consenta di rinviare ad altra occasione il quadro delle presenze accertate per ogni località, per procedere qui sinteticamente e per grandi linee, puntando solo ad alcuni dei dati evidenziabili. In primo luogo, la presenza di attività artigianali ereditate dall’economia prenormanna. Attività fiorenti, che non sfuggono all’attenta curiosità dei geografi e viaggiatori arabi. Non aveva scritto Ibn Hawqal, nella seconda metà del secolo X, che «la principale ricchezza di Napoli consiste nel lino e ne’ tessuti di quello»? «Io stesso - aveva aggiunto - ne ho viste in quella città delle pezze, alle quali non trovo compagne in nessun altro paese; né vi è artefice che sappia fabbricarne in nessun altro tirâz [manifattura] del mondo»; e aveva citato la «contrada de’ Fabbri» a Palermo, e fuori le mura le officine di «sarti, armaioli e calderai», e le oltre 150 botteghe dei macellai28, mentre qualche decennio prima ’Al Mâlihi (cui dobbiamo l’episodio del rifiuto di un musulmano di mangiare una

26 M. BRUSATIN, Artigianato, in Enciclopedia Einaudi, I, Torino 1977, p. 925; cfr. anche V.I. RUTENBURG, Arti e corporazioni, in Storia d’Italia, V, I documenti, 2, Torino 1973, pp. 616-642. 27 HB, V, 2, p. 638, e AGNELLO, Aspetti ignorati cit., p. 17. Un esempio di sellaio della Capitanata in CDB X, Le pergamene di Barletta del R. Archivio di Napoli (1075 1309), ed. R. Filangieri di Candida, Bari 1928, n. 77, 1227, p. 109. 28 IBN HAWQAL, Kitâb ’al masâlik (Libro delle vie e dei reami), in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., p. 25; p. 20: la «contrada de’ Fabbri; indi la [...] porta di Ferro, donde si esce al [...] Quartiere de’ Giudei»; p. 15: «I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuor le mura della città; e similmente i sarti, gli armaioli, i calderai, i venditori di grano» e le «botteghe da vender carne».


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torta perché condita con zucchero di Sicilia), aveva narrato di artigiani dell’isola, un setaiuolo, un bambagiaro, un figlio di fabbro29. Due secoli più tardi, per Edrisi, Napoli è ancora la città delle manifatture che aveva conosciuto Ibn Hawqal, la «Napoli dal lino», e Palermo, nei quartieri del qasr, il Cassero, e nel borgo, dov’è l’arsenale, appare così ricca di botteghe e officine che «a dirla in una parola, fa girare il cervello a chi la guarda»30. Sono le stesse botteghe dei musulmani che, riferisce poi Ugo Falcando, i cristiani saccheggiano e distruggono dopo l’uccisione di Maione31. Ancora in Edrisi, si dispiega una mappa che individua artigiani anche in piccoli insediamenti, Alcamo, Randazzo ai piedi dell’Etna, Castrogiovanni; manifatture tessili, da Milazzo e Agrigento a Partinico, dove «si lavora gran copia di cotone e di hinnah [una pianta usata nell’arte tintoria]»; arsenali, da Gaeta e Sorrento, a Bari e Messina; e mulini e corsi d’acqua che, come l’Ancinale in Calabria, ne fanno «girare le macine»32. È sempre meticolosa la registrazione delle strutture e delle attività molitorie (oltre che per le esigenze della cerealicoltura estensiva, anche per i motivi cui ha accennato Tramontana nella sua relazione a queste giornate [n.d.r.: S. Tramontana, La meretrice, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle none giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 1989, cur. G. Musca, Bari 1991, pp. 79-101]), in fonti di età e provenienza diverse, dal geografo ’Al Muqaddasî, cui dobbiamo l’immagine dei mulini «piantati in mezzo della città», lungo il corso dell’Oreto, nella Palermo del

29 ’AL MALIKI, Rîâd ’an nufûs (Giardini che dilettano gli animi), ivi, p. 312 sul figlio del fabbro; p. 321 sul setaiuolo e sul bambagiaro; l’episodio della torta rifiutata è a p. 324. Sullo zucchero: C. TRASSELLI, Storia dello zucchero siciliano, Caltanissetta-Roma 1982 (a pp. 7274 sui lavoratori dei trappeti). 30 EDRISI, L’Italia descritta nel «Libro del re Ruggero», ed. M. Amari - C. Schiaparelli, Roma 1883, p. 26; «l’arsenale addetto alla costruzione [del naviglio]» è «pieno di fondachi, case, bagni, botteghe, mercati, e difeso da muro, fosso, riparo», p. 27; la descrizione del qasr è a p. 25; Napoli «’al kattân», «dal lino», a p. 95. Una più recente traduzione dell’opera, per la parte relativa alla Sicilia, è in Edrisi, cur. U. Rizzitano, Palermo 1966. 31 UGO FALCANDO, Liber cit., p. 56. 32 EDRISI, L’Italia cit., p. 132; Alcamo, p. 45, «è vasto casale, con terre da seminare ed ubertose [produzioni]. Ha un mercato frequentato, artigiani e manifatture»; Castrogiovanni, p. 49: ha «industrie [urbane e traffico di] merci [minute]» e «artigiani, mercanzie e derrate»; Randazzo, p. 60: «Questo villaggio pare una piccola città. Il suo mercato è animato di mercatanti e di artigiani, abbondando il [territorio] di legname, che si esporta in molti paesi»; da Milazzo, p. 30, da cui «si esporta molto lino d’ottima qualità»; Girgenti (Agrigento), p. 36; Partinico, p. 39; Messina, p. 31; Gaeta, p. 94; Sorrento, p. 95; Bari, p. 103. Gli esempi potrebbero continuare: per la Terra d’Otranto, vedi F. GUERRIERI, La penisola salentina in un testo arabo di geografia medioevale, Lecce 1903, e POSO, Il Salento normanno cit., pp. 211-217.


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secolo X, ad Alessandro di Telese, che descrive i mulini di Capua galleggianti sulle acque del Volturno e trattenuti da funi di canapa33. Per quanto spesso enfatizzate, le dimensioni della manifattura tessile (con le sue specializzazioni regionali, dalla lana grossa pugliese alla seta calabrese), della cantieristica navale e militare, e delle attività ad esse collegate, sono dunque, nel regno normanno, di tutto rispetto. Non si verifica in quell’età un sostanziale e decisivo arretramento di questa base produttiva; al contrario, vi si può leggere una crescita del volume di affari, del fatturato diremmo oggi, che affonda le radici nell’eredità dell’artigianato “storico”, e riceve linfa nuova dalle esigenze di una società che si è fatta più guerriera e più sensibile alle forme di rappresentazione fastosa del potere. Non di sviluppo si tratta, ma di una crescita che è ineguale e disomogenea, “a pelle di leopardo” in senso territoriale e in senso sociale: dal numero eccezionalmente alto di artigiani segnalati in centri floridi dell’interno, come Aversa, o che dispongono, come Barletta, di strutture portuali dall’indubbia funzione di richiamo, articolazione del lavoro e valorizzazione dell’indotto34, si passa ad una presenza più ridotta e di figure artigianali più tradizionali in aree di antica vocazione agricola. Ecco riproporsi una distinzione di ruoli e collocazioni sociali all’interno di una stessa categoria: di «Staulus Corbuserus» di Catanzaro, e di «Guarinus Curviserius» di Aversa, entrambi ciabattini della metà del 1100, non ci è rimasta altra esile

33 ALESSANDRO DI TELESE, De rebus gestis cit., p. 151: «Capuam illustrissimam urbem [...] Volturnum flumen medium praeterfluit: intra cuius fluenta plurima in aquas supernatantia molendina funibus cannabineis innexa consistunt»; ’AL MUQADDASI, in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., II, Torino-Roma 1881, p. 671. 34 Numerosi i mestieri artigianali attestati, anche attraverso cognomi e soprannomi, nel Codice Diplomatico Normanno di Aversa, ed. A. Gallo, I, Napoli 1926: fabri e ferrarii, aurifices, cultelleri, campanarii, scutarii, carpenterii, patitarii, parmenterii, corduanerii, sutores, pelliciarii, pelliparii, corviserii, tanatores, tallapetra, carbonarii; e nei volumi del CDB VIII, Le pergamene di Barletta. Archivio Capitolare (897-1285), ed. F. Nitti, Bari 1914, e CDB X, e del Codice Diplomatico Barlettano, ed. S. Santeramo, I, Barletta 1924 (ed. anast. 1988): fabri e ferrarii, aurifices, argenterii, curtellerii, cortenerii, caldararii, campanarii, buctarii, carpenterii, carrozarii, sellarii, bardarii, corrigiarii, palmentarii, accimatores pannorum, sutores, pelliparii, corduanerii, calciolarii, sandalarii, confectarii, quartararii, tufaroli, petraroli, pettinarii, speciales, barberii, furnarii, panetterii, buccerii, carrerii. Sugli arsenali regi: P. CORRAO, Arsenali, costruzioni navali ed attrezzature portuali in Sicilia (secoli X-XV), in Arsenali e città nell’Occidente europeo, cur. E. Concina, Firenze 1987, pp. 33-50, spec. p. 37; sulle diverse categorie di lavoratori che vi operano, dai «maestri d’ascia, i maestri calafati, i remolars e i segatori, con i loro garzoni», alle «fembres che cuciono le vele o preparano e riparano cime»: M. SCARLATA, Ciurme, patroni e navi nel Mediterraneo (secoli XIII-XV), in I mestieri cit., pp. 93-98, spec. p. 94.


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memoria che un signum crucis in calce ad un atto35; ma è quanto basta, se ne inseriamo l’attività nei rispettivi contesti territoriali, per ipotizzare che Staulo, per fare fortuna, avesse da giocare meno carte del suo collega di Aversa. O del corviserius beneventano Bartolomeo di Alessandro, un omonimo discendente del quale, sostenitore dell’autonomia cittadina, entrerà addirittura in conflitto con il papa filoangioino Clemente IV, nel 126736. Anche all’artigiano urbano, insieme con le esigenze militari e di lusso, si continua in primo luogo a chiedere di soddisfare comuni e costanti bisogni, quelli quotidiani di una società ancora profondamente agricola, e perciò imperniata su mestieri legati al mondo contadino e alla produzione rurale. Può apparire scontata la precisazione che, per quanto partecipi della città, l’artigiano opera pur sempre in un modello economico che si fonda sulla centralità dell’agricoltura. Sottolineo il rapporto tra artigiano e campagna, prima ancora che con le città, non semplicemente perché anche il contadino svolge lavori artigianali nel tempo libero dal lavoro agricolo, o perché, viceversa, anche l’artigiano e il lavoratore stagionale liberi da impegni si dedicano alle attività agricole. La campagna non è solo uno sfondo o un punto di ritorno, e nemmeno solo il contenitore delle materie prime del lavoro artigianale, legno, lino, minerali, pelli37: è la struttura, produttiva e mentale, su cui il sistema costruisce gerarchie sociali ed economiche, valori e rendite, paure e aspirazioni. Conosciamo lo spessore delle attività commerciali nel Mezzogiorno normanno-svevo; ma non dimentichiamo che, in vaste zone del regno, l’economia è ancora «di sopravvivenza». E un’economia fortemente impegnata nella produzione di viveri e nell’accumulo di scorte alimentari, non può che assegnare centralità alla terra e al suo possesso. È certo qui la chiave di lettura della scelta finanziaria di fondo dei ceti artigianali, l’investi35 Staulo è tra i primi artigiani ricordati nel Catanzarese: Syllabus membranarum graecarum, ed. F. Trinchera, Napoli 1865, n. 194, 1179, p. 256; anche G.E. RUBINO - M.A. TETI, Catanzaro, Bari 1987 (Le città nella storia d’Italia), p. 22. Con «Guarinus Curviserius» firmano «Riccardus Tanator, Gregorius Tanator, Maio Tanator, Quintavallis Curviserius»: Codice Diplomatico Normanno di Aversa cit., n. 73, 1158, p. 128. 36 A. ZAZO, Professioni, arti e mestieri in Benevento nei secoli XII-XIV, «Samnium», XXXII (1959), p. 136. 37 È un dato colto anche dalle generiche formule notarili: «cultum et incultum, bestie maiores et minore, panni linei et laneis, ferrum et rame, aurum et argentum»: Codice Diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), ed. A. Petrucci, Roma 1960 (Fonti per la Storia d’Italia, 98), II, n. 59, 1059, p. 184. Sulla centralità del mondo agrario, contadino e pastorale nel quadro dei lavori e dei mestieri artigianali del Mezzogiorno normanno-svevo hanno particolarmente insistito le relazioni al già cit. convegno su Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: R.M. DENTICI BUCCELLATO,


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mento nella terra e nelle colture specializzate, sotto forma di acquisto o di locazione, ponendosi come intermediari tra proprietari della terra e coltivatori, e trasformando in rendita fondiaria i capitali prodotti dal lavoro nella bottega. È uno scenario comune negli atti notarili che, richiamando i proprietari delle terre confinanti, finiscono per disegnare veri e propri «quartieri» di colture in mano a magistri. In molte zone, l’interesse verso l’arboricoltura da reddito è tale da giustificare l’opinione di un ruolo propulsivo degli artigiani nello sviluppo delle colture legnose: è un dato che ho altrove segnalato per la Puglia, ma che può essere esteso ad altre realtà regionali38. Anche quando l’artigiano presta danaro, o comunque rivendica crediti, è nella terra la garanzia reale: così un sutor di Capua si fa rimborsare un credito di 84 tarì con una terra, che vende subito dopo ad un notaio39. Sappiamo di magistri che prestano persino grano prima della semina: nel testamento di un prete barese del 1211, si dispone la restituzione delle quote di frumento anticipate da alcuni artigiani, un coriarius di Gravina, un confectarius, un sutor, e da un tabernarius, che riceve anche un mantello bruno di volpe; si faccia quindi pane dal frumento vecchio, aggiunge il testante, si uccida un porcello e si dia il tutto «ad comendum pauperibus»40. Ma l’investimento più diffuso rimane l’appezzamento di terra, secondo una gerarchia di valori che, almeno nel caso di «Bricius, magister ferrarius»

Pescatori e organizzazione della pesca del tonno e del pescespada, ha rilevato ad esempio la marginalità delle attività di pesca nell’economia della Calabria, a differenza di regioni come la Sicilia (su cui tra l’altro DENTICI BUCCELLATO, Tonnare e tonnaroti nella Sicilia del Quattrocento, in I mestieri cit., pp. 121-129, e H. BRESC, Un mond méditerranéen. Économie et société en Sicile. 1300-1450, 2 voll., Roma 1986). 38 R. LICINIO, Uomini e terre nella Puglia medievale, Bari 1983, p. 76; anche G. VITOLO, I prodotti della terra: orti e frutteti, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normannosvevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), cur. G. Musca, Bari 1987, pp. 159-185; G. CHERUBINI, I prodotti della terra: olio e vino, ivi, pp. 187234, spec. pp. 229ss.; V. D’ALESSANDRO, Servi e liberi, in Uomo e ambiente cit., pp. 293318, spec. pp. 305ss. (più in generale, in relazione alle modalità di produzione: M. MONTANARI, Cereali e legumi, ivi, pp. 89-110, e B. ANDREOLLI, I contratti agrari, ivi, pp. 111-133). 39 Le pergamene di Capua, ed. J. Mazzoleni, I (972-1265), Napoli 1957, n. 28, 1143, p. 69: Martino sutor, figlio di Giovanni Napoletano, abitante in Capua, riceve da un debitore insolvente una terra «in finibus lanei, in loco S. Theodori», che poi, n. 29, 1146, pp. 70-71, vende ad un notaio. 40 CDB VI, n. 26, 1211, pp. 41-43: testamento di Micelo, prete della basilica di S. Nicola; il frumento, seminato insieme all’orzo, adoperando come strumenti due zappe «latas» e altre due «strictas», era poi stato «pisato» con l’aiuto di un’asina; tra i confini delle terre appartenenti al testante sono citati anche i vigneti di un fabricator e di un piscator.


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di Salpi, presso Barletta, ci è possibile ricostruire nei particolari per il periodo 1203-1227. Nel 1203 Brizio riceve dal cognato la dote della moglie, 10 once d’oro che possiamo ipotizzare gli siano servite nella bottega. Nel 1221, il nostro fabbro fa registrare dal notaio il suo primo acquisto: ed è una terra, pagata ad una vedova meno di un’oncia e mezza; tre anni dopo acquista un quarto di una chiusura con vigna e olivi, in una zona di espansione colturale; poi, nel 1226, chiede ed ottiene in enfiteusi dal vescovo di Salpi un casalinum, un terreno improduttivo in città, su cui si riserva di costruire un edificio; quindi, un anno dopo, ed è l’ultima traccia che ne abbiamo, si garantisce il diritto ad abitare una casa urbana41. Matrimonio, dote, terra, coltura specializzata, area edificabile, casa in città: è la scala delle scelte e dei valori di un artigiano medio. Un ventennio più tardi, l’incompleto ma prezioso Quaternus de excadenciis federiciano censisce tra i testi giurati di Salpi soltanto un buccerus e due campsores42. Questo «vuoto», senz’altro degno di riflessione, vale per tutta la Capitanata: vi si possono contare a decine artigiani dai più disparati mestieri, liberi e coloni, proprietari o solo gestori di beni rurali, ma a far parte degli uomini «degni di fede» che, in ogni località, vengono interrogati per l’inchiesta, sono solo pochissimi artigiani: qualche ferrarius in borghi rurali, un sutor e uno zucculanus a Foggia, un aurifex a Siponto43. 41 CDB VIII, n. 189, 1203, p. 243; CDB X, n. 64, 1221, pp. 91-92; CDB VIII, n. 230, 1224, pp. 288-289; n. 232, 1226, pp. 290-292; n. 234, 1227, pp. 294-295. Ancora a Salpi, il magister faber Giovanni acquista per 4 once d’oro una casa «in pectacia S. Eugenie», presso la casa di un pelliparius; nell’atto è anche la firma di un corduanerius: ivi, n. 200, 1209, p. 254. Meno fortunate le vicende di un altro magister faber di Salpi: dopo aver ottenuto in concessione dalla chiesa di S. Stefano dei terreni su cui impiantare vigneti, il fabbro Amiralia, per mancanza di mezzi finanziari, li utilizza per due anni solo come seminativi, per cui la concessione gli viene revocata: ivi, n. 214, 1217, pp. 267-268. In generale, a partire dall’XI secolo, «è logico supporre che, se non tutti, almeno i più abili, o i più fortunati, ferrarii, avessero la possibilità di condurre un’esistenza abbastanza agiata e di costituirsi nello stesso tempo una solida base economica, tale da consentire loro di progredire nella scala sociale», ad esempio, come fa il ferrarius Mel nella Bari del 1027, legandosi attraverso il matrimonio a famiglie altolocate, «momento assai importante di promozione sociale e di crescita nella considerazione comune»: M. CANNATARO, Un insolito documento privato barese del secolo XI, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», XIX-XX (1976-1977), p. 219. 42 Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis Frederici secundi, ed. A.M. Amelli, Montecassino 1903, p. 16. 43 Ferrarii a Deliceto, ivi, p. 11; Siponto, p. 48; Caprilio, p. 55; Salzoburgo, p. 59; Foggia, p. 17. Molto più numerosi gli artigiani ricordati in relazione ai beni censiti: a Foggia, tra l’altro, una casa è locata a «magistro Constancio sellario domini Imperatoris», un’altra casa ed una vigna sono «locatas per Curiam magistro Rogerio pictori», un casalino è affidato a «Matheus ferrarius», ed un vigneto al «magister Manfridus aurifex domini


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Pur integrati con le informazioni dei coevi documenti notarili, i dati disponibili non consentono di attribuire alle località rurali della Capitanata la qualifica di centri artigianali (o commerciali) rilevanti, tali cioè da soddisfare domande e bisogni più ampi e qualificati rispetto alle normali attività di ogni comunità agricolo-pastorale. Naturalmente, in questo quadro di comune artigianato rurale possono intervenire e giocare un ruolo propulsivo scelte e fattori esterni, soprattutto di ordine militare; in età sveva a Fiorentino si contano pochissimi artigiani specializzati, due fabri, un ferrarius e un palmenterius, qualche muratore, e tra le infrastrutture solo una fornace per mattoni: qualche decennio più tardi, nella prima età di Carlo I d’Angiò, vi si è invece potenziato un artigianato edile capace di produrre materiali destinati al castello in costruzione nella vicina Lucera44. Se l’indagine si sposta sui nuclei urbani (e portuali, Barletta ad esempio), sulla loro funzione di richiamo, sulla diversificazione di compiti ed attività che essi determinano, le conclusioni sono ben diverse. Qui, con la terra, attraggono i capitali anche la casa e l’officina, che spesso sono ambienti non separati. L’inurbamento artigianale obbedisce a regole note: la possibilità di entrare in diretto contatto con mercati più ampi; un sistema di reperimento e trasporto delle materie prime meno aleatorio; una committenza più sicura e ricca. Ha esiti che incidono in profondità sulla divisione del lavoro, per cui al più ampio spettro di attività svolte dall’artigiano rurale si sostituisce nel magister urbano una specializzazione più netta del lavoro. E favorisce forme di mobilità sociale, verticale e orizzontale: come passaggio cioè da un mestiere artigianale ad un altro (caso meno documentato), o da una posizione sociale ad un’altra; e mobilità territoriale, con spostamenti da una regione all’altra, da una località dell’interno ad una costiera, o viceversa, lì dove il mercato appare meno labile e le occasioni di lavoro meno casuali. Di tutto questo dà conto, in Edrisi, la bella descrizione dell’arsenale di Messina, con il suo «continuo ancorare, scari-

Imperatoris» (pp. 17, 19, 26, 28); e tra le proprietà confinanti appaiono le case di «Peregrini fabri» e del «magistri Pulcaroni fabri», le vigne dei figli di «Maximiani corrigiarii», di «Benedicti sutoris» e di «Goffridi Corbiserii», il vignale di «Palmerii ferrarii» (pp. 18, 26, 27, 28). 44 Ivi, pp. 66-67, e J.-M. MARTIN, Fiorentino au début du XIII siècle d’après la documentation ècrite, in Federico II e Fiorentino. Atti del I Convegno di studi medievali della Capitanata (Torremaggiore, 23-24 giugno 1984), cur. M.S. Calò Mariani, Galatina 1985, p. 3; M. FUIANO, Aspetti di vita rurale nel territorio di Fiorentino nell’età di Federico II, ivi, p. 10; CDP XXX, Le cartulaire de S. Matteo di Sculgola en Capitanate (Registro d’Istrumenti di S. Maria del Gualdo) (1177-1239), ed. J.-M. Martin, II, Bari 1987, nn. 196, 1211, p. 347, e 391, 1213, p. 392.


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care e salpare di legni provenienti da tutti i paesi marittimi; qui si raccolgono le grandi navi: i viaggiatori e i mercanti [...] vi traggono d’ogni banda. E splendidi i mercati, numerosi i compratori, facilissima la vendita»45. Ma non mancano le carte in cui il luogo di nascita dell’artigiano è ben distante da quello di lavoro; anzi, di famiglie e di gruppi di artigiani, come gli aurifices siciliani saldamente impiantati, alla fine del 1100, nella zona cavense di Vietri e Dragonea46. Il risultato è che se la campagna concentra funzioni diverse nel singolo artigiano, la città concentra in singoli quartieri le attività affini dei tanti. Vie, piazze, chiese, distretti e quartieri diventano riconoscibili dai mestieri e ne assumono il nome, in numero così frequente da non aver bisogno di puntuale esemplificazione47. Per lo più in posizione periferica, quasi a cerniera tra il borgo e la fascia delle colture suburbane, dunque a cerniera tra mondo cittadino e mondo rurale, quei luoghi indicano una tendenza all’uso comune e specializzato dello spazio (il quartiere come artigiano collettivo), e ancor più un bisogno di identificazione immediata, una vicinanza che, nell’assenza di organizzazioni ufficiali di mestiere, svolga almeno un minimo di solidarismo e di controllo della concorrenza. L’inserimento delle contrade artigiane all’interno delle mura e nel tessuto urbanistico delle città è un fatto compiuto nel tardo Medioevo. L’età dell’integrazione sarà anche il periodo delle associazioni di mestiere, della 45 EDRISI, L’Italia cit., p. 31. 46 Codex diplomaticus cavensis, IX (1065-1072), ed. S. Leone - G. Vitolo, Badia di Cava

1984, n. 6, 1068, p. 201: Basilio «Sicillensis aurifex qui nunc monachus est»; sposato con Anastasia, ne ha tre figli, il maggiore dei quali, Andrea, a sua volta aurifex, acquista una terra nel 1071 (n. 111, pp. 341-343), e vende qualche anno dopo alcune terre a Solimeno orefice, «oriundo della Sicilia» (notizia relativa al 1084, riferita nel regesto del doc. n. 63, 1068, p. 199). Quest’ultimo nell’aprile 1093 assegna in dote alla figlia Alferana, moglie di Sifo di Nicola siculo, invece di 100 soldi in tarì amalfitani, le terre acquistate da Andrea orefice (notizia riferita nel reg. del n. 121, 1072, p. 357). Vedova di Sifo, Alferana vende poi quei beni, per 115 soldi, a tale Pietro Boso, e per lui al monastero di Cava (notizia relativa al 1114, riferita nel reg. del n. 121, 1072, p. 357). 47 Senza pretesa di completezza, ricordiamo Aversa, dov’è la platea Parmentariorum: Codice Diplomatico Normanno di Aversa cit., n. 94, 1172, p. 167; Salerno, dove sono documentate la platea Parmentariorum, la chiesa di S. Giovanni «que de lu cannabaru dicitur», le vie Ferrariorum, Corbiseriorum, Petitorum (fabbricanti di scodelle) e Speciarorum: Codice Diplomatico Salernitano del secolo XIII, ed. C. Carucci, I, Subiaco 1931, nn. 81, 1232, p. 163; 176, 1264, p. 315; 204, 1269, p. 347; 368, 1279, pp. 513-514; Brindisi, dov’è attestata nel 1239 una «magna ruga scutariorum» nel quartiere di San Giuliano: N. VACCA, Fonditori di bronzo in Brindisi, «Archivio Storico Pugliese», VIII (1955), pp. 205210; Amalfi e la platea Calzulariorum con le sue botteghe di artigiani ed enti ecclesiastici: Codice Diplomatico Amalfitano cit., II, Le pergamene di Amalfi già nell’Archivio di Stato di Napoli (1201-1322), Trani 1951, n. 466, 1289, p. 205.


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redazione degli statuti e dei rendiconti e inventari delle botteghe48. Di questi ultimi non possediamo esempi particolareggiati per l’età normanna e sveva: ed in fondo anche nei testamenti, per indicare gli attrezzi dell’officina si ricorre ad espressioni generiche, «fabrilia instrumenta»49, o all’enumerazione degli strumenti essenziali e d’uso comune. Per riempire questo vuoto, e contando sul peso della tradizione nei lavori manuali, si è soliti ricorrere a documenti più tardi, descrittivi e catalogatori, o di altre aree. Operazione utile, a patto di non trarne frettolose conclusioni di continuità rispetto al ruolo e alla condizione sociale di artigiani che hanno operato in contesti differenti. Va ribadito che la particolare natura (e il relativo silenzio) delle fonti prima del Vespro è segnale di una condizione politica e sociale minoritaria, marginale, di quei ceti. Di conseguenza, l’aumento 48 Esempi recenti e fruttuosi di ricerca sociale sull’artigianato siciliano, a partire da registri notarili più tardi, sono i lavori di P. CORRAO, Note sul lavoro salariato a Palermo nella prima metà del Trecento, «Medio Evo. Saggi e rassegne», 5 (1980), pp. 105-123, e di DENTICI BUCCELLATO, I mestieri della città, cit.; v. anche i contributi nei già citati La cultura materiale, I mestieri, e Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale. Sugli Statuti, V. LA MANTIA, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo 1900; E. ROGADEO, Ordinamenti economici in Terra di Bari nel secolo XIV, Bitonto 1900; F. CALASSO, La legislazione statutaria dell’Italia meridionale, Roma 1929. 49 Syllabus cit., n. 129, 1141, p. 171: «panta ola ta ‘eswrÇsia»; sui «pochi strumenti essenziali» dei calzolai, «il trincetto, la lesina, lo spago, forse le forme delle calzature»: NADA PATRONE, Pelli e pellami cit., p. 191; ivi, p. 201, sui «ferra pellicariae» (e pp. 183ss. per le fasi della lavorazione delle pelli). Non si fa parola di attrezzi né di beni nel testamento di un calzolaio di Monopoli in CDP XX, Le pergamene di Conversano, I (901-1265), ed. G. Coniglio, Bari 1975, n. 167, 1228, p. 525. Anche le notizie sui corredi dotali alle figlie di artigiani non sono numerose: v. la dote della figlia di un fornaio barese in CDB VI, n. 24, 1210, pp. 38-39, e della figlia di un magister spurgatoris che risiede a Monopoli in CDB I, Le pergamene del Duomo di Bari (952-1264), ed. G.B. Nitto de Rossi - F. Nitti, Bari 1897 (rist. anast. 1964), n. 57, 1181, pp. 111-112; sull’argomento P. CORSI, Arredi domestici e vita quotidiana, in Terra e uomini cit., pp. 75-111. Negli atti di età successiva le informazioni disponibili sugli strumenti del mestiere si fanno sempre più puntuali e circostanziate; si misuri la distanza che su questo piano intercorre tra i documenti di età normanna e sveva e il contratto di affitto di strumenti di lavoro stipulato nel 1298 tra due fabbri palermitani, relativo a «incudinem unam habentem quatuor pedes et duo cornua, videlicet unum quadratum et alium rotundum, par unum de manticis, mactiam unam, malleum unum, paria duo de tenacolis et tueram unam» (DENTICI BUCCELLATO, I mestieri della città cit.); e, tra i testamenti, quella tra il documento n. 53, 1342, in corso di edizione [n.d.r.: in CDP XXXI, Le pergamene di Altamura (1309-1381), ed. P. Cordasco, Bari 1994] (il magister Lorenzo di Altamura, figlio del magister tufarolus Santoro, e fratello di altri tre magistri, lascia al nipote «tabulas aptas et deputatas ad intanbulandas ocreas, macinellam unam, formas ligeras quas habeo pro arte curbiserie nec non et omnia alia supellectilia seu regimina mea que habeo apta seu ad ipsius artem curbiserie deputata»), e l’estratto del ricco inventario testamentario di Matteo Calanzono, magister zuccarorum palermitano, redatto nel 1441, pubblicato da A. GIUFFRIDA, La produzione dello zucchero in un opificio della piana di Carini nella seconda metà del sec. XV, in La cultura materiale cit., pp. 143-145.


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della documentazione nel periodo di Roberto d’Angiò, quando si costituiscono le prime corporazioni, va considerato anche come prodotto di una «svolta», di una «frattura» decisiva rispetto all’età sveva50. Del resto, le informazioni sugli strumenti di lavoro nelle botteghe si rivelano più proficue quando ci mostrano l’attrezzo non come semplice utensile, in quanto cioè prolungamento della mano dell’artigiano, ma nella sua funzione di strumento in rapporto alla materia lavorata. «L’utensile come protesi della mano è in realtà una sua semplificazione», ha scritto lucidamente Manlio Brusatin. «Non espande la mano, la risparmia, la implica escludendola [...]; da utensile per comuni fabbisogni diventa strumento individuante una tecnica: così l’utensile “martello” diventa strumentalmente diverso nel mestiere del calzolaio e in quello del fabbro»; aggiungiamo, con Leroi-Gourhan, che «l’utensile esiste realmente solo nel gesto che lo rende efficace», e, con Johan David, che «outil et main ne sont toutefois toujours la technique. Un troisième élément, absolument indispensable, est le cerveau de l’homme», individuale e collettivo51. Allora, all’interno del sapere tecnico e delle pratiche di lavoro racchiuse nella bottega, è la capacità (anche individuale) di assegnare e trasmettere attraverso il prodotto finito caratteri, valori e significati (anche sociali), una prima base di distinzione tra l’artigiano che lavorando «progetta», e l’artigiano che lavorando «esegue»; ovvero, richiamando categorie aristoteliche, tra banausía e techne. È un discorso, quello sui rapporti tra mestieri e mentalità, tecniche e scienze, utensili e cultura comportamentale, che ci porterebbe lontano, dal «mondo del pressappoco» analizzato da Koyré alla psychologie historique di Vernant, da Bloch alle indagini sulla «vita materiale» promosse da Braudel e dalla storiografia polacca, dalle «frontiere del disprezzo» e dai 50 R. CAGGESE, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, 2 voll., Firenze 1922, I, pp. 273-289: a p. 278 è l’esempio dell’ars confectarium e dei suoi magistri testimoniati nel 1322 a Trani; G.M. MONTI, Le corporazioni nel Regno di Sicilia prima del 1347, «Annali del Seminario Giuridico-Economico della R. Università di Bari», Bari 1934, parte I, pp. 70-97; MONTI, Le corporazioni nell’Evo antico e nell’Alto Medioevo, Bari 1934; S. LEONE, Lineamenti di una storia delle corporazioni in Sicilia nei secoli XIV e XV, «Archivio storico siracusano», 2 (1956), pp. 82-100. 51 BRUSATIN, Artigianato cit., p. 928; A. LEROI-GOURHAN, Il gesto e la parola, II, Torino 1977, p. 278; J. DAVID, L’outil. Objet mort ou vivant?, in Le travail au Moyen Âge cit., p. 324. Sui rapporti tra utensile, tecnologia e civiltà: J. MICHÉA, La technologie culturelle: essai de systématique, in Ethnologie générale, Paris 1968, pp. 823ss. Ricordo che nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, II-II, 187, 3, la mano è definita utensile per eccellenza, ed il lavoro manuale designa ogni tipo di attività che, effettuata con mani, piedi o lingua, consenta all’uomo di guadagnarsi onestamente da vivere.


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tabù sui mestieri messi a fuoco da Le Goff alla «psicoanalisi del fuoco» di Gaston Bachelard, dai risultati della ricerca archeologica alla «tecnologia culturale», sino ai più recenti studi demoantropologici52: un discorso che qui posso solo sfiorare. Certo non è casuale che alcuni dei più utili e diffusi prodotti artigianali medievali si siano caricati di valori simbolici, oltre che materiali e d’uso: le botti ad esempio, a ragione definite polifunzionali53. Così come non è casuale il fatto che nell’iconografia meridionale i mestieri artigianali siano poco rappresentati: sono tra le più interessanti e felici eccezioni le miniature sui lavori del fabbro, del muratore, del vetraio, e le altre che illustrano il De Origine rerum di Rabano Mauro, nel codice 132 di Montecassino, per altro anteriore al 1023, «in cui appaiono per la prima volta con coerenza e realismo le attività artigianali»54. In compenso, i mosaici di Monreale e Otranto dedicano agli artigiani solo le figure dei carpentieri e muratori in tradizionali scene bibliche55; gli Exultet, che talvolta illustrano vesti ed oggetti preziosi, edifici, torri e chiese, raramente si occupano di attività lavorative e comunque, nel caso più frequente della

52 A. KOYRÉ, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Tecniche, strumenti e filosofia dal mondo classico alla rivoluzione scientifica, Torino 1967; sulla psychologie historique di J.P. Vernant cfr. ivi l’Introduzione di P. Zambelli, pp. 44-45; BLOCH, Lavoro e tecnica cit.; di BRAUDEL, l’Introduzione a Capitalismo e civiltà materiale cit., e i saggi raccolti in Scritti sulla storia, Milano 1973; W. KULA, Problemi e metodi di storia economica, Milano 1972; J. LE GOFF, Mestieri leciti e mestieri illeciti nell’Occidente medievale, ora in Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino 1977, pp. 53-71; G. BACHELARD, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari 1973; A. CARANDINI, Archeologia e cultura materiale, Bari 1977 (e gli indirizzi di ricerca espressi dalla rivista «Archeologia materiale»); MICHÉA, La technologie culturelle cit.; infine cfr. le tesi, discutibili e ampiamente discusse, di R. BUCAILLE - J.M. PESEZ, Cultura materiale, in Enciclopedia Einaudi, IV, Torino 1978, pp. 271-305. 53 C.M. RUGOLO, Maestri bottai in Sicilia nel secolo XV, in I mestieri cit., pp. 109-120 (p. 111); e F. FAETA - L.M. LOMBARDI SATRIANI - M. MINICUCI, Strumenti di lavoro e dimensione simbolica, ivi, pp. 591-607. 54 J. LE GOFF, Lavoro, tecniche e artigiani nei sistemi di valore dell’alto Medioevo, in Tempo della Chiesa cit., p. 90 (già in Artigianato e tecnica cit., I, pp. 239-266); HRABANUS MAURUS, De Origine Rerum, in E.A. LOEW, The Beneventan script. A history of South italian minuscule, II ed. cur. V. Brown, Roma 1980; la scarsità delle rappresentazioni del lavoro nelle fonti iconografiche meridionali è stata sottolineata anche da E. ZINI, Mestieri, lavoro e professioni nelle fonti figurative, relaz. al Convegno Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale cit. 55 Su Monreale: W. KRONIG, Il duomo di Monreale e l’architettura normanna in Sicilia, Palermo 1965; su Otranto: C.A. WILLEMSEN, L’enigma di Otranto. Il mosaico pavimentale del presbitero Pantaleone nella Cattedrale, Galatina 1981; C. SETTIS FRUGONI, Il mosaico di Otranto: modelli culturali e scelte iconografiche, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano», 82 (1970), pp. 243-270.


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raccolta del miele, oscillando tra stilizzazione astratta e rappresentazione realistica56; la miniatura che raffigura Palermo alla morte di Guglielmo II, nel codice di Berna del Carmen di Pietro da Eboli, mette in scena un gruppo di persone che la didascalia chiama «Ildeisini», forse musulmani artigiani del giunco57; e nell’affresco della grotta di S. Lorenzo a Matera nelle funzioni di maniscalco, faber ferrarius, non a caso è presentato sant’Eligio, il vescovo di Noyon che sappiamo prestigioso aurifex alla corte di Clotario II58. Non mi sembra si possano ricordare, invece, rappresentazioni di un santo che, come il benedettino Bernardo di Tirone agli inizi del 1100, si era dedicato all’arte del tornitore; e anche quando, in età angioina e aragonese, diventeranno meno insolite le raffigurazioni di santi legati ad ambienti rurali e a particolari mestieri (penso alla trecentesca santa Caterina d’Alessandria della grotta dei SS. Stefani a Vaste, nel Leccese, che regge in una mano una piccola ruota dentata: esempio di un culto diffuso tra i mugnai e quanti lavorano con la ruota), difficilmente avremo immagini capaci di competere, per immediatezza e suggestione, con il Cristo dei lanaioli del 56 Sugli Exultet e le immagini delle api: M. AVERY, The Exultet Rolls of South Italy, II, Princeton-London-The Hague 1936; G. CAVALLO, Rotoli di Exultet dell’Italia meridionale, Bari 1973; NASO, Apicoltura cit.; sull’apicoltura in Calabria, in particolare dalle fonti toponomastiche e onomastiche: F. MOSINO, Attività agricola e apicoltura, relaz. al convegno Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale cit. 57 La miniatura relativa al De rebus siculis Carmen cit. è la tav. IV, p. 14; v. anche le figure di uno scrivano, tavv. XXXII e XLII, pp. 128 e 168; di un servo, tav. XXXV, p. 140; di agricoltori, tav. XXXIX, p. 156; e una scena di disboscamento, tav. LI, p. 204; cfr. inoltre G.B. SIRAGUSA, Le miniature che illustrano il Carmen di Pietro da Eboli nel codice 120 della Biblioteca di Berna, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 25 (1904), pp. 115-163, e sugli «Ildeisini» C.A. NALLINO, Nota, «Atti e Memorie della Società siciliana per la Storia Patria», f. I-II (1910), pp. 196-197. 58 La Vita Eligii episcopi Noviomagensis può esser letta (oltre che negli Acta Sanctorum, 1 Dicembre) in M.G.H., Scriptores rerum merovingicarum, IV, ed. B. Krusch, HannoverLeipzig 1902, pp. 634-761; aurifex più che faber ferrarius (sappiamo che nella Legge Salica la condizione degli aurifices era equiparata a quella dei fabri ferrarii e dei porcarii), coniatore di preziose monete e autore di raffinati oggetti di alta oreficeria (calici, vasi, croci e la sella di Dagoberto), Eligio è ricordato per una serie di miracoli all’arte fabbrile legati direttamente (quello della catena spezzata per cacciarvi il demonio: II, 80, p. 739) o indirettamente (la guarigione degli storpi: II, 73 e 75, p. 737); mi sembra qui evidente il richiamo alla tradizione del dio faber del mondo antico e il suo superamento: mentre il dio faber era zoppo, il fabbro santificato dal cristianesimo è in grado di guarire gli zoppi e gli storpi, restituendo loro un’integrità che è anche sociale; v. inoltre CASTELNUOVO, L’artista cit., p. 243. La stessa Chiesa ha iniziato a promuovere una rivalutazione del lavoro fabbrile nel secolo XII, quando vengono «propagandate le figure di Iubal e Tubalcain, l’inventore degli strumenti musicali e dell’arte di forgiare il ferro»: C. FRUGONI, Chiesa e lavoro agricolo nei testi e nelle immagini dall’età antica all’età romanica, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, cur. V. Fumagalli - G. Rossetti, Bologna 1980, p. 335. Sulla grotta di S.


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Duomo di Biella (databile verso il 1460) e con il ricco corredo di strumenti di lavoro che lo feriscono, o con l’analogo tema iconografico presentato agli inizi del Quattrocento in un affresco della Pieve di San Pietro di Feletto nell’Udinese59. Come le botti, anche l’officina è struttura polifunzionale: il magister vi abita, vi lavora, spesso vi vende i prodotti e ne divide la proprietà o l’uso con altri lavoratori, anche non legati da parentela. Disponiamo di sufficienti elementi per individuare forme e protagonisti del processo di valorizzazione artigianale delle aree, non solo urbane, su cui si impiantano botteghe e officine. Due soli esempi: le due «apotegas fabrjcatas soleratas» costruite nella piazza maggiore e «in ruga banbacariorum» di Salerno dal «cultellarjo» Aminada, nel 1219, su «duas terras vacuas» ottenute in censo per 19 anni dal monastero femminile di S. Giorgio; e l’atto del 1222 con cui il monastero di Cava affitta a due fratelli, per 19 anni, una terra nel suburbio di Salerno, con il diritto d’uso delle acque, perché vi costruiscano una conceria di pelli, «pro arte tanarie exercenda»: l’accordo prevede un canone di 4 tarì e una libbra di cera all’anno, il divieto di cedere la struttura, e l’au-

Lorenzo a Matera e sull’affresco del maniscalco: C.D. FONSECA, Civiltà rupestre in Terra Jonica, Roma-Milano 1970, p. 92; un’altra rappresentazione del santo con gli strumenti del mestiere fabbrile, ma di età angioina, è nella chiesa rupestre dei SS. Andrea e Procopio in agro di Monopoli: N. LAVERMICOCCA, Gli insediamenti rupestri del territorio di Monopoli, Roma 1977, pp. 44-45. 59 Vedi la tavola 22 dell’inserto illustrativo di G. ROMANO, Studi sul paesaggio, Torino 1978; sull’affresco di santa Caterina a Vaste: C.D. FONSECA - A.R. BRUNO - V. INGROSSO A. MAROTTA, Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento, Galatina 1979, pp. 36 e 233; su Bernardo di Tirone: R. GRÉGOIRE, Il contributo dell’agiografia alla conoscenza della realtà rurale. Tipologia delle fonti agiografiche anteriori al XIII secolo, in Medioevo rurale cit., p. 357, e J. DUBOIS, Le travail des moines au Moyen Âge, in Le travail au Moyen Âge cit., pp. 84-87; anche C.D. FONSECA, Lavoro agricolo e tempo liturgico, in Uomo e ambiente cit., pp. 67-87. È pur vero che verso il secolo XII, anche come «effetto della crescente divisione del lavoro nasce [...] una presa di coscienza del mestiere e della professione, e una nuova teologia del lavoro, la fatica del lavoro diventa un merito»; è appunto di quel periodo la «Vita di Guido di Anderlecht, un garzone di fattoria (morto all’inizio del secolo XII), santo abnorme come provenienza sociale [...]. Intorno al 1275 è invece scritta da un Giovanni Diacono la Vita di Isidoro l’Agricoltore, santo leggendario che sarebbe vissuto tra 1080 e 1130 circa, anch’esso garzone di fattoria, e benché canonizzato solo nel XVII secolo, subito largamente popolare»: FRUGONI, Chiesa e lavoro agricolo cit., pp. 333 e 335; v. anche J. LE GOFF, Mestiere e professione secondo i manuali dei confessori nel Medioevo, in Tempo della Chiesa cit., p. 144, e per la Sicilia G. MARTORANA, Agiografia e lavoro. S. Isidoro Agricola e i «vistiamara» di Mistretta, in I mestieri cit., pp. 421-433, spec. p. 424; e l’antologia curata da S. Boesch Gajano, Agiografia altomedievale, Bologna 1976. Sugli attributi iconografici dei santi legati al mondo rurale: G. DA COSTA LOUILLET, Saints de Sicile et d’Italie méridionale aux VIII, IX et X siècle, «Byzantion», XXIX-XXX (1959-1960)


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torizzazione ai conciatori a portare con sé, alla scadenza, «omnes res mobiles», su cui per altro l’ente si riserva un’opzione di acquisto60. Conosciamo anche funzionamento e dislocazione degli strumenti produttivi, e le diverse tipologie di una casa-bottega artigianale, con l’officina che a piano terra si apre sulla ruga o sulla piazza, o «sub arcubus» di un edificio, con una tettoia «ante abotegam», con la cantina-deposito, a volte con il laboratorio tessile nel solaio, e il cortile in comune con i vicini61. Ci sfugge, al contrario, l’organizzazione del lavoro nella bottega, il concreto svolgersi dell’attività quotidiana, dal momento che quasi mai l’artigiano viene colto e descritto sul lavoro, al banco degli attrezzi, ad azionare i mantici delle fucine, a conciar pelli, a tesser lana, a preparar colori. E nemmeno ad insegnare il mestiere all’apprendista: se la trasmissione del sapere pratico era affidata all’esperienza, almeno in teoria un maniscalco poteva disporre di un’opera specifica e competente come l’Hippiatria di Giordano Ruffo, pubblicata dopo la morte di Federico II62. Ignoriamo piuttosto sino a che punto circolassero e fossero fruiti altri trattati tecnici redatti in Italia meridionale, il Mappae clavicula, scritto nell’800, i manuali alchemici, i testi della Scuola salernitana sulla distillazione dell’alcol dal vino; o sino a che punto fossero noti trattati prodotti altrove ma di vasta diffusione, il De diversis artibus di Teofilo, il De coloribus di Eraclio, entrambi del X secolo63. Tra le eccezioni è una ricetta siciliana, uno dei primi documenti del [Hommage à la mémoire de Ciro Giannelli], pp. 89-173; il repertorio di G. KAFTAL, Iconography of the Saints in central and south-italian School of Painting, Firenze 1965; e il fondamentale A.J. GUREVIC, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino 1986. 60 Pergamene del monastero benedettino di S. Giorgio (10381698), ed. L. Cassese, Salerno 1950, n. XV, ottobre 1219, pp. 89-92; Codice Diplomatico Salernitano cit., n. 65, 1222, pp. 139-141: altri contratti dello stesso tipo in nota 1, p. 140, e n. 118, 1245, pp. 219220; si riferisce invece all’esercizio dell’arte fabbrile la cessione in enfiteusi di una bottega nella «curte dompnica» di Salerno: Giovanni Ferrarius e i suoi eredi, «si voluerint, artem suam ferrarie exerceant vel exerceri faciant»: n. 290, 1273, p. 429. 61 Ad esempio, la «abotega [...] in ruga Speciarorum, sub arcubus veteris palacii istius civitatis [...] cum palis et plancis, furcis et tecto ante ipsam apotegam et supra ipsam rugam positis», ivi, n. 368, 1279, p. 514; e n. 82, 1232, p. 165; Les actes latins de S. Maria di Messina (1103-1250), éd. par L.R. Ménager, Palermo 1963, n. 20, 1239, pp. 155-158, per la descrizione degli ambienti di un fondaco. Anche G. e H. BRESC, «Fondaco» et taverne de la Sicile médiévale, in Hommage à Geneviève Chevrier et Alain Geslan, Strasbourg 1975, pp. 95-106. 62 JORDANI RUFFI CALABRENSIS Hippiatria (De medicina equorum), ed. H. Molin, Padova 1818; sull’opera e, più in generale, sui trattati di mascalcia cfr. F. PORSIA, I cavalli del re, Fasano 1986, spec. le pp. 54-84; e PORSIA, Indirizzi della scienza e della tecnica in età federiciana, «Archivio Storico Pugliese», XXXI (1978), pp. 95-111. 63 Mi limito a richiamare R.J. FORBES, Metallurgia, in Storia della tecnologia cit., pp. 6466; E.S. TAYLOR - CH. SINGER, La chimica industriale nel periodo prescientifico, ivi, pp. 356-


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volgare di età angioina, sul procedimento per ottenere il colore turchino utilizzando il forno del vetraio: «prindi scórce de li ove: mundali bene et lava; posca mittili ad unu vassellu de terra stanniatu, et mitti lu vassellu a lu fúrnu de li vitrarj duodechi die fine qui sse blanquisse multu: posca minali supra marmu cum la scumma de lu indicu, agi di la rusia bullita, mittinde et minalu sicu mu dissimu; et quandu lu vidi russu mitti de lu indicu et si lu vidi scuru mitti de la rusia; minalu fine qui se comple e ffachese axuru»64. Allora dovremo cercare l’artigiano su altri piani: nella famiglia e nei rapporti con i vicini, il potere, l’ambiente. Nell’artigianato comune, che produce beni e utensili di largo uso, l’attività è regolata sulla base di ordinativi non numerosi e spesso occasionali, che presuppongono una manodopera limitata, circoscrivibile anche in ambito familiare, e ritmi di lavoro, diurni o notturni, modulabili secondo le proprie attitudini. Il modello che meglio si adatta a questo tipo di organizzazione del lavoro è quello familiare, che offre il vantaggio di una formazione meno costosa e più controllabile della forza-lavoro. La trasmissione del mestiere di padre in figlio è caso frequente anche nell’età del regno, e l’assenza di un figlio maschio, o la sua indisponibilità al lavoro di bottega, può determinare problemi di sopravvivenza, come per quella vedova di un sutor salernitano che nel 1196, anno di «magna famis», è costretta a

358; U. FORTI, Storia della tecnica. Dal Medioevo al Rinascimento, Firenze 1957, pp. 100103; PORSIA, Indirizzi della scienza e della tecnica cit., p. 103 (e nota 26), che ipotizza una relazione tra la tecnica della trafilatura descritta da Teofilo nel De diversis artibus (o Diversarum artium schedula: ed. C.R. Dodwell, Aberdeen 1961), e quella dei chiodi e ferri prodotti su mandato di Federico II, nel 1240, dalle officine del maniscalco della camera regia (HB, V, 2, p. 962); su Teofilo e la sua opera, «l’exemple sans aucun doute le plus intellectuel et le plus médité du genre», vedi ora P. SKUBISZEWSKI, L’intellectuel et l’artiste face à l’oeuvre à l’époque romane, in Le travail au Moyen Âge cit., pp. 300ss. (spec. p. 301). Sul piano della traduzione iconografica di questi temi tecnici mi sembrano sostanzialmente accettabili le conclusioni di ROMANO, Studi sul paesaggio cit., nel paragrafo I segreti della natura nell’Italia meridionale della parte sui Documenti figurativi per la storia delle campagne nei secoli XI-XVI, p. 22: «Dal complesso di dati sulla cultura federiciana si ricava l’impressione che la nuova scienza arabo-toledano-sicula non sia diventata un fatto così diffuso da incidere sulle attese e le abitudini iconografiche di un vasto pubblico, come nelle città settentrionali; verosimilmente agirono nella tematica figurativa la minore densità e grandezza dei centri urbani, l’inesistenza di una committenza interessata a immagini destinate a uscire fuori dalla corte feudale». 64 «Prendi gusci d’uova: puliscili bene e lavali; poi mettili in un recipiente di terracotta stagnato, e metti il recipiente nel forno dei vetrai per dodici giorni sino a che il contenuto sia diventato bianchissimo: poi mescolalo sul marmo con la schiuma dell’indaco; prendi della robbia bollita, aggiungine e mescola come abbiamo appena detto; e se lo vedi rosso aggiungi indaco, e se lo vedi scuro aggiungi della robbia; mescolalo sino a che si perfezioni


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vendere il suo oliveto65. O è motivo sufficiente per abbandonare l’attività, magari donando la bottega pro anima66. Anche per questa via, cresce la disponibilità di impianti e strutture artigianali da parte degli enti ecclesiastici: ricordo qui solo le apothecae, tra cui una bottiglieria, acquisite dal vescovo di Agrigento nella piazza, «in vico Bardarii», e a Palermo67; e cresce, di conseguenza, la ricerca di magistri cui affidarne la valorizzazione68. La linea di trasmissione familiare del mestiere è prevista esplicitamente in alcuni contratti: il patto stipulato nel 1175 tra l’abate del monastero benedettino di Conversano e il magister Petracca dispone che, in cambio di una casa vecchia e diroccata, quest’ultimo impegni gratuitamente la sua «arte frabirie» e quella dei figli nel restauro del forno del monastero; se poi questi dovessero cambiar mestiere, verseranno al monastero una libbra di cera all’anno69. Qui la bottega e il mestiere sono visti come capacità di lavoe diventi azzurro»: A. PAGLIARO, Due ricette in volgare siciliano del secolo XIII, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano cit., pp. 377-378. 65 TAVIANI, Les archives du diocèse de Campagna cit., n. 150, 1196, p. 85 (in regesto); sul retro del documento, avverte la Taviani, una mano del XVI secolo ha annotato: «1196, famis magna tempore Henrici imperatoris»; a carestie in quel periodo fanno riferimento altre carte: a Dragonara, nel Foggiano, il CDP XXX, I, n. 84, 1198, p. 151: «Cum [...] totam Apuliam fames valida occupasset». Per una prima indagine sull’argomento mi si consenta di rinviare a R. LICINIO, Carestie e crisi in Italia meridionale nell’età sveva e primoangioina: aspetti sociali ed istituzionali, in Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina. Atti del Convegno di Studi (Bitonto, 11-13 dicembre 1987), cur. F. Moretti, Bitonto 1989, pp. 37-60. 66 Come fa nei confronti del monastero di S. Matteo di Sculcola, nel 1211, il magister palmenterius Matteo, abitante in Fiorentino, «considerans id quod in terra retinetur perire et quod digne erogatur in celo reponi»: CDP XXX, II, n. 196, p. 347. 67 P. COLLURA, Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento (1092-1282), Palermo 1960, n. 59, 1220-1239, in reg., p. 117; ivi, nel Libellus de successione pontificum Agrigenti, p. 309, v. l’acquisizione alla chiesa del «fondacum quoddam catapani emptum a sororibus, [...] et quatuor apothecas in vico Bardarii, et buttillaria in vico Vulgani, que fuerunt eiusdem catapani; emit sex alias apothecas in platea magna et alias possessiunculas»; per le «apothecas inferiores, furnum contra domum» a Palermo: p. 311. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. 68 Segnalo, tra i tanti, un documento relativo ad una «fornax calcaria»: è il contratto di concessione in enfiteusi perpetua di una terra presso Dragonea (Cava) ad un privato, che si impegna ad impiantarvi tra l’altro, a sue spese, «unam calcariam», «et eam cocere faciant cum lignamina que intro ipsam traditionem habuerint»: Codex diplomaticus cavensis cit., IX, n. 51, 1068, pp. 155-159. Più tardi, gli investimenti finanziari degli artigiani si indirizzeranno in misura consistente verso il recupero e la ristrutturazione degli edifici urbani: affinché i beni della chiesa del S. Sepolcro di Barletta «non deperant sed de bono in melius recipiant incrementum», due artigiani «de Baro cives et habitatores eiusdem Baroli», un cordanerius ed un argenterius, ne prendono in censo, per 2 fiorini annui e con la possibilità di costruirvi altri ambienti a proprie spese, una casa «de tabolis, prope menia et Turrim» (Codice Diplomatico Barlettano cit., I, n. 125, 1306, pp. 306-307). 69 CDP XX, n. 129, 1175, pp. 270-272; riguardano il magister Petracca anche i documenti n. 128, 1173, pp. 268-270 (altra concessione in enfiteusi di terreni); n. 131, 1180, pp.


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ro complessiva del nucleo familiare, e il magister Petracca ci appare nella duplice e contemporanea veste di capofamiglia e di capofficina: una identificazione che riproduce il modello della famiglia anche nella bottega specializzata. In sostanza, come ha sottolineato Luciana Gatti, l’officina e la famiglia dell’artigiano costituiscono «una sorta di luogo geometrico, l’una dell’organizzazione del lavoro, l’altra della struttura delle relazioni sociali. Di fatto [...], il maestro ha con l’apprendista lo stesso rapporto di autorità che come paterfamilias ha con gli altri membri del suo nucleo»70. In ambito sociale, non stupisce trovare l’artigiano al centro di vertenze che lo contrappongono ai prestatori di danaro, ai centri del potere, ai vicini, per lo più sulle opere murarie in comune. Conflitti costanti, se agli inizi del Trecento le Consuetudini di Siracusa, «pro civium controversias dirimendo», devono prevedere norme specifiche per l’apertura di finestre nelle botteghe e per la costruzione di «furnis, centimulis et cloacis»71. Conflitti frequenti, in età sveva: a Polignano e ad Amalfi, dove è il vescovo 274-275 (offerta del morgengabe alla moglie Brundosina); n. 132, 1182, pp. 275-277 (vendita di terre; qui è citato il figlio di Petracca, magister Amerusio); n. 156, 1207, pp. 324-325 (in cui appare anche il suo secondo figlio, Maraldo diacono). Attestati ovunque, anche in età primoangioina, esempi di mestieri (soprattutto fabbrili) trasmessi dal padre al figlio: CDP XXI, n. 59, 1132, p. 205, Troia: Giovanni «caldararius, filius Petri caldararii»; Codice Diplomatico Normanno di Aversa cit., n. 59, 1151, p. 102: Riccardo «Corveserius, f. quondam Sici Corveserii, habitator Caserte»; Codice Diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti cit., III (1093-1237), Roma 1960, n. 110, 1158, p. 307, Vieste: Giordano «aurificem olim Iohannis Zito aurificis filium»; TAVIANI, Les archives du diocèse de Campagna cit., n. 6, 1171, pp. 101-102, e n. 46, 1171, p. 46, in reg.: «Petrus faber f. qd. Petroni fabri»; ivi, n. 56, 1174, p. 50, in reg.: «Petrus faber f. qd. Johannis fabri»; CDB X, n. 31, 1181, p. 47, Trani: Marino «magistro fabro f. Nicolai magistri fabri»; CDB VII, Le carte di Molfetta (1076-1309), ed. F. Carabellese, intr. di F. Nitti, Bari 1912 (rist. Bari 1976), n. 105, 1256, p. 136, Molfetta: «Raynaldi fabri filii Gregorii fabri»; Le pergamene di Capua, ed. J. Mazzoleni, II, parte I (1266-1501), Napoli 1958, n. 137, 1292, p. 38: «Iacobus Ferrarius f. qd. Roberti Ferrarii»; Codice Diplomatico Barlettano cit., I, n. 125, 1306, p. 306: «magister Iacobus argenterius filius magistri Francisci argenterii»; ancor più abbondano i casi di artigiani figli di magistri non meglio specificati. 70 L. GATTI, Un catalogo di mestieri, in Maestri e garzoni nella società genovese fra XV e XVI secolo, II, «Quaderni del Centro di studio sulla storia della tecnica», 4 (novembre 1980), p. 12. 71 V. LA MANTIA, Notizie su le consuetudini delle città di Sicilia, «Archivio storico siciliano», s. IV, VII (1881), pp. 346-347: «XXXVIII. De portis et fenestris faciendis. Praesentis consuetudinis authoritate sit licitum civibus Syracusanis portas et fenestras et alias aperturas in eorum domibus et muris ipsorum et aliis quibuscumque possessionibus facere, ex parte videlicet viarum publicarum, praeterquam in tabernis et apothecis ubi mercimonia publice venduntur, nisi sit antiquitus consuetum. In domibus vero propriis, ubi habitaverint et morentur, possint vinum includere et vendere et apothecas etiam pro rebus venalis facere et tractare». E p. 348: «XLIV. De faciendis furnis, centimulis et cloacis. Syracusanorum civium controversias dirimendo, quas habeant in cloacis, furnis et centimu-


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a protestare per l’abusiva costruzione di un forno o per l’uso non autorizzato di una bottega; a Napoli, dove per contrasti con un monastero, dei tessitori sono tacciati di eresia72. Una storia ancora tutta da scrivere è poi quella sul degrado e sui danni delle lavorazioni artigianali più nocive. A Benjamin da Tudela non sfugge, ad esempio, che Capua è una «città bella, ma le sue acque sono cattive e le campagne sono devastate dalle febbri», e che nella stessa Costantinopoli verso gli artigiani ebrei «c’è molto odio, provocato dai conciatori di pelli, che gettano via la loro acqua sporca davanti alle porte delle case [...] ed insozzano il quartiere»; e un viaggiatore esperto come Ibn Giobair annota che Messina è «piena di sudiciume e di fetore»73. «Per la sporchezza e per il sudiciume» i Siciliani sono persino peggio degli ebrei, aggiunge un altro viaggiatore quasi contemporaneo, Yaqût, e «il negrore delle loro case» supera la «fuligine de’ forni da mattone»74. La situazione non sembra migliorare con il tentativo di regolamentazione di Federico II: la De conservatione aëris, com’è noto, si preoccupa di allontanare a distanze più accettabili dai centri urbani la lavorazione del cuoio e la macerazione del lino e della canapa, ma autorizza in compenso che gli scarti finiscano in mare e nei corsi d’acqua75. Più drastici saranno lis faciendis, statuimus et ordinamus, quod cuilibet Syracusanorum in eorum domibus et locis sit licitum furnos, centimulos et cloacas facere, dummodo a vicinis muris dicta eorum opera duobus palmis distare noscantur». Sulle consuetudini dell’Italia meridionale: FASOLI, Organizzazione delle città cit., pp. 168ss. 72 Polignano: CDP XX, n. 221, 1265, pp. 452-453; Amalfi: Codice Diplomatico Amalfitano cit., II, n. 604, 1247, p. 312; Napoli: M. FUIANO, Napoli dalla fine dello Stato autonomo alla sua elevazione a capitale del Regnum, «Archivio storico per le province napoletane», XXXVI (1958), p. 12, e nota 2. Un bell’esempio di aspra conflittualità nella famiglia di un magister, con maltrattamenti e percosse nei confronti della figlia di un Pietro campanarius, già cognata e poi seconda moglie del magister Giovanni, in Les actes latins de S. Maria di Messina cit., n. 24, 1246, pp. 172-173. 73 BENJAMIN DA TUDELA, Libro di viaggi cit., pp. 46 e 52; I. DI RESTA, Capua, Bari 1985 (Le città nella storia d’Italia), pp. 15-16; IBN GIOBAYR, Rahlat cit., p. 144: Messina è detta anche «schiva e inospitale: pure ha mercati ricchi e frequentati». Degrado ambientale segnalano poi Niccolò JAMSILLA, De rebus gestis cit., p. 192, e la discussa opera di MATTEO SPINELLI, Diurnali (1247-1268), in DEL RE, Cronisti e scrittori cit., II, p. 727: «chillo mal’aere», causato dalle paludi costiere della zona in cui viene fondata Manfredonia. 74 YAQUT, Mu’gàm ’al buldân (Dizionario alfabetico de’ paesi), in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., I, p. 210. 75 HB, IV, 1, Paris 1854, pp. 151-152; Die Konstitutionen Friedrichs II. von Hohenstaufen fur sein Königreich Sizilien, hrsg. von H. Conrad - T. von der Lieck-Buyken - W. Wagner, Köln-Wien 1973, III, 48. Anche J.M. POWELL, Greco-arabic influences on the public health legislation in the Constitutions of Melfi, in Atti delle quarte giornate federiciane (Oria, 29-30 ottobre 1977), Bari 1980, pp. 55-71; G. IACOVELLI, Ordinamenti sanitari nelle costituzioni di Federico II, in Atti delle seste giornate federiciane (Oria, 22-23 ottobre 1983), Bari 1986, pp. 227-237; FASOLI, Organizzazione delle città cit., p. 182; NADA PATRONE, Pelli e pellami cit.,


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poi gli interventi angioini e aragonesi, che per bonificare l’«aer infectus» urbano trasferiranno le concerie in zone extraurbane o più isolate; ma ancora a metà del Cinquecento le strutture utilizzate nell’arte tintoria e nella conciatura delle pelli, attività ritenute «lorde» per eccellenza, saranno ovunque causa di «mal’aere e puzza grande»76. Insomma, una qualità della vita che nel periodo svevo, pur nella frammentarità delle fonti, sembra incupirsi e deteriorarsi. Si ha l’impressione che nell’esistenza quotidiana dell’artigiano comune si andassero riflettendo, sempre più pesantemente, le contraddizioni di un sistema sociale portato a comprimere il diritto all’esercizio della professione con vincoli, dazi e prelievi di varia natura; e soprattutto, ad impedirgli di organizzarsi e garantirsi entro la struttura delle corporazioni. Già un articolo delle Assise ruggeriane aveva vietato le associazioni, «conventicula illicita»77. Su queste «consuetudines detestande» anche l’atteggiamento svevo è chiaramente (e coerentemente) repressivo: l’editto federiciano Contra communia civium et societates artificum, emanato nel 1232 per i territori tedeschi, proibisce categoricamente ogni tipo di associazionismo professionale, «artificii confraternitates seu societates, quocumque nomine vulgariter appellantur», pericoloso quanto le tendenze autonomistiche comunali78. La stessa logica aveva ispirato poco prima la costituzione Magistros mechanicarum artium79, dettata per disciplinare e controllare le attività artigianali nel pp. 184-185. Andrebbe approfondito anche il rapporto tra uso delle acque e attività agricolo-artigianali; nella Agrigento sveva si parla dell’acqua della principale fonte idrica urbana, trasportata da due condotte, una «de qua hauriebant aquam saccarii [i lavoratori dello zucchero]», l’altra che «ex parte orientis dicebatur canalis et decidebat in pilam, ubi bestie adaquabantur»: COLLURA, Le più antiche carte cit., n. 53, c. 1233, pp. 107-108. 76 A Napoli, agli inizi del Trecento, dopo le numerose proteste degli abitanti della zona del ponte Guizzardo (poi detto della Maddalena) per l’aria «malsana e maleodorante», vengono trasferiti alcuni «fusari» della manifattura del lino e le concerie, perché «magna pars civitatis ipsius redebatur sordida, aer eius infecta»: C. DE SETA, Napoli, Bari 1981 (Le città nella storia d’Italia); nella seconda metà del Quattrocento a Taranto, su richiesta dell’Università, re Ferdinando d’Aragona dispone, per la «conservatione de lo bono ayro de la dicta cita» che la conciatura si faccia nell’area extraurbana, «salvo che in quelle quactro case quale sono dentro vicino alla porta dove è solito de farse»: PORSIA - SCIONTI, Taranto cit., p. 52; sulle tintorie degli Ebrei di Capua nella prima metà del Cinquecento: DI RESTA, Capua cit., p. 26; sull’espulsione, nello stesso periodo, delle concerie da Patti e, più in generale, sul degrado ambientale nelle città siciliane bassomedievali: TRASSELLI, Aspetti della vita materiale cit., pp. 609-610. 77 BRANDILEONE, Il diritto romano cit., p. 121, art. 5: «Conventicula illicita extra ecclesiam, in privatis edibus, vetamus». 78 In M.G.H., Leges, IV, Constitutiones II, ed. L. Weiland, Hannover 1896, pp. 191-194. 79 HB, IV, 1, pp. 152-155; Die Konstitutionen cit., III, 49-51, pp. 310-312. Cfr. MONTI, Le corporazioni nel Regno di Sicilia cit., pp. 73-74.


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regno. Qui non si fa parola di organizzazioni di mestiere: perché non ne esistevano, e perché non si voleva che esistessero. Vi si stabiliva che ogni baiulo individuasse due personaggi «fide dignos», da far giurare e sottoporre a verifica della Curia attraverso l’iscrizione in appositi registri, con il compito di sorvegliare attentamente l’attività degli artigiani e riferire sulle loro frodi. Le frodi dei singoli artigiani, «fraudes artificum singulorum», da punire con un crescendo di pene: al primo imbroglio, con il pagamento di una libbra d’oro, sostituibile «propter inopiam» con la frusta; ai recidivi, con il taglio della mano; agli incorreggibili, dopo la terza frode, con l’impiccagione. Pene esemplari, ma non sappiamo se e in quali casi realmente comminate. D’altra parte, per quanto la norma sull’esercizio «legaliter et fideliter» del mestiere riguardasse tutti coloro della cui opera «homines carere non possunt», e dunque anche macellai e pescivendoli, venditori di candele e di vino, è significativo che siano citati espressamente solo gli orefici, più esposti alla tentazione di frodi sul peso e sulla composizione dei metalli, e poi sellai e scudai, fabbri ed armieri. In sostanza, gli artifices di quei settori che, sempre valorizzati dalle società feudali e militari, non sembrano più in grado, ora, di soddisfare pienamente le richieste della corte, se lo stesso Federico deve rivolgersi a Pisa per disporre di esperti «magistri asbergerii»80. Non mi sembra si possa ricavare dalla normativa sveva un atteggiamento di condanna o una concezione di disprezzo dell’artigiano e del suo lavoro. Ha ragione chi ha scritto di un Federico II che ha, in sostanza, «una concezione delle arti e degli artieri che sa quasi di male necessario»81. Una concezione, va detto, in cui in qualche modo deve aver pesato il Libro dell’enumerazione delle scienze, l’opera di Al Fârâbi che influenzò Domenico Gundisalvi e, attraverso quest’ultimo, giunse in Sicilia a Michele Scoto. E Al Fârâbi, come in genere la cultura musulmana, sappiamo quanto apprezzasse le arti pratiche, mai disgiunte dalle scienze speculative, matematica, geometria, astrologia, filosofia, astronomia; anche Gundisalvi, nel De divisione philosophiae, elogia le «artes fabriles», proprio perché «omnis artifex mechanicorum artium» opera «secundum geometriam praticam»82. Del

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HB, V, 2, pp. 721-723. PORSIA, Indirizzi della scienza e della tecnica cit., p. 109. Ibid., per i riferimenti alle opere di Al Fârâbi e Domenico Gundisalvi, sul quale cfr. in particolare SKUBISZEWSKI, L’intellectuel et l’artiste cit., p. 305; notizie generali sui caratteri dell’artigianato islamico in E. LUCIE-SMITH, Storia dell’artigianato, Bari 1984 (ediz. orig. 1981), pp. 81-111 (e pp. 112-138 sul Medioevo europeo).


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resto, lo stesso Federico II non si è poi meritato da Riccobaldo di Ferrara il giudizio di «artifex peritus» ... «omnium artium mechanicarum», e da Brunetto Latini la positiva osservazione che «seppe di guerra, e fue cavalcatore e mascalcieri ed ebbe in sé tutte bontadi di mestieri di mano fare»?83 E il figlio Manfredi, incontrato nell’agosto 1261 da Ibn Wâsil, ambasciatore del sultano mamelucco d’Egitto Baibars, «in una città di Apulia a nome Barletta», non viene descritto e stimato come «un uomo distinto, amante delle scienze speculative, che sapeva a memoria dieci libri del Trattato di Euclide sulla geometria»?84 In realtà, l’atteggiamento pragmatico di Federico, che mentre regolamenta l’attività degli artigiani, ne controlla e ne impedisce lo sbocco corporativo, appare coerente con le scelte più generali di politica economica; scelte di regolamentazione, ma anche di monopolio e di intervento diretto e condizionante nel mondo della produzione e del commercio85. Con un duplice risultato negativo, rispetto agli artigiani: da un lato, di freno oggettivo allo sviluppo del grande artigianato da esportazione, sia di quello tessile, sottoposto nei suoi settori trainanti a vincoli monopolistici, sia di quello specializzato, che non poté non risentire fortemente gli effetti della

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Su Federico «super homines prudens, satis literatus, linguarum doctus, omnium artium mechanicarum, quibus animum advertit, artifex peritus»: RICCOBALDI FERRARIENSIS Historia imperatorum romanogermanicorum a Carolo Magno usque ad annum MCCXLVIII producta, in R.I.S., IX, Mediolani 1726, col. 132, «De moribus et gloria Friderici»; il frammento trecentesco della versione italiana del Tesoro di Brunetto Latini può esser letto in M. AMARI, Altre narrazioni del Vespro siciliano scritte nel buon secolo della lingua, Milano 1887, pp. 23-24. 84 F. GABRIELI, Le ambascerie di Baibars a Manfredi, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano cit., p. 220; scrive Giamâl ad-dîn Ibn Wâsil: «Andai ambasciatore a Manfredi da parte del gran Sultano il Malik az-Zâhir Rukn ad-dîn Baibars, di felice memoria, nel mese di ramadân del 659 [agosto 1261], e rimasi presso di lui, trattato onorevolmente, in una città di Apulia a nome Barletta, nella Terra Lunga [la penisola italica] adiacente alla terra di Andalusia. Ebbi più volte a trovarmi con lui, e mi apparve un uomo distinto, amante delle scienze speculative, che sapeva a memoria dieci libri del Trattato di Euclide sulla geometria». E sulla vicina Lucera musulmana: «Essa è così dal tempo dell’imperatore, padre di Manfredi; il quale [Federico II, ma più probabilmente, come suggerisce Gabrieli, lo stesso Manfredi] vi aveva intrapreso la costruzione di un Istituto scientifico, perché vi fosse coltivato ogni ramo delle scienze speculative». 85 Basterà rinviare, anche per la vasta bibliografia sull’argomento, a TRAMONTANA, La monarchia cit., spec. pp. 255-257 a proposito della debolezza del ceto imprenditoriale e artigianale nel regno; a RUTENBURG, Arti e corporazioni cit., pp. 624-626, per il ruolo di freno svolto dal centralismo svevo nello sviluppo della «maturità politica» degli artigiani e delle corporazioni meridionali; e al recente D. ABULAFIA, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990.


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repressione politica e dello sradicamento dei Saraceni dalla Sicilia, o di divieti, come quello segnalato da Riccardo da San Germano, di esportazione di armi86; dall’altro, di consapevole e rigido rifiuto di forme di associazionismo che avrebbero consentito di reggere il confronto con i ceti imprenditoriali extraregnicoli. Se non si è verificato un salto di qualità dell’artigianato meridionale verso un modello alternativo a quello agrario-feudale, è perché a questo insieme di atrofia e dirigismo, alla dispersione dell’esperienza artigianale musulmana, e alla presenza di commercianti non direttamente legati alla produzione locale, si sono aggiunte e intrecciate la debolezza tecnica, l’inconsistenza politica e le scelte finanziarie degli stessi artigiani, che non riuscirono in sostanza a qualificarsi come imprenditori, come borghesia. E anzi, la timida crescita che per l’età normanna ho definito disomogenea e “a pelle di leopardo”, sembra tradursi nel periodo svevo in un più netto divario tra artigiano ricco, che ha maggiori occasioni per arricchirsi, e artigiano povero, che diventa sempre più povero. Tra i due estremi, quasi tra incudine e martello, l’artigiano comune; quell’artigiano che, sempre in precario equilibrio tra indigenza e agiatezza, per far quadrare i conti è costretto, giorno dopo giorno, come il fabbro nel Carmen di Pietro da Eboli, «a raddoppiare gli sbuffi, così come il martello raddoppia i colpi rivolto al metallo»87.

86 Sulla repressione antisaracena: I. PERI, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Bari 1978, specialmente p. 194; S. TRAMONTANA, Ceti sociali, gruppi etnici, rivolte, in Potere, società e popolo in età sveva cit., pp. 151-165; TRAMONTANA, La monarchia cit., pp. 228-230, 246-250; e F. MAURICI, L’emirato sulle montagne. Note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell’età di Federico II di Svevia, Palermo 1987. Sul divieto di esportazione: RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronicon cit., p. 212, 1241: «nullus de Regno equos aut arma vendere vel trahere extra regnum». Sul sistema dei monopoli: J.M. POWELL, Medieval monarchy and trade: the economic policy of Frederick II in the Kingdom of Sicily (A survey), «Studi medievali», III s., III (1962), p. 489. 87 PIETRO DA EBOLI, De rebus siculis Carmen cit., p. 84.


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I LUOGHI DELLA PRODUZIONE ARTIGIANALE

I luoghi, ma anche i centri della produzione artigianale. I luoghi fisici, gli ambienti in cui si produce; ma anche i centri territoriali, in cui la specializzazione, la competenza qualificata, la qualità e la quantità stessa dei prodotti prevalgono sulla competenza comune dell’artigianato diffuso. Necessariamente entro questi due poli leggeremo condizioni e circostanze della produzione, tipologie e valori culturali dei prodotti, pratiche e tecniche. Sapendo che accanto al differenziarsi degli artigiani rispetto al luogo territoriale di lavoro; accanto alle distinzioni tra settori artigianali, tra costa e interno, tra produzione familiare e officina-laboratorio, sembra esserci ovunque, nelle campagne e nelle città, nello spazio e nel tempo che ci interessano, un «artigianato del silenzio», che nelle fonti parla poco e male, che ha dimensioni microproduttive, incapsulato nel circuito quotidiano terracasa-bottega-terra, e dunque con un orizzonte produttivo e culturale che nasce e si conclude con la terra1; e un «artigianato specializzato», appariscente agli occhi di geografi, viaggiatori e cronisti, che ne esaltano le dimensioni, l’abbondanza delle merci e il rapporto con i mercati. Un artigianato che appare, quello specializzato, e dunque va decodificato; e un artigianato evanescente, quello comune, e dunque va intuito. Allora, artigianato comune o specializzato; marginale o florido; «del silenzio» o «della parola»: tutto può apparci in torsione prospettica, se non cogliamo almeno due certezze. La prima, ovvia ma irrinunciabile, è che per definire àmbiti, condizioni ed esiti produttivi dei diversi settori dell’artigia1 In realtà, come precisavo in L’artigiano, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle none giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1989), cur. G. Musca, Bari 1991(qui riedito alle pp. 3-34), p. 167 (qui a p. 16), la campagna «non è solo uno sfondo o un punto di ritorno, e nemmeno solo il contenitore delle materie prime del lavoro artigianale, legno, lino, minerali, pelli: è la struttura, produttiva e mentale, su cui il sistema costruisce gerarchie sociali ed economiche, valori e rendite, paure e aspirazioni». A quel lavoro mi si consenta ora di rinviare per ulteriori percorsi tematici e bibliografici. In particolare, sul problema della quantità e qualità della documentazione relativa al lavoro artigianale nel regno, v. le pp. 154-157 (qui a p. 5), e spec. la nota 6 sul «silenzio relativo» delle fonti.


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nato meridionale, non dobbiamo mai perder di vista le dinamiche che investono e modificano, nei nostri tre secoli, i rapporti tra campagna e città, tra produzione e scambio. La seconda, spesso sottaciuta, è che abbiamo di fronte un mondo che rompe il silenzio sui caratteri e sulla qualità della sua produzione, in termini significativi, solo quando entra in relazione con il potere e con chi, a vario titolo e in vario modo (principi e signori, vescovi e mercanti, funzionari e intellettuali) lo gestisce o lo rappresenta. Se committente o referente è il potere − i poteri − il prodotto del lavoro artigianale più facilmente diventa a pieno titolo merce, se non prodotto artistico; altrimenti, è ridotto a semplice oggetto comune della vita quotidiana. Ecco perché, nelle testimonianze di geografi come Edrisi, l’attenzione è per i centri della produzione specializzata e del mercato frequentato, per il prodotto-merce, più che per i luoghi della produzione comune. Nel Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo viene allo scoperto la scansione tra località costiere, dotate di porti e mercati «zeppi di merci», e località dell’interno, trattate in termini più sintetici. E sono resi espliciti gli interessi diversi di poteri diversi: dei mercanti, che possono godere di abbondanza di prodotti e strutture commerciali attrezzate, porti, fondachi, arsenali, navi, mercati; e di Ruggero II, esaltato, anche «nel maneggio degli affari», da quell’«abilità che vien dal sommo acume dell’ingegno»2. Perché, se su un corso d’acqua di Taormina un antico «ponte di maravigliosa struttura» vale a «mostrar il valore dell’architetto che lo innalzò e la possanza del sultano che gliel’ordinò», a maggior ragione la Sicilia «perla del secolo»3, lo sfarzo dei suoi edifici e l’abbondanza delle sue strutture valorizzano, nel presente e nel futuro, il sovrano normanno. In questo quadro ideologico si collocano in Edrisi sia le descrizioni, belle ma spesso iperboliche, delle località maggiori, sia i riferimenti, talvolta disarmanti per la loro secchezza 2

EDRISI, L’Italia descritta nel «Libro del re Ruggero», ed. M. Amari - C. Schiaparelli, Roma 1883, p. 3: il normanno è lodato per «l’animo valoroso, l’intelletto lucido, il profondo pensiero, la imperturbata calma, il diritto vedere e provvedere, e nel maneggio degli affari, l’abilità che vien dal sommo acume dell’ingegno». Sulla capacità di Edrisi di delineare, «sia pure con la consueta mistificazione e piaggeria cortigiana […] gli aneliti, le inquietudini, le molteplici curiosità di Ruggero», v. almeno S. TRAMONTANA, La monarchia normanna e sveva, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983 (poi Torino 1986 e 19932), p. 605, e TRAMONTANA, Geografia, geografi e potere politico nel Regno normanno di Sicilia, «Cultura e scuola», n. 63-64 (lugliodicembre 1977), pp. 146-155. 3 EDRISI, L’Italia cit., pp. 22-23: l’isola è «perla del secolo, per abbondanza e bellezze […] Vengonvi i viaggiatori da tutte le parti: e i trafficanti delle città e delle metropoli, i quali tutti ad una voce la esaltano», meravigliati dagli «svariati pregi che si accolgono in lei» e dai «beni d’ogni altro paese [del mondo] che la Sicilia attira a sé»; e p. 31 su Taormina.


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ma sempre di grande utilità, alle attività artigianali dei centri minori. In primo piano, e si spiega, è la Sicilia, in cui ogni centro costiero, da Palermo a Messina, è ricco di officine e botteghe, dentro e presso i quartieri mercantili. Poi, tra gli «esercizii degli uomini» e le «industrie», emergono le manifatture tessili e del legno. «Si lavora gran copia di cotone e di hinnah» (henné) a Partinico, nel Palermitano; e nel Messinese Milazzo è centro d’esportazione di «molto lino d’ottima qualità», coltivato in gran quantità «in prati irrigui» anche a Galati; a San Marco, tra Naso e Caronia, «si produce anco di molta seta» e «si costruiscono delle navi col legno che tagliasi nelle vicine montagne»; e Randazzo, un villaggio ai piedi dell’Etna che «pare una piccola città», è animata da «mercatanti e artigiani, abbondando il territorio di legname, che si esporta in molti paesi». E ancora, riferimenti generici ad artigiani e manifatture nel «vasto casale» di Alcamo; alle «industrie urbane» di Castrogiovanni, la futura Enna; a quelle ricche di Caltanissetta e alle «molte e diverse» a Paternò; all’abbondanza di manifatture d’«ogni sorta» nelle eleganti e ricche Girgenti (Agrigento) e Mazara, dove «zeppi di merci» sono fondaci e mercati, e «spaziose le botteghe»4. In qualche raro caso Edrisi si sofferma sull’artigianato alimentare: nell’insediamento «che s’addimanda ‘at tarbi’ah» (cioè «la quadrata», oggi Trabia, presso Termini Imerese), «lieto d’acque perenni che danno moto a parecchi molini […] si fabbrica tanta copia di paste da esportarne in tutte le parti, specialmente nella Calabria e in altri paesi di Musulmani e Cristiani: che se ne spediscono moltissimi carichi di navi»5. Ma ci interessano specialmente le notizie su materie prime, risorse e fonti energetiche: «boscaglie da far legna» e corsi d’acqua punteggiati da mulini6, miniere di

4 Ivi: Partinico, p. 39; Milazzo, p. 30: è «tra i paesi che più somigliano alle metropoli per colture, industrie e mercati»; Galati, p. 61; San Marco, p. 30; Randazzo, p. 60; Alcamo, p. 45; Castrogiovanni e Caltanissetta, p. 49; Paternò, p. 56; Girgenti, p. 36: «i suoi palagi trascendono di altezza quelli [d’altre città]; le sue case [per la loro eleganza] fanno sbalordire i risguardanti; i suoi mercati raccolgono ogni sorta di manifatture ed ogni specie di merci e di cose vendibili»; Mazara, p. 37: senza eguali «per la magnificenza delle abitazioni e della vita», per l’«eleganza dell’aspetto degli edifizii», ha «palagi ben acconci e puliti; vie larghe, stradoni, mercati zeppi di merci e di manifatture, bellissimi bagni, spaziose botteghe» 5 Ivi, p. 28. Ne parla, in queste stesse «giornate normanno-sveve», anche Massimo Montanari nella sua relazione su I luoghi della cultura alimentare [n.d.r.: Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1995), cur. G. Musca, Bari 1997, pp. 355-372]. 6 Attestati un po’ dovunque: presso Palermo, ad esempio, «fuori del lato meridionale del borgo scorre il fiume ‘abbâs, fiume perenne, sul quale sono piantati tanti molini da bastare appieno al bisogno [della città]», ivi, p. 27; e v. S. TRAMONTANA, Mulini ad acqua


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ferro a Messina, una d’oro a Taormina, e tra Trapani e Partinico una «cava di pietra molare da acqua e di pietra molare persiana»7. Attraversato lo Stretto, lasciati alle spalle Ruggero e la corte, la curiosità di Edrisi si stempera, la sua voce si fa più flebile, e tranne qualche notevole eccezione l’artigianato torna ad essere quello del silenzio. Per segnalarlo può ora bastare un cenno alla presenza di «comodità pubbliche» (Salerno, ma l’espressione, quasi una formula è ripetuta per diverse località, compresa l’albanese Durazzo), o alla «dovizia di mercanzie e ricchezze» (Taranto)8. Sappiamo che nella sua esposizione Edrisi è in parte tributario di immagini, descrizioni e stereotipi che datano da tempo. La Sicilia delle manifatture tessili e della carpenteria navale e la Napoli città del lino abbozzate nel Sollazzo o Libro del re Ruggero sembrano in fondo le stesse, specializzate nella produzione di lana e di panni di lino, celebrate nel Kitâb al masâlik wa-l-mamâlik (Libro delle vie e dei reami) dal geografo Ibn Hawqal, alla fine del secolo X. E la Palermo in cui Ibn Hawqal contava artigiani in gran numero e botteghe dalle mille funzioni, in Edrisi è la «città ornata di tante eleganze», densa di botteghe e officine di ogni tipo, una città che ha il potere di abbagliare il visitatore sino allo stordimento9. nella Sicilia normanna, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, 2 voll., Roma 1988, II, pp. 811-824. «Boscaglie da far legna» sono presso Trapani, a Favignana, Levanzo e Marettimo, p. 38; da Aci «si esporta pece, catrame, legname e altre derrate in gran copia», p. 32; e così via. Un quadro esauriente delle varie forme di utilizzazione delle risorse boschive nel regno è in P. CORRAO, Boschi e legno, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle ottave giornate normanno-sveve (Bari, 20-23 ottobre 1987), cur. G. Musca, Bari 1987, pp. 135-164. 7 EDRISI, L’Italia cit., p. 39 (Calatubo); sulla miniera d’oro presso Taormina, p. 32; su Messina, i cui monti «racchiudono miniere di ferro, che si esporta ne’ paesi vicini», p. 31. Anche IBN HAWQAL, Kitâb al masâlik (Libro delle vie e dei reami), trad. parziale in M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula. Raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, la biografia e la bibliografia della Sicilia, 2 voll., Torino-Roma 1880-1881, I, pp. 22-23, aveva dato notizia, per la Palermo del secolo X, di una miniera di ferro, presso la «Fonte del ferro». Dopo Edrisi, YÂQÛT, Mu’gam al buldân (Dizionario alfabetico de’ paesi), ivi, p. 201, esalta la Sicilia per le sue miniere ricche e di ogni tipo, seguito poi da AL-QAZWÎNÎ, Le meraviglie della creazione e le rarità della natura, ivi, pp. 235ss., che anzi richiama la definizione dell’Etna «montagna dell’oro», oltre che di miniere di zolfo. Ma spesso si tratta di notizie con scarsi riferimenti alla reale situazione delle risorse minerarie nel regno: cfr. F. PORSIA, Miniere e minerali, in Uomo e ambiente cit., pp. 242-271, e il numero monografico di «Ricerche Storiche», XIV (1984), f. 1, su Miniere e metalli in Italia tra Medioevo e prima età moderna, soprattutto, per un confronto con le testimonianze tardomedievali, R.M. DENTICI BUCCELLATO, Miniere siciliane nel XV secolo: una realtà o una speranza?, ivi, pp. 117-141. 8 EDRISI, L’Italia cit., Taranto, p. 74; Salerno «ha mercati fiorenti, comodità pubbliche, frumento ed altri cereali», p. 96; Durazzo, p. 76, «città grande, popolata e ricca», ha «numerosi mercati, commerci e commodità della vita». 9 Ivi, p. 26, e p. 95 sulla città campana detta «nâb.l ’al kattân», «Napoli dal lino». IBN HAWQAL, Kitâb al masâlik cit., p. 25 su Napoli, e pp. 15 e 20 su Palermo; e cfr. anche F.


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Testimonianze importanti, da integrare con quelle del Viaggio del Kinânî di Ibn Giubayr su empori e botteghe nella Sicilia «figliuola della Spagna» per la sua fertilità e le sue ricchezze, o di Beniamino da Tudela su tintori, vetrai e artigiani della seta10. Non saranno tuttavia Edrisi né Ibn Giubayr, e nemmeno Beniamino, a descriverci nei particolari tecniche e strumenti produttivi. Ma se incrociamo gli inadeguati racconti di viaggiatori e geografi con le pur interessate testimonianze di storici e cronisti, di atti notarili e contratti commerciali, se tentiamo di ricondurre ad unità ciò che ci appare incompleto e fuorviante, dietro i topoi e i dati frammentari leggeremo forti i segni di una continuità secolare o, viceversa, di potenzialità e innesti produttivi nuovi. Ci appariranno più concreti, allora, sia quel «processo di integrazione internazionale»11 che fra XI e XIII secolo sta rimodellando il Mediterraneo, sia un nuovo modo di essere e di rappresentarsi del potere. Perché, tra contesti differenti, un filo sottile ma indagabile lega abilità artigianali e scelte politiche, culturali, economiche. Un filo esile ma analizzabile collega la scelta dell’abate di Montecassino Desiderio di acquistare ad Amalfi, non nella più vicina Gaeta, 20 «pannos sericos

GABRIELI, Ibn Hawqal e gli Arabi di Sicilia, in L’Islam nella storia, Bari 1966, pp. 57-67. Città-palcoscenico, anzi «città-specchio», come la definisce L. SCIASCIA, Palermo e il mare, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), cur. G. Musca, Bari 1993, p. 73, Palermo rappresenta, «sullo sfondo delle sue liturgie e del cromatismo luminoso e sfarzoso delle sue strutture architettoniche e dei suoi mosaici, il luogo favoloso degli splendori musulmani e dei monarchi tremendi e tiranni»: S. TRAMONTANA, Palermo e la terra, ivi, p. 77. 10 BENJAMIN DA TUDELA, Libro di viaggi, ed. L. Minervini, Palermo 1989 (ediz. condotta su quella curata da M.N. Adler, The Itinerary of Benjamin of Tudela, London 1907, rist. New York 1964); IBN GIUBAYR, Rahlat al Kinânî (Viaggio del Kinânî), in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., I, p. 155: «Supera qualsiasi descrizione la fertilità di quest’isola: basti sapere che la [si può dir] figliuola della Spagna, per estensione del terreno coltivato, per feracità e per abbondanza»; e mentre i Musulmani (Ibn Giubayr scrive nella seconda metà del secolo XII) «rimangono in possesso di loro beni stabili e di lor masserie, i Cristiani con bel modo li hanno adoperati nel maneggio delle faccende e nelle industrie». 11 Ribadito di recente per l’area campana da G. GALASSO, Napoli e il mare, in Itinerari e centri urbani cit., p. 31, il «processo di integrazione internazionale dell’economia mediterranea svoltosi nel periodo tra il 1000 e il 1200» ha interessato, pur in forme e modi differenziati, gran parte del Mezzogiorno, qualificandolo «soprattutto come grande produttore agrario, oggetto di forte interesse da parte di mercanti e operatori economici di zone economicamente più dinamiche e avanzate». Integrazione del Mezzogiorno, naturalmente, da non far coincidere necessariamente con sviluppo del Mezzogiorno. Anche in questa chiave vanno rilette e riconsiderate le ormai numerose ricerche sulle attività mercantili nel e con il regno normanno e svevo, da A. SCHAUBE, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle Crociate, Torino 1915 (ed. or. München-Berlin 1906), a D. ABULAFIA, Le due Italie. Relazioni economiche fra il regno normanno di Sicilia e i Comuni


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quos triblattos appellant», panni in seta a tre colori, da regalare al giovane Enrico IV, nel 1065, e quella di Carlo II d’Angiò che nel 1284, quando è ancora principe di Salerno, commissiona la catena di ferro per il porto di Gaeta non ad artigiani locali, ma a fabbri di Napoli12. E un filo tenue ma rintracciabile unisce lo stereotipo della Sicilia «perla del secolo» di Edrisi, al topos propagandistico di Alessandro di Telese su Capua città ricca di «mercatanzie» e «sopra ogni altra nobile per la dignità del principe»13; la Sicilia «paradisum lactis et mellis» della metafora di Amato di Montecassino, alla Capitanata dei sollazzi di Federico II14; il trasferimento coatto a Palermo, voluto da re Ruggero, di manodopera orientale esperta nell’arte della seta, e le note scelte di Federico II, dai vincoli monopolistici alla deportazione in massa nel Foggiano dei musulmani di Sicilia15. Un filo sottile ma dalle mille implicazioni, che richiama i «serici bozzoli» del tirâz, che appunto, scrive con bella immagine il cosiddetto Falcando, «si assottigliano in fili distinti e a vari colori»16.

settentrionali, nota introd di. G. Galasso, Napoli 1991 (ed. or. Cambridge 1977), e alle relazioni nel recente Mercati e mercanti nell’alto Medioevo: l’area euroasiatica e l’area mediterranea, Spoleto 1993 (XL Settimana di Spoleto). 12 G. CHERUBINI, Gaeta, in Itinerari e centri urbani cit., p. 254. Su Amalfi: Chronica Monasterii Casinensis, ed. H. Hoffmann, in M.G.H., Scriptores, 34, Hannover 1980, p. 385; tra gli oggetti preziosi acquistati da Desiderio anche un’«hydriam argenteam». Concorde, nell’arco di un secolo, il giudizio delle fonti sulla ricchezza di Amalfi, definita «la più prospera città di Longobardia, la più nobile, la più illustre per le sue condizioni, la più agiata ed opulenta», nella seconda metà del secolo X, da IBN HAWQAL, Kitâb al masâlik cit., p. 25; e «riche de or et de dras», nel secolo successivo, da AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese (Histoire de li Normant), ed. V. De Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d’Italia, 76), p. 65. 13 ALEXANDRI TELESINI De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, I, Dominazione normanna, Napoli 1845, p. 127. 14 J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi (d’ora in poi HB), 6 voll., Paris 1851-1861 (rist anast. Torino 1963), V, 2, Paris 1859, p. 943. L’immagine dorata di un Mezzogiorno ricolmo «di latte, miele e molte altre cose», in AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni cit., p. 24, appare anche in Giovanni Diacono, l’agiografo della Traslatio sancti Severini, appendice a Gesta episcoporum neapolitanorum, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, ed. G. Waitz, Hannover 1878, 453, e in Guglielmo Apulo: GUILLAUME DE POUILLE, La geste de Robert Guiscard, ed. e trad. francese M. Mathieu, Palermo 1961, p. 112. 15 RYCCARDI DE SANCTO GERMANO Chronica (1189-1243), ed. C.A. Garufi, in R.I.S.2, VII, p. II, Bologna 1937, p. 184 (gennaio 1233, deportazione dei Saraceni), e p. 176 (agosto 1231, monopolio su ferro, rame, sale e seta «cruda»); OTTONE DI FRISINGA, Gesta Friderici I imperatoris, ed. R. Wilmans, in M.G.H., Scriptores, XX, Hannover 1868, p. 370 (1147, trasferimento forzoso di «opifices etiam, qui sericos pannos texere », con l’obiettivo di «artem illam texendi suos edocere» a Palermo). 16 UGO FALCANDO, Liber de regno Sicilie, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la


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Il tirâz, senza dubbio l’officina tessile; l’arsenale navale; le botteghe; il mulino; il laboratorio alimentare: sin qui, li abbiamo solo sfiorati. Entriamoci. E siamo subito nella bottega, al primo posto nella gerarchia dei luoghi di produzione, dell’artigianato del silenzio come di quello specializzato. Spesso è lo stesso artigiano a costruirla, come fa verso il 1219 un «cultellario» nella via dei tessitori di Salerno17. Per lavorarci, per abitarla, per locarla ad altri. In legno o in muratura, la casa-bottega rientra negli esempi, che ci sono familiari, di domus solerata o orreata, dotata di soffitta o solaio in cui l’artigiano abita e dorme con la famiglia, di uno o più ambienti da lavoro al pianterreno, in collegamento diretto con la via o la piazza, e con un portico esterno o una corte interna, anche arborata, in comune con altri: «casa de trabes tres», con una corte e «cum arboribus intus dicta curte», precisa un atto notarile della Terlizzi bizantina; casa con forno al pianoterra, destinato a diverse utenze, e con ambienti residenziali al piano superiore, nel 1070, a Prepezzano nel Salernitano; e nello stesso periodo, a Salerno, tale Andrea acquista un terreno appartenuto ad un fabbroferraio, vi innalza una «potegam de lignamina», e quindi rivende terra e bottega18. Nella Napoli sveva si litiga per un portico comune in cui un artigiano pretende di collocare il filatoio senza autorizzazione dei condomini19. E nella «nova urbe Messane», la Messina ricostruita del 1239, si litiga tra tale Giovanni Chipulla, figlio e nipote di Lucchesi, e «domina Rosa», vedova di Falcone e figlia di un altro Lucchese, per la divisione di un fonStoria d'Italia, 22), p. 35: «officinas, ubi in fila variis distincta coloribus serum vellera tenuantur, et sibi invicem multiplici texendi genere coaptantur». 17 Si tratta di Aminada, che ottiene in censo dal monastero femminile di S. Giorgio, per 19 anni, due suoli inedificati in Salerno, e vi costruisce due «apotegas fabrjcatas soleratas» nella piazza maggiore e nella «ruga banbacariorum»: Pergamene del monastero benedettino di S. Giorgio (1038-1698), ed. L. Cassese, Salerno 1950, n. XV, ottobre 1219, pp. 89-92. Esempi analoghi sono rintracciabili, numerosi, nei cartulari del periodo. 18 Andrea, dopo aver acquistato nel gennaio 1063 una terra fuori porta Rotese, «in qua ipse Andreas potegam de lignamina constructam habebat», la rivende qualche anno dopo: Codex diplomaticus cavensis, IX (1065-1072), ed. S. Leone - G. Vitolo, Badia di Cava 1984, n. 18, ottobre 1066, pp. 65-67; ivi, n. 86, febbraio 1070, pp. 251-253, per la casa con forno terraneo; e Codice Diplomatico Barese (d’ora in poi CDB), III, Le pergamene della Cattedrale di Terlizzi (971-1300), ed. F. Carabellese, Bari 1899 (rist. anast. Bari 1960), n. 3, 1036, p. 7, per il documento terlizzese. Il discorso su case «orreate» e «solerate», fabrite e in muratura, rurali e urbane, solo per abitazione o con locali al pianterreno, e dunque in eventuale rapporto con la bottega, e ancora sulle «apothecae» senza o «cum suppinno», ad uno o a più ambienti, e via dicendo, andrebbe approfondito per l’età normanna e sveva in modo più puntuale, evidenziando caratteristiche funzionali, differenze e affinità non solo all’interno di una stessa area territoriale, ma specialmente in territori diversi. 19 M. FUIANO, Napoli normanna e sveva, in Storia di Napoli. Storia politica ed economica, I, Napoli 1975, p. 574: si tratterebbe in questo caso di un «attaccabrighe», «un tal


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daco formato da ben 12 tra botteghe e magazzini diversi, affacciati sulla «ruga de Indultis»20. Grande o piccola, isolata o meno, la bottega è un caleidoscopio di funzioni. È ambiente di lavoro e abitazione, deposito di merci e punto di vendita, officina di magistri e apprendisti, laboratorio singolo o familiare. È luogo di produzione e di scambio che, nel borgo rurale come nella città, si modella in relazione alle necessità della vita quotidiana. È contenitore di valori culturali, nel gioco tradizione-innovazione. È, anche, polo di aggregazione di uomini, mestieri, interessi. È insomma unità di base e strutturale dell’economia; per dirla con Braudel, una delle «cellule ristrette, innumerevoli» della produzione e uno «strumento elementare dello scambio», «analogo e diverso» rispetto ai mercati e alle fiere, uno strumento che «funziona senza soste»21. E come ogni cellula, di organismo biologico o di sistema economico, questa entità ha una sua storia. Quando le manifatture iniziano a concentrarsi nella città e a diversificarla dalla campagna, la bottega artigianale, che nel borgo rurale tendeva a concentrare attività

Cesareo che, pur possedendo un portico tutto suo per mettervi il filatoio, lo collocava volentieri nel portico comune agli altri abitanti della casa, che gli intentavano causa e lo costringevano a rimettere il filatoio nel suo portico». Anche in altre località, la bottega può essere di proprietà collettiva: quella, ad esempio, «in curte dompnica» di Salerno, di proprietà con il suolo su cui sorge di un gruppo di cittadini di Giffoni: Pergamene del monastero benedettino di S. Giorgio cit., n. 21, 1267, p. 112. 20 Les actes latins de S. Maria di Messina (1103-1250), éd. L.-R. Ménager, Palermo 1963, n. 20, 20 aprile 1239, pp. 155-158: il fondaco è collocato tra la «ruga Pisanorum» (sul suo lato occidentale) e la «ruga de Indultis» (sul lato orientale, dalla parte del mare); alle pp. 153-154 alcune osservazioni di Ménager sulla presenza di Lucchesi a Messina. Lucca, va ricordato, nel periodo compreso tra i secoli XI-XIII «era divenuta il più importante centro di produzione occidentale di seterie, e ad essa si rivolgeva la domanda di beni di di lusso mediterranea ed europea. [...] Si è voluto stabilire un nesso fra la manifattura siciliana […] e un’ulteriore espansione di conoscenze e competenze a Lucca, per il tramite dei suoi mercanti attivi nell’isola». Tuttavia, nella città toscana «non sembra […] essere rimasta traccia dell’importazione di seta siciliana, mentre è indubbia la presenza sul mercato siciliano di Lucchesi che vi collocavano il prodotto lavorato»: G. PETRALIA, Calabria medievale e operatori mercantili toscani: un problema di fonti?, in Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi. Atti dell’VIII Congresso storico calabrese (Palmi, 19-22 novembre 1987), Soveria Mannelli 1993, pp. 301-302. 21 F. BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), II, I giochi dello scambio, Torino 19812 (ed. or. Paris 19792), p. 36: «Questo, almeno in linea di massima, perché la regola, se la regola esiste, conosce non poche eccezioni». E pur tenendo conto dei limiti di ogni generalizzazione, è noto che «a tenere bottega sono stati per primi primi gli artigiani. I “veri” bottegai sono arrivati dopo», p. 38. Anche G. CHERUBINI, I lavoratori nell’Italia dei secoli XIII-XV. Considerazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in Artigiani e salariati. Il mondo del lavoro nell’Italia dei secoli XII-XV. Atti del X Convegno internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte di Pistoia (Pistoia, 9-13 otto-


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diverse, si scompone in vari àmbiti di specializzazione: laboratori di artigiani del settore tessile e del pellame, officine di fabbri, carpentieri e vetrai, botteghe di macellai, fornai e barbieri (esperti nell’«arte» del salasso), e via dicendo. Decine di mestieri, decine di variabili. Località per località, periodo per periodo, esistono linee di specializzazione del lavoro artigianale dettate o influenzate da parametri numerosi: si va dalla reperibilità di risorse, alla condizione sociale, etnica e alla personalità stessa del lavoratore, passando attraverso infrastrutture, istituzioni e guerre. Impossibile darne conto puntualmente in questa sede. Tra l’altro, la scarsità di indagini diacroniche specifiche e su aree territoriali delimitate si fa sentire, indebolendo ogni tentativo di generalizzazione e, nello stesso tempo, vanificando la possibilità di analisi comparative. Più che di una classificazione tipologica, abbiamo bisogno di un modello interpretativo. Quello, magari, che formulato nel 1924 da Hubert Bourgin, «è stato utilizzato così poco − ha osservato Braudel − che oggi ancora conserva tutta la sua freschezza»22. Tre delle quattro categorie proposte da Bourgin possono ben rappresentare le nostre botteghe artigianali. La prima, quella della «nebulosa» delle «minuscole officine familiari, formate da un padrone [...], un apprendista o due, oppure una famiglia da sola», può comprendere l’artigianato di specializzazione medio-bassa, il fabbro-carpentiere di paese, il ciabattino, il sarto o la ricamatrice, ma anche macellai, mugnai, fornai. La seconda fa propria un’espressione di Gioacchino Volpe, «fabbriche disseminate», che Braudel corregge in «manifatture disseminate», per indicare «i laboratori dispersi, ma collegati fra loro», dove il lavoro è fortemente specializzato e

bre 1981), Pistoia 1984, p. 17, sottolinea la centralità e la polifunzionalità della bottega, che «nella genericità della sua denominazione comprendeva una varietà pressoché infinita di attività: l’artigiano che insieme produceva e vendeva il proprio prodotto, ad una clientela più o meno conosciuta, che commissionava ciò che intendeva acquistare o che invece acquistava un prodotto già confezionato; il rivendugliolo o il grande commerciante; chi vendeva i generi alimentari più vari o chi ferrava i cavalli; chi lavorava da solo in bottega o aveva uno o più apprendisti (familiari o estranei), uno o più lavoranti; l’artigiano indipendente nel proprio lavoro, l’artigiano che lavorava in tutto o in parte collegato e condizionato dalla “grande manifattura” (prima fra tutte la lana); il “lanaiolo” che concentrava in un luogo determinato di lavoro un certo numero di lavoranti per una parte almeno del lungo processo produttivo che lo vedeva impegnato, in posizione centrale. Nel tessuto urbano la “bottega” era, conseguentemente, uno degli elementi più caratterizzanti e inconfondibili, oggi non più percepibile se non in qualche angolo sopravvissuto magari come artigianato di qualità». 22 BRAUDEL, Civiltà materiale cit., II, p. 291 (il riferimento è all’opera L’industrie et le marché).


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articolato, i luoghi di produzione della lana e del pellame, delle stoffe e dei metalli pregiati. La terza categoria, la «fabbrica agglomerata», ci ricorda opifici e officine regie, che riuniscono in un sol luogo operazioni diverse. L’ultima, la «fabbrica meccanizzata», ci riguarda meno. Il modello di Bourgin, nella versione arricchita da Braudel, che l’ha «complicato» inserendo l’industria contadina (che opera «nell’ambito ristretto del valore d’uso, che lavora per la sola famiglia o il solo villaggio»)23, può consentirci di leggere gran parte dei processi economici, tecnici e produttivi delle nostre manifatture. Certo, i confini tra le categorie della produzione artigianale e quelle della produzione salariata non sempre si lasciano distinguere in termini netti: penso all’organizzazione dei cantieri24 e alle figure del magister fabricator e degli architetti (ne hanno già parlato altri relatori). E poi, nemmeno nel Mezzogiorno si è verificato un passaggio armonico e quasi necessario dall’una all’altra categoria, né lo sviluppo manufatturiero ha seguito una logica sempre lineare. Rispetto all’età sveva, ad esempio, l’artigiano di età normanna appare meno statico e più determinato: apre botteghe e officine, le dota di infrastrutture, costruisce o fa costruire mulini, si preoccupa di contrattare concessioni con enti e privati e di creare spazi di vendita; poi sembra mancare un salto di qualità, quello che avrebbero potuto garantire l’autonomia e l’associazionismo corporativo, spine nel fianco di un Federico II. E l’artigiano si riduce, ancor più che in passato, a investire i guadagni nell’acquisto di terre e beni rurali, piuttosto che nel potenziamento dell’attività25. Sta a noi insomma individuare aree e fasi di crescita o di stagnazione, fenomeni specifici o generali. E sta a noi «complicare» ulteriormente quel modello, aprendolo agli orizzonti mentali, agli aspetti simbolici della produzione. Proviamoci rapidamente su alcuni punti.

23 Ivi, p. 298: «Il modello di Hubert Bourgin mette l’accento sulla tecnica: di qui la sua semplificazione. Di qui, però, anche la sua incompiutezza. È necessario complicarlo ulteriormente». 24 Sull’argomento rinvio a V. FRANCHETTI PARDO, Il mastro d’arte muraria, in Condizione umana e ruoli sociali cit., pp. 187-213; G. BRESC-BAUTIER - H. BRESC, Maramma. I mestieri della costruzione nella Sicilia medievale, in II mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi. Atti del II Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 2629 marzo 1980), Palermo 1984, pp. 91-139. Ma evidenti sono anche gli elementi di differenziazione: «Se la bottega costituiva, per così dire, un carattere “strutturale” del tessuto urbano, il cantiere edile subiva invece più marcatamente gli effetti della “congiuntura”»: CHERUBINI, I lavoratori cit., p. 18. 25 LICINIO, L’artigiano cit., pp. 167-169 (qui pp. 16-18); TRAMONTANA, La monarchia cit., p. 690, e TRAMONTANA, Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale, in Mestieri, lavoro e professioni cit., p. 42: occorre «chiedersi se la debolezza socio-politica


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L’organizzazione del lavoro e la strumentazione, in primo luogo. Sappiamo che, anche nel Mezzogiorno normanno-svevo, nella dimensione monocellulare della bottega che produce beni comuni e d’uso quotidiano è riprodotto il modello sociale della famiglia: presso il fornarius e lo sfingiarius che confeziona frittelle (è attestato in Sicilia e, non a caso, nella Lucera musulmana)26, presso il calceolarius e il faber, il carpinterius e il sutor, artigiani che lavorano soli o con pochi apprendisti, l’autorità del «maestro» è anche l’autorità del padre. Qui l’apprendista coincide frequentemente con un figlio o un parente del magister, che gli trasmette direttamente tecniche ed esperienza. E il coinvolgimento della manodopera femminile avviene in termini non sempre marginali: le donne artigiane, la salernitana che nel 1202 lavora giorno e notte in un forno preso in affitto, o la Gemma calceolaria nella Eboli normanna27, sono meno frequenti delle lavoratrici salariate o servili, ma attestate. Rimasta vedova, la donna tende a vendere o a donare pro anima la bottega: ma c’è chi continua a lavorare, magari con l’assunzione di un garzone, come fa nella Palermo del Vespro una vedova, Elena, per produrre zoccoli, patitos, di diverse misure28. Un giovane garzone, e non sappiamo con quanta malizia. In questo tipo di bottega i ritmi di lavoro possono essere continui, se costanti sono le commesse; e la qualità del prodotto è garantita solo dalla maggiore o minore abilità dell’artigiano. Che si serve di strumenti di lavoro semplici, ridotti all’essenziale, e per questo solo accennati nella nostra

degli artigiani non fosse anche da ricondurre alla loro fragilità economica, alla loro scarsa consistenza numerica, alla subalternità, persino in termini di qualificazione tecnologica, verso le produzioni manifatturiere del Nord». 26 Per Lucera: R. LICINIO, Ostelli e masserie, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle undicesime giornate normanno-sveve (Bari, 26-29 ottobre 1993], cur. G. Musca - V. Sivo, Bari 1995, p. 308. Per la Sicilia: G. CARACAUSI, Arabismi medievali di Sicilia, Palermo 1983, pp. 340-341; nei Capitoli di Palermo del 1330 si precisa: «chi nullo sfingiaro digia fari ne vindiri sfingi, ne rusa annanti l’ura di la matina si non a iornu»: R.M. DENTICI BUCCELLATO, I mestieri della città. Palermo tra Due e Trecento, in Travail et travailleurs au Bas Moyen Âge. Atti del Convegno di Quebec (18-23 maggio 1986), nota 94 [n.d.r. il saggio è stato pubblicato in «La Fardelliana», 3 (1986), pp. 19-44]. 27 H. TAVIANI, Les archives du diocèse de Campagna dans la province de Salerne (Documents inédits des XI et XII siècles), Roma 1974, n. 58, 1174, p. 51, in regesto; Codice Diplomatico Salernitano, I (1201-1281), ed. C. Carucci, Subiaco 1931, n. 5, 1202. 28 Le imbreviature del notaio Adamo de Citella a Palermo (1° Registro: 1286-1287),ed. P. Burgarella, Roma 1981 (Fonti e Studi del Corpus membranarum italicarum, s. III, I), n. 198, 3 febbraio 1287, p. 125: si tratta della vedova di tale Bonsignore de Stasi, che stabilisce un salario di 5 tarì per ogni centinaio di «patitos completos omni perfectione ad vendendum» di misura grande, e 4 tarì per ogni centinaio di zoccoli piccoli.


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documentazione. Ma anche più tardi, quando gli artigiani meridionali disporrano di corporazioni e intensificheranno i contratti di società, la strumentazione apparirà ancora elementare: ad Altamura un curbiserius figlio di un tufarolus lavora con «tabulas aptas ad intanbulandas ocreas, macinellam unam, formas ligeras» e pochi altri strumenti «ad artem curbiserie deputata»: siamo nel 134229. A Palermo un fabbroferraio concede in locazione ad un collega i suoi strumenti di lavoro: un’incudine di 4 piedi e 2 corni, uno quadrato e l’altro rotondo, un paio di mantici, una mazza e un maglio, due paia di tenaglie: siamo nel 129830. Non c’è dubbio: nella strumentazione e nelle tecniche della bottega unicellulare, spesso al limite della sussistenza, prevalgono la continuità, la ripetitività, la lunga durata. Non ci sono molti margini per la sperimentazione: la qualità del prodotto si raggiunge addizionando esperienze, la propria su quelle dei padri. Se la si raggiunge: perché, lamenta amaro e disilluso un verso del siracusano Ibn Hamdîs, «quante volte la ruggine di una spada ha resistito agli strumenti per forbirla!»31. Il sapere è figlio della tradizione, e la tradizione è garanzia di qualità. L’abilità e il sapere, proprio in quanto trasmessi da un’autorità che ha due volti sovrapposti (quello della tradizione, e quello del magisterpater) diventano fattori di freno nell’accettazione e nella diffusione delle novità tecniche. Uno schema, insieme culturale e di organizzazione del lavoro, difficile da rompere. Scarse, di conseguenza, le variazioni significative nei prodotti di questo artigianato a bassa specializzazione, in genere oggetti d’uso comune, 29

Codice Diplomatico Pugliese (continuazione del Codice Diplomatico Barese) [siglato CDP], vol. XXXIV, Le pergamene della Cattedrale di Altamura (1309-1381), ed. P. Cordasco (con la collaboraz. di G. Pupillo), Bari 1994, n. 53, 13 novembre 1342, p. 122. 30 Le imbreviature del notaio Adamo de Citella (2o Registro: 1298-1299), ed. P. Gulotta, Roma 1982 (Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum», s. III, II), n. 69, 22 ottobre 1298: il contratto prevede l’affitto per un mese dell’attrezzatura del «magister faber» Lemmus al «magister faber» Giovanni de Gavi; la somma concordata è di un tarì e mezzo. Ancora nel Quattrocento, la bottega del fabbro disporrà in genere di una strumentazione elementare, arricchendosi in qualche caso «degli attrezzi necessari per limare, imbrunire, stampare, tagliare, incidere: stampi, brunitoi, torni, bulini e punteruole, lime, martelli particolari, nonché banchi speciali»; più specialistica invece l’attrezzatura utilizzata dal fabbroferraio nella ferratura degli equini, «mazzuolo (probabilmente con il caratteristico uncino), tronchesi, coltello scarnitore, “rosina” per limare le unghie, anello per legare la bestia, collana di cuoio per tenere sollevato il suo piede e tinello per temprare il ferro. Più le lanzette, nel caso raro in cui il fabbro assume le funzioni di maniscalco»: G. e H. BRESC, Lavoro agricolo e lavoro artigianale nella Sicilia medievale, in La cultura materiale in Sicilia. Atti del I Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 12-15 gennaio 1978), Palermo 1980, p. 95. Sugli strumenti di lavoro del maniscalco di età sveva e angioina cfr. F. PORSIA, I cavalli del re, Fasano 1986, in particolare le pp. 50-53. 31 Dal Diwân di IBN HAMDÎS, in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., II, p. 308.


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modesti per fattura e valore commerciale: utensili in legno o in metalli non pregiati, terraglie e suppellettili domestiche, sacchi e tuniche, stuoie e ceste. Aggiungiamo alla lista qualche mobile, il letto e il suo corredo, e ci ritroviamo in un’abitazione tipo, una delle tante descritte negli atti testamentari e di assegnazione di dote. Quasi un museo della civiltà del legno e della vita quotidiana. Secondo condizione sociale, qui pochi oggetti e arredi e stoffe, e non c’è bisogno di indicarne il prezzo o la provenienza; lì, sedie invece dei suppedanea, e tessuti ricamati, gioielli, letti alla francese o alla greca. Qualche volta, strumenti di lavoro casalingo, tessile e femminile: «unu pectine de lina pettinare» e una gràmola, l’attrezzo per separare nel lino le fibre tessili da quelle legnose, ricordati nel testamento di una vedova nella Napoli del 1073; uno scardasso e due pettini da stoppa a Terlizzi, nel 1138, come nel 1110 a Conversano, dove è anche registrato un arco per lavorare il cotone32. E aghi, spole e fusi, in quel «microcosmo domestico − è stato ben scritto − in cui la donna si aggirava come domina, ma in cui era rinchiusa come femina»33. A questi prodotti artigianali dobbiamo saper porre ora nuove domande, che superando «lo studio tradizionale delle tecniche di fabbricazione e dei circuiti di commercializzazione», ne valorizzino la funzione di «rivelatori culturali»: è l’approccio ai documenti archeologici legati alle attività di trasformazione suggerito da Toubert, nel saggio introduttivo di un suo recentissimo volume34. Nelle botteghe dell’alta specializzazione, nelle «manifatture disseminate», i modi e i tempi della produzione sono invece diversi. Meno visibilmente nell’officina del fabbro aurifex, che si distingue da fabbriferrai, carpentieri e calderai, per lavorare metalli preziosi. Più marcatamente nei maggiori laboratori tessili, nelle tintorie e nelle botteghe del cuoio e delle pelli, dove attività e tempi della produzione sono più continui. Qui, in settori in cui la materia 32 CDP XX, Le pergamene di Conversano, I (901-1265), ed. G. Coniglio, Bari 1975, n. 64, luglio 1110, pp. 150-151 (nell’ediz. di D. Morea, Il «Chartularium» del monastero di S. Benedetto di Conversano, Montecassino 1892, rist. anast. Bologna 1976, n. 65); CDB III cit., n. 51, 1138, pp. 68-69; Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia, ed. B. Capasso, II, parte I, Napoli 1885, n. 514, 1073, pp. 307-308. Altri esempi in P. CORSI, Arredi domestici e vita quotidiana, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), cur. G. Musca, Bari 1987, pp. 75-111: «Nel campo dell’arredamento domestico c’era spazio per una serie di artigiani specializzati: fabbri, calderai, vasai, cestai, vetrai, tessitori, lanaioli, conciapelli, falegnami, fabbricanti di stuoie, orefici e così via»: ivi, p. 87. 33 A.M. PATRONE NADA, La donna, in Condizione umana e ruoli sociali cit., p. 114. 34 In quanto «rivelatore culturale», il materiale archeologico, le ceramiche ad esempio, può consentire di approfondire, tra l’altro, la conoscenza «delle tecniche di stoccaggio dei viveri, della cottura degli alimenti, delle abitudini alimentari e dei rapporti fra l’attrezzatura domestica e lo spazio abitato», e di meglio comprendere le «correlazioni sistematiche tra


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prima è lavorata in più fasi differenziate, sono necessari più di un locale, strumenti e infrastrutture più adeguate, quantità più elevate di capitali, di manodopera salariata (fissa o stagionale) e di apprendisti. Che vengono pagati anche in natura e possono disporre dell’attrezzatura per lavori personali, ma devono lavorare a ritmi duri, inverno e notti comprese, e svolgere funzioni di sorveglianza della bottega: «vigilare in laborando […] nocte tempore hiemalis, prout est consuetum», ribadisce all’apprendista un contratto palermitano; e gli Statuti dell’arte tintoria nella Catanzaro quattrocentesca impongono di cessar di lavorare solo dopo che siano «passate le due ore di notte»35. Più alta la specializzazione, più elevati i guadagni possibili, specialmente dei conciatori: uno Statuto manfrediano ci ricorda che nel regno si può acquistare pelle bovina cruda, non lavorata, a 10 tarì, e rivenderla dopo la lavorazione a 15, o, meglio ancora, si possono investire 2 tarì «pro corio vitelli crudo», e guadagnarne 4 e mezzo «pro corio vitelli conciato»36: detratte le spese e pagate le gabelle, è sempre un buon guadagno. Se la bottega comune è anche centro di vita associativa, aggregazione di uomini non necessariamente impegnati nel lavoro (e in questo può ricordarci la taverna e il mulino), intorno alle officine specializzate ruotano invece altre figure professionali, esperti in operazioni particolari, o semplice manodopera, dal raccoglitore delle materie prime, al bordonarius che le trasporta in bottega, sino a chi si occupa del prodotto finito. Il che, unito le forme, le funzioni, le frequenze statistiche e le aree di diffusione» degli oggetti e delle suppellettili: P. TOUBERT, Il medievista e il problema delle fonti, in Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino 1995, p. 18. 35 A. ROMANO, La disciplina giuridica del lavoro nella Calabria basso medievale, in Mestieri, lavoro e professioni cit., p. 163; sul contratto palermitano, datato luglio 1333 e stipulato da un calzolaio: A.M. PATRONE NADA, Pelli e pellami, in Uomo e ambiente cit., p. 193. Il compenso in natura può essere alternativo o in aggiunta a quello in denaro: ivi, p. 194. In Le imbreviature del notaio Adamo de Citella (1° Registro) cit., n. 96, 28 gennaio 1287, p. 71, è un esempio di contratto tra un corrigiarius palermitano e un giovane che si impegna per un anno «ad faciendum officium corrigiarie», con un salario di 18 tarì e la fornitura di «victum necessarium» e di vestiario: «par unum de serabolis et camisiam unam sive interulam, par unum de stivalibus, soleas et antepedes pro uso suo»; e v. ivi anche i contratti di apprendistato relativi ai lavori di sarto (n. 107, 1 febbraio 1287, p. 78), setaiolo (n. 145, 21 febbraio 1287, p. 97), sellaio (n. 166, 7 marzo 1287, pp. 108-109), e così via. Cfr. anche P. CORRAO, L’apprendista nella bottega artigiana palermitana (secc. XIV-XVII), in I mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi cit., pp. 137-144, in partic. p. 137, sulle differenze tra apprendisti e manodopera salariata che si precisano ulteriormente in età più tarda, quando «la legislazione statutaria delle “Maestranze” artigiane codificherà la gerarchia della bottega nei tre gradi di maestro titolare, lavoratore salariato e garzone o discipulus o infanti di putiga». 36 Acta Imperii inedita saeculi XIII et XIV, ed. E. Winkelmann, 2 voll., Innsbruck 18801885 (rist. anast. 1964), I, pp. 755-757.


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al fatto di dover misurare i propri prodotti con quelli d’importazione, favorisce qui contatti più continui tra competenze diverse, una circolazione più ampia delle nozioni pratiche. E l’articolazione del ciclo produttivo determina, specialmente nei laboratori tessili e della concia, l’emergere della figura dell’intermediario (può essere lo stesso magister artigiano, un imprenditore o un mercante: il Verlagssystem), che acquista materia prima, la segue nelle varie fasi di lavorazione, e si occupa poi della commercializzazione del prodotto. Non ce ne mancano attestazioni. Nel Trecento, l’intermediario sarà presente anche in altri settori: a Palermo, un imprenditore che dispone di materia prima, di ambienti e di strumenti di lavoro, gli stampi di metallo, per far vetri, assume due vetrai messinesi, per lavorare alla fornace a far gotti; con la clausola, precisata nel contratto, che tocca ad uno degli artigiani riparare o sostituire tutti gli stampi di metallo che si fossero rotti nel corso dei lavori37. In generale, l’artigianato specializzato può contare su commesse rilevanti, che toccano una gamma di prodotti così ampia, da non richiedere qui esemplificazioni puntuali: dalle coppe ai circelli d’oro, dai sontuosi vestiti di seta agli oggetti preziosi esaltati nei racconti, così cari ai cronisti del regno, di scene sfarzose, incoronazioni, nozze, feste e banchetti di corte. Val la pena, se mai, rivolgersi alla descrizione, opera del sempre contestato e sempre apprezzabile Matteo Spinelli, dei quattrocento «huommene d’arme Franzesi» che entrano in Napoli al seguito di Carlo d’Angiò, «assai buono addobbati de sopraveste et de pennacchi; […] poi chiù de sessanta Signure Franzesi co grosse catene de oro a lo cuollo; et la Reina co la carretta coperta de velluto celestro et tutta de sopra et dentro fatta con Gilli d’oro, tale che a vita mia no viddi la chiù bella vista»38. Limitiamoci qui a notare un caso d’innesto diretto di una cultura del vestire altra rispetto a quella tradizionale dei ceti dirigenti del regno. Cultura del vestire su cui sono state scritte pagine felici, che indagano il prodotto dell’artigianato specializzato non solo nei suoi rapporti con la tecnica o il mercato: perché, parole di Tramontana, «un abito, un gioiello o un profumo possono svelare la perizia di un orafo, di un sarto o di un alchimista, ma anche […] il senso della vita se non come pratica d’ogni giorno almeno come voglia e curiosità: come clima, come ambiente, come domanda»39. 37

F. D’ANGELO, Ceramica e vetro, in Uomo e ambiente cit., p. 288; alle pp. 290-291 notizie sulle materie prime e le tecniche di lavorazione. 38 F. ROSCINI, Il mio Matteo Spinelli. Studio critico-storico sui Diurnali, Giovinazzo 1965, p. 84 (riprende la versione di S. DACONTO, I Diurnali di Matteo Spinelli da Giovenazzo, Giovinazzo 1950). 39 S. TRAMONTANA, La meretrice, in Condizione umana e ruoli sociali cit., p. 82. E poi


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Altro punto: la mobilità e i quartieri artigiani. Le botteghe palermitane descritte da Ibn Hawqal alla fine del secolo X, sono all’esterno dell’area urbana: «I cambiatori e i droghieri soggiornano […] fuor le mura della città; e similmente i sarti, gli armaioli, i calderai, i venditori di grano» e i macellai, e i fabbri in una «contrada» che da loro prende il nome40. Poi, sempre più, la bottega con le sue infrastrutture segna la nuova frontiera dei quartieri urbani, sino a giungere a quegli addensamenti da «artigiano collettivo» che sono le piazze e le vie intitolate secondo i mestieri; è il sintomo di un processo di valorizzazione della città, di una sua capacità di organizzare il territorio. Ora, se organizzare significa dirigere, ci spieghiamo meglio il tentativo di Federico II di ricondurre fuori del circuito murario urbano, con la De conservatione aëris, gli artigiani del cuoio, della canapa e del lino41. Botteghe inquinanti, lo sappiamo bene, ma non è solo questo il punto, perché comunque Federico autorizza lo scarico degli scarti in mare e nei corsi d’acqua. C’è forse, accanto all’attenzione igienico-sanitaria, assai diffusa nelle città non solo medievali, anche una preoccupazione politica, se è vero che proprio in quei settori produttivi si stanno imponendo artigiani che sono allo stesso tempo imprenditori e mercanti, cioè borghesi a pieno titolo. Borghesi, e concorrenti dei pelliparii e dei coriarii delle camere imperiali, ai quali non a caso Federico si preoccupa di non far mancare mai le pelli. E poi, tutta la normativa federiciana tende a non distinguere troppo commercianti da artigiani, compresa la Costituzione sui magistri delle arti meccaniche, dove troviamo artigiani dei metalli («qui in auro et argento laborant, sellarios et scutarios, frenarios atque lormerios, calderarios, fabros qui eris et ferri quecumque opera formant, balistas etiam facientes et arcus») insieme a pescivendoli e macellai, tavernieri e venditori di vino e di candele, ma nessun riferimento esplicito, in quanto artigiani, ai magistri della concia42. Fuori le mura, dentro le mura: si direbbe l’unico circuito della mobilità artigiana. Ma quella di un artigiano che non si sposta, legato alla bottega come il contadino alla terra, è un’immagine da sfumare. Si esce invece, per procurarsi altrove la materia prima, per vendere al mercato i prodotti, anche TRAMONTANA, Vestirsi e travestirsi in Sicilia. Abbigliamento, feste e spettacoli nel Medioevo, Palermo 1993. 40 IBN HAWQAL, Kitâb al masâlik cit., pp. 15 e 20. 41 HB, IV/1, Paris 1854, pp. 151-152; e ora Die Konstitutionen Friedrichs II. von Hohenstaufen fur sein Königreich Sizilien, hrsg. von H. Conrad - T. von der Lieck-Buyken - W. Wagner, Köln-Wien 1973, III, 48. 42 HB, IV/1, pp. 152-155; Die Konstitutionen cit., III, 49-51; R. PAVONI, Il mercante, in Condizione umana e ruoli sociali cit., pp. 248-250.


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per cercare clienti, per ingaggiare aiutanti. Sono gli stessi piccoli artigiani i primi merciai, gli ambulanti che, dicono i documenti del Barese, fanno «poculatoria seu merciària»43, vendono prodotti artigianali comuni e piccole merci. In giro o nei punti più frequentati, come la donna che a Messina, «sub sole et pluviis in porta Judaeorum […] sedens», accumula denari «ex modico foro rerum comestibilium quas vendebat»: è la madre di Matteo Scaletta, assicura Bartolomeo da Neocastro44. Artigiani itineranti per eccellenza sono i vetrai che, se non possiedono un’officina propria, vendono dove occorre la loro forza lavoro e la loro abilità. Ho già accennato ai due vetrai messinesi assunti da un imprenditore palermitano; ma sono numerosi i magistri gottarii, soprattutto toscani nel Trecento, che firmano contratti con i Palermitani per fabbricare vasi di vetro o far mazzacotto, la materia grezza per gli oggetti di vetro45. Si produce per strada, nelle piazze, nelle botteghe, negli empori. Si produce negli opifici tessili regi, da liberi e da servi: in quelle «nobiles officinae» che sono «da ambo i lati del Palazzo» di Palermo, dice ad esempio Falcando, «che non convien passare sotto silenzio», dove si confezionano «molti e molti ornamenti di vario colore e di diverso genere, ne’ quali con la seta è l’oro intessuto». Prodotti di valore e di qualità, dai colori delle pietre preziose, panni tessuti ad uno, due o tre capi; e quegli «exarentàsmata, circularum varietatibus insignita», stoffe per tappeti o addobbi distinti in diversi cerchi, che richiedono agli artigiani «majorem industriam, et mate-

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CDB X, Pergamene di Barletta del R. Archivio di Napoli (1075-1309), ed. R. Filangieri Di Candida, Bari 1927, n. 157, 23 ottobre 1297, p. 276 (conferma dei «Capitula sive dacia» dell’Università di Barletta): «poculactaria seu merciaria»; E. ROGADEO, Ordinamenti economici pugliesi in Terra di Bari nel secolo XIV, Bitonto 1900, doc. III, Dazi di Bitonto, 8 febbraio 1303, p. 7: «peculatoria seu merciaria». Venditori di oggetti fabbricati con le proprie mani, o comunque di altra merce «ad minutum», come i «recacteriis vendentibus ad minutum frumentum, ordeum, fabas, ciceras et alia legumina» (ivi, p. 9), gli ambulanti si differenziano generalmente dagli «stacionarii», che dispongono di una bottega o di un altro posto fisso di vendita (ivi, p. 7). Certo, più di altre figure del mondo delle professioni l’artigiano appare unito al suo luogo di lavoro, quasi «come la chiocciola è unita al suo guscio», BRAUDEL, Civiltà materiale cit., II, p. 38; ma l’immagine va ridimensionata, a partire dall’artigiano che vive e lavora nell’insediamento urbano, o in stretto rapporto con esso: «Meno è legato alla terra, più è cittadino, e meno l’artigianato si rivela radicato. Al di sopra della produzione campagnola, che ha anch’essa le sue mobilità (soprattutto nei paesi poveri), l’artigianato in senso stretto è la popolazione più mobile. Questo dipende dalla natura stessa della produzione preindustriale, che conosce in continuazione brusche ascese e cadute verticali», ivi, p. 301. 44 BARTOLOMEO DA NEOCASTRO, Historia sicula, ed. G. Paladino, in R.I.S.2, XIII/3, Bologna 1921-1922, p. 67. 45 D’ANGELO, Ceramica e vetro cit., pp. 287-288.


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rie ubertatem», ma in compenso si vendono a prezzi più alti46. Prodotti preziosi, il cui valore anche simbolico ci è reso esplicito dal prezioso manto di re Ruggero, confezionato «nella capitale di Sicilia» tra 1133 e 1134. In una relazione densa di notizie e suggestioni Reinhard Elze, nelle ultime «Giornate», ci ha riproposto la traduzione della sua iscrizione in lettere cufiche: «Questo manto è stato prodotto nell’officina regia, dove hanno sede fortuna, gloria, agiatezza, perfezione, merito e onore, cioè qui nell’officina regia, la quale gode di recezione propizia, vita gloriosa, liberalità grande e alto splendore, gloria, corredo sontuoso e realizzazione di desideri e speranze»47. L’esaltazione dell’officina, «realizzazione di desideri e di speranze», è quella stessa del mantello, insegna della magnificenza del potere. Nell’impatto visivo immediato questo tipo di prodotti deve sapersi caricare di messaggi simbolici, elementari o più complessi, immediati ed evidenti ma anche indiretti e allusivi. Si lavora nelle masserie e nelle scuderie imperiali. Per le mascalcie ci è rimasto un manuale, il De cura equorum di Giordano Ruffo, redatto anche su intervento di Federico II, che descrive strumenti, operazioni, strutture di lavoro di fabbriferrai e maniscalchi48. Tentativo di dare organicità e razionalità a nozioni consolidate nei secoli, il manuale consente di rintracciare il contributo normanno e poi svevo nella definizione di una «cultura del cavallo» che è fatta di valori politici e sociali, non solo di tecniche e pratiche allevatorie. Si lavora nelle zecche statali, in cui magistri qualificati sovrintendono all’approvvigionamento dei metalli e guidano le varie fasi della coniazione delle monete, ad Amalfi in età normanna, poi a Brindisi e a Messina. Per il centro peloritano notizie più circostanziate ci mostrano la crescita dell’artigianato al servizio del potere nelle officine del palazzo reale, a partire dai già richiamati innesti produttivi da parte di re Ruggero, sin oltre la terribile repressione sveva della rivolta del 1232. Tutti sappiamo delle litterae responsales con cui da Foligno, nel febbraio del 1240, Federico II ordina al secreto di Messina di impegnare in qualche attività,

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FALCANDO, Liber cit., pp. 178-180: «Nec vero nobiles illas palatio adhaerentes silentio praeteriri convenit officinas […] Hic exarentàsmata, circularum varietatibus insignita, majorem quidem artificum industriam, et materiae ubertatem desiderant, majori nihilominus pretio distrahenda». 47 R. ELZE, Le insegne del potere, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione cit., p. 120. 48 JORDANI RUFFI CALABRENSIS Hippiatria (De medicina equorum), ed. H. Molin, Padova 1818. Del trattato si è occupato da ultimo J.-L. GAULIN, Giordano Ruffo e l’arte veterinaria, in Federico II e le scienze, cur. P. Toubert - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 424-435, senza tuttavia ricordare le pertinenti e acute osservazioni scritte sull’argomento da PORSIA, I cavalli del re cit.


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«ad filandum sive ad alia quecumque opera», le ancelle che nel palazzo non si guadagnano il pane con il lavoro, «nullum servitium faciunt»49. E di aggiungere ai «magistris asbergeriis» che già vi operano alcuni esperti armaioli pisani, che sappiano lavorare il filo di ferro «ad opus loricarum», per fabbricar corazze. La motivazione è disarmante: nel palazzo «magistri alii non sunt qui sciant cum eis de eorum ministerio laborare»50. Dov’è finita la tradizionale competenza saracena nell’artigianato bellico? Due settimane dopo, parte un mandato di pagamento per i «magistris sarracenis, tarisiatoribus, carpentariis» e per gli altri armieri che lavorano per la Corte a Melfi, Canosa e Lucera51: è chiaro, in fatto di corazze questi esperti non sono in grado di competere con i magistri exteri. Lo sradicamento e il trasferimento di competenze artigianali ha prezzi alti da pagare; così era accaduto, nel dicembre 1239, che Riccardo Filangieri s’era dovuto impegnare a cercare due esperti «qui bene sciant facere zuccarum», da inviare a Palermo «pro zuccaro faciendo». E con il secreto palermitano Oberto Fallamonaca, avvertito dell’iniziativa, Federico s’era vivamente raccomandato di controllar tutto, in particolare che i due esperti trasmettessero il loro sapere, «quod doceant alios», perché a Palermo «non possit deperire ars talis»52. Non c’è da stupirsi; antiche competenze artigianali o sono scomparse, o non appaiono all’altezza delle innovazioni introdotte altrove. 49 HB, V/2, 5 febbraio 1240, p. 722: «De ancillis curie nostre que sunt in palacio nostro Messane et, cum nullum servitium faciunt, victum a curia nostra recipiunt, mandamus ut statuas eas ad aliqua servitia facienda sive ad filandum sive ad alia quaecumque opera ut panem non comedant otiosum». 50 Ivi, pp. 722-723: «De hoc quod magistris asbergeriis qui sunt in palatio nostro Messane ad laborandum pro curia nostra statuti, tam pro eis quam pro faciendis ferramentis eorum oportuna facis tribui, placet nobis. Quod autem in Messana magistri alii non sunt qui sciant cum eis de eorum ministerio laborare, ecce quod sicut scripsisti licteras nostras mictimus apud Pisas ut de terra ipsa mictantur qui instructi sint ad ministerium supradictum. Tu vero pro filo ferro ad opus loricarum emendo mictas et facias inveniri». Sull’episodio e sulla presenza dei Pisani a Messina: E. PISPISA, Messina, Catania, in Itinerari e centri urbani cit., pp. 155ss. (ora, con il titolo Messina e Catania. Relazioni e rapporti con il mondo mediterraneo e l’Europa continentale nell’età normanna e sveva, in Medioevo meridionale. Studi e ricerche, Messina 1994, pp. 332ss.). 51 HB, V/2, 21 febbraio 1240, p. 764. Anche i documenti dell’età primoangioina attestano le competenze artigianali dei musulmani di Lucera: LICINIO, L’artigiano cit., pp. 162163; J.-M. MARTIN, Foggia, Lucera, in Itinerari e centri urbani cit., spec. pp. 349 e 360. 52 HB, V/1, Paris 1857, 15 dicembre 1239, p. 574. Sappiamo che la competenza diffusa, l’esperienza consolidata, vivono nella bottega in quanto trasmesse, comunicate, scambiate; tuttavia nei centri e nei luoghi di produzione ad alto tasso di specializzazione della forza lavoro, la diffusione di competenze può obbedire a logiche differenti. Nei tre grandi centri di lavoro specializzato di cui si ha notizia nella Palermo del 1148, «ciascun atelier presenta una fisionomia stilistica ben definita, mostra grande refrattarietà ad accogliere e


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Il che ci appare più chiaro se ci trasferiamo dai palacia ai castra federiciani. Anche il castello, contenitore di funzioni ed energie, è luogo di produzione artigianale. Nel castello di Canosa come in quello di Melfi mastri pellicciai uniscono pelli con colla e nervi; e molte fortezze sono attrezzate per produrre in proprio se non corazze, trabucchi, macchine da lancio e altri ingenia complessi, almeno chiodi, catene, archi e frecce, balestre e quadrelli, ferri e bardature per i cavalli53. Teoricamente, ogni castello dovrebbe tendere all’autosufficienza anche produttiva, perciò, scrive Federico II ad Angelo de Marra, provvedi a munire il castello di Napoli «de ferro, fornace, ferrario, carbonibus» e quant’altro sia necessario54. In realtà, l’autosufficienza riguarda il sistema castellare nel suo complesso, non le singole fortezze: i castellani sanno bene che i castelli dipendono «secundum quod fit, uni ex aliis castris»55. Ma questa indicazione è minata dalla necessità di procurarsi sia innovazioni prodotte fuori dal regno, che artigiani exteri che sappiano costruirle e insegnarne l’uso: giungono dalla Palestina, nel dicembre 1239, «tres bonas balistas de torno», grandi balestre da posizione che, azionate da un tornio, lanciavano frecce più grandi e pesanti del normale56. Nella carpenteria militare e nella poliorcetica, in sostanza, lo svevo è più tributario che protagonista del dinamismo scambiarsi reciprocamente esperienze di cantiere, formule stilistiche, maestri»: M. ANDALORO, Strutture, tecniche, materiali negli «ateliers» della Palermo normanna, in Federico II e le scienze cit., p. 298. 53 HB, V/2, 27 aprile 1240, p. 926; e V/1, 10 ottobre 1239, p. 441, sui mastri pellicciai nella lettera a Tommaso da Brindisi: «pelliparios et alios magistros ad cameram nostram Melfie et Canusii pro reparandis pennis et pannis et aliis rebus nostris, […] et aliis magistris laborantibus apud Canusium de mandato nostro emi facis de pecunia curie collam, nervos et alia que operibus que ipsi faciunt oportuna videntur et assignari eis»; la motivazione è chiarissima: «ne pro necessarorium defectu laborare non possent». Su articolazione e funzioni del sistema castellare svevo: R. LICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, presentaz. di G. Musca, Bari 1994 (n.d.r.: nuova ed. Bari 2010), pp. 117-194; LICINIO, Federico II e gli impianti castellari, in Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, Roma 1995, pp. 63-68; A. CADEI, I castelli federiciani: concezione architettonica e realizzazione tecnica, in Federico II e le scienze cit., pp. 253-271. 54 HB, V/1, 6-7 ottobre 1239, p. 425: «quia castrum ipsum cum omni diligentia custoditum […] volumus fore munitum omnibus oportunis». 55 Ivi, 22 ottobre 1239, p. 462: il castellano qui ricordato è Aymone de Lauro, nuovo responsabile di Castro di Mare al Volturno. 56 Ivi, 16 dicembre 1239, p. 587. Tra i provvedimenti di Federico II va ricordato il diritto di balestra, per cui ogni nave proveniente dall’Oriente doveva portare almeno tre balestre, di cui «unam de torno, una de leva et aliam bonam»: ivi, p. 253. Sul provvedimento come sull’episodio del dicembre 1239, e più in generale sull’approvvigionamento di balestre e macchine da lancio per i castelli federiciani cfr. ora A.A. SETTIA, L’ingegneria militare, in Federico II e le scienze cit., spec. le pp. 280-283.


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tecnologico che sta caratterizzando il periodo, a differenza dei suoi avi normanni. Il mitico «principe guerriero e scienziato», il Federico curioso e sperimentatore, «nel quadro dell’ingegneria militare del suo tempo non fa certo la figura che ci si aspetterebbe»: questa la conclusione, ben motivata e pienamente condivisibile, di un recente studio di Aldo Settia sull’argomento57. Nelle officine dei palatia e dei castra regi dovevano circolare manuali tecnici, sul tipo dell’opera di Giordano Ruffo, redatti per formare forza lavoro qualificata. Ma siamo in un’età in cui cultura del fare, affidata alla comunicazione orale, gestuale e oggettuale, e riflessione teorica, affidata allo scritto e alla lettura, sono poco conciliabili. E la pergamena, che pure più di ogni altro oggetto si situa all’incrocio tra produzione pastorale e artigianale e produzione intellettuale, è ancora, in realtà, un segno di confine. Quanto hanno in comune i dati empirici del lavoro fabbrile con gli interessi, tradizionali o nuovi, delle scienze della natura? Ben poco, a sentire Michele Scoto sulle proprietà delle sette specie che compongono il metallo; sull’oro, con cui «si fanno monili, si decorano vasi», «si acquistano molti denari [...], donne e molti possedimenti», e se macinato e «assunto con il cibo vale ai vecchi per vivere più sani ed essere più giovani»; sull’argento, con cui «si fanno molte cose, come con l’oro, denari, vasi, ecc.»; e attenzione all’argento vivo, perché uccide «chi lo ingerisce e toglie l’udito se cade in un orecchio»; e così via, per piombo, stagno, ferro, per il ramun (il bronzo), e per il cuprum (il rame)58. Imbozzolati in una concezione magica ed esoterica dei procedimenti, gli interessi alchemici e le speculazioni sulla natura di Michele Scoto appaiono lontani dall’organizzazione 57 A.A. SETTIA, Ingegneri e ingegneria militare nel secolo XIII, in Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle città, Bologna 1993, e L’ingegneria militare cit, pp. 272-289, e in partic. pp. 277-278: Federico «destò l’ammirazione dei contemporanei per le sue straordinarie attitudini tecniche e meccaniche estese, si sostiene, anche alla “tecnica d’assedio e delle macchine da guerra”; in realtà risulta difficile trovare rispondenza di tali asserzioni nei risultati, non di rado catastrofici, da lui conseguiti sul campo». Come considerare allora quei «peritissimos lignarios […] artifices», gli abili ed esperti artigiani della guerra al seguito dell’imperatore contro la ribelle Viterbo, nel 1243, «ut omnia compingerent ingenia impugnandi et diversorum generum machinas fabricarent»? Le considerazioni di Settia al riguardo sono alle pp. 275-277. Meno negativo il giudizio di E. CUOZZO, Trasporti terrestri militari, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione cit., pp. 31-66, che sottolinea invece l’interesse di Federico II per le «novae bellicae machinae» (spec. pp. 34-36). 58 C.H. HASKINS, Studies in the History of Medieval Science, New York 19602, p. 295; la trad. del brano è di PORSIA, Miniere e minerali cit., pp. 267-268. Su Michele Scoto e sull’Ars alchemie che la tradizione gli attribuisce v. ora, nel già cit. Federico II e le scienze, gli articoli di CH. BURNETT, Michele Scoto e la diffusione della cultura scientifica, pp. 371ss.; R. HALLEUX, L’alchimia, pp. 152-161; e anche D. PINGREE, La magia dotta, pp. 354-370.


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del lavoro nelle officine. Come anche le riflessioni naturalistiche di un Enrico Aristippo, l’arcidiacono catanese che succede a Maione nella carica di ammiratus ammiratorum, e che sappiamo traduttore dal greco, nel 1156, del IV libro delle Meteorologiche di Aristotele, sia ancora l’impalcatura universitaria che sorregge il sapere alchemico dei Mineralia di Alberto Magno, testo di poco posteriore alla morte di Federico II. Ma appaiono anche distanti, perché inserite in un contesto culturale in certo qual modo sospettoso della pratica quotidiana del lavoro, le conoscenze mutuate dalle teorie e dalle descrizioni di Plinio e Isidoro, dalle nozioni di enciclopedisti e trattatisti greci e latini, ebrei e musulmani. Distanti, non separate del tutto59. In realtà, gli «artifices alkimie» che si rivelano insuperabili nelle formulazioni teoriche, così come gli «artigiani dell’alchimia» pratica, dei ricettari e dei compendi salernitani, stentano a costruire un rapporto culturale nuovo con il mondo del lavoro quotidiano. E c’è frattura tra atteggiamento culturale e opzioni politiche: il noto passo del Prologo del De arte venandi − «Laudo artes mechanicas et earum artifices cupio honorare sicut artes scripturarum», perché ovunque i «doctores» sono utili e necessari − è una manifestazione d’intenti pallida e letteraria. Contraddetta tra l’altro da quel tal Nicola, scrivano al servizio dell’imperatore, che lamenta presso Pier delle Vigne le condizioni di lavoro e l’estrema povertà: «mille volte ho sudato di sudor freddo […], né la retribuzione ha compensato in alcun modo la mia fatica»60.

59 Tra gli esempi possibili: Cardinali, nel 1240 professore di medicina a Montpellier, per spiegare le differenze di calore tra i parvi, i bambini, e gli iuvenes, ricorre all’arte fabbrile, riprendendo il problema da Avicenna: «Se poniamo del ferro e un recipiente d’acqua sulla stessa fiamma in maniera che si riscaldino entrambi, vedremo che il calore è lo stesso alla fonte, ma nel ferro è maggiore qualitativamente, nell’acqua invece quantitativamente» («Si ferro vel lebes plenus aqua superponatur eadem igni, et utrumque istorum calefaciat, est idem calor in radice, tamen est magis qualitative in ferro et magis quantitative in aqua»). La definizione filosofica tra capacità intensiva ed estensiva sembra qui passare attraverso l’osservazione del lavoro fabbrile: M. MCVAUGH, Conoscenze mediche, in Federico II e le scienze cit., p. 112. E lo stesso Michele Scoto, nel suo trattato di fisiognomica, paragona il sangue mestruale all’allume che fissa le tinture: «Menstruum […] ut erat alumen in confectione tincture»: Liber phisionomie, Venezia 1477, I, 3. 60 J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Vie et correspondence de Pierre de la Vigne, Paris 1865, n. 74, pp. 370-371. Sul poco noto personaggio, «Nicholas rhetor de Rocca»: R. IORIO, Nei castelli di Federico II, «Studi Bitontini», nn. 57-58 (gennaio-dicembre 1994), p. 44, nota 104. Anche Michele Scoto, nel Liber phisionomie, sottolinea la necessaria presenza a corte di intellettuali e scienziati, esponenti di «artes» diverse ma lodate allo stesso modo nel Prologo del trattato sulla caccia: P. Morpurgo, La scuola di Salerno: filosofia della natura e politica scolastica della corte sveva, in Federico II e le scienze cit., pp. 410-423.


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Se Nicola ha ragione di lagnarsi per le sue «ossa dolenti», figuriamoci chi produceva le sue pergamene, o chi lavorava nelle cave e nelle miniere, di cui pure sappiamo quanto basta. Ad esempio, che a causa «del calore e della siccità» del minerale, i picconieri delle miniere di zolfo giallo della Sicilia normanna, ce lo dice Ibn Sabbât, «sogliono perdere i capelli e le ugne»61. Ma le condizioni di lavoro sono dure per tutti, salariati e artigiani, in ambienti inquinati da miasmi e odori, polvere e cenere, sudore e rumori, voci e urla, e poi dagli stillicidia dell’acqua che, priva di canali di deflusso, allaga la ruga e l’apotheca […] Presso la bottega o nel quartiere artigiano, in ogni luogo di produzione, tutto è fatica e rumore, rabbia e rassegnazione, il concreto inferno del lavoro quotidiano. Nella simbologia di certe miniature, quella miscela di rabbia e rassegnazione può a volte trovare un luogo di rappresentazione: penso ad un manoscritto della fine del XII secolo del Decretum di Graziano, in cui un personaggio che impugna un’ascia, forse un villano, forse un artigiano, è raffigurato con il pugno serrato e sollevato contro un avversario, un gesto di rabbia e di sfida, ma anche con un ginocchio piegato, segno tradizionale di sottomissione62. Quante figure del mondo produttivo, nei nostri documenti figurativi, hanno il ginocchio piegato? Prima di concludere, dovrei parlare dei mulini: i vari tipi, ad acqua, a braccia o mossi da animali, come funzionavano, chi li costruiva, chi li gestiva o li affidava in concessione. E dovrei parlare di altri luoghi di lavoro che in qualche modo hanno rapporto con l’artigianato: «le miniere, le cave, le saline, […] i frantoi, i trappeti, le vetrerie, i cantieri navali, i porti ed una molteplicità di altri luoghi come le strade e le piazze, la tolda o la stiva delle navi»63. Basterà qui ricordare, almeno per il mulino, che esso segnala con la sua presenza un artigianato rurale che, accanto a utensili e strumenti comuni, usa fonti d’energia e macchine collaudate. Artigianato rurale specializzato, ma meglio sarebbe parlare di industria agricola, anzi, di industria senza aggettivi. Mulini, centimula, frantoi, palmenti, trappeti, norie (macchine tradizionali di questa industria), così come l’attrezzatura di lavoro, aratri e falci, carri e botti, rinviano nel Mezzogiorno a scelte che, ancor prima che tecniche e ambientali, sono sociali, politiche, culturali: la

61 Dal Dono di una collana e itinerario del deserto di IBN SABBÂT, in AMARI, Biblioteca arabo-sicula cit., I, p. 347. 62 F. GARNIER, Le langage de l’image au Moyen Âge. Signification et symbolique, Paris 1982, p. 127, fig. 6. 63 CHERUBINI, I lavoratori cit., p. 18: «Partizioni, queste ricordate, non soltanto formali, perché implicavano condizioni diverse di lavoro per insicurezza, nocività, faticosità».


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specializzazione cerealicola e l’allevamento ovino; la rotazione biennale invece della triennale; l’aratro a chiodo; il bosco aperto all’uso collettivo o invece di riservato dominio (la «foresta» introdotta dai Normanni). Nel loro modo d’uso, nella stessa terminologia che li indica, macchine e strumenti agricoli riflettono rapporti sociali e caratteristiche culturali degli ambiti in cui sono prodotti. E si caricano di valori simbolici, diventano misura del mondo produttivo. L’aratro è misura del tempo agrario e della sua ciclicità; è misura dello spazio (terra da 10 aratri, vigneto da 4 aratri); è misura del lavoro umano e animale (aratro da 4 buoi). Ha ragione Braudel: il grano è il re64. Allora di questo re l’aratro è certamente il profeta. E da profeta, annuncia ogni anno la rinascita della terra. Ovunque le attrezzature agricole accompagnano una duplice necessità d’integrazione: del contadino, di farsi artigiano per costruire o riparare strumenti e oggetti d’uso; e dell’artigiano comune, di saper anche lavorare nei campi, come lavoratore stagionale, quando è libero da impegni. Come c’è una manodopera che, per usare una nota immagine di Cherubini, ha «un piede sulla barca e l’altro nella vigna», e secondo le stagioni passa dai lavori agricoli alle attività legate alla pesca, così c’è una manodopera, maschile e femminile, che ha un piede nella bottega e l’altro nei campi65. E se è femminile, diversi esempi contraddicono, non solo per l’età normanna e sveva, lo stereotipo di una presenza confinata nella tessitura domestica, o in altri settori artigianali marginali: pensiamo alle donne dei pescatori siciliani, raccontate da Boccaccio nella novella di Costanza e Martuccio, che aiutavano gli uomini nei lavori marinari, «sì come generalmente tutte le femine in quella isola», poi a casa «tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di palma di cuoio diversi lavorii facendo»66.

64 BRAUDEL, Civiltà materiale cit., I, Le strutture del quotidiano, Torino 19822 (ed. or. Paris 19792), p. 117. 65 Un esempio fra i tanti: recentemente F. BURGARELLA, Lavoro, mestieri e professioni negli atti greci di Calabria, in Mestieri, lavoro e professioni cit., p. 83, ha richiamato un documento, datato 1051 e relativo a Palo del Colle (nel Barese), in cui è notizia di un fabbro, Basilio, che in società con il fratello lavora a dissodare e bonificare una terra incolta, per evidenziare che «si tratta, a mio avviso, non tanto di un caso di abbandono di un mestiere e di riciclaggio o mobilità nel lavoro dei campi, quanto di un esempio di esercizio di una duplice attività lavorativa». 66 Decameron, V, 2. Per rimanere in Sicilia, C.M. RUGOLO, Donna e lavoro nella Sicilia del basso Medioevo, in Donne e lavoro nell’Italia medievale, cur. M.G. Muzzarelli - P. Galetti - B. Andreolli, Torino 1991, pp. 67-82, ha sottolineato, non solo per il Quattrocento, la «vivacità e lo spirito di intraprendenza» delle donne isolane «in settori economico-finanziari considerati comunemente di esclusiva pertinenza maschile» (p. 70).


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Qui Boccaccio conduce a dignità letteraria un’immagine tradizionale del piccolo artigianato siciliano. Ma altre immagini avanzano e si impongono: nella Puglia degli oliveti e dei trappeti, quella della pericolosità della donna impegnata nei lavori agricoli. Retribuita da salariata quando si propone per la raccolta delle frasche o delle olive, la contadina pugliese partecipa anche alla produzione artigianale. Non questo aspetto le viene rimproverato socialmente, ma il lavoro fuori di casa e della famiglia, occasione di comportamento «malizioso». E un agrario della prima età moderna, dettando le norme sulla conduzione dei lavori nei sui oliveti, può scrivere: «La prima regola che si deve tenere si è che le femmine escano in campagna la mattina a buon’ora e la sera si ritirino tardi. Il guardiano che li guarda il giorno li deve far raccogliere continuamente. E come che le donne − basta essere donne per esser diavole − sta per esperienza che molte olive sogliono rubare», e ci riescono facilmente perché «a tal furto sogliono farsi una sacchetta davanti, sotto la loro gonnella, in parte dove suppongono non poter essere cercate, ordiniamo e comandiamo che il guardiano ogni sera faccia ispezione sopra le donne»67. «Basta essere donne per esser diavole»: all’interno del mondo della produzione, anche questi atteggiamenti sono preziosi «rivelatori culturali».

67 Il brano, tratto dalle Istruzioni baronali ai fattori di aziende agricole secentesche di Terra d’Otranto, si può leggere in M.A. VISCEGLIA, L’azienda signorile in Terra d’Otranto nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), in Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, cur. A. Massafra, Bari 1981, p. 62.


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LA TERRASANTA NEL MEZZOGIORNO: L’ECONOMIA

L’Italia, le due Italie, le cento Italie, il Mezzogiorno, la Terrasanta. Superiamo numeri e geografie: tra affinità e differenze, abbiamo di fronte sequenze concettuali e metaforiche, di identità, di giudizi di valore e di modelli interpretativi. Se s’impone la metafora, la Terrasanta è la Terra Promessa, il giardino dell’eden, anzi l’America, con un’equiparazione ucronica che è maliziosa imboscata sottesa al titolo di questa relazione. Tizio ha trovato l’America, usiamo dire dopo Colombo, per segnalare un inatteso colpo di fortuna, con buona pace degli indios. Prima di Colombo, e qui con buona pace dei vichinghi di Leif Thorwaldson e degli altri figli di Erik il Rosso, l’America può coincidere in certa misura con l’Oriente dei misteri, la Palestina dei luoghi santi e delle reliquie, la Gerusalemme dell’ansia dei pellegrinaggi e dell’orgasmo delle stragi. Identificazione suggestiva, se si vuole, ma troppo facile. Perché se ci allontaniamo dalla Terrasanta luogo dello spirito, tappa finale di un percorso salvifico che ha radici profonde, per trattarne invece in termini di economia, l’equiparazione AmericaTerrasanta non regge, svanisce. Il Medio Oriente sconvolto dai crociati è in fondo ben poca cosa, se ne misuriamo le risorse con i parametri occidentali dell’economia; la sua ricchezza è nel ruolo di grande emporio del commercio internazionale, non nelle sue capacità produttive; per questo, l’autosufficienza degli Stati crociati è un’utopia maggiore di quella che ha preteso di averli generati, è un neonato prematuro da assistere nell’incubatrice del commercio mediterraneo e degli ordini cavallereschi. Se, ancora nel gioco dell’anacronismo e dell’ucronia, l’America-Terrasanta andiamo invece a cercarla in uno di quei fiumi di latte e miele che nelle pagine dei cronisti scorrono tra la riva degli stereotipi e quella della citazione biblica, non ci stupirà trovarla proprio nel Mezzogiorno italiano. Non è stato Fernand Braudel, il grande vecchio della storia ucronica, a scrivere che «la Sicilia rappresenta da sempre un grande fornitore di grano, un Canada, un’Argentina ante litteram»?1. Ecco la terra, e qui devo citare 1

F. BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Torino 1977 (ediz. orig. Paris 1967), p. 87.


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Amato di Montecassino, «dove scorrono il latte e il miele e tante bellezze»2 (e in quel miele «di biblica memoria» c’è chi, come Joshua Prawer, ipotizza il succo dei datteri)3; la terra, sostiene quasi nello stesso periodo Benzone di Alba, riferendosi al Mezzogiorno continentale, «Apulia et Calabria», che produce «cibo in abbondanza», «cibo inesauribile per uomini e cavalli, e stoffe preziose»4. Moltiplichiamo gli esempi di opulenza sino allo splendore dell’oro e dei broccati, da Guglielmo di Puglia a Saba Malaspina, e bagniamoci in quei fiumi dalle acque dorate: ne emergeremo convinti che, negli scritti di intellettuali che non descrivono, interpretano, anche un rigagnolo può passare per fiume, e il nostro pescato sarà una metafora avvolta da una rappresentazione realistica minuscola, per quanto non trascurabile. Il Mezzogiorno che si specchia allora nell’immagine biblica della Palestina «terra d’orzo e di frumento, di viti, fichi e melograni, terra dell’olio e del miele»5, sarà la Terrasanta metaforica cercata in Puglia da Giovanni da Matera, il fondatore della congregazione pulsanese6; sarà la Terra Promessa della prosperità che attira i Normanni e ne rilancia il mito (e il franco Sigeberto di Gembloux può a ragione affermare che nel Mezzogiorno quei Franci «futurae prosperitatis sibi viam parant»)7; sarà la Terrasanta delle opportunità commerciali, quella che trovano i Veneziani nella Puglia, i Pisani e i Genovesi nella Sicilia, e più tardi ovunque i banchieri fiorentini e i mercanti catalani. 2 AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, ed. V. De Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d’Italia, 76), p. 24: «mene lat et miel et tant belles coses». 3 J. PRAWER, Colonialismo medievale. Il regno latino di Gerusalemme, Roma 1982 (ediz. orig. London 1972), p. 426: «I datteri si consumavano freschi oppure si seccavano e si pressavano in forme simili a focacce; inoltre essi secernevano un succo molto dolce, il “miele” di biblica memoria (quello cui allude l’endiadi biblica “latte e miele” è appunto, probabilmente, il succo dei datteri)». 4 BENZO VON ALBA, Ad Heinricum IV imperatorem libri VII, ed. H. Seyffert, in Monumenta Germaniae Historica (M.G.H.), Scriptores rerum germanicarum ad usum scholarum, 65, Hannover 1996, p. 278. Sulle considerazioni del vescovo lombardo a proposito del Mezzogiorno v. la recente messa a punto di G. ANDENNA, Il Mezzogiorno normannosvevo visto dall’Italia settentrionale, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo. Atti delle tredicesime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1997), cur. G. Musca, Bari 1999, pp. 29-52. 5 PRAWER, Colonialismo medievale cit., p. 420: «Ancora al tempo dei crociati, era viva la biblica benedizione di Canaan: “Una terra di frumento e d’orzo, di fichi e di melograni, una terra d’olio, di olivi e di miele”». 6 Su cui cfr. ora F. PANARELLI, Dal Gargano alla Toscana: il monachesimo riformato latino dei Pulsanesi (secoli XII-XIV), Roma 1997. 7 SIGEBERTI GEMBLACENSIS Chronographia, in M.G.H., Scriptores, VI, ed. L.C. Bethmann, Hannover 1844, p. 357.


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Evocato il tema del commercio, siamo già ai margini delle suggestioni ed entriamo nel vivo di questo intervento. Lasciamo allora l’America al suo luminoso futuro e ai suoi fiumi di latte, miele e coca-cola, e atteniamoci strettamente al tema: la Terrasanta nel Mezzogiorno, rispetto a quale contesto economico? La risposta è subito un vortice di questioni. Dualismo settoriale, origine del sottosviluppo, complementarità economica, dipendenza coloniale, economia dominata o dominante, sviluppo tecnologico e intensità di capitale, eccedenze agricole e attività manifatturiere, mercanti stranieri e mercanti locali8. E da Benedetto Croce a Giuseppe Galasso, da Mario Del Treppo a Henri Bresc, modelli interpretativi si interrogano e si confrontano, con motivate ragioni e ragionevoli dubbi. Per orientarci, riduciamoli a due tesi essenziali, quella della dipendenza e dello scambio ineguale, e quella della complementarità tra specializzazioni diverse in un mercato integrato. Ma anche ricondotte le questioni dentro un più agevole sistema binario, il bug che ci affligge è sempre lo stesso: presenza ineguale delle fonti sopravvissute a secolari processi di selezione, centralità invasiva della Sicilia tardomedievale, opportunamente studiata in sé e nei suoi rapporti di scambio, ma anche resa paradigma per l’intero Mezzogiorno. Se la parte diventa il tutto, il processo di omologazione è inevitabile, a partire dalla cerealicoltura estensiva. Ecco allora, sulle piste dei grani, David Abulafia che parte dai contratti commerciali tra Genova e Sicilia in età normanna per concludere a favore della dipendenza dell’intero Mezzogiorno9. Lo stesso Stephan R. Epstein, che pure ha vivacemente insistito sul ruolo della specializzazione produttiva e sulla crescita economica su base regionale, rifiutando l’«idea di una peculiarità siciliana» e offrendoci alla fine un modello interpretativo alternativo, conclude proponendone l’estensione all’intero Mezzogiorno, anzi, «anche ad altre regioni europee nello stesso periodo storico»10. 8 Quasi impossibile dar conto, pur sinteticamente, di quanto è stato scritto su queste tematiche. Possono risultare utili, per un primo approccio al relativo dibattito storiografico, gli interventi al Seminario a cura del Dipartimento di Medievistica dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore (Pisa, 16-18 giugno 1995) su Commercio a lunga distanza e sviluppo delle economie regionali nel Mediterraneo medievale: riguardano in particolare il Mezzogiorno le relazioni di M. AYMARD, Il caso italiano, di G. PETRALIA, Problemi di storia del Mezzogiorno e della Sicilia, e di M. DEL TREPPO, Indirizzi di politica economica e realtà regionali nel Regno. 9 D. ABULAFIA, Le due Italie. Relazioni economiche fra il regno normanno di Sicilia e i Comuni settentrionali, nota introd di. G. Galasso, Napoli 1991 (ed. or. Cambridge 1977). 10 S.R. EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia. Secoli XIII-XVI, Torino 1996 (ed. or. Cambridge 1992), p. 16. In un contesto analitico di grande spessore e denso di osservazioni motivate e convincenti, appare generalizzazione troppo marcata l’osservazione, a p. 9,


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Allora, come procedere? Scomponendo gli ambiti regionali in ulteriori distinzioni territoriali? Poi, di conseguenza, andando alla ricerca di una Terrasanta in ogni ambito regionale, subregionale, microterritoriale del Mezzogiorno? Certo, la scomposizione territoriale, il particolarismo, sono antidoto efficace contro le generalizzazioni. Ce lo ripetiamo da anni e siamo tutti d’accordo. Il punto è che poi, alla fine di questa faticosa autopsia, troviamo storie di regioni che si propongono come storie totali (penso qui ai lavori di Bresc ed Epstein sulla Sicilia, di John Day sulla Sardegna, per richiamare almeno qualche nome)11, e proposte di modelli che però stentano a ridefinire i processi economici del Mezzogiorno in termini unitari. Non è detto, per altro, che per l’età preangioina questa operazione sia possibile, dal momento che il Mezzogiorno ci è più noto come dato geografico, istituzione politica, creazione statuale, che nella sua identità economica unitaria. Anche per questo, chiederci solo se in un contesto mediterraneo allargato al Medio Oriente latino si possa rileggere in termini diversi anche il problema del dominio, del Centro-Nord dominante e del Sud dominato, è utile ma non basta. Dobbiamo piuttosto domandarci se, in una situazione economica che sino al Duecento è ancora fluida e in movimento, non giochino partite ancora aperte, partite di integrazione, crescita e sviluppo, anche l’Adriatico e il Tirreno, l’Est e l’Ovest del Mezzogiorno, e poi il mare e la terra, la pianura e la montagna, l’agricoltura e la pastorizia, la città e la campagna. Qui, rispetto ad una rotazione di scenari tutti da focalizzare, introdurre la Terrasanta come inconsueta categoria economica può avere un senso forte. Anche perché, all’interno di un rapporto con l’Oriente che è una costante, un’invarianza, ci permette di recuperare varianti e dinamiche altrimenti poco visibili: il ruolo, nei commerci, della pesca di mare, fluviale, lagunare; il peso dell’allevamento e della transumanza; la presenza e l’uso dei boschi e del legname; le forme e le direzioni dei flussi di scambio; il rapporto tra consumo e commercio. Insomma, nei nostri approcci ha bisogno di autopsia anche la dimensione regionale, con i suoi schemi che vogliono la Puglia e la Sicilia grandi mercati cerealicoli, la Campania e la Sicilia porte verso l’Africa, la Puglia gran terminale dei pellegrinaggi. secondo cui «i medievisti, attenti a mettere in luce le differenze tra le regioni e all’interno delle regioni stesse quando si tratta dell’Italia centrale e settentrionale, spesso considerano l’Italia meridionale (che si estende dal Lazio alla Sicilia, dalla Sardegna alla Puglia) come un complesso relativamente indifferenziato e, di conseguenza, privo o quasi di opportunità di specializzazione per il mercato interno (cioè dell’Italia meridionale stessa)». 11 H. BRESC, Un mond méditerranéen. Economie et société en Sicile. 1300-1450, 2 voll., Roma 1986; EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia cit.; J. DAY, Uomini e terre nella Sardegna coloniale. XII-XVIII secolo, Torino 1987.


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La Terrasanta, obiettivo militare e sbocco commerciale, con le crociate vede accentuarsi la penetrazione economica dell’Occidente, facendo del Mezzogiorno una sua retrovia funzionale. Certo, ma evitiamo di generalizzare. Tra crociate, precrociate, crociate improprie e postcrociate, ma anche con i pellegrinaggi e con la pirateria più o meno tollerata (una manna per il sempre ricco mercato degli schiavi e per il contrabbando), non c’è dubbio che il mercato si sia allargato, superando gli spazi dei decenni precedenti. Rimane da chiedersi se le conquiste militari, accanto ad una passeggera ricomposizione politica, abbiano anche prodotto la riunificazione di un mercato di respiro mediterraneo, un unico grande mercato a spese della presenza islamica12. Problema sempre aperto. Che per il Mezzogiorno si complica ricordando preesistenza e persistenza dei rapporti commerciali tra aree tirreniche, adriatiche e insulari con l’Africa settentrionale e la Spagna, con l’Oriente bizantino, siriano, palestinese, musulmano in genere13. Un problema, in sostanza, che si nutre di cesure e discontinuità, ma non può fare a meno nelle risposte degli elementi di continuità. Vediamo subito, allora, se e in quale misura nei decenni delle crociate si sia invertita la direzione di marcia tra Mezzogiorno e Terrasanta, e in quali termini quest’ultima, penetrando nel Sud, ne abbia influenzato le strutture produttive, incidendo sui suoi paesaggi agrari e sulle sue risorse, ampliando e diversificando i suoi mercati. Le risposte usuali ed episodiche non ci bastano. Risalirebbe all’epoca delle crociate l’introduzione in Occidente di innovazioni tecniche, la bussola, la carta nautica (ma i dubbi qui sono legittimi); di innovazioni produttive, lo zucchero in primo piano; e di nuove colture, l’albicocca per dirne una. La Terrasanta, insomma, se non fucina di sperimentazioni, almeno trampolino di lancio. Un bel modo, invece, per spiegare poco e male. Nessuna novità produttiva e colturale, in realtà, giunge nell’Italia meridionale dalla Terrasanta crociata. E se anche si dimostrasse il contrario, bisognerebbe pur sempre ammettere che in nes12

Su questi temi: M. TANGHERONI, Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma-Bari 1996, spec. il capitolo quinto, La rivoluzione commerciale e il mare, pp. 127-186, e TANGHERONI, Il Mediterraneo bassomedievale, in Storia medievale, Roma 1998, pp. 463-492. 13 Lo sottolineava già nel 1985, concludendo i lavori delle settime giornate normannosveve, GEO PISTARINO, Discorso di chiusura, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normannosvevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), cur. G. Musca, Bari 1987, p. 306, richiamando i documenti della Genizah del Cairo, archivio «che già ci ha permesso di anticipare al sesto-settimo decennio del secolo XI, cioè anteriormente alla prima crociata, i rapporti commerciali tra l’Occidente ed il Vicino Oriente». In modo particolare per diverse aree del Mezzogiorno, ricerche ulteriori − non è possibile darne conto in questa sede − hanno consentito di rilevare scambi commerciali di una certa rilevanza ancor prima della metà del secolo XI.


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sun caso la novità si è spinta oltre la curiosità esotica, è riuscita cioè a determinare nel Mezzogiorno esiti economici e culturali rilevanti, esiti di “civiltà”. Il che vale anche per l’albicocca, la cui penetrazione in Occidente Jacques Le Goff ha ironicamente premiato come unico risultato crociato14; e per restare nell’ironia, vale anche per le cosiddette cavallette crociate che infestano in quel periodo parte dell’Abruzzo meridionale e della Campania, e a grandi nugoli il Tavoliere di Puglia: il nome moderno di quelle locuste, Dociostaurus maroccanus secondo Jean-Marie Martin15, non ne tradisce certo un’origine mediorientale. Maggiori titoli, con un innegabile impatto sull’economia, avrebbero piuttosto da reclamare i ratti e le pulci dei topi; ma anche questo, in relazione alla peste, è tutto da dimostrare. E le importazioni di lane ultramarine, hierosolymitanae, siriache? Nemmeno qui abbiamo un fenomeno del tutto nuovo: lane, drappi, tessuti, stoffe preziose e intessute d’oro, merci per il mercato del lusso, sbarcano nel Sud dall’Egitto, dall’Oriente balcanico-bizantino e da quello mediorientale certo in cifre e a ritmi più elevati, ma senza soluzione di continuità prima e dopo le crociate. Se mai, un’innovazione verrà poi introdotta da Carlo I d’Angiò, nel 1279, con l’innesto di ovini dalla Tunisia per migliorare la qualità della lana delle sue masserie16. Ora, rispetto a quel commercio di lane e di sete, in cui ai cosiddetti amalfitani s’impongono progressivamente uomini e capitali genovesi e veneziani, non tutto il Sud normanno si pone in termini passivi, semplice tappa di un itinerario commerciale che lo scavalca. Ci sono anche aree in cui si lavora materia prima che, importata o prodotta in loco, è poi destinata ai mercati locali o esteri: così per il lino grezzo importato dall’Egitto, lavorato a Palermo e Siracusa, quindi esportato come prodotto finito in Oriente. E servirebbero approfondimenti di questo tipo, per alimentare in termini meno deterministici il recente dibattito sull’economia dominata o sullo sviluppo ineguale, calibrandolo sul periodo che precede il Vespro, e suggerendo una più articolata collocazione, nella divisione internazionale del

14 J. LE GOFF, La civiltà dell’Occidente medievale, Firenze 1969, p. 95: «Io non vedo altro che l’albicocca come frutto possibile riportato nelle crociate dai cristiani». 15 J.-M. MARTIN, Un problème d’écologie historique: les Sauterelles dans le sud-est italien au XII siècle, «Studi Storici Meridionali», I (1981), n. 1-2, p. 28. 16 Sull’episodio, e sulle innovazioni e migliorie introdotte nel settore dal sovrano angioino, cfr. G. DE GENNARO, Produzione e commercio delle lane in Puglia dall’epoca federiciana al periodo spagnolo, «Archivio Storico Pugliese», XXV (1972), pp. 49-79, e R. LICINIO, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, presentaz. di C.D. Fonseca, Bari 1998.


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lavoro, dei territori del regno: territori non solo produttori di derrate in un mercato dallo scambio ineguale, ma sedi di laboratori e opifici artigianali. Non si tratta di strutture industriali e competitive, si può obiettare, non senza qualche ragione. Ma dov’è, nell’Europa (non solo mediterranea) di quei secoli, la dimensione industriale della manifattura? E davvero dobbiamo cancellare, come «unità di base e strutturale dell’economia» preindustriale, le botteghe, le officine artigianali specializzate, o gli stessi opifici regi, quelle «fabbriche agglomerate» su cui si concentrano investimenti di capitale e risorse umane? Non è forse Ruggero II, com’è noto17, a potenziarle nel 1147 con l’invio forzoso, da Tebe e Corinto, di manodopera esperta nella produzione serica? Nodi decisivi e da riesaminare, perché qui incontriamo interpretazioni, anche recenti, difficilmente conciliabili, e tutte da verificare per i secoli che ci interessano. Si può negare o porre in secondo piano l’ipotesi di una «età dell’oro della manifattura serica sotto i normanni o gli svevi»18, come fa Epstein? E se invece la si riafferma pur riducendone la portata, quali fattori ne hanno poi determinato il declino? Ci risiamo: dualismo economico, con settori arretrati e settori avanzati, e dominio di questi ultimi sui primi, oppure interdipendenza e integrazione tra aree economiche differenziate e variamente specializzate? E quando si affermerebbe il dominio, e quando l’integrazione? Le domande tornano a proposito dello zucchero. Qui siamo di fronte ad un ridimensionamento, specialmente nella Sicilia prearagonese, della sua coltivazione e produzione. Si insiste sul fatto che, riscoperto lo zucchero da canna in Siria, i crociati ne avrebbero importato le tecniche di produzione in particolare dopo la caduta di Acri, nel 1291. Tesi “estremistica”, se ricordiamo le parole con cui negli anni di Enrico VI l’Epistola ad Petrum descriveva la pianura di Palermo, «famosa» e «celebrata nei secoli», «i campi di mirabili canne, le quali dalla gente del luogo sono dette

17 OTTONIS FRISINGENSIS Gesta Friderici I imperatoris, ed. R. Wilmans, in M.G.H., Scriptores, XX, Hannover 1868, p. 370. Su presenza e ruolo delle manifatture tessili e più in generale delle botteghe artigianali nel Mezzogiorno dei secoli XI-XIII mi si consenta di rinviare ai miei lavori L’artigiano, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle none giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1989], cur. G. Musca, Bari 1991, pp. 153-185, e I luoghi della produzione artigianale, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 1995], cur. G. Musca, Bari 1997, pp. 327-353, in particolare pp. 336-337 sui concetti di «manifatture disseminate» e «fabbrica agglomerata» (qui riediti rispettivamente alle pp. 3-34 e 35-59). 18 EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia cit., p. 198, discutendo una tesi sostenuta in particolare da ABULAFIA, Le due Italie cit.


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cannamele, questo nome avendosi dalla dolcezza del succo che vi ha dentro. Il qual succo, cotto con regola e diligenza, prende quasi la natura di miele; ma se a più perfezione sarà cotto, si condenserà in sostanza di zucchero»19. Insomma, un secolo prima della caduta della San Giovanni d’Acri dei crociati, e nello stesso periodo (appunto la fine del secolo XII) in cui entrano in crisi le colonie mercantili della costa siro-palestinese, la produzione dello zucchero nel Palermitano conosceva già «regola, diligenza e perfezione», ed era una pratica degna di essere considerata già una tradizione. Ora, dall’Epistola ci viene anche un quadro delle colture della pianura, quello «spazio agrario nel quale (sto ora citando Salvatore Tramontana)20 si confondeva ciò che era natura e ciò che l’uomo aveva deciso che fosse coltura». Ecco «le vigne liete, la mirabile varietà di frutta, i solchi ben irrigati, i cetrioli che sono piccoli e corti, i cocomeri più lunghi assai, i melloni che quasi si accostano alla forma di una sfera, le zucche che su canne intrecciate si distendono in più largo spazio, i melograni, i cedri, i limoni, le arance, le noci, le mandorle, le diverse generazioni di fichi, le olive, le palme». D’accordo, non enfatizziamo; nel paesaggio dell’Epistola trovano spazio il letterario e il descrittivo, ma non c’è traccia dell’al-barquq, l’albicocca, a meno che la Prunus armeniaca, originaria appunto dall’Armenia, non si celi lì dietro l’indistinta «varietà di frutta», e altrove nei generici poma di tanti documenti. Una ritrosia, in questo eventuale occultarsi dopo il viaggio crociato, che diremmo comunque figlia di una scarsa incidenza nei paesaggi agrari meridionali, se non fosse che la crisomìla, albicocca (non mela cotogna), fa bella mostra di sé già nel trattato Particulares Diete di Costantino l’Africano21, il medico tunisino che giunge 19 Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Siciliae, ed. G.B. Siragusa, in appendice a UGO FALCANDO, Liber de Regno Siciliae, Roma 1897 (Fonti per la Storia d’Italia, 22), p. 186; a p. 184 il riferimento alla «famosa» e «celebrata pianura». Certo, per dirla con David ABULAFIA, La produzione dello zucchero nei domini della Corona d’Aragona, in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. G. Rossetti - G. Vitolo, 2 voll., Napoli 2000, II, p. 107, che sintetizza conclusioni note da tempo, una vera e propria «industria siciliana dello zucchero si affermò con successo molto più tardi», per quanto esistano «frammentarie testimonianze, nel rapporto di Ibn Hawqal sulla Palermo del X secolo, relative alla locale produzione di zucchero, sebbene a quel tempo essa si mantenesse probabilmente su una scala assai ridotta»: per l’appunto, qui conta semplicemente rilevare la presenza precrociata di quella produzione, per altro ben attestata anche nell’Andalusia mussulmana a partire dal secolo VIII. 20 S. TRAMONTANA, Spazio, tempo, mentalità, in Terra e uomini nel Mezzogiorno cit., p. 34; alle pp. 34-35 Tramontana sintetizza (e analizza) le pagine dell’Epistola cit. sulla pianura palermitana. 21 P. CANTALUPO, Un trattatello medioevale salernitano sull’alimentazione: il «De flore dietarum», «Annali Cilentani» (Quaderno 2), Salerno 1992, nota 19 della Prefazione: «Tale


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a Salerno nel 1077, si fa monaco cassinese e muore poi nel 1087, giusto in tempo per ignorare le spedizioni crociate. A proposito dello zucchero (ma potrei citare gli agrumi, già attestati in Campania prima del Mille, il gelso calabrese, il cotone e la palma da datteri del Palermitano), ho parlato di tesi estremistica; tesi, aggiungo, ingiustamente punitiva nei confronti dell’Occidente (ma anche dell’Oriente) precrociato in genere, e dei musulmani di Sicilia in particolare. Lo stesso Federico II, lo sappiamo tutti, dopo aver represso nel sangue le rivolte saracene nell’isola, deve ammettere di aver gettato il bambino con l’acqua sporca, quando nel 1239 ordina al suo legato in Terra Santa, Riccardo Filangieri, di trovare e inviare a Palermo, dal territorio di Tiro, due esperti «pro zuccaro faciendo». La sua Lucera saracena abbonda di servi contadini, artigiani ed arcieri, mentre in Sicilia non ci sono più artigiani «qui bene sciant facere zuccarum»22. Per inciso, vivesse oggi, lo svevo reclamerebbe a gran voce di essere valutato non con il metro della tolleranza illuministica, ma con quello della Realpolitik, la stessa che gli consente a distanza di pochi anni scelte che si vogliono contraddittorie, qualcuno ha lasciato intendere persino sconcertanti: da un lato la strage e l’espianto dei musulmani, dall’altro l’accordo diplomatico con al-Malik al-Kamil. Ma soprattutto Federico caverebbe gli occhi a quanti ancora gli attribuiscono una Lucera «araba», popolata di donne e chador23, se non disseminata di mezzelune ottomane, piuttosto che una Lucera correttamente saracena. L’anacronismo e la distorsione prospettica sono sempre in agguato. Reduci sconfitti o vincitori, i crociati non sembra si siano portati dietro dalla Terrasanta mirabolanti innovazioni o prodotti del tutto sconosciuti24. Che cosa li accompagna, invece, nel ritorno? Nulla e molto: la vita, è il signif. del lat. medioev. crisomila (cfr. Particulares, f. 57v), conservato nel dial. cilent. grisòmmole. Il signif. di “mela cotogna”, sostenuto da C. BATTISTI - G. ALESSIO, Dizionario Etimologico Italiano, Firenze 1975, alla v. crisoméla, è improprio giacché in questo senso specif. abbiamo il lat. medioev. citonia, riportato sia dalle Particulares (f. 59r) sia dal De flore (58)». Il codice citato da Cantalupo è il madrileno de Villa-Amil n° 119, intitolato Constantini Africani Opuscula Medica. 22 J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi (d’ora in poi HB), 6 voll., Paris 1851-1861 (rist anast. Torino 1963), V, 1, Paris 1857, doc. del 15 dicembre 1239, p. 574. 23 Decine gli esempi possibili, specialmente nel campo della cosiddetta “alta divulgazione”; per tutti basterà richiamare il riquadro intitolato «Chador a Lucera» nell’articolo di M. Conti, La Puglia di Federico II. Sei castelli per un re, «Medioevo», 1 (febbraio 1997), p. 24. 24 Un quadro sufficientemente chiaro delle colture, anche “esotiche”, che caratterizzano la Palestina e il Medio Oriente nell’età delle crociate è in PRAWER, Colonialismo medievale cit., pp. 420ss.; e v. p. 428, nota 29: «Di tutte le descrizioni occidentali della flora di Terrasanta la più notevole e dettagliata è quella fatta nel 1280 da Burcardo di Monte Sion».


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innanzi tutto, anche offesa da ferite e malattie, come quel tal lombardo che se ne torna ammalato di epilessia, ma un opportuno miracolo a Monopoli lo libera dagli attacchi25. Portano la miseria e la ricchezza: per un Roberto squattrinato conte di Normandia che per far soldi impalma la sorella del conte di Conversano, c’è il Boemondo che, principe d’Antiochia, fa inviare a Bari la tenda lussuosa appartenuta all’emiro Kerbogha e, tornato in Puglia, si porta dietro il patriarca di Gerusalemme indiziato da “mani pulite” per il furto di una somma di denaro26. Portano notizie e ambascerie, come l’innominato ma importante personaggio che, con Gualtiero di Fisaulo, sbarca nel 1240 a Messina «de partibus transmarinis» per un colloquio riservato con Federico II; o portano la memoria di fugaci amori poi riprodotta nel nome delle figlie meridionali, vedi la Ierosolìma e le 10 Antiochia nell’Amalfi del secolo XII27. Per non parlare dell’immagine dei castelli crociati cui poi s’ispireranno gli architetti militari di Federico II, e naturalmente delle reliquie e delle eulogie, le cui inventiones e i cui furti “laudabili” costruiscono la sacra fortuna di chiese e monasteri e contribuiscono a irrobustire le identità urbane e a inserirle nei circuiti religiosi e commerciali del grande pellegrinaggio. Reliquie a parte, su cui Platone avrebbe confermato che tutto ciò che inganna si può dire che incanta, c’è una Terrasanta reale che s’insedia e si riproduce nel Mezzogiorno, e vi trasmette e moltiplica le immagini di Gerusalemme, del Santo Sepolcro, dei luoghi santi. Una penetrazione massiccia, in misura differenziata e in ondate successive, rilevate nel 1973 da Geneviève Bresc-Bautier nella relazione alle prime giornate normannosveve28. La sua circostanziata mappa di quelle schegge di Palestina, ordini

25 Reduce da un pellegrinaggio, il lombardo avrebbe manifestato i sintomi dell’epilessia nel monastero monopolitano di S. Angelo; ne sarebbe guarito grazie ad un intervento miracoloso di san Cataldo, il patrono di Taranto: Acta Sanctorum, Mai II, c. 19, p. 571. 26 Le fonti dei due episodi in J. RICHARD, Le Midi italien vu par les pèlerins et les chroniqueurs de Terre Sainte, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa cit., note 17 e 18, pp. 346 e 347. La tenda appartenuta all’emiro fu inviata in dono alla basilica barese di San Nicola il 28 giugno 1098: CIOFFARI, Storia della basilica di S. Nicola di Bari, I, L’epoca normanno-sveva, Bari 1984, p. 92, e F. PANARELLI, Il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata, in Il Concilio di Bari del 1098. Atti del Convegno Storico Internazionale e celebrazioni del IX Centenario del Concilio, cur. S. Palese - G. Locatelli, Bari 1999, p. 152. 27 B. FIGLIUOLO, Amalfi e il Levante nel Medioevo, in I Comuni italiani nel regno Crociato di Gerusalemme, cur. G. Airaldi - B.Z. Kedar, Genova 1986, pp. 594-595; in HB, V-2, Paris 1859, pp. 675-676, il mandato del gennaio 1240 al secreto di Messina perché rifornisca del necessario i due personaggi sbarcati in quel porto. 28 G. BRESC-BAUTIER, Les possessions des églises de Terre Dainte en Italie du Sud (Pouille, Calabre, Sicile), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975 (rist. Bari 1991), pp. 13-39; di gran-


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militari, monaci ed enti ecclesiastici, rimane punto di partenza indispensabile, per quanto da rivedere e aggiornare. Posseggono beni un po’ dovunque gli Ospedalieri; e i Templari nella Sicilia orientale, in Capitanata e nel Barese; e l’ordine di San Lazzaro, che nasce per occuparsi dei lebbrosi; e poi i benedettini, specialmente in Calabria quelli di S. Maria di Valle Josaphat, specialmente nella Sicilia centrale quelli di S. Maria Latina, il monastero-ospizio fondato a Gerusalemme dagli amalfitani prima ancora delle crociate. E l’elenco continua, ma ce lo risparmiamo, sino agli ultimi arrivati per grazia divina e degli Svevi, i cavalieri Teutonici, con beni soprattutto in Capitanata, Terra di Bari e nella Sicilia occidentale. Ci risparmiamo anche l’analisi puntuale delle modalità e dei tempi dei rispettivi stanziamenti, che in fasi diverse si sviluppano costruendo reti di dipendenze e di possessi, chiese, casali, terre, vigneti, oliveti, masserie; reti dalle maglie irregolari, discontinue, disomogenee anche rispetto alla gerarchia di prestigio e di ricchezza di quegli enti, oltre che alle loro reali funzioni e attività: non devo certo commentare la distanza tra l’ordine dei Cavalieri Lebbrosi e quello dei Templari banchieri delle crociate. È evidente che in quella strategia insediativa e patrimoniale il fattore geografico conta solo in parte, e solo nella misura in cui s’intreccia con le dimensioni di massa dei pellegrinaggi e della devozione popolare, con l’obiettivo di offrire servizi e assistenza attraverso ospizi per peregrini, pauperes e viandanti, con la pratica di lasciti e donazioni che valgono a garantire indulgenze anche a chi non può o non vuole farsi pellegrino. Seguendo le tradizionali direttrici della mobilità umana, rafforzate dai flussi crociati, giungiamo a Barletta, a Brindisi, a Messina, ai grandi scali di uomini e di merci. Qui si coagula, in varie forme e in significativa concentrazione, la presenza di Ospedalieri, Templari, Teutonici: Messina, città ben nota nelle principali corti europee, lo scalo crociato di Corrado III, Filippo Augusto, Riccardo Cuor di Leone; lo scalo verso l’al di là per Enrico VI; la «nobilissima metropolis» che «habundat frumento, oleo et vino», confermano gli Annales Colonienses maximi citando le navi crociate dirette a San Giovanni d’Acri nel 121829, quando già l’asse del gran commercio si è spostato dalla Sicilia occidentale a quella orientale; Barletta, porto nevralgico

de utilità le cartine geografiche proposte alle pp. 35-39, che, per quanto da correggere in alcuni punti e soprattutto da integrare alla luce delle ricerche di questi ultimi decenni, consentono di visualizzare con immediatezza dislocazione (e densità territoriale) dei possessi dei vari ordini di Terrasanta nel Mezzogiorno. Da utilizzare anche il capitolo sugli ordini militari in PRAWER, Colonialismo medievale cit., pp. 299-329. 29 Annales Colonienses maximi, in M.G.H., Scriptores, XVII, Stuttgart 1861, p. 832.


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al servizio della piana del Tavoliere e del Gargano custode della grotta dell’arcangelo, città che Francesco Balducci Pegolotti classificherà seconda solo a Napoli, «perché è quella terra di Puglia ove più stanno i residenti a fare i traffici della mercatura e cambio»30; e poi Brindisi terminale dell’Appia e della Traiana, con Otranto tra i porti adriatici più favoriti dalla navigazione privata e dalla “marina militare”31. E proprio intorno alle più frequentate città portuali si dispongono le prime presenze degli ordini: non a caso Bari, Otranto, Taranto e Messina, «illustri per il nome gerosolimitano», appaiono nella bolla di Pasquale II che nel 1113 conferma i beni dell’ordine32. Ma il dato geografico, si è detto, solo in parte può dar conto dell’ampiezza di quei possessi. «Bisogna dunque ammettere – traduciamo e condividiamo a questo proposito un passo della Bresc-Bautier – un altro fattore, politico, e più esattamente l’azione del sovrano o dei suoi principali vassalli, i terrerii, in particolare quelli legati alla dinastia»33. Ruolo innegabile: sappiamo quanto e perché le elargizioni dei sovrani tendessero a consolidare i rapporti con gli enti monastici ed ecclesiastici e con quel ceto di maggiorenti che avevano spesso i loro parenti alla guida dei monasteri grandi e piccoli. Né ci sfugge quanto, in un contesto di costante mediazione con il potere politico, fosse vitale l’esigenza da parte degli ordini, «pro substentatione fratrum», di garantirsi esenzioni dalle imposte e il possesso pieno e pienamente legittimato delle fonti di produzione. Come spiegare altrimenti certi titoli di possesso falsificati o retrodatati? Qui il giustificazionismo storico può illudere l’etica, non l’economia. 30 F. BALDUCCI PEGOLOTTI, La pratica della mercatura, ed. A. Evans, Cambridge (Mass.) 1936, p. 161. Sulla presenza degli ordini crociati nella città e nel suo territorio: Barletta crocevia degli Ordini religiosi cavallereschi medievali. Atti del Seminario di studio (Barletta, 16 giugno 1996), Taranto 1996, in partic. H. HOUBEN, La presenza dell’Ordine Teutonico a Barletta (secc. XII-XV), pp. 23-50. 31 R. STOPANI, Le vie del pellegrinaggio del Medioevo. Gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze 1991, pp. 71ss., e soprattutto B. VETERE, Brindisi, Otranto, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), cur. G. Musca, Bari 1993, pp. 427-449. 32 C.D. FONSECA, Mezzogiorno ed Oriente: il ruolo del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, «Studi Melitensi», I (1993), p. 12: nella bolla Pia Postulatio di papa Pasquale II «oltre il pertinente e doveroso richiamo all’istituzione principe e cioè all’Ospizio dedicato a Gerusalemme a San Giovanni Battista, si faceva riferimento agli ospizi dei pellegrini (Xenodochia) e agli alberghi dei poveri (Ptochia) delle “parti d’Occidente” e cioè “Bari, Otranto, Taranto, Messina e che ora sono illustri per il nome gerosolimitano». 33 BRESC-BAUTIER, Les possessions des églises cit., p. 22: «Mais ni la situation géographique, ni le lien avec le pèlerinage ne peuvent rendre compte de la diffusion des biens en


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Se dunque l’assetto patrimoniale degli ordini nel Mezzogiorno deve molto a lasciti e donazioni della devozione popolare, altrettanto deve alle scelte di politica economica della monarchia. Su queste scelte, specialmente per il secolo XII, l’età centrale nella costituzione di quei patrimoni, si confrontano almeno due tesi: quella di chi guarda al Mezzogiorno e agli stanziamenti degli ordini come costante retrovia della Terrasanta latina, e quella di chi, con accenti diversi, tende a ridimensionare il ruolo di basearrière, a circoscriverlo ad una prima fase, ipotizzando uno scarso impegno nelle crociate manifestato dai Normanni già con Ruggero II34. In realtà, l’impegno normanno va sempre definito all’interno di un progetto politico più ampio, colto già da uno dei maggiori storici musulmani del periodo, Ibn al-Athir. Del quale c’è un bell’episodio, a proposito della prima crociata, ricordato da Valeria Piacentini nelle ultime giornate normanno-sveve: Baldovino, il capo dei crociati (ma è personaggio di fantasia), dopo aver convocato i Franchi mandò a dire a Ruggero [Ruggero I il Gran Conte]: Ho fatto una grande riunione di gente, e ora vengo da te per andare a conquistare, partendo dalle tue basi, la costa dell’Africa, e divenire quindi laggiù tuo vicino». Ruggero riunì tutti i suoi compagni, e si consigliò con loro circa questa proposta. E quelli esclamarono: «Per il Vangelo! Ecco una cosa buona per noi e per loro; così, quelle terre diventeranno cristiane!». A queste parole, Ruggero levò una gamba e fece una grande pernacchia, e disse: «Invero, questa vale molto di più del vostro discorso». «Perché?», chiesero i suoi compagni. «Perché – ribadì Ruggero – se vengono qui da me, essi avranno bisogno di molto sostegno, di navi che li trasportino in Africa, e di soldati anche da parte mia. Poi, se essi conquisteranno quelle regioni, esse saranno loro, e ogni approvvigionamento dovranno averlo dalla Sicilia; io verrei a perderci il denaro che frutta qui ogni anno il prezzo del raccolto. Viceversa, se falliscono nella loro impresa, faranno ritorno qui al mio paese e mi creeranno dei problemi. [...] Chiamato quindi il messo di Baldovino, gli disse: «Se avete deciso di fare la guerra ai musulmani, la cosa migliore è di conquistare Gerusalemme, che libererete dalle loro mani e per cui avrete ogni vanto»35. plein coeur de la Sicile, à Piazza, Agira, Paternò, Butera ou Polizzi. Il nous faut donc admettre un autre facteur, politique, et plus précisement l’action du souverain ou de ses principaux vassaux, les terrerii, en particulier liés à la dynastie». 34 Sulle due tesi cfr. RICHARD, Le Midi italien cit., spec. pp. 349-350 e nota 25. In effetti la funzione di base-arrière delle dipendenze meridionali degli ordini di Terrasanta si va progressivamente indebolendo, e non solo per il crescente disinteresse della monarchia normanna verso il Medio Oriente. 35 IBN AL-ATHIR, Al-Kamil fi al-Ta’rikh, ed. C.J. Tornberg, Leiden 1853-1864, X, pp. 185-186, cit. in V. PIACENTINI, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dal califfato di Baghdad, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa cit., pp. 245-246.


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Nel brano fa la sua prima comparsa in versione normanna una solenne pernacchia: è la risposta di Ruggero I a chi gli suggerisce di unirsi ai crociati per rafforzare la conquista dell’Africa, mentre il Gran Conte ha tutto l’interesse a dirottarli verso Siria e Palestina: altrimenti, questa è la sua motivazione, «io verrei a perderci il denaro che qui, in Africa, frutta ogni anno il prezzo del raccolto». Ibn al-Athir sa ironizzare con ferocia sui nemici dell’Islam, e l’emissione d’aria di Ruggero, compiuta sollevando una gamba, è qualcosa di più di una pernacchia. Certo è che se gli Altavilla guardano con coerenza strategica alle coste dell’Africa e dell’altra sponda adriatica, pure non si disinteressano mai della Terrasanta. Comunque, che si accetti una tesi o l’altra, la radice economica della questione non cambia: la necessità istituzionale, per gli ordini crociati, di garantirsi approvvigionamenti costanti di derrate e di capitali da trasferire in Oriente, di trovare, scrive la Bresc-Bautier, «un arrière-pays susceptible de financer régulièrement la Terre Sainte. De même, il devint indispensable pour un pays importateur de froment de s’assurer par soi-même une production céréalière dans les riches greniers apulien et sicilien»36. Solo frumento? Nella classifica delle esportazioni i cereali hanno la pole position, ma sono ben piazzati olio, vino, sale, e i prodotti dell’allevamento, dai formaggi alla lana agli stessi animali, e poi castagne e legumi, lino e canapa, cuoi e pelli: a puro titolo esemplificativo ricorderemo che ogni anno il monastero femminile di S. Maria Latina di Gerusalemme aveva licenza di esportarne in Siria 100 pelli di agnello e 4.000 di coniglio, insieme a 200 prosciutti e ad altre merci e derrate, tra cui 200 salme di frumento37. E non dimentichiamo i prodotti della pesca, risorsa fondamentale: tra le donazioni «politiche» di cui gode il monastero palestinese di S. Maria di Valle Josaphat, la cappella di S. Perpetua presso Taranto è preziosa perché comprende due pescatori e una barca38; e di barche dispongono Templari e Teutonici «ad usum piscandi in mari et in portu», nei fiumi e nei laghi.

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BRESC-BAUTIER, Les possessions des églises cit., p. 20. HB, I-1, Paris 1851, pp. 11-14; L.T. WHITE jr., Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, tr. it. Catania 1984, pp. 352-355. 38 R. HIESTAND, Vorarbeiten zum Oriens pontificius, III, Papsturkunden für Kirchen im Heiligen Land, Göttingen 1985, pp. 157-158; esempi sull’«usum piscandi» in H. BRESC, La péche dans l’espace économique normand, in Terra e uomini nel Mezzogiorno cit., spec. p. 280 e pp. 285-286.


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Gli interessi degli Ordini, in sostanza, si orientano verso le rendite agrarie, ma non trascurano l’attività commerciale, trasporti, strade, infrastrutture, mercati, fiere, fondachi, porti, esenzioni dai dazi. Si polarizzano verso l’agricoltura, ma non dimenticano le acque, i pascoli, le selve e l’allevamento, così radicato nelle aree interne nella forma della transumanza almeno su piccola scala: un settore, spesso lasciato in ombra, in cui i pastori del popolo itinerante di pellegrini incontrano il popolo dei pastori itineranti. Né manca la consapevolezza che la macchina dell’accoglienza, l’offerta di servizi in loco a poveri e viandanti, è anche efficace meccanismo di consenso in un settore, la manipolazione del denaro, in cui la concorrenza si fa sempre più agguerrita. Ecco allora altri due capitoli da scrivere, quello sull’incidenza sull’economia e sulla vita quotidiana delle popolazioni meridionali della “macchina” procacciatrice di elemosine e indulgenze per le crociate; e quello dei rapporti concorrenziali tra i vari enti palestinesi, e tra questi e gli enti monastico-ecclesiastici meridionali, impegnati a loro volta a contrastare ogni monopolio dell’assistenza. Come il vescovo di Cefalù, che decide nel 1205 di ampliare l’ospedale cefalutano, «ad usum pauperum et sustentationem egenorum», grazie ai proventi del tenimento di Roccella, donatogli dal conte di Alife e Collesano e da sua moglie39. Parentesi: il vescovo è quel Giovanni Cicala che poi Federico II incaricherà di una missione diplomatica nel Levante; il conte è suo fratello Paolo; e la moglie del conte è Sica, figlia di Riccardo Musca: una famiglia che farà parlare a lungo di sé. Chiusa parentesi. Concorrenza tra enti, dicevo, per legittimarsi, offrire servizi, reali e spirituali, e attrarre uomini, attrarre merci, attrarre capitali; è la ragione sociale degli ordini crociati a richiedere il possesso delle fonti di produzione; il controllo delle infrastrutture di scambio; le garanzie di privilegi da parte del potere politico. Dominio sul territorio? Colonialismo crociato, come voleva Joshua Prawer? Colonialismo premoderno? Discutiamone. Perché chi sostiene l’opportunità di recuperare questo concetto ha in mente un’economia da scambio ineguale: in quel modello, gli stanziamenti crociati nel Mezzogiorno non sarebbero che colonie. Bel risultato: colonie in Occidente della Terrasanta colonia dell’Occidente. Chi invece contesta l’uso del concetto di colonialismo, tra gli altri recente-

39 V. D’ALESSANDRO, Cefalù, in Terra, nobili e borghesi nella Sicilia medievale, Palermo 1994, p. 78 e nota 34; a p. 79 sulla missione diplomatica in Levante affidata da Federico II al vescovo Giovanni Cicala; il saggio era già apparso, con il titolo Per una storia di Cefalù nel Medioevo, in La basilica cattedrale di Cefalù. Materiali per la conoscenza storica e il restauro, 7, Contributi di storia e storia dell’arte, Palermo 1985, pp. 9-30.


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mente Marco Tangheroni, ricorda a ragione il rischio di rifarsi ad una categoria che presuppone il «provvisorio imporsi di una civiltà tecnologicamente superiore su una inferiore»40, ma a sua volta sottovaluta un altro rischio, quello di una visione eurocentrica del problema, che porta a definire la superiorità tecnologica in funzione di categorie e valori misurati sulla storia europea. Il punto è se, all’interno di uno stesso quadro culturale, economico, sociale, si possa parlare di colonialismo. Nel Mezzogiorno degli insediamenti crociati, o se preferite, nella Terrasanta del Mezzogiorno, non ci sono due civiltà che si confrontano, c’è una dialettica composita di valori e interessi riconducibili ad un’unica per quanto articolata civiltà. Colonialismo o no, l’espressione insediamento coloniale funziona meglio dell’asettico stanziamento, purché lo si riferisca al drenaggio di risorse economiche, al possesso e al controllo delimitato e parziale delle fonti di produzione, non già al dominio sul territorio. Su questo punto c’è da verificare piuttosto l’incidenza del patrimonio fondiario sulle campagne meridionali. Che si accetti il modello di paesaggio agrario ad anelli concentrici proposto da Pierre Toubert, sul quale ho avuto modo di soffermarmi in un recente articolo41, o quello di tipo «composito» suggerito da Giovanni Vitolo, in cui «un insediamento di tipo sparso [può coesistere] con uno di tipo accentrato»42, l’attenzione degli ordini sembra privilegiare gli spazi liberi delle aree potenzialmente più fertili: talvolta a macchia di leopardo, talvolta seguendo la logica del rapporto con le infrastrutture della mobilità umana e del commercio. Per il resto, le conclusioni non possono essere univoche. Anche perché poco sappiamo su chi e come coltiva quelle terre, e in quale veste giuridica: gli stessi appar-

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TANGHERONI, Il Mediterraneo bassomedievale cit., p. 490. R. LICINIO, Mezzogiorno adriatico. La Puglia e il Mezzogiorno tra XI e XIV secolo, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica. Atti del Convegno di Montalcino (12-14 dicembre 1997), cur. A. Cortonesi - M. Montanari, Bologna 2001, pp. 53-62; P. TOUBERT, Paesaggi rurali e tecniche di produzione nell’Italia meridionale della seconda metà del secolo XII, in TOUBERT, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino 1995, cur. e introd. di G. Sergi, pp. 316-339 (è la traduzione italiana del saggio Paysages ruraux et techniques de production en Italie méridionale dans la seconde moitié du XIIe siècle, già in Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi. Atti delle quarte giornate normanno-sveve (Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979), Bari 1981, pp. 201-229). 42 G. VITOLO, I prodotti della terra: orti e frutteti, in Terra e uomini nel Mezzogiorno cit., p. 173; e p. 169 a proposito del modello dell’«insediamento convenzionalmente detto di tipo accentrato» proposto inizialmente per il Lazio da P. TOUBERT in Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, Roma 1973 (tr. it. incompleta Milano 1980).


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tenenti all’ordine, o manodopera salariata e operarii, e allora con quali ritmi di lavoro e con quali compensi; o villani tenuti a corvées, e in quale misura?; o ancora manodopera servile? Il modello che s’impone è quello chiuso della conduzione diretta, ovvero quello delle dipendenze canosine della Casa dell’Ospedale di Barletta, che si servono nei campi di mietitori e pesatori salariati43, o ancora quello dell’abbazia di S. Maria di Valle Josaphat quando decide di popolare, nel 1196, il casale di Mesepe, presso Paternò? L’esempio è noto44; lo riassumo. L’abate, trasferitosi a Messina dopo la caduta di Gerusalemme nel 1187, concede a dei coloni calabresi, tra l’altro, 8 salme di terra laboratoria e tre parti di un vigneto, ricavando dalla prima la decima e dal secondo la metà dei frutti, più un giorno alla settimana di lavoro angariale, e tre giorni tre volte all’anno per la cerealicoltura, semina, mietitura e maggese. Quando lavorano sui campi dell’abbazia, i coloni ricevono due coppie di pani al giorno, due e mezzo tra maggio e agosto, e vino e «coquinatum cum pane» durante i lavori cerealicoli. Nella colonizzazione delle terre, al di là delle varianti nella quantità delle prestazioni di lavoro, è una procedura tradizionale: lo è anche nelle terre signorili ed ecclesiastiche degli Stati crociati. E ancora, quali dinamiche s’innestano nel territorio, per gli usi civici, l’uso di boschi, acque, pascoli, legna? Giriamo la domanda agli abitanti di Troia, che a più riprese devastano e saccheggiano le masserie locali dei Teutonici e dei Gerosolimitani di Barletta, aggredendo e bastonandone gli esponenti: ci impediscono il libero pascolo delle nostre greggi, sarà la risposta ricorrente, e giungono persino a requisirci gli animali45. Anche per i rapporti con le comunità locali e i loro ceti dirigenti, il problema di fondo

43 Acta Imperii inedita saeculi XIII et XIV, ed. E. Winkelmann, 2 voll., Innsbruck 18801885 (rist. anast. 1964), n. 127, pp. 107-108: è il diploma federiciano a favore degli Ospedalieri di Barletta datato Norimberga 17 marzo 1215; vi sono esplicitamente menzionate le dipendenze di S. Pietro in Navicella e di S. Giovanni de Fratribus, entrambe in agro canosino, alle quali (così come a tutte le altre della Casa barlettana nel Mezzogiorno) viene concessa l’esenzione dai tributi sul lavoro di mietitori e pesatori nei giorni del raccolto e della pisatura nelle aie. 44 F. D’ANGELO, Terra e uomini della Sicilia medievale (secoli XI-XIII), «Quaderni medievali», 6 (dicembre 1978), pp. 61-63; V. D’ALESSANDRO, Paesaggio agrario, regime della terra e società rurale (secoli XI-XV), in Terra, nobili e borghesi cit., p. 53 (già in Storia della Sicilia, cur. R. Romeo, III, Napoli 1980, pp. 411-447); più recentemente J.-M. MARTIN, La vita quotidiana nell’Italia meridionale al tempo dei Normanni, Milano 1997, pp. 228-229, e S. TRAMONTANA, Spazi, lavoro, semina: le tecniche di coltivazione e gli attrezzi agricoli nella Sicilia normanna, in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo cit., II, pp. 49-50. 45 LICINIO, Masserie medievali cit., p. 43.


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è la capacità d’integrazione o la separatezza, è l’ampiezza dell’oscillazione tra la subordinazione (come a Trani quando, nel 1186, il priore di S. Caterina de Campo Belli, possesso gerosolimitano, giura fedeltà e sottomissione al locale arcivescovo Bertrando), e la conflittualità (come accade una trentina d’anni più tardi, quando una banda assoldata dall’arcivescovo tranese irrompe in una domus gerosolimitana e la saccheggia, buttandone giù le porte e portandone via frumento e beni vari)46. Utilizziamo gli esempi come paradigmi di esiti differenti. Più in generale, al di là di tensioni e scontri armati, a me sembra che le dinamiche della penetrazione degli Ordini crociati nei paesaggi del regno, per il loro carattere immediatamente speculativo e per la loro stessa ragione sociale, possano aver contribuito a colmare i vuoti produttivi e demici e a stabilizzare il paesaggio agrario, ma abbiano anche prodotto, con l’uso privatizzato delle risorse, sia un’ulteriore accelerazione del divario tra consumo locale e commercio d’esportazione, sia il rafforzamento di tendenze già in atto verso la monocoltura. Ma la verifica va fatta ente per ente, zona per zona, periodo per periodo. Va fatta, a maggior ragione, a proposito della domanda se, nel Mezzogiorno dell’età delle crociate, ci sia stata una Terrasanta anche per i mercanti meridionali: per i Pelagano tranesi, gli Scoppa di Barletta, i Ruffolo di Molfetta, il Solimano gran mercante salernitano attivo a cavallo del 1150; per quei mercanti saraceni che popolano la Palermo di fine secolo XII; per quei messinesi che operano in gran parte del Levante e ancora in età primoangioina sulla piazza di Acri; e per quei calabresi, siciliani, campani, che ancora nei primi anni del secolo XIII esportano nocciole e legname dai porti di Vietri e Cetara47. Difficile generalizzare: ma non sono pochi i dati che confermano una vivacità dei mercanti meridionali non ancora smorzata dalla concorrenza con i mercanti esteri e con la pirateria

46 C.D. FONSECA, Trani, in Itinerari e centri urbani cit., p. 370 (e FONSECA, Mezzogiorno ed Oriente cit., p. 20), sul giuramento prestato all’arcivescovo nel 1186; il relativo documento è in A. PROLOGO, Le Carte che si conservano nell’Archivio del Capitolo metropolitano della città di Trani (dal IX secolo fino all’anno 1266), Barletta 1877, n. 78, p. 165. L’episodio del 1219 è invece attestato da un atto di papa Onorio III datato 23 luglio, in J. DELAVILLE LE ROULX, Cartulaire général de l’Ordre des Hospitaliers de Saint-Jean de Jérusalem (1100-1310), II, Paris 1897, n. 1655, p. 290. 47 «All’inizio del Duecento a frequentare i porti della Cava, tra Vietri e Cetara, erano navi provenienti da Gaeta, Napoli, Sorrento, Amalfi, Ischia, ma anche da Pisa, Genova, Roma, dalla Calabria e dalla Sicilia»: G. CHERUBINI, I prodotti della terra: olio e vino, in Terra e uomini nel Mezzogiorno cit., p. 211. Per gli altri esempi si possono utilizzare i saggi raccolti nel già cit. Itinerari e centri urbani e, più specifico e con interessanti valutazioni sul raggio d’azione e sui limiti del ceto mercantile meridionale, quello di R. PAVONI, Il mercante, in Condizione umana e ruoli sociali cit., pp. 215-250.


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mediterranea, che ne è spesso la faccia impresentabile. E per quanto la dannazione delle nostre fonti impedisca di pronunciarsi sull’interscambio dei prodotti con serie organiche di dati, appare una semplificazione la tesi secondo cui il Sud importa dal Medio Oriente solo spezie e manufatti, ed esporta solo derrate e sale. La lista dei prodotti stivati nelle navi di Adelaide del Vasto, diretta a Gerusalemme nel 1113, lista regalataci da Guglielmo arcivescovo di Tiro, comprende grano, carni salate, olio, vino e altre derrate, ma anche armi e cavalli: gli stessi prodotti acquistati più di un secolo dopo da Luigi IX con il benestare federiciano48. Nel periodo che ci interessa, con ovvie variazioni quantitative, le ragioni di scambio appaiono insomma diversificate e i flussi commerciali ancora molteplici. E la presenza dell’oro sulle piazze commerciali campane, a Messina, a Barletta, è spia di una bilancia dei pagamenti ancora in attivo; solo nel Duecento sarà il metallo bianco a sostituire progressivamente quello giallo. Debole è anche l’ipotesi di un’oggettiva e drastica suddivisione delle sfere d’influenza dei mercanti: ai meridionali il commercio locale, interno o sul mare con imbarcazioni da piccolo cabotaggio, e tutt’al più il pur redditizio trasporto di truppe e viaggiatori (vedi i tedeschi che s’imbarcano a Bari sulla nave «San Nicola», a morire per la terza crociata)49; agli altri il commercio internazionale, la navigazione alturiera e le grandi rotte. E gli investimenti, il capitale, la strumentazione tecnica, avrebbero avuto un gran peso, da subito o ben presto, nell’escludere il Levante dall’orizzonte dei mercanti meridionali, costringendoli a cercarsi la loro Terrasanta nel commercio locale. Così non è, almeno per il primo secolo delle crociate, né serve anticipare troppo fenomeni successivi, renderli corposi quando sono ancora dentro un sistema aperto ad una pluralità di sbocchi. Altrimenti, per far quadrare i conti, si è costretti poi a definire eccezioni le presenze dei mercanti del Sud sulle vie del grande commercio; eccezioni le testimonianze di prodotti importati dal Medio Oriente su navi meridionali; eccezioni i patti commerciali stipulati in proprio dalle città meridionali; eccezioni i loro insediamenti coloniali nel Mediterraneo. E le concessioni, le esenzioni, i privilegi, ancora numerosi sino al ’200 nel Levante crociato, di mercanti come gli amalfitani? Un’eccezione, appunto: il canto del cigno di

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WILLELMUS TYRENSIS, Chronicon, ed. R.B.C. Huygens, Turnhout 1986, p. 525; sull’ordine federiciano, datato novembre 1246: HB, VI-1, Paris 1857, pp. 465-467. 49 Codice Diplomatico Barese, V, Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo normanno (1075-1194), ed. F. Nitti, Bari 1902, doc. n. 262, 12 aprile 1189, pp. 262-263: «teotonici et peregrini ituri [...] cum buttia sancti Nicolai barensis in occursum ad sanctum sepulcrum in Ierusalem».


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una città marinara sul viale del tramonto. Per respingere la logica dell’eccezione, ricordiamo invece Geo Pistarino e Mario Del Treppo: la storia degli Amalfitani va scritta ben oltre la storia di Amalfi50. Mi avvio a concludere, facendo mia l’espressione di Tangheroni secondo cui gli Stati crociati in Siria e Palestina «furono non già fonte di fortune per l’insieme della cristianità latina, ma piuttosto un pozzo in cui vennero gettate notevoli risorse umane e cospicue risorse finanziarie»51. Aveva allora ragione l’annalista Caffaro, esponente del ceto dirigente genovese, nel lamentare che i suoi concittadini in Terrasanta avevano speso troppo ricavando troppo poco, rispetto al molto guadagnato con poca spesa nel Sud52. Il Medio Oriente latino ha certo consentito un allargamento del mercato, un incremento dei traffici anche locali, ma drenando risorse dalla Terrasanta innestata nel Mezzogiorno ha contribuito qui, nel Sud, a rendere più problematica la possibilità di un’accumulazione capitalistica. Mentre altrove inizia ad affermarsi l’idea-strategia del reinvestimento del profitto nel commercio, nel Mezzogiorno dei baroni e dei mercanti locali il profitto tende a coagularsi in prima istanza nell’acquisto e nel possesso di terra e di beni immobili. A questo processo hanno fortemente concorso gli stessi Ordini crociati, privilegiando una concezione (che è anche morale) del profitto commerciale, inteso non come generatore di ulteriore profitto e di investimenti commerciali e finanziari, ma come strumento di intervento riequilibratore degli scompensi sociali, e alla fine strumento di sopravvivenza dell’ordine stesso. Certo, la concezione etica del capitale che si fa investimento fondiario e rendita s’intreccia, nel regno, con altri fattori. Ed è qui che pesa la politica dell’accentramento: da un lato favorendo o consentendo l’inserimento, nel regno, di schegge della Terrasanta, dall’altro restringendo gli spazi alle città nella corsa coloniale oltremare. Che però il dominio dell’economia meridionale in età normanna e sveva sia stato esercitato meccanica-

50 M. DEL TREPPO, Amalfi: una città del Mezzogiorno nei secoli IX-XIV, ora in M. DEL TREPPO - A. LEONE, Amalfi medioevale, Napoli 1977, spec. p. 150, e G. PISTARINO, Genova e Amalfi nei secoli XII-XIV, in Amalfi nel Medioevo. Atti del Convegno internazionale (Amalfi, 14-16 giugno 1973), Salerno 1977, p. 296. Sulle ampie concessioni agli Amalfitani nel Levante crociato ancora alla fine del secolo XII: G. SANGERMANO, Amalfi, in Itinerari e centri urbani cit., pp. 232-233, in cui si sottolinea che «nel secolo successivo invece la situazione appare progressivamente mutarsi in senso negativo». 51 TANGHERONI, Il Mediterraneo bassomedievale cit., p. 490. 52 Annali di Caffaro e de’ suoi continuatori, edd. L.T. Belgrano - C. Imperiale di Sant’Angelo, I, Roma 1890, p. 47: «multa maiora et pulchriora Ianuenses accepisse quam fecisse longe largeque a sapientibus per orbem dicitur et tenetur».


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mente in funzione degli interessi degli ordini crociati, degli operatori esteri e delle città centro-settentrionali, è tesi davvero riduttiva. E discutibile è anche anticipare a quei secoli la realizzazione sia dello scambio ineguale, sia delle specializzazioni produttive regionali e del mercato integrato: alla fine del secolo XII, che non a caso coincide con la crisi dell’accentramento, la partita della dominanza non è ancora completamente chiusa. Tutte le forze in campo, da quelle feudali a quelle mercantili, meridionali o no, e le loro strategie economiche e finanziarie, vivono la fase cruciale del confronto-scontro, che è poi fase dinamica per eccellenza, in cui nulla negli esiti è scontato. In quel quadro magmatico, e ancor prima del Vespro, è l’età federiciana a segnare nell’economia una prima svolta, una prima rottura, con la sua politica di dirigismo economico e con i suoi vincoli monopolistici, di cui soffre per prima la borghesia mercantile meridionale. Se si hanno merci, capitali e soci si può competere con mezzo mondo, non quando però il Mezzo Mondo − con le maiuscole − è la grande nave federiciana che, con il legato imperiale a bordo, se ne va a vender derrate ad Alessandria d’Egitto; non quando ti si blocca nel porto la nave carica di grano perché, come accade più volte, nell’area afflitta da carestia devono prima giungere le navi imperiali per spuntare i prezzi più alti53. Insomma, «non abbiamo un’idea precisa di quale percentuale del raccolto venisse esportata; ciò che invece è chiarissimo è che la corona era uno dei, o forse il maggior beneficiario dello smercio di grano all’estero»54. La storia del commercio è storia di egemonie e subalternità, più che di dominio. A maggior ragione nel Mezzogiorno l’egemonia di città e mercanti esteri non va confusa con il dominio, di cui è invece immagine perfetta il Federico II definito da Gabriele Pepe «primo agricoltore, primo

53 Su questi, e su altri esempi che concorrono a definire i caratteri della politica economica dello Svevo, cfr. l’ormai “classico” lavoro di J.M. POWELL, Medieval monarchy and trade. The economic policy of Frederick II in Kingdom of Sicily (A Survey), «Studi medievali», III serie (1962), pp. 420-524; e poi almeno D. ABULAFIA, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 19932 (ediz. orig. London 1988), pp. 274-276, e PAVONI, Il mercante cit., p. 245 e nota 137: «Le conseguenze sui prezzi cerealicoli delle limitazioni governative sono chiaramente attestate da due episodi. Nel 1224 Federico II proibì le esportazioni di grano dal Regno e determinò così un crollo dei prezzi di cui si avvantaggiò per acquistare e rivendere grano a buon mercato. Lo stesso si ripeté nel febbraio del 1240, quando vennero bloccate le esportazioni private per consentire alla Curia Regia di vendere a un prezzo doppio il grano nell’Ifriqiya, colpita da una carestia». Sul «Mezzo Mondo», che verso il 1242 trasporta tra l’altro vino, olio e formaggi: M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula. Versione italiana, Torino-Roma 1880-1889 (rist. 1981-1982), I, p. 523. 54 ABULAFIA, Federico II cit., p. 9.


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industriale e primo commerciante del regno»55. Dominio del sovrano-Stato che si fa mercante, del Grande Fratello che è anche Grande Mercante, ma un mercante nel senso meno capitalistico e dinamico del termine, che usa il profitto commerciale a fini bellici, politici e di propaganda del potere, che ridicolizza la concorrenza. Anche quella, un tempo favorita o tollerata, di Templari e Ospedalieri, che si vedono confiscare fructus e possessiones; «ad opus suum» aggiunge, evitando ulteriori particolari e spiegazioni, il sempre prudente Riccardo da San Germano; dell’ampiezza delle requisizioni, che non rispamiano in qualche caso i Teutonici, ci darà poi conto negli anni 1248-49 il Quaternus de excadenciis et revocatis della Capitanata56. Sul capo dello svevo la Terrasanta reale, materializzata dalla corona di Gerusalemme, si fa metafora totale del dominio sulla Terrasanta nel Mezzogiorno. Per l’età delle crociate, ma senza esagerarne l’apporto, parliamo a ragione di Mezzogiorno dominato, non di sottosviluppo. E il soggetto, le ragioni, le strutture e i detentori del dominio vanno cercati in primo luogo nelle scelte, pur differenziate, dei Normanni e degli Svevi. Ma poiché il potere non è mai cristallizzato, nemmeno in uno Stato a forte centralizzazione, sarebbe un grave errore prospettico semplificare il quadro sino ad espellerne tutte quelle forze, anche non statali, anche non locali, che con il potere centrale hanno interagito dinamicamente e spesso discontinuamente, creando tendenze, se non veri e propri spazi di autodeterminazione, per altro sempre rimessi in discussione e ridefiniti. Qui, nel cuore di questa dialettica, nelle interazioni tra dominio ed egemonie, tra poteri di natura e consistenza diverse, tra identità definite e identità da costruire, ritroviamo il peso e il ruolo dei mercatores, delle città del Centro-Nord e degli ordini di Terrasanta, ritroviamo i poteri feudali, le élites burocratiche e le stesse città meridionali. E ritroviamo l’assordante silenzio delle vittime. Lascio allora che a concludere sia un’amara riflessione di Braudel: «L’uomo è chiuso in una condizione economica che è immagine della sua condizione umana ed è prigioniero, senza saperlo, di quella frontiera che segna i limiti privi di ogni

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G. PEPE, Lo Stato ghibellino di Federico II, Bari 19512, p. 50. Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis Frederici secundi, ed. A.M. Amelli, Montecassino 1903 (edizione da preferire alla più recente di G. DE TROIA, Foggia e la Capitanata nel Quaternus excadenciarum di Federico II di Svevia, Foggia 1994), passim; RYCCARDI DE SANCTO GERMANO Chronica (1189-1243), ed. C.A. Garufi, in R.I.S.2, VII, p. II, Bologna 1937, p. 175 (anno 1231).


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elasticità del possibile e dell’impossibile. Soltanto coloro che le circostanze hanno singolarmente favorito, individui, gruppi, civiltà, sono capaci di giungere fino al limite. E solitamente il vincitore si appoggia brutalmente sulle spalle degli altri. Occorrono sempre vittime a questo progresso»57.

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BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale cit., pp. XX-XXI.


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TeuTonici e masserie nella capiTanaTa dei secoli Xiii-XV

la cautela metodologica è d’obbligo quando si voglia analizzare il concetto e il modo di funzionare delle masserie medievali. in linea di massima, la generica definizione di aziende agro-pastorali finalizzate alla valorizzazione produttiva di un territorio e alla crescita dell’allevamento, può costituire un utile punto di partenza. ma, soprattutto in un’indagine sul lungo periodo, non si può non rilevare quanto diverse siano, per caratteristiche e funzioni, per coagulo di interessi e rapporti con il mercato, le masserie dei secoli Xiii-XV rispetto a quelle di età moderna: la cesura, tradizionalmente, viene individuata nell’istituzione a fini fiscali della dogana della mena delle pecore, nel 1447, da parte di alfonso i d’aragona. e tuttavia, nemmeno si possono assimilare, per funzioni e indirizzi gestionali, le masserie del duecento a quelle del Quattrocento: il discrimine, questa volta, è il Trecento, con le sue crisi e le sue ridefinizioni, all’interno delle diverse aree territoriali, delle gerarchie insediative, produttive, sociali. occorre dunque individuare criteri più particolareggiati, che diano conto delle specificità e delle concrete articolazioni di quelle aziende, nel tempo come nello spazio. nel mezzogiorno medievale, dalla sicilia alla puglia, e in misura inferiore in altre realtà territoriali, la massaria appare per lo più il prodotto di una serie di processi di trasformazione che hanno riguardato nel tempo, in varia misura, i grandi complessi fondiari, il latifondo cerealicolo-pastorale, la grande proprietà laica ed ecclesiastica. nei secoli bassomedievali, i legami con la grande proprietà fondiaria non scompaiono, ma ad essi altri se ne affiancano, che chiamano in causa la media e la piccola proprietà rurale, gli esponenti della feudalità, gli stessi ceti urbani e quelli ecclesiatici e monastici, e che nel loro raggio d’azione spesso superano i confini del territorio in cui la masseria insiste, sino a coinvolgere da un lato l’assetto e l’utilizzo produttivo del demanio regio, dall’altro i rapporti con il grande mercato internazionale. si può assistere, specialmente a partire dal duecento, ad una molteplicità di significati e funzioni tale da consentire di individuare nella massaria uno dei principa-


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li volani dello sviluppo nelle e delle campagne pugliesi, e della capitanata in modo particolare. sono masserie di privati, masserie di istituzioni ecclesiastiche, monastiche e religioso-militari, masserie feudali, masserie del demanio regio, masserie di privati piccole e grandi, in cui il rapporto tra colture e aree pascolative si configura in forme e modi sempre diversificati (ad esempio, rispetto agli spazi che vengono riservati alle colture non cerealicole, oliveti e vigneti in particolare: ci sono zone in cui la masseria è essenzialmente masseria di ulivi), ma sempre in termini strettamente funzionali alle caratteristiche del territorio e del paesaggio agrario, e agli interessi dei ceti sociali che vi hanno interagito1. non solo: appare sempre più chiaro, soprattutto dall’età sveva in poi, che il ruolo svolto dalla massaria non può essere analizzato semplicemente in relazione ai suoi caratteri di azienda economica, alle sue capacità e modalità produttive, ai tipi di proprietà, agli aspetti architettonici: la masseria medievale è anche una delle forme storicamente determinate e determinanti del popolamento territoriale e dell’organizzazione sociale del lavoro; è, in ultima analisi, un vero e proprio “sistema”. approfondire gli aspetti, le componenti, le modalità di funzionamento del «sistema masseria» nell’intero mezzogiorno, o anche solo nella puglia medievale, non è operazione semplice, e comunque non è il tema di questa relazione. restringere l’indagine ad un determinato territorio, in questo caso le campagne della capitanata meridionale e in particolare quelle di cerignola e corneto, può servire invece a individuare con maggiore immediatezza i nodi principali e più problematici, accanto agli eventuali elementi di specificità, del rapporto tra Teutonici e aziende masseriali. non cercheremo solo le aziende definite massarie dalla documentazione dell’epoca: se è vero che il termine già nella prima metà del duecento comincia a rivestire signi-

1 sulle diverse tipologie delle masserie, mi permetto di rinviare a r. licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana della Mena delle Pecore, presentaz. di c.d. fonseca, Bari 1998; si vedano in particolare il primo capitolo, Il «sistema masseria». Diversificazione di funzioni e corrispondenze territoriali e, per ulteriori riferimenti, il Percorso bibliografico finale. eviterò invece, per non “appesantire” queste note, di proporre una bibliografia particolareggiata tanto sui Teutonici, cui per altro è dedicato ampio spazio nel saggio di Houben in questo stesso volume, quanto sul dibattito relativo al paesaggio agrario e alle tendenze dell’economia cerealicolo-pastorale nel mezzogiorno fra tardo medioevo e prima età moderna: mi limito su questi aspetti a richiamare i fondamentali lavori di J.a. marino, L’economia pastorale nel Regno di Napoli, napoli 1992 (ediz. orig. Baltimore 1988), e B. salVemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi, cur. l. masella - B. salvemini, Torino 1989.


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ficati specifici, è altrettanto vero che il suo uso nelle fonti non si è ancora pienamente generalizzato. Guarderemo dunque all’azienda masseriale anche nella sua accezione più vasta, cioè come complesso di beni rurali finalizzato alla valorizzazione produttiva di un dato territorio. 1. Localizzazione pur sinteticamente conosciamo, grazie anche a studi recenti2, la caratterizzazione produttiva delle campagne cerignolane nel duecento e, al suo interno, la dislocazione dei beni rurali dei Teutonici. in gran parte, si tratta di beni, “mobili” e “immobili”, destinati alla produzione di derrate da utilizzare per una certa quota per il consumo locale, per quella più cospicua per il sostentamento (in viveri o denaro) dei Teutonici stanziati in palestina. Tralasciando le concessioni in altre circoscrizioni della puglia (va ricordata almeno quella del castrum di mesagne, ad opera dello svevo enrico Vi, un insediamento che consentiva il controllo di un nodo di particolare rilevanza della via appia salentina)3, le prime donazioni di beni interessano l’area a confine tra capitanata e Terra di Bari già agli inizi del duecento (terre nel Barlettano nel 1204, le saline di canne); vi si aggiungeranno poi, nei decenni successivi, terre dislocate in diverse campagne della capitanata, da Bellovidere (poi Belvedere, tra apricena e sannicandro Garganico) a castelluccio dei sauri, da ascoli satriano a foggia, e, specialmente negli anni Venti e Trenta, in quelle di corneto. ma la prima donazione significativa ai fini del nostro discorso è quella attestata nell’ottobre del 1224 nei confronti della commenda barlettana dei Teutonici: la effettua un possidente cerignolano, il «comestabulus» pietro de mirano, e consiste in un edificio con due fosse granarie sito in ambito urbano, presso la chiesa di san pietro, e in un appezzamento di terra recin-

2 si veda in particolare Il territorio di Cerignola dall’età normanno-sveva all’epoca angioina. atti del 14° convegno (cerignola antica, 29 maggio 1999), cerignola 2000; ivi, p. corsi, Cerignola e la Capitanata all’epoca di Federico II: la testimonianza del Quaternus, pp. 13-26, e H. HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola e Torre Alemanna, pp. 27-64, poi con il titolo L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola, Corneto e Torre Alemanna, «Kronos. periodico del dipartimento Beni arte storia dell’università di lecce», 2 (2001), pp. 17-44. 3 H. HouBen, Federico II, l’Ordine Teutonico e il «castrum» di Mesagne: nuove notizie da vecchi documenti, «itinerari di ricerca storica» (università di lecce), 10 (1996 [ma 1997]), pp. 31-61, poi «castrum medianum. rivista di storia, arte, archeologia e Tradizioni popolari del salento», 6 (1998), pp. 27-69.


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tato in località «cannetus», una «clausura» di oliveti e vigneti dotata di una casa rustica, un giardino, un pozzo e alcuni impianti di trasformazione dei prodotti, due palmenti o trappeti da olio con le loro pile o vasche4. il documento è noto e consente, come recentemente ribadito, di notare che in quella data il “raggio di azione” della commenda di Barletta si è ormai esteso sino a toccare le campagne di un insediamento, cerignola, che appare in crescita anche sul piano dell’identità comunitaria. credo che quella donazione meriti un’attenzione particolare anche per un altro dato, messo bene a fuoco qualche anno fa in un lavoro di nicola pergola: è la prima attestazione scritta dell’esistenza, a cerignola, di fosse granarie urbane5. non si tratta, evidentemente, di stabilire primati nella classifica delle citazioni di granai sotterranei, attestati in diversi documenti di età sveva anche per altre località del Tavoliere, a partire dalla stessa foggia, toponimo che è in forte correlazione con l’uso di quei magazzini sotterranei; ciò che conta è che la presenza di fosse granarie urbane ed extraurbane nella cerignola del periodo segnala la tappa iniziale di un processo di lungo periodo che giungerà a caratterizzare quella località come agrotown, come una delle grandi strutture di servizio che nella capitanata tra tardo medioevo ed età moderna «raccolgono, nello spazio urbano propriamente detto o in ambito immediatamente periurbano, i luoghi in cui si svolge il mercato del lavoro, gli ambiti dello stoccaggio e della conservazione dei prodotti agricoli, nonché le strutture della commercializzazione e della prima lavorazione di essi»6.

4 Codice Diplomatico Barese, X (d’ora in poi cdB X), Pergamene di Barletta del R. Archivio di Napoli (1075-1309), ed. r. filangieri di candida, Bari 1927, n. 66, 25 ottobre 1225 (ma 1224), pp. 94-95; la clausura vignetata, si evince dalle proprietà confinanti, è posta in un vero e proprio “quartiere di vigne”, i cui proprietari sono esponenti del notabilato urbano. un’idea approssimativa del suo valore monetario ci è fornita dal confronto con un documento dell’agosto 1226, la vendita ai Teutonici per 8 once d’oro di un complesso rurale abbastanza simile, ma dotato di un solo palmento: ivi, doc. n. 70, 24 agosto 1226, pp. 99-100. sull’importanza del documento del 1224 vedi HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., pp. 30ss., anche per la dislocazione degli altri beni teutonici nella zona, e HouBen, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normanno-svevo, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 2000), cur. G. musca, Bari 2002, pp. 276ss. 5 n. perGola, Per una storia del Piano delle Fosse di Cerignola, in Il Piano delle Fosse di Cerignola tra storia e folclore (centro regionale di servizi educativi e culturali di cerignola), cerignola 2001, p. 22; vi è contestualmente richiamato un altro documento, datato 1308, di donazione di beni rurali a s. maria dei Teutonici di Barletta (cdB X, n. 168, pp. 300-306), in cui è notizia di 190 salme di orzo conservate in alcune fosse urbane, e di 552 salme di frumento immagazzinate invece in fosse extraurbane. 6 s. russo, Prefazione, in Il Piano delle Fosse di Cerignola cit., p. 9.


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sin qui, in relazione alle campagne di cerignola-corneto e ai Teutonici, il termine massaria non è ancora apparso. non ci sono masserie nel complesso di beni gestiti in quella zona e in quel periodo dai Teutonici? ribadita la scarsità e inadeguatezza dei documenti di cui disponiamo, la risposta non deve prescindere dalla considerazione che le funzioni delle aziende masseriali non si coagulano (ancora) unicamente nel termine massaria; un complesso di beni agropastorali, soprattutto se disposto «a macchia di leopardo» nel territorio, può ben essere strutturato e funzionare come una masseria, senza essere definito “ufficialmente” come tale. credo sia riconducibile a questo contesto il caso delle terre seminative donate verso il 1231 da federico ii ai Teutonici: terre in località «aqualata», presso corneto, dell’estensione di sedici aratri, e terre in località Bisciglieto dell’estensione di trentotto aratri, ed è appena il caso di ricordare il valore elevato di quel complesso produttivo, posto in una zona di intensa capacità produttiva (anche qui è attestato un “quartiere di vigne”), e oggetto più volte di false attestazioni notarili7. e c’è poi un noto documento tardofedericiano in cui i due significati del termine massaria, quello generico e quello specifico, si incrociano sino a sovrapporsi pienamente: il Quaternus de excadenciis Capitinate, che possiamo ritenere con sufficiente sicurezza compilato tra 1248 e 1249, dal momento che vi appare citata una masseria in agro di foggia (forse nel sito dell’attuale masseria sprecacenere, nella periferia meridionale della città) appartenuta in passato a pier della Vigna, poi requisitagli all’epoca della presunta congiura8. il Quaternus ci permette di localizzare alcuni dei centri produttivi che, in buona parte della capitanata, fanno parte del sistema masseriale messo a punto nelle terre demaniali da federico ii. ne ho trattato diffusamente in altra sede9, per cui posso qui limitarmi a inserire in rapida sequenza i dati che ci interessano, puntando l’attenzione solo sulle aziende che, definite nel registro massarie regie o imperiali, vengono dotate di beni rustici revocati ai Teutonici. ai piedi del Gargano, ad apricena, è l’omonima masseria, che riceve un oliveto, già dei Teutonici, che effettivamente messo a frutto («laborat

7 HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., pp. 38ss., anche per il rinvio alle fonti, e p. 43, nota 59, per un esempio del «quartiere di vigne» ad aqualata. 8 Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis Frederici secundi, ed. a.m. amelli, montecassino 1903 (pp. 18 e 26 sulla masseria di pier della Vigna), e G. de Troia, Foggia e la Capitanata nel Quaternus excadenciarum di Federico II di Svevia, foggia 1994 (p. 53 sulla masseria sprecacenere). 9 licinio, Masserie medievali cit., pp. 59ss. e pp. 118ss.


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massaria») rende 20 stai di olio all’anno, nel «tenimentum quod dicitur Bellovidere» (la già richiamata Belvedere)10. ad arpi, presso foggia, sono ricordate genericamente delle terre che, revocate, sono state affidate ad una delle masserie foggiane e, ancora a foggia, alla masseria definita imperiale va una casa – sita nel sobborgo di maniaporco (è stato ipotizzato che il nome sia in qualche modo collegabile alla «magna porta» della città) – che possiede un forno «cum apparatu suo» e un cortile utilizzato come deposito di paglia11. ancora, alla masseria imperiale di Bonassisa, tra cerignola e orta nova, sono affidati vigneti e oliveti situati nelle fertili campagne di canne («in contrada cannarum»), i primi stimati per una resa fiscale di 12 salme di vino all’anno, i secondi per 20 stai di olio: potrebbe trattarsi della «clausura» donata nel 1224 alla commenda barlettana12, anche se in quel caso si descriveva una terra, posta in località «cannetum», che alla coltura promiscua di vite e ulivo univa anche la presenza di un giardino e di un edificio, particolari che non ritroviamo nel Quaternus. È comunque certa la corrispondenza tra l’altra proprietà donata nel 1224, la casa con le due fosse granarie posta in cerignola, e quella lì ricordata tra i beni revocati all’ordine (in entrambi i casi, tra i confini, appare la domus della chiesa di san pietro); bene «urbano», questa proprietà, a differenza della terra produttiva in agro di canne, non viene assegnata ad alcuna masseria. altri beni confiscati in capitanata ai Teutonici non risultano poi immessi nel sistema delle masserie demaniali: tra questi sono anche la 10 Quaternus cit., p. 58: «olivetum unum in tenimento Bellovidere quod fuit sancte marie Theotonicorum, valet in oleo staria vigenti per annum laborat massaria […] et est in manu (curie) massarie eiusdem terre precine». 11 ivi, p. 26: «in suburbio maniaporci, iuxta domos massarie curie [...]. item domum unam cum furno apparatu suo et curte pro palea que fuit sancte marie Theotonicorum in suburbio maniaporci [...] tenet eam massaria imperialis [...]. Quos ortos tenet massaria imperialis fogie». sull’ipotesi relativa a maniaporco: f. porsia, Una città senza mura. Foggia dagli Svevi agli Aragonesi, in Storia di Foggia in età moderna, cur. s. russo, foggia 1992, p. 20; e vedi porsia, Economia e società a Foggia fra XIII e XV secolo, in Foggia medievale, cur. m.s. calò mariani, foggia 1997, pp. 63-65 (ma la bibliografia su foggia sveva è molto più vasta). sull’acquisizione da parte dell’ordine dei beni foggiani poi requisiti, si vedano i documenti letti da HouBen, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normannosvevo cit., pp. 279ss. e note 110ss; in particolare la nota 112 sui beni dislocati nel sobborgo foggiano. 12 come a ragione sostenuto da HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., p. 33, che aggiunge poi, p. 34: «sembra che dalla revoca non siano stati colpiti i beni che l’ordine Teutonico aveva ottenuto a corneto e nei dintorni grazie a donazioni ed acquisti […], ma soltanto quelli che erano stati ricevuti in affitto». nel Quaternus il passo sull’affidamento dei beni alla masseria di Bonassisa è a p. 14.


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«marescalla» o marescalcia di corneto e quella di siponto. interrogati dai funzionari regi, i «boni homines» sipontini parlano di quest’ultima, situata presso la casa di tale scotto, come di una struttura priva di valore e di ogni reddito per la corte, «nichil reddit», mentre quelli cornetani riferiscono che la seconda era ubicata «extra cornetum», sulla via per ascoli, non lontana dalla fonte («non longe a fonte»: un locus rurale o una fonte d’acqua)13. un semplice ricovero per i cavalli, o invece una vera e propria scuderia? continuo a propendere per quest’ultima attribuzione. certo, le maristalle di età sveva non segnalano, di per sé, centri per l’allevamento degli equini; sappiamo che le aratie disponevano di «ambienti fondamentali, le maristalle, che non erano necessariamente edifici in muratura, ma potevano essere ricavati, lì dove le condizioni spingevano a farlo, in grotte, nei fianchi delle gravine e di puli, e di probabili ricoveri per la manovalanza. […] non basta tuttavia una maristalla, in conclusione stalla, scuderia, ricovero per i cavalli, a costituire un’aratia, azienda zootecnica di produzione equina»14. in effetti, il termine maristalla copre un arco semantico ampio che, se può differenziarla nettamente dall’aratia, necessita di una puntuale verifica caso per caso, capace appunto di distinguere la semplice stalla dalla scuderia, che presuppone una struttura più articolata e in qualche modo legata ad una realtà produttiva. Torniamo, per un’analisi comparativa, alla domus citata dal Quaternus presso siponto: un edificio a due piani, che nel secondo presenta ambienti destinati a deposito del pane della corte, e a piano terra ambienti destinati ai cavalli della corte; a quest’ultima la domus, si è detto, non rende nulla, il che rafforza l’idea di un edificio privo di valenza produttiva, utile solo, in pratica, come deposito di beni e custodia di animali. dunque, se l’ipotesi del semplice ricovero, della stalla, appare accettabile per la struttura sipontina (in quella località il registro federiciano ricorda anche lo «scutifer marescalle» amicetto), lo è forse meno nel caso della struttura presso corneto. Qui i testimoni insistono sul carattere “imperiale”, personale, della struttura («domus domini imperatoris»), e logicamente non ne indicano un reddito, né in positivo, né in negativo. d’altra parte, nemmeno la maristalla imperiale di foggia può essere considerata semplicemente una stalla, dal momento che il Quaternus insiste sui nomi di diverse persone che vi sono in qualche modo collegati: gli scudieri carcio, oddo di 13 ivi, p. 15 per la «marescalla» di corneto, e p. 50 per quella di siponto. un’altra maristalla imperiale è segnalata a civitate, con i nomi del valletto Giovanni di pietro e dello «scuterio» ugolino: p. 75. 14 f. porsia, I cavalli del re, fasano 1986, pp. 29-30.


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Transburgo, enzo e ferrante Yspano, i valletti planorco e pietro Yspano, il «frenarius» accardo e il «carroczarius» Bertoldo15. c’è da chiedersi, piuttosto, se la maristalla cornetana citata nel registro federiciano corrisponda a quella richiamata da un documento di età angioina, la «maristalla regia» su cui si appuntano le mire dei potenti locali: nel luglio 1288 il figlio di un dominus della zona, roberto, si dimostra così «temerario» da assalirla e razziarne gran parte del bestiame, «spiritum rebellionis assumendo»16. un episodio di “normale banditismo” (infatti roberto viene dichiarato «bannito») che è però prova non secondaria dell’importanza economica di quella struttura e della ricchezza di quel territorio. Qualche anno prima, riferisce ancora un documento della cancelleria angioina dell’aprile 1280, in quella mariscalla erano presenti 76 puledri e 25 scudieri; nella marestalla regia posta nelle campagne di Tressanti (oggi Borgo Tressanti, a ovest di salpi) erano invece 47 puledri e 16 scudieri, mentre, per rimanere nello stesso ambito territoriale, in quella di orta solo 24 puledri e 8 scudieri17. e giova qui ricordare che ancora alla metà del Trecento il territorio di corneto è noto per la sua grande fertilità e per la presenza di numerosi armenti equini e bovini. il notaio cronista domenico da Gravina, solitamente attento e bene informato, aggiungendo che ad abitarla dovevano essere poco più di 1.500 persone, non manca di registrarlo nel suo Chronicon: corneto è «terra ipsa in planitie situata in partibus capitinatae, terra siquidem fertilis et omni bono repleta», almeno quanto ricca di prodotti è nota, per la Terra di Bari, la località di rutigliano, «in qua victualia plurima, vinum et innumerabiles divitiae sunt inventae; et vere, ut aextimo, nulla terre provinciae Terrae Bari esse potuisset tanta fertilitate repleta ut fuit ipsa»18. proprio per le sue caratteristiche, aggiunge il gravinese, il duca tedesco Guarnieri, al servizio di Giovanna i e ludovico di Taranto, aveva scelto di fermarsi con le sue truppe a corneto (può aver contato anche la

15 per gli esempi relativi a siponto e foggia rinvio a licinio, Masserie medievali cit., p. 123 e nota 29. 16 I Registri della cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani (d’ora in avanti siglati ra), XXiX (1284-1288), ed. B. mazzoleni, napoli 1969 (Testi e documenti di storia napoletana pubblicati dall’accademia pontaniana), n. 40, 13 luglio 1288, pp. 32-33. 17 ra XXii (1279-1280), ed. J. mazzoleni, napoli 1969, n. 173, 11 aprile 1280, pp. 138-139. 18 domenico da GraVina, Chronicon de rebus in Apulia gestis (1333-1350), ed. a. sorbelli, in r.i.s.2, Xii/iii, città di castello 1903, p. 125 su rutigliano, e pp. 55ss. su corneto, anche per le citazioni successive.


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presenza dell’insediamento dell’ordine Teutonico?), «et ideo dux praefatus cum gente sua pervenit moraturus ibidem», in attesa dello scontro con l’esercito ungherese del voivoda stefano e di corrado lupo. anche se appare il richiamo ad una porta urbica, il che non comporta necessariamente la presenza di un circuito murario, corneto è descritta da domenico come località scarsamente difesa, addirittura priva di sorveglianza notturna, «absque nocturnis excubiis», e facilmente attaccabile: «istius Terrae facilis est ingressus». penetrate infatti in corneto senza incontrare resistenza, le truppe ungheresi vi fanno prigionieri «armigeri Theotonici et lombardi equites et pedites ultra mille quingentos, praeter cives dictae Terrae, qui esse verisimiliter potuerunt ultra tantumdem», e vi razziano «maxima enim preda… et in ea magnus thesaurus inventus quam in ea fuissent cives ditissimi». ed ecco il riferimento agli equini e ai bovini: «et victualium copia multa satis, equorum, et animalium domitorum et indomitorum preda maxima adunatur, et inaestimabilis robba domorum concivium miserorum». nella fertile area compresa tra cerignola, corneto, ascoli satriano e siponto, in conclusione, nel giro di qualche decennio, dapprima con la commenda di Barletta, poi con quella autonoma di corneto, i Teutonici riescono ad accumulare un complesso di beni di tutto rispetto, ampliato via via di case, vigne, campi già coltivati e terreni incolti, oliveti, orti, fosse cerealicole e depositi di derrate, impianti e strumenti di lavoro e di produzione, oltre che del possesso di san leonardo di siponto che, ottenuto nel 1260 su intervento di papa alessandro iV, era descritto in quella data in stato di profondo abbandono, privo di dipendenti e ridotto in pratica a rifugio di malviventi, «spelunca latronis»19. Questo tipo di accumulazione fondiaria non è dissimile da quelli che conosciamo per altri ordini religioso-militari; tuttavia, almeno due aspetti di differenziazione vanno evidenziati: a) per quanto su dimensioni più ridotte, l’accumulazione di beni rurali nelle mani dei Teutonici non si interrompe del tutto nella prima metà del Trecento, un periodo che coincide, anche in capitanata, con una generale crisi produttiva e con l’aumento della pastorizia ovocaprina e delle terre incolte e lasciate al pascolo, a fronte di una riduzione degli spazi destinati

19 s. masTroBuoni, San Leonardo di Siponto. Storia di un antico monastero della Puglia, foggia 1959; a. VenTura, Il patrimonio dell’abbazia di S. Leonardo di Siponto. Illustrazione e trascrizione del manoscritto di una «visita pastorale» di fine secolo XVII conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia, foggia 1978, pp. 27-28; sullo stato di abbandono: Il Regesto di S. Leonardo di Siponto, ed. f. camobreco, roma 1913 (Regesta Chartarum Italiae, 10), n. 194, 26 novembre 1260, p. 129.


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alle colture. in questo quadro, reso ancor più movimentato da una forte e costante conflittualità con potenti e comunità locali, l’asse degli interessi teutonici sembra saldamente fissato lungo una direttrice che collega insediamenti interni ricchi di risorse produttive e strategicamente disposti rispetto al sistema viario (lo era corneto), a insediamenti costieri e subcostieri che garantiscano lo sbocco al mare, qui incentrandosi progressivamente, nell’area che ci interessa, sull’azienda sipontina di san leonardo. contemporaneamente, il clima di insicurezza spinge gli insediamenti rurali che conservano una valenza produttiva a dotarsi di strutture difensive: la prima citazione che ci sia nota del toponimo Torre alemanna risale appunto al 1334: è la «turri de alamagnis» collegata da un reticolo viario ad altri insediamenti rurali20. b) a differenza degli «onnivori» Templari, l’acquisizione di proprietà da parte dei Teutonici appare (nei limiti consentiti dalle fonti disponibili) per così dire «verticale» e strutturale, interessata cioè alle terre ma anche alle strutture produttive, di trasformazione e residenziali, piuttosto che «orizzontale» e patrimoniale, volta al semplice accumulo di beni. se in quest’ultimo caso l’accento è posto sul valore delle singole proprietà, nell’acquisizione verticale si segnala un progetto, un intento di ricomposizione produttiva dei beni ricevuti in donazione, necessariamente disposti «a macchia di leopardo» nel territorio, attraverso acquisti mirati di altri beni, in modo da garantire una organica valorizzazione delle proprietà. Questi aspetti meriterebbero ulteriori approfondimenti, sia rispetto alle forme e ai modi dell’accumulazione fondiaria, sia rispetto al ruolo che, in entrambi i casi, giocano l’autoconsumo, il mercato e il loro continuo intrecciarsi e sovrapporsi. 2. Produzione resistiamo alla tentazione di estendere anche al duecento e al Trecento – per l’assenza di una sufficiente documentazione di tipo quantitativo – i dati che ci vengono da una preziosa testimonianza del 1448, la visita del baliato teutonico di puglia, sulle entrate e le uscite della commenda di corneto nel periodo 1434-144821. Qui ci viene disegnata l’immagine 20 HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., p. 51, anche a proposito dell’acquisto di una torre in corneto da parte dei Teutonici, nel 1402. 21 ivi, pp. 50ss., sulla base di una consultazione diretta del documento originale, conservato nell’archivio centrale dell’ordine Teutonico a Vienna.


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di un’azienda agricolo-zootecnica di grandi dimensioni, in cui si tende a realizzare un sostanziale equilibrio tra le attività colturali e l’allevamento, per quanto il settore pastorale inizi a prevalere su quello agricolo, sulla base anche dell’articolazione funzionale dei diversi centri produttivi teutonici: 4355 capi ovo-caprini, 2025 suini, 387 capi bovini, un centinaio di equini… È appunto l’immagine, su grande scala, della «masseria mista» di tipo cerealicolo-pastorale che tra fine del secolo XiV e prima metà del secolo XV rappresenta, non solo in puglia, uno dei modi di fuoriuscita dalla crisi del Trecento: se equilibrio può esistere in questo tipo di azienda nella “contraddizione funzionale” tra pastorizia e agricoltura22, è perché quest’ultima viene limitata essenzialmente alla cerealicoltura, in un sistema colturale in cui il seminativo è unito inscindibilmente al pascolo. più tardi, con e dopo l’istituzione della dogana delle pecore, nell’intera capitanata interessata dai flussi della grande transumanza ovina, l’area coltivata a grano e orzo tenderà a diminuire, soffocata da interessi e vincoli di vario tipo: si proibirà la coltivazione nelle «terre salde», funzionali esclusivamente alle esigenze pascolative (anche le terre fiscali in cui si consentiranno le colture, «terre di portata» o masserie successivamente chiamate «vecchie», verranno riservate al pascolo nei due anni di riposo che seguivano i due anni di cerealicoltura); si moltiplicheranno le «difese» e si vieterà l’introduzione di coltura arboree, si giungerà persino a imporre un tipo di aratro che non fosse in grado di tagliare alla radice le erbe destinate, dopo la semina, al pascolo. allora, con il precisarsi delle distinzioni tra il modello produttivo del «feudo» e quello della «masseria», e dopo l’esaurirsi della fase di espansione del commercio del grano che caratterizza il secolo XVi, nell’azienda di Torre alemanna che a fine cinquecento, da un secolo non più teutonica, poteva contare su circa 2800 ettari di terra, si passerà dalle 800 alle 500 versure seminate (per il 70% a grano, per il resto ad orzo)23. 22 r. licinio, La Puglia e il Mezzogiorno adriatico tra XI e XIV secolo, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica. atti del convegno di montalcino (12-14 dicembre 1997), cur. a. cortonesi - m. montanari, Bologna 2001, pp. 53-62, e s. russo, Il Mezzogiorno adriatico tra Quattrocento e Cinquecento, ivi, pp. 62-68. sui complessi rapporti tra agricoltura e pastorizia in capitanata si vedano almeno russo, Tra Abruzzo e Puglia. La transumanza dopo la Dogana, milano 2002, in partic. il saggio Pastori e contadini: due culture a confronto nel Tavoliere, pp. 1740, e i saggi pubblicati in Agricoltura e pastorizia in Capitanata. La storia e le ragioni di un conflitto, cur. a. muscio - c. altobella, foggia 1997. 23 a. VenTura, Il feudo di Torre Alemanna nella storia e nell’economia del Tavoliere dal XIV al XIX secolo, in a. VenTura - s. spera - G. la noTTe, Torre Alemanna fra passato e presente, foggia 1989, p. 22; sui modelli produttivi: a. lepre, Feudi e masserie. Problemi della società meridionale nel ’600 e nel ’700, napoli 1973.


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Quanto e come produce l’azienda di corneto-Torre alemanna prima della crisi del Trecento? il silenzio delle fonti si interrompe solo raramente, come nel caso dell’acquisto nel 1301 del tenimento di canistrello, presso il luogo detto Valle lupone in agro di ascoli satriano, con tutte le sue pertinenze, o di una donazione del gennaio 1308, da parte di un giudice cerignolano, di numerosi beni, tra i quali spiccano una grande chiusura vignetata «que dicitur pastinum» presso terreni della corte, diverse terre di cui una incolta, un altro oliveto ricco di 99 alberi sulla via per salpi, 17 salme di frumento e 8 di orzo ancora da mietere (altre 552 di grano e 190 di orzo “buono” sono già immagazzinate nelle fosse di cerignola), due aratri completi di ogni parte, «lignamina molendini unius cum machinis» e poi, con un numero imprecisato di ovini e caprini «et totum apparatum ovilis», 8 buoi da lavoro, 2 ronzini, 4 asini e 2 puledri24. È quanto basta, almeno, per confermare che in quel periodo l’azienda teutonica di corneto è pienamente in grado di diversificare la sua produzione, acquisendo oliveti ma anche orti, e fermo restando che la quota maggiore dei suoi prodotti proviene dalla cerealicoltura. più tardi, lo evidenziano due processi degli anni 1326 e 1341 relativi a dispute tra i Gerosolimitani e i Teutonici, come allevatori e produttori di cereali questi ultimi si vanno imponendo sulla «concorrenza»: vengono acquisite (o confermate) diverse case e una masseria a corneto, e viene sancito il diritto esclusivo di uso del territorio per quanto riguarda la possibilità di «far le difese, mezzane come il solito per pascere li loro animali ed a venderne l’erba in un tenimento in corneto sito, che si appartenea alli primi [i Teutonici] non ostante che la terra di corneto con uomini, vassalli ed altri frutti spettasse al detto ospedale di s. Giovanni»25. le mezzane erano campi destinati al pascolo dei buoi aratorii, usati nei lavori agricoli: nell’età della dogana, una mezzana equivarrà ad un quinto delle terre riservate alle colture. e c’è, all’incirca negli stessi anni, tra 1330 e 1345, l’inventario studiato da anthony luttrell26, che conferma e quantifica la pre-

24 cdB X, n. 168, 8 gennaio 1308, pp. 300-306, in particolare pp. 301-302. i Teutonici di corneto potevano contare, in quel periodo, anche sulla masseria di santo spirito in ficareto, nell’agro di Troia: HouBen, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normannosvevo cit., p. 279, nota 109. su canistrello: HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., p. 44. 25 ivi, p. 48, nota 76. 26 a. luTTrell, Les exploitations rurales des Hospitaliers in Italie au XIVe siècle, in Les Ordres Militaires, la vie rurale et le peuplement en Europe occidentale (XIIe-XVIIIe siècles), auch 1986, pp. 113ss.; l’inventario è opportunamente richiamato da HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., p. 48.


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senza, nella «domus Terre cornete» di proprietà degli ospitalieri, di 54 buoi da lavoro e di altri 900 tra capi bovini e ovini, con una capacità di produzione di 211 salme di cereali, per due terzi grano (135 salme), per l’altro terzo orzo. l’agricoltura, in questo caso, sembra coincidere solo con la cerealicoltura. non conosciamo invece, per quello stesso periodo, le cifre relative al bestiame e alla produzione agricola dei Teutonici di corneto: ma proprio la forte rivendicazione dell’uso di quelle mezzane, unita all’acquisizione del tenimento di canistrello, ci suggerisce un’esigenza inderogabile, l’ampliamento degli spazi destinati al pascolo, che è presumibilmente la conseguenza di una fase di aumento sia del parco degli animali da lavoro e da allevamento, sia dell’estensione dell’area del seminativo, e in sostanza della crescita della capacità produttiva complessiva di quell’azienda. non c’è da stupirsi che la vitale tendenza da parte dell’ordine ad assicurarsi quote sempre più ampie di terre seminative e pascolative insieme ai connessi diritti di pascolo, abbia potuto determinare conflitti e scontri con le analoghe e opposte esigenze di potenti e di comunità locali. È quanto accade nel 1318, quando le terre delle masserie dei Teutonici barlettani nelle campagne di Barletta, Troia e altre località, non coltivate per essere lasciate al pascolo del proprio bestiame, vengono occupate dagli abitanti degli insediamenti vicini, che se ne servono liberamente per farvi pascolare i propri animali27. piuttosto, appare singolare un episodio del 1334, notato da romolo caggese in uno dei registri della cancelleria andati poi perduti, che la dice lunga sulle dimensioni (e sull’ingegnosità) assunte in quegli anni dal fenomeno del banditismo rurale: «contro l’ordine di s. maria dei Teutonici in puglia si scatena, nel ’34, una grave minaccia: un gran numero di malviventi vestono l’abito dell’ordine, ne usurpano i beni e si abbandonano al brigantaggio»28. la sinteticità della citazione impedisce di aggiungere altro. masseria mista, si è detto dell’azienda teutonica cornetana, caratterizzata dal binomio grano-orzo, dall’allevamento ovino e dai prodotti ad esso collegabili, lana, pelli, latte, formaggi, e probabilmente anche da una limitata quantità (prodotta essenzialmente per l’autoconsumo) di vino e olio: ma non si tratta in alcun modo di un’azienda policolturale. Qui mi sembra si possa individuare una differenza sostanziale rispetto alle aziende produttive che conosciamo per la puglia del duecento, non tanto di quelle di enti, 27

r. caGGese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, 2 voll., firenze 1922-1930, i, p. 323. l’anno seguente sono gli uomini di corneto ad assaltare la «bella casa» del capitolo di ordona confinante con l’edificio «dove è ospitata la regia curia»: ibid. 28 ivi, p. 269.


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signori e privati (centri di produzione che, pur avendone le caratteristiche, non sempre sono definite masserie dalle fonti), quanto invece delle massarie appartenenti al demanio regio di età sveva e primoangioina. almeno teoricamente, nel progetto di sviluppo agricolo realizzato da federico ii e ampiamente ripreso da carlo i d’angiò29, quelle masserie dovevano risultare aziende policolturali, in cui al frumento e all’orzo dovevano affiancarsi l’arboricoltura, non solo di viti e ulivi, la coltura di cereali inferiori, miglio, avena, panico, sorgo, e poi ancora legumi, cotone, canapa; e l’allevamento doveva essere generalizzato, api incluse. un modello di masseria astratta ma funzionante per legge, gestita con una burocrazia ben organizzata e diretta con forte centralizzazione ma “asfissiante” nella sua onnipresenza, produttrice di beni per l’autoconsumo della corte ma anche da immettere nei grandi circuiti internazionali del commercio: il fallimento di quel progetto e di quel modello, che pure presentavano elementi di rottura rispetto alla tradizione colturale di gran parte della sicilia e della puglia, non poteva non tradursi in un’accelerazione della tendenza delle masserie a qualificarsi principalmente come aziende monoculturali impostate sul binomio cerealicoltura-pascolo. 3. Organizzazione del lavoro in età sveva e primoangioina, la massaria regia è senza dubbio uno dei centri della produzione agricolo-pastorale in cui si presentano in termini più marcati divisione, articolazione e specializzazione del lavoro. in sintesi, a lavorare nei campi di un’azienda masseriale del demanio regio troviamo i servi che fanno parte della familia, i salariati fissi che svolgono da esperti attività specifiche, e i lavoratori stagionali, assunti in determinati periodi dell’anno, specialmente nelle settimane della mietitura. i responsabili delle masserie regie, dispone lo Statutum massariarum di età sveva, dotino l’azienda di una quantità sufficiente (che sia tale secondo l’incontestabile parere del mastro massaro), di dipendenti fissi (che compongono la «familiam»), ciascuno dei quali distinto sulla base della sua specifica competenza – il porcario si occupi dei suini, il vaccaro delle vacche, e così via – e stabiliscano infine il rispettivo compenso; i dipendenti «de familia» che 29

su questi temi e per i riferimenti alla normativa licinio, Masserie medievali cit., passim, e licinio, La normativa sul sistema masseriale, in Le eredità normanno-sveve nell’età angioina. Persistenze e mutamenti nel Mezzogiorno. atti delle quindicesime giornate normanno-sveve (Bari, 22-25 ottobre 2002), cur. G. musca, Bari 2004, pp. 197-218.


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lavorano nelle masserie regie (i familiares o famuli), aggiunge lo Statutum massariarum et primo de grege porcorum, sempre del periodo svevo, hanno diritto «de victu», ogni mese, ad un tomolo e mezzo di frumento, che raddoppia per i lavoratori che «ricevono il pane nella masseria», mentre consiste in due soli tomoli per gli esterni, che lo «ricevono fuori», per i giumentari e per gli scudieri30. sui compensi in danaro, frumento e companatico, «pro mercede, vestimentis et calceamentis», qualche notizia è nel noto documento inventariale della regia masseria di orta, rogato in occasione della visita ispettiva, nel settembre 1279, del mastro massaro di capitanata, agralisto di Bari: ai lavoratori stagionali, mietitori e trebbiatori, va il «victum in pane facto cum condimento et potu» (non è indicato il salario in danaro), mentre ai dipendenti fissi vanno, rispettivamente, un ottavo dei prodotti e 18 tarì all’addetto ai lavori di aratura; 2 once e 3 tarì – in questo sistema di conto, 1 oncia equivale a 30 tarì, e 1 tarì a 20 grani – più 3 tomoli di frumento al mese all’addetto agli stalloni e al bovaro; e 2 once, più 2 tomoli e mezzo di frumento al mese a ciascuno dei due «porcarii», i quali ricevono anche due volte all’anno, in occasione della Quaresima e dei lavori di mietitura, il companatico, «condimentum in cibo et recocto»31. per altre notizie indicative si può contare sugli atti (ricostruiti) della cancelleria angioina. nel maggio 1269 vengono assunti 100 falciatori per tagliare il fieno dei campi della corte a lucera, ciascuno retribuito con un salario di 10 tarì al mese32. in realtà, deplora re carlo, quei lavoratori, destinati alle truppe all’epoca impegnate nell’assedio della lucera saracena, risultano inadeguati ai compiti, «inhabiles»: ne vanno trovati altri 100, «buoni e con falci adatte»; quelli che mi hai inviato, aggiunge il sovrano al giustiziere di capitanata, te li rimando indietro, «perché da loro tu faccia mietere il raccolto del tuo campo». sempre in quella data – qui notiamo un riferimento preciso ai tempi della mietitura: in maggio, essa è detta ormai imminente, «cum iam tempus recollectionis camporum victualium curie instet» – il mastro massaro di capitanata, all’epoca Goffredo de sasso di

30 Acta Imperii inedita saeculi XIII et XIV, ed. e. Winkelmann, 2 voll., innsbruck 18801885 (rist. anast. 1964), n. 998, rispettivamente p. 757 e pp. 754-755. 31 cdB XVii, Le pergamene di Conversano. Seguito al Chartularium Cupersanense del Morea, edd. d. morea - f. muciaccia, Trani 1942, n. 25, settembre 1279, pp. 38-41; ne ho trattato diffusamente in diversi lavori. 32 ra i (1265-1269), ed. r. filangieri, napoli 1950, n. 145, 13 maggio 1269, p. 226, e n. 149, 20 maggio 1269, p. 227: «ad te remittemus, ut segetes campi tui secari facias per eosdem».


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siponto, riceve 11 once destinate alla raccolta di 25 salme di frumento e di 10 di orzo da alcune masserie regie di capitanata33. per quanto sporadiche, altre utili testimonianze non mancano, per la capitanata come per altri distretti territoriali: nel giugno 1278, il monastero cistercense di santa maria della Vittoria in abruzzo, fondato dopo la vittoria di carlo i d’angiò sullo svevo corradino, ad ognuno dei 40 stagionali utilizzati nei lavori estivi attribuisce un compenso di 2 tomoli e mezzo di frumento al mese34. alla fine di maggio del 1288, al mastro massaro di capitanata, all’epoca ursone pastore di manfredonia, è assegnato un totale di 90 once e 5 tarì35. detratte le 15 once che servono ad acquistare 15 carri, il resto, pari a 75 once e 5 tarì, è destinato alla imminente mietitura e raccolta dei prodotti delle masserie regie di sua pertinenza, preventivati da ursone in 200 salme di frumento, 150 di orzo e 1 di fave (indizio della presenza di una rotazione colturale di tipo triennale), nella misura di 7 tarì e 10 grani per ogni salma di frumento da mietere e raccogliere, e di 5 tarì per ogni salma di orzo o di fave. i conti tornano: effettivamente, la somma di 75 once e 5 tarì impegnata equivale a 45.100 grani, di cui due terzi, 30.000 grani, sono destinati alle 200 salme di frumento (ciascuna a 220 grani, ovvero a 7 tarì e 10 grani), mentre un terzo, 15.100 grani, è impegnato per mietere e raccogliere le salme di orzo e di fave (ciascuna a 100 grani). sono più espliciti, almeno per i dipendenti «interni», tre documenti relativi alle masserie e aratie di corneto e ordona, possesso all’epoca del duca di calabria: nei primi due, del 1309-1310, i salari sono indicati in misura di 5 tarì al mese, nella stagione della semina per i lavoratori incaricati dell’aratura; di 1 oncia e 15 tarì all’anno, pari a 3 tarì e 15 grani mensili, per i bovari, i vaccai e i curatoli; di 1 oncia e 18 tarì all’anno, pari a 4 tarì al mese, per giumentari e custodi degli stalloni. nel terzo, datato 1318,

33 ivi, n. 174, 18 maggio 1269, pp. 235-236. altra indicazione dei tempi dei lavori in un atto dell’11 maggio 1276, quando «iam tempus instat de ipsis victualis metendi, recolligendis et reponendis»: ra Xiii (1275-1277), ed. r. filangieri, napoli 1959, n. 159, p. 240. un riferimento alla «mercede commanceriorum et usu massariarum», ovvero dei salariati fissi (commancerii o cominanterii) utilizzati nei lavori nei campi, in questo caso delle masserie regie gestite dal mastro massaro di capitanata Tommaso de Tancredi di foggia, è nel rendiconto del secreto di puglia relativo all’anno indizionale settembre 1269-agosto 1270: ra Vi (12701271), ed. r. filangieri, napoli 1954, n. 1881, s. d. (ma giugno 1271), pp. 355ss. 34 ra XiX (1277-1278), ed. r. orefice de angelis, napoli 1964, n. 377, 20 giugno 1278, p. 223; i braccianti sono ingaggiati per lavori nei campi delle masserie di ascoli satriano e sant’antuono in capitanata. 35 ra XXiX, n. 26, 22 maggio 1288, pp. 24-25.


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le retribuzioni di quei lavoratori sono le stesse: in più, si aggiunge un riferimento alla paga dei porcari, 5 tarì al mese, ovvero 2 once all’anno36. delle reali condizioni di vita di questi lavoratori sappiamo poco. ancor meno sappiamo dell’organizzazione del lavoro sulle terre dell’ordine Teutonico; ci sfuggono i particolari, le modalità del lavoro, la sua articolazione, le retribuzioni e le condizioni di vita dei lavoratori, almeno per il duecento e il Trecento. al solito, una messa a fuoco più puntuale comincia a essere possibile per il secolo XV. nell’azienda di corneto-Torre alemanna, ci informa ancora una volta la visita del 1448, opera un totale di 127 servi, addetti fissi suddivisi sulla base delle mansioni: 50 sono impegnati nei lavori nei campi (quasi il 40% della forza lavoro rilevata), mentre 53 si occupano degli animali (quasi il 42% del totale), e 24 della casa (il 18%)37. degli addetti agli animali da allevamento e da lavoro, 28 si occupano dei suini (calcolati, ricordiamolo, in 2025 capi), 14 degli ovini (4355), 11 dei bovini e dei cavalli (387 i primi, un centinaio i secondi). confrontate con i dati relativi agli anni precedenti, queste cifre ci suggeriscono l’immagine di un’attività produttiva che negli anni Quaranta del Quattrocento è in forte crescita: si passa dai 2130 capi ovini del 1239-40, ai 4355 ovocaprini del 1242-43; e dalle 3630 forme di formaggio, ricotta e caciocavallo prodotte nel 1239-40, alle 5828 dell’anno successivo. e cresce, in relazione, il numero degli addetti: nel 1440-41 sono rilevati solo 21 lavoratori occupati nei campi (nel giro di sette anni, dunque, il loro numero risulterà più che raddoppiato), 20 addetti ai suini, 11 agli ovini, 8 alla casa, 10 al parco bovino ed equino (5 alle vacche, altrettanti alle cavalle: rendiconto del 144142). Quest’ultimo dato, sostanzialmente confermato nel 1448 (solo un addetto in più), a fronte di un aumento consistente nel numero complessivo di lavoratori fissi, segnala appunto che la crescita maggiore ha investito il settore dell’allevamento ovino e, nei campi, quello cerealicolo. 36 caGGese, Roberto d’Angiò cit., i, rispettivamente 30 settembre 1309, 22 luglio 1310, e 13 ottobre 1318, pp. 503-504. nelle sue informatissime pagine, lo storico nato ad ascoli satriano ci ha lasciato una lunga serie di esempi, su cui non è qui il caso di insistere; si veda almeno, a p. 505, il curioso episodio del 1317, in cui 164 mietitori di ordona furono assoldati sui campi della masseria regia a 10 grani al giorno e, per il mancato pagamento del salario in denaro, si ritrovarono in pegno 38 buoi. 37 HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., pp. 51-52. le cifre si riferiscono ai dati del 1447-48; nelle note 95ss., sono riportati anche i dati sui lavoratori e sugli animali forniti per gli altri anni: a queste pagine farò riferimento anche per tutti i calcoli che propongo d’ora in avanti nel testo. a proposito dei bovini e degli equini, va aggiunto che i dati della visita non ci forniscono la possibilità di distinguere il numero dei buoi da quello delle vacche (che sono 213 nel 1439-40), il numero degli stalloni da quello delle puledre; allo stesso modo, i capi ovini non sono distinti da quelli caprini.


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di che tipo di forza lavoro fissa si tratta? «servi», attesta il documento: in quale senso? «personale assoldato dall’ordine», precisa a ragione Houben, dunque lavoratori retribuiti, non manodopera servile, né villani tenuti a prestazioni gratuite. il problema del tipo di manodopera, se mai, si pone a proposito della gestione delle proprietà dell’ordine nei due secoli precedenti, che le fonti disponibili non ci aiutano ad analizzare a fondo. in quale misura nel duecento le terre dei Teutonici in puglia – amministrate da un numero di frati estremamente limitato, e per ciò stesso inadeguato a impegnarsi direttamente nei lavori rurali – e nel resto del mezzogiorno sono coltivate dai familiares dell’ordine, e in quale misura invece ricorrendo a lavoratori salariati fissi e stagionali? la produzione è stata garantita nella maggior parte da prestazioni servili, dal lavoro retribuito o da contratti di affitto e miglioria? e se la retribuzione può essere ragionevolmente ritenuta la forma più utilizzata – a fronte di un indebolimento generalizzato, già nella seconda metà del duecento, del villanaggio tradizionale, del lavoro servile, delle prestazioni d’opera – quali ne sono le caratteristiche, quali le percentuali in prodotto e in denaro? per Templari e ospitalieri uno squarcio si apre grazie ad una lettera di papa Gregorio iX: nel 1228, in sicilia e in puglia, federico ii aveva confiscato un centinaio di schiavi di proprietà di quegli ordini, un atto che il papa si era sentito in dovere di deplorare vivacemente38. possiamo estendere l’utilizzo di manodopera schiavistica o servile anche alle proprietà dei Teutonici? la prudenza impone ancora una volta risposte generiche: ad esempio, che debba essere stata la “dimensione produttiva” aziendale a suggerire il tipo di manodopera impiegata. nell’azienda di corneto-Torre alemanna, a parte la stipula di contratti di enfiteusi e di affitto per valorizzare una parte dei terreni (come, rispettivamente, nel 1364 e nel 1449)39, il ricorso massiccio alla forza lavoro salariata, nel Quattrocento, è attestata dalla documentazione anche per quanto riguarda i lavoratori stagionali, su cui possiamo aggiungere qualche riflessione relativa alle giornate di lavoro e alla retribuzione. nel 1437, ai braccianti ingaggiati per i lavori di mietitura di grano e orzo vanno complessivamente 256 ducati per 1280 giornate lavorative: non si dichiara esplicitamente la paga giornaliera di ogni mietitore ma, calcolando che

38 J.-l.-a. Huillard-BréHolles, Historia diplomatica Friderici secundi, 6 voll., paris 1851-1861 (rist anast. Torino 1963), iii, 5 agosto 1228, pp. 74ss. 39 le fonti in HouBen, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola cit., p. 48, nota 78, per il 1364 (vigne deserte in agro di cerignola), e p. 53, nota 107, per il 1449 (una masseria con terre seminative, fosse, pile e pozzo, presso Trinitapoli).


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ogni ducato si suddivideva in 5 tarì, ciascuno di 20 grani (1 ducato era cioè pari a 100 grani), ne ricaviamo una spesa di 25600 grani e un salario di 20 grani, ovvero 1 tarì, a giornata (inutile aggiungere che non giova confrontare il valore di questo tarì con quello dei secoli precedenti). il risultato ci è confermato dal rendiconto del 1440-41, che a fronte di una uscita di 300 ducati per 1472 giornate lavorative, precisa il salario di 1 tarì a giornata per lavoratore. in realtà, con i 1500 tarì di uscita dovrebbero risultare pagate esattamente 1500 giornate lavorative; non è dato conoscere il motivo della differenza, pari a 28 tarì, a meno di ipotizzarne l’utilizzo per altro tipo di spesa, sempre relativa alle operazioni di mietitura, oppure di ritenere che in questo caso i 20 tarì giornalieri indicati siano una cifra media, calcolata approssimativamente, tra il salario di un mietitore di grano e quello di un mietitore di orzo, solitamente di poco inferiore. d’altro canto, questa differenza viene resa esplicita nel più particolareggiato rendiconto dell’annata successiva: nel 1441-42, per la mietitura dell’orzo si registra un’uscita di 89 ducati, 2 tarì e 17 grani (ovvero 8957 grani) per 422 giornate lavorative, con un salario giornaliero di 21 grani (1 tarì e 1 grano) per mietitore: effettivamente, dividendo l’uscita calcolata in grani per le giornate lavorative, si ottiene la cifra di 21,22 grani. per la mietitura del grano, invece, sono spesi 331 ducati (ovvero 33100 grani) per un totale di 1326 giornate, e si dichiara una paga di 25 grani (1 tarì e 5 grani) a giornata per lavoratore: anche qui, i conti sostanzialmente tornano (ripetendo l’operazione precedente, si ottiene infatti la cifra di 24,96 grani). si aggiunge poi, nel resoconto di quell’annata, un’ulteriore specificazione, «den tag 25 grani mit dem antyrnen gersten und korn» («25 grani al giorno insieme con l’altro orzo e grano»)40, che potrebbe essere letta come indicazione di un’aggiunta in prodotti alla retribuzione in denaro. comunque, è importante rilevare che nel giro di un quinquennio, tra 1437 e 1442, il salario giornaliero di un mietitore assunto dai Teutonici di corneto-Torre alemanna passa da 20 a 25 grani, aumentando praticamente di un quarto. sviluppiamo qualche altro calcolo, non per offrire dati conclusivi che la documentazione attualmente non consente, quanto per rilevare tendenze. secondo il rendiconto del 1440-41, sono retribuite 1472 giornate lavorative: è possibile, partendo da questa cifra, calcolare con buoni margini di approssimazione la quantità di braccianti al lavoro ogni giorno nei campi

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ivi, p. 52, nota 101. ringrazio l’amico Houben per gli utili chiarimenti e le ulteriori informazioni che sul documento della visita del 1448 ha voluto fornirmi.


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dei nostri Teutonici. sappiamo che per completare le operazioni di mietitura occorrevano in genere, nel Tavoliere, tra le 3 e le 4 settimane: un tempo più lungo avrebbe creato seri problemi alle messi41, ed anzi nella capitanata dell’età della dogana non mancheranno gli inviti a completare la mietitura e l’immagazzinamento dei cereali anche in un tempo inferiore ai 20 giorni. ebbene, attestiamoci nei nostri calcoli sul periodo di durata tradizionale della mietitura, e partiamo dal secondo rendiconto, relativo all’annata 1240-41: se dividiamo le 1472 giornate lavorative (in sostanza, la quantità totale di braccianti retribuiti teoricamente in un solo giorno di lavoro) per 21 o per 28 giorni solari, otteniamo cifre con decimali, rispettivamente 70,09 e 52,57, che rappresentano, per così dire, il massimo e il minimo teorico di forza lavoro utilizzata ogni giorno; solo se dividiamo le 1472 giornate di retribuzione per 23 giorni otteniamo una cifra tonda: 64 braccianti al giorno. controprova: le 1280 giornate retribuite nel 1437 forniscono un quoziente senza decimali solo se divise per 20 giorni di lavoro; e anche in questo caso otteniamo la cifra esatta di 64 mietitori giornalieri. analogamente, per le complessive 1748 giornate di mietitura retribuite nell’annata 1441-42 otteniamo esattamente un totale di 76 braccianti per 23 giornate di lavoro. ma in questo caso il rendiconto consente di disaggregare i dati relativi a grano e orzo, e per conseguenza di fornire cifre specifiche: se ne conclude che le 1326 giornate per mietere il grano in quell’anno equivalgono esattamente ad un totale di 51 braccianti al lavoro ogni giorno per 26 giorni, mentre le 422 giornate per l’orzo equivalgono a 21 braccianti al lavoro per 20 giorni42. Qui bisogna fermarsi: la mietitura dell’orzo, che matura prima, precedeva in genere quella del grano, ma poteva anche coincidere nella sua parte centrale o conclusiva con l’inizio di quest’ultima, secondo variabili che la documentazione non permette di cogliere, e che vanificherebbero ulteriori calcoli. Quei dati possono tuttavia servire a focalizzare i tempi di lavoro e il rapporto tra la quantità di forza lavoro necessaria per la mietitura del grano e quella per la mietitura dell’orzo, così come potrebbero consentir-

41 si ha spesso notizia di raccolti essiccati a maggio dal favonio; così nel 1307, quando, nella masseria del duca di calabria a san nicola d’ofanto, vengono perduti il grano e l’orzo ancora nei campi, e 2 salme di fave già raccolte ma non ancora immagazzinate: Syllabus membranarum ad Regiae Siclae Archivum pertinentium, ii, parte ii, napoli 1845, n. 4, 19 maggio 1307, p. 181. 42 il quoziente in questo caso è 21,1: si può ipotizzare l’utilizzo di 21 braccianti per 19 giorni, e di 23 per un solo giorno.


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ci di individuare, sempre a grandi linee e teoricamente, anche l’estensione delle terre dell’azienda teutonica coltivate a cereali e di quelle riservate al pascolo (ricordando ad esempio che nell’età della dogana il doganiere assegnava ai conduttori delle greggi, i «locati», un’area di pascolo che, secondo la natura del terreno, per ogni 100 pecore andava da 24 a 49 ettari). ma è bene restare con i piedi, è il caso di dirlo, saldamente piantati per terra, anche rispetto al problema della provenienza della forza lavoro stagionale utilizzata dall’ordine. si tratta solo di braccianti del territorio di corneto e cerignola? lo ignoriamo; ma le tendenze riscontrabili per altre grandi aziende masseriali del periodo inducono a ritenere che la manodopera bracciantile stagionale non provenisse soltanto dalle località più vicine. È quanto risulta, ad esempio, a proposito della cosiddetta «grande masseria di lucera», istituita da re alfonso d’aragona nel 1450, dunque solo due anni dopo la visita registrata nel complesso masseriale teutonico43. molti interrogativi attendono, da una documentazione più circostanziata, risposte meno generiche. alcune tendenze e alcuni dati, all’analisi oggi possibile, appaiono comunque confermati: il ruolo svolto in capitanata dai Teutonici come produttori di risorse agricole destinate tanto all’autoconsumo quanto all’esportazione per i bisogni dell’ordine in palestina; l’«incastellamento», nel Trecento, dell’azienda di corneto-Torre alemanna, sia nel senso dell’acquisizione di una vera e propria fortificazione, la torre, sia in quello ancor più decisivo del qualificarsi come centro di riorganizzazione della produzione agropastorale in un quadro territoriale in cui le crisi stanno determinano spopolamento, desertificazione di casali e località rurali, aumento dell’allevamento ovino e riduzione degli spazi riservati alla cerealicoltura; la crescita, nel Quattrocento, delle sue dimensioni e delle sue potenzialità produttive, che non sembrano tuttavia in grado di superare, con l’introduzione di altre colture, il binomio allevamento-cerealicoltura. Quest’ultimo punto è, in fondo, il più interessante da discutere, anche perché non si può confinarlo in secondo piano se si vuole tentare di rispondere al quesito finale di un recente lavoro di Hubert Houben: i Teutonici (e i Templari) «con le loro attività produttive e finanziarie hanno forse dato anche uno stimolo all’economia» del mezzogiorno medievale? può darsi, e lo stesso autore rileva che «si tratta di un’ipotesi ancora tutta da verificare»44. un contributo importante dei Teutonici sul 43 m. del Treppo, Il regno aragonese, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso - r. romeo, iV, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, t. i, roma-napoli 1986, pp. 154-158. 44 HouBen, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normanno-svevo cit., p. 288.


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piano della crescita della produzione non va sottaciuto, e lo abbiamo qui verificato, così come non ne vanno dimenticati altri, ad esempio in ambito culturale. il punto decisivo per rispondere, a mio avviso, rimane però quello di definire, nei limiti in cui è possibile farlo in questa sede, il modello economico del mezzogiorno bassomedievale e, al suo interno, il ruolo svolto dalla puglia. anzi, più correttamente questa volta, delle Puglie. se non appare convincente la proposta interpretativa delle due Italie, allo stesso tempo e per le stesse motivazioni non lo è nemmeno quella di una Puglia omogenea, modellata nelle sue caratteristiche economiche e produttive esclusivamente da interessi esterni. Tuttavia non c’è dubbio che forze e interessi anche esterni abbiano contribuito, nel settore agricolo-pastorale dell’economia, a fare di alcune aree produttive, in puglia come in sicilia, nella divisione internazionale del lavoro e della produzione, esclusivamente aree specializzate nella produzione di materie prime come i cereali (e, per lungo tempo, come la lana). rispetto a questo, innanzi tutto, c’è da chiedersi se il ruolo dei Teutonici sia stato rilevante o meno: marginale se confrontato al «peso» di altri soggetti economici, penso qui ai mercanti exteri, ma anche, in campo finanziario, alle compagnie dei fiorentini, esso va comunque inquadrato e definito entro l’orizzonte della prevalente specializzazione monoculturale, cerealicola, degli ambiti territoriali in cui hanno operato le sue masserie. non siamo ancora al sistema economico cinque-seicentesco imperniato sulla cerealicoltura speculativa e interamente dipendente «più che da elementi interni, da stimoli trasmessi da centri direzionali esterni attraverso il mercato e le istituzioni politico-amministrative»45. ma i sintomi ci sono già nel Quattrocento, e la rotta, tracciata anche dei Teutonici, è quella che conosciamo: è un percorso su cui si incontra un nodo storiografico ineludibile, il ruolo della dipendenza da decisioni e interessi economici esterni, il peso, in altri termini, della perdita di autonomia gestionale del modello produttivo.

45 e. papaGna, Grano e mercanti nella Puglia del Seicento, prefaz. di a. massafra, Bari 1990, p. 8; e ancora: «semplificando il “modello” interpretativo si può sostenere che il livello più o meno alto della domanda esterna, determinando i prezzi e la convenienza a produrre delle masserie, stabilisce l’estensione delle colture e la richiesta di manodopera salariata, producendo così rilevanti ripercussioni anche sull’andamento della demografia e del mercato interno».


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ASPETTI DELLA GESTIONE ECONOMICA DI SAN LEONARDO DI SIPONTO ALL’EPOCA DEI TEUTONICI

Molte domande e qualche utile risposta, nel resoconto della visita voluta nel 1448 dal maestro di Germania Jost di Venningen nel baliato teutonico di Puglia. I due visitatori, Thomas Reuss di Vienna e Hans Czenger (che muore appunto mentre è in Puglia), presero visione dei registri contabili relativi agli anni dal 1432 al 1448, e redassero il relativo verbale, relativo ai bilanci annui delle commende di San Leonardo di Siponto, Corneto-Torre Alemanna, Barletta, Bari e Brindisi. Ne aveva anticipato una prima rilettura Hubert Houben, che aveva fornito nelle note di un recente lavoro su Torre Alemanna alcuni dati generali1; ora ne dobbiamo un accurato e intelligente studio a Kristjan Toomaspoeg, che sta curando l’edizione del testo originale con traduzione italiana a fronte. Devo alla cortesia dell’amico estone l’avermi messo a disposizione le pagine della sua traduzione relative alle Case pugliesi dell’Ordine Teutonico, ed è a partire da queste pagine – mentre si attende la pubblicazione del volume dedicato2 – che mi è possibile formulare alcune prime considerazioni sulla gestio1 H. HOUBEN, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola e Torre Alemanna, già in Il territorio di Cerignola dall’età normanno-sveva all’epoca angioina. Atti del 14° Convegno Cerignola Antica (29 maggio 1999), Cerignola 2000, pp. 27-64, successivamente in «Kronos. Periodico del Dipartimento Beni Arte Storia dell’Università di Lecce», 2 (2001), pp. 17-44, con il titolo L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola, Corneto e Torre Alemanna. 2 Mentre correggo questo testo il volume è già apparso, ma non mi sarà possibile citarne le pagine relative ai brani del rendiconto che qui prendo in considerazione: La contabilità delle Case dell’Ordine Teutonico in Puglia e in Sicilia nel Quattrocento, cur. K. Toomaspoeg, presentaz. di H. Houben, Galatina 2005. Sul ruolo e sull’economia delle aziende masseriali teutoniche in Puglia rinvio al mio Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV, in L’ordine Teutonico nel Mediterraneo. Atti del Convegno internazionale di studio (Torre Alemanna [Cerignola]-Mesagne-Lecce, 16-18 ottobre 2003), Galatina 2004, pp. 175-195, anche per gli indispensabili rimandi bibliografici, che qui eviterò di ripetere (n.d.r.: saggio qui ripubblicato alle pp. 85-106). Aggiungo solo il recente A. VENTURA, Re Mercanti Braccianti. Foggia dai Normanni alle lotte contadine, Foggia 2004, e i saggi in Il Cabreo di San Leonardo di Siponto. 1634-1799, cur. G. Pensato, Napoli 2000, specialmente per il quadro delle località e dell’economia del territorio in età moderna.


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ne economica di San Leonardo di Siponto alla metà del Quattrocento; inutile precisare che si tratta di considerazioni parziali e limitate, che necessariamente rinviano ad una trattazione organica e puntuale, che non potrà non confrontarsi proficuamente con quella cui Toomaspoeg sta lavorando. In un contesto in cui stanno maturando scenari economici nuovi e di grande portata – in primo luogo l’istituzione della Dogana della Mena delle pecore da parte di re Alfonso I d’Aragona nel 1447 – che tipo di azienda è, la San Leonardo teutonica? Come è amministrata? Quali funzioni svolge, sia in relazione alle altre aziende teutoniche nella Puglia quattrocentesca, sia in rapporto all’economia del territorio? Ci sono elementi di “sistema”, nel complesso dei possedimenti pugliesi dell’Ordine? Ad individuare gli elementi di specificità può servirci, ma solo in parte bastare, l’analisi del bilancio di un’annata particolarmente significativa, mentre a segnalare tendenze e processi economici più generali gioverebbe, ma anche in questo caso risulterebbe parzialmente sufficiente, un’indagine comparativa almeno dei diversi anni rendicontati nelle diverse aziende teutoniche di Puglia. Tenendo conto di questi limiti, in questa sede alcune direttrici possono comunque essere individuate. Prendiamo in esame il rendiconto dell’anno indizionale 1445-1446, un anno che possiamo ritenere “medio”, rispetto a quelli che presentano utili particolarmente elevati o particolarmente scarsi (Tav. 1). Le entrate e le uscite del periodo compreso tra 1 settembre 1445 e 31 agosto 1446 ammontano rispettivamente a 3.561 ducati, 4 tarì e mezzo e 19 grani, e a 3.235 ducati, 1 tarì e 11 grani (5 tarì formano un ducato; 20 grani formano 1 tarì: moneta di conto, al solito, mentre quella realmente circolante è il carlino, equivalente a 10 grani). L’utile di gestione – entrate meno uscite, ovvero il «Tesoro», che viene poi sommato alle somme delle «risorse rimaste», cioè al magazzino, e a quelle delle «entrate previste», che si prevede cioè di incassare nell’anno successivo: e anno per anno è indicato il totale finale – risulta dunque quell’anno di 326 ducati, 3 tarì e 8 grani: ed è appunto la somma correttamente registrata nel rendiconto. Ma qui va subito segnalato un primo dato di fondo: la contabilità teutonica si rivela spesso imprecisa, talvolta errata. Diciamo pure che si tratta di una contabilità che, pur semplice ed elementare, nel senso che non deve affrontare problemi finanziari di particolare complessità, in più di un caso appare viziata da “bilanci disinvolti”, per usare un’efficace espressione di Toomaspoeg. Ad esempio nell’anno indizionale 1435-1436, a fronte di un’entrata di 1.442 ducati, 1 tarì e 19,5 grani, sono contabilizzati in uscita 1.412 ducati, 3 tarì e 9 grani, per un utile totale di 29 ducati, 3 tarì e 10 grani: come si può notare, l’utile risulta aritmeticamente esatto, ma se si va a verificare


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una per una le voci che costituiscono le singole uscite, ci si accorge che per raggiungere il totale mancano circa 40 ducati. Così, nell’anno 1443-44, ad un’entrata di circa 3.669 ducati, e ad un’uscita di circa 3.665 ducati, dovrebbe corrispondere un utile di soli 4 ducati, mentre ne viene registrato uno cento volte più alto, pari cioè a circa 404 ducati: anche in questo caso, se si sommano pazientemente le singole voci in uscita, ci si rende conto che la somma finale è di circa 3.254 ducati, ben inferiore a quella registrata nel documento, il che in fin dei conti – è il caso di dire – giustifica l’utile realmente annotato (404 ducati, 3 tarì e 8 grani). Eclatante poi il caso dell’anno 1436-37, quando si registrano in entrata 1.800 ducati, 3 tarì e 3 grani, e in uscita 1.796 ducati, 3 tarì e 3 grani: l’utile indicato è dunque pari esattamente a 4 ducati. Ma la reale somma in uscita che le singole voci autorizzano a calcolare è, in questo caso, pari a 1.967 ducati; si ottiene di conseguenza non un utile di 4 ducati, bensì al contrario un deficit di 176 ducati. Non è una differenza marginale. Gli errori di computo riguardano anche le somme relative alle entrate di previsione: nel 1434-35 sono indicati sotto questa voce 787 ducati e 4 grani, una cifra errata, superiore al reale di ben 62 ducati, e l’errore si ripete, falsandola, sulla somma finale di quel bilancio. Né mancano imprecisioni e sfasature nelle voci relative ai salari, come nel 1448-49, quando vengono segnati in uscita 140 ducati, 3 tarì e 1 grano per 958 salari effettivi ai mietitori di grano e a quelli di orzo, suddivisi in 517 salari giornalieri per i primi, di 16 grani ciascuno, e 416 salari giornalieri per i secondi, a loro volta di 16 grani ciascuno. Ma 517 salari per il grano e 416 per l’orzo danno un totale di 933 salari, non di 958. Semplici errori di calcolo, semplici sviste? In qualche caso sì, ed è però quanto basta per non assegnare sempre a quei bilanci, e a quanti li hanno redatti e convalidati, un crisma di piena affidabilità, il che tuttavia nulla toglie alle preziose attestazioni fornite dal documento. Altre volte si può sospettare qualcosa di più, il tentativo di non far risultare alcune somme a bilancio o di “mascherarle”, ma se così fosse il metodo scelto apparirebbe così palesemente “ingenuo” ed elementare, dal momento che non può sfuggire ad una semplice verifica aritmetica, da far sfumare l’ipotesi della malafede in quella più probabile della inadeguatezza contabile, oppure di una urgenza di scrittura non seguita da un’attenta correzione successiva. Del resto, chi doveva ricevere il resoconto non sempre aveva interesse ad approfondire tutti i particolari: il controllo doveva essere abbastanza labile. L’ultima parola andrebbe in ogni caso lasciata ad una verifica delle somme attestate dalle ricevute delle singole operazioni finanziarie: ma è esattamente ciò che le fonti non ci consentono.


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Torniamo al rendiconto del 1445-46, che continueremo qui ad utilizzare come esempio paradigmatico, per essere quello che meno appare influenzato da fattori esterni – le vicende belliche locali del conflitto angioino-aragonese pesano particolarmente sui bilancio degli anni 144042; la visita di re Alfonso d’Aragona influisce su alcune voci del rendiconto del 1443-44; la diffusione della peste si fa sentire su quello del 1448-49; e via dicendo – e meno determinato da particolari congiunture economiche, come il mancato raccolto del 1446-47: «quest’anno non esiste una produzione propria di grano e di orzo, perché tutto il raccolto è andato distrutto nel campo». Sui 3.561 ducati che, abbiamo visto, costituiscono le entrate complessive3, 1.585 provengono dall’allevamento: esattamente il 44%, di cui il 96% è frutto della vendita di animali, il resto proviene dalla vendita di lana e pellami. In particolare il 70% è ottenuto dalla vendita di 1119 suini, il 22% da quella di 30 cavalli, il 4% da quella di 54 vitelli. Almeno degli equini, conosciamo in questo caso la quantità di capi commercializzati, 30, e il ricavato complessivo, 361 ducati: se ne ricava il valore medio sul mercato di un singolo cavallo. Il 32% delle entrate, pari a 1.167 ducati, è invece costituito dalla vendita dei prodotti agricoli, esattamente 100 carri di grano venduti a 950 ducati (81% del totale), 15 carri di orzo a 105 ducati (8%), 52 tomoli di fagioli a 5 ducati (0,4%), mentre una certa quantità di erba (foraggio o anche entrate dal pascolo) frutta 100 ducati (8%), e il resto è dato dalla vendita di crusca, miele (e grasso, registrato insieme al miele)4. Altre voci incidono sulle entrate in misura più ridotta: per l’8,5% i censi dell’anno (302 ducati), per poco meno dell’1,5% i formaggi (620 pezzi), caciocavallo (143 paia) e ricotta (130 pezzi), per poco meno del 2,5% (88 ducati) i proventi della taverna che sappiamo attiva e gestita direttamente dai Teutonici, e per il resto da altre voci, tra cui spicca un 1,34% relativo a 48 ducati provenienti dall’azienda di Corneto (li si ritrova effettivamente tra le uscite di quell’anno nel resoconto contabile di Corneto, senza tuttavia alcuna indicazione esplicita della motivazione). Il 6% del totale, infine, è dato dal «Tesoro», l’attivo di gestione dell’anno precedente, correttamente inserito tra le voci delle entrate. Confrontate con le analoghe voci delle entrate, le somme registrate in uscita mettono in luce alcuni elementi rivelatori sia del tipo di gestione 3 4

D’ora in avanti nelle somme riportate eviteremo di indicare anche i tarì e i grani. Presente nei bilanci di altre annate, il sale fornisce solitamente un introito non elevato: ma mancando riferimenti alla quantità venduta, non se ne deve trarre conclusioni affrettate.


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economica sia della natura dell’azienda sipontina. Sul totale di 3.235 ducati, solo l’11% circa è speso in relazione al settore dell’allevamento: 95 ducati se ne vanno per la masseria dei suini, e altri 250 per retribuire gli addetti, ben 22 porcari. Più consistenti le spese nel settore agricolo, 1.208 ducati, che incidono per il 37% del totale. In particolare, 577 ducati sono spesi per retribuire i 32 «servitori, ovvero servitori agricoli, della masseria», gli addetti generici ai lavori agricoli; altri 363 ducati per i mietitori, distinti rispetto al grano e all’orzo; 39 ducati per i trebbiatori di «grano e orzo nel campo», e altri 98 sono spesi genericamente «per la masseria»; infine, 56 ducati sono spesi per lavori relativi alle fosse cerealicole a Manfredonia – con la precisazione che sono stati «pagati per riempire e svuotare le fosse a grano», e sono comprensivi delle retribuzioni «agli esterni che hanno partecipato al trasporto del grano e dell’orzo verso la città» – e altri 75 per la locazione di altre fosse cerealicole per 3 anni. Proseguendo nell’accorpamento delle voci di uscita (ma va sempre precisato che si tratta di un accorpamento del tutto relativo e non sempre preciso), possiamo calcolare 652 ducati, pari al 20% del totale, per le spese relative alle strutture dell’azienda, al loro funzionamento e al loro equipaggiamento: 382 per la cantina, 174 per lavori edili a San Leonardo, 108 per la «masseria della Casa», 89 per le cucine, 47 per la stalla, 24 per la chiesa, 2 per l’infermeria. A questo capitolo possiamo aggiungere un altro 8% del totale delle uscite, 264 ducati, che vengono impegnati quell’anno per spese straordinarie: 246 ducati per l’acquisto di tre case a Manfredonia, gli altri 18 per lavori edili effettuati sempre nella vicina città (l’anno successivo queste uscite si ripeteranno: 185 ducati «per i lavori edili nella città di Manfredonia, nella casa dove abitano i fratelli dell’Ordine», e altri 11 «per riparare delle case vecchie», sempre a Manfredonia). Il residuo 24% delle uscite comprende voci diverse: dal sostentamento dei fratelli (66 ducati), alle spese salariali e di sostentamento dei 20 «servitori di Casa» (285 ducati), evidentemente distinti dalla servitù agricola, alla spesa di 54 ducati per la commenda di Corneto, alle spese di «consumo del luogotenente quando egli si recò a cavallo a Nocera per vendervi dei cavalli e dei maiali» (poco più di 2 ducati: ma la località citata è quasi certamente Lucera), sino ai censi, che in quell’anno comprendono tra l’altro ben 100 ducati in uscita come censo al Maestro. Entriamo ora nel “magazzino” dell’azienda sipontina, nelle voci in cui sono registrate le riserve rimaste a disposizione, destinate in parte al consumo interno, in parte al mercato. Le riserve di grano nel rendiconto del 1445-46 sono costituite da 450 carri: 246 di grano vecchio, ovvero residuo


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in magazzino dell’anno precedente, 161 prodotti in quell’anno, e 41 provenienti dall’azienda teutonica di Corneto. A quel totale si devono sottrarre complessivamente 177 carri: 100 già «venduti e contabilizzati» (li abbiamo appunto incontrati nelle voci in entrata, venduti a 9,50 ducati al carro), 8 utilizzati per la semina, 42 utilizzati «per le necessità della Casa», dunque per l’autoconsumo, 17 «dati ai lavoratori agricoli per la loro parte», e 10 «che si sono guastati nelle fosse e sono stati dati a polli e piccioni» (si consideri che la presenza di questi animali minuti nell’azienda non è mai esplicitamente registrata, ed emerge solo dalle voci di magazzino). Rimangono complessivamente 273 carri «da vendere al prezzo di 5 ducati per ogni carro, ovvero al prezzo totale di 1.365 ducati». Ben inferiore è invece la quantità di orzo in riserva, 128 carri: 15 dalla precedente annata, 113 prodotti in quell’anno, e 1 frutto del terratico. Se ne devono sottrarre 90 carri: 51 perché utilizzati per le necessità della Casa, «ovvero per nutrire i cavalli e i maiali»,15 già venduti e contabilizzati (al prezzo di 7 ducati al carro), 15 dati ai lavoratori come quota d’ingaggio, 4 in parte seminati in parte «dati ai cavalli come foraggio fresco», e gli ultimi 5 «regalati al re». I 38 carri che realmente rimangono in magazzino dovranno essere posti in vendita a 3 ducati per ogni carro, per un totale di 114 ducati. Si passa quindi ai fagioli, al vino e all’olio. Dal totale di 155 tomoli di fagioli, di cui 31 dell’anno precedente e 124 dell’anno contabilizzato, ne vanno tolti 97, ovvero 40 dati ai mietitori e utilizzati per il consumo interno, 52 già venduti e registrati tra le entrate (5 ducati: poco meno di 10 grani al tomolo), e 5 «regalati» (e qui non si può fare a meno di segnalare la sospetta genericità della voce, che può comprendere interventi caritativi ma anche altro); i 58 tomoli che rimangono saranno posti in vendita a 10 grani al tomolo. Tutto l’olio in magazzino, 7 salme in totale, è destinato alla chiesa e all’autoconsumo: San Leonardo – un dato da sottolineare – non possiede all’epoca oliveti produttivi in zona, e deve contare sulle integrazioni fornite dalle altre aziende, sicché 1 salma di olio proviene dagli oliveti di Vieste, e 6 salme di olio vengono da Bari (6 salme nell’anno 1447-48 arriveranno da Brindisi, e gli esempi possono continuare). Analoga osservazione per il vino: delle 271 salme contabilizzate, tutte destinate «alle necessità della Casa e alla taverna», solo 8 provengono in censo dai vigneti di Vieste, mentre tutto il resto è stato acquistato sul mercato: deve trattarsi indubbiamente dell’uscita di 382 ducati registrata sotto la voce cantina. Ultimi prodotti del magazzino, registrati ma tutti utilizzati nel corso dell’anno, i formaggi suddivisi secondo i vari tipi, e conteggiati in pezzi di formaggio, pezzi di ricotta e paia di caciocavallo. Dei 785 «pezzi di formag-


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gio duro, sia vecchio che nuovo», 625 sono stati venduti e contabilizzati, 59 consumati all’interno della Casa, 44 dati ai «porcari nelle ghiande» e 40 ai «porcari nelle spighe» (la prima voce segnala il pascolo boschivo, la seconda su campo), e 22 «regalati», al solito. E regalati sono anche 24 dei 583 pezzi di ricotta (altri 130 pezzi sono stati venduti e 67 consumati nella Casa) e 26 dei 213 paia di caciocavallo (altri 143 venduti e 44 consumati). In sostanza, nessun tipo di formaggio rimane tra le riserve effettive, e questo dato si ripete frequentemente (un’eccezione è ad esempio il 1442-43, quando rimangono 240 pezzi di formaggio duro da vendere al prezzo complessivo di 19 ducati). In qualche caso la quantità di formaggio prodotto in loco viene integrata da quella proveniente soprattutto dalla casa di Corneto (ma anche da quella di Barletta)5, come nel 1439-40, quando 759 pezzi di formaggio sono acquistati dalla prima, e 171 dalla seconda. Ma è solitamente Corneto a supplire con il suo surplus produttivo: così nel 1443-44, quando ai 201 pezzi di ricotta della produzione sipontina si aggiungono 475 pezzi che vengono «dalla Torre» (Torre Alemanna); o ancora nel 1444-45, quando ai 1.109 pezzi di «formaggio di pecora» si aggiungono 20 pezzi di «formaggio di mucca» prodotti a Corneto (anche della ricotta si specifica a volte se è prodotta da latte di pecora o di mucca). E sempre dall’altra azienda teutonica di Capitanata giunge il formaggio quando a San Leonardo non se ne produce affatto, come nel 1440-41: 980 pezzi di «formaggio rotondo» (ne vengono destinati al mercato 782), 420 pezzi di ricotta (20 commercializzati), e 260 paia di caciocavallo (137 venduti, ma anche 22 «che si sono guastati»). Piuttosto, un dubbio interpretativo rimane su un tipo di formaggio registrato solo nel rendiconto dell’azienda di Corneto per l’anno 1441-42, il «parmigiano pesalmo» («parmisan pesalmo», in originale), di cui rimangono in magazzino 4 pezzi sui 70 prodotti: 15 ne sono stati regalati, e 51 sono stati inviati, anch’essi in donazione, a San Leonardo. L’utile dell’annata (le «entrate annuali di tutti gli uffici» meno le «uscite di tutti gli uffici»: il «Tesoro») che abbiamo scelto di esaminare nei particolari è pari a poco più di 326 ducati, comprensivi del «Tesoro» rinve-

5 Come intendere la frase del bilancio del 1436-37: «bisogna annotare che non si trova formaggio perché la masseria a quest’epoca era a Barletta»? Anche Toomaspoeg si pone il problema, concludendo a ragione che è difficile fornire una risposta persuasiva, se non si vuole pensare ad un trasferimento vero e proprio della produzione casearia. Più probabilmente, si intendeva dire che quell’anno si era deciso di non produrre formaggi a Siponto, per cause che ci sfuggono, e di conseguenza di rifornirsene dall’azienda barlettana.


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niente dall’anno precedente, 216 ducati (110 ducati effettivi, togliendo quest’ultima voce). Ma il rendiconto contabile prosegue aggiungendo al Tesoro la somma delle risorse rimaste, per un totale di oltre 1.859 ducati, e gli introiti di previsione, pari a 2.236 ducati: le due voci sommate raggiungono i 4.095 ducati finali, un importo che, comparando tutti i rendiconti, si pone a metà tra il minimo del 1433-34 (1.442 ducati) e il massimo del 1444-45 (5.633 ducati), con un trend che risulta sostanzialmente in crescita nel periodo 1433-1445, e in calo negli anni successivi, fatta eccezione per il 1447-48, quando il totale finale è di 4.002 ducati: dal momento che si tratta dell’anno successivo a quello in cui non si era registrata produzione cerealicola, è evidente – e un’analisi dettagliata di quel bilancio può confermarlo – che si è fatto ricorso a due fattori di recupero finanziario, una più massiccia vendita di scorte cerealicole, e una più elevata quantità di bestiame venduto. Il bestiame, appunto. Il primo dato che in conclusione balza agli occhi, è proprio il fatto che, pur con un flusso di investimenti minore rispetto alle altre attività produttive, sia l’allevamento il settore dell’economia agropastorale che per l’azienda teutonica sipontina produce utili maggiori e più certi. Il dato di quell’anno è generalizzabile? Sì, con qualche parziale eccezione: ad esempio nel rendiconto del 1442-43, l’anno in cui si verifica il picco delle entrate (5.663 ducati), delle uscite (4.788 ducati) e degli utili (875 ducati), il 35% delle entrate è garantito dalla vendita del bestiame, mentre il 43% da quella di grano, 166 carri, per un ricavo di 2.424 ducati, al prezzo di ben 14,60 ducati al carro. Ma il dato va analizzato nel suo insieme: l’azienda incassa dalla cerealicoltura il 43% degli introiti, ma ne spende poi il 37% delle uscite per sostenerne le spese, mentre dall’allevamento incassa il 35% a fronte di una uscita pari al 19% del totale. Il senso di queste cifre è evidente. La vendita del bestiame, sia degli animali grossi (con un alto valore per singolo capo) sia di quelli minuti (con alto valore sulla quantità dei capi), e naturalmente dei loro prodotti, costituisce sempre uno dei cespiti qualificanti e irrinunciabili dell’economia dell’azienda sipontina, e procura entrate ben più elevate di quelle provenienti dalla vendita dei prodotti cerealicoli, e certamente molto più dei formaggi, dei legumi e dell’«erba», nel duplice significato di affitto dei pascoli e di vendita di foraggio (e, osserviamo, dei censi). Non così avviene nell’azienda di Corneto-Torre Alemanna, dove invece prevale la cerealicoltura, al punto da riuscire a supplire con la sua produzione alle necessità anche di San Leonardo e di altre aziende teutoniche. Se non ci si limita agli animali registrati nel resoconto del 1445-46, suini, cavalli, vitelli, le dimensioni del patrimonio zootecnico dell’azienda


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di San Leonardo appaiono davvero notevoli in ogni settore. In primo piano rimane sempre l’allevamento suino, con il minimo del 1435-36 (115 suini venduti al prezzo di 115 ducati) e il massimo del 1447-48 (1.380 maiali venduti per 1.386 ducati; nel 1443-44 invece si ricavano 1.465 ducati dalla vendita di 987 suini), e poi a seconda degli anni, quantità maggiori o minori, spesso esplicitamente indicate, di cavalli, muli e asini, e bufali e vitelli, buoi e mucche, castrati e arieti, pecore e capre («giovani capre» fruttano poco più di 3 ducati nel 1446-47, quando si preventiva di guadagnarne 100 dalla vendita di castrati, pecore e capre, e ben 225 da quella dei cavalli), per finire alle carni salate e alle pelli. E nella gerarchia dei valori di mercato che è possibile ricavarne, il primo posto tra il bestiame spetta indubbiamente ai cavalli, «giovani» o vecchi, «grandi» o meno. Nell’ultimo bilancio contabilizzato che ci è pervenuto, quello del 1448-49 (in cui è notizia tra l’altro della presenza a San Leonardo di 6 dei 12 «signori dell’Ordine che portano la croce» registrati nelle commende pugliesi), nelle «riserve di bestiame» inventariate ci sono 11 cavalli da sella, «sia “buoni” che “cattivi”» (altri 4 ne sono stati venduti nel corso dell’anno, per poco più di 45 ducati); e poi 109 buoi da tiro, 860 maiali e maialini, 6 asini, 1 mulo giovane, 2 muli da soma e 2 muli «(di trazione) nei mulini». Non ci sono gli ovo-caprini, citati invece nel bilancio dell’anno precedente, né mucche, né vitelli, e il parco animali non appare numeroso: segno di una tendenza al calo del patrimonio zootecnico, o piuttosto un bilancio meno puntuale, frutto di un anno che sappiamo particolarmente difficile per l’azienda sipontina? Soffermiamoci ora sui dati relativi ai lavori e ai prodotti dei campi: naturalmente grano e orzo in primo luogo, sempre prodotti tranne il caso del 1446-47, quando il raccolto è andato distrutto «nel campo», ed è invece notizia di una «raccolta delle ferole» per la quale si spendono 5 ducati (sugli 82 che compongono la voce delle uscite per la «masseria di campo»). Annotiamo che nel rendiconto che abbiamo considerato medio si precisava che la somma complessiva, 363 ducati, 3 tarì e 10 grani, era stata spesa per retribuire 1.084,5 salari giornalieri ai mietitori di grano, a misura di 18 grani a giornata per lavoratore, e 1.033 salari giornalieri ai mietitori di orzo, a misura di 16 grani a salario: in questo, come in quasi tutti gli altri anni rendicontati, il salario è sempre più alto per i mietitori di grano. Salario alto? Salario basso? Altrove mi sono occupato dei salari dei mietitori nell’altra grande azienda teutonica di Capitanata, concludendo che «nel giro di un quinquennio, tra 1437 e 1442, il salario giornaliero di un mietitore assunto dai Teutonici di Corneto-Torre Alemanna passa da 20 a 25 grani,


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aumentando praticamente di un quarto6. La media dei salari dei mietitori di San Leonardo non si discosta molto da quei valori, e in qualche caso giunge a risultare leggermente più alta: nel 1443-44 è di 17 grani per i mietitori di grano (15 grani a Corneto), e 13 per quelli di orzo (come a Corneto), e l’anno successivo è di 18 per i primi (17 a Corneto) e 15 per i secondi (come a Corneto); e si potrebbe continuare. Ma soprattutto va osservato che se a San Leonardo il salario per quei lavoratori nel decennio 1433-43 si mantiene costantemente sui 20 grani – tranne nell’annata 143738, quando è stabilito in 18 grani ai mietitori di grano e 14 a quelli di orzo – e tocca anzi il suo picco più elevato nel 1441-42, quando raggiunge 1 tarì e mezzo sia per il grano che per l’orzo, conosce poi una tendenza al ribasso negli anni successivi, quando raggiunge a malapena i 18 grani, e tocca il minimo nel 1447-48, con 15 grani ai mietitori di grano e 12 a quelli di orzo. In qualche caso ai lavori di mietitura e a quelli di trebbiatura (per questi ultimi è raro trovare l’indicazione della retribuzione, che sappiamo pari a 1 tarì a carro nel 1433-34) si aggiunge qualche cenno sui lavori di aratura e specialmente su quelli di riempimento e svuotamento delle fosse granarie. Anche sulla strumentazione agricola poche indicazioni, e nessuna esplicita sulle tecniche produttive. Nel rendiconto del 1448-49, dove si registra la vendita di 14 paia di buoi per un importo di 204 ducati, sono inventariati 9 aratri, quasi certamente in ferro, come l’aratro dell’azienda di Corneto (siamo nel 1443-44) il cui coltro è affidato in riparazione ad un fabbro, dietro versamento di 20 tomoli di grano: ed è tutto. Le tabelle 2 e 3 danno conto delle voci, anno per anno e nell’ordine, relative alla presenza in magazzino di grano e orzo residuo dell’anno precedente, alle quantità seminate, alla produzione dell’anno, alle quantità destinate al consumo della casa, a quelle guastatesi – o comunque inutilizzabili – e a quelle vendute, all’incasso in ducati dei carri venduti, al prezzo di vendita del singolo carro, alla quantità rimasta in magazzino e al prezzo previsto per ogni carro da vendere. Le oscillazioni nelle rese, come si può notare, sono notevoli: per il grano, si va dal minimo del 1433-34, con 54 carri di raccolto a fronte di 8 carri seminati (dato generalmente costante), al massimo del 1443-44, con 216 carri di raccolto rispetto a 10 di semina, e sempre in quell’anno si registra il massimo di raccolto anche di orzo, 132 carri, ma manca l’indicazione della quantità seminata. Non a caso si tratta dello stesso anno in cui si verifica la maggior quantità di grano ed orzo inutilizzabile, rispettivamente 15 e 13 carri; ed è curiosamente ambigua la

6 R.

LICINIO, Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV cit., p. 193.


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motivazione appuntata a proposito del grano, «15 carri utilizzati per alimentare polli e piccioni, compreso il grano che si è guastato nelle fosse e quello che vi è stato rubato». Più sicura la spiegazione sulla quantità di orzo che non è stato possibile utilizzare: «13 carri rubati dai ladri dalle fosse a Manfredonia». Insomma, una produzione così elevata da non passare inosservata e da suscitare interessate attenzioni: i ladri, ma anche le richieste degli ufficiali regi, con il viceré che si fa regalare un carro di orzo, e il viceconte che se ne fa regalare un altro, e quattro «ufficiali dei fanti» che ne ottengono un carro e mezzo «per nutrire i loro cavalli durante la guerra». E i Teutonici sipontini, che hanno dovuto inviare altri 62 carri di orzo all’azienda di Torre Alemanna, e non hanno potuto accedere alle fosse cerealicole a causa della guerra, si vedono costretti, proprio nell’anno di massima produzione, a rivolgersi anche al mercato per acquistare altri 3 carri e mezzo di orzo. Anche i prezzi reali di vendita dei cereali sono soggetti a un’oscillazione che dal massimo di oltre 16 ducati al carro (1440-41) scende ad un minimo di 4 per il grano (1448-49). L’oscillazione riguarda anche i prezzi dei preventivi di vendita inseriti in bilancio: dai 15 ducati per carro nel 143536 si passa ai 5 degli anni tra 1445 e 1449. A determinare queste variazioni sono fattori ben individuabili, la quantità di raccolto, il periodo della vendita, gli eventi bellici, la presenza nelle fosse di cereali vecchi o andati a male, le razzie dei predoni, la peste, e variabili che spesso ci sfuggono: non si può concludere con certezza che si è di fronte ad un meccanismo analogo a quello che riguarderà le masserie di età moderna, quando la presenza di bassi prezzi di vendita del grano si tradurrà in una diminuzione dell’area coltivata a cereali, ma nemmeno si può ipotizzare con certezza il contrario, ovvero che a prezzi bassi dei cereali corrisponda sempre la tendenza ad estendere l’area coltivata. Ancora una volta le conclusioni rimangono aperte su tutta una serie di questioni. Ma alcuni elementi già individuati in precedenti analisi sembrano ora confermati, a partire dalla definizione dell’azienda teutonica di San Leonardo come grande azienda produttiva di tipo misto, in cui cerealicoltura e allevamento convivono e si supportano a vicenda, senza tuttavia che i confini di quel binomio riescano mai ad allargarsi verso un’agricoltura comprensiva anche di altre colture, di campo o legnose. Ma a differenza dell’altra casa teutonica di Capitanata, Corneto-Torre Alemanna, a sua volta definibile come grande azienda mista, la San Leonardo quattrocentesca sembra avviata in misura ancora più netta verso l’allevamento. E con le altre quattro aziende teutoniche del periodo in Puglia, ognuna con carat-


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teri e funzioni specifiche, forma una rete organica in cui si stabiliscono e funzionano interrelazioni economiche, scambi, interventi di sostegno, senza tuttavia che l’insieme giunga mai a farsi pienamente sistema (per quanto ad esso tenda), un sistema capace di superare i limiti dell’autoconservazione, e naturalmente della necessaria appartenenza identitaria. E, ancora una volta, diventa difficile parlare di elevati reinvestimenti in agricoltura degli utili. Le uscite riguardano in misura consistente le spese di gestione, ordinaria e straordinaria, piuttosto che le spese di investimento in grado di garantire innovazioni produttive e indicare nuovi obiettivi di crescita economica: perché gli aranceti, forte segno distintivo della produzione dell’azienda teutonica di Brindisi, restano confinati nel territorio brindisino?; perché l’arboricoltura e l’agricoltura intensiva non vengono prese in considerazione, a Siponto? Non è certo il clima, ma una precisa scelta produttiva, ad impedirne l’avvio nel Foggiano o nel Barese, una scelta conseguente ad un’economia che si adatta all’esistente – il che non è in sé un valore negativo – senza porsi il problema di una sua trasformazione. Ecco, anche verso la metà del Quattrocento le aziende agricolo-pastorali dell’Ordine in Capitanata, ormai sganciate dall’originaria necessità di definirsi e funzionare come avamposti coloniali in funzione dell’Oriente crociato, mostrano una forte capacità di adattamento all’economia del territorio, e ben può dirsi anzi che contribuiscono al quadro economico agropastorale locale. Ne sono certo una componente fondamentale, un pilastro, più che un motore propulsivo indirizzato all’innovazione e alla trasformazione, in una parola allo sviluppo. I punti deboli di quel sistema economico fondato su un binomio antico e radicato, in realtà, sono esattamente i punti forti dell’economia di San Lorenzo di Siponto come di Corneto-Torre Alemanna.


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Somme espresse in ducati, tarì (5 tarì = 1 ducato) e grani (20 grani = 1 tarì)

Tav. 1 - San Leonardo di Siponto. Rendiconti dal 1433-34 al 1448-49


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* venduto per 16 ducati il grano percepito come terratico; ยง = guastati o rubati; ^ seminati o regalati

Tav. 2 - San Leonardo di Siponto. Produzione e vendita del grano


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** 55 tomoli d’orzo venduti a un privato per 8 ducati circa § = guastati o rubati; & = venduta quantità imprecisata di crusca; # = in parte foraggio per i cavalli

Tav. 3 - San Leonardo di Siponto. Produzione e vendita di orzo

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I TEUTONICI IN TERRA DI BARI: ASPETTI DI STORIA ECONOMICA

Ancora a metà del Quattrocento i Teutonici erano presenti in ognuna delle tre grandi circoscrizioni in cui era suddiviso il territorio pugliese: in Capitanata erano dislocate le Commende di Corneto-Torre Alemanna e di San Leonardo di Siponto; in Terra di Bari le Case di Barletta e Bari; in Terra d’Otranto quella di Brindisi. Nel 1448, dopo una prima missione “ispettiva” nelle Case del Baliato pugliese affidata a Konrad di Kitzingen e Peter Heydemaher (testimoniati a Brindisi e Nardò), furono inviati nella regione dal maestro di Germania Jost di Venningen altri due visitatori, Hans Czenger, che morì nel corso della visita (nel 1448), e Thomas Reuss di Vienna. Il compito loro affidato, più che procedere ad una vera e propria revisione dei conti, fu quello di verificare e registrare, anno per anno a partire dal 1432-33, la documentazione contabile relativa ai bilanci di ognuna delle cinque Commende (e naturalmente di prender nota del comportamento religioso dei fratelli). Un’altra visita, ma “a distanza”, si ebbe poco più tardi, nel 1451: i visitatori in quel caso redassero l’atto a Venezia, limitandosi a raccogliere informazioni generali sulle Case pugliesi. Informazioni generali ma, fortunatamente per noi, non del tutto generiche: vi si registrarono le distanze tra i diversi possedimenti, il numero e i nomi dei Teutonici residenti, i dati numerici sul bestiame. Anche di quest’ultimo documento, come di quello del 1448, abbiamo ora l’accurata edizione e un’utile traduzione in lingua italiana nel fondamentale volume di Kristjan Toomaspoeg sulla contabilità teutonica nella Sicilia e nella Puglia del Quattrocento1. Va subito notato che il resoconto del 1448 è molto più particolareggiato di quello del 1451, sia pur in maniera differenziata per le diverse aree, e questo ci consente una serie di osservazioni più specifiche, sia in relazione all’attività economica (e non solo) delle singole Case, sia in rapporto ad 1 La contabilità delle Case dell’Ordine Teutonico in Puglia e in Sicilia nel Quattrocento, cur. K. Toomaspoeg, presentaz. di H. Houben, Galatina 2005.


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una necessaria comparazione tra le cinque strutture. Può dunque tracciarsi un quadro plausibile dell’economia dei Teutonici in Puglia: di quella delle due Commende di Capitanata ho avuto modo di trattare in due precedenti relazioni2. Mi occuperò qui solo degli aspetti economici delle due Case di Terra di Bari, Barletta e Bari, alla metà del Quattrocento, tralasciando per brevità il quadro economico relativo ai secoli precedenti, ma stabilendo riferimenti, quando necessario, con la Casa di Brindisi. La Tav. 1, in cui le somme segnalate per le singole voci si riferiscono nell’ordine a ducati, tarì e grani (nella Puglia dell’epoca 20 grani equivalgono a 1 tarì; 5 tarì equivalgono a 1 ducato), può consentire di cogliere con un sol colpo d’occhio le principali caratteristiche, sul piano quantitativo e delle capacità produttive, dei bilanci delle Case del Baliato. Come si può notare, non ci sono pervenuti purtroppo i dati relativi a Bari e Barletta per l’anno 1432-33, e quelli relativi a Bari e Brindisi per gli anni dal 1446-47 al 1448-49. Il che limita ma non impedisce la possibilità di rintracciare tendenze, elementi di continuità o di mutamento, linee di crisi o di sviluppo, che in questa sede cercheremo di sintetizzare in alcuni punti di fondo. 1. L’estrema concisione della contabilità relativa a Barletta e Bari, e di quest’ultima ancor più della prima. Tranne che negli ultimi anni rendicontati per la Casa di Barletta, le voci riguardano solo le entrate («Innemen eyn gancz jare»), le uscite («Ussgeben zu allen ampten»), e l’utile di gestione («Daruber pleybt») o Tesoro («Tresor»). Scarsi i riferimenti al magazzino, cioè alle risorse o riserve disponibili («Daz huss hat»), e praticamente nessun cenno alle entrate previste («Heuriger nuczung»), e dunque alla somma di queste due voci («Virdiger und heuriger nuczung), come invece è solitamente riportato nei bilanci delle due grandi aziende di Capitanata. 2. Anche i bilanci di Bari e Barletta, come quelli ben più circostanziati di Corneto-Torre Alemanna e San Leonardo di Siponto3, presentano in diversi casi errori di calcolo e somme motivate in maniera assolutamente generica (qualche esempio è in corsivo nella Tav. 1). 2 R. LICINIO, Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV, in L’ordine Teutonico nel Mediterraneo. Atti del Convegno internazionale di studio (Torre Alemanna [Cerignola]-Mesagne-Lecce, 16-18 ottobre 2003], cur. H. Houben, Galatina 2004, pp. 175195; LICINIO, Aspetti della gestione economica di San Leonardo di Siponto all’epoca dei Teutonici, in San Leonardo di Siponto. Cella monastica, canonica, domus Theutonicorum. Atti del Convegno internazionale di studio Manfredonia, (18-19 marzo 2005), cur. H. Houben, Galatina 2006, pp. 153-165 (n.d.r.: saggi qui ripubblicati rispettivamente alle pp. 85-106 e 107-121). 3 Ivi, pp. 154-156.


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Guardiamo il bilancio della Casa di Bari nell’anno 1435-36: la somma registrata in uscita nel bilancio è di 60 ducati e 3 tarì; quella reale, ottenuta sommando le singole voci delle uscite – lo ha puntualmente segnalato anche Toomaspoeg – è invece di 57 ducati e 3 tarì4. Dunque l’utile vero è non di 2, ma di 5 ducati. Un errore malizioso? Quel che è certo è che in altri casi avviene il contrario, registrando cioè utili più alti di quelli effettivamente ottenuti sommando le singole voci: così ad esempio a Bari nel 1434-35 l’utile segnato risulta di 2 ducati, quello reale invece è di 1 ducato e 4 tarì5. E ancora a Bari dieci anni dopo, nel 1444-45, è presente un errore per eccesso, l’unico che mi sembra sia sfuggito a Toomaspoeg: il totale delle entrate registrato è di 5 ducati e 1 tarì e mezzo6. Ma una semplice operazione di sottrazione delle uscite dalle entrate mostra che l’utile reale da registrare dovrebbe essere invece di 5 ducati e 1,5 grani. In realtà, nel rendiconto di quell’anno è sbagliato anche il totale delle uscite, che sommate risultano di 65 ducati, 1 tarì e mezzo e 16 grani, invece di 65 ducati, 1 tarì e 16 grani. Sicché il totale dell’utile dovrebbe essere ancora più basso di quello indicato: il che dimostra che, in questo caso almeno, lo sbaglio di calcolo non va interpretato come errore volontario e “malizioso”… Senza voler affrontare in questa sede un discorso puntuale sulla contabilità e sulle sue forme e procedure di registrazione in età tardomedievale, è opportuno tuttavia ricordare che nella prima metà del Quattrocento la formulazione dei conti economici e la loro registrazione nei libri contabili ha raggiunto livelli di precisione tecnica, congruità e attendibilità ben più elevati che nei secoli precedenti, grazie anche a vere e proprie scuole e botteghe di “formazione professionale” collegate alle grandi e medie compagnie mercantili. Certo, sul piano della contabilità come su quello del “giro di affari” l’Ordine teutonico non è assimilabile, se non in termini sommari e superficiali, ad una compagnia mercantile, né esso dispone di tecniche ed esperti paragonabili a quelli del mondo dei mercanti. D’altra parte, il documento che stiamo analizzando non aspira a svolgere le funzioni di un atto contabile di tipo commerciale: le motivazioni che sono alla base delle visite e dei controlli periodici attivati dai Teutonici nei possedimenti dei

4 La contabilità delle Case cit., p. 349, anno 1435-36, e nota 139, p. 391. In queste note richiameremo sempre le pagine della traduzione italiana del rendiconto teutonico; a fronte della pagina citata è sempre la corrispondente pagina di edizione del testo originale. 5 Ivi, p. 347, anno 1435-36; anche questo errore è segnalato da Toomaspoeg, La contabilità delle Case cit., nota 138, p. 391. 6 Ivi, p. 357, anno 1444-45.


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diversi baliati, le modalità non sempre rigorose di registrazione dei conti in entrata e in uscita, piuttosto che come un atto particolareggiato di rendicontazione lo qualificano come una sorta di brogliaccio più o meno esteso, come un promemoria o un “recipiente di dati”7 che, per quanto organizzato in voci e capitoli (per altro non sempre coerenti), è funzionale in sostanza a fornire una prima giustificazione, anno per anno, dell’attivo o del passivo di bilancio. Non è un caso che a volte8 esso si presenti in termini estremamente vaghi o sintetici, e soprattutto che non sia mai accompagnato da ricevute e quietanze, alle quali per altro in diversi casi non mancano riferimenti e rinvii. A questo tipo di promemoria non si chiede la precisione di un conto datiniano, né competenze più specifiche possono essere fornite al di fuori di una professionalità ormai sulla via dello specialismo. Sviste e inesattezze, vaghezza e confusione, imprecisioni tecniche ed errori formali, nel contesto della rendicontazione teutonica, fanno parte del “gioco”: l’importante è, alla fine, che almeno in linea di massima i conti tornino. 3. Le somme registrate, sia quelle in entrata che quelle in uscita, sono vistosamente le più basse (il che vale anche per Brindisi) tra quelle dei bilanci del baliato di Puglia. E Bari è la Casa che presenta solitamente il bilancio meno particolareggiato e l’utile meno elevato. La tabella riassuntiva 1 è molto esplicita: Bari ha le entrate, le uscite e gli utili più bassi, anzi, come si può notare, costantemente bassi, sicché per quella Casa non avrebbe senso stabilire una graduatoria di annate migliori o peggiori. Barletta invece presenta l’utile di gestione più alto nel 1436-37, con più di 87 ducati9; in realtà la sua annata migliore su questo piano risulterebbe virtualmente quella del 1443-44, quando al totale di poco più di 1 ducato si devono aggiungere altri 92 ducati di «debiti incerti», non contabilizzati negli anni precedenti10. Proprio queste entrate non contabilizzate fanno aumentare gli utili formalmente bassi degli anni dal 1440-41 al 144243. Ancora: l’annata più sfavorevole per Barletta appare l’ultima rendicon-

7 Il concetto di semplici “recipienti di raccolta di dati” in relazione alla prima fase di sviluppo dei libri contabili bassomedievali è di F.-J. ARLINGHAUS, Zwischen Notiz und Bilanz. Zur Eigendynamik des Schriftgebrauchs in der kaufmännischen Buchführung am Beispiel der Datini/di Berto-Handelsgesellschaft in Avignon (1367-1373), Frankfurt am Main 2000. Ma sul tema la bibliografia è numerosa. 8 Ad esempio per i rendiconti della Casa di Barletta degli anni dal 1439 al 1443: La contabilità delle Case cit., pp. 321-325. 9 Esattamente 87 ducati, 3 tarì, 12,5 grani: ivi, p. 315, anno 1436-37. 10 Ivi, p. 327, anno 1443-44: oltre ad 1 ducato e 11,5 grani di utile di bilancio di quell’anno, «Alla casa restano anche le seguenti risorse del periodo passato, degli anni IV, V e


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tata, quella del 1448-49, con appena 13 grani di utile dichiarato11: ma, anche qui, ci sono da aggiungere quantità di prodotti e derrate di magazzino il cui valore non viene monetizzato. Inutile puntualizzare, infine, che l’utile di gestione non è un parametro in grado di dar conto, di per sé, del volume complessivo delle attività svolte in un dato anno: un utile basso può indicare, come per Bari, scarse entrate e scarse uscite, o al contrario, come talvolta per Barletta, entrate rilevanti cui corrispondono rilevanti uscite. La Tav. 1 dà conto chiaramente di questo valore relativo dell’utile annuo. 4. Tra le entrate, una quota cospicua proviene da censi di natura immobiliare, dagli affitti delle terre, dalla rendita in denaro e natura sui beni posseduti (mentre non sono citati esplicitamente i censi in attività lavorative): il 26% del totale per Barletta, su un patrimonio di beni, stando al documento della visita nel Baliato pugliese, dislocato in gran parte a Barletta, Trani, Bisceglie, Molfetta – si noti, tutte città portuali –, e addirittura il 93% per Bari12, per beni posti a Bari, Bitonto, Rutigliano, Polignano: tranne Bari, tutte località dell’interno. Non intendo sostenere, evidentemente, che i beni di Barletta fossero dislocati tutti lungo la fascia costiera e subcostiera – censi da locazioni provengono anche da località molto lontane dalla costa come Spinazzola – né che i beni posseduti dalla Casa di Bari si trovassero solo in località dell’interno. Ciò precisato, ha senso tuttavia sottolineare in qualche misura, nel rapporto tra le Commende e il loro territorio, una tendenza che andrebbe approfondita e meglio specificata, certamente innanzi tutto in relazione alla gerarchia insediativa del periodo, che vede Barletta sopravanzare Bari sul piano demografico-residenziale e su quello delle funzioni portuali, ma anche in relazione alla connotazione e diversificazione sociale della popolazione, alle tipologie della proprietà rurale, al più generale rapporto tra costa e interno nel territorio della Terra di Bari.

VI [dal 1440-41 al 1442-43], che non erano state contabilizzate». Segue l’elenco dei debitori, alcuni dei quali nel frattempo deceduti, per un totale di 92 ducati, 4 tarì e 15 grani; il debito più alto riguarda l’«abate della Marra», per 46 ducati; il più basso Martino Fornario, morto nel frattempo, per 2,5 tarì. 11 Ivi, p. 343, anno 1448-49. 12 TOOMASPOEG, Introduzione, in La contabilità delle Case cit., grafico n. 30, p. CXXVII, e grafico n. 25, p. CXXV per Barletta. Degli utili grafici che corredano il lavoro curato da Toomaspoeg ci serviremo anche nei successivi paragrafi, in relazione alle percentuali complessive delle voci in uscita e in entrata delle due Case di Terra di Bari.


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Nelle voci relative alla riscossione dei censi, qui sintetizzati nei dati della Tav. 4, non vengono forniti i nomi dei singoli affittuari, che pure dovevano essere ben noti ai redattori dei rendiconti annui: ci rimangono dunque ignote le tessere (piccola proprietà contadina, enfiteuti, ceti artigianali) che definivano il mosaico delle relazioni tra popolazione locale e Teutonici, così come ci sfugge la dislocazione territoriale dei beni dell’Ordine. Almeno, possiamo rilevare che ad essere concessi in locazione, oltre alle terre e agli immobili, sono anche – e naturalmente – le fosse cerealicole e i carri da trasporto, che procurano entrate notevoli: oltre 9 ducati a Barletta nel 1433-34; ed è attestato due anni dopo il guadagno di 4 ducati per il trasporto di legname dal bosco teutonico di Melfi13. Infine, ma non mi è dato trattarne diffusamente in questa sede, va considerata la considerevole incidenza nei bilanci della Casa barlettana delle attività finanziarie, dei prestiti e dei debiti. In tutta la Puglia, ha calcolato Toomaspoeg, tra 1433 e 1449 questo tipo di attività, cui vanno aggiunte le donazioni in denaro e in prodotti, produsse un’entrata complessiva per il Baliato teutonico di più di 35.500 ducati, a fronte di un’uscita di soli 15.000 ducati. Va sottolineato per altro, a proposito dei debiti e dei rimborsi di denaro registrati nel nostro documento, che in realtà «si tratta di una voce ambigua che include sia le somme rimborsate all’Ordine dai suoi debitori, sia il denaro che gli stessi Teutonici, nei periodi di mancanza di liquidità, furono costretti a prendere in prestito e che si contabilizzò fra le entrate del baliato»14. In questo àmbito, Barletta svolge un ruolo centrale, collocandosi all’interno di una spessa e costante rete di rapporti con le due Case di Capitanata: nell’anno 1437-38 oltre 227 ducati sono «sborsati per San Leonardo», e più di altri 3 per Corneto; nel 1441-42 riceve in prestito dalla prima 31 ducati; tre anni più tardi incassa il rimborso di oltre 71 ducati «fatti prestare dal luogotenente a San Leonardo», verso la quale escono anche, contemporaneamente, circa 6 ducati; nel 1446-47 si fa prestare oltre 14 ducati da San Leonardo, e altri 12 da Corneto15. Si tratta in effetti di una rete di rapporti che, alimentata anche da scambi di carri di grano, orzo e altri prodotti, è sistematica e “sistemica”, ma che non si allarga mai sino a coinvolgere l’economia di altri Baliati teutonici. Il “sistema”

13 La contabilità delle Case cit., p. 307, anno 1433-34, e p. 313, anno 1435-36. 14 TOOMASPOEG, Introduzione, ivi, p. LV, e p. LVI per i totali della voce. 15 La contabilità delle Case cit., rispettivamente p. 317, anno 1437-38: 227 ducati, 2 tarì

e 3 grani per San Leonardo, e 3 ducati, 2 tarì e 13 grani per Corneto; p. 323, anno 1441-42, 31 ducati; p. 327, anno 1444-45, 71 ducati e 3 tarì in entrata, e p. 329, 6 ducati e 3 tarì in uscita; p. 335, anno 1446-47, 14 ducati e 2,5 tarì da San Leonardo, e 12 da Corneto.


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delle aziende teutoniche pugliesi, in sostanza, funziona solo come sistema regionale. 5. Il peso dell’insieme delle attività produttive agro-pastorali, connotato distintivo delle Commende teutoniche di Capitanata, al confronto con queste ultime si presenta in termini estremamente più ridotti a Barletta (il 55% di un totale di entrate che sono spesso un terzo di quelle di Capitanata), e quasi inesistenti a Bari, dove si registra un misero 3% determinato dalla vendita dell’olio. Più esattamente, la vendita di olio appare nei rendiconti della Casa barese solo negli anni compresi tra il 1441 e il 1444, riguarda un totale di 5 salme di olio16, e frutta complessivamente 23 ducati, con un prezzo medio di poco più di 4 ducati a salma e un picco più elevato (5 ducati a salma) nel 1442-43 (Tav. 4). Francamente, ci saremmo aspettati da Bari una produzione meno “marginale”, che appare ancora più deludente se si considera che ben 3 salme su 5 sono registrate nel 144142 come olio venduto nei precedenti quattro anni e non ancora contabilizzato. Solo dai possedimenti di Ostuni, la Casa teutonica di Brindisi nel 1433-34 aveva ricavato 6 salme di olio, vendute a 24 ducati, e l’anno successivo altre 2, vendute a 10 ducati17. E nella stessa Barletta un decennio più tardi troviamo immagazzinate riserve di olio, «sia vecchio che nuovo», con 7,5 stai di olio «provenienti da Molfetta, destinati alla chiesa e alla cucina»18. 6. A Barletta i prodotti agroalimentari venduti, pari al 55% delle entrate, interessano per il 54% il settore pastorale e dell’allevamento (bestiame grosso e minuto, carni, formaggi e ricotta, lana, pelli, uova e sego19), per il 16 Ivi, p. 353, anno 1441-42, 13 ducati e 3 tarì per 3 salme d’olio «che non erano state riscosse per 4 anni»; p. 355, anno 1442-43, 5 ducati per 1 salma d’olio, e anno 1443-44, 4 ducati e 2 tarì per 1 salma. 17 Ivi, p. 365, anno 1433-34 (nello stesso anno a Brindisi sono vendute anche altre quantità di «olio vecchio» misurato però in stai, p. 363); p. 367, anno 1434-35. 18 Ivi, p. 329, anno 1444-45; nel rendiconto del 1448-49, p. 341, tra le entrate dei censi si registrano 5 ducati e uno staio e mezzo di olio proveniente da Molfetta, che (con il Bitontino) si conferma tra le località a più intensa olivicoltura. Sui luoghi di produzione, sulle unità di misura e sulle diverse qualità di olio attestate nella Puglia del secolo XV cfr. R. LICINIO, Uomini e terre nella Puglia medievale. Dagli Svevi agli Aragonesi, Bari 1983 (n.d.r.: rist. Bari 2009, prefaz. G. Cherubini), pp. 75-81. Più in generale sulla olivicoltura vedi ora i saggi pubblicati in Olivi e olio nel Medioevo italiano, cur. A. Brugnoli - G.M. Varanini, Bologna 2005. 19 Il riferimento al sego è nel rendiconto dell’anno 1439-40, quando dalla sua vendita è registrato un incasso di 4 tarì e 7,5 grani: La contabilità delle Case cit., p. 321; quello alle uova è nel rendiconto del 1445-46, con un incasso di 2 ducati e 22 tarì: ivi, p. 331.


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restante 46% i prodotti della terra, cereali, “erba” (fieno, foraggio, ma anche entrate dal pascolo), frutta, olio, vino, e lino «lavato in un fiume detto Ofanto» (la Casa barlettana ne deve ricevere un terzo, pari a 4 rotoli o 8 decalitri)20, e nel 1447-48 anche “meloni” coltivati nei giardini davanti la chiesa barlettana di San Tommaso21. Ricordo qui che la chiesa barlettana di San Tommaso, poi detta “la Magione”, è in assoluto il primo insediamento teutonico in Puglia: già tenuta dai cistercensi, era stata donata ai Teutonici nel 1197 dall’imperatore svevo Enrico VI, poco prima della sua morte22. E proprio il Barlettano, più del Barese e non solo rispetto ai possedimenti teutonici, appare caratterizzato da un’economia agricola più aperta alla policoltura, in un quadro produttivo in cui coesistono cerealicoltura, vigneti, frutteti, orti, giardini, coltura del lino, e con un parco animali in cui trovano posto anche le anatre23. Un modello economico, in sintesi, meno dipendente dal binomio monocoltura cerealicola-pastorizia, come si verifica invece in Capitanata, ma anche molto meno vantaggioso dal punto di vista delle entrate e degli utili. Un dato spesso in grado di illuminare il quadro economico complessivo è quello relativo al prezzo di vendita del grano e dell’orzo, che possediamo solo per la Casa di Barletta, e non per tutte le annate (Tav. 2). Si può notare come la maggiore quantità di cereali venduta, 14 carri e 32 tomoli di grano, 17 carri e 10 tomoli di orzo, sia stata registrata nella prima annata del rendiconto24. Ma mentre per l’orzo, venduto al prezzo di 5 ducati e 2 tarì per ogni carro, si ha in quell’anno l’entrata più alta di tutto il rendiconto, pari a 91 ducati e 1 tarì, per il grano il maggior guadagno si verifica nell’anno successivo, quando da 12 carri si ricavano più di 146 ducati25. In quest’ultimo caso si può calcolare un prezzo di vendita di ogni carro di grano che supera, sia pur di poco, i 12 ducati, praticamente il doppio rispetto all’anno precedente, quando era stato annotato un prezzo di 6 ducati e 1 tarì per ogni carro. Allo stesso modo, il prezzo di vendita del20

Ivi, p. 345, anno 1448-49. Ivi, p. 333, anno 1446-47, per la vendita del lino per una somma pari a 3 ducati e 3 tarì. 21 Ivi, p. 335, anno 1447-48. 22 H. HOUBEN, La presenza dell’Ordine Teutonico a Barletta (secc. XII-XV), in Barletta crocevia degli Ordini religioso-cavallereschi medievali. Seminario di Studio (Barletta, 16 giugno 1996), Taranto 1997, pp. 23-50: intorno a quella chiesa si era progressivamente formato un vero e proprio “quartiere teutonico”. 23 La contabilità delle Case cit., p. 335, anno 1447-48: tra le «entrate degli uffici» appare la somma di 4 ducati, 3 tarì, 5 grani «dal lago dove si allevano le anatre»; per Toomaspoeg, p. 391, si tratta in realtà di uno stagno. 24 Ivi, p. 309, anno 1433-34. 25 Ivi, p. 311, anno 1434-35.


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l’orzo nel 1434-35, poco meno di 7 ducati al carro, è più elevato di quello dell’anno precedente: ma il guadagno complessivo per questa voce, come si è visto, è in termini assoluti inferiore, dal momento che di orzo si vendono solo 6 carri, a fronte dei 17 dell’annata precedente26. Per gli anni successivi non sono possibili calcoli precisi, perché le quantità vendute sono spesso indicate in termini generici, né tanto meno seriali, perché per tutto il periodo dal 1438 al 1444 non si registra alcuna vendita di cereali. Si può annotare rapidamente che nel 1436-37 si ottengono 60 ducati e 3 tarì dalla vendita di 6,5 carri di grano, con un prezzo di circa 10 ducati a carro, che diminuisce a meno di 7 ducati a carro nel 1445-46 (si ricavano 73 ducati da 11 carri di grano), per poi crollare a meno di 3 ducati nel 1448-49 (22 ducati da 8 carri di grano), una parabola discendente che non risparmia l’orzo27. Più interessante è il fatto che a partire dal rendiconto del 1444-45 si indichino – come annualmente è fatto nei bilanci delle aziende di San Leonardo di Siponto e di Corneto-Torre Alemanna – le riserve di grano e orzo, destinate le prime alle necessità della Casa barlettana e alla semina, le seconde «alla stalla». Apprendiamo così che dei 5 carri e 26 tomoli di grano in magazzino, solo 1 carro e 26 tomoli sono il frutto del terratico locale: degli altri 4 carri, 3 provengono dalla Casa di San Leonardo, e 1 da quella di Corneto-Torre Alemanna28. L’anno successivo, ancora grazie all’indicazione dei cereali immagazzinati, un’altra informazione di grande interesse: su 22 carri, 3,5 salme e 2,5 tomoli di grano inseriti in quella voce, solo 16 salme sono prodotte sui campi della Casa, mentre il terratico si attesta su 6 carri, 3,5 salme e 3 tomoli; e su 9 carri, 8 salme e 6 tomoli che costituiscono le “riserve” di orzo, solo 8 salme sono di produzione propria, mentre il terratico raggiunge 18 salme e 6 tomoli29. Infine, dalle riserve di cereali del 1447-48 risulta che 57 tomoli di grano (su 20 carri e 56 tomoli di produzione propria), e 1 carro e 20 tomoli di orzo (su 8 carri e 54 tomoli di produzione propria), sono stati seminati quell’anno30. Ricavare da queste cifre, anche in via ipotetica, la superficie dei terreni coltivati a cereali e le rispettive rese è impresa impossibile: accontentia-

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Ibid., 29 ducati e 2 tarì da 4 carri di orzo, più 12 ducati da 2 carri (p. 313). Ivi, rispettivamente p. 315 per l’anno 1436-37; pp. 332-333 per l’anno 1445-46; p. 341 per l’anno 1448-49. 28 Ivi, p. 329, anno 1444-45. 29 Ivi, p. 333, anno 1445-46. Analoga indicazione nel rendiconto dell’anno 1448-49: dei 12 carri e 13 tomoli che costituiscono le riserve di grano, 11 carri sono di produzione propria; e dei 15 carri e 23 tomoli di orzo, 15 carri sono di produzione propria. 30 Ivi, p. 337, anno 1447-48.


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moci di far emergere, dalla massa di dati – non sempre in grado di rispondere alle nostre domande – contenuti nel rendiconto del baliato di Puglia, la semplice notizia della quantità complessiva di cereali seminati in un dato anno, informazione che non ci è data ad esempio a proposito dei fagioli, gli unici legumi secondo il nostro rendiconto coltivati (o commercializzati?) sulle terre teutoniche del Barlettano (sono invece del tutto assenti in quelle del Barese). Sappiamo (Tav. 3) che nel primo anno rendicontato, il 1433-34, sono venduti 141 tomoli di fagioli, al prezzo di 1 tarì per ogni tomolo, per un incasso totale di 28 ducati e 19 grani31. Quel prezzo unitario appare stabile negli anni seguenti, almeno in quelli in cui il prodotto è posto in commercio, tranne nel 1446-47, quando se ne vendono 50 tomoli per un incasso di soli 5 ducati, pari a 10 grani a tomolo: un prezzo di vendita diminuito del 50% rispetto a quello usuale32. Il dato non deve sorprendere troppo. Gli anni compresi tra il 1439 e il 1444 rappresentano per l’economia della Casa barlettana – e ancor più per quella della Casa barese – un periodo tra i più difficili e meno positivi sul piano produttivo. È in corso una guerra dinastica che si combatte anche in Puglia, aggravata da banditismo, razzie e scorrerie di predoni, e c’è un ritorno di fiamma di malattie come la peste; a tutto questo l’economia cerealicola e quella pastorale pagano un prezzo che la ciclicità dei fenomeni in corso non rende meno lieve. Ed ecco ridursi sino in qualche caso a scomparire del tutto, nei rendiconti barlettani (Tavv. 2 e 3), voci come la vendita di grano (riprenderà nel 1445-46, con un ricavato che da 73 ducati andrà progressivamente calando sino ai 22 ducati del 1448-49)33 e di orzo, di fagioli e di lana, il prodotto di maggior valore della pastorizia ovina (a Barletta, la lana consente un’entrata di oltre 60 ducati nel 1438-39, ma dopo quella data non appare più commercializzata)34, di formaggi e ricotta (dopo il ricavo di poco più di 1 ducato ottenuto nel 1439-40 dalla vendita del solo formaggio, anche questa voce scompare dalle entrate)35, pelli 31 Ivi, p 309, anno 1433-34: convertito in tarì, l’incasso risulta effettivamente di 141 tarì

meno 1 grano. 32 Ivi, p. 333, anno 1446-47. 33 Ivi, p. 331, anno 1445-46 (73 ducati ricavati dalla vendita di 11 carri di grano); p. 341, anno 1448-49 (22 ducati da 8 carri di grano). 34 Ivi, p. 319, anno 1438-39 (60 ducati, 4 tarì, 3 grani). Sulla produzione e circolazione della lana pugliese conviene richiamare, oltre il datato G. DE GENNARO, Saggi di storia economica (sec. X-XVII), Bari 1972, spec. pp. 95-130, il lavoro di J.A. MARINO, L’economia pastorale nel Regno di Napoli, Napoli 1992 (ediz. orig. Baltimore 1988). 35 La contabilità delle Case cit., p. 321, anno 1439-40; l’anno precedente, p. 319, si era invece ricavato un totale di 60 ducati, 3 tarì e 2 grani dalla vendita del formaggio, e di 30 ducati, 2 tarì e 5 grani dalla vendita della ricotta.


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bovine e ovine (nel 1438-39 si erano vendute 296 pelli di pecora, ma dopo il picco positivo dei 16 ducati guadagnati l’anno successivo, la vendita del pellame torna ad essere registrata esclusivamente e genericamente nel 1444-45)36. Aumenta invece – e sarebbe semplicistico ma non del tutto improprio collegare il dato all’inclemenza dei tempi – la produzione e il consumo di vino, presente nei bilanci barlettani a partire dal 1442-4337. Notiamo al proposito che, stimato 1 ducato a salma due anni più tardi38, il vino è venduto successivamente ad un prezzo in calo non eccessivo ma costante (Tav. 4). E soprattutto notiamo che nel 1448-49, quando 13 salme vengono vendute a 8 ducati e 3 tarì, pari a poco più di 3 tarì per salma, il bilancio registra per la prima volta riserve di vino, per un totale di 116 salme, tutte prodotte nei vigneti della Casa, e tutte però riportate anche in detrazione. In particolare, vi si dichiara che di quelle 116 salme, 51 sono state «consumate nella Casa», 13 sono state vendute, 40 sono state inviate a San Leonardo di Siponto, e altre 12 sono state genericamente «spese»39: insomma, si tratta di riserve praticamente “virtuali”. Nemmeno si può esser certi della qualità del vino prodotto e immagazzinato, se è vero che, nel penultimo anno di rendiconto barlettano, dalle riserve di vino, calcolate in 34 salme, si devono sottrarre 26 salme «stimate in mosto» e 8 salme «d’acquata che si sono guastate nel barile»: anche in questo caso, il vino in magazzino è solo virtuale40. 7. Rispetto al totale delle uscite, il settore delle attività agricole propriamente detto è interessato per una quota pari al 20% a Barletta, e solo dell’1% a Bari (cui va aggiunto un 10% per interventi sulla stalla e su un mulino: ma il totale rimane pur sempre basso); l’acquisto del bestiame incide sul 2% delle uscite a Barletta, mentre non è presente a Bari. 36 Ivi, p. 319, anno 1438-39 (12 ducati e 1,5 tarì da 296 pelli ovine); p. 321, anno 123940, 16 ducati e 18 grani dalla vendita di una quantità non specificata di pelli di pecora; p. 327, anno 1444-45, «2 ducati, 3 tarì dalla vendita delle pelli», senza ulteriori specificazioni. 37 Ivi, p. 325, anno 1442-43: si vende vino in una quantità non indicata per un incasso di 18 ducati e 4 tarì; nello stesso anno si spendono 5 ducati e 5 grani «per le vigne». 38 Ivi, p. 329, anno 1444-45: si ricavano appunto 32 ducati dalla vendita di 32 salme di vino. 39 Ivi, p. 345, anno 1448-49; la motivazione di uscita delle 12 salme di vino, lo nota giustamente Toomaspoeg, p. 391, appare vaga e indecifrabile. 40 Ivi, p. 341, anno 1447-48. L’«acquata» è un vinello ottenuto aggiungendo dell’acqua al vino o al mosto in fermentazione. Complessivamente, la produzione di vino nei vigneti dei Teutonici pugliesi non è sufficiente a garantire il loro consumo; così il rendiconto deve specificare che spesso Peter Mendel, che «habita nella Casa» di Bari e se ne occupa con la


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Aggiungiamo qui solo un dato, anzi una conferma: anche nella Puglia del Quattrocento, gli animali da allevamento più pregiati, quelli che procurano gli utili di gran lunga maggiori, sono i cavalli. Il loro prezzo di mercato è, da secoli, costantemente elevato, e la vendita di qualche equino costituisce spesso la voce di maggior entrata anche per le Case di Terra di Bari. Così, da parte della Casa barlettana, 48 ducati sono incassati nel 1447-48 dalla vendita di 3 cavalli, a fronte di circa più di 108 ducati ricavati dalla vendita di 17 buoi, e 23 ducati sono incamerati l’anno successivo da quella di un solo cavallo41. Ovviamente, elevati sono per i Teutonici i prezzi di acquisto degli equini: nel 1444-45 a Barletta si spende una somma superiore a 41 ducati per acquistare 4 cavalli, di cui uno definito «piccolo»; e Bari, che invece degli asini o dei muli (come nelle strutture di San Leonardo) utilizza gli equini “nobili” nel suo mulino (con la stalla, è la voce che assorbe una percentuale non irrilevante delle sue uscite), nel giro di due anni deve sborsare 19 ducati per l’acquisto di due cavalli «da traino»42. Si tratta di un mulino da grano, o piuttosto di un trappeto o frantoio a forza animale, struttura “classica” dell’olivicoltura pugliese? 43. A parte gli animali da cortile, quelli di minor valore unitario risultano, nel mercato del bestiame minuto, gli ovini e i caprini. La singola pecora, viva o macellata, vale in genere relativamente poco, ed acquista un valore sensibile solo quando se ne acquistano o se ne vendono decine di capi: sono i grandi numeri a dar valore alle greggi ovine – e ai prodotti che se ne ricavano, dalla lana ai formaggi – delle aziende di Corneto-Torre Alemanna e San Leonardo di Siponto. In quella di Barletta la situazione non è altrettanto florida: la cifra di 1.644 pecore presente nel bilancio del 143435 (è questo l’unico dato quantitativo sugli ovini che per Barletta ci sia stato trasmesso dal documento), quasi impallidisce di fronte alle 4.355 fra moglie, è costretto a ricorrere all’acquisto di vino da produttori esterni: ivi, p. 357, anno 1443-44 e seguenti. 41 Ivi, rispettivamente p. 337, anno 1447-48 (108 ducati e 4,5 tarì dai buoi), e p. 341 per l’anno 1448-49. Altri esempi sono possibili, precisando tuttavia che spesso non è indicata la quantità di cavalli venduti. Su «2 muli [di trazione] nei mulini» di San Leonardo di Siponto: ivi, p. 187, anno 1448-49. 42 Ivi, rispettivamente p. 329, anno 1444-45: la spesa di 41 ducati, 4 tarì e 17 grani è però comprensiva anche di spese «per la stalla»; p. 355, anno 1441-42, 11 ducati «per un cavallo da traino nel mulino», più 9 ducati e 2 tarì per l’acquisto di «2 nuove macine»; p. 357, anno 1442-43, 8 ducati per un altro cavallo da traino. 43 Sull’argomento si veda, tra gli altri, LICINIO, Uomini e terre cit., pp. 98-104, e H. SCHÄFER-SCHUCHARDT, Trappeti in terra di Bari in età sveva e protoangioina, in Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina. Atti del convegno (Bitonto 1987), cur. F. Moretti, Bitonto 1989, pp. 187-198. Per la loro rilevanza tipologica, le strutture studiate da Schäfer-


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pecore e capre «sia giovani che vecchie» conteggiate nel 1442-43 dalla Casa di Corneto44. Di greggi ovine o caprine possedute dalla Casa barese, invece, nessuna traccia numerica. 8. Le spese per l’autoconsumo (comprese le voci su cantina e cucina) sono pari al 12% delle uscite a Barletta, al 14% a Bari. Quelle per i lavori edili rappresentano in totale il 6% a Barletta, il 3% a Bari. Se scorporiamo questo tipo di uscite secondo le singole voci, apparirà chiaro che gran parte delle spese sono assorbite dal consumo e dal sostentamento del commendatore teutonico a Barletta, con una punta massima di oltre 27 ducati spesi nel 1336-37, e del commendatore e poi del luogotenente a Bari, per il quale è segnata un’uscita – solitamente costante – di 24 ducati all’anno: somme che aumentano di fronte a eventi contingenti, ad esempio le spese per i medicinali e poi quelle relative alla morte del visitatore Hans Czenger, ma anche gli obblighi di ospitalità, come quando a Barletta giungono «dei fratelli che sono arrivati da Venezia, ovvero del signor Peter di Kitzingen», o quando a Bari si presenta il luogotenente con un seguito di 5 cavalli45. Tra i lavori edili, voce che si ripete praticamente ogni anno nel rendiconto barlettano, con un’uscita minima di soli 7 grani nel 1439-40, ed una massima di quasi 41 ducati che si concretizza sette anni più tardi, il maggior impegno di spesa riguarda la costruzione di una chiesa teutonica a Bisceglie, che nel 1444-45 fa lievitare il totale della somma a più di 35 ducati, pari ad un ottavo delle uscite di quel rendiconto46. Schuchardt (nel Bitontino e nel Giovinazzese) sono state segnalate anche da C. CITTER, Il frantoio di Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno): il ciclo dell’olio d’oliva dai dati archeologici, ora in Olivi e olio nel Medioevo cit., p. 338. In quest’ultimo volume sono ora ripubblicati altri due importanti lavori sulla storia della olivicoltura pugliese bassomedievale: R. IORIO, Olivi e olio in Terra di Bari in età normanno-sveva, pp. 291-314 (già «Quaderni medievali», 20, dicembre 1985, pp. 67-102), e G. CHERUBINI, I prodotti della terra olio e vino nel Mezzogiorno normanno-svevo, pp. 237-290 (già in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve [Bari, 15-17 ottobre 1985], cur. G. Musca, Bari 1987, pp. 187-234). 44 La contabilità delle Case cit., p. 311, anno 1434-35. Della vendita di capre è notizia nel rendiconto barlettano dell’anno precedente, quando si ricavano 7 ducati, 4 tarì e 9 grani «dalla vendita di giovani capre», ivi, p. 397, 1433-34. Sugli ovini di Corneto: ivi, p. 251, anno 1442-43. 45 Ivi, p. 315, anno 1436-37, spesa di 19 ducati e 4 tarì «per il sostentamento del commendatore»; p. 343, anno 1448-49, su Hans Czenger e Peter di Kitzingen; p. 359, anno 1445-46: ai 2 ducati, 2 tarì e 12 grani «per il consumo del procuratore» e ai soliti 24 ducati «assegnati al luogotenente per il suo sostentamento», si aggiungono quell’anno altri 3 ducati per le spese sostenute da quest’ultimo «quando egli è giunto con 5 cavalli a Bari». 46 Ivi, p. 321, anno 1439-40, 7 grani; p. 335, anno 1446-47, uscita di 40 ducati, 4 tarì, 11,5 grani (nel 1435-36, p. 313, si era speso poco meno, 40 ducati, 3 tarì 15 grani); p. 329,


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9. Passiamo ai salari, che a Barletta incidono per il 29% delle uscite, a Bari per il 16%. In qualche caso (Tav. 5) il nostro documento ci presenta cifre precise sulla loro consistenza, ad esempio per i trebbiatori a Barletta nel 1436-37, quando per 25 salari giornalieri dei trebbiatori del grano e dell’orzo vengono spesi complessivamente 86 ducati, con una media di 14 grani a salario quotidiano47. Si noti che in questo caso non sono esplicitate differenze salariali tra i trebbiatori del grano e quelli dell’orzo, contrariamente a quanto è spesso registrato per gli analoghi lavori sulle terre di San Leonardo di Siponto48, e che anzi nel rendiconto non si distinguono i lavori di mietitura da quelli di trebbiatura. Non mancano invece notizie sull’esistenza di una quota di salario corrisposta in prodotti: nello stesso bilancio annuale, 11 ducati e 12 grani sono «spesi per macinare il grano e per cuocere il pane ai pecorai che erano a carico nostro»49. Analogamente, nel 1448-49 ai 21 ducati, 2 tarì e 19 grani in uscita per «zappare le vigne» barlettane, e ai 17 ducati e 4 tarì «per tagliare i ceppi in 47 vigne», si aggiungono 29 tomoli di grano corrisposti agli zappatori delle vigne, e 1 carro e 8 tomoli dati ad altri generici lavoratori, «per il loro pane»50. In quello stesso anno, che è poi l’ultimo rendicontato nel nostro documento, altri 185 ducati e 2 grani risultano investiti nella viticoltura, sia «per la manutenzione delle vigne», sia soprattutto «per migliorare le vigne che sono state comprate»51. Si ha insomma l’impressione di una sorta di accelerazione degli interessi dei Teutonici barlettani nei confronti della produzione vitivinicola, ma non ci è dato conoscere se negli anni successivi l’investimento si sia conservato sino a determinare una specializzazione produttiva. Torniamo alla cerealicoltura, per ribadire che generalmente il salario giornaliero dei mietitori di grano supera di poco quello dei mietitori di orzo. Per i campi dell’azienda di Barletta la relativa voce in uscita non si preoccupa di differenziare gli uni dagli altri: così, per i lavori di mietitura del grano e dell’orzo sui campi, nel 1434-35 è genericamente indicata una spesa di 46 ducati e 2,5 tarì, che tra l’altro risulta inserita in una voce di uscita più ampia, relativa al “casale”, per una somma totale di 213 ducati, 3 tarì e 9,5 grani, comprensiva anche di 105 ducati e 17,5 grani «spesi per

anno 1444-45, 35 ducati e 14 grani «per i lavori edili, comprese le somme spese per la costruzione della chiesa di Bisceglie», su un’uscita totale di oltre 277 ducati. 47 Ivi, p. 315, anno 1436-37. 48 LICINIO, Aspetti della gestione economica di San Leonardo di Siponto cit., pp. 161-162. 49 La contabilità delle Case cit., p. 315, anno 1436-37. 50 Ivi, p. 341, anno 1448-49. 51 Ivi, p. 343.


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i salari dei servitori agricoli»52. Nel 1435-36, i salari dei lavoratori agricoli sono accorpati a quelli dei mietitori, per un totale di 168 ducati, 3 tarì e 0,5 grani, oltre ad una somma di 20 ducati, 2 tarì e 11,5 grani «prestati ai lavoratori agricoli per l’altro anno», probabilmente un anticipo di salario, più che un prestito vero e proprio53. Due anni prima, per il periodo compreso tra l’8 settembre 1433 e il mese di settembre 1434, per 326 salari giornalieri ai mietitori di grano e di orzo erano stati spesi 66 ducati e 2,5 tarì, con una media di circa 20 grani a salario quotidiano54. Quell’anno le spese di trasporto – «per portare il grano e l’orzo nella Casa e per pesarli» – raggiungono i 20 ducati e 10 grani, pari ad un terzo della somma spesa per i lavori di mietitura. All’incirca nello stesso periodo un mietitore delle masserie regie guadagna 15 grani al giorno, mentre nelle aziende teutoniche di Capitanata il salario dei mietitori di grano è in media di qualche grano più alto: può giungere nel 1441-42 anche a 30 grani (1 tarì e mezzo), e solo in un caso non supera i 15 grani55. Dopo il 1437, nei bilanci della Casa barlettana tra le uscite non appare più alcuna voce specifica per i salariati agricoli, segno ulteriore, sul piano dell’utilizzo di forza lavoro stagionale, di quella crisi economica che abbiamo già avuto modo di osservare e datare a proposito della scomparsa o della riduzione delle voci relative ai prodotti agro-pastorali. Analoghe considerazioni suggeriscono i dati, per quanto generici ed episodici, sulle retribuzioni dei «servitori agricoli» che lavorano sui campi della masseria della Casa barlettana, lavoratori che anche nella motivazione delle somme in uscita sono quasi sempre ben distinti dalla servitù generica come dalla forza lavoro salariata. Ai servitori agricoli vanno poco più di 115 ducati nel 1433-34, poco più di 105 ducati l’anno dopo, e nel 1436-37 solo 61 ducati, assegnati a 8 servitori56. Poi, come si è visto per i lavoratori salariati, i pagamenti si interrompono, ma – ed è qui una differenza significativa – nel caso dei servitori agricoli riprendono a partire dal 1444-45, sia pure seguendo una curva in discesa: dai poco più di 63 ducati di quell’anno, ai

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Ivi, p. 311, anno 1434-35. Ivi, p. 313, anno 1435-36. Ivi, p. 309, anno 1433-34. LICINIO, Aspetti della gestione economica di San Leonardo di Siponto cit., p. 162; LICINIO, Teutonici e masserie nella Capitanata cit., pp. 191-193. 56 La contabilità delle Case cit., rispettivamente p. 309, anno 1433-34; p. 311, anno 1434-35; p. 315, anno 1436-37. Mentre sino a quest’ultimo anno viene riportata tra le uscite una voce specifica, relativa ai salari dei lavoratori delle masserie (ivi, p. 313), dal 1437-38 appare al suo posto un’indicazione più generica, un’uscita «per le necessità e la masseria della Casa» (ivi, p. 317).


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circa 48 ducati del 1446-4757. L’anno seguente, tuttavia, l’uscita balza a oltre 141 ducati58, ma non ricompare nell’ultimo anno del rendiconto. La Tav. 5 fornisce un quadro d’insieme delle retribuzioni in denaro delle diverse categorie di lavoratori, servili e stipendiati, di cui la casa barlettana (per quella barese non ci sono dati), si serve sui campi, nella pastorizia ovina e nelle strutture aziendali. Tranne che per un anno, i salari della servitù della Casa sono sempre presenti tra le uscite, a differenza di quelli pagati ai pecorai. Il totale di 117 ducati e 2 tarì versato a questi ultimi nel primo anno rendicontato diminuisce di quasi il 50% nel 1434-35, quindi aumenta a 115 ducati l’anno seguente, e ancora a più di 125 nel 1436-37, sino a superare i 156 ducati nel 1437-38, con un ritmo di crescita che sembra conseguente ad un aumento dei capi ovini, ma scende poi bruscamente a 80 ducati nel 1438-1439, e a poco più di 26 ducati l’anno seguente, quando si spende poco più di 1 tarì per disfarsi delle pecore morte, quasi certamente per qualche infezione59. Dopo quella data, la voce sul salario dei pecorai scompare definitivamente dalla contabilità barlettana. E a Bari, non c’è anno in cui essa sia stata registrata. 10. In conclusione – se in qualche modo di conclusioni si può qui parlare – quale posto occupano Barletta e Bari nel “sistema” pugliese delle aziende teutoniche? E sino a che punto quest’ultimo è integrato nel più generale “sistema” produttivo della Puglia tardo-medievale? La Terra di Bari e quella d’Otranto verso la metà del Quattrocento sono, in generale, le circoscrizioni economicamente più dinamiche, e comunque Barletta, Bari e Brindisi sono senza dubbio tre città portuali di grande rilevanza nella gerarchia insediativa ed economica pugliese. A che cosa si deve il fatto che invece le aziende teutoniche di quelle località, le più prestigiose se non le più “antiche” in Puglia, risultano nel secolo XV le meno “produttive”? E se è vero che per dimensione esse non possono essere paragonate alle due di Capitanata, che cosa ha frenato il loro “sviluppo possibile”?

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Ivi, p. p. 329 (1444-45: 63 ducati, 4 tarì, 4 grani); p. 333, anno 1445-46 (59 ducati, 9 grani); p. 335, anno 1446-47 (48 ducati, 2,5 tarì e 5 grani per 4 servitori). 58 Ivi, p. 337, anno 1447-48 (141 ducati, 3,5 tarì e 6 grani). 59 Ivi, p. 321, anno 1439-40, voce in uscita «per seppellire le pecore morte»; e vedi la nota di Toomaspoeg a p. 390. Sui pagamenti ai pecorai: p. 309, anno 1433-34 (117 ducati, 2 tarì); p. 311, anno 1434-35 (60 ducati e 3 grani per la custodia di 1.644 pecore, più altri 6 ducati versati però l’anno successivo); p. 313, anno 1435-36 (115 ducati); p. 315, anno 1436-37 (125 ducati, 3 tarì, 4,5 grani); p. 317, anno 1437-38 (156 ducati, 2 tarì, 3,5 grani); p. 319, anno 1438-39 (80 ducati, 3 grani); p. 321, anno 1439-40 (26 ducati, 4 tarì, 11,5 grani).


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Della chiesa di San Tommaso di Barletta si è già detto. Anche Brindisi, nell’ultimo decennio del secolo XII, era stata interessata da uno dei primi possedimenti teutonici in Puglia, quell’Ospedale destinato ai pellegrini e crociati tedeschi diretti in Terrasanta al tempo della terza crociata; per non parlare del castrum di Mesagne, appunto nel Brindisino, concesso a sua volta dallo svevo Enrico VI e diventato poi sede di una commenda con un proprio commendatore nel 1222-1223. E come Brindisi (dal 1191), anche Barletta (già dalla fine del secolo XII) e Bari (dove la prima attestazione dell’Ordine è ora correttamente datata al dicembre 1237), sono sedi nella prima metà del XIII secolo di importanti commende, che possono contare su beni e rendite sufficienti a garantire consistenti flussi finanziari e di derrate in direzione dell’Oriente palestinese: sufficienti a realizzare, in altri termini, la “ragione sociale” della presenza in Puglia dell’Ordine60. Superfluo ricordare il ruolo decisivo svolto rispetto a questo sviluppo dal gran maestro dell’Ordine Ermanno di Salza, che poteva vantare il favore e il sostegno politico di Federico II, ed è emblematico che alla sua morte Ermanno sia stato sepolto, nel 1239, proprio a Barletta61. Questo ruolo di primo piano della Terra di Bari e della Terra d’Otranto nell’economia dei Teutonici pugliesi, messa in crisi dalla perdita di Acri nel 1291, si affievolisce vistosamente fra Trecento e Quattrocento. E se Barletta verso la fine del secolo XIV perde, a vantaggio di San Leonardo di Siponto, la sua qualifica di sede del commendatore provinciale dei Teutonici, a Bari, dove la legittimità di alcuni possessi teutonici acquisiti tramite donazioni – vigneti, oliveti, case – viene contestata dai detentori di contrapposti interessi, in primis dalla basilica di San Nicola e dai Frati minori dell’Ordine francescano, la commenda appare addirittura priva di un commendatore per tutto il Trecento e i primi decenni del Quattrocento, almeno sino al 1433. Tra le cause principali di questa decadenza, che precede di qualche decennio la fine della presenza teutonica nella regione, almeno due si rivelano decisive: lo spostamento dell’asse

60 Sulle vicende delle commende di Barletta, Brindisi e Bari cfr. rispettivamente H. HOUBEN, La presenza dell’Ordine Teutonico a Barletta cit.; HOUBEN, Federico II, l’Ordine Teutonico e il «castrum» di Mesagne, nuove notizie da vecchi documenti, «Itinerari di ricerca storica. Università degli Studi di Lecce», 10 (1996) (ma 1997), pp. 31-61, e «Castrum Medianum. Rivista di Storia - Arte - Archeologia e Tradizioni popolari del Salento», 6 (1998), pp. 27-69; e HOUBEN, L’Ordine Teutonico a Bari (secoli XIII-XV), in Studi in onore di Giosuè Musca, cur. C.D. Fonseca - V. Sivo, Bari 2000, pp. 225-247. 61 H. HOUBEN, Alla ricerca del luogo di sepoltura di Ermanno di Salza a Barletta, «Sacra Militia», 1 (2000), pp. 165-177.


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economico e politico dell’Ordine dal Mediterraneo ai paesi baltici; e le modifiche strutturali che interessano in quei secoli l’economia pugliese, con il passaggio da quel sostanziale equilibrio nel rapporto tra agricoltura e allevamento, tra cerealicoltura e pastorizia ovina, che aveva caratterizzato i secoli XII e XIII, ad una forte preminenza dell’allevamento sull’agricoltura nei secoli XIV e XV62. Durante la fase dell’equilibrio agro-pastorale, poteva bastare ai Teutonici una politica economica impostata sul semplice ampliamento quantitativo dei possedimenti terrieri e di altri beni immobili, e sulla loro valorizzazione attraverso forme contrattuali di tipo enfiteutico, per cui, in generale almeno, era sufficiente acquisire, attraverso donazioni, acquisti e permute, un maggior numero di beni da concedere in affitto e concessione, per ricavarne quote sempre maggiori di canoni e censi. In quella fase, era stata l’ampiezza patrimoniale a garantire la fortuna economica delle Case teutoniche di Terra di Bari. Fra Trecento e prima metà del Quattrocento, decenni di guerre e scontri politico-dinastici, di pandemie e acuti conflitti sociali, di insicurezza e grandi trasformazioni in campo economico e nelle gerarchie insediative e di potere nei diversi ambiti territoriali, il prelievo di rendite in danaro diventa più difficile e la quantità dei censi riscossi non riesce a garantire entrate elevate, anche perché è stata costante abitudine dell’Ordine una politica tesa a mantenere bassi gli affitti e i censi sui possessi immobiliari63. Ed è assai eloquente la nota inserita nel bilancio della Casa di Bari del 1436-37, una nota che si ripete per altri anni e spesso anche per la commenda di Brindisi (in relazione soprattutto ai beni posseduti a Oria e Ugento): «A causa della guerra non si possono riscuotere tutti i censi, e i redditi non sono sufficienti per il vitto di un fratello dell’Ordine»64. 62 Sui caratteri “storici” di queste interrelazioni e sul loro “dinamismo”, oltre a R. LICINIO, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana della Mena delle Pecore, presentaz. di C.D. Fonseca, Bari 1998, v. ora F. VIOLANTE, Economia, territorio e istituzioni in Capitanata. Masserie regie e Dogana delle Pecore nel Tavoliere di Puglia tra Quattrocento e Cinquecento, tesi di dottorato in Storia dell’Europa moderna e contemporanea dell’Università di Bari, 2007 (n.d.r.: pubblicata a Bari nel 2009 con il titolo Il re, il contadino, il pastore. La grande masseria di Lucera e la Dogana delle pecore di Foggia tra XV e XVI secolo). E cfr. anche R. LICINIO, La Puglia e il Mezzogiorno adriatico tra XI e XIV secolo, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica. Atti del Convegno di Montalcino (12-14 dicembre 1997), cur. A. Cortonesi - M. Montanari, Bologna 2001, pp. 53-62, e S. RUSSO, Il Mezzogiorno adriatico tra Quattrocento e Cinquecento, ivi, pp. 62-68. 63 K. TOOMASPOEG, L’economia dei Teutonici in Italia, in San Leonardo di Siponto. Cella monastica cit., pp. 137ss. 64 La contabilità delle Case cit., p. 349. E vedi, nei rendiconti baresi del 1437-38, p. 349, e del 1438-39, p. 351, la dichiarazione che «dai censi a Bari e nei suoi dintorni a causa della


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Per ottenere entrate e utili più elevati, occorreva misurarsi con altri modelli economici, quelli pastorali-agricoli che si erano ormai imposti in particolare in Capitanata, dove l’agricoltura policolturale aveva ormai ceduto il passo alla monocoltura cerealicola, e dove l’allevamento tendeva a concentrarsi in misura crescente sul bestiame minuto e sulla pastorizia transumante. Un’economia alla continua ricerca di forme di “equilibrio”, ma contraddittoriamente portata a privilegiare gli spazi incolti e il pascolo, suscitando anche per questo contrasti e reazioni spesso violente da parte delle comunità locali, di altri enti monastici o ecclesiastici, di singoli proprietari terrieri e allevatori, tutti interessati, al pari dei Teutonici, a «far le difese, mezzane come il solito per pascere li loro animali ed a venderne l’erba»65. Un’economia, se vogliamo usare una categoria di valore, più “arretrata” e conflittuale, ma certamente più adatta ai tempi e più “fruttuosa” sul piano delle entrate. Si tratta di un modello economico, imperniato su “masserie miste” agricolo-zootecniche, che per reggere e svilupparsi ha bisogno di più o meno vasti latifondi, di grandi estensioni di terra da destinare solo alla cerealicoltura intensiva, di grandi quantità di capi di bestiame ovo-caprino, di grandi aziende produttive capaci di impegnare elevate quantità di salariati: nella Terra di Bari del Quattrocento, i Teutonici non posseggono questo tipo di aziende. Nel Barese, e in parte nel Barlettano, in territori cioè dove è meno estesa la monocoltura, i loro possedimenti terrieri sono relativamente numerosi (e in quantità decrescente), ma privi di continuità territoriale e connotati da “dimensioni aziendali” inadeguate. È invece in Capitanata, nelle aziende di Corneto-Torre Alemanna e di San Leonardo di Siponto, che i Teutonici pugliesi realizzano nel Trecento e soprattutto nella prima metà del Quattrocento i loro punti di forza, come è evidente dai bilanci del periodo 1432-1448: «Confrontando le cinque commende del 1448 sulla base dei redditi economici prodotti da ciascuna – ha calcolato Toomaspoeg66 – osserviamo una netta superiorità di San

guerra non si può ricevere di più». Nella contabilità brindisina, Ugento risulta «abbandonato a causa della guerra» nell’anno 1435-36, ma sono riportati in entrata 2 ducati, 1 tarì e 18 grani dai relativi censi (p. 369); invece l’anno successivo si annota che «Oria è stata saccheggiata e le case locali non sono state affittate» (p. 371), e nel 1437 che «gli immobili di Oria non sono stati affittati a causa della guerra» (ibid.). 65 LICINIO, Teutonici e masserie nella Capitanata cit., pp. 185-186, e riferimento in nota 25. Ma gli esempi di una diffusa conflittualità, per l’uso del territorio, tra figure sociali e poteri diversi sono numerosi, e spesso sottovalutati quando si voglia tentare un giudizio complessivo sulla presenza teutonica in Puglia. 66 TOOMASPOEG, Introduzione, in La contabilità delle Case cit., p. XLVIII.


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Leonardo e di Corneto che producono insieme circa il 92% dei redditi annui del baliato, mentre Bari e Brindisi non immettono nelle casse dei Teutonici che poche somme, corrispondenti, in entrambi i casi, all’1% delle entrate dell’Ordine». Adattandosi al modello economico esistente, dato che viene solitamente valutato in termini positivi67, e proprio per questo rinunciando ad introdurvi elementi di innovazione che in qualche modo superassero le contraddizioni tipiche di un’economia cerealicolopastorale “antica”, il loro contributo all’individuazione e all’apertura di nuovi percorsi economici, in una parola allo “sviluppo”, non fu significativo. Certo, è in Capitanata, in quel periodo, il cuore attivo e pulsante dell’economia del Baliato. Ma è un’economia in attesa di un collasso che, qualche anno più tardi, vestirà gli abiti della commenda cardinalizia, segnando la conclusione della secolare esperienza pugliese dei Teutonici.

67 È questa in sostanza la conclusione di TOOMASPOEG, L’economia dei Teutonici cit., pp. 146-151, e di H. HOUBEN, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normanno-svevo, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle quattordicesime giornate normannosveve (Bari, 17-20 ottobre 2000), cur. G. Musca, Bari 2002, p. 288 (tesi ribadita in vari altri saggi).


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Tav. 1a - I bilanci del Baliato di Puglia (1432-1449), in ducati, tarì e grani


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Tav. 1b - I bilanci del Baliato di Puglia (1432-1449), in ducati, tarĂŹ e grani


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Tav. 1c - I bilanci del Baliato di Puglia (1432-1449), in ducati, tarì e grani


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c = carri; t = tomoli; s = salme; in neretto i valori piĂš elevati per ogni voce

Tav. 2 - Barletta, vendita di grano e orzo


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s = salme; t = tomoli; b: pelli di bovini; p: pelli di pecore; in neretto i valori piĂš elevati per ogni voce

Tav. 3 - Barletta, vendita di fagioli, formaggio, ricotta, lana, pelli


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* = censi dell’anno precedente; Spin.: Spinazzola; a = più una libbra di cera; b = più uno staio d’olio (1,5 nel 1448-49)

Tav. 4 - Barletta e Bari: i censi, l’“erba”, il vino, l’olio, in ducati, tarì, grani


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* = anticipo sul salario dell’anno successivo; in neretto i valori più elevati per ogni voce

Tav. 5 - Barletta, retribuzioni in denaro, in ducati, tarì, grani

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Dalla «licentia castrum ruinanDi» alle Disposizioni «castra munienDa» castelli regi e castelli baronali nella puglia aragonese

ai territori che garantiscono il maggior controllo militare e politico del regno di napoli, il tormentato periodo delle lotte di successione tra angioini e aragonesi presenta un conto elevato da pagare. ecco perché, ancor vivi luigi iii (morirà il 15 novembre 1434) e giovanna ii (che poco prima di morire, il 2 febbraio 1435, avrà modo di complicare tutto nominando suo erede il fratello di luigi, renato conte di provenza), sono le città e le campagne pugliesi il teatro privilegiato degli scontri. e non solo per la loro rilevanza strategica, da “terra di frontiera”, dal momento che sono profondamente radicati nella regione i due principali fiancheggiatori degli schieramenti in campo: è filoangioino giacomo caldora, signore tra l’altro di bari, tra i più brillanti e spregiudicati condottieri militari del tempo; è filoaragonese il potentissimo principe di taranto, giovanni antonio del balzo orsini. inevitabilmente, nelle campagne militari del periodo si gioca una partita che spinge in secondo piano, senza per altro eluderla, la questione della successione dinastica. lo scontro, specialmente in puglia, è anche tra potentati feudali, impegnati a riempire i vuoti che l’evanescenza del potere centrale ha reso ampi e appetibili. ed è anche, sempre schematizzando, lo scontro tra due concezioni del potere che appaiono in quegli anni ancora antagonistiche: da un lato un ceto baronale che, come quello dei del balzo orsini, può vantare un’antica nobiltà di sangue e di “diritto”; dall’altro un ceto di domini che trae la sua prima legittimazione dall’uso delle armi e della forza. la contrapposizione attraversa la logica degli schieramenti e si materializza negli scontri tra eserciti dalle varie bandiere, negli assedi, nelle insurrezioni, nelle scorrerie di truppe anche di mercenari. Questo tipo di scenario bellico conosce rare eccezioni. raramente lo scontro si coagula in battaglie campali, come avviene nell’estate 1434 a castellaneta, dove un esercito filoangioino, muovendo da altamura alla conquista di laterza e


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taranto − di cui è vanamente assediato il castello − affronta le truppe dell’orsini. Quell’esercito, raccontano i cosiddetti Diurnali del duca di Monteleone, comprende «14 milia persone de pede, et cavallo de polita gente»; «le gente dela regina» giovanna, continua l’anonimo cronista, «erano 5 milia cavalli, de messer Jacobo [Caldora] 3 milia, et quelle di ré loise [Luigi III] 2 milia et 5 cento et infantaria senza numero». Dopo la battaglia, in mano al principe di taranto rimangono «leze, rocca, galipoli, ugenti, lo castello de brindese, lo castello d’oria, taranto, altamura, minerbino, lo castello di gravina, et lo castello de lo garigliano et lo castello de canosa»1. piuttosto, la “guerra” si sfilaccia in una serie continua di episodi circoscritti, di assedi e saccheggi, di fughe e di fatti d’arme tipicamente “medievali”. coinvolge oria nel 1434 e turi l’anno seguente: e in entrambe le località, saccheggiate rispettivamente dalle truppe caldoriane e orsiniane, i soldati «nce trovaro multa et grande robba», stando ai Diurnali2. e interessa barletta, andria, ruvo, modugno, lavello, Venosa, assediate o coinvolte in varia misura negli scontri. a conversano negli scontri tra le opposte fazioni il castello viene danneggiato. altre località di terra di bari e terra d’otranto sono poste a ferro e fuoco, prima da Domenicuccio dell’aquila, al soldo dell’orsini, poi dalle truppe di un anomalo capitano di ventura, giovanni Vitelleschi di corneto, «arcepiscopo fiorentino et patriarca alexandrino», inviato nel regno da papa eugenio iV nel 1437 «con cavalli quattro milia, et infanti mille de bona gente, la più parte de casa ursina»3. schieratosi con gli angioini, il Vitelleschi sconfigge e fa prigioniero il filoaragonese pietro palagani, ricco esponente del patriziato tranese: con la minaccia dell’impiccagione e la promessa della libertà, ne ottiene la consegna della città, affidata al governatore stefano porcari, e poi dello stesso castello di trani, di cui il viterbese porzemado gato è ora nominato responsabile al posto del castellano antonello barone.

1

Diurnali detti del duca di Monteleone, ed. m. manfredi, in r.i.s.2, XXi/V, bologna 1960, pp. 127 e 128; in nota 3 non è chiarita dall’editore l’ubicazione del castello «de lo garigliano», che difficilmente può corrispondere a giurdignano, nel leccese, come riteneva il faraglia nella sua edizione dei Diurnali (napoli 1895); è più probabile che si tratti invece del castello murgiano, oggi quasi del tutto diruto, del garagnone, non lontano da castel del monte. 2 ivi, ed. manfredi, pp. 127 e 131. 3 ivi, p. 140, e p. 138 per le altre località. anche n.f. faraglia, Storia della lotta tra Alfonso V d’Aragona e Renato d’Angiò, lanciano 1908, pp. 98-124, e p. 102 su porzemado gato.


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trani, con il suo edificio castellare “di frontiera” tra mare e terra, rappresenta in quei mesi un obiettivo strategico irrinunciabile per il dominio sul nord barese. nel dicembre 1437, mentre il Vitelleschi è in campania, «messer pietro palagano rebellò trani, et assediò lo castello», in cui si rifugiano i filoangioini. tornato in puglia, da bisceglie «lo patriarcha» tenta «piu volte soccorrere lo castello de trani che era assediato per mare, et per terra tutto intorno», senza risultato. accampatosi tra molfetta e giovinazzo, egli decide allora «che qualuncha persona per quante pede de olive havesse brusciato per ogni pede guadagnava cento giorni di perdonanza». cento giorni di indulgenza per ogni piede d’olivo distrutto: un’arma letale − «nce fo fatto uno gran guasto» − per un paesaggio agrario che in quel territorio vedeva nell’oliveto la sua principale risorsa produttiva. privo di consensi e di supporti logistici, abbandonato dai suoi alleati, «lo patriarcha vedendose arrivato a si mal porto [...] con ogni sua robba et con dui soi li piu fideli et fidati, si posse su una picciola barchetta, et andossene in Venetia, po a ferrara, dove stava papa eugenio», lasciando le sue truppe disperse a bisceglie, ruvo e terlizzi, e chi «sfilazava» da una parte, chi se la svignava dall’altra. «mai non se recorda capitanio essere fugito da gente d’arme», annota caustico il cronista dei Diurnali, se mai avviene il contrario, fuggono «le gente d’arme da loro capitanei»4. con la fuga del Vitelleschi, entra in scena il viceduca di bari, marino di norcia, che riconduce quelle località sotto il controllo del caldora. siamo nel 1438. a trani il castello è nelle mani del filoangioino porcari, mentre la città si riconosce nel filoaragonese pietro palagani: la contrapposizione tra le due fazioni si materializza corposamente nello stesso tessuto urbano. non diversamente si era concretizzata quattro anni prima, dopo la battaglia di castellaneta, a brindisi, oria, gravina e canosa (non esisteva all’epoca un insediamento urbano presso il garagnone), e nel 1432 a bari, ma con una situazione specularmente inversa rispetto a trani: tutte queste città risultano sotto il controllo del caldora, mentre i rispettivi castelli restano in mano ad una guarnigione orsiniana. sia pur entro un quadro di schieramenti opposti, le strutture castellari urbane rappresentano ancora una volta e allo stesso modo il simbolo di un potere “estraneo” alla comu-

4 Diurnali cit., ed. manfredi, pp. 143-148 per i fatti del 1437-1438 e per le relative citazioni. e cfr. V. Vitale, Trani dagli Angioini agli Spagnuoli. Contributo alla storia civile e commerciale di Puglia nei secoli XV e XVI, bari 1912, pp. 169-174, e r. colapietra, Profilo storico urbanistico di Trani dalle origini alla fine dell’Ottocento, «archivio storico pugliese», XXXiii (1980), spec. p. 28.


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nità locale; e in alcune di quelle località, bari e trani, il successivo attacco al castello vede protagonisti diretti e motivati i cittadini: guidati dal «connestabile di fanteria» fra’ moriale, i baresi; guidati dal palagani e con l’aiuto di navi e soldati aragonesi al comando di giovanni carafa, i tranesi. e proprio a trani in quel contesto bellico, si può aggiungere, viene scavato un più profondo fossato intorno alla fortezza, e sarebbe stato costruito «sul lido un castello di legno più alto del castello assediato, dal quale i soldati molestavano i difensori e vigilavano il mare»5. le quattro galee inviate da renato d’angiò per soccorrere la guarnigione castellare giungono invece troppo tardi, quando quest’ultima si è ormai arresa al palagani; nelle prigioni del castello finisce detenuto il filoangioino porcari. la tregua e la pace, tradizionali quanto teorici obiettivi di ogni avvicendamento dinastico fondato sul clamore delle armi, sono tra i punti prioritari e qualificanti del programma anche di alfonso d’aragona, «Don alfons lo gran alfonso rey molt virtuos e molt prodis e liberal», come positivamente lo definisce un’anonima cronaca in catalano6. al «rè de rahona» alcune città della puglia, san severo, barletta, trani, molfetta, giovinazzo, aprono spontaneamente le porte. in altre è il danaro a “oliare” la dichiarazione di fedeltà: così a lucera, il cui castellano, antonio Dentice, «cedé, riscuotendo come prezzo del tradimento cinquemila ducati»; in altre ancora rimangono focolai di resistenza, «lo castello de manfredonia, el castello de sant’angelo del monte assediati strettamente»; insomma, con le armi o con l’astuzia, l’aragonese mostra di voler trasformare il regno in «una casa de pace tenendo ragione à ciascuno, piccoli, et grandi»7, secondo una considerazione dei Diurnali forse troppo fiduciosa, ma che ha tuttavia il merito di cogliere un dato centrale del modello statuale dell’epoca e di quello aragonese in particolare: il ruolo di mediazione politica, di garante degli equilibri sociali, svolto dalla monarchia − attraverso un uso oculato delle concessioni feudali, dei legami clientelari, di una fitta rete di amministratori di professione − rispetto alle diverse componenti e ai diversi soggetti e centri di potere, «piccoli, et grandi», del ceto dominante. 5 Vitale, Trani cit., p. 174; sull’assedio dei baresi al castello: r. licinio, Bari e il suo castello: scelte insediative, problemi politici, funzioni istituzionali, parte ii, Dalla conquista angioina all’età moderna, «annali della facoltà di lettere e filosofia dell’università di bari», XXXii (1989), pp. 270-271. 6 Geneologia Regum Aragonum et Comitum Barchinone, in f. giunta, Brevi cronache sul Medioevo napoletano, in Studi storici in onore di Gabriele Pepe, bari 1969, p. 428. 7 Diurnali cit., ed. manfredi, p. 183, e nota 7 sul castellano lucerino.


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certo, con il nuovo sovrano aragonese non si produsse nel regno solo «una stabilizzazione dinastica», quanto piuttosto «l’affermazione di una monarchia in grado di avviare e di portare avanti un’azione di riforma dello stato e di potenziamento del potere regio senza precedenti nel secolo e mezzo trascorso dal Vespro siciliano»8, capace per di più di inserire il mezzogiorno in un ambizioso progetto di dominio del mediterraneo e dell’oriente. e tuttavia la complessa e delicata situazione politico-militare interna, che costringe re alfonso a misurarsi continuamente con un tenace partito filoangioino e con le non meno tenaci rivendicazioni egemoniche dei baroni, ma anche nuovi processi economici, sociali e di profonda ristrutturazione territoriale − di cui l’istituzione nel 1447 della Dogana della mena delle pecore è insieme effetto e fattore accelerante − agevolati anche dal diffondersi della peste, particolarmente virulenta alla metà del secolo9, finiscono col favorire due tendenze opposte ma spesso tra loro complementari. Da un lato, un parziale decastellamento in capitanata ed in altre aree interne della puglia, dove la concentrazione della popolazione in grossi borghi rurali e il pieno utilizzo della rete di tratturi e tratturelli accanto ai tradizionali assi viari ridisegna la mappa delle gerarchie e della funzionalità delle strutture fortificate. Di qui l’abbandono, parziale o totale, degli edifici castellari, tra l’altro, di fiorentino, apricena e casalnuovo monterotaro in capitanata, di san fele e ruvo del monte in basilicata, di ruvo di puglia, gravina e putignano nel barese, di fulcignano presso galatone e castrignano del capo (lo si ritiene a torto diroccato dal grave terremoto del 1456) nel salento, località all’epoca spopolate, abbandonate o prive di significative funzioni strategiche o economiche10.

8 g. galasso, Il Regno di Napoli e la politica internazionale nel periodo aragonese, in Otranto 1480. atti del convegno internazionale di studio promosso in occasione del V centenario della caduta di otranto ad opera dei turchi (otranto, 19-23 maggio 1980), cur. c.D. fonseca, 2 voll., galatina 1986, i, p. 33. sul periodo, oltre al sempre valido e. pontieri, Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458), napoli 1975, fondamentali le analisi di m. Del treppo, Il regno aragonese, in Storia del Mezzogiorno, diretta da g. galasso - r. romeo, iV, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, t. i, roma-napoli 1986, pp. 87201, e g. galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in Storia d’Italia diretta da g. galasso, XV/1, torino 1992. 9 p. sisto, Due medici, il principe di Taranto e la peste. I Trattati di Nicolò di Ingegne e Saladino Ferro da Ascoli, napoli 1986: i due trattati sulla peste, entrambi del 1448, sono tra gli esempi della straordinaria attività culturale fiorita alla corte dell’orsini, al quale è dedicato il Librecto di pestilencia di nicolò di ingegne, e del quale fu medico saladino ferro. 10 cfr. g. fuzio, Castelli: tipologie e strutture, in La Puglia tra Medioevo ed Età moderna. Città e campagna, cur. c.D. fonseca, milano 1981, pp. 175-182 (a p. 178: all’età aragonese sarebbero attribuibili in puglia 18 nuove fortezze, e 74 tra ampliate e ristrutturate); e


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Dall’altro lato, una ripresa di vigore dell’incastellamento, un impulso alla fortificazione di borghi, casali, insediamenti produttivi agricoli, strutture monastiche ed ecclesiastiche, città e singoli edifici che si presenta però, con la vistosa eccezione dei territori soggetti al principe di taranto, in termini “parcellizzati e non sistematici”: per quanto le fonti ci attestino l’esistenza di un funzionario, il «provisor castrorum», con compiti di coordinamento e gestione amministrativa e militare dei castelli demaniali − lo spagnolo giovanni antonio de foxa al quale nel 1458 re ferdinando consiglia di imparare a leggere e scrivere «mentre che state in ocio»11 a trani − di un organico “sistema castellare” regio non si può parlare, per quel periodo. motivato da esigenze (difensive, rappresentative e di potere) locali e contingenti piuttosto che da un vero e proprio progetto unitario, l’impulso al recupero, al rafforzamento e all’edificazione di opere fortificate si concretizza nei confronti sia delle cinte murarie, in cui spesso sono inglobate torri preesistenti e di recente ristrutturazione, come risulterebbe per la «torre grande» di cisternino nel 143112, sia di nuovi fortilizi-residenze innalzati su iniziativa dei feudatari locali, sia infine degli edifici e dei complessi produttivi rurali (le masserie fortificate, che si andranno poi moltiplicando nel corso del cinquecento)13. in capitanata, provincia due seco-

le non sempre attendibili schede sulle opere castellari in Castelli, torri e opere fortificate di Puglia, cur. r. De Vita, bari 1974. il rimando a queste due opere, se non reso esplicito nelle note successive, è comunque sottinteso anche per i castelli citati in seguito. sui castelli della basilicata: l. santoro, I castelli della Lucania, in Atti del III Congresso nazionale di studi danteschi (melfi, 24 settembre-2 ottobre 1979), firenze 1975, pp. 657-683, e il recente p. rescio, Archeologia e storia dei castelli di Puglia e Basilicata, martina franca 1997. 11 Vitale, Trani cit., doc. XXii, 16 agosto 1458, p. 676: «se sapessevo legere et scrivere ve scriviriamo de propria mano per modo che ne haveressevo piacere; faressevo bene imparareve mentre che state in ocio»; nella lettera tra l’altro il sovrano autorizza lo stanziamento di «tricento ducate che dicite bisognareve et a li balestrerj» della guarnigione castellare di trani. sull’istituzione nel 1239 dei «provisores castrorum» ad opera di federico ii, e sui loro compiti: r. licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, presentaz. di g. musca, bari 1994 (n.d.n.: nuova ed. bari 2010), pp. 124ss. 12 è la recente interpretazione della poco leggibile data di un’epigrafe conservata su un muro interno, all’altezza del terzo piano, della torre grande cistranese, oggi finalmente restaurata: g. matichecchia - Q. punzi, La Torre normanno-sveva di Cisternino. Vicende storiche e recupero, brindisi 1998, p. 25. in quel periodo cisternino è citata appunto come «castrum», al pari di locorotondo e putignano: I più antichi documenti del libro dei privilegi dell’Università di Putignano (1107-1434), ed. a. D’itollo, bari 1989, n. 19, 8 agosto 1434, p. 78. 13 su cui rinvio a r. licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, presentaz. di c.D. fonseca, bari 1998, pp. 9-79, spec. pp. 22-25.


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li prima punteggiata di opere castellari, sorgono nuove strutture a rodi (1442) e a sannicandro garganico (1464) grazie rispettivamente ai carafa e ai Della marra, e a celenza Valfortore ad opera di giovanni gambacorta (e successivamente del figlio carlo); e il filoaragonese paolo de sangro, per meriti bellici reintegrato nel 1442 nel possesso di torremaggiore e signore anche delle «dirute» e disabitate Dragonara e fiorentino, si impegna in un nuovo incastellamento di Dragonara e avvia una prima ristrutturazione dell’edificio fortificato di torremaggiore, assegnando funzioni di difesa all’ala settentrionale e funzioni residenziali a quella meridionale14. in terra d’otranto si lavora alle residenze castellane di lizzanello (1436) e cavallino, edificate ad opera rispettivamente dei paladini e dei castromediano, e poi alle opere difensive di Villa castelli, carosino, martano, e dei casali fortificati di monteroni, di cui è ricordato nel 1431 il «fortellitio», e uggiano montefusco, già nel 1417 definito «casale et castrum seu fortellitium ogiani»15. in terra di bari sarebbero state quasi totalmente ricostruite le fortificazioni di minervino e di canne, e si vuole che sia stato sottoposto a incisivi restauri anche il castello di «sancta maria de monte» (non ancora completamente abbandonato, ma certo privo ormai di forti valenze militari e strategiche), che anzi poco dopo la metà del Quattrocento sarebbe stato chiamato per la prima volta con l’attuale nome di castel del monte. in realtà la memoria del monastero di santa maria si andava dissolvendo già da tempo e, nelle pagine della sua Cronaca, il notaio trecentesco Domenico da gravina poteva usare l’espressione «castrum montis», presso la «viam qua itur guaranionum», e scrivere dell’ungaro tommaso di paolo, nel 1349 «castellano montis»16. torniamo al primo periodo aragonese per richiamare gli interventi nelle principali for-

14 c. panzone, L’eredità del castello ducale di Torremaggiore, torremaggiore 1993, pp. 31ss.; i lavori proseguiranno poi con il figlio di paolo, carlo. il restauro del castello, curato qualche anno fa da nunzio tomaiuoli, ha restituito alcuni elementi del periodo aragonese, tra cui una bifora gotica nel prospetto sud. giova qui richiamare il contributo dell’istituto italiano dei castelli alla tematica del recupero e riutilizzo delle strutture difensive: Per un ruolo delle opere fortificate sul territorio. atti del convegno nazionale del 1994, bari 1997. 15 g. loVreglio, Il castello di Uggiano Montefusco. La perdita della memoria, «galaesus», XVii (1992/93), pp. 393-398. su monteroni: c. massaro, La città e i casali, in Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, cur. b. Vetere, pref. di c.D. fonseca, roma-bari 1993, p. 357, anche per altri casali fortificati attestati a fine Quattrocento. 16 Domenico Da graVina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, ed. a. sorbelli, in r.i.s.2, Xii/iii, città di castello 1903, p. 78 (dove tommaso è anche detto «castellanum castri sanctae mariae de monte») e p. 81; di restauri attribuiti ai del balzo orsini e di una


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tezze regie, specialmente e non casualmente in quelle costiere: da brindisi, dove si avviano lavori nel “castello di terra” e nel 1445 re alfonso fa costruire, sull’estremità dell’isola di s. andrea, il castello che da lui ha preso il nome, sino a barletta nel 1458 e nel 146517. il più determinato e coerente impulso ad un nuovo tipo di incastellamento feudale, nella duplice direzione tanto della sistematica fortificazione del territorio, parte di un vero e proprio progetto di egemonia politica, quanto della trasformazione in senso residenziale delle strutture castellari, si registra in quei decenni negli insediamenti che formano il vasto dominio di giovanni antonio del balzo orsini. l’area su cui in piena autonomia governa il «serenissimo principo de taranto», potente «in più de lo re, che fa e disfà como li piace», così lo descrive una citatissima fonte del 1444, «comenzia [...] da la porta del merchà de napoli, lunzi octo milya a uno locho se chiama la terra de marignano [Marigliano, in Terra di Lavoro], e dura per XV zornade per fina in chapo de leucha; e chi lo chiama lo sacho de terra d’otrento, e dura per melya quatrocento e più. e lì ve sono queste terre principale e grande, oltra le castelle predette»: in pratica in puglia l’intera terra d’otranto, ascoli satriano in capitanata, e «da poy la morte de messer iacopo caldora», avvenuta nel novembre 1439 (solo per pochi mesi gli succederà il figlio antonio), tutto il ducato di bari18. per qualche tempo l’orsini sceglie di risiedere a lecce, dove fa innalzare antemurali a maggior protezione della città, e ordina la costruzione, fuori la porta di s. biagio, della torre detta del parco, sede della zecca, cinta da mura «co horti di varij frutti abbondanti et un bosco di odorosi aranci con artificiose fontane»: una residenza suburbana, posta nella periprima comparsa quattrocentesca dell’attuale denominazione ha scritto di recente g. tattilo, Castel del Monte. La leggenda, il mistero, fasano 1997, pp. 43 e 46, poi ripreso da f. carDini, Castel del Monte, bologna 2000, p. 119. a tutt’oggi, il più utile e convincente contributo storico sul maniero federiciano e sulle sue funzioni rimane il saggio di g. musca, Castel del Monte, il reale e l’immaginario, in Castel del Monte, cur. g. saponaro, bari 1981 [n.d.r.: ultima ristampa, in volume autonomo, g. musca, Castel del Monte, il reale e l'immaginario, con un testo di c.D. fonseca, nota introd. di r. licinio, bari 2006 (Quaderni del centro di studi normanno-svevi, 1], pp. 26-62. su canne e minervino: Castelli, torri cit., pp. 99 e 120; fuzio, Castelli cit., p. 178. 17 le due date, relative a lavori anche alle mura barlettane, riferite da g. bacile Di castiglione, Castelli pugliesi, roma 1927 (rist. 1977), p. 75, sono state poi riprese da m. grisotti, Barletta. Il castello, bari 1995, p. 43, e da p. rescio, Il contributo dell’archeologia allo studio dei castelli e dei centri storici minori: alcuni esempi, «archivio storico pugliese», XlViii (1995), p. 181. su brindisi: Castelli, torri cit., pp. 137-144. 18 Descrizione della città di Napoli e statistica del Regno nel 1444, ed. c. foucard, Fonti di Storia Napoletana nell’Archivio di Stato di Modena, i, «archivio storico per le province napoletane», ii (1887), pp. 746 e 748.


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feria meridionale della città, destinata a competere con la torre e il «dilettevole giardino» del belloluogo, nella periferia settentrionale, e con lo stesso edificio castellare urbano, i cui ambienti interni e spazi esterni richiamano ormai le caratteristiche che saranno tipiche delle grandi dimore signorili rinascimentali19. nella prima metà del secolo, l’immagine di lecce − dove la madre di giovanni antonio, maria d’enghien, dal 1435 risiede nel castello − è comunque quella di una città turrita. nel circuito murario che la circonda si susseguono torri in gran numero, ciascuna delle quali di competenza, per la gestione finanziaria e le opere di manutenzione, di soggetti urbani diversi. così, precisano due descrizioni delle mura dell’epoca, la torre di s. giacomo è di pertinenza dell’università, mentre quella «prope campanile monialium» è gestita in comune tra vescovo, clero e badessa di s. giovanni. e sono segnalate la torre «de li baruni», quella «nominata sancto nicola», ed altre torri con la distanza che le separa, cui si aggiungono la «turris prati magni» e quella posta nel belloluogo. non è consentito a nessuno, aggiungono gli Statuti detti di maria d’enghien, salire senza esplicita autorizzazione sulle mura e sulle torri urbane: «nulla persona grande, oy piccola si fosse debia salire sopra le mura, et turri de leze [Lecce] salvo li officiali a chi appartene»; una disposizione tradizionale e comune ad altre città, come quella che vieta l’uso nell’area urbana di armi illecite anche per i soldati e “gli uomini d’arme” non esplicitamente autorizzati, «come son spate. stocchi. Day. cortellesse, oy macze, oy omne altra armatura»20. consapevole del diretto rapporto tra potere, prestigio e forza militare, l’orsini si preoccupa di rafforzare le fortificazioni dell’intero principato (e qui a ragione si può parlare di un “sistema castellare’), sia sul piano burocratico e amministrativo (espliciti, nel quaderno dei conti di francesco de agello, razionale del principe, datato 1458, i riferimenti per le fortificazioni di taranto ad una burocrazia castellare organizzata gerarchicamente

19 a. pepe, La cultura architettonica fra età normanna e aragonese, in Storia di Lecce cit., spec. pp. 657-659, e nota 81; c. massaro, Territorio, società e potere, ivi, pp. 269-270; b. Vetere, «Civitas» e «Urbs» dalla rifondazione normanna al primato del Quattrocento, ivi, pp. 128ss., sull’immagine urbanistica e sociale della città; numerosi nei tre saggi i riferimenti all’inedito Quaternus Officii Thesauriatus, 1473-1474, fonte di primo piano per la storia del castello leccese nel secondo Quattrocento. inoltre V. zacchino, Lecce e il suo castello, galatina 1974, pp. 26 e 44, e m. fagiolo - V. cazzato, Lecce, roma-bari 1984, pp. 33-34. 20 m. pastore Doria, Il codice di Maria d’Enghien, galatina 1979, p. 61; p. 69 per il divieto relativo alle mura e torri; pp. 56 e 61-62 per la descrizione delle mura turrite. in massaro, Territorio cit., appendice, pp. 339-343, le torri ricordate tra i beni extraurbani del principe orsini incamerati alla sua morte dalla corte regia.


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secondo un’articolata divisione del lavoro, dal gavarreto ai castellani)21, sia su quello architettonico militare, adeguando alle nuove tattiche ossidionali e al sempre più generalizzato uso delle armi da fuoco (non ancora delle bombarde di grosso calibro, diffuse nella seconda metà del Quattrocento) gli ormai inadatti e obsoleti impianti castellari preesistenti. ecco allora il completamento della torre di soleto; le ristrutturazioni ordinate nei castelli di fulcignano e grottaglie, entrambi semidiruti negli scontri con gli armati dell’avversario ottino de cariis (il malacarne); i costanti interventi di manutenzione nella fortezza di roca, dove il potenziamento, anche in munizioni e approvvigionamento, del fortilizio voluto nel 1356 da gualtiero di brienne è reso strettamente funzionale al sempre più incisivo ruolo commerciale svolto dal porto, e nel «palazo con torre» di carovigno, descritto con rapidi quanto efficaci tratti in un inventario del 1440: «item have dicta corte un palazo con sala, cammere, stalle, et cellaro, molino acquaro et conservarie et altri assai membri con una torre al costato de dicto palazo verso hostuni»22. aggiungiamo ancora gli interventi a oria, di cui viene riparata la fortezza danneggiata nel 1433 dal caldora (vi si celebrano nel 1440 le nozze del figlio di alfonso d’aragona, il futuro re ferdinando, con isabella di chiaromonte, nipote dell’orsini), e i restauri al castello di conversano, a partire dal 1440: nella seconda metà del secolo gli acquaviva vi aggiungeranno sullo spigolo orientale una grande torre poligonale, e gli daranno la veste del palazzo residenziale signorile23. e nuove fortificazioni assorbono precedenti strutture, come tra 1432 e 1447 ad acquarica del capo, dove sono inglobate quelle normanne (attribuite ai bonsecolo) e di età primoangioina; a tricase, la cui torre castellare per le sue caratteristiche architettoniche è stata attribuita all’orsini; a pulsano, dove a cura del segretario del principe, marino de falconibus, verso il 1435 la piccola torre quadrata preesistente, la «torre massima», viene inglobata sul lato occidentale in un

21 Il castello di Taranto: immagine e progetto. catalogo della mostra documentaria promossa in occasione del quinto centenario della ricostruzione del castello di taranto (taranto, 25 novembre-18 dicembre 1992), galatina 1992, pp. 178ss. 22 n. boDini, Documenti per la causa presso l’Ecc.mma Corte d’Appello di Trani tra i signori Dentice e il Comune di Carovigno, lecce 1898, pp. 117-118, ed e. filomena, Il castello di Carovigno, martina franca 1991. su roca: bacile Di castiglione, Castelli pugliesi cit., p. 234 (il castello fu poi diruto nel 1544); g. schmieDt, Città e fortificazioni nei rilievi aerofotografici, in Storia d’Italia, V, I documenti, 2, torino 1973, p. 186; e a. saracino, Roca e il Salento, lecce 1980, p. 95. fulcignano e grottaglie: V. zacchino, Fulcignano: il casale antico e il castello, «archivio storico pugliese», XXi (1968), p. 185. 23 Castelli, torri cit., pp. 108 (conversano) e 153 (oria).


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complesso rettangolare dotato di cinque torri angolari sporgenti, e l’intero insediamento viene cinto da alte mura; e a francavilla fontana, ottenuta dal feudatario giacomo antoglietta in cambio dei casali di morciano e salve e di 100 once in carlini d’argento, alla fortezza innalzata nel 1450, una torre quadrata bastionata dotata di fossato e ponte levatoio, si aggiungono nuove mura. anche qui, come a pulsano, ai lavori partecipa la comunità locale, «multo affannata in fabriche de le mura de la terra, ad fare turre et altre propugnacole et ultra hoc aiutare a le fabriche de lo castello de epsa terra»24. sempre tra terzo e quarto decennio del secolo, a mesagne le pietre dell’edificio castellare di età normanna, semidistrutto negli scontri tra manfredi e i ribelli di terra d’otranto, poi ristrutturato dallo stesso svevo e da carlo i d’angiò, vengono in parte riutilizzate per innalzare il torrione, ancor oggi visibile, sovrastato dalla torretta del “polledro’. il nuovo edificio, conferma una fonte tardocinquecentesca, risponde certo a tradizionali esigenze militari − l’orsini decide «edificarsi questa torre o castello in defensione di sua persona» − ma ha anche funzioni residenziali, ed è perciò dotato, nello “stile” del principe e come già si è visto per le torri di lecce, di un giardino e di giochi d’acqua: «nell’appendice di questa torre, poche palma discosto, v’era un largo, ampio e profondo lago d’acqua […] con certi acquedutti, donde di qua, e di là l’acque sgorgavano artificiosamente, a cui si discendea con alcuni gradini, e loggette, dove il principe, et altri signori domoravano per dolcissimo rezzo, e tal’hor mangiavano quasi in prospettiva di fresca, profonda e leggiadra piscina»25. nel 1456, a “collaudare” antiche e nuove fortificazioni è il sisma che la notte tra sabato 4 e domenica 5 dicembre, sei mesi dopo il passaggio nella volta celeste della cometa poi detta di halley, colpisce gravemente una

24 p. palumbo, Storia di Francavilla Fontana, noci 1901, p. 58. tricase: m. cazzato, Guida ai castelli pugliesi, i, La provincia di Lecce, galatina 1997, p. 139. gallipoli: schmiedt, Città e fortificazioni cit., p. 186, ed e. Vernole, Il castello di Gallipoli, roma 1933. pulsano: a. De marco, Pulsano nei tempi, galatina 1986; c. bucci morichi, Pulsano, in Restauri in Puglia, ii: 1971-1983, presentaz. di r. mola, fasano 1986, p. 498. acquarica del capo: c. sigliuzzo, Castelli normanni in Terra d’Otranto, «archivio storico pugliese», V (1952), pp. 397-402. 25 c.a. mannarino, Memorie su Mesagne, ms. inedito datato 1596, cit. da D. urgesi, Il castello di Mesagne nelle fonti storiche e documentarie, in Il castello di Mesagne, cur. D. urgesi, mesagne 1998, p. 14. urgesi contesta puntualmente la tradizione di «una ipotetica seconda torre, di cui molto si è fantasticato, ma erroneamente»: p. 19. secondo Castelli, torri cit., p. 151, la torre del polledro sarebbe stata commissionata per 500 scudi a tale ignone.


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parte del regno, abbatte o danneggia mura ed edifici delle località del subappennino dauno e della puglia settentrionale, della basilicata, della murgia barese, e si fa sentire anche nei centri del salento: «foi lo terramotu per tutto lu mundu e ddiguastause parti de neapoli et d’arianu et mmulti autri citati e ccastella, per lla cometa grande che parse», annota un frate, romano paoli, in margine ad un codice del monastero lucano dei ss. elia e anastasio di carbone, presso lagonegro26. e i Diurnali aggiungono, con drammatici particolari, che «ruinaro edifitij, ecclesie, et castelli et terre roinate per terra: foro morte infinite anime in gran numero, et perduti loro beni», e che dopo il sisma immediate furono le processioni di espiazione: «et li tremolicci non cessaro pero mai, donde per questo se fanno processione insieme in ogni parte et intra le altri rè de rahona de ordine una tutti i fanciulli de 12 anni in su, piu de trecento con Vescovi, preiti et valenti homini per gubernarli da la citta de fogia infino alo capo de terra d’otranto ad santa maria de leuche che nce si expesero mille ducati»27. un impatto apocalittico, che studi recenti hanno tuttavia ridimensionato, soprattutto sul piano delle vittime umane e della distruzione di edifici. larino funestata da oltre mille vittime; gravina colpita dal crollo del castello voluto da federico ii e della cattedrale; brindisi interamente distrutta e con decine di migliaia di morti; casalaspro e uggiano, casali del materano, interamente spopolati dal sisma e sostituiti a poca distanza da borghi di nuova fondazione regia, rispettivamente pietragalla e ferrandina (1494, ad opera di re federico d’aragona per ricordare il padre ferrante): notizie spesso prive di fondamento o, come per i due nuovi insediamenti lucani, erroneamente poste in relazione con quel terremoto28. è ora invece possibile circoscrivere l’area realmente danneggiata e distinguere con buona approssimazione tra centri direttamente e rovinosamente colpiti (localizzati specialmente in basilicata e nelle zone più interne della capitanata), e centri in cui il gran «tremoliccio» fu avvertito ma

26 Testi lucani del Quattro e Cinquecento, ed. a. m. perrone capano compagna, i, I Testi, napoli 1983, n. 7, p. 38. 27 Diurnali cit., ed. manfredi, pp. 202-203. 28 b. figliuolo, Il terremoto del 1456, i, altavilla silentina 1988, spec. pp. 109ss., in cui molti luoghi comuni sui danni del sisma sono confutati. un esempio, insieme di esagerazione nella stima dei danni e di erronea identificazione della località, riguarda acerenza, cui la tradizione ha attribuito 1.200 morti: in realtà, il toponimo «cheritu», cui la notizia si riferisce, difficilmente può essere identificato con la città lucana: ivi, ii, altavilla silentina 1989, p. 161, in cui si contesta l’affermazione di m. baratta, I terremoti d’Italia, torino 1901 (rist. anast. bologna 1979), p. 68. sul sisma anche e. De simone, Vicende sismiche salentine, lecce 1996, pp. 51-52; g. magri - D. molin, Il terremoto del dicembre 1456


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non produsse danni eccessivi (la maggior parte delle località pugliesi). in particolare, nelle tre circoscrizioni pugliesi furono distrutte o danneggiate più o meno gravemente, con scosse tra l’Viii e il iX grado (scala m.c.s.), in capitanata gran parte degli insediamenti del subappennino dauno, accadia, alberona, ascoli satriano, biccari, bovino, castelluccio Valmaggiore, motta montecorvino (abbandonata dopo il terremoto), sant’agata di puglia, troia e Volturino, oltre a lucera nel tavoliere; solo canosa in terra di bari, e nessun centro in terra d’otranto; mentre in basilicata furono in gran parte distrutte atella, melfi, monticchio, rapolla e Venosa. Vittime si registrarono soprattutto ad accadia (50 morti), troia (40) e canosa (30), e in misura meno consistente in altre località montane. secondo le fonti contemporanee, scosse oggi stimabili del Vi grado furono avvertite, ma con danni scarsi o trascurabili, anche in diverse città costiere, Vieste, manfredonia, trani, bari, mola, polignano, monopoli, brindisi, taranto, e dell’interno, foggia, andria, bitonto, lecce29. per quanto la tradizione abbia costantemente insistito sulla vastità e gravità dei danni prodotti dal «grandissimo terremoto», le testimonianze certe e dirette sul sisma inducono ad escludere, in puglia e basilicata, crolli generalizzati delle strutture castellari, delle cerchie murarie e degli edifici di culto. contrariamente a quanto a lungo sostenuto dalla storiografia anche locale, portata in genere ad attribuire all’evento sismico del 1456 tutto ciò che − rovine e nuove costruzioni, spopolamento e nuovi insediamenti − non poteva spiegare altrimenti, così colmando il silenzio documentario con il fragoroso boato del terremoto, è certo solo che ne vennero più o meno gravemente danneggiate le opere di fortificazione più antiche o più precarie, il «castellum fortissimum» di canosa, e a lucera con una parte delle mura urbane «per mazor parte è ruinato el castello antiquo, forte edificio», e il «castel vecchio, forte edificio» di troia, dove è semidiruta anche la cattedrale, al pari di quella di castelluccio Val maggiore e della chiesa di s. Domenico a lucera; e «in parte non modica» ascoli satriano con il suo «fortalitium», e ancora quello di motta montecorvino, e l’«arcem ac partem opidi» di melfi; e un ponte crolla sul fiume presso il castrum lucano di «monticli», ovvero l’abbazia fortificata di s. michele di

nell’Appennino centro-meridionale, cur. enea, roma 1984; e, per una corretta valutazione delle fonti, g.m. agnello, Terremoti ed eruzioni vulcaniche nella Sicilia medievale, «Quaderni medievali», 34 (dicembre 1992), pp. 73-111. 29 figliuolo, Il terremoto cit., la tabella del i vol., pp. 104-108, e nel ii vol. le schede analitiche sui singoli centri nella parte ii, Descrizione del danno nelle singole località, cur. c. meletti - e. patacca - p. scandone - b. figliuolo, pp. 35-163.


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monticchio. a foggia, dove in quel momento nel palatium voluto da federico ii si trova re alfonso con la maggior parte della corte, sono avvertite forti scosse, ma «lo dit terratremol no ha fet mal de dan», sia perché la città, lo segnalano ovviamente diverse fonti, si trova in pianura, sia perché, e l’acuta osservazione è solo nella lettera di un catalano inviata a barcellona, non ha edifici troppo alti: «la terra est molt plana, e les cases baxes»30. uscito sostanzialmente indenne dal terremoto, l’insieme delle fortificazioni regie e baronali deve confrontarsi con nuove e ben più dure prove, a iniziare da una situazione politico-militare magmatica e in costante tensione. all’interno dei continui contrasti tra l’orsini e il potere centrale, attestati da ripetuti, cruenti episodi bellici (gli assedi di barletta, trani, corato e giovinazzo), si inseriscono nuovi signori e nuove formazioni militari, dalle truppe di giovanni d’angiò, figlio di renato, e dell’alleato giacomo piccinino, figlio di nicolò, che nel 1461 giungono ad assediare lo stesso sovrano nel castello di barletta, a quelle filoaragonesi degli sforza, che nel luglio dello stesso anno contribuiscono all’assedio e alla presa del castello di monte sant’angelo, e di giorgio castriota scanderberg − tra i più noti esponenti delle famiglie albanesi presenti nelle città pugliesi verso la metà del secolo − che dopo la vittoriosa battaglia di troia, nell’agosto 1462, ottiene in feudo dal sovrano monte sant’angelo con san giovanni rotondo. alla battaglia partecipa anche, al servizio degli aragonesi, quell’orso orsini che teorizza, nel trattato sul Governo et exercitio de la militia, nuovi princìpi di tattica militare e l’importanza della fortificazione campale e delle bombarde31. la campagna contro i filoangioini condotta in quei mesi da re ferdinando continua a fare della capitanata e del nord barese un teatro bellico di primo piano. ce ne ha chiarito vicende e retroscena la fitta corrispondenza tra napoli e milano, in particolare le lettere redatte dall’ambasciatore di francesco sforza nel regno, antonio da trezzo, che seguendo personalmente gli spostamenti dell’esercito aragonese ha modo di registrare quotidianamente l’entità delle forze in campo, la consistenza delle 30 ivi, p. 90, e le schede sulle singole località per le altre fonti. è errata l’ipotesi, avanzata da a. haseloff, Architettura sveva nell’Italia meridionale, cur. e pref. di m.s. calò mariani, i, bari 1992 (ediz. orig. leipzig 1920), p. 70, e ripresa in molti lavori, secondo cui il palatium federiciano di foggia sarebbe stato distrutto dal sisma del 1456. 31 p. pieri, Alfonso V d’Aragona e le armi italiane, ora in pieri, Scritti vari, torino 1966, p. 94: del trattato, datato 2 gennaio 1477 e dedicato a re ferdinando, si può leggere il testo in pieri, Il «Governo et exercitio de la militia» di Orso Orsini e i «Memoriali» di


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fortificazioni, il comportamento dei vari personaggi in campo. così ad esempio nel luglio 1459, in una lettera all’aragonese, il da trezzo non lesina particolari nel descrivere uno degli episodi di lotta tra i diversi schieramenti tranesi, insistendo su ruolo e ambienti del castello; due anni più tardi, nel maggio 1461, una sua informativa allo sforza sui consistenti progressi militari dell’orsini e dell’angioino commenta l’importanza delle bombarde (e della fame) nella conquista delle località del gargano, da Vieste a san giovanni rotondo32. ma già il successivo 17 luglio la situazione si è ribaltata, e parte un dispaccio per informare della scarsa resistenza opposta dal filoangioino alvise (luigi) minutolo, rifugiatosi nel castello di monte sant’angelo «cum la moglie et figlioli» e una pur robusta guarnigione, «el quale aluyse è quello che dede via el castello de nucera» (lucera); quattro giorni dopo − è lo stesso re, con la fierezza del vincitore, ad annunciarlo al duca milanese − «benché la terra sia in loco multo aspero e difficile et havesse multi defensori, inter li quali erano clX fanti forestieri et alcuni homini d’arme» agli ordini del minutolo, «in fra spatio mino de una hora la terra fo pigliata et sachezata con singulare strenuità et virtù de li nostri homini»33.

Diomede Carafa, «archivio storico per le province napoletane», n.s., XiX (1933), pp. 99212, alle pp. 126-179. solo tra 1467 e 1468, anno della morte del castriota, sua moglie risiede nel castello di monte sant’angelo. su queste vicende g.m. monti, La spedizione in Puglia di Giorgio Castriota Scanderberg, «Japigia», X (1939), f. iii, pp. 275-320; e. pontieri, La Puglia nel quadro della monarchia degli Aragonesi di Napoli, in Atti del Congresso internazionale di studi sull’età aragonese (bari, 15-18 dicembre 1968), bari s.d. [1972], p. 33. inoltre g. Vallone, Aspetti giuridici e sociali nell’età aragonese: i Castriota in Terra d’Otranto, in Otranto 1480 cit., ii, pp. 209-264. 32 Vitale, Trani cit., doc. XXXi, 3 luglio 1459, pp. 683-686, e doc. Xlii, 21 maggio 1461, pp. 703-704. su ruolo e carteggi del da trezzo v. ora il bel volume di f. senatore, «Uno mundo de carta». Forme e strutture della diplomazia sforzesca, napoli 1998. considerazioni interessanti e condivisibili sul conflitto di quegli anni in f. storti, «La più bella guerra del mundo». La partecipazione delle popolazioni alla guerra di successione napoletana (1459-1464), in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. g. rossetti - g. Vitolo, napoli 2000, i, pp. 325-346. sugli assedi del periodo: Daconto, Saggio storico cit., pp. 151-160, secondo cui a giovinazzo verso il 1461 «era un piccolo presidio di trenta biscaglini, soldati veterani [...]; erano costoro i maestri dai quali imparavano i nostri concittadini il mestiere delle armi, e molti ne divennero eccellenti balestrieri»: p. 157. 33 entrambe le lettere in e. nunziante, I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò (1458-1464), «archivio storico pugliese», XXi (1896), p. 505, nota 4; sul minutolo v. anche p. 521, nota 2. inoltre a. ciuffreDa, Monte Sant’Angelo durante il periodo aragonese e spagnolo, «garganostudi», Vii (1984), pp. 83-107, e g. tancreDi, Il castello normanno-angioino-aragonese e la Signoria dell’onore di Monte Sant’Angelo, manfredonia 1948.


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nel 1464 al figlio di francesco, sforza maria sforza, viene concesso il ducato di bari, che dopo la morte dell’orsini era rimasto nel demanio regio solo qualche mese; un lasso di tempo brevissimo, ma sufficiente all’università di bari per presentare a re ferdinando una serie di petizioni tra cui − antica preoccupazione dei «cittatini» − spicca la richiesta di non «fare in baro altra fortezza la quale potesse venire ad guardia et offesa dela città», e soprattutto di non ricostruire «la torre de santo antoni sopra il porto» che l’università «per contenteza universale de tutti cittatini» ha appena acquisito e fatto «abbattere et ruinare». Di più: «in compensatione dela spesa fatta a poterela acquistare et farela abbattere», l’università chiede di utilizzarne «le petre pro reparatione deli mure dela cità et le monitioni in quella trovate, de piccolo prezzo et valore»34. ancora una volta è una lettera dell’ambasciatore da trezzo a dirci qualcosa di più. il privilegio di concessione del ducato, datato 9 settembre 1464, comprendeva anche modugno e palo con i rispettivi castelli, «ducatum bari, pali moduniique oppida»; ne erano state escluse invece gioia del colle, bitetto e cassano, con grande rammarico del da trezzo, che nel gennaio successivo lamenta appunto che «se cum questo ducato se gli havesse potuto agiungere betecta et cassano, seria uno bellissimo stato, et miglioraria molto de intrata, perché quelle sonno due bone cose»35. in realtà − lo ammette nel prendere possesso del ducato il viceduca azzo Visconti, delegato da sforza maria − il territorio di palo «con il castro, è migliore cosa et de più importantia et utile con intrata de olio di circa millecinquecento ducati», anzi il castello, per quanto piccolo e periferico, svolge un ruolo determinante nel controllo del territorio: è, per

34 licinio, Bari e il suo castello cit., p. 272; m. petrignani - f. porsia, Bari, romabari 1982, p. 46. sulle petizioni al sovrano: f. carabellese, La Puglia nel secolo XV, parte ii: I documenti di Bari, Giovinazzo, Trani, bari 1907, pp. 189-203. Diversamente da quanto sostenuto da g. petroni, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino all’anno 1856, i, napoli 1857 (rist. anast. bologna 1971), pp. 479-480, sulla scia di a. beatillo, Historia di Bari principale città della Puglia, napoli 1637 (rist. anast. bologna 1965), p. 176, che attribuiva all’orsini la costruzione della «gran torre, a guisa d’un piccolo castello, che avesse il proprio castellano e i soldati di guardia», della struttura si ha notizia già dal luglio 1359, all’epoca di roberto principe di taranto: r. licinio, Bari angioina, in Storia di Bari dalla conquista normanna al ducato sforzesco, cur. g. musca - f. tateo, roma-bari 1990, p. 115. 35 n. ferorelli, Il ducato di Bari sotto Sforza Maria Sforza e Ludovico il Moro. Da documenti inediti del R. Archivio di Stato, dell’Ambrosiana e della Trivulziana di Milano, milano 1914, p. 9; l. pepe, Storia della successione degli Sforzeschi negli Stati di Puglia e Calabria e documenti, bari 1900 (nuova ediz. con introd. di g. musca, bari 1985), n. 1, p. 12, per il privilegio del 9 settembre 1464.


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usare una bella immagine del Visconti, «falcone di tutte queste contrade»36. una struttura castellare secondaria, dunque, ma non marginale, stando alle informazioni che ce ne sono giunte, tra cui anche un inventario, steso il 13 ottobre 1465 dal notaio barese roberto de perillo, lo stesso che qualche giorno più tardi stilerà il definitivo «instrumentum inventarii munitionis» del castello di bari. a palo, l’armamentario descritto appare sufficiente ad una piccola guarnigione (venti servienti quando il castello era regio): ventiquattro balestre di legno e una soltanto in ferro, cinque mulinelli e quattordici cinti «per carecare balestre», armi «vecchie et schiodate», bracciali e gambali di ferro, celate, elmetti e guanti, quattro lance «senza ferro» e dieci «ronconi tra boni et tristi», otto bombarde con due affusti, qualche schioppo di cui cinque rotti, due spingarde, due barili e mezzo di zolfo, tre pali di ferro «per rompere li muri», cinque paia di ferri «da tenere li prisuni», una catena «grossa per lo ponte» e una «per ligare li schiavi»; e poi campane e lampade, una clessidra, «ampolletta per le hore», un «martello de ferro per horilogio», e quattro icone «de ligno vecchie con certe ymagine»37. custodito sino a quella data dal «conservatore» e cavarretto alessandro de catiniano, quindi momentaneamente affidato ad un «famulo» del Visconti, stefano conte, il 26 ottobre il castello di palo è consegnato ad un nuovo castellano, nicola de fulgineo (da foligno), giunto a bari con moglie e figlio il giorno prima. seriamente ammalato, «mezzo morto», nicola è condotto «in sbarre» a palo, dove presta giuramento di fedeltà insieme alla nuova guarnigione di soldati lombardi. ed è subito polemica: in primo luogo sullo stato del castello, che per quanto piccolo, pure per la sua posizione strategica, in cima ad una collina che controlla un ampio territorio pianeggiante e le vie da altamura a bari e a bitonto, non è «da tenere da niente», ed «è de mancamento da tenerlo cusì mal in ordine»; se non

36 a. castellano, Protomagistri ciprioti in Puglia in età sveva e protoangioina, in Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina. atti del convegno di studi (bitonto, 1113 dicembre 1987), cur. f. moretti, bitonto 1989, p. 272; ferorelli, Il ducato di Bari cit., p. 24. «bella fortezza» è invece detto il castello di gioia del colle in una lettera cifrata del 26 settembre 1464 a francesco sforza, in cui il da trezzo sottolinea la necessità di nominare un castellano anche per gioia: ivi, p. 9. 37 ivi, doc. iii, pp. 82-84. castellano, Protomagistri cit., pp. 272-273, ne riporta una parte, sottolineandone la «notevole importanza per comprendere lo stato di armamento delle “fortezze minori” pugliesi». sull’inventario barese, datato 29 ottobre 1465, il terzo stilato in pochi giorni e l’unico pervenutoci: f. porsia, Vita quotidiana a Bari nel ’400 e ’500, in I segni della storia. Le carte. Le pietre. Le cose, 1, Itinerari per Bari medievale, cur. c. gelao, bari 1981, doc. n. 16, pp. 15-18; licinio, Bari e il suo castello cit., pp. 275 e 302-304.


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si provvede al più presto agli indispensabili restauri, se ne salva «pocho altro che le mura», definite per altro «magnifiche et trionfale». ma si discute anche sulla quantità e qualità dell’armamentario, in cui appaiono troppe le armi vecchie e inservibili, e sull’importo delle paghe, di cui più volte nicola sollecita l’aumento. per di più, non avendo ricevuto risposta sulla «pocha provixione» assegnata a lui e ai soldati, «per mantenere quisti diti compagni e mi per amore de la caristia grande che in questo paixe è», il castellano deve ammettere, nell’aprile 1466, di aver dovuto «impignare fine a li vestiti de mia dona». un aumento sarà poi concesso nel maggio 1467, mentre nessun provvedimento viene autorizzato sul restauro della struttura castellare e sulla dotazione in armi; ci si limiterà, nel luglio dello stesso anno, a formalizzare un elenco «de le cosse seriano necessarie per mantenimento e governo del dito castello»38. Di restauri, o comunque di lavori in corso per il castello di bari, si parla in una lettera del governatore sforzesco azzo Visconti, che scrive di un cantiere in cui si concentra manodopera lombarda, preferita ai lavoratori locali persino nei lavori di sostituzione, sulle mura castellari, delle vecchie insegne con «quelle nostre belle arme» che «qua non le sanno pingere a la nostra forma e le pingono qua si tristamente che [...] pareno layde»39. cantiere, residenza del duca o del suo rappresentante, sede di una guarnigione, struttura militare e del controllo sforzesco sulla città e sul suo territorio, il castello barese è naturalmente anche luogo di reclusione: un’altra lettera descrive un attentato alla vita del Visconti e la durissima reazione di quest’ultimo, nel marzo 1468. Dopo aver fatto «redurre in castello» gli attentatori, due uomini d’arme «scandellose et de malla natura», rei confessi «senza tormento» del furto di 300 ducati nella bottega di un mercante di panni, recuperata la refurtiva «in loco molto ochulto», «li feci tagliare la testa a tuti duy − conclude drastico il Visconti − et con tanto piacere et contenteza de tuti quisti gentilhomini et citadini». sembra per altro che i due giustiziati fossero «homeni de conditione» e soldati di re ferdinando, che appresa la notizia deplorerà che bisognava limitarsi a tenerli in prigione, invece di condannarli a morte40. 38 per queste notizie ferorelli, Il ducato di Bari cit., pp. 24-26. in pepe, Storia della successione cit., n. 3, pp. 14-15, è una lettera del 27 agosto 1468 che segnala la controversia sul possesso di una «mulla de mulino», una macina attestata nel castello e ricordata anche nell’inventario, consegnata al viceduca «insema con le altre monitione et victualie», e da questi affidata al nuovo castellano «insema con li altri fornimenti del castello». 39 ferorelli, Il ducato di Bari cit., p. 23; f. porsia, Bari aragonese e ducale, in Storia di Bari cit., p. 154. 40 ferorelli, Il ducato di Bari cit., pp. 37-39.


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come il castellano di palo nicola de fulgineo, anche i due castellani lombardi della fortezza barese, i fratelli cremonesi cristoforo e federico favagrossa, giunti nella città via mare nel 1465 con nicola e «con grande brigata de femine e figlioli», hanno diversi motivi per essere insoddisfatti e protestare: per la paga innanzi tutto, solo 6 ducati al mese, da dividere in due, mentre i castellani che li avevano preceduti ricevevano anche 10 ducati al mese, oltre a pane, vino, olio, sale e legna; per il numero di soldati che compongono la guarnigione, che devono almeno giungere a trenta, perché «a loro convene ogni notte esser duy per guarda ne lo revelino, dentro dal castello ogni ora, uno suxo la tore maestra, l’altro suxo lo coratore, sicché non poteno durare la fatiga»; e per la scarsa dotazione ricevuta, al punto che mancano persino i mantelli per ripararli dal vento e dalla pioggia durante i turni di guardia. l’aumento del soldo viene poi autorizzato, da 6 ad 8 ducati ai castellani, da un ducato e mezzo (pari a 15 carlini) a 18 carlini ai servienti, ma non per questo cessano le rimostranze dei due castellani, che insistono per ottenere l’assegnazione di un secondo castello: nel 1474 giungerà invece il decreto di destituzione dall’incarico41. nella corrispondenza epistolare di personaggi come il da trezzo e il Visconti, lo si è potuto notare, le fortificazioni pugliesi occupano una posizione di spicco, sono elementi in cui si coagulano le scelte e le necessità politiche e militari del tempo. altra, più esplicita sul rapporto anche visivo tra insediamento e opera di difesa, è la loro immagine nei resoconti di viaggio. a fine novembre del 1470, di ritorno dalla terra santa, sbarca a brindisi un gruppo di pellegrini belgi di cui fanno parte anselmo adorno ed il figlio giovanni; ed è quest’ultimo a descrivere le principali località toccate nel viaggio che, attraverso la puglia, deve condurli dopo qualche settimana a benevento e napoli. non ne ripercorreremo in questa sede l’itinerario; basterà annotare, per quanto riguarda le fortificazioni urbane, l’attenzione di giovanni per le difese naturali, la solidità delle mura, la robustezza delle torri, l’immagine di forza delle strutture castellari, le fortificazioni costiere come l’abbazia di santo stefano che, a tre miglia di distanza

41 ivi, pp. 22-23; alle pp. 12-13 si dà notizia delle paghe nell’età di ferdinando: «il castellano percepiva 70 ducati all’anno, aumentati a 120 dal re, il quale teneva 30 uomini d’arme o “paghe”, a 2 ducati “per paga” al mese, e provvedeva a tutte le spese del castello». nella bari orsiniana, invece, 36 ducati annui riceveva il castellano, e 18 ducati annui (un ducato e mezzo al mese) i servienti, cui andavano anche un tomolo di grano e un barile di vino al mese.


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da monopoli, «castrum est ad quecumque compellens civitatem»42. se mai giova sottolineare che non tutte le località descritte sono state realmente visitate dai pellegrini − infatti non c’è alcun cenno alle fortificazioni di lecce, nardò, otranto e taranto − il che pone il problema di valutare quali notizie, in quel resoconto, siano state assunte in modo indiretto, e come; c’è insomma da riflettere sulle modalità di trasmissione delle informazioni, oltre che sulla presenza e sul peso degli stereotipi e delle identificazioni inesatte, per cui ad esempio carlo i d’angiò è scambiato con carlomagno, e il munitissimo castello di brindisi, invece che al nipote federico ii, è attribuito a «feodericus imperator barba rubia»43. il confronto con altre fonti del periodo vale spesso a confermare le osservazioni dell’adorno: così per trani, a proposito sia del castello, «castrum est in ea satis forte», sia della «spettacolare descrizione della città e dei suoi splendidi palazzi rivestiti di bugne marmoree lavorate a punta di diamante»44. così per la localizzazione della battaglia più importante nella guerra tra re ferdinando e il pretendente angioino giovanni, effettivamente svoltasi nelle «valles pulcherrime» di troia, «ea in parte in qua castrum est», o per l’annotazione su molfetta che, priva di castello, è solo «bene murata»45: pare in effetti che la struttura castellare molfettese fosse andata distrutta agli inizi del regno di giovanna ii; ne sarà costruita una nuova dai gonzaga solo verso la fine del secolo. così anche per l’annotazione relativa ad ostuni, che pare quasi «muros non habere circumcirca, cum super illis domus edificate sint»: qui il viaggiatore coglie una fase di transizione nella storia delle fortificazioni ostunesi, un ventennio in cui la città è decastellata e priva di mura efficienti. solo qualche anno prima, secondo un atto del 1468, la locale università era stata autorizzata a demolire il castello, «licentia castrum dicte civitatis ruinandi», per innalzare al suo posto un palazzo regio, e «restans territorium ipsius castri concedendi civibus ipsius civitatis pro construendis domibus»; e solo qualche anno dopo, a partire dal 1487, su iniziativa di alfonso duca di calabria, nuove mura sostituiran42 Itinéraire d'Anselme Adorno en Terre sainte (1470-1471), ed. e trad. J. heers - g. de groër, paris 1978 (sources d'histoire médiévale publiées par l'institut de recherche et d'histoire des textes), p. 384. in trad. it. la parte relativa alla puglia è in f. porsia, L’itinerario pugliese di Anselmo e Giovanni Adorno, in Miscellanea di studi pugliesi, ii, fasano 1988, pp. 185-196. 43 Itinéraire d’Anselme cit., p. 382 su brindisi, e p. 386 su carlomagno. 44 m. pasQuale, Il castello di Trani. Vite e volti di un castello di Puglia, in Il Castello Svevo di Trani. Restauro, riuso e valorizzazione, napoli 1997, p. 60; ivi, nell’appendice i, cur. g. molfetta, pp. 133-145, è riportato il rendiconto delle spese relative al castello nel 1495. nell’Itinéraire d’Anselme cit. il passo sul castello di trani è a p. 394. 45 ivi, p. 390, e p. 402 su troia.


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no quelle, ormai in rovina secondo l’adorno, edificate tra 1350 e 135646. altre descrizioni alimentano invece dubbi e interrogativi: perché mai bisceglie appare ai pellegrini, che pure vi si fermano, solo «fortibus muris ac menibus cincta», mentre sfugge loro la presenza del castello quadrilatero attestato già in età sveva?; e a proposito di foggia, la città priva di mura che è residenza estiva regia «ad venandum et aucupandum», a quale struttura può corrispondere il «palacium novum»47 che l’aragonese vi avrebbe edificato? «maxima est et fertilissima in oleo et blado qua in orbe melior, credo, non reperitur», scrive giovanni adorno; l’immagine della puglia feracissima di grano e di olio che colpisce i pellegrini belgi, pur ricorrente sin dall’età della conquista normanna, non è semplicemente un topos: una fonte turca del 1479, paragonata la regione ad un’arnia «il cui miele è molto», ne sottolinea le ricchezze scarsamente custodite osservando maliziosamente che «le sue api sono poche»48. è l’appetito prima della conquista: il pericolo delle incursioni turche, minaccia costante e temutissima al pari delle scorrerie veneziane e piratesche, si concretizza tragicamente e sembra assumere le dimensioni di una irrimediabile disfatta militare il 28 luglio 1480, con lo sbarco presso i laghi alimini (qualche km a nord di otranto) degli uomini di maometto ii, guidati da gedük ahmed (ahmed “lo sdentato’), che saccheggiano alcuni casali della zona e l’11 agosto conquistano otranto49. le collaudate ma secolari strutture difensive regie idruntine mostrano nell’occasione la loro inadeguatezza funzionale. non resistono al bombardamento turco il castello che, scriverà il 3 ottobre il commissario di bari al duca ludovico sforza, aveva «triste e vechie mura», e la cinta muraria urbana, difesa in prevalenza da disorganizzati armati locali «li 46 I documenti della storia medievale di Ostuni, introd. e cur. p.f. palumbo, fasano 1997,

n. cXXXVi, p. 191, e n. cXci, p. 289. ostuni nell’Itinéraire d’Anselme cit. è a p. 384. 47 ivi, p. 400, e p. 390 su bisceglie. e perché su mola (p. 386), che «parvum est opidum, circumcirca fortibus muris cinctum, habens parvum fortalicium», si aggiunge che «eo in loco femelle multo plures sunt viris, ita quod quatuor sunt femine respectu unius viri»? 48 a. gallotta, I Turchi e la Terra d’Otranto (1480-1481), in Otranto 1480 cit., ii, pp. 184-185. per le fonti meridionali sull’episodio: Gli Umanisti e la guerra otrantina. Testi dei secoli XV e XVI, introd. di f. tateo, cur. l. gualdo rosa - i. nuovo - D. Defilippis, bari 1982. il passo sulla puglia nell’Itinéraire d’Anselme cit. è a p. 380. 49 a. roVigo, L’Occidente cristiano di fronte all’offensiva del Turco in Italia nel 14801481: aspetti militari, in Otranto 1480 cit., i, pp. 65-135. in f. tateo, L’ideologia umanistica e il simbolo «immane» di Otranto, ivi, Appendice i, p. 210, n. 7, la curiosa notizia che ahmed è soprannominato gedük (chiedich) «perché privo di alcuni denti anteriori. in turco infatti ghedik, propriamente “breccia, fessura”, ha il valore traslato di “sdentato”».


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quali − fa sapere gedük ahmed − non estimava uno fico»50. non resistono e sono rapidamente occupate e saccheggiate, nel territoro, diverse località anche murate o dotate di un fortilizio; riescono a salvarsi lecce, salve, gallipoli, brindisi51. uno dei primissimi impegni degli occupanti turchi, qualche giorno appena dopo la conquista, è la riorganizzazione difensiva di otranto secondo criteri adeguati alla realtà militare dell’epoca. un Veneziano fuggiasco dalla città riferisce nella sua testimonianza del 25 settembre del rapido approntamento di nuove opere di fortificazione, dello spianamento del terreno per due miglia intorno alla cinta difensiva, dell’allestimento di «circha boche de bombarde et spingarde numero mille secento et più», di pali «circha a dui millia grossi», «incatenati cum catene de ferro grosse assai» per impedire l’ingresso alla cavalleria nemica, «se non per una via, la quale hanno molto fortificata», dell’opportuno affondamento di «certi legni, acioché l’armata non li possa offendere», di una grande quantità di «polvere, sartame, et monitione assaissime», dell’avvelenamento delle acque potabili: «et di fora, a miglia V hanno guastate tute l’aque, acioché el campo del re venendo non vi possa stare comodamente»52. con le bombarde, i turchi − scrive a ferdinando nel maggio 1481 il figlio alfonso, duca di calabria, a capo dell’esercito che tenta di riconquistare la città − usano anche bombe incendiarie, «certe pignate di polvere cum fuoco sperando brusare la bastia» (una delle innovazioni nella tecnica ossidionale

50 roVigo, L’Occidente cit., pp. 92 e 120 sul giudizio del comandante turco; a p. 76 sulla debolezza delle difese otrantine, su cui anche V. zacchino, La guerra di Otranto del 1480-1481. Operazioni strategiche e militari, in Otranto 1480 cit., ii, pp. 267-268; ivi, p. 269, sull’osservazione del commissario di bari. 51 porsia, L’Occidente cit., allegato 3 di p. 131; v. pp. 78-79 per gli orientamenti tattici e l’organizzazione militare dei turchi, e pp. 88-94 per quelli delle forze cristiane. 52 la testimonianza è riferita da costanzo sforza in una lettera del 25 settembre 1480, Nove de un Veneziano, è stato ad Otranto, trasmesse da Costanzo Sforza, che, edita da c. foucard, Fonti di Storia Napoletana nell’Archivio di Stato di Modena: Otranto nel 1480 e nel 1481, «archivio storico per le province napoletane», Vi (1881), pp. 147-148, è stata poi ripresa e analizzata da bacile Di castiglione, Castelli pugliesi cit., pp. 207-208, e più recentemente da zacchino, La guerra di Otranto cit., nota 32, p. 274: «prima li turchi hanno talgiato, dui miglia atorno, giardini de pomaranza, olivi, e spianato ogni cosa; hanno facto de quelle frasche uno reparo cum terra grosso assai cum uno gran fosso di fora la terra, tanto che hanno messo l’acqua dolce dentro da lo reparo, nel quale ha facto bombarde et un passo longo una da l’altra, et hanno glie messo circha boche de bombarde et spingarde numero mille secento et più, quelle erano a la via di terra ferma due palmi supra la terra. De drento hanno fichati palli circha a dui millia grossi et hanno incatenati cum catene de ferro grosse assai, acioché, essendo sforzati li repari, li cavalli non possino intrare se non per una via, la quale hanno molto fortificata, et hanno tirate certe fuste in terra, le quale


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sperimentata ad otranto), procurando alcuni «morti et guasti [feriti] da lartigliaria che fioccavano». ma se i soldati «per la paura de lartigliaria» possono rimanersene «al coperto», molti cavalli «ne sonno stati amazati nel campo da bombarde, et ogni dì se ne amazano», per cui urge «mandarenci li più cavalli sia possibile, che in vero molti homini darme sonno a pede et tanti che la maestà Vostra non lo crederìa»53. Questa attenzione per i cavalli può apparire tutta “medievale”: in effetti, se il ruolo della cavalleria nella guerra dell’epoca continua ad essere determinante, la presenza delle «artigliarie» è un dato sempre più generalizzato e sempre più decisivo. agli inizi di quello stesso maggio del 1481, mentre nell’accampamento aragonese si approntavano «li galloni [gallerie] e gratice [graticci] in quantità per fare repari et strate coperte» contro i tiri dell’artiglieria turca, alfonso si era affrettato a ordinare «che domatina andarono li bovi ad pigliare la artiliari da leze [Lecce] e facio venire la bombarda reale, la Vipera, la alfonsina et una de le due bombarde forono de conte iacobo, cioe la più longa et furiosa [...] per far vendetta supra quelli cani turchi de sangue che haveno sparsi de christiani»54. insomma da tempo, accanto alle tradizionali armi “manesche” da tiro, le balestre e gli archi, e alle macchine ossidionali da lancio, i mangani e i trabucchi, collaudate e perfezionate nel corso di secoli ma sempre meno funzionali, si è fatto massiccio e indispensabile il ruolo e l’utilizzo delle artiglierie e delle armi da fuoco, moschetti, brigole, colubrine, sino a quella «potentissima chiamata bombarda», che al senese francesco di giorgio martini, architetto militare tra i più prestigiosi del periodo, sembra «più presto doversi chiamare diabolica invenzione et opera che umana»55. la maggiore efficasono difese dal riparo da fora; hanno afondato certi legni, acioché l’armata non li possa offendere; grandissima quantità di polvere, sartame, et monitione assaissime, et persone circa XV millia turchi da facti, et di fora, a miglia V hanno guastate tute l’aque, acioché el campo del re venendo non vi possa stare comodamente». 53 V. zacchino, Quattro lettere inedite di Alfonso d’Aragona relative alla guerra di Otranto (1481), «sallentum», iii (1980), n. 1-2, lettera n. 3, 31 maggio 1481, p. 44. 54 ivi, lettera n. 2, 2 maggio 1481, p. 43. 55 francesco Di giorgio martini, Trattato di architettura civile e militare, è stata edita in Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, cur. c. maltese, milano 1967, ii, p. 418. sulle modifiche castellari nel passaggio dalla poliorcetica tradizionale alle armi da fuoco, oltre a p. pieri, La scienza militare italiana del Rinascimento, «rivista storica italiana», l (1933), f. ii, pp. 262-281, poi in Scritti vari cit., pp. 99-119, e a. petrignani, Aspetti funzionali ed urbanistici dell’architettura militare, in Castelli, torri cit., pp. 386-387, cfr. ph. contamine, La guerra nel Medioevo, bologna 1986 (paris 1980), e il volume del Glossarium artis su Festungen. Forteresses. Fortresses. L’architecture militaire après l’introduction des armes à feu (supplément: Termes de Poliorcétique), cur. r. huber - r. rieth, münchen 1979.


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cia distruttiva dei tiri di artiglieria comporta nei castelli il passaggio alla “difesa radente”, la cimatura delle torri, la sostituzione dei merli con i merloni, l’inutilità delle caditoie e in parte dei fossati, la diffusione dei torrioni cilindrici casamattati (oggi visibili a Dragonara, manfredonia, trani, brindisi, ceglie messapico, otranto, gallipoli, avetrana, taranto e altrove) invece delle alte torri cilindriche, quadrate o poligonali, l’uso di mura scarpate, e l’innesto di baluardi cilindrici anche nelle cinte murarie urbane (a manfredonia, trani, ostuni, alessano)56. oltre a risposte militari tempestive e all’altezza della pericolosa situazione − prima di avvicinarsi ad otranto, le truppe aragonesi pongono il campo a castro e a roca, dove il rafforzamento delle opere di difesa si vuole affidato all’ingegnere marchigiano ciro ciri57 − la conquista turca impone a re ferdinando un piano generale (e assai costoso) di riadeguamento del sistema difensivo, imperniato sul potenziamento delle «terre marine», dei porti e dei castelli costieri, ancor prima delle «terre forti» dell’interno. in terra d’otranto, la provincia più esposta agli attacchi dal mare, il rafforzamento difensivo si pone naturalmente in termini generalizzati. a otranto viene fortificata l’intera città, secondo un rendiconto delle spese relativo ai lavori del 1485. a gallipoli nel 1487 il castellano Diomede longo de tana è impegnato nel controllo dei lavori castellari e di edificazione di casematte. a taranto già tra 1482 e 1484 si riparano e si fortificano le mura, quindi su ordine del duca alfonso viene scavato il “fosso”, poi canale, e nel 1492 si concludono i lavori di riedificazione del castello. a brindisi il “castello alfonsino” viene rafforzato da bastioni e antemurale, e in quello “di terra’, dotato di numerosi pezzi di artiglieria, si procede alla cimatura delle torri e alla costruzione nel 1488 di un nuovo fossato e di un antemurale poligonale dotato di bastioni angolari58. 56 l. santoro, Castelli angioini e aragonesi nel regno di Napoli, milano 1982, pp. 127131, la nota 2 di p. 131, e p. 140. 57 roVigo, L’Occidente cristiano cit., p. 109. allievo di francesco di giorgio martini, il ciri avrebbe con lui collaborato nel progetto di ricostruzione del castello di taranto: g.c. speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, bari 1930, pp. 38-40, e c. ceschi, Opere militari e civili del Rinascimento in Puglia. Una torre e la cappella del castello di Taranto, «Japigia», Vii (1936), pp. 273-274. ma è di diverso avviso, motivatamente, g. carDucci, La ricostruzione del castello di Taranto nella strategia difensiva aragonese (1487-1492), «archivio storico pugliese», XlViii (1995), pp. 151ss., e carDucci, Ciro Ciri da Casteldurante ed il suo preteso intervento nella costruzione dei castelli aragonesi di Terra d’Otranto, in Scritti di storia pugliese in onore di mons. Carmine Maci, cur. m. paone, galatina 1994, pp. 61-92. 58 molti esempi sui lavori castellari in terra d’otranto nell’informatissimo carDucci, La ricostruzione cit., pp. 101-178, spec. pp. 130ss. cfr. poi le relazioni ai convegni su Il


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in terra di bari è notizia di lavori di rafforzamento a barletta nel 1481, e a bari nel 1488, quando su iniziativa del viceduca sforzesco gaspare Visconti si innalza nel castello la nuova torre detta appunto viscontea, e a partire dal 1492, su ordine di re ferdinando, se ne rinforzano le strutture: «havendo voluto il re ferrante primo fare alcune fabriche, per ristorare il castello di bari, scrisse da foggia, doe allora si ritrovava» perché si spendessero «a suo conto, per lo bisogno di quelle fabriche, mille cinquecento ducati, come fu subito essequito»59. in capitanata il riadeguamento interessa primi tra tutti i castelli, strategicamente decisivi e legati in un “minisistema” difensivo imperniato sul rapporto costa-monte, di manfredonia, di cui ci è giunta la «cedola per la costruzione del castello», con il registro dei conti rogato dal castellano geronimo micheli60, e di monte sant’angelo. Qui, tra i lavori affidati nel 1483 da alfonso di calabria a giovanni castriota, e completati entro il 1493, sono accertati lo scavo di un fossato, la costruzione di torri sul margine della roccia viva e, come risulta dal registro delle spese sostenute nel 1490-1491, redatto dal credenziere antonio giovanni Visco per il governatore della città, tommaso barone, la demolizione delle torrette e di una delle torri angolari dell’impianto antecedente, la «torre vecchia», la costruzione di terrapieni sul «beneriguardo dela porta falsa delo castello», la strombatura della torre del gigante con l’aggiunta di un torrione tronco-conico61. i lavori di quell’anno furono affidati a «estaglio» al mastro manfredoniano rostayno de salvagniolo (gli si deve probabilmente l’incisione della data del 1491 sul torrione simmetrico a quello tronco-conico), già capomastro nel cantiere castellare di manfredonia. castello «di terra» di Brindisi nel sistema delle fortificazioni (brindisi, 25 ottobre 1996), e Il castello di Taranto nella strategia difensiva del Mezzogiorno dalla ricostruzione bizantina all’età aragonese (taranto, 25-27 novembre 1992). inoltre c.D. fonseca, «In ampliorem firmiorem formam restituit»: la ricostruzione del castello di Taranto, in Il castello di Taranto: immagine e progetto cit., pp. 25-40; f. porsia - m. scionti, Taranto, roma-bari 1989, pp. 51-52; g.m. monti, Il «Libro Rosso» del Comune di Taranto e le fortificazioni cittadine, «Japigia», i (1930), p. 399; speziale, Storia militare di Taranto cit., p. 26; Il sistema difensivo a Brindisi, cur. b. sciarra bardaro - c. sciarra, galatina 1981 (come l’opera dello speziale non privo di errori). 59 licinio, Bari e il suo castello cit., p. 280 e nota 98. su barletta: bacile Di castiglione, Castelli pugliesi cit., p. 75. 60 in Fonti aragonesi a cura degli archivisti napoletani e dell’accademia pontaniana, Vi, cur. c. salvati, napoli 1968, pp. 81-140. 61 ciuffreDa, Monte Sant’Angelo cit., pp. 90-91. sul «Quaderno facto per me antonio Jo. Visco tesoriero della fabrica et fosso delo castello di monte sancto angelo…», cfr. m. azzarone, Il castello di Monte Sant’Angelo: il quaderno delle spese dei lavori negli anni 1490-1491, «garganostudi», X, 1987, pp. 29-50.


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non tutto procede con speditezza e senza problemi. il reperimento delle somme per finanziare i lavori ne è il più grave, al punto da richiedere persino l’alienazione di strutture difensive, pur di secondo piano, come avviene nel 1483 con la vendita a caterina di sanseverino, contessa di tagliacozzo, della torre costiera di Villanova e della vicina città di ostuni, «pro stipendiis diversarum armigerarum gentium«, «contra classim exercituum immanissimi magni turchi qui hoc nostrum regnum invasit»62. non basta: «grandissimo bisogno havimo de denari», ammette re ferdinando al percettore di terra di bari e terra d’otranto fabrizio de scorciatis, il 10 ottobre 1486; perciò, verifica se «alcune despese, che per lo passato sono state facte in dicti castelli, no fossero necessarie o se potessero moderare et diminuire»63. ancora più esplicite le istruzioni del successivo 25 novembre allo stesso de scorciatis: a gallipoli e otranto ci sono 100 fanti, che ci costano 4.250 ducati all’anno, ma poiché «de presente non ne pare necessaria tale spesa per essere bene in ordine li castelli de dicta città et per suprajongere lo inverno, voi tollerite via decti fanti», salvo richiamarli in caso di bisogno; elimina la spesa per gli «stratioti», cavalieri armati alla leggera, e assumi provvedimenti restrittivi per le «doe squadre de gente d’arme» stanziate in terra d’otranto; riduci gli stanziamenti, 4.680 ducati, previsti per i castelli di otranto, gallipoli, brindisi e taranto, e da 400 a 120 ducati quelli per la torre tarantina (quasi certamente quella detta “di raimondello’); e, poiché è necessario «da omne canto diminuire le spese», riduci anche il numero dei «compagni» nei castelli di trani (portati a 20), barletta (12), manfredonia (20), otranto (16), gallipoli (16); l’unica eccezione al drastico ridimensionamento di spese e guarnigioni riguarda il castello di brindisi, «finché non serà fornita una certa fabrica ce se fa»64. il «grandissimo bisogno de denari» si traduce ben presto nell’aumento delle imposizioni fiscali, innestando un ventaglio di reazioni, specialmente da parte delle università, che dall’intensificarsi del numero di suppliche e petizioni giunge ai contrasti sul possesso e sull’uso delle armi da fuoco, passando attraverso la contestazione dei castellani e degli ufficiali regi. il risultato complessivo è un freno al piano di ristrutturazione delle fortificazioni, soprattutto alla fine degli anni ottanta e nel decennio successivo. solo tre esempi. il 31 ottobre 1492, tra i mandati affidati dall’uni62 I documenti della storia medievale di Ostuni cit., n. cXciX, 2 ottobre 1483, pp. 303-307. 63 Regis Ferdinandi Primi Instructionum Liber (10 maggio 1486-10 maggio 1488), cur.

l. Volpicella, napoli 1916, n. XXV, 10 ottobre 1486, pp. 41-44. 64 ivi, n. XXXiV, 25 novembre 1486, pp. 59-61. sul reperimento delle risorse per finanziare la ristrutturazione castellare v. carDucci, La ricostruzione cit., pp. 148ss.


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versità di taranto al suo sindaco in procinto di recarsi a napoli presso il sovrano, appare la richiesta della restituzione da parte del castellano di due bombarde appartenenti all’università, «due bombarde ovvero passavolanti de matallo cum le arme de dicta universita le quale lo magnifico matheo crispano fe mettere in lo castello per conservarle»; e c’è anche il tentativo di recuperare la somma spesa dall’università per «la torre chiamata de sancto angelo» (di competenza della comunità locale «per essere nelle mura della universita» e per averla fatta costruire), che poi invece «se incorporao et intercluse alo castello grande de taranto», e l’autorizzazione, una volta completati i lavori di scavo di un fossato intorno al castello, a spendere 500 ducati «per lo silicare [selciare] della torre per essere cossì fangosa et brutta»65. a lecce, qualche mese prima, oltre a contestare l’invio «dele carra et carrette» ai cantieri castellari di otranto e gallipoli, in discussione era stata la stessa persona del castellano: di competenza dell’università era da tempo la «torre de sancto cataldo porto de dicta cita, in la quale torre omne anno essa universita ce soleva ponere uno castellano citatino: de po per lo consiglio de terra de otranto ce fo posto uno nomine gabriele mathalone, puro citatino de dicta cita el quale ce e stato cinque anni». un periodo di tempo troppo lungo: meglio un incarico annuale; da qui la richiesta di «farene amovere dicto castellano, et che quolibet anno se ce ne metta uno per loro, si como per lo passato era solito»66. e a mesagne l’università denuncia, nel 1495, il fatto che il nuovo castellano regio «fe’ portar tutta l’artiglieria et munitione de la università in castello; et andatosene, non lassao quella nce fosse restituita», sguarnendo così le difese della città67. per contro, va segnalato almeno l’episodio che vuole le chiese di brindisi, dopo la caduta di otranto, impegnate a prestare «alla corona tutte le argenterie per aumentare la difesa contro il turco»68. ancor prima di quella fiscale, è la macchina della diplomazia a mettersi in moto, già tra fine 1480 e aprile 1481, per tentare di raggiungere un improbabile accordo con i turchi. con risultati nulli, dopo la provocatoria richiesta, avanzata da gedük ahmed, della “restituzione” del principato di taranto: «desse [re Ferdinando] al gran signore turco tutto lo stato che fu del principe di taranto, chel non è del signor re e che non è hone65 ivi, pp. 161-164; Codice Aragonese, o sia lettere regie, ordinamenti ed altri atti governativi de’ sovrani aragonesi in Napoli, cur. f. trinchera, iii, napoli 1874, n. 63, 31 ottobre 1492, p. 311. 66 ivi, n. 41, 7 marzo 1492, pp. 224-225. 67 urgesi, Il castello di Mesagne cit., pp. 21-22. 68 r. Jurlaro, Le fonti per la storia di Brindisi nel periodo aragonese, in Atti del Congresso internazionale di studi sull’età aragonese cit., p. 485.


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sto lo abbia occupato per questa via»69. sicché, tra problemi, tensioni e conflitti dentro e fuori del regno (dall’opposizione baronale che si arma contro il sovrano in più riprese, ultima la cosiddetta “congiura dei baroni” del 1485-1486, al timore di attacchi da parte dei Veneziani e delle truppe dell’ultimo pretendente angioino, renato ii), tra improrogabili necessità militari e impellenti urgenze finanziarie, tra resistenze e accelerazioni, il piano di riadeguamento e rifacimento delle fortezze regie deve procedere comunque un po’ dappertutto. e, sviluppandosi secondo i cànoni della fortificazione bastionata, del fiancheggiamento e della difesa radente, si arricchisce in primo luogo delle originali soluzioni proposte, personalmente o indirettamente, da francesco di giorgio martini e da altri noti architetti militari. sappiamo che nel corso del 1492 francesco di giorgio ha modo di visitare ed esaminare con il duca alfonso le fortificazioni di terra d’otranto, suggerendo interventi e modifiche di fondo alle strutture militari urbane70. se ne ipotizza la partecipazione − ma nessun documento lo afferma con certezza − alla progettazione del puntone che termina in torrione nel rivellino di gallipoli e dei torrioni a mandorla nel castello di carovigno, e in qualche modo anche ai corposi lavori relativi alle fortezze di taranto, otranto, gallipoli, brindisi71. e gli vengono attribuiti interventi in capitanata, nella struttura castellare di rocchetta sant’antonio, nella progettazione del puntone a mandorla della residenza fortificata voluta da ladislao ii d’aquino nel 1507, e in quella di monte sant’angelo, dove il torrione a mandorla reca appunto la data del 149372. in qualche modo svi69 e. pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona. Studi e ricerche, napoli 19692, p. 344. 70 su cui v. ora L’architettura di Francesco di Giorgio Martini tra ricerche e restauri, cur. g. Volpe, pesaro 1994. e ancora: petrignani, Aspetti funzionali cit., pp. 385-389; santoro, Castelli angioini e aragonesi cit., pp. 191-198, sul ruolo di francesco di giorgio e dei suoi allievi antonio marchesi da settignano (antonio fiorentino) e baccio pontelli; r. pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, ii, milano 1977, spec. pp. 206-240. 71 ivi, pp. 230-231. sulla combinazione del puntone con il torrione a gallipoli: bacile Di castiglione, Castelli pugliesi cit., pp. 144-148. su otranto: ivi, pp. 212-214; sarebbe stato poi re alfonso ii ad ordinare lavori per «fornire la città ed il castello di una conduttura di acqua potabile»: p. 225. anche santoro, Castelli angioini e aragonesi cit., pp. 199220, sui castelli di taranto, brindisi, gallipoli, otranto, carovigno. ma anche sugli apporti dell’architetto senese in terra d’otranto carDucci, La ricostruzione cit., pp. 152-154, ha ragione di avanzare dubbi e di invitare ad una maggiore cautela, dato il silenzio delle fonti. 72 m. azzarone, L’intervento di Francesco di Giorgio Martini nel castello di Monte Sant’Angelo, «garganostudi», Vii (1984), pp. 65-78, e azzarone, Il castello di Monte Sant’Angelo cit., pp. 29-50; santoro, Castelli angioini e aragonesi cit., p. 214. Questo il testo dell’epigrafe marmorea posta sull’ingresso principale del castello di rocchetta sant’antonio, sotto lo stemma della famiglia d’aquino: «ladislaus de aquino junior bar /


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luppati sulla base o sulla scia delle indicazioni del maestro senese − che certo non sfugge al «destino che persegue sempre questi ingegni […] di trovarsi attribuite opere da loro non mai immaginate, progettate o vedute»73 − sembrano gli apporti di altri ingegneri militari dell’epoca, apporti ipotizzati a mola, dove si fa il nome di giovanni giocondo, ed evidenti nei torrioni a mandorla dell’attuale castello di nardò, costruito da giulio antonio acquaviva, e nei «turriculi terrei» (bastioncini terrapienati) fiancheggiati da artiglierie del castello di roca, rafforzato ancora dall’acquaviva subito dopo la conquista turca di otranto e descritto dal figlio di giulio antonio, belisario, nel trattato De re militari: «Vallo etenim, fossa terriculis, unde ex transverso tormentorum generibus castra tutari liceat, munienda sunt»74. accorgimenti nuovi, tecniche aggiornate, perché ora «castra munienda sunt»; non è più tempo, come a ostuni solo qualche anno prima, di alcuna «licentia castrum ruinandi». segno dell’urgenza e della delicatezza dell’incarico, lo stesso duca alfonso era stato investito dal padre del compito di fortificare contro le minacce turche, e al più presto, la catena degli insediamenti strategici, «gallipoli, brindisi, taranto, lecce, nardò, ugento, castro, alessano, s. cataldo, ed altre terre e castella della provincia» d’otranto75. «sic alphonsus calabriae dux, iulii patris nostris consilio, apud rocam castra muniri jussit», preciserà belisario acquaviva. e alfonso, protagonista di primo piano in quella fase di reincastellamento, si attiva in gran fretta, anche se ancora convalescente dalla «quartana» cau-

onie cripte dominus cum oppi / dum hoc rochecte mercatus / esset arcem hanc ere suo a fu / ndamentis construi iussit / salutis anno mcccccVii». 73 a. cassi ramelli, Dalle caverne ai rifugi blindati. Trenta secoli di architettura militare, bari 1996 (rist. anast. dell’ediz. milano 1964, con prefaz. di r. santoro), p. 366, che aggiunge: «a francesco si fanno risalire infatti quasi 300 tra consulenze e progetti militari sparsi per tutt’italia a centinaia di chilometri di distanza tra loro». 74 belisario acQuaViVa, De re militari, basilea 1578, pp. 123-124; sull’opera, sul personaggio e sulla sua concezione del rapporto onore-milizia, v. ora il documentato studio di D. Defilippis, Tradizione umanistica e cultura nobiliare nell’opera di Belisario Acquaviva, galatina 1994, spec. pp. 177ss. giulio antonio acquaviva muore l’8 febbraio 1481 a giuggianello, nel salento, combattendo contro i turchi; sul suo mito: f. tateo, Martirio ed eroismo: l’apoteosi di un barone, in tateo, Chierici e feudatari del Mezzogiorno, bari 1984, pp. 50-68. sugli apporti degli architetti: a. petrignani, Gli architetti militari in Puglia, in Atti del IX Congresso nazionale di Storia dell’architettura (bari, 14-16 ottobre 1955), roma 1959, pp. 127-148. la presenza a mola del giocondo è data per certa da Castelli, torri cit., p. 122, che la pone nell’ultimo ventennio del Quattrocento, quando in realtà la città è in mano prima a luigi toraldo, signore anche della vicina polignano, poi dal 1495 ai Veneziani, insieme a trani, brindisi, otranto e altre località costiere. 75 bacile Di castiglione, Castelli pugliesi cit., p. 243.


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sata dall’epidemia di colera, che più degli stessi turchi, scrive lui stesso alla sorella eleonora duchessa di ferrara nel gennaio 1481, «certamente più ce noce et dona impaccio el morbo che è forte», e «alcune volte non ho tempo de maniare [mangiare] tante sono le ochorrencie ad provedere et contra turchi ed quod peius contra el morbo»76. sappiamo − lo ricorda esplicitamente un atto di concessione, datato 24 marzo 1492 e inserito in un successivo mandato regio del 26 giugno, a proposito di una «supplicatione» dell’università di ostuni − che alfonso si preoccupa anche di fornire disegni e istruzioni precise sui lavori da effettuare: «li anni passati quando fuimo in hostuni, vedendo che quella cità havia bisogno de bona reparatione maxime che le mura de essa per una gran parte erano ruynate, ordinammo che se havesse ad fortificare et li laxammo lo disigno et ordine de quello haveno da fare». la «fabrica» delle nuove mura grava interamente sugli ostunesi, che sino a quel momento avevano «spiso bona summa de denari», e dunque, conclude alfonso, «parendone iusto et conveniente che havendo ipsi citatini spiso et despendeno ala fortificacione de dicta cità de hostuni, non siano agravati né astricti ad contribuire altre fortificacioni»; insomma non siano tenuti a «pagare dece ducati lo mese per contribucione delle fabriche di brindise et altre cità si fortificano in quessa provincia de terra de otranto»77. meno sappiamo, invece, sulla ristrutturazione in età aragonese delle opere difensive delle zone interne e della basilicata. tra le più note eccezioni, le incisive modifiche ordinate da pirro del balzo alla fortezza di Venosa (con le torri circolari ai quattro lati della struttura quadrata, circondata da un profondo fossato e dotata di numerosi trabocchetti), e da bernardino de bernardo a quella di bernalda (entrambe datate 1470), e la costruzione di un torrione circolare nella cinta urbana di melfi, presso la porta Venosina. ma nelle istruzioni regie non mancano riferimenti ad altri castelli lucani: vogliamo che vi occupiate dei castelli «tanto del nostro demanio, quanto de quello de baroni che in la guerra passata erano stati deviati dalla nostra fideltà», scrive re ferdinando a berardino mormile, nel giugno 1487. in particolare, per quelli di cancellara, ruoti e missanello 76

zacchino, Quattro lettere inedite cit., n. 1, 9 gennaio 1481, pp. 42-43. anche per rassicurare la sorella, alfonso le invia un dono che sa evidentemente gradito: «ve mandamo duj mulj carrichi de mandorle, ova tarachi de taranto, et pignatellij et pignate de terra d’otranto per chi possati ordinare se faza bona cocina alo illustrissimo signor duca vostro marito [...], et non ve maravigliati se li ovitarachi son poco, perché per essere el morbo ad taranto, non havemo possuto havere lo che volevamo». secondo l’editore, le «ova tarachi» sono «uova di cefalo, salate e seccate e compresse in budella». 77 I documenti della storia medievale di Ostuni cit., n. ccVii, pp. 322-323.


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(nel potentino), verifica «castello per castello quelle fabriche che saranno necessarie per la conservatione, acciò che non habbiano andare ad ruina»; controlla il comportamento delle guarnigioni, «perché havimo alcune querele de mali portamenti de alcuni castellani, compagni et provisionati di decti castelli»; e dai circa 1.500 tomoli di grano rinvenuti nel castello di tursi (nel materano), «li quali sono soperchij per detto castello», sottrai quanto può servire per la «munitione» del castello, e vendi il resto «lo meglio che possite»; provvedi poi, ma senza spender troppo, al soldo per le truppe e per i «bombardieri», gli addetti alle bombarde; infine procura che «sia bene guardato» il castello di laurenzana (nel potentino), che «è de quella importantia che vui ne havite scripto»78. ancora di Venosa, nel gennaio 1487, si occupa il mandato a luigi gentile di capua per «fornire lo castello», sottratto al del balzo, «delle fabbriche et fossi restano a fare» e delle «case matte»; ma attenzione, ammonisce il sovrano, a non esagerare con le richieste di «jornate» di lavoro, «ché non vorriamo per questa causa exasperare li cittadini»79. l’esasperazione è la madre di tutte le rivolte, organizzate o spontanee, ma l’elementarità del concetto non ne ha mai agevolato l’applicazione. ne sa qualcosa il napoletano giancarlo tramontano, già funzionario nella zecca aragonese, poi conte di matera, quando decide la costruzione nella città lucana di una fortezza con funzioni residenziali e di controllo politico. Detto appunto “tramontano”, il castello viene progettato sul modello del castelnuovo di napoli, «anzi piu superbo, et ni fece edificare solo una facciata con uno torrione grande in mezzo et uno per ciascuno lato più piccoli», con un costo elevatissimo, «et si ce spese con danno del populo ducati venti cinque milia, como oggi si puo videre nelle scedde di notar roberto agato, il quale ttenne conto di detta fabrica»80. la nuova struttura, destinata a sostituire le precedenti fortificazioni, non fu mai terminata: i lavori restarono bloccati e incompiuti dopo la congiura e la reazione dei materani che, il penultimo giorno del 1515, costarono al tramontano la vita. 78 Regis Ferdinandi Primi Instructionum Liber cit., n. lXVii, 15 giugno 1487, pp. 120123. e cfr. santoro, Castelli angioini e aragonesi cit., pp. 234-236, e p. 170, dov’è riportato e condiviso il giudizio di pane, Il Rinascimento cit., p. 220: «le opere aragonesi in abruzzo e lucania si limitarono a pochi e frettolosi restauri [...] maggiori furono gli interventi in calabria, ed estesissimi quelli nella regione pugliese, data la lunghezza della sua costa e l’essere già stata teatro di numerosi conflitti». 79 Regis Ferdinandi Primi Instructionum Liber cit., n. Xli, 21 gennaio 1487, pp. 75-76. 80 g. gattini, Note storiche sulla città di Matera, napoli 1882 (rist. matera 1967), p. 96; e v. Il castello di Matera, cur. f. Di pede, matera s. d. sul tramontano, esponente di quella “borghesia loricata” che si va integrando nel vecchio ceto militar-feudale: r. giura longo, Breve storia della città di Matera, matera 1981, pp. 73-77.


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senza insistere con altri esempi, si può concludere che, al di là dell’enorme (ma anche enfatizzato militarmente) impatto emotivo suscitato in tutt’italia, la presa e il sacco di otranto del 1480 e le successive incursioni nel brindisino dei Veneziani che, sbarcati nel 1482 nella rada di guaceto, saccheggiano san Vito dei normanni e carovigno e, due anni più tardi, occupano gallipoli81, sono stati tra i primi e principali fattori di sviluppo dell’arte fortificatoria nell’intero mezzogiorno continentale e nella sua regione più esposta. ne è stata accelerata «l’esigenza di difese più basse e robuste, di un largo ricorso all’ostacolo, della realizzazione di una maggiore profondità delle difese con apprestamenti avanti e dietro le mura»; tra l’altro, «la tecnica ossidionale sviluppata nel conflitto pugliese si arricchì sia del ricorso all’uso di “pavesi” metallici per la protezione di tiratori e lavoratori, sia della tecnica di avvicendamento alle difese mediante fossi o camminamenti, ovvero ricorrendo alle mine»82. l’uso massiccio, attivo e passivo, delle artiglierie è valso a modificare vistosamente la struttura stessa delle torri, che si fanno più basse e più larghe anche perché il rinculo dei cannoni richiede uno spazio maggiore, si dotano di rampe per il trasporto dei pezzi e sostituiscono il cammino di ronda tra una torre e l’altra con la “falsabraga’, ampia piattaforma di disimpegno. altri fattori, le caratteristiche e le esigenze della feudalità, contribuiscono a connotare alcune strutture castellari come palazzi residenziali gentilizi, tappa significativa nella direzione della fortezza rinascimentale. e, dato spesso sottovalutato, si avvia un rapporto nuovo tra l’insediamento, la comunità locale, l’università, le fortificazioni murarie e l’edificio castellare, un rapporto che dall’integrazione potrà giungere più tardi alla piena simbiosi tra tutte le opere difensive urbane.

81 l. pepe, I Veneziani a Brindisi nel 1482, «archivio storico pugliese», i (1894), p. 173; Terra d’Otranto e Venezia, gallipoli 1984; La presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto. atti del convegno nazionale (gallipoli, 22-23 settembre 1984), bari 1986. 82 roVigo, L’Occidente cristiano cit., pp. 120-121. e cfr. l. santoro, I sistemi difensivi nel Mezzogiorno d’Italia: le fonti, in Torri e castelli nel Mezzogiorno. Recupero, territorio, innovazione, integrazione, cur. a. notarangelo, napoli 1992, spec. pp. 81ss., e m. rosi, Il castello nell’Italia meridionale dal XV al XVI secolo, in Il recupero di una componente del sistema territorio. Torri, castelli, fortezze nel Mezzogiorno d’Italia, napoli 1988, pp. 179ss. sui rapporti tra l’architettura militare del mezzogiorno aragonese e quella catalana: a. VenDitti, Presenze ed influenze catalane nell’architettura napoletana del regno d’Aragona, «napoli nobilissima», n. s., Xiii (1974), f. 1, e soprattutto pane, Il Rinascimento cit.; più in generale g. agnello, L’architettura aragonese-catalana in Italia, palermo 1969.


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ma tutto questo, alla fine del Quattrocento, è in fondo un processo di trasformazione appena innestato; nei due secoli successivi gli ingegneri, gli architetti e i maestri di cantiere della «scuola fortificatoria considerata la più aggiornata e valida nel mondo, quella italiana»83, avranno modo di imporre le loro innovazioni persino nelle colonie del nuovo mondo. e come la guerra, anche la pace assumerà a quel punto dimensioni extracontinentali. appare allora in certo qual modo “provinciale’, e certo immotivata anche nel solo contesto mediterraneo, l’epigrafe che, posta nel 1488 sul frontone di una torre appena terminata in una cittadina del barese, terlizzi, esaltava senza ironia re ferdinando «rex pacis»84. una strana pace, cercata con un potenziamento militare e castellare ampio e costoso quanto tardivo e non sempre omogeneo, programmato in ritardo rispetto alla necessità di fronteggiare pericoli provenienti dal mare e dall’oriente − solo nel cinquecento si cominciò a progettare e poi a realizzare una linea di efficienti torri costiere di avvistamento, integrate con il riadattamento o la ricostruzione delle altre fortificazioni territoriali − e del tutto inadeguato rispetto agli eserciti che, di lì a poco, avrebbero oltrepassato i confini settentrionali del regno.

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m. Viganò, Architetti e ingegneri militari italiani all’estero dal XV al XVIII secolo: un bilancio storiografico, in Architetti e ingegneri militari italiani all’estero dal XV al XVIII secolo, cur. m. Viganò, livorno 1994, p. 11. 84 il testo dell’epigrafe terlizzese, «ferdinandus de aragonia, rex pacis», è riportato da pontieri, La Puglia nel quadro della monarchia cit., p. 45.


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gualtieri VI di Brienne e Putignano, uno dei più noti e discussi grandi signori feudali, «mezzo cavalieri e mezzo avventurieri»1, della prima metà del secolo XIV, e una piccola località murgiana che nello scacchiere del Sud-Est barese del periodo occupa una posizione non di primo piano: due storie che si “incontrano” e si incrociano, solo per la durata di un pugno d’anni, all’ombra di una torre. duca d’atene e conte di lecce, detentore di feudi in Francia e in Morea, dal 1342 al 1343 signore anche di Firenze, gualtieri conta nei suoi possessi anche la contea di Conversano. Figlio di gualtieri V e di giovanna di Chatillon, marito di Beatrice d’angiò (figlia di Filippo, principe di taranto e fratello di re Roberto d’angiò), esponente di spicco di quei Brienne che hanno saputo lasciare segni decisivi della loro presenza e della loro politica a lecce e nella sua contea, «barone indebitato e irrequieto», come lo definì Romolo Caggese nel suo Roberto d’Angiò2, gualtieri ben rappresenta il signore feudale che in quei decenni fa fortuna grazie al “sangue”, quello del prestigioso casato d’origine e quello versato nell’esercizio feroce delle armi; ma qui interessa soprattutto come motore tra i più dinamici e determinanti del fenomeno dell’incastellamento signorile e feudale nella Puglia della prima metà del trecento, per aver promosso una rete di fortificazioni quantitativamente rilevante e di vario tipo che, dal

1 E. SEStan, Gualtieri di Brienne, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 237ss 2 R. CaggESE, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, 2 voll., Firenze 1922-1930, vol. II, p. 342. «avaro e crudele», lo definisce nICColò MaChIaVEllI nelle Istorie Fiorentine, libro II, cap. XXXVII, e «nel rispondere superbo; voleva la servitù, non la benevolenza degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato desiderava. né era da esser meno odiosa la sua presenza, che si fossero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba lunga e rada; tanto che da ogni parte di essere odiato meritava». E FRanCESCo guICCIaRdInI nel cap. Xl delle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la Prima Deca di Tito Livio, annota che «fu fatto tiranno col favore de’ nobili, e’ quali per la sua imprudenzia e levitá


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porto di Roca allo stesso castello leccese, giunsero a coprire gran parte dei suoi possedimenti3. Se Conversano può vantarsi città tra le maggiori in partibus Terre Bari e Monopoli per il suo porto può aspirare al primato tra i centri costieri del sud barese, Putignano, posta ancor più nell’interno a poche decine di km di distanza (è a 40 km da Bari), a 375 metri sul livello del mare, collegata da secoli alla costa adriatica (Polignano) da una strada diretta che attraversava una lama, e a quella ionica (Chiatona, frazione di Massafra) dalla via antiqua che toccava Conversano, Barsento, Mottola e Palagiano4, è invece uno di quei piccoli centri rurali intorno ai quali ruota nel trecento, tra spinte positive e congiunture negative, l’organizzazione del lavoro pastorale, agricolo e artigianale. un agglomerato rurale insomma che, conosciuto già in età romana, con la conquista normanna è entrato a far parte della contea conversanese, come altri villaggi dell’area collinare, Casaboli (un casale presso noci oggi non più esistente), Fasano, locorotondo. Con questi ultimi Putignano condivide a lungo la dipendenza dall’abbazia benedettina di Santo Stefano, sulla costa nei pressi di Monopoli; passata poi Santo Stefano ai gerosolimitani – un’appropriazione legalizzata nel 1317 da una

non si seppe mantenere, il che fu causa di farnelo cadere presto». anche gIoVannI VIllanI, Breve Cronaca, libro XIII, cap. I, aveva presentato il duca d’atene come personaggio «crudele e tiranno, sotto titolo di fare giustizia», aggiungendo che «era sagace e nudrito in grecia e in Puglia più che in Francia» (cap. III). Sulla rappresentazione ferocemente ironica aveva invece puntato gIoVannI BoCCaCCIo nel Decameron, nella settima novella della seconda giornata, dedicata ad alatiel, una delle figlie del «soldano di Babilonia”: un «giovane e bello» che «se stesso miseramente impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi», a tal punto da far uccidere a tradimento il principe di Morea, suo amico e parente, mentre giaceva con la donna. 3 g. BaCIlE dI CaStIglIonE, Castelli pugliesi, Roma 1927, pp. 233-246. Praticamente assenti le fortificazioni feudali della Puglia trecentesca nel capitolo di l. SantoRo, Castelli angioini e aragonesi nel regno di Napoli, Milano 1982, dedicato ai Castelli della committenza nobiliare in epoca angioina (un rapido cenno al torrione cilindrico del castello baronale di apricena, in Capitanata, è a p. 114). Riferimenti al ruolo di gualtieri VI e alla sua politica dell’incastellamento nella contea leccese sono in alcuni saggi della Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, cur. B. Vetere, Roma-Bari 1993: a. PEPE, La cultura architettonica fra età normanna ed aragonese, pp. 652-653; B. VEtERE, “Civitas” e “urbs” dalla rifondazione normanna al primato del Quattrocento, spec. pp. 124ss; C. MaSSaRo, La città e i casali, pp. 350ss. 4 le fonti in P. dalEna, Dagli Itinera ai percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, presentazione di C.d. Fonseca, Bari 2003, pp. 29 e 85, e dalEna, Ambiti territoriali, sistemi viari e strutture del potere nel Mezzogiorno medievale, presentaz. di g. Cherubini, Bari 2000, p. 16.


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lettera del papa avignonese giovanni XXII5 – gualtieri ha buon gioco nell’annettersi una parte dei villaggi, delle terre e dei diritti feudali che sarebbero spettati al nuovo ordine, in particolare Putignano, locorotondo, Casaboli. l’“usurpazione”, come è stato a lungo definito il dominio ducale su quella parte del territorio, ha termine con il passaggio della contea conversanese nelle mani di giovanni d’Enghien (ma viene scorporata da quella leccese, attribuita al fratello ludovico d’Enghien), e dei tradizionali diritti territoriali dei benedettini alla precettoria giovannita di Santo Stefano: esito anticipato nel testamento che il duca aveva fatto stendere anni prima, il 18 giugno 1347, a hesdin in Piccardia6. l’incastellamento ducale non risparmia Putignano: qualche anno prima della metà del trecento, su ordine appunto di gualtieri, si inizia a costruirvi una torre, una «nova turris», che sarà completata verso il 1354; il suo committente muore poco dopo in Francia, nella battaglia di Poitiers del settembre 1356, sgozzato – ironia della sorte, per un uomo d’arme che era riuscito a farsi nominare signore di Firenze – da un fiorentino al servizio delle truppe inglesi. delle fasi di edificazione della torre, delle somme impiegate e dei personaggi incaricati di sovrintendere ai lavori, ci dà conto un minuscolo gruppo di documenti custoditi nel Libro dei Privilegi dell’università di Putignano, editi nel 1989 da antonio d’Itollo, al quale si deve anche la prima valorizzazione della loro importanza e le prime considerazioni sulla nuova fortificazione7. Si tratta di tre documenti (in realtà, il primo è riportato per inserto nel secondo), rogati in località e da notai diversi, che coprono l’arco di tempo compreso tra 1351 e 1354. Il 18 settembre 1351, ci dice il primo documento, da lecce, assente gualtieri di Brienne, il suo luogotenente nei possessi regnicoli e ultramarini («vicemgerens in terris eius de regno Siciliae et partibus Romanie») giacomo di hans, miles e «dominus de Chaneriis», nomina «castellanum

5 I più antichi documenti del libro dei Privilegi dell’Università di Putignano (11071434), ed. a. d’Itollo, Bari 1989, pp. CVIII-CX e nota 171, in cui è riportata la trascrizione del testo della lettera (l’originale è custodito a Malta). 6 giuntoci in copia settecentesca, il Testamento del Duca di Atene Gualtieri di Brienne conte di Lecce, si può leggere in Le carte del monastero dei Santi Niccolò e Cataldo in Lecce, ed. P. de leo, lecce 1978, pp. 195-205. 7 I più antichi documenti cit., pp. CXIV-CXXI; i documenti, numerati progressivamente da 7a 9, sono editi alle pp. 37-45. Prima di completare la stesura del presente saggio ho avuto modo di leggere rapidamente il nuovo lavoro, fresco di stampa, in cui d’Itollo è tornato sui tre documenti e sulla costruzione della torre, riprendendo con qualche lieve modifica le considerazioni del precedente volume e ripubblicando i tre documenti in appendice: a. d’Itollo, Storie di abati e cavalieri, Bari 2004, pp. 214ss, e pp. 373ss.


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et custodem ducalis nove turris Poteniani» il «nobilis vir» goffredo di herville, in sostituzione di giovanni di notar Cambio di Conversano (destinato, lo apprendiamo dal terzo dei nostri documenti, ad altro incarico), e gli affida una guarnigione di otto armati, «pedites, balistarios pro maiori parte». la nomina è provvisoria, «usque ad eiusdem domini ducis beneplacitum»: dovrà essere successivamente ratificata da gualtieri al suo ritorno nella contea. Intanto però, se goffredo decide di accettarla, dovrà rilevare le consegne dal suo predecessore («arma, munitiones et res quaslibet ad defensionem et guarnimentum ipsius turris deputatas»), farsene rilasciare un’attestazione che valga anche come avvenuta presa di possesso dell’incarico, e impegnarsi, con il tradizionale giuramento sui vangeli, a custodire la torre in nome del duca, «diligentissime, fideliter et legaliter» (formula di rito che tuttavia, se disattesa, non era priva di conseguenze)8. naturalmente, dal momento che «nolumus vos et ipsos socios armigeros octo ad id propriis stipendiis laborare», giacomo di hans garantisce anche che la retribuzione per l’incarico, uno stipendio di 36 once d’argento all’anno comprensive del soldo agli armati, sarà consegnato mensilmente dall’erario ducale: dunque, 3 once al mese, a partire dalla data reale di presa di servizio, che saranno gestite e ripartite dal castellano secondo una proporzione che qui non è precisata (il soldo di un balestriere, che in quegli anni poteva raggiungere i 12 tarì mensili nel caso dei balestrieri imbarcati sulle navi della flotta regia, era naturalmente più alto di quello di un semplice fante)9. Il documento, indirizzato per conoscenza al capitano ducale di Putignano, di cui non viene però specificato il nome, e agli abitanti della località (più esattamente: agli «aliis fidelibus universitatis terre predicte»), si conclude con l’ovvia esortazione ad assistere e consigliare per il meglio il nuovo castellano. non è pensabile che giacomo di hans, prima ancora della stesura della littera commissionis dell’ufficio, non abbia contattato goffredo d’herville, che non a caso definisce “amico suo”, per verificarne la disponibilità. dunque, non appare strano che la presa di possesso dell’incarico da parte di goffredo si sia realizzata nel giro di appena una decina di giorni: il 30 settembre dello stesso anno, infatti, il secondo dei nostri tre docu-

8 I più antichi documenti cit., n. 7, 18 settembre 1351, pp. 37-39. 9 CaggESE, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, cit., II, p. 241; l’anno è il 1337. Interessante,

a proposito dei giovani imbarcati come marinai, la distinzione fatta da re Roberto tra quanti sono «atti a tendere una forte balestra» e devono essere dotati anche di una corazza, e quanti invece, balestrieri mancati, «non devono stare in ozio, ma si esercitino al gioco dei dardi».


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menti attesta che il nuovo castellano è già nello studio del pubblico notaio putignanese leone, per farsi rilasciare copia autentica della lettera di commissione. leone, letta pubblicamente e verificata l’autenticità di quest’ultima, poi inserita nell’atto finale, e del sigillo in cera rossa del luogotenente ducale, alla presenza dello stesso goffredo e dei suoi otto armigeri, del giudice putignanese Basilio di angelo Caputo e di alcuni testimoni, ne trascrive il contenuto a tutela dei soggetti interessati, «tam dicte ducalis curie certitudinem quam ducalis erarii et predicti castellani cautelam». a partire da quel giorno, come convenuto, decorrerà ufficialmente il pagamento dello stipendio10. I tre testimoni che sottoscrivono l’atto, angelo figlio del notaio giovanni, e i fratelli nicola, notaio, e antonio, quest’ultimo con la qualifica di pubblico notaio di terra di Bari, figli del giudice Pellegrino di tommaso, sono esponenti di spicco del ceto dirigente locale. ne fa parte a buon titolo il notaio leone, del quale giustamente è stato posto in luce il ruolo di responsabilità e prestigio, un ruolo che comportava ormai, anche a Putignano, «una notevole assunzione di responsabilità» nell’amministrazione cittadina11. Stupisce invece, in questa circostanza, l’assenza di un qualunque riferimento al capitano ducale, per altro indicato solo genericamente nella precedente «lictera commissionis». Poteva mancare un rappresentante del duca all’atto di “entrata in servizio” del nuovo castellano di Putignano? Forse non è il caso di evocare, almeno questa volta, né l’antica conflittualità tra le due funzioni di capitania e castellania, né al contrario la possibilità della loro unificazione nelle mani di un unico personaggio, come avviene qualche anno dopo nella vicina gioia del Colle, dove un ufficiale di Roberto principe di taranto, l’“ungaro” lancelot de Bot, ricopre contemporaneamente le funzioni di «castellano castri et capitaneo ac camerario»12. In nessuno dei nostri documenti si dà notizia dell’attribuzione dell’ufficio di capitania allo stesso goffredo d’herville (alla fine del

10 I più antichi documenti cit., n. 8, 30 settembre 1351, pp. 39-41. 11 d’Itollo, Storie di abati cit., p. 227. 12 Contro le sue pretese di riscuotere «affidatura, glandatico, herbatico,

glandatico, carnatico et quocumque munere» dagli uomini di Putignano, locorotondo, Castro e Fasano, fa ricorso a Roberto principe di taranto il procuratore di Santo Stefano; e Roberto, dopo un’inchiesta che attesta la legittimità delle esenzioni, «de privilegiis et iuribus», da secoli goduti da Santo Stefano, ordina a lancillotto e agli altri ufficiali di gioia del Colle di rispettare gli antichi diritti: I più antichi documenti cit., n. 12, 31 dicembre 1362, pp. 51-55. Per un analogo richiamo di Roberto di taranto, ancora nel 1361, contro gli ufficiali di gioia: Le Pergamene dell’Università di Taranto (1312-1652), ed. R. alaggio, prefazione B. Vetere, galatina 2004, n. 16, 29 ottobre 1361, pp. 34-36.


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duecento, proprio un esponente della famiglia di herville era stato capitano delle terre di Carlo I d’angiò in albania, e più tardi aveva ricevuto la castellania di l’aquila)13, né tanto meno al giudice putignanese Basilio, presente alla consegna della lettera di nomina. Più semplicemente, se non si vuol pensare ad un incarico non ancora ricoperto o in via di assegnazione (in questo caso l’auspicio finale dell’atto del 18 settembre, rivolto al «capitaneo presenti et futuris», risulterebbe effettivamente solo una formula di rito), occorrerà ammettere che la funzione di capitano era probabilmente priva, nella società putignanese dell’epoca, di effettivi poteri14. I due fratelli figli del giudice Pellegrino fanno la loro comparsa anche nel terzo documento, il più prezioso per le numerose e importanti notizie che ci fornisce15. Emanato a Conversano, dalla cancelleria ducale, il 26 luglio 1354, esso contiene il puntuale resoconto finanziario delle somme percepite e di quelle spese in relazione all’edificazione della nuova torre di Putignano da quanti avevano ricoperto l’ufficio di procuratori comitali, «de ipso procurationis et prepositure officio fabrice dicte turris», nel periodo compreso tra il 10 giugno del 1346 e il 31 agosto 1353. a dar conto della loro gestione («reddere rationem») e a ricevere la relativa apodixa liberatoria vengono chiamati dal razionale del duca, angelo di Vado, i procuratori ancora in vita o i loro eredi. Seguiamo, sintetizzandole, le informazioni del documento, a partire da quelle che riguardano i fratelli nicola e antonio, convocati in qualità di eredi del defunto giudice Pellegrino, che aveva gestito l’incarico di procuratore nella prima delle tre fasi in cui risulta scandita l’edificazione della torre, quella compresa tra il 10 giugno del 1346 (che a ragione si può presumere abbia coinciso con l’inizio dei lavori) e il 16 giugno del 1347. In poco più di un anno, «circa opus fabrice dicte turris», risulta consegnata a Pellegrino una somma totale di 88 once d’argento, 11 tarì e 9 grani

13

I più antichi documenti cit., p. CXV, nota 197; e vedi ora anche S. Morelli, I giustizieri nel regno di Napoli, in L’état angevin. Povoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle. actes du colloque international (Rome-naples, 7-11 novembre 1995), Roma 1998, p. 508, nota 61. 14 Ivi, p. 507: «Per quanto concerne le capitanie […], le fonti ci informano che nel Mezzogiorno ne erano insediate di quattro tipi: le capitanie cittaine, quelle su milizie, le capitanie di province e le capitanie ad guerram. tale varietà di termini è indice di quanto l’istituto della capitania fosse ancora lontano dal ricevere una codificazione rigorosa», almeno nei primi decenni del regno angioino. Sui compiti del capitano ancora utili le indicazioni di R. tRIFonE, Gli organi dell’amministrazione angioina, «archivio Storico Pugliese», XV (1962), pp. 92-99, e tRIFonE, La legislazione angioina. Edizione critica, napoli 1921. 15 I più antichi documenti cit., n. 9, 26 luglio 1354, pp. 41-45.


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e mezzo (un’oncia d’argento era pari a 30 tarì, ed un tarì a sua volta equivaleva a 20 grani)16. In particolare, l’allora giustiziere e vicario del duca, guglielmo di Quintavalle, aveva provveduto a versare 55 once, 14 tarì e 10 grani e mezzo, ai quali si erano aggiunti 29 once, 26 tarì e 19 grani versati da alcuni gabelloti, collettori fiscali e debitori della corte ducale, così come registrato «in quaterno dicti rationis», e altre 3 once dallo stesso magister rationalis angelo di Vado, all’epoca erario ducale per la terra di Bari. In uscita, i due fratelli sostengono, sulla base di particolareggiate ricevute che non ci sono purtroppo pervenute, ma che il mastro razionale controlla attentamente, «per ipsum rationalem dubiis, questionis et defectibus in eadem ratione notatis», che è stato speso un totale di 88 once, 22 tarì e 17 grani. Insomma, «exitus ipse videbatur superasse introytum», c’è un disavanzo di 11 tarì e 7 grani e mezzo. In realtà – e questo dato, che pure è importante perché segnala una particolare attenzione nell’accertamento delle somme in uscita, sembra sfuggito all’attenzione dell’editore del documento – il mastro procuratore, esaminando e verificando puntigliosamente le ricevute, dimostra che ce n’è una che riporta una somma sbagliata in difetto («apodixa ibi producta continet plus quam summa»), pari a 9 tarì e 5 grani, che aggiunta al disavanzo lo porta a 21 tarì e 2 grani e mezzo; e questo è quanto la corte ducale dovrebbe rimborsare. Ma angelo dimostra anche, ricevute alla mano, che nel totale delle uscite risulta una somma aggiunta due volte («tamquam duplicati qui soluti ponuntur bis»), ovvero il prezzo d’acquisto di un carro ferrato, 1 oncia e 24 tarì, da detrarre dal totale delle uscite. In conclusione, scendendo le uscite reali a 87 once, 7 tarì e 22 grana, la corte ducale non deve rimborsare nulla: deve ricevere invece 1 oncia, 3 tarì e 7 grani e

16 Ivi, p. CXVIII e nota 210, e d’Itollo, Storie di abati cit., p. 220, nota 448, risulta chiaramente una svista, a questo proposito, l’affermazione, motivata dal ricorso a E. MaRtInoRI, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1914 (ristampa 1955), pp. 352-353, secondo cui «l’oncia d’argento si ripartiva in trenta tarì che, a loro volta, si dividevano in dieci grani». Se così fosse, se un’oncia fosse formata da 300 grani invece che da 600, i conti presentati nell’apodixa del 1354 non tornerebbero assolutamente. d’altra parte, se per un tarì occorrevano solo 10 grani, perché nel dar conto delle somme l’estensore del documento avrebbe dovuto riportare – per fare solo un esempio – 29 once, 26 tarì e 19 grana, e non invece 29 once, 27 tarì e 9 grana? le differenze non sono di poco conto: le somme spese per la torre, che ammonterebbero ad un totale di 221 once, 22 tarì e 5 grani (ma la somma reale è leggermente più alta), fatto pari 1 tarì a 20 grani, risultano correttamente equivalenti a 133.045 grani; fatto pari 1 tarì a 10 grani, risulterebbero spesi invece 66.525 grani, un impegno finanziario di gualtieri VI di Brienne praticamente dimezzato.


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mezzo17. I due eredi – che certo non potevano non essersi accorti degli errori del rendiconto delle uscite – accettano di restituire questa «restantem pecuniam» a giovanni di notar Cambio, in quel periodo erario ducale in terra di Bari (lo abbiamo già incontrato nel documento del 18 settembre 1351: era il castellano sostituito da goffredo d’herville). Il nome del giudice Pellegrino di tommaso torna a proposito della seconda fase dei lavori di costruzione, compresa tra il 17 giugno 1347 e il 15 giugno 1348, gestita dallo stesso Pellegrino e da un altro putignanese, il magister Spenadeo, figlio del magister lupone. Entrambi i procuratori sono morti, così come risulta deceduta anche la figlia ed erede diretta di Spenadeo (se si vuole, si può anche ipotizzare qui, en passant, che all’origine di questi decessi ci fosse la peste bubbonica, che proprio nel 1348 è testimoniata, più o meno esplicitamente, in diverse località della Puglia)18. a rappresentarli sono dunque gli eredi: i due fratelli che già conosciamo per il primo, mentre per il secondo compaiono la nipotina Isabella con il padre e tutore nicola (figlio del notaio giovanni di Putignano e vedovo della figlia di Spenadeo), e Matteo di giovanni Pagone. In quell’anno le entrate su cui possono contare i due procuratori assommano ad un totale di 79 once e 13 tarì, quasi il 10% in meno rispetto al primo periodo dei lavori: 75 once e 9 tarì provengono dai gabelloti, e la differenza di 4 once e 4 tarì da un’assegnazione di angelo di Vado, all’epoca come sappiamo erario del duca. In uscita, per i lavori della torre è registrato un totale di 73 once, 29 tarì e 15 grani e mezzo (quasi il 20% in meno rispetto alle uscite del precedente periodo), cui si aggiungono altre 4 once e 8 tarì versate dagli eredi di Spenadeo allo stesso angelo, non è specificato a quale titolo: complessivamente, le uscite ammontano a 78 once, 7 tarì e 15 grani e mezzo. la differenza tra entrate ed uscite, «introytus superavit exitum», è di 1 oncia, 5 tarì e 4 grani e mezzo. gli eredi, tuttavia, sono chiamati a restituire a giovanni di notar Cambio una somma più alta, pari a 1 oncia, 13 tarì e 4 grani e mezzo, con una differenza in più di 8 tarì che risulta, per «certis rationabi17 Sulla base della nostra lettura e dei dati sin qui riportati, è da correggere, nella parte relativa ai totali delle somme dell’exitus, la Tavola riassuntiva pubblicata in d’Itollo, Storie di abati cit., p. 221. 18 tra le testimonianze esplicite va ricordata la terribile descrizione del morbo che dobbiamo a doMEnICo da gRaVIna, Chronicon de rebus in Apulia gestis (1333-1350), ed. a. Sorbelli, in R.I.S.2, XII, parte III, Città di Castello 1903, p. 49; tra quelle indirette un esempio è stato fornito per la città di Massafra da M. CannataRo, Appunti sulle imbreviature notarili in Terra d’Otranto. Da un inedito massafrese del 1348, in Studi in onore di Giosuè Musca, cur. C.d. Fonseca - V. Sivo, Bari 2000, p. 93.


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libus causis», il frutto di variazioni delle somme sia in entrata che in uscita: tra queste ultime, è precisato anche l’acquisto di due pale di ferro per un valore di 3 tarì. E passiamo alla terza e ultima fase dei lavori, qui indicati come lavori non più semplicemente di costruzione, «opus fabrice», ma anche come interventi di completamento, «in complementum operis fabrice et constructionis». l’incarico è affidato a due personaggi, il già noto nicola figlio del giudice Pellegrino, e giovanni di nardo di Putignano, in carica dal 20 novembre 1348 al 31 agosto 1353; tra la fine del secondo periodo e l’inizio del terzo c’è da registrare un vuoto di cinque mesi, inspiegabile per un cantiere che non si era mai fermato prima: e torniamo qui a ipotizzare una diffusa e incisiva presenza della peste, che deve essersi portati via i due precedenti prepositi. ora, nei quasi cinque anni della terza fase c’è da aspettarsi un rendiconto impostato su cifre molto più elevate rispetto a quelle registrate per i due anni delle fasi precedenti. al contrario, le somme impiegate in entrata e in uscita, lo vedremo, sono molto più basse: evidentemente, il “grosso” dei lavori era stato già compiuto nel giro di due anni. del totale di 53 once, 28 tarì e 10 grani registrate in entrata, ben 53 once e 22 tarì provengono dall’assegnazione di angelo di Vado su fondi della tesoreria; i restanti 6 tarì e 10 grani vengono invece dalla vendita di una non precisata quantità di cuoio bovino, probabilmente di animali da lavoro deceduti in corso d’opera. In uscita, la somma è di 53 once, 23 tarì e 13 grani, ma avendo i due procuratori già restituito all’erario i 6 tarì e 10 grani dei cuoi, le uscite totali ammontano a 54 once e 3 grani. anche questa volta, però, la «diligenti collatione de ipso introito ad eundem exitum» fatta dall’attento angelo porta a correggere alcune cifre, modificando l’ipotetico disavanzo di 1 tarì e 13 grani in un reale avanzo di 8 tarì, 17 grani e un quarto. E anche questa volta i prepositi devono restituire la differenza, così come devono provvedere a restituire alcuni degli oggetti di lavoro acquistati «ad opus dicte turris» nel corso del loro lungo ufficio: due pale di ferro, due «zappe late» di ferro (forse due marre, attrezzi usati nei cantieri edili per mescolare gli intonaci), due «zappe campestres» anch’esse di ferro, una «carrotia ferrata» (carro con ruote di legno cerchiate in ferro), due «corredi» o abiti da lavoro in canapa, tre «tallie» (assi orizzontali o traverse) di legno, tre travi di legno, una «carroccella de ligno», o carretto; il tutto va consegnato nelle mani del locale procuratore della corte ducale, il putignanese nicola di Bartolomeo Pece. Completata la verifica del rendiconto, verbalizzato il rimborso delle eccedenze, l’atto si conclude facendo salvo il diritto della curia ducale – se in futuro dovesse risultare che i procuratori, quelli vivi e quelli passati a miglior vita, hanno intascato somme maggiori o


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speso somme minori – a comminare le pene previste e a rivalersi su di loro o sugli eredi per il risarcimento dovuto. C’è da lamentare che non ci siano giunte, nei dettagli, le voci che hanno formato le entrate fiscali ducali messe a disposizione del cantiere della torre, e soprattutto quelle sulle motivazioni di spesa (ci è trasmesso solo il prezzo delle due pale e di un carro), che avrebbero potuto disegnarci l’organizzazione e il funzionamento di un cantiere edile militare attivo per quasi sette anni, dalla quantità di manodopera utilizzata al relativo salario. Il che poco toglie all’eccezionale importanza delle informazioni, non solo finanziarie, contenute in quest’ultimo documento, e più in generale nei tre atti relativi alla edificazione della nuova torre: ne ha lucidamente trattato il loro editore, al quale si deve anche l’ipotesi più convincente sull’ubicazione della nuova struttura. Sulla base degli inventari del Libro Magno di Putignano datati 1678 e 1763, e sulla scia di una indicazione contenuta nell’inedito manoscritto di uno studioso locale tardo-ottocentesco, Giovanni Casulli, si può a ragione identificare la torre con quella «chiamata successivamente “Torre Maggiore”: essa sorgeva all’entrata del paese nei pressi di Porta Grande e in seguito fu adibita a polveriera»19. Un «torrione oggi ridotto a stalla e bottega», aggiunge con una punta di amarezza un inventario dei beni dell’Università di Putignano del 181120. Torrione: dunque una torre di dimensioni notevoli e di struttura massiccia. A pianta quadrata o piuttosto circolare, secondo la tendenza del periodo e come attesta la torre leccese di Belloluogo21, innalzata probabilmente su disposizione dei Brienne? E la nuova struttura costruita a Putignano era posta dentro l’insediamento o al suo esterno? Era isolata e solitaria, o annessa a qualche edificio? Quali caratteri militari possedeva? Era dotata di caditoie, di un muretto difensivo, di un fossato, di un ponte levatoio, di feritoie balestriere? Era posta sul lato di una delle porte di accesso, come un rivellino, o inglobata nel circuito murario? Un vero e proprio avamposto difensivo, o un semplice edificio di vedetta e avvistamento, oppure una struttura con entrambe le funzioni? E in quale relazione con le successive fortificazioni, le nuove mura e le torri circolari (quelle visibili ancora oggi) attribuite nel 1472 al precettore della commenda di Santo Stefano, Giambattista Carafa? Domande alle quali, allo stato attuale della documentazione, si può rispondere per lo più in modo vago e parziale. 19 I più antichi documenti cit., p. CXVII, anche per il manoscritto del Casulli, e nota 208, che riporta, senza accettarla, anche una diversa ipotesi sulla localizzazione della torre. 20 Ibid. 21 PEPE, La cultura architettonica cit., pp. 658ss.


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Senza addentrarci in una possibile ma sempre discutibile tipologia delle torri trecentesche, conviene sottolineare qui che le funzioni della nuova torre non si riducono semplicemente alla difesa militare della località. gualtieri avrebbe voluto la nuova struttura unicamente per difendere Putignano? In questo caso, certo, può destare meraviglia che la guarnigione assegnata al nuovo castellano si limitasse a soli otto armati («bastavano otto soldati a difendere una città!»)22, anche se, ripetiamolo, qui si tratta per la maggior parte di balestrieri, tiratori specializzati: la torre doveva ospitarli insieme con il castellano, doveva svolgere perciò anche funzioni abitative. Ribadito il cromosoma difensivo della nuova fortificazione, il punto è: difendere chi, da che cosa? Forse dalle truppe mercenarie del re luigi d’ungheria, che proprio nel 1346, l’anno presumibile di inizio della «nova turris», entrano nel regno di napoli e contribuiscono, in diverse località pugliesi, ad una lunga serie di vicende belliche? Se ne occupa, proprio in quegli anni, domenico da gravina nel suo Chronicon23. Cronista attento ma dichiaratamente non al di sopra delle parti, il notaio gravinese, che pure alle fortificazioni di ogni tipo fa riferimenti numerosi e spesso di grande interesse, a Putignano non dedica spazio; quella zona del sud-est barese non appare teatro bellico rilevante. E i “nemici” dei Putignanesi vanno cercati altrove, all’interno delle secolari lotte per l’uso delle risorse agropastorali del territorio e, in questo quadro, all’interno della conflittualità di lunga data tra i soggetti, signori feudali, corte regia o ducale, abati benedettini o balì gerosolimitani, interessati a riscuotere i vari canoni; tra i centri agricoli maggiori, Monopoli, Mottola, Conversano, e borghi rurali dell’interno murgiano, Fasano, locorotondo, Casaboli, Putignano; tra pastori-contadini e contadini-pastori; tra pascolo tradizionale e colture specializzate. Qui entra in gioco il lungo dominio signorile dell’abbazia di Santo Stefano presso Monopoli, che nella sua fase benedettina si era garantita una vasta serie di immunità, concessioni, diritti. Putignano, come Casaboli, ne dipendeva feudalmente e sul piano giudiziario, e i suoi pastori-piccoli contadini versavano agli abati i canoni sul pascolo degli ovini, dei suini e dei bovini che avrebbero dovuto corrispondere al conte di Conversano. Quando poi la crisi dell’abbazia – che non poteva non avere effetti anche sul piano della riscossione dei canoni – giunge a soluzione con il suo defi22 d’Itollo, Storie di abati cit., p. 216. 23 doMEnICo da gRaVIna, Chronicon, ed. cit. Sul gravinese e sulla sua opera si leggale stimolanti riflessioni di M. ZaBBIa, Notai-cronisti nel Mezzogiorno svevo-angioino. Il

no Chronicon di Domenico da Gravina, presentaz. g. Vitolo, Salerno 1997.


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nitivo passaggio ai cavalieri giovanniti e con la formazione della commenda gerosolimitana, quegli insediamenti sono ormai passati nelle mani di un nuovo signore, gualtieri VI, che ritiene il dominio del territorio e la sua “messa in sicurezza” elementi irrinunciabili dell’esercizio del potere. di qui l’incastellamento diffuso nei suoi possessi, di qui l’ordine del duca di innalzare la nuova torre in una località minore dell’area murgiana, una di quelle «comunità rurali desiderose di vivere il meno pericolosamente possibile la loro non facile vita”24: sia per difendere Putignano, i suoi abitanti e le loro attività prevalentemente pastorali, più che da nemici esterni, dalle mire di avversari “interni” al territorio, concorrenti reali o potenziali nella riscossione delle rendite, oltre che dalle razzie di animali da parte di predoni e malefactores; sia per proteggere, rafforzare e rendere più sicuro il suo dominio su Putignano (una torre è strumento di difesa quanto di attacco e di controllo); sia infine, motivo non ultimo, per “rappresentare” la sua presenza, per rendere visibili il potere, la volontà e la forza del signore. una torre, come un castello, è anche questo: un simbolo forte, vistoso, ineludibile, in pietra e “in armi”, del potere. altre due questioni rimangono ancora aperte e meritano ulteriore approfondimento. In primo luogo, l’esistenza a Putignano di precedenti fortificazioni, alle quali la torre ducale si sarebbe aggiunta o sostituita. la località poteva contare sicuramente su un circuito murario: sono le «menia terre predicte» richiamate in un successivo documento del Libro dei Privilegi. nell’aprile 1355, nell’atto di vendita di un piccolo orto recintato, con un albero di noci al suo interno, da parte della putignanese nella25, è chiaramente specificato che il bene rustico, confinante con un frutteto e due altre terre coltivate e recintate, è situato all’esterno della città, presso le sue mura, in quella fascia immediatamente extraurbana che è solitamente destinata alle colture orticole in spazi recintati. Si tratta di mura turrite? Ci sono altre torri, torrette, strutture fortificate isolate all’esterno – o all’in-

24 a. a. SEttIa, L’illusione della sicurezza. Fortificazioni di rifugio nell’Italia medievale: “ricetti”, “bastite”, “cortine”, Cuneo-Vercelli 2001, pp. 30-31. anche in gran parte delle campagne della Puglia trecentesca l’«insicurezza permanente», acuita da uno stato di «guerriglia permanente fatta dalla somma di tanti piccoli scontri, di razzie, di brevi e reiterate violenze sugli uomini e sui beni della parte avversa, situazione aggravata da un banditismo nutrito tanto da motivazioni politico sociali quanto dalla delinquenza comune» (ibidem), è fattore potente di crisi e ridefinizione della trama insediativa e produttiva del territorio: si pensi ai cosiddetti villages désertés. 25 I più antichi documenti cit., n. 10, 20 aprile 1355, pp.41-45-49; il passo sulle mura è a p. 47; l’acquirente del bene, valutato 8 tarì d’oro, è uno dei procuratori della terza fase dei lavori alla torre, il notaio putignanese nicola figlio del giudice Pellegrino.


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terno – del circuito murario? al vuoto della documentazione si oppone solo l’insistente riferimento, nei tre documenti richiamati, alla “nova” torre; sullo stato delle torri precedenti – dirute?, ancora in funzione? – nessuna notizia. né vale il fatto che goffredo di hervilla, nominato custode e castellano della nuova torre nel settembre 1351, sia stato chiamato a sostituire un precedente castellano, giovanni di notar Cambio di Conversano, la cui citazione avrebbe potuto attestare appunto l’esistenza almeno di una precedente torre, in funzione perché dotata di un responsabile, di armi e di munizioni. Come sappiamo, l’incarico affidato al conversanese giovanni aveva riguardato invece esclusivamente la nuova torre che, non dimentichiamolo, era in costruzione sin dal giugno del 1346. In più, proprio la meticolosa registrazione, nei tre documenti, delle uscite ducali in direzione unicamente della nuova fortificazione può valere come spia dell’inesistenza, all’epoca, di altre torri non diroccate e ancora in uso, torri che comunque sarebbero state annesse e gestite (finanziariamente e militarmente) da gualtieri di Brienne; a meno che non si ipotizzi che il duca, dopo aver “usurpato” Putignano, abbia improvvisamente e improvvidamente deciso di lasciarne la gestione e l’utilizzo militare ai Putignanesi. Solo in questo caso, e se si dimostrasse la presenza di torri e torrette urbane non possedute dal potere signorile, si potrebbe sostenere l’esistenza di un “sistema difensivo” urbano che la nuova struttura avrebbe dovuto completare e rafforzare, e che questo sistema «si basasse su più torri, poste a difesa delle mura e delle porte attraverso le quali si accedeva in città»26. Il che non significa, tuttavia, negare a priori l’esistenza di torri e case-torri in mano ad esponenti del ceto dei boni homines locali: è l’ipotesi di un organico e integrato “sistema difensivo” urbano, che convince poco. Considerazioni analoghe possono ben valere anche a proposito dell’eventuale presenza a Putignano di un edificio castellare. Qui d’Itollo coglie nel segno27: sulla base dell’attuale documentazione, l’esistenza di una «costruzione castellare vera e propria» alla metà del trecento rimane ipotesi assai poco probabile. E va senz’altro respinta se dovesse fondarsi unicamente sulla comparsa, in alcuni documenti precedenti e coevi alla metà del trecento, delle espressioni castrum Putiniani, castellum Putiniani. È quanto leggiamo nell’atto di esenzione per gli uomini di Putignano e Casaboli dal pagamento dei diritti di pascolo, atto concesso nell’agosto

26 d’Itollo, 27 Ibid.

Storie di abati cit., p. 218.


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1169 dal conte Roberto di Conversano ai benedettini di Santo Stefano: mentre Casaboli continua ad apparire come casale, Putignano, sino a quel momento citata semplicemente come locus, vi viene definita castellum, termine che ricompare ancora in età sveva, quando però fa la sua comparsa anche il termine castrum28. le espressioni castellum Putiniani e castrum Putiniani (quest’ultima ricompare nella prima metà del Quattrocento)29, possono forse ancora ingannare qualche ignaro cultore di storia locale poco esperto di terminologia castellare medievale, ma pronto ad esaltare a mente ed occhi chiusi le glorie patrie e a giurare su un castello di età persino prenormanna (scomodando Federico II che lo avrebbe poi distrutto in reazione ad una rivolta dei Putignanesi). non c’è dubbio invece che il termine castrum, come il suo diminutivo castellum ambivalente se non ambiguo nella sua duplice accezione, sia qui da intendere nel suo significato classico di borgo fortificato30, di nucleo abitato dotato di difese (non necessariamente in pietra come le mura), di luogo in qualche modo recintato e protetto, piuttosto che nel significato – che nel nostro territorio come altrove in Puglia s’impone a partire dal secolo XIII – di edificio castellare come oggi lo intendiamo. nel caso della Putignano di età normanna e sveva, ci troviamo di fronte ad un

28 «loco Pautiniano»: Le pergamene di Conversano, I (901-1265), ed. g. Coniglio [Codice Diplomatico Pugliese, continuazione del Codice Diplomatico Barese], vol. XX, Bari 1975, n. 3, aprile 915, p. 7, e n. 19, ottobre 966, p. 43. «Castellum Putiniani» o «Poteniani»: I più antichi documenti cit., n. 3, agosto 1169, p. 13, e n. 4, 19 maggio 1195, p. 17; Le pergamene di Conversano cit., n. 205, 10 maggio 1253, p. 421. «Castrum Putiniani»: ivi, n. 158, 1208, p. 328. gli esempi non sono esaustivi. 29 In un atto della regina giovanna II datato 1434 ma inserito in un documento della metà del Cinquecento, la gerarchia degli insediamenti del nostro territorio appare la seguente: Monopoli è città, Martina Franca (definita anche «castrum») e Castellana sono «terre», Putignano, locorotondo e Cisternino «castra», Fasano casale: Il Libro Rosso della città di Monopoli, ed. F. Muciaccia, Bari 1906, n. 37, 8 agosto 1434, pp. 135-139. 30 obbligato il riferimento al noto passo dell’opera enciclopedica di Isidoro di Siviglia, composta tra il VI e il VII secolo: «Castrum antiqui dicebant oppidum loco altissimo situm, quasi casam altam; cuius pluralis numerus castra, diminutivum castellum est»: ISIdoRI hISPalEnSIS EPISCoPI Etymologiarum sive originum libri XX, libro XV, cap. II, par. 13. l’identificazione del «castellum parvulum» con il borgo non urbano era stata formulata già nel IV secolo dal funzionario della corte imperiale di Costantinopoli FlaVIuS VEgEtIuS REnatuS, Epitoma rei militaris, libro IV, cap. X: «castellum parvulum, quem burgum vocant, inter civitatem et fontem convenit fabricari ibique ballistas sagittariosque constitui, ut aqua defendatur ab hostibus»; ne è ora consultabile una buona edizione con introduzione, traduzione italiana e testo latino a fronte a cura di M. Formisano, L’arte della guerra romana, prefaz. C. Petrocelli, Milano 2003.


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la toRRE dI PutIgnano nEl tRECEnto

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insediamento rurale che, nel percorso dal locus al castellum o castrum31, ha appena compiuto i primi passi nell’evoluzione verso una dimensione “semiurbana”, di “città minore”, iniziando a proporsi come centro di coagulo demico e socio-economico in un’area murgiana scarsamente popolata e strategicamente poco rilevante, ma sempre più appetibile sul piano delle rendite, innanzi tutto sulle attività di pascolo; da qui la necessità di dotarsi di difese meno aleatorie e che si sviluppino lungo il perimetro dell’abitato, racchiudendolo: il circuito murario già ricordato, se si vuole. È la forma più diffusa, nei piccoli borghi rurali e nei casali in cui non risiede o non è presente un forte potere locale, di “incastellamento”. Su questo castrum senza castello si innesta poi, alla metà del trecento, un incastellamento di altro tipo, baronale e autoritario (ma non in contrasto, almeno nel caso di gualtieri, con il potere regio) che vuol “proteggere e dominare”: è la nova turris di gualtieri.

31 Si tratta in entrambi i casi, così come per altri termini della gerarchia insediativa, di «una serie di definizioni attribuite a categorie universali statiche», mentre c’è bisogno – considerazione da estendere al Mezzogiorno bassomedievale – di cogliere, anche grazie ai rapporti con i castelli e le altre opere di fortificazione, i «momenti di in processo dinamico attraverso il quale, percorrendo i diversi gradi della ‘carriera’, un semplice villaggio può raggiungere le caratteristiche e la qualifica di «città»: a. a. SEttIa, Proteggere e dominare. Fortificazioni e popolamento nell’Italia medievale, Roma 1999, p. 196 (è il saggio Da villaggio a città: lo sviluppo dei centri minori nell’Italia del nord, già apparso in Città murate del Veneto, cur. S. Bortolami, Cinisello Balsamo 1988, pp. 23-34, qui ripresentato con il titolo La funzione poleogenetica); ivi, p. 199, è richiamata la nota citazione di liutprando di Cremona che nel secolo X indica il borgo come «congregatio domorum que muro non clauditur».


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Nota bibliografica a cura di

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offrire un esaustivo aggiornamento bibliografico relativo ai temi affrontati nei densi saggi di raffaele licinio è un compito che esula dagli obiettivi di questa breve nota. Vi si fornirà invece un primo quadro di riferimento di opere che danno conto dell’ampia bibliografia sviluppatasi successivamente alla data di pubblicazione dei contributi qui raccolti, e che dialogano esplicitamente o implicitamente con essi quanto a metodologia, fonti e problemi interpretativi. le questioni riguardanti il ruolo economico degli ordini religiosocavallereschi nella Puglia centrosettentrionale e, con sguardo geograficamente più ampio, l’analisi delle strutture di sostegno all’oltremare crociato nel Mezzogiorno medievale, trovano elementi di discussione e integrazione in molti contributi recenti di Kristjan toomaspoeg. il primo che va citato è certamente il volume dedicato a La contabilità delle Case dell’Ordine Teutonico in Puglia e in Sicilia nel Quattrocento (galatina 2005), con il quale almeno i saggi dedicati a san leonardo di siponto e ai teutonici in terra di bari sono strettamente correlati, mentre quello su Teutonici e masserie fornisce a toomaspoeg, nella parte introduttiva relativa al baliato pugliese, diversi spunti di riflessione. lo stesso studioso si era occupato del tema del sostentamento degli insediamenti crociati in terrasanta, tema del quarto intervento di licinio qui ristampato e sviluppato in un saggio di J.H. Pryor (in subsidium terrae sanctae: Exports of Foodstuff and War Materials from the Kingdom of Sicily to the Kingdom of Jerusalem, 1265-1284, «asian and african studies», 22 [1988], pp. 127146), ne Le ravitaillement de la Terre Sainte: l’exemple des possessions des ordres militaires dans le royaume de Sicile au XIIIe siècle (in L’expasion occidentale (XIe-XVe siècles). Formes et consequences. XXXiii congrès de la société des Historiens médiévistes de l’enseignement supérieur Public [Madrid 23-26 mai 2002], Paris 2003, pp. 143-158), e vi è tornato più


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recentemente in alcune occasioni (Charles Ier de Anjou, les Ordres Militaires et la Terre Sainte, in As Ordens Militares. Freires, Guerreiros, Cavaleiros. actas do Vi encontro sobre ordens Militares, cur. i. c. ferreira fernandes, Palmela 2012, ii, pp. 761-778; Le grenier des templiers. Les possessions et l’économie de l’Ordre dans la Capitanate et en Sicile, in L’économie templière en Occident: patrimoines, commerce, finances, éd. a. baudin - gh. brunel - N. Dohrmann, langres 2013, pp. 93-114; Les ordres militaires dans les villes du Mezzogiorno, in Les ordres militaires dans la ville médiévale [1100 - 1350]. actes du colloque international (clermont-ferrand, 26-28 mai 2010), éd. D. carraz, clermontferrand 2013, pp. 171-188). Ulteriori prospettive di indagine sulla storia delle reti di assistenza monastica e laica nel Mezzogiorno sono state inoltre fornite da rafaël Hyacinthe – autore anche di una importante monografia sull’ordine di san lazzaro (L’ordre de Saint-Lazare de Jérusalem au Moyen Âge, Millau 2003) – ne L’implantation des institutions de charité du le royaume de Naples au Moyen Âge: nouvelles perspectives de l’histoire de l’assistance (in Hôpitaux et maladreries au Moyen Âge: espaces et environnement. actes du colloque international d’amiens-beauvais [22-24 novembre 2002], «c.a.H.M.e.r., laboratoire d’archéologie et d’Histoire de l’Université de Picardie - Jules Verne», 17 [2004], pp. 291-310). Due opere recentissime sui templari forniscono solide basi di orientamento bibliografico e tematico: un saggio di luciana Petracca dedicato alla Puglia settentrionale (L’Ordine dei Templari in Capitanata. Storia, sviluppi, aspetti e problematiche, «Mélanges de l’ecole française de rome – Moyen age», 128, 2 [2016]) e più in generale il volume I Templari. Grandezza e caduta della “militia Christi” (cur. g. andenna - c.D. fonseca - e. filippini, Milano 2016), nel quale i contributi più vicini ai problemi affrontati nei saggi di licinio sono quello di toomaspoeg (I Templari nel Mezzogiorno e nelle isole, pp. 75-86), di Nicolangelo D’acunto (Gli Hohenstaufen e i Templari, pp. 103-110) e di luigi russo (I Templari e la navigazione nel Mediterraneo, pp. 139-148). Per quanto riguarda l’ordine teutonico sono invece opere di riferimento imprescindibili i volumi della collana Acta Theutonica, diretta da Hubert Houben, presso cui sono stati pubblicati i tre contributi di licinio qui riproposti: alcuni di essi sono dedicati alla capitanata (L’inventario dell’archivio di S. Leonardo di Siponto [ms. Brindisi, Bibl. De Leo B 61]: una fonte per la storia dell’Ordine teutonico in Puglia, cur. H. Houben - V. Pascazio, galatina 2010; Federico II e i cavalieri teutonici in Capitanata. Recenti ricerche storiche e archeologiche. atti del convegno internazionale


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Nota bibliografica

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[foggia-lucera-Pietramontecorvino, 10-13 giugno 2009], cur. P. favia, H. Houben, K. toomaspoeg, galatina 2012), cui vanno aggiunti I cavalieri teutonici tra Sicilia e Mediterraneo (atti del convegno internazionale di studio [agrigento, 24-25 marzo 2006], cur. a. giuffrida - H. Houben - K. toomaspoeg, galatina 2007) e il volume di Mariella intini, “offero me et mea”. Oblazioni e associazioni all’Ordine teutonico nel baliato di Puglia fra XIII e XV secolo (galatina 2013), entrambi nella medesima collana, e, con particolare riguardo alla figura di ermanno di salza, il volume di N.e. Morton, The Teutonic Knights in the Holy Land, 1190-1291, Woodbridge 2009. attingendo ai lavori di licinio, contributi recenti sull’organizzazione delle masserie e del lavoro contadino sono stati pubblicati da chi scrive (Strutture agrarie e politica economica nella Capitanata medievale: le masserie regie [secoli XIII-XV], «società e storia», 146 [2014], pp. 619-50; Agricoltura e allevamento transumante nella Puglia medievale: osservazioni sul governo della mobilità rurale, «Mélanges de l’ecole française de rome – antiquité», 128, 2 [2016]) e da amedeo feniello (Alcune note sulle masserie di Capitanata nel tardo medioevo, «bullettino dell’istituto storico italiano per il Medioevo», in corso di pubblicazione), mentre una panoramica sulla storia rurale medievale da una prospettiva archeologica è fornita dal volume XXXVii di «archeologia medievale», curato da alessandra Molinari (Mondi rurali d’Italia: insediamenti, strutture sociali, economia, secoli X-XIII, 2010): in esso va segnalato il contributo di Pasquale favia, che si concentra sulla capitanata (Dalla frontiera del Catepanato alla “Magna Capitana”: evoluzione dei poteri e modellazione dei quadri insediativi e rurali nel paesaggio della Puglia settentrionale fra X e XIII sec., pp. 197-214). Dello stesso autore sono in corso di stampa Castelli, silos e pantani. Una visuale archeologica sui paesaggi e i poteri in Capitanata nel XIII secolo (in Christen und Muslime in der Capitanata im 13. Jahrhundert. internationale tagung veranstaltet vom DHi in rom [16-18 maggio 2012], e “ego (…) rubberto dux (…) habeo castello novo qui fecit Niello in ipsa silva (…) qui congruum michi est offerire in monasterio”. Luoghi, tempi, protagonisti, contesti e declinazioni dell’incastellamento nella Puglia centrosettentrionale, per gli atti del convegno su L’incastellamento quarant’anni dopo “Les structures du Latium médiévale” di Pierre Toubert (bologna, 1415 novembre 2013). a questi ultimi lavori va aggiunto, come fondamentale per la storia insediativa della Puglia settentrionale, il volume Fiorentino ville déserté nel contesto della Capitanata medievale (ricerche 1982-1993), curato da M.s. calò Mariani, f. Piponnier, P. beck e c. laganara (École française de rome, roma 2012).


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ancora dalle ricerche archeologiche giunge un contributo fondamentale alla storia delle produzioni artigianali. Un volume recente fa il punto sul panorama degli studi e sulle prospettive di ricerca (L’archeologia della produzione a Roma [secoli V-XV]. atti del convegno internazionale di studi [roma, 27-29 marzo 2014], cur. a. Molinari - r. santangeli Valenzani - l. spera, roma e bari 2015) e al suo interno un quadro aggiornato di temi e bibliografia su La produzione in Italia meridionale fra Tardoantico e Medioevo: indicatori archeologici, assetti materiali, relazioni socio-economiche è fornito da Pasquale favia, roberta giuliani e Maria turchiano; sul piano dell’analisi delle fonti scritte su temi di cultura materiale, buon punto di partenza può essere il volume di Ph. Ditchfield, La culture matérielle médiévale. L’Italie méridionale byzantine et normande (École française de rome, roma 2007. gli aspetti relativi alle guerre nel Mezzogiorno e nella Puglia quattrocentesca possono essere contestualizzati a partire dal volume Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche (cur. f. senatore - f. storti, Napoli 2011), dal quale desumere le necessarie informazioni bibliografiche sulle corrispondenze edite, nonché dai volumi di Fonti e studi per gli Orsini di Taranto dell’istituto storico italiano per il Medioevo, di cui si segnala almeno Un principato territoriale nel Regno di Napoli? Gli Orsini del Balzo principi di Taranto (1399-1463). atti del convegno di studi (lecce, 20-22 ottobre 2009), cur. l. Petracca - b. Vetere, roma 2013, e “Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re”. Il principato di Taranto e il contesto mediterraneo (secoli XII-XV), cur. g. colesanti, roma 2014. contributi fondamentali sulle vicende militari del regno aragonese sono i lavori di francesco storti, di cui si citerà, tra i più recenti, L’esercito napoletano nella seconda metà del Quattrocento (salerno 2007), e “Se non haveremo modo vincerla con lancie e spate, la vinceremo con zappe e pale”. Note e riflessioni sulle tecniche ossidionali del secolo XV (in Diano e l’assedio del 1497. atti del convegno di studi [teggiano, 8-9 settembre 2007], salerno 2010, pp. 235-276). Dedicato alle strutture castellari è infine il saggio di Virgilio carmine galati, Francesco di Giorgio e le strutture fortificate della Puglia aragonese. Considerazioni sulle strutture tipologiche e sul caso emblematico della committenza dei de Monti a Corigliano d’Otranto (tra Giuliano da Maiano, Francesco di Giorgio Martini e Antonio Marchesi), «bullettino della società di studi fiorentini», 11 (2002), pp. 107-132, numero dedicato agli Studi per il V centenario della morte di Francesco di Giorgio Martini (1501-2001).


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI a cura di Mariolina Curci


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ABULAFIA D. 33, 39, 63, 67, 68, 81 Accadia (Fg) 163 Accardo, frenarius 92 Aci Castello (Ct) 38 Acquarica del Capo (Le) 160, 161 Acquaviva, famiglia 160 Acri o San Giovanni d’Acri 67, 68, 71, 78, 139 ADLER M.N. 11, 39 Adriatico, mare 64 Africa 64, 65, 73, 74 Agira (En) 73 AGNELLO G.M. 11, 13, 163, 182 Agrigento 14, 28, 31, 37 AIRALDI G. 70 Al Fârâbi, filosofo 32 ’Al Mâlihi, storico 13 al-Malik al-Kamil, sultano 69 ’Al Muqaddasî, geografo 14, 15 ALAGGIO R. 189 Alatiel, personaggio del Decameron 186 Albania (AL) 190 Alberona (Fg) 163 Alberto Magno, vescovo 56 Alcamo (Tp) 14, 37 Alessandria d’Egitto (ET) 81 Alessandro de Catiniano 167 Alessandro di Telese, storico 6, 15, 40 Alessano (Le) 174, 179 ALESSIO G. 69 Alferana, figlia di Solimeno orefice 20 Alfonso I d’Aragona detto il Magnanimo 85, 105, 108, 110, 154, 155, 158, 160, 164

Alfonso II di Napoli, duca di Calabria 170, 173, 174, 175, 178, 179, 180 Alife (Ce) 75 Alimini, laghi 171 Altamura (Ba) 46, 151, 167 Altavilla, dinastia 74 Alvise (Luigi) Minutolo (anche Aluyse), condottiero 165 Amalfi (Sa) 6, 7, 11, 20, 29, 39, 40, 52, 66, 70, 71, 78, 79, 80 AMARI M. 6, 13, 14, 15, 30, 33, 36, 38, 39, 46, 57, 81 Amato di Montecassino, cronista 40, 62 America 61, 63, 183 Amerusio, magister e figlio di Petracca 29 Aminada, cultellario 25, 41 Amiralia, fabbro 18 Amplári, cognome 9 Anastasia, moglie di Basilio orefice 20 Ancinale, fiume 14 ANDALORO M. 54 Andalusia (ES) 33, 68 ANDENNA G. XII, 62, 202 Andrea di Salerno 41 Andrea orefice, figlio di Basilio 20 ANDREOLLI B. 17, 58 Andria (Bt) 152, 163 Angelo, figlio del notaio Giovanni 189 Angelo de Marra 54, Angelo di Vado, magister rationalis 190193 Angioini, casa regnante 31, 151, 152 Anselmo Adorno, cavaliere gerosolimitano 169


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

BALDUCCI PEGOLOTTI F. 72 del Balzo Orsini, famiglia 151, 157 BARATTA M. 162 Barcellona (ES) 164 Bari o Baro V, VII, IX, 6, 11, 14, 18, 28, 70, 72, 79, 107, 112, 123, 124-127, 129, 133-136, 138, 139, 140, 142, 148, 151, 153, 154, 158, 163, 166, 167, 169, 175 Castello di Bari 167, 168, 175, 176 San Nicola, basilica 17, 70, 139 Barletta IX, X, 15, 18, 19, 28, 33, 51, 71, 77, 78, 79, 87, 88, 90, 93, 97, 107, 113, 123, 124, 126-139, 141, 146, 147, 148, 149, 152, 154, 158, 164, 175, 176 Casa dell’Ospedale 77 S. Sepolcro, chiesa 28, 70 San Tommaso (o la Magione), chiesa 130 Barsento (Alberobello, Ba) 186 Bartolomeo da Neocastro, storico 51 Bartolomeo di Alessandro, corvisierus 16 Basilicata 155, 156, 162, 163, 180 Basilio, fabbro 58 Basilio, orafo siciliano 20 Basilio di Angelo Caputo, giudice di Putignano 189, 190 BATTISTI C. 69 BAUDIN A. 202 BEATILLO A. 166 Beatles V Beatrice d’Angiò, imperatrice di Costantinopoli 185 BECK P. 203 Belisario Acquaviva d’Aragona, condottiero 179 BELLI D’ELIA P. 11 Babilonia 186 Benedicti sutoris 19 Baccio Pontelli, architetto 178 Benevento 6, 169 BACHELARD G. 23 Benjamin da Tudela, storico 11, 30, 39 BACILE DI CASTIGLIONE G. 158, 160, Benzone di Alba, vescovo 62 172, 175, 178, 179, 186 Berardino Mormile, nobile napoletano Baibars, sultano mamelucco d’Egitto 33 180 Baldovino, capo dei crociati 73 Berna (CH) 24

Antonello Barone, castellano di Trani 152 Antonio, pubblico notaio della Terra di Bari e figlio del giudice Pellegrino di Tommaso 189, 190 Antonio da Trezzo, ambasciatore del duca di Milano 164 Antonio Caldora, condottiero 158 Antonio Dentice, castellano della rocca di Lucera 154 Antonio Fiorentino v. Antonio Marchesi da Settignano Antonio Giovanni Visco, credenziere di Monte Sant’Angelo 175 Antonio Marchesi da Settignano, architetto 178 Appia, via 72, 87 Apricena (Fg) 87, 89, 155, 186 Aragona, casa regnante 31, 151, 154, 164 Arcimboldi v. Giuseppe Arcimboldo Argentina (AR) 61 Ariano Irpino (Av) 162 Aristotele, filosofo 56 ARLINGHAUS F.-J. 126 Ascoli Satriano (Fg) 87, 91, 93, 96, 100, 101, 158, 163 Atella (Pz) 163 Atene (GR) 10, 185 Aversa (Ce) 15, 16, 20 AVERY M. 24 Avetrana (Ta) 174 Avicenna, filosofo 56 AYMARD M. 63 Aymone de Lauro, castellano 54 AZZARONE M. 175, 178 Azzo Visconti, signore di Milano 166-169


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Bernalda (Mt) 180 Bernardino de Bernardo, segretario del regno di Napoli 180 Bernardo di Tirone, santo 24, 25 Bertoldo, carroczarius 92 Bethmann L.C. 62 BEVERE R. 8 Biccari (Fg) 163 Biella 25 Bisanzio 6 Bisceglie (Bt) 127, 135, 136, 153, 171 Bitetto (Ba) 166 Bitonto (Ba) 127, 163, 167 BLOCH M. 5, 22 BOCCACCIO G. 58, 59, 186 BODINI N. 160 Boemondo di Antiochia, principe di Taranto 70 BOESCH GAJANO S. 25 Bonsignore de Stasi 45 BORST A. 5 BORTOLAMI S. 199 BOURGIN H. 43, 44 Bovino (Fg) 163 BRANDILEONE F. 9, 31 BRAUDEL F. 5, 22, 23, 42, 43, 44, 51, 58, 61, 82, 83 BRESC H. 4, 9, 17, 26, 44, 46, 63, 64 BRESC BAUTIER G. 4, 9, 26, 44, 46, 70, 72, 74 Brizio, magister ferrarrius VIII, 17, 18 Brienne, famiglia 185, 194 Brindisi o Brindese ix, x, 11, 20, 52, 71, 72, 107, 112, 118, 123, 124, 126, 129, 138-142, 152, 153, 158, 162, 163, 169, 170, 172, 174, 176, 177, 178, 179, 180, 182 San Giuliano, quartiere 20 BROWN V. 23 BRUGNOLI A. 129 Brundosina, moglie di magister Petracca 29 BRUNEL GH. 202 Brunetto Latini 33 BRUNO A.R. 25 BRUSATIN M. 13, 22

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BUCAILLE R. 23 BUCCI MORICHI C. 161 Burcardo di Monte Sion, storico 69 BURGARELLA F. 58 BURGARELLA P. 45 BURNETT CH. 55 Butera (Cl) 73 CADEI A. 54 Caffaro di Rustico da Caschifellone, storico 80 CAGGESE R. 97, 101, 185, 188, 22 Calabria 4, 14, 17, 24, 37, 62, 71, 78, 100, 104, 181 CALASSO F. 21 Callisto II (nato Guido di Borgogna), papa 7 CALÒ MARIANI M.S. 7, 12, 19, 90, 164, 203 Caltanissetta 37 Canada (CA) 61 Cancellara (Pz) 180 CANNATARO M. 18, 192 Canne della Battaglia (Barletta, Bt) 87, 88, 90, 157, 158 Canosa (Bt) 11, 12, 53, 54, 152, 153, 163 CANTALUPO P. 68, 69 Capasso B. 9, 47 Capitanata ix, x, 11, 13, 18, 19, 40, 71, 85-90, 93, 95, 99, 100, 104, 105, 113, 115, 117, 118, 123, 124, 128, 130, 137, 138, 141, 142, 155, 156, 158, 162, 163, 164, 175, 178, 186, 202, 203 Caprilio (Capriglia Irpina, Av) 18 Capua (Ce) 15, 17, 29, 31, 40, 181 CARABELLESE F. 29, 41, 166 CARACAUSI G. 9, 45 Carafa, famiglia 157 CARANDINI A. 23 Carcio, scudiero 91 Cardinali, magister 56 CARDINI F. 158 CARDUCCI G. 174, 176, 178 Carlo I d’Angiò, re di Sicilia 19, 66, 98, 100, 161, 170, 190


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia 12, 40, 157 Carlo Gambacorta, marchese di Celenza Valfortore 157 Carlomagno, imperatore del Sacro Romano Impero 170 Caronia (Me) 37 Carosino (Ta) 157 Carovigno (Br) 160, 178, 182 CARRAZ D. 202 CARUCCI C. 20, 45 Casaboli (Noci, Ba) 186, 187, 195, 197, 198 Casalaspro (Pz) 162 Casalnuovo Monterotaro (Fg) 155 Caserta o Caserte 29 CASSANDRO G. 10 Cassano (Ba) 166 Cassero, quartiere di Palermo 14 CASSESE L. 26, 41 CASSI RAMELLI A. 179 CASSIANO A. X Castel del Monte o castello di Sancta Maria de Monte V, 152, 157 Castellana Grotte (Ba) 198 Castellaneta (Ta) 151, 153 CASTELLANO A. 167 Castelluccio Valmaggiore (Fg) 163 CASTELNUOVO E. 6, 24, 181 Castrignano del Capo (Le) 155 Castro (Le) 174, 179, 189 Castro di Mare al Volturno (Na) 54 Castromediano, famiglia 157 Castrogiovanni v. Enna CASULLI G. 194 Catanzaro 15, 48 Caterina di Sanseverino, contessa di Tagliacozzo 176 Cava, monastero 25, 28, 78 Cavallino (Le) 157 CAVALLO G. 24 CAZZATO M. 161 CAZZATO V. 159 Cefalù (Pa) 75 Ceglie Messapica (Br) 174 Celenza Valfortore (Fg) 157

Cesareo di Napoli 42 CESCHI C. 174 Cetara (Sa) 174 CHERUBINI G. 4, 17, 40, 42, 44, 57, 58, 78, 129, 135, 186 Chiatona (Massafra, Ta) 186 Ciro Ciri, ingegnere 174 Cisternino (Br) 156, 198 CITTER C. 135 CIUFFREDA A. 165, 175 Clemente IV (nato Guy Foucois), papa 16 Clotario II, re dei Franchi 24 COLAFEMMINA C. 12 COLAPIETRA R. 153 COLESANTI G. 204 Collesano (Pa) 75 COLLURA P. 28, 31 CONCINA E. 15 CONIGLIO G. 21, 47, 198 CONRAD H. 30, 50 Constancio, magistro sellario 18 CONTAMINE PH. 173 CONTI M. 69 Conversano (Ba) 28, 47, 70, 152, 160, 185, 186, 188, 190, 195, 197, 198 Corato (Bt) 164, 169 CORDASCO P. 8, 21, 46 Corinto (GR) 10, 67 Corneto 86, 87, 89, 90, 91, 92, 93, 94. 96, 97, 100, 101, 102, 103, 105, 107, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 123, 124, 128, 131, 134, 135, 141, 142, 152 Corrado III di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero 71 CORRAO P. 8, 15, 21, 38, 48 CORSI P. 21, 47, 87 CORTONESI A. 76, 95, 140 Costantino l’Africano, monaco 68 Costantinopoli 12, 30, 198 Costanza, personaggio del Decameron 58 Costanzo Sforza, signore di Pesaro 172 Cristoforo Colombo 61 Cristoforo Favagrossa, castellano di Cremona 169


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

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CROCE B. 63 CUOZZO E. 55 D’ACUNTO N. 202 D’ALESSANDRO V. 4, 17, 75, 77 D’ANGELA F. 8 D’ANGELO F. 49, 51, 77 DA COSTA LOUILLET G. 25 DACONTO S. 49, 165 DALENA P. 186 DAVID J. 22 DAY J. 64, 159 DE BARTHOLOMAEIS V. 40, 62 DE GENNARO G. 66, 132 DELAVILLE LE ROULX J. 78 DE LEO P. 87 DE MARCO A. 161 DE SETA C. 9, 31 DE SIMONE E. 162 DE VITA R. 156 DEL RE G. 6, 7, 30, 40 DEL TREPPO M. 63, 80, 105, 155 Defilippis D. 171, 179 Deliceto (Fg) 18 Della Marra, famiglia 157 DENTICI BUCCELLATO R.M. 8, 16, 17, 21, 38, 45 Desiderio, abate 6, 39, 40 DI MAURO L. 9 DI PEDE F. 181 DI RESTA I. 30, 31 Diomede Longo de Tana, castellano di Gallipoli 174 DITCHFIELD PH. 204 DODWELL C.R. 27 Domenico da Gravina, storico 92, 157, 192, 195 Domenico Gundisalvi, filosofo 32 Domenicuccio dell’Aquila, condottiero di ventura 152 DOHRMANN N. 202 Dragonara, castello 28, 157, 174 Dragonea (Cava, Sa) 20, 28 DUBOIS J. 25 Durazzo (AL) 38

Eboli (Sa) 10, 45 Edrisi, geografo 14, 19, 20, 36, 37, 38, 39, 40 EGIDI P. 12 Egitto (EG) 33, 66 Elena, moglie di Bonsignore de Stasi 45 ELZE R. 52 Enna 14, 37 Enrico IV di Francia, imperatore del Sacro Romano Impero 40 Enrico VI di Svevia 67, 71, 87, 130, 139 Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania 56 Enzo Yspano, valletto 92 EPSTEIN S.R. 63, 64, 67 Eraclio 26 Erik il Rosso 61 Ermanno di Salza, Gran Maestro dell’Ordine Teutonico 203 Etna, vulcano 14, 37, 38 Euclide, matematico 33 Eugenio IV (nato Gabriele Condulmer), papa 152 Europa 3, 67, 140 EVANS A. 72 Fabbri, contrada dei 13 Fabrizio de Scorciatis, percettore di Terra di Bari e Terra d’Otranto 176 FAETA F. 23 FAGIOLO M. 159 Falcone Beneventano, storico 6 FARAGLIA N.F. 152 Fasano (Br) 186, 189, 195, 198 FASOLI G. 4, 5, 30 FAVIA P. 203, 204 Favignana (Tp) 38 FEDERICI V. 10 Federico I d’Aragona, re di Napoli 162 Federico Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero 170 Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero o Svevo VIII, X, 7, 10, 26, 27, 30, 32, 33, 40, 44, 50, 52, 53, 54, 55, 56, 69, 70, 75, 81, 82, 89, 98, 102, 139, 156, 161, 162,


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

164, 170, 198 Federico Favagrossa, castellano di Cremona 169 FENIELLO A. 203 Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli X, 162, 175 Ferdinando II d’Aragona detto il Cattolico, re di Sicilia 31, 156, 160, 164, 166, 168, 169, 170, 172, 174, 175, 176, 177, 180, 183 FERORELLI N. 166, 167, 168 Ferrandina (Mt) 162 Ferrante Yspano, scudiero 92 Ferrara 33, 180 FERREIRA FERNANDES I.C. 202 FIGLIUOLO B. 70, 162, 163 FILANGIERI DI CANDIDA R. 11, 13, 51, 88, 99, 100 FILIPPINI E. 202 Filippo d’Angiò, principe di Taranto 185 Filippo II di Francia detto l’Augusto 71 FILOMENA E. 160 Fiorentino (Toremaggiore, Fg) 19, 28, 155, 157 Firenze 185, 187 FLAVIUS VEGETIUS RENATUS 198 Foggia VII, 18, 28, 40, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 118, 162, 163, 164, 171, 175 Dogana della Mena delle pecore 85 Foligno (Pg) 52, 167 FONSECA C.D. VIII, 25, 66, 72, 78, 86, 139, 140, 155, 156, 157, 158, 175, 186, 192, 202 FORBES R.J. 26 FORTI U. 27 FORMISANO M. 198 FOUCARD C. 158, 172 Francavilla Fontana (Br) 161 Francesco de Agello, razionale del principe 159 Francesco di Giorgio Martini, architetto 173, 174, 178, 179 Francesco Sforza, duca di Milano 164, 165, 166, 167 FRANCHETTI PARDO V. 44

Francia 185, 186, 187 Franciscus, magister argenterius 29 FRUGONI C. 24, 25 FUIANO M. 30, 41 Fulcignano (Galatone, Le) 155, 160 FUMAGALLI V. 24 FUZIO G. 155, 158 Gabriele Mathalone di Otranto 177 GABRIELI F. 33, 39 Gaeta (Lt) 39, 40, 78 GALASSO G. 9, 10, 36, 39, 40, 63, 105, 155 Galati (Me) 37 GALATI V.C. 204 Galátone (Le) 155 GALETTI P. 58 GALLAIS P. 5 Gallipoli (Le) 161, 172, 174, 176, 177, 178, 179, 182 GALLO A. 15 GALLOTTA A. 171 Garagnone (Poggiorsini, Ba) 152, 153 Gargano 165 Garigliano, fiume 152 GARNIER F. 57 GARUFI C.A. 7, 40, 82 Gaspare Visconti, consigliere del ducato di Milano 175 GATTI L. 28, 29 GATTINI G. 181 GAULIN J.-L. 52 Gedük Ahmed, gran visir di Maometto II X, 171, 172, 177 GELAO C. 167 Gemma Torcifezza detta calceolaria 10, 11, 45 Genizah del Cairo 65 Genova 78 Geronimo Micheli, castellano di Manfredonia 175 Gerusalemme 61, 70, 71, 72, 74, 77, 79, 82 Ospizio di San Giovanni Battista 72 Giacomo di Hans, miles 187, 188


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Giacomo Antoglietta, signore di Francavilla Fontana 161 Giacomo Caldora, condottiero 151, 158 Giacomo Piccinino, condottiero 164 Giamâl addîn Ibn Wâsil vd. Ibn Wâsil Giambattista Carafa, precettore della commenda di Santo Stefano 194 Giancarlo Tramontano, conte di Matera 181 Giffoni (Sa) 42 Gioia del Colle (Ba) 166, 167, 189 Giordano, aurifex 29 Giordano Ruffo, storico 26, 52, 55 Giorgio Castriota Scanderberg, condottiero 164 Giovanna di Chatillon 185 Giovanna I, regina di Navarra 92 Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli 151, 152, 170, 198 Giovanni II d’Angiò, duca di Lorena 164, 170 Giovanni XXII (nato Jacques Duèse), papa 187 Giovanni d’Enghien 187 Giovanni da Matera, monaco 62 Giovanni de Gavi, magister faber 46 Giovanni di notar Cambio di Conversano 188, 189, 192, 197 Giovanni di Nardo di Putignano 192, 193 Giovanni di Pietro, valletto 91 Giovanni di Putignano, notaio 192 Giovanni, caldararius 29 Giovanni, magister faber 18, 20 Giovanni Adorno, cavaliere gerosolimitano figlio di Anselmo 169, 171 Giovanni Antonio de Foxa, condottiero spagnolo 156 Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto X, 151, 158, 159 Giovanni Carafa, condottiero 154 Giovanni Castriota, figlio dello Scanderberg 175 Giovanni Chipulla, figlio e nipote di Lucchesi 41 Giovanni Cicala, vescovo 75

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Giovanni Diacono, cronista 25, 40 Giovanni Ferrarius 26 Giovanni Fiolarus, 9 Giovanni Gambacorta, condottiero pisano 157 Giovanni Giocondo da Verona, architetto 179 Giovanni Moriale d’Albarno detto fra’ Moriale 154 Giovanni Napoletano, cittadino di Capua 17 Giovanni Torcifezza 10 Giovanni Vitelleschi di Corneto, condottiero e arcivescovo 152 Giovinazzo o Giovinazzese 135, 153, 154, 164, 165 Girgenti vd. Agrigento GIUFFRIDA A. 21, 203 Giuggianello (Le) 179 GIULIANI R. 204 Giulio Antonio Acquaviva, duca di Atri 179 GIUNTA F. 154 Giurdignano (Le) 152 Giuseppe Arcimboldo, pittore 4 Goffredo di Herville o Goffredo di Hervilla 188, 189, 190, 192, 197 Goffridi Corbiserii 19 Gonzaga, famiglia 170 Gravina di Puglia (Ba) 17, 152, 153, 155, 162 Graziano, giurista 57 Grecia 186 GRÉGOIRE R. 25 Gregorius, faber 29 Gregorius Tanator 16 GRISOTTI M. 158 Guaceto (Carovigno, Br) 182 Gualdo Rosa L. 171 Gualtieri V 185 Gualtieri VI di Brienne e Putignano 160 185, 187, 188, 191, 195, 196, 197, 199 Gualtiero di Fisaulo 70 Guarinus Curviserius, ciabattino 15, 16 GUERRIERI F. 14


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Ibn Siná vd. Avicenna Ibn Wâsil, ambasciatore del sultano d’Egitto 33 Ignone, artigiano 161 INGROSSO V. 25 INTINI M. 203 Iohannis Zito, orefice figlio di Giordano 29 IORIO R. 56, 135 Isabella, nipote di Giovanni da Putignano 192 Isabella di Chiaromonte, regina consorte di Napoli 160 HALL A.R. 7 Ischia (Na) 78 Halley (1P/Halley), cometa 161 Isernia 10 HALLEUX R. 55 Sant’Angelo, chiesa 10 HAMESSE J. 4 Isidoro di Siviglia 56 Hans Czenger, visitatore dell’Ordine Islam 74 Teutonico 107, 123, 135 Italia VII, X, XI, 3, 4, 8, 1, 26, 30, 61, 62, HASELOFF A. 164 64, 65, 179, 182 HASKINS C.H. 55 D’ITOLLO A. 187 HEERS J. 170 Iubal, faber 24 Hesdin (FR) 187 HIESTAND R. 74 HOFFMANN H. 40 Johannes faber 29 HOLMYARD E.J. 7 Jost di Venningen, maestro dell’Ordine HOUBEN H. XII, 72, 86, 87, 88, 89, 90, Teutonico di Germania 107, 123 94, 96, 101, 102, 103, 105, 107, 123, JURLARO R. 177 124, 125, 130, 139, 142, 202, 203 HUBER R. 173 HUILLARD-BRÉHOLLES J.L.A. 12, 40, 56, KAFTAL G. 26 69, 102 KEDAR B.Z. 70 HUYGENS R.B.C. 79 Kerbogha, emiro 70 HYACINTHE R. 202 Konrad di Kitzingen, maestro dell’Ordine Teutonico di Germania 123, 135 Iacobus argenterius, figlio di magister KOYRÉ A. 22, 23 KRONIG W. 23 Franciscus 29 Iacobus Ferrarius, figlio di Robertus KRUSCH B. 24 KULA W. 23 Ferrarius 29 IACOVELLI G. 30 Ibn al-Athir, storico 73, 74 Ibn Giobair, storico 6, 30 L’Aquila 190 ‘ibn Hamdîs, poeta 46 LA MANTIA V. 21, 29 Ibn Hawqal, storico e geografo 50, 68 LACROIX B. 5 ‘ibn Sabbât, cronista 57

Guglielmo di Quintavalle, giustiziere e vicario del duca Angelo di Vado 191 Guglielmo II detto il Buono, re di Sicilia, 24 Guglielmo di Tiro, arcivescovo 79 Guglielmo Appulo, cronista o Guglielmo di Puglia 40, 62 GUICCIARDINI F. 185 GULOTTA P. 46 GUREVIC A.J. 26


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Ladislao II d’Aquino, marchese di Corato 178 LAGANARA C. 203 Lagonegro (Pz) 162 Lagumina B. 12 Lagumina G. 12 Lancillotto 189 Laterza (Ba) 151 Lattarini, mercato palermitano 9 Laurenzana (Pz) 181 Lavello (Pz) 152 LAVERMICOCCA N. 25 LE GOFF J. 5, 6, 23, 25, 66 Lecce 9, 24, 152, 158, 159, 161, 163, 170, 172, 173, 177, 179, 185, 186, 187 Porta di S. Biagio 158 S. Giovanni, abbazia 159 Torre del Parco 158 Torre di Belloluogo 159, 194 Torre di S. Giacomo 159 LEICHT P.S. 4 Leif Thorwaldson 61 LEONE A. 80 LEONE S. 20, 22, 41 Leone, notaio di Putignano 189 Leone Ostiense Marsicano, storico 6 LEROI-GOURHAN A. 22 Levanzo (Tp) 38 LICINIO R. V, VII, VIII, IX, X, XI, 6, 17, 28, 44, 53, 54, 66, 76, 77, 86, 89, 92, 95, 98, 124, 129, 134, 136, 137, 140, 141, 154, 156, 158, 166, 167, 175, 201, 202, 203 Liutprando di Cremona, vescovo 199 Lizzanello (Le) 157 LOCATELLI G. 70 Locorotondo (Ba) 156, 187, 189, 195, 198 LOEW E.A. 23 LOMBARDI SATRIANI L.M. 23 Lorenzo di Altamura, magister 21 LOVREGLIO G. 157 Lucca 41, 42 Lucera o Luceria o Nucera x, 7, 10, 12, 33, 45, 53, 69, 99, 111, 154, 163, 165

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S. Domenico, chiesa 163 LUCIE-SMITH E. 32 Ludovico d’Enghien 187 Ludovico Sforza detto il Moro, duca di Milano 171 Luigi I detto il Grande, re d’Ungheria 195 Luigi III d’Angiò, re di Napoli 151, 152 Luigi IX detto il Santo, re di Francia 79 Luigi Gentile di Capua, cavaliere capuano 181 Luigi Toraldo, signore di Mola 179 Lupone, magister 96 MACHIAVELLI N. 185 MAGRI G. 162 Maio Tanator, artigiano 16 Maione, ammiratus ammiratorum 56 Malik azZâhir Rukn addîn Baibars v. Baibars Manfredi di Hohenstaufen, re di Sicilia 7, 33, 161 MANFREDI M. 152, 153, 154, 162 Manfredonia (Fg) 30, 100, 111, 117, 163, 174, 175, 176 Castello de Manfredonia 154 Manfridus, aurifex domini Imperatoris 18 Maniaporco (Fg) 90 MANNARINO C.A. 161 Maométto II detto Fátiì il Conquistatore, sultano ottomano X, 171 Maraldo diacono, figlio di magister Petracca 29 Marettimo (Tp) 38 Maria d’Enghien, contessa di Lecce 159 Marino, magister faber 29 Marino di Norcia, viceduca di Bari 153 Marino de Falconibus, signore di Taranto 160 MARINO J.A. 86, 132 MAROTTA A. 25 Martano (Le) 157 MARTIN J.-M. 11, 19, 53, 66, 77


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Martina Franca (Br) 198 Martino sutor, figlio di Giovanni Napoletano 17 Martino Fornario 127 MARTINORI E. 191 MARTORANA G. 25 Martuccio, personaggio del Decameron 58 Massafra (Ta) 186, 192 MASSAFRA A. IX, 59, 106 MASSARO C. 186 MASTRELLI C.A. 9 Matera 24, 25, 181 Matheus Crispano, consigliere di Taranto 177 MATHIEU M. 40 MATICHECCHIA G. 156 Matteo, magister palmenterius 28 Matteo di Giovanni Pagone 192 Matteo Calanzono, magister zuccarorum palermitano 21 Matteo Scaletta, artigiano 51 Matteo Spinelli, cronista 30, 49 MAURICI F. 34 Maximiani corrigiarii 19 Mazara del Vallo (Tp) 37 MAZZOLENI J. 17, 29, 92 MCVAUGH M. 56 Medio Oriente 61, 64, 69, 73, 79, 80 Mediterraneo, mare VIII, IX, X, XI, 39, 79, 140, 155 MELETTI C. 163 Melfi o Melfia 11, 12, 53, 54, 163, 180 MÉNAGER L.-R. 26, 42 Mesagne (Br) 87, 139, 161, 177 Torre del Polledro 161 Messina 10, 13, 14, 19, 30, 37, 38, 41, 42, 51, 52, 53, 70, 71, 72, 77, 79 Mezzogiorno VII, VIII, IX, XI, 1, 4, 8, 16, 39, 40, 44, 45, 57, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 70, 71, 73, 75, 76, 77, 78, 80, 81, 82, 85, 86, 102, 105, 106, 155, 182, 190, 199, 201, 202, 204 Micelo, prete della basilica di S. Nicola 17 MICHÉA J. 22, 23

Michele Scoto, filosofo 32, 55, 56 Milano 164 MILANO A.12 Milazzo (Me) 14, 37 MINERVINI L. 11, 39 Minervino Murge (Bt) 152, 157, 158 MINICUCI M. 23 MIRAZITA I. 4 Missanello (Pz) 180 Modugno (Ba) 152, 166 MOLA R. 161 Mola di Bari (Ba) 163, 171, 179 Molfetta (Ba) 29, 78, 127, 129, 153, 154, 170 MOLFETTA G. 170 MOLIN D. 26, 52 MOLIN H. 162 MOLINARI A. 204 Monopoli (Ba) 21, 25, 70, 163, 170, 186, 195, 198 SS. Andrea e Procopio, chiesa rupestre 25 S. Angelo, monastero 70 Santo Stefano, abbazia 169, 186, 189, 194, 195, 198 Torre del Gigante 175 Monreale (Pa) 23 MONTANARI M. 17, 37, 76, 95, 140 Monte Sant’Angelo 72, 154, 164, 165, 175 Castello o Castello de sant’Angelo del monte 154, 165, 178 Montecassino, abbazia 6, 23, 39, 40, 62 Monteroni di Lecce (Le) 157 Montevergine, monastero 10 MONTI G.M. 22, 31, 165, 175 Monticchio (Rionero in Vulture, Pz) 163, 164 S. Michele di Monticchio, abbazia 163 Montpellier (FR) 56 Morciano di Lecce (Le) 161 Morea (GR) 185, 186 MOREA D. 47, 99 MORELLI S. 190 MORETTI F. 28, 134, 167


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

MORPURGO P. 56 MORTON N.E. 203 MOSINO F. 24 Motta Montecorvino (Fg) 163 Mottola (Ta) 186 MUCIACCIA F. 99, 198 MURAILLE-SAMARAN C. 4 Murgia 162 MURATORI L.A. MUSCA G. VIII, XI, 11, 14, 17, 35, 37, 38, 39, 45, 47, 54, 62, 65, 67, 72, 88, 98, 135, 142, 156, 158, 166 MUZZARELLI M.G. 158 NADA PATRONE A.M. 8, 21, 30, 47, 48 NALLINO C.A. 24 Napoli 7, 12, 13, 14, 30, 31, 38, 40, 41, 47, 49, 54, 72, 78, 151, 158, 162, 164, 169, 177, 181, 195 Ponte Guizzardo o della Maddalena 31 Santi Severino e Sossio, monastero 9 Nardò (Le) 123, 170, 179 Naso (Me) 37 NASO I. 8, 24 Nella di Putignano 196 Nicolò Jamsilla, storico 7, 30 Nicola, notaio e figlio del giudice Pellegrino di Tommaso 189, 190, 193 Nicola, figlio di Giovanni da Putignano 192, 196 Nicola de Fulgineo, castellano di Palo del Colle 167, 168, 169 Nicola di Bartolomeo Pece, procuratore della corte ducale 193 Nicola, scrivano 56, 57 Nicola Corviserio 11 Nicolaus, magister faber 29 Nicolò di Ingegne, cavaliere e medico 155 Nicolò Piccinino, condottiero 164 NITTI F. O NITTI DI VITO F. 11, 15, 21, 29, 79

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NITTO DE ROSSI G.B. 21 Nocera Inferiore (Sa) 111 Noci (Ba) 186 Normanni, dinastia 55, 58, 62, 67, 73, 82, 182 NOTARANGELO A. 182 Noyon (FR) 24 NUNZIANTE E. 165 NUOVO I. 171 Oberto Fallamonaca, secreto palermitano 53 Oddo di Transburgo, scudiero 91 Ordine dei cavalieri di San Giovanni a Gerusalemme o Gerosolimitani IX, 71, 72, 77, 82, 96, 186, 195 Ordine dei Fratelli della Casa Ospitaliera di Santa Maria dei Teutonici in Gerusalemme VIII, IX, 71, 88, 89, 90, 93, 94, 96, 97, 99, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 110, 115, 117, 118, 123, 124, 125, 128, 130, 133, 134, 136, 139, 140, 141, 142, 201, 202 Ordine dei Frati Minori 139 Ordine dei Templari V, IX, 71, 74, 82, 94, 102, 105, 202 Ordine di San Benedetto 71 Ordine di Santa Maria di Valle Josaphat 71 Ordine Militare e Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme 71, 202 Oreto, fiume 14 Oria (Br) 140, 149, 160, 161, 168 Orso Orsini, conte di Nola 172 Ostuni (Br) o Hostuni 18, 129, 160, 178, 179, 180, 182, 184 Ottone di Frisinga, storico 19, 48 Otranto (Le) 6, 31, 80, 163, 170, 179, 172, 173, 174, 184, 185, 186, 187, 188, 190 Ottino de Cariis detto il Malacarne, conte di Fortino 160 Ottone di Frisinga, vescovo 11, 19, 40


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

PAGLIARO A. 36 Paladini, famiglia 157 PALADINO G. 59 Palagiano (Ta) 186 Palermo 6, 7, 10, 11, 13, 14, 24, 37-40, 45, 49, 51, 53, 66, 67, 68, 69, 78 PALESE S. 70 Palestina (PS) 54, 61, 62, 69, 70, 74, 80, 87, 105 Palmi (Rc) 4 Palo del Colle (Ba) 58 PALUMBO P. 161 Palumbo P.F. 171 PANE R. 178, 181, 182 PANARELLI F. 62, 70 PANARESE E. 9 PANZONE C. 157 Paolo Cicala, conte 75 Paolo de Sangro, principe di San Severo 157 PAONE M. 174 PASQUALE M. 170 Partinico 14, 37, 38 PASCAZIO V. 202 PASTORE DORIA M. 159 PATACCA E. 163 Paternò (Ct) 37, 73, 77 PAVONI R. 50, 78, 81 Peregrini, faber 19 Pellegrino di Tommaso, giudice 189, 190, 192, 193, 196 PELLEGRINI G.B. 9 PENSATO G. 107 PEPE A. 159, 186 PEPE G. 82 PEPE L. 166, 182 PERI I. 34 PERRONE CAPANO COMPAGNA A.M. 162 PESEZ J.M. 23 Peter di Kitzingen, maestro dell’Ordine Teutonico di Venezia 135 Peter Heydemaher, maestro dell’Ordine Teutonico di Germania 123 Peter Mendel, tabernarius tedesco 133

Petracca, magister 28, 29 PETRACCA L. 202, 204 PETRALIA G. 42, 63 PETRIGNANI M. 11, 166, 173, 178 PETROCELLI C. 198 Petronus, faber 29 PETRUCCI A. 16 Petrus, caldararius 29 Petrus faber, figlio di Johannes faber 29 Petrus faber, figlio di Petronus 29 PIACENTINI V. 73 Piazza Armerina (En) 73 Piccardia (FR) 187 PIERI P. 164, 173 Pietragalla (Pz) 162 Pietro campanarius 30 Pietro, priore di S. Caterina de Campo Belli 78 Pietro da Eboli, storico 6, 7, 24, 34 Pietro de Mirano, comestabulus 87 Pietro Boso 20 Pietro Palagani, condottiero di Trani 152, 153 Pietro Yspano, valletto 92 Pieve di San Pietro di Feletto (Ud) 25 PINGREE D. 55 PIPONNIER F. 203 Pirro del Balzo, duca di Andria 180 Pisa 32, 78 PISPISA E. 53 PISTARINO G. 65, 80 Pistoia 4 Planorco Yspano, valletto 92 Platone, filosofo 70 Plinio il Vecchio 56 Poitiers (FR) 187 Polignano (Ba) 29, 30, 127, 163, 179, 186 Polizzi (Pa) 73 PONTIERI E. 155, 165, 178, 183 PORSIA F. 8, 11, 12, 26, 27, 31, 32, 38, 46, 52, 55, 90, 91, 166, 167, 168, 170, 172, 175 Porzemado Gato, responsabile del castello di Trani 152 POSO C.D. 10, 14


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

POTTINO F. 7 POWELL J.M. 30, 34, 81 PRATESI A. 10 PRAWER J. 62, 69, 71, 75 Prepezzano (Sa) 41 Puglia o Apulia VIII, IX, X, XI, 11, 17, 33, 59, 62, 64, 70, 72, 85, 86, 87, 94, 95, 97, 98, 100, 102, 106, 107, 108, 117, 123, 124, 126, 128, 129, 130, 132, 134, 138, 139, 141, 143, 144, 145, 151, 153, 154, 155, 158, 162, 163, 169, 170, 171, 185, 186, 192, 196, 198, 201, 203, 204 Pulcaroni fabri, magister 19 Pulsano (Ta) 160, 161 PUNZI Q. 156 PUPILLO G. 46 Putignano (Ba) 155, 156, 185, 187, 188, 189, 190, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198 Porta Grande 194 Torre Maggiore 194 Quintavallis Curviserius, artigiano 16 Rabano Mauro o HRABANUS MAURUS 23 Randazzo (Ct) 14, 37 Rapolla (Pz) 163 Raynaldus faber, figlio di Gregorius faber 29 Regno di Sicilia o regno Siciliae VIII, IX, XI, 187 Renato d’Angiò, conte di Provenza 151, 154, 178 RESCIO P. 156, 158 Riccardo da San Germano, storico 7, 34, 82 Riccardo, corveserius 29 Riccardo I d’Inghilterra detto Cuor di Leone 71 Riccardo Filangieri, storico 53, 69, 92 Riccardo Musca 75 Riccardus Tanator 16

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Riccobaldo di Ferrara 33 RICHARD J. 70, 73 RIETH R. 173 RIOU Y.J. 5 Roberto d’Angiò o Roberto principe di Taranto 22, 185 Roberto de Perillo, notaio di Bari 167 Roberto di Conversano, conte 198 Roberto il Guiscardo 10 Roberto I di Normandia, conte 70 Roberto Agato, notaio 181 Robertus, faber 10 Robertus Ferrarius 29 Roca o Rocca 56, 152, 160, 174, 179, 186 Rocchetta Sant’Antonio (Fg) 178 Rodi Garganico (Fg) 157 ROGADEO E. 51 Rogerio, magister 18 ROHLFS G. 9 ROMANINI A.M. 12 ROMANO A. 48 ROMANO G. 25, 27 Romano Paoli, frate 162 ROMEO R. 77, 105, 155 Romualdo Salernitano, storico 6 Rosa, vedova di Falcone 41 ROSCINI F. 49 ROSI M. 182 ROSSETTI G. 24, 68, 165 Rostayno de Salvagniolo, artigiano 175 ROTA E. 6 ROVIGO A. 171, 172, 174, 182 RUBINO G.E. 11, 16 Ruffano (Le) 9 Ruggero I di Sicilia detto il Gran Conte 73, 74 Ruggero II di Altavilla, re di Sicilia x, 6, 9, 10, 11, 36, 38, 40, 52, 67, 73 RUGOLO C.M. 23, 58 Ruoti (Pz) 180 RUSSO L. 202 RUSSO S. 88, 90, 95, 140 RUTENBURG V.I. 13, 33 Rutigliano (Ba) 92, 127 Ruvo del Monte (Pz) 155


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Ruvo di Puglia (Ba) 152, 153, 155 Saba Malaspina, storico 62 Saladino Ferro, medico del principe di Taranto 155 Salento 155, 162, 179 Salerno 10, 11, 20, 25, 26, 38, 40, 41, 42, 69 San Giorgio, monastero 25, 41 San Giovanni, chiesa 20 Salimbene da Parma, cronista 6 Salonicco (GR) 12 Salpi VIII, 18, 92, 96 Pectacia S. Eugenie 18 SALVATI C. 175 Salve (Le) 161, 172 SALVEMINI B. IX, 86 Salzoburgo 18 San Cataldo, patrono di Taranto 70 San Cataldo (Le) 177, 179 San Fele (Pz) 155 San Giovanni de Fratribus (Canosa, Bt) 77 San Giovanni Rotondo (Fg) 165 San Lorenzo, grotta (Mt) 24 San Marco d’Alunzio (Me) 37 San Matteo di Sculcola, monastero (Scicli, Rg) 28 San Nicola, patrono di Bari, 70, 79 San Pietro in Navicella (Canosa, Bt) 77 San Salvatore del Goleto, monastero (Sant’Angelo dei Lombardi, Av) 10 San Severo (Fg) 154 San Vincenzo al Volturno, monastero (Castel San Vincenzo/Rocchetta al Volturno, Is) 10 San Vito dei Normanni (Br) 182 SANGERMANO G. 80 Sannicandro Garganico (Fg) 87, 157 Sant’Agata di Puglia (Fg) 163 Sant’Andrea, isola (Le) 158 Sant’Eligio, vescovo di Noyon 24 Santa Caterina d’Alessandria 24, 25 Santa Maria dell’Incoronata, abbazia (Incoronata, Fg) 10

Santa Maria della Matina, monastero (San Marco Argentano, Cs) 10 Santa Maria di Leuca (Le) 158, 162 Santa Maria Latina di Gerusalemme, monastero 71, 74 Santa Maria di Valle Josaphat, monastero/abbazia 71, 74, 77 SANTANGELI VALENZANI R. 204 Santi Stefani, grotta (Vaste, Le) 24 Santi Elia e Anastasio, monastero (Carbone, Pz) 162 Sanson di Taranto 12 SANTERAMO S. 15 Santoro, magister tufarolus 21 SANTORO L. 156, 174, 178, 181, 182, 186 SANTORO R. 179 SAPONARO G. 158 SCANDONE P. 163 SCARLATA M. 15 SCHAFER SCHUCHARDT H. 134 SCHAUBE A. 39 Schiaparelli C. 14, 36 SCHMIEDT G. 160, 161 SCIARRA C. 175 SCIARRA BARDARO B. 175 SCIASCIA L. 39 SCIONTI M. 12, 31, 175 SENATORE F. 165, 204 SERGI G. 76 SESTAN E. 185 SETTIA A.A. 54, 55, 196, 199 SETTIS FRUGONI C. 23 Sforza, famiglia 164 Sforza Maria Sforza, duca di Bari 166 Sica Musca, moglie del conte Paolo Cicala 75 Sici Corveserii di Caserta 29 Sicilia X, 4, 11, 14, 17, 20, 25, 32, 34, 36, 37-40, 45, 52, 57, 58, 61, 62, 63, 64, 69, 71, 73, 78, 85, 98, 102, 106, 123, 187 Sifo di Nicola siculo, marito di Alferana 20 Sigeberto di Gembloux, cronista 62 SIGLIUZZO C. 161


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

SINGER CH. 7, 26 Siponto 18, 91, 92, 93, 107, 108, 113, 118, 119, 120, 121, 123, 124, 131, 133, 134, 136, 139, 141, 201 San Leonardo, abbazia 93, 94, 107, 111-117, 119, 120, 121, 123, 124, 128, 131, 133, 134, 136, 139, 141, 142, 201 Siracusa o Syracusani 29, 30, 66 SIRAGUSA G.B. 6, 24, 40, 68 Siria 67, 74, 80 SISTO P. 155 SIVO V. 45 SKUBISZEWSKI P. 27, 32 Soleto (Le) 180 Solimano, mercante 78 Solimeno, orefice 20 SORBELLI A. 92, 157, 192 Sorrento (Na) 14, 78 Spagna 39, 65 Spenadeo, magister di Putignano 192 SPERA L. 204 SPEZIALE C.G. 174, 175 Spinazzola (Bt) 127, 148 Staulus Corbuserus, ciabattino 15, 16 Stefano Conte, famulo di Azzo Visconti 167 Stefano Porcari, governatore di Trani 152, 153, 154 STOPANI R. 72 STORTI F. 165, 204 Stretto di Messina 38 Svevi, dinastia 67, 71, 82

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TATEO F. 11, 166, 171, 179 TATTILO G. 158 TAVIANI H. 11, 28, 29, 45 Tavoliere di Puglia 66, 72, 88, 104, 163 TAYLOR E.S. 26 Tebe (GR) 10, 12, 67 Teofilo, monaco 26, 27 Terlizzi (Ba) 41, 47, 153, 183 Termini Imerese (Pa) 8, 37 Terra d’Otranto 12, 14, 59, 123, 138, 139, 152, 157, 158, 161, 162, 163, 174, 176, 177, 178, 180 Terra di Bari ix, xii, 12, 71, 87, 92, 123, 124, 127, 139, 140, 141, 152, 157, 163, 175, 176, 189, 191, 192, 201 Terra di Lavoro 158 Terra di Marigliano 158 Terrasanta o Terra Santa VIII, IX, 61-65, 69, 70, 71, 73, 74, 75. 76, 78, 79, 80, 82, 139, 169, 201 TETI M.A. 16 Thomas Reuss di Vienna, visitatore dell’Ordine Teutonico 107, 123 THOMSON R.H.G. 7 Tiro (LB) 12, 69, 79 Tirreno, mare 64 Tomaiuoli N. 157 Tommaso d’Aquino 22 Tommaso da Brindisi 54 Tommaso de Tancredi di Foggia, mastro massaro di Capitanata 100 Tommaso di Paolo, castellano di Castel del Monte 157 Tommaso Barone, governatore di Monte Sant’Angelo 175 TOOMASPOEG K. XII, 107, 108, 113, 123, Tafuri (Nardò, Le) 9 125, 127, 128, 130, 133, 140, 142, Tagliacozzo (Aq) 176 201, 202, 203 TANCREDI G. 165 TANGHERONI M. 65, 76, 80 Torchiarolo, cognome 9 Taormina (Me) 36, 38 Torremaggiore (Fg) 157 Taranto X, 12, 31, 38, 70, 72, 74, 151, Trabia (Pa) 37 152, 156, 158, 159, 163, 166, 170, Traiana, via 72 174, 176-180, 185, 189 TRAMONTANA S. 10, 14, 33, 34, 36, 37, Torre di Raimondello 176 39, 44, 49, 50, 68, 77 Castel Sant’Angelo 175, 177 Trani (Bt) 127, 152, 153 Santa Perpetua, cappella 74 Trapani 38


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

VETERE B. X, 72, 157, 159, 186, 189, 204 TRASSELLI C. 9, 14, 31 Tricase (Le) 160, 161 Vieste (Fg) 112, 163, 165 TRIFONE R. 9, 190 Vietri (Sa) 20, 78 TRINCHERA F. 16, 177 VIGANÒ M. 183 Troia (Fg) VII, 29, 77, 96, 97, 163, 164, Villa Castelli (Br) 157 170 VILLANI G. 186 DE TROIA G. 82, 89 Villanova (Ostuni, Br) 176 TROPEANO P.M. 10 VIOLANTE F. XI, XII, 140 TRUHLAR C.V. 5 VISCEGLIA M.A. 59 Tubalcain, fabbro 24 Viterbo 55 TURCHIANO M. 204 VITOLO G. 17, 20, 41, 68, 76, 165, 195 Tursi (Mt) 181 VOLPE G. 43, 178 Volturino (Fg) 163 Volturno, fiume 15 Ugento (Le) 140, 141, 142, 179 VON DER LIECK-BUYKEN T. 30, 50 Uggiano la Chiesa (Le) 162 Uggiano Montefusco (Manduria, Ta) WAGNER W. 30, 50 157 Ugo Falcando, storico 6, 7, 11, 14, 40, WAITZ G. 40 WATTENBACH W. 6 68 WEILAND L. 31 Unfredo 19 WILLIAMS T.I. 7 URGESI D. 161, 177 Uttaru, cognome 9 WILLEMSEN C.A. 23 WILMANS R. 11, 40, 67 WINKELMANN E. 48, 77, 99 VACCA N. 20 VALLONE G. 165 VARANINI G.M. 129 Yaqût 30 Vardaru, cognome 9 Vaste (Le) 24, 25 VENDITTI A. 182 ZABBIA M. 195 Venezia x, 62, 66, 123, 135, 153, 178, ZACCHINO V. 159, 160, 172, 173, 180 179, 182 Zambelli P. 23 Venosa (Pz) 152, 163, 180, 181 ZAZO A. 16 VENTURA A. 93, 95, 107 ZINI E. 23 VERNANT J.P. 22, 23 Zuccalà, cognome 9 VERNOLE E. 161 Zuccaliu (Ruffano, Le) 9


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INDICE GENERALE Massimo Miglio, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Victor Rivera Magos, Nota introduttiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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UOMINI, TERRE E LAVORO NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE (SECOLI XI-XV)

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1

L’artigiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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3

I luoghi della produzione artigianale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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35

La Terrasanta nel Mezzogiorno: l’economia . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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61

Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV . . . . . . . .

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85

Aspetti della gestione economica di San Leonardo di Siponto all’epoca dei Teutonici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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107

I Teutonici in Terra di Bari: aspetti di storia economica . . . . . . . . . .

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123

Dalla «licentia castrum ruinandi» alle disposizioni «castra munienda». Castelli regi e castelli baronali nella Puglia aragonese . . . .

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151

La torre di Putignano nel Trecento: prime indagini . . . . . . . . . . . . .

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185

Nota bibliografica, a cura di Francesco Violante . . . . . . . . . . . . . .

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201

Indice dei nomi e dei luoghi, a cura di Mariolina Curci . . . . . . . . .

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205

V VII


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