Girolamo Arnaldi, Pagine quotidiane - PRIMA PARTE

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

GIROLAMO ARNALDI

PAGINE QUOTIDIANE a cura di MASSIMO MIGLIO - SALVATORE SANSONE

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI 2017


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Ringraziamo Lianella Arnaldi, Antonio Menniti Ippolito, scomparso nel 2016, Livia Maggioni e gli eredi di Girolamo Arnaldi che hanno permesso la realizzazione del volume. Si ringraziano i quotidiani e le riviste che hanno concesso la loro autorizzazione per la pubblicazione degli articoli. Ringraziamo Fabiana Battisti per la collaborazione. Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone

ISBN 978-88-98079-53-7 Stabilimento Tipografico Pliniana, V.le F. Nardi, 12 – 06016 Selci-Lama (Perugia)


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Ho intitolato questo discorso Ricordi, e non Ricordo, di Gilmo Arnaldi, per una ragione precisa, che posso dichiare fin dall’inizio. Uomo gentile e affabile, Arnaldi non aveva, in nessun senso, un animo né semplice né lineare. Era mite, ma coltivava dentro di sé tenaci, e insospettate durezze. Era socievolissimo, così socievole che, se si stava in sua compagnia in un luogo pubblico, si poteva esser certi che, alla fine, si sarebbe tornati a casa avendo conosciuto più persone di quante mai si sarebbe ritenuto possibile. Era ordinatissimo fino al dettaglio maniacale. Ma era possibile che all’ordine in cui teneva gli oggetti della sua scrivania corrispondesse, nella stanza medesima in cui quella era collocata, un preoccupante caos di libri e di carte, che egli si dichiarava sempre sul punto di mettere in ordine senza che mai questo momento venisse sul serio. Era uno studioso scrupolosissimo e con la tendenza, appresa alla scuola di più di un maestro, alla estrema concretezza monografica: analisi e non sintesi, esegesi dei testi, che non escludeva tuttavia sguardi che andavano al di là e non spegneva la curiosità, che in lui era altrettanto divorante dell’interesse con cui guardava a coloro con cui entrava in contatto. Era storico di individui, ma anche di istituzioni. Nel momento stesso in cui si definiva piuttosto un lettore di testi che non uno storico, era perciò anche un moltiplicatore di progetti, di curiosità, di esperimenti. Il che faceva sì che molti lavori egli li avesse cominciati e, dopo averli fatti progredire fin quasi al tra-


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guardo, li avesse lasciati incompiuti, non avendo trovato il modo di dare a essi l’ultima mano (ma diceva anche che prima o poi li avrebbe ripresi, per completarli, e a ragione lo diceva, perché fu questo il lavoro a cui egli attese negli ultimi anni quando la gioia di vivere, che l’aveva caratterizzato in tante stagioni della sua esistenza, cominciò a venarsi di malinconia, ed egli non fu più quello che per tanti anni era stato). Di questa prodigalità, che tendeva al non finito, si lamentava, e diceva che ne provava vergogna, come quando, arrabbiandosi con me che, ironicamente, gliene chiedevo notizia, diceva che presto avrebbe ripresa la traduzione di Kaiser, Rom und Renovatio, e l’avrebbe finita perché quel debito a Schramm non avrebbe potuto non pagarlo. Ricordo che in uno dei nostri ultimi colloqui, avvenuto nella sua casa di Piazza Sforza Cesarini, all’improvviso gli dissi che, nel sentirsi inadempiente, aveva torto, perché il lavoro non finito non conseguiva all’ozio, ma alla sua vitalità, alla sua curiosità, al suo spirito di avventura intellettuale: a una virtù, dunque, che sarebbe stato segno, dopo tutto, di grettezza, se non fosse stata riconosciuta in questo carattere solo perché, moltiplicando le curiosità, recava con sé la difficoltà che incontrava a chiuderle in una conclusione. Chi voglia mettere questa osservazione alla prova dei testi, apra il grosso volume, Conoscenza storica e mestiere di storico, uscito in una collana dell’Istituto italiano per gli studi storici, nel quale, sotto quel titolo un po’ alla Marrou e un po’ alla Febvre, egli ha raccolto molti dei suoi scritti di storia della storiografia. Lo apra e lo legga: e non potrà sfuggirli la ragione per la quale sarebbe fargli torto se lo si considerasse soltanto come l’importante medievista che certamente fu, e in lui non si vedesse l’inesausto sperimentatore di cose nuove, e l’insaziabile lettore. Certo, dal Medioevo, a differenza di quel che era accaduto a Salvemini e a Volpe, non credo che Arnaldi provasse mai il desiderio di venir fuori per inoltrarsi nei paesaggi della modernità. Eppure, la


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riflessione che non poteva non aver condotta sulla difficile storia dell’Italia, lo indusse a scrivere un libro diverso da tutti gli altri suoi, nel quale la storia medievale è, certo, la più presente, ma in un intrecco inedito e a tratti sorprendente con quella moderna e anche contemporanea. Lo intitolò, prendendo il titolo da un libro di Thomas Hodgkin, che ai suoi temi aveva suscitato l’interesse di Antonio Labriola, L’Italia e i suoi invasori, e fra le altre cose, vi sostenne che, se per gli italiani, e qui citava un poeta, Mario Luzi, l’Italia è stata sempre un sogno, e un miraggio, per gli stranieri fu, purtroppo, «un desiderio soddisfatto». È un libro sul quale abbiamo molto discusso, non essendo io riuscito a trovare il filo che, permettendomi di evadere dal suo ordinatissimo labirinto, mi consentisse un chiaro giudizio sulle intenzioni che, nello scriverlo, erano state le sue. Qual è il senso del libro? Che cosa, scrivendolo, Arnaldi ha voluto esprimervi? A quale verità, prima non vista, ha inteso togliere il velo? Forse ha inteso dire che ai danni che le tante invasioni avevano arrecato all’Italia dovevano contrapporsi le tante esperienze di civiltà diverse che, pur nel subire le prime, l’Italia aveva compiute, e non solo in senso negativo, perché, senza riuscire a farne la sintesi, di esse si era tuttavia arricchita? Perché nell’essere stata per tanto tempo piuttosto un oggetto che non un soggetto di storia, l’Italia si era fatta tuttavia il centro di civiltà che, in qualche modo rielaborate, l’avevano posta, rispetto ai suoi invasori, su un più alto gradino? A questa idea, a cui dava qualche rilievo nella conversazione orale, non mi pare che Arnaldi ne abbia dato uno altrettanto esplicito nel libro; che, molto abilmente costruito mediante la giustapposizione di molte narrazioni, e con la netta esclusione di, si dica così, riflessioni esplicite sulla decadenza, non consente che il lettore possa dire a se stesso se stia leggendo una storia ispirata al positivo o consegnata, invece, al negativo. Esperto di molte e diverse storiografie, e delle relative tecniche, Arnaldi fu,


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per un altro verso, uno storico all’antica: uno storico che narrava, non teorizzava, e alla narrazione, non a dichiarazioni esplicite, assegnava il compito di spiegare al lettore quale fosse, nel fondo, il pensiero che lo guidava. Durante una discussione che avemmo su questo libro, a un certo punto, feci prevalere la mia drammatizzante vena polemica, e gli dissi: a Machiavelli tu preferisci Dino Compagni. Non so se il rilievo fosse del tutto giusto perché Arnaldi fu pronto a obiettarmi che dal mio libro sulle Istorie fiorentine aveva imparato a considerare quest’opera come un capolavoro, e di questo convincimento aveva dato la prova alle pp. 125-127 del suo libro. E sia pure. Ma con il mio rilievo, intendevo dirgli (e Gilmo lo comprese benissimo) che, sebbene mostrasse di condividerne la tesi sulla decadenza italiana, De Sanctis non era un suo autore. Me lo faceva capire già ai tempi di Napoli: De Sanctis è grande, ma scrive male. Come anche per il suo tutor De Caprariis, fra le letture di Arnaldi c’era stato anche Rocco Montano, un acerrimo nemico di Croce e di De Sanctis. Ed era forse al retaggio di questa frequentazione eterodossa che risaliva la convinzione che De Sanctis scrivesse male (un giudizio che non mi sono mai sentito di condividere). Chi furono i suoi maestri? Ma è poi giusto rivolgersi questa domanda quando la conoscenza, anche minima che si sia avuta di lui, è sufficiente a dimostrarne l’astrattezza? In realtà, ma su questo dovrò ritornare, per tutta la vita Arnaldi sperimentò: sì che egli non fu mai, a rigore un discepolo di maestri, fu, al più, il loro curioso interprete. Non sono tuttavia mai riuscito a capire perché del magistero napoletano di Ernesto Pontieri Arnaldi sia stato tanto restio a parlare, anche quando eventuali amarezze del lontano passato, posto che ci fossero state, avrebbero dovuto essersi nel tempo di molto attenuate. Ma, se posso giudicare dal mio punto di osservazione, che non è quello né di un


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medievista né di uno storico, credo che chi domani scriverà un compiuto e competente profilo di Arnaldi, e lo chiamerà Girolamo e non, come lo chiamo io, Gilmo, a Pontieri dovrà assegnare un posto di assoluto rilievo, non inferiore, credo, a quello occupato da suo padre Francesco. Al quale, in primo luogo, egli dovette la sua eccellente conoscenza del latino, da me direttamente sperimentata in cento occasioni durante l’intero corso della nostra vita (cimentarsi insieme nell’interpretazione di testi latini particolarmente ardui, forse anche perché mal trasmessi, fu a lungo una nostra passione, ed è rimasta, per entrambi, un caro ricordo). Da Pontieri Arnaldi imparò che la storia è narrazione, e che l’archivio è il luogo in cui soprattutto la si discerne e la si ricostruisce. Da lui, in primo luogo, credo che gli derivasse la felice disposizione narrativa che, quando scrisse di storia, e non di storiografia, non lo abbandonò mai. Ma direi di più. Da Pontieri gli provenne un’idea del Medioevo assai diversa da quella che egli incontrò nelle sale dell’Istituto storico italiano quando, definitivamente, da Napoli si trasferì a Roma per svolgere il suo lavoro presso l’Archivio di Stato: un’idea molto più laica e terrestre di quella che gli era offerta dalla lettura sia de La santa romana repubblica di Giorgio Falco sia del Medioevo cristiano di Raffaello Morghen. Del modo in cui Arnaldi si mise in rapporto con il pensiero di questi due storici e con la loro idea, fortemente unitaria, del Medioevo diranno coloro che, con competenza, parleranno di lui. Ma nessuno, credo, potrà mettere in dubbio la rispettosa indipendenza che egli mantenne nei confronti dell’uno e dell’altro. Più che al cristianesimo in quanto religione, Arnaldi guardava infatti alle sue forme istituzionali, e in primo luogo, naturalmente, alla Chiesa, intorno alla quale non smise mai di riflettere e di lavorare. Più che pura spiritualità, come in Morghen, e superiore principio di idealità civile e religiosa, come in Falco, il cristianesmo fu, per lui, un «collante efficace» (lo


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definì così ne L’Italia e i suoi invasori, Bari 2002, p. 191) di realtà per se stesso disgregate. Il che basta a far comprendere perchè a formule così inclusive come quelle, diverse fra loro, di Falco e di Morghen, egli non potesse consentire senza riserve. Alla supposta unità dell’Europa cristiana, enfatizzata da Falco, egli guardò con diffidenza e scetticismo, non potendo evitare che del giudizio il maestro si risentisse. Di Morghen, da lui molto amato e stimato, ammirò bensì il famoso saggio sulle eresie medievali, ma la sua preferenza riservò, forse, a Il tramonto della potenza sveva in Italia, ossia a un libro di storia politica. A tenerlo lontano dalla sua idea del Medioevo fu forse anche il rapporto, mai fino in fondo chiarito, in cui egli si pose nei confronti di Buonaiuti. Simmetricamente, a renderglielo difficile era un altro rapporto che egli non riuscì mai a porre in termini che lo soddisfacessero, quello intrattenuto con Adolfo Omodeo; che era stato suo professore nell’Ateneo napoletano e con il quale non era riuscito tuttavia a entrare in contatto, vincendo la soggezione in cui era posto dalla sua persona severa e scontrosa. A Napoli, nell’ambiente crociano, quello di Omodeo era un nome mitico. Altrove, era un nome, non so se intenzionalmente, ignorato. Ma non vi ho conosciuto chi, affrontando sul serio i tre volumi delle Origini cristiane e l’altro su La mistica giovannea, spiegasse la ragione dell’oblìo in cui erano caduti, del senso di sufficienza con cui se ne parlava o, piuttosto, se ne taceva. Nemmeno so di qualcuno che abbia provato a spiegare, innanzi tutto a se stesso, perché, in che senso e se sia vero che i tre volumi di Omodeo sulle Origini cristiane sono l’espressione dell’impossibilità che potesse scriverne la storia chi avesse preteso di ispirarsi alla logica attualistica. In realtà, nascendo da un’opposta convinzione, le Origini cristiane furono una sfida che Omodeo condusse da solo nell’incomprensione dei più. Ma per capirne il senso, della filosofia di Gentile occorreva sapere più cose di quelle che, di norma,


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sono nel patrimonio dei dotti che scrivono di queste cose. A differenza di altri, Arnaldi sapeva bene che i libri di Omodeo richiedevano una lettura condotta, per così dire, su due piani. Li lesse. Ma non ritenne che appartenesse a lui il compito di dar conto della loro genesi e di spiegare il senso della sfida di cui ho parlato. Sta di fatto che, senza che egli lo comunicasse ad altri, lo spettro di Omodeo seguitò ad aggirarsi a lungo nelle sue stanze. Non essendo venuto a capo del rapporto che, criticandolo ed essendone criticato, aveva intrattenuto con Buonaiuti, non si sentì in grado di spingere più a fondo lo sguardo, anche perché del pensiero di quest’ultimo non si sentì di tentare la ricostruzione non essendo riuscito a interessarsene sul serio. Se Omodeo lo metteva in difficoltà con la filosofia, Buonaiuti faceva altretanto con la sua eccessività. L’eccessivo ricorrere, nella sua prosa, degli «anni uraganici» disturbava il suo innato senso della misura. Di Buonaiuti, comunque, parlammo spesso nei tanti anni della nostra amicizia. Ma invariabilmente il discorso si chiudeva nella constatazione di un fallimento, che era mio prima ancora che suo. Così la questione buonaiutiana si ripercosse anche nel rapporto che egli intrattenne con Frugoni e, soprattutto, con Manselli: due storici molto da lui ammirati e nei confronti dei quali pur riservando a entrambi la più schietta ammirazione, egli mantenne la stessa distanza in cui si collocò nei confronti degli storici francesi, tedeschi e polacchi, con i quali stabilì rapporti, dai quali imparò senza mai rinunziare a quel nucleo di pensieri e di atteggiamenti intellettuali che gli proveniva dalla mai dimenticata cultura napoletana e crociana. Non dirò, perché questa sarebbe non più che una boutade, che, nel rapporto stabilito con loro, Arnaldi sia stato un crociano in partibus infedelium. Era la curiosità intellettuale, non certo un’esigenza di proselitismo, che lo spingeva a conoscerli, a accettare e a criticare. Ma poiché ho parlato dei suoi maestri, ossia dagli studiosi ai quali egli guardò con


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indipendente interesse, peccherei di grave incompletezza se non ne ricordassi uno che, medievista propriamente non era stato nemmeno in gioventù, e con il Medioevo aveva avuto un contatto diretto essendosi dedicato allo studio delle origini delle Signorie settentrionali. Chabod fu, nella vita di Arnaldi, un punto di riferimento costante. Lo lesse, lo studiò, ne scrisse con molto impegno: con Romeo e con me rese possibile la pubblicazione del suo Carlo V nella Storia di Milano pubblicata dalla Fondazione Treccani. Una volta mi disse: senza Chabod, di te non avrei capito niente. Non sarebbe stata una perdita grave. Ma è indubbio che fino all’ultimo il ricordo di Chabod fu vivo in entrambi. Capitava che spesso il ricordo tornasse a lui, e sopattutto all’ultimo periodo della sua vita, così drammatico e, per tante ragioni, così strano. Ricordare quei giorni era, per me e per lui, come tornare al momento in cui ci si accorge che al di fuori di noi non c’è più nessuno che possa darci qualche essenziale assicurazione, e che d’ora innanzi si deve fare da soli. Il che era tanto più singolare in quanto ricordo bene che una sola volta andai da Chabod per ragioni diverse da quelle che concernevano un autore o un testo. Ma quella era un’occasione sul serio unica, e irripetibile, della quale solo Gilmo allora seppe. Ora che non c’è più, persino la via dei ricordi risulta, in tanti punti, sbarrata per sempre. Ho conosciuto Arnaldi nel novembre del 1951 quando feci il mio ingresso, come borsista, nell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli. Provenivo dalla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma, che non aveva ancora ripreso il suo titolo di Sapienza (lo riprese per iniziativa proprio di Arnaldi, che aveva avuto dal Rettore Antonio Ruberti l’incarico di organizzare una Storia della medesima). Lì avevo subìto varie metamorfosi perché, essendovi entrato per studiarvi il latino e soprattutto il greco, la situazione di precarietà in cui quest’ultima cattedra versava a


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causa dello stato di salute del suo titolare, mi orientarono, prima, verso la letteratura tedesca, e, quindi, dopo l’improvvisa morte di Giuseppe Gabetti, verso la storia e, soprattutto la filosofia. Credo sia necessario ricordarlo perché, avendo avuto modo, nel seminario di Carlo Antoni, di discutere molto di Croce e di idealismo, quando arrivai a Napoli e presi contatto con l’atmosfera che vi regnava, ebbi un’impressione come di trasognamento. Tutto, la cultura e la politica, vi era diverso. A Roma, la passione politica e l’antifascismo erano alimentati, non solo dal ricordo vivissimo e opprimente dei nove, durissimi mesi che era durata l’occupazione nazifascista, ma anche dal forte contrasto in cui subito venimmo a trovarci con i gruppi fascisti, che non erano esigui, come si potrebbe pensare, e in compenso erano non poco aggressivi. A Napoli non riscontrai niente di simile. Il fascismo sembrava appartenere ai libri di storia e l’ambiente liberale, o, per dir meglo, filogovernativo, risentiva del carattere prefascista che aveva da ultimo provocato lo sdegno di Omodeo. Sul fronte culturale, la differenza non era meno netta. A Roma l’idealismo e il crocianesimo erano già allora (parlo degli anni 1946/1950) in un momento di grave difficoltà. E non era difficile coglierne il segno. Se presso Antoni, la filosofia dello spirito era il tema dominante, e dominante era la fedeltà a essa, forti venti di contestazione provenivano dal gruppo che aveva in Sapegno il suo punto di riferimento, sì che può ben comprendersi con quanta facilità penetrassero anche in altri ambienti. Non so quel che, a Napoli, nei corrispondenti mesi fosse avvenuto nell’Università, della quale, nel periodo trascorso all’Istituto, sarei stato più che parco frequentatore. Ma, a parte Chabod, che conoscevo bene, e faceva storia a sé, all’Istituto il clima fu da me percepito come quasi surreale. Era come se il crocianesimo vivesse allora il suo momento espansivo, non quello dell’accentuato declino. Era come se di quel che stava avvenendo nelle altre


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Università, a Napoli non si fosse preso atto e quasi non si avesse notizia; e a comunicare questa impressione era non solo il professore al quale, nell’Istituto, era stato affidato l’insegnamento della filosofia, e che considerava il maestro e tutto ciò che lo riguardava come storia sacra, erano altresì giovani studiosi di mente aperta e di provetta bravura, come, per esempio, Marcello Gigante e Ettore Lepore, per i quali la fedeltà a Croce era tuttavia cosa ovvia e imprescindibile, per non parlare di Giovanni Pugliese Carratelli. Studioso insigne di cose greche arcaiche, esperto archeologo, e operante come professore, fra Firenze e Pisa, era bensì, nelle materia di sua diretta competenza, di mente apertissima e spregiudicata, ma, nei confronti di Croce, e di Omodeo che considerava il suo maestro, non era disposto se non al riconoscimento della grandezza di entrambi. Arnaldi che, essendo figlio del temuto professore di latino dell’Università di Napoli, era molto addentro alle cose accademiche, aveva, come ho già avuto occasione di ricordare, direttamente conosciuto Adolfo Omodeo, del quale era stato allievo. Essendo partecipe di varie iniziative culturali, considerava ovvio il riferimento a Croce, che del luogo era il nume tutelare, ma non si vietava la frequentazione di altri personaggi e la cauta sperimentazione di altri ambienti. La eseguiva per una irresistibile tendenza del suo spirito, per curiosità e desiderio di conoscenze, sfuggendo, credo, all’amichevole controllo che su di lui era esercitato da Vittorio de Caprariis; che, proveniente dalla Facoltà di Giurisprudenza, aveva, del resto, lui pure qualche frequentazione eterodossa, destinata, tuttavia, a risolversi e perdersi, come insignificante rivolo, nel gran mare crociano. Può ben comprendersi, quindi, che, se, per un verso, fuori discussione era la sua appartenenza al mondo crociano, per un altro era innegabile che, per coloro che, o se ne distaccavano, o lo criticavano senza avervi mai aderito, provasse un’irresistibile curiosità. L’anno precedente era stato ammesso,


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come uditore, ai corsi dell’Istituto, e lì aveva conosciuto Nicola Matteucci, che sarebbe poi tornato per qualche settimana anche l’anno successivo (ma io ricordavo di averlo conosciuto un paio di anni prima, a Cortina, quando, in una strana occasione, avevo ricevuto i complimenti di Giorgio Pasquali, che mi aveva sentito pronunziare come àlgida, e non algìda, la marca di un noto gelato!). Matteucci era allora comunista, o ancora comunista. Aveva pubblicato un libro su Gramsci e la filosofia della prassi, che fu fra i primi, se non il primo, a essere dedicato al suo pensiero. Con lui Arnaldi strinse un’amicizia che durò l’intera vita; e se a certe sue idee non dava il suo consenso, era ben lungi dal respingerle con il fanatismo che era di altri. Con Alfredo Parente, ossia con il professore fedelissmo, Matteucci ingaggiava autentici tornei dialettici, spalleggiato da Antonio Santucci, qualche volta da Gigi Pedrazzi, mai da me che, dopo aver a lungo discusso nel seminario di Antoni guadagnandomi la fama, entrambe le volte immeritata, ora di gentiliano ora di carabellesiano, assistevo allibito al modo in cui quella discussione si svolgeva, fra giovani certamente intelligenti e desiderosi di confronti autentici e quel fanatico professore per il quale il mondo cominciava e finiva con Croce, di altro infatti non sapeva e non voleva sapere, e chi dal maestro anche per poco divergesse doveva essere messo sopra un ideale rogo purificatore. Ricordo bene che, quando uscivamo da quelle ore di seminario e non c’era modo di ricreare lo spirito nelle lezioni sempre emozionanti di Chabod, qualche volta prendevamo, lui ed io, la via che conduce nella direzione di Mergellina e di Posillipo (Gilmo abitava, con i genitori, in quella parte della città). Fra noi si stava stringendo l’amicizia che, senza interruzione, sarebbe durata fino all’ultimo giorno della sua vita, e quelle passeggiate serali divennero un’abitudine con l’occasione, che era a esse connessa, dei discorsi più vari, nei quali non incontravamo limiti che non fossero quelli segnati dalla


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nostra reciproca discrezione. Alle mie rimostranze relative al fanatico dogmatismo di quelle lezioni filosofiche (ricordo che una sera presi con impeto le difese di Karl Löwith che era stato duramente attaccato per aver dissentito da Croce in un argometo vichiano), Arnaldi, per solito, non obiettava e non consentiva. Ma una volta, all’improvviso, come spesso gli accadeva, mi confidò che qualche tempo prima, in un circolo politico-culturale, che si chiamava, mi pare di ricordare, L’Atollo, aveva parlato con favore e interesse dell’Estetica di Guido Calogero, il che, senza implicare l’abbandono di quella di Croce, significava pur sempre che lui si muoveva al di fuori dei pregiudizi e non si preoccupava di intrattenersi su un autore più volte scomunicato. In altre occasioni, ricordo, mi parlò a lungo di Venturi; e poiché nell’estate che avevo trascorso a Londra, di sera, per distrarmi dalla noia che mi produceva lo studio di un eretico italiano del Cinquecento, leggevo Il populismo russo, la cui conoscenza aggiungevo a quella de la Jeunesse de Diderot, trovammo un argomento di conversazione che non riguardava i nostri specifici campi di studio. Era difficile, invece, che Arnaldi accettasse di parlare del suo lavoro; e poiché in questo il suo atteggiamento coincideva con il mio, la somma dei due silenzi avrebbe facilmente potuto condurre alla fine delle nostre passeggiate serali, o le avrebbe rese mute, se altro non fosse intervenuto a difesa dello spirito del discorso. Ma gli argomenti erano tanti, e non riguardavano soltanto la storia e la filosofia. C’era in Arnaldi, da giovane un tratto che poi sarebbe rimasto caratteristico di lui, e dominante, fino al giorno in cui, all’improvviso, la sua gioia di vivere passò nel suo contrario. Arnaldi era un uomo mite, oltre che ostinato. Ma, connessa alla sua gentilezza, era naturale in lui la tendenza a porsi al centro delle situazioni umane, a conoscerle e, entro certi limiti, a dominarle per assicurarsene. Eseguiva questa operazione, che non gli richiedeva sforzo alcuno ma, certo, gli prendeva tempo, con


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grande naturalezza e suprema abilità. La eseguiva, non per soddisfare una curiosità che in lui si congiungesse con il gusto della comprensione psicologica delle moltissime persone con cui entrava in contatto, ma, e questo può sembrare strano, per difendersene, per non correre il rischio che la penetrazione che avesse fatto della psicologia di uno avesse avuto il suo riscontro in quella che altri avesse fatto, o potesse fare, della sua. Potrà sembrare strano che si dica così di un personaggio dalle mille amicizie o, quanto meno, dalle mille conoscenze. Ma è vero che, istintivamente, Gilmo diffidava della psicologia. Temeva di esserne messo in pericolo. Se ne teneva infatti lontano, contentandosi di quella «vaga e media» che è in uso nelle normali relazioni umane. Dell’altra, di quella che si apprende leggendo grandi romanzi e, magari Freud, ma soprattutto è essa stessa una disposizione psicologica, Arnaldi non volle mai sapere. Dalla psicologia si difendeva, non chiudendosi in se stesso e rendendosi impenetrabile, ma moltiplicandosi nelle amicizie, in ciascuna delle quali nascondeva una parte di se stesso. Ricordo che una volta glielo dissi: «sei uno storico, non solo di istituzioni, ma anche di uomini, e di uomini ne conosci tanti anche al di fuori della storia che studi: possibile che non ti sia mai venuto in mente di leggere una pagina di Freud o, almeno di Balzac?». Rimase per un po’ sopra pensiero, in silenzio. Poi mi disse: Balzac l’ho letto (ma non aggiunse che avrebbe letto Freud). A colpirmi era anche la velocità estrema con la quale Arnaldi passava da un discorso a un altro: una velocità alla quale egli stesso stentava a tener dietro. Per questo, credo, poteva accadere che, per metter fine al veloce succedersi delle idee, dando espressione a un modo che è rimasto proverbiale fra gli amici, all’improvviso egli dicesse “ciao” e si allontanasse velocemente, lasciando il suo interlocutore a contemplare, solo, le bellezze del golfo. Si capiva allora, ossia si cominciava a capire, che, mentre nella sua esistenza


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tutto sembrava felice e risolto, c’erano invece in essa luoghi ai quali egli non desiderava né di pervenire lui né che altri pervenisse, pensieri improvvisi, preoccupazioni, presentimenti che richiedevano il suo ritiro in qualche protettrice solitudine. Questo personaggio, che sembrava estroverso e quasi un eroe della socievolezza, chiudeva in sé inquietudini non domabili e potenziali tristezze: quelle stesse che lo conducevano talvolta a disperdersi nella moltiplicazione dei lavori, degli interessi, degli incontri, e a non avere il controllo di questa problematica ricchezza, della qual cosa avvertiva il rischio, e si lamentava. Poiché, d’altra parte la radice di tutto questo era troppo profonda e coincideva con la cifra stessa della sua personalità, saviamente, per dirla con Cunizza da Romano, indulgeva alla sua sorte e non se «noiava»: salvo che, a differenza di quella del personaggio dantesco, la sua non era un’anima del Paradiso, la sofferenza non le era risparmiata e di «noiarsi» qualche volta non poteva fare a meno. In realtà, era come se Arnaldi temesse la vita che amava e, talvolta, giungeva a deplorare. Il che induceva me, che per tanti e tanti anni fui il suo amichevole e antagonistico confidente, a ribadirgli, nei momenti in cui i nostri discorsi tendevano a salire al livello della maggiore serietà, che di quel che deplorava doveva invece compiacersi. Quella era, infatti, la cifra della sua creatività e della sua stessa vita, della quale gli dicevo, mannianamente scherzando, lui era una sorta di beniamino (prendevo la formula nel suo significato più semplice perché il Sorgenkind nasconde in sé un significato assai più inquietante). La discreta indipendenza che dimostrava nei confronti del pesante crocianesimo caratterizzante, in certe sue parti, l’ambiente intellettuale dell’Istituto di studi storici si notava di meno nelle cose della politica. Per questo, a differenza dell’altro, il discorso non può, a questo riguardo, non farsi più complesso, anche se non sia possibile, in questa sede,


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dargli lo sviluppo che sarebbe necessario. È un discorso che ho fatto tante volte con lui, e non sono sicuro che, avendo capito perfettamente quel che dicevo, egli ne fosse convinto al punto da riconsiderare, alla sua luce, anche qualche tratto non secondario delle sue idee politiche: come ho detto, quanto era mite, altrettanto Arnaldi era ostinato. In breve, dirò così. Fra Roma e Napoli ci sono meno di duecento chilometri. Ma furono quelli che fra il 1943 e il 1944, con gli eserciti alleati rimasti fermi a Cassino e poi a Anzio e Nettuno per circa nove mesi, determinarono, nelle cose politiche e nell’atteggiamento tenuto nei confronti del fascismo, una differenza assai rilevante. Per dirla molto in breve. Napoli conobbe la ritirata dell’esercito tedesco e visse le famose quattro giornate: una pagina significativa che stenta tuttavia a entrare in una storia della resistenza perché, nemmeno in quel breve periodo, alla città fu dato di conoscere il volto orribile del fascismo repubblicano e di sperimentare la sua efferata violenza. Roma, invece, conobbe l’occupazione nazifascita per nove, tetri e interminabili, mesi, dal 10 settembre 1943 al 4 giugno 1944; ed è per quel che vi accadde, per le sofferenze che la sua popolazione patì, per la cospirazione e il terrore, che la sua vicenda entra a pieno titolo nella storia della Resistenza italiana, che proprio lì, anche se in forme diverse da quelle assunte nel Nord, ebbe la sua origine. Questa diversa esperienza del fascismo spiega, alla radice, la frattura che subito notai fra l’antifascismo mio e quello dei compagni di studio napoletani, che incontrai a Napoli. Il mio era un antifascismo attuale, quello dei napoletani non lo era più, non perché in passato fosse stato meno vivo e convinto, ma perché mancava a esso l’esperienza del suo ultimo atto, il più feroce e vendicativo, perché, a differenza del nostro, era fondato su esperienze che essi non avevano vissute. A Roma era stato possibile che, sia pure in proporzoni più modeste di quelle che poi sarebbero state compiute al Nord, gli antifascisti di tradizione libe-


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rale e azionistica avessero uno stretto contatto con i comunisti: il che rese poi difficile, quando il mondo si divise in due, assumerli come i protagonisti di un’altra storia e come nemici. Di tutto questo a Napoli non c’era traccia; e questo spiega la difficoltà con cui, al riguardo, cercavamo di far convergere i nostri discorsi verso una meta comune, spiega perché a me riuscisse facile parlare con i compagni che venivano da Bologna e da Milano, e meno facile, in definitiva, con quelli di Napoli, per i quali era come se l’antifascismo fosse cosa passata e storicamente definita. Chi ricostruirà il percorso intellettuale di Gilmo Arnaldi, si interrogherà sulle sue letture giovanili, indagherà sul modo in cui visse nella famiglia, per tanti aspetti austera, che fu la sua, rifletterà sull’arte con la quale gli fu dato di operare la sua metabasis da veronese-vicentino in napoletano (ma napoletano, a cominciare dall’accento che sempre conservò il suo carattere originario, egli non divenne mai), chi compirà queste varie operazioni conoscitive si troverà di fronte a varie porte aperte, altre invece le troverà chiuse e, da aprire, non facili. Per quel che appresi da lui, posso dire che, avendo frequentato il liceo, ma credo anche il ginnasio superiore, a Napoli, era ovvio che vi avesse incontrati professori che variamente furono importanti per la sua iniziazione, non solo culturale, ma anche politica. Fra quelli che ebbero su di lui un influsso ragguardevole, e contribuirono a orientarlo verso il crocianesimo, fu un letterato, Mario Sansone, il cui manuale di Letteratura italiana era del resto di largo uso, in quegli anni, anche nei licei romani. So inoltre che, a parte Pontieri, all’Università aveva trovato un professore degno di essere seguito e studiato in Salvatore Battaglia, mentre profondamente, e non a torto, era rimasto deluso da chi avrebbe dovuto aprirgli almeno una porta del castello filosofico, nel quale infatti, e se ne rammaricava, non riuscì a penetrare mai. Non so di sue iniziazioni politiche che avessero avuto per lui un significato


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particolarmente dirompente. Il suo antifascismo rimase, nella sostanza, quello che egli aveva appreso nella sua famiglia: un antifascismo dignitoso, ma di stampo conservatore, al quale, nella sostanza, fu sempre fedele sebbene, negli anni dell’Università, si fosse collocato a metà strada fra i liberali di sinistra e l’ala destra del Partito d’azione: un partito che, del resto, rapidamente si dissolse e lo restituì intero all’altro. La componente originariamente conservatrice prevalse così sempre nei confronti dell’altra che suggeriva una politica non passivamente allineata sulle eterne posizioni governative; e, sotto questo riguardo, non trovò difficoltà, a inserirsi nel quadro di quello napoletano, che ho descritto qui su. C’è, tuttava, dell’altro; e credo che sia il più importante. Dubito che comprenderebbe il senso delle sue scelte chi semplicemente restasse chiuso nell’universo politico, e in termini politici interpretasse le sue scelte, a modelli politici le riferisse. In realtà, il suo rapporto con la politica era dei più singolari. Non sapeva farne a meno, se ne interessava con quotidiana regolarità, ascoltava notiziari, ne parlava con chi ne sapeva più di lui e poteva erudirlo, leggeva con cura quasi maniacale i giornali, avendo l’abitudine, che sempre mi sembrò stravagante, di leggerli dalla prima pagina all’ultima, compreso lo sport di cui niente gli importava. Ma un testo era un testo, aveva un inizio una fine: cominciato, doveva essere finito. Solo nei tempi dell’Anvur e di consimili nefandezze, si può stabilire che, se un libro consta, per esempio, di trecento pagine, se ne possano leggere, con il convinto consenso dei professori, centoquindici. Ma, a parte i giornali e la cura minuziosa che dedicava a essi, la politica aveva nel suo universo interiore una collocazione tutt’affatto particolare. Se ne interessava tanto, non perché l’amasse e se ne sentisse attratto, ma per la ragione opposta, perché non l’amava affatto e desiderava che si risolvesse e sparisse nelle soluzioni virtuosamene date ai problemi che si era trovati davanti. Non che la teorizzasse,


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questa situazione, e si persuadesse che fosse la sua. Ma, per la lunga consuetudine che ho avuta con lui, credo di poter dire che per lui la politica doveva esercitarsi in grande stile per sopprimersi nel risultato; che era un decente ordine civile all’interno del quale si potessero coltivare, in pace e tranquillità di spirito, senza minacce giacobine alle porte, i propri interessi che, nel caso suo, erano intellettuali e letterari. La politica doveva, in altri termini, esercitarsi per cancellarsi di volta in volta in un «risultato calmo». Per questo, una volta gli dissi che, paradosso per paradosso, quando lo ascoltavo e mi sembrava di poterlo interpretare nel modo che ho detto, pensavo anche che lui non sarebbe stato male nel mondo comunista descritto da Marx nella Critica del programma di Gotha; ed egli, che era uomo di spirito, convenne, ma mi disse anche che, passi per il risultato “calmo”, ma se, per ottenerlo, si fosse dovuto far ricorso a Robespierre, allora no, perché quel personaggio gli faceva veramente orrore. Perché nel ricordo che si moltiplica nei ricordi, sono questi, di natura politica, che ora mi tornano con insistenza alla mente? Per due ragioni. Perché, in determinati momenti della nostra vicenda politica, il nostro dissenso fu così radicale, e questa è la prima ragione, che avrebbe condotto a una forma di rottura se a impedirlo, e questa è la seconda, non fosse stata un’amicizia che escludeva come soltanto assurda quella possibilità. Eppure, in politica il dissenso era netto. Si determinò nella sua forma più acuta quando nel nostro paese si avanzò l’ipotesi di un compromesso storico che avrebbe dovuto unire nel governo del paese le due forze che, a partire dal 18 aprile 1948, si erano combattute l’una stando sempre al potere, l’altra sempre all’opposizione. Era un’ipotesi che sconvolgeva molti sonni beati, vecchie e consolidate abitudini, e rischiava di introdurre qualcosa di nuovo in un sistema nato per essere sempre identico a sé


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stesso. Che quindi fosse combattuta da chi obiettava che, in quel modo, con una maggioranza che quasi coincideva con la totalità delle forze politiche, era il sistema democratico a esser messo in pericolo di snaturamento, si può anche comprendere. Ma più forte di questo era comunque l’argomento che l’acquisizione di una forza come quella comunista al sistema della democrazia liberale era stata in fondo il sogno, sognato a occhi aperti, di una forza come quella azionistica, e non ci si doveva perciò meravigliare se azionisti autentici ora la proponessero e la sostenessero. Meravigliarsi piuttosto si doveva che a questa prospettiva non aderisse chi sempre aveva dichiarato di non sentirsi a suo agio nella stagnante atmosfera della politica italiana. La questione comunque si complicò quando Indro Montanelli lasciò il Corriere della sera che, sotto la direzione di Piero Ottone, aveva assunto posizioni fiancheggiatrici del corso che si annunziava, e fondò il Giornale, al quale invitò a collaborare molti intellettuali di gran nome, e fra questi anche Arnaldi che accettò con entusiasmo e non lesinò i suoi interventi. Un invito, ma per via indiretta, pervenne anche a me, e fu cortesemente respinto. I temi del conflitto che allora divise Arnaldi e me non erano solo di stretta natura politica. Riguardavano aspetti essenziali della carta costituzionale nella parte, soprattutto, che concerneva la giustizia e la sua indipendenza dal potere politico. Il punto di più fiero contrasto concerneva la così detta separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione giudiziaria. Si intendeva, con quella proposta, che i procuratori avrebbero cessato di appartenere alla magistratura e di godere della autonomia che l’appartenervi garantiva alla loro azione, per costituire un corpo a sé alle dipendenza del Ministero degli interni e modulare la loro azione secondo le esigenze superiori della politica, dalla quale, in ultima analisi, la loro azione sarebbe dipesa. Era, grosso modo, il modello francese; e non era un buon modello. Fra me e lui la discussione su


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questo punto fu accanita; e ne rimane una traccia in una dedica a stampa che Gilmo mi fece di un suo scritto medievistico. Arnaldi temeva quel che poi, in effetti avvenne, e cioè che, svolgendo il suo compito, l’azione della magistratura avesse per conseguenza la distruzione della classe politica. Per parte mia, gli obiettavo che non era colpa della magistratura, quale che fosse di volta in volta lo stile di questo o quel magistrato, se la classe politica rischiava il disastro. Per evitarlo, avrebbe dovuto correggere se stessa, rendendo così inutile l’azione della magistratura. Ma ciascuno rimase del suo parere, anche se, avendogli una volta obiettato che, a parte ogni altra e più importante considerazione, mi sembrava grave che, con la separazione delle carriere, un pubblico ministero non potesse mai passare dalla magistratura inquirente a quella giudicante, cambiando musica e togliendosi di dosso quella divisa da inquisitore, Arnaldi apprezzò l’argomento. Ma, in generale, non cambiò parere. Se negli ultimi tempi si avvicinò molto alla forza che aveva così tenacemente avversata, la ragione è, certamente, da ritrovare nelle buone ragioni che seppe dare a se stesso, ma anche nel suo interiore tratto arisocratico, nelle buone maniere che egli aveva ereditate da suoi, nella civiltà della sua persona che troppo contrastava con l’inciviltà profonda del personaggio che, avventurosamente emerso in quegli anni, ha contribuito in modo decisivo a dare all’Italia una sorta di colpo di grazia. Nell’avversarlo, egli mise un impegno commovente, che si faceva tanto più tale quanto più visibile era la nera nuvola che stava scendendo sul suo spirito, e al suo vivere toglieva ogni gioia. Grandi dolori intervennero, da ultimo, nella sua vita. E fu difficile per gli amici, e anche per me che per sessantacinque anni ho condiviso con lui i momenti più importanti della vita, stargli vicino e risvegliare gli interessi che sempre erano stati i suoi.


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Un pensiero singolare e doloroso mi attraversa la mente. Un pensiero che vale per lui come per me: con la sola differenza che sono io a poterlo ora formulare nella mente e non trascrivere sulla carta, perché quel momento l’ho vissuto e non so come non mi ha ucciso. Dopo averlo formulato, mi si consentirà, tuttavia, di non dargli espressione. Dirò solo che Gilmo ha dovuto morire per non essere ucciso da un evento che, se l’avesse vissuto, non so come avrebbe potuto aggiungere al peso, che già gli si era fatto insostenibile, della vita. Sotto questo riguardo, la sorte, che da ultimo aveva voltato le spalle al suo Sorgenkind, gli fu benigna. E ora che cosa debbo aggiungere a queste pagine nelle quali ho cercato di rievocare il senso di un’amicizia che ha conosciuto momenti lieti e polemiche, ha avuto per anni e anni un lessico comune e un’illimitata capacità di reciproca comprensione, e mai, in nessuna occasione, un sentimento che l’abbia contraddetta, anche solo per un istante?


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Di Gilmo Arnaldi non fu mai in dubbio l’orientamento politico. Coloro, che, come me, lo hanno conosciuto sin dalla prima giovinezza, sanno che il suo credo politico era di semplice e immediata formulazione e riconoscibilità. Era il credo della liberal-democrazia occidentale quale si atteggiava in tutti i suoi complessi e difficili problemi all’indomani della seconda guerra mondiale e nell’Italia postfascista. Era il credo della forza profonda dei principii e delle idee come motore della storia. Era il credo di un laicismo non gridato e non sistematizzato, ma profondamente vissuto come una dimensione imprescindibile della libertà di coscienza, tanto più in gioco in quanto in lui la tradizione e la realtà del cattolicesimo formavano parte di un retaggio familiare, al quale egli non poté mai essere insensibile. Era il credo del principio della nazionalità, che a lui, italianissimo di educazione e di sentimenti, imponeva la consapevolezza di molti e gravi problemi storici e strutturali. Era il credo della maturità storica di un europeismo, fatto anche di idealità, di vissuta cultura storica, di passioni e di speranze per un futuro diverso dei popoli europei, senza sacrificio delle loro dimensioni nazionali, ma col senso pieno di quel che di nuovo per essi comportava la dimensione europea. Era il credo della funzione civile e pubblica della cultura, che rifiutava ogni e qualsiasi atteggiamento castale e magistrale degli intellettuali e degli studiosi, ma senza mai implicare in alcun modo una qualsiasi subordinazione degli


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studi o dell’intelligenza ai prìncipi attuali o potenziali. Di questi e di altri pochi, simili e connessi credo si alimentava la passione civile che, contrariamente all’idea che molti ebbero di lui, fu in lui sempre fortemente viva e attiva. Ma non si creda che la chiarezza e la saldezza dei principii affievolisse in lui il senso chiaro e immediato delle necessità e delle urgenze della politica. Fu pronta a senza tentennamenti la sua solidarietà con i partiti centristi degli anni ’50, così come la sua convinzione dell’opportunità del passaggio al centro-sinistra nei successivi anni ’60, e poi la sensibilità al tema della “questione comunista” dagli anni di Moro a quelli di Berlinguer. Allo stesso modo mai nessun dubbio egli ebbe sulla inevitabilità della scelta atlantica e delle necessità politiche e militari che ne conseguivano. Insomma, egli era tutt’altro che sprovvisto di senso politico e delle discipline e dei condizionamenti che la “politica buona” impone non meno della “politica cattiva”, pur vivendo anche queste istanze della prassi politica con lo stesso spirito critico che lo connotava inconfondibilmente in tutte le sue riflessioni e attività. Uno spirito critico non privo di accentuazioni e di venature di perplessa intelligenza, che poteva dare in molte occasioni, nel discorrere con lui, l’impressione di qualcosa di irrisolto o di non del tutto chiarito che si agitasse nel suo spirito. Come per molti di noi, il suo mentore politico fu fino alla fine Ugo La Malfa, ma profonda fu ugualmente la suggestione esercitata su di lui da personalità eminenti del campo democratico (cattolici, liberali, socialdemocratici), e non solo. Nei suoi interventi giornalistici Gilmo ebbe modo di riflettere tutto ciò con la schiettezza di una dialettica di semplicità fine e allusiva, penetrante e consapevole, molto spesso sotto quella esibita problematicità, cui abbiamo accennato e che gli era propria. Lo vediamo, quindi, discutere spesso con pertinenza di argomentazioni e di prospet-


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tive di problemi e momenti cruciali delle vicende del suo tempo. Così discute del «futuro per i “laici”» su L’Europa del 29 settembre-3 ottobre 1975 (v. più avanti, pp. 526-529); o proprio, senz’altro, del «“laicismo” dei laici» (ivi, 8 agosto-5 settembre 1975, v. più avanti pp. 522-526). Lo vediamo commentare lucidamente i risultati delle elezioni del 15 giugno 1975 (v. più avanti pp. 512-515) e trarne una lezione di esemplare acume, riassunta nella necessità di ridare fiducia nelle istituzioni a quanto ancora c’era di borghesia produttiva, chiarendo in modo inequivocabile che l’impresa privata fondata sul profitto era una funzione sociale insostituibile (con una presa di posizione che ci dice molto anche delle sue convinzioni in materia di politica sociale). Su un tema difficile come quello della liceità dell’aborto lo vediamo chiosare la posizione dei vescovi italiani e la discussione sul Concordato del 1929 che ne seguì, sempre con la solita fermezza e chiarezza politica, congiunta a un’umana sensibilità anche al problema religioso (L’Europa, 26 dicembre 1975-5 gennaio 1976, v. più avanti pp. 551-555). Un tema di natura politica altrettanto difficile – l’eventualità di un secondo partito cattolico accanto alla Democrazia Cristiana (L’Europa, 31 ottobre-14 novembre 1975, v. più avanti pp. 542-545) – appare analizzato con una intelligenza brusca, insolita in lui, ma oggetto di una coerente e non occasionale riflessione, come si vede nell’articolo La Chiesa non è più al di là del fiume (ivi, 25 luglio-8 agosto 1975, v. più avanti pp. 519-522), che tiene presente anche eventuali implicazioni in esso di problemi interni alla Chiesa. E non ci vuole molto a capire come anche nel “giornalista” Arnaldi il tema spadoliniano del Tevere più largo o più stretto fosse uno di quelli da lui più sentiti, così come il tema ricorrente della «“laicizzazione” della DC» (ivi, 27 giugno-11 luglio 1975, v. più avanti pp. 512-515) e come quello, più volte ricorrente, della celebrazione del 20 set-


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tembre (fin su Il Messaggero del 20 settembre 1995, v. più avanti pp. 694-697). E chi vuole una prova di più del senso politico di Arnaldi legga il suo ricordo di La Malfa a un anno o poco più dalla morte (Il Giornale 26 marzo 1980, v. più avanti pp. 601-604), dove ricorre una definizione davvero memorabile di quel grande leader politico come «costretto spesso a far politica per interposto partito». La parte maggiore dell’attività pubblicistica di Arnaldi riguardò sempre, comunque, l’università, grande passione della vita morale e sociale della nostra generazione di universitari. Sarebbe lungo analizzare nei dettagli le sue prese di posizione al riguardo. Vorremmo, piuttosto, affermare che i suoi interventi, soprattutto per alcuni aspetti, sono, e resteranno, una fonte spesso davvero illuminante della storia dell’università italiana, quale istituzione didattica e di ricerca e quale momento altamente significativo della realtà sociale e culturale e dei suoi sviluppi nell’Italia degli ultimi trenta o quarant’anni del secolo XX. E non esitiamo a credere che chi percorrerà i suoi (invero, neppure troppo numerosi) scritti sull’argomento potrà pienamente rendersi conto del perché di una tale affermazione. Alla fine, l’università comportava per lui motivi di delusione paralleli ed equivalenti a quelli che gli provocava la politica italiana. Per l’università può, tuttavia, dirsi che in lui viveva sempre la fiamma giovanile accesa da un’ideale di università, anche troppo mitizzante, che fu proprio della nostra generazione. Per la politica la sua reazione alle delusioni fu, invece, se non mi inganno, diversa. Fu, a un certo punto una reazione che consistette anche – salvo mio errore di lettura delle frequenti conversazioni con lui – in una tendenza progressivamente più radicale, pur non comportando alcuna disdetta o mutamento delle sue idealità giovanili. Ne era, anzi, come una cerchia protettiva stesa intorno al nucleo del credo che solum fu suo, quello delle idee della liberaldemocrazia occidentale: un modo, radicaleggiando,


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non solo di proteggerle, ma di assicurarne ancor più l’inestinguibile potenzialità di sviluppo politico e civile, di cui egli fu e rimase sempre intimamente convinto anche dinanzi all’affiorare di un mondo tecnologico e mediatico così diverso da quello della propria formazione e presa di coscienza, e che tanto, e subito, si rifletteva anche nei modi e nelle vie di fare politica e di giudicarne.


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Il medioevo di Girolamo Arnaldi è stato poliedrico e multiforme. Con mille sfumature. Ricco, ricchissimo, dotto, profondo. Ma anche divulgativo, a diversi gradi. Appare infatti regolare, nella sua produzione, questa volontà di calibrare i registri. Di mutare forma, laddove il pubblico lo desiderasse, laddove il pubblico lo consentisse. Senza però abbassare mai la guardia sulla costante della filologia, della serietà, della consapevolezza che il mestiere di storico fosse qualcosa in più e di diverso dalle dissertazioni da aula universitaria. In una parola: aperto. Alle sollecitazioni. Al dialogo ininterrotto tra l’intellettuale e la propria controparte, avidi entrambi di soddisfare curiosità, argomenti, contenuti, soggetti. Di rispondere, in breve, ad interrogativi scaturiti da questioni immediate. Dall’oggi. E cercando, nel passato, nel Suo medioevo, risposte. Con pareri ed opinioni mai ovvie e scontate. Anzi: rivelatrici di profondità. Frutto di studio appassionato. E di cultura profonda. In questa volontà di mutare registro il giornale rappresenta per Arnaldi la giusta vetrina. Non ammiccante come il mezzo televisivo, di cui egli peraltro fece larghissimo uso, soprattutto con un programma che è rimasto negli occhi e nella mente di tanti di noi che, solo allora, ci avvicinavamo allo studio del medioevo (parlo della Straordinaria storia d’Italia, apparso nella seconda metà degli anni Ottanta e più volte replicato, che vide la collaborazione di un’intera


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generazione di medievisti che, spesso inconsapevoli, si trovarono per la prima volta oggetto di un interesse nazionale e oggi, devo dire, irreplicabile). Il giornale era invece un altro tipo di strumento, più consono alle qualità di un grande storico. Per tanti motivi. Di spessore, innanzitutto. Di possibilità di riflessione e di rapporto più diretto col lettore. Ma credo che, per Arnaldi, emergesse un altro profilo. Che, definirei, di disciplina: raccontare in tre-seimila battute qualcosa di assai complicato come, ad esempio, il feudalesimo o il traumatico passaggio della fine dell’impero romano richiede conoscenza approfondita, dono di sintesi, chiarezza e, appunto, disciplina. Tutte doti che Arnaldi mostra di avere in sommo grado, tanto da poter affrontare punti oscuri e impervi con mano ferma ma in punta di penna, con una prosa che dimostra di essere sempre attenta e mai ridondante, perché non gli occorreva di essere ridondante, né sopra le righe né tenacemente polemico o, al contrario, troppo assopito nei giudizi. Così mostra di muoversi lungo una precisa linea di equilibrio. Secondo modalità nette ma sempre garbate. Con una sorta di sprezzatura, dove la disinvoltura nello scrivere non appare mai studiata ma assolutamente naturale. Seguendo schemi che ricorrono, come vedremo fra un po’, con frequenza. A rileggere tutti di un fiato i più di cento articoli scritti tra gli anni Settanta e gli esordi degli anni Novanta del secolo scorso da Arnaldi e dedicati al medioevo – visto come oggetto di analisi, di ragionamento e di lavoro – ci si trova davanti ad un pout-pourri di recensioni, descrizioni biografiche ed argomentative, elzeviri, curiosità, ricostruzioni ecc. che spaziano da un capo all’altro dei “mille anni oscuri”, con continue incursioni nella storia della letteratura (e nell’amatissimo Dante); e con reportages fittissimi sull’attività culturale inerente il medioevo, all’epoca consistente in massima parte nei convegni di studio come le giornate di Spoleto, in quegli anni davvero in auge. Il tutto su pagine


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destinate ai lettori più affini alle simpatie di Arnaldi: di area laica, appartenenti a quel ceto medio riflessivo che, in quel momento, avrebbe dovuto rappresentare un argine, politico e culturale, agli opposti estremismi. Dunque, tanti sono gli articoli sul Giornale e sul Messaggero, un po’ meno sul Tempo e sui settimanali L’Europeo e L’Europa, ma in ogni caso figli di uno Zeitgeist e di una relazione con un pubblico che, lo dico con un po’ di malinconia, leggeva – e leggeva tanto di più di oggi… –; e nelle pagine culturali dei quotidiani trovava tantissime voci autorevoli che alimentavano il dibattito culturale, sia a livello nazionale quanto europeo. Basti solo pensare alla “scuderia” del Giornale, che alla cultura offriva una sezione fra le più vivaci e interessanti nel coevo panorama italiano. Con una schiera imponente di collaboratori, che andava, per la filosofia, da Nicola Abbagnano a Vittorio Enzo Alfieri, Remo Cantoni, Vittorio Mathieu. Per la letteratura, trovavi nomi come quelli di Masolino D’Amico, Mario Luzi, Geno Pampaloni, Giorgio Soavi, Giorgio Zampa e Mario Praz. Per le scienze politiche, si potevano leggere Nicola Matteucci e Domenico Settembrini. Per la psicoanalisi, Mauro Mancia. Per l’arte, Carlo Ludovico Ragghianti, Marco Valsecchi e Carlo Franza. Sui temi religiosi, c’erano gli articoli di Sergio Quinzio. Per la musica, avevi i commenti di Piero Buscaroli e di Paolo Isotta. Di storia, oltre ad Arnaldi, scrivevano intellettuali raffinatissimi come Renzo De Felice, Aldo Garosci o Rosario Romeo. Senza contare i collaboratori stranieri, tra cui Raymond Aron, Anthony Burgess, John Kenneth Galbraith, Gustaw Herling-Grudziñski, Eugène Ionesco, Jean-François Revel, Paul Samuelson. Fa impressione riportare questi nomi, un vero e proprio parterre de rois di cui Arnaldi faceva parte a pieno titolo, per spessore culturale, per risonanza storiografica e per relazione diretta con molti di essi, con cui condivise una stagione di grande tensione politica e culturale, ma certo


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migliore e non appiattita come l’attuale. Una fase, quella degli ultimi decenni del secolo scorso, in cui l’attenzione alla cultura era sicuramente più alta rispetto ad oggi, se solo si considera un aspetto forse marginale ma emblematico: la posizione strategica che aveva la cultura nella struttura generale dei quotidiani, posta nella fatidica terza pagina. Ne è segno, d’altronde, la sequenza con la quale i giornali dell’epoca diedero vita, nel corso degli anni Ottanta, ad una serie di inserti culturali che accrebbero l’attenzione su temi i più svariati, grazie sia alla serie di approfondimenti affidati a firme autorevoli sia alle ricchissime incursioni nel mondo editoriale, le quali fornivano, in un universo privo di Internet, continue informazioni su quanto veniva pubblicato. Inserti che, come in un effetto-contagio, divennero un obiettivo perseguito dalle principali testate – e non solo: nell’82 compare sul Manifesto La Talpalibri; nell’83 il Domenicale del Sole24 ore; l’anno dopo il Giornale pubblica l’inserto Lettere e Arti; nell’86 Il Mattino di Napoli procede col suo Lettere & Arti; dall’86 al ’92 viene allegato al Corriere della Sera il Corriere cultura; dall’87 al ’94 il Messaggero viene accompagnato dal Segnalibro; per dieci anni (’87-’97) l’Unità avrà il suo inserto Libri; la Repubblica sarà nel 1987 il primo giornale italiano per diffusione privo della tradizionale terza pagina e che presenterà un ricco “paginone” centrale di cultura, che la domenica si trasformava in sedici, dico sedici, pagine; un quotidiano che, d’altro canto, nel 1989 darà vita al supplemento Mercurio. Senza contare poi i vari mensili dedicati al libro e alla sua fruizione, come Tuttolibri, il Millelibri di Giorgio Mondadori o le oltre cinquanta pagine de L’Indice dei libri del mese… È in questo contesto che va inserita la penna di Arnaldi e il suo compito di divulgare il medioevo. Col suo stile. E i suoi schemi, cui si è già accennato. Perché Arnaldi si muove su una direttrice molto razionale e, solo raramente, sfugge dalla griglia che si è imposto. Partiva cioè quasi sempre dal


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racconto di esperienze o episodi vissuti direttamente, di incontri personali, di suggestioni del momento o derivate da fatti di attualità – il tutto spesso condito da un sottile filo di humor. Qualche esempio. Il 27 ottobre 1991, per raccontare in un brillante articolo (e in parte recensire) i dati raccolti da Agostino Paravicini Bagliani per il suo volume su Medicina e scienza della natura alla corte dei Papi del Duecento (v. più avanti pp. 274-277) e concernente la medicina papale e il posto che nella vita della Curia del XIII secolo hanno avuto la curiosità per la scienza della natura e, addirittura, gli studi veri e propri ad esse attinenti, Arnaldi comincia così, con un tono conviviale, che richiama un dialogo avvenuto tra commensali. Dalle sue parole, lo riusciamo ad immaginare mentre, tra una pietanza e l’altra, riceve le confidenze di un medico, che fu tra i salvatori di Giovanni Paolo II dopo l’attentato del 13 maggio del 1981: «una sera di qualche anno fa, in casa di amici, un grande clinico recentemente scomparso raccontava con un comprensibile senso di soddisfazione personale di essere intervenuto al momento giusto a raddrizzare la situazione durante il travagliato decorso postoperatorio che stava mettendo in forse la vita di Giovanni Paolo II, dopo l’attentato». E prosegue: «il tutto si era svolto nella cornice di un ospedale. Se non fosse stato per l’eccezionalità del paziente, sarebbe stata una storia che avrebbe potuto concernere uno di noi». Siamo dunque lontanissimi ancora dal tema della recensione, cui Arnaldi arriva dopo aver fornito al lettore un’altra curiosità, svelando un altro suo ricordo personale e inerente un grande vaticanista, Silvio Negro, che gli aveva descritto il «tipo di assistenza medica cui era sottoposto Pio XII, quando ancora la glasnost non era penetrata nel recinto della Città Leonina. A parte il chiacchieratissimo archiatra pontificio (mi domando se la carica esista ancora) c’era un medico svizzero che, spalleggiato da persona vicinissima al pontefice, praticava terapie che potremmo dire alternative,


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in un clima da corte rinascimentale». Chiusa questa overture, la captatio benevolentiae verso il lettore ha raggiunto il risultato sperato, ossia di instaurare quel clima di confidenza che predispone naturalmente chi legge a proseguire e a gettarsi a capofitto nel testo. E, una volta catturato il lettore, solo a quel punto, Arnaldi può dare la stoccata e far decollare la recensione che è, come era nel suo stile, precisa, dotta e, nei riferimenti, impeccabile. Con una chiosa di forte sapore laico e, peraltro, davvero esemplare: «Ma credo onestamente che, dopo gli studi di Paravicini Bagliani, l’immagine dei papi del secolo XIII […] vada arricchita di questo altro connotato: oltre che giuristi, quei papi erano anche naturalisti». Con un giudizio conclusivo, caustico: «Con quanto giubilo per i molti che avrebbero desiderato dei papi semplicemente evangelici, non è difficile da immaginare». Altro esempio, dell’1 giugno 1990 (v. più avanti pp. 245-248). Siamo quasi all’imminenza delle notti magiche dei mondiali di calcio del ’90. Un’occasione, per l’Italia, per mettere in vetrina altro, in modo specifico le sue bellezze storiche e culturali oltre che le virtù del pallone. E tra le bellezze, anche una mostra dedicata ai Longobardi, da tenere in Friuli, a Cividale. Ebbene, qual è lo spunto per Arnaldi, per cominciare a raccontarla? Mettere in connessione i “barbari” di allora con i “barbari” di oggi, gli hooligans, i temibili tifosi da stadio: «Mentre in vista del Mondiali, c’è chi si preoccupa di precludere ai nuovi barbari l’accesso agli spacci di alcolici, altri evidentemente più ottimisti sull’uman genere, si apprestano a esibire a coloro che arriveranno da tutti gli angoli del globo quanto di meglio offra l’antica terra italiana. Così Firenze riapre al pubblico la restaurata cappella Brancacci al Carmine; Venezia espone il suo Tiziano; e così via. Il Friuli, da parte sua (si giocherà anche a Udine), propone i Longobardi, sui quali può vantare particolari diritti, se non altro perché, penetrati nella penisola


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nel 569 attraverso le Alpi Giulie, è lì che essi hanno costruito il loro primo ducato». Da questo pretesto, assai leggero, parte una disamina competente e profondissima che informa il lettore su come, da parte della più recente storiografia, fosse ormai in corso una destrutturazione delle tradizionali linee interpretative sui Longobardi, con un «allargamento dello spazio storico longobardo che ha avuto luogo in quattro diverse direzioni». Tali da assorbire il mondo longobardo in un universo che ha direzioni e confini, non solo geografici ma politici e sociali, molto ampi; e dove i fatti italiani, tra il 569 e il 774, diventano solo un segmento di una vicenda più generale e affascinante. Questa capacità di Arnaldi di imbastire il discorso attraverso una sorta di climax che va dal leggero al profondo è rivelata da un ultimo esempio, dello stesso anno del precedente ma del 1° aprile. È la recensione di un capolavoro, I due corpi del re di Ernst H. Kantorowicz, libro del 1957 che solo nel ’90 viene pubblicato in traduzione italiana da Einaudi (v. più avanti pp. 233-236). La partenza è la medesima degli altri casi. Non si preme sull’accelleratore e si mantiene il proverbiale, accattivante, humor: «In occasione del bicentenario della presa della Bastiglia, non sono mancati i guastafeste che si sono compiaciuti di paragonare la rivoluzione francese culminata nel Terrore e la “gloriosa rivoluzione” inglese dei centouno anni prima, parlamentare e non violenta. Punti nel vivo, i figli dell’89 avevano il buon gioco di replicare che, prima del 1688, c’era stato però il 1649, quando il parlamento inglese, nel corso di una sanguinosa guerra civile, aveva processato per alto tradimento e fatto giustiziare re Carlo I Stuart. Già!». E continua: «Ma questa sentenza fu eseguita “contro il solo corpo naturale del re senza coinvolgere seriamente o danneggiare in modo irreparabile il corpo politico del Re – a differenza di quanto avvenne in Francia nel 1793”, quando con Luigi XVI fu decapitata la monarchia». Cosa è avvenuto? Che all’interno


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dell’introduzione, leggera e ironica, Arnaldi ha inserito un concetto chiave che è il rapporto tra corpo naturale/corpo politico del Re, una delle impalcature su cui si regge l’opera di Kantorowicz. Da qui, è gioco facile per Arnaldi descrivere il volume, riassunto come «un’esplorazione sistematica dell’intero medioevo alla ricerca dei modi sempre nuovi, nei quali i sovrani del tempo hanno atteggiato se stessi e l’esercizio del proprio potere, perseguendo attraverso l’appropriazione di riti, apparati, concetti, strutture organizzative, tipici della Chiesa, una sorta di santificazione dello Stato secolare». Se si prendessero molti articoli di Arnaldi e li si disancorasse dalla testata dove sono apparsi e dal momento in cui furono scritti e li si trattasse uno ad uno come singoli capitoli di un volume, ebbene ne verrebbe fuori un delizioso manuale di storia medievale ad uso scolastico e universitario, sia per i tanti temi trattati – secondo i sacri crismi, dalla caduta dell’impero romano fino a Cristoforo Colombo… –, sia per la chiarezza adoperata, la capacità di sintesi e, perché no, pure per proposta didattica. Approccio evidente in questo magnifico articolo del 4 marzo 1990 (v. più avanti pp. 228-233) sul Messaggero Più, dedicato a Rimini e a Sigismondo Malatesta, che comincia così: «Quando devo spiegare ai miei studenti come fu che, verso la metà del XV secolo, si cominciarono a considerare come un tutto unico i dieci secoli precedenti, caratterizzandoli negativamente come l’età dell’imbarbarimento del gusto artistico (l’”età gotica”, così designata del nome dei saccheggiatori di Roma nel 410, che circa due secoli dopo sarebbe stata ribattezzata per sempre come “medioevo”), mi servo di un esempio, a mio avviso molto eloquente. Se vogliono davvero capire quello che gli umanisti avevano in mente, non hanno che da imboccare la via Flaminia, facendo una prima tappa a Spoleto, dove la chiesa del San Salvatore (nel recinto dell’attuale cimitero) è una chiesa non ancora medievale, dove


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uno potrebbe facilmente immaginare che sia entrato un giorno un imperatore cristiano della tarda antichità: e approdando poi a Rimini, al Tempio Malatestiano, l’ex chiesa duecentesca di San Francesco, che Sigismondo Malatesta fece interamente trasformare dagli architetti Matteo de’ Pasti e Leon Battista Alberti, col risultato di farne, avendo preso a modello le repubbliche di Platone e di Cicerone, quella che Charles Mitchell ha definito “una repubblica paleocristiana di pietra: un monumento sacro e nobile, al tempo stesso politico e religioso, dedicato a Dio e alla Città”. Il medioevo, sono solito concludere, sta giusto in mezzo fra il tempo del San Salvatore di Spoleto e il tempo di questo sconcertante monumento di Rimini, non a caso definito provocatoriamente templum, alla pagana, nell’iscrizione votiva del 1450». Quanto è suggestiva questa immagine che cristallizza il medioevo tra Spoleto e Rimini lungo la via Flaminia e vi fissa dentro mille anni di storia? Tantissimo. Ed assai efficace per degli studenti che possono, così, visualizzare un cambiamento radicale di umori e di clima culturale e sociale attarverso un semplice esempio che traspare dallo sguardo critico e attento su un pezzo del paesaggio storico-artistico italiano. E comprendere, nei fatti, quanto il medioevo, concettualmente, sia frutto solo di una forte proiezione culturale. Ma torniamo ai temi, che sono classici della storiografia medievale ma, ribadisco, affontati con piglio accessibile ed esplicativo. C’è il passaggio dal mondo romano a quello “barbarico”. C’è la convivenza tra romani e genti nuove. C’è il rapporto tra una Costantinopoli che cresce e di una Chiesa che, invece, va alla conquista di Roma, che diventa la «seconda nuova Roma», la Roma degli apostoli, una «appropriazione ideale di Roma», si legge in un articolo del 26 gennaio 1990 (v. più avanti pp. 222-227), in cui erano anche già poste le basi del futuro dominio temporale dei papi. E via così, attraverso le lotte tra impero e papato;


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il feudalesimo visto come fenomeno di innovazione e di spinta e non in maniera deteriore; la cavalleria; la nascita e il fiorire dei comuni e delle città; i movimenti religiosi, dalla riforma dell’XI secolo sino al Francescanesimo, con tutto il dramma di Francesco, dei suoi continuatori e le peripezie riguardanti la memoria relativa a Francesco (si guardi l’articolo sul Messaggero del 2 gennaio 1992, v. più avanti pp. 285-289). Poi ancora Federico II, anticristo o messia; e il regno di Sicilia, con diverse incursioni sulla guerra del Vespro, indagando tanto l’opera di Amari quanto quella di Runciman. Non mancano poi le aperture oltre la dimensione occidentale, verso Bisanzio, naturalmente, e verso il Commonwealth bizantino. Verso il mondo arabo. E con il profumo d’Oriente di Timur lo zoppo, Tamerlano. Fino al Trecento. All’Umanesimo e al Rinascimento. Per giungere alla scoperta dell’America, che Arnaldi vive attraverso le celebrazioni del cinquecentenario, con una rievocazione appassionata della scoperta di Colombo, apparsa sul Messaggero/Cultura del 3 agosto 1992 (v. più avanti pp. 306310): una scoperta non frutto di un’intuizione ma di una pianificazione lenta, incubata nel Mediterraneo attraverso lo sviluppo di tecniche e armamenti navali (la Caravella!), figlia di quello che Arnaldi definisce il laboratorio nautico mediterraneo. Ma, in questa storiografia senza confini, si supera anche il limite classico, con i riferimenti a Roma nel Rinascimento e al sacco del 1527. Su due articoli vorrei ora soffermarmi un attimo. Non solo per articolazione e lunghezza. Ma per tematiche affrontate. Parto dal primo, apparso sul settimanale L’Europa nel 1975 (v. più avanti pp. 84-90). Si parla di uno dei caposaldi della storiografia sul medioevo europeo, il Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne, libro fortunatissimo quanto controverso, la cui tesi, scrive Arnaldi, «nessuno più accetta nella sua interezza, ma che continua a costituire un punto di riferimento necessario in ogni discussione sul passaggio


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dall’età antica all’età altomedievale». La maniera con cui Arnaldi riassume la tesi è, ancora una volta, esemplare. Chiara e didatticamente scorrevolissima. Usando una serie di esemplificazioni in cui si sente tutta la stoffa del Maestro abituato a gestire l’aula e a rendere quanto più possibile intellegibili passaggi argomentativi e questioni. Scrive infatti: «Secondo lo storico belga, gli invasori dell’Impero romano – i barbari Germani che già Tacito descrive minacciosamente –, quando si fecero avanti (inizio sec. V), senza che più nessuno avesse la forza di ricacciarli indietro come pure era accaduto altre volte, si allogarono nelle ex-province romane d’Occidente con la stessa tumultuosa malagrazia con cui un gruppo di famiglie vissute fino allora nelle borgate prenderebbe possesso di un palazzo signorile di età rinascimentale, frazionato in quartierini di civile (si fa per dire) abitazione. Con tumultuosa malagrazia; ma lasciando la facciata e la struttura di base dell’edificio così come le aveva trovate». L’impero trasformato in un bellissimo palazzo rinascimentale occupato da borgatari (i barbari) che ne modificano l’impianto suddividendolo in tanti caotici e ingestibili quartierini. Ma che lasciano sopravvivere la struttura e la base dell’edificio. E passa dall’esempio alla concettualizzazione: «Per queste ragioni, il fatidico 476, che segna il momento in cui anche l’ultima delle province occidentali, l’Italia, divenne la sede di un regno romano-germanico, sarebbe una data di scarso rilievo (l’ultimo quartierino ad essere occupato!), da non prendersi troppo sul serio, dal momento che il mondo antico, bene o male, ebbe, dopo di allora, altri due secoli di vita». E allora, l’altomedioevo, quando inizierebbe? Inizierebbe col sostituire una catastrofe ad un’altra come causa determinante del passaggio dall’antichità al medioevo, «avvenuto comunque non pacificamente ma in forma traumatica […] Solo che i responsabili, per il Pirenne, non furono i Germani, ma gli Arabo-musul-


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mani, la cui straordinaria espansione politico-religiosa, fra secolo VII e VIII, avrebbe colpito al cuore l’Impero romano, ponendo indirettamente le premesse per la nascita del nuovo mondo medievale. Di qui l’immagine, riflessa nel titolo del suo libro postumo, secondo cui Maometto aprì la strada a Carlomagno». Se la tesi Pirenne viene spiegata (e liquidata) in modo così brillante, passerò ora ad illustrare un altro tema centrale per chi studia il Medioevo, l’anno Mille, considerata data spartiacque tra un mondo che fu e un mondo che rinasce. È vera questa idea? Arnaldi torna in diversi articoli su questo argomento, ma in uno in particolare (L’Europa, 1428 novembre 1975, v. più avanti pp. 90-99) lo affronta cominciando ancora una volta dall’oggi, da un convegno interdisciplinare tenutosi a Parigi su I terrori dell’anno 2000, perché, come si sa, un millenarismo tira l’altro. Con l’insistere che i terrori dell’Anno Mille sono solo leggenda, sebbene appaia come una leggenda di una vitalità sorprendente. Che risponde, secondo lui, ad un’esigenza profonda con un’affermazione, alla fine del paragrafo, illuminante anche per il nostro presente: «Per ciò che concerne le generazioni che l’hanno inventata ed accolta, la leggenda dell’Anno Mille riflette, in fondo, un grande senso di insicurezza sui destini dell’umanità. La rappresentazione ottocentesca delle folle atterrite che si riversavano nelle chiese cantando il Miserere e il De profundis ha come premessa la convinzione che l’umanità, lasciatisi questi orrori alle spalle, abbia ormai davanti a sé la via obbligata di un progresso senza fine. Nell’età in cui si credeva, o si fingeva di credere, ai terrori dell’Anno Mille, nessuno ha pensato di organizzare un congresso sui terrori dell’Anno Millenovecento. Il solo millenarismo che abbia prodotto il secolo XIX è di tipo scientifico e prospetta l’ipotesi di una catastrofe finale (la rivoluzione), che è, ad un tempo, il portato delle contraddizioni oggettive della società borghese e il frutto dell’azione


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cosciente di un gruppo di uomini, rivoluzionari di professione, capaci di interpretare il senso della storia. Mi riferisco, naturalmente, al marxismo. Il fatto che oggi si parli di terrori dell’Anno 2000, ponendo nel futuro la scadenza che gli inventori ottocenteschi della leggenda dei terrori dell’Anno Mille avevano posta nel passato, è un inizio della crisi delle grandi ideologie progressiste del secolo XIX». Ci aveva visto giusto Arnaldi sulla fine delle ideologie non nel senso, per dirla alla Fukuyama, di fine della Storia, ma come conclusione di un’epoca di scontro frontale, fondato su un terreno di diverse e contrastanti certezze ideologiche ma che fornivano dei quadri di riferimento condivisi, che oggi mancano e creano smarrimento, insicurezza e angoscia per il futuro. Questo aspetto resta in premessa, in quanto Arnaldi, pur avvertendo questo pericolo, va oltre perché il suo interesse precipuo, da storico, è di cercare di spiegare l’Anno Mille attraverso il microscopio dello studioso, non forzato da suggestioni impressionistiche o irrazionali. Parte così in una riflessione sull’opera innovatrce dell’imperatore Ottone III, sintetizzata nella formula Renovatio imperii Romanorum, dove «il governo di questa terra […] tendeva a modellarsi sul governo di Dio nell’alto dei Cieli» (v. più avanti p. 93). Regno che cadeva in un anno «particolarmente indiziato per la fine del mondo: il millesimo dall’inizio dell’era cristiana». Renovatio come Plenitudo temporum? Il Millesimo anno dall’inizio dell’era cristiana durante i quali Satana sarebbe rimasto incatenato furono percepiti da tutti come l’inizio della fine? Macché, suggerisce, con spirito illuministico e razionale, Arnaldi. E smonta la leggenda partendo da dati di fatto. E considera il tipo di datazione adoperato dai nostri antenati, con una lunga trattazione che va dal calcolo dell’anno indizionario alle forme di datazione adottate dal papato, da Dionigi il Piccolo al computo cronologico dei mercanti-scrittori fiorentini di XIV-XV secolo per arrivare ad una conclusione: che «era il


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modo stesso di concepire le cifre che rende improbabile che si desse all’espressione mille anni il valore che noi oggi tendiamo ad attribuirgli. Mille anni erano come le mille leghe delle fiabe trasformate in indicazione di uno spazio enorme da percorrere nell’indicazione di un tempo molto lungo da vivere. Basta avere un po’ di pratica dei cronisti medievali per sapere che valore dare alle loro cifre, che non hanno nessun rapporto con la realtà, ma sono semplici esclamazioni. Mille morti in una battaglia sono solo molti morti; e così per i prezzi durante le carestie, per le indicazioni di carattere demografico etc.» (v. più avanti p. 95). E allora cosa resta? Un’idea chiara per gli addetti ai lavori ma non per il grande pubblico. E che Arnaldi disvela sottolineando “guardate, che il passaggio dal X all’XI secolo fu tutt’altro che oscuro”. E demistifica il mito del secolo apocalittico e di ferro, tracciando quella rinascita del secolo X col porre all’attivo crescita demografica, nuove tecniche agricole, trasformazione della cultura materiale. Qui arriviamo ad un altro punto centrale dell’attività di Arnaldi giornalista. Parlo cioè della sua attività di traghettatore di novità storiografiche al grande pubblico. Mi riferisco soprattutto alla prorompente invasione, mi si permetta il termine, di argomenti e problematiche nuove provenienti in particolare dal mondo francese e dall’esperienza delle Annales. Esperienze che Arnaldi vive in prima persona, da protagonista del dibattito e non da orecchiante e che, attraverso il giornale, intende disseminare. Perciò sono numerose (le più numerose…) le recensioni relative alle opere di studiosi francesi: Duby, Vauchez, Dalarun, Le Roy Ladurie, Le Goff, Toubert ecc. E illustra, ad un mondo culturale italiano ancora per molti versi fissato sulla dicotomia CroceGramsci, le tante novità della geo-storia, del connubio tra storia e scienze sociali, della microstoria, della vita privata e delle donne. Della storia, insomma. à part éntiere. Nel giugno 1987 esalta ad esempio la capacità del team di George


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Duby e di Philippe Ariès «di trasformare in ipotesi di ricerca il concetto tutto moderno e ottocentesco di privacy» (v. più avanti p. 194) in un’opera importante come è stata la Vita privata dal feudalesimo al Rinascimento. La tripartizione funzionale della società feudale alla luce dei saggi di Duby (e sulla scorta di Dumezil). I saggi sulla spiritualità medievale, allora davvero innovativi, di Vauchez e Dalarun (e, del primo, in un articolo del 31 agosto 1989 apparso sul Messaggero, sottolinea la capacità, di aver scritto «una storia dell’Europa nel basso medioevo sotto il profilo, non marginale, del culto dei santi», v. più avanti p. 207). Il Le Goff di Tempo della Chiesa e tempo del mercante (v. più avanti pp. 114-116), volume che toccò temi nuovissimi anche per Arnaldi, come quelli relativi alla divisione del lavoro, al ruolo dell’intellettuale o all’idea del tempo, concepita come fenomeno non immutabile ma figlio dello sviluppo storico. E così via. Poi c’è Montaillou. Arnaldi, in un suo articolo dal titolo originale Maigret nel ’300, apparso su Il Giornale del 16 luglio 1978, propone al pubblico italiano un volume ad effetto dirompente, La storia di un paese: Montaillou, di Emmanuel Le Roy Ladurie (v. più avanti pp. 125-127). Articolo che comincia con queste parole: «Il diffuso proposito di applicare allo studio del passato anche molto remoto i metodi delle moderne scienze sociali (statistica, sociologia, antropologia culturale) cozza di solito contro l’inadeguatezza delle fonti disponibili. L’indagine sul campo, dal vivo, è preclusa per ovvie ragioni a chi deve accontentarsi di dialogare con i morti. Non mancano però i casi fortunati in cui la barriera cade e anche lo storico può operare tranquillamente come uno scienziato sociale». Queste parole introducono a questo volume rivoluzionario per impostazione e metodo, dove i 568 interrogatori effettuati in 360 giorni fra il 1318 e il 1325 diventano il palinsesto per penetrare nel mondo di questo villaggio occitanico – e di tutta una società –. Un


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libro profondo che, nota Arnaldi, ha avuto in Francia un notevole successo di pubblico e che fornisce numerose risposte alle domande di oggi: «Chi non l’ha ancora letto, lo legga, nella calma delle vacanze. Contiene la risposta a molte delle domande che i non specialisti tendono a formulare rispetto alle età passate (usavano i contraccettivi? erano vezzeggiati i bambini? ci si lavava? si dormiva nudi o vestiti?) e che libri di storia normali (qui il corsivo è nostro) lasciano per lo più inevase». Un libro di storia nuovo, che non ha «nulla della stucchevole genericità di molti sociologi», avverte Arnaldi; e le cui pagine «sono piene zeppe di fatti, di volti», forse il complimento migliore che si possa fare ad uno storico, che dovrebbe fare dell’empatia uno dei caratteri fondamentali del proprio lavoro. Il medioevo sui giornali di Arnaldi è ricco anche d’altro. Ad esempio di spigolature e di curiosità. Come ad esempio quelle relative a San Tommaso d’Aquino, morto, sembrerebbe, a causa «di un ematoma cranico conseguente all’urto contro un albero nei pressi di Teano, tanto più violento se in quel momento non andava a piedi ma cavalcando un asino» (v. più avanti p. 117). O il racconto, macabro, della divisione dei resti del medesimo santo, avvenuta nel 1288, quando «al momento di un’altra riesumazione, la contessa Teodora di San Severino, sorella di Tommaso, pretese per sé la mano destra, dalla quale, subito dopo la morte, era già stato asportato il pollice per conto di frate Reginaldo di Piperno» (Il Giornale, dell’11 ottobre 1977, v. più avanti p. 118). Oppure sul termine parrocus o parrocchia, etimi incerti e affascinanti che riportano all’organizzazione primitiva della chiesa romana. Altre curiosità riguardano le vicende cittadine di luoghi come Ravenna, Rimini o le città dei Papi, tra cui Viterbo. Oppure la scelta dei nomi dei papi, come in occasione dell’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo I. Infine, e si ritorna alla cronaca del tempo, sono assai gustose le pagine dedicate a Ghino di Tacco, pseudonimo


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dietro cui si nascondeva, fino agli anni Novanta del Novecento, un assoluto protagonista della prima Repubblica (Il Messaggero del 9 agosto 1992, v. più avanti pp. 310-313). È frutto dello Zeitgeist anche l’attenzione che la grande stampa attribuiva a convegni su temi medievistici, come quello di Spoleto. Chi si impegnerebbe a farlo oggi, se non in un minuscolo box, relegato nei più fitti meandri di una pagina giornalistica? Invece, sono parecchi gli articoli che Arnaldi dedica proprio a questo. Alla cronaca di convegni, avvenuti ad Ascoli, a Roma, a Milano; e con una particolare predilezione per le giornate spoletine, che avvengono «in una fertile e stimolante varietà di lingue, metodi, discipline inevitabile dal momento che in questa sede non ci si propone di proclamare una Verità ma di cercare con pazienza e fatica delle verità soltanto provvisorie e parziali» (Il Giornale, 4 maggio 1976, v. più avanti p. 104). Di queste giornate. Arnaldi recupera i temi centrali, gli argomenti più dibattuti, le relazioni di maggiore spicco. E non si tratta di temi facili attraenti, ma frutto della riflessione di un’intera storiografia, delle sue novità come dei suoi orientamenti. Su argomenti che oggi farebbero storcere il naso a qualunque capo della cultura, anche il più curioso e sollecito. Nel ’76, per esempio, Arnaldi si occupa delle giornate dedicate al Matrimonio nei primi secoli della Cristianità, articolo in cui si apprende come «neppure durante i dieci secoli del medioevo europeo e cristiano […] la Chiesa provvide a configurare un proprio matrimonio, officiato da suoi propri ministri» (v. più avanti p. 106). Il 13 aprile 1983 dalle pagine del Giornale affronta i temi dell’approccio ambientale dell’uomo medievale, dibattuti nel corso della settimana dedicata a L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo; rilevando come «la fine del mondo antico avrebbe fatto registrare una perdita di controllo sull’ambiente e, di conseguenza, diminuita la capacità di dominio degli uomini sugli animali, proprio nel momento in cui si diffon-


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deva la visione del mondo giudaico-cristiana, fondata su un’accentuazione dell’antropocentrismo» (v. più avanti p. 169). D’altronde, più di recente, dalle colonne del Messaggero Arnaldi riprese il tema del secolo di ferro, alla vigilia dell’anno Mille, soffermandosi specialmente sulla nascita di questo mito e sulla figura del cardinal Baronio, il primo, nel 1602, a definire questo secolo come «ferreo per asprezza e sterilità di bene, plumbeo per squallore, e oscuro per povertà di scrittori» (v. più avanti p. 242). In fin dei conti, cosa fu Arnaldi nella sua attività giornalistica? In una parola, un divulgatore. Ed uso appositamente questo termine: nel senso più alto, non di un superficiale conoscitore delle cose storiche, sarebbe una bestemmia nel parlare di lui, ma per qualificare un protagonista della storiografia medievale italiana che la materia la conosceva tanto e con una tale sicurezza da potersi rivolgere alle orecchie più diverse, digradando scale e toni per arrivare pure a quelle meno sensibili. Capace di guardare, senza differenze, al colto e all’inclita. Anche perché questa scelta della divulgazione nascose una precisa scelta ideologica che fu quella di non rinchiudersi nel suo hortus conclusus ma di aprirsi, in maniera dialogante, verso il grande pubblico. Accettando dunque una sfida, che fu anche una sfida narrativa, che riguardò non solo i temi trattati e la maniera di condurli quanto i calibri da adoperare, modellati certo sul lettore ma senza denegare mai dalla propria natura di grande storico. E che la divulgazione fosse per lui importante sta nel fatto che egli attribuì alla scarsezza di alta divulgazione in Italia – lui che conosceva benissimo il panorama europeo dove essa era (ed è) nient’altro che la prosecuzione, su altri percorsi, del proprio lavoro scientifico – non solo e non tanto uno dei difetti della nostra storiografia ma anche uno dei motivi della sua crisi, puntando il dito proprio contro i cosiddetti storici di professione. Lo espresse in maniera chiarissima in una recensione al Carlomagno del giornalista


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Gianni Granzotto, ne Il Giornale del 23 aprile 1978, nella quale scrive,: «L’attuale crisi della storiografia si riflette proprio nell’imbarazzo che gli storici di professione provano nel rispondere ai quesiti più semplici e perentori. Molti scantonano e si rifugiano nell’erudizione» (v. più avanti p. 124). Altri – aggiunge – non sempre in buona fede, si illudono di risolvere il problema trasportando di peso gli argomenti del passato nel presente e investendoli «delle passioni e delle tensioni dei tempi nostri». Un’analisi perfetta, che va bene pure per un’epoca come la nostra dove lo scollamento tra erudizione storica e pubblico si fa sempre più incisiva e, soprattutto in ambiente universitario, si rifugge spesso dalla divulgazione, considerata ambito da non praticare, rozzo, scarsamente scientifico, privo del necessario allure. Senza capire che, in questo modo, il solco si approfondisce, allontanando in maniera quasi irreversibile i (sempre più) scarsi lettori dagli (sempre meno) specialisti. Credo che ad Arnaldi tutto questo non sarebbe piaciuto. L’avrebbe sicuramente trovato dannoso. Per la cultura in generale. E, ancor di più, per la nostra disciplina, la Storia del medioevo.


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MASSIMO MIGLIO GIROLAMO ARNALDI, STORICO “NUOVO” DEL NOVECENTO 1929… Arnaldi era nato a Pisa nel 1929, da una famiglia di origini venete, cattolica, antifascista e di cultura conservatrice. Il padre Francesco insegnava allora latino alla Scuola Normale di Pisa (passò poi a Napoli), e Gilmo, come lo chiamavano gli amici, fu sempre molto legato al padre. Aveva studiato a Napoli, sia alle scuole superiori che all’Università, dove si era laureato il 18 dicembre del 1950 con Ernesto Pontieri, uno storico che non ricorreva con frequenza nei suoi discorsi, ma che ancora nel 1993 definiva «il mio maestro napoletano» (Il Messaggero, 10 ottobre 1993, Le ragioni dell’arte e quelle dei militari. Anche Raffaello è una bandiera, v. più avanti pp. 672-675); dove aveva frequentato con interesse anche le lezioni di Salvatore Battaglia e di Giuseppe Toffanin (due personalità molto diverse, e diverse anche rispetto alle sue motivazioni culturali). Dal ’51 al ’53 era stato assistente incaricato di storia medievale e moderna all’Università. Fu poi borsista per il 1951 e il 1952 dell’Istituto italiano di studi storici, voluto da Benedetto Croce, e all’ambiente crociano di Napoli rimase per moltissimi anni legato. A trenta anni di distanza ricordava Napoli, le leggende sugli uomini politici, «La leggenda dello storicismo di Giorgio Amendola come terreno di incontro fra comunisti e liberaldemocratici ancora ci afflig-


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ge a livello nazionale. Fu, all’origine, una leggenda vomerese»; le contrapposizioni; gli incontri a palazzo Filomarino: «Nel mio ricordo c’è un vuoto: non saprei dire chi fossero i presenti, oltre a Montale e sua moglie, Alda e Lidia Croce, Vittorio de Caprariis e il sottoscritto. Non riesco soprattutto a ricordare se Chabod, che dirigeva l’Istituto italiano per gli studi storici e abitava in un’altra ala dello stesso edificio, fosse uscito dal suo studio per venirci a dare una mano»; la sua «scarsissima consuetudine» con Croce che lo faceva entrare «in uno stato quasi confusionale» (Il Giornale, 25 agosto 1982, Un lontano incontro fra Croce e Montale. Lady Chatterley e il senatore, v. più avanti pp. 427-430). Stessi nomi e stesso ambiente che ricordava per spiegare le sue scelte politiche: «Ho la precisa coscienza che solo il caso, che nella Napoli dei primi anni Cinquanta mi ha fatto incontrare amici come Vittorio De Caprariis, Renato Giordano, Rosario Romeo, ha voluto che non pagassi anch’io il mio tributo alle illusioni sul “socialismo reale” e sulle “insanabili contraddizioni” del capitalismo» (Il Messaggero, 28 agosto 1991, Ma il secolo dei totalitarismi non si è concluso, v. più avanti pp. 650-653). All’Istituto di studi storici frequentò Federico Chabod, che sentì come suo maestro. 1950… In questi anni, dal 1950, comincia la sua abitudine (testimoniata fino al 2010) di tenere un diario giornaliero, abbastanza fitto di annotazioni e di grande interesse, con note più articolate nei primi anni, più asciutte e sintetiche dopo. Con questi diari Arnaldi ebbe un rapporto molto personale, tanto che il primo si apre con Buon anno!, e negli altri sono frequenti gli auguri a se stesso.


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Nel 1950 troviamo riflessioni sui films visti, sui concerti seguiti e sui libri letti, segnalazioni delle lezioni universitarie frequentate e delle giornate di vacanza e delle gite (ma è solo un’indicazione tematica riduttiva). Qualche esempio può chiarire l’importanza delle note; si può però anticipare che l’interesse per il cinema non lo abbandonò mai (con un’attenzione critica che scende fin nella tecnica; con qualche film visto più volte), meno forte quello per la musica classica, persistente quello per il teatro; continue, quasi tumultuose, le letture di libri di storia, senza sostanziali distinzioni cronologiche. Era un lettore insaziabile. Per i films basta leggere una nota: «9 febbraio […] Visto “Enrico V” di Laurence Oliver. Una grande vittoria del cinema: non perché sia “cinema” vero, anti-teatro, pura visibilità o movimento, come vorrebbero i cineasti, (che è di rivendicare al nuovo complesso e composito mezzo di espressione la vuota autonomia di un “genere” da aggiungere agli altri già sepolti), ma perché Enrico V è un’opera d’arte, che si serve di quel mezzo di espressione che chiamiamo cinema ed ha tra gli elementi che lo compongono un testo illustre (anche se non eccezionale come Amleto) e all’altezza di quello giunge e si adegua nei suoi altri elementi: recitazione, colori, musica, architetture, fotografia etc. (notevole l’uso del colore, redento una volta per sempre dalla mediocrità di coloro che avevano adottato questa tecnica nuova – redenzione di cui lo credevano incapaci le vestali del cinema puro –, pronto a ricadere nella mediocrità e nell’infamia, quando lo ritroveremo nelle mani di un non-artista)». Un interesse che lo portava, in anni più tardi, dal gennaio al settembre del 1978, a Parigi come Directeur d’études associé à la IVe section de l’École pratique des hautes études, ad andare a vedere L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Per la musica: «22 febbraio […] “Parsifal” di R. Wagner, diretto da Karl Bohm. Sono giunto a comprende-


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re il primo e il terzo atto: il secondo, troppo complesso psicologicamente, privo, meno che nella prima parte, di elementi spettacolari, non l’ho capito. È, nell’insieme, una costruzione grandiosa: di fronte a quella grandiosità, alla possente efficacia espressiva di molti brani, passano in secondo piano le riserve, che pur dobbiamo fare, di carattere contenutistico o più storicamente culturale, sugli elementi che fanno da sfondo all’ispirazione wagneriana. Riserve che, nella nostra adesione, accentuano il distacco». Per i libri di storia: «9 maggio […] Finito Jemolo: è qui affrontato sistematicamente dall’angolo visuale del cattolicesimo liberale, il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia dal “Primato” giobertiano alla vittoria democristiana del 18 aprile. Il libro non è unitario: la prima parte, che fa centro sul separatismo cavouriano e si conclude con la legge delle guarentigie, è storia; il resto sarebbe storia se si potesse fare la storia di un fallimento, prescindendo dal considerare gli elementi nuovi e positivi che a quel fallimento si intrecciano. La prima parte è degna di restare modello metodologico di un libro di storia scritto da un giurista e rappresenta su di un altro piano, l’unico contributo che è venuto da parte cattolica alla storiografia sul Risorgimento (segue) […] 10 maggio […] (v. ieri) (Giurista e cattolico lo Jemolo): ma erano in sé buoni titoli per fare della storia! La seconda parte (prescindendo dai giudizi su Giolitti e su Croce e da poche altre pagine) è dominata dall’anti-risorgimento. E anti-risorgimento è tutto per lo Jemolo: l’anticlericalismo di <Guido> Podrecca e la politica coloniale, socialismo e nazionalismo, fascismo e democrazia cristiana. D’accordo: ma, detto questo, non ci si può fermare qui; bisogna spiegare l’anti-risorgimento, dargli un nome che non si risolva in una negazione, o i vari nomi, non limitarsi a individuarne le radici, come fa lo Jemolo, ma giungere a valutarne i frutti, quelli che ha dato e quelli che potrà dare. Questo per la storia e può essere presto per


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farlo. Perché per ora, e non si capisce se lo Jemolo sia del tutto pessimista sul piano pratico di lottare per la difesa e le nuove affermazioni dei valori risorgimentali, di quelli, almeno, che sembrino ancora attuali, e l’anti-risorgimento ci è sembrato un termine un po’ vago in una ricostruzione storica, può ben essere il termine comprensivo sotto cui vanno individuate le forze spesso assai contrastanti, entro le quali è ancora dato di vittoriosamente combattere». Sono riflessioni molto precise, che possono forse sorprendere in un giovane di vent’anni e che sono confermate dal secco giudizio a proposito della Polemica sul Medioevo di Giorgio Falco (di Falco, in anni molto successivi – 1994 – Arnaldi avrebbe scritto una articolatissima biografia, con fortissime attenzioni storiografiche, nel Dizionario Biografico degli Italiani), interessante non solo tenuto conto dei rapporti che Falco aveva con l’ambiente napoletano e con Croce, ma anche perché Arnaldi stava in quel periodo lavorando alla sua tesi di storia medievale. Aveva cominciato a leggere La polemica il 17 marzo: circa tre mesi dopo annota: «2 giugno […] Finito Falco. (È un libro esteriormente mal costruito, apparentemente confuso. Ciò non toglie che una linea ci sia, che le singole parti siano sempre felici – v. per es. la gran parte fatta al Gibbon, di cui vengono messi in luce aspetti ignorati –. Accettabile la visione conclusiva che è un po’ l’avvio della Santa Romana Repubblica)». La stessa cura nella registrazione è nelle agende dei diari più tardi, che naturalmente ampliano i contenuti, così come erano aumentati i suoi impegni ed incarichi. Nel 1977 registra le collaborazioni ai giornali e ai settimanali; le partecipazioni ai Convegni; i lavori in corso di articoli e libri; i progetti radiofonici e televisivi e la loro preparazione e realizzazione; il lavoro in Istituto (soprattutto per il Repertorium, ma anche per il Bullettino e per i volumi in pubblicazione); la scomparsa dei colleghi (il 28 luglio 1977 per la scompar-


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sa di Ottorino Bertolini: «Il 26 notte è morto Ottorino Bertolini; funerali il 28: era un’ottima persona!»; le ore e gli argomenti delle lezioni universitarie; la partecipazione a riunioni politiche o di Università, alle Commissioni ministeriali; l’elezione del nuovo pontefice: «16 ottobre […] È stato eletto il nuovo papa (È polacco. Sara è felice)»; tragici avvenimenti politici: «16 marzo. Esami […] presto interrotti per il rapimento dell’on. Moro […]; 18 marzo. […] Assistito al funerale dei cinque carabinieri e agenti che scortavano l’on. Moro […]; 16 aprile. […] Un mese dopo il rapimento di A. Moro, bollettino delle Brigate Rosse con la “condanna a morte” […]; 9 maggio. Ritrovato il corpo dell’on. Moro!!! […]; 18 ottobre. Scritto per “L’Europa”, un articolo sulla D.C. e l’affare Moro». Diari che testimoniano gli interessi culturali e politici, ma anche la sua forte capacità di studio, la rigida organizzazione della giornata, del lavoro e del tempo, quasi monastica, un’abitudine questa che quanti l’hanno frequentato hanno imparato a conoscere e che in qualche occasione lo portava ad annotare che non aveva fatto molto e che doveva fare di più. Le pagine delle agende, soprattutto le prime, sono spesso zeppe di correzioni e di pentimenti, attente anche allo stile, con inserimenti e spostamenti di lemmi, che testimoniano una riflessione e una rilettura attenta, quasi come se fossero da pubblicare domani. Non sono frammenti di un’esperienza personale, ma hanno una loro compiutezza pur nella dimensione di appunti quotidiani. 1953-1963 Uscito dal Croce, divenne archivista di stato e lavorò presso il Centro microfotografico degli Archivi di Stato (dal 1953 al 1957); nel 1957 vinse il concorso per la Scuola storica nazionale di studi medievali presso l’Istituto storico ita-


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liano per il medio evo. All’Istituto si è svolta molta della sua formazione di ricercatore. Vi è rimasto fino al 1963, come allievo della Scuola, a contatto con Raffaelo Morghen, Ottorino Bertolini, Giorgio Falco, Francesco Calasso, Francesco Cognasso, Raul Manselli e Arsenio Frugoni (erano con lui allievi della Scuola Nicola Cilento [1957-1959], Elio Conti [1956-1963], Mario Grignaschi [1958-1963], Paolo Lamma [1954-1959], Ottavio Banti [1960-1963], Giovanni Zippel [1957-1958]). Se negli anni successivi ebbe altri incarichi, l’Istituto rimase però sempre al centro dei suoi interessi e ad esso dedicò molto del suo impegno (Conoscenza storica e mestiere di storico, Bologna 2010, p. X). Nel 1958, non ancora trentenne, aveva ottenuto la libera docenza in Storia medievale. Nel 1960-1962 aveva avuto l’incarico di Esegesi delle fonti della storia d’Italia presso la Scuola speciale per Bibliotecari e Archivisti dell’Università di Roma; nel 1961-1962 ebbe anche l’incarico di Storia medievale a Perugia. Gli anni napoletani e quelli romani presso la Scuola storica sono stati quelli della sua piena, precocissima, formazione culturale e storiografica, che continuerà ad affinarsi negli anni, in una continua riflessione anche su alcuni dei temi scelti e affrontati in quel periodo. 1964-2016 Nel 1964, a trentacinque anni, comincia, vincitore di concorso, l’insegnamento di Storia medievale all’Università di Bologna, dove rimane sino al 1970, per poi trasferirsi alla Sapienza di Roma, fino al 1999, quando uscì dai ruoli dell’insegnamento. Il suo impegno universitario ha avuto un seguito in molti allievi, anche dopo la fine dell’attività accademica e anche al di fuori delle aule d’insegnamento.


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Dal 1982 fino al 2001 è stato presidente dell’Istituto storico italiano per il medio evo, successore di Raffaello Morghen. Ha dedicato il suo mestiere di storico allo studio della cronachistica, alla storia del papato nell’alto medioevo e nel medioevo centrale, alla storia di Roma e a quella delle Università, alla cultura veneta, a Dante. La sua ricerca è stata vasta, innovativa e diversificata, come il suo sforzo per la conoscenza tra storici di provenienze e sensibilità diverse e tra culture storiografiche differenti. È stato un intellettuale aperto ai problemi del proprio tempo, con convinzioni precise, ma attento a rispettare le altrui; capace di raccontare la storia e di trasmetterla senza mai rinunciare al metodo e al rigore scientifico, di partecipare la sua cultura a quanti aveva intorno, a quanti lo ascoltavano e lo leggevano. Era capace di conversazioni di grande fascino, ma senza concessioni. Per queste ragioni non userei mai per lui il termine di divulgazione, oggi in gran voga e spesso usato in modo approssimativo, perché il suo impegno era proprio nel trasmettere a tutti, non solo agli addetti ai lavori, ai professionisti della ricerca o della cultura, i contenuti del suo mestiere di storico, senza nessuna concessione all’attualizzazione, che rifiutava. La sua narrazione della storia si è espressa nella scrittura, nell’oralità e nelle immagini. Primo tra altri ha cercato l’apertura a un pubblico più ampio, per esempio con una presenza intensa su quotidiani e riviste; con iniziative scientifiche inappuntabili, ma legate ai media tradizionali, come la Storia della cultura veneta e la Storia di Vicenza per l’editore Neri Pozza, l’Enciclopedia dei Papi e l’Enciclopedia Fridericiana per la Treccani; o nuovi, come la radio e la televisione, e il programma più noto da lui curato è stato senz’altro La straordinaria storia d’Italia (RAI, II ciclo 1985, 12 trasmissioni), in cui esprimeva con chiarezza il significato di queste conversazioni, di tutte le sue conversazioni, che era quello di sforzarsi «di esprimere


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con chiarezza e brevità concetti a volte molto ardui e difficili», evitando «di ammiccare ai telespettatori tutte le volte che i temi affrontati riguardavano da vicino ansie e speranze degli italiani di oggi», pur nella convinzione che «anche la storia del lontano medioevo per molti aspetti ci tocca da vicino». E la serie televisiva è l’incunabolo di uno dei suoi ultimi volumi L’ Italia e i suoi invasori (Roma 2004) che ha avuto un grande successo di pubblico e che per un pubblico vasto era pensato, quasi a conclusione di una sua lunga riflessione sul tema, cominciata in anni lontani, in cui interpretava «l’Italia medievale come naturale ponte di passaggio» tra una civiltà mediterranea e una civiltà continentale europea. All’Istituto storico italiano per il medio evo, che ha guidato dal 1988 al 2001, ha dedicato la sua conoscenza storica come Direttore della Scuola storica nazionale; come responsabile delle Collane editoriali che ha riordinato; come coordinatore del Repertorium Fontium Historiae Medii Aevi, che ha portato tra molte difficoltà, con volontà forte, fino quasi alla conclusione. Proprio nelle collane editoriali è stata la sua maggiore innovazione; ed è stata una scelta quasi rivoluzionaria con la ristrutturazione della collana delle Fonti in cinque sezioni (Bullettino 100 [1995-1996], pag. 13). La riorganizzazione ha significato la radicale trasformazione e conclusione delle vecchie Fonti per la storia d’Italia, esistenti dal 1886, che ora si chiamano Fonti per la storia dell’Italia Medievale e comprendono le Antiquitates (che hanno conservato il formato in 8°), la terza serie dei Rerum Italicarum Scriptores, per cui è stato scelto il formato in 8° (la monumentale seconda serie in-folio, quella iniziata nel 1900 da Carducci e Fiorini, è stata chiusa definitivamente), e una nuova collana titolata Subsidia; contestualmente dalla testata del Bullettino è scomparso il riferimento all’Archivio Muratoriano. Consapevole di quale potesse essere l’impor-


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tanza di questi mutamenti, scrisse un articolo per Il Messaggero (30 luglio 1997, v. più avanti pp. 393-395) che cominciava: «Ci sono le premesse perché anche l’Italia abbia una collana di fonti storiche medievali degna della sua tradizione». Questi brevi note penso possano bastare come presentazione di uno storico che ha riflettuto molto sul significato della storia e della ricerca storica e come introduzione a quanto da lui scritto su quotidiani e riviste. Pagine quotidiane Diceva che i giornali costringono a «esprimere con chiarezza e brevità concetti a volte molto ardui e difficili»; forse per questa ragione sono stati preferiti da Arnaldi. Sono 194 articoli, pubblicati dal 1953 al 2003, su testate giornalistiche che sono sempre state da lui scelte, o rifiutate, per come si rapportavano culturalmente e politicamente alla società politica italiana e non sono mai state accettate passivamente. Gli articoli sono stati conservati e raccolti dal lui stesso con cura e attenzione, in qualche caso con correzioni autografe dei refusi e con le integrazioni delle parti tagliate in redazione. Pubblichiamo integralmente la raccolta conservata tra il materiale che è stato donato nel marzo del 2016 dal nipote Antonio Menniti Ippoliti (recentemente scomparso) al nostro Archivio storico, proprio perché la sua scelta ha un significato, anche se sappiamo che altri interventi erano stati da lui pubblicati in altre testate. Gli articoli sono stati suddivisi in questa sede, solo per comodità del lettore, conservando la successione cronologica anche se con qualche inevitabile approssimazione tematica, in tre sezioni, Medioevo, Libri, Cultura e società. Sono una testimonianza precisa dei suoi vasti interessi culturali, del suo impegno verso l’Università, delle sue passioni politiche. A volte sono espressioni di curiosità storiche


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personali e non nascono da alcun pretesto editoriale o da una contingenza politica, sono momenti della sua ricerca, che lo portano anche a pubblicare inediti (ad esempio la lettera di Croce a Bottari ne Il giornale di Sicilia, 25 aprile 1982, Un inedito di Croce sulla ristampa di Amari, v. più avanti pp. 153-157). A volte sono invece approfondimenti che Arnaldi propone a margine di avvenimenti culturali, politici o religiosi. In qualche caso sono dei piccoli trattati tematici o storiografici (con pochissimi riferimenti bibliografici), anche molto ampi rispetto al consueto spazio giornalistico; sembra a volte che si faccia prendere la mano dal racconto e sia costretto a interromperlo per la tirannia dello spazio. Ma forse invece è solo perché aveva detto tutto quello che voleva dire e non accettava condizionamenti retorici neppure facendo giornalismo. Non rinunciava invece all’ironia, che appare spesso sparsa nelle sue pagine quotidiane, reazione agli aspetti più vari della società italiana: «I democratici italiani, in genere, sono persone serie, e gli italiani seri sono tutti molto pessimisti sul loro paese» (Gioventù liberale, 2 giugno 1953, Non voler essere minori, v. più avanti pp. 479-481); alla politica nazionale e alla propaganda turistica municipale; al proliferare delle mostre d’arte e dei relativi cataloghi monumentali; alla costruzione della moschea di Roma e del pericolo che accanto nasca un suk; alla tendenza di qualche collega alle «strizzatine d’occhio», all’attualità e a proporre «improbabili analogie»; ai dibattiti televisivi simili al Circo di Costantinopoli; all’abitudine dei proto dei giornali a non rispettare gli a capo. Sono articoli scritti in modo semplice con un linguaggio chiaro, ma a volte su temi per niente semplici o di comune conoscenza per un pubblico molto vasto e diversificato come quello dei quotidiani in quegli anni. Sono la testimonianza altresì di una società completamente diversa dall’attuale, anche se sono passati solo pochi


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anni, allora venivano accettati sui quotidiani articoli di raffinata filologia e critica storica come quello titolato Il “contratto” politico nelle Costituzioni statuali dell’Occidente. Tredicesimo, non spergiurare (Il Messaggero, 12 gennaio 1993, v. più avanti pp. 465-468). Questa società Arnaldi ha attraversato nei suoi cambiamenti, li ha vissuti e li ha registrati nella scrittura che in qualche momento ha tensioni autobiografiche; autobiografia che diventa storia: «Lungo i due lati di via dei Filippini, che va da piazza dell’Orologio a piazza della Chiesa Nuova a Roma, sono parcheggiate in permanenza due file ininterrotte di macchine. Fino a qualche tempo fa – poi, non saprei quando e perché, la cosa è cessata – nel piccolo spazio che separa le macchine in sosta dai muri delle case che costeggiano la via, approfittando della comodità offerta da qualche gradino, venivano in molti a bucarsi […] Mi sono subito accorto che alcune facce erano sempre le stesse. Venivano soli, o due a due aiutandosi a vicenda. Mi colpivano in particolare i casi nei quali era evidente che solo uno dei due si bucava: l’altro, che era lì per dare una mano, si affaccendava intorno al partner, lo colmava di attenzioni, cercava di nasconderlo agli sguardi indiscreti dei passanti, com’ero anch’io […] Ora, a via dei Filippini, le macchine stazionano ancora, peggio di prima, dacché è stata pedonalizzata piazza dell’Orologio; ma di drogati in giro non se ne vedono più, almeno da queste parti. Il che costituisce per me un invito a rimuovere il problema, a fare come se non esistesse più, anche se so benissimo (ma altro è sapere per sentito dire, altro vedere con i propri occhi) che nel frattempo si è ancora aggravato […] Ma, soprattutto, occorre sostenere, e non solo con generose oblazioni, quanti operano sul campo, nelle comunità terapeutiche, a diretto contatto con gli aspiranti suicidi, il cui sguardo incontravo attraversando fino a qualche tempo fa via dei Filippini. Quanti di loro saranno


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ancora vivi oggi? A quelli di loro che hanno trovato una via di scampo e a quelli che sono arrivati fino in fondo vorrei manifestare la mia vergogna per non avere saputo trovare una parola da dire, delle tante con cui mi balocco dalla mattina alla sera nel mio studio di piazza dell’Orologio» (Il Messaggero, 29 novembre 1990, Troviamo insieme le parole per parlare a quei ragazzi, v. più avanti pp. 647-649). Svelava di aver concepito Conoscenza storica e mestiere di storico «con un intento vagamente autobiografico» (p. IX) e lo stesso intento piace leggere in questa raccolta di articoli da giornali e forsanche questa era la sua intenzione nel raccoglierli e catalogarli.


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AVVERTENZA Gli articoli sono stati pubblicati rispettando la forma originaria, con la correzione soltanto di eventuali refusi e con l’utilizzazione anche delle correzioni autografe dell’autore. In qualche caso si è scelto di inserire a pie’ di pagina note asteriscate su personalità e tematiche che oggi possono risultare meno note. Aggiunte e integrazioni redazionali sono state indicate tra parentesi quadre. L’intervento apparso su Viterbo. La Provincia viene pubblicato per il particolare significato che riveste nell’impegno di Arnaldi come mediatore culturale.


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Il Giornale/Libri nuovi, 7 agosto 1974 Autori vari Etica economica medievale Nel Vangelo di Luca sta scritto: «Amate i vostri nemici, e fate del bene e prestate senza sperperare alcunché, e il vostro premio sarà grande». Mutuum date nihil inde sperantes: la condanna cristiana e medievale del prestito ad interesse, non della sola usura, trova in queste cinque parole un fondamento che non ammette incertezza. Ma, interrogato nel corso di una disputa di scuola sull’esistenza, o meglio, dell’obbligo di restituire ciò che si è lucrato, magari legittimamente, mediante l’impiego di “denaro usuraio”, Tommaso d’Aquino, prima di rispondere, precisa che l’usura non è un peccato solo perché proibita (si intende dalla legge divina e dalle leggi della Chiesa), ma anche perché è contro la ragione naturale. E, allegando il suo Aristotele, introduce una distinzione fra i beni, come i libri, i vestiti, le case, il cui uso – non anche il possesso – può essere ceduto per un certo periodo di tempo ad altri che li restituiranno intatti come li hanno ricevuti, ma pagando per l’uso che nel frattempo ne hanno fatto; e i beni invece, come il vino e il denaro, per i quali l’uso comporta la diminuzione del bene stesso, e non può quindi essere distinto dal possesso, né essere locato a parte, così che, in caso di prestito, il debitore dovrà restituire semplicemente ciò che ha ricevuto, senza aggiungere un sovrappiù. È la cosiddetta teoria della “sterilità della moneta”, che sta agli antipodi di quella, oggi prevalente, della moneta come capitale. Invocandola, Tommaso compie a suo modo un tentativo di analisi razionale dell’attività economica; ma questa analisi si svolge all’interno di un sistema concettuale che non è economico, bensì etico. Punto di partenza di tutto il suo ragionamento è difatti l’assioma, che resta fuori discussione durante l’intero medioevo, secondo cui l’usura è peccato. Con Etica economica medievale (Il Mulino, pp. 218, L. 2.600) – titolo di una raccolta di saggi di diversi autori cura-


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ta da Ovidio Capitani – si intende all’incirca il tipo di argomentare, proprio di teologi e di canonisti, che abbiamo cercato di definire qui sopra con un esempio illustre. È un campo di ricerche ardue ed appassionanti, nel quale si sono esercitati soprattutto studiosi anglosassoni. Ma non mancano gli apporti italiani: basti citare il nome di A. Sapori, presente nell’antologia con il saggio sul Giusto prezzo nella dottrina di san Tommaso e nella pratica del suo tempo. Solo con fatica questi studi si vanno liberando dell’insidia sempre latente dell’“attualizzazione”. Per il “pensiero sociale cristiano” fra Otto e Novecento, il fatto che san Tommaso sembrasse aver stabilito una equivalenza fra “giusto prezzo” e costo del lavoro, era stato sufficiente ad attribuirgli il merito di aver intravisto la dottrina del plusvalore seicento anni prima di Carlo Marx. Una stortura evidente. Ma il Capitani ha ragione di fare notare che quando, dopo essersi accorti che, in realtà il “giusto prezzo” della dottrina tomistica faceva la parte dovuta anche alle condizioni del mercato, alcuni studiosi sono arrivati ad imputare all’Aquinate la legge della domanda e dell’offerta, si era ricaduti nel medesimo errore. Mentre invece, dato per scontato che anche l’attività economica dei nostri progenitori medievali obbediva alla legge universale della ricerca del maggior tornaconto individuale, il problema vero – come propone il Capitani – resta quello di stabilire come, accanto ad altri limiti di natura ambientale e tecnologica, anche il limite soggettivo costituito dall’“etica economica”, intervenisse, in forme sempre nuove e diverse, a modificare in concreto l’esercizio di tale attività, e ne fosse a sua volta modificato.


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Il Giornale, 28 settembre 1974 La divisione in «decanati» della diocesi milanese Forse parroco vuol dire vivandiere La riforma ambrosiana ci riporta all’organizzazione primitiva della Chiesa Romana – Etimi incerti e affascinanti di istituti fondamentali come la pieve L’arcivescovo di Milano ha di recente annunciato che stanno per essere apportate alcune innovazioni all’ordinamento della diocesi ambrosiana. Poiché la «parrocchia» come tale resterà il cardine anche della nuova organizzazione, è probabile che la massa dei fedeli, praticanti e non, risentirà solo fino a un certo punto le conseguenze del mutamento: per i battesimi, per i matrimoni, per i funerali bisognerà rivolgersi al parroco anche in futuro. Ma i provvedimenti decisi non mancheranno, certo, di suscitare polemiche fra i gruppi più impegnati, in un senso o nell’altro, della «comunità ecclesiale». La ricercata ambiguità di un’espressione come «unità articolata della diocesi» – tipica del dire e non dire cui ci hanno abituato, prima che i nostri presuli, i nostri politici – non impedirà infatti che, al momento dell’attuazione della riforma, venga sul tappeto la questione di come le nuove previste «articolazioni» siano conciliabili con l’«unità» che si vuole al tempo stesso mantenere intatta. Termini vaghi e suggestivi come «partecipazione» e «parrocchia aperta» che ricorrevano nei resoconti giornalistici dei giorni scorsi, sembrano fatti apposta per destare, secondo i casi, infondate speranze e ancora più irragionevoli spettri di disgregazione. Caratteri cittadini Oggi le parrocchie fanno capo alla curia arcivescovile. D’ora in avanti quelle della diocesi di Milano saranno raggruppate in una settantina di «decanati», a capo dei quali


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saranno posti dei «decani», eletti dai sacerdoti del territorio. A loro volta, i decanati saranno riuniti in sette «zone pastorali», ciascuna sotto la guida di un «vicario episcopale». Il che è come dire che, fra vescovo e parroco, avremo due istanze intermedie: la prima, il decano, con un’investitura dal basso; la seconda, il vicario episcopale, con un potere delegato dall’alto. Per coincidenza, negli stessi giorni in cui il cardinale Colombo dava gli ultimi ritocchi alla riforma, sempre a Milano, all’Università Cattolica si stava svolgendo un convegno di studi sulle «Istituzioni della societas christiana dei secolo XI e XII: diocesi, pievi e parrocchie». Il convegno, quanto a partecipanti e ad argomenti trattati, ha avuto una netta impronta internazionale, ma il titolo rifletteva in parte la formazione originariamente italiana, da un punto di vista storiografico, dei suoi promotori. La «pieve» (dal latino plebs, nel senso di popolo, comunità di battezzati) è difatti una forma di distrettuazione ecclesiastica tipica dell’Italia centro-settentrionale, scomparsa da tempo immemorabile, lasciando però dietro di sé numerose tracce di carattere sia toponomastico (Pieve di Cadore, Città della Pieve, Pieve di Cento ecc.) che monumentale (una serie di edifici sacri chiamati appunto così). L’ipotesi più volte affacciata in base alla quale il distretto plebano avrebbe ricalcato in generale i confini dell’antico pagus (distretto rurale romano) è plausibile, ma difficilmente dimostrabile. Per via dell’assonanza e della documentata derivazione di «pagano» da pagus, essa ci offre indirettamente il destro di venire subito alla premessa fondamentale del discorso che stiamo imbastendo: il cristianesimo, per il fatto stesso di avere avuto come suo primo terreno di espansione il mondo conquistato e organizzato da Roma, è nato con connotati decisamente cittadini.


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Ordine gerarchico Se l’impero romano era una confederazione di città, la Chiesa dei primi secoli era una confederazione di chiese locali cittadine, indipendenti l’una dall’altra, ciascuna sotto il suo vescovo, tenute insieme dalla fede comune, quando non intervenivano a disunirle «scismi» ed «eresie». Dato questo punto di partenza, cominciarono ben presto (IV-V secolo) a porsi problemi di un duplice ordine: da un lato, si avvertì l’esigenza di portare la parola di Dio anche nelle campagne, dove gli antichi culti, ormai perseguitati nelle città, tendevano a trovare rifugio, assimilandosi a credenze ancestrali sopravvissute all’ombra del politeismo ufficiale e profondamente radicate nell’animo delle masse rurali; dall’altro, si cercò di garantire meglio l’unità della fede, assoggettando le chiese cittadine ad una parvenza, almeno, di ordinamento gerarchico. Sia in un caso che nell’altro, queste nuove esigenze furono soddisfatte conciliando presupposti ecclesiologici (la Chiesa retta dai vescovi, successori degli apostoli) e condizionamenti ambientali. Per ciò che concerne l’inquadramento gerarchico delle chiese locali, si seguì la falsariga dell’ordinamento amministrativo dell’Impero: i vescovi delle città capitali di «provincia» in particolare nella parte orientale dell’Impero, andarono acquistando col tempo una certa superiorità nei confronti degli altri vescovi della provincia medesima e cominciarono ad essere chiamati «metropoliti»; mentre «patriarchi» furono detti i vescovi che si trovavano a capo di grandi circoscrizioni ecclesiastiche, corrispondenti ad alcune delle dodici «diocesi» in cui Diocleziano aveva raggruppato le provincie. Per ciò che riguardava invece l’evangelizzazione delle campagne «pagane», si ricorse a una molteplicità di espedienti diversi, a seconda dell’ampiezza delle circoscrizioni vescovili esistenti e della densità di popolamento nelle varie


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zone: in qualche caso (Africa, dintorni di Roma), si moltiplicarono i vescovati; altrove (in Asia Minore) furono istituiti i cosiddetti «corepiscopi», o vescovi di villaggio, in sottordine al vescovo vero e proprio; nella maggioranza dei casi si provvide a creare dei luoghi di culto distaccati, affidandoli o a una comunità di preti (la «pieve») o a un singolo prete, che restavano sottoposti al vescovo della città più vicina. Un decentramento di questo tipo fu anche attuato, a partire dal secolo IV, in alcune grandi città come Roma ed Alessandria. A Roma, questi nuovi luoghi di culto furono chiamati tituli, e presbyteri cardinales, «preti incardinati» (cioè a dire attaccati stabilmente, come una porta al cardine intorno a cui gira, al vescovo di Roma), i sacerdoti preposti ad essi. Nella nomenclatura corrente, i luoghi di culto decentrati, sia campagnuoli che cittadini, cui abbiamo fatto cenno, si chiamano «parrocchie». Questo termine è in rapporto con un verbo greco che significa «abitare vicino» un’etimologia che si attaglia perfettamente all’immagine più familiare della parrocchia. Quanto a «parroco», c’è una parola greca di suono molto simile, che sta ad indicare «colui che fornisce viveri ai funzionari pubblici in viaggio»: siamo in un altro ordine di idee, eppure i conti tornano lo stesso, solo che si pensi alle attività caritativo-assistenziali che fanno da sempre capo alle parrocchie. Ancora in greco, il sostantivo corrispondente a «parrocchia» significa «istallazione di passaggio in terra straniera» (nel latino della Vulgata, concisamente, peregrinatio), una immagine che si attaglia benissimo a una comunità che si ritiene in cammino dall’«esilio» verso la «dimora» celeste. Insomma, l’etimo di «parrocchia» è incerto e si apre al riguardo tutto un ventaglio di possibilità, dal terreno della sociologia a quello dell’escatologia. Per molti secoli, fino a tutto il XIII, il termine «parrocchia» è stato usato prevalentemente nel senso di territorio governato da un vescovo – la


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nostra «diocesi» –, forse anche perché quest’ultimo termine ha risentito a lungo dell’accezione più larga mutuata dal linguaggio amministrativo tardo-antico, alla quale abbiamo accennato più sopra. Episodi Lasciando da parte le parole, che non è detto racchiudano tutta la verità, e venendo alle cose, è sempre più evidente che la storia delle articolazioni interne delle diocesi (parrocchie, pievi, arcidiaconati, decanati…), difficilissima da studiarsi per la scarsità di documenti, costituisce uno degli aspetti della storia religiosa e sociale d’Europa, in particolare durante il millennio circa, compreso fra l’età dei grandi concili antichi e il concilio di Trento, quando tutta la materia fu regolata nel modo uniforme che è durato fino ad oggi (vescovo, vicario generale, parroci). Per dare forza «ecclesiologica» ai parroci nel momento in cui più subivano la pericolosa concorrenza dei frati degli ordini mendicanti, di recente fondazione (secolo XIII), si volle vedere in essi addirittura i successori dei settanta, o settantadue, discepoli del Signore, che, senza essere collegio degli apostoli, gli erano stati vicini in molte occasioni; ma i frati seppero parare il colpo e ottennero la condanna di tale dottrina. Press’a poco nello stesso periodo giungevano all’apice della loro straordinaria fortuna gli arcidiaconi, che, usurpando alcuni poteri vescovili, suddivisero il territorio delle diocesi in «arcidiaconati» e si posero come autonoma istanza intermedia fra le parrocchie raggruppate in «decanati». Sono solo episodi isolati di una storia movimentata e complessa, ancora in gran parte da scriversi; e che nei prossimi tempi si arricchirà di un capitolo nuovo, milanese.


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Il Giornale/Libri nuovi, 16 gennaio 1975 Il paesaggio europeo Un bel libro inglese, apparso in traduzione italiana nella Collezione storica dell’editore Laterza (Clifford T. Smith, Geografia storica dell’Europa dalla preistoria al secolo XIX, Bari 1974), conferma quanto possa riuscire fertile il connubio fra la storia e la geografia – una delle forme più ovvie e collaudate di «interdisciplinarietà» –, una volta che ci si sia liberati dalla vecchia problematica pseudo filosofica dei rapporti fra l’uomo e l’ambiente naturale, un tema ch’era ancora al centro della pur stimolante mediazione di Arnold J. Tonybee sulla «storia della civiltà». Lo Smith accenna talvolta con discrezione a ciò che definisce la «personalità» di un luogo, una sorta di qualità elusiva, in cui si esprimerebbe la persistenza, attraverso il tempo, di alcune caratteristiche connaturate al luogo medesimo. Ma resta lontanissimo da ogni forma di determinismo geografico. Piuttosto, sarebbe da vedere se questa sua nozione di «personalità» non possa essere adoperata per ottenere che la discussione intorno all’opportunità di difendere alcuni contesti ambientali dalle insidie dello sviluppo, esca dalle secche, in cui spesso si riduce, di una contrapposizione fra le ragioni del «bello» e dell’«utile», astrattamente ed astoricamente intese. Giriamo l’indicazione ai responsabili della tutela dei beni culturali. Nel 1936, in questa stessa Collezione, apparve la Storia d’Europa di H.A.L. Fisher. Il maggiore elogio che si possa fare al libro di Smith è che anch’esso finisce con l’essere, a suo modo, una storia d’Europa, sia pure considerata sotto il particolare angolo visuale dei fenomeni dell’insediamento e della colonizzazione e delle successive trasformazioni dell’habitat cittadino e rurale, in rapporto al mutamento delle risorse naturali e alla diversa organizzazione dei mercati e dei traffici. L’alternarsi, nelle nostre campagne, dell’insediamento in


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villaggi compatti e quello in casolari dispersi ha un riscontro, che il profano non sarebbe portato a sospettare, nell’alternanza fra produzione accentrata e produzione dispersa che caratterizza gli inizi dell’età industriale. Nel libro troviamo la risposta a una serie di interrogativi che nascono dalle nostre sparse osservazioni di viandanti, anche distratti. Verremo così a sapere delle opere di canalizzazione degli Etruschi, che spiegano come mai le colline tondeggianti con pendii dolci coesistono, nell’Etruria meridionale, con le zone collinose caratterizzate da pendii scoscesi e da gole profonde causate dall’erosione delle acque; oppure della vite che si è diffusa nella zona renana per via delle vicinanza della frontiera dell’impero romano (limes) e delle truppe che la presidiavano. Su un altro piano, la «geografia storica» ci spiega, per esempio, come si è formata la linea di demarcazione linguistico-culturale fra Belgio vallone e Belgio fiammingo, o quella fra Francia oitanica (langue l’oïl) e Francia occitanica (langue d’oc), oppure, ancora ci offre il prospetto dei tempi e dei limiti della colonizzazione tedesca delle «terre dell’est». Tutte questioni, in vario modo, brucianti. Ma questo libro va letto da cima a fondo, come una ricostruzione unitaria e coerente del passato europeo. Soltanto così se ne potrà cogliere la «morale», che è press’a poco questa: assai per tempo l’Europa ha cessato di avere una «frontiera», nel senso nord-americano di un limite, in perenne movimento, che separa una zona colonizzata da una zona da colonizzare. Verso il 1320 – ci avverte lo Smith – si può dire che esistessero già tutti i villaggi da cui è popolata l’Europa di oggi. Ciò che non aveva fatto Roma, lo fecero i monaci e i coloni del Medio Evo, in un periodo che, ai fini della formazione dell’Europa moderna, ha assolto in questo campo a una funzione ancora più decisiva di quella che gli viene di solito riconosciuta in altri (spiritualità, cultura). Le terre vergini gli europei moderni dovettero andare a procurarse-


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le in altri continenti; in casa loro non c’era da tempo altra «frontiera» al di fuori di quella che serviva, e serve, a separare uno Stato da un altro. Il Giornale/Libri nuovi, 19 marzo 1975 Commonwealth bizantino Mi domando se il sottotitolo «L’Europa orientale dal 500 al 1453» sia sufficiente a dissipare l’equivoco che un titolo antologico come Il Commonwealth bizantino, attribuito da Dimitri Obolensky al suo libro del 1971, apparso ora in una buona traduzione italiana, nella Collezione storica di Laterza (Bari 1974), rischia di ingenerare anche in un lettore non sprovveduto. Poiché infatti, nell’uso corrente, «British Commonwealth» sta per impero britannico, uno potrebbe essere indotto a ritenere che questo libro fosse una storia dell’impero bizantino, come – per esempio – quella di Georg Ostrogorsky, edita da Einaudi qualche anno fa. Mentre invece lo Stato bizantino vero e proprio è presente solo sullo sfondo del libro di Obolensky, il cui orizzonte geografico è costituito, dal principio alla fine, dai Balcani e dalle terre a nord della costa settentrionale del Mar Nero per una profondità variabile secondo i tempi, indipendentemente dal fatto che il governo di Costantinopoli esercitasse, o no, la sua diretta sovranità su porzioni più o meno vaste di quei territori. Direi, anzi, che ogni qualvolta, in concomitanza con uno di questi sorprendenti ritorni di vitalità che costellano la sua storia millenaria, le frontiere dell’impero si dilatavano verso il limes danubiano o si rafforzavano le sue posizioni sulle coste meridionali della Crimea, l’Obolensky escluda dalla sua attenzione le province provvisoriamente riconquistate, in attesa dell’immancabile riflusso, prodotto dalla venuta di nuovi «barbari».


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Il libro di Obolensky è, in sostanza, la storia di un gigantesco processo di «acculturazione» gestito a fini politici da una diplomazia rotta a tutte le finezze e a tutte le astuzie, ma che avrebbe certo fallito al suo compito se non avesse disposto di altri atouts, diversi da quelli che poteva offrire una forza militare certo mai trascurabile, ma inferiore, sempre, alle esigenze imposte dalla difesa dell’impero, contemporaneamente su tutti i fronti. Fra gli atouts di Bisanzio, assai più che le leggi e le tecniche artistiche ed artigianali, che erano il retaggio diretto dell’antica civiltà mediterranea greco-romana, l’Obolensky tende a privilegiare il cristianesimo ortodosso. La chiave del libro è forse nelle pagine dedicate alla «missione» compiuta in Moravia a partire dall’863 dai due fratelli tessalonicesi Costantino e Metodio, latori di un alfabeto slavo (glagolitico) che il primo dei due aveva inventato, e che consentì la traduzione anzitutto dei libri liturgici correntemente usati per il rito greco, poi via via della Bibbia, di scritti patristici e teologici greci; nonché di testi giuridici, relativi sia al diritto canonico che al diritto penale e civile. Nasceva così una nuova lingua scritta, il cosiddetto slavo ecclesiastico antico, «la terza lingua internazionale d’Europa e l’idioma letterario comune per quei popoli est-europei, Bulgari, Russi, Serbi e Rumeni, che entrarono a far parte del Commonwealth bizantino». E con la lingua, che le serviva da veicolo di espressione, nasceva anche una cultura composita greco-slava, che avrebbe agito come principale elemento di aggregazione all’interno del Commonwealth. In Moravia, ch’era una regione fuori dalla sfera abituale del governo di Costantinopoli, la liturgia vernacolare slava dovette presto soccombere di fronte alla concorrenza latina, pesantemente patrocinata dal clero bavarese e franco, nonostante l’appoggio che, a un certo punto, i due fratelli avevano chiesto ed ottenuto da Roma. Ma essa fu trapiantata con pieno successo in Bulgaria dai superstiti della


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missione morava. Lì infatti il khan Boris I si servì dei discepoli di Costantino e Metodio per assicurare un giusto equilibrio fra l’influenza politico-culturale di Bisanzio e le originarie tradizioni bulgaro-slave. Il fatto di constatare che i destini e la stessa sopravvivenza di una grande potenza imperiale potessero giocarsi sul filo del successo di una liturgia o di una formulazione dogmatica non dovrebbe sorprendere chi segua le diatribe politico-ideologiche che ancora oggi animano di tanto in tanto la vita dei paesi dell’Europa orientale. Ma, nella conclusione, l’Obolensky ci richiama severamente contro il rischio di troppo facili, e forse indebite, attualizzazioni. «Alcuni storici moderni sono andati ancora più avanti nel loro tentativo di delineare l’incidenza dell’“eredità bizantina” della Russia nel corso dei secoli… L’autore non può fare altro che dichiarare il suo convincimento che questo modo di leggere la storia russa è quanto meno unilaterale». In altre parole, l’autore rifiuta di mettere in conto all’eredità bizantina la natura autoritaria delle istituzioni politiche della Russia moderna, nonché l’inclinazione a strumentalizzare a fini politici un’ideologia di impronta universalistica. A suo avviso, la principale eredità lasciata da Bisanzio alla Russia è piuttosto la «tradizione cristiana ortodossa, cui fino ad epoca recente la grande maggioranza della sua popolazione è rimasta fedele». Lo storico di razza si rivela anche nel pudore dei sentimenti. Il Giornale, 26 aprile 1975 Il libro di Lidia Storoni Galla Placidia Un itinerario di Ravenna commisurato alle esigenze del passante più frettoloso, accanto a S. Vitale, a S. Apollinare Nuovo, a S. Apollinare in Classe e al Mausoleo di Teodo-


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rico, includerà certo il Mausoleo di Galla Placidia. «Cosiddetto», avverte la guida – introducendo un elemento di dubbio, di carattere manifestamente e pienamente storicoarcheologico – che la visione dei mosaici, una volta varcata la soglia, non contribuirà però a dissipare, ma piuttosto a trasformare in un indefinito e ben altrimenti inquietante senso di mistero. Giureremmo che il libro di Lidia Storoni Mazzolani su Galla Placidia («Gli Italiani», Rizzoli Editore, pp. 436, L. 5.000) è stato originariamente pensato per rendere conto del perché di quell’«atmosfera escatologica nella quale ci trasporta tutta la decorazione del piccolo santuario». L’autrice sa bene che oggi prevale di gran lunga l’opinione secondo cui Placidia, che morì a Ravenna nel 450, non fu mai rinchiusa nel più grande dei tre sarcofagi che si trovano all’interno del Mausoleo, accanto al suo secondo marito Costanzo e al figlio avuto da questo, Valentiniano III, oppure al fratellastro Onorio, secondo le ovvie variazioni di un’antica tradizione. Ma quell’impressione di voler «offrire una risposta a timori segreti», come se Placidia cercasse «d’essere rassicurata sul proprio futuro nell’eternità», che danno tutte le opere d’arte certamente commissionate da lei, risulta ancora più forte qui che altrove. E, dunque, è lecito e, soprattutto, «consolante credere che sia stata veramente l’Augusta a progettare il santuario, ne abbia discusso la forma, la decorazione, ne abbia controllato l’esecuzione; e che i travagli e le angustie d’una vita si siano risolti nel vivo lume di quella croce gemmata, nell’azzurro di quelle pareti». Alla fine di un libro, dove, talvolta anche in polemica con studiosi accreditati, si fa il possibile per non lavorare di fantasia (e Dio sa se la materia non offriva il destro), è forse l’unica concessione all’immaginazione e al sentimento. Una concessione addirittura inevitabile, se il lungo, travagliato cammino di Galla Placidia doveva essere percorso a ritroso, prendendo le mosse proprio dai mosaici del suo «cosiddetto» Mausoleo.


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L’arco della vita di Placidia (388?-450) copre sessant’anni decisivi per la disgregazione dell’impero romano, fondamento politico-statale del mondo antico. Poco prima che venisse al mondo, suo padre, l’imperatore d’oriente Teodosio – un militare spagnolo richiamato in servizio dopo la sconfitta di Adrianopoli (378) – era stato in grado di ridurre a ragione i Goti vincitori, e più tardi, quando Placidia stava per nascere ed era una bambina di cinque sei anni, di restaurare a due riprese l’unità dell’impero, sconfiggendo e uccidendo gli usurpatori occidentali. Un anno dopo la morte dell’Augusta, Ezio, un generale romano originario di una città del basso Danubio, sconfisse ai Campi Catalaunici gli Unni di Attila, che, sia detto di passaggio, costituivano di solito il nerbo del suo esercito; ma la vittoria, conseguita con Ezio a capo di una coalizione di cui facevano parte Franchi Salii e Ripuari, Burgundi e Visigoti, non avrebbe consentito un ennesimo ristabilimento del limes romano, travolto per sempre alla fine del 406, bensì solo il definitivo assestamento delle tribù germaniche nelle diverse provincie. Il nome del vincitore, scrive la Storoni, rimane «legato alla difesa estrema – direi postuma – dell’impero d’Occidente». Quando, nell’autunno del 476, un regno romano-germanico sorse anche in Italia, si ebbe solo l’allineamento della terra-madre dell’impero sulle posizioni in cui si trovavano già da tempo Spagna, Gallia, Africa, Britannia. Si avrebbe torto a immaginare Galla Placidia, in mezzo al frastuono di tante rovine, intenta a progettare chiese e a commissionare mosaici, tra Milano, Ravenna e Roma. Questo, semmai, fu il suo ultimo porto, ma raggiunto dopo prove ben più dure a superarsi della tempesta che colse la nave che la trasportava di ritorno in Italia, dopo un breve periodo di esilio a Costantinopoli, presso il fratellastro Arcadio. Ve l’aveva costretta, poco prima di morire di idropisia (423), l’altro suo fratellastro, l’imperatore d’Occidente Onorio, che la sospettava complice dei Visigoti non ancora


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paghi di aver posto termine in Aquitania, fra Tolosa e l’Atlantico, al loro eterno migrare. Sospetti vaghi, che avevano però un fondamento nel fatto certo che Placidia era stata un giorno sposa di un loro re. In quei frangenti, le principesse erano pedine molto importanti nel gioco politico-diplomatico. Un parvenu, per via di matrimonio, poteva venire associato alla dinastia regnante: così la madre di Galla Placidia, Galla come lei, figlia di Valentiniano I, era andata sposa a Teodosio. Un generale barbarico, indispensabile all’impero per la sua difesa, poteva esser confermato nella sua fedeltà con la prospettiva di nozze nobilitanti: così il vandalo Stilicone ebbe in moglie Serena, la nipote che Teodosio aveva adottato come figlia. Gli imperi, che dopo Teodosio sembravano ormai essere diventati definitivamente due, si poteva sperare che tornassero ad essere uno, solo che una principessa di Costantinopoli si fosse unita in feconde nozze a un imperatore di Ravenna (o viceversa): con questa speranza, Eudossia, figlia di Teodosio II, fu concessa in sposa a Valentiniano III, figlio di Galla Placidia e di Costanzo, il generalissimo subentrato a Stilicone e cresciuto alla sua scuola. Quelle con Costanzo furono per Placidia le seconde nozze, perfettamente in linea con la tradizione. Assai più avventurose e straordinarie le prime – il capitolo che, a guardare solo in superficie, rischia di fare della sua vita un romanzo. Catturata a Roma nel 410, quando i Visigoti guidati da re Alarico occuparono e misero a sacco la città per tre giorni, Placidia seguì in lettiga il popolo-esercito dei suoi carcerieri durante la lunga marcia che li portò da Roma in Calabria, con il proposito, che fallì, di passare in Africa, la terra agognata del grano e dell’abbondanza; e dalla Calabria, dove Alarico morì, ripercorrendo in senso inverso, lungo la costa tirrenica, la penisola italiana, fino in Gallia. Ma a Narbona, quattro anni dopo la cattura – e, dunque, argomenta la Storoni, sarebbe ingenuo credere che sia


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stato per passione – il nuovo re dei Visigoti, Ataulfo, un eretico ariano, sposò solennemente la principessa cattolica sua prigioniera. Secondo Orosio, Ataulfo era partito con l’idea di trasformare in Gothia (impero dei Goti) la Romània (impero romano). Poi, proprio per influenza di Galla Placidia, si sarebbe convinto che avrebbe ricavato maggior gloria presso i posteri qualificandosi come il «restauratore della potenza romana». Ma si tratta, verosimilmente, della tipica tendenza di alcuni scrittori cristiani a presentare i barbari come migliori e più arrendevoli di quanto in realtà non fossero. E la morte di Ataulfo, subito dopo, tolse via ogni ulteriore possibilità di verifica. L’Europa/Il tempo e il sentimento, 13-27 giugno 1975 Fra Europa e Mediterraneo Maometto e Carlomagno ovverosia il canale e il referendum Accanto alla notizia della tragica sparatoria nelle Langhe, come se il «partigiano Johnny» avesse combattuto invano, e a quella dell’ultimo assalto dei «finanziarî» a ciò che resta dello Stato italiano, questa mite primavera preelettorale ci ha portato anche due buone notizie: gli Inglesi hanno detto di sì all’Europa; le navi hanno ripreso a transitare nei due sensi lungo il canale di Suez. Artificialmente associate fra loro dal fatto di essere, appunto, entrambe, «buone» notizie, in un quadro generale in cui prevalgono di gran lunga le ombre, i due avvenimenti consentono anche di essere commentati insieme solo che si ponga mente all’azione più incisiva che la Comunità Europea potrebbe svolgere in vista della soluzione della crisi mediorientale. Ma l’accostamento che intendiamo proporre noi è più sottile e nasce dal riflesso quasi istintivo per cui uno studioso di storia, al solo sentir citare insieme «riapertura del canale di


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Suez» e «voto inglese per l’Europa», è portato a pensare al titolo di un libro famoso di Henri Pirenne: Maometto e Carlomagno. Apparso una prima volta, postumo, nel 1937, questo libro illustra una tesi storiografica che nessuno più accetta nella sua interezza, ma che continua a costituire un punto di riferimento necessario in ogni discussione sul passaggio dell’età antica all’età altomedievale, cosicché anche un liceale mediocremente istruito sa, almeno per sentito dire, che cos’è la «tesi Pirenne». Riassumiamola brevemente. Secondo lo storico belga, gli invasori dell’Impero romano – i «barbari» Germani che già Tacito descrive minacciosamente –, quando si fecero avanti (inizio sec. V), senza che più nessuno avesse la forza di ricacciarli indietro come pure era accaduto altre volte, si allogarono nelle ex-province romane d’Occidente con la stessa tumultuosa malagrazia con cui un gruppo di famiglie vissute fino allora nelle borgate prenderebbe possesso di un palazzo signorile di età rinascimentale, frazionato in quartierini di civile (si fa per dire) abitazione. Con tumultuosa malagrazia; ma lasciando la facciata e la struttura di base dell’edificio così come le aveva trovate. Per queste ragioni, il fatidico 476, che segna il momento in cui anche l’ultima delle province occidentali, l’Italia, divenne la sede di un regno romano-germanico, sarebbe una data di scarso rilievo (l’ultimo quartierino ad essere occupato!), da non prendersi troppo sul serio, dal momento che il mondo antico, bene o male, ebbe, dopo di allora, altri due secoli di vita. Ben lungi dall’essere un «continuista», come lo era stato a suo tempo un Fustel de Coulanges, il Pirenne si limita infatti a sostituire una «catastrofe» ad un’altra come causa determinante del passaggio dall’antichità al medioevo, avvenuto comunque non pacificamente ma in forma traumatica, proprio come amano rappresentarselo coloro i quali pretendono che Roma antica non sia morta di morte naturale, ma sia stata proditoriamente assas-


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sinata dai barbari invasori. Solo che i responsabili, per il Pirenne, non furono i Germani, ma gli Arabo-musulmani, la cui straordinaria espansione politico-religiosa, fra secolo VII e VIII, avrebbe colpito al cuore l’Impero romano, ponendo indirettamente le premesse per la nascita del nuovo mondo medievale. Di qui l’immagine, riflessa nel titolo del suo libro postumo, secondo cui Maometto aprì la strada a Carlomagno. Alla base della tesi suesposta c’è un preciso presupposto di carattere geo-politico: mondo romano vuol dire, per il Pirenne, mondo mediterraneo; mondo medievale vuol dire Europa. Proprio in quanto, invadendo l’una dopo l’altra le province romane dell’Asia Minore, d’Egitto e dell’Africa settentrionale, e passando poi in Spagna, gli Arabo-musulmani introdussero un elemento culturalmente e religiosamente allotrio nei paesi che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo, rendendo questo mare pericoloso per la navigazione commerciale, così da farne un terreno di scontro fra civiltà diverse piuttosto che un tessuto connettivo com’era stato per i secoli addietro; proprio per questo il Pirenne attribuisce agli Arabo-musulmani quella palma di distruttori della romanità antica che la storiografia precedente attribuiva piuttosto ai Germani. Di tutta questa ingegnosa costruzione gli studi degli ultimi quarant’anni hanno demolito coscienziosamente il pilastro centrale: non è vero che il Mediterraneo dei secoli IV-VI fosse solcato dalle rotte di tante navi, come credeva ottimisticamente il Pirenne; non è vero che il Mediterraneo dei secoli fra il VII e l’XI (le Crociate!) fossero lo stagno morto, ospitale solo ai corsari saraceni, che il Pirenne ha delineato, per converso, con soverchio pessimismo. Ma se ci allontaniamo dalle sponde del Mediterraneo per guardare all’altro polo della costruzione geo-storica del Pirenne, cioè a dire all’Europa in via di diventare carolingia, il discorso muta radicalmente, perché, al confronto con il mare inter-


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no – non più mare nostrum – del sud, i mari interni, o quasi interni, settentrionali, denunciano il pulsare di una vita di scambi e di relazioni fra paesi rivieraschi, che così intensa non l’avevano mai conosciuta prima di allora. Durante il secolo VIII, la Manica ci appare infatti come l’arteria vitale attraverso cui le isole britanniche, destinate a restare escluse dal processo di unificazione territoriale che sarà portato a termine da Carlomagno all’inizio del secolo seguente, avviano verso il vicino continente uomini, merci, idee, in misura tale che, fatte le debite proporzioni, uno storico inglese ha potuto scrivere che la terraferma europea ha ricevuto d’oltre Manica un contributo altrettanto largo solo durante gli ultimi due secoli della storia moderna. Sulle stesse navi che trasportavano attraverso la Manica i monaci anglosassoni, avviati alle missioni in Germania (Frisia, Assia, Turingia), e che un giorno ormai non lontano avrebbero trasportato i dotti chierici chiamati da Carlomagno a collaborare alla sua opera di rilancio degli studi sul continente imbarbarito (la cosiddetta «rinascita carolingia»), viaggiavano anche, sempre più frequentemente, merci e mercanti – usi, questi ultimi, a quanto pare, a servirsi di quel sistema di computo duodecimale che Carlomagno porrà a fondamento della sua riforma monetaria –. Per Beda, che scrive intorno al 730, Londra era già «l’emporio delle genti più svariate che vi arrivavano sia per via di terra che via mare». Si ha, insomma, l’impressione di tutto un infittirsi ed intensificarsi di rapporti ai più diversi livelli, che fanno della Manica un mare sempre più interno, il Mediterraneo del nord, mentre il Mediterraneo propriamente detto – anche dopo tanto battere in breccia contro la «tesi Pirenne» – attraversava indubbiamente un periodo di crisi, quale che sia la parte da attribuire agli Arabi in tutto questo. In conclusione, alla fine di questa prima fase del processo plurisecolare che stiamo delineando, e che è anche il momento in cui si profila all’orizzonte la prima immagine


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dell’Europa, come area di diffusione di una civiltà con connotati propri e inconfutabili (cristianesimo romano-germanico, regime feudale etc.), dobbiamo registrare uno spostamento dei centri di irradiazione politica, culturale ed economica dal bacino del Mediterraneo verso la zona di terraferma europea compresa fra la Loira e la Mosa, più la Gran Bretagna, che non sarà però inclusa nell’impero franco di Carlomagno. Sulle basi sicure poste da Amalfi e da Venezia, la cui storia altomedievale è di per sé, implicitamente, una confutazione della «tesi Pirenne» nei suoi aspetti più radicali, la rinascita del Mediterraneo comincerà a delinearsi a partire dal secolo XI, coinvolgendo via via crociati, repubbliche marinare italiane, catalani, maiorchini, in una appassionata vicenda in cui le spinte di carattere religioso mal si distinguono dalla pressione demografica, dalla ricerca del tornaconto individuale, dal desiderio di avventure e di evasione verso terre lontane. Economicamente parlando, la civiltà del Rinascimento italiano (cui per altro diedero un contributo sotto certi aspetti decisivi i profughi da Costantinopoli caduta in mano dei Turchi, venuti in Occidente a restaurare il bilinguismo greco-latino che aveva caratterizzato l’antica civiltà mediterranea), è il frutto di questa ripresa del Mediterraneo dopo la lunga notte altomedievale. Sempre con riferimento al Pirenne, si noti di passaggio che la ripresa era avvenuta senza la restaurazione dell’unità culturale e religiosa (per non parlare di quella politica), infranta per sempre dagli Arabo-musulmani fra secolo VII e VIII. E se la Spagna, sul finire del sec. XV, era tornata ad esser tutta cristiana, a metà dello stesso secolo era crollato – come s’è detto – l’ultimo baluardo della cristianità bizantina, mentre dagli stati latino-cristiani di Siria sorti in seguito al successo della prima crociata, non restava nemmeno più il ricordo. A mettere nuovamente in crisi il Mediterraneo non saranno questa volta le conquiste di nuovi invasori venuti


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da chissà dove ad accamparsi sulle sue rive, ma le «scoperte geografiche», le quali, da un lato, indicarono nuove vie, molto più agevoli e dirette di quelle usate in passato, per raggiungere i porti dell’Estremo Oriente, e, dall’altro, fecero dell’Atlantico, mutatis mutandis, una specie di mare interno del mondo moderno. Le alterne vicende, nella seconda metà del secolo VI, del commercio mediterraneo del pepe, praticamente monopolizzato dai Veneziani, che compravano questo prodotto in Egitto o in Siria dove lo trasportavano le carovane provenienti dal Mar Rosso o dal Golfo Persico, in concorrenza con il pepe che i Portoghesi ormai importavano direttamente dall’Oriente, facendogli fare il periplo del Capo di Buona Speranza, sono il simbolo più eloquente di questo nuovo capitolo di storia mediterranea, che ha tutta la pateticità di una battaglia difensiva perduta in partenza, contro avversari che avevano dalla loro la storia e la geografia. Fernand Braudel, che lo ha narrato in un libro meritatamente famoso (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II), ha però dimostrato, documenti alla mano, che le ripercussioni della scoperta delle nuove rotte oceaniche si sono fatte sentire molto più tardi di quello che si pensava una volta, che soprattutto Venezia ha retto alla prova molto meglio di quanto non fosse stato ritenuto dalla storiografia precedente. Certo, la Serenissima non riuscì a realizzare il progetto, che pure fu allora vagheggiato, di aprire un canale dal Mediterraneo al Mar Rosso, che avrebbe annullato di colpo il vantaggio dei Portoghesi, rendendo antieconomica la circumnavigazione dell’Africa, su cui andavano costruendo le loro fortune… Solo per gioco siamo tentati di domandarci cosa sarebbe successo se i Veneziani, invece, fossero riusciti a scavare il progettato canale. La storia, lo sappiamo bene, non si fa con i se. La decadenza italiana non si spiega solo in termini di geostoria; gli stessi Portoghesi non sarebbero durati a


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lungo sul proscenio; saranno gli Olandesi e gli Inglesi a restare padroni del campo, e la geografia non fu che in piccola parte alle origini delle loro superbe affermazioni di là dei mari. A metà del secolo XIX, quando il progetto di tagliare l’istmo di Suez apparirà tecnicamente realizzabile, a battersi contro di esso troviamo in prima linea gli Inglesi, che paventavano la minaccia che, in particolare, la Francia avrebbe potuto far gravare sulle loro comunicazioni con le Indie. Sempre secondo gli Inglesi, la ferrovia AlessandriaCairo-Suez avrebbe risolto ottimamente il problema del collegamento fra Mediterraneo e Mar Rosso: era, press’a poco, la via carovaniera che metteva capo ai porti egiziani frequentati un tempo dai mercanti veneziani. Nonostante l’opposizione inglese, il canale di Suez fu aperto – com’è noto – nel 1869. La coincidenza fra la sua recente riapertura e il definitivo sì dell’Inghilterra all’Europa induce a credere che siano mutati i termini di una storia millenaria. Ormai parte integrante dell’Europa «carolingia», l’Inghilterra non ha più posizioni da tutelare sulla strada delle Indie ed è pronta a rallegrarsi, con gli altri partner della Comunità, se, evitando di fargli fare il periplo del Capo di Buona Speranza, il greggio del Golfo Persico verrà davvero a costare qualcosa di meno. L’Europa/Idee e costume, 14-28 novembre 1975 La leggenda “progressista” dell’«oscuro Mille»* Il recente Convegno interdisciplinare di Parigi su I terrori dell’anno 2000 (terrori dei futurologi) cercava il suo

* Si veda, in questo volume, Il Giornale, Il passato per il futuro, 31 ottobre 1975.


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fondamentale parallelismo storico nei pretesi terrori apocalittici dell’anno 1000. Demitizzare, sul piano dell’indagine storica, questo terrore del Mille, ingigantito, per contrasto dialettico, da una ottocentesca prospettiva progressista, è stata dunque una corretta operazione di base; ed essa è stata portata a buon fine dalla dotta e documentata relazione del prof. Pierre Riché, sulla quale io stesso, chiamato come contro-relatore, non ho potuto che convenire in linea di massima, avanzando solo qualche punto di contorno e di precisazione, e privilegiando qualche aspetto italiano della tesi. Innanzitutto ho tenuto a precisare che già da molto tempo, nel campo degli studi storici, il terrorismo millenarista non è più materia del contendere. Da tempo nessuno ha preso più sul serio la leggenda dell’Anno Mille. Il fatto che il problema dei terrori dell’Anno Mille sia oggi all’ordine del giorno di un così elevato convegno costituisce però una bella prova della vitalità postuma di questa leggenda. Evidentemente, essa risponde a un’esigenza profonda. Per ciò che concerne le generazioni che l’hanno inventata ed accolta, la leggenda dell’Anno Mille riflette, in fondo, un grande senso di insicurezza sui destini dell’umanità. La rappresentazione ottocentesca delle folle atterrite che si riversavano nelle chiese cantando il «Miserere» e il «De profundis» ha come premessa la convinzione che l’umanità, lasciatisi questi orrori alle spalle, abbia ormai davanti a sé la via obbligata di un progresso senza fine. Nell’età in cui si credeva, o si fingeva di credere, ai terrori dell’Anno Mille, nessuno ha pensato di organizzare un congresso sui «terrori dell’Anno Millenovecento». Il solo «millenarismo» che abbia prodotto il secolo XIX è di tipo scientifico e prospetta l’ipotesi di una catastrofe finale (la rivoluzione), che è, ad un tempo, il portato delle contraddizioni oggettive della società borghese e il frutto dell’azione cosciente di un gruppo di uomini, rivoluzionari di professione, capaci di interpretare il senso della storia. Mi riferisco, naturalmente, al


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marxismo. Il fatto che oggi si parli di terrori dell’Anno 2000, ponendo nel futuro la scadenza che gli inventori ottocenteschi della leggenda dei terrori dell’Anno Mille avevano posta nel passato, è un inizio della crisi delle grandi ideologie «progressiste» del secolo XIX. Secondo punto. La leggenda ottocentesca dei terrori dell’Anno Mille è una leggenda laica, se non anticlericale (lo osserva anche Riché). Per l’Italia potrei fare il nome, che parla da sé, di Giosuè Carducci. È significativo che essa non sia sorta nell’età dell’illuminismo, ma in un’età che vide la restaurazione dei valori cristiani e, parallelamente, la riscoperta del medio evo. Del resto, anche storici e scrittori cristiani fecero propria la leggenda dell’Anno Mille (cito ancora Riché). Questo è potuto accadere perché il cattolicesimo del secolo XIX aveva quasi completamente perduta la dimensione escatologica. L’attesa della fine del mondo e del giudizio finale è un elemento primitivo ed anche medievale. Il «millenarismo» nasce dal tentativo di stabilire, con l’appoggio dei testi sacri (in particolare dell’«Apocalisse» pseudo-giovannea), il timing di questi eventi insieme temuti e sperati. Solo in un ambiente che aveva perso di vista l’essenzialità di questa dimensione poteva diffondersi una leggenda che tendeva a ridurla a un episodio cronologicamente circoscritto. Per i credenti che erano abituati a concentrare la loro attenzione sulla morte individuale e il giudizio che faceva ad essa seguito, trascurando completamente la prospettiva del giudizio universale e, perciò, della fine del mondo, il mito dei terrori dell’Anno Mille aveva il fascino dell’esotico. Un discorso analogo vale anche per il rapporto fra la nascita di questa leggenda e la concezione che si aveva allora del medio evo. Per la generazione romantica il medio evo era l’età delle forze primigenie, dei barbari usciti dai boschi per ringiovanire il mondo, della poesia che nasceva per le strade contro la sterilità della tradizione. È ovvio che, partendo da questa visione del medio evo, le riflessioni che


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si trovano di continuo nei testi altomedievali sul saeculum senescens dovessero produrre a concentrare quest’aspetto spiacevole del medio evo in un solo momento, dopo di che si sarebbe tirato un grande respiro di sollievo e tutti si sarebbero sentiti finalmente pervasi da energie giovanili. Negli anni intorno al Mille (996-1002), l’impero d’occidente era nelle mani di un giovinetto: Ottone III. Il suo programma innovatore di un governo universale, ad un tempo spirituale e temporale, sintetizzato nella formula «Renovatio imperii Romanorum», assomiglia molto da vicino all’idea falsa e semplicistica, che si aveva una volta dell’intero medioevo: papato e impero; romanità e germanesimo stretti in una sintesi feconda; il governo di questa terra che in base a un ideale affermatosi per la prima volta con Costantino il Grande, tendeva a modellarsi sul governo di Dio nell’alto dei cieli. Prima e dopo Ottone III, nessun altro momento del medioevo sembrerà così prossimo alla realizzazione degli ideali della «teologia imperiale», che avevano un chiaro sottinteso anti-millenaristico. E difatti nella storia del millenarismo la conversione di Costantino ha rappresentato un momento di gravissima crisi e di arretramento di questa dottrina, che aveva invece sostenuto le masse cristiane durante le persecuzioni. Sembra un paradosso che proprio il regno pieno di speranza di Ottone III, nuovo Costantino e – insieme – nuovo Carlomagno, sia stato scelto per localizzarvi cronologicamente la leggenda dei terrori dell’Anno Mille. A meno che (ma nessuno ha pensato di farlo) non si procedesse preliminarmente a bollare Ottone III come pseudo-profeta e Anticristo. La storia non si fa con i se, ma se veramente l’Anno Mille avesse visto il condensarsi del terrore-speranza della fine del mondo, noi dovremmo trovare delle testimonianze sull’identificazione dell’imperatore con l’Anticristo. È vero invece che tutti i grandi intellettuali del tempo, chierici o monaci, erano schierati al suo fianco e collaborarono al suo programma di rinnovamento universale.


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È ovvio che il regno di Ottone III non è stato scelto a caso, ma perché durante di esso cadeva un anno particolarmente indiziato per la fine del mondo: il millesimo dall’inizio dell’era cristiana. «Mille» erano gli anni durante i quali, secondo l’Apocalisse, Satana sarebbe rimasto incatenato. Ma contro la possibilità che i nostri antenati del secolo X concentrassero intorno all’Anno Mille le loro paure parla anche il tipo di datazione usato nei documenti. Durante gran parte dell’alto medioevo, mentre circolavano largamente le dottrine escatologiche e si moltiplicavano i calcoli suggeriti da un’interpretazione letterale dell’Apocalisse, si continuò ad usare un tipo di datazione venuta in uso agli inizi del secolo IV, mediante il quale si indicava l’anno in corso precisando la posizione che esso aveva (prima, seconda, terza…) all’interno di un ciclo sempre ricorrente di quindici anni (l’«indizione») – ciclo che, come sembra, doveva la sua origine al fatto che, in Egitto, a partire da Augusto, la revisione dell’imponibile per l’imposta fondiaria aveva luogo, appunto, ogni quindici anni. L’Anno Mille, secondo questo sistema di scansione del tempo, corrisponde alla tredicesima indizione. E come si potrebbe pensare ai terrori della tredicesima indizione? (Questo tipo di datazione rispecchia una concezione «ciclica», non «lineare» del tempo, modellata più sull’alternanza delle stagioni e del giorno e della notte che sulla visione del mondo giudaico-cristiana, per la quale lo scorrere del tempo ha un preciso significato). Sorprendente è il ritardo con cui venne adottato per la datazione dei documenti il criterio di numerazione degli anni che noi usiamo tutt’ora, e che ha come fondamento la nascita di Cristo: inventato dal monaco Dionigi il Piccolo (era nativo della Scozia) nel secolo VI, si diffuse nel secolo IX, ma fu applicato sistematicamente nei documenti ufficiali della chiesa romana solo nel secolo XI. Fino al 781, i papi datarono i loro documenti secondo l’anno di regno dell’imperatore di Costantinopoli e l’indizione. L’«era di Diocleziano» o «dei martiri», che aveva inizio col


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284 (l’anno di ascesa al trono di questo imperatore, grande persecutore di cristiani) fu invece usata prevalentemente per il computo della Pasqua. D’altra parte, anche a prescindere dal problema dei sistemi di datazione, era il modo stesso di concepire le cifre che rende improbabile che si desse all’espressione «mille anni» il valore che noi oggi tendiamo ad attribuirgli. «Mille anni» erano come le «mille leghe» delle fiabe trasformate in indicazione di uno spazio enorme da percorrere nell’indicazione di un tempo molto lungo da vivere. Basta avere un po’ di pratica dei cronisti medievali per sapere che valore dare alle loro cifre, che non hanno nessun rapporto con la realtà, ma sono semplici esclamazioni. Mille morti in una battaglia sono solo molti morti; e così per i prezzi durante le carestie, per le indicazioni di carattere demografico etc. Ne sanno qualcosa gli storici dell’economia medievale e gli storici militari. Solo con i mercanti-cronisti fiorentini del sec. XIV le cifre cominciano a dire qualcosa nel senso che noi ci attendiamo. È un argomento in più contro la possibilità stessa di un fatto precisamente datato e computato come i presunti terrori dell’Anno Mille. Secolo X non più oscuro Fino a questo punto ci siamo mossi sul piano delle rappresentazioni soggettive, della mentalità, non importa se collettiva od individuale, il piano che, d’altra parte, si impone in un discorso come il nostro. Ma Riché, non contento di avere dimostrato, i testi alla mano, che non risulta che i nostri antenati del secolo X abbiano nutrito i terrori che la leggenda attribuiva loro, passa anche ad analizzare le condizioni oggettive dei tempi. Ora, si dà che l’Anno Mille chiuda un secolo, a proposito del quale le opinioni sono in gran parte mutate negli ultimi decenni. Il secolo X era, fino a qualche tempo fa, il «secolo oscuro», di un medioevo non più oscuro. In altre parole, le condizioni di insicurezza, di


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sottosviluppo, di abbrutimento, di anarchia, che – secondo la concezione del medioevo che potremmo chiamare «illuministica» o, se si preferisce, «pre-romantica» – caratterizzavano nel loro complesso i dieci secoli che stanno in mezzo fra la Decadenza dell’impero romano e il Rinascimento della civiltà antica, fino a qualche tempo fa venivano attribuite al secolo X – il secolo che vide l’ultima ondata di invasioni che si sia abbattuta sull’Europa, la degradazione del papato, una crisi senza precedenti dell’autorità dei pubblici poteri in tutti i regni che avevano preso il posto dell’impero di Carlomagno. In sostanza, anche da parte di chi negava, perché costrettovi dall’evidenza delle cose, i terrori dell’Anno Mille, c’era una certa propensione a considerare il secolo che si chiudeva con tale anno, come particolarmente negativo sotto tutti gli aspetti e, quindi, in ultima analisi, come destinato a nutrire la leggenda ottocentesca con i colori della storia realmente accaduta. Giustamente Riché insiste sulla riabilitazione in corso da decenni del secolo X, che è culminata nella proposta alquanto paradossale di introdurre nella nomenclatura storica la nozione di «rinascita del secolo X». Alla base di questa concezione, c’è la tesi (che è ormai accettata da tutti), secondo cui la ripresa demografica non è cominciata col secolo XI, ma col precedente; e, accanto alla ripresa demografica, viene segnata come punto all’attivo di questo secolo fino a ieri oscurato anche l’adozione di alcune tecniche agricole che hanno trasformato la cultura materiale dell’Europa occidentale. Senza negare importanza a queste acquisizioni della scienza storica contemporanea, credo però che tutti questi innegabili progressi, che noi registriamo valendoci del senno di poi, non contribuiscono affatto a togliere al secolo X i caratteri di età aspra e difficile, che la tradizione gli ha da sempre assegnato. Crescita demografica vuol dire per l’intanto più bocche da sfamare. Modifica dell’habitat rurale in connessione con il fenomeno dell’incastellamento vuol dire


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traumi senza fine per le popolazioni costrette a mutare da un giorno all’altro la loro maniera di vivere. Le età di trasformazione non sono mai per i contemporanei età felici. Il mito dell’Anno Mille si può sfatare lo stesso senza immaginare il secolo X come più benigno di quanto non sia stato con coloro i quali si sono trovati a viverlo. L’età dello Spirito Santo Ma il medioevo ha avuto anche il suo «Anno Mille in formato ridotto». L’ha avuto nel 1260. Anche il numero milleduecentosessanta ricorre nell’Apocalisse, al capitolo XII: «Un grande segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi e in testa una corona di dodici stelle. È incinta e urla di dolore per il parto… Partorì un figlio maschio, che è destinato a reggere tutte le genti con un bastone di ferro. Il fanciullo fu rapito e portato vicino al trono di Dio. Allora la donna fuggì nel deserto, dove trovò un rifugio che Dio aveva preparato per lei: lì sarebbe stata nutrita per milleduecentosessanta giorni». Nella tradizione esegetica medievale la mulier amicta sole era intesa concordemente come la Chiesa. Il passo citato esercitò nel basso medioevo una grande suggestione non tanto – come ha dimostrato il Manselli – su Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese del secolo XII, quanto sui suoi seguaci francescani del secolo successivo, i quali attendevano il promesso inizio di una terza età – l’età dello Spirito Santo –, che sarebbe necessariamente venuta dopo quelle del Padre e del Figlio, secondo la concezione trinitaria tipica di Gioacchino. Ora, poiché l’età del Figlio doveva durare come quella del Padre, quarantadue generazioni, e ogni generazione era ritenuta durare trenta anni, quanti erano gli anni di Gesù quando cominciò la sua predisposizione, ne usciva confermato il numero 1260, attestato dall’Apocalisse. La nuova età avrebbe segnato la fine della Chiesa gerarchica, il


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cui posto sarebbe stato preso dagli ordini regolari, in particolare dagli ordini mendicanti, che erano la grande novità del secolo XIII. Si vede perciò come l’attesa del grande mutamento del 1260 interessasse in particolare alcuni gruppi, che vedevano confermata da questa predilezione la loro funzione provvidenziale. In quanto nemico giurato della Chiesa gerarchica, l’imperatore Federico II venne a un certo punto implicato nell’attesa dei frati, nelle vesti dell’Anticristo, la cui apparizione era anche prevista dal copione. Scrive il cronista francescano Salimbene da Parma, che aveva condiviso quel clima di attesa: «Dopo che morì Federico II e passò l’anno 1260, ho abbandonato del tutto questa dottrina e ho deciso di non credere se non a quello che avrò visto con i miei occhi». Spesso a torto citata come annuncio dello spirito critico dei tempi nuovi, la frase di Salimbene registra solo la delusione di quanti avevano creduto, o finto di credere, nel rivolgimento dell’anno 1260. Ciò che è interessante notare è che, in questo caso, l’attesa millenaria era configurata in modo da segnare l’affermazione nella storia, in vista della fine dei tempi, di un gruppo sociale determinato. I terrori dell’Anno Mille si riducono a un’accreditata leggenda ottocentesca. Come mai non si è pensato invece alla «grande paura» del 1789, studiata in un libro famoso da Georges Lefebvre? È in quest’episodio che la «paura» si è rivelata più che mai una forza storica di prima grandezza, contribuendo in modo decisivo alla dissoluzione dell’ancien régime. Il Lefebvre ha avuto infatti il merito di dimostrare che non si è trattato di una «grande paura» organizzata con metodi cospirativi o dagli aristocratici minacciati nei loro privilegi dalla rivoluzione incalzante, o dai rivoluzionari che cercavano di tirare dalla loro parte i contadini, come volevano le due tesi storiografiche tradizionali, opposte ma parallele; bensì dal timore dei «briganti» che si sparse nelle campagne francesi nell’estate del 1789, alla fine di luglio, nell’intervallo fra la presa della


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Bastiglia e la notte del 5 agosto. E, a sua volta, il timore dei briganti aveva le sue radici nelle condizioni economiche e sociali in cui si trovava la Francia del 1789. È difficile – e, in fondo, consolante – pensare che le dotte e sofisticate «paure dell’anno 2000» sulle quali ci intratterranno i relatori di questo convegno possano avere, nei confronti della nostra società, la forza dirompente che ebbe, nel 1789, la paura dei briganti nelle campagne francesi. Il Giornale, 15 gennaio 1976 Europa Medievale R. Folz, A. Guillou, L. Musset, D. Sourdel Origine e formazione dell’Europa medievale Laterza (pagine 804, lire 13mila) Nei secoli XI-XV, sul sostrato comune (linguistico, religioso, culturali) della cristianità occidentale, si formarono gli stati nazionali (Francia, Inghilterra, Spagna ecc.), nonché le nazioni senza stato come l’italiana e la germanica, che avrebbero costituito l’Europa moderna della cultura rinascimentale, dell’espansione coloniale e dello sviluppo capitalistico. In un classico della storiografia illuministica, la Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon, che si conclude con la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani (1453), i quattro secoli centrali del medioevo, più che porre le premesse del predominio dell’Europa occidentale sul resto del mondo, risultavano essere la fase conclusiva del processo di disgregazione dell’impero mediterraneo di Roma, che aveva avuto inizio nel secolo III d.C. Il radicale mutamento di impostazione storiografica, per cui dalla visione del Gibbon si è passati a quella esposta più sopra, fu frutto della rivalutazione che le prime generazioni romantiche compirono del medioevo come culla delle origini nazionali dei moderni stati europei.


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Dopo di allora la «polemica sul medioevo» è passata attraverso molte altre fasi, ma, nonostante la riscoperta in corso da tempo della storiografia settecentesca, nessuno oggi si sognerebbe di difendere un periodizzamento come quello proposto dal Gibbon, con il giudizio di valore che esso sottintende. Eppure, l’esigenza di fondo che stava alla base di quel modo di vedere le cose, risorge di continuo e non può essere elusa, in particolare per ciò che concerne il medioevo cosiddetto barbarico. Una storia , infatti, dei secoli alto-medievali tutta imperniata sulle vicende delle sole province nord-occidentali dell’impero romano, a partire dal momento in cui cessarono di far parte di questo per dare vita, ai regni romano-germanici, per ritrovarsi poi tutte riunite sotto lo scettro imperiale di Carlomagno (ad eccezione della Spagna e della Britannia), e per separarsi di nuovo, questa volta per sempre, nella seconda metà del secolo IX, mancherebbe di spiegare come dalla situazione del IV-V secolo, quando tali province costituivano l’anello più periferico e più debole del sistema imperiale romano, si sia potuti arrivare a quella del XV, quando gli stati più dotati di spirito d’avventura e d’iniziativa saranno proprio quelli sorti al posto delle province nord-occidentali dell’impero. Facile ad enunciarsi, tale esigenza si presenta di difficilissima attuazione pratica, poiché una storia che ripercorra la formazione dell’Europa medievale senza isolarla dal suo originario contesto «mediterraneo» è una storia che deve fare i conti con Bisanzio e, a partire da un certo punto in avanti, con l’Islam, due realtà che, per diversi motivi, appaiono renitenti a farsi cogliere di scorcio come vorrebbe il programma. C’è anzitutto un problema di competenze anche linguistiche, dal momento che è difficile chiedere a chi già stenta a dominare uno spazio che abbraccia le isole inglesi e Venezia, di arrischiarsi nei Balcani slavo-bizantini o nell’Egitto dei califfati fatimidi.


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Ma c’è anche, e più, la difficoltà di non perdere il filo del discorso, di non andare a finire, di là delle frontiere dell’impero bizantino, nella Persia dei Sassanidi, oppure in India, sull’onda dell’espansione islamica nel Panjab. Non ci sentiremmo di dire che il volume sull’Origine e formazione dell’Europa medievale, che vede ora la luce anche in traduzione italiana, risponda pienamente all’esigenza che abbiamo delineata, scansando le insidie che rendono ardua l’impresa. Ma la formula adottata, che consiste nell’utilizzazione di quattro diverse competenze, coordinate però da una specie di redattore capo, che è Robert Folz, incaricato anche della stesura dei capitoli dell’occidente, si è rivelata buona alla prova dei fatti, cosicché il libro offre in complesso una trattazione della storia dei secoli altomedievali (V-IX) abbastanza unitaria e, ad un tempo, aperta sui più ampi orizzonti ch’erano stati propri della storiografia illuministica. Il Giornale, 19 febbraio 1976 A duecento anni dalla pubblicazione della «Storia» di Gibbon Diecimila navi contro i barbari Con i tempi che corrono ci vuole un certo coraggio a soffermarsi a commemorare il quindicesimo centenario della caduta dell’impero romano d’Occidente. Lo sta facendo, a Roma, l’Istituto di Studi Romani, nella forma discreta di un ciclo di conferenze tenute innanzi a un pubblico cui l’ancestrale scetticismo ha attutito la facoltà dell’immaginazione. Ma un centenario tira l’altro e, sempre nell’ambito di questa iniziativa, lo storico dell’antichità Arnaldo Momigliano è venuto da Londra a parlare di Edward Gibbon: il primo volume della Storia della decadenza dell’impero romano è apparso giusto duecento anni fa.


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Lo scandalo Momigliano, che conosce meglio di chiunque altro la storiografia moderna sul mondo antico, ha illustrato la genesi dell’opera del Gibbon, sottolineando la sorprendente novità della sua impostazione e spiegato anche le ragioni della scarsa fortuna che per lungo tempo quest’opera fortunatissima ha incontrato in Italia. L’«History» del Gibbon trovò, appena uscita, un serrato confutatore di parte cattolica in Nicola Spedalieri, un estroso siciliano di Bronte, protetto da papa Pio VI, noto soprattutto per un altro suo scritto non si sa bene se pro o contro i «diritti dell’uomo», che in ogni modo gli valse l’erezione di un monumento nella Roma anticlericale del 1903. Raccontano le cronache che, una volta pronto, esso non fu mai inaugurato, ma scoperto alla chetichella, di notte. Forse nel frattempo le autorità capitoline si erano date la pena di leggere l’opera dello Spedalieri. «Poiché la felicità di una vita futura è il grande oggetto della religione, possiamo sentire senza sorpresa, o scandalo, che l’introduzione, o almeno l’abuso, del cristianesimo esercitò un certo influsso sulla decadenza e caduta dell’impero romano». Benché, con la tipica propensione degli storici illuministi per i giudizi bilanciati, il Gibbon fosse subito pronto a concedere che al cristianesimo andava riconosciuto il gran merito di aver addolcito l’impatto con i barbari invasori, non per questo si attenuava lo scandalo provocato nelle anime pie dalla proposizione principale. Ma se oggi non si dà una storia plausibile dell’impero romano che prescinda dalla storia del cristianesimo e della Chiesa primitivi, lo spunto inziale di questi fertilissimi accostamento e allargamento di orizzonti va ricercato nella lontana provocazione del Gibbon. Anche negli anni in cui egli lavorava alla «Storia» non mancavano i motivi di ansietà per il futuro, in particolare per


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un suddito di S.M. britannica. Crescita minacciosa della Prussia, insurrezione delle tredici colonie americane, sinistri brontolii premonitori nella vicina Francia: c’era quanto bastava per essere indotti a fare i debito scongiuri al solo sentir parlare di «decadenza e caduta dell’impero romano». E difatti, giunto alla fine del capitolo trentottesimo, che si conclude con la conquista della Britannia da parte dei Sassoni fra quinto e sesto secolo d.C., il Gibbon sentì il bisogno di interrompere la narrazione per rassicurare i propri lettori. Rassicurante La digressione si intitola Osservazioni generali sulla caduta dell’impero romano. Il Gibbon comincia col dire che, se un buon cittadino era tenuto a pensare anzitutto al proprio Paese, il «filosofo» poteva guardare le cose più dall’alto e considerare l’Europa «come una grande repubblica». In tal modo, di là degli inevitabili alti e bassi che scandivano la vita dei singoli Stati, era dato di constatare che «questi avvenimenti particolari non possono sostanzialmente danneggiare il nostro benessere generale, il sistema delle arti, delle leggi e dei costumi, che distinguono così vantaggiosamente gli Europei e le loro colonie dal resto dell’umanità». A differenza di ciò che era accaduto al momento della decadenza di Roma antica, quando da tutti i punti cardinali le si erano rizzati contro nemici di cui non sospettava nemmeno l’esistenza, adesso non c’era più da temere sorprese del genere. Se però qualche popolo oscuro, appena visibile sulla carta geografica, si fosse fatto avanti all’improvviso, i numerosi Stati sovrani in cui era articolata l’Europa contemporanea avrebbero avuto molta più capacità di resistenza dell’impero romano che teneva insieme, riunite controvoglia, popolazioni soggiogate che anelavano all’indipendenza ed erano disposte per questo a darsi anche ai barbari. Se poi dei selvaggi conquistatori spuntati fuori dai deserti della Tartaria


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fossero riusciti ad avere la meglio sui «robusti contadini della Russia», sui «numerosi eserciti della Germania», sui «valorosi nobili della Francia» e sugli «intrepidi uomini liberi dell’Inghilterra», sarebbero bastate diecimila navi a trasportare «i resti della società civile fuori dal loro potere e l’Europa risorgerebbe a fiorire nell’America». Tranquillizzati i lettori con la prospettiva a suo modo rassicurante di questa specie di Dunkerque transatlantica, il Gibbon era pronto a riprendere il filo della sua «Storia». Il Giornale, 4 maggio 1976 Il matrimonio religioso nei primi secoli della cristianità Tutto più facile nel Medioevo Spoleto assiste ogni anno alla ripetizione di due miracoli: in giugno, un «festival» rispettoso dei valori della professionalità nel campo dello spettacolo e, in genere, delle arti; la settimana dopo Pasqua, un congresso di studi altomedievali in cui si dibattono ardui problemi di storia passata, in una fertile e stimolante varietà di lingue, metodi, discipline, inevitabile dal momento che in questa sede non ci si propone di proclamare una Verità ma di cercare con pazienza e fatica delle verità soltanto provvisorie e parziali. Per questo, vogliamo credere, i giovani accorrono numerosi alle «settimane di studio» come ad appuntamenti cui non si può mancare, ben lieti di abbandonare per una settimana gli istituti universitari che quel cibo non sono di solito più in grado di offrire. Sorprende solo che in un progetto di legge in discussione al Parlamento il «Centro italiano di studi sull’alto medioevo» risulti qualificato come un ente inutile. Sorprenderebbe meno che, un giorno o l’altro, la regione umbra si adoperasse per far aprire festival e Centro di studi a quelle che oggi vengono eufemisticamente chiamate le «esigenze del territorio». Che sarebbe, comunque, per entrambe le iniziative un passare ad altra vita.


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Qualcuno potrebbe osservare che non è un gran merito conservare un tono di rigore e di distacco scientifico dal clima di rissa ideologica, oggi imperante, a congressi che affrontano temi remoti dall’attualità come quelli attinenti ai secoli altomedievali. Ma è un’impressione errata da non addetti ai lavori. A voler essere faziosi, ci si può riuscire anche parlando di palafitticoli o di Sparta arcaica. Con il vantaggio che, essendo molto più scarsi i documenti, l’applicazione degli schemi ideologici riesce anche più agevole. Si danno poi degli anni in cui l’aggancio all’attualità è nell’argomento stesso del convegno. Nel 1978 si parlerà finalmente degli «Ebrei nell’alto medioevo», un tema che era da tempo in cantiere, ma che per una prudenza forse eccessiva (non siamo dopotutto nel 1938) era stato finora accantonato; quest’anno, dal 22 al 28 aprile, si è parlato di «Matrimonio nella società altomedievale», anch’esso a suo modo un tema scottante, almeno qui da noi in Italia, per via delle ferite, in alcuni non ancora cicatrizzate, del referendum di due anni fa. Ma non solo per via di questo: una relazione verteva, per esempio, sul «Matrimonio dei chierici», che è materia controversa nella Chiesa di oggi, come lo fu in quella del secolo XI, dopo essere stata per secoli una realtà pacificamente accettata, regolata dalle stesse norme che regolavano le unioni dei laici. Mai però che né in questo caso né in altri i relatori si siano lasciati andare ad accostamenti troppo facili e, al limite, di cattivo gusto. Eppure, e qui sta il paradosso che dovrebbe far meditare, le comunicazioni che abbiamo ascoltato a Spoleto ci sono apparse su molti punti straordinariamente eloquenti. La tensione fra matrimonio religioso e matrimonio civile è abbastanza recente. Nei primi cinque secoli della sua storia, trascorsi sotto l’impero romano, prima da perseguitata poi da privilegiata, la Chiesa ha lasciato che i suoi fedeli si sposassero come tutti gli altri cittadini, nella forma che faceva nascere il vincolo dal consenso espresso dai due coniugi.


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Neppure durante i dieci secoli del medioevo europeo e «cristiano», quando si trovò nella condizione più favorevole per dare un’impronta alla stato e alla società, la Chiesa provvide a configurare un proprio matrimonio, officiato da suoi propri ministri. L’intervento del sacerdote consisteva nell’impartire una benedizione agli sposi, non necessaria alla costituzione del vincolo, tanto è vero che veniva impartita solo se gli interessati si trovavano in condizione di perfezione cristiana rigorosamente stabile. Soltanto nel 1563, con il decreto «Tametsi», fu resa necessaria la presenza del sacerdote, ma nelle vesti di semplice testimone, al fine soprattutto di combattere la piaga dei matrimoni clandestini. Ben diversa, invece, la situazione della Chiesa d’Oriente, dove, a partire dall’inizio del secolo X, l’intervento attivo ed obbligatorio del sacerdote sostituì il consenso degli sposi come causa generatrice del vincolo. Ma, a differenza della Chiesa orientale, che i matrimoni, oltre che a celebrarli, era tenuta anche a scioglierli, la Chiesa romana restò del tutto libera di proporre con intransigenza ai fedeli il proprio modello di matrimonio indissolubile, inteso prevalentemente, alla monastica, come «rimedio della concupiscenza», ma anche, soprattutto in età carolingia e poi, di nuovo, a partire dal secolo XII, come occasione dell’esercizio di virtù positive come la fedeltà e la temperanza. Accanto alla lotta per l’indissolubilità, la Chiesa altomedievale ne combatté un’altra, ancora più aspra e difficile, contro le unioni che essa definiva «incestuose», andando contro i convincimenti e gli interessi di chi vedeva nei matrimoni fra consanguinei un modo per evitare la dispersione dei patrimoni familiari. Dalla «settimana» di Spoleto è emerso con chiarezza che l’alternativa in cui si dibatté il medioevo non fu quella, che noi ben conosciamo, fra matrimonio religioso e matrimonio civile, bensì quella fra un matrimonio generato in un attimo dal consenso degli interessati e un matrimonio inteso come momento decisivo


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della politica di un clan familiare, per cui il fidanzamento e le trattative e patti che lo accompagnavano erano molto più importanti che il sì pronunciato dagli sposi. Il Giornale/Libri, 23 maggio 1976 Opere illuminanti sul passato di due grandi centri di civiltà Scienza a Bologna, a Napoli miracoli Alfred Hessel Storia della città di Bologna dal 1116 al 1282 Edizioni Alfa, Bologna A sessantacinque anni dalla pubblicazione dell’edizione originale tedesca, un’indovinata iniziativa ripropone in traduzione italiana un’altra di quelle «storie di città» nelle quali storici ed eruditi oltremontani trasfusero fra Ottocento e Novecento l’interesse e, in qualche caso, l’amore esclusivo che nutrivano per il nostro paese. Eredi spirituali dei grandi viaggiatori dei secoli XVIII e XIX, questi instancabili esploratori di archivi e biblioteche italiane erano maestri nel raggelare la loro iniziale ispirazione romantica nell’ossequio prestato senza riserve ai dettami del metodo storico positivistico ormai imperante. Per apparire scienziati, correvano il rischio di riuscire illeggibili. Ma il nostro debito di riconoscenza nei loro riguardi è immenso. Gli scarni rinvii alle fonti che si addensano nelle note di questa Storia della città di Bologna, attestano, solo che si sappia leggere al di là delle sigle e delle abbreviazioni, una quantità di lavoro che dà le vertigini, tanto più se si pensa che chi l’ha compiuto ha lasciato per lungo tempo patria, casa, affetti, interessi, per venire a stare da noi, alla ricerca di un passato che sentiva come anche suo. Era l’Europa dei topi di archivio e di biblioteca, che neppure le due guerre mondiali sono riuscite a disintegrare. Le opere nate da quella fatica disinteressa-


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ta sono, oggi, beni culturali da tutelare al pari dei fondi d archivio in base ai quali esse furono costruite. Durante questi centosessant’anni Bologna crebbe quasi al ritmo di Firenze, passando attraverso una serie di rivolgimenti politico-sociali che anticipano, in qualche caso, i fiorentini. Sede di una scuola di diritto universalmente famosa, Bologna fu allora, accanto e prima di Parigi, uno dei poli della nuova cultura del tempo, quella che aveva la sua sede istituzionale negli Studi Universitari. Ma allo storico tedesco Bologna interessava soprattutto come antagonista coraggiosa e, alla fine, vincente dei due grandi Federici e, a un livello più modesto, delle città romagnole, il cui assoggettamento coincise con il definitivo consolidamento, all’interno del comune popolare (1256). Poi, per l’insorgere delle contese civili, la rapida decadenza che, nello spazio di una generazione, condusse Bologna e la Romagna, ad un tempo, nelle braccia di Santa madre Chiesa. Dante, se davvero venne a studiare e Bologna, trovò una città in pieno declino. Nella prefazione, Gina Fasoli, curatrice dell’opera, parla con acume ed equilibrio dell’autore e dell’opera stessa, e di come questa sia ancora insostituibile, malgrado gli anni che ha, e dimostra di avere. La traduzione è corredata da un ricchissimo aggiornamento bibliografico e da più di cento tavole con illustrazioni a colori e in bianco e nero, che rappresentano un bilancio provvisorio del romanico bolognese o, meglio, del poco che ancora ce ne rimane dopo i malaugurati restauri dei tempi andati.


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Il Giornale, 26 settembre 1976 Lambardi e Romani G.Volpe Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia Longobarda. Studi preparatori Volpe Editore (pagine 255, lire 3.500) Nel 1904 il ventottenne Gioacchino Volpe pensava a un’opera complessiva sulla storia dei Comuni medievali italiani. Attratto da altri interessi, finì poi per non scrivere il libro progettato, del quale restano solo due «studi preparatori», usciti entrambi quell’anno: «Lambardi e Romani nelle campagne e nelle città» (con un sottotitolo sorprendentemente ambizioso ed eclettico: «Per la storia delle classi sociali, della nazione e del Rinascimento italiani») e «Questioni fondamentali sull’origine e lo svolgimento dei Comuni italiani», che oggi vengono ristampati per la prima volta insieme. Presentate dapprima in un opuscolo a sé stante, come prefazione del libro che sarebbe dovuto venire, e poi ristampate più volte nel volume miscellaneo «Medio Evo Italiano», le «Questioni fondamentali» sono il saggio più noto di Volpe medievista. Quando furono scritte, i più erano convinti che potesse trovarvisi una «teoria» capace di spiegare in modo univoco un fenomeno complesso come il sorgere dei Comuni; e il Volpe aveva avuto buon gioco nel fare presente che «a forza di correre dietro alla teoria, una, semplice e definitiva; di ricercare la chiave unica capace di aprir tutte le porte, si era riusciti quasi sempre a svisare e scolorire i fatti» (p. 202). Un’esigenza, in quel momento, legittima e nuova, di cui non sarebbe difficile indicare la matrice nel contemporaneo insegnamento crociano. Ma, nei decenni a venire, quando tutti ebbero appresa quella lezione e si affermò il dogma che i comuni italiani andassero studiati uno per uno, per non correre l’alea di indebite generalizzazioni, i «concetti fondamentali, o nuovi o forse non abbastanza considerati dagli stu-


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diosi», che il Volpe aveva esposto nel suo saggio, continuarono a fornire un utile punto di riferimento. A settant’anni di distanza, alcune delle tesi di Volpe andrebbero sottoposte a revisione. Mi riferisco in particolare all’affermazione secondo cui il Comune sarebbe stato dovunque non solo un’«associazione volontaria giurata», bensì anche, almeno nel momento iniziale, una «associazione privata o quasi privata» (p. 212). Fatte apposta per entrare a vele spiegate nei manuali, proposizioni come questa prestano il fianco a obiezioni del genere di quelle che il Volpe rivolgeva agli storici del diritto autori di quelle tali teorie. Ma il meglio di questo scritto non sta qui e, a trarlo fuori giova più di ogni altra cosa la lettura contestuale, che oggi è finalmente consentita, del saggio gemello su «Lambardi e Romani». Sepolto finora nel volume XIII di «Studi storici», la rivista di Amedeo Crivellucci, questo lungo, appassionato saggio fu scritto dal Volpe per rimuovere un’aporia insorta a intralciare il corso delle sue riflessioni sul Comune italiano. In polemica con quanti tendevano a rintracciare le scaturigini dell’ordinamento comunale vuoi negli antichi municipia romani, vuoi nelle Gemeinschaften germaniche primitive, egli batteva sul punto che «il Comune o, meglio, tutti i Comuni e le loro istituzioni sono un fatto nuovo» (p. 207), e che, comunque, sotto il profilo etnico, il Comune non era romano più di quanto non fosse longobardo. Ma nelle carte soprattutto toscane dalla metà del sec. XI alla fine del XIII, e dunque nel periodo che vide il sorgere e l’affermarsi dei Comuni, il Volpe vedeva riaffiorare di continuo dei Lambardi, o Longobardi, che col loro stesso nome sembravano riproporre i termini e le antitesi, che si aveva motivo di ritenere per sempre superate, della storia d’Italia nell’alto medioevo. E di fronte a questi Lambardi redivivi, localizzati di preferenza nelle campagne, un parallelo infittirsi nelle città (anche in quelle dove gli invasori germanici erano stati più


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numerosi e socialmente prevalenti) di «professioni di legge» mediante le quali ci si dichiarava, in folla, Romani. Sotto quei vecchi nomi ormai privi di senso, conservati dalla memoria collettiva, si esprimevano, secondo il Volpe, le tensioni sociali del presente: su un lato, la minore aristocrazia feudale, in lotta con la maggiore, e un po’ con tutti: dall’altro, i ceti emergenti cittadini, che nel mito di Roma cercavano la legittimazione delle loro fortune in via di consolidamento (A pagina 115 e seguente il lettore troverà in nuce l’intero discorso, destinato a tanta e così varia fortuna, su «città e campagna» e la funzione egemonica degli intellettuali cittadini nella storia d’Italia). Il Giornale, 24 ottobre 1976 I «Vespri siciliani» in un’affascinante ricostruzione Quel fatale lunedì di Pasqua R. Runciman I Vespri siciliani Rizzoli (pagg. 400, lire 2.000) Uscito in inglese nel 1958, già apparso in traduzione italiana nel 1971, questo libro viene ora opportunamente ristampato in una collana a grande diffusione. Esso costituisce un tipico esempio di «storia narrata», come di rado se ne scrive in Italia, onde il frequente ricorso a traduzioni. Un esempio, anche, abbastanza felice, perché, salvo qualche pagina un po’ troppo densa di particolari, in cui il lettore rischia di perdere il filo, il racconto è ben congegnato e si passa dall’uno all’altro settore del vastissimo campo di operazioni (Aragona, Francia, Inghilterra, Provenza, Italia settentrionale e centrale, Roma, Napoli, Sicilia, Epiro, Peloponneso, Impero d’Oriente, Ungheria) senza scombussolamenti eccessivi. Il tempo è la seconda metà del secolo XIII. Lo spazio è il bacino del Mediterraneo e un’Europa continentale che,


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dopo secoli, torna per l’occasione a gravitare su di esso. La posta in gioco è la Sicilia, cioè a dire la parte insulare del Regno omonimo comprendente anche l’Italia meridionale, fondato dai Normanni nel 1130, ereditato dagli imperatori svevi nel 1194 e resosi vacante nel 1250 per la morte di Federico II. Su questo Regno vantava diritti il Papato, che da sempre avrebbe voluto farne un baluardo arretrato contro le insidie che venivano da nord e che, comunque, era fermamente deciso ad impedire la ripetizione di ciò che era successo sotto gli Svevi, sovrani ad un tempo di Germania, d’Italia, di Sicilia e dell’Impero, e in grado, quindi, di stringere in una morsa Roma e lo Stato della Chiesa. Dopo una serie di progetti falliti, la scelta di Roma era caduta su Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia, che fra il 1266 e il 1268 venne a prendere possesso del Regno di Sicilia e sconfisse ed uccise i pretendenti Svevi (Manfredi, Corradino). Ma la posizione di campione del guelfismo italiano che il Papato assegnava a Carlo non era tale da soddisfare la sua smisurata ambizione. Ciò che Carlo sognava era ripetere l’impresa che era riuscita a Venezia all’inizio del secolo: abbattere l’impero greco d’Oriente, e costruire al suo posto un impero latino, da Napoli a Palermo a Costantinopoli, a Tunisi, a Gerusalemme, in una restaurata unità politico-religiosa dell’area mediterranea. Contro questo progetto si costituì allora una grande coalizione, di cui, a tratti, entrò a far parte il Papato, più propenso a cercare la riconciliazione religiosa con la Chiesa greca che a distruggerne il supporto politico, e che ebbe come maggiori protagonisti, da un lato, il regno d’Aragona che, da Barcellona e dalle Baleari, nutriva anch’esso una sua spiccata vocazione mediterranea e, dall’altro, il direttamente minacciato impero d’Oriente. Nel marzo 1282, due flotte cariche di soldati erano all’ancora, pronte a salpare. Nel porto di Messina, le navi provenzali e napoletane di Carlo d’Angiò, destinate a dare il colpo di grazia all’impero greco. Nella baia di Fangos, alla


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foce dell’Ebro, la flotta di Pietro III d’Aragona, diretta – si assicurava – verso le coste della Tunisia: il governatore di Costantina, in rivolta contro il suo sovrano, aveva lasciato intendere che, se avesse ottenuto l’appoggio richiesto, si sarebbe fatto cristiano. Un’ennesima crociata, dunque, intrapresa dal re d’Aragona, proprio là dove, pochi anni prima, aveva fallito Luigi IX di Francia. Il 30 marzo, lunedì di Pasqua, il colpo di scena dei Vespri siciliani. Originata da un banale incidente, scoppiato per via di donne, sul sagrato di una chiesa suburbana di Palermo, fra soldati della guardia angioina e la popolazione civile, la rivolta contro i Francesi dilagò con successo in tutta l’isola, dando vita a forme di autogoverno locale, nuove per la Sicilia. Risultato: il sogno di Carlo d’Angiò infranto per sempre; gli Aragonesi che, dalla Tunisia, dove erano nel frattempo approdati, si dirigono verso la Sicilia, per rispondere all’appello degli insorti minacciati dalla rabbiosa reazione angioina, ma, in realtà, col fermo proposito di mettervi radici. In un libro famoso apparso nel 1842, Michele Amari inferse un duro colpo alla leggenda secondo cui i Vespri sarebbero stati il portato di una cospirazione ordita alle corti aragonese e costantinopolitana da Giovanni da Procida, ex medico di Federico II fattosi così vindice degli Svevi, e prospettò la tesi alternativa di una sollevazione popolare scoppiata fuori dagli intrighi della grande politica internazionale. Nella «voce» su Amari del Dizionario biografico degli Italiani Rosario Romeo ha collocato tale opera nel clima politico siciliano del tempo. Oggi come oggi, se nessuno è disposto a far credito alla leggenda di Giovani da Procida, così come è narrata nel «Rebellamentu di Sichilia», una cronaca anonima in dialetto siciliano del secolo XIII, anche la versione romantica dell’Amari trova scarsa audienza. Basato sugli studi più recenti, che hanno messo a frutto le immense ricchezze degli spagnoli, il racconto del Runciman combina i vari elementi, locali-siciliani e politico-


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mediterranei, in una sintesi che ha se non altro il pregio della plausibilità. Il Giornale nuovo, 3 luglio 1977 Un saggio di J. Le Goff sulla vita e la cultura medievali Mercati e trascendenza J. Le Goff Tempo della Chiesa e tempo del mercante (e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo) Einaudi, pp. XIII-133, lire 7.500 Noon, che in inglese sta per «mezzogiorno», deriva da nona, una delle otto ore canoniche di cui è composto l’ufficio divino, con il quale la Chiesa onora Dio in determinati momenti del giorno e della notte. Annunciato dai rintocchi delle campane, il succedersi delle ore canoniche scandiva la vita delle campagne e della città medievali. Tra il secolo X e la fine del XIII il suono delle campane che annunciava nona è stato poco a poco anticipato dalle nostre due, tre pomeridiane, con cui veniva mediamente a coincidere, al nostro mezzogiorno. La lingua inglese riflette, appunto, lo stadio di evoluzione, dovuta a motivi sui quali si discute. Qualcuno ha chiamato in causa il rilassamento dei monaci non più disposti ad attendere così a lungo, in una giornata cominciata prima dell’alba, il momento del pasto e del riposo. Jacques Le Goff è di diverso avviso, anche se ammette lealmente di non avere prove decisive da esibire. Poiché nona era anche il momento della pausa del lavoratore sul cantiere urbano, può darsi che a determinare l’anticipo sia stata la pressione di quest’ambiente cittadino e laico, mirante a introdurre la suddivisione della mezza giornata lavorativa, che difatti si affermerà nel secolo XIV.


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In altre parole, l’orologio, che è il simbolo dell’appropriazione laica e borghese del tempo, non è nato in un giorno. A dettare la legge del tempo sono state a lungo le campane. Ma da un certo momento in poi le campane cessarono di scandire il tempo dei lavoratori delle nascenti industrie cittadine. Accanto e prima che l’industria, il commercio ha messo in moto anche un altro, più sottile processo di laicizzazione del tempo, che non investiva solo il modo di misurarlo, ma la sua stessa essenza. La vendita a pagamento dilazionato, il prestito ad interesse, l’accaparramento di derrate da esitare sul mercato nel momento più favorevole ecc., erano tutte operazioni tipiche del mercante, che presupponevano un’ipoteca sul tempo, che, invece, per definizione apparteneva solo a Dio. Anche la scienza, come il tempo, non poteva essere venduta, perché era un dono di Dio. Ma i professori delle nuove scuole del secolo XII, destinate a diventare le «università», non esitarono a farsi pagare lautamente un insegnamento che attirava scolari da ogni dove. «Non intendendo lavorare con le mani e vergognandomi di vivere mendicando, l’indigenza mi ha costretto a cercare il mio sostentamento nelle scuole» – scriveva all’incirca Abelardo, annunciando per tempo la nascita di una nuova professione, quella dell’intellettuale. «L’universitario ha il suo mestiere. Che lasci ad altri la cura di lavorare manualmente – cosa che ha pure il suo valore spirituale – ma non perda il proprio tempo in ciò che non è affar suo. Così sul piano teorico è legittimato il fenomeno essenziale della divisione del lavoro, fondamento della specificità dell’universitario» (pag. 164). Ad esprimere compiutamente la buona coscienza del nuovo status sarà, un secolo dopo Abelardo, Tommaso d’Aquino. Non sorprende che per apprezzare la portata della scoperta di questo modo di essere, così decisivo per la storia dell’Europa moderna, si sia dovuto attendere un periodo, come il nostro, in cui esso viene rimesso per la prima volta in discussione.


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Il terzo motivo dominante della ricerca di Le Goff è costituito dal rapporto fra la cultura dei dotti e la cultura popolare. Valga come esempio il saggio su «Medusa materna e disossatrice». Si tratta del diffusissimo motivo folklorico della donnaserpente, che, nelle sue versioni medievali (soprattutto del secolo XII) acquista caratteri e significati del tutto particolari, legati a movimenti profondi della società del tempo. J. Le Goff impiega lo strutturalismo per liquidare le spiegazioni che tendono a cogliere nella leggenda riferimenti a personaggi o ad avvenimenti determinati, ma non si arresta qui e, mediante un uso accorto dei metodi della storia comparata, arriva a cogliere il significato attuale della leggenda stessa in rapporto alle strutture produttive ed ideologiche della particolare società che, a un dato momento del suo sviluppo, ne ha visto la diffusione e decretato il successo. Il Giornale, 11 ottobre 1977 Vicende romanzesche seguirono la morte dell’Aquinate Dove riposa san Tommaso Le ossa del grande teologo si trovano dal 1369 nella chiesa Saint-Sernin a Tolosa, dopo essere state contese per un secolo dai cistercensi ai domenicani Le celebrazioni per il settimo centenario della morte di Tommaso d’Aquino continuano a svolgersi nelle forme consuete in queste occasioni. A Roma, in aprile, c’è stato un congresso internazionale di studi tomistici. A New York è uscita una nuova importante biografia di Tommaso, opera di un domenicano che insegna a Toronto: J. A. Weisheipl. Qualche settimana fa Paolo VI ha visitato i luoghi dove Tommaso ha trascorso la sua infanzia e dove è morto. Non è più un mistero per nessuno che fra le duecentodiciannove proposizioni condannate come eretiche il 7 marzo


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1277 dal vescovo di Parigi, sentiti i professori di teologia dello Studio, alcune risalivano a Tommaso d’Aquino. Quante? Etienne Gilson ha osservato che la lista degli «errori» tomistici compresi nel sillabo parigino del 1277 si allunga o si raccorcia a seconda che a redigerla sia un francescano o un suo confratello domenicano. Questo forse era vero una volta. Oggi, a settecento anni di distanza dall’episodio, anche i domenicani tendono piuttosto ad allungarla. Essi sono convinti di rendere così un servizio alla verità storica e al loro grande maestro, riscattandolo dalla macchia di essere stato troppo a lungo utilizzato, lui che s’era formato, e aveva insegnato, nelle scuole aperte a tutti i venti della Parigi duecentesca, per il lavaggio del cervello dei giovani seminaristi. Coincidenza Per una strana coincidenza, Tommaso era morto giusto tre anni prima, il 7 marzo 1274. Da allora riposava, si fa per dire, nell’abazia cistercense di Fossanova, nell’entroterra a nord di Terracina. Verso i primi di febbraio era partito da Napoli, dove da un anno e mezzo reggeva la scuola di teologia annessa al convento dei domenicani, per recarsi a Lione, al concilio ecumenico indetto per il 7 maggio. Prima di intraprendere il viaggio vero e proprio, aveva indugiato in una serie di visite a luoghi e a persone care: Montecassino dov’era stato condotto come oblato all’età di cinque anni, l’Aquino dei suoi, Roccasecca dov’era nato; poi, abbandonata la via Latina, in direzione della costa e dell’Appia, il castello di Maenza. Vi risiedeva sua nipote Francesca, moglie di Annibaldo conte di Ceccano. È lì che si ammalò, per il manifestarsi – come argomenta il suo recentissimo biografo – di un ematoma cranico conseguente all’urto contro un albero nei pressi di Teano, tanto più violento se in quel momento non andava a piedi ma cavalcando un asino. In ogni modo, è da respingere la


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tradizione, raccolta anche in Dante, di un avvelenamento procurato da Carlo I d’Angiò, in seguito a una risposta ritenuta insolente. Non volendo morire fra le mura di un castello, nel bel mezzo del mondo cui aveva voltato le spalle trent’anni prima, chiese di essere trasportato nella vicina abazia, della quale per altro Annibaldo era patrono. Un sogno Tommaso era accompagnato, da vivo, dalla fama di una dottrina straordinaria. Ma aveva anche i connotati, abituali, della santità cristiana. E i monaci di Fossanova, attirati dalla prospettiva delle guarigioni miracolose che non avrebbero mancato di prodursi presso le spoglie del loro ospite occasionale, fecero di tutto per trattenerle in casa loro, cercando di scongiurare con diversi espedienti i tentativi che i domenicani non avrebbero mancato di mettere in opera per riprendersele. Sepolto dapprima davanti all’altare maggiore della chiesa abbaziale, fu subito dopo trasferito di nascosto in una cappella ritenuta più al riparo da eventuali trafugatori. Ma il priore del monastero si sentì chiedere in sogno da Tommaso di essere ricondotto nel sepolcro originario, e il preteso desiderio fu esaudito. Nel 1276, quando si profilò l’elezione a papa del domenicano Pietro di Tarantasia (che sarà infatti Innocenzo V), i nostri monaci riesumarono il corpo di Tommaso, ne staccarono la testa e ad ogni buon conto la nascosero. Poi ci si misero anche i familiari. Nel 1288, al momento di un’altra riesumazione, la contessa Teodora di San Severino, sorella di Tommaso, pretese per sé la mano destra, dalla quale, subito dopo la morte, era stato già asportato il pollice per conto di frate Reginaldo di Piperno, suo «socius continuus» o, come diremmo noi, suo compagno abituale di studi e di viaggio. Nel 1303, per parare la minaccia di un nuovo papa domenicano (Benedetto


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XI), si compì un’altra traslazione – la terza –, cui seguì, ormai alla vigilia della canonizzazione (1319), la scarnitura del cadavere. Le ossa, riposte in una cassetta, furono nascoste nella sagrestia. Le amene vicende che abbiamo narrato non hanno nemmeno il pregio dell’eccezionalità. Esse rientrano nella norma di diffusi atteggiamenti collettivi, radicati in parte nella spiritualità contemporanea, ma in parte anche riflesso di condizionamenti culturali (in senso antropologico) molto remoti, il tutto complicato dalla rivalità fra i diversi ordini religiosi. Il 3 maggio 1274 il rettore e i procuratori delle «nazioni» dell’università di Parigi, insieme con tutti i professori della facoltà di arti (press’a poco la nostra facoltà di lettere e filosofia) avevano scritto una lettera al maestro generale, ai priori provinciali e a tutti gli altri maggiori esponenti dell’ordine domenicano, riuniti nel capitolo generale che quell’anno si sarebbe dovuto tenere a Lione, per la Pentecoste, in concomitanza con i lavori del concilio. Missiva Gli scriventi si associavano anzitutto all’universale cordoglio per la scomparsa del grande maestro. Facevano poi presente di avere inviato due anni prima un’altra missiva al capitolo generale dei domenicani riunito allora a Firenze, con la pressante richiesta, che non era stata accolta, di fare tornare Tommaso a Parigi (ne era partito pochi mesi prima). Chiedevano, ora, di poter avere da morto il maestro che non avevano potuto riavere da vivo, convinti che nessun luogo al mondo più di Parigi, la città dove egli aveva studiato e che aveva ricevuto da lui stimoli e nutrimenti intellettuali di valore incalcolabile, fosse degna di conservare per sempre le spoglie mortali. Se infatti la Chiesa rendeva il debito d’onore alle ossa e alle reliquie dei suoi santi, anch’essi avevano delle buone


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ragioni per onorare il corpo di un maestro tanto grande, la cui fama sarebbe stata perpetuata dalle opere che aveva lasciate scritte, ma la presenza della cui sepoltura sarebbe servita a fissarne indelebilmente il ricordo nei cuori dei loro successori. In via subordinata, chiedevano inoltre una copia delle opere di filosofia naturale cui Tommaso stava attendendo quando era partito e che aveva fatto certo a tempo di portare a termine prima di morire; una copia, eventualmente, dei trattati di logica che gli «artisti» lo avevano pregato di scrivere, prima della partenza; nonché tre libri, non suoi ma tradotti dal greco dal suo traduttore di fiducia, di cui egli aveva promesso specificamente l’invio. Chierici Si converrà che, specie dopo il racconto delle macabre traversie subite da Tommaso a Fossanova, la lettera degli universitari parigini ci porta in un clima quasi familiare. Coloro che l’hanno scritta erano dei «chierici», nel senso tecnico di «tonsurati», ma si comportavano già come degli «intellettuali». Così si erano resi conto che frate Tommaso era stato, sotto tanti aspetti, uno di loro, anche se, per anni, dalla sua cattedra di teologia aveva discusso e controbattuto punto per punto gli «invidiosi veri» dei filosofi parigini. Quanto alla lettera, non si sa che risposta abbia avuto e, addirittura, se abbia mai avuto una risposta. Almeno per ciò che concerne l’invio dei manoscritti promessi e tanto desiderati, una risposta positiva non è del tutto da escludersi. Se la richiesta maggiore fosse stata accolta, Tommaso sarebbe stato probabilmente sepolto nella chiesa di Saint-Julien-le Pauvre o in quella di Saint-Séverin, rispettivamente a sinistra e a destra, salendo, di rue Saint-Jacques, nel cuore del quartiere latino. Sappiamo invece che rimase a Fossanova fino al 1369, quando Urbano V dispose che tutto ciò che restava di


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Tommaso fosse restituito ai domenicani. Lo stesso anno le sue reliquie furono portate a Tolosa, nel convento ch’era stato il primo centro della predicazione di san Domenico. Di lì furono trasferite nella chiesa di Saint-Sernin, sempre a Tolosa dove si trovano tuttora. Va però precisato che di quest’ultimo spostamento è responsabile solo la Rivoluzione francese. Il Giornale, 23 aprile 1978 Il «Carlo Magno» di Gianni Granzotto Sulle tracce dell’imperatore Di professione studioso di storia medievale, forse per il poco fiato che mi ritrovo, arretrerei sbigottito di fronte alla semplice prospettiva di mettere in cantiere un libro sul cui frontespizio stesse scritto «Carlo Magno», non una parola di più, né una di meno. Ma per rimuovere la vergogna dello sbigottimento richiamerei l’aneddoto dello storico belga François-Louis Ganshof, successore di Henri Pirenne sulla cattedra di Gand, forse il maggiore conoscitore del periodo carolingio, che aveva in animo di concludere la sua attività di studioso scrivendo una biografia di Carlo Magno, e che un bel giorno, avendo letto quella scritta da un giovane storico inglese, Donald Bullough, ne rimase talmente soddisfatto che colse al volo l’occasione per rinunciare all’impresa. Date queste premesse e disposizioni, l’interrogativo che mi ha accompagnato durante la lettura del Carlo Magno di Gianni Granzotto (Mondadori, pp. 243) è stato il seguente: chi sa mai perché proprio lui, un giornalista affermato, con molte pesanti responsabilità nel campo del giornalismo e dell’editoria, ha deciso di dedicarsi anima e corpo per qualche anno al progetto di un libro sul grande sovrano franco? che cosa può aver pensato di metterci di suo, che giustificasse la grande, inevitabile fatica preliminare consistente


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nel fare mente locale, affrontando la lettura di fonti discontinue, frammentarie e indigeste, e di una biografia sterminata e inamena? L’autore, che non è nato ieri, mette le mani avanti dal primo rigo della breve nota d’introduzione: «Non creda il lettore, nemmeno per isbaglio, che questa sia opera di storico. Ma piuttosto un’occasione affascinante per narrare, e prima ancora per capire». Si fa presto a dirlo. Resta da vedere come si può «capire» senza dare ad un tempo «opera di storico», dal momento che anche lo storico, da parte sua, non si propone altro. E Granzotto: «Mi sono messo a ripercorrere la sua vita, sono tornato tra i suoi fiumi e le sue città, nelle sue foreste; e attraverso i luoghi e le memorie mi sono aperto la strada dentro l’animo suo, le passioni che egli provò». La ricetta è semplice, l’ingrediente principale – il taccuino delle cose viste – assolutamente congeniale alla specifica professionalità dell’autore. Ma si rimane lo stesso perplessi circa la possibilità di afferrare Carlo Magno inseguendolo lungo le strade dell’Europa di oggi. Tanto più che nel taccuino prevalgono le annotazioni negative: «La famiglia di Carlo aveva le sue radici a Heristal… Heristal significa “casa dei signori” … Oggi di quella famosa residenza non è rimasto che il luogo, uno spiazzo su una bassa collina affacciata sulla riva sinistra della Mosa. Nei miei itinerari all’inseguimento del passato ho indugiato un mattino su questa altura, dove sorge un monumento dedicato dal comune di Heristal ai caduti belgi della prima guerra mondiale. Intorno al cippo c’è un piccolo giardino con alberi e cespugli che ha l’aria abbandonata di tutte le cose scavalcate dagli anni, dai secoli. Nulla, assolutamente nulla che ricordi Carlo Magno e il suo castello». Analoga delusione, se così si può dire, a Tours, dove Granzotto era andato in cerca di Liutgarda, l’ultima compagna di Carlo, e di Alcuino di York, il suo consigliere culturale numero uno: «Il più erudito degli studiosi del passa-


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to di Tours, un archeologo assai noto, mi attendeva ai piedi della torre che la tradizione della città chiama con il nome di Carlo Magno. Mi disilluse subito. Il sepolcro trovato durante gli scavi intorno ai ruderi dell’antica basilica, era di tarda età romana, coperto da un pietra miliare trasformata in lapide funeraria qualche secolo prima che Liutgarda morisse». Insomma, se si fosse trattato davvero di mettere insieme un reportage turistico-antiquario, un fallimento quasi completo. Ma non è di questo che si trattava. Gli itinerari percorsi da Granzotto richiedono di essere misurati non in chilometri ma in secoli. Il viaggio, in auto, in aereo o in ferrovia, è solo una metafora dell’itinerario reale compiuto dall’autore, che è quello affrontato per scaricarsi delle «impurità che hanno gli sguardi a ritroso nel tempo», per sottrarsi alla necessità che costringe a «scrutare le cose da un orizzonte di posterità» e tentare invece di «riviverle nella loro verità di allora, come contemporaneo di Carlo Magno e non come contemporaneo di Pirenne». In questa prospettiva, i sopralluoghi a Heristal, a Tours, sotto le «fredde arcate» di SaintDenis, e negli altri siti carolingi, che scandiscono il racconto della biografia di Carlo, riescono paradossalmente tanto più redditizi ai fini della costruzione del racconto quanto meno produttivi risultano sul piano del turismo archeologico. Ancora Tours: «Liutgarda era stata tante volte a Tours con Carlo Magno, tante volte aveva passeggiato sulle rive dei fiumi in questo paese che sembra avere più acque che terre, la Loira, il Cher, l’Indre, la Vienne tutte intorno alla città, certamente prediletta da Carlo Magno anche per i paesaggi così straordinariamente mobili, luminosi e vivaci. Ecco il segno della vita che restava davanti a me pur senza lapidi o monumenti. Liutgarda c’era». Circa un anno fa, Granzotto ha preso parte a un dibattito televisivo sul «caso Rosenberg». Gli intervenuti erano equamente divisi fra innocentisti e colpevolisti, tutti impe-


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gnati a difendere tesi precostituite, come dettava il copione. Granzotto, che a quel tempo era corrispondente negli Usa, raccontò che, il giorno dell’esecuzione, mentre saliva con un collega americano la collina del penitenziario, si era udito in lontananza il fischio di un treno. Allora il collega aveva guardato l’ora: «È l’espresso di Chicago. Domani il treno passerà e i Rosenberg non sentiranno questo fischio». Ricordo che quella sera ebbi un moto di istintiva simpatia per questo marziano che, ignaro delle ferree leggi della lottizzazione televisiva, aveva pietosamente resuscitato quei morti, evocando «il segno della vita che restava». L’aneddoto è una buona chiave di lettura per il Carlo Magno. Rincresce sulla quarta di copertina il richiamo, che vorrebbe essere pubblicitario, alla «nascita della prima Europa». Il convegno del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, l’anno venturo a Spoleto, avrà come tema: «Nascita dell’Europa carolingia: un’equazione da verificare». Mai come in questo caso sarà d’obbligo quella che Granzotto definisce, nel respingerla lontano da sé, «l’impurità degli sguardi a ritroso nel tempo». La esige l’assunto stesso, che è come dire: cosa ha significato Carlo nella storia d’Europa? So bene che domande come questa restano oggi sempre più frequentemente senza risposta. L’attuale crisi della storiografia si riflette proprio nell’imbarazzo che gli storici di professione provano nel rispondere ai quesiti più semplici e perentori. Molti scantonano e si rifugiano nell’erudizione. Altri, non sempre in buona fede, si illudono di risolvere il problema trasportando di peso Carlo nel presente e investendo il suo tempo delle passioni e delle tensioni dei tempi nostri. Un giornalista-scrittore, che non presume di farla da storico, si è accostato a Carlo con una paziente marcia di avvicinamento e ora ci narra pienamente e felicemente quello che ha potuto vedere, senza gonfiare il suo eroe che gli pare «grande» non perché abbia compiuto imprese straordinarie, ma perché, approfittando di


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circostanze favorevoli, ha dato per un momento «armonia e compostezza ad un mondo disarticolato». Il Giornale, 16 luglio 1978 «Montaillou» Maigret nel ’300 Il diffuso proposito di applicare alla studio del passato anche molto remoto i metodi delle moderne scienze sociali (statistica, sociologia, antropologia culturale) cozza di solito contro l’inadeguatezza delle fonti disponibili. L’indagine sul campo, dal vivo, è preclusa per ovvie ragioni a chi deve accontentarsi di dialogare con i morti. Non mancano però i casi fortunati in cui la barriera cade e anche lo storico può operare tranquillamente come uno scienziato sociale. I cinquecentosessantotto interrogatori effettuati in trecentosettanta giornate di lavoro, fra il 1318 e 1325, dal tribunale dell’inquisizione di Pamiers, nella Francia meridionale, presieduto dal vescovo Jacques Fournier (il futuro papa Benedetto XII), e che ci sono stati conservati in un manoscritto che si trova nella Biblioteca Vaticana, non miravano naturalmente a illuminare i contemporanei, e tantomeno i posteri, sul modo di vivere, di morire, di gestire, di fare l’amore, di pregare, di spidocchiarsi conversando e di mangiare degli abitanti del dipartimento dell’Ariège. Le informazioni al riguardo, copiose come di più uno non si saprebbe augurare, sono il sottoprodotto non ricercato di un’indagine volta esclusivamente e, direi, ossessivamente a scoprire le credenze eterodosse degli inquisiti, che vengono a costituire un campione della società del tempo (vi sono fra di essi alcuni nobili, alcuni preti, alcuni notai, ma la maggioranza è composta di contadini, pastori, artigiani, piccoli commercianti) unicamente perché in quelle regioni l’eresia era un fenomeno di massa, che contagiava un po’ tutti, uomini e donne, ricchi e poveri.


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Ci tranquillizza sapere che l’inquisitore, «una specie di Maigret, ossessivo compulsivo», non ricorreva di solito alla tortura. Soltanto cinque degli imputati finirono sul rogo. Per i rimanenti, pene varie, come l’obbligo di portare cucita alle vesti una croce gialla… La citazione e il corsivo li dobbiamo, come tutto il resto, al bellissimo libro di più di cinquecento pagine che Emmanuel Le Roy Ladurie ha dedicato alla «Storia di un paese: Montaillou», che faceva allora da duecento a duecentocinquanta abitanti, ventotto dei quali, più alcuni altri in veste di testimoni, furono appunto chiamati a comparire davanti al Maigret di Pamiers e resero quindi le loro brave deposizioni, debitamente verbalizzate. Il libro ha avuto in Francia un successo di pubblico strepitoso. Non so se il successo di recensioni incontrato al suo apparire, qualche mese fa, dalla traduzione italiana (Rizzoli editore) sia stato convalidato dai lettori. Chi non l’ha ancora letto, lo legga, nella calma delle vacanze. Contiene la risposa a molte delle domande che i non specialisti tendono a formulare rispetto alle età passate (usavano i contraccettivi? erano vezzeggiati i bambini? ci si lavava? si dormiva nudi o vestiti?) e che libri di storia normali (qui il corsivo è nostro) lasciano per lo più inevase. Nulla della stucchevole genericità di molti sociologi. Le pagine di Le Roy Ladurie sono piene zeppe di fatti, di volti. Basti dire che Pietro Citati ha potuto prendere la storia di un pastore montalionese e riversarla pari pari in un elzeviro. Insoddisfatta da un libro come questo resta solo la curiosità non marginale di chi vorrebbe sapere com’è andata che la società trecentesca montalionese rappresentata da Le Roy Ladurie sia finita, lasciando il posto alle società venute dopo, fino alla nostra. Il mondo rievocato dallo storico francese sta immediatamente, per dirla con Ranke, al cospetto di Dio; il suo valore è costituito dalla sua stessa esistenza. Visto dal di dentro, è un mondo dove tutti sono in perpetuo movimento: i pastori che portano a svernare le


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greggi al di là dei Pirenei; i messi del vescovo che braccano gli eretici; gli eretici che cercano di sfuggire ai messi del vescovo… Visto dal di fuori con lo stacco imposto dalla nostra condizione di posteri, è un mondo che non si riesce a capire bene in che direzione stia andando, e addirittura se si stia muovendo in una qualche direzione. Il Giornale, 3 settembre 1978 Giovanni Paolo I In nome del Papa La scelta del nome, insolito perché doppio, da parte del cardinal Luciani come Giovanni Paolo I, ha attirato l’attenzione della stampa sul fatto, di per sé conosciutissimo, che i Pontefici, appena nominati, sogliono cambiare nome. «Annuario pontificio» alla mano, i vaticanisti hanno rispolverato l’episodio di Mercurio, che, eletto Papa nel 533, si risolse a mutare il suo nome in quello di Giovanni (Giovanni II), per allontanare dalla propria persona il ricordo disdicevole dell’alato messaggero degli dei. Novecento anni più tardi, quando il cambiar nome era diventato da lunghissimo tempo una regola, Papa Pio II, ex Enea Silvio Piccolomini, accusato dai suoi detrattori d’oltralpe di aver una soverchia familiarità con l’antichità pagana, aveva risposto dando in pasto agli avversari il suo nome di battesimo: «Respingete Enea, accogliete Pio». Che era come dire: credetemi sulla parola, non sono più quello di prima. Il secondo Papa che abbia mutato nome fu il figlio di Alberico, «princeps et senator omnium Romanorum», arbitro di Roma e del papato dal 932 al 954, anno della morte. Alberico aveva chiamato il figlio Ottaviano, segno che dapprima aveva pensato di farne un imperatore. Ma, sentendo avvicinarsi la fine, si fece promettere dai nobili romani che, alla prossima sede vacante, avrebbero eletto Ottaviano papa. Il che puntualmente avvenne, previo abbandono di quell’al-


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tisonante nome di battesimo, inadatto per la nuova destinazione. Papa a diciotto anni, Giovanni XII (questo fu il nome che assunse) fu deposto con ignominia da un concilio convocato per ordine di Ottone I. Il modello altissimo che rendeva possibili e, in qualche modo, riscattava queste occasionali metamorfosi onomastiche era nientemeno che Simone, il pescatore di Cafarnao ribattezzato Pietro perché su questa «pietra» Cristo intendeva costruire la sua Chiesa. Il problema è di stabilire per quali ragioni, a un certo momento, il modello petrino si sia imposto come una regola. Il momento cade alla fine del periodo, «da Carlo Magno all’anno Mille», che Geoffrey Barraclough chiama «Il crogiolo dell’Europa» (Editori Laterza, Bari 1978). È l’età delle ultime invasioni barbariche (Normanni, Saraceni, Ungari), della massima disgregazione del potere, degli inizi della sua ricostruzione dal basso. Nel 999 il diciannovenne imperatore Ottone III fece in modo che venisse eletto papa l’uomo più colto del momento: Gerberto d’Aurillac. Lo voleva accanto a sé per farlo compartecipe del suo programma di restaurazione dell’impero di Costantino e di Carlomagno. In linea con il programma, Gerberto assume il nome di Silvestro II. Gerberto era stato arcivescovo di Reims e lo era tuttora di Ravenna. Canoni dei secoli IV e V proibivano tassativamente il passaggio da una sede episcopale ad un’altra. «Non si è mai visto – ribadiva un canone del concilio di Sardica – che un vescovo sia passato da una sede più importante a una meno». Ancora alla fine del secolo IX, a papa Formoso, processato pubblicamente dopo morto, fu contestato fra l’altro di aver abbandonato per ambizione la sua sede di Porto. Ma la tempesta delle invasioni del secolo X aveva reso necessari e generalizzati i trasferimenti e anche i papi ormai saranno scelti sempre più frequentemente fra i già vescovi. È probabile che, trasferendosi a Roma, un vescovo di altra sede sentisse il bisogno di farsi romano nel nome, chiaman-


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dosi come uno che aveva occupato quella cattedra prima di lui. Sta di fatto che, dalla fine del secolo X in poi, tutti i papi, indigeni o forestieri, compresi i due che non hanno voluto cambiare nome, hanno portato il nome di un papa del periodo precedente. Il Giornale, 13 ottobre 1978 Un convegno di studi sul medioevo con studiosi francesi e italiani C’è anche l’«eurofeudalesimo» Roma, 12 ottobre – Organizzato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche francese e dall’École française di Roma si sta svolgendo in questi giorni un convegno di studi sulle «Strutture feudali e il feudalesimo dell’Occidente mediterraneo (secoli X-XIII)». Vi prendono parte alcuni dei maggiori specialisti in materia, francesi e italiani, da Georges Duby a Pierre Toubert, da Cinzio Violante a Giovanni Tabacco. Intorno al feudalesimo circolano due diversi pregiudizi. Secondo il primo, che è anche il più volgare, «feudale» è l’equivalente di «medievale» per tutto ciò che di oscurantista e incompatibile con i valori della civiltà moderna l’uomo della strada, con il conforto per altro di una tradizione plurisecolare, attribuisce ai secoli dell’età di mezzo. Per il secondo, molto più insidioso e sottile, l’esperienza feudale è stata la vicenda privilegiata di alcuni paesi europei, benedetti dalla sorte a differenza di altri. Un illustre storico americano scrive: «Le regioni d’Europa che furono più profondamente feudalizzate sono anche quelle in cui si formano i governi che hanno fornito i modelli per tutti gli altri stati europei». Il riferimento è anzitutto all’Inghilterra normanna, ma in secondo luogo anche alla Francia, dove il feudalesimo fu la controparte della monarchia nazionale nel processo di costruzione dello stato moderno, che verrà poi perfezionato dalla Rivoluzione.


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Insomma, contrariamente ai pregiudizi dell’uomo della strada, la feudalizzazione intensa sarebbe stata un passaporto necessario per lo sviluppo politico-sociale. I paesi non feudalizzati sarebbero stati costretti ad andare al rimorchio dei confratelli più progrediti. In particolare l’incompleta e tardiva feudalizzazione sarebbe all’origine dell’inferiorità dei paesi mediterranei: Spagna, Italia, la stessa Francia meridionale. Uno dei traguardi più ambiziosi che si pone il convegno è proprio quello di operare la «demarginalizzazione» dei paesi mediterranei rispetto alla terra promessa del feudalesimo «d’entre Rhin et Loire», trapassato poi in Inghilterra. Per ciò che riguarda la Spagna, uno degli studiosi che hanno aperto le strade in questa direzione è stato Claudio Sànchez Albornoz nel contestare la specificità della storia spagnola rispetto a quella del resto d’Europa, che è invece asserita con passione da altri storici di quel paese. Con riferimento all’Italia, da qualche decennio gli studi del Violante stanno dimostrando che la stessa storia dei Comuni italiani non può essere intesa fuori del contesto feudale in cui si è svolta. In conclusione, l’«eurofeudalesimo» sta cessando di essere un elemento di discriminazione a danno dei paesi dell’Europa mediterranea. Storia illustrata, novembre 1979 Federico II l’ultimo degli Svevi Anticristo o Messia? Scomunicato da due Papi, nemico del potere secolare, Federico di Hohenstaufen era intelligente e colto, protesse le arti e le scienze, fondò università, scrisse trattati. In Sicilia gettò le basi di uno Stato laico Il giorno di Natale del 1194, l’imperatore Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa, fu incoronato re di Sicilia nel duomo di Palermo. All’arrivo, era stato salutato dagli squil-


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li dei trombettieri saraceni – una delle tante meraviglie in cui si manifestava il gusto dell’esotico imperatore alla corte dei re normanni. Enrico entrava così in possesso del regno di cui era legittima erede sua moglie Costanza d’Altavilla, figlia del primo re normanno di Sicilia, Ruggero II. L’indomani Costanza partorì a Jesi l’attesissimo erede dell’impero e del regno di Sicilia: Federico. Poiché l’imperatrice aveva quarant’anni ed era sposata da nove, non mancarono le chiacchiere malevole: per tagliare corto ad esse, il parto avvenne sotto una tenda eretta nella piazza del mercato della città marchigiana. Intorno al neonato si intrecciarono le profezie: per i vati di corte, Federico era il fanciullo divino preconizzato nella quarta egloga di Virgilio; per l’abate Gioacchino da Fiore, era senz’altro l’Anticristo. Orfano di padre a tre anni, di madre a quattro, Federico, che sette mesi prima della morte di Costanza era stato incoronato re di Sicilia (17 maggio 1198), restò affidato a un tutore di eccezione: papa Innocenzo III. Da parte sua, Innocenzo avrebbe fatto il possibile perché il pupillo rimanesse soltanto re di Sicilia, e non anche di Germania e d’Italia ed imperatore, com’era stato da ultimo suo padre Enrico. Altrimenti, i domini della Chiesa nell’Italia centrale avrebbero rischiato di trovarsi di nuovo nelle branche di una tenaglia. Mentre Innocenzo III vegliava su di lui da lontano e la politica europea faceva il suo corso prescindendo per il momento dall’esistenza di un bambino – il puer Apuliae – intorno alla cui nascita si erano accumulate tante speranze e tanti timori, Federico compiva la sua auto-educazione per le strade della città capitale del suo regno, Palermo, a contatto con un ambiente umano che, nella straordinaria varietà delle sue componenti religiose, etniche, linguistiche, costituiva un campo di esperienze e di osservazione che non aveva riscontri nell’Europa contemporanea, tranne che nelle città della Spagna musulmana. «Guai al Paese di cui è re un bambino e i cui principi si mettono a mangiare fin dal


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mattino»: per confutare la validità dell’elezione di Federico a re di Germania (Francoforte, fine 1197), che aveva preceduto quella a re di Sicilia, il papa, in un documento del 1200-1201, si appellava alla saggezza e al buon senso dell’Ecclesiaste. Si intende che l’avvertimento valeva per la Germania soltanto, non per la Sicilia, dove Federico era posto sotto la sua tutela. Ma la resistenza a pugni, graffi e calci che il pupillo di Innocenzo oppose, a sette anni, agli armati di Marcovaldo di Anweiler (uno dei fedelissimi di Enrico, che Costanza aveva messo da parte durante la reggenza), quando diedero d’assalto al castello reale di Palermo per impadronirsi di lui, è il primo indizio della rapida trasformazione che avrebbe fatto di un bambino, finora oggetto di ambizioni e di preoccupazioni altrui, il protagonista attivo e deciso di una vicenda che ha dell’incredibile. Abbandonato a se stesso, il fanciullo assume un contegno «disdicevole e sgraziato»: lo deplora un vescovo di corte. Ma Federico sapeva tirare di scherma alla perfezione; e se possiamo immaginare che abbia imparato un po’ di provenzale, di francese, di tedesco, di arabo e di greco per le vie dei mercati di Palermo, un vero e proprio maestro deve avergli insegnato il latino. Si racconta che passasse le serate leggendo la «armata historia» – una narrazione di guerre e battaglie dell’antichità. Qualcuno, forse un arabo, deve avergli inculcato fin da piccolo quel gusto per l’osservazione della natura – gli animali, le piante, le stelle, il corpo stesso dell’uomo – che sarà uno dei tratti caratteristici di Federico II maturo. Nel 1208, il Papa depose la reggenza e Federico prese possesso del trono di Sicilia. Aveva appena compiuto quindici anni. L’anno dopo sposò Costanza d’Aragona, rispettivamente figlia e sorella dei re Alfonso II e Pietro II. Regnare a Palermo, restaurando l’autorità del potere centrale, compromessa da anni ed anni di discordie interne, non sarebbe stata un’impresa facile per nessuno. Ma, mentre Federico si


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apprestava a tentarla, un improvviso mutamento della situazione in Germania e nell’impero aprì davanti a lui un campo d’azione smisuratamente più vasto. Imperatore dal 1209, Ottone IV di Brunswick, nel novembre dell’anno successivo, invase il regno di Sicilia, sul quale vantava diritti come marito di Beatrice, figlia di Filippo di Svevia (fratello di Enrico VI), morto assassinato nel giugno del 1208. Come si vede, il partito guelfo, impersonato da Ottone, non nutriva nei confronti della politica italiana e siciliana l’ostilità o il disinteresse che talvolta gli sono stati attribuiti. Di fronte alla minaccia che impero e Sicilia tornassero a essere uniti nelle mani di un solo sovrano (anche se guelfo), Innocenzo III si affrettò a scomunicare Ottone; ma non contento di questo, d’accordo con il re di Francia, gli suscitò anche contro, in Germania, la candidatura di Federico. Intorno ad essa non avrebbero infatti mancato di raccogliersi e far quadro i fautori degli Svevi, che, dopo l’assassinio di Filippo, avevano lealmente collaborato con Ottone IV, ma erano sempre disponibili per una rivincita. Nel settembre 1211, quando Ottone, in pratica già padrone delle province continentali del regno di Sicilia, si preparava a passare nell’isola, e Federico a fuggire in Africa, un’assemblea di principi tedeschi, riunitasi a Norimberga, invitò quest’ultimo ad andare in Germania per farsi incoronare «re dei Romani» – un titolo che comportava per l’eletto re di Germania un’inderogabile designazione all’impero («in romanorum imperatorem electus»). Avuta notizia dell’accaduto, Ottone decise di desistere dall’impresa siciliana e di intraprendere il cammino di ritorno nel tentativo – che poi risulterà vano – di riguadagnare le posizioni perdute in patria. In Sicilia, Costanza fece il possibile per persuadere Federico a non accettare l’invito che gli era stato rivolto. Dello stesso parere erano anche molti dignitari del regno che prospettavano al re i pericoli cui poteva andare incontro propter fraudem Alemannorum. Ma Federico non li stet-


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te a sentire e, mostrandosi al momento sensibile solo al richiamo che gli veniva dalla terra dei suoi avi paterni, nel marzo del 1212 si imbarcò a Messina con pochi compagni. Prima di lasciare l’isola, che restava affidata alla reggenza della moglie, il candidato all’impero compì alcuni atti destinati a rassicurare il papa circa i suoi propositi per il futuro. Da un lato, fece incoronare re di Sicilia il figlio Enrico, di circa un anno; dall’altro, prestò al legato papale l’omaggio «per il regno di Sicilia, il ducato di Puglia e il principato di Capua con tutte le loro pertinenze, Napoli, Salerno e Amalfi con le loro pertinenze, la Marsia ecc.» – lo stesso che la madre Costanza aveva prestato a Innocenzo prima di morire, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie di Enrico. Le basi del compromesso risultano chiare: il papa aveva aiutato il figlio di Enrico VI a diventare re di Germania e imperatore; ma re di Sicilia non sarebbe stato Federico, bensì suo figlio; e, ad ogni buon conto, restava inteso che il regno era un feudo della Chiesa romana. Da Messina a Gaeta; poi, dopo un mese di sosta, a Roma. A Roma (aprile 1212) Federico rinnovò di persona, praesens praesentis, l’omaggio feudale al papa per il regno di Sicilia. E da Roma, senza esercito, con scarsi mezzi finanziari, conoscendo a mala pena un po’ di tedesco, forte solo dell’appoggio del re di Francia, e del papa – per molti, un motivo di dileggio –, il sovrano diciottenne partì per la Germania. Attraversò il Tirreno su una nave genovese; sbarcò a Genova (maggio), a ridosso del mondo in perpetua ebollizione delle città-Stato dell’Italia settentrionale, che avevano dato tanto filo da torcere a suo nonno, il Barbarossa. A Pavia, fu accolto trionfalmente; ma per andare a Cremona dovette fare il tragitto di notte, tenendosi alla larga da Milano e Piacenza, che gli erano ostili. Trovò la valle dell’Adige sbarrata a nord di Trento dai fautori di Ottone; allora piegò verso occidente e affrontò il passaggio delle Alpi «per asperrima loca ed invia et iuga montium eminentissima» (agosto-settembre).


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La città di Costanza, parata a festa per accogliere Ottone accampato nei pressi, dopo qualche esitazione del vescovo, aprì le porte al suo rivale. Quando Ottone, tre ore più tardi, si presentò davanti alle mura, trovò la strada sbarrata: fra poco avrebbe avuto dalla sua soltanto la Sassonia, in parte, e le città del basso Reno. Il 5 dicembre, sempre del 1212, Federico fu formalmente eletto re dei Romani a Francoforte e il 9 dello stesso mese incoronato a Magonza, dall’arcivescovo. Negli ultimi anni della sua vita, Innocenzo III fu tutto preso dall’idea di una nuova crociata, che lo ripagasse della delusione cocente prodotta dal dirottamento verso Costantinopoli, ad opera dei veneziani, della Quarta. Predicatori vennero mandati in giro nelle diverse diocesi, per suscitare il clima di attesa e di entusiasmo necessario al successo dell’iniziativa. Predicatori per la crociata si trovavano per l’appunto anche ad Aquisgrana, alla fine di luglio del 1215, quando Federico II, che la vittoria riportata a Bouvines (luglio 1214) dai suoi alleati francesi su Ottone e gli inglesi aveva reso completamente padrone della Germania, entrò trionfalmente nella città che era stata schierata fino all’ultimo dalla parte di Ottone ed era considerata la capitale morale dell’impero. Solo dopo essere stato unto e incoronato in quella cattedrale, un re dei Romani acquisiva legittimità. Ma altri festeggiamenti si accompagnarono all’incoronazione di Federico. Cinquant’anni prima suo nonno aveva tratto fuori dal sepolcro le ossa di Carlomagno e lo aveva fatto proclamare santo. Nel frattempo, per iniziativa dei cittadini di Aquisgrana, era stato costruito per i resti di Carlo un sarcofago di argento, sul quale erano state scolpite le figure degli imperatori, rappresentati come apostoli. Anche l’«imperatore eletto», Federico, era raffigurato sul sarcofago, che avrebbe dovuto essere chiuso in sua presenza. Così due giorni dopo l’incoronazione, il giovane sovrano si slacciò il


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manto regale e, salito sull’impalcature che reggeva il sarcofago, infisse i primi chiodi. Mai come in questo momento, le immagini di Carlo, intrepido campione della cristianità contro gli infedeli, e del Barbarossa, morto durante la terza crociata, furono presenti a Federico. Già il 25 luglio, subito dopo che l’arcivescovo gli aveva posto sul capo il diadema, Federico, mentre assisteva alla predicazione per la crociata che aveva luogo nella medesima cattedrale, aveva improvvisamente «preso la croce», fra la meraviglia degli astanti, e, unendo la sua voce a quella dei predicatori, aveva esortato i dignitari del regno a fare altrettanto. La crociate restava un compito fondamentale per un imperatore cristiano. Durante i sette anni in cui si trattenne in Germania, Federico colmò di doni e privilegi i cavalieri teutonici, un ordine cavalleresco di recente formazione, che, pur avendo la sua sede in Terrasanta, stava costruendo le sue fortune politiche e patrimoniali in terra tedesca. Quanto alla Palestina, Federico, prima e dopo il suo rientro in Italia, si avvalse di ogni possibile scusa per ritardare il momento dell’adempimento del voto che aveva formulato con precipitazione giovanile ad Aquisgrana. Incurante della scomunica che gli fu inflitta nel 1227 da Gregorio IX, non più disposto a prendere sul serio le sue giustificazioni, meditava di risolvere una volta per tutte l’annoso problema dei Luoghi Santi, sostituendo al metodo delle armi, che finora non aveva portato a niente, l’insolito mezzo della diplomazia interconfessionale. In una parola, la sua «crociata», quando si decise a farla, fu diversa dalle altre, tanto è vero che il papa si rifiutò di riconoscergliela per buona. Federico si intrattenne in Palestina dall’autunno del 1228 alla primavera del 1229. Inserendosi abilmente nelle intricate lotte che erano allora in corso fra i successori del Saladino, ottenne, con un regolare trattato, Gerusalemme e un corridoio di accesso alla costa: lo stretto necessario per i


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bisogni dei pellegrini cristiani in Terrasanta. Non un chilometro quadrato di territorio in più. Questo successo diplomatico fu dovuto alla conoscenza diretta, ch’egli aveva, della lingua e della mentalità dei suoi interlocutori e alla fiducia che seppe ispirare loro. La curiosità intellettuale che negli intervalli fra le varie fasi delle trattative lo spingeva a porre ai dotti musulmani dei quesiti di ordine scientifico o filosofico, contribuì a diffondere la leggenda della miscredenza dell’imperatore, ma servì anche a creare una clima psicologico favorevole all’andamento delle trattative stesse. Erano, a distanza di tempo, i risultati positivi della sua formazione palermitana. Per questa spregiudicatezza di atteggiamenti, Federico costituì, e fu chiamato, la «meraviglia del mondo». Ma tutto ciò ebbe anche l’effetto di consolidare contro di lui il fronte di quanti, a Roma o altrove, non sapevano, o non intendevano, guardare oltre i vecchi orizzonti mentali. In apparenza, Federico non aveva mantenuto fede alla promessa fatta a Innocenzo e poi rinnovata al suo successore Onorio III. Ottenuti il regno di Germania e la corona imperiale (Roma; novembre 1220), egli avrebbe dovuto rinunciare – secondo i patti – al regno di Sicilia, piegandosi a un’esigenza non negoziabile della politica pontificia. Invece, finì con tenere tutto per sé. Anzi, facendo eleggere dai principi tedeschi il figlio Enrico, che era già re di Sicilia, anche re dei Romani (Francoforte, primavera del 1220), osò realizzare apertamente anche nella persona del figlio quell’unione delle due (o tre) corone che per lui stesso avrebbe dovuto essere solo transitoria. Ma le pretese insite nella moltiplicazione dei titoli regi non avrebbero mai corrisposto alla realtà di un potere effettivamente esercitato, ad un tempo e con pari intensità, di qua e di là delle Alpi, perché in pratica Federico abbandonò la Germania al suo destino, tanto è vero che, dopo averla lasciata nel 1220, non vi fece ritorno che quindici anni dopo. Si preoccupò solo di rabbonire principi e


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vescovi con continue concessioni di privilegi, che diminuirono ulteriormente il già scosso prestigio regio in tale paese. Federico concentrò le sue energie e la sua passione di uomo di stato sulla sola Sicilia, non solo restaurando l’amministrazione del vecchio regno normanno, gravemente deteriorata durante gli anni della sua giovinezza, ma perfezionandola sotto molti aspetti. Dovette illudersi che, col tempo, il modello siciliano avrebbe potuto essere esteso anche al resto dei suoi domini. Il codice di leggi che l’imperatore promulgò a Melfi nel 1231; le monete che uscirono dalle zecche del regno, e solo da queste (fra gli altri tipi, si ricordino gli «augustali», d’oro); i documenti che testimoniano l’attività svolta quotidianamente dai tribunali e dagli uffici pubblici, a tutela del buon diritto dei sudditi contro gli abusi dei potenti: sono altrettanti elementi che contribuiscono a delineare il volto veramente moderno di Federico, forse ancora più che le sue sorprendenti curiosità intellettuali. Ma era pur sempre un imperatore – italiano, forse, e non più tedesco –, e tutta la modernità di propositi e di atteggiamenti che si riscontra nelle sue attività di sovrano di Sicilia, non poteva non scontrarsi con la tradizione plurisecolare dell’impero medievale, anche se rinnovata e aggiornata da un gruppo di intellettuali di prim’ordine ch’egli chiamò a collaborare presso di sé. Prima fra tutti Pier delle Vigne, che redigeva in un latino artificioso, ma bellissimo nel suo genere, i manifesti programmatici dell’impero. La concezione imperiale di Federico II, oltre che nei documenti della cancelleria, trovò una solenne espressione simbolica nella porta trionfale di Capua, i cui ruderi si ammirano ancora in riva al Volturno. Le aquile così spesso rappresentate su monete e sigilli di Federico hanno un valore simbolico. L’imperatore che amava tanto quest’insegna, aveva però anche un interesse preciso, di tutt’altra natura, per gli uccelli in genere. Federico amava la caccia, non distinguendosi in questo dai gusti


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dell’intero ceto cavalleresco nobiliare. I numerosi castelli di età sveva, che ancora oggi si ergono sulla pianura pugliese, furono costruiti dietro precise istruzioni del sovrano, che trascorreva in essi lunghi periodi, dedito a quell’attività fra lo sportivo e il para-militare, che impegnava così largamente le aristocrazie guerriere del medioevo. Ma l’attenzione che Federico dedicava in particolare agli uccelli andava molto al di là di quelli che ci possiamo attendere da un appassionato cacciatore. Era l’interesse di un naturalista, di un etologo, intento ad osservare la disposizione degli uccelli in volo; pronto a registrare il loro comportamento durante le tempeste che li sorprendono in mare aperto; a studiare la forma dei loro nidi; a domandarsi il perché delle creste che adornano il capo di alcuni volatili, a preferenza di altri… Tutto questo, e molto altro ancora lo troviamo inaspettatamente in un trattato dedicato a illustrare la caccia col falco, che l’imperatore redasse personalmente, mettendo a frutto le osservazioni che aveva fatto per molti anni e controllando con esse ciò che degli usi degli uccelli avevano scritto gli antichi, in particolare Aristotele, il cui trattato sugli animali era stato poco prima tradotto dall’arabo da Michele Scoto, filosofo di corte di Federico. L’esempio più bello e riccamente miniato del trattato sulla caccia col falcone andò perduto durante l’assedio di Parma del 1248, quando Federico subì una grave sconfitta, che mostrò come fossero deboli le sue posizioni nell’Italia settentrionale. Fino dai primi anni dopo il ritorno dalla Germania, l’imperatore aveva revocato le concessioni fatte ai comuni cittadini dal Barbarossa, con la pace di Costanza del 1183, disponendosi ad assoggettare le città italiane ad un rigido sistema di governo regio centralizzato, come se il regno d’Italia potesse avviarsi a diventare un secondo regno di Sicilia. Il conflitto, che sembrava in procinto di scoppiare già nel 1226, fu rimandato di un decennio.


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Dapprincipio Federico fu vittorioso (a Cortenuova, presso Bergamo, nel 1237), Milano offrì di sciogliere la lega lombarda e di riconoscere solennemente i diritti dell’impero. Ma il vincitore del momento insistette per la resa incondizionata, perdendo così l’occasione propizia a un accordo onorevole per entrambe le parti. Nel frattempo, il papato, che aveva tentato di salvare le città lombarde con una mediazione, intervenne apertamente nella lotta ed inviò un legato in Lombardia, per organizzare le forze antimperiali. Nel 1239, l’imperatore fu scomunicato per la seconda volta. Se, in una prima fase, l’implicita rinuncia di Federico a esercitare un diretto governo in Germania aveva in parte tranquillizzato il papato, in prosieguo di tempo la politica intrapresa dall’imperatore nell’Italia settentrionale sembrò riproporre il vecchio spettro dell’accerchiamento, in forma che, per essere nuova, non era meno insidiosa dell’antica. Anzi, finiva per l’esserlo anche di più. L’accanimento con cui Gregorio IX e, soprattutto, Innocenzo IV, succedutogli nel 1241, lottarono contro Federico nell’ultimo decennio del suo regno, trova la sua spiegazione nella necessità per la Chiesa romana, di impedire a ogni costo che egli instaurasse uno stabile controllo sulla Lombardia. E mentre i papi lanciavano sempre nuove scomuniche, sforzandosi di denigrare in tutti i modi Federico di fronte all’opinione pubblica dell’Europa cristiana, i comuni dell’Italia settentrionale si prepararono con cura allo scontro decisivo. Nel 1248 si ebbe il fallito assedio di Parma, con la completa distruzione del campo imperiale, che Federico aveva «fondato», come se fosse una città nuova, imponendogli il nome augurale di Vittoria. Nel 1249 ci fu la battaglia di Fossalta, uno scontro come tanti altri, fra bolognesi e modenesi, eternamente rivali. Ma nel corso di esso, Enzo, re di Sardegna, il figlio prediletto di Federico (lo chiamava affettuosamente Falconello), cadde prigioniero dei bolognesi. La leggenda fiorita intorno alla prigionia di Enzo (che morirà


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sempre in prigione, a Bologna nel 1272) è la prova retrospettiva della grande emozione che dovette suscitare quest’episodio: un re, il figlio di un imperatore, prigioniero di un comune! Ma al padre che si risolse a chiedere la liberazione del figlio, gli interpellati risposero sdegnosamente: «regem Hentium tenuimus, tenemus et tenebimus» (abbiano preso re Enzo, lo teniamo e lo terremo sempre). I bolognesi scrissero anche: «Venga il Signore Iddio e periscano i suoi nemici». Federico, nemico di Dio; Federico, come Anticristo. In un’opera scritta verso la fine del secolo XII e dedicata a illustrare come sarebbe venuta (presto, presumibilmente) la fine del mondo, preannunciata nell’Apocalisse, le sette teste del mitologico drago sono contrassegnate con i nomi dei sei sovrani che, nella storia sacra e profana, avevano lasciato un ricordo particolarmente cattivo di sé: fra gli altri, come era da aspettarsi, Erode e Nerone. Il sesto, il Saladino, poiché era il solo ancora vivente, è anche il solo a portare la corona. Accanto alla settima testa, che non ha un nome, una didascalia spiega che il posto lasciato libero è quello dell’Anticristo. Orbene, in un manoscritto della stessa opera copiato dopo che Federico II aveva fatto la sua comparsa sulla scena del mondo, un gruppetto di frati, che il drago tiene strettamente avvinghiati fra le sue innumerevoli code, indicano con un gesto chiaramente polemico la settima testa, che ormai ha un nome preciso: «l’Anticristo è fra noi. L’Anticristo non è altro che l’imperatore Federico II». Se era davvero spregiudicato come voleva apparire, può anche darsi che Federico guardasse con segreto compiacimento questa identificazione promossa dalla propaganda politico-religiosa del tempo. Non mancava, d’altra parte, chi, considerando proprio l’ostilità della Chiesa nei suoi confronti, vi vedeva invece un segno di elevazione, come se egli fosse stato prescelto da Dio per riportare l’ordine e la giustizia nella società cristiana, un po’ come con altri mezzi aveva tentato di fare san Francesco.


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Anticristo o Messia, a seconda dei giudizi e dei pregiudizi di un’opinione che esprimeva i propri convincimenti nelle forme tipiche del tempo, Federico non è facilmente raggiungibile nell’intimità dei suoi affetti. L’apertura del sarcofago in cui era sepolta la sua prima moglie, Costanza d’Aragona, ha consentito di ricostruire un episodio che su Federico uomo ci dice qualcosa che gli autori di cronache non avrebbero saputo mai dirci. Nel sarcofago è stata trovata una corona a forma di cuffia (un «camauro», per essere precisi). Ma questa corona, opportunamente esaminata e misurata, è risultata essere una corona maschile. Non dunque una corona appartenente a Costanza, ma una corona di Federico, che il sovrano avrebbe lasciato cadere lì, nell’ora del dolore, spogliandosi del più tipico attributo della regalità. Un bilancio della vita e dell’opera di Federico non è facile a farsi. Di fronte alla difficoltà di racchiudere in una formula sintetica un’esperienza umana così ricca, viene fatto di chiamare in causa l’infanzia palermitana del re. Ma il sistema di rimandare da qualcosa che ci riesce difficile da definire a qualcosa che riusciamo a mala pena a intravedere, serve solo a spostare di poco il problema, non a risolverlo. Sia che si guardi agli aspetti più propriamente politici, a quelli culturali o a quelli, più sfuggenti, che siamo soliti chiamare col nome di «mentalità», la Sicilia ha segnato su Federico un’impronta indelebile. Non solo, beninteso, la Sicilia degli anni della sua giovinezza, ma anche, e soprattutto quella ritrovata al ritorno dal primo e unico soggiorno in Germania. Federico, da parte sua, si considerava un siciliano, parlava della Sicilia e delle sue province come del «suo paese», e dell’Italia come del «suo retaggio»; aveva in orrore la Germania con le sue «tenebrose foreste» e i «lunghi inverni», con le «fangose città» e i «rozzi castelli». Ma la Sicilia si trovava alla fine, non al principio, della sua stagione migliore, quella che, dopo qualche avvisaglia al


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tempo della dominazione arabo-musulmana, era cominciata con la riconquista normanna, e che si sarebbe conclusa con l’ultimo dei sovrani svevi. Mentre la rinuncia di Federico a esercitare la sua missione di re di Germania ebbe l’effetto di accentuare il processo di disgregazione che era già in atto in qual paese dal tempo della morte di Enrico VI. Il Giornale, 30 novembre 1979 Il valore dei cocci A. Carandini Archeologia e cultura materiale. Lavori senza gloria nella antichità classica De Donato (pagg. 182, lire 1800) Carandini contesta i musei archeologici perché sono concepiti in modo da far credere al visitatore che la vita degli antichi fosse fatta solo di statue, di mosaici, di vasi dipinti – in una parola di oggetti «belli» ma non «utili». Mentre invece, anche a voler restare nell’ambito delle opere d’arte o dei prodotti dell’artigianato artistico (due categorie di oggetti, sia detto fra parentesi, fra le quali – secondo Carandini – non c’era nel mondo classico una soluzione di continuità), è evidente che la loro realizzazione richiedeva l’uso di utensili appropriati, di cui si cercherebbe invano una traccia nei nostri musei. Per non dire degli attrezzi di cui si servivano i contadini e gli artigiani nel loro extra-artistico lavoro quotidiano, e dei recipienti, grezzi e costruiti in serie. A chi gli obiettasse che, anche nelle nostre case borghesi, è molto più facile trovare il pezzo residuo di un servizio di porcellana artistica di cento anni fa che un piatto del servizio in terraglia che veniva contemporaneamente usato per le necessità di tutti i giorni, a salvaguardia di quello «buono», Carandini risponderebbe, primo, che non a caso l’archeologia tradizionale riflette i gusti e la scala di valori


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propri dell’età borghese; secondo, che la ceramica di ogni tipo è un materiale, fragile sì per definizione, ma anche praticamente indistruttibile. Il terreno sul quale camminiamo è disseminato di «cocci» in tutti i vari strati da cui è costituito. Anzi, a saperli leggere bene, proprio i cocci permettono di datare con precisione i diversi strati archeologici. All’archeologia votata alla ricerca e allo studio di oggetti di valore artistico, da collocare ieri nelle collezioni dei principi, oggi nei pubblici musei, Carandini contrappone un’archeologia rinnovata nei metodi e nella finalità, che dedichi almeno altrettanta attenzione alla terra che il tempo ha accumulato dentro e attorno agli edifici antichi, segnandola – strato dopo strato – delle tracce della vita di tutti i giorni, com’era vissuta e faticata dalla maggioranza degli uomini. Solo quando le nostre conoscenze intorno agli oggetti «utili» che riflettono le «condizioni materiali oggettive» del processo lavorativo dell’antichità, diventeranno altrettanto sicure di quelle che secoli di erudizione antiquaria hanno accumulato intorno agli oggetti «belli», potremo dire di avere fatto dell’archeologia una scienza storica. La nozione di «condizioni materiali oggettive», da distinguere poi in «mezzi di produzione» (rivolti al consumo produttivo) e in «mezzi di sostentamento» (rivolti al consumo individuale), che Carandini pone al centro della sua nuova archeologia, è attinta pari pari da Marx, ma risulta utile allo scopo. Siamo invece molto più suscettibili sulla possibilità di interrogare i «cocci» anche su quelli che, sempre in termini marxiani, vengono definiti come i processi sociali di produzione, cioè a dire sui rapporti che si stabiliscono fra gli addetti al processo produttivo nei diversi modi di produzione. Tutto questo offre comunque materia di riflessione e di utile discussione, di là dell’entusiasmo talvolta un po’ ingenuo ed irritante con cui la proposta è qui formulata. Ma, in ogni caso, nessuno riuscirà mai a convincerci che esista un qualsiasi nesso fra le tesi accademiche (in


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senso buono) presentate in questo libretto e «il grande sviluppo del movimento operaio e democratico», il quale avrebbe consentito «che si costituisse a partire dagli anni ’60, anche nell’ultima Tule dell’archeologia, un movimento di opposizione antifascista, democratico, per il socialismo» (pp. 129 e sg.). Il Giornale nuovo, 25 maggio 1980 «Il mercante di Prato» Soldo antico Iris Origo Il mercante di Prato Rizzoli Editore, Milano 1979, pp. XXVI+350, lire 12.000 Morendo, nel 1410, con cinque francescani al suo capezzale, il mercante pratese Francesco di Marco Datini lasciò tutto il suo ai poveri della città. Un amico notaio, ser Lapo Mazzei, uomo di profonda fede cristiana, ma anticlericale nella migliore tradizione fiorentina e italiana, lo consigliò di non «rizzare altare» nel «Ceppo dei poveri di Prato», l’istituzione cui sarebbe rimasta affidata per l’avvenire l’amministrazione del suoi beni. Un semplice altare, un oratorio, rischiavano di offrire una giustificazione all’intervento dell’ingordo clero locale. Mentre invece ad amministrare il tutto avrebbero dovuto essere nel tempo, insieme ai discendenti degli esecutori testamentari indicati fra i familiari e i collaboratori più stretti, quattro «buonomini» designati dal comune di Prato. Il testamento di Francesco Datini era congegnato bene: ancora oggi i poveri di Prato ricevono annualmente una sua elemosina. Ma molto più beneficiati da tanta accorta previdenza sono risultati gli storici della società e dell’economia trecentesca, che, nella sua casa, dispongono di uno dei più prodigiosi archivi privati del medioevo europeo, una bengodi documentaria che, come accade di frequente in questi


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casi, non ha mancato di generare liti per la precedenza fra gli studiosi accorsi. Principe indiscusso degli storici datiniani è stato, fino all’ora della sua morte prematura, Federico Melis, indimenticabile figura di storico e di gentiluomo, che, fra pochi torti commessi nella sua vita, ha avuto però quello di avere maltrattato con una recensione ingenerosa e, in parte, anche ingiusta, una scrittrice di storia, di origine nord-americana e anglo-irlandese, che era arrivata a mettere l’occhio, prima di lui, su una sezione dell’archivio Datini, contenente, fra l’altro, la corrispondenza fra il mercante e la moglie Margherita, di gran lunga meno attraente per chi da quella montagna di carte e registri era impegnato a ricavare soprattutto la fisionomia del commercio internazionale nella seconda metà del secolo XIV. La scrittrice in questione è Iris Cutting, Iris Origo, grazie al matrimonio italiano che, dal 1924, l’ha portata a vivere in Val d’Orcia. Il libro su «Il mercante di Prato», con prefazione di Luigi Einaudi e tradotto dall’inglese dalla nostra cara Nina Ruffini (è già tutto un programma), è alla sua seconda edizione. Nel frattempo, questo volume scritto da un amateur e destinato in partenza a un pubblico di non specialisti, avidi di dettagli sulla vita quotidiana del passato, ha avuto la singolare ventura di essere al centro di un dibattito storiografico. La seconda metà del secolo XIV è, per l’economia europea e italiana, un periodo di stagnazione o, se si preferisce, di lenta, contrastata ripresa dopo la crisi che, negli anni centrali del secolo, aveva posto traumaticamente fine a uno sviluppo demografico e produttivo, cominciato, come ora tutti ammettono, addirittura nel secolo X. Ma proprio dalle carte Datini il Melis ha tratto l’immagine di un’economia che, dopo il trauma, provvede a rinnovare le proprie tecniche operative, le sue strutture organizzative, in particolare per ciò che concerne il settore dei trasporti e i rapporti fra commercio e banca.


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Di fronte a quest’immagine al postutto ottimistica ricavata dai registri contabili, il quadro che emerge dal libro dell’Origo, costruito per lo più sulle lettere private, è in gran parte dissonante. Francesco di Marco Datini è un «avido e prepotente mercante» che si ritrova in corpo una gran paura di morire (la sua vita è costellata da sei pestilenze) e che è tutt’altro che catafratto in una supposta «cultura mercantile», alternativa ai miti e alle angosce del medioevo cristiano. «Verrassene in qua», scrive il Datini all’annuncio dell’approssimarsi di una nuova epidemia nel 1393, «e caverà di pensieri molti e molte che vivono male contenti, allotta si riposeranno molti che ora sono lassi delle fatiche di questo misero mondo». Si direbbe che ad essere stanco fosse soprattutto lui, il ricco, abilissimo, avidissimo, mercante di Prato, che la Origo ha avuto il merito indiscutibile di renderci familiare. Il Giornale, 13 agosto 1980 Un saggio di Giuseppe Galasso Tredici secoli Giuseppe Galasso L’Italia come problema storiografico Utet, pp. 1200, lire 40.000 In tempi in cui va di moda la microstoria o la storia in briciole, sia benvenuto un libro come questo che Giuseppe Galasso ha dedicato a L’Italia come problema storiografico. Esso fa anche da introduzione alla «Storia d’Italia», ad opera di vari autori, che Galasso dirige per Utet, e i cui volumi stanno uscendo a ritmo sostenuto. Ma se fosse stato solo questo, forse metteva meglio conto di parlarne ad opera ultimata, quando sarà possibile misurare fino a che punto i propositi espressi dal «direttore» siano stati messi in pratica dai diversi collaboratori.


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In realtà, il libro di Galasso pretende a molto di più e, anzi, alcune contraddizioni che è dato di riscontrarvi, nascono probabilmente dal fatto che l’autore ha dovuto contemperare l’esigenza pratico-editoriale di giustificare l’impianto dato a questa nuova «Storia d’Italia» con l’urgenza dei suoi pensieri, che tendono a respingerlo in alto mare, verso il progetto ideale di una storia d’Italia, non scritta a più mani, come questa, ma scritta da una sola mano: la sua. In via preliminare, Galasso sdrammatizza il problema: arrovellarsi a definire l’unità e la continuità della propria storia non è il riflesso di una «coscienza infelice» degli Italiani, bensì «un problema oggettivo che rientra nell’esperienza morale e intellettuale dell’Europa e del mondo civile di cui l’Italia ha fatto e fa parte». Quanto ai modi per risolverlo, il più semplice consisterebbe nel rifarsi al dato empirico secondo cui un paese chiamato Italia è esistito da sempre per la geografia (cap. I) di modo che sarebbe perfettamente legittimo fare la storia delle genti e uomini diversi che si sono succeduti su quel paese. Il più sofisticato conduce invece ad escludere a priori che esista una soluzione una volta per tutte, laddove ogni possibile soluzione sarebbe valida solo in rapporto alle domande che lo storico volta per volta si pone. Galasso rifiuta la prima soluzione perché troppo semplicistica e polemizza contro coloro i quali, dopo avere imboccato alla cieca quella strada, si sono poi illusi di avere scoperto cammin facendo delle «permanenze profonde»; non si accontenta della seconda, perché l’«assoluto soggettivismo storiografico» implicito in essa è smentito dal processo «oggettivo» descritto nei capitoli IV-VIII del suo libro. Già nel periodo comunale e signorile, parallelamente, o quasi, ad un’analoga presa di coscienza da parte delle altre nazionalità europee (nazionalità, si badi bene, e non nazioni, come le postulerà l’«idea di nazione» nata con la rivoluzione francese), si assiste infatti anche a una «presa di coscienza dell’italianità», conseguenza dell’ormai avvenuta «definizione unitaria e


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specifica dello spazio geografico italiano come area linguistica e culturale, come area politica, come area storica». Il nostro Risorgimento nazionale, è dunque, da considerarsi «figlio del tempo, ma non soltanto del suo tempo» che – come tale – è il secolo XIX. Il punto più delicato consisterà nel fare in modo che questa lunga gestazione della moderna nazione italiana venga vista «nel suo autentico e autonomo significato», non come un prologo plurisecolare che trarrebbe luce solo da un epilogo, che, in teoria, avrebbe potuto anche non esserci stato. Chiarito che le vicende dell’Italia prima di Roma e sotto Roma restano comunque tagliate fuori da questo processo (cap. III), che, come per le altre nazionalità europee, ha inizio dal declino di Roma e dalla conseguente rottura con la comunità romana (per l’Italia, l’invasione longobarda), l’orizzonte della storia d’Italia sembrerebbe abbastanza bene delineato. Ma – mette le mani aventi Galasso – esso permane pur sempre «mobile e mutevole». Anzitutto, «la storia italiana non può avere una dimensione politica che non sia la sua», quella cioè di un paese che, fra il 568 e il 1860, non fu mai unito. Per quei tredici secoli la storia d’Italia non può essere che «una storia parallela delle singole formazioni politiche presenti nel paese», oppure «una storia del sistema degli Stati italiani, ossia dei rapporti di forza tra loro e, assai spesso, con potenze extra italiane». Una storia, insomma, di necessità, o esterna o disorganica. Con la complicazione in più che, a partire dal momento in cui, tra medioevo e età moderna, la pluralità delle formazioni statali, che caratterizzava di per sé lo spazio politico italiano, si precisò in una costellazione ormai fissa di stati regionali o interregionali, «il carattere particolare di quelle storie si consolidò in una dimensione che non era più semplicemente locale, ma arieggiava a quella di piccole nazioni nell’ambito generale della nazionalità e della cultura italiana». Per questa ragione, la storia nazionale italiana non può non assumere «un carattere multinazionale».


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È, nell’itinerario di Galasso, il punto di maggiore difficoltà, oltre il quale sembrerebbe non restargli aperta altra possibilità se non quella di rinunciare all’impresa. Ma egli non decampa e, attraverso una via che è ad un tempo intelligente e tortuosa, riconquista il suo orizzonte perduto. Ammesso che «le singole culture locali sono legate, oltre che nella generale circolazione europea, anche in una più specifica e più ristretta circolazione nazionale»; dal momento che società e cultura sono inseparabili ne discende che «un qualche nesso nazionale ed unitario, specifico, vada cercato e si debba trovare anche nella vita sociale e politica del paese». È certo il traguardo più ambizioso che possa porsi uno storico italiano. Il Giornale nuovo, 11 dicembre 1980 Il feudalesimo nel saggio di Duby Specchio a tre facce «Gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri ancora lavorano; le tre categorie sono insieme e non sopportano di essere divise; cosicché sull’ufficio dell’una poggia l’opera delle altre due, ciascuna a sua volta recando il proprio aiuto a tutte». Visto dal di fuori, l’ultimo libro di Georges Duby (Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Bari, Laterza, 1980, pp.1-468 lire 20.000) non è che la storia della nascita, temporanea eclissi e affermazione finale, nella Francia settentrionale dei sec. XI-XII, del cosiddetto «schema trifunzionale», una rappresentazione della società che risulterà, a partire dall’inizio del sec. XIII, tanto vincente da informare di sé un’istituzione destinata a essere spazzata via solo dalla rivoluzione francese. I tre «ordini» (clero, nobiltà, terzo stato), in cui si ripartiva, secondo la legge, la società francese dell’ancien régime, prima che la Francia si ritrovasse unita come nazione, derivano infatti da qui.


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In realtà, chi legge questo libro si accorge subito che l’esposizione delle alterne fortune dello «schema trifunzionale» ha offerto il destro al più dotato e operoso e versatile fra gli storici del medioevo oggi in attività di servizio per tracciare, come in uno spericolato contrappunto, le linee maestre di una storia della società e dello Stato francesi nei secc. XIXIII, ripensata alla luce delle ricerche degli ultimi decenni. A denunciare per la prima volta lo «schema trifunzionale» furono i vescovi di Cambrai e di Laon, verso il 1030. Essi sapevano bene di non dire nulla di nuovo. Sull’immancabile fondamento biblico e patristico, in età carolingia e, fuori dall’Impero, nel fertilissimo mondo anglosassone, già altri erano arrivati a formulazioni identiche o analoghe. Ma, accanto a queste, altre rappresentazioni della società tenevano il campo: di norma bipartite (Clero/laici; poveri/potenti); una anche tripartita (casti/continenti/coniugati), che rifletteva l’ossessione cristiana per il sesso. In un clima pervaso da una trepidante attesa della fine del mondo (nel 1033 ricorrevano i mille anni della Passione), da molte parti si mirava ad abolire le distinzioni fra gli «ordini», come se questo azzeramento potesse facilitare il trapasso. Predicatori della «pace di Dio», eretici e monaci tendevano, con diverse motivazioni, a realizzare questo obiettivo comune, mentre il re capetingio, guardiano stabilito e, perciò, anche delle distinzioni esistenti fra gli «ordini», perdeva ogni giorno di forza e di autorità a vantaggio dei nuovi poteri locali incentrati sui «castelli» e impersonati dai domini di questi, che si facevano forti delle schiere di combattenti a cavallo che militavano al loro servizio. D’altra parte, l’impellente necessità di provvedere in modo adeguato alle esigenze dei giovani «cavalieri», ora che erano venute meno le risorse della guerra di conquista che avevano soddisfatto in gran parte gli appetiti dei loro predecessori carolingi, e in attesa che si aprisse la prospettiva esaltante dell’avventura crociata oltremare, aveva messo in moto


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un processo di profonda trasformazione della struttura produttiva di base: la signoria fondiaria. A pagare le spese della riconversione signorile erano chiamati naturalmente i rustici, la cui «mise en condition» non fu senza destare reazioni violente, che si imposero all’attenzione degli operatori specializzati di pace. Perciò contro le spinte egualitarie che venivano tutte dal Mezzogiorno e dall’Italia i vescovi benpensanti del Settentrione, all’alba del secondo millennio, non si limitarono a riproporre l’antica distinzione, enunciata da papa Gelasio alla fine del quinto secolo, fra la «sacra autorità dei vescovi» (gli oratores) e il potere dei re e dei principi secolari (i bellatores), più che mai indispensabile ora che si trattava di irreggimentare le squadracce di «cavalieri» (i milites), ma, nella loro proclamazione di un ordine ideale antinomico rispetto al disordine presente, si risolsero a fare posto anche ai coltivatori della terra, la cui fatica, assunta nel mondo dei valori, veniva presentata come un prezzo da pagare in cambio della salvezza dell’anima e della sicurezza fisica, garantite rispettivamente da oratores e bellatores, giustificandosi così, in una sorta di meccanismo di tolleranza repressiva, la durezza inaudita del nuovo «modo di produzione signorile». La prevalenza dei monaci sul clero secolare (è il secolo di Cluny), la lotta per le investiture (che restituì attualità alla distinzione gelasiana) e, soprattutto, la crisi del potere regio, che i vescovi del Mille si erano illusi di poter surrogare, spiegano – secondo il Duby, che dedica a questo vuoto la sezione centrale del suo libro – l’eclissi dello «schema trifunzionale», che tornerà in auge nella seconda metà del sec. XII in una situazione radicalmente mutata. Ora, a servirsene non sono più gli oratores, ma il re, la cui corte è un microcosmo in cui convivono fianco a fianco i «chierici» della cappella regia, con tutto il prestigio della loro cultura universitaria, i «cavalieri», con tutto il fascino della loro cultura e dei costumi cortesi, e i «plebei» – borghesi arricchiti –, con tutto il peso del loro denaro. In riferimento al terzo


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incomodo dello «schema trifunzionale» già Giovanni di Salisbury aveva notato che «supera il millepiedi per il numero delle zampe»: i borghesi arricchiti erano, appunto, le zampe che nel frattempo avevano fatto più strada. Anche se la crisi della signoria provoca proprio allora una nuova fase di turbolenze nelle campagne, i contadini potevano essere tenuti a bada senza più occuparsi espressamente di loro nelle rappresentazioni della società. Costituivano ormai una specie di quarto stato di fatto. Adesso, a livello delle classi dominanti, il problema era, da un lato, quello di far comprendere che, se il re è un cavaliere, egli non è solo questo, e, dall’altro, quello di celebrare la superiorità della cavalleria (della «nobiltà») su tutti gli altri ordini, clero compreso, ma soprattutto differenziandola da chi, essendo padrone degli ingranaggi della nuova economia monetaria, insidiava dal basso i suoi privilegi. Il Giornale di Sicilia, 25 aprile 1982 Un inedito di Croce sulla ristampa di Amari «La storia del Regno di Napoli» è forse il libro di Benedetto Croce che godette di maggior popolarità anche presso coloro che non amavano il filosofo napoletano e il suo stile storico. Eppure, la famosa «introduzione» a questo libro è quanto di più peculiarmente crociano si possa immaginare, a cominciare dal giudizio sulla monarchia normanno-sveva («quella storia, nella sua sostanza, non è nostra») per finire con quello, altrettanto controverso, sul Vespro: «Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico, (…) fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza». È la sigla inconfondibile di una storiografia consapevole della dignità senza pari del proprio statuto disciplinare; di una storiografia autosufficiente.


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Agli antipodi, dunque, di quella che di solito si pratica oggi, così portata a giustificarsi, a cercare appoggi disciplinari esterni, a non pronunciarsi sull’essenziale. Per questo, con quelle poche pagine, che formano come un condensato di pensiero storico, ci ritroviamo a dovere fare i conti ancora oggi che si celebra il settimo anniversario del Vespro. E non importa che, alla fine, il segno del giudizio risulti – come oggi è da prevedere – in tutto o in parte mutato. Data l’importanza che Croce riveste per la «questione del Vespro», non sarà inutile aggiungere un aneddoto crociano, ancora sconosciuto, a completamento di un quadro, che, nei suoi tratti generali, è arcinoto. Sarà un modo, oltretutto, di associare alle celebrazioni di questi giorni il nome di un illustre studioso siciliano, prematuramente scomparso, Stefano Bottari, che, benché storico dell’arte, ha sempre nutrito un serio interesse per gli studi accademici del 1282 e, in particolare, per la guerra del Vespro di Michele Amari, «questa capanna dello zio Tom del mondo siciliano», come scrive Illuminato Peri, senza proporsi di fare dello spirito a buon mercato. Nella storia della storiografia italiana del secolo decimonono, che precede di qualche anno «La storia del Regno di Napoli», Croce dà della guerra del Vespro siciliano dell’Amari un giudizio oltremodo favorevole: «Fu forse la prima opera che allora apparisse degna di essere collocata accanto alle straniere per uso di documenti originali e severa critica delle fonti, ma (…) segna assai bene il passaggio dalla storiografia di tendenza alla storiografia scientifica, e la vittoria che in un medesimo individuo questa ottiene sull’altra, per virtù d’ingegno scientificamente disposto». È la seconda parte del giudizio che occorre soprattutto ritenere. Croce non manca di sottolineare che nell’Amari avevano agito come stimolo vivissimo i contrasti fra le due parti del regno delle due Sicilie (la continentale e l’insulare), che avevano caratterizzato il decennio francese e la rivoluzione del 1820 e che si erano riaccesi nel 1848; «e si può pensare


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quale parte l’Amari siciliano vi tenesse e con quanto ardore». Ma, appunto quello stimolo iniziale si era convertito per l’Amari in un impegno intellettuale, in forza di compassione, e era rimasto estraneo alla trattazione, «che fu guidata dal solo fine della verità storica». Un apprezzamento, questo, che si riflette indirettamente nel giudizio piuttosto limitativo che il Croce riserva invece all’altra grande opera dell’Amari, «La storia dei Musulmani di Sicilia»: «Nel Vespro, il filologo aveva accanto a sé, a dargli anima e vita, l’ardente patriota: nella storia dei Musulmani, è rimasto solo, cresciuto di statura ma solo». Il centro della ricostruzione dell’Amari è rappresentato, com’è noto, dalla distruzione della leggenda della congiura di Giovanni da Procida e dalla presentazione del Vespro come «spontanea ribellione popolare». Una tesi – ammetteva Croce – che andava d’accordo con le tendenze democratiche e rivoluzionarie dell’autore, ma che, al tempo stesso, risultava criticamente proposta e pienamente dimostrata. A questo punto verrebbe fatto di domandarsi come il giudizio sul Vespro espresso qualche anno dopo nell’«introduzione» alla «Storia del Regno di Napoli» potesse conciliarsi con questo apprezzamento del libro dell’Amari. La storia della storiografia, anche se praticata ai più alti livelli, è davvero il cavallo balzano, di cui parlava Walter Maturi. Ma questo è un discorso da rimandare ad altre occasioni. Cento anni fa, in occasione della ricorrenza centenaria, l’Amari, alla vigilia di compiere ottant’anni, scrisse su richiesta del Comune di Palermo, il racconto popolare sul Vespro siciliano, «che – per dirla con Rosario Romeo – rivela immutato l’antico fervore nell’animo del vecchio studioso». Di questo libro Stefano Bottari voleva curare la ristampa nel 1943, e ne scrisse al Croce per esser confortato nel suo proposito. Il 16 settembre, Croce gli rispose con una cartolina: «Caro professor Bottari, conosco la storia popolare del Vespro, scritta dall’Amari, e che io, ragazzo, acqui-


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stai in occasione del centenario del 1882, ma non mi pare opportuno ristamparla sic et simpliciter: tanto più che i giudizi recenti (anche miei) hanno dato rilievo alla posizione che ispirò la prima storia dell’Amari e che l’autore sconfessò poi e cercò di attenuare o cancellare nelle posteriori edizioni: l’odio dei siciliani contro i napoletani e il separatismo. Bisognerebbe dunque rivedere con spirito critico se quella che l’Omodeo definì la interpretazione romantica della sollevazione del Vespro, data dall’Amari, regge ancora, e se con essa non si butti via troppo in fretta l’altra tradizionale del Procida e della cospirazione. Perché non si mette lei a questo lavoro? Molti saluti dal suo B. Croce». Il Bottari rinunciò al suo proposito, ma non accolse l’invito di Croce a ristudiare daccapo la questione della genesi del Vespro, anche perché nel frattempo l’opera di revisione critica sollevata dal filosofo napoletano era stata compiuta da altri. Ma basti accennare, anche qui nell’intento di ricordare una persona cara scomparsa, ai tre importanti contributi in materia di Helene Wieruszowski, ora raccolti nel grande volume miscellaneo edito da «Storia e letteratura». Ma nel 1949 il Bottari tornò a occuparsi dell’Amari auspicando una nuova edizione, non più questa volta del racconto popolare, bensì della guerra del Vespro vera e propria. La nuova edizione avrebbe dovuto tenere conto anche dei dodici fogli di appunti, di mano dell’Amari, rilegati in fondo a un esemplare dell’opera di sua proprietà; finito nella biblioteca comunale di Enna. Questo secondo voto del Bottari è stato esaudito: nel 1979 Francesco Giunta ci ha dato l’attesa edizione critica di questo capolavoro della storiografia italiana del secolo scorso. Volutamente, ho trascritto la cartolina di Croce, lasciandola senza commento. Il commento si preparava a scriverlo il Bottari, che me ne parlò più volte a Bologna, nelle settimane che precedettero la sua morte (il 10 febbraio 1967). Pubblicando il testo della cartolina intendo rendere omaggio


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alla sua memoria oggi che, in occasione del centenario del Vespro, si riparlerà inevitabilmente dell’Amari e di Croce. Il Giornale, 2 settembre 1982 Breve storia dei «cristiani maroniti» Sotto il segno dell’anacoreta* Mi domando quanti siano a sapere chi sono i «cristiani maroniti», che le cronache del Libano ci hanno reso familiari se non altro nel nome. Lo stesso Santo Padre tende a trascurarli nei suoi accorati appelli domenicali. Scommetterei che qualcuno si è fatto l’idea che si tratti di una tribù di fascisti mediorientali, amici degli israeliani e degli americani. Io stesso, per non essere stato sul posto, non so bene cosa essi rappresentino oggi. Ma presumo che siano detestati da mons. Capucci e questo, per me, è già un titolo di merito. Quanto basta per darsi la pena di andare a vedere da dove sono usciti fuori. Vengono da molto lontano. La loro storia è come un filo rosso attraverso la storia dell’Oriente cristiano, dal quartoquinto secolo fino all’età delle Crociate, fino a oggi. Come ogni vera storia, anche questa è fatta di continuità e di cambiamenti. Se è la continuità ad apparire, a prima vista, prodigiosa, i cambiamenti non lo sono di meno. Costituiscono in parte l’oggetto di secolari polemiche storiografiche, destinate, con ogni probabilità, a non approdare mai a conclusioni soddisfacenti per tutti. Sono in gioco valori, tradizioni, pregiudizi duri a morire, molto più forti della buon volontà degli storici cosiddetti disinteressati. Una cosa è certa: nati e vissuti come minoranza etnico-religiosa, i «cristiani maroniti» non sono nuovi alle prove di questi ultimi * Si veda, in questo volume, L’Europa/Il tempo e il sentimento, «Identikit» dei Maroniti, 16-26 dicembre 1975.


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anni. Per secoli e secoli, non hanno visto altro. Se il destino li chiamasse a essere la forza egemone del Libano di domani, forse morirebbero di morte naturale. Ma guai a chi formulasse il progetto di spazzarli via dalla loro terra. Fino a qualche tempo fa, la testa di san Marone era conservata a Foligno. Questo anacoreta – uno fra i tanti – è vissuto fra i secc. IV e V su una montagna nei pressi di Apamea, in Siria. Dopo la sua morte fu costruita una chiesa per custodirne il corpo. Un po’ più tardi troviamo una comunità di monaci, riuniti nel suo nome: sono i «maroniti» prima maniera. Quando nel sec. X fu distrutto dagli arabo-musulmani, questo monastero constava di un grande edificio circondato da trecento celle. Ma, a partire dalla fine del sec. VII, i «maroniti» o, forse meglio, una parte dei «maroniti» cominciarono a sciamare dalla Siria verso il Libano, prima settentrionale, poi centrale e meridionale, che sarebbe stata la loro sede definitiva. Quando riaffiorano, hanno cambiato faccia. Non sono più una comunità di monaci, con il loro seguito di fedeli e simpatizzanti, ma un piccolo popolo, cementato da una fede comune, che obbedisce a dei capi (un patriarca e dei vescovi) a un tempo politici e religiosi. Fu il primo cambiamento, quello decisivo. A renderlo possibile furono, prima, gli strascichi delle grandi controversie cristologiche del quinto secolo, poi l’invasione arabo-mussulmana. In una regione dove prevalevano ancora nettamente i «monofisiti», cioè i sostenitori della dottrina, di origine alessandrina, secondo cui, al momento dell’incarnazione, le due nature di Cristo avrebbero dato vita a una sola natura, quella divina, i seguaci di s. Marone professavano la dottrina sancita dal concilio ecumenico di Calcedonia del 451. Ogni anno, il 31 luglio, la chiesa maronita ricorda i trecentocinquanta monaci uccisi dai «monofisiti». Cifre a parte, sulle quali non potremmo giurare, era un tributo di sangue che si traduceva in un forte elemento di coesione per i superstiti.


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Viene poi il momento oscuro della storia dei «maroniti», la macchia che offusca la loro più remota tradizione e che essi fanno di tutto per cancellare o per attenuare. Verso il terzo decennio del sec. VII, l’imperatore Eraclio ristabilisce l’autorità dell’impero sulla Siria, dopo una serie di campagne vittoriose contro i Persiani. Poiché, nel periodo dell’egemonia persiana, i «monofisiti» avevano goduto, come eretici, di un trattamento di favore, Eraclio li perseguita, spossessandoli di chiese e monasteri, che vengono trasferiti agli ortodossi. Per i «maroniti» è l’ora della rivincita, ma anche della tentazione. Quando Eraclio, qualche tempo dopo, passa dalla maniera forte alla ricerca di un compromesso onorevole con i «monofisiti» e propone come piattaforma di intesa il «monotelismo» (una sola volontà e quindi una sola natura in Cristo), i «maroniti», come dimentichi della loro intransigenza calcedoniana, avrebbero aderito alla nuova dottrina, che Roma da parte sua, contrastò subito con grande fermezza. La buona volontà di Eraclio non sortì alcun effetto. Fra il 634 e il 636, la Siria fu conquistata dagli arabo-musulmani e i «monofisiti», mostrando così di disprezzare l’offa monotelica, accolsero a braccia aperte i seguaci di Maometto, sotto il cui dominio ritenevano di poter meglio tutelare nella sua integrità originale la propria fede anticalcedoniana. Da parte loro, i maroniti ripiombarono nella condizione di minoranza perseguitata. Non tanto però da non poter fare sentire pubblicamente le loro ragioni, se è vero che, nel 659, a Damasco, si svolse una disputa fra due vescovi monofisiti e una rappresentanza maronita. A presiederla, sedeva il califfo in persona. Dovendo spiegare in qualche modo l’adesione, che resta indubbia, al monoteismo, gli storici della chiesa maronita hanno elaborato una tesi molto ingegnosa. Rimasti tagliati fuori per tempo dal contatto con Costantinopoli e con Roma (le date, a onore del vero parlano a favore di que-


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sti storici), i «maroniti» non avevano avuto modo di sentire parlare né del monotelismo né della risposta elaborata a Roma contro tale dottrina, che ribadisce la presenza nel Cristo di due volontà distinte in corrispondenza delle sue due nature. Fermi in questa duplice ignoranza, sarebbero venuti a contatto con prigionieri bizantini catturati dagli Arabi all’inizio del sec. VIII, i quali mostravano uno sconcertante interesse per la dottrina delle due volontà (nel frattempo il monotelismo era stato condannato dal sesto concilio ecumenico). Preoccupati da questa svolta del pensiero teologico, che rendeva ancora più difficili i rapporti di convivenza con i «monofisiti», i «maroniti» avrebbero formulato una loro dottrina che, senza spingere ad ammettere una sola volontà in Cristo, sottolineava con fermezza che fra le due volontà non poteva esserci contrasto. In altre parole, più che essere diventati monoteliti in senso proprio, i «maroniti» avrebbero inventato per conto loro un monotelismo attenuato, a sfondo più che altro morale. La spiegazione è artificiosa, ma rende bene la situazione di isolamento in cui si trovavano allora i «maroniti», venuti ad accamparsi nelle valli del Libano, e schiacciati fra i musulmani, da un lato, e i «monofisiti», dall’altro, che godevano della protezione degli invasori. È soprattutto in questo periodo che i «maroniti» si realizzarono come comunità politico-religiosa, chiusa in se stessa e inassimilabile dai dominatori del mondo circostante. L’incidente monotelita fu chiuso solo alla fine del sec. XII, quando, in coincidenza con le Crociate, i «maroniti» tornarono all’ortodossia. Innocenzo III qualche tempo dopo sancì la dipendenza da Roma del patriarca maronita.


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Il Giornale, 7 gennaio 1983 Papa Giovanni VIII, il «can» Boris e il patriarca Fozio L’imbroglio bulgaro Al gesuita francese Arthur Lapotre, autore nel 1895 di un libro su papa Giovanni VIII (872-882), la storia del papato nella seconda metà del sec. IX appariva dominata dall’«imbroglio (italiano nel testo) bulgaro». I precedenti del caso di oggi non sono naturalmente da cercare così lontano, negli annali della storia ecclesiastica. Ma anche il più realista degli osservatori concederà che papa Wojtyla, oltre che il protettore della maggiore eresia politico-sindacale mai sbocciata nei paesi del socialismo reale, è anche il capo di un’istituzione che, volta a volta, ha incarnato le aspettative e provocato i risentimenti di bulgari e di polacchi, di russi e di cechi. Di modo che non sarebbe da meravigliarsi che qualche pope bulgaro non si scandalizzi troppo all’idea che il suo governo possa avere avuto qualche parte nella trama ordita per eliminare l’oltraggio che la presenza di un polacco sul soglio di Roma costituisce per l’ortodossia slavo-greca. Poco più di cento anni prima che il battesimo del duca Miezko I (966) e la creazione della diocesi di Poznan inaugurasse il «millennio» della Polonia cristiana, orientandolo subito, senza esitazione, verso il polo romano, poco era mancato che la Bulgaria, assurta già allora a una sia pur primitiva vita statale, non diventasse una Polonia ante litteram. E il fatto che così non sia stato ha lasciato, appunto, un segno profondo. È da escludersi che la conversione della Bulgaria sia stata avviata da Costantino e Metodio, i due famosi fratelli di Salonicco, cui Bisanzio affidò il compito di evangelizzare la grande Moravia, il più importante conglomerato politico slavo del tempo, in concorrenza con i missionari inviati dal confinante episcopato germanico. Nell’863 i due fratelli attraversarono, ma niente di più, il territorio bulgaro, diretti


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verso nord. Portavano con sé i primi capitoli del vangelo di Giovanni tradotti in paleoslavo e trascritti nelle lettere di un alfabeto (il «glagolitico», e non il «cirillico», come si credeva una volta) che essi stessi avevano creato per l’occasione. La conversione dei Bulgari iniziò solo l’anno dopo, a opera di oscuri missionari inviati da Costantinopoli, su richiesta del loro can Boris, che riteneva la cristianizzazione utile a fondere insieme il grosso della popolazione che era slavo, e il gruppo dominante, che era invece di origine unna. Bruciando i tempi, Boris avrebbe però voluto che la chiesa del suo regno avesse subito un patriarca, che le consentisse di non sfigurare di fronte alla chiesa del vicino impero. E poiché il patriarca costantinopolitano Fozio non intendeva accontentarlo, il can nell’866 non esitò a rivolgersi a Roma, sperando di trovarvi maggiore comprensione. Papa Nicolò I rispose abilmente, non escludendo un patriarca per il futuro e inviando per il momento due vescovi: Formoso di Porto e Paolo di Populonia. La missione romana ebbe un successo fulmineo, senza precedenti. Si racconta che Boris, prendendosi i capelli fra le mani, abbia giurato pubblicamente che, da quel momento in poi, sarebbe stato servo, dopo che di Dio, del beato Pietro e del suo vicario. Formoso, in particolare, lo conquistò. Un arcivescovo della sua taglia avrebbe garantito alla neonata chiesa locale lo splendore che egli voleva a tutti i costi assicurarle. Ma il papa fece presente che Formoso era già vescovo di Porto e che trasferirlo sarebbe stato andare contro i canoni, che allora configuravano il rapporto di un vescovo con la propria chiesa come un matrimonio indissolubile. Formoso tornò a Roma pieno di risentimento contro chi gli aveva negato il trasferimento e la promozione. Finché era stato laggiù, si era distinto per zelo antibizantino. Oltretutto, il patriarca, Fozio, era considerato a Roma un usurpatore, perché, laico fino al giorno prima di essere nominato, era subentrato illegittimamente al posto del patriarca Ignazio.


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Deluso, Boris, tornò a bussare alla porta di Bisanzio, dove nel frattempo Fozio era stato deposto e reintegrato Ignazio. A differenza del suo predecessore, il nuovo patriarca, dimentico dei suoi debiti di riconoscenza verso la chiesa romana che l’aveva sempre appoggiato, si affrettò a mandare in Bulgaria l’arcivescovo e i vescovi greci richiesti. È a questo punto che «l’imbroglio bulgaro» produce tutti i suoi frutti sulle rive del Tevere. Papa Giovanni VIII costringe Formoso a fuggire da Roma, accusandolo di avere compromesso con la sua ambizione personale il successo della missione bulgara, e, per punire Ignazio del suo tradimento, promuove la riabilitazione di Fozio, annullando una condanna che era stata sancita addirittura da un concilio ecumenico. La Bulgaria valeva bene una messa. Gli sforzi di Giovanni VIII furono vani. Fozio, una volta riabilitato, mantenne la promessa che aveva fatto e abbandonò la Bulgaria al suo destino. Ma ora furono i Bulgari stessi che, persuasi della bontà della ricetta bizantina – indipendenza religiosa (si intende da Roma) e autocrazia politica –, rifiutarono di compiere un altro voltafaccia. Nel frattempo era fallita la missione di Costantino e Metodio in Moravia. Il solito lungimirante Giovanni VIII aveva attirato a Roma i due fratelli e approvato solennemente la liturgia slava, che era lo strumento del loro apostolato. Ma un intrigo ordito dall’episcopato tedesco in vista delle necessità del Drang nach Osten non tardò a ricondurre la chiesa morava sotto la dipendenza dei suoi potenti vicini. Espulsi dalla Moravia, i seguaci dei due «apostoli degli Slavi» andarono a rifugiarsi proprio in Bulgaria. È qui che la liturgia slava, prima approvata e ora proscritta da Roma, trovò un clima propizio per mettere radici. In un certo senso, la Bulgaria andava perduta una seconda volta – e per sempre – per la cristianità occidentale. Per la Chiesa di Roma, in particolare, cominciò il «secolo di ferro»: Giovanni VIII è il primo papa che sia morto assassinato.


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Nel novembre 1981, in un congresso voluto da Wojtyla, un gruppo di studiosi soprattutto polacchi dibatté le «Comuni origini cristiane delle nazioni europee». Pochi giorni prima, in un altro congresso, studiosi soprattutto bulgari avevano trattato di Costantino e Metodio. Allora non si parlava ancora di una pista bulgara per l’attentato contro Giovanni Paolo II. Qualcuno che assisté a entrambi i congressi osservò che, dietro il paludamento dell’oratoria accademico-congressuale, da più di una delle relazioni del primo era trapelata la sorda ostilità dell’ortodossia bulgara per la Polonia cattolica. Il Giornale, 3 marzo 1983 Si apre a Milano un convegno dedicato a Federico Chabod La storia e il suo sguardo* A distanza di pochi giorni, Milano onora due illustri cultori della storia, morti venti anni fa prematuramente, lasciando un vuoto che ancora si fa sentire. Il 22 febbraio all’Archivio di Stato, per iniziativa della Società storica lombarda e del Comune di Milano, Cinzio Violante, Giulio Vismara ed Edoardo Arslan hanno ricordato l’opera di Gian Piero Bognetti, storico dell’età longobarda in Italia e di Milano altomedievale; ma non solo altomedievale, perché suo è anche, fra l’altro, il capitolo introduttivo, «Verso la città nuova», che apre il sedicesimo e ultimo volume della «Storia di Milano» della Fondazione Treccani degli Alfieri. A differenza di Bognetti, milanesissimo e sepolto nella chiesetta di S. Maria foris portas di Castelseprio, i cui affreschi hanno costituito il punto di partenza del più giustamente famoso dei suoi contributi sui Longobardi, Federico Chabod, che sarà ricordato in quattro «giornate di studio» (3-6 marzo), * Si veda, in questo volume, Il Giornale, Quando lo storico faceva i conti col duce, 8 marzo 1983.


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indette dall’Istituto di Storia medievale e moderna dell’Università statale, è stato milanese solo di adozione. Nato ad Aosta, ha insegnato storia medievale e moderna alla facoltà di lettere della Statale del 1938 al 1946. Ma questi non molti anni di insegnamento, interrotti oltretutto dalla sua attiva partecipazione alla guerra di liberazione, ch’egli combatté come partigiano in Val d’Aosta, non sarebbero certo bastati a creare un così saldo legame fra lui e Milano, se non fosse stato per le ricerche sullo Stato di Milano nell’età di Carlo V, cui Chabod si dedicò fin dal 1928, quando affrontò per la prima volta lo studio dei documenti conservati a Simancas, nei pressi di Valladolid, nell’archivio della Corona di Castiglia, e che, mai del tutto abbandonate, tornarono a costituire il suo principale impegno di studio negli ultimi anni della sua vita. Il contributo di Chabod al volume IX della «Storia di Milano», apparso postumo e incompiuto nel 1961 si aggiunse così al libro del 1934 su «Lo Stato di Milano nell’impero di Carlo V», all’altro libro, apparso nel 1938, sulla storia religiosa dello Stato di Milano sempre nell’età di Carlo V e a una serie di successivi contributi minori, accrescendo ulteriormente il debito che la città che lo aveva avuto professore prima del suo definitivo trasferimento all’Università di Roma, riconosce ora di nutrire nei suoi confronti. Le «giornate di studio» su «Federico Chabod e la “nuova storiografia” (1919-1950)» sono state organizzate dal Brunello Vigezzi con un intento molto ambizioso. Prendendo come punto di partenza l’opera di Chabod, nella quale la storia di Milano nell’età di Carlo V costituisce solo uno dei centri d’interesse, Vigezzi ritiene che si possa vantaggiosamente affrontare un vero e proprio riesame critico complessivo della storiografia italiana, medievale, moderna e contemporanea, nel periodo che va dal primo dopoguerra al 1950. Non credo di sbagliare dicendo che questa seconda data è stata scelta avendo presente la data di apparizione dei due volumi su «Cinquant’anni di vita intellettuale italiana (1896-1946)»,


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che pubblicati per iniziativa e per le cure di Carlo Antoni e di Raffaele Mattioli, furono offerti, con qualche ritardo, a Croce, per il suo ottantesimo compleanno. Uno dei saggi più importanti compresi nei due volumi è quello che lo stesso Chabod dedicò agli «studi di storia del Rinascimento». Non occorre essere indovini per prevedere che molti relatori delle «giornate di studio» prenderanno le mosse di qui. Mai come in tale circostanza, Chabod ha dato una misura altrettanto piena delle sue doti non solo intellettuali, ma anche umane. Le «rassegne di studi» sono un genere difficile da praticare: si oscilla, di solito, fra l’elencazione anodina, fatta per non dispiacere a nessuno, e lo sfogo dei propri risentimenti e frustrazioni, innalzati per l’occasione a criteri di giudizio delle fatiche altrui. Non mancano nei due volumi succitati esempi eloquentissimi di deviazioni in tal senso. Uno storico dell’età barbarica, per il quale pure alcuni di noi non hanno cessato di nutrire stima e simpatia, arrivò al punto di definire, nella sua rassegna, Gioacchino Volpe come «l’Anti-Croce a cottimo del regime fascista». Agli antipodi di questo modo, diciamo sbrigativo, di giudicare e mandare, si poneva Chabod, uomo e studioso di saldi principi e convinzioni, ma che aveva il culto della discrezione, dell’equilibrio. È così, almeno, che probabilmente lo ricordano una buona parte dei relatori convocati da Vigezzi che lo hanno conosciuto a Napoli, all’Istituto Italiano per gli Studi Storici, creato da Croce, in un’ala della sua casa-biblioteca, nel 1947. Non tutti – è onesto riconoscerlo – apprezzavano questo lato di Chabod. Già si profilava, nei primi anni ’50, la stagione ostile alla tradizione politico-culturale incarnata dal padrone di casa, e che il direttore dell’Istituto impersonava degnamente a modo suo, e quelli fra i borsisti dell’istituto che più si sentivano vicini ai lari domestici, lamentavano talvolta le aperture di Chabod nei riguardi di orientamenti storiografici e culturali diversi, che giudicavano eccessive.


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In un recente scritto commemorativo, che è forse quanto di più penetrante sia apparso su questi aspetti non collaterali della personalità e del magistero di Chabod, Gennaro Sasso, apportando una variante alla definizione coniata da Theodor Adorno per Wilhelm Furtwängler e la musica lo ha definito «il guardiano della storiografia»: «Fu per questa sua straordinaria capacità di rivivere in sé le grandi tradizioni e di esserne il guardiano, che egli poté diventare il simbolo, o un simbolo, del crocianesimo». A parte Ernesto Sestan, che introdurrà i lavori, portando la voce di un protagonista, i relatori delle giornate chabodiane appartengono più o meno alla generazione che ha fatto ancora a tempo a conoscere Chabod e Palazzo Filomarino. Sono già, quindi, i venuti dopo, coloro che, nel 1950, o non avevano affatto cominciato a far parlare di sé, o che cominciavano appena. Non so come andrà l’esperimento. Se andasse bene, come auguro di cuore a Vigezzi che ne ha preso l’iniziativa, non mancherei però di domandarmi cosa accadrebbe se l’esperimento dovesse venire ripetuto, solo abbassando di poco l’età dei partecipanti. Col passare del tempo si sono forse stemperate le differenze che intercorrevano fra i giovani borsisti napoletani di quegli anni, alcuni dei quali si ritroveranno a dialogare fra loro nei prossimi giorni a Milano. Ma nel frattempo è venuto meno anche il tessuto di interessi e di convincimenti comuni che consentiva loro di dialogare, finita la lezione, con Chabod, mentre Croce, di là della porta che separava le due ali del palazzo che ci ospitava, continuava ad attendere infaticabilmente alla sua opera.


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Il Giornale, 13 aprile 1983 Si conclude oggi a Spoleto la settimana di studio sull’alto medioevo Se lo storico si occupa anche dei pesci Ai numerosi studiosi italiani e stranieri convenuti a Spoleto per il consueto appuntamento primaverile, il «Centro italiano di studi sull’alto medioevo» ha ammannito animali in tutte le salse. Il tema delle trentunesima «settimana di studio», che si conclude oggi con un discorso di Tullio Gregory, è su «L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo», un tema che, a prima vista, può apparire insolito e ispirato al desiderio di fare del nuovo a tutti i costi, che spesso caratterizza una storiografia che ha perduto la certezza dei propri fini. In realtà, la novità e la provocazione stanno solo nell’affrontare un siffatto tema globalmente, perché, se poi si vanno a vedere i punti trattati dai diversi relatori, ci si rende subito conto che alla vasta area dei rapporti fra «uomo» e «mondo animale» appartengono problemi di interesse tutt’altro che peregrino, che hanno da tempo una piena cittadinanza storiografica. Basti pensare all’importanza degli animali per la guerra, per l’alimentazione, per l’abbigliamento, per i trasporti, per la favolistica, per l’iconografia. Di nuovo, e di positivo, abbiamo registrato lo sforzo di studiosi di formazione prevalentemente, se non esclusivamente umanistica, come sono la maggior parte degli storici, per impadronirsi di concetti di carattere naturalistico o biologico. Nozioni come «ecosistema», «regime alimentare», «quadro biocenotico», maneggiate con disinvoltura e accortezza, consentono indubbiamente di organizzare meglio e, in certi casi, anche d’integrare i dati disponibili, che per l’alto medioevo sono – come è noto – molto scarsi. C’è anche da dire che quest’anno, rispetto alle «settimane» precedenti, almeno la rappresentativa italiana era costituita in gran parte da giovani studiosi, più disponibili a superare i confini fra le due culture.


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Argomenti come quelli trattati a Spoleto vanno affrontati su archi di tempo molto lunghi. Se diversi aspetti della storia degli uomini richiedono, per essere colti nel loro svolgimento, l’ampiezza di orizzonti cronologici della «lunga durata», tutto ciò che riguarda gli uomini medesimi in rapporto con gli animali evolve di norma così lentamente da pretendere, per essere fatto oggetto di studi «storici», tempi addirittura lunghissimi. Solo quando saranno disponibili gli atti a stampa, si potrà dire se l’alto medioevo, che è la misura tradizionale delle «settimane di studio» spoletine, costituisca una durata abbastanza lunga per affrontare utilmente un tema come quello proposto quest’anno. Gherardo Ortalli, la cui relazione su «Gli animali nella vita quotidiana», ha assunto per necessità di cose, un carattere sintetico e riassuntivo, ritiene di sì. La fine del mondo antico avrebbe fatto registrare una perdita di controllo sull’ambiente e, di conseguenza, diminuita la capacità di dominio degli uomini sugli animali, proprio nel momento in cui si diffondeva la visione del mondo giudaico-cristiana, fondata su un’accentuazione dell’antropocentrismo. Uomini, insomma, che avevano nelle orecchie i versetti del Genesi («La paura di voi e il terrore di voi siano in tutti gli animali selvatici e in tutti gli uccelli del cielo, come in ognuno che striscia sulla terra e in tutti i pesci del mare; essi sono dati in vostro potere»), si trovarono d’un tratto molto più disarmati dei loro predecessori della tarda antichità nei confronti degli animali, in particolare feroci. Se per l’alto medioevo, parafrasando un detto famoso, si può davvero dire «lupus homini lupus», nell’antichità il lupo era una minaccia solo per il bestiame, non anche per l’uomo. Nel discorso inaugurale, tenuto con dottrina, eleganza e brio da Gina Fasoli, sono state passate in rassegna le principali testimonianze classiche e bibliche circa gli animali. Dopotutto, prima di rinnovare il bagaglio delle sue conoscenze, il medioevo ha attinto esclusivamente di lì, scarsa o


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inesistente essendo allora la disposizione all’osservazione diretta. Hannelore Zug Tucci, che ha parlato del «Mondo medievale dei pesci, tra realtà e immaginazione», ha insistito sulle conseguenze del fatto che, sempre nel Genesi, dei pesci si parli punto o poco. Si dubitava persino che, oltre i grandi cetacei nominati espressamente, Dio avesse creato fin dall’inizio anche i pesci più piccoli. Per non dire dell’inconveniente per cui, non essendo minacciati per ragioni evidenti dal diluvio incombente, i pesci non trovarono posto nell’arca e, quindi, non furono elencati nella Bibbia, come gli altri animali. Un quarto dei trentasette diversi tipi di pesce di cui parlerà Ildegarda di Bingen nel sec. XII non aveva corrispondente nome latino. E questo dopo che, nei secoli dell’alto medioevo, la piscicoltura era stata uno dei veicoli di omogeneizzazione dell’Europa cristiana. I Germani non mangiavano pesce. Le peschiere si diffusero ovunque al seguito dei monaci, che dovevano arricchire la loro dieta vegetale nei mesi della quaresima. Il «ratto nero», portatore del bacillo della peste bubbonica, allarga il suo areale all’Europa proprio nell’alto medioevo. Eppure, la peste scompare verso la metà del sec. VIII dal bacino mediterraneo, per comparirvi solo nel basso medioevo. Massimo Montanari, specialista di storia dell’alimentazione, ritiene che l’alimentazione più variata, e meno esclusivamente basata sui cereali, in uso nei secoli dell’alto medioevo (VIII-X) anche per i ceti meno abbienti, abbia accresciuto le difese organiche contro il terribile flagello.


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Il Giornale, 1 maggio 1983 «Quell’antica festa crudele», il saggio di Franco Cardini sulle guerre All’armi per settecento anni Franco Cardini Quell’antica festa crudele, Sansoni, pp. 386 (125 ill. b.n. e 24 a col.) L. 45.000 Il libro, riccamente illustrato e denso di brani tratti da opere letterarie, che Franco Cardini ha dedicato alla storia della guerra nell’«età preindustriale», è molto più importante di quanto la sua veste editoriale, da libro-strenna, lasci a prima vista supporre (F. Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande rivoluzione, Sansoni). L’«histoire-bataille», la storia ridotta a chi vince e perde le guerre, è da tempo il preferito bersaglio di comodo di chi propugna una storia «profonda». Ma ci si è anche cominciati a rendere conto che le noiose e superficiali guerre e battaglie sono preziosi rivelatori proprio di quelle tendenze profonde che la storiografia, che si pretende nuova, si ripromette di indagare. Ha dato il segnale Georges Duby con la sua Domenica di Bouvines, ma un brano di J. R. Hale, che il Cardini cita nella conclusione, sintetizza molto efficacemente questo nuovo orientamento degli studi. Niente di più falso, dice in sostanza lo Hale, del quadro allegorico, che si intitola «Il destino delle sette arti liberali» e che è conservato nella pinacoteca di Torino. Vi si vede infatti Mercurio che, reduce da un campo di battaglia su quale si è appena finito di combattere, si reca ad annunciare alle sette arti addormentate sul pendio di una collina sovrastante il campo medesimo che possono ridestarsi, perché non si combatte più. «Nella realtà», prosegue Hale, «Mercurio avrebbe trovato la collina abbandonata e le sue amabili colleghe impegnate fino al collo nella battaglia: la Retorica intenta a incitare i soldati con discorsi


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e manifesti, la Matematica occupata a schierare le truppe secondo moduli numerici, la Musica a eccitarle alla battaglia con pifferi e tamburi», e via di questo passo. Attento al profilo tecnologico della storia della guerra, Cardini dedica però altrettanta e più attenzione alla «cultura della guerra». Giusto a mezza strada della «lunga durata» che costituisce l’arco cronologico della sua ricerca, si situa l’invenzione delle armi da fuoco: un terremoto, come tutti sanno, nella storia dell’arte bellica. Le slabbrature incurvate che i proiettili provocano da una certa data in avanti nelle pesanti armature dei cavalieri feudali mettono infine fuori causa i signori della guerra medievale, ai quali Cardini ha dedicato un altro suo libro, uscito appena un anno fa (Alle origini della cavalleria medievale, La Nuova Italia, Firenze 1981). Ma la comparsa sui campi di battaglia del «maledetto» e «abominoso ordigno» (Ariosto) non rappresenta, secondo l’autore, una svolta decisiva nella «cultura della guerra». Tale svolta si sarebbe invece avuta quando, fra secolo XVIII e secolo XIX, si esaurì la tendenza delineatasi durante l’età feudale e proseguita poi durante i primi secoli dell’età moderna a regolamentare e a delineare la guerra, nel senso di circoscriverne gli effetti rovinosi e i pericoli mortali a un gruppo più o meno ristretto di addetti ai lavori, di combattenti di professione. Ideali cavallereschi cristianomedievali e diritto internazionale settecentesco caratterizzerebbero, insomma, un’unica, lunga fase della storia della guerra, cui ne sarebbe seguita un’altra, caratterizzata invece dalle guerra giacobine e dalle guerre politiche, presupposti, a loro volta, della guerra totale del secolo XX. Molto acutamente, Cardini fa notate che spesso il «no» alla guerra, che sentiamo risuonare intorno a noi, costituisca, in realtà, un «no» alle sue limitazioni, alle sue norme. Ma il libro di Cardini non consiste solo della tesi che enuncia e che cerca di dimostrare. È anche un libro pieno


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di personaggi e di cose, anche curiose, che possono catturare l’attenzione del lettore comune. Il cavaliere armato alla pesante, che, disarcionato dagli ormai prevalenti «pedoni», viene presentato come un «povero crostaceo impacciato dal peso delle sue stesse armi»; o «il gentile, impavido e un po’ ottuso Baiardo», «fiore della cavalleria primocinquecentesca», che nel 1523 muore abbattuto da un volgare colpo d’archibugio, non sono semplici macchiette, cui indulge uno storico che vuol farla da letterato, ma scorci efficacemente rappresentativi. Convincono meno alcune semplificazioni di gusto socioantropologico, come quella che imputerebbe all’iperprotetto cavaliere dell’età feudale la responsabilità del mito dell’invulnerabilità tecnologica, di cui ci compiaceremmo noi moderni. Mentre invece risulta convincente la tesi secondo cui quella sorta di «internazionale cavalleresca» che si sarebbe venuta formando nei secoli del basso Medioevo, avrebbe lasciato delle tracce che durano tuttora e che spiegano la solidarietà che ancora si crea fra combattenti specializzati di eserciti contrapposti. Il Giornale, 10 giugno 1983 Un convegno alla Fondazione Cini su «Gli ebrei a Venezia (secoli XIV-XVIII)» Come il ghetto prosperò in Laguna Gli ebrei sono una componente essenziale della storia e della vita di Venezia. Anche dopo la caduta della Repubblica ebbero una parte di primo piano negli avvenimenti del 1848 e diedero un forte contributo alla storiografia veneziana fra Otto e Novecento. Si comprende perciò l’impegno speso dalla Fondazione Cini e, in prima persona, dal suo presidente Bruno Visentini per organizzare il convegno internaziona-


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le su «Gli ebrei a Venezia (secoli XIV e XVIII)», che si conclude oggi all’isola di San Giorgio. Alla seduta inaugurale erano presenti Simone Veil e Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, a significare che il tema ha risonanze non solo erudite e locali. Anche il patriarca di Venezia ha inviato al congresso un messaggio di saluto, non d’occasione e non volgare. L’organizzazione scientifica l’ha curata, con la serietà, l’intelligenza e la competenza che lo contraddistinguono, Gaetano Cozzi, con l’aiuto di Gino Benzoni e di Renata Segre. La storia degli ebrei ha i suoi specialisti dispersi nelle università e negli istituti di ricerca di tutto il mondo. Fra di essi, com’è naturale, sono numerosi gli ebrei. Molti di questi insegnano oggi nelle università dello Stato d’Israele, che è ormai anche una non trascurabile potenza storiografica. Fra gli storici ebrei della diaspora e quelli che operano in Israele si registra talvolta una diversità di accenti che accresce l’interesse alle discussioni congressuali e apre spazi insospettati all’intervento degli storici che, senza essere ebrei, hanno fatto della storia degli ebrei materia di riflessione e di studio. Venezia è un terreno privilegiato per questi studi. Anche se David Jacoby, specialista delle colonie veneziane nel Mediterraneo orientale, assicura che in tale area esistevano dei ghetti di fatto sino dal basso Medioevo, veneziano è stato sicuramente il primo ghetto, di nome e di fatto, della storia. E a Venezia hanno convissuto abbastanza pacificamente per lunghi periodi non solo ebrei e cristiani, ma anche ebrei di diverse provenienze e attitudini, come gli «askenaziti» (tedeschi) e «levantini» (sudditi dell’Impero ottomano) e «ponentini» (provenienti dalla Spagna e dal Portogallo): il che è cosa quasi altrettanto problematica. Come ha mostrato Benjamin Ravid, il problema delle origini del ghetto è oltremodo complesso. Un quartiere chiamato «ghetto (o getto) vecchio» esisteva a Venezia prima, e indipendentemente dagli ebrei. Secondo un’etimologia anch’essa


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controversa, il nome deriverebbe dalle «gettate» di metallo che dovevano aver luogo in una fonderia che, forse, anticamente sorgeva sul posto. Nel «ghetto nuovo», adiacente al vecchio, furono costretti a concentrarsi nel 1516 i numerosi ebrei convenuti a Venezia da località della terraferma veneta in seguito alla guerra della Lega di Cambrai, notoriamente infausta per le armi veneziane. Il governo della Repubblica era arrivato alla conclusione che la loro continua e diffusa presenza per le strade disturbasse i cristiani soprattutto durante la Settimana santa. Il provvedimento che li isolava dal resto della città era di natura coercitiva, ma – osserva Ravid – fu adottato come alternativa all’espulsione pura e semplice, e finì, quindi, col costituire una sorta di riconoscimento formale della presenza degli ebrei a Venezia. Del resto non solo gli ebrei, ma anche i turchi e, persino, i tedeschi vivevano segregati in appositi quartieri, con precise limitazioni orarie per gli spostamenti fuori di essi. Gli inquilini del «ghetto nuovo», ebrei «askenaziti», erano o prestatori di denaro, o venditori di oggetti usati, o medici. Per questi ultimi si provvide subito a stabilire la procedura con cui potevano rispondere alle eventuali chiamate d’urgenza notturne. Quanto ai primi, essi sarebbero stati presto tenuti a rendere un servizio di carattere pubblico, la cui istituzione riflette la lungimiranza della classe dirigente veneziana. Come ha mostrato Brian Pullan, i prestatori di denaro ebrei, in cambio dell’autorizzazione a operare sulla piazza veneziana, erano obbligati a concedere ai «poveri» (per lo più nobili decaduti) dei prestiti a un tasso d’interesse relativamente basso, contribuendo così ad alleggerire le tensioni sociali all’interno del patriziato. Nel 1541, furono gli ebrei «levantini» a chiedere di poter risiedere per un biennio a Venezia, beninteso senza le loro famiglie. Poiché per questi nuovi venuti non c’era posto nel «ghetto nuovo», fu opportunamente adattato per ospitarli il «ghetto vecchio». In questo caso, la reclusione


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nel ghetto fu liberamente concordata dagli interessati come condizione per restare a Venezia. Con gli ebrei «levantini» e «ponentini» la Repubblica stipulò nel 1589 un contratto destinato a fare epoca nella storia degli insediamenti ebraici dei Paesi cristiani. A differenza dei correligionari del «ghetto nuovo», sia i «levantini» sia i «ponentini» erano dediti prevalentemente al commercio. Gaetano Cozzi ha spiegato come il patriziato veneziano avesse ormai abbandonato le attività commerciali, che ne avevano fatto la grandezza in altri tempi. Assicurando la presenza dei commercianti più illuminati del gruppo dirigente sapeva di tutelare nell’unico modo ormai possibile la posizione eccezionale che la città lagunare occupava nel mondo dei traffici. Sotto questo riguardo appare particolarmente significativo il fatto che Paolo Sarpi e i suoi amici, intransigenti difensori, agli inizi del secolo XVII, della potestà della Repubblica nei riguardi dei privilegi ecclesiastici, fossero disposti a chiudere un occhio di fronte agli abusi che si verificavano nell’esercizio della giurisdizione da parte della comunità ebraica veneziana nei confronti dei cui membri accusati di delitti e che, per qualche ragione, si aveva interesse a condannare e a espellere dal gruppo. Il Giornale, 1 settembre 1983 Il regno latino di Gerusalemme Colonia antica Joshua Prawer Il regno latino di Gerusalemme Jouvence, pp. 668, L. 45.000 Partiti verso il 1096 per liberare il Santo Sepolcro dalla dominazione degli Infedeli o, per essere ancora più precisi, per portare aiuto – come papa Urbano II aveva auspicato si facesse – ai «fratelli separati» cristiani d’Oriente, minaccia-


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ti dai Turchi Selgiuchidi, i crociati finirono col fondare in Terra Santa alcuni Stati, il maggiore dei quali si denominò dalla sua capitale il regno di Gerusalemme. Di solito, sia per i profani, appassionati dei colori del medio evo, sia per gli specialisti di storia medievale, l’interesse per le origini della spedizione crociata e le sue motivazioni, dichiarate o taciute, fa nettamente aggio sull’interesse per la vita interna di quei quattro o cinque staterelli, che sembrano fare altro che ripetere aspetti ultranoti della vita politica e sociale dell’Europa cristiana fra sec. XI e sec. XII. Nei manuali, è con malcelato sollievo che si dà notizia, per il 1291, della caduta di Acri, con il che quell’oscura esperienza ebbe fine. Mentre la crociata, l’idea di crociata, continuò a essere all’ordine del giorno delle cancellerie europee, per non dire di quella papale, ancora per almeno un secolo. Col suo fiuto eccezionale Marc Bloch, ne «La società feudale», aveva accostato il feudalesimo degli Stati crociati a quelli dei regni normanni di Sicilia e d’Inghilterra, come esempi di ciò che egli definiva il «feudalesimo d’importazione», diverso da quello classico, in quanto non si accompagnava ai fenomeni di disgregazione del potere, notoriamente tipici di questo. Le istituzioni feudali sui generis del regno di Gerusalemme costituiscono ora solo un capitolo, e neanche dei più interessanti, dello splendido libro che Joshua Prawer, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha dedicato al «Colonialismo medievale. Il regno latino di Gerusalemme» (Roma, Jouvence – Traduzione italiana di F. Cardini). I feudi distribuiti dal re erano, qui, prevalentemente, non terre, bensì rendite in denaro. Veniva così tagliata alle radici la possibilità di trasformare il feudo in una signoria territoriale, che era la strada maestra attraverso la quale la concessione di un feudo, perdendo per tempo il carattere di transizione di natura economica (corresponsione di un bene in cambio di un servizio), tendeva a produrre, in


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Occidente, la frammentazione del potere. I vassalli del re di Gerusalemme, più che ai loro omologhi di Francia e di Fiandra, assomigliano ai proprietari terrieri assenteisti che l’Europa ha conosciuto in età più recente. Come dice chiaramente il titolo del suo libro, il Prawer non si è però proposto di studiare le strutture politico-sociali del regno di Gerusalemme nel quadro della società europea del tempo, sottovalutando il peso del braccio di mare che lo separava dal nostro Occidente, ma – al contrario – tende a enfatizzare al massimo la presenza di quel braccio di mare e presenta il regno latino di Terra Santa come una «società coloniale». In questa ottica, ciò che caratterizza veramente il feudalesimo d’oltremare non è tanto il particolare supporto che veniva a stabilirsi fra il re e i suoi vassalli, quanto la separazione che esso consentiva di conservare fra lo strato dei conquistatori franchi e la massa degli indigeni, non importa se musulmani, o cristiani delle varie confessioni, o ebrei. Chiusi nelle città della costa o asserragliati nei castelli disseminati all’interno del paese, i colonizzatori, fossero essi nobili o borghesi, sarebbero rimasti per duecento anni separati dal resto della popolazione. Accanto ai castelli, cui l’autore dedica pagine piene di ammirazione e di dottrina anche archeologica, gli ordini ospitaliero-cavallereschi e monastico-cavallereschi rappresentano l’unico altro elemento di originalità e di vitalità di queste asfittiche società coloniali, che, oltretutto, non avevano neanche la risorsa di avere alle spalle una madrepatria che se ne facesse carico nei momenti di pericolo. Esse assommavano, insomma, gli inconvenienti derivanti dalla mancata fusione con gli indigeni con quelli imposti dalla necessità di essere autosufficienti e di dover provvedere da sé alla propria difesa, mentre l’Europa cristiana cominciava a domandarsi se valesse davvero la pena di insistere con le crociate.


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Il Tempo, 9 luglio 1984 Risale al Medio Evo la nascita degli sudi universitari Le origini lontane dell’università del sapere Bologna e Parigi le sedi più antiche. È tuttavia opera di noi moderni il concetto di «universitas studiorum». Il cammino della scienza e il pericolo delle degenerazioni corporative Dovunque nel mondo le istituzioni preposte all’insegnamento di grado superiore rivestono la forma «università». Per taluni aspetti basilari essa risale al Medio Evo e, più precisamente, ai secoli XII e XIII, che videro la nascita dei due più antichi Studi universitari, Bologna e Parigi, qui menzionati in ordine alfabetico, dal momento che è impossibile stabilire con certezza la priorità dell’uno rispetto all’altro. Nonostante l’apparenza, non è però medievale, o lo è solo per metà, la locuzione «Università degli Studi», con cui siamo soliti designare i nostri istituti di istruzione superiore. Anche nelle università medievali si insegnavano le discipline più disparate (filosofia, lettere, scienze, diritto, medicina, teologia), ma allora non ci si preoccupava di mettere in risalto nell’intitolazione il valore e il significato ideale di questa compresenza. Siamo noi moderni che, da un paio di secoli in qua, pretendiamo che nelle università si realizzi l’«universalità del sapere» e affidiamo tale pretesa alla locuzione latina che ricorre puntualmente negli atenei: Universitas studiorum. Nei secoli XII e seguenti, il termine Studium bastava da solo a indicare il luogo ideale deputato all’insegnamento e alla ricerca. Anche il termine universitas aveva piena cittadinanza negli Studi medievali, accompagnato però da un genitivo di specificazione che designava non delle entità astratte (le discipline insegnate), bensì degli insiemi di persone fisiche, in cui non stentiamo a ravvisare i protagonisti del processo formativo di ogni tempo e paese: i docenti (universitas magistrorum) e i discenti (universitas scholarium). Le «università» di maestri o di scolari erano libere associazioni allo


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stesso titolo di quelle che raggruppavano gli artigiani che praticavano il medesimo mestiere o di quelle, così importanti nella storia delle città italiane, in cui si univano i cittadini più intraprendenti o eminenti per esercitare in comune alcune attività di governo locale, in concorrenza con il rappresentante dell’autorità regia e con il vescovo. Ma, col passare dei secoli, l’università per antonomasia è rimasta quella dei maestri e degli scolari (e, poi, degli studi). Nella Bologna del sec. XII dire «università» non sarebbe stato sufficiente a far capire di che cosa si stesse parlando; nella Bologna di oggi lo capiscono subito tutti. Se ci si associa, allora come oggi, è per parare meglio qualche minaccia, per accrescere il potere contrattuale del singolo. I maestri che si associarono a Parigi furono i numerosissimi professori di «arti» (soprattutto filosofia) che insegnavano nella scuola del vescovo e volevano fare fronte unico contro il rappresentante per gli affari scolastici: il cancelliere. Gli studenti che si associarono a Bologna furono gli ancóra più numerosi studenti di diritto, per lo più forestieri e stranieri, che intendevano tutelare le loro ragioni di fronte sia ai loro insegnanti che al comune cittadino. Su questo punto i professori bolognesi e parigini furono irremovibili: né il vescovo, né nessun altro doveva in qualche modo interferire nell’esame finale, che serviva a provare se il candidato era degno di essere proclamato «dottore», il che voleva poi dire essere cooptato, per lo meno idealmente, nel corpo magistrale. E questo è anche il punto in cui consiste, più che in ogni altro, il carattere originale del sistema di istruzione superiore che abbiamo ereditato dal medioevo: la forma «università». Non si può infatti negare che l’Accademia platonica o il Liceo aristotelico fossero delle scuole superiori, ma né dall’una né dall’altro si usciva «dottori». La finzione – perché è di questo che si tratta – per cui il giorno in cui ha terminato con successo i suoi studi, lo stu-


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dente passa dall’altra parte della barricata e diventa «dottore» allo stesso titolo dei suoi maestri del giorno prima, è – a saperne cogliere bene il senso – piena di conseguenze serie e importanti. La prima di queste è che l’università (chiamiamola ormai così per semplificare il discorso) mira anzitutto a perpetuare se stessa. Già nelle università delle origini e, a molto maggior ragione, nelle università di massa dei nostri giorni, la massima parte dei laureati trova impiego fuori delle aule universitarie, dove solo un’infima minoranza rifluirà per rimpiazzare i vuoti che si determinano via via nel corpo insegnante. Ma la finzione per cui l’università prepara solo dei «dottori», e non dei professionisti o degli impiegati, è una garanzia dell’autonomia dell’università stessa nei confronti dei poteri costituiti e della società civile. L’esperienza dei totalitarismi contemporanei sta a dimostrare che i privilegi medievali delle vecchie università possono ancora venire buoni quando si tratta di tutelare la libertà d’insegnamento. La seconda conseguenza è che l’università tende sempre a rinchiudersi in se stessa, a degenerare in corporazione acerbamente nemica del nuovo. È l’altra faccia della medaglia, quella che legittima da secoli le polemiche antiuniversitarie. L’aspetto più delicato della questione risiede nei criteri con cui viene selezionata quell’infima minoranza di «dottori» che è destinata a salire davvero su una cattedra. Agli inizi del sec. XIX, Wilhelm von Humbolt, partendo dal presupposto che «la natura dell’Università è troppo strettamente legata all’interesse dello Stato» perché si potesse lasciare nelle mani delle facoltà la scelta dei docenti, propose di farla finita con il secolare principio della cooptazione e di demandare tale materia a «un ispettorato giudizioso e ragionevole». L’ideale che lo ispirava era alto e nobile: «Il cammino della scienza è evidentemente più rapido e vivace in una università, ove viene continuamente messa sottosopra da un gran numero di ingegni, per di più


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forti, giovani e robusti». Ma il correttivo alle degenerazioni corporative dello spirito universitario, che Humboldt si sforzava di introdurre, non è stato ancora trovato, anche se in questa materia si è sperimentato nel frattempo tutto e il contrario di tutto. Per quanto possa essere in ribasso la fama della corporazione universitaria, c’è da dubitare che qualcuno, oggi, possa prendere in seria considerazione l’idea di affidare allo Stato la designazione dei docenti dei nostri atenei. Dai tempi di Humboldt in poi, i professori d’università non hanno perso i vizi che Giovanni di Salisbury rinfacciava già ai maestri parigini del sec XII in una pagina famosa del Metalogicon. Ma da allora si sono anche molto affievolite le illusioni che uno poteva nutrire circa gli interventi risanatori dello Stato moderno. Il Tempo, 28 gennaio 1985 Il suo falso conservatorismo È difficile dire quale sia il livello della frequentazione di Dante da parte degli studiosi di storia medioevale. Siamo in tanti. So come mi regolo io. Da quattro anni, ogni venerdì frequento il seminario in cui il mio amico e collega Gennaro Sasso legge e commenta la Monarchia, la più ardua fra le opere minori di Dante. Viene anche Achille Tartaro, un italianista, che ogni tanto legge qualche canto della Commedia… C’è chi chiama tutto questo «interdisciplinarietà»; per noi è un modo di affrontare la lettura di Dante con qualche speranza di capire cosa vuol dire. Quando gli storici del medioevo si occupavano sistematicamente di Dante talvolta combinavano anche dei guai. Molte «questioni dantesche» sono cresciute su se stesse per colpa di interventi spropositati di storici, felici di poter addurre un nuovo documento inedito spesso non pertinente. Se affrontano Dante, anche gli storici devono misurarsi


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direttamente col testo e con i problemi che l’interpretazione di questo presenta. La Commedia non deve essere un’occasione per fare sfoggio di erudizione. Dante ha vissuto la crisi della civiltà comunale italiana, uno dei nodi della nostra storia. Ne è stato testimone e ha pagato di persona. I suoi giudizi etico-politici, filtrati attraverso la cultura dell’Europa del tempo, vengono spesso tacciati di conservatorismo. Dante non avrebbe capito ciò che di nuovo stava maturando sotto i suoi occhi: sono molti a ripetere questo luogo comune. Può darsi che non abbia visto tutto quello che stava accadendo. Ma ha visto molto e il suo sguardo andava nel fondo delle cose di là delle apparenze ingannevoli. Chi studia oggi la storia delle nostre città nei secoli XIII e XIV ha molto da imparare da Dante. Il Giornale, 22 aprile 1985 La settimana di studi a Spoleto su «Segni e riti nella chiesa altomedievale» Battesimo, dagli splendori alla decadenza Nei paesi di tradizione cattolica i sacramenti offrono dei parametri sicuri per misurare i progressi della secolarizzazione: quanti più genitori non fanno battezzare i loro figli, quante più coppie di sposi si rivolgono al sindaco e non al parroco per la celebrazione delle loro nozze, tanto più decresce il sentimento religioso. È una benedizione per i sociologi che vedono il loro compito oltremodo facilitato. In polemica con i protestanti che ammettevano tutt’al più il battesimo, il Concilio di Trento ha decretato che i sacramenti sono sette «né più né meno». Fu verso la metà del sec. XII che questi sette «mezzi precipui di santificazione e di salvezza» vennero elencati per la prima volta in bell’ordine, differenziandoli nettamente da altri «segni» e «riti», con i quali avevano convissuto


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nei secoli precedenti, non sempre e non tutti su un piano di parità, ma certo senza che ad essi fosse riconosciuto uno statuto definito e particolare nel complesso della vita sacramentale della Chiesa. Ai «Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale», la Chiesa cioè dei secoli anteriori al XI-XII, è stata dedicata la trentasettesima settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, che si è tenuta a Spoleto fra l’11 e il 17 aprile col solito nutrito concorso di studiosi italiani e stranieri che caratterizza da sempre la manifestazione del Centro spoletino. Con un aggettivo caro al nostro Carlo Laurenzi, che ha seguito da cronista attento e scrupoloso altre settimane di studio, diremo che il tema era questa volta particolarmente «inameno». Le fonti di cui potevano disporre i relatori erano per lo più di carattere liturgico, ciò che comporta il rischio di non attingere mai, di là delle formule, la pratica religiosa dei singoli e delle comunità. Sentendo parlare di liturgia battesimale il profano non può fare a meno di domandarsi come si svolgeva in concreto il battesimo di un intero popolo dopo una battaglia perduta. Ma è anche vero che il processo per cui, fra tarda antichità e alto medioevo, nell’iniziazione del cristiano è andata sempre più perdendo peso la parte formativa, catechetica, a vantaggio del rito battesimale vero e proprio, rappresenta di per sé un capitolo di storia tutt’altro che privo di interesse. Col tempo i battezzandi sono stati sempre più frequentemente dei bambini incapaci di intendere e di volere; al posto del «credo» pronunciato dal battezzando l’elemento decisivo è diventato l’«io ti battezzo» dell’officiante; e sullo sfondo si sono affermati i padrini, che si impegnano in nome di chi non è ancora in grado di farlo di persona. Una paternità spirituale che la chiesa altomedievale esalterà coerentemente a discapito di quella naturale, non senza il rischio anche qui di deviazioni temporalistiche, come quando i papi, tenendo a battesimo i figli dei re, mireranno a precostituirsi dei diritti sui futuri sovrani.


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All’inizio di tutto c’erano stati Gesù battezzato nelle acque del Giordano da Giovanni Battista, e Gesù che spezza il pane e dà da bere il vino del suo calice ai discepoli riuniti per l’ultima cena. Ma Gesù non battezzò mai chi si mostrò disposto a seguirlo, preoccupato com’era di non innovare rispetto alle tradizioni culturali ebraiche, bensì solo di oltrepassarle con l’annuncio del Regno. Chi si fosse atteso a Spoleto polemiche all’ultimo sangue su questi temi scottanti su cui si è infranta nel sec. XVI l’unità spirituale dell’Europa cristiana, sarebbe rimasto deluso. Anche un orecchio esercitato non riusciva sempre a distinguere i relatori cattolici da quelli protestanti, o dagli agnostici. Le barriere permangono, eccome, e sarebbe strano che non fosse così. Ma si sono spostate su altri piani e i teologi appaiono sempre più disposti ad arrendersi di fronte alle ragioni della storia. Anche quando, con la metà del sec. XII, i sacramenti furono ridotti a sette, ci fu chi non rinunciò a perorare la causa di un ottavo: l’«unzione regia» – il sacramento riservato ai re. Sulla base di precisi riferimenti veterotestamentari e di più immediati ma oscuri precedenti ispano-visigotici, la cresima dei re venne clamorosamente alla ribalta nel 754 quando papa Stefano I, durante il suo viaggio in Francia, «unse», re Pipino, il primo dei carolingi. Sulla natura di questo sacramento la discussione è ancora aperta: c’è chi lo pone in rapporto con la cresima; altri lo vede piuttosto come un’espansione dell’uso di «ungere» i vescovi (documentato però solo per il sec. IX). All’inizio dei lavori della settimana, Ovidio Capitani, nuovo presidente del Centro di Spoleto, ha commemorato Raoul Manselli, scomparso il 20 novembre 1984. Non è stato uno dei soliti riti. Manselli era un grande studioso. Nel piccolo mondo degli studi medievali eravamo in molti a volergli bene.


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Il Giornale nuovo, 12 maggio 1985 «Guglielmo il Maresciallo» di Duby Il campione dei tornei A smentire perentoriamente le prognosi infauste sullo stato della storiografia in Francia viene da questo Paese un piccolo grande libro di storia: Guglielmo il maresciallo. L’avventura di un cavaliere di Georges Duby (Laterza, pp. 192, lire 22.000). Ne consigliamo la lettura a quanti trovano troppo prosaico il Medioevo nostrano, popolato di notai, mercanti, giureconsulti e banchieri, e vagheggiano un Medioevo diverso, più romantico e colorito, di cavalieri e tornei. Dei ventimila versi di cui consta il poema su Guglielmo il Maresciallo, che ha offerto a Duby la trama per il suo libro, ben duemilacinquecento trattano di tornei. Nella straordinaria carriera del protagonista, un cadetto di famiglia nobiliare costretto perché nullatenente a costruire da sé la propria fortuna, la fama conquistata sui «campi» fra il 1173 e il 1183 fu infatti il trampolino decisivo. È addirittura probabile che Giovanni, l’autore del poema, fosse un «araldo», cioè uno di quei tecnici di tornei che erano non solo specializzati nell’identificazione delle insegne che contraddistinguevano i cavalieri il cui viso era nascosto dall’elmo, ma che curavano la propaganda, assicurando la partecipazione dei campioni più in vista, e tenevano aggiornata la classifica dei medesimi, in base alla quale venivano pattuiti gli ingaggi. La stagione d’oro dei tornei è anche quella della grande espansione dell’economia monetaria. Guglielmo aveva un bel dilapidare, nella festa che teneva dietro al torneo, i lauti proventi ricavati dai riscatti dei prigionieri (cinquecento nell’intero corso della sua carriera). Il denaro – avverte Duby – corrodeva tutt’intorno i valori su cui poggiava il suo mondo. I lettori di sentimenti romantici andranno incontro anche a delusioni. Solo di rado le donne assistevano ai tornei.


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Nell’«universo chiuso dei maschi», l’amicizia per il compagno d’armi, lo sforzo per assicurarsi la predilezione di un potente, la gelosia per chi se la procurava con sospetta facilità, facevano nettamente aggio sulle attenzioni per l’altro sesso. Non era solo l’Italia a scarseggiare di tornei. Guglielmo, che era inglese, dovette andare a cercare la gloria al di là della Manica. E anche in Francia questo sport era praticato solo in una zona molto circoscritta. Di solito i tornei non avevano luogo entro i confini dei grandi principati feudali. I terreni di gioco venivano scelti a preferenza in territori di confine, periferici. A offrire queste rischiose occasioni di divertimento ai giovani, nel senso di «non maritati», desiderosi di segnalarsi (il pericolo di lasciavi la pelle era maggiore che in guerra), pensavano per lo più gli esponenti dell’alta aristocrazia delle province settentrionali del regno di Francia, che in tal modo cercavano di consolidare il loro prestigio sociale di fronte alla crescente influenza del sovrano. Quest’ultima notazione, che il Duby lascia cadere quasi di passaggio, ci porta nel cuore del suo libro. Se il mondo dei giovani cavalieri è quello da cui Guglielmo emerge a fatica per la sua eccezionale bravura sul «campo», il mondo in cui egli approda è quello delle corti dei re. I re, anzitutto, della sua Inghilterra, cinque dei quali (Enrico II, Enrico il Giovane, Riccardo Cuor di Leone, Giovanni Senzaterra, Enrico III) si valsero in un modo o nell’altro, con maggiore o minore fiducia e simpatia, dei suoi servizi; ma anche i re di Francia, impegnati in una guerra senza fine con i primi, e ai quali lo stesso Guglielmo fu tenuto a un certo momento a prestare omaggio per alcuni feudi di cui era venuto in possesso per via di matrimonio, e che facevano parte integralmente del loro regno. Forse il poema fu scritto proprio per allontanare i sospetti che in Inghilterra aleggiavano intorno alla lealtà del Maresciallo, il quale da parte sua – come il Duby non manca di sottolineare – non aveva il minimo dubbio sul modo in cui andavano graduati gli impegni che aveva


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assunti nei confronti degli uni e degli altri e, per questo, «poteva pacificamente andare incontro alla morte, con la fiducia di essere stato lo strumento dell’ultimo, fuggevolissimo trionfo dell’onore sul denaro, della lealtà sullo stato; di avere portato la cavalleria alla sua più alta espressione». Il ritorno alla storia narrata in cui molti tendono a individuare il nuovo corso della storiografia francese, avviene di solito nel segno della «microstoria»: briciole di storia che restano tali anche sotto la lente di ingrandimento. Con questo racconto di Duby siamo agli antipodi di tale tendenza. Seguendo il filo della carriera di Guglielmo, così come si dipana nei versi del poema scritto in sua memoria, Duby ha presente né più né meno che lo svolgimento della società feudale fra secolo XII e secolo XIII, nella fase cioè in cui fra i diversi fattori in gioco è la monarchia che si prepara a diventare la carta vincente. Se la forza del suo braccio aveva assicurato al Maresciallo il favore del re, sarà il re a decretare la sua ascesa definitiva nella piccola cerchia di coloro che veramente contavano, assegnandogli in sposa la «pucelle de Striguil», uno dei migliori partiti d’Inghilterra, che gli portava in dote, fra il moltissimo altro, un quarto dell’Irlanda. Al momento di morire, nel 1219, Guglielmo che aveva all’incirca settantacinque anni, era «custode e signore» di Enrico III, un fanciullo che era anche re d’Inghilterra. Ma, agli inizi, era stato uno dei tanti giovani di belle speranze che se ne andavano da casa perché qui non avevano nulla da attendere, per il fatto di avere uno o più fratelli maggiori davanti a sé. In sostanza, ciò che interessa in Duby sono i processi di promozione sociale nella società franco-inglese dei secoli centrali del Medioevo, con particolare attenzione ai modi in cui i sovrani intervenivano a modificarli. Storia narrativa e storia strutturale si danno felicemente la mano anche perché lo storico, in questo caso, si rivela un autentico scrittore.


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Il Messaggero, 14 gennaio 1987 Il Medioevo dal sacco di Roma a Innocenzo III in un libro che è e non è un manuale La storia raccontabile A prima vista desta sorpresa che un libro dichiaratamente concepito come manuale, ad uso bensì degli studenti delle facoltà di lettere, non dei liceali, venga proposto in una sede sussiegosa come la Collezione storica di Laterza. Ma questa Storia dell’Italia medievale 410-1216 di Ovidio Capitani tradisce ad apertura di pagina le sue ambizioni, insolitamente alte per un libro di storia dei nostri giorni, e la meraviglia per l’apparentemente incongrua collocazione editoriale lascia subito il posto all’ammirazione per il coraggio che l’autore ha dimostrato col cimentarsi in un’impresa fatta per spaventare chiunque. Capitani ha infatti un bel mettere le mani avanti assicurando che «non pretende consapevolmente di proporre interpretazioni rivoluzionarie», e che il suo impegno è rivolto solo a «far conoscere i fatti, insieme con i problemi». Poiché i fatti e i problemi di cui tratta sono quelli di otto secoli di storia, non di un paesino di qualche migliaio d’anime sperduto in un fondovalle, bensì dell’Italia, viene fatto di domandarsi se, dopo tante rivoluzioni storiografiche, accettate da tutti senza battere ciglio, a rischiare di fare scandalo non siano proprio libri come questo. Tanto è vero che, se la conoscenza diretta dell’autore non portasse chi scrive a escludere in partenza un’ipotesi del genere, uno potrebbe essere addirittura indotto a pensare che lo schermo del manuale per studenti universitari sia stato escogitato dall’autore medesimo, consapevole per primo (checché voglia far credere) di muoversi su un terreno minato, per cercare di attutire lo scandalo. Ma so per certo che Capitani gli scandali non li teme. Anzi, forse, li cerca. E poi prende


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troppo sul serio il suo mestiere di professore per coinvolgere la studentesca in un’operazione di camuffamento. Tradotto nel linguaggio storiografico odierno, il proposito di far marciare insieme quelli che, in modo un po’ vecchiotto ma pur sempre trasparente, vengono qui definiti come «fatti» e «problemi», consiste nello sforzarsi di raccontare in successione cronologica gli avvenimenti di cui è intessuto il corso della storia, senza mai perdere di vista una serie di dati «strutturali» (istituzionali, mentali, ambientali, ecc.), che sono come l’alveo entro cui fluisce quel corso. Ma la scontatissima metafora fluviale elude la difficoltà insita nell’intento. A differenza degli alvei dei fiumi, quelli della storia sono solo apparentemente immobili; hanno bensì anch’essi un loro corso, magari impercettibile. Richiedono, dunque di essere analizzati, nei limiti del possibile «raccontati», non semplicemente descritti, come ci si accontentava di fare una volta, quando si teneva ben distinto il fiume dall’alveo, il quadro dalla cornice. Com’è noto a chi abbia anche vagamente seguito le vicende della storiografia contemporanea, dalla sbrigativa e colpevole sottovalutazione della cornice siamo passati, prima per gradi, poi, da ultimo, con furia iconoclastica o irresponsabile allegria, alla soppressione del quadro, del racconto dei fatti, relegato in soffitta con il marchio infamante del «déjà vu». A meno che il racconto stesso non accettasse di farsi piccolo piccolo, «microstorico», alla maniera dei pittori iperrealisti che dipingono le foglie del bosco con tutte le loro venature, come le vedono ingrandite attraverso una lente. I recenti programmi di storia ministeriali per l’istituenda «area formativa uguale per tutti» del primo biennio delle secondarie superiori hanno suscitato molto scalpore, ma in fondo non fanno che riflettere pedissequamente, in riferimento alla storia degli ultimi secoli, il diffuso e conclamato ostracismo per quella che potremmo anche chiamare la storia «politica», ma in realtà è solo la storia «raccontabile».


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Soltanto che gridare allo scandalo è facile, molto più difficile proporre (e non solo per le scuole), un modello di storia in cui si torni a raccontare «come sono andate veramente le cose», il che oggi vuole dire dar conto anche, e magari in misura prevalente, delle trasformazioni strutturali, senza ricadere per carità nell’insulsaggine di certo stile storico tradizionale, secondo i dettami del quale, se Federico Barbarossa si sposta da Chiusa di Verona a Milano, era doveroso attardarsi a descrivere con puntigliosità da Baedeker le varie tappe della comitiva imperiale, nella compiaciuta certezza che esse fossero deducibili, sempre e comunque, dalle date dei diplomi spediti per via che sono giunti fino a noi, e come se la viabilità del secolo XII nella Padania non costituisse di per sé una materia di studio, ricca di non facili interrogativi. Prendiamo dunque Federico Barbarossa. Nel capitolo XIII, dedicato a «Il fenomeno comunale in Italia: l’affermazione», Capitani consacra un congruo numero di pagine alla politica cisalpina dell’imperatore svevo, alla sconfitta cui tale politica andò fatalmente incontro e alla contestuale «fine della politica unitaria delle forze italiane». È, come si sa, il capitolo che comprende fra l’altro la dieta di Roncaglia, la distruzione di Milano, la pace di Venezia e poi di Costanza, altrettanti punti di forza della «storiografia ancora di impronta romantica e ottocentesca», che Capitani, dato il suo assunto, si guarda bene dallo schivare: «Anche se di questo impressionismo storiografico si è fatta da tempo giustizia, converrà esaminare, per sommi capi, che cosa sia stata e sia voluta essere la Lega lombarda». La conclusione cui perviene è che i patti che collegarono fra loro le città italiane rette a comune ebbero un carattere soprattutto militare, nel segno di una costante instabilità: «Alle riunioni dei rappresentanti nella Lega delle varie città, queste non compaiono sempre come quelle iniziali, ma fanno registrare assenze o nuove presenze». E commenta: «L’effettiva mancanza di statualità della


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Lega era esattamente il corrispettivo della mancanza di statualità dell’Impero in quei cento anni, che erano invece ricordati come il momento felice dei rapporti tra città italiane ed Impero stesso» (I cento anni erano quelli che andavano da Corrado II, 1024-1039, a Corrado III, 1138-1152, predecessore del Barbarossa). A guardare bene, siamo qui alle radici dello stentato coordinamento fra origine della nazione e origine dello stato in Italia. Come a questo punto si sarà già capito, l’Italia in questo libro non figura simbolo sul frontespizio, come vaga indicazione di ambito geografico privilegiato. L’Italia fa problema. E poiché Capitani ha scelto il 410 (sacco di Roma) come punto d’avvio, qualcuno forse si attenderebbe di trovare qualche parola di giustificazione per una scelta che è tutt’altro che ovvia. Ma l’autore ha fatto bene a non riproporre in astratto i termini di una discussione che ha fatto il suo tempo. Tanto più che, proprio all’inizio, c’è una pagina che illustra le ragioni profonde che hanno presieduto a quella scelta. Per tutti i secoli dell’alto medioevo, dice in sostanze Capitani, l’unico modello cui potranno ispirarsi le organizzazioni del potere in Italia fu costituito dall’assetto esterno che si diede lo Stato nel secolo V: «elemento, questo, che in qualche modo condanna l’Italia ad avere un’eredità istituzionale che, successivamente (Goti, Longobardi e perfino Franchi), apparirà sempre più ambigua rispetto alle spinte delle popolazioni cui le istituzioni dovrebbero assicurate un razionale coagulo sociale, col risultato che per secoli si chiameranno con nomi antichi contenuti nuovi di potere, e al limite nuovi contenuti di organizzazione della società». Un’ultima osservazione: Capitani, per aver studiato a fondo l’opera di Henri Pirenne, è vaccinato contro il «pirennismo» inconsapevole di chi, in nome della centralità dell’Europa carolingia, tende a marginalizzare la storia del nostro Mezzogiorno nei secoli di mezzo. Forse le pagine più stimolanti di questo libro tutto pensato dal principio alla


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fine, sono proprio quelle in cui viene dibattuto questo punto essenziale. Il Messaggero, 24 giugno 1987 La vita privata dal feudalesimo al Rinascimento E poi spunta la camera da letto Da quando Pietro Citati me ne ha consigliato la lettura, mi capita di frequente di prendere in mano La camera da letto di Attilio Bertolucci, per leggere qualche capitolo di questo straordinario «romanzo in versi», che come è indicato nel titolo con una trasparenza che non si potrebbe designare maggiore, è tutto consacrato alla vita privata di una famiglia trasmigrata verso la fine del secolo XVIII dalla Maremma all’estremo limite della Toscana, fra Garfagnana e Lunigiana, e poi discesa a stabilirsi definitivamente col nuovo secolo, di là del crinale appenninico, in provincia di Parma. A mia volta, mi arrogo l’autorità di consigliare il poema di Bertolucci, come sottile controcanto e opportuno vaccino, a chi decida di affrontare la lettura, inamena, ma oltremodo stimolante, di questa Vita privata dal feudalesimo al Rinascimento, sapientemente orchestrata da Georges Duby e scritta a più mani da lui stesso e da altri cinque validissimi collaboratori (D. Barthélemy, Ph. Braunstein, Ph. Contamine, Ch. de la Roncière, D. Régnier-Bolher). La ragione dell’accostamento in apparenza bizzarro di due libri così differenti è presto detto. Buttata alle ortiche la vecchia veste desueta della «vita quotidiana», un’etichetta sotto cui è passata tanta merce avariata e pruriginosa; abbandonate alle cure degli archeologi le tecniche ultrasofisticate della «storia della cultura materiale», Duby e compagni (il volume fa parte di una collana che originariamente era diretta, oltre che da Duby, dal compianto Pilippe Ariès, storico dell’infanzia e della morte) hanno avuto l’ar-


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dire di trasformare in ipotesi di ricerca il concetto tutto moderno e ottocentesco di privacy, col risultato di ringiovanire d’un colpo un campo di studi che assomma in sé il duplice vantaggio di venire incontro all’esigenza di una storia diversa, più intima e più profonda, e di solleticare la curiosità dei non addetti ai lavori, che, stanchi – si dice – di sentirsi ripetere ciò che è avvenuto sui campi di battaglia, vogliono finalmente sapere ciò che accadeva nelle camere da letto e nei loro immediati dintorni. È a questo punto che viene buono il romanzo in versi di Bertolucci, con le sue lenzuola di bucato, le sue dispense e credenze e marmellate, le sue chiavi, le sue malattie dell’infanzia e i catarri cronici della vecchiaia, gli incerti dell’allattamento mercenario e i profumi delle erbe nell’orto… Qui la privacy è un dato scontato, un universo circoscritto di cui nessuno di sognerebbe di mettere in dubbio l’esistenza, e che attendeva solo l’estro di un poeta per rinascere a nuova vita dalle nebbie di un ricordo che avrebbe potuto essere rinfrescante con il ricorso a montagne di carte (lettere, diari, ecc.), oggetti (edifici, mobili, arredi), immagini (ritratti, quadri d’interni, da un certo momento in avanti anche fotografie, non importa se ingiallite). Mentre invece Duby e i suoi compagni d’avventura non solo non disponevano, salvo rare eccezioni, di letti d’epoca da esibire, ma sono stati portati addirittura a domandarsi se, a quei tempi, soprattutto agli inizi del periodo trattato, delle camere da letto vere e proprie esistessero per davvero anche nelle case dei potenti e dei ricchi, che proprio perché erano tali vivevano circondati da «amici», e da parenti acquisiti, ammessi fino nei recessi più intimi della dimora signorile. L’impressione fondamentale che si ricava dalla lettura delle cinquecento pagine di questo volume, è che la «vita privata» dei secoli dal XII (seconda metà) al XV non fosse tanto uno spazio ben delimitato, quanto una frontiera estremamente mobile. Eliminate le differenze nascenti dallo


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stato della documentazione, tutt’altro che trascurabili per uno storico (sotto questo profilo gli autori identificano, all’interno dell’arco cronologico preso in esame, una soglia intorno al 1300-1350), la differenza strutturale fra la «vita privata» dei nostri arcibisnonni e bisnonni, e quella faticosamente e meritevolmente ricostruita sotto la guida di Duby sta proprio nella precarietà di quest’ultima, nella sua radicale aleatorietà. Che nel fondo, al di là delle apparenze, fosse precaria anche la «vita privata» cantata da Bertolucci lo abbiamo sperimentato durante gli anni del secondo conflitto mondiale: le esperienze della coabitazione forzata e dello «sfollamento», le immagini delle case squarciate dalle bombe e aperte alla curiosità dei passanti, malgrado il baluardo dell’ingresso e dei corridoi, eretto dalla preveggenza edificatoria borghese contro gli sguardi indiscreti degli estranei, sono ancora presenti nella memoria di molti. Ma col passare degli anni abbiamo finito col riacquistare la fede nell’intangibilità del nostro recinto domestico, e il mondo descritto da Duby e dai suoi collaboratori, nei limiti in cui i suoi contorni risultano decifrabili, ci pare veramente un altro mondo, contrariamente al pregiudizio che proprio il campo di quella che una volta veniva chiamata la «vita quotidiana» sarebbe quello in cui il passare del tempo si farebbe sentire di meno, riducendo al minimo gli effetti dello spaesamento cronologico. Ma questo era vero, appunto, per i vecchi affreschi di vita quotidiana che gli autori usavano cospargere generosamente di ammiccamenti all’attualità. Se la «camera da letto» di Bertolucci presuppone come altra faccia della medaglia lo «stato moderno», o che si avvia a diventare tale, la «camera da letto» di Duby ha come sfondo la «società feudale», una situazione, cioè, a proposito della quale si può dire con altrettanta legittimità che fosse caratterizzata da uno straripamento da parte del «privato», o che tutto, in essa, fosse diventato «pubblico». Così,


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per necessità di cose, dal momento che «pubblico» e «privato» sono tanto strettamente intrecciati, quest’opera collettiva si è risolta in un’analisi della società feudale tout court, considerata, se si vuole, da un particolare punto di vista. Siamo, insomma, di fronte a un’inattesa rivincita della tematica della storia politico-sociale, tanto più significativa in quanto l’attenzione al quotidiano, al privato si accompagnava spesso fin qui a un atteggiamento di rigetto nei suoi confronti. Poiché non era possibile trattare esaurientemente l’intero periodo su scala europea, gli autori si sono accontentati di offrire dei «quadri», affrontando situazioni specifiche. Uno di questi «quadri», dovuto a Charles de la Roncière, è stato dedicato alla «Vita privata dei notabili toscani alle soglie del Rinascimento». Mentre il nostro Rinascimento perde ogni giorno terreno nella storiografia come elemento datante di valore storico-universale, la ricchezza senza eguali degli archivi fiorentini e toscani continua ad assicurare a Firenze e alla Toscana dei decenni a cavallo fra il secolo XIV e il XV la predilezione di studiosi di ogni paese. Il notaio, figura caratteristica e centrale della società italiana nei secoli del basso medioevo, potrebbe addirittura essere preso a simbolo vivente della frontiera mobile che divide «pubblico» e «privato» durante l’età feudale. Pubblico ufficiale, e, al tempo stesso, privato professionista, non conosce porte che non si socchiudano davanti a lui. I diplomatisti si accapigliano ancora per stabilire se i documenti che egli rogava siano da ritenersi pubblici oppure privati. Sta di fatto che, da quando cominciamo a disporre dei «protocolli notarili», le nostre informazioni su ciò che accadeva nei recinti domestici si accrescono in proporzione geometrica. Come invito alla lettura di questo libro che ha il merito di soddisfare tante curiosità serie, trascurando implacabilmente quelle che tali non sono, vorrei citare alcune poche righe di Georges Duby, uno storico che cammin facendo è


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diventato uno scrittore: «I giochi amorosi instaurarono all’interno della società cortese più salde strutture del segreto, imponendo agli amanti di vivere un’occulta solitudine a due, come se nulla fosse, in seno alla famiglia, avvolti di mistero, in un recinto dove i malvagi tentavano senza posa di penetrare a forza. E forse fu proprio lì, nell’affinarsi della relazione tra i due sessi e attraverso la difficile prova della discrezione e del silenzio che, alla fine del secolo XII, spuntò nella società profana, la prima gemma di quella che per noi diventerà l’intimità». Il Messaggero/Cultura, 4 marzo 1989 Medioevo/Dante e il dialetto dei «mediastini» bolognesi Com’è dotto il volgare «Mediastini», nel latino degli scrittori antichi, erano chiamati una categoria di schiavi, prevalentemente agricoli, senza una mansione particolare; lavoratori tuttofare, diremmo noi oggi. Poi una falsa etimologia ha stravolto il senso di questa parola. Astu, in greco, vuole dire «città» e mediastini sono diventati quelli che «vivono in mezzo alla città», oppure anche coloro che abitano in città capitali di un dato territorio. Il termine ricorre due volte in Dante, nel De vulgari eloquentia, nel senso di abitanti del centro cittadino. La loro parlata, osserva nel primo dei passi in questione, è differentissima dalle parlate montanare e campagnole col loro accento che si sottrae a ogni regola. Nel secondo passo, è questione in modo specifico dei mediastini Bononie, degli abitanti del centro di Bologna, la cui parlata che, qualche capitolo prima, aveva detta diversa da quella dei loro concittadini di Borgo San Felice, dice ancora diversa anche dalla lingua «regale e illustre» di una piccola cerchia di poeti in volgare, che costituivano, ai suoi occhi, la fine fleur della Bologna contemporanea: Guido Guinizelli, Guido Ghislieri, Fabruzzo, Onesto e alcu-


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ni pochi altri. Effettivamente la crema della crema, dal momento che la lingua dei mediastini restava comunque, nel suo giudizio, la «più bella» delle parlate municipali d’Italia. Trattandosi di Dante, le cose che vado frettolosamente richiamando sono ultranote. Lasciandomi andare a fantasticare, ma non troppo, aggiungerei che, passeggiando per Strada Maggiore in compagnia di uno di quei pochi, Dante dovette avere modo di fare l’orecchio non solo al bolognese dei mediastini, che vi stavano di casa, e a quello dei borghigiani di S. Felice che venivano a farvi gli affari loro, ma anche al latino «artificiale» (com’egli stesso lo definisce) dei maestri e degli scolari dello Studio, che, anche se almeno in parte bolognesi, comunicavano in quella che era la lingua franca dei dotti del tempo, giacché moltissimi, se non i più, sia degli uni che degli altri, erano non solo forestieri, italiani cioè di altre regioni, con i quali sarebbe stato facile intendersi, ma addirittura stranieri. E difatti era stato proprio per farsi capire dai «litterati» e dalla «gente d’altra lingua» che Dante aveva scritto in latino questo suo trattato linguistico anche se poi vi sosteneva con rigore la superiorità del volgare. Non credo che sia per caso che Dante abbia fermato la sua attenzione proprio sul centro di Bologna e su coloro che vi abitavano. Anche gli abitanti di Firenze della «cerchia antica» erano dei mediastini. Ma, nel caso di Bologna, il centro cittadino aveva una precisa rilevanza giuridica, cui erano molto attenti i maestri dello Studio. La costituzione proemiale del Digesto proibiva infatti che scuole di diritto sorgessero altrove che nelle «città regie» e solo per la Bologna della «cerchia antica» era sostenibile la tesi di una fondazione imperiale (ad opera di Teodosio I o di Teodosio II, a seconda delle versioni della leggenda). Si comprende perciò che a Bologna, negli ambienti intellettuali, si fosse particolarmente sensibili al rapporto centro-periferia. Può darsi benissimo che la parola mediastini Dante l’abbia colta qui sulle labbra dei suoi interlocutori locali.


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Il Messaggero, 9 maggio 1989 Economia/Carlo M. Cipolla «Allegro ma non troppo» Metti pepe sulla stupidità Esauritasi la prima edizione in due settimane, Allegro ma non troppo di Carlo M. Cipolla (Il Mulino, Bologna 1988) costituisce un piccolo caso letterario su cui vale la pena di intrattenersi. Dico «piccolo», perché il tutto consiste di un’ottantina di pagine in-16°, che si leggono agevolmente in meno di due ore. Cipolla è il maggiore storico dell’economia che vanti il nostro Paese e forse anche, a quanto mi consta per sentito dire, uno dei maggiori del mondo. Autore di opere importanti soprattutto di storia della moneta, dove le cifre prevalgono quasi sulle parole (Movimenti dei cambi in Italia dal secolo XIII al XV, del 1948, Movimenti monetari nello Stato di Milano, 1580-1700, del 1952), è andato via via allargando i suoi interessi (un suo splendido libretto del 1956 si intitola Moneta, prezzi e civiltà del mondo mediterraneo, secoli VXVII) e mutando il suo approccio ai fatti economici, che da quantitativo si è fatto col tempo sempre più qualitativo e individualizzante. Le epidemie, come è noto, costituiscono un campo privilegiato per gli storici dell’economia, per il funesto rilievo che assumono nel determinare l’andamento demografico. Orbene, in un suo libro del 1973 egli affronta lo studio dell’epidemia di peste che ha investito l’Italia centro settentrionale fra il 1629 e il 1630, incentrandolo sulla figura di Cristofano di Giulio Ceffini, ufficiale sanitario di Prato. Non che manchino anche qui le tabelle, ma più importanti che i numeri sono per Cipolla le reazioni di un piccolo gruppo di uomini di fronte all’evento con cui sono chiamati a misurarsi e che li ha costretti a mostrarsi per quelli che erano, con i rispettivi vizi e virtù. Sulla formazione ed evoluzione di Cipolla ha certamente inciso la sua carriera accademica, equamente divisa fra univer-


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sità italiane e università statunitensi. Si aggiunga che la sede cui è approdato da ultimo in Italia è la Normale di Pisa, che rappresenta quanto di più simile possiamo vantare rispetto ai celebri campus d’oltre Oceano, almeno per ciò che concerne intensità di contatti anche conviviali fra colleghi e con una studentesca ridotta e selezionata. È questo il rarefatto clima intellettuale, portato per natura al paradosso, in cui sono nati i due saggi accoppiati in Allegro ma non troppo, che però hanno destato l’interesse anche di un pubblico di lettori meno smaliziati e, perciò, molto più numerosi di quelli formanti la cerchia ristretta cui Cipolla dice di essersi rivolto scrivendoli. Degli ingenui, più precisamente degli stupidi, si parla, appunto, nel secondo dei due saggi, che ha anche un intento educativo, in quanto offre gli strumenti per misurare la loro pericolosità sociale, che Cipolla giudica a torto sottovalutata. L’argomentazione, che approda alla formulazione delle «cinque leggi fondamentali» che governano la stupidità umana, si appoggia su grafici comprensibili anche da chi abbia scarsa familiarità con l’asse delle X e l’asse delle Y. Conformemente in apparenza ai suoi interessi di sempre, il primo saggio è dedicato invece al «Ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo». Il pepe è una delle merci pregiate (molto valore rispetto al poco peso) che hanno nutrito nei secoli il commercio a lunga distanza, un po’ come il sale per quello a breve, pure quando, per una ragione o per l’altra, le propensioni mercantili erano decisamente scarse. Per questo, gli storici dell’economia hanno sempre tenuto d’occhio il pepe. Non a caso, nella sua celebre opera su Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, Fernand Braudel, dovendo tastare il polso dell’economia di questo spazio liquido nel Cinquecento, ha scelto come indicatori, accanto al commercio del grano e all’invasione di navi atlantiche, il commercio del pepe. Quando, nel 1501, il pepe importato dai portoghesi lungo la rotta del Capo di


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Buona Speranza aveva invaso i mercati europei, spiazzando le rotte mediterranee e Venezia, un veneziano esclamò: «È come se il latte fosse venuto a mancare a un lattante!». Il pepe di Cipolla non è quello cinquecentesco, bensì quello medievale, la cui scomparsa, prima, e il ritorno, poi, sulle mense di quei nostri lontani predecessori spiegherebbe l’andamento del ciclo economico e, in conseguenza, della vita civile durante il lungo periodo che va dalla caduta dell’impero romano d’occidente al Rinascimento. All’origine di questo schema interpretativo c’è una tesi storiografica che è stata al centro di un grande dibattito, e che Cipolla cita espressamente: «Il grande storico belga Henry Pirenne e la sua scuola dedicarono accuratissime ricerche a dimostrare che l’avanzata musulmana nel VII e VIII dell’era cristiana diede il colpo finale alle già traballanti relazioni commerciali tra Est ed Ovest; di conseguenza divenne scarso come non mai». Fin qui, a parte l’insistenza sospetta sul solo pepe a scapito di altre merci di cui Pirenne constata la contemporanea rarefazione, restiamo sul piano della corretta informazione, da manuale. Ma basta andare a capo, per rendersi conto di dove l’autore va a parare: «Il pepe, si sa, è un potente afrodisiaco» … Tutto il saggio è giocato infatti sulla contaminazione di dati reali, storici e storiografici, e di sviluppi farseschi e semplicemente paradossali. Non mancano, naturalmente, al punto giusto, le cinture di castità, costruite in serie, tanto da produrre una «forte espansione» della «metallurgia europea». Ma non mi dilungherò a fornire altri dettagli, per lasciare intatto al lettore il gusto della sorpresa. Dirò solo che il libretto regge, perché Cipolla evita di strafare, sa fermarsi in tempo, prima di incorrere nella banalità che su un percorso del genere è sempre in agguato. Mi domando solo che cosa veramente Cipolla abbia avuto in animo di fare, se non divertire. Certo, non può essersi proposto di confutare la «tesi Pirenne», perché sarebbe stato come sfondare una porta aperta.


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La preoccupazione che mi ha assalito dopo aver letto queste sue pagine, è che Cipolla nutra dei seri dubbi sui fondamenti della sua disciplina e che abbia voluto in qualche modo esorcizzarli, mettendoli in piazza. È da tempo che gli sviluppi del pensiero economico contemporaneo, indirizzati in prevalenza allo studio della congiuntura, rischiano di mettere in crisi le prospettive della storia economica, legate ai cicli e alla lunga durata. Da Cipolla, che è più bravo di tutti gli altri, aspettavamo una parola rassicurante. Allegro ma non troppo è esattamente il contrario. Il Messaggero, 25 giugno 1989 Medioevo/D’Arbrissel santo «scandaloso» Prove di fuoco Non so quanti fra i molti che, attirati dal titolo stupidamente pruriginoso che si è creduto di dover dare alla traduzione italiana di questo secondo piccolo libro di Jacques Dalarun (La prova del fuoco. Vita e scandalo di un prete medievale, Laterza, 178 pagine, 21.000 lire), ne intraprenderanno la lettura, riusciranno a percorrerlo fino all’ultima pagina. Benché scritto bene, in qualche punto fin troppo, è un libro denso di pensiero, come lo sono sempre più raramente i libri di storia destinati al grande pubblico, e quindi difficile. Chi se la sentirà di arrivare fino alla fine, non avrà però faticato invano. Questo libro dà la piena misura del talento fuori dall’ordinario di un giovane storico, attualmente membro dell’École française de Rome, che farà certo molto parlare di sé. Protagonista ne è Robert d’Arbrissel, una singolarissima figura di eremita e predicatore popolare vissuto fra il 1045 circa e il 1116, in perenne movimento fra Bretagna (dov’è nato), Maine e Angiò; fondatore dell’ordine femminile-maschile di Fontevraud, ai confini fra il Poitou e l’Angiò, dove – come vedremo – per sua disgrazia non morì, ma finì lo stesso


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per essere sepolto, benché non proprio «nel fango», in mezzo ai religiosi e alle religiose del suo ordine, secondo quanto aveva disposto, ma a destra dell’altare maggiore della grande chiesa abbaziale del Grand-Mountier, quello dei due monasteri femminili di Fontevraud che era riservato alle vergini e alle gradi dame dell’aristocrazia; vedove, spose ripudiate, profughe in genere di fallimenti matrimoniali anche plurimi. Mentre le ex prostitute o, anche solo, le donne di più umile origine erano rinchiuse in un altro stabilimento che portava il nome inequivocabile di Maria Maddalena, accanto a Eva e a Maria il terzo punto di riferimento obbligato di ogni discorso sulla condizione femminile che si ispiri alla Scrittura. Predicatore di successo di là da ogni possibile immaginazione, capace di tirarsi dietro le moltitudini dei diseredati e, al tempo stesso, di destare il fervore religioso dei più privilegiati; maceratore eroico della propria carne, Roberto andò incontro da morto al più grave degli scacchi per uno che, come lui, aveva studiato da santo durante tutta la vita; nonostante ripetuti tentativi, ancora uno compiuto nel secolo scorso, non fu mai canonizzato. Appunto L’impossible sainteté si intitola il primo e maggior libro che Dalarun ha dedicato nel 1985 al fondatore di Fontevraud, illustrandovi il fortunato ritrovamento, in traduzione francese secentesca, dei trentatré paragrafi mancanti (su un totale di settantacinque) della seconda delle due vite latine di Roberto, che, lui morto, furono commissionate dalla badessa Petronilla di Chemillé, designata da Roberto morente a reggere l’ordine. Partendo da quei trentatré paragrafi praticamente inediti, che, per essere stati censurati, dovevano pure contenere verità spigolose e sgradevoli (a Petronilla, anzitutto), Dalarun ha ripercorso con un’attenzione esegetica rara negli studiosi della sua generazione l’intero dossier relativo a questo santo non santo, alla caccia degli elementi di eccentricità che, indispensabili per segnalarsi a chi aveva imboccato il sentiero ultrastretto della santità, dovettero


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però a conti fatti risultare intollerabili a chi raccolse sul posto la sua eredità. Il solenne seppellimento delle sue spoglie mortali, rivestite per di più con l’abito sacerdotale che aveva disdegnato di portare da vivo, dopo che erano state rocambolescamente sottratte ai potenti laici ed ecclesiastici che avevano signoria sul luogo dove era avvenuto il decesso, non sarebbe stato infatti che l’anticamera dell’oblio. Ma che cosa era tanto dispiaciuto in lui? Il suo atteggiamento, in genere, verso le donne, che hanno occupato un posto saliente nella sua vita e, ancora di più, nella fondazione monastica di Fontevraud? Non metterei tanto l’accento sulla «prova del fuoco» che dà il titolo al volume, una metafora con cui, in analogia a una nota pratica giudiziaria, viene indicata la sua chiacchierata abitudine di mettere a prova la sua castità duramente conquistata (era stato, sembra, sposato da giovane come tanti altri preti pregoriani), giacendo fianco a fianco, un corpo nudo fra corpi nudi, in mezzo alle sue devote… Dalarun ha buon gioco nel dimostrare che anche questa stravaganza ha precedenti nella «materia d’Egitto», come chiama argutamente il corpus delle vite dei Padri del deserto. Semmai, dovette apparire intollerabile agli occhi dei benpensanti la sua pretesa di attentare all’ordine costituito attribuendo al riparto femminile della sua fondazione una primazia sul contiguo riparto maschile. Ma non fu nemmeno così. In realtà, collocando i suoi confratelli in una posizione di inferiorità rispetto alle consorelle, era alla salvezza dei primi che intendeva soltanto provvedere, con l’infliggere loro l’umiliazione ultima di servire a chi, per natura, era, e continuava a restare, un essere inferiore: la donna! Dai capitoli censurati della seconda vita di Roberto ciò si poteva evincere abbastanza chiaramente: Petronilla se ne rese subito conto; ne pagarono insieme lo scotto biografo e, soprattutto, biografato.


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Il Messaggero, 31 agosto1989 Storia/I processi di santificazione nel Medioevo in un libro di André Vauchez Venerare il sapere, diffidare dei miracoli Durante le discussioni che hanno accompagnato la canonizzazione di Tommaso d’Aquino, avvenuta nel 1323, a circa cinquant’anni dalla sua morte, un esponente della Curia si sentì in obbligo di fare presente che però il grande filosofo cristiano e teologo, che si voleva innalzare alla gloria degli altari, aveva compiuto solo poche guarigioni miracolose. Ma papa Giovanni XXII lo zittì, replicando che Tommaso «aveva fatto tanti miracoli quanti erano stati i problemi da lui risolti». Prima di gridare, da parte nostra, al miracolo (o allo scandalo) di un papa razionalista, occorre ricordare che «nei principali processi di canonizzazione celebrati all’inizio del Trecento, le doti intellettuali e il sapere sono presentati come effetti di un dono divino. Anche nel campo intellettuale come in altri, la santità si esprime nel compimento di qualcosa di straordinario e le considerazioni teologiche sull’infusione delle Spirito portano infine a minimizzare la parte avuta dall’uomo (da un cristiano) nella propria santificazione». Come si vede, era addirittura il contrario di quello che avevamo creduto di capire. Gli episodi, saltuari miracoli propriamente detti, operati dai santi vecchia maniera, passavano allora in secondo piano, non perché si era cominciato a nutrire dei dubbi in proposito, col risultato di umanizzare la santità, ma perché si finiva col porre l’intera giornata terrena del candidato agli altari sotto il segno di un influsso diretto, operante di continuo dello Spirito Santo. Con il rischio, anche, che, trapassando dal campo al postutto innocuo della ricerca intellettuale, compiuta all’interno dei recinti universitari, dove in un primo momento ci si era sforzati di relegarne l’esercizio, a quello, ben altri-


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menti scottante, della denuncia profetica, sulle piazze, dei mali del mondo e della Chiesa, il «dono dello Spirito», di cui oltretutto apparivano dotati in prevalenza personaggi femminili, si presentasse come una minaccia che insidiava le assise fondamentali della società cristiana. Finché ebbero l’autorità per farlo, i papi di Avignone repressero con decisione le manifestazioni di entusiasmo religioso sia fra i fedeli che all’interno della stessa Chiesa, estromettendo dall’albo ufficiale la corrente visionaria e profetica che pure bussava con insistenza alle porte. Ma, fra il 1380 e il 1416, quando lo scisma d’occidente ebbe messo in crisi il potere papale, anche una santa scomoda come Caterina da Siena trovò aperta la via al solenne riconoscimento dei suoi particolarissimi meriti, che si compendiavano nella «docilità allo Spirito Santo, il quale sapeva ispirare alla anime prescelte immagini infuocate». Superata, infine, la gravissima crisi, il papato ormai restaurato in Roma, in attesa di riprendere fiato e di stabilire controlli molto più rigidi sui processi di canonizzazione, desistette per una trentina d’anni (1418-1445) dall’autorizzare l’avvio di nuove procedure. Per il momento potevano bastare i santi già riconosciuti come tali. Abbiamo tratto spunti e citazioni dalla grande «tesi di dottorato di Stato» di André Vauchez su La santità medievale. Dando prova di discernimento e coraggio, l’editore Il Mulino propone così, come aveva già fatto per la «tesi» di Georges Duby sul Maconnais nei secoli XI e XII, un altro di questi contributi fondamentali della storiografia francese, di solito trascurati dagli editori che privilegiano libri di lettura più agevole meglio se sprovvisti di note, come se il prestigio di cui è circondata quella storiografia poggiasse giustamente in gran parte su queste monumentali e inamene «opere prime», che fino a qualche tempo addietro, prima di una discussa riforma, costituivano il passaporto pressoché obbligato per l’ingresso nella carriera universitaria in Francia.


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In La santità in occidente negli ultimi secoli del Medioevo secondo i processi di canonizzazione e i documenti agiografici, come suona più realisticamente il titolo originale della sua «tesi», (ma anche così la materia è sterminata!), Vauchez prende in considerazione i soli «nuovi santi», la cui venerazione si è sviluppata in occidente fra la fine del secolo XII e l’inizio del XV. Nuovi, si badi bene, non soltanto perché recenti, ma anche perché fatti oggetto nella nuova procedura accentrata di tipo «inquisitoriale», introdotta dalla Chiesa di Roma per la proclamazione della santità, che, da quel momento in avanti, non si presenta più come l’iniziativa, destinata a un successo più o meno grande a seconda dei casi, di una chiesa locale, ma acquista, almeno nelle intenzioni dell’autorità proponente, il carattere di un’indicazione valida per tutta la cristianità. Prima, nei secoli dell’alto medioevo, bastava che un vescovo disponesse la «traslazione» dalla nuda terra a un altare delle spoglie di qualcuno che era morto in odore di santità, per legittimare il culto di un nuovo santo. Anche per quei secoli si registrano conflitti fra «santità popolare» e «santità ufficiale», ma erano conflitti che si risolvevano per lo più in sede locale. Quando, invece, fu instaurato il processo romano di canonizzazione, la dialettica che venne così a stabilirsi fra le numerose richieste di riconoscimento ufficiale del culto di un santo, che affluivano dalla periferia, e le scelte che venivano oculatamente compiute in merito a Roma, dopo istruito ed espletato processo con tanto di testimoni e di giudici di vario grado, risultava essere un rivelatore privilegiato del continuo mutare degli orientamenti spirituali di fondo delle diverse province dell’Europa cristiana, nelle loro componenti ecclesiastiche e laiche, e del vertice papale. In effetti, quella che ha scritto Vauchez è una storia dell’Europa nel basso medioevo sotto il profilo, non marginale, del culto dei santi. E il crescente divario, che l’autore registra, fra sentire comune e decisioni romane contribuisce a spiegare


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il rifiuto generalizzato del culto dei santi, che avrebbe costituito di lì a poco uno dei cardini della riforma protestante. Sono all’incirca una quarantina gli atti di processi di canonizzazione che si sono conservati per il periodo in cui il Vauchez ha voluto limitare la sua ricerca. L’uso accorto degli strumenti offerti da due «scienze sociali» come la statistica e l’antropologia ha consentito all’autore di padroneggiare una massa imponente di dati, altrimenti inutilizzabili. Ma ciò non va mai a discapito dell’attenzione posta nel delineare, magari con pochi tratti, le singole figure di questi santi, che, non occorre dire, sono ben lungi dall’avere tutti la statura di un san Francesco o di una santa Caterina. Redatta a Roma durante un alunnato all’École française, con il sussidio incomparabile dei materiali conservati nell’archivio e nella biblioteca Vaticani, la «tesi» di Vauchez evidenzia in più punti i tratti caratteristici di una santità popolare di area mediterranea, con l’Italia settentrionale come epicentro. A differenza dei santi del nord, di norma tali solo perché uccisi in circostanze che facevano pensare al martirio per fede, i santi mediterranei e italiani si sono segnalati per aver operato il bene da vivi, distinguendosi in iniziative caritatevoli. Inoltre, non erano necessariamente sovrani e vescovi, come i loro confratelli d’Europa continentale, ma talvolta, in rarissimi casi, erano addirittura dei semplici laici, anche se – come il Vauchez si premura di precisare – il riconoscimento che veniva riservato ai loro meriti non intendeva in nessun modo promuovere il loro status come tale. E lo stesso discorso vale anche per i santi di sesso femminile, numerosi soprattutto verso la fine del periodo considerato da Vauchez; tanto più opportuno in questo caso, in quanto negli ultimi tempi sono state operate delle indebite forzature a tale riguardo.


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Il Messaggero Più, 5 dicembre 1989 Ravenna Nel 404 Ravenna diventa capitale dell’impero d’occidente. Galla Placidia sposa il visigoto. Gli Ostrogoti dominano meno di cinquant’anni, ma il segno che lasciano sarà indelebile “Ravenna – scrive lo storico Procopio (sec. VI d.C.) – giace in un’ampia pianura, all’estremità del Golfo Ionico (Mare Adriatico) e le mancano soltanto due stadi di distanza per essere sul mare; tuttavia sembra non troppo facilmente accessibile né per nave né con un esercito terrestre. Infatti lì le navi non possono in alcun modo attraccare alla riva, perché il mare stesso lo impedisce, formando delle secche per una lunghezza di non meno di trenta stadi, cosicché la spiaggia di Ravenna, sebbene agli occhi dei naviganti sembri molto vicina, in realtà si trova assai distante a causa della grande estensione delle secche. Quanto all’esercito terrestre, non si potrebbe assolutamente avvicinare perché il fiume Po, proveniente dai monti della regione Celtica, e altri fiumi navigabili, rendono la città praticamente circondata di acque”. Se Ravenna dopo il 404 fu scelta come capitale dell’Impero d’Occidente, ciò fu dovuto in prevalenza alla sua posizione geografica. La capitale precedente, Milano, era troppo esposta agli attacchi dal nord e meno facilmente raggiungibile via mare da Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, anch’essa (si badi bene) favorita dalla geografia, per cui era praticamente inespugnabile. Anche se aveva alle spalle un passato niente affatto oscuro di capitale provinciale, è con questo inizio del V secolo che Ravenna entra nella sua grande stagione, destinata a durare all’incirca tre secoli e mezzo, quanto basta per assicurarle una posizione di spicco, prima durante l’intero arco di tempo in cui si consumò il passaggio, in Italia, dall’antichità al medioevo, e poi lungo tutto il periodo in cui, insediatisi i longobardi in


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buona parte della penisola, l’impero provvide a riorganizzare, appunto intorno a Ravenna capitale dell’Esarcato, i suoi superstiti domini italiani. Tre fra i numerosi monumenti superstiti di Ravenna tardoantica rispecchiano in modo particolarmente incisivo altrettanti momenti cruciali della storia d’Italia dei secolo V e VI: il cosiddetto mausoleo di Galla Placidia, per i rapporti fra l’Impero d’Occidente e i barbari prima del 476; il mausoleo di Teodorico, per il primo regno romano-barbarico in Italia (a parte quello di Odoacre) e le difficoltà della convivenza fra Romani e Ostrogoti; la basilica di S. Vitale, per la guerra goto-bizantina e la “liberazione” dell’Italia a opera di Giustiniano. Galla Placidia, sorellastra dell’imperatore Onorio, rimasta praticamente abbandonata a Roma, fu catturata dai Visigoti nel 410. Se la trascinarono dietro, in una lettiga chiusa con il miraggio del grano africano, e poi, dopo la morte di Alarico a Cosenza, mentre risalivano la penisola sotto la guida di Ataulfo. Nel gennaio 414, a Narbona nella casa di un notabile romano il biondo Ataulfo sposò la principessa prigioniera, bruna di occhi e di capelli. Dono di nozze: cinquanta vassoi di gioielli rapinati a Roma quattro anni prima, durante il sacco famoso. Ma quelli – assicurava lo sposo che ora si atteggiava a restauratore della romanità – erano giorni da dimenticare. Certamente Placidia si ricordò del padre, l’imperatore Teodosio, che l’aveva concessa in moglie a Stilicone, un valoroso generale figlio di un vandalo e di una romana, la nipote Serena, sua figlia adottiva. Morto Teodosio, era stata Serena ad avere cura di lei, che l’aveva malamente ripagata associandosi all’accusa, che le fu rivolta, di segrete intese con i Visigoti, per cui era stata condannata a morte dal senato e strangolata come rea di tradimento. I matrimoni erano all’ordine del giorno, anche se la Chiesa non li approvava, perché il coniuge germanico era di


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solito ariano e rifiutava di convertirsi al cattolicesimo. A lenire la pena delle principesse romane c’era forse l’attrattiva di una vita più semplice, meno cerimoniosa di quella, dominata dall’ossessione dell’etichetta, ch’erano solite vivere a corte. Dalla Spagna, dove i Visigoti erano nel frattempo passati, Placidia, rimasta vedova dopo aver perso il figlio di pochi mesi, fu rispedita a Ravenna, in cambio di una partita di grano. La attendeva un secondo matrimonio, con il generalissimo Costanzo, un romano. Ma gli anni trascorsi fra i barbari – la sua guardia del corpo era composta di Visigoti – la resero sospetta ai ravennati, che furono colti da un accesso di xenofobia. Allora Onorio la costrinse ad andare in esilio a Costantinopoli. Ne ritornò dopo la sua morte, con l’appoggio di soldati inviati dal basileus, che approfittarono dell’occasione per saccheggiare Ravenna. Era, ormai, l’Augusta. Placidia si dedicò alla costruzione di chiese. Il nome del figlio avuto da Ataulfo – Teodosio, come il nonno – compare fra quelli degli altri familiari, vivi e defunti, nella dedica delle chiesa di S. Giovanni Evangelista, costruita per sciogliere un voto formulato durante una tempesta in mare. Ma dai mosaici del cosiddetto mausoleo, ch’ella fece costruire nella zona della città dove sorgeva il palazzo imperiale, traspare una speranza che non ha più niente a che vedere con i progetti di conciliazione fra romani e barbari e con la prospettiva di una Romània rinvigorita dall’innesto della forza intatta dei Goti. È la speranza cristiana nell’avvento del regno di Dio, che si impone di fronte a un mondo in frantumi. Poco prima che Placidia morisse, sua figlia Onoria, che dopo un passo falso, era stata costretta a un matrimonio di riparazione con un anziano senatore, aveva mandato di nascosto uno schiavo ad Attila, re degli Unni, con la richiesta di venire a liberarla. Quando Attila si fece avanti, solo il prestigio di Placidia salvò Onoria dall’ira selvaggia di suo fratello Valentiniano III. Ma a indurre alla ritirata il “flagel-


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lo di Dio”, quando nel 452, distrutta Aquileia, era in procinto di dirigersi a Roma, fu, secondo la tradizione, papa Leone I, accorso in tutta fretta sulle rive del Mincio. Il tempo delle “principesse imperiali”, mogli di generalissimi di origine romana o barbarica e madri di “imperatori bambini”, stava per finire. Cominciava quello dei vescovi “difensori della città” (defensor urbis non è un attributo onorifico, ma una vera e propria carica cittadina), rimasti soli a tutelare la vita e gli averi dei loro fedeli nel momento delicato del passaggio dal governo romano ai barbari di turno. A differenza di Galla Placidia, Teodorico, re degli ostrogoti, è sepolto nel mausoleo che porta il suo nome. Nella insolita copertura di esso qualcuno ha letto il desiderio del re di vedere riprodotta in pietra una grande tenda da campo, simile a quelle sotto cui riposavano i suoi antenati al tempo delle migrazioni. Anche se il dominio degli Ostrogoti durò meno di cinquant’anni, un certo numero di parole è passato dalla loro lingua all’italiano (“arengo”, “astio”, “fiasco”, “nastro”, “briglia” ecc.). Segno che hanno inciso abbastanza nel profondo. Accortamente, i nuovi arrivati furono sistemati nelle case e nei campi lasciati liberi dai soldati del detronizzato Odoacre (il primo sovrano barbarico che avesse regnato in Italia), secondo il metodo già sperimentato dell’hospitalitas. In pratica, l’insediamento pacifico dei barbari veniva favorito mediante una procedura che consisteva nel mettere a disposizione degli… “ospiti” una parte delle case e delle terre di una determinata provincia. Cassiodoro, che fungeva da portavoce del re ostrogoto, scriveva compiaciuto: “Di solito, la vicinanza è occasione di attrito fra gli uomini. Questa volta, invece, il comune possesso ha generato la concordia. È accaduto che il fatto di vivere insieme abbia indotto l’uno e l’altro popolo ad avere una sola volontà”. Per non offendere la suscettibilità degli “ospiti”, la parola “barbaro” fu bandita dal vocabolario. Nella Storia dei Goti di Cassiodoro, i connazionali di Teodorico venivano pre-


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sentati come i più civili di tutti i germani, paragonabili addirittura ai Greci. A complicare le cose c’era però la religione, allora così importante per la vita sociale. Gli Ostrogoti erano ariani, Ma Teodorico fece in modo che i suoi abitassero in quartieri separati, con le loro proprie chiese non requisite ai cattolici, bensì costruite di sana pianta, come si può ancora constatare a Ravenna. A un certo punto, Teodorico avvertì il pericolo di una congiura tramata ai suoi danni da un gruppo di senatori con l’appoggio esterno dell’Impero d’Oriente. Scambiò il sospetto per una realtà provata. La repressione si abbatté sui presunti colpevoli. Boezio fu torturato e poi giustiziato. In polemica con l’ottimista Cassiodoro, egli rappresenta l’altra faccia della medaglia: “Quante volte mi sono opposto ai funzionari di Teodorico nel momento in cui arraffavano i beni di inermi cittadini! Quante volte ho dovuto coprire con la mia autorità gli infelici che la cupidigia sempre impunita dei barbari perseguitava con innumerevoli calunnie!”. La basilica di S. Vitale era già costruita, quando nel 540 Belisario, il generale comandante del corpo di spedizione inviato in Italia dall’imperatore d’oriente, Giustiniano, occupò Ravenna, prendendo prigioniero il re degli Ostrogoti, Vitige. Fin dall’inizio delle ostilità, gli italiani si erano accorti che i “romani” venuti tanto da lontano per liberarli dagli Ostrogoti erano anch’essi degli stranieri, non solo per il fatto che parlavano un’altra lingua, cioè il greco, ma perché avevano un’aria esotica, che contrastava alquanto con la loro pretesa di esser accolti come fratelli. I migliori soldati dell’Impero d’Oriente erano da tempo reclutati nelle province dell’Asia Minore, specialmente nell’Isauria. I rapporti fra romani d’Italia e romani d’oriente durante il trentennio circa che durò la guerra goto-bizantina, ebbero il carattere di un dialogo fra sordi, sullo sfondo di un’immane tragedia collettiva, anche se la cifra di quindici milioni di morti suggerita da Procopio ha un valore solo


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esclamativo. Lo stesso Procopio, nella sua opera Sulle guerre, dove narra distesamente le imprese di Giustiniano, non può passare sotto silenzio le difficoltà, i sospetti, gli attriti, le incomprensioni che si verificarono di continuo fra gli indigeni e l’esercito. Il Messaggero, 11 dicembre 1989 Storia/La società medioevale nelle «Cronache» di Rodolfo il Glabro I presagi del monaco e l’apocalisse mancata Nel 1023, Roberto il Pio, re di Francia, e Enrico II, re di Germania si danno convegno nei pressi della Mosa, che segnava il confine fra i dure regni. «Molti del loro seguito», racconta il monaco Rodolfo il Glabro nelle sue Cronache dell’anno Mille (a cura di G. Cavallo e G. Orlandi, Collana della Fondazione Valla, Mondadori, Milano 1989), «borbottavano che era sconveniente per l’uno o per l’altro, re di tanto prestigio, umiliarsi ad attraversare il fiume quasi prestando un servizio (auxilium) al collega, e che sarebbe stato più opportuno farsi portare su barche al centro del fiume e lì venire a colloquio». È un aneddoto sorprendente che in questi giorni non ha bisogno di commento. Ma guai a pensare che Rodolfo avesse a cuore di soddisfare in anticipo la nostra sete infantile di dettagli insoliti. Per lui ciò che era degno di essere tramandato non era il progetto, poi realizzato di un summit acquatico, bensì il fatto che «quei due uomini sapientissimi avessero ben presente il detto: “Quanto sei più grande, tanto più devi umiliarti in ogni cosa”. Perciò l’imperatore, levatosi di prima mattina, con un piccolo seguito, passò dalla parte dei francesi; i due si abbracciarono con calore e si baciarono, ecc. ecc.». A un altro esempio edificante va invece aggiunta la trasmissione involontaria di un dettaglio prezioso concernente la sfera della cultura materiale e, insieme, della produzione


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intellettuale. Questa volta siamo in Guascogna dove Rodolfo racconta che Abbone, abate di Fleury, era impegnato a estendere a un monastero di quella provincia meridionale l’osservanza monastica floriacense. Un bel giorno scoppia una lite nell’atrio del monastero. Abbone interviene per sedare il tumulto e «un uomo del volgo si precipitò su di lui e trafiggendogli il fianco con una lancia ne fece un martire di Cristo». La memoria di questo sacrificio è quello che a Rodolfo premeva soltanto di tramandare; ma, di passaggio, egli non omette di dire che Abbone s’era fatto avanti «tenendo ancora in mano le tavolette cerate e lo stilo», una precisazione che – unitamente ad altre testimonianze analoghe – consente a Guglielmo Cavallo (autore della dottissima introduzione) di ribadire che, in quest’alba del secolo XI (l’episodio è del 1004), quello che Armando Petrucci ha definito il «rapporto di scrittura», si configurava ancora nel senso che gli autori scrivevano le loro minute «su materiali scrittori di scarto e in ogni caso di carattere provvisorio», per poi procedere alla dettatura del testo così composto ad amanuensi di professione, e distruggere, infine, gli originali ormai inutili. Ma proprio Rodolfo il Glabro sarebbe al confine fra l’età antica e altomedievale in cui si procedeva così, e un’età nuova in cui l’autore stesso parteciperà invece attivamente alla scrittura del proprio testo. Le pagine che Cavallo dedica all’esame del manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi che ci ha tramandato le Cronache di Rodolfo, benché non propriamente amene, sono di un interesse straordinario. Questo manoscritto offre infatti allo sguardo penetrantissimo del nostro codicologo-poliziotto una serie di spie che gli consentono di individuare i tempi e i luoghi della composizione di quest’opera, nonché i ripensamenti avuti dal suo autore cammin facendo. Ma, a questo punto, dobbiamo preliminarmente domandarci: chi era Rodolfo il Glabro? Era nato a Bologna verso il 985, figlio dell’amore; con qualcosa che non andava nel sistema pilifero, visto il sopran-


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nome; monaco per forza; e, quindi poi, per tutta la vita monaco con cattiva coscienza, cattiva digestione e sonno difficile, turbato da continue visioni angosciose. Il tipo di organizzazione monastica del tempo, che non era più quello di san Benedetto incentrato sul voto di stabilità, consentiva in via di principio trasferimenti da un priorato all’altro della medesima obbedienza (in cima alla piramide sedeva l’onnipossente abate di Cluny). Ma non si direbbe che questa possibilità istituzionale di cambiamento bastasse a lenire la sua nevrosi, che lo spingeva ad abbandoni improvvisi, a fughe precipitose, che lo mettevano comunque fuori dalla norma. All’inizio e alla fine Saint-Germain d’Auxerre, a un certo punto – per qualche anno – S. Benigno di Digione e Cluny e, negli intervalli almeno altri quattro monasteri borgognoni. È questo itinerario di una continua, tentata (e fallita) fuga da se stesso, che Rodolfo affida per lo più al quinto libro delle due Cronache, redatto nei primi anni quaranta a Saint-Germain d’Auxerre, prima di morirvi (verso il 1047); quel quinto libro che, a differenza dei quattro che lo precedono, appare scritto di sua mano nel manoscritto parigino, che in tal modo si presenta come la testimonianza, unica nel suo genere, del passaggio da uno all’altro «rapporto di scrittura». A Rodolfo risale per un buon ottanta per cento la responsabilità della nascita della leggenda dei «terrori dell’anno Mille», trascorso il quale sarebbe sorta l’alba di una nuova era. «Si era già quasi nell’anno terzo dopo il mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali: sebbene molte fossero ben sistemate e non ne avessero bisogno, tuttavia ogni popolo della cristianità faceva a gara con gli altri per averne una più bella. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese». Ma, se Rodolfo non si fosse lasciato incautamente andare a scrivere quelle parole, Carducci, che non poteva aver


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letto Violante e Duby, non si sarebbe mai lasciato andare, da parte sua, a imprimere il sigillo della sua prosa magistrale su una insopportabile banalità laicista: «Immaginate il levar del sole nel primo giorno dell’anno mille? Questo fatto di tutte le mattine ricordate che fu quasi miracolo, fu promessa di vita nuova, per le generazioni uscenti dal secolo decimo?»; dopo che, nell’attesa angosciosa di quel mutare di secolo ritenuto fatale, s’era consumato «l’ultimo grado della fievolezza e dell’avvilimento a cui le idee degli ascetici e la violenza dei barbari avevano condotto l’Italia romana»… Poco ci manca che le nuove basiliche non vengano scambiate per stazioni ferroviarie. Fu probabilmente a Cluny, con il 1000 (mille anni dalla nascita di Cristo) ormai da tre decenni dietro le spalle, ma con il 1033 (mille anni dalla sua passione e resurrezione) ancora da attraversare, che Rodolfo pose mente al fatto che in quel giro di anni i «segni», prodigi di varia natura utili alla salute dell’umanità, non solo non si erano diradati – chissà poi perché avrebbero dovuto –, ma si erano fatti ancora più frequenti. Se l’intensificarsi, verso il 1000 e, poi, di nuovo, verso il 1033, di quei segni premonitori avesse ingenerato una diffusa attesa di tipo millenaristico, Rodolfo non avrebbe mancato di mettere le cose a posto come si deve. Un cristianesimo senza attesa della parusia (promesso ritorno del Cristo) è un nonsenso; ma la Chiesa ha vigilato da sempre contro il rischio della fioritura incomposta di «teologie della liberazione», collegate con l’attesa millenaristica. Un volta per tutte, Agostino, commentando il capitolo XX dell’Apocalisse, che contiene il famoso, isolato riferimento ai mille anni in cui il diavolo resterà incatenato prima di tornare a impazzare più di prima nel mondo di quaggiù, aveva insistito che «mille» significava solo «un gran numero», adducendo a prova citazioni incontrovertibili di Pietro e di Marco. Ma Rodolfo, che sapeva benissimo tutto questo, non sfoderava queste armi patristiche e scritturali, semplice-


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mente perché non ne avvertiva il bisogno, Piuttosto, urgeva adoperarsi perché quel tesoro di segni salutiferi non andasse sprecato e disperso. La memoria di questa «trepidazione collettiva di lunga durata», come Cavallo ribattezza felicemente i pretesi «terrori dell’anno mille», non poteva infatti portare che bene alle anime, ingenerando nei cristiani un giusto dimore di Dio. Il Messaggero, 19 gennaio 1990 Discussioni/A sessant’anni dalla nascita le «Annales» sono ancora attuali? Quei paesaggi agrari che fecero la Storia La maggior parte di coloro che in Italia hanno a che fare con la storia, siano essi storici dilettanti, o insegnanti di storia, o studenti di storia, o lettori (anche se solo occasionali) di libri di storia, trovano normale richiamare continuamente, di passaggio, l’esempio delle «Annales»: più spesso per manifestare in una forma sintetica che, nelle intenzioni, non dovrebbe però lasciare adito a dubbi, quello che è il loro ideale di storia, contrapposto polemicamente alla storia noiosa e poco interessante che si faceva prima; molto più di rado per prendere snobisticamente le distanze da qualcosa che è ormai troppo alla moda perché una persona che voglia distinguersi non senta il bisogno di avanzare qualche riserva in proposito. Gli stessi storici di professione non sfuggono per lo più alla regola, perché sanno benissimo che, solo obbedendo alla continua sollecitazione esterna di pronunciarsi in un senso o nell’altro rispetto alle «Annales», hanno qualche probabilità di comunicare con chi, non appartenendo alla corporazione, prima di disporsi all’ascolto, pretende una risposta, quale che sia, su questo punto giudicato pregiudiziale dall’intervistatore mediamente colto.


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Ma, in contrasto con l’uso fra il simbolico e l’evocativo che viene fatto qui da noi del nome della sua testata, la celeberrima rivista fondata sessantuno anni fa da Bloch e Febvre e la tradizione di alcuni studi storici che in Francia si è ispirata (e continua a ispirarsi) alle parole d’ordine da essa via via lanciate sono fenomeni culturali molto articolati e complessi, che meritano di essere considerati con la stessa attenzione e lo stesso distacco che vengono di solito riservati, che so io, alla storiografia dell’illuminismo e, ormai, anche alla storiografia di ispirazione marxista. Sessantuno anni per una rivista sono tanti. Sarebbe assurdo e anche un po’ preoccupante che fossero trascorsi invano per gli storici che si sono susseguiti alla guida delle «Annales» e che hanno contribuito con interventi significativi a delinearne la fisionomia. Alcuni scritti recenti stanno a indicare che, per ora soprattutto in Francia, si è cominciato finalmente a fare un serio lavoro di scavo in particolare sulla fase iniziale della rivista, quella che va dal 1929 alla seconda guerra mondiale e che è stata caratterizzata dalla condirezione di Bloch e di Febvre. I punti che mi paiono caratterizzare questo promettente momento di riflessione sulla genesi delle «Annales» sono in sostanza tre. Anzitutto, in uno dei contributi apparsi nel 1986 nella sezione dedicata alla Nazione della silloge sui Luoghi di memoria diretta da Pierre Nora, Krzysztof Pomian, un penetrantissimo storico polacco, esule a Parigi dal 1973 e noto da noi per i suoi studi di storia del collezionismo, si è posto il problema della funzione che le «Annales» avrebbero avuto nel rinnovare la problematica relativa alla storia di Francia. Tale approccio appare a prima vista bizzarro e fuori posto, poiché, secondo uno dei luoghi comuni più accreditati, le fortune di questo indirizzo storiografico nel secondo dopoguerra sarebbero state determinate anche dal fatto che esso era nato fuori dalle strettoia della tradizione storiografica, fino allora imperante, legata all’esistenza degli stati


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nazionali: una realtà che, appunto con la seconda guerra mondiale, era entrata irrimediabilmente in crisi. Non a caso, la notizia che Fernand Braudel aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita scrivendo una storia di Francia, rimasta poi incompiuta, è stata accolta in genere come l’indice di una svolta inattesa, da alcuni anche come il segno di una tradimento dell’ispirazione originaria della rivista ch’egli stesso aveva diretto fino a qualche tempo prima. Ora, Pomian, testi alla mano, ma non senza qualche comprensibile forzatura, dimostra che le «Annales» hanno sì infranto il «dogma fondamentale» della storiografia scientifica (per il quale la storia si costruisce soltanto sulle fonti scritte, preferibilmente sui documenti ufficiali, emanati da un’autorità riconosciuta) e hanno quindi messo indirettamente in discussione il fondamento metodologico della storiografia concernente gli stati nazionali. Ma fa anche vedere come, proprio per il fatto di avere attirato l’attenzione su oggetti fino allora trascurati dalla «memoria nazionale», come i paesaggi, le superstizioni, le tecniche, le «Annales» hanno messo le basi per un nuovo incontro, su posizioni più avanzate, fra la storiografia cosiddetta scientifica e la stessa «memoria nazionale». Al primo posto fra gli oggetti trascurati e ora, finalmente rivisitati, abbiamo posto volutamente i paesaggi, in particolare i paesaggi agrari, che sono al centro di quello che viene da tutti ritenuto il capolavoro di Marc Bloch e, direi, della scuola delle «Annales» prima maniera: i Caratteri originali della storia rurale francese, del 1931. Ma uno studio approfondito della genesi di questo classico della storiografia contemporanea comporta la soluzione di un problema, che finora era stato trattato solo di sfuggita, anche se tutti sapevano già benissimo, che la scienza sociale con cui le «Annales» hanno fatto prevalentemente i conti nei primi tempi della loro storia è stata la geografia.


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Intendo dire l’entità del debito di Bloch, e delle «Annales» in genere, nei confronti di studi geografici, il cui eroe eponimo era ritenuto di solito Vidal de la Blache. Ma su questo secondo punto Pomian esprime un giudizio abbastanza diverso da quello di Pierre Toubert, l’autore della famosa monografia sulle Strutture del Lazio medievale, nella sua lunga e impegnatissima prefazione alla nuova, recente, edizione dei Caratteri originali. A differenza di Pomian, Toubert ridimensiona in modo radicale la portata dell’influenza che l’opera di Vidal de la Blache avrebbe avuto nella formazione iniziale di Bloch, attribuendo semmai una notevole importanza a una serie di tesi di geografia regionale apparse negli anni del primo dopoguerra, immediatamente a ridosso dei Caratteri originali. Stando, insomma a Toubert, la geostoria non sarebbe affatto un’invenzione di Vidal de la Blache, le cui opere teoriche risultano molto modeste e le cui monografie di geografia regionale, di carattere descrittivo, sarebbero ben lontane dal lasciar presagire il salto di qualità costituito, da questo punto di vista, dall’opera di sintesi compiuta da Bloch, dove per la prima volta i paesaggi agrari della Francia contemporanea sono letti stratigraficamente come fonti per la storia antica e antichissima della Francia rurale. Ma è su un terzo punto, quello del debito di Bloch nei confronti della storiografia regionale tedesca (un settore rimasto estraneo alla linea dominante della tradizione nazional-liberale), nonché della scuola inglese di storia economica, che sono emerse, sempre per merito dell’attenta disamina di Toubert, le novità forse più sensazionali. Il fatto che Bloch e Febvre, quando hanno fondato le «Annales», fossero entrambi professori a Strasburgo, la città alsaziana che la vittoria nella prima guerra mondiale aveva restituito alla Francia, aveva già indotto a pensare che la biblioteca di quell’università, ben fornita, com’era naturale, di libri tedeschi, a differenza delle biblioteche parigi-


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ne, fosse da mettere nel conto della genesi della nuova impresa storiografica, destinata a un così grande successo. Ma quei libri Toubert ha avuto il merito di andarseli a leggere, di modo che il discorso sull’apporto germanico alla formazione di Bloch, soprattutto in merito al modo di intendere la storia degli insediamenti, è uscito dal vago di una notazione biografica per diventare un elemento centrale di comprensione della genesi dei Caratteri originali. È solo proseguendo su questa strada che, senza attentare in alcun modo alla gloria delle «Annales», potremo finalmente farne la storia. Il Messaggero Più, 26 gennaio 1990 La Roma dei primi papi Costantinopoli cresce e la Chiesa si lancia alla conquista di Roma. Fra le rovine dell’Urbe papa Gregorio è promosso Consul Dei La legislazione dell’impero romano cristiano ha attribuito ai vescovi numerose potestà di carattere temporale. Gli imperatori cristiani cercavano così di valersi del prestigio di cui la Chiesa godeva presso la massa dei fedeli ai fini di un rafforzamento indiretto dell’autorità dello Stato. D’altro canto, essi non avevano perso occasione da Costantino in poi per intervenire d’autorità nelle dispute teologiche e nelle maggiori controversie di natura disciplinare che divisero la Chiesa durante quei secoli. Dato il posto che era stato assicurato alla Chiesa nella vita dell’impero, questi si arrogava il diritto-dovere di ristabilirne l’unità, come condizione imprescindibile della propria sopravvivenza e salute. I concili ecumenici dei secoli IV e V, decisivi per la definizione del dogma, furono indetti da imperatori e presieduti di norma da imperatori o loro rappresentanti. In conseguenza del carattere particolare delle città in cui esercitava


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il suo ministero, il vescovo di Roma aveva dapprima avuto minori occasioni dei suoi confratelli, soprattutto occidentali, di ingerirsi nel temporale. La presenza del praefectus urbi, con gli uffici dipendenti, e del senato rappresentavano da questo punto di vista remore non trascurabili. Ma, in tutt’altro ordine di idee a partire dalla seconda metà-fine del secolo IV e poi nel corso del V, il vescovo di Roma era riuscito ad affermare il suo “principato” tra i vescovi della Chiesa imperiale-universale. Egli era ormai in grado di contendere all’imperatore il ruolo di guida anche ecclesiastica, che si era attribuito da Costantino in poi. Strumento dell’ascesa dei papi nel V secolo fu la rivendicazione, per la loro sede, della doppia origine apostolica (Pietro e Paolo) e, per loro stessi, della prerogativa di successori del “principe degli apostoli”. Questi concetti base furono elaborati in risposta a una sfida che veniva rivolta, a un tempo, a Roma e alla sua Chiesa da parte della “nuova Roma” d’oriente, come veniva ormai designata Costantinopoli anche in documenti ufficiali. Il risultato indiretto di quelle enunciazioni fu anche una prima appropriazione – per ora soltanto in senso ideale – della “vecchia Roma” da parte del papato. Dal tempo di Diocleziano, salvo la parentesi di Massenzio (fra 306 e 312), Roma non era stata più la sede dell’imperatore o di uno degli imperatori. Restava, beninteso, il centro dell’impero, ma, a partire dalla metà circa del secolo IV, aveva cominciato a dividere questa sua prerogativa con il suo doppione orientale: Costantinopoli. Ridotta ai margini del processo di formazione dell’“impero cristiano”, Roma rimase a lungo così come la volevano gli aristocratici pagani arroccati nel senato: “una sorta di Vaticano pagano”, e, nella ovviamente discorde ottica dei cristiani, “la pecora nera di una famiglia di leali città cristiane: Cartagine, Alessandria e Costantinopoli” (Peter Brown). Ma le conversioni al cristianesimo di esponenti dell’aristocrazia senatoria finirono con l’erodere dall’interno l’ultima cittadella


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del tradizionalismo politico-religioso romano. Così, ogni giorno che passava, Roma diventava un po’ più cristiana. Nel contempo tendeva però ad assottigliarsi e a rimpicciolire, in termini non solo demografici, ma anche economici e civili. Il sorpasso demografico di Roma da parte di Costantinopoli poteva già dirsi avvenuto intorno al 430: la prima doveva avere allora al massimo duecentomila abitanti; la seconda era fra i duecento e i trecentomila. La minaccia più seria che veniva dalla “nuova Roma” nei confronti della “vecchia” concerneva però il dominio più strettamente ecclesiastico. Qui l’insidia era tanto più grave, in quanto sottile. Costantinopoli non mirava a spodestarla dal suo posto nella graduatoria delle diocesi della cristianità. Si accontentava di essere buona seconda, scavalcando le sedi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, che potevano contare titoli ben maggiori del suo, che consisteva nel solo fatto di essere collocata nel nuovo centro politico-amministrativo dell’impero. Se accolta, questa pretesa avrebbe comportato l’affermazione di una nuova scala di valori, che, alla lunga, avrebbe scalfito inevitabilmente lo stesso primato romano. La risposta elaborata nei termini che si sono visti dai papi del IV-V secolo ebbe il risultato di sottrarre la Chiesa romana alle conseguenze del declino di Roma. In tale modo venivano anche poste le basi di un diverso destino di Roma stessa, chiamata a essere la capitale di un impero di nuovo tipo, spirituale ed ecclesiastico. Con rinnovato orgoglio di romano, papa Leone I (440-461) ne preannunciò l’avvento in un sermone per il 29 giugno, festa un tempo di QuirinoRomolo, ora di Pietro e Paolo. Di fronte alla “nuova Roma” orientale non c’era più solo la “vecchia Roma”, anche se questa designazione, che voleva essere un segno d’onore, continuerà ad avere corso a Costantinopoli. Maturata sotto la crosta di quella e ora sbocciata al suo posto, c’era anche una seconda “nuova


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Roma”, la Roma degli apostoli. Con questa appropriazione ideale di Roma da parte della Chiesa erano anche già poste le basi del futuro “dominio temporale dei papi”, che pure sarebbe nato in un contesto del tutto diverso, dal momento che ancora per lungo tempo avrebbe continuato a essere governata da magistrati civili. All’inizio del 593, Gregorio I, papa dal settembre 590, cominciò un ciclo di omelie sulle profezie di Ezechiele. La chiusa di una di esse – tenuta mentre Agilulfo, re dei Longobardi, attraversato il Po, puntava su Roma a marce forzate – costituisce una citazione d’obbligo in ogni racconto della fine di Roma antica: “Quella stessa che un tempo sembrava essere la signora del mondo, a che cosa si sia ridotta Roma, lo vediamo con i nostri occhi: immensi dolori di ogni genere; il deserto lasciato dai cittadini; i nemici che irrompono; dappertutto rovine… Dov’è il senato? dove il popolo? ... Si è spento in esso ogni fasto di dignità secolari… Sui pochi che tuttavia siamo rimasti incombono ogni giorno la minaccia delle spade e patimenti innumerevoli… Il senato è venuto meno, il popolo è scomparso… Roma, ormai vuota, brucia”. Nel quadro della generale rovina dell’orbis Romanus, che, in una visione fortemente intrisa di motivi escatologici, è, per lui, l’intero ecumene, la rovina di Roma, che Gregorio aveva davanti agli occhi, è prospettata in termini di distruzioni materiali, ma soprattutto di morti e, ancora di più, di abbandoni volontari. La constatazione riguarda sia la classe dirigente (il senato) che la generalità dei cittadini (il popolo). La parola-chiave del passato è vacua: Roma era ormai una città “vuota”. Ma l’accento batte qui, in particolare, sui “senatori”, perché erano essi e le loro famiglie a dare il tono alla città. Non è, dunque, tanto una catastrofe di carattere demografico quella che Gregorio registra, quanto una catastrofe di carattere, insieme, politico e sociale – una catastrofe civile. Ma, benché giustificata all’interno del contesto in cui si trova inserita,


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l’osservazione coglie solo la superficie delle cose. Col senno di poi sarebbe più esatto dire che il “fasto delle dignità secolari” passava dalla res pubblica alla Chiesa. È ciò di cui sembra essersi reso conto l’estensore dell’epigrafe metrica apposta alla tomba di Gregorio, là dove lo chiama “consul Dei”. “Console” non è traslato, bensì un riferimento puntuale al titolo onorifico che Gregorio doveva avere ricevuto dall’imperatore quando, nel 573, prima dalle conversione monastica che avrebbe mutato il corso della sua vita, aveva ricoperto l’altissima carica di “prefetto di città” (l’ultimo prefetto è menzionato proprio in una lettera di Gregorio, del 599). “Console di Dio”, perché Gregorio, in un certo senso, aveva continuato a essere un console, anche dopo essere diventato papa. Era, insomma, passato da una condizione all’altra, portandosi però dietro il “fasto della dignità secolare” cui era stato elevato quando era ancora un laico. Si dava infatti il caso che le sorti di questa città così seriamente minacciata e in pratica abbandonata a se stessa – nonostante la presenza in loco, da qualche mese, di un duca alle dipendenze dell’esarca d’Italia, insediato a Ravenna nel basileum – fossero nelle mani di chi pronunciava l’omelia su Ezechiele e che, per il fatto di presentare la situazione nella luce cruda dei disastri collettivi dell’Antico Testamento, poteva dare l’impressione di essere rassegnato ad arrendersi di fronte all’ineluttabile. Ma non era assolutamente così. Fino dal giorno della sua elezione a pontefice, Gregorio si era fatto carico dei problemi connessi non solo con la salvezza dei Roma e dei romani, ma anche con il sostentamento di questi ultimi, e non finisce di stupire la prontezza con cui passava da un tipo di intervento a un altro, infrangendo con disinvoltura barriere di mentalità, attitudini e culture diverse, che a noi moderni parrebbero dovere essere invalicabili. Per allontanare le minacce incombenti da parte dei Longobardi, egli talvolta operava anche nei modi consueti


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della politica, della diplomazia, della stessa arte militare, che vediamo praticati ora, per la prima volta, con continuità, da un pontefice romano, che esercitava un’azione di governo sui generis, di cui le sue lettere arrivate fino a noi ci danno puntuale notizia. La caduta di Ravenna in mano ai Longobardi (inizio del 750) creò una situazione almeno in parte nuova nei ducati indipendenti dell’esarcato d’Italia, che in tal modo cessava di esistere. In conseguenza della fine dell’esarcato, i ducati dell’Italia bizantina rimasero come decapitati. Da quello di Venezia a quello di Napoli, la situazione in cui vennero a trovarsi può essere sommariamente definita come di sostanziale autonomia e, a un tempo, di larvata dipendenza da Costantinopoli. Ciò che conta è che essi continueranno a sussistere come tali all’interno dei loro confini. Per ciò che concerne invece il ducato di Roma, registriamo da un lato la sua sopravvivenza con un altro nome come pura entità territoriale (il patrimonio di San Pietro della fine del secolo XII corrisponderà pressappoco al ducato di Roma dell’VIII) e, dall’altra, la sua fine come entità politica. Se un duca non fu più eletto a Roma dopo il 750-755 è perché i romani – clero, aristocrazia e popolo – eleggevano già il papa, che era pronto a prenderne il posto, così come verso la fine del secolo VI, ai tempi di Gregorio Magno, il papa era subentrato di fatto in molte delle sue attribuzioni all’allora scomparso prefetto di città. È a questo punto che può dirsi infine costituito il “dominio temporale dei papi”, destinato a durare fino al 1870.


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Il Messaggero Più, 4 marzo 1990 Rimini Sigismondo Malatesta assassino, ladro e stupratore “canonizzato” nel regno di Satana Tra fede cristiana e mito pagano cercava negli Scipioni l’antica origine della sua stirpe Quando devo spiegare ai miei studenti come fu che, verso la metà del XV secolo, si cominciarono a considerare come un tutto unico i dieci secoli precedenti, caratterizzandoli negativamente come l’età dell’imbarbarimento del gusto artistico (l’“età gotica”, così designata del nome dei saccheggiatori di Roma nel 410, che circa due secoli dopo sarebbe stata ribattezzata per sempre come “medioevo”), mi servo di un esempio, a mio avviso molto eloquente. Se vogliono davvero capire quello che gli umanisti avevano in mente, non hanno che da imboccare la via Flaminia, facendo una prima tappa a Spoleto, dove la chiesa del San Salvatore (nel recinto dell’attuale cimitero) è una chiesa non ancora medievale, dove uno potrebbe facilmente immaginare che sia entrato un giorno un imperatore cristiano della tarda antichità: e approdando poi a Rimini, al Tempio Malatestiano, l’ex chiesa duecentesca di San Francesco, che Sigismondo Malatesta fece interamente trasformare dagli architetti Matteo de’ Pasti e Leon Battista Alberti, col risultato di farne, avendo preso a modello le repubbliche di Platone e di Cicerone, quella che Charles Mitchell ha definito “una repubblica paleocristiana di pietra: un monumento sacro e nobile, al tempo stesso politico e religioso, dedicato a Dio e alla Città”. Il medioevo, sono solito concludere, sta giusto in mezzo fra il tempo del San Salvatore di Spoleto e il tempo di questo sconcertante monumento di Rimini, non a caso definito provocatoriamente templum, alla pagana, nell’iscrizione votiva del 1450.


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Non fosse che il Tempio Malatestiano è davvero un unicum (accanto a Sigismondo ci è magnificata e sepolta anche la sua amante Isotta degli Atti); non fosse soprattutto che l’eloquenza del mio esempio è in gran parte basata sul fatto che i due monumenti citati sorgono entrambi lungo il tracciato della via Flaminia; per dare un’idea concreta di ciò che viene dopo il medioevo, nella mente almeno di quanti hanno concepito per i primi la lunga durata negativa dei dieci secoli dell’età di mezzo, potrei servirmi anche dell’esempio di Pienza, così chiamata dal nome del papa (Pio II), che, fra il 1459 e il 1461 (le date più o meno coincidono), operò la trasformazione dell’antico borgo medievale di Corsignano… Il richiamo a Pienza, se ci porta fuori strada rispetto al percorso della Flaminia, è però tutt’altro che sviante rispetto al discorso che stiamo imbastendo, perché, oltre che contemporanei e partecipi del medesimo gusto per le belle cose (gli storici dell’arte mi perdonino l’audace e forse inopportuno accostamento), Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini dal 1432 al 1468, ed Enea Silvio Piccolomini, papa come Pio II dal 1458 al 1464, furono anche nemici per la pelle. Non fu certo la loro la sola inimicizia fra principi laici ed ecclesiastici italiani del tempo che abbia lasciato una traccia indelebile nella memoria dei contemporanei. Eppure, il discorso che Pio II pronunciò nel concistoro del 16 gennaio 1461 e che suonò come atto definitivo di dichiarazione di guerra al Malatesta, assunse toni che non cessano di stupire anche chi abbia una qualche familiarità con il linguaggio delle polemiche del tempo. Su invito del papa, l’avvocato del fisco, Andrea Benci, aveva elencato i pretesi delitti di cui si era macchiato Sigismondo: ruberie, incendi, stragi, stupri e via di questo passo. A conclusione della requisitoria (è Pio II a narrare l’episodio nei suoi Commentari) il Benci aveva invitato il papa a provvedere in merito, liberando l’Italia da un tale mostro: “sin tanto che


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egli è in vita nessun uomo onesto può vivere nelle città a lui sottoposte” (mi servo della traduzione di L. Totaro, Adelphi, Milano 1984). Fra i presenti quel giorno a Roma c’era anche Federico da Montefeltro, duca di Urbino, il cui conflitto trentennale con Sigismondo (la posta era stata all’inizio il possesso di Pesaro) finì con l’acquistare l’aspetto della “parodia di un’epopea cavalleresca” (Ph. J. Jones). Figurarsi se non rincarò la dose! Federico non perse infatti l’occasione per ricordare puntigliosamente che l’autore della requisitoria aveva omesso, fra l’altro, di dire che Sigismondo aveva violentato le proprie figlie e i propri generi e fatto uccidere i fanciulli che si erano rifiutati alla sua libidine (anche incesto e sodomia, dunque). Inoltre, spergiuro eretto a norma abituale di comportamento (“tutti coloro che gli avevano prestato fede erano risultati traditi”); e, per finire, addirittura totale miscredenza (“respingeva l’intero credo apostolico e in lui non c’era traccia di religione”). Ammesso che Pio II fosse particolarmente sensibile a quest’ultimo punto, la progressione di Sigismondo sulla via del male assoluto era evidente. Ce n’era, e d’avanzo, quanto bastava per consentire di arrivare a una sentenza di condanna senza appello. “Il pontefice, udito l’atto d’accusa, disse…”: il discorso che segue, e che Pio II si attribuisce retrospettivamente (inutile chiedersi se abbia parlato davvero così), rappresenta, nei confronti del livello dell’arringa accusatoria, un indubbio salto qualitativo, venendo a costituire, se così si può dire, un omaggio indiretto alla grandezza – grandezza nel male, si intende – dell’accusato, un riconoscimento come che sia della sua “diversità”. Il pontefice prende le mosse da lontano: “Sono due le città ove migrano gli uomini che lasciano questo mondo. Una è la Gerusalemme celeste, patria dei beati; l’altra si trova presso gli Inferi, ed è sede di Lucifero e prigione eterna dei dannati”. Anche se il percorso è tortuoso, fin qui non è difficile intuire dove il papa vada a parare. Ma, proseguendo, il discorso


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prende una piega inattesa: “I nostri predecessori hanno proclamato ascritti alla prima citta molti che ora noi veneriamo come santi e onoriamo con il culto della dulia (un grecismo che sta a indicare tecnicamente la venerazione che si presta ai santi – n.d.r.). Per tale proclamazione si celebra il rito che chiamiamo canonizzazione”. Segue un catalogo delle canonizzazioni più recenti, riferita ciascuna al papa che l’ha promossa. Poi, Enea Silvio accenna a tre pratiche di canonizzazione in corso, tutte e tre relative a donne (fra le altre, Caterina da Siena), tutte e tre avviate a buon fine. A questo punto, il nostro disorientamento è totale; ma è anche in vista il momento in cui la apparente inspiegabile divagazione volge al termine e il discorso del papa ritrova il suo filo naturale: “Eppure nessuna di esse (il riferimento è alle sante appena menzionate) è stata tanto elogiata dagli eloquentissimi avvocati, che nei giorni passati hanno patrocinato la loro causa di beatificazione, quanto oggi Sigismondo Malatesta è stato vituperato. E mentre quel che è stato detto di quelle vergini richiede la conferma delle prove, i crimini di Sigismondo sono manifesti e noti non solo a questa o quella persona, ma quasi a tutto il mondo”. Conclusione da trarre (il ragionamento di Pio II nella sua sconcertante paradossalità, non fa una grinza): “Si dovrà perciò dargli la precedenza, e prima di canonizzare quelle donne ed elevarle al cielo, sarà opportuno ascriverlo fra gli abitatori della città infernale. I crimini di Sigismondo, inauditi prima a memoria d’uomo, richiedono una procedura nuova e inaudita anch’essa. Sino ad oggi nessun mortale è disceso all’Inferno con una cerimonia di canonizzazione. Sigismondo sarà il primo ad essere degno di tanto onore”. Non direi, per quanto mi è dato di sapere, che gli storici moderni abbiano mai reso veramente giustizia a Sigismondo, non tanto nel senso di discolparlo di una parte almeno della serie di delitti che gli sono stati attribuiti nel concistoro del gennaio 1461 e in altre occasioni consimili, quanto nel senso


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di rendere la sua statura di uomo capace di provocare una siffatta enfasi accusatoria, culminante nella proposta, di un’audacia che solo Pio II poteva permettersi, di una canonizzazione a rovescio. Per il resto, i comportamenti che gli vengono imputati lo accomunano a molti altri signori italiani del tempo, soprattutto a quanti, fra essi, condividevano il fatto di essere, a un tempo, condottieri indotti dalla loro professione a passare con disinvoltura da un principe all’altro, e signori territoriali tenuti a difendere il loro staterello dalle continue insidie dei vicini. Se la ricerca di una “condotta” più vantaggiosa era un buon motivo per tradire la fede del principe che si era servito fino al giorno prima, quando si trattava di stipulare un’alleanza fra signori, tanto più se di non eguale potenza, un minimo di affidabilità era necessaria. E Sigismondo si era fatto la nomea di essere un voltagabbana ancora più privo di scrupoli degli altri suoi pari. Nel 1461, quando la lotta con Pio II era giunta, come si è avuto modo di vedere, al punto culminante, i frati francescani provvidero a costruire a proprie spese un tetto provvisorio per il Tempio, ancora in via di ristrutturazione. Intendevano così proteggere dalle intemperie i tesori d’arte che vi si erano andati accumulando nel frattempo. Sigismondo, che fu scomunicato l’anno dopo, non ebbe dunque, il tempo di portare a termine la costruzione di quel monumento che aveva voluto senza pari. In esso, fra l’altro, avrebbe dovuto trovar posto un rilievo di Agostino di Duccio, che oggi si trova a Londra, nel Victoria and Albert Museum, e raffigura la Vergine e il Bambino; questo porta intorno al collo, come un amuleto, un medaglione raffigurante il dio Sole che guida la sua quadriga per il cielo. I due temi iconografici, che ricorrono nella decorazione del Tempio Malatestiano, sono infatti la dottrina solare dell’antichità congiunta con la vera fede del cristianesimo, e la dottrina sull’immortalità dell’anima esposta nel ciceroniano Somnium Scipionis, che Sigismondo prediligeva a fini di


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autoesaltazione gentilizia, in quanto pretendeva di discendere dagli Scipioni. Su questo piano di audacia intellettuale, solo che le ragioni della politica non li avessero irrimediabilmente divisi, Sigismondo e Pio II avrebbero senza dubbio trovato un terreno di possibile intesa. Il Messaggero, 1 aprile 1990 Storia/Ernst H. Kantorowicz e «I due corpi del re» Decapitatelo pure se vive di Stato In occasione del bicentenario della presa della Bastiglia, non sono mancati i guastafeste che si sono compiaciuti di paragonare la rivoluzione francese culminata nel Terrore e la «gloriosa rivoluzione» inglese dei centouno anni prima, parlamentare e non violenta. Punti nel vivo, i figli dell’89 avevano il buon gioco di replicare che, prima del 1688, c’era stato però il 1649, quando il parlamento inglese, nel corso di una sanguinosa guerra civile, aveva processato per alto tradimento e fatto giustiziare re Carlo I Stuart. Già! Ma questa sentenza fu eseguita «contro il solo corpo naturale del re senza coinvolgere seriamente o danneggiare in modo irreparabile il corpo politico del Re – a differenza di quanto avvenne in Francia nel 1793», quando con Luigi XVI fu decapitata la monarchia. La citazione, di cui avrebbe potuto avvalersi una possibile controreplica, non è tratta dai resoconti del battibecchi anglofrancese dell’anno scorso, che hanno avuto in realtà un rilievo più diplomatico che storiografico, bensì da un grande libro di storia apparso nell’ormai lontano 1957 e ora finalmente pubblicato in un’ottima traduzione italiana da Einaudi: I due corpi del re. L’idea di regalità nella teoria politica medievale di Ernst H. Kantorowicz. L’autore, morto nel 1964, è uno storico tedesco, non tanto e non solo di nascita (Posen/Poznam, 1895), quanto soprattutto di elezione, e di formazione intellettuale e politico-morale, benché appartenesse a una famiglia ebrea.


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L’altra sua opera maggiore, il libro del 1927 su Federico II imperatore (Garzanti, 1976), recava nella prima edizione una dedica sotto tale rispetto inequivocabile: «Ai suoi imperatori e eroi la Germania segreta (o nascosta)». Ma se Federico II è stato concepito e scritto in tedesco, I due corpi del re lo è stato in inglese, poiché nel 1933 Kantorowicz si è visto costretto a dare le dimissioni dall’università di Francoforte, dove insegnava, per andare a cercare scampo e rifugio sull’altra sponda dell’Atlantico. Né quelle furono le sue sole dimissioni da professore: le avrebbe date nel 1949 anche dall’università di Berkeley, pur di non sottrarsi all’imposizione di prestare il giuramento maccartista. La distinzione, richiamata nel titolo del libro, fra il «corpo naturale e mortale del re» e «il corpo politico del re, che non muore mai», è una metafora venuta in uso nell’Inghilterra della seconda metà del secolo XVI, che esprimeva in una forma all’apparenza bizzarra l’idea della persistenza dello Stato in contrapposizione alla transitorietà di coloro che si avvicendavano a reggerne le sorti – un’idea che ci è diventata nel frattempo famigliare, non fosse per i momenti di sconforto in cui è piuttosto lo Stato ad apparirci fragile e transitorio, e immortali i «corpi», ovverossia le facce, di quelli che ci governano. Ma questo è un altro discorso. A formulare la distinzione sono stati per primi alcuni insigni giudici delle corti reali inglesi, che, sulla base della compresenza dei due corpi nella «persona mista» del re, e della conseguente prevalenza del suo corpo politico su quello naturale, arrivavano a dimostrare che anche gli atti da lui compiuti durante la minore età dovevano essere riconosciuti come atti pienamente legittimi del re. Dal chiuso delle corti questa sofisticata teoria dovette però subito trapassare nella mentalità collettiva, se è vero che tracce evidenti della duplicità della natura del re si riscontrano anche nell’Enrico V e nel Riccardo II di Shakespeare, come Kantorowicz fa toccare con mano in pagine mirabili, che attestano la varietà dei regi-


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stri di cui sa servirsi per costruire la trama estremamente complessa e raffinata della sua ricerca. Anche chi non si sia mai posto prima il problema è indotto subito a pensare che i due corpi del re inglese siano un calco delle due nature di Cristo. In realtà, le cose sono un po’ più complicate. L’antecedente diretto della dottrina dei due corpi del re è la giustapposizione, fra i due «corpi», anche, di Cristo; quello verum, cioè l’ostia consacrata nel sacrificio eucaristico, e quello mysticum, cioè la Chiesa – una distinzione, quindi, di ordine sociologico fra un corpo individuale e un corpo collettivo, che è altra cosa dalla tradizionale distinzione cristologica fra natura umana e natura divina. La «teologia politica medievale» menzionata nel sottotitolo è, appunto, la sede privilegiata dell’elaborazione del pensiero politico medievale e degli albori dell’età moderna (non è un caso che il nome del nostro Machiavelli non figuri nell’indice dei nomi!), tributario, almeno per ciò che concerne l’«idea di regalità», della tradizione cristiana tardoantica e medievale. Al riparo del prologo elisabettiano-shakespeariano cui si è accennato, che ha anche la funzione di esorcizzare i suoi futuri esiti monarchico-parlamentari, i fantasmi inquietanti della regalità germanica che ancora aleggiavano intorno al suo Federico II, Kantorowicz compie un’esplorazione sistematica dell’intero medioevo alla ricerca dei modi sempre nuovi, nei quali i sovrani del tempo hanno atteggiato se stessi e l’esercizio del proprio potere, perseguendo attraverso l’appropriazione di riti, apparati, concetti, strutture organizzative, tipici della Chiesa, una sorta di santificazione dello Stato secolare. Impossibile riassumere la straordinaria varietà di tempi e sviluppi, anche sorprendenti e inattesi, in cui si articola la trama di un libro pur così monocorde. Spesso, andando avanti nella lettura, si è presi dal sospetto che l’autore, assicuratasi la nostra fiducia, abbia abusato di una chiave che


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sembra fatta davvero per aprire tutte le porte. Ma la perizia di cui Kantorowicz dà prova nel mettere a frutto le testimonianze più disparate, la qualità della sua erudizione scongiurano il rischio sempre inerente nell’applicazione a freddo di uno schema interpretativo anche se ingegnosamente concepito. Piuttosto è da lamentare che, accanto alla prospettiva qui dominante dell’interscambio continuo fra imperium (o regnum) e sacerdotium (perché la santificazione dello Stato secolare ha la sua contropartita nell’imperializzazione del papato!), non sia stato tenuto più presente, sullo sfondo, il clima di perenne conflittualità, che, se non altro dal secolo XI in poi, ha caratterizzato i rapporti fra le due potestà, con conseguenze indubbiamente positive sul futuro della civiltà politica europeo-occidentale. Tanto più oggi che si fa un gran parlare dell’esigenza di rifondare la storia politica, la lezione di Kantorowicz riuscirebbe fuorviante, se non accompagnata da questo correttivo essenziale. Il Messaggero Più, 22 aprile 1990 Sotto le insegne di Guido da Montefeltro gli irriducibili avversari del papa Nel Purgatorio di Dante il rimpianto del tempo che fu, quando in Romagna regnavano amore e cortesia Dante, come si sa, in una data imprecisata (ma buone ragioni militano per il 1318), decise di lasciare Verona per Ravenna. A farlo decidere in tal senso fu forse più il disagio crescente che gli procurava la frequentazione dei cortigiani che attorniavano Cangrande della Scala, che l’attrattiva che poteva costituire ai suoi occhi la cerchia di letterati e dotti che gravitavano intorno a Guido Novello da Polenta, podestà senza soluzione di continuità della città romagnola dal 1316 al 1321, e quindi, in pratica, signore di essa. È senz’al-


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tro da escludere che, quando componeva i due canti romagnoli della Divina Commedia, il XXVII dell’Inferno e il XIV del Purgatorio, e ancora quando – rispettivamente, a giudizio del Petrocchi, nella seconda metà del 1314 e nell’autunno del 1315 – licenziava da Verona le prime due cantiche, Dante potesse anche solo prendere in considerazione l’eventualità di andare, di lì a qualche anno, a finire i suoi giorni proprio a Ravenna. Certo, il suo ultimo ospite, autore di poesie, aveva personalmente un culto per la pace, per le lettere e per le arti, che ne faceva un caso un po’ atipico fra i signori romagnoli del suo tempo. Ciò non toglie che era pur sempre, in senso tecnico, uno di quei “tiranni”, nel cuore dei quali – come Dante stesso rinfacciava a Guido da Montefeltro (Inf. XXVII) – albergavano di norma quei sentimenti di rancore, invidia, cupidigia, da cui erano generate le guerre senza fine che insanguinavano la terra di Romagna. In un suo libro di qualche anno fa, Augusto Vasina lamentava giustamente il posto eccessivo che è stato riservato ai due canti della Commedia nella ricerca storica locale, impegnata allo spasimo nel chiosare quei versi tormentati e famosi, che costituiscono, a un tempo, il vanto e l’onta della tradizione patria regionale. Ma aggiungeva anche, sagacemente, che, se si fosse messo una volta per tutte da parte l’insensato proposito di costruire a partire di là la storia della regione fra il secolo XIII e il secolo XIV, e ci si fosse invece sforzati di ripensarla ex novo, indipendentemente dai giudizi e dagli accenni, talora criptici, dell’Alighieri, si sarebbe poi potuto tornare a lui con occhi fatti più esperti, in condizione di capire meglio quello che ha voluto dire davvero. Sta di fatto, è ancora Vasina a darcene conferma, che, per un capriccio della storia, l’età di Dante è anche quella che risulterà decisiva per il futuro della Romagna, fino almeno al 1861, quando fuoriuscirà dallo Stato della Chiesa in via di liquidazione, per entrare a far parte del neonato regno d’Italia. Richiamiamo brevemente i fatti e le date essenziali.


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Nel 1278, dopo aver ottenuto il beneplacito del re dei romani Rodolfo d’Asburgo, papa Niccolò III (un Orsini) avviava il “recupero” della regione, corrispondente all’Esarcato altomedioevale, che i sovrani carolingi avevano, a più riprese, promesso di donare, e poi donato alla Chiesa romana, senza che questa fosse mai riuscita, prima appunto di quello scorcio del secolo XIII, a rendere effettivo il suo buon diritto. Ultima fra le città romagnole a fare atto di sottomissione al cardinale legato fu, nel novembre dello stesso 1278, Forlì, centro del ghibellinismo regionale, in contrapposizione con Bologna cittadella dell’oltranzismo guelfo: Forlì che, non a caso, figura nel De vulgari eloquentia come “il fulcro, il meditullium, della regione, benché periferica”, rispetto – parrebbe che si debba intendere – ai due centri maggiori, Bologna, di cui s’è detto, e Ravenna, i cui arcivescovi si prodigheranno in quegli anni in estenuanti tentativi di mediazione fra l’autorità pontificia e le autonomie locali, sia cittadine che feudali. Ma questo primo recupero, anche se si era fatto attendere per secoli, apparve subito costruito sulla sabbia. Dovette riprovarci il successore di Niccolò III, il papa francese Martino IV, che, con gran dispendio di uomini e di denaro, in una situazione aggravata dalla crisi del fidato regno di Sicilia, dove Carlo I d’Angiò era alle prese con la secessione dell’isola (Vespri siciliani), fu costretto a misurarsi con una forte opposizione locale, organizzata intorno a Guido da Montefeltro, uno dei tanti signori feudali dell’Appennino, che, da Forlì, che gli aveva spalancato le porte, capitanò l’estrema resistenza romagnola all’assorbimento nello Stato della Chiesa. Di questo nocciolo duro del ghibellinismo locale che non voleva darsi per vinto, e che aveva trovato nei fuoriusciti bolognesi rifugiatisi a Forlì gli alleati più intransigenti, erano venute a far parte anche Cesena, Forlimpopoli e Cervia, con le sue saline, che facevano tanta gola ai veneziani e consentivano, con i cespiti che se ne rica-


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vavano, di finanziare la lotta. Faenza, invece, che, in un primo momento, si era schierata a fianco di Guido e di Forlì, passò inopinatamente sotto il controllo dei bolognesi, per il tradimento di Tebaldello Zambresi, “ch’aprì Faenza quando si dormìa” e andò a finire per questa sua colpa nell’Antenora, secondo girone del nono cerchio dell’Inferno dantesco, riservato ai traditori politici. Per quanto gonfiata dalla tradizione storica locale, che ne ha fatto una specie di Maratona forlivese, la fortunata sortita di Forlì assediata, guidata da Guido di Montefeltro il primo maggio 1282 contro i mercenari franco-pontifici (il “di Franceschi sanguinoso mucchio” di Dante), molto più che la vittoria conseguita da Guido al Ponte di S. Procolo, nel faentino, nel 1275, ha effettivamente costituito il momento saliente dell’ultimo soprassalto organizzato dell’opposizione romagnola all’assorbimento nello Stato della Chiesa, che la resa di Forlì, avvenuta nella primavera del 1283, poco dopo la rovinosa caduta di Cervia in mano alle forze guelfe, sanzionò una volta per tutte. Il cronista Salimbene da Parma commentò così l’accaduto: «Nel 1283 la città di Forlì ritornò all’ubbidienza della Chiesa. Per molti anni le si era ribellata e ogni anno papa Martino IV mandava contro Forlì un grande esercito di francesi e di altre diverse genti; e devastavano le vigne, le biade, le piante da frutta, gli oliveti, i fichi, i mandorli, i bei melograni, le case e gli animali, le botti e i dolii, tutto, ogni cosa nata nei campi. Questa città avrebbe affrancata tutta la Romagna dai bolognesi che l’avevano occupata, se non si fosse intromessa la Chiesa, che prese le armi contro Forlì. Ma il papa per occuparla vi spese molte migliaia di fiorini d’oro, e anzi molti carichi di monete d’oro. Come si è soliti dire “l’impegno accanito vince tutto”». Insomma, i forlivesi erano stati un osso duro per il papa. Dopo di allora, la resistenza romagnola al potere papale non cessò affatto. Si fece però sorda, e soprattutto si sfilacciò


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in una miriade di piccole, non coordinate, resistenze locali, imperniate su singole città, a cominciare da Forlì, dove erano diventati signori gli Ordelaffi, di cui Dante fu certamente ospite nel 1303, nella fase iniziale del suo esilio. A questo punto, le città, che avevano militato contro la Chiesa, come Forlì e Cesena non si distinguevano più bene da quelle che avevano combattuto fino dall’inizio sotto il vessillo di san Pietro. Le une e le altre volevano soltanto conservare, all’ombra di un potere che era ormai dovunque di tipo non più comunale, ma signorile, i brandelli residui della loro passata autonomia. Solo nel 1319, all’incirca nel momento in cui Dante prenderà la strada per Ravenna, la legazione del cardinale Bertrando del Poggetto, mandato dal papa avignonese Giovanni XXII a rimettere ordine in Romagna, avvierà il processo di normalizzazione di quell’inquieta provincia dello Stato della Chiesa, che sarà poi condotto a termine qualche decennio più tardi dal cardinale Egidio Albornoz. La coincidenza fra l’età di Dante e la lunga stagione del declino dell’autonomia romagnola non potrebbe essere più precisa. E se, tenendo presente il poco che s’è potuto dire delle fasi di questo declino, torniamo ora ai due canti romagnoli della Commedia, vedremo che essi riflettono due momenti diversi di tale processo. Nel XXVII dell’Inferno, a interrogare Dante sulla sorte della terra in cui aveva profuso le sue migliori energie di uomo d’armi e di governo, è Guido di Montefeltro: “dimmi se Romagnuoli han pace o guerra”. Dante lo accontenta e prospetta una situazione di pace apparente, ma di conflittualità endemica, in cui è ancora vivo l’eco del “sanguinoso mucchio”, della stagione eroica, di cui Guido era stato indiscusso protagonista. L’interrogante, da parte sua, appare però già tutt’altro di quello che era stato ai suoi giorni migliori. A condurlo nel sito infernale in cui Dante lo ritrova non erano stati i trascorsi ghibellini, che il poeta mostra anzi indirettamente d’apprezzare, ma il consiglio fraudolen-


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to (“lunga promessa con l’attender corto”) fornita a Bonifacio VIII da Guido, fattosi nel frattempo, dal guerriero astuto e capace che era, il consigliere compiacente del principe detentore delle somme chiavi. In Purgatorio XIV, il quadro delle cose di Romagna prospettato da Guido del Duca rispecchia una condizione mutata rispetto a quella sintetizzata da Dante nella risposta a Guido di Montefeltro. Lo sfilacciamento di cui abbiamo parlato, sulla scorta anche qui del libro di Vasina, è ormai progredito. Le immagini che il lamento di Guido del Duca fa scorrere innanzi ai nostri occhi sono ormai solo quelle della decadenza biologica e della rissosità intestina delle schiatte feudali romagnole, cui fa da contrappunto un patetico richiamo al buon tempo antico quando in terra di Romagna regnavano “amore e cortesia”. A “Romagna tua non è, e non fu mai / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni” di Inferno XXVII fa qui significativamente riscontro l’“Oh Romagnuoli tornati in bastardi!”, ben altrimenti indicativo della irreparabile caduta di tono della vita locale, che aveva fatto seguito al venir meno delle ultime speranze in un riscatto collettivo dall’egemonia papale, della quale Dante non fa cenno, proprio perché, a questo punto, non costituiva nemmeno più un problema. Il Messaggero, 28 aprile 1990 Convegni/Tra leggende e realtà alla vigilia dell’anno Mille E il secolo di ferro cambiò il mondo Con il solito straordinario concorso di pubblico, nei giorni scorsi si è svolta a Spoleto la trentottesima settimana di studio indetta dal «Centro italiano di studi sull’alto medioevo». Il tema quest’anno era: «Il secolo di ferro: mito e realtà del secolo X».


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Uno studioso prudente deve sempre esitare prima di attribuire a un secolo piuttosto che a un altro la caratteristica di essere stato una svolta decisiva della storia del nostro continente. La ragione di tale prudenza è duplice: da un lato, l’idea stessa di pensare la storia per secoli è molto discutibile; dall’altro, ogni secolo può pretendere all’onore di avere costituito a suo modo un tornante. Eppure, il secolo X ha titoli particolari per aspirare a tale distinzione. L’«età carolingia», che lo ha preceduto, è stata un’età ambigua, ancora rivolta verso la tarda antichità. È solo dal grande rimescolamento di carte dei decenni successivi alla disintegrazione dell’impero di Carlomagno che emergono le soluzioni nuove per l’organizzazione dello Stato e della società, che preludono ai secoli centrali del Medioevo, dove vedremo all’opera, insieme, signorie territoriali, società feudali, monarchie nazionali, comuni cittadini, Chiesa riformata, corporazioni di mestieri, cavalleria, ma anche arte romanica, letterature volgari, ecc. Il secolo X è stato, insomma, effettivamente un lungo, drammatico spartiacque, e non è un caso che l’ultimo degli anni che gli appartengono di diritto abbia dato origine alla «leggenda dei terrori dell’anno Mille», superati i quali avrebbe avuto inizio una vita del tutto nuova. Quanto all’altra leggenda, la leggenda nera del «secolo di ferro», che ben più profondamente della prima ha influenzato la tradizione storiografica, le sue origini sono romane e papali. A definire il secolo X come «ferreo per asprezza e sterilità di bene, plumbeo per squallore, e oscuro per povertà di scrittori», è stato infatti nel 1602 il cardinale oratoriano Cesare Baronio, nel volume X dei suoi Annales Ecclesiastici, in una specie di prefazione che precede il racconto degli avvenimenti dell’anno 900. Per evitare che un eventuale pusillus animo, «meschino di spirito», restasse traumatizzato dal racconto delle vicende del papato nei primi decenni del secolo, il Baronio mette le mani


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avanti e, citando per contrasto un passo del biblico libro di Daniele (9, 27), spiega in quale modo a differenza di ciò che era accaduto allora l’abominatio, l’«abominio», introdottosi nel Tempio, aveva precluso da vicino alla desolatio, alla «devastazione», all’«abbandono» del Tempio medesimo; nel caso della Chiesa, gli «abominî», che più che in ogni altro periodo della sua lunga storia, la avevano afflitta nel corso del secolo non avevano ottenuto l’effetto di produrre la «devastazione» finale. Questo, in virtù delle «più solide fondamenta» su cui Cristo aveva edificato la Chiesa, ponendola al riparo dalle conseguenze dei peccati degli uomini che portarono invece alla distruzione del Tempio di Salomone. Posta questa premessa, tanto più risultava che l’«abominio» aveva aduggiato la vita della Chiesa, tanto più ne usciva confermato il carattere di istituzione divina che la caratterizzava. Il Baronio si preparava così a calcare la mano sulle malefatte romane e papali del secolo di ferro, attingendo largamente a una fonte contemporanea, il cronista Liutprando di Cremona, il quale, a sua volta, come è stato dimostrato una sessantina d’anni fa da Pietro Fedele, si era fatto acritico portavoce degli esasperati, residui fautori di papa Formoso, il disgraziato pontefice processato da morto nell’896 e assurto a simbolo delle contraddizioni nella turbolenta vita romana del ventennio successivo. L’operazione apologetico-storica del cardinale Baronio ebbe pieno successo. Lo comprova fra l’altro un episodio di cento anni dopo, noto indirettamente ai lettori della Polemica sul Medioevo di Giorgio Falco, ma mai più rivisitato in seguito per la grande difficoltà che si incontra nel procurarsi i testi da cui è documentato, cioè le due edizioni di una sorta di enciclopedia di studi medievali, allestita all’inizio del secolo XVIII da Valentino Ernesto Löescher, morto a Dresda nel 1749, dov’era sovrintendente della Chiesa luterana. Più versato nell’erudizione storica che nella riflessione teologica, egli riteneva che anche la storia, in particolare la


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storia del Medioevo (l’ultima arrivata delle nuove scienze mondane), potesse giovare alla causa del protestantesimo. Il frutto delle sue ricerche sui secoli dell’età di mezzo fu reso pubblico nel 1705, a Lipsia, sotto il titolo, che dovette essergli sembrato in un primo momento di grande richiamo, di «Storia del governo romano delle prostitute Teodora e Marozia, nella quale sono illustrati gli avvenimenti del secolo X e gli intrighi della sede romana, accanto a una da lungo tempo attesa introduzione alla storia del medioevo, numerose nuove tabelle geografiche e genealogiche e una serie di prove contro il papato». Alla sezione enciclopedica Löescher aveva infatti premesso una diffusa trattazione delle vicende romano-papali della prima metà del secolo X, basata in prevalenza sul solito Liutprando, nonché sul più recente Baronio, quest’ultimo lodatissimo per l’onestà nel denunciare senza riserve, nonostante le sue condizioni, le pecche della Chiesa romana. Orbene, venti anni dopo (Lipsia 1725), Löescher ripubblicava tale e quale la sua opera, salvo una nuova prefazione e il frontespizio mutato, da cui erano scomparse le prostitute Teodora e Marozia, instancabili concubine dei papi, per lasciare il posto a una «Storia dei tempi di mezzo come una luce delle tenebre»; segno evidente che, dopo quanto ne aveva scritto Baronio, gli scandali romano-papali del secolo X non facevano più nessun effetto. La loro denuncia risultò essere, insomma, un’arma spuntata nelle mani dell’erudito antipapista di Dresda. E solo la solerzia dell’amico Hermann Goldbrunner, bibliotecario dell’Istituto storico germanico di Roma, è riuscita a scovare per me l’unico esemplare di ciascuna delle due edizioni di quest’opera, cui non arrise successo di pubblico, che risulti conservato in biblioteche tedesche. Ma nel frattempo, avallata dall’autorità del cardinale Baronio, la leggenda del secolo «ferreo, plumbeo e oscuro» aveva messo radici. Ed è da scommettere che, a parte gli


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addetti ai lavori convenuti a Spoleto per l’appuntamento annuale della settimana del Centro, sono ancora in molti a pensarla così. Tanto le leggende nere sono dure a morire. Il Messaggero, 1 giugno 1990 Storia/I Longobardi, una grande mostra in Friuli Così civili, così barbari Mentre in vista del Mondiali, c’è chi si preoccupa di precludere ai «nuovi barbari» l’accesso agli spacci di alcolici, altri evidentemente più ottimisti sull’umano genere, si apprestano a esibire a coloro che arriveranno da tutti gli angoli del globo quanto di meglio offra l’antica terra italiana. Così Firenze riapre al pubblico la restaurata cappella Brancacci al Carmine; Venezia espone il suo Tiziano; e così via. Il Friuli, da parte sua (si giocherà anche a Udine), propone i Longobardi, sui quali può vantare particolari diritti, se non altro perché, penetrati nella penisola nel 569 attraverso le Alpi Giulie, è lì che essi hanno costruito il loro primo ducato, con Cividale come centro. E Cividale è con Castelseprio (a 14 chilometri da Varese) uno dei siti in cui gli invasori hanno lasciato più tracce significative della loro dominazione. Ancora prima della mostra che si apre domani (per restare aperta fino al 30 settembre) nelle sue sedi di Passariano e di Cividale del Friuli, diverse centinaia di pezzi con l’immancabile corredo di uno di quei cataloghi monumentali cui ormai si affida il compito di riscattare tali iniziative dalla traccia dell’effimero, un operoso e coraggioso editore locale, il Casamassima, ha pubblicato un volume di quattrocento pagine intitolato Longobardia, che, a parte il formato che lo accomuna ai «libri strenna», di effimero non ha proprio nulla. Paolo Cammarosano, che ne è il curatore insieme a Stefano Gasparri, affronta nel suo «cenno introduttivo» il diffi-


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cile punto della contraddizione fra il rilievo straordinario che i Longobardi hanno avuto nella nostra tradizione storico-culturale, da Machiavelli a Manzoni, e l’esiguità delle tracce che hanno lasciato di sé. La contraddizione è minore però di quanto non si ritenga di solito, se è vero che, come Cammarosano fa giustamente osservare, numerose consuetudini giuridiche e notarili risalenti ai Longobardi ebbero vita assai lunga, almeno nell’Italia centro-settentrionale. Ma c’è dell’altro. Quando, nel secolo scorso, neoghibellini machiavelliani e neo-guelfi manzoniani si accapigliavano sui papi del secolo VIII, celebrati da questi e esecrati da quelli per avere, con l’appello ai Franchi di Carlomagno, messo traumaticamente fine al regno longobardo d’Italia, i Longobardi chiamati in causa erano quelli che avevano invaso l’Italia, al seguito di re Alboino, nel 569, e che poi erano stati sconfitti e assoggettati dai Franchi fra il 773 e il 774. Oggi come oggi, non dico che questo tratto di storia longobarda abbia perduto la sua centralità (l’appassionato saggio di Lidia Capo su Paolo Diacono e il problema della cultura dell’Italia longobarda sta a provare il contrario), ma è come se, col progredire degli studi e l’estendersi degli interessi, esso fosse diventato il segmento di una durata molto più lunga. Con il risultato di avere in gran parte emancipato la storia di questo popolo e la problematica della sua incidenza sul corso della nostra storia nazionale dall’ipoteca di una tradizione storiografica illustre quanto si vuole, ma anche alquanto limitante. L’allargamento dello spazio storico longobardo ha avuto luogo in quattro diverse direzioni. Si sapeva da sempre che i Longobardi non venivano dal nulla. Paolo Diacono e, prima di lui, la Origo gentis Langobardorum fanno largamente posto alla loro vicenda preitaliana. Ma solo le ricerche archeologiche compiute negli ultimi decenni hanno fatto uscire la protostoria dei Longobardi dal dominio della mitografia etnogenetica. Certo, siamo


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ben lontani dal poter dire con qualche fondata speranza di approssimazione alla realtà in quali date precise e lungo quali itinerari i Longobardi si siano mossi dalla loro sede originaria (lungo la bassa Elba, parrebbe ormai assodato) fino all’odierna Ungheria, da cui partirono la Pasqua del 568 alla conquista dell’Italia. Ma le incertezze che ancora permangono a tale riguardo non hanno impedito a questa fase plurisecolare di acquistare una consistenza, una corposità, che fino a ieri sarebbero state impensabili. Siamo soliti dire che l’Italia è entrata nell’alto medioevo solo nel 569, con la conquista longobarda di gran parte del suo territorio. Ma si avrebbe torto a pensare che l’Italia tornata romana, o imperiale, una quindicina d’anni prima, all’indomani della rovinosa guerra goto-bizantina, fosse la stessa della fine del IV secolo, quella gravitante su Milano capitale, che è stata illustrata in un’altra mostra recente di grande rilievo non solo artistico, ma anche storico generale. All’appuntamento del 569 l’Italia è giunta al termine di un lungo processo di destrutturazione della sua vita economica e sociale, che l’aveva modificata nel profondo. È alla luce di questa intuizione di base che Paolo Delogu ha affrontato il problema dei rapporti fra «Longobardi e Romani», domandandosi cioè cos’erano diventati i secondi quando i primi si abbatterono su di essi. Se a metà circa del secolo VII l’Editto longobardo di Rotari poté valere indifferentemente per tutti i liberi del regno, è perché nel frattempo i Romani si erano ridotti al punto di diventare inquadrabili entro le istituzioni giuridiche longobarde, per quanto primitive esse fossero. Terza direzione di «allargamento» dello spazio storico longobardo è il regno di Pavia. Con il suo sacrum palatium che non aveva riscontri nell’Europa del tempo, non ebbe fine con l’uscita di scena dell’ultimo re longobardo, ma continuò a vivere anche sotto i suoi successori carolingi, «italici indipendenti» e sassoni, prima di ridursi a poco più di una finzione giuridica


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all’inizio del secolo XI. Perciò lo studio del regnum longobardo, dei suoi meccanismi di funzionamento anche periferici, va intrapreso nella prospettiva di questa sua ulteriore durata, e non – come usava una volta – drammatizzando la cesura del 774. È quanto fanno, da parte loro, Stefano Gasparri e, con più diretto riferimento alla successione carolingia, Giovanni Tabacco, in altri due notevoli saggi del volume. Infine l’Italia meridionale longobarda. Se gli invasori germanici hanno trasmesso il loro nome prima alla Padania intera, poi al cuore di essa, è a sud di Roma che hanno dominato più a lungo, nel ducato di Benevento. Dalla bassa Elba, donde aveva avuto inizio la loro avventura, al cuore del Mediterraneo, dove essa avrà fine, sotto i colpi di altri uomini del Nord, i Normanni, i Longobardi hanno avuto una storia molto più lunga, avvincente e intricata di quella intorno alla quale battagliavano i nostri vecchi. Il Messaggero, 14 settembre 1990 Premi/L’«Ascoli Piceno» al tedesco Horst Fuhrmann Un detective del Medioevo È difficile che qualcuno, oggi, pensando al Papa, pensi a lui anche come al signore di un piccolo stato territoriale. Eppure, piaccia o no, Giovanni Paolo II è il sovrano e, insieme, il proprietario dello Stato della Città del Vaticano, con i suoi quattrocentoquaranta mila metri quadrati di territorio, le sue finanze (dissestate), le sue poste che funzionano meglio delle nostre, le sue Forze armate (la Guardia svizzera dai pittoreschi costumi)… Una riprova, di là della facile celia, di quanto radicata fosse, almeno fino al 1929 (oggi, non saprei), l’idea secondo la quale l’esercizio pienamente libero delle funzioni di capo della Chiesa universale sarebbe garantito solo se il papa è anche il sovrano di uno stato, per quanto minuscolo esso sia.


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Come tutti sanno, lo Stato della Chiesa, quello vero, fu l’ultimo a morire degli antichi stati italiani, con la conseguenza che contro di esso e, indirettamente, contro il suo sovrano, hanno dovuto lottare fino al 1870 i nostri padri del Risorgimento, molti dei quali in cuor loro erano dei buoni cattolici, disperati di dover usare la breccia di Porta Pia, aperta appunto per mettere fine a quell’ultimo ingombro sulla strada dell’unità della penisola che era costituito dal restante brandello di Stato della Chiesa. Storie vecchie, ma ancora di recente rimestate con manifesta stupidità da un oratore del meeting di Rimini. Di Stato Pontificio si tornerà a parlare nei prossimi giorni ad Ascoli Piceno, dove il «Premio internazionale Ascoli Piceno» ha organizzato un convegno, il quarto della serie, che ha come tema: «Dal patrimonio di San Pietro allo Stato pontificio. La Marca nel contesto del potere temporale». Il convegno è incentrato sulla Marca, o le Marche, nel basso medioevo, ma risulta aperto sia dal punto di vista cronologico che da quello geografico, dal momento che sono previste le origini dello Stato della Chiesa (secolo VIII), nonché relazioni su altre province del medesimo Stato, per esempio la Romagna, sempre nel basso medioevo. Nelle Marche, più che altrove, il governo dovette fare i conti con agguerriti concorrenti: i comuni cittadini, da un lato, e, dall’altro, le dinastie signorili. Di tutto questo si parlerà certo in Ascoli. Nel titolo del convegno compare il nome con cui, alla fine del secolo XII, quando era ancora limitato ai confini del Lazio attuale, veniva designato lo Stato della Chiesa: Patrimonium S. Petri. Questa designazione è fatta per trarre in inganno, Rimanda infatti all’idea di un «patrimonio», di una «proprietà», come se quel primo, e territorialmente più limitato Stato della Chiesa fosse nato dal compattamento dei possessi fondiari di cui la Chiesa romana si era venuta via via arricchendo dai tempi di Costantino in poi, se non


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addirittura da prima. Ma si tratta di una deduzione sbagliata. I patrimoni fondiari della Chiesa, in particolare quelli estesissimi che si trovavano in Sicilia, le consentirono di sobbarcarsi al compito di dare da mangiare ai romani a partire dal momento in cui venne meno nella capitale l’organizzazione annonaria (fine secolo VI). Ma proprio perché erano dispersi e non concentrati nel solo Lazio, non si comprende come avrebbero potuto dare vita a uno stato territoriale compatto. Il primo Stato della Chiesa o, se si preferisce, il Patrimonio di San Pietro, non è invece altro che l’ex ducato bizantino di Roma, resosi autonomo nel momento in cui, in seguito alla conquista di Ravenna, capitale dell’Esarcato d’Italia, da parte del re longobardo Astolfo, esso cessò di essere sottomesso all’autorità dell’impero di Costantinopoli. È la stessa cosa che accadde anche a Venezia e a Napoli, che erano altri due ducati bizantini. Quanto al «Premio Ascoli» il prescelto di quest’anno è Horst Fuhrmann, il principe, senza far torto a nessuno, dei medievisti tedeschi. Fuhrmann viene premiato per la Guida al medioevo (Laterza), una raccolta di saggi in cui l’autore dà un’ampia prova delle sue attitudini. In realtà, nell’edizione tedesca il libro si intitola Invito al medioevo, il titolo italiano ha un sapore scolastico che mal gli si addice. Una delle sezioni in cui è articolato è dedicata al problema dei falsi che è il campo nel quale Fuhrmann ha una competenza che può dirsi unica. L’opera che lo ha reso famoso è infatti consacrata allo studio dell’Influsso e diffusione delle falsificazioni pseudoisidoriane, una raccolta di false decretali prodotte verso la metà del secolo IX nel regno franco-occidentale (la futura Francia) da un gruppo di vescovi suffraganei che si sentivano angosciati dallo strapotere degli arcivescovi e cercarono di difendersi nello stile dell’epoca, producendo cioè dei


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documenti falsi. Si dà il caso che, per tutelarsi dagli arcivescovi incombenti e vicini, quei vescovi non trovassero altro di meglio che di accrescere i poteri del lontano vescovo di Roma, ragion per cui la storia delle «false decretali» coincide in parte con la storia del potere giurisdizionale dei papi, che da quel momento in poi conobbe un’estensione che non si era mai sognato d’avere prima. Ma Fuhrmann è venuto delineando una specie di fenomenologia del falso documento, che va molto al di là di questo e di altri casi particolari, come la stessa Donazione di Costantino, che è un altro dei suoi cavalli di battaglia. Costretti da leggi sempre più dettagliate e severe che cercavano di contrastare la loro opera, i falsari diventavano sempre più bravi nel confezionare i loro prodotti, favoriti anche dal fatto che «il mondo vuole essere ingannato» (mundus vult decipi), come suona il titolo di uno dei saggi contenuti nella Guida. Il Messaggero, 1 novembre 1990 Storia/La condizione delle donne nel Medioevo Il diavolo con la cuffietta Della Storia delle donne, promossa ed edita da Laterza e diretta da Georges Duby e Michelle Perrot, è uscito anche il volume sul Medioevo, a cura di Christiane KlapischZuber (597 pagine, 45 mila lire). Della condizione delle donne nei secoli medievali ci informano quasi esclusivamente scrittori e testimoni di sesso maschile, per lo più chierici o monaci, e dunque particolarmente inadatti a trattare di un tema di cui avevano un’esperienza indiretta o distorta. Per compensare questo svantaggio, ben dieci dei tredici autori cui sono stati affidati i vari capitoli di questo volume sono donne, a cominciare dalla curatrice, di fronte alla quale si è tirato cavalleresca-


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mente indietro lo stesso Georges Duby, che pure ha offerto più di una prova di essere in condizione di trattare delle donne nel medioevo senza dare adito a sospetti di deplorevole maschilismo. Per giudizio comune, la storiografia sulle donne ha fatto negli ultimi decenni progressi tali anche in Italia, da giustificare pienamente un’opera di sintesi. Entrata in crisi la storiografia che puntava i riflettori sulla differenza delle classi, è comprensibile che ora sia la differenza dei sessi ad attirare molti giovani studiosi. E, allo stesso modo, che la storia della lotta di classe veniva praticata con un occhio di riguardo per le classi subalterne, così si comprende bene che adesso sia la condizione femminile a destare sentimenti di compartecipazione e di simpatia. Con il rischio, anche, di forzature. Per esempio, mi sembra fuori luogo che là dove si insiste a ragione sul significato della straordinaria fioritura di sante profetesse nel basso medioevo (si pensi a Caterina da Siena e a Giovanna d’Arco), si lamenti che queste eroine della santità femminile non abbiano approfittato del loro ascendente sui vertici della Chiesa per porre sul tappeto l’accesso delle donne al sacerdozio. Per invogliare a prendere in mano questo libro, per tanti aspetti molto notevole, anche chi non è motivato in partenza allo studio della condizione femminile attraverso i secoli dell’età di mezzo, indicherò un possibile percorso di lettura. Comincerei da Chiara Frugoni, «La donna nelle immagini, la donna immaginata». Il gruppo ligneo scolpito nel 1160 circa a Nancy, che rappresenta un esponente della nobiltà locale, reduce dalla Crociata, con la moglie che gli si stringe accanto in un gesto che esprime «la forza di un attaccamento duraturo e reciproco», ripropone un modulo comune nell’antichità classica, ma abbastanza eccezionale per l’epoca in cui è stato scolpito, in cui comincia solo lentamente a farsi strada l’idea propagandata dalla Chiesa di


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un matrimonio basato sul consenso e non frutto di un patteggiamento fra due gruppi parentali. Nella miniatura illustrante il peccato originale in un salterio inglese del secolo XIII, un serpente quasi del tutto antropomorfizzato porge a Eva il frutto. Ora, questo serpente ha il volto di una donna e porta in testa una cuffia con collaretto allora di moda. Per Eva, commenta la Frugoni, «sarebbe stato certo più attraente il viso di un bel giovane». Se si incorre nell’incongruenza di preferire invece il viso di una bella donna, è perché non si vuole rinunciare alla possibilità di rappresentare anche il serpente, che è poi il diavolo, con fattezze femminili, come se non bastasse il fatto che a prendere il frutto è Eva. Paulette l’Hermite-Leclercq («Le donne nell’ordine feudale») narra la «microstoria» di una nobile inglese che, sposata a un vecchio da cui non ha avuto figli, si dà da fare per impedire che l’eredità del marito vada a finire nelle mani del cognato. D’accordo con una sua domestica, Agnese (così si chiamava), si finge incinta e, al momento opportuno, si fa consegnare una bambina, Grazia, nata da una povera donna in un paese vicino. Rimasta presto orfana di padre, Grazia, a quattro anni d’età, viene destinata in isposa dal re a un nobiluomo, cui, per farselo amico, vuole assicurare un così buon partito. Alla morte di questo nobiluomo, Grazia sarà destinata a un secondo marito: poi a un terzo, quando ha ancora solo undici anni. Morirà poco dopo, in tempo perché il fratello del padre potesse entrare in possesso dell’agognata eredità. Lo stratagemma inventato da Agnese non valse dunque a far breccia nell’«ordine feudale». Ciò non vuol dire che, in altri casi, i complotti femminili non risultassero vincenti. Comunque l’episodio sta a dimostrare che le donne non erano sempre disposte a sottostare passivamente al dominio dei signori. «La buona moglie» delineata nelle prediche dei preti doveva assomigliare alla biblica Sara. Ce ne parla Silvana


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Vecchio, che insiste sul punto che il primo obbligo richiesto era quello di «onorare i suoceri», una proposizione in cui si riflette il realistico buon senso che da che mondo è mondo ispira i conservatori. Nel «Modello cortese» Georges Duby illustra il particolare tipo di corteggiamento della donna altrui che si riflette nelle composizioni dei poeti provenzali del secolo XII. A giudizio di alcuni interpreti l’idoleggiamento della donna che è al centro di queste composizioni, avrebbe contribuito a modificare la condizione femminile in genere. Duby dimostra, testi alla mano, che a dettare le regole del gioco, e a condurlo, erano solo i maschi, i quali, un po’ con lo stesso spirito con cui partecipavano a quella simulazione della guerra che erano i tornei, venivano iniziati a forme di corteggiamento rigidamente codificate, che dovevano attenuare i loro eccessivi appetiti sessuali, decantandoli, per così dire, in un’attesa che era più gratificante del conseguimento dell’obiettivo finale. Una faccenda, quindi, puramente maschile, nella quale le donne erano puri oggetti, anche se posti su un piedistallo. Ma dal conseguente ingentilimento dei costumi sessuali anche le donne, osserva Duby, hanno finito col trarre beneficio. E conclude: «Ancora oggi, malgrado lo sconvolgimento delle relazioni fra i sessi, i tratti che derivano dalle pratiche dell’amor cortese sono quelli per i quali la nostra civiltà si distingue più nettamente dalle altre».


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Il Messaggero, 17 aprile 1991 Storia/Ferdinand Gregorovius nel centenario della morte Un romantico in Vaticano

Nel centenario della morte, si è tenuto a Roma – indetto dall’Istituto storico germanico – un convegno su uno dei più grandi studiosi del mondo antico, Ferdinand Gregorovius.

Fino dall’introduzione, Gregorovius prende le distanze da Gibbon. La vista delle rovine di Roma antica aveva ispirato allo storico inglese il proposito di scrivere la storia del tramonto della città di Roma, poi mutato nella sua opera «immortale» (l’aggettivo è di Gregorovius) sulla decadenza e caduta dell’impero romano, che egli attribuiva – aggiungiamo noi – all’influenza del cristianesimo. «Commosso dalla vista di Roma» – proseguiva Gregorovius – «ho deciso di narrare il tramonto, ma anche la rinascita che, fatto unico nella storia, la rese di nuovo signora del mondo». La nascita e la crescita della prima Roma fino a realizzare la «monarchia universale di una sola città» apparirà sempre, scriveva, come il «mistero più profondo della storia mondiale, insieme alla nascita e al trionfo del cristianesimo». Ma, in realtà, per Gregorovius, il solo vero mistero restava il primo: la «rinascita» di Roma come Roma cristiana non era infatti «un enigma insolubile come il sorgere della potenza dell’antica Roma», perché la religione cristiana era essa stessa, per sua natura, predisposta all’incontro con l’idea di impero: «sorta in una città chiusa nel nazionalismo quale Gerusalemme, ma universale per i suoi principî, si mosse verso Roma, capitale del mondo, come verso la sede ad essa preparata dalla storia… La Chiesa, nel suo aspetto visibile, non fu che la forma religiosa dell’idea imperiale propria del mondo antico». E fu proprio in conseguenza di questo processo, che Gregorovius configura come una «palingenesi» e non, alla Gibbon, come una «decadenza», il fatto che Roma poté rappresentare «la forma universale di quel grande periodo del-


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l’umanità che vien chiamato medioevo», allo stesso modo che era stata «la forma universale della civiltà classica». In apparenza, è lo stesso processo rapidamente tratteggiato da papa Leone Magno nel suo famoso sermone per il 29 giugno, festa un tempo di Quirino-Romolo, ora di Pietro e Paolo, quando afferma che il nuovo impero spirituale di Roma è più esteso di quello che aveva conquistato a suo tempo con le armi. Ma Gregorovius ripropone lo stesso processo demitizzandolo, nei termini e con l’afflato della grande storiografia romantica, di ispirazione idealistica. Per lui, se Romolo e Remo erano stati i fondatori mitici di Roma antica, Pietro e Paolo, che operano a Roma con l’autorità di apostoli, ma senza ricoprirvi alcuna carica episcopale, furono i «creatori leggendari della nuova Roma». Più che successori di Pietro, quali pretendevano di essere, ma con la forza che derivava loro dalla convinta affermazione di tale pretesa, i vescovi di Roma del secolo V subentrarono in realtà agli imperatori cristiani, i primi facenti funzione di «capo della Chiesa universale (cattolica), nella quale nessun vescovo aveva ancora il primato»; coloro i quali, appunto in tale veste, provvidero a convocare e a presiedere i grandi concili ecumenici dei secoli IV e V, decisivi nella definizione del dogma cristiano. Nessuna traccia, in questa ouverture, di gretti pregiudizi antipapali, bensì l’esaltazione dell’opera dei papi della tarda antichità, ritenuti gli artefici della «rinascita» di Roma. Ma anche quanto era sufficiente per fare meritare a questo scomodo celebratore sui generis delle glorie papali la messa all’indice della sua Storia, il 6 febbraio 1874. A dare il colpo di grazia all’impero romano non era stato, dunque, il cristianesimo, come aveva suggerito a suo tempo Gibbon; erano stati bensì i «vigorosi popoli germanici», che alla Chiesa subentrata all’impero nella gestione, in forme radicalmente nuove, della monarchia universale fornirono una materia più duttile dei «popoli antichi», che, con le tra-


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dizioni religiose e culturali di cui erano portatori, opponevano una sorda resistenza alla diffusione del nuovo verbo. Ma il presupposto essenziale perché potesse realizzarsi la fusione fra mondo antico e mondo moderno, fra mondo latino e mondo germanico, fu costituito dalla «sopravvivenza della città di Roma». Le rovine, dalla cui vista Gregorovius aveva preso romanticamente le mosse, rischiavano di fare passare in secondo piano il dato veramente importante, che era invece l’emersione di Roma, «dopo lo sfacelo dell’impero d’Occidente, dal diluvio, universale della barbarie, come l’Ararat della civiltà umana». Nei secoli «bui e senza legge» del medioevo, il primato ecclesiastico di Roma fu «necessario», in quanto consentì di conservare l’unità del mondo cristiano, in attesa che – trascorsi mille anni – gli stessi Germani che avevano dato il colpo di grazia alla Roma dai Cesari lo dessero anche alla rinata Roma dei papi, «conquistando la libertà della fede e del sapere con una rivoluzione che avrebbe mutato il volto dell’umanità». Non occorre dire che qui Gregorovius allude alla riforma protestante. Ma, durante quei mille anni, che sono anche l’arco di tempo lungo cui si distende la sua Storia, tutto quanto di buono, di saggio, di bello, di utile era stato pensato in Europa, era promanato, in un modo o nell’altro, da Roma. Nella conclusione, Gregorovius arriverà addirittura a dire che la storia di Roma medievale è «la più sofferta, più gloriosa e più augusta che sia mai stata scritta negli annali dell’umanità», una proposizione che è francamente difficile poter sottoscrivere, salvo forse che per ciò che concerne la «più sofferta».


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Il Messaggero, 1 settembre 1991 Storia/Un autorevole studio ridisegna i confini del Medioevo Bisanzio, capitale d’Europa La richiesta del mercato favorisce la moltiplicazione di libri di storia generale, trattazioni sintetiche di larghi tratti di storia dell’umanità. Una volta libri del genere apparivano solo di rado, a opera di storici molto affermati, dando adito ad accese discussioni che in qualche caso coinvolgevano anche i non specialisti della materia, perché un modo nuovo di concepire la storia dell’Europa, dell’Italia, o del medioevo europeo non poteva lasciare indifferenti le persone colte. Naturalmente da quando queste trattazioni hanno cominciato a susseguirsi a getto continuo, le aspettative sono scese di tono, perché non è possibile che ogni nuovo titolo segni una svolta storiografica, meritevole di essere segnalata e discussa. Non sono un bizantinista nemmeno di complemento. Ma dal mio osservatorio di medievista credo di poter dire che La civiltà bizantina di Cyril Mango (curata da un traduttore una volta tanto competente come Paolo Cesaretti, per la «Collezione storica» di Laterza, 376 pagine, 60 mila lire) sia uno dei sempre più rari libri che consentono di avviare una discussione di ampio respiro, come accadeva una volta. E questo, si badi bene, senza che l’autore indulga alla tentazione di quegli improvvisi ribaltamenti di giudizio che, facendo notizia, colpiscono l’attenzione dei lettori meno avvertiti nascondendo i vuoti di informazione e di pensiero. Da buon bizantinista, Mango, che è uno dei maggiori cultori viventi di questa ardua disciplina, tratta con gran competenza degli aspetti sia politico-sociali, che economici, religiosi, artistici, letterari, di un processo storico disteso su un arco di undici secoli. Ci si chiede se la resistenza che la bizantinistica oppone tuttora alla sua frantumazione in una serie di specialità diverse, come è accaduto da tempo per l’antichistica e ormai anche per la medievistica, sia dovuto


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alla sua relativa giovinezza oppure se non sia proprio la compattezza, l’uniformità interna dell’oggetto di studio che siamo soliti chiamare «civiltà bizantina» a consentire, o addirittura a imporre, l’approccio globale che caratterizza la sintesi proposta da Mango. Basandoci su questa sintesi, propenderei per la seconda ipotesi, salvo forse per ciò che concerna l’arte: «sola porzione dell’eredità bizantina», afferma Mango, «che esercita su di noi un richiamo immediato». E questo per via della recente mutazione del gusto che, riprendendo i termini dell’alternativa indicata a suo tempo da Ranuccio Bianchi Bandinelli, oggi privilegia ancora nettamente il polo dell’«astrazione» rispetto a quello dell’«organicità» (o naturalismo che dir si voglia). Ma proprio per l’arte, prosegue Mango, indipendentemente dal diffuso apprezzamento per i pochi e sparsi monumenti che di essa ci restano (di mezzo c’è stata, oltre ai Turchi, la duplice distruttiva parentesi iconoclastica: 726780, 814-843), siamo lontani dall’essere giunti a una piena comprensione del rapporto che intercorre fra il suo sviluppo e i fattori sociali e culturali che l’hanno certo condizionato. All’apparenza, nonostante gli incerti della documentazione, che del resto valgono per quasi tutti gli aspetti della storia plurisecolare di Bisanzio (esclusa, si direbbe, la… santità), lo sviluppo artistico sembra ricalcare nei suoi tratti fondamentali l’andamento generale. Il massimo della creatività si riscontra nell’ultimo segmento, quello giustinianeo e postgiustinianeo, del primo periodo bizantino, che ha inizio con la fondazione stessa di Costantinopoli sul sito dove sorgeva la vecchia Bisanzio (324 d.C.) e giunge sino a metà del secolo VII. Mentre alle cosiddette «rinascenze» macedone (secolo X) e paleologa (dalla seconda metà del secolo XIII in avanti), la prima coincidente con un ritorno in forze dell’Impero se non altro in Italia e nei Balcani, la seconda parallela al ricostituirsi e allo stentato perseverare della «pal-


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lida somiglianza» di un Impero che fu, in seguito alla restaurazione del 1261, Mango tende a togliere importanza. Conformemente a ciò che si può dire in genere dello sviluppo culturale e letterario, non si trattò infatti in alcun modo di ritorni all’antico vero e proprio, al «classico», bensì solo di rimasticature, selettive però, e qui risiede la loro innegabile positività, dei modelli di arte cristiana elaborati nel corso del primo periodo. Tali modelli vennero allora depurati del loro aspetto più caduco, consistente nel naturalismo classicistico «parzialmente degradato», che caratterizza la produzione artistica del quarto e quinto secolo. Inizi giustinianei a parte, l’altra fase veramente creativa dell’arte bizantina è stata piuttosto, a giudizio di Mango, l’età dei Comneni (fine secolo XI - secolo XII), che fu anche il periodo della rinascita urbana, dopo la lunga eclissi delle città, conseguenza diretta della gravissima crisi – una vera e propria cesura della tutt’altro che rettilinea storia di Bisanzio – di metà del secolo VII. Ma, appunto, mentre le manovalanze bizantine dell’età comnena sciamavano verso Kiev, Novgorod, Montecassino, Palermo, Cefalù, i privilegi incautamente concessi ai mercanti veneziani da Alessio I pongono le premesse di quella sudditanza economica dell’Impero nei confronti dell’ormai prospero e intraprendente Occidente, che la crociata veneziana del 1204, dirottata su Costantinopoli, avrebbe presto trasformato in sudditanza anche politica. Impronta decisiva del filtro tardoantico sulla trasmissione dell’eredità classica, cesura del secolo VII, ripresa cittadina del secolo XI, ambiguità delle varie «rinascenze»: anche senza calcare la mano sul rilievo straordinario che i rapporti fra Bisanzio e l’Occidente acquistano nel tardo periodo bizantino, tutto, nel libro di Mango, che non a caso usa spesso senza ritegno l’aggettivo «medievale», sembra destinato a riaprire il discorso sull’opportunità di integrare la storia della civiltà bizantina nella storia della civiltà


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medievale, dalla quale i più si ostinano a tenerla rigorosamente distinta, come se fosse storia di un mondo a parte. Il Messaggero Più/Storia, 22 settembre 1991 Lazio/Il Nord Determinante per il decollo urbano dei centri del “Patrimonio di San Pietro in Tuscia”, Viterbo su tutti, è stato l’inserimento negli itinerari papali a partire al XIII secolo Grande per i grandi Solo in modo molto approssimativo si può dire che l’antica provincia dello Stato pontificio denominata “Patrimonio di San Pietro in Tuscia” coincida con l’attuale provincia di Viterbo. Basti dire che non fanno parte di questa né Civitavecchia, che è sotto Roma, né Orvieto, che appartiene addirittura all’Umbria. È accaduto che i “piemontesi” di Vittorio Emanuele II siano arrivati a Orvieto prima che a Viterbo: ci vollero altri undici anni perché nel 1870 si completasse l’annessione della Tuscia al regno dell’Italia unita. La separazione amministrativa fra Viterbo laziale e Orvieto umbra non ha certo favorito gli studi sul Patrimonio di San Pietro in Tuscia, che dobbiamo abituarci a considerare nella sua fisionomia originaria, prescindendo dalle vicissitudini politico-amministrative più recenti. Prima di affrontare il problema di quando sia stata istituita questa provincia dello Stato della Chiesa, va richiamata l’attenzione sul nome che la designa. Essa presenta infatti la caratteristica di essere il prodotto della giustapposizione di due differenti residui di un passato molto lontano rispetto al momento in cui nelle fonti ci risulta attestato per la prima volta un Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Da un lato, abbiamo “Tuscia”, che era una delle province in cui risulta divisa l’Italia al momento dell’invasione longobarda e, in particolare, una delle tre, a spese delle


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quali sarebbe stato poi ritagliato il Lazio medievale e moderno: a nord, appunto la Tuscia, che arrivava fino al Tevere; a sud di questo fiume, la Campania; a est, sempre, del Tevere, la Valeria. Nessuna di queste province è entrata per intero a far parte del Lazio, ma solo una porzione di ciascuna di esse. La porzione di Tuscia diventata Lazio ha conservato per sé il nome dell’intera provincia. (Lasciamo per il momento da parte il problema del dualismo Tuscia/Toscana, che ci porterebbe lontano). Dall’altro, abbiamo “Patrimonio di San Pietro”, una designazione che Charles Pietri, il grande storico di Roma nella tarda antichità scomparso lo scorso agosto, ritiene entrata nell’uso fra il secondo e il terzo decennio del secolo VI per indicare collettivamente i nuovi grandi complessi patrimoniali in cui vennero raggruppati gli sparsi possessi fondiari della Chiesa romana al fine di renderne più razionale l’amministrazione. Tra gli altri “patrimoni di San Pietro” c’era anche un patrimonuim Tusciae. Ma verso la fine del secolo XII la designazione di Patrimonio di San Pietro ricompare inattesamente al singolare e, per così dire, con la maiuscola, per indicare in modo quasi ufficiale quello che era allora il dominio temporale dei papi, il territorio compatto, cioè, che, delimitato a ovest dal mar Tirreno e, a est, grossomodo, dalla dorsale appenninica, si estendeva da Radicofani, o da Acquapendente, a nord, fino a Ceprano (sulla destra del Liri), a sud – a un dipresso, il territorio del Lazio attuale. Si era nel momento successivo alla morte di Enrico VI, che risultò decisivo ai fini del riconoscimento di questa entità statuale, per essere stato anche quello in cui, per la sopravvenuta crisi di uno dei due partner – l’impero –, venne meno anche quella vaga apparenza di “condominio” papale-imperiale sul territorio in questione, che risaliva ai tempi della Constitutio Romana dell’imperatore Lotario I (824) e, dopo di allora, non era stata mai rimossa del tutto.


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Ma il momento in cui si comincia a parlare di un Patrimonio di S. Pietro nel senso che si è visto, è molto vicino a quello in cui, con inizio dal pontificato di Innocenzo III (1198-1216), verrà avviata la politica delle cosiddette recuperationes, volta a rendere effettivi i diritti, attestati in titoli di possesso conservati nei suoi archivi, che la Chiesa romana vantava dall’età carolingia su territori come l’ex Esarcato (Romagna), l’ex Pentapoli (Marche) e il ducato di Spoleto, diversi dall’ex ducato bizantino di Roma, che, con qualche modesto incremento sempre in età carolingia, aveva costituito, durante i secoli VIII (seconda metà) – XII, la totalità del dominio temporale dei papi. Insomma, proprio quando il dominio temporale “formato Lazio” era giunto a precisare il suo volto, la politica dei “recuperi”, che sarebbe arrivata in porto alla fine del secolo XIII, sconvolse l’assetto plurisecolare di esso, con riflessi sulla stessa designazione di Patrimonio di San Pietro, che se, da un lato, continuerà a essere usata genericamente, ma non più in modo sistematico, per indicare l’insieme dei territori papali in via di continuo accrescimento, dall’altro, con l’aggiunta di “Tuscia”, passava a designare una parte del tutto, divenuta provincia a sé stante intorno al 1199/1200. Quel medesimo giro di anni fu decisivo anche per la storia di Viterbo, come centro di aggregazione del territorio che prendeva allora il nome di Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Per avere un’idea delle difficoltà che presenta la storia della Tuscia nei secoli precedenti, è sufficiente scorrere le notizie relative ai vescovati di tale zona. Si ha l’impressione che la terra manchi sotto i piedi. L’esistenza ab antiquo della diocesi di Viterbo è un punto tuttora controverso. Anche per le altre diocesi della Tuscia la situazione è press’a poco la stessa; del tutto diversa, sia detto fra parentesi, da quella attestata per le diocesi comprese nel territorio a sud del Tevere. Per ciò che concerne Viterbo, l’unico dato sicuro è costituito dal fatto che, nell’agosto/settembre 1192, Cele-


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stino III, nell’atto di riconoscerle lo statuto di “città”, la erigeva a sede vescovile, cui venivano aggregati i vescovadi più antichi di Tuscania, Centumcellae (Civitavecchia) e Bisda. Fu quello il momento decisivo per il suo decollo urbano, precedente solo di circa quindici anni quel 31 maggio 1207 in cui Innocenzo III venne a Viterbo con la Curia, per trattenersi fino al 27 giugno, spostarsi per un po’ a Montefiascone e far poi ritorno a Viterbo il 9 agosto, dove resterà fino al 17 novembre, conservando, si direbbe, un buon ricordo di questo primo prolungato soggiorno, se nel 1209 si risolse a risiedervi ininterrottamente dal 24 maggio al 4 ottobre… Cominciava così a manifestarsi, nel quadro di una generale propensione all’itineranza da parte del papa e della Curia, quella particolare predilezione per Viterbo, che avrebbe segnato per sempre, non solo la facies esterna, ma anche la storia profonda, la vocazione, di questa città. Di là all’albagia municipale che si esprime nella formula “Viterbo città dei papi” a fini di propaganda turistica, si impone una ricerca sistematica che miri a misurare l’incidenza dell’itineranza papale sullo sviluppo in senso lato di tutte le località, a cominciare appunto da Viterbo, interessate a tale fenomeno, la cui entità, in termini di mesi e giorni trascorsi qua e là, è stata già stabilita da Agostino Paravicini Bagliani, professore all’Università di Losanna, massimo specialista della storia della Curia nei secoli XIII e XIV. I riflessi locali di queste presenze esterne sono difficili da valutare, ma – ripeto – si impone un’indagine sistematica che prenda in considerazione l’impatto che la permanenza, a ripetizione, della Curia non può non avere avuto sui diversi aspetti della vita cittadina, dall’abitativo, al demografico, all’economico, al culturale, ecc. E questo non per una sola città, ma, insieme, per tutte le città comprese negli itinerari papali, sia a nord (Orvieto, Viterbo, Rieti, Perugia), che a sud di Roma (Anagni, Segni, Ferentino), per


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gli evidenti vantaggi che presenta la comparazione fra una pluralità di situazioni diverse. Naturalmente, le vicende politiche locali, la storia del comune viterbese, richiedono anche di essere indagate di per sé. Ma è impensabile che l’elemento esterno costituito dalla presenza della Curia non abbia agito da incentivo allo sviluppo politico, economico e sociale della città, al di là delle semplici ripercussioni sulla crescita della domanda di merci e di servizi di lusso. Tanto più inevitabili queste ripercussioni di varia natura nel caso di Viterbo, se è vero che qui i soggiorni della Curia romana erano caratterizzati dal fatto di non essere particolarmente frequenti, quanto particolarmente lunghi. Quello che non esiterei a definire il “mistero” della storia della Tuscia nei secoli dell’alto medioevo risiede nel fatto che questa regione pochissimo urbanizzata durante l’intero corso di questi secoli diventa poi l’unica regione urbanizzata del Lazio (a parte Roma), mentre nessuna delle città di antica fondazione del Lazio meridionale reggerà in seguito il confronto con le ultime venute Viterbo e Orvieto. Una spiegazione che si presenta subito come plausibile è che, essendo a contatto con una zona di intensa urbanizzazione come l’Umbria e la Toscana, la Tuscia ne avrebbe subito l’influenza a differenza del Lazio meridionale. Per questo, il decollo urbano, nei limiti comunque modesti in cui ha interessato il Patrimonio di San Pietro, si sarebbe avuto solo nelle province più settentrionali di esso. Ma, benché non siano certo da sottovalutare, le influenze esterne (l’attrazione della città umbro-toscane; i papi che vengono a villeggiare di preferenza da queste parti) non bastano a rendere ragione dell’accaduto. La spiegazione vera va cercata in loco, negli antecedenti, cioè nella storia della Tuscia nell’alto medioevo. Una storia ancora in gran parte da scrivere e che, per penuria di fonti scritte, richiederà più che mai una stretta collaborazione fra storici e archeologi.


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Il Messaggero Più/Storia, 22 settembre 1991 Lazio/Il Sud Anagni, famosa per l’oltraggio a Bonifacio VIII, e tante altre località del Lazio meridionale hanno ospitato pontefici in estate. Per ragioni di benessere più che politiche Alla salute del papa Non solo il Lazio settentrionale, con Viterbo e Orvieto, ma anche il Lazio meridionale ha le sue “città papali”. A cominciare da Anagni, alla quale viene subito fatto di pensare soprattutto però per via di una delle “giornate che hanno fatto la storia”, quel 7 settembre 1303, quando – come Dante fa profetizzare a Ugo Capeto nel canto XX del “Purgatorio” – veggio in Alagna entrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. Ma di solito si dimentica di dire che, per un Bonifacio VIII, che venne a subirvi quel giorno fatale l’oltraggio di Nogaret, negli anni che vanno dal 1198 (inizio del pontificato di Innocenzo III) al 1304 (fine del pontificato di Benedetto XI, dopo di che il papato andò a stabilirsi ad Avignone), ben 3090 furono i giorni durante i quali la Curia papale soggiornò ad Anagni, senza dare luogo, se Dio vuole, ad altre “giornate che hanno fatto la storia”. Tremilanovanta giorni corrispondono a otto anni e mezzo circa, ripartiti fra i venticinque soggiorni attestati dalle fonti, comportano permanenze di (in media) centoventitré giorni ciascuna. Ma, nel corso di quello stesso secolo di sistematica itineranza, i papi, per limitarsi qui al Lazio meridionale, trascorsero anche cinquantuno giorni ad Alatri, quattrocento giorni a Ferentino, ottantasei a Grottaferrata, trecentocinquanta giorni a Segni, quarantotto giorni a Velletri e cinquantanove giorni a Sora. Una eventuale legge regionale che intervenisse a regolare il diritto delle diverse località laziali a fregiarsi del titolo di “città papale” potrebbe, utilmente prendere come base il frutto di pazienti indagini di Agostino Paravicini Bagliani.


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Si tratta ora di individuare qual era il motivo che induceva i papi del secolo XIII a passare tanti giorni dell’anno fuori di Roma, dopo che, per secoli e secoli, i loro predecessori si erano distinti nei confronti di re e imperatori proprio per la loro invidiabile condizione di sovrani stabili, insediati nel palatium di una vera e propria capitale, senza essere costretti ad andare peregrinando da una località all’altra dei loro dominî, con tutte le difficoltà che ciò comportava per l’esercizio stesso delle funzioni di governo. Perché, dunque, da Innocenzo III in poi, i papi si sono messi a viaggiare? La risposta non è facile. L’esperienza dell’attuale pontificato può essere un buon punto di partenza per una riflessione in fatto di spostamenti papali. Mentre sto scrivendo, apprendo per caso che Giovanni Paolo II si prepara ad affrontare il suo novantanovesimo viaggio. Sono sicuro che, nello stabilire questo totale, non sono stati computati gli spostamenti che il papa compie durante i mesi estivi, per raggiungere di norma Castel Gandolfo, e di tanto in tanto le località montane, dove trascorre più brevi periodi di vacanza. I novantanove viaggi di cui sopra sono invece viaggi, per definizione, “pastorali” (come si sa, c’è chi mette in discussione l’opportunità di tale pratica), che, in più di un caso, hanno però anche una palese rilevanza politica, che i “vaticanisti” si compiacciono di sottolineare. Comunque, anche in questi casi, che sono tutt’altro che infrequenti, la politica che il papa va a fare oltralpe o oltremare, è altra cosa da quella che presiede agli spostamenti di un qualunque capo di stato. Gli affari del piccolo stato di cui il papa è sovrano, lo Stato della Città del Vaticano, non richiedono certo viaggi né corti né lunghi, ma tutt’al più, di quando in quando, una breve visita di cortesia sul colle antistante del Quirinale. Ma i papi del secolo XIII cosa andavano a cercare ad Anagni? Prima che, in anni recenti, per iniziativa anzitutto del già ricordato Paravicini Bagliani, si fosse cominciato a


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studiare il fenomeno dell’itineranza papale in modo sistematico, utilizzando tutte le fonti disponibili, le spiegazioni che tenevano il campo erano, in sostanza, due. Da un lato, si tendeva a mettere in rilievo l’utilità che il sovrano di uno stato temporale come il vescovo di Roma poteva avere di recarsi periodicamente nelle località più importanti del proprio stato per affermare sul posto la legittimità e la stabilità del suo dominio. Dopotutto, un paio di mesi trascorsi dal papa e dalla sua foltissima corte a Segni o a Ferentino potevano pesare di più, ai fini del controllo del territorio, di una piccola guarnigione, stabile, riottosa e costosa. Sarà questo, l’accorgimento usato nei secoli successivi da monarchi d’ancien régime, con le loro joyeuses entrées periodiche nelle diverse città dei rispettivi reami, che hanno lasciato tante tracce di carattere iconografico. La coincidenza per cui il periodo dell’itineranza papale comincia proprio con il pontificato di Innocenzo III, un papa che ha segnato una svolta anche nella storia della Chiesa di Roma, può essere addotta a favore di questa prima spiegazione. Ma Innocenzo III è anche un esponente di una cospicua famiglia laziale, quella dei Conti. Suo padre era Trasmondo, conte di Segni. Egli stesso era nato ad Anagni. E Anagni ci rimanda imperiosamente al penultimo della serie dei pontefici itineranti, il già menzionato Bonifacio VIII, che proprio con acquisti, effettuati, fino dal 1278, in tale località, aveva dato inizio all’esecuzione di un vasto e organico piano d’azione, tendente a costituire un solido patrimonio fondiario. «Non soltanto gli premeva», scrive il Dupré Theseider, «di mettere i Caetani (la sua famiglia) in grado di reggere al confronto con le grandi casate dell’aristocrazie baronale romana, già illustri per aver fornito alla Chiesa papi e cardinali, ma voleva anche costruirsi in tal modo una sicura piattaforma di potenza». Dopo quei primi sporadici inizi, gli acquisti dei Caetani si sarebbero rapidamente allargati nella zona fra Anagni, Alatri e Ferentino, dando vita a un’e-


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stesa signoria territoriale e provocando di riflesso quella sorda rivalità con i Colonna che tanto inciderà sull’intera storia del pontificato di Bonifacio VIII. Ora, proprio partendo da questi irrefutabili dati di fatto, c’è chi sostiene che, alla base dell’esperienza del papato itinerante del secolo XIII, ci sono state, sì, ragioni di carattere politico, ma non concernenti la gestione dello Stato della Chiesa in via di allargamento e di consolidamento durante quel secolo. Esse concernevano piuttosto gli interessi particolarissimi, famigliari, dei singoli papi, che, benché non tutti nella misura abnorme di Bonifacio VIII, non esitavano a lasciare Roma con armi e bagagli, per periodi anche lunghi, per attendere sul posto agli affari loro. Quest’ultima affermazione mi è un po’ scappata dalla penna. Ha un sapore moralistico, che vorrei subito attenuare. In realtà, la distinzione fra interesse pubblico e interesse privato non è mai tracciabile con nettezza, particolarmente in quei tempi “feudali”. Un casato forte e dotato alle spalle era per un papa del tempo, che non fosse Celestino V, il quale, del resto, durò poco, uno strumento di potere, al quale non poteva rinunciare tanto facilmente. Il problema non era tanto di fare senza questo appoggio forse indispensabile, quanto di fare in modo di non lasciarsi trascinare nelle contese che dividevano una signoria familiare dalle altre, condizionando all’andamento e all’esito di queste la politica generale del papato (come accadde, appunto, a Bonifacio VIII). Ma, se questo è vero, allora viene anche a cadere la distinzione che avevamo abbozzato fra la spiegazione “politica” e la spiegazione “famigliare” del fenomeno dell’itineranza. Semmai, si può dire che la spiegazione, per così dire, “famigliare” conviene meglio, per non dire esclusivamente (ma non vorrei sbagliarmi), ai soggiorni in località del Lazio meridionale, dal momento che è qui, e non nella Tuscia, che i papi contemporanei vennero costruendo a preferenza le loro fortune domestiche.


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A rimettere tutto in discussione, su una base documentaria incomparabilmente più larga di quella di cui si disponeva finora, è stato Paravicini Bagliani, che ha avuto il grande merito di quantificare il fenomeno (ne abbiamo già visto di passaggio alcuni risultati). Ora abbiamo un’idea precisa dell’entità dei problemi logistici, che quegli spostamenti comportavano: a seguire il papa erano ogni volta centinaia di persone, con tutti i problemi di alloggio, vettovagliamento, ecc., che ne conseguivano. Tali spostamenti, inoltre, anche se davano luogo a soggiorni di mesi, cadevano di regola nella stagione estiva, tanto è vero che il palazzo del Laterano veniva chiamato il “palazzo d’inverno”. Già da questo si è portati, dunque, a pensare a prolungate “villeggiature”. Ma anche la guerra, allora, era un’attività prevalentemente estiva. Piuttosto, Paravicini Bagliani ha attirato l’attenzione su una serie di testimonianze inedite, che, senza avere diretta attinenza con i soggiorni estivi dei papi nei dintorni di Roma, costituiscono la prova che l’ambiente curiale in genere era molto attento ai problemi connessi con la salute del corpo. Le tecniche, per esempio, che si pensava avessero la virtù di prolungare la vita erano praticate da papi, cardinali e curiali con una assiduità che nessuno avrebbe potuto sospettare. È in questo più generale contesto di preoccupazioni salutiste che andrebbe riconsiderata, stando alle conclusioni di Paravicini Bagliani, l’intera vicenda dell’itineranza papale del secolo XIII, il che naturalmente non toglie che questa pratica avesse anche una ricaduta politica, nel senso complesso che abbiamo cercato di precisare. Ma parrebbe ormai certo che, ad Anagni, a Segni, a Ferentino, i papi andassero soprattutto a cercare quell’aria buona, che non avevano a Roma. Non a caso, non troviamo segnalate presenze papali in località come Norma e Ninfa, dove al tempo di Bonifacio VIII, andava disgregandosi il patrimonio degli Annibaldi, con la conseguenza di destare contrapposti appetiti dei


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Colonna e dei Caetani, che proprio per il conflitto insorto per il possesso di queste località sarebbero giunti allo scontro palese. In un convegno indetto nel 1988 dalla “Fondazione Camillo Caetani”, di cui sono stati pubblicati di recente gli atti (L’Erma di Bretschneider, Roma 1990), l’importanza politico-strategica ed economica della zona immediatamente a ridosso dell’Agro pontino è stata messa nella dovuta evidenza. È qui, da dove si controllavano la via per Napoli, gli attracchi di Anzio, di Astura, del Circeo, e il porto di Terracina, che si giocava il destino dei grandi casati dell’entroterra collinare. Ma i papi salutisti del tempo disdegnavano di venire a passare le loro vacanze in terre alle quali giungevano i miasmi delle vicine paludi. Il Messaggero, 30 settembre 1991 Storia/Finalmente tradotto un classico di Dagron Costantinopoli, l’Eterna Con un certo ritardo (l’edizione francese è del 1974) viene proposto in traduzione italiana (Einaudi, 582 pagine) uno dei capolavori della bizantinistica contemporanea: Gilbert Dagron, Costantinopoli, nascita di una capitale (330451). Dicendo «bizantinistica» per un riflesso immediato, dal momento che Dagron è uno dei massimi cultori di questa disciplina che insegna al Collège de France, si rischia però di contraddire sfacciatamente quella che è la tesi centrale del libro. Mi spiego. Come è noto, a definire «bizantini» i romani d’Oriente hanno provveduto gli eruditi della prima età moderna, mentre i sudditi dell’impero, che noi chiamiamo «bizantino», si autodefinivano romani, o semplicemente cristiani, ed erano chiamati greci dagli europei occidentali. Bizantini erano chiamati i soli nati a Bisanzio, che era il vecchio nome della città ribattezzata poi Costantinopoli dal


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nome dell’imperatore, Costantino il Grande, che nel 330 ne cambiò il destino, facendone la propria capitale. Benché capricciosamente derivato dal vecchio, e non dal nuovo nome della città, l’aggettivo bizantino, che, per una convenzione accettata da tutti, connota un impero, una civiltà, un’arte, una mentalità, rispecchia anche un indubitabile dato di fatto: il peso che la capitale politico-religiosa dell’impero ha avuto nella sua vita plurisecolare. Un peso che, notevole fin dagli inizi, è andato poi sempre aumentando, mano a mano che le conquiste di arabi e slavi privavano l’impero di province e di città, ricche di tradizioni autoctone, che consentivano loro di brillare di luce propria e non solo del riflesso di quella sprigionata dalla capitale. Ma quando nasce Costantinopoli? Nell’anno in cui, si era soliti rispondere, Costantino, che era incorso nell’odio dei romani per aver rifiutato di assistere alle feste pagane per il ventesimo anniversario della sua assunzione al potere, aveva deciso di creare in Oriente un contrappeso a Roma, irrimediabilmente contaminata dagli dei falsi e bugiardi del passato. In tal modo la fondazione di Costantinopoli era fatta coincidere con la data d’inizio dell’impero, della civiltà, dell’arte bizantini. Per Dagron, invece, la nascita di questa capitale non è stata affare di un giorno, ma il frutto di una lunga gestazione che, iniziata con la fondazione costantiniana, si è conclusa solo centoventi anni più tardi, quando il canone 28 del concilio ecumenico di Calcedonia ha sancito polemicamente sul piano ecclesiastico i diritti della «nuova Roma» rispetto alla «vecchia». Fu infatti proprio il concilio di Calcedonia a riconoscere che, onorata com’era dalla presenza dell’impero e del senato, la nuova arrivata aveva i titoli necessari per vedersi riconosciuto anch’essa il primato. Pur accontentandosi, a parole, del secondo posto nella gerarchia delle sedi primaziali. Fondando Costantinopoli, Costantino, da parte sua, non aveva assolutamente inteso di creare un contrappeso a Roma,


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né dar vita a una «seconda», a una «nuova» Roma, destinata (come poi in effetti sarebbe successo) a prendere le distanze nei confronti della Roma numero uno. Al contrario, il suo progetto era di restituire a Roma la sua grandezza di un tempo, edificando il suo doppio sul Bosforo. Per Costantino, sostiene Dagron, Costantinopoli non doveva essere una Roma orientale, ma una Roma alle porte dell’Oriente. La quadratura storiografica del cerchio, che viene operata in questo libro, consiste nel fatto che l’autore, il quale ha speso tanta fatica per ripercorrere passo per passo la lunga gestazione di quella che sarebbe stata un giorno la Costantinopoli bizantina, non perde però di vista che in sé per sé tale gestazione appartiene di diritto alla storia della tarda antichità e non è, quindi, un capitolo di storia bizantina. In altre parole, la storia dello snaturamento che, per forza di cose, viene a subire durante quei centoventi anni l’originario progetto di Costantino, diventa l’osservatorio privilegiato dal quale seguire la formazione di una romanità cristiana d’Oriente, greca di lingua, che sarebbe sopravvissuta giusto di mille anni al crollo dell’impero d’Occidente. Ma al di là della tesi che ne costituisce il cuore, il libro di Dagron è mirabile soprattutto per la varietà dei punti di vista in cui si affronta la «nascita di una capitale». Una cosa infatti è fare vedere che ne è del doppione del Senato che Costantino insedia nella città che avrebbe preso il suo nome; un’altra, come il «circo» di Roma vi diventa l’«ippodromo»; un’altra ancora, che trasformazioni subisce l’«annona» sotto un cielo diverso da quello che l’aveva vista nascere. Parallelamente alla crescita di Costantinopoli Dagron non può fare a meno di seguire il declino di Roma, che non era nei calcoli di Costantino, ma che intervenne inesorabilmente a compromettere la realizzazione del suo progetto, fino al fatidico sorpasso (anzitutto, sul piano demografico), nel primo decennio del secolo V. Invece della capitale doppia perseguita da Costantino, abbiamo avuto due capitali,


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sempre difformi fra loro: una, la nuova, che assume col passare del tempo proporzioni gigantesche; l’altra, che contemporaneamente si svuota. Costantino vinse la sua «scommessa demografica» in misura molto maggiore ad ogni più ottimistica previsione. Le mura della sua Costantinopoli – osserva Dagron – precedettero le case, le case gli abitanti. La superficie della città progettata era tre volte e mezzo quella di Bisanzio… È naturale che un evento del genere abbia prodotto leggende a non finire. Nella prefazione, Dagron scrive: «La miglior conclusione della storia di Costantinopoli è proprio la leggenda della sua fondazione». Puntualmente, nel 1984, a dieci anni di distanza dal primo, Dagron ha pubblicato un secondo libro dal titolo Costantinopoli immaginaria, non ancora tradotto in italiano, in cui ha tenuto fede a quella sua implicita promessa. Il Messaggero, 27 ottobre 1991 Storia/La Chiesa e la scienza nel Duecento Così il Papa studiava la natura Una sera di qualche anno fa, in casa di amici, un grande clinico recentemente scomparso raccontava con un comprensibile senso di soddisfazione personale di essere intervenuto al momento giusto a raddrizzare la situazione durante il travagliato decorso postoperatorio che stava mettendo in forse la vita di Giovanni Paolo II, dopo l’attentato. Il tutto si era svolto nella cornice di un ospedale. Se non fosse stato per l’eccezionalità del paziente, sarebbe stata una storia che avrebbe potuto concernere uno di noi. Ricordo invece, trentacinque anni fa, il racconto che un grande vaticanista, Silvio Negro, mi faceva del tipo di assistenza medica cui era sottoposto Pio XII, quando ancora la glasnost non era penetrata nel recinto della Città Leonina.


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A parte il chiacchieratissimo archiatra pontificio (mi domando se la carica esista ancora), c’era un medico svizzero che, spalleggiato da persona vicinissima al pontefice, praticava terapie, che potremmo dire «alternative», in un clima da corte rinascimentale. Ho ripensato a questi episodi leggendo il libro in cui Agostino Paravicini Bagliani, che insegna storia medievale a Losanna, ha raccolto i suoi importanti scritti su Medicina e scienza della natura alla corte dei papi del Duecento (Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 488 pagine). Mi è capitato di scrivere di recente di questo studioso, in due articoli apparsi il 22 settembre sui supplementi alle edizioni del «Messaggero» per il Lazio settentrionale e il Lazio meridionale. In quella sede, ho riportato le conclusioni cui è giunto Paravicini Bagliani circa l’itinerario della corte pontificia nel XII secolo, quando per mesi e mesi i papi lasciavano Roma e si trasferivano a Viterbo, ad Anagni, a Montefiascone, a Segni, nonché in altre località dello Stato della Chiesa, che oggi vantano appunto la loro natura di «città papali» nei dépliant turistici. Contrariamente alle spiegazioni politiche avanzate in passato per spiegare questo fenomeno, Paravicini Bagliani ha potuto dimostrare che, ossessionati com’erano dalla loro salute fisica, i papi del tempo se ne andavano da Roma durante i mesi caldi perché cercavano l’aria buona. Una pratica allora inusitata, ma dopotutto innocente se paragonata ad altre terapie più specifiche cui essi sottoponevano se stessi nel dichiarato intento di prolungare la loro vita, oltre i limiti assegnati alla corruttibile natura dei discendenti di Adamo. Paravicini Bagliani è arrivato alla medicina papale un po’ per caso, come onestamente dichiara. È così, del resto, che avvengono spesso le scoperte anche in altri campi del sapere. Studiando anni fa, sistematicamente, i testamenti dei cardinali duecenteschi, aveva notato che i cardinali italiani, nel disporre della loro sepoltura, si preoccupavano di


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vedersi risparmiata la pratica della bollitura del cadavere, che, consentendo di separare le ossa dalle parti marcescibili, rendeva possibile il trasporto di quelle anche su lunghe distanze, evitando gli inevitabili inconvenienti igienici e olfattivi. Con molta maggiore disinvoltura, i cardinali francesi, allora molto numerosi, lasciavano invece fare, mostrandosi preoccupati soltanto del fatto che le loro ossa (in senso stretto) raggiungessero il luogo da essi prescelti come ultima dimora. È partendo da questa riscontrata differenza di «mentalità» che Paravicini Bagliani si è mosso alla scoperta di tutto un lato, rimasto finora nell’oscurità, della storia del papato nel secolo XIII, quello concernente il grande posto che nella vita dalla Curia di quel secolo hanno avuto la curiosità per le scienze della natura e, addirittura, gli studi veri e propri ad esse attinenti. Fino a oggi, non si poteva nemmeno immaginare che un tipo di interessi, che si sapeva benissimo essere stati coltivati alla corte siciliana di Federico II, fossero di casa anche a Roma, alla corte dei Papi. Probabilmente, ha giocato in tutto questo il pregiudizio positivistico e ottocentesco, che, legando la scienza al progresso e relegando per partito preso tutto ciò che sa di pretesco nel campo dell’antiprogresso, impediva di prendere in considerazione una serie di indizi che avvicinavano per molti aspetti i papi del tempo a quell’imperatore svevo, che essi passarono la vita a combattere a suon di scomuniche. In questi casi, c’è sempre il rischio di esagerare la portata di pretese scoperte, che poi vengono ridimensionate. Ma credo onestamente che, dopo gli studi di Paravicini Bagliani, l’immagine dei papi del secolo XIII, noti finora soprattutto per aver dotato la Chiesa di un elaboratissimo sistema giuridico, quale nessuno Stato secolare si sognava lontanamente di possedere, vada arricchita di quest’altro connotato. Oltre che giuristi, quei papi erano anche naturalisti. Con quanto


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giubilo per i molti che avrebbero desiderato dei papi semplicemente evangelici, non è difficile immaginare. In attesa, forse, di produrre un libro di sintesi, accessibile anche al grande pubblico, Paravicini Bagliani ha voluto raccogliere i molti scritti particolari che ha dedicato a questo argomento. Sono, i suoi, scritti molto eruditi, come si richiede quando si tratta di arare un terreno praticamente vergine. Così, per esempio, dovendosi parlare di medici dei papi, bisogna cominciare col contarli: ebbene, erano due nel 1287, tre nel 1300, ben sei nel 1302 (sotto Bonifacio VIII, che nel libro ha una parte predominante). Ma gli scritti più avvincenti sono quelli che concernono il tema della prolongatio vitae, del «prolungamento della vita», mediante la assunzione di oro potabile, la materia per definizione incorruttibile. Secondo il nostro autore, ciò che spingeva in questa direzione non era solo il comprensibile desiderio di ritardare il momento della morte, di vivere più a lungo. Ma, poiché la corruttibilità della carne veniva ritenuta una conseguenza del peccato di Adamo, si era convinti che si potesse ristabilire artificialmente, con pratiche adeguate, l’equilibrio corporeo che aveva caratterizzato il nostro progenitore, con conseguenze che andavano anche al di là della pur inevitabile morte fisica, e che si proiettava su quella che sarebbe stata la condizione della resurrezione dei corpi e del giudizio finale. Era questo l’orizzonte in cui si muoveva Ruggero Bacone. Poiché i primi destinatari dei suoi scritti furono, come ha stabilito Paravicini Bagliani, gli ambienti della Curia romana, alcune coincidenze non possono più essere fortuite, ma assumono il valore di una testimonianza.


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Il Messaggero, 9 settembre 1991 Classici/Con Vittore Branca nell’officina di Boccaccio Il Decamerone ritrovato L’italiano di oggi che voglia leggere il classico più godibile della nostra letteratura, che è il Decameron di Giovanni Boccaccio, non ha che da recarsi in una libreria e procurarsene un’edizione, possibilmente con commento, per esempio quella che Vittore Branca ha curato per la «Nuova Universale Einaudi». Se avverte un’esigenza del genere, il nostro ipotetico lettore deve essere una persona relativamente colta, qualcuno che, in tutt’altro campo di interessi, ha probabilmente seguito con attenzione le discussioni sulla bontà, o meno, del metodo con il quale si sta provvedendo a restaurare gli affreschi della Cappella Sistina. Sarei pronto a scommettere che egli non ha invece la minima idea delle complessità delle operazioni di restauro che sono state necessarie per consentirgli di leggere nell’anno di grazia 1991 il Decameron, in un testo abbastanza simile a quello licenziato dal suo autore. Chi non si accontenti del suo bravo Decameron «prêt-àlire», ma voglia dare un’occhiata al laboratorio al cui interno esso riceve di continuo le cure necessarie alla sua conservazione e al suo costante miglioramento – un po’ come nelle «fabbriche» delle nostre antiche cattedrali, una sorta di cantieri che non chiudevano mai –, può farlo agevolmente sfogliando le circa seicento pagine del secondo volume di Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, del già menzionato Vittore Branca (Edizioni di Storia e Letteratura, 95 mila lire). Il primo volume è uscito nel 1958. Basta aprire questo secondo per rendersi subito conto del perché esso si sia fatto tanto attendere. E l’autore ne annuncia già un terzo. Dal punto di vista erudito, ciò che fa il pregio di questo volume di Branca è il «secondo elenco di manoscritti» di opere, in genere, del Boccaccio, con la segnalazione di quasi


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cinquecento manoscritti nuovi rispetto al «primo elenco», apparso nel 1958, e la descrizione dettagliata dei manoscritti del solo Decameron, centotré per essere esatti, più una ottantina semplicemente indicati, perché «ora irreperibili». Anche nel «secondo elenco», gli irreperibili trovano posto accanto agli esistenti, con tutte le notizie possibili a favorire il loro auspicabile reperimento. Anche un aridissimo catalogo di manoscritti può riservare delle sorprese. Alle testimonianze in codici, scrive Branca in una nota, «si potrebbe aggiungere quella pure manoscritta, sulle quattro pareti di una piccola stanza nella fortezza Orsini di Sorano, della ballata “Io mi son giovinetta” (Decameron, Giornata nona, Conclusione), in parte rielaborata e con notazione musicale cinquecentesca a quattro voci (ciascuna su una parete). Vi sono anche decorazioni figurative». Borges avrebbe potuto trarne uno dei suoi impareggiabili racconti brevi. E dove sarà andato a finire un manoscritto delle Rime venduto all’asta, da Sotheby, il 9 luglio 1934, che fu «acquistato da Davis and Orioli, libreria che non esiste più»? Quando, verso la metà del secolo XIV, Boccaccio mise la parola fine al Decameron, c’era, pronto a decretarne l’immediata fortuna, un folto pubblico di lettori, e anche ormai di lettrici, come sarebbe stato impensabile soltanto un secolo prima. Nei secoli dell’alto medioevo si era sempre continuato a scrivere, ma, come ha dimostrato Erich Auerbach, era venuto meno, con la fine dell’antichità, il pubblico dei lettori. E quando, dopo il Mille, un pubblico cominciò di nuovo a formarsi, erano lettori di opere scritte in latino, mentre quelle in lingua volgare erano trasmesse per lo più oralmente. Ora appunto ai tempi di Boccaccio, un pubblico di lettori di opere scritte anche in volgare si era venuto ormai formando, ed è questo pubblico che, in particolare nella Firenze dei mercanti e degli industriali della lana e nella Napoli della corte angioina, entrò in uno stato di agitazione


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febbrile per procurarsi un esemplare di un’opera come il Decameron, che ambientata com’era nei giorni tragici della peste, pareva fatta apposta per aiutare a rimuovere un ricordo tanto penoso. Dai giorni dell’alto medioevo, anche se non si era ancora trovato un altro modo di fabbricare libri se non quello di copiarli con santa pazienza a mano, la produzione di manoscritti era uscita dal chiuso dei recinti dei monasteri per diventare un vero e proprio mestiere, adeguatamente retribuito. Ma i libri che uscivano dalle officine scrittorie erano di norma testi universitari, prodotti in serie con la garanzia della supervisione accademica, o opere di autori raffinati ed esigenti, che badavano più alla qualità che, diciamo così, all’entità della «tiratura», in vista del soddisfacimento di una richiesta di mercato. Così, a produrre in fretta Decameroni provvidero amanuensi improvvisati. Si comprende allora quanto grandi siano state le difficoltà incontrate dai filologi per ricostruire il testo del Decameron, sfigurato proprio perché troppo concupito dai suoi impazienti protolettori. Le pagine in cui Branca descrive questa straordinaria vicenda editoriale sono molto più avvincenti di qualsiasi cronaca della stanca vita letteraria dei giorni nostri. Ma si comprenderà soprattutto quale terremoto abbia provocato lo stesso Branca, quando, nel 1962, come racconta in un «Intermezzo autobiografico-narrativo» posto in appendice al volume, si è reso conto che un manoscritto del Decameron conservato a Berlino era veramente, come altri aveva già subodorato, autografo di mano del Boccaccio, che, verso il 1370, decise di rivisitare la sua grande opera giovanile, che non aveva evidentemente nessuna ragione di rinnegare. Ed è sull’autografo che si basa, da quel momento in poi, l’edizione del Decameron. Non senza però una serie di precauzioni. Copiando se stesso, Boccaccio, infatti, non solo è incorso in errori e omissioni, ma ha anche segna-


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to in margine ripensamenti, varianti, senza far sempre capire quale sarebbe stata la sua decisione finale. Per questa ragione, se l’individuazione dell’autografo ha fatto fare un grande passo avanti alla costituzione del testo del Decameron, questo cantiere è ancora aperto e non saremo certo noi a vederne la chiusura. Il Messaggero, 16 dicembre 1991 Medioevo/Prodi e leali, pronti a sfide impossibili per onore e per amore. Così Walter Scott, padre del romanzo storico, descrive gli eroi di quell’epoca in un celebre saggio ora ripubblicato. Ma guardava all’Europa Il ritorno dei cavalieri Dai «catafratti» (reparti di cavalleria pesante corazzata) degli eserciti romani tardo-antichi ai reggimenti di cavalleria polacca caricanti alla disperata contro i panzer tedeschi nel ’39; dagli equites di Roma repubblicana ai «paladini» di Carlomagno, ai cavalieri erranti alla ricerca di gloria (e di mezzi di sussistenza) nei tornei indetti dalle corti feudali, ai cavalieri, infine, «al merito della Repubblica», creati ogni anno con generosità dal Quirinale, la cavalleria e i cavalieri, atteggiati nelle forme più diverse che li renderebbero irriconoscibili gli uni dagli altri, attraversano da un capo all’altro la storia d’Europa. Ma in questa ideale, variopinta galleria di nostri antenati (e contemporanei) montati effettivamente a cavallo, o che dal più nobile degli animali facevano, e fanno, discendere, in modo più o meno immediato, la ragione essenziale del loro talvolta solo illusorio prestigio sociale, del loro sentirsi e volere apparire diversi, la sezione che spetta al medioevo, ai secoli in particolare che vanno dalla prima crociata all’Ariosto, è di gran lunga la più imponente. E, per necessità di cose, la «cavalleria» occupa negli studi medievali intesi nel senso più


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lato del termine (studi anzitutto di storia politico-sociale, ma anche di storia militare, religiosa, letteraria, della cultura materiale, della mentalità e dell’immaginario collettivo) uno spazio che, se non mi inganno, va sempre più allargandosi. Con la conseguenza, anche, almeno fino a qualche tempo fa, che il medioevo più tipicamente italiano, quello delle città-Stato rette a Comune, all’apparenza scarseggiante, oltre che di re, di cavalieri (l’accostamento è di Paolo Delogu), correva sempre più il rischio di apparire un’area marginale rispetto al cuore della civiltà medievale europea. Ma l’attenzione che viene ora rivolta agli aspetti «mentali» delle società del passato, nonché alle feste, ai giochi, all’uso del tempo libero, ha avuto come risultato di delineare un quadro della cultura «borghese», che veniva attribuita alle nostre città, molto più contaminato da elementi «cavallereschi» di quanto si ritenesse una volta. Sulla «cavalleria» medievale in genere e, ancora più, sul declino e corruzione finale dei valori e degli istituti su cui era fondata, nonché sul retaggio in complesso positivo che, oltre le autentiche ridicolaggini e infine storture che ne accompagnarono il lento tramonto, essa avrebbe lasciato all’Europa della prima rivoluzione industriale, viene ora proposto un prezioso reperto «archeologico», ripescato con un piccolo colpo di genio da Bollati Boringhieri: Walter Scott, Cavalleria, a cura di Enrica Villari, pagine XXII+113. L’autore, per chi non se ne fosse capacitato, è proprio lui, Walter Scott, l’inventore del romanzo storico, lo stesso celeberrimo autore del ciclo dei Romanzi di Waverly, che nel 1812 ricevette da un libraio-editore di Edimburgo, che aveva acquistato i diritti dell’Encyclopaedia Britannica, l’incarico di scrivere alcune voci, fra cui appunto «Cavalleria», per un progettato Supplemento, apparso poi nel 1824. Sarebbe un po’ come se il senatore Treccani fosse vissuto un secolo prima e avesse potuto commissionare a Manzoni le voci «Longobardi», «Peste», «Untori» per la sua Enciclopedia.


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Nell’introduzione, Enrica Villari, oltre a esplicitare i molti nessi che intercorrono fra singoli episodi di romanzi di Scott e gli esempi di virtù e vizi di cavalieri famosi che costellano il suo saggio storico, situa opportunamente quest’ultimo nella temperie culturale «tra Settecento e Ottocento», quando, in piena «polemica sul Medioevo» fra illuministi e protoromantici, il tema specifico della tradizione cavalleresca, i cui residui imbastarditi formavano ancora parte del paesaggio contemporaneo, costituiva uno dei principali pomi di discordia fra i due campi contrapposti. Questo spiega perché, sia nei romanzi che nel saggio, i limiti cronologici non siano gli stessi del medioevo, ma si estendano a coprire per intero secoli che oggi si sogliono chiamare delle società d’ancien régime: quegli stessi secoli che, avendo anche visto la progressiva decadenza della cavalleria originaria, erano il terreno battuto di preferenza dalla polemica illuminista. Nutrito fino al midollo di questa cultura, Scott muove da posizioni difensive. Il suo testo, strutturato come una voce di enciclopedia, è in realtà un pacato dialogo con i detrattori della cavalleria. Ai quali l’autore concede molto, proprio perché non può impedirsi di fare continuamente i conti con ciò cui si era ridotto a essere il costume cavalleresco in tempi che erano ancora quelli della sua giovinezza e oltre, dato che il vento dell’89 stenterà alquanto ad attraversare la Manica. Un passo delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia di Edmund Burke, riportato dalla Villari, è molto eloquente in proposito. L’apologia, a un tempo equilibrata e appassionata di Scott non si risolve però solo, come ci si potrebbe attendere da uno scrittore innamorato dei «soggetti» a lui più congeniali, nella rivendicazione perenne per la cultura europea di quello straordinario repertorio di prodezze, gradassate, prove d’amore, sfide all’impossibile, che è costituito dai romances medievali e della prima età moderna, il serbatoio inesauribile cui Scott, senza andare troppo per il sottile in fatto di genuinità e antichità dei singoli testi che adoperava,


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avrebbe attinto a piene mani la materia prima per i suoi romanzi. Una volta date per scontate le più ovvie degenerazioni moderne della cavalleria come istituzione (la tragica farsa dei duelli) e riconosciuti senza riserve mentali i suoi stessi innegabili vizi originari (la «superstizione» che degradava la religione dei cavalieri), il retaggio dell’etica cavalleresca medievale costituisce per sempre agli occhi di Scott un prezioso connotato antropologico del cittadino d’Europa, fatto di un «generale sentimento di rispetto per il sesso femminile», di un insieme di «regole di tolleranza e di decoro sociale», di affermazione del «dovere di dire la verità e osservare la cortesia», della convinzione, infine, «che, come non si può usurpare la proprietà di un altro senza renderne conto alla legge, così non se ne può violare l’onore personale, per quanto grande possa essere la differenza di rango, senza assumersi la responsabilità personale di un tale atto». Terre di elezione dell’ethos cavalleresco, dopo la grande avventura collettiva delle crociate oltremare, erano state la Francia e l’Inghilterra proprio nei secoli in cui non fecero che combattersi fra loro, ma sempre nel sostanziale rispetto di quelle tali norme. A dare il via alla decadenza sarebbe stata, ancora una volta in quei due paesi, la sopravvenuta stagione delle guerre intestine: prima, nell’isola inglese, la lotta dinastica fra gli York e i Lancaster («guerra delle due rose»), poi, nel regno continentale, le guerre di religione fra cattolici e ugonotti. In quelle lotte, condotte ormai senza risparmio di colpi, ogni regola era stata trasgredita, ma non tutto – come s’è visto – sarebbe andato definitivamente perduto, per noi posteri.


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Il Messaggero/Cultura, 2 gennaio 1992 Storia/Mendicanti ma ubbidienti. Così dovevano essere i francescani. E la Chiesa se ne servì nella lotta agli eretici. Ma quale era il «vero» messaggio del santo di Assisi? Le ultime risposte a una polemica secolare Il principe e il povero Di Giavanni Miccoli, autore di Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana (Einaudi Papebacks, XIII + 309 pagine, 35mila lire), a parte alcuni notevoli interventi su temi scottanti di storia della Chiesa contemporanea come l’atteggiamento del papato nella questione ebraica, erano noti soprattutto gli studi sulla «Chiesa gregoriana» e sull’età, in generale della «riforma della Chiesa» (seconda metà del secolo XI), che fu una delle fasi cruciali – per alcuni aspetti, forse la più cruciale di tutte – della storia ultraccidentata della Chiesa medievale. Ma Miccoli era anche autore di una serie di importanti saggi sulla «questione francescana» che, raccolti ora in questo nuovo volume, superano più che brillantemente la prova sempre insidiosa dell’assemblaggio. Un filo sottile, ma forte, collega gli studi gregoriani di Miccoli a quelli francescani. L’autore stesso, risparmiando al recensore la fatica di individuarlo, lo rende esplicito nel primo dei saggi, che ha per titolo: «Chiesa, riforma, vangelo e povertà: un nodo nella storia religiosa del XII secolo»; un nodo, in realtà, che questo secolo aveva ereditato dal secolo precedente. Al centro dell’idea che Miccoli s’è fatto del moto di riforma del secolo XI c’è infatti il convincimento che esso, in particolare nella fase acuta della «lotta per le investiture», abbia rimescolato nel profondo le acque della cristianità, liberando energie spirituali e destando aspettative di rinnovamento, che solo in parte avrebbero trovato una risposta nel compromesso globale cui la Chiesa avrebbe acceduto per necessità di cose nei primi decenni del secolo XII.


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Di là dall’impegno appassionato e, in senso buono, talvolta anche partigiano, che le sue pagine denunciano ad apertura di libro, Miccoli è troppo obiettivo per disconoscere che la Chiesa postgregoriana è, per molti lati essenziali, una Chiesa radicalmente diversa da quella «costantiniana» e «carolingia» di prima della riforma, ma è altresì fermo nel constatare che il compromesso finale aveva emarginato e disatteso una serie di forze, soprattutto gruppi e gruppuscoli di laici, e di istanze, compendiabili nel binomio «vangelo e povertà», cui il moto stesso aveva dato vita. Abbandonate a se stesse, esse avrebbero finito presto o tardi col cadere nel tranello della disobbedienza aperta nei confronti di Roma, che, per tutta risposta le avrebbe bollate col marchio infamante dell’eresia e, di conseguenza, perseguitate, ricorrendo anche largamente all’appoggio del braccio secolare. Così per uno di quei paradossi di cui è ricca la storia, la Chiesa (che tanto aveva combattuto per liberarsi dalle pastoie che, per secoli, l’avevano tenuta avvinta al mondo del potere e della ricchezza secolari) finiva col fare appello a questo stesso mondo cui si era illusa di poter voltare le spalle, per combattere gli eredi diretti di coloro che erano stati i suoi alleati più animosi nella fase calda del conflitto. Ma la risposta, per riuscire davvero efficace, non poteva essere soltanto quella della repressione armata. A venire in soccorso della Chiesa in quest’ora di gravissima crisi e a consentire l’avvio di un’evangelizzazione su nuove basi, operata però nel segno dell’obbedienza a Roma, sarebbero stati, nella prima metà del secolo XIII, gli ordini mendicanti, soprattutto i due fondati da Francesco e Domenico, destinati a un’espansione che ha in apparenza del prodigioso, ma che in realtà, si spiega col semplice fatto che, in particolare, i francescani adottarono come insegna quello stesso binomio di «vangelo e povertà» che era stato la divisa vincente dei devianti.


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Quando, alla metà del secolo, la Chiesa, per dare il colpo di grazia a questi ultimi, si doterà di un proprio apparato repressivo, l’Inquisizione, e la gestione di esso verrà affidata non solo ai domenicani ma anche ai francescani, non sorprende che da più parti si sia gridato allo scandalo e al tradimento. Si trattava, in effetti, di un nuovo compromesso fra autentiche, genuine istanze spirituali e dura esigenza di governo ecclesiastico e anche di conservazione sociale, che richiama per molti versi quello che un secolo prima aveva posto fine all’età della riforma della Chiesa. Nei suoi scritti francescani, Miccoli, in coerenza con la sua visione fortemente dialettica e antiprovvidenzialistica della storia della Chiesa, cerca di recuperare almeno alcune schegge della «realtà» dell’«esperienza cristiana» di Francesco. Anch’essa, come quella dei «patarini» del secolo XI, andò in buona parte smarrita e distorta. Non solo attraverso le vicende dell’«ordine religioso», che, mentre era ancora vivo, sarebbe sorto per inarrestabile geminazione spontanea, non senza beninteso la forte spinta di Roma, e senza che Francesco medesimo potesse (o volesse) impedirlo, dal piccolo gruppo informale di laici che si erano accostati a lui fino dall’inizio, per condividere la sua esperienza. Ma anche attraverso le astiose rivendicazioni, con cui, nella seconda metà del secolo e all’inizio del successivo, quando ormai il processo di normalizzazione poteva dirsi compiuto, i francescani dissidenti (spirituali, fraticelli) si sforzarono di recuperare e riproporre l’autentico Francesco delle origini. Senza, però, riuscire nel loro intento. Essi infatti non erano più in grado di misurare la distanza che li separava da lui se non altro sul punto basilare per cui l’impegno di seguire le vestigia di Cristo comportava, sì, anzitutto una sorta di autoemarginazione dalla società dei possidenti, dei potenti e dei sani, per abbracciare la condizione dei poveri, degli inermi e dei lebbrosi, ma senza venire meno per questo all’obbligo dell’«obbedienza» senza


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riserve, nei confronti, in questo caso, non del Padre celeste, come era stato per Cristo, bensì dei sacerdotes, che, soli, avevano il potere di rinnovare quotidianamente sugli altari delle chiese il sacrificio della croce. Miccoli affronta solo di sfuggita le peripezie della «memoria» concernente Francesco nella fase successiva al capitolo generale di Parigi del 1266, quando, con una decisione senza precedenti, venne decretata la distruzione di tutte le legendae del santo anteriori alla legenda, subito maior per definizione, redatta allora da Bonaventura, ministro generale dei Minori e loro massima gloria universitaria parigina, per tagliare corto alla polemiche sul «vero» Francesco, che rischiava di mettere in forse l’esistenza stessa dell’ordine. Concentra invece la sua attenzione sulla Legenda maior bonaventuriana medesima e gli altri numerosi testi, e brandelli di testi, precedenti, scampati all’autodafé parigino. Lo assiste nella sua ricerca un meditato e scaltrito ottimismo storiografico. Non è vero che la «memoria» francescana sia così irrimediabilmente contaminata dai riflessi della trasformazione dell’ordine e dalle aspre polemiche che l’hanno accompagnata, da rendere impossibile la ricostruzione, se non della biografia di Francesco, almeno dei tratti salienti della sua straordinaria «esperienza cristiana». Il criterio fondamentale cui Miccoli si attiene nel setacciare le discordanti testimonianze dei primi agiografi francescani, ciascuna studiata in se stessa senza il ricorso a tecniche combinatorie, è costituito dalla precedenza assoluta, rispetto ad esse, agli scritti del santo e, in particolare, al Testamento, sempre privilegiato a prescindere dallo stato d’animo di esacerbata amarezza in cui sappiamo che fu redatto. In conclusione, il Francesco d’Assisi di Miccoli, se deluderà i frequentatori di letteratura biografica (è tutto, infatti, tranne che una biografia), appassionerà certo chi ama nutrirsi di buoni libri di storia, pensata e indagata direttamente sulle fonti; stavo per dire, estorta con giusta,


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testarda determinazione alle fonti, che, da parte loro, in qualche caso sembrano mettercela tutta per ostacolare la ricerca della verità. Il Messaggero, 7 aprile 1992 Rinascimento/Lo splendore di Firenze e le origini della «nuova Roma» La corsa di Lorenzo, i passi di Martino V Quando, nel 1980, a Firenze fu celebrato l’anno Mediceo con una serie di mostre alcune delle quali memorabili, i visitatori più sprovveduti restavano in un primo momento delusi. «Medici» per una persona mediamente colta vuole dire anzitutto Lorenzo il Magnifico, l’autore dei Canti carnascialeschi e, al tempo stesso, l’«ago della bilancia italiana». E, invece, si trovavano di fronte i Medici della restaurazione cinquecentesca, i granduchi, da Cosimo I (morto nel 1574) in avanti, anch’essi – intendiamoci – grandi mecenati e collezionisti, tutt’altra cosa però dai loro progenitori quattrocenteschi. Con essi siamo infatti ormai nel pieno dei «secoli bui» della storia d’Italia, quelli durante i quali gli stranieri la facevano da padroni in casa nostra. Ma quest’anno ricorre il quinto centenario della morte di Lorenzo il Magnifico e Firenze ha predisposto per l’occasione una serie di mostre e convegni in cui anche il più universalmente noto dei Medici e l’età che prende il nome da lui verranno a trovarsi, a loro volta, sotto la luce dei riflettori, rubando attenzione allo stesso Cristoforo Colombo e alla sua scoperta. Con tanto parlare che si fa dell’Italia che si appresta ad entrare in Europa, deficit del bilancio e mafia permettendo, mi domando però se, nel messaggio che da Firenze verrà lanciato agli italiani, troverà presto, se non altro a titolo di scongiuro, la nota dolente costituita dal fatto che la data della morte di Lorenzo pre-


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cede di solo due anni la spedizione di Carlo VIII, re di Francia, che – com’è risaputo – conquistò l’Italia «col gesso», di cui si serviva per tracciare la pianta degli accampamenti in cui venivano collocate le sue truppe. In altre parole, bisognerà trovare il modo di dare rilievo anche all’altra faccia della «civiltà del Rinascimento», che è la mancanza di «unità morale» degli stati regionali italiani travolti da Carlo VIII, che lamentava Federico Chabod e, prima di lui, con diversi accenti, Francesco De Sanctis. «Subito morto Lorenzo, cominciarono a nascere quelli cattivi semi, i quali dopo non molto tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinarono, ed ancora rovinano la Italia». Sono le ultime parole delle Istorie fiorentine di Machiavelli, un grande libro di storia, sul quale sta per uscire per i tipi del Mulino una penetrante, originalissima analisi di Gennaro Sasso, che, fra i tanti altri, fa chiarezza su due punti. Anzitutto, Machiavelli vedeva così strettamente connessi il 1492 e il 1494 che ha esitato a lungo fra l’una e l’altra data come punto d’arrivo delle sue Istorie, tanto considerava la seconda «come il compimento e l’ultima perfezione della prima». Nonostante però ciò che sembrerebbe voler dire l’inciso della frase che abbiamo citata («non sendo vivo, ecc.»), lo stesso Machiavelli non avrebbe mai consentito a dare della morte di Lorenzo «causa per eccellenza della rovina d’Italia», un omaggio al luogo comune che circolava già ai suoi tempi, in quanto, pur riconoscendo al Magnifico doti spiccate di tessitore di trame politiche, individuava in lui un elemento del quadro di generale decadenza delle cose d’Italia che è delineato nel suo racconto. Sono curiose le conseguenze che il grande mito storiografico ottocentesco della «civiltà del Rinascimento italiano» ha avuto sulla comprensione globale della storia del nostro Paese nel basso medioevo. Tempo fa, Charles Radding, uno storico americano che ha scritto un libro importante sulle origini della giurisprudenza medievale fra Pavia e Bologna nel secolo


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XI, mi diceva che quasi nessuno dei medievisti suoi connazionali studiava storia italiana. Avendogli fatto presente che una porzione considerevole degli studi recenti su Firenze nei secoli XIV e XV la dobbiamo proprio a storici americani, mi ha risposto: «Ma Firenze non è medioevo, è Rinascimento!». A rimettere le cose a posto, senza nulla togliere, beninteso, alla gloria di Firenze, alla ineguagliabile ricchezza intellettuale e artistica nei due secoli circa che vanno da Dante a Machiavelli, stanno provvedendo quanti si dedicano allo studio di Rinascimenti non fiorentini. Trovandosi alle prese con esperienze meno intimidenti, perché al confronto di minore portata, questi studiosi, che sono ormai legione, corrono meno rischi di soggiacere alla forza del mito e sono, quindi, più portati a prendere le distanze dai contenuti delle loro ricerche, a non isolarne alcuni dal contesto che è offerto dalla storia dell’Italia tre-quattrocentesca. Nei giorni scorsi si è tenuto a Roma un riuscitissimo convegno, nel quale, una volta tanto senza attendere ricorrenze centenarie e senza clamore, è stata sviscerata a fondo la storia della città sotto il pontificato di Martino V (14171431) il papa cioè che, terminato il concilio di Costanza (1414-1418) e sanatasi la piaga dello scisma, è venuto, senza affrettarsi troppo, a prendere possesso della sua sede, chiudendo la fase di storia del papato che aveva avuto inizio poco più di un secolo prima, con il trasferimento della Curia ad Avignone e, al tempo stesso, mettendo anche fine – come è stato detto – alla storia di Roma medievale, intendendo con questo il periodo di storia cittadina in cui aveva potuto trovare posto un Cola di Rienzo. Il convegno si intitolava infatti «Alle origini della nuova Roma», la Roma capitale dello Stato pontificio, visto che la «vecchia», quella che papa Colonna aveva trovato arrivando, era ridotta in condizioni tali da non avere, agli occhi di qualche contemporaneo portato forse ad esagerare, quasi nemmeno più l’aspetto di una città degna di questo nome.


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La nuova Roma, che Martino inaugurava, era la Roma del Rinascimento, e «Roma nel Rinascimento» si intitola infatti la libera associazione di studiosi, fondata e animata da Massimo Miglio, che ha organizzato, con pochi mezzi e tanto entusiasmo, il convegno di cui si diceva. Nei lunghi decenni in cui Roma non aveva ospitato «corte» o l’aveva ospitata solo saltuariamente, la vita municipale aveva avuto un suo disordinato, incomposto rigoglio, intessuto di violenza endemica e di vagheggiamento dell’antico, di prepotenze baronali e di conati democratici, che costituiva lo sfondo su cui necessariamente sarebbe sorta la nuova costruzione avviata da Martino V. La sua abilità consistette nel sapere venire a patti, romano com’era e, per di più, un Colonna, col recente passato, confermando gli statuti del 1363, e nel cercare onorevoli compromessi con quanti, nell’assenza del papato, si erano fatti nel frattempo tumultuosamente avanti, enucleando un gruppo di soggetti disposti a collaborare con lui all’edificazione dell’ordine nuovo e valendosi, in particolare, dell’appoggio fidato di un cardinal fratello, Giordano Colonna, e della nobiltà locale di Genazzano, nonché del sostegno dei «bovattieri», il potente ceto dei mercanti di bestiame, riflesso cittadino dell’«economia del casale», ormai prevalente nell’Agro Romano. E il Rinascimento? Qualcuno di chiederà. Che c’entra con tutto questo il Rinascimento? C’entra sì, perché, se è vero che per il momento mancano a Roma le grandi imprese edilizie e le committenze che fanno scalpore, i cardinali reduci da Costanza si fanno eco delle scoperte di codici conservati oltralpe e i libri, i non molti libri, posseduti da papa Colonna confluiranno nelle biblioteche dei suoi successori, e la fondazione della Biblioteca Vaticana è solo questione di anni. Certo, la lastra tombale di Martino V in S. Giovanni in Laterano non sarà il prodotto di una bottega locale, come si credeva una volta. La sua importazione via mare e poi fiume da Firenze è attestata da un registro della


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dogana portuale romana, e molto probabile la sua attribuzione al grande Donatello. Ma ad ordinarla avrebbe provveduto un nipote del papa, un Colonna. Il Messaggero, 11 maggio 1992 Medioevo/Gli intraprendenti veneziani, i discendenti dei mercanti d’abbazia tra Loira e Reno, i Vareghi dell’Est. Sui protagonisti del decollo economico d’Occidente si discute in un seminario a Spoleto. E si scopre che… Non per solo profitto Economia di mercato o, semplicemente, «il mercato», con una sottintesa iniziale maiuscola dacché chi si è azzardato a farne senza ha fatto la miseranda fine che tutti sappiamo; ma anche, più terra terra, il mercato di Campo dei Fiori, dove mi reco tutte le mattine; o il mercato di Porta Portese che si tiene una volta la settimana; oppure le bancarelle di piazza Navona, il mercato che mette le tende ogni anno per la gioia dei più piccoli; o, ancora, le fiere campionarie sulla Cristoforo Colombo, sorta di mercati periodici, specializzati in un dato tipo di merci…; e l’elenco potrebbe continuare. Ma gli esempi dati fin qui sono sufficienti a dare l’idea di come sia vasta la gamma di «mercati» di cui è intessuta la nostra vita quotidiana. E, anche in questo caso, come per le università e i parlamenti e, per molti riguardi, per la Chiesa, i precedenti non sono da ricercare nell’antichità, bensì piuttosto nel medioevo. Così, come tema per la quarantesima «Settimana di studio», il Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto ha scelto quest’anno, molto opportunamente: «Mercati e mercanti nell’alto medioevo: l’area euroasiatica e l’area mediterranea». L’imponente estensione dell’ambito geografico preso in considerazione ha imposto agli organizzatori di sacrificare due aspetti, affrontati per altro in «settimane» precedenti,


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strettamente connessi a «mercati e mercanti»: la città e la circolazione monetaria. Ma sia nelle relazioni che nelle discussioni, l’uno e l’altro di questi due temi messi provvisoriamente fra parentesi si sono fatti largo con prepotenza. Non si comprende, del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti, dal momento che, se si danno mercati fuori della città, non si danno città, degne di questo nome, senza un mercato, e che, se si può sempre scambiare una merce, il senso comune ci insegna che è molto più agevole offrire in pagamento per la merce che desideriamo procurarci quella merce sui generis, per definizione fungibile, che è il danaro. Benché la «settimana» sia stata pianificata con la larga apertura nel titolo, era inevitabile che il sottofondo costante di più di un terzo delle relazioni che abbiamo ascoltate a Spoleto fosse rappresentato dall’ambizione degli occidentalisti di sostituire un nuovo modello a quello celeberrimo proposto dallo storico belga Henri Pirenne a partire dagli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e poi sintetizzato in Maometto e Carlomagno, apparso postumo nel 1937. In realtà, più che di un improbabile modello altrettanto coerente e esemplificatorio del pirenniano, che faceva discendere la pretesa paralisi dei traffici in Occidente dalla sopravvenuta egemonia marittima degli arabo-musulmani sullo spazio liquido che era stato il polmone della civiltà antica, si intravedono i lineamenti di una costruzione molto più articolata, anche perché nascente dalla giustapposizione di risultati concernenti aree geografiche diverse. Così, per esempio, dove Pirenne sottolineava il rilievo epocale dell’esaurirsi delle colonie di mercanti siriani ed ebrei che gestivano i terminali provenzali di un commercio mediterraneo a lunga distanza di merci pregiate, che venivano poi inoltrate nel continente attraverso il corso del Rodano, oggi si tende a insistere sullo spostamento verso Levante, lungo l’asse Venezia-pianura padana-passi alpini, di quella stessa corrente di traffici, senza però – e qui sta il punto essenzia-


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le – attribuire alla persistenza e all’irrobustimento di tale corrente un peso sproporzionato nella valutazione globale dello stato del commercio nei secoli dell’alto medioevo, anche se a Venezia è toccato, non a caso, l’onore di aprire i lavori della «Settimana» con ben due relazioni. Semmai, a minacciare la centralità delle colonie di mercanti di Marsiglia così care a Pirenne, sono oggi i grandi possessi soprattutto monastici di età carolingia, fra Reno e Loira, al cui interno si sarebbero sviluppate modeste attività commerciali, che avevano però per sé l’avvenire. Le merci scambiate, in questo caso, non erano prodotti di lusso destinati alle mense o alle alcove di pochi privilegiati, ma il surplus dei generi di prima necessità prodotti dal monastero medesimo, che suoi agenti sempre più specializzati – non, si badi bene, mercanti di professione – si adoperavano con crescente sistematicità a esitare sul mercato, facilitati dalle esenzioni di diritti doganali di cui i sovrani del tempo erano larghi nei confronti degli enti ecclesiastici. Lo stimolo alla diffusione di questo comportamento economico non era però offerto dalla ricerca del profitto (qui il catastrofismo fa ancora valere i suoi diritti), bensì dal bisogno impellente di procurarsi beni che facevano invece difetto, a cominciare dal vino, scarseggiante per ovvie ragioni climatiche alle latitudini più settentrionali, e pure indispensabile alla mensa eucaristica, nonché alle mense propriamente dette di monaci e canonici. La mancata ricerca del profitto portava con sé il rispetto del principio canonico del «giusto prezzo», che è per definizione agli antipodi del prezzo di mercato, determinato dall’equilibrio fra domanda e offerta, o che, come amavano piuttosto dire gli Arabi, è «nelle mani di Dio». Paradossalmente, è proprio nell’area geografico-culturale in cui si erano espansi quegli stessi arabo-musulmani cui il Pirenne imputava l’interruzione dei traffici mediterranei e, quindi, la fine tout court del commercio in Occidente,


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che il mercato conobbe i suoi maggiori trionfi in quegli stessi secoli dell’alto medioevo che, qui da noi, registravano per il momento solo gli incerti, ma promettenti, primi passi che si sono visti, a parte gli exploit di veneziani, amalfitani e, soprattutto, Vareghi, sui quali ci soffermeremo da ultimo. Al posto dell’agorà della polis ellenistica, luogo deputato alla trattazione degli affari pubblici e, solo marginalmente, allo scambio delle merci, subentrò, con l’avvento degli infedeli, la singolarissima simbiosi di moschea, dove si tenevano anche i giudizi, e mercato, dove, al riparo di una collaudata regolamentazione che escludeva però i prezzi di imperio, non solo non guardata con sospetto dall’autorità religiosa, come accadeva in terra cristiana, ma addirittura additata ai fedeli di Maometto come la forma più alta di sociabilità, preferibile all’ascesi. Ascoltando a Spoleto le relazioni dei colleghi arabisti, mi sono chiesto se questa simbiosi, di cui essi si sforzavano di mostrare la necessità strutturale, adducendo citazioni coraniche e testimonianze documentarie provenienti dai punti più remoti dell’impero islamico, si produrrà anche sotto i nostri occhi, dopo l’apertura al culto della nuova moschea di Forte Antenne. Confesso che l’idea di un suq, che potrebbe sorgere all’ingresso di Roma sulla Salaria, mi sembra particolarmente eccitante. Dicevamo i Vareghi. Sono quei Normanni che, approdati alle coste del Baltico e risalendo il corso dei fiumi, secondo la loro inveterata abitudine, hanno avuto una parte determinante nell’origine della Rus’ di Kiev, il primo stato russo. Grandi mercanti, hanno trafficato fra le loro terre d’origine e l’impero bizantino, o ciò che restava di esso dopo le conquiste islamiche, assolvendo più ad oriente una funzione analoga a quella che assolveva Venezia. Ma alla loro intraprendenza mancava un aspetto essenziale: la capacità di reinvestire il denaro accumulato. Nel Racconto dei tempi passati, una cronaca russa del secolo XII, si legge:


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«Quello stesso anno 1075 giunsero gli ambasciatori dei Germani da Svjatoslav; il principe, gloriandosi, mostrò loro la ricchezza sua. Essi vedendone una quantità immensa: oro, e argento, e sete, dissero: “Non vi è nulla in ciò, sono cose morte. È meglio possedere guerrieri. Gli uomini procacciano ancora più di questo». Il decollo economico dell’Occidente medievale avrebbe avuto come protagonisti i discendenti dei mercanti d’abbazia che abbiamo incontrato fra Loira e Reno, o i più intraprendenti veneziani, non certamente questi accumulatori di sterili tesori. Il Messaggero, 26 maggio 1992 Storia/Ricordo di Gina Fasoli, decana degli studi sul Medioevo Una veneta alla corte di Carlo Magno Il 18 maggio, all’età di ottantasette anni, si è spenta a Bologna, sua città di adozione universitaria, Gina Fasoli, una delle figura di spicco della nostra storiografia medievistica. Ancora il 29 aprile, la «signorina Fasoli», come usavano chiamarla con il rispetto che pretendeva, e meritava, anche colleghi non più propriamente giovani, aveva tenuto a Spoleto il discorso di chiusura della settimana di studi su «Mercati e mercanti». Una riprova, questa, della grinta che non ha fatto difetto fino all’ultimo a una persona per natura gentile e veramente aggraziata come lei e che, suppongo, deve avere sfoderato, quando, nel corso degli anni Quaranta, percorse le tappe della sua carriera accademica, venendo alle prese con il manipolo di professori burberi e più o meno inconsapevolmente misogini, che allora tenevano il campo. Non a caso, fu la prima donna in Italia a coprire una cattedra universitaria di storia. Veneta di Bassano del Grappa, qualche anno fa, in un libretto fuori commercio, Le cose raccontano, ha messo a


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frutto il gusto che aveva sempre avuto per i Realien o, se si preferisce, la «cultura materiale», ricostruendo, a partire dagli oggetti di sua proprietà sopravvissuti a due guerre mondiali e alle vicende che travagliano la vita di ogni famiglia, l’ambiente di colta borghesia provinciale in cui era nata e aveva trascorso la sua giovinezza. Ma lo stimolo alla storia è venuto dall’ombra del «crudele tiranno» Ezzelino da Romano, ancora incombente su quelle ridenti contrade pedemontane nei racconti tramandati da generazioni. Senza essersi mai lasciata andare a parlare con enfasi di «cultura delle classi subalterne», la Fasoli ha sempre avuto un occhio di riguardo per quelle che una volta si chiamavano bonariamente le «tradizioni popolari», occupandosi fra l’altro di quelle relative a Carlo Magno in Italia e a re Enzo, il figlio di Federico II imperatore, prigioniero dei bolognesi. Ricordo l’attenzione che mi ha prestato il giorno in cui le ho suggerito la possibilità che il detto secondo cui l’«erba voglio non nasce neanche nel giardino del re» potesse essere in qualche modo collegato con il famoso capitolare nel quale Carlo Magno fa l’elenco dettagliato delle moltissime erbe che dovevano essere coltivate negli orti delle sue tenute. Di Bassano la Fasoli ha pubblicato gli statuti del 1259, ma dopo avere pubblicato quelli bolognesi del 1288, Bologna essendo la città in cui ha compiuto i suoi studi, nonché la sede in cui si è poi svolta la massima parte del suo magistero universitario. Le pubblicazioni di fonti erano penso allora indispensabili per uno studioso con ambizioni universitarie. Ma, sia in un caso che nell’altro, le edizioni furono solo la premessa per ricerche originali, da un lato, sulla Marca Trevigiana nei decenni che precedettero, accompagnarono e tennero dietro all’apparizione di Ezzelino, e dall’altro, su Bologna duecentesca, che, proprio in gran parte per merito suo, si è affiancata nella visione d’insieme dell’Italia comunale a Firenze, elevata pour cause (in quan-


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to «Firenze di Dante»), ma a torto, caso unico, senza possibili riscontri. E, accanto a Bologna, Venezia, indagata nelle strutture atipiche del suo Comune, nelle voci dei suoi primi indecifrabili cronisti, nel mito cui questa città palafitticola, lagunare e marinara ha dato subito origine. Ma, siccome ai tempi della Fasoli i professori non percorrevano tutta la carriera nella stessa sede, eccola farsi per qualche tempo storiograficamente siciliana. Il suo libretto sui cronisti isolani sta per essere ristampato per iniziativa di Ovidio Capitani. A Spoleto, presso il Centro di studi sull’alto medioevo, di cui è stata una colonna, la Fasoli ha continuato a coltivare i suoi interessi per i secoli più oscuri dell’età di mezzo, che, ancora negli anni Quaranta, si erano concretati nei due libri sulle Incursioni ungare in Europa nel secolo X e sui Re d’Italia, quelli del cosiddetto «regno italico indipendente», da Berengario del Friuli ad Arduino d’Ivrea. Una produzione, insomma, la sua, varia, senza essere dispersiva, in significativa antitesi alla tendenza alla specializzazione, oggi imperante. Un esempio, anche di costante autoaggiornamento metodologico, con una certa civetteria nel prendere le distanze dalle mode correnti, magari anticipandole, ma sempre con modestia, senza menarne vanto. Il Messaggero/Cultura, 11 giugno 1992 Processo a Paolo e Francesca/A Ravenna, un “tribunale” di studiosi riesamina il quinto canto dell’Inferno e il dramma dei mitici amanti. Con un interrogativo: dove e quando il poeta ne venne a conoscenza? Dante e le dame galeotte Anzitutto, i fatti o, per meglio dire, quel tanto di sfondo che le testimonianze coeve fanno intravedere del fattaccio in sé – l’adulterio e la vendetta del tradito – del quale


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peraltro riferisce solo Dante, cui vengono prontamente dietro i commentatori antichi del poema, ma soltanto con illazioni e ampliamenti arbitrari. Nella Romagna degli anni Settanta del secolo XIII, su cui grava la minaccia di possesso papale, Guido da Montefeltro, uno dei tanti signori feudali dell’Appennino, organizzò da Forlì la resistenza contro l’assorbimento nello Stato della Chiesa. La conquista di Cervia, con le sue saline che facevano gola anche ai veneziani, se rafforzò dal punto di vista economico la posizione dei ghibellini romagnoli, ebbe l’effetto di allarmare Ravenna, dove scoppiarono tumulti e Guido Minore da Polenta ne approfittò per affermare la sua signoria sulla città. Gli diede manforte, mettendo a tacere antiche rivalità, Gianni Ciotto («zoppo»), o Gianciotto, Malatesta, signore di Rimini. Si può presumere che, vuoi per riconoscenza, vuoi per consolidare quell’inattesa alleanza dettata dalla sopravvenuta comunanza di interessi, Guido abbia dato in sposa a Gianciotto la figlia Francesca, o Franceschina. Va da sé che questa presumibile genesi politica dell’unione matrimoniale destinata a così funesto destino, non viene addotta a scusante dell’adultera. A quei livelli politico-sociali, i matrimoni, tutti i matrimoni, erano pattuiti passando sopra la testa degli interessati. Nel caso in questione, abbiamo se non altro la certezza che il matrimonio fu consumato. Ne nacque infatti Concordia. Sappiamo anche che Paolo, il fratello di Gianciotto che insidiò la cognata, era sposato con Orabile Beatrice, contessa di Ghiaggiolo, dalla quale ebbe due figli. Capitano del popolo a Firenze dal febbraio 1282 al febbraio 1283, Paolo Malatesta poté avere avuto l’occasione di conoscere Dante, che allora viveva però ai margini della vita politica. La sua trasferta fiorentina preluse di poco al compimento del dramma.


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Fattosi di sua mano vedovo, Gianciotto passò ad altre nozze, anch’esse «politiche». Sposò già l’anno dopo la faentina Zambrasina Tebaldelli, vedova di Ugo dei Fantolini e figlia di Tebaldello Zambrasi: entrambi personaggi danteschi, il primo citato fra i romagnoli del buon tempo antico, la cui discendenza non era assicurata; il secondo sprofondato nell’Antenora, fra i traditori politici, per aver fatto entrare i guelfi bolognesi a Faenza «quando si dormìa». A conferma indiretta del carattere politico dell’unione matrimoniale fra Francesca da Polenta e Gianciotto Malatesta, va aggiunto che, nonostante l’incidente in cui incorse la prima, i rapporti fra i signori di Ravenna e i signori di Rimini non tardarono a venire ristabiliti, stante la perdurante comunanza di interessi. In un intervento recente Ignazio Baldelli formula un’ipotesi molto convincente circa il dove, il come e il quando Dante sarebbe venuto a conoscenza del dramma coniugale accaduto a Rimini. Com’è noto, nell’incertezza in cui ci troviamo circa la tappa dell’esilio del poeta, un punto fermo è costituito dalla sua presenza nel Casentino, alla corte dei conti Guidi di Romena, nella primavera del 1304. La presuppongono la prima delle Epistole dantesche, che risulta scritta a nome di Alessandro di Romena, capitano di parte bianca e la seconda che fu inviata a breve distanza dalla prima da Dante in persona ai fratelli Oberto e Guido di Romena, per condolersi della scomparsa del loro zio Alessandro, la cui liberalità – precisa – aveva sperimentato da molti anni. Ora, alla corte dei Guidi di Romena vivevano due personaggi femminili variamente, ma strettamente connessi con la tragedia: Margherita, figlia di Paolo Malatesta, che aveva sposato Oberto Guidi; e Caterina, figlia di prime nozze di Zambrasina di Tebaldello Zambrasi, andata poi sposa al vedovo Gianciotto, che aveva sposato il già menzionato Alessandro, zio di Oberto. Nella disperante oscuri-


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tà in cui spesso ci veniamo a trovare quando si tratta di indicare le fonti cui può avere attinto Dante, le precisazioni fornite da Baldelli hanno la luminosità di un faro. Ma – l’amico non se ne abbia a male – c’è un altro punto del suo intervento che mi ha colpito di più. È il passaggio in cui Baldelli accosta la terzina con cui Dante, prima di venire a Paolo e Francesca, conclude e chiosa l’elenco delle «più di mille ombre» di morti per amore nei tempi passati, prospettatogli da Virgilio, alle parole con cui Guido del Duca, nel canto XIV del Purgatorio, presenta i nobili romagnoli di un passato non altrettanto remoto, ma – se così si può dire – ancora più irreversibile. A Inferno V, 70-72, Dante scrive: «Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito». A Purgatorio XIV, 103-111, Dante scriverà: «Non ti meraviglia s’io piango, Tosco, / … / le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ‘nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor sono fatti sì malvagi». Baldelli fa notare come la stessa formula con cui Dante commenta la lista di Virgilio (“noma le donne antiche e’ cavalieri”) «definisce i nobili romagnoli del passato nelle parole di Guido del Duca, nel ricordo nostalgico appunto della illustre nobiltà romagnola del passato, anche vicino: l’amore di Francesca sarà da vedere come vitale proiezione di quell’amore e di quella cortesia». Questo commentare Dante con Dante mi sembra più produttivo di ogni altro tipo di approccio, su sui incombe sempre il rischio dell’arbitrio interpretativo. Ma per tornare ai conti Guidi di Romena, alla cui corte Dante avrebbe sentito della tragica fine di Paolo e Francesca, fu certo uno strano destino quello per cui (molti anni dopo avere avuto notizia dell’accaduto in una delle prime tappe dal suo esilio) probabilmente il poeta avrà risentito parlare del caso, reso celebre dai suoi versi immortali, nella Ravenna cui approdò verso il 1318, per finirvi i suoi giorni, alla corte di


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Guido Novello da Polenta, figlio di Ostasio, fratello della sventurata Francesca. Il Messaggero, 21 luglio 1992 Non solo Colombo/L’irresistibile ascesa del regno di Castiglia Chi dice Spagna dice Isabella Il 1992 è l’anno di grazia della Spagna, grazie soprattutto alla ricorrenza del quinto centenario della scoperta dell’America, un’impresa promossa e finanziata dal regno di Castiglia. Ma poiché il protagonista dell’impresa, Cristoforo Colombo, era, come nessuno ormai sembra mettere in discussione, un genovese, ecco che anche l’Italia ha titolo per farsi avanti e contendere alla Spagna la parte che le spetta di diritto nelle celebrazioni dell’anno in corso. Si deve però subito aggiungere che né la Spagna ha solo questo motivo per appropriarsi (nel bene e nel male) del ’92, né l’Italia può sentirsi coinvolta nel ricordo di ciò che accadde cinquecento anni fa solo per il fatto di avere dato i natali al «più grande navigatore di tutti i tempi». È quanto si ricava dalla lettura molto istruttiva del bel libro del francese Joseph Pérez, il cui titolo, Isabella e Ferdinando (SEI, Torino 1991, pp. XII + 407, lire 35.000), nell’edizione italiana è stato inspiegabilmente amputato del sottotitolo esplicativo Re cattolici di Spagna. Il matrimonio, nel 1469, fra Isabella, erede legittima del regno di Castiglia, e Ferdinando, erede del regno d’Aragona e da un anno re di Sicilia, è considerato a ragione l’atto di nascita della Spagna moderna. Fino a quel momento, la carta geopolitica della penisola iberica era abbastanza frastagliata. Anzitutto la «corona di Castiglia», vasto complesso territoriale estendentesi dalla costa cantabrica allo stretto di Gibilterra, articolato in una pluralità di regioni, o «regni» (Castiglia, León, Galizia, Toledo, Córdoba,


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Murcia, ecc.), che, ad accezione delle autonome province basche, costituivano un insieme abbastanza omogeneo. Poi la «corona d’Aragona», con il regno omonimo, il principato di Catalogna e il regno di Valencia. Inoltre, il regno di Portogallo, il regno pirenaico di Navarra e, infine, all’estremo sud, l’emirato musulmano di Granata. All’apparenza, un mosaico di stati non molto diversi da quelli che costellavano allora la carta geopolitica della penisola italiana. Ma, a fare la differenza, avrebbe provveduto la Castiglia, con la sua forza militare forgiata durante i secoli della Riconquista e con la richiestissima lana delle sue greggi. «Lo Stato spagnolo moderno», insiste Pérez, «è essenzialmente uno Stato castigliano». Eppure, alla vigilia delle nozze del 1469, un’aristocrazia riottosa e ultrapotente, e i monaci-soldati degli ordini militari, protagonisti della Riconquista e arricchitisi in proporzione ai loro incontestabili meriti guerrieri, erano ancora in condizione di ridicolizzare il re di Castiglia, Enrico IV. Ad Avila, nel 1465, un fantoccio con la corona in testa e lo scettro in mano, raffigurante re Enrico, venne spogliato a turno per dileggio degli attributi della regalità dai più alti esponenti del clero e dell’aristocrazia castigliani. Non si deve però pensare che la Spagna sia nata come per miracolo dalle nozze di Isabella e Ferdinando. A parlare di «Spagna», e a temerla, saranno per primi gli stranieri. Nel Nuovo Mondo, le «Indie» – dove Colombo ritenne di essere sbarcato – erano proprietà della «corona di Castiglia», e aragonesi, catalani, valenziani, assimilati agli altri stranieri, erano esclusi dai profitti coloniali. Isabella continuò a essere la sola «padrona» del regno di Castiglia, ma il suo «legittimo sposo», non accettò di ridursi nei panni di un principe consorte. I documenti ufficiali iniziavano tutti con la formula: «il re e la regina hanno deciso», ciò che farà scrivere a un bello spirito del secolo seguente: «quel giorno, il re e la regina hanno partorito una figlia».


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Senza innovare granché, bensì limitandosi a razionalizzare l’esistente, i «re cattolici», come li battezzò papa Alessandro VI per distinguerli e, al tempo stesso, equipararli al «cristianissimo» re di Francia, operarono un’inversione di tendenza a livello di esercizio del potere regio, che, nel corso di una generazione, avrebbe fatto della Spagna una potenza europea. Ad accorgersene per primi furono sulla loro pelle gli italiani, precoci testimoni degli accorgimenti tattici messi in atto dal Gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba per tenere testa alla finora invincibile cavalleria francese. Il Gran Capitano era un castigliano, che Ferdinando aveva portato su un teatro di operazioni, l’Italia meridionale, appartenente per tradizione all’area d’espansione mediterranea aragonese. Ma, non a caso, era stato proprio durante la decennale campagna per l’eliminazione di ciò che restava della dominazione musulmana nella penisola iberica che il Gran Capitano aveva dato la prima prova di sé. Tutti presi dal viaggio del «nostro» Colombo, siamo portati a trascurare il fatto che, qualche mese prima della sua partenza, era caduta Granata. Le due caravelle e la terza imbarcazione, molto più pesante, la Santa Maria, su cui si imbarcò l’«ammiraglio del mare Oceano» salparono da Palos il 3 agosto 1492, solo pochi mesi dopo che il regno di Granata era stato annesso alla corona di Castiglia. «La scoperta», scrive Pérez, «è dovuta all’incontro eccezionale del genio e della necessità storica». Il genovese, che aveva in precedenza visto bocciare il suo progetto rischioso e costoso, poté riproporlo con successo nel clima di esaltazione religiosa collettiva per la vittoria di Granata, che esigeva che la crociata contro i Mori di casa avesse un seguito oltre Oceano, dove altri pagani attendevano la parola del Vangelo. Per questo, Pérez può scrivere che «la conquista americana mantiene la Spagna (o almeno la Castiglia) entro strutture mentali che sono quelle del medioevo».


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A immetterla nell’età moderna in ciò che ha di più riprovevole ai nostri occhi, è stato invece il terzo evento che caratterizza in Spagna questo fatidico 1492: l’espulsione degli ebrei, che precedette la conversione forzata dei musulmani di Granata (1502). Aveva così termine quella convivenza pacifica fra i fedeli delle tre religioni monoteiste, che, prodotta dall’esigenza di ripopolare le terre via via strappate ai Mori, aveva contrassegnato la Spagna del basso medioevo. Ancora negli anni trenta del secolo XV, un professore dell’università di Salamanca aveva potuto lanciarsi nell’impresa di un’edizione trilingue (latino, araba, castigliana) del Corano. Ancora, addirittura, nel 1514-1517 vedrà la luce la Bibbia complutense, che riproduce il libro nelle tre «lingue sacre», ebraico, greco e latino, nonostante che nella sola Salamanca, per ordine dell’Inquisizione, fossero stati bruciati nel 1490 più di seimila Bibbie e libri ebraici. In assenza di altri cementi unitari, il nascente stato moderno puntava sull’unità della fede. E la Spagna che, nei secoli del medioevo, aveva costituito una felice eccezione di fertile convivenza di fedi diverse, con l’espulsione del 1492 non faceva che rientrare tristemente nella norma degli altri stati europei in via di diventare moderni. Il Messaggero/Cultura, 3 agosto 1992 Cinquecento anni fa cominciava l’avventura di Colombo/Il 3 agosto 1492 la Pinta, la Niña e la Santa Maria salpavano dal porto di Palos. Obiettivo: trovare un’altra via per le Indie. E arrivarono in America Sbagliando si scopre Anche senza voler fare della psicologia a buon mercato, è lecito pensare che, quel 3 agosto 1492, quando le tre imbarcazioni salparono dal piccolo porto di Palos, l’«ammiraglio del mare Oceano», come Colombo aveva preteso di venire


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designato, dovette tirare un gran sospiro di sollievo. Anni di delusioni, di porte bussate invano, di umiliazioni; logoranti trattative per assicurarsi le migliori condizioni, una volta ottenuto inaspettatamente, tre mesi prima, l’assenso regio; febbrili preparativi per armare le navi in quella remota cittadina che non contava più di tremila abitanti, in gran parte pescatori: tutto questo Colombo se lo lasciava ormai dietro le spalle. Per di più, l’immediato futuro non contemplava il salto verso l’ignoto, che l’impresa testardamente voluta comunque comportava, bensì, per il momento, solo una tranquilla, già sperimentata navigazione verso le non lontane Canarie, dove il 6 settembre, riparate le prime avarie e imbarcati viveri freschi, sarebbe stato spiccato il gran volo, alla latitudine ch’egli sapeva (ma come? da chi?) – o aveva genialmente intuito – essere la sola adatta al viaggio di andata. Apprestiamoci, dunque, a celebrarlo, cinquecento anni dopo, questo fatidico 3 agosto, per quello che è davvero stato: da un lato l’inizio di una specie di marcia di avvicinamento al campo-base; dall’altro, ed è ciò che più conta, come la fine della fase di preparazione dell’impresa, altrettanto travagliata di quella che sarebbe stata la sua realizzazione. Rendere conto, seppure in breve, dei fattori che avevano ritardato fino a quel momento, e in quel preciso momento resero possibile, la «scoperta dell’America», richiede necessariamente che uno si avventuri in campi diversissimi e non sempre comunicanti fra loro, come quelli che attengono, almeno, al dominio delle culture materiale e intellettuale del basso medioevo; della storia delle esplorazioni di rotte e terre fino allora sconosciute, che non comincia certo col ’92; di quella dei traffici commerciali ad essa strettamente connessa, di quella, ancora, delle relazioni fra gli Stati della penisola iberica; di quella, infine, della fase terminale della Riconquista e delle attese di carattere messianico che essa suscitò, soprattutto nell’ambiente degli ordini mendicanti spagnoli.


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Senza nulla togliere allo spirito di intraprendenza, alla fede testarda da autodidatta, alla lungimirante fantasia, al coraggio straordinario e alla eccezionale perizia nautica: in una parola abusata, alla personalità di chi ideò e realizzò l’impresa, nessuno infatti potrebbe mettere in dubbio come Colombo si trovasse ad essere l’uomo giusto nel momento giusto. Le attrezzature che hanno consentito agli Stati Uniti l’allunaggio furono predisposte sotto i nostri occhi in una spasmodica gara contro il tempo, per impedire che altri facesse prima. La più parte di quelle che consentirono la traversata dell’Atlantico, a cominciare dalla bussola, erano già disponibili dal secolo XIII, messe a punto e sperimentate in quel grande laboratorio nautico che era stato il Mediterraneo fino dai tempi della più remota antichità. Ma i marinai di questo mare esitavano a cimentarsi, come l’Ulisse dantesco, oltre le Colonne d’Ercole. Sarebbero stati i loro confratelli baschi e portoghesi a escogitare soluzioni inedite, meglio adatte all’incipiente navigazione atlantica. Fu così che la «caravella», con la sua linea di galleggiamento situata molto in alto che ne assicurava la stabilità, rimpiazzò la veloce e leggera «galera», candidandosi per le esplorazioni di nuovi mondi, che richiedono di imbarcare vettovaglie sufficienti per lunghi percorsi senza scalo, inimmaginabili per le marinerie mediterranee. Ma delle tre navi che salparono da Palos, con a bordo ottantasette uomini, due sole erano caravelle (Pinta e Niña); la Santa Maria, con un equipaggio di trentanove unità, compreso Colombo, era un’imbarcazione molto più pesante (stazzava cento tonnellate). Avrebbe fatto cattiva prova, andando perduta alla vigilia del viaggio di ritorno. Nel 1486, quando Colombo, dopo avere visto respingere il suo progetto dalla corte di Lisbona, lo ripropose a quella di Castiglia, erano stati i maestri, chiamati in causa, dell’università di Salamanca a bocciarglielo. Anche se i fatti gli avrebbero dato, alla fine dei conti, ragione, sarebbe


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ingiusto ridurre questo conflitto di opinioni nei termini semplicistici di uno scontro fra la miopia di un establishment accademico e l’apertura mentale di un innovatore. Sul piano scientifico, sbagliavano sia gli universitari che Colombo: quelli aggrappati al culto superstizioso del sapere degli antichi, questo forte solo delle letture disordinate di un autodidatta (ma sempre libri erano), portato a piegare i testi alle sue intuizioni, non certo vessillifero di un sapere fondato solo sull’esperimento. Dio, o la fortuna che premia gli audaci, gliela mandò buona lo stesso, ma sta di fatto che, quando concepì il suo progetto, Colombo era convinto, per volere dar retta al geografo antico Marino di Tiro, e non a Tolomeo, e al suo Marco Polo, che l’estremo lembo dell’Europa distasse da Cipango, dove si riprometteva di approdare, centocinque gradi e non centottanta; e che il grado terrestre corrispondesse non a sessanta, ma a cinquanta miglia marine, come riteneva a torto di aver letto nel passo, frainteso, di un astronomo arabo del secolo IX. Due errori che, sommati, facevano una bella differenza. Salvo che la sua vantata «erudizione» non fosse l’abile copertura di preziose confidenze segrete, raccolte frequentando i marinai di Lisbona e Madera, esse sì fondate sull’esperienza. A Lisbona, dove s’era inizialmente rivolto, Colombo non aveva trovato ascolto, benché il Portogallo, raggiunto (in anticipo sugli altri Stati della penisola) un assetto conveniente sotto la nuova dinastia degli Aviz, fino dagli inizi del secolo si fosse dedicato a cercare oltremare quelle possibilità di espansione che la confinante Castiglia gli precludeva sulla terraferma iberica. Dapprima, di là dello Stretto di Gibilterra, in Marocco, ma senza successo; poi, con migliore fortuna, negli arcipelaghi dell’Atlantico (Madera, Azzorre, Capo Verde); infine, spingendosi sempre più a Sud lungo le coste dell’Africa occidentale, alla ricerca di una nuova «via delle Indie» che soppiantasse quella tradizionale che passava attraverso il Golfo Persico e il Mediterraneo e aveva fatto la fortuna dei mercanti veneziani.


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Anche Colombo aveva da vendere il progetto dell’apertura di una nuova «via delle Indie» (il miraggio era sempre quello), navigando però verso Ovest, a partire dalle Canarie e alla latitudine delle Canarie. Ma, anche a prescindere dal fatto non trascurabile che alle Canarie erano arrivati per primi i castigliani, come si poteva pretendere che i portoghesi prendessero in considerazione un progetto che, se condotto a buon fine, avrebbe reso subito obsoleto quello che, dopo tanti sforzi, era in vista del traguardo finale? Fu nel 1487 che Bartolomeo Diaz scoprì il Capo di Buona Speranza… Mescolato alla folla, il 2 gennaio 1492, Colombo, che non si trovava lì proprio per caso, assisté all’alzabandiera del vessillo di Ferdinando di Castiglia sulle torri dell’Alhambra di Granata. La Spagna era ormai tutta cristiana. È nella prospettiva ancora medievale di nuove conquiste spirituali da effettuarsi oltremare, e non in quella moderna dell’economia-mondo, che, poco più di tre mesi dopo, un genovese caparbio riuscì a strappare il sì dei re cattolici per la sua impresa temeraria, che avrebbe portato a ben altro che a una conquista di anime. Il Messaggero, 9 agosto 1992 Vite spericolate/La leggenda di Ghino di Tacco nella tradizione letteraria medievale Che ladro, è un vero gentiluomo In Ghino di Tacco nella tradizione letteraria del medioevo (Salerno Editrice, 118 pagine, 16 mila lire), Bruno Bentivogli ha raccolte e commentate con cura e sobrietà le testimonianze tre e quattrocentesche (una anche dell’inizio del secolo XV) relative al brigante gentiluomo senese. Nonché, in una prima appendice, due episodi concernenti Ghino tratti dalla ottocentesca Battaglia di Benevento del democratico e neo-


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ghibellino romanziere livornese Francesco Domenico Guerrazzi, e le due stesure di una non felice prova poetica giovanile su Ghino di Giovanni Pascoli, ispirata al Guerrazzi stesso. E, in una seconda appendice, il saggio di Giovanni Cecchini, apparso nel 1957, dove Ghino, a prezzo di un’esplorazione degli «enormi registri (alcuni superano le mille carte) dei repertori delle condanne pronunziate dalle varie magistrature senesi», è stato finalmente restituito alla storia di Siena degli ultimi decenni del Duecento, cui appartiene di diritto, per quanto modesto, e tutt’altro che fuori dell’ordinario, sia il posto che effettivamente gli spetta. Benché «fra i briganti gentiluomini di epoca medievale dei quali la letteratura europea ha variamente celebrato le gesta leggendarie, Ghino di Tacco possa vantare il privilegio non comune della sicura consistenza storica», è infatti incontestabile che, finché Cecchini non intraprese l’esplorazione archivistica di cui si diceva, preceduto nel 1921 (centenario dantesco!), da un confratello meno solerte, l’immagine di Ghino era tutta e solo affidata alla «tradizione letteraria». Non un cronista contemporaneo che ne faccia cenno. E, quando l’ignoto autore degli Annali senesi (primi decenni del Quattrocento) si risolse a rompere il silenzio, lo fece attingendo soprattutto alla novella del Decameron nella quale si narra come «Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e medicalo del male allo stomaco e poi il lascia» – il testo, sia detto qui di passaggio, che costituisce di gran lunga il pezzo forte delle silloge di Bentivogli. All’inizio delle fortune di Ghino ci sono due versi del sesto del Purgatorio, dove Dante, fra i morti di morte violenta che fecero appena in tempo a invocare il perdono divino, incontra un aretino «che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte». Il malcapitato è il giudice Benincasa da Laterina, che vicario nel 1285 del podestà di Siena Guido da Battifolle, aveva fatto catturare, e poi torturare e giustiziare, Tacco di Ugolino, padre del nostro Ghino, un signore del


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contado, bandito da tempo dal comune senese e collegato coi fuoriusciti ghibellini in lotta con la città, nonché colpevole di «quelle ruberie che erano abituali in simili occasioni». Cecchini, che ci dà queste notizie, non è riuscito invece ad appurare niente di sicuro circa la vendetta del figlio dell’ucciso, cui allude Dante. Hanno provveduto a farlo per tempo i primi commentari danteschi, che pasticciano sull’identità della vittima, o delle vittime, dell’azione repressiva di Benincasa (a seconda dei casi, un fratello o un fratello e uno zio di Ghino), ma sono concordi nel situare «alla corte di Roma», dove quell’operatore di diritto viaggiante si sarebbe recato al servizio di Bonifacio VIII, e dunque dopo il 1294, l’episodio della vendetta riparatrice. Jacopo della Lana, il più antico commentatore dell’intera Commedia, aggiunge che Ghino non tollerava che i suoi prigionieri venissero uccisi, insinuando così un dettaglio favorevole al «fiero» (feroce?) vendicatore dantesco. Parallelamente e, a quanto pare, indipendentemente da Dante, Francesco da Barberino, in una chiosa latina ai Documenti d’Amore, a illustrazione della massima secondo cui «Meglio è divider che perder la preda», allega il caso di un mercante di panni bresciano che, diretto a Roma con due cavalli e un servo, si imbatté in un predone che gli portò via i cavalli e la merce. Ma, avendo Ghino di Tacco incontrato quest’ultimo dopo il misfatto, lo rimproverò di avere agito senza il suo permesso e gli ingiunse di dargli uno dei cavalli, cosa che l’altro rifiutò di fare, col risultato che Ghino glieli portò via tutti e due. Incontrato poco dopo il mercante derubato, Ghino gli raccontò l’accaduto. Allora il mercante sfoderò la massima di cui sopra, e Ghino, colpito da quelle parole, gli restituì uno dei cavalli. A imprimere l’accelerazione decisiva alla leggenda di Ghino brigante gentiluomo fu il Boccaccio con la novella citata. In Benvenuto da Imola, il maggiore dei commentatori danteschi morto intorno al 1387, il modello boccaccia-


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no è debitamente presente e del tutto rimossa l’immagine del «feroce assassino e predone di strada», confutata in modo esplicito. Chi voglia però rendersi conto del perché ai nostri giorni «Ghino di Tacco» possa essere stato scelto come pseudonimo da un notissimo uomo politico, vada piuttosto a rileggersi le pagine di Guerrazzi. Il Messaggero, 5 settembre 1992 Storia/La vita del vescovo di Milano in un libro di Lidia Storoni Mazzolani E l’imperatore pentito s’inchinò a sant’Ambrogio Già nel secondo e terzo secolo dopo Cristo, le altre chiese riconoscevano a quelle di Roma un indiscusso primato d’onore, in parte per il martirio di Pietro e di Paolo, in parte perché era la chiesa del caput orbis. Ma questo universale riconoscimento non comportava, per il momento, l’esistenza di una struttura gerarchica, di cui la Chiesa di Roma fosse il vertice. A prefigurare per primi l’immagine di quelli che sarebbero stati in futuro i papi furono, semmai, in qualche modo, gli imperatori, dacché si risolsero a farsi cristiani. Nel corso del quarto secolo, parallelamente al processo di cristianizzazione dell’impero, avviato da Costantino nel 313, le comunità di fedeli della nuova religione si trovarono infatti a essere divise da contrasti insanabili, sia di carattere disciplinare (l’atteggiamento nei confronti di quanti, durante le ultime persecuzioni, avevano momentaneamente rinnegato la fede nel Cristo), sia, soprattutto, di carattere teologico, come quello che, mettendo in pericolo – secondo alcuni – lo stesso presupposto monoteista, voleva il Figlio fatto della stessa sostanza del Padre, e a lui coetaneo. È in questa situazione che gli imperatori, impegnati, vorrei dire professionalmente, a preservare la concordia e la


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pace, furono costretti a porsi come arbitri fra i contrapposti partiti di vescovi che si vennero componendo e scomponendo lungo i secoli IV e V, sempre in riferimento a questioni di fede, ma con ripercussioni talvolta gravissime sull’ordine pubblico, soprattutto in Africa e nelle province orientali (Siria, Egitto). Così, a partire da quello di Nicea, convocato e presieduto nel 325 da Costantino, non ancora battezzato, i grandi concili ecumenici di quei secoli, che definirono i cardini del dogma cristiano, furono sempre convocati e presieduti da imperatori, senza che la cosa facesse di per sé scandalo. A suscitare scandalo in alcuni fu piuttosto l’apparente disinvoltura con cui, magari anche per non facilmente disconoscibili ragioni di opportunità politica, le decisioni prese a maggioranza in quelle solenni assise ecclesiastiche venivano poi rimesse in discussione alla prima occasione da un imperatore. Come difenditrice a spada tratta dei decreti conciliari e del depositum fidei in essi consegnato si pose per tempo la Chiesa romana, che proprio su questa lungimirante coerenza costruì, o consolidò, il suo primato a scapito delle altre sedi primaziali (Alessandria, Antiochia, Gerusalemme), non trascurando, in particolare da Damaso (366-384) in poi, di rivendicare anche con sempre maggiore insistenza, la propria doppia origine apostolica, petrina e paolina, in polemica con la sede ultima arrivata, quella di Costantinopoli, la Nuova Roma, cui gli imperatori volevano vedere riconosciuto un posto di pari dignità a quello occupato tradizionalmente dalla Vecchia. Ma quando, nel corso del quinto secolo, l’impero d’occidente fu sommerso dai barbari, in attesa che anche l’Italia, nel fatidico 476, conoscesse la stessa sorte, l’autorità del vescovo di Roma cominciò a trapassare dalla sfera spirituale ad un ambito più vasto, onnicomprensivo, di modo che si è potuto dire che, nella pars occidentis, l’universalismo dell’impero sia sopravvissuto in forma inedita unicamente nel papato. Fonte, questa, dei conflitti di competenza che, in


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quel tramonto della romanità, nei secoli dell’alto medioevo e poi con maggiore intensità, durante l’«età della riforma della Chiesa» (secolo XI), contrapposero un papato, che «imitava», se così si può dire, l’impero, a un impero, prima d’oriente, poi, dopo Carlo Magno, anche d’occidente, che specularmente insisteva nel rivendicare per sé il ruolo di suprema guida religiosa, ch’era stato di Costantino e degli altri imperatori cristiani della tarda antichità. Per un bizzarro capriccio della storia, la prima manifestazione di questo conflitto, che pressoché sconosciuto dal mondo bizantino, avrebbe improntato l’intero corso della storia europea, non ebbe come teatro Roma, bensì Milano, in un momento – l’ultimo quarto del secolo IV – nel quale il vescovo della capitale della cristianità, svantaggiato anche dalla sua posizione periferica nella geografia politica dell’impero, era ben lungi dall’aver tradotto nei fatti le sue pretese primaziali. In quello scorcio di secolo, Milano, posta com’era a capo delle vie di comunicazione che conducevano, rispettivamente, di là delle Alpi, alla Gallia, alla Britannia, alla Spagna e all’Africa settentrionale, e, attraverso la pianura padana e l’Illirico, a Costantinopoli e alle province orientali, occupava invece una posizione di centralità, confermata dal fatto che vi risiedeva stabilmente la corte imperiale e che vi erano accampate le truppe di manovra dell’impero da avviare all’occorrenza verso i punti caldi del limes. Ma a fare di Milano nei decenni immediatamente precedenti allo sfondamento del confine del Reno l’ombelico del mondo cristiano e il campo di sperimentazione del futuro nel senso che si è accennato, non sarebbe bastata la geografia. C’è voluta la presenza sulla cattedra vescovile, dal 374 al 397, di una personalità d’eccezione: Ambrogio. A questo grande vescovo, e grande romano degli ultimi anni, Lidia Storoni Mazzolani ha dedicato uno di quei libri come li sa scrivere solo lei (Ambrogio vescovo. Chiesa e Impero nel IV secolo, Longanesi, Milano 1992, 188 pagine,


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lire 28 mila), nei quali, dopo avere delineato nei tratti essenziali il teatro dell’azione, il protagonista viene introdotto, per farlo non tanto agire, quanto parlare con parole sue, che è poi forse il solo modo di ridargli vita, senza tradirlo sotto il peso delle interpretazioni dettate dal senno di poi. Insomma, poche note bibliografiche in fine al volume, e in compenso quasi ogni pagina costellata da rimandi alla Patrologia Latina del Migne, da cui sono tratte le numerosissime citazioni di passi di Ambrogio, scelti per quello che dicono, ma anche per come lo dicono. Di famiglia cristiana, ma non ancora battezzato, Aurelio Ambrogio, quando fu acclamato vescovo, era senatore, avvocato, nonché governatore delle province Emilia e Liguria. Dunque, un alto funzionario, trasmigrato, come tanti altri, al servizio della Chiesa, ma portandosi dietro tutto un bagaglio di esperienze e di cultura. Non avendo studiato da vescovo, colmò le sue lacune in attività di servizio. Agostino, che, non ancora convertito, era approdato a Milano, lo ritrae così: «Quando non era circondato da una ressa di persone, alle cui sventure egli si interessava, ristorava il corpo con il necessario sostentamento e l’animo con la lettura. Quando leggeva, i suoi occhi scorrevano sulle pagine, la mente afferrava il significato, senza che voce e lingua partecipassero» (com’era usuale per un antico. Segno che voleva guadagnare tempo). In quattro diverse occasioni, Ambrogio si sentì in dovere di puntare i piedi. Quando una delegazione di senatori romani venne a chiedere a Valentiniano II che la statua della Vittoria fosse ricollocata nell’aula del senato; quando l’imperatrice reggente si batté perché venisse restituita agli eretici ariani una, almeno, delle basiliche milanesi; quando l’imperatore Teodosio ordinò al vescovo di Callinico, sull’Eufrate, di ricostruire a sue spese la sinagoga che i cristiani avevano distrutta (è la causa più opinabile); quando ancora Teodosio fece massacrare da ausiliari goti settemila abitanti di Tes-


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salonica per vendicare l’assassinio di un alto ufficiale barbaro al servizio dell’impero (è la causa più condivisibile, e Teodosio fu costretto a fare pubblica penitenza). «L’episodio», scrive la Storoni, «edificante e teatrale, ha ispirato l’iconografia per secoli; in essa l’imperatore appare in atteggiamento da penitente ai piedi del sacerdote. È palese l’intento di condensare in questo episodio sintomatico la supremazia raggiunta in quei decenni dalla Chiesa sullo Stato». Il Messaggero, 6 ottobre 1992 Medioevo/Era uno dei più grandi complessi monastici di Montecassino. Grazie a una campagna di scavi l’abbazia di San Vincenzo al Volturno, a un passo da Venafro, torna a far parlare di sé. Tutto è cominciato da una cripta nascosta Quella cattedrale sotto il fienile Tre nobili di origine longobarda, Paldone, Tasone e Tatone, fratelli secondo alcuni, ma comunque imparentati fra loro, si erano decisi ad abbandonare il secolo in seguito a dissidi col duca di Benevento, Gisulfo I (morto nel 706). In un primo momento, pensarono di andare a rinchiudersi in un monastero del regno dei Franchi. Ma, essendosi nel frattempo riappacificati con Gisulfo e avendo ottenuto da lui un pezzo di terra nell’Alto Molise, a un chilometro circa dalle sorgenti del Volturno, alle pendici delle Mainarde, vi edificarono un monastero sulle rovine di un complesso rurale tardoantico, di cui faceva parte un oratorio dedicato a S. Vincenzo al Volturno. Correva l’anno 703, che precede di tre lustri la data della ricostruzione di Montecassino, che i monaci avevano abbandonato intorno al 580, poco dopo la conquista dei Longobardi, piuttosto lenti a cogliere i vantaggi che potevano derivare alla salute delle loro anime dalle fondazioni monastiche.


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Il seme gettato dai tre fratelli attecchì. Nella seconda metà dello stesso secolo VIII e nella prima del IX, S. Vincenzo risulta essere diventato un grande monastero. Quando, il 10 ottobre 881 (con due anni di anticipo su Montecassino), bande di Saraceni lo misero a ferro e a fuoco, fra le sue mura perirono centinaia di monaci, da cinque a novecento secondo il Chronicon Vulturnense. I superstiti si rifugiarono a Capua e solo dopo trentatré anni di esilio nel 914, ripresero possesso di S. Vincenzo, battendo sul tempo, i confratelli cassinesi, rientrati in sede da Teano e Capua nel 950. Ma, per ciò che concerne S. Vincenzo (per Montecassino è un altro discorso), l’età di massima fioritura poteva dirsi ormai conclusa, anche se non è certo il caso di parlare già di decadenza. Lo dimostrano i numerosi villaggi fortificati sorti a partire dal secolo X sulle alture adiacenti il pianoro su cui sorge il monastero a difesa delle sue vie d’accesso, oppure anche a protezione dei suoi numerosi possedimenti fondiari nell’alta valle dei Volturno, la «terra di S. Vincenzo», come essi venivano collettivamente designati. La decadenza sarebbe venuta solo col secolo XII, per motivi che sono ancora in parte da chiarire, tanto più che sarebbe stata preceduta da due sprazzi di vitalità: la costruzione di una nuova abbazia in stile romanico e la redazione del Chronicon Vulturnense, una delle grandi cronache con annessa raccolta di documenti, tipiche dei più importanti monasteri dell’Italia centro-meridionale. Chi si affaccia oggi sul pianoro di S. Vincenzo – ed è dato di farlo agevolmente (il sito in questione si trova a circa venticinque chilometri a nord di Venafro) – ha ancora l’impressione di essersi lasciato dietro alle spalle il mondo abitato, che è poi quello che deve avere attirato Paldone e compagni. Fino a una trentina d’anni fa, il visitatore trovava solo il troncone dell’abbazia costruita nel secolo XII e la mole, ad esso adiacente, del fatiscente, cinquecentesco Palazzo Badiale. Ma, appunto, una trentina d’anni fa, nella stessa discutibile ottica


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in cui si era dato mano alla ricostruzione di Montecassino, distrutta questa volta dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale, si è provveduto a ricostruire ex novo anche l’abbazia di S. Vincenzo, da secoli ridotta a dépendance dal cenobio cassinese. Il risultato, per dirla con Franco Valente, un architetto molisano esperto delle moderne tecniche del restauro, è un tipico, abbastanza suggestivo, falso alla Viollet-le-Duc. Ma, a ridare vita a questa «abbazia… nel deserto» e a giustificare in parte a posteriori la costosa operazione compiuta, hanno provveduto cinque monache benedettine americane che l’abate di Montecassino è riuscito a convogliare lassù. Con il loro saio di jeans, esse coltivano alacremente il poco che resta della terra S. Vincentii, proponendosi di dare l’esempio di un’applicazione integrale della Regola di san Benedetto. Per loro, è stato restaurato il Palazzo Badiale, anche se madre Miriam, polacca di origine, che è la capintesta della piccola comunità, non è ancora propriamente badessa. Solo se intenditore d’arte, il turista che, prima del 1980, fosse salito lassù, si sarebbe preoccupato di ottenere il permesso di visitare la cripta, interamente affrescata nel secolo IX, che si trova in mezzo alla sterpaglia circa trecento metri a ovest dell’abbazia, di là del ponte di età romana, che attraversa il ruscello corrente che è in quel punto il Volturno appena nato. L’ha scoperta per caso, sotto un fienile, nel 1833, il monaco archivista di Montecassino, Ottavio FraiaFrangipane. Oggi, la cripta è inclusa nel recinto che protegge i resti venuti alla luce nel corso di una serie di campagne di scavo, iniziate nel 1980 dalla British School at Rome, sotto la direzione del suo attuale direttore Richard Hodges, che continuano tuttora in un’area adiacente, e i cui risultati davvero sensazionali sono stati illustrati dallo stesso Hodges, archeologo e storico medievista, e da John Mitchell, suo braccio destro per la parte storico-artistica, nel corso di un seminario di studio che si è tenuto a Venafro, per iniziativa dell’Abbazia di Montecassino.


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Contrariamente a ciò che si era sempre ritenuto il S. Vincenzo dei tempi d’oro altomedievali non sorgeva nel sito ove è stata costruita, e ora ricostruita, l’abbazia romanica, bensì nell’area dove è stata ritrovata la cripta, e dunque sulla riva sinistra del Volturno. Ma questa acquisizione topografica, frutto della giusta intuizione iniziale degli scavatori britannici non è che la premessa del risultato veramente importante e che attende solo di essere confermato dal prosieguo degli scavi, e cioè il fatto che, decollata su basi relativamente modeste, l’abbazia di S. Vincenzo ha conosciuto fra la fine del secolo VIII e i primi decenni del IX uno sviluppo sensazionale, che, andando oltre la testimonianza delle stesse fonti scritte, sempre portate a esagerare, ne fa uno dei più grandi stabilimenti monastici dell’Europa carolingia. Cinque volte S. Gallo, assicura Hodges, metro alla mano; molto più importante dell’emula cassinese, aggiunge Paolo Delogu, che ha proposto una storia parallela delle due abbazie confinanti (distano una trentina di chilometri), utile soprattutto per comprendere il perché del declino di S. Vincenzo, che si profila nella seconda metà del secolo XI, proprio in coincidenza con la massima fioritura di Montecassino. Ma come spiegare che su quel pianoro, lontano dalle vie di comunicazione, che sembrerebbe destinato a essere abbandonato da Dio e dagli uomini, abbia potuto prosperare un monastero, la cui abbazia costruita al tempo dell’abate Giosuè (morto nel 817) misurava novantasette, se non addirittura centotré metri di lunghezza? Hodges, che per essersi fatto le ossa scavando i grandi empori dei mari del nord, ha lo sguardo largo di un storico alla Pirenne, è convinto che, foggiato a dovere dai principi e dai nobili longobardo-beneventani, S. Vincenzo abbia attirato l’attenzione anche dei sovrani carolingi che, avendo rinunciato all’idea di espandersi politicamente a sud di Roma, avrebbero puntato su questo monastero per farne un punto


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di irradiamento della renovatio da essi promossa, in direzione del Mezzogiorno longobardo e bizantino. Un po’ com’è stato per Fulda, nei confronti del mondo germanico recentemente cristianizzato. L’«esibizionismo di alfabetizzazione», che, come ha mostrato Mitchell, caratterizza S. Vincenzo, dove ogni superficie utile era utilizzata per scriverci sopra qualcosa, a cominciare dalle mattonelle su cui i fornaciai scrivevano le iniziali del loro nome, si accorda bene con l’intento politico-propagandistico che sarebbe stato alla base dell’interessamento carolingio per questa abbazia di frontiera. Il Messaggero, 28 marzo 1993 Storia/Finalmente tradotta l’opera monumentale di Curtius Il Medio Evo parola per parola Dal 1948, anno della prima apparizione, in tedesco, a Berna, di Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius, ogni cultore di studi medievali ha avuto certo almeno un’occasione di prendere in mano quest’opera monumentale, che oggi La Nuova Italia Editrice ci ripropone coraggiosamente, a quarantaquattro anni di distanza, in una curatissima traduzione italiana (Scandicci, Firenze, 1992, pp. XXXIV + 727, lire 75.000). Munito, nelle varie edizioni in lingua originale e nelle maggiori lingue europee che si sono nel frattempo succedute, di un prezioso indice non tanto, e non solo, dei «nomi», quanto soprattutto, per la ragione che subito vedremo, delle «parole e delle cose», il libro di Curtius è stato finora molto più consultato che letto. Con le pinzette di un entomologo e di un botanico erborista l’autore è andato pazientemente estraendo dalla letteratura medievale, che costituisce lo sterminato oggetto della sua esplorazione, i «luoghi comuni», che formano l’ordito, anch’esso di conseguenza comune, di tale produzione, su cui poi i singoli autori disponevano la trama che avrebbe assicu-


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rato a ciascun testo un’identità più o meno spiccata, a seconda del talento individuale di cui i medesimi erano dotati. Una volta estratti dai rispettivi contesti, questi «luoghi comuni» vengono, da un lato, ricondotti dal Curtius alle loro immancabili origini classiche e, dall’altro, ritrovati a valle in uno, o di norma in più d’uno, dei riparti «nazionali» in cui, sotto il profilo linguistico, già in età medievale, a partire dal secolo XII, in concorrenza con la letteratura scritta in latino, e poi nei primi tre secoli dell’età moderna, a lato, sempre, di un persistente filone umanistico o neolatino, tende a suddividersi l’insieme coerente che è ai suoi occhi la «letteratura europea», da Omero fino a Goethe, senza che essa perda per questo la sua originaria impronta comune. A imprimergliela è stato, appunto, il tratto medievale di questo lungo percorso, «l’impervia strada romana che conduce dal mondo antico al mondo moderno». Ultima operazione: da bravo entomologo o botanico quale si propone di essere, il Curtius organizza e classifica i suoi reperti, costruendo i vari capitoli e paragrafi del suo libro che è infatti un libro, e non semplicemente un repertorio, come potrebbe giudicarlo chi si accosti ad esso solo attraverso il famoso «indice delle parole e delle cose». Ma resta anche vero che questo è il tipo di fruizione che ha fatto la fortuna dell’immensa fatica erudita del Curtius, andata di pari passo con un’ingegnosa e talvolta anche affrettata, demolizione delle pur discutibili premesse che la sottendono. In un impegnatissimo e anche appassionato saggio introduttivo su «Filologia e modernità», il curatore dell’edizione italiana, Roberto Antonelli, affronta in particolare due punti. Anzitutto, ripercorrendo la carriera intellettuale di Curtius, colloca questo suo ultimo libro, apparso, ripetiamo, nel 1948, ma frutto – come non si stenta a credere – del lavoro di molti anni, nell’atmosfera politico-culturale degli anni Venti e Trenta, che ha visto fiorire la cosiddetta «letteratura della Crisi». In secondo luogo, Antonelli riconnette l’approccio


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metodologico, analitico-vivisezionatore di Curtius, così come lo abbiamo descritto, all’attuale messa in discussione dell’idea stessa di «storia della letteratura». Non a caso, Antonelli, sia detto per inciso, ha collaborato strettamente con Alberto Asor Rosa nell’ideazione dell’einaudiana «Letteratura italiana», che rifiuta di essere «storia» anche nel titolo. A distanza di tanti anni, l’idea di opporre ai veleni germanistici che si sprigionavano dalla sua patria tedesca in via di imbarbarirsi una specie di «linea Maginot» costituita dai fiori secchi dei topoi della letteratura mediolatina ha, a prima vista, del patetico e del velleitario. Avrebbe potuto offrire lo spunto a un racconto ironico di Thomas Mann. Ma il fatto che nelle scuole dei due paesi che si affacciano, e allora si fronteggiavano bellicosamente, sul Reno, giganteggiassero, su una sponda, la figura di Vercingetorige e, sull’altra, quella di Arminio e di Viduchindo, dà all’esaltazione di un tipico antieroe come Cassiodoro, operata da Curtius, un risalto inaspettato. Certo, la sua risposta alla minaccia incombente della finis Europae è la risposta di un liberale conservatore, che non arriva a distinguere bene fra le «masse» del Front populaire e quelle di Norimberga o della piazza Rossa o di piazza Venezia, tutte accomunate dal rigetto dei valori «aristocratici» dell’umanesimo latino e cristiano, patrimonio di un’élite colta europea che si vedeva messa alle corde. Ma era pur sempre una risposta che, a differenza di altre che ebbero molto maggiore ascolto della sua, non concedeva nulla all’irrazionale, anche se faceva getto di una parte non trascurabile della moderna civiltà europea. Era, semplicemente, una risposta inadeguata. Ma, a guerra finita, a sacrificio consumato, quel ponte mediolatino gettato fra le due sponde del Reno avrebbe finito col trovare una inattesa corrispondenza nell’ispirazione carolingia che animava il progetto della piccola Europa a sei di Schumann e Adenauer. E, allora, anche i baluginanti versi citati da Curtius, in cui Stefan George, il suo amico poeta, rivendicava il retaggio del regno «intermedio» di


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Lotario II contro la sopraffazione esercitata ai suoi danni dagli zii Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, sovrani, rispettivamente, di quella che un giorno sarebbe stata la Francia e di quella che un giorno sarebbe stata la Germania, poterono acquistare agli occhi di chi era in cerca di una speranza, quale che fosse, il valore di un lontano presagio: «Due principi fratelli hanno tenuto / vassallo il centro del vasto regno interno. / Dal suo sonno di secoli si sveglia / il terzo vero erede e leva la corona alta sul Reno». Il Messaggero, 26 settembre 1993 Idee/Immagini contro parole. Se ne discute fin dal Medioevo Sacre scritture? Meglio a fumetti Ogni tanto qualche voce si leva a lamentare che il diluvio di immagini offerte quotidianamente dalla televisione determini nei teleutenti bambini un ritorno di analfabetismo, ma non manca mai chi è pronto a ribattere che le immagini, sempre accompagnate da parole dette anche se non scritte, hanno comunque un’indispensabile funzione educativa e formativa, con buona pace dei produttori di libri, riviste e giornali, che lamentano la concorrenza esercitata ai loro danni dall’audiovisivo in continua espansione. È un dibattito per necessità di cose ripetitivo e, per certi versi, fastidioso, che, per il fatto stesso di svolgersi per iscritto, segna un punto a favore dei nostalgici del “buon tempo antico”, quello che avrebbe visto il predominio pressoché incontrastato della carta stampata. Anche se nessuno fra i nostalgici è così cieco da non vedere che l’invenzione della fotografia e degli altri mezzi di produzione meccanica delle immagini ha solo enormemente dilatato uno spazio del «visivo», che, più o meno esteso a seconda dei tempi e dei luoghi, è sempre coesistito a fianco dello spazio riservato allo “scritto”, si ha l’impressione che


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il confronto fra l’oggi e l’ieri sia di solito limitato a un ieri relativamente recente, quello che ha fatto seguito all’invenzione della stampa a caratteri mobili. Si trascura, in altre parole, di prendere in considerazione non tanto e non solo l’età antica, quanto anche soprattutto il medioevo, un periodo nel quale – e mi riferisco in particolare ai primi secoli di esso –, non soltanto l’equilibrio fra i due spazi risulta nettamente spostato a favore del campo delle “immagini”, ma ha anche avuto un rilievo, un’asprezza e una risonanza che le accademiche discussioni di oggi sui modi delle comunicazioni non si sognano nemmeno lontanamente di avere. Si concederà infatti che anche i più accaniti oppositori delle televisioni esiterebbero di fronte alla prospettiva di propugnare la sistematica “distruzione dei piccoli schermi”, dando vita a un moderno “videoclasmo”, paragonabile all’ “iconoclasmo” dei secoli VIII-IX. È in considerazione di ciò che, non senza dare prova di un certo coraggio, il Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto ha dedicato un’intera “settimana di studi”, la quarantesima della serie, al tema, in apparenza peregrino: «Testo e immagine nell’alto medioevo». Exultet è la prima parola dell’inno che si canta il sabato santo per la benedizione del cero pasquale. È anche il nome usato per designare i caratteristici rotoli di pergamena che lo contengono, prodotti nell’Italia meridionale nei secoli XI-XIII. In essi le sequenze dell’inno sono intervallate da immagini, che risultano però capovolte rispetto al testo scritto, di modo che il celebrante può leggere le parole, mentre le immagini sono visibili nel senso giusto solo dai fedeli, a mano a mano che il rotolo si viene svolgendo sotto i loro occhi. Questa ingegnosa e, al tempo stesso, bizzarra soluzione del rapporto sempre problematico fra “testo” e “immagine” ha questo di peculiare, che veniva a creare una frontiera netta fra ciò che andava letto e ciò che andava visto, operando una distinzione fra chi era professional-


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mente abilitato a leggere (l’officiante) e chi invece non poteva che ridursi a guardare (gli astanti). In questo senso, gli exultet costituivano una rimarchevole eccezione alla regola, valida per l’alto medioevo in genere, e che si può citare come conclusione principale del convegno, richiamata del resto esplicitamente fin nel titolo della relazione introduttiva, per cui quella frontiera era invece per sua natura sempre “ambigua”, e quindi anche, come accade per tutte le frontiere non fissate con precisione, potenzialmente suscitatrice di conflitti. Ma, di là dell’indubbia forzatura presente nel caso-limite degli exultet, la premessa per cui le “immagini” erano destinate agli indotti e i “testi” ai dotti o, più modestamente, agli alfabeti ha costituito, con l’implicita svalutazione della comunicazione mediante figure che essa presuppone, il nucleo centrale, gregoriano (da Gregorio Magno), della posizione in materia della Chiesa d’occidente, laddove la tradizione orientale tendeva a mettere sullo stesso piano addirittura i Vangeli e le raffigurazioni tratte da essi, in quanto si riteneva che sia gli uni che le altre rispecchiassero fedelmente il messaggio orale di Gesù. Così stando le cose, non è da meravigliarsi che lo stesso mondo bizantino in cui si era affermata questa equiparazione, abbia generato anche, per reazione una posizione di rigetto indiscriminato delle immagini sacre e del loro culto, istituzionalizzata nei decreti iconoclastici degli imperatori bizantini dei secoli VIII e IX. Più problematico è invece l’atteggiamento di rifiuto dell’iconoclastia e, al tempo stesso, di non accettazione della via mediana di papa Gregorio da parte di Carlomagno e della Chiesa franca. Anche se i Libri Carolini in cui questa posizione è espressa con grande vigore, non sarebbero, come è stato sostenuto a Spoleto, un’operazione collettiva dei consiglieri ecclesiastici del sovrano, ma il frutto della fatica isolata di uno di essi, Teodulfo d’Orléans, sta di fatto


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che, nella partita a tre, giocata allora anzitutto sul piano politico-diplomatico fra corte franca, corte bizantina e curia papale, e il cui esito avrebbe deciso del futuro dell’Europa, la polemica sulle immagini ha avuto un posto non trascurabile, complicando oltremodo le cose per quanti affrontino la storia di quel periodo non accontentandosi di guardare a ciò che accadde in superficie. A questo punto dovrebbe riuscire chiaro che a mettere fine alla coesistenza pacifica fra “testo” e “immagine”, che aveva caratterizzato l’antichità, è intervenuta la vittoria del cristianesimo, che, come l’ebraismo, e a differenza dei culti pagani, è una religione fondata sul Libro. Ma, se è questo particolare connotato a fare la differenza, ciò non vuol dire che la problematicità del rapporto fra «testo» e «immagine» nei secoli dell’alto medioevo concerna esclusivamente il Testo per eccellenza, la Bibbia. Ci è stato anzi mostrato come, proprio là dove uno meno se lo aspetterebbe, cioè negli Evangeli di età carolingia, la figurazione degli evangelisti ricalchi con impressionante mancanza di originalità le figurazioni di Virgilio, che, nei codici tardoantichi dell’Eneide, imprimevano il sigillo dell’autenticità in capo a ogni singolo libro del poema. Anche le visioni avute in sogno rimandavano spesso a immagini, vuoi a immagini viste nelle chiese, vuoi a immagini che venivano fabbricate a posteriori sulla base del racconto di una visione, se chi l’aveva avuta era accreditato di una virtù particolare agli occhi di chi l’ascoltava. La frontiera, di cui si diceva, si sposta di continuo, ma non cessa per questo di essere ambigua.


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Il Messaggero/Cultura, 14 giugno 1993 Storia e elettronica/Un saggio ripercorre la parabola della potente abbazia di Cluny, mentre un elaboratore riscostruisce il famoso complesso benedettino distrutto durante la Rivoluzione francese. E non mancano le sorprese Tra i chiostri virtuali Muniti ciascuno di un casco di visualizzazione stereoscopica, il conservatore del Museo (parigino) di Cluny che è poi una gentile signora, e il portaparola dell’episcopato francese, senza muoversi da Parigi e da Montecarlo dove si trovavano in carne e ossa, sono «entrati» nell’immagine, ricostruita graficamente da un elaboratore, dell’abbazia di Cluny, demolita un pezzo per volta – data l’entità del manufatto non era un’impresa di poco conto – durante la rivoluzione francese e l’età napoleonica. Così, la rivoluzione telematica, nell’anno di grazia 1993, ha ridato una vita «virtuale», cioè fittizia, a quello che la Rivoluzione e i suoi postumi hanno distrutto irrimediabilmente circa due secoli fa. Non sappiamo cosa i due si siano detti nel corso della passeggiata. Dubitiamo che avessero qualcosa di importante da dirsi. Fossi stato uno di loro, mi sarei piuttosto preoccupato che le ombre dei monaci, che non hanno certo cessato di tenere d’occhio la propria antica dimora scambiassero un vivente come me, così bardato, per uno di quei morti senza pace, che, in particolare, durante le «dodici notti» di mezz’inverno ritornavano nel mondo, alla ricerca di calore, «perché la loro tomba è fredda (cantano i poeti scandinavi) e sono freddi i loro piedi». Specialisti della morte, i monaci di Cluny, mediante le loro preghiere, erano in condizione di offrire ai propri aficionados un riposo eterno, esente dai disagi e dai frastorni che inducevano chi andava soggetto ad essi a «varcare all’incontrario» la soglia dell’aldilà, intraprendendo penose peregrinazioni nel buio delle gelide notti nordiche. Non avendo un pezzo di terra al


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sole o un quintale d’argento da offrire seduta stante agli antichi padroni di casa, perché mi iscrivessero nelle liste, sempre tenute a giorno, dei loro benefattori, avrei corso il rischio di vedermi scacciato, a suon di esorcismi, come un demonio dall’abbazia «restaurata» mediante elaboratore, pagando lo scotto di essermi prestato a sperimentare la nuova stregoneria della «televirtualità». «Il trionfo sulla morte» si intitola, appunto, il capitolo centrale del libro che G.M. Cantarella ha dedicato a I monaci di Cluny (Biblioteca di cultura storica, Einaudi, 334 pagine, 42 mila lire). Nel piccolo priorato di Saint-Macé un’iscrizione del XII secolo ammoniva i monaci: “Commemorate quelli che vi hanno preceduto. Vivemmo, ma ahinoi, peste!, mala morte!, fummo ciò che siete, ora temete per voi. Vivemmo, mangiammo, bevemmo bene, ma non in modo iniquo, giocammo, e così mutammo le nostre dimore, per le grandi quelle piccolissime, per quelle tanto sublimi le più basse. Anche voi ora mangiate, bevete!” Ma se la «salvezza di scambio», eterno riposo contro beni immobili e mobili, risulterà essere la formula vincente di Cluny (il calco è mio, non di Cantarella), ponendosi come cautela prossima della sua «Potenza», – titolo del capitolo immediatamente successivo – sarebbe da sciocchi ricondurre a un calcolo utilitario e meschino la straordinaria avventura che, nel corso dei secoli, ha fatto dell’abazia fondata nel 909 o 910 da Guglielmo, duca d’Aquitania e conte di Mâcon, che legò ad essa tutti i suoi beni, nell’atto di donare questi e quella agli apostoli Pietro e Paolo, la terza potenza europea accanto a papato e impero, prima che il regno capetingio di Francia (Cistercensi dapprima, mendicanti dopo) e il cosmo delle nuove scuole universitarie sopravvenissero, a vari livelli, a insidiarne il primato. Di questa prodigiosa ascesa e susseguente brusco declino Cantarella ricostruisce con attenzione le varie tappe, che, con sensibile agevolazione del suo compito di storico


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periodizzatore, coincidono grosso modo con alcuni pochi abbaziati. La provvidenza ha voluto infatti che essi fossero molto più lunghi di quello che la durata media della vita di allora avrebbe comportato. Non tanto Bernone, il primo (909/10-927) e Odone, il secondo (927-942), quanto il quarto, Maiolo (954-994) e, dopo di lui, Odilone (9941049), e ancora meglio Ugo di Semur (1049-1109)… Di ciascuno si sono conservate una o più vite, non sempre purtroppo contemporanee. Certo, non sono moderne biografie, come le desidereremmo, costituiscono bensì la continua riproposizione del modello di «santo abate cluniacense», con gli aggiornamenti del caso. Eppure, soprattutto nei primi tempi, quelli decisivi per il decollo delle fortune dell’abbazia, esse rivelano, agli occhi di un lettore che sappia leggere fra le righe, «la capacità di analizzare la vita contemporanea senza la quale non si riuscirebbe mai a comprendere il formidabile successo di quell’organizzazione monastica». I primi tempi di Cluny corrispondono a quel secolo X e inizio del successivo, che hanno visto la disgregazione di ciò che restava dell’ordine carolingio e la nascita travagliatissima di un ordine nuovo, che aveva i suoi punti di forza nei «castelli», sorti come funghi, a tutela delle popolazioni inermi, nel momento dell’ultima ondata delle invasioni (Ungari, Normanni, Saraceni) e rimasti poi, una volta passato il pericolo, a rendere manifesta la potenza dei parvenus che avevano nel frattempo soppiantato i vecchi potenti, ch’erano stati tali anche per delega del re. Rimasta snobisticamente estranea, come Cantarella tiene a sottolineare, ai «terrori» dell’Anno Mille, Cluny costruisce il suo ordine in mezzo a quell’imperante disordine. Edifica la sua parte in mezzo ai frastuoni della guerra endemica di tutti contro tutti che imperversava di là del recinto claustrale. Impara presto a giostrarsi fra i «potenti» di ieri, che perdono colpi su colpi, e i «violenti» di oggi, in via di diventa-


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re i rispettati di domani, reclutando equamente i suoi monaci nell’uno e nell’altro campo. Non pretende affatto, come favoleggia la storiografia di cinquant’anni fa, di costituire un’alternativa. Ambisce solo di porsi come «il luogo privilegiato da cui incessantemente si levano preghiere per il riscatto del mondo da parte di uomini che erano intrinseci a quel mondo». In altre parole, «le relazioni fra la società violenta e disordinata e i suoi figli che la rispecchiano nell’ordine e nella pace del monastero sono intense e vivaci, nel segno dell’interesse reciproco». Cluny, dunque, non un «mondo contro», come saranno i protagonisti della riforma gregoriana, ma un «mondo parallelo». Non a caso, nei giorni di Canossa l’abate Ugo sceglierà la parte, che sola gli competeva, di grande mediatore. Il Messaggero, 4 luglio 1993 Storia/I conflitti nella Firenze del XIII secolo e gli Ordinamenti di giustizia, esempio di legislazione dalla parte dei più deboli. L’esperimento di Giano della Bella e uno straordinario «cronista»: Dino Compagni E il popolo ordinò: «Potenti, giù la testa» Nella storia, ricca di svariatissime esperienze, dei rapporti fra politica ed esercizio della giurisdizione penale, il capitolo concernente Firenze nel primi Anni Novanta del secolo XIII ha un posto di sicuro rilievo. Non tanto per la peculiarità dell’esperienza in sé, comune anche ad altre città italiane, quanto, a mio avviso, per l’eccezionalità di un testimone di essa, il cronista Dino Compagni. Iscritto all’arte di Por Santa Maria, che riuniva i setaiuoli, Dino Compagni si vanta di essere stato nel 1282, benché ancora relativamente giovane, fra i protagonisti dell’azione che condusse all’istituzione del priorato delle arti. Essa aveva consacrato la presa diretta del potere da parte delle


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più importanti corporazioni di mestiere, le sette (poi dodici) «arti maggiori», in cui si articolava il «popolo grasso». Esiliati definitivamente i ghibellini nel 1267, era infatti cominciata in Firenze, ormai tutta guelfa, una fase di conflitti non più solo politici, ma anche sociali, che vedevano contrapposti i «popolani» ai nobili, o «magnati». Questi erano indispensabili sul campo di battaglia, quando si trattava di muovere contro le città vicine – lo si poté constatare l’11 giugno 1289 a Campaldino contro gli aretini –, ma erano anche portatori fra le mura cittadine di un costume politico intessuto di arroganza, prepotenza e propensione alla violenza, che riusciva intollerabile a chi voleva attendere in pace ai propri affari. Ben presto i priori, infiltrati da elementi magnatizi, si rivelarono impari al compito, che era stato loro affidato, di tutela degli interessi del «popolo». A farsi interprete di questo malessere contro i «nobili e grandi cittadini insuperbiti», che «faceano molte ingiurie a’ popolani, con batterli e con altre villanie», fu Giano della Bella. Importando a Firenze una soluzione già sperimentata a Bologna, Giano riuscì a far promulgare (18 gennaio 1293) una legislazione straordinaria, gli Ordinamenti di giustizia, che istituivano una giustizia, soprattutto penale, dichiaratamente di parte, rivolta a tutelare in modo adeguato gli «uomini deboli e pacifici», che erano poi, in realtà, anzitutto i popolani grassi. Dino fu accanto a Giano della Bella per tutto il periodo in cui fu in auge, e dal 15 giugno al 15 agosto 1293 ricoprì la carica di nuova istituzione, di «gonfaloniere di giustizia» (sempre la giustizia!), un settimo membro della Signoria, venutosi ad aggiungere ai sei priori, che aveva alle sue dipendenze «mille fanti che avessono a esser presti a ogni richiesta del detto Gonfaloniere, in piaza o dove bisognasse». Erano, insomma, il braccio armato del nuovo potere popolare. E anche quando, nel marzo del ’95, Giano fu costretto a lasciare Firenze, e gli Ordinamenti di giustizia vennero non


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abrogati, ma sensibilmente addolciti (6 luglio seguente), Dino continuò a coltivare in cuor suo il ricordo di quei due anni in cui i deprecati costumi politici dei magnati fiorentini avevano trovato, secondo lui, un efficace correttivo. Dopo una parentesi di allontanamento dalla vita politica attiva, Compagni tornò a essere in prima linea al tempo del conflitto fra Bianchi e Neri, schierandosi fra i primi, nei quali vedeva in parte, a torto o a ragione, i depositari del messaggio di Giano. Finì perciò esule in patria, dopo la vittoria dei Neri nel novembre 1301, a differenza di tanti altri, compreso l’Alighieri, che optarono per l’esilio vero e proprio. Solo nel 1310, quando Enrico di Lussemburgo si affaccerà alle porte d’Italia, promettendo «pace come fusse un agnolo di Dio», Dino troverà l’animo di mettersi a scrivere la sua cronaca, incentrata sulla contesa fra Bianchi e Neri, nonché sull’esperienza di Giano della Bella, considerata – come s’è detto – un immediato antefatto di essa. Nel ripercorrere gli avvenimenti degli anni ’93-’95, Compagni non perde occasione di ribadire quella che Ernesto Sestan ha felicemente definito «una certa candida fiducia popolaresca nella virtù taumaturgica delle leggi». Ma, onesto e fin candido com’era, non può fare a meno di rendere conto anche degli inconvenienti che tutta quella incomposta sete di giustizia comportava. Ne aveva fatto, del resto, le spese egli stesso, quando, durante il suo gonfalonierato, era stato accusato di non essersi mostrato abbastanza zelante nell’adoperarsi perché fosse fatta piena giustizia alle vittime di un sopruso magnatizio verificatosi l’11 maggio (più di un mese prima, dunque della sua entrata in carica), che, non soddisfatte del castigo inflitto dal podestà ai colpevoli, avevano imbastito sull’accaduto una piccola speculazione. I «maledetti giudici», scriveva Compagni ricreando in una pagina straordinaria il clima di quindici anni prima, con le loro perplessità e i loro cavilli ostacolavano l’applicazio-


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ne delle nuove leggi. Obiettavano che queste andavano contro il principio della responsabilità personale, consentendo l’incriminazione dei familiari del colpevole; che incutevano paura al podestà e al capitano del popolo, spingendoli a condannare sempre; che i magnati esitavano ad accusare i loro familiari, per non correre il rischio di essere coinvolti nella condanna. Ma, a parte queste resistenze, l’obiettivo che Giano si era proposto era stato raggiunto: «Pochi malifici si nascondevano, che dagli adversari non fussono ritrovati; molti ne furono puniti secondo la legge». I primi ad avere le case «disfatte» per un delitto commesso in Francia da un loro congiunto ai danni del figlio di un mercante, furono i Galigai. Il Compagni stesso, allora gonfaloniere, aveva presieduto alla demolizione delle residenze dei malcapitati. Il «popolo», che cominciava a riscaldarsi (non più solo i popolani grassi, si direbbe), spingeva i gonfalonieri a distruggere le case degli accusati, andando oltre la lettera della legge. Così, si finiva con lo sformare la giustizia «per tema del popolo», con la conseguenza che, in un caso, si dovette provvedere a risarcire un magnate punito ingiustamente. Vedendo che i grandi erano finalmente perseguibili, i «rei uomini» (i «cattivi» popolani, secondo il Compagni) aumentavano la pressione sul podestà e il capitano. In conseguenza, «niuno accusato rimanea impunito». A questo punto, i magnati cominciarono a reagire, affilando per il momento le armi dell’ironia: «Uno caval corre, e dà la coda nel viso a uno popolano; o in una calca uno darà di petto sanza malizia a un altro; o più fanciulli di piccola età verranno a questione; gli uomini gli accuseranno: debbano però costoro per sì piccola cosa essere disfatti?», avere cioè distrutte le loro case? Giano non se ne dà per inteso e, nonostante queste deviazioni, «difendeva quelle cose che altri abbondonava». Ma la reazione dei magnati cresceva di giorno in giorno.


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Messi sull’avviso di ciò che li minacciava, i popolani «e per paura e sdegno innasprirono le leggi». Quella che, in origine, era una partita da giocarsi fra «popolo grasso» e «magnati», minacciava di trasformarsi in uno scontro di classe, con conseguenze che gli addetti alle arti maggiori erano i primi a paventare. Le ore di Giano della Bella erano ormai contate. Dino passa senz’altro a raccontare il principio della fine del suo eroe, che non avrebbe mai rinnegato, pur registrando con disarmante imparzialità gli inconvenienti della macchina che aveva messo in moto e che finì col travolgere lui e le sue buone intenzioni. Il Messaggero, 2 settembre 1993 Scripta manent/Il primo volume dello “spazio letterario” del Medioevo Ferma la storia sulla pelle di pecora Dell’esperienza in complesso positiva di avere diretto per qualche anno un periodico serbo un solo ricordo spiacevole: il mancato rispetto degli «a capo», che senza abusarne costellavano i miei originali, da parte del grafico di turno. E ancora: leggendo, in queste settimane di esami di laurea, testi ormai in gran parte composti al computer, ho riscontrato molti casi di «infatti» che non trovano in ciò che li precede la loro ragione d’essere. È una conseguenza della grande, e pericolosa, facilità con cui ora è dato di spostare un brano in avanti o all’indietro, senza più la fatica di riscrivere o, anche solo, di tagliare e incollare. Eppure, agli «a capo» e agli «infatti» vanno legati valori intellettuali non disprezzabili. Questi aneddoti e altri del genere mi sono venuti in mente leggendo i cinque saggi dedicati a L’autore e i suoi strumenti del tomo primo del primo dei quattro volumi,


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intitolato La produzione del testo (Roma 1992, 665 pagine), in cui si articolerà la sezione riservata a Il medioevo latino (direttori: G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò) di Lo spazio letterario del medioevo la nuova grande opera messa in cantiere dalla Salerno Editrice, dopo quelle riservate agli «spazi letterari» di Grecia e Roma antiche. Riproposta nei confronti della produzione letteraria dell’età di mezzo (e non solo di quella in latino: seguiranno sezioni su Il medioevo volgare e Le culture circostanti) la formula degli «spazi letterari», consiste in pratica nel focalizzare l’attenzione «sul testo nella sua varia fenomenologia» (produzione, circolazione, ricezione, attuazione) non risulta essere solo una formula in più che viene ad arricchire il quadro del dibattito in corso sulla storiografia letteraria. Si presenta piuttosto come una brillante soluzione pratica che consente di dare una qualche organizzazione a un materiale che, a differenza delle letterature classiche, è per sua natura refrattario a essere ricondotto alla misura di una storia della letteratura del senso tradizionale del termine. In altre parole, qui l’invenzione di una «strategia critica» nuova non era una scelta, ma una necessità. E per lo più i venti collaboratori convocati per questa prima tappa hanno saputo fare di necessità virtù attenendosi alle regole del gioco. «La carne umana ha meno valore di una pelle di pecora». Ad asserirlo non è un animalista di oggi, ma un copista di allora, conscio del costo di ciascuna delle superfici, sulle quali, come voleva una metafora risaputissima, era chiamato a manovrare la sua penna-«aratro», e ancora più della fatica e della cura che andavano spese per preparare quella superficie, pelosa da un lato e carnosa dall’altro, ad assorbire senza sbavature l’inchiostro dei segni di cui l’avrebbe cosparsa. Dalla tarda antichità il primo medioevo riceveva, già ben rodato, il «codice» da sfogliare che avrebbe finito col soppiantare quasi del tutto il «rotolo» da svolgere, questo papiraceo, quello pergamenaceo. Nel passaggio da un supporto


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all’altro si sarebbero salvati l’explicit («è stato srotolato fino alla fine»), che continuerà, senza scomporsi, a indicare la fine di un’opera anche nei codici, e la comoda divisione in «libri», che le opere prima comprese in diversi rotoli si porteranno dietro anche quando verranno trascritte in un solo codice. Rispetto, invece, ai codici della tarda antichità, quelli altomedievali si caratterizzano per la scomparsa dei preziosi titoli correnti sul margine superiore del foglio a libro aperto (nome dell’autore sul verso e titolo dell’opera sul recto), una perdita, commenta lo specialista, che favorirà il moltiplicarsi delle opere anonime. Non sarà stato piuttosto il crescente disinteresse per l’identità dell’autore a fare trascurare tale sussidio? Sempre la preziosità del foglio di pergamena spiega il frequente rimpiego dello stesso, previa raschiatura: i codici ritenuti obsoleti venivano «raschiati di nuovo» (palinsesti), in modo di potervi trascrivere un testo più attuale del precedente. Quegli sciuponi degli ebrei, quelli almeno che vivevano in territorio islamico e che partecipavano alla vita culturale in lingua araba, erano soliti, invece seppellire in apposite sezioni dei loro cimiteri i libri e i documenti non più in uso. Quasi ad anticipare la tematica della preannunciata terza sezione dedicata alle Culture circostanti, non solo l’ebraica, ma anche le culture greca, araba, celtica (da non perdere le citazioni!), slava, hanno trovato posto in questo volume dello Spazio letterario del medioevo (II «Occidente latino e altre cultura»). Raccomando, in particolare, le pagine sulle «due Slavie» quella che si è orientata su Roma e quella che si è orientata su Costantinopoli, dove si sostiene la tesi per cui gli slavi più preoccupati di rivendicare la loro autonomia anzitutto linguistica hanno finito col diventare «tributari passivi» della cultura greco-bizantina; mentre gli altri, che hanno accettato il magistero dell’Occidente, hanno prodotto «una ricchezza che travalicherà i confini dello stesso Medioevo latino».


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Per dileggiare Teodorico, re degli Ostrogoti, un cronista saputo non ha trovato di meglio che raccontare che, per apporre sui propri editti le quattro lettere del suo monogramma, era costretto, illiteratus com’era, a servirsi di una sagoma d’oro traforata. Ma, a non sapere scrivere o, meglio, a non essere abituati a tenere la penna in mano, non sarebbe stato solo un altro sovrano molto più potente di lui, Carlomagno, noto fra l’altro per avere promosso la ripresa degli studi grammaticali nel suo impero, bensì, in genere, gli stessi «scrittori» di una buona parte del medioevo, che avrebbero disdegnato di essere confusi con gli «scribi» cui ricorrevano di norma per la fase ulteriore che teneva necessariamente dietro a quella in cui, «con la sola memoria, con la sola voce, senza mano, senza occhi» (Guilberto di Nogent), componevano le loro opere. Bisogna arrivare a Petrarca perché un autore non ricusi, anzi ambisca, a farsi cronista di sé medesimo. Nel frattempo le opere dell’ingegno usate per l’insegnamento nelle nuove scuole universitarie fanno registrare un ulteriore distacco fra l’autore e il suo testo, affidato ora, al fine di ottenerne copie in numero sufficiente alla domanda, a un’organizzazione complessa di cui l’autore conservava un controllo solo nominale. Per non parlare delle reportationes, che sono le registrazioni attinte alla viva voce del maestro da allievi più o meno abili in stenografia. È di ieri la notizia, tanto i processi di cui stiamo parlando sono lenti a esaurirsi del tutto, che il quarto libro della Storia romana di Mommsen, il quale in effetti non è stato mai «scritto», sarebbe stato ricostituito sulla base di appunti presi alle sue lezioni. Il libro dettato direttamente, o consegnato dapprima a una minuta che si butta subito via, e dalla quale altri che non sia l’autore ricava l’«originale», costituisce, dunque, la regola. Ma con questa procedura, che pure prevede nel primo caso l’uso della voce, siamo ancora all’interno della cittadella della «civiltà dello scritto», che nel medioevo tende a restringersi, senza mai però diventare una monade


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leibniziana senza porte, né finestre. Di porte e di finestre ne ha, eccome, attraverso di essa dilaga all’interno l’«oralità», vera protagonista, a guardare bene, delle seicento pagine e passa di cui consiste questo volume. A tenerle testa sono soltanto i classici, «garanti», come vengono felicemente definiti, dell’«uso di un latino che nel lessico e nella sintassi non si allontana dal latino classico tanto da poterlo considerare un’altra lingua». In una parola, lo «spazio letterario» del medioevo latino è definito da due coordinate: gli auctores e, se si vuole, la Bibbia, da un lato, e i portatori viventi di molteplici culture orali, alloglotte, dall’altro. Il Messaggero, 16 settembre 1993 Convegni/Il medioevo latino e la rinascita della cultura antica L’umanesimo al tempo di Dante Alla vista di chi abbandoni l’autostrada del Sole al casello di «Firenze-Certosa» per dirigersi verso il centro di Firenze, si staglia, in alto a sinistra, la mole della Certosa del Galluzzo. Fra le sue mura hanno sede la Società internazionale per lo studio del medioevo latino (Sismel) e la Fondazione intitolata a Ezio Franceschini. Una figura di primaria importanza nella fase di decollo nel nostro Paese degli studi sulla letteratura latina medievale: ancora nel 1948 Ernest Robert Curtius li poteva giudicare deplorevolmente trascurati dovunque in Europa rispetto ai fiorentissimi studi sulle letterature medievali romanze e germaniche. Animatore instancabile e, ciò che più conta, prestigioso esperto dell’associazione e della fondazione è Claudio Leonardi. È merito suo se, alle porte della città della civiltà che è stata la culla del Rinascimento, è sorta la cittadella degli studi mediolatini. In questi giorni, alla Certosa del Galluzzo, si sta svolgendo il secondo congresso internazionale del Comitato


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internazionale mediolatino sul tema Gli umanesimi medievali, un titolo che fa sorgere qualche interrogativo, sciolto solo da una presa di visione del ricchissimo programma. Come punto di partenza per le nostre riflessioni in margine al congresso fiorentino, abbiamo scelto la definizione di «umanesimo» tratta da una fonte che solo un esprit mal tourné potrebbe giudicare sospetta, il Dante humaniste di Augustin Renaudet (1952): «L’umanesimo, così come il Rinascimento italiano ne ha definito il programma, s’impone come primi compiti lo studio e la resurrezione della cultura antica. Esso attribuisce ai testi antichi, in cui si esprime il pensiero della Grecia e di Roma, la virtù di rendere gli uomini più umani conoscendosi meglio… Le generazioni del Rinascimento italiano hanno affermato che ristabilendo con l’antichità un contatto che dicevano interrotto dopo il Medioevo, riprendevano questo sforzo verso la conoscenza del mondo e della natura umana, sul quale si era basata l’antica educazione dell’uomo e del cittadino, e dal quale si poteva attendere la riforma intellettuale, e morale della cristianità moderna». Il problema dell’«umanesimo medievale» (per ora al singolare), un’espressione in cui l’aggettivo modifica in ogni caso fortemente il sostantivo, non consiste nella pregiudiziale che potrebbe essere sollevata circa la legittimità dell’uso stesso di questa espressione. A legittimarlo è sufficiente il fatto incontrovertibile che i manoscritti sui quali i venuti dopo, i «moderni», hanno potuto leggere gli autori antichi, erano tutti, salvo rarissime eccezioni, manoscritti medievali. Da qualche anno, per merito del danese Birger Munk Olsen, disponiamo del Catalogo dei manoscritti latini dal IX al XII secolo; ma dobbiamo mettere nel conto quelli scritti prima e dopo, nonché i moltissimi andati perduti. Abbiamo inoltre notizia di numerosi manoscritti di autori classici, elencati nei circa trecentocinquanta inventari di biblioteche che si sono conservati per quasi quattro secoli, e dei classi-


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ci sminuzzati e poi sparsi senza risparmio nei florilegi, sia gli uni che gli altri censiti dal solito Munk Olsen. Ma questi dati quantitativi, se bastano a legittimare l’uso dell’espressione «umanesimo medievale» in quanto tale, dicono ancora poco o niente. Benché sia difficile pensare che tanta fatica spesa nel copiare e ricopiare gli autori antichi fosse concepita come un gigantesco esercizio collettivo di calligrafia, è evidente che si dà sempre la possibilità che i manoscritti dei classici conservati nelle biblioteche dei monasteri accumulassero su di sé, giorno dopo giorno, la polvere di cui gli umanisti del secolo XV racconteranno di averli trovati ricoperti. Lasciando da parte i paradossi, la tesi che fino a ieri teneva il campo dava due distinte risposte al problema della fortuna o, più semplicemente, dell’uso degli autori antichi nel medioevo. Da un lato, questi autori venivano letti a scuola, e dunque in anni giovanili, come modelli riconosciuti dell’uso di una lingua, il latino, che, in quanto lingua scritta, non si differenziava dal latino classico al punto da poter essere considerata una lingua diversa. In questo senso, i maestri delle scuole medievali non facevano che seguire le indicazioni date a suo tempo dai Padri della Chiesa, che le avevano accompagnate a ovvii consigli di cautela. Dall’altro lato in stagioni particolarmente feconde per la vita dello spirito, come al tempo di Carlo Magno o nel secolo XII, alcuni di quegli autori (mai tutti insieme) furono il principale nutrimento, accanto ai Padri, di esperienze di piccoli cenacoli di chierici. Essi, senza nutrire per il momento il proposito di ristabilire un improbabile contatto con l’antichità, come sistema in sé compiuto d valori perenni, si proposero di farne rinascere questo o quell’aspetto particolare, per esempio il rispetto della norma grammaticale. Sono i cosiddetti «rinascimenti medievali». Se gli organizzatori del congresso fiorentino hanno preferito parlare, invece, di «umanesimi medievali» è perché la


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concezione dicotomica, che ho esposto sopra, è entrata in crisi. Al posto di una stanca routine scolastica interrotta di tanto in tanto da baluginanti stagioni «rinascimentali», oggi si tende a rileggere la vicenda della fortuna medievale dei classici come un continuum nel quale il confronto con la miscela esplosiva, per i cristiani, di cui essi erano in molti casi portatori, non si esaurisce sui banchi della scuola, ma prosegue nell’età adulta, dando luogo a tensioni e a nevrosi di cui c’è ampia traccia nella letteratura latina medievale. Anche in questo caso il piccolo libro del Munk Olsen sui Classici nel canone scolastico altomedievale, che inaugura la collana della Fondazione Ezio Franceschini, dando molto più di quanto il suo titolo non prometta, ha contribuito largamente ad aprire la strada. Il Messaggero, 26 novembre 1993 Idee/Le «Istorie fiorentine» secondo Gennaro Sasso Ecco Machiavelli il Magnifico Apparso nel 1958 nella collana dell’Istituto italiano per gli studi storici, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico di Gennaro Sasso è riapparso ventidue anni dopo, riscritto da cima a fondo, presso il Mulino. Nel frattempo la produzione di Sasso si era estesa in svariate direzioni, da Chabod a Croce, a Lucrezio, senza però trascurare l’autore ch’era stato l’oggetto della sua tesi di laurea. E difatti, dopo avere raccolto nel ’67 i suoi Studi su Machiavelli, nell’87-’88 aveva riunito i successivi in ben tre volumi, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, editi da Ricciardi. Ora Sasso torna a riproporre per la terza volta la sua prima, e maggiore, fatica machiavelliana, ma presentata come il volume I, Il pensiero politico (719 pagine), di un Niccolò Machiavelli raddoppiato e sdoppiato (il Mulino, lire 60.000 e 50.000), che comprende anche un secondo volu-


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me, tutto nuovo, La storiografia (496 pagine), nel quale l’autore, dopo un’esitazione durata all’incirca sette lustri, si è risolto a fare i conti, dopo il Principe, i Discorsi e l’Arte della guerra, con la quarta e ultima delle grandi opere machiavelliane: le Istorie fiorentine. Finora le aveva trascurate, non certo perché le ritenesse trascurabili, ma perché era prevalsa in lui «la consapevolezza dell’estrema difficoltà che ciascuno incontra a stringere insieme, in una trattazione unitaria, le due dimensioni che la “storia della storiografia” necessariamente intreccia, e tiene intrecciata, in sé, quella, se così (alla buona) posso esprimermi, dell’oggetto, e l’altra del soggetto che lo ricostruisce e lo contempla nel suo vario andamento, nella sua varietà e, quale che sia, nel suo significato». Onestamente, l’autore dichiara di non avere affatto superato la difficoltà che gli aveva finora impedito di prendere di petto le Istorie fiorentine. La lettura di esse, che egli propone, mira soltanto a cogliere «il vario e suggestivo atteggiarsi del criterio politico a canone storiografico» e, soprattutto, a registrare le modificazioni che esso subisce nell’impatto diretto e programmato con la storia di Firenze, che pure aveva fornito da sempre la materia base su cui quel criterio si era venuto formando. Ma con la sua analisi Sasso si spinge in realtà molto oltre il proposito iniziale, al punto che si può ben dire che gli otto libri delle Istorie fiorentine, redatti da Machiavelli fra il 1520 e il 1525 su «commessa» dello Studio fiorentino, retto allora dal cardinale Giulio de’ Medici, divenuto papa Clemente VII in corso d’opera (nel 1523), possono aspirare d’ora in avanti a essere annoverati fra i capolavori della storiografia. Un giudizio, si badi bene, che, per essere accettato, dovrà prima fare breccia nel persistente sospetto che grava su di un’opera il cui contenuto originario avrebbe dovuto essere la storia di Firenze dal 1434 (avvento al potere di Cosimo de’ Medici il Vecchio) al 1492 (morte di Lorenzo il


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Magnifico), cioè l’apogeo della famiglia cui apparteneva il committente, e colmare, al tempo stesso, il dislivello, che nell’opinione dei più separa tutt’ora le Istorie fiorentine da un vertice storiografico universalmente riconosciuto, come la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, contigua per contesto e data di composizione. È vero che Machiavelli riconosce al Magnifico il merito di avere ritardato l’evolversi della crisi italiana verso l’esito finale, consumatosi solo due anni dopo la sua morte, ma cionondimeno Lorenzo è visto come parte integrante di quello sfacelo. E, riguardo al governo in genere di Firenze, l’avvento al potere di Cosimo non acquista in alcun modo il valore di una svolta riparatrice della «defettività» che, come si ricava dai libri II-IV, aveva caratterizzato la storia della città fino dagli inizi, impedendo che le discordie civili che la costellano, a partire, almeno, dal principio del secolo XIII, si tramutassero in un’occasione di vitalità interna e di potenzialità espansiva, com’era stato a suo tempo per la Repubblica Romana (vedi i Discorsi). Sasso dà giustamente molto valore anche al primo libro delle Istorie, una sorta di «trattato universale», concernente la storia dell’Italia dalla caduta dell’impero d’occidente fino ai primi decenni del Quattrocento. Criterio informatore si questo grandioso prologo è l’idea che, irrimediabilmente defunto l’impero, senza l’escamotage di possibili «rinascite» o di «translazioni», che lo richiamassero, o lo conservassero, artificialmente in vita, anche la virtù antica era defunta con esso, di modo che tutto quello che era venuto dopo, a cominciare dalla storia del papato temporale per finire con quella, che il Guicciardini avrebbe tanto celebrato, delle città-stato, non aveva «un senso che non fosse quello della potenza disgregatrice e distruttrice, e della maledizione che recava in sé». A proposito di questo giudizio, Sasso parla di una «prepotenza teologica» esercitata a danno della «disposizione sto-


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riografica». È infatti evidente che «il carattere cupo e livido dell’apocalisse» che Machiavelli imprime al suo «trattato universale» e, di riflesso, alla trattazione delle «cose fiorentine» che gli tiene dietro, è il portato diretto dello stato d’animo con cui aveva vissuto, a tratti da protagonista, gli anni intercorsi fra il fatidico 1494 e il 1520, quando intraprese a scrivere le Istorie fiorentine. Ma la storia si fa anche col senno di poi e, comunque, la famosa proposizione secondo sui non si dà storia se non del positivo ha perduto per strada gran parte dei consensi che l’avevano salutata al suo primo apparire. Il Messaggero/Colpo d’occhio, 8 febbraio 1994 I Normanni, popolo d’Europa Mostre e anniversari riaccendono il dibattito degli storici sugli «uomini del Nord» Ma Croce si sbagliava Incombe il centenario della nascita di Federico II (dicembre 1194) e un Comitato nazionale è all’opera per coordinare le iniziative che si preannunciano numerose. Nel frattempo, il 29 gennaio, si è inaugurata a Palazzo Venezia la splendida mostra su I Normanni, popolo d’Europa. Né i Normanni, in quanto appunto «popolo d’Europa», né Federico in quanto anche imperatore e re d’Italia, possono venire ricondotti al solo ambito del regno di Sicilia (isola più Italia meridionale) creato dai primi e nel quale il secondo subentrò per essere stato generato da Enrico VI di Svevia, imperatore, e da Costanza d’Altavilla, figlia quarantenne di Ruggero II d’Altavilla, il primo dei re normanni di Sicilia. Ciò non toglie che il regno normanno-svevo che si intitola dall’isola, occupi in una prospettiva di lungo durata della storia d’Italia un posto rilevantissimo. Anche se, come ritiene Giuseppe Galasso, fu l’incompleta conquista della penisola da parte dei Longobardi nel


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569 a configurare per la prima volta le «due Italie»; fu infatti la nascita, nel 1130, del regno di Sicilia a consacrare quel già esistente dualismo, proprio nel momento in cui nell’Italia centro-settentrionale le città-stato affermavano con sempre maggiore decisione la loro autonomia nei confronti del fantomatico regno d’Italia. Si comprende perciò che l’interesse degli storici per il regno, prima normanno e poi svevo, di Sicilia (oggi si tende a distinguere le due fasi) non abbia conosciuto un attimo di sosta, soprattutto dopo che, nel 1924, nell’introduzione alla Storia del Regno di Napoli, Benedetto Croce aveva sostenuto la tesi secondo cui il «glorioso regno di Ruggiero», vanto della tradizione municipalistica, era il prodotto di una «storia, nella sua sostanza, non nostra, o nostra soltanto per piccola parte e secondaria: alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il carattere indigeno e nazionale». Mai provocazione fu più stimolante di questa. In polemica aperta o sottaciuta con Croce, si è provveduto a mettere nel dovuto rilievo le straordinarie e diversificate possibilità insite nella materia politicamente disgregata cui i cavalieri normanni hanno dato in pochi decenni forma di stato. Sono state altresì individuate caso per caso le caratteristiche dei primi insediamenti e delle reazioni che ad esse seppero opporre i potenti locali. Accanto alla perdurante centralità degli aspetti politico-istituzionali, liberati però dal peso eccessivo di testimoniare un’improbabile anticipazione del cosiddetto «stato moderno», è stata soprattutto l’economia regnicola a trovarsi nel mirino, per il posto che nel decollo delle fortune del regno risulta avere avuto il grano siciliano, il cui smercio i re dei normanni seppero gestire con grande accortezza, anche se poi fallirono nel tentativo di creare un’industria tessile, premessa della futura condizione di scambio ineguale. La connotazione che oggi forse rende più spendibili i re normanni sul mercato della storia divulgata è quella di esse-


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re stati «re di due religioni», la cristiana e la musulmana. Ma c’è anche dell’altro: secondo un cronista, i veneziani di passaggio restavano sorpresi dal fatto che si potesse dormire nei boschi del regno senza essere derubati. Non so più in quale occasione Paolo Delogu ebbe a dire che i Normanni hanno arricchito la storia d’Italia della presenza di re e di cavalieri, figure di protagonisti del medioevo ben più tipiche dei nostri «notaio del sacro palazzo», consoli e podestà, e maestri di diritto. In questo senso, i Normanni hanno contribuito ad «europeizzare» il nostro atipico medioevo cittadinesco, riconducendoci in parte nell’orbita della civiltà fiorita sulle due sponde della Manica, e che oggi molti vorrebbero far passare come il «vero» medioevo. Ma, attenzione!, raccogliendo l’eredità delle città marinare campane e pugliesi, i Normanni hanno anche contribuito ad incrementare la nostra innata vocazione mediterranea, con la conseguente spinta a guardare verso le sponde non europee di questo mare, nelle cui acque, a partire proprio dal secolo XII, si sarebbe rispecchiato il lento declino delle civiltà arabo-musulmana e greco-bizantina. Il Messaggero/Colpo d’occhio, 6 marzo 1994 Medioevo/Esiste una identità nazionale in base alle credenze e ai riti? È la suggestiva tesi del primo volume della Storia dell’Italia religiosa. E dimostra che la lotta di classe si è identificata spesso con quella per il culto A ciascuno il suo Santo protettore I processi di canonizzazione, con la loro procedura regolata sin nei minimi dettagli, miravano a riservare alla «monarchia papale» duecentesca il monopolio della proclamazione di nuovi santi, proponendo gli eletti a un culto universale. Le città italiane si adattarono in un primo momento a sottoporre i loro propri candidati alla santità, a questa


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trafila imposta da Roma. Poi, registrata una serie di insuccessi, si stancarono di insistere, e col sostegno del clero locale promossero la diffusione di «veri culti civili in onore dei loro eroi», senza più chiedere il permesso a nessuno. È la stagione della religione civica, «un insieme di pratiche religiose nelle quali l’autorità politica svolse un ruolo determinante, sia nell’iniziativa che nella gestione del sacro». Ma il culto di questi santi angustamente cittadini stentò a trovare favore nelle campagne, già angariate dalle città sul piano fiscale e ora renitenti di fronte alla prospettiva di scegliersi come intercessore un santo della medesima provenienza. La risposta degli uomini dei campi consisté allora nel potenziare piccoli preesistenti santuari rurali, dedicati per lo più alla Madonna, «figura trasgressiva per eccellenza», alcuni dei quali, quelli di Loreto o di Monte Berico, appena fuori Vicenza, destinati ad assurgere a una fama ben più che locale. Finché, con la Controriforma, anche sul culto di Maria di sarebbe allungata la mano normalizzatrice di Roma. Ricavo queste linee di sviluppo dal bel saggio di André Vauchez su «Reliquie, santi e santuari, spazi sacri e vagabondaggio religioso nel medioevo», uno dei diciassette, di vati autori, di cui consiste il primo volume, L’antichità e il medioevo (Laterza 612 pagine, 50 mila lire) di una Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory e, appunto, Vauchez, che è anche il coordinatore di questo primo uscito dei tre programmati (il secondo e il terzo concerneranno, rispettivamente, L’età moderna e L’età contemporanea). Problematica, quale che sia l’aspetto sotto il quale ci si proponga di coglierla, l’identità italiana attraverso i secoli è particolarmente sfuggente proprio sotto il profilo religioso. I curatori di questa Storia lo sapevano benissimo: «Sia nel paganesimo antico, sia nel cristianesimo medievale e moderno, l’Italia si è trovata al centro di un sistema di cre-


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denze nel quale ha finito per identificarsi al punto tale da perdere la propria specificità. Questo era già vero nell’Antichità, quando il culto reso alla Triade capitolina, alla dea Roma e al genio dell’imperatore si diffuse in tutto il cerchio del Mediterraneo… Senza calcare la mano, si può dire lo stesso del cristianesimo, proprio in quanto il papato si è imposto come erede della tradizione romana e del potere imperiale». Per ciò che riguarda almeno la storia religiosa d’Italia dal quarto secolo in poi, l’identità sfuggente potrebbe essere facilmente trovata, al positivo, nel privilegio assegnatoci dalla Provvidenza di ospitarlo in casa nostra questo benedetto papato o, al negativo, con una semplificazione altrettanto rassicurante, nel fatto che sempre il papato, con la sua presenza, ci avrebbe reso, come pretende Machiavelli, «sanza religione e cattivi». I tre curatori, da parte loro, si sono risolti a mettere il papato fra parentesi, a fare non dico come se non ci fosse, il che risulterebbe arduo a chicchessia, ma a relegarlo sullo sfondo del quadro, concentrando l’attenzione su un’«unità italiana» che si sarebbe manifestata «attraverso una reale e profonda omogeneità delle credenze, al di là della diversità, più o meno sensibile, dei culti e delle devozioni». Insomma, L’Italia senza papa, come suona il titolo del contributo di Roberto Rusconi sull’età avignonese e il grande scisma d’Occidente, quando per circa un secolo l’ipotesi dei curatori trova un preciso riscontro nella realtà. Solo ad opera conclusa sarà possibile dire se un impianto come questo, che si iscrive nell’orizzonte della sociologia religiosa e dell’antropologia culturale, regga alla prova della lunga durata. Per il momento, si può solo anticipare che l’avvio è promettente, come dimostra lo scorcio prospettato all’inizio. Certo, per un gran numero dei secoli abbracciati in questo primo volume, le fonti per una storia come quella che ci viene promessa, scarseggiano, e, come si può


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facilmente arguire dallo stesso esempio che si è addotto, gli aspetti istituzionali tendono a venire prepotentemente in primo piano a scapito di quelli devozionali. Da segnalare, infine, la coincidenza, che non è poi tale, per cui un’opera sull’identità religiosa di noi italiani appare proprio nel momento in cui abbiamo di nuovo l’impressione di essere tutti «sanza religione e cattivi». Il Messaggero/Cultura e Costume, 20 aprile 1994 Alto Medioevo/I processi dal V all’VIII secolo. Il diritto e la funzione del patteggiamento Ma al giudice vescovo bastava un’ammenda A Spoleto la settimana scorsa, nel tradizionale convegno del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, si è parlato di giustizia. I relatori, in particolare gli italiani più esposti degli altri alla tentazione, hanno avuto il buon gusto di astenersi dalle strizzatine d’occhio, con cui talvolta gli accademici cercano di tenere desto e di ingraziarsi il pubblico. Trattando un tema come questo, i riferimenti ai casi di casa nostra sono fin troppo ovvi e sarebbe stato perciò superfluo soffermarsi a sottolinearli. Ancora una volta si è potuto constatare che, se si affronta lo studio del passato, anche remoto, con intelligenza e passione, ma con il dovuto distacco, l’insegnamento che se ne ricava per il presente è molto più efficace di quando ci si sforza di individuare improbabili analogie, falsando i termini in cui i problemi effettivamente si pongono ieri e oggi. Il periodo preso in esame andava dal V all’VIII secolo, quindi nemmeno l’intero arco di tempo che siamo soliti etichettare come alto medioevo (i secoli IX e X verranno affrontati in un convegno successivo). Questa prima sezione di alto medioevo va, in sostanza, dallo sfondamento del limes renano da parte dei Germani invasori, preludio della


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caduta dell’impero romano d’Occidente, a Carlomagno, non ancora imperatore, ma già signore di gran parte delle province ex romane. Nei limiti in cui, allo stato attuale degli studi, ha ancora senso parlare di “transazione” dal mondo antico al medioevo, sono i secoli lungo i quali essa si consumò, a un ritmo che comunque variò moltissimo a seconda dei tempi e dei luoghi. Nella delineazione di questo processo di lunga durata, lo studio dei modi in cui fu esercitato il potere giurisdizionale (peraltro mai distinto dagli altri che noi siamo abituati a considerare separati) costituisce un osservatorio privilegiato per cogliere permeanze e innovazioni. Sia uno stato ultrastrutturato, come il romano tardoantico, che stati “minimi”, come i romano-barbarici, non potevano infatti sottrarsi al compito di perseguire e punire i delitti e di dirimere i conflitti d’interesse. Per non parlare della Chiesa, che, ben radicata nel cuore tanto dell’uno che degli altri, in una posizione che, soprattutto per ciò che concerneva l’impero romano-cristiano, era di consolidato privilegio, non si limitava a giudicare e punire peccatori ed eretici, ma vedeva i suoi vescovi erigersi a giudicare anche in cause di diritto privato. Ancora cinquant’anni fa, la storia, in genere, di questo periodo e quindi, anche la storia della giustizia durante questo periodo, veniva configurata come una grande arena, nella quale si confrontavano i tre famosi “fattori”, cioè Romanità, Cristianesimo, Germanesimo, concepiti come altrettante persone, come altrettanti campioni in lotta per l’egemonia sulla nascente Europa medievale. Oggi, il campo è dominato da una pluralità di ircocervi, nei quali non è sempre dato di individuare i tratti delle rispettive fattezze originarie e che appaiono invece accomunati da una certa aria di famiglia, che non è altro che l’impronta di quei tempi difficili. Il giudice ecclesiastico, che al rigore della penitenza pubblica tende a sostituire il regime più morbido del tariffario (a


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ogni peccato corrisponde una penitenza commisurata alla sua gravità), obbedisce a una logica analoga a quella per la quale il re barbarico, più che a “dire il diritto” (ius dicere), a pronunciare una sentenza, mira a comporre le vertenze, favorendo i patteggiamenti, convinto com’è che il “patto” assicuri meglio di una qualunque sentenza il ristabilimento della “pace” bene supremo in un mondo che non la conosce. La persistenza della tradizione romana non fu affidata, come una volta, al fiume carsico cui ben presto si ridusse la circolazione delle tardive codificazioni del diritto antico: la Teodosiana del V secolo e la Giustinianea del VI. Essa fu garantita in un primo momento dall’esperienza dei numerosi vescovi ch’erano stati in gioventù funzionari e, quindi, anche giudici imperiali e, in seguito, dalla diffusione di una prassi, in cui quel diritto e le sue raffinate procedure erano piegate alle esigenze di tutti i giorni dall’estro di giurisperiti improvvisati. È per questa via tortuosa e indiretta che la prova documentaria, fondata sull’allegazione del documento scritto, finì col prevalere sulla prassi barbarica dei giuramenti collettivi di familiari e clienti, con cui ciascuna delle due parti cercava di fare valere i propri diritti. Prima, quanto più numerosi erano questi pseudotestimoni che uno riusciva a portare davanti al giudice, tanto più alte erano le probabilità di averla vinta. Il Messaggero, 12 agosto 1994 Polemiche/Roghi e torture? Non è tutto vero. Il medievista Cardini tenta una revisione del fenomeno Riabilitare l’Inquisizione, che vergogna Anni fa, recensendo su questo giornale la traduzione italiana di un fortunatissimo libro francese, in cui la vita quotidiana di un villaggio occitano nella prima metà del secolo XV


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era ricostruita sulla base dei verbali di un inquisitore, lamentai che l’autore, tutto preso dalla moda allora imperante della “storia immobile” e della “storia in briciole”, non avesse trovato il modo di spendere una parola sull’Inquisizione in sé. Mi sarebbe sembrato opportuno che, in un libro che ha avuto centinaia di migliaia di lettori, l’Inquisizione non comparisse solo come un’istituzione che aveva prodotto la straordinaria fonte storica che ha consentito a lui, Le Roy Ladurie, di esercitare la sua penetrazione, anch’essa straordinaria, di storico padrone dei metodi dell’antropologia. Insomma, anche a Montaillou, così si chiamava quel villaggio, la storia, se Dio vuole, non si era fermata, tanto è vero che un giorno gli orrori dell’Inquisizione avevano avuto fine. Se mi ha letto, il mio collega, e anche amico, Franco Cardini avrà certo gridato al pregiudizio laicista. Me lo lascia pensare il suo articolo sull’ultimo numero del settimanale L’Italia, che ha come titolo «Riabilitiamo l’Inquisizione», un titolo vergognoso del quale Cardini non ha sicuramente la responsabilità. Ma peggio per lui, se collabora a giornali che titolano così. Del resto, come c’era da aspettarsi, dopo le sciocchezze del “sinistrese”, è venuta l’ora di quelle del “destrese”, che hanno sempre circolato, ma in un sottobosco dove si avventuravano solo alcuni malinconici aficionados. L’articolo di Cardini è naturalmente altra cosa. Contiene tesi condivisibili, tesi solo in parte condivisibili, tesi da respingere. Nonché un’omissione. Ma, come tutto quello che scrive lui, merita di essere discusso. Da respingere, e qui sarò consapevolmente cattivo, è la strategia consistente nel premettere a un discorso sull’Inquisizione un elenco delle violenze e dei semplici torti che hanno subito la Chiesa e i cattolici in età moderna. Che c’entra? Una mano non lava mai l’altra. Un cristiano, come credo che egli sia, non dovrebbe mai ricorrere a un argomento del genere. Anch’io deploro che nei manuali di storia per le scuole si sorvoli sulla Vandea e anche sui massacri di vescovi e di preti avve-


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nuti durante la guerra civile spagnola. Ma, ripeto, non si tratta di pareggiare i conti. Per il resto, Cardini cita una serie di pubblicazioni, nelle quali il fenomeno inquisitoriale è studiato – ci assicura – seriamente. A proposito di una di queste, che probabilmente ha offerto lo spunto al suo intervento, nutro il sospetto che lo spirito che la pervade sia tutt’altro che scientifico. Come si può intitolare un libro, magari non tutto da buttare via, Elogio dell’Inquisizione? Mi auguro che nessun bibliotecario italiano ne disponga l’acquisto. Ma questo vale, ancora una volta, per il titolo. Per il contenuto, sia pure con qualche difficoltà, sono disposto a fare credito a Cardini. Questo però non gli dà il diritto di affiancare il nome di Vittorio Messori a quello di uno «studioso di valore», sono parole sue, come Adriano Prosperi. Ma il punto davvero notevole è un altro. Cardini, che è, come si sa, uno storico del Medioevo, quando, in questo suo articolo, parla in prima persona e non si trincera dietro giudizi di altri, ha sempre cura di distinguere l’Inquisizione medievale da quella tardomedievale e dei primi secoli dell’età moderna. Ora, non c’è alcun dubbio che l’Inquisizione medievale è stata un fenomeno molto circoscritto, connesso in particolare con la repressione dell’eresia catara (vedi Montaillou). Il legame che si è voluto stabilire fra Inquisizione e Medioevo, facendo di quella uno dei capisaldi della leggenda nera di questo, è frutto di una generalizzazione che va respinta con forza. Qui Cardini gioca in casa e ha ragione da vendere. Ma, a partire dal momento in cui la storia dell’Inquisizione mescola le sue acque con quelle della genesi dello Stato moderno, questa istituzione medievale sviluppa tutte le potenzialità negative che aveva insite in sé. E questo Cardini lascia intendere più di quanto non dica, anche se per lui sarebbe stata un’occasione per prendersela con il celebrato (dai laicisti!) Stato moderno.


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Mi domando perché, magari in calce al suo articolo, Cardini non abbia pensato a porsi una domanda, questa sì di bruciante attualità: fino a che punto la pratica inquisitoria ecclesiastica ha influito sulle procedure dei tribunali laici, in particolare nell’Italia comunale? Quando si pensa alle difficoltà che il rito accusatorio incontra nel nostro paese a sostituirsi al vecchio rito inquisitorio viene da chiedersi se, almeno in Italia, i metodi dell’Inquisizione non siano entrati a far parte del nostro patrimonio genetico. Altro che elogio dell’Inquisizione! Il Messaggero, 20 agosto 1994 Medioevo/In volume l’avventura italiana del re tedesco, incoronato imperatore nonostante le ostilità del papato. E i 73 straordinari disegni, commissionati dal fratello Baldovino, come sequenza di un film Il viaggio di Enrico VII, che bella sceneggiatura Lo splendido ed eruditissimo volume su Il viaggio di Enrico VII in Italia, curato dall’Ufficio centrale per i beni archivistici del Ministero per i Beni culturali (Edimond, pagine XII + 326, 120 mila lire), ci dà modo di «vedere» in senso stretto e, al tempo stesso, di riconsiderare da un punto di vista diverso dall’usuale uno dei più drammatici, e degli ultimi, «viaggi a Roma» intrapresi da un re di Germania per farsi incoronare imperatore. Certo, il tragitto fra le Alpi e Roma comportava l’attraversamento dell’Italia centro-settentrionale, e fu proprio in quel ginepraio che Enrico spese le sue migliori energie, ciò che giustifica largamente il titolo che si è scelto di dare al volume. Ma l’espressione «viaggio in Italia» rischia di rimandare al tour settecentesco, mentre quella in cui l’ex conte di Lussemburgo s’è giocata la vita è propriamente la Romfahrt, il «viaggio a Roma».


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Enrico era stato eletto re di Germania o, più precisamente, «re dei Romani» (Roma lo attendeva!), nel 1308. Principe di importanza secondaria, non dava ombra a nessuno. Ma non l’avrebbe spuntata, se non fosse stato per l’appoggio decisivo dato alla sua candidatura dal fratello Baldovino, che, in quanto arcivescovo di Treviri, era uno dei principi elettori. Dalla morte di Federico II l’impero era praticamente vacante e si comprende, dunque, con quali speranze gli italiani di fede ghibellina, o assimilati, come l’ex guelfo bianco fiorentino in esilio Dante Alighieri, abbiano salutato l’annuncio e poi seguito le tappe del «viaggio a Roma» di Enrico, che ebbe inizio nell’autunno del 1310. Pari solo, quelle speranze, alla delusione che tenne dietro al sostanziale fallimento dell’impresa, naufragata al suo nascere per le difficoltà che il lussemburghese incontrò nel districarsi fra le contese intercittadine e cittadine, in cui si manifestava l’anarchia endemica dell’Italia centrosettentrionale, e nell’affrontare l’ostilità aperta o subdola con cui il papa di Avignone e il re angioino di Napoli cercarono di sbarrargli la strada. La morte di Enrico a Bonconvento (Siena) il 24 agosto 1313 non fu un incidente di percorso, ma suggellò un destino già segnato. Per chi, come Dante, considerava l’Italia il «giardin de lo ‘mperio», quel fallimento era la premessa della sua desertificazione. Sul piano personale, era la fine di ogni prospettiva di un suo dignitoso ritorno fra le mura di Firenze, che prima lo aveva costretto all’esilio ed ora si era distinta nello sbattere la porta in faccia ad Enrico. Ma, con tutto questo, Enrico la corona imperiale era pur riuscito a cingerla. Non in S. Pietro, controllata dagli Orsini e dalle milizie del re angioino, ma in S. Giovanni in Laterano; non dalle mani del papa, ma da quelle di tre cardinali amici, che si prestarono all’insolito cerimoniale. E per i Lussemburgo non era successo da poco. Tanto è vero che


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il fratello arcivescovo, che aveva partecipato alla spedizione, qualche anno dopo essere tornato in patria pensò di immortalarne il ricordo, commissionando uno straordinario, senza precedenti, album di settantatré disegni, nei quali, dietro sue precise indicazioni, vennero rappresentate le tappe, salienti della Romfahrt di Enrico fino al tragico epilogo di Bonconvento, ma con l’incoronazione romana al posto d’onore, e con le insegne ben in vista nei vari episodi del fiore dei cavalieri del regno tedesco che avevano costituito il nerbo del suo esercito. Baldovino dovette ritenere che la monumentalizzazione dell’impresa potesse ridondare non solo a gloria del suo casato, ma anche a gloria della diocesi di Treviri, se l’album dei disegni andò congiunto in un primo momento a uno dei quattro manoscritti in cui l’arcivescovo, che era anche un buon amministratore, fece raccogliere e trascrivere i documenti attestanti i diritti e privilegi che vantava la sua sede. I disegni sono accuratamente riprodotti nel volume, che è corredato da saggi di studiosi italiani e tedeschi che li commentano da vari punti di vista (compreso l’araldico), nonché dalla raccolta dei documenti concernenti l’impresa di Enrico conservati negli Archivi di Stato italiani. Insomma, un libro da guardare, da leggere, ma anche da consultare. Il Messaggero, 6 settembre 1994 Guelfi e ghibellini/Otto secoli fa nasceva l’imperatore. Un gigante, ma avversato dai papi. E gli storici si dividono Federico II: dopo Dante c’è chi vuole metterlo davvero all’Inferno Siamo ormai in pieno anno, o biennio, federiciano. Si intende l’ottocentesimo dalla nascita di Federico II, avvenuta a Jesi il 26 dicembre 1194, che, secondo lo stile della Natività che faceva cominciare l’anno nuovo il 25 dicembre,


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era già il secondo giorno del 1195. E, perciò, le celebrazioni, che hanno avuto inizio qualche mese fa qua e là per l’Italia quanto è lunga, da Pavia a Rimini, a Reggio Calabria, si estenderanno a coprire anche l’intero anno prossimo. A cura del comitato nazionale all’uopo costituito dall’allora ministro dei Beni culturali, Alberto Ronchey, e presieduto dal senatore Ortensio Zecchino, che da buon meridionale, e uomo di studio egli stesso, è sensibile alle ragioni delle humanae litterae e della historia rerum gestarum, è stato pubblicato il programma delle manifestazioni, alcune già avvenute, le più scaglionate lungo i sedici mesi a venire. Non essendo stata ancora approvata una leggina ad hoc, il comitato si è limitato a coordinare, come si suol dire eufemisticamente, le iniziative prese dalla periferia, ammesso che si possa definire così rispetto ad un centro, che in realtà non esiste, la plaga variegata costituente a qualche titolo l’Italia federiciana. Opportuna appare l’iniziativa di raccogliere in un’unica collana gli atti dei convegni e i cataloghi delle mostre. Il che vuol dire assicurare a queste pubblicazioni una circolazione e una durata nel tempo che altrimenti non avrebbero. E, accanto ad esse, cui resterà consegnata per il bene e per il male la memoria del centenario, sono annunciate numerose edizioni di fonti, cui tocca il compito di controbilanciare validamente il molto di effimero che non può comunque mancare di accompagnarsi a celebrazioni del genere. Ma va anche soddisfatta la curiosità del grande pubblico per la storia passata, in particolare per la medievale, prediletta perché, a un tempo, domestica ed esotica. Sarà, questa dell’anno federiciano, un’occasione d’oro per rilanciare le fortune del medioevo mediterraneo, a torto trascurato rispetto a quello dei paesi che si affacciano sulla Manica e il mare del Nord. Anche se avesse disposto dei mezzi finanziari per farlo, il comitato nazionale non avrebbe potuto facilmente dare


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un’impronta unitaria alle celebrazioni in programma. Federico II è un fascio di contraddizioni, fra le quali ciascuno può pescare ciò che è più di suo gradimento. Tanto per fare un esempio, il sovrano svevo di Sicilia passa a giusto titolo per un ammiratore della cultura e della tecnologia musulmane. È lì che ha attinto fra l’altro le sue conoscenze scientifiche ed empiriche in fatto di falconeria. Con i potenti musulmani ha trattato, orribile a dirsi per i puristi dell’idea di crociata, il libero accesso ai Luoghi Santi. Ma, qualche anno prima, aveva deportato, per ragioni di ordine pubblico, dalla Sicilia occidentale a Lucera il grosso dei musulmani tuttora residenti nell’isola. Salvo poi trarre da essi una specie di guardia del corpo, o reparto speciale, da utilizzare nelle occasioni più delicate. E, finalmente, consentire che nel recinto, chiamiamolo così, di Lucera, sorgesse una moschea con relativo minareto, per la disperazione del clero cattolico locale. C’è sinceramente da augurarsi che la molteplicità di voci non concertate che si leveranno a celebrare tutti i possibili Federici, che il Federico della storia in varia misura consente, impediranno la riuscita dei tentativi, che certo non mancheranno, di appropriarsene in un senso o nell’altro. I mesi scorsi hanno visto molte operazioni di revisionismo storiografico. L’imperatore svevo si presta benissimo alle rivisitazioni più disparate, ma, al tempo stesso, dà la garanzia di scongiurarle per la sua intrinseca indisponibilità a lasciarsi catturare in formule semplificatrici. Di fronte a questa indisponibilità ha dovuto arrendersi persino Dante, che lo mette, sì senza esitazione all’inferno fra gli «epicurei», colpevoli di negare l’immortalità dell’anima, ma gli riconosce il merito di avere creato nella sua corte siciliana un centro di incontro e confluenza fra i letterati ed i poeti di tutte le regioni d’Italia, e soprattutto fa coincidere il tramonto di «valore e cortesia» nell’Italia padana con l’inizio delle ostilità dei comuni contro di lui.


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Il Messaggero/Cultura e Costume, 29 settembre 1994

Polemiche/Le celebrazioni del re di Sicilia e l’accusa di sprechi Federico val bene un volumetto Nella mia qualità di coordinatore della Commissione scientifica del «Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Federico II», mi sia consentito di fare qualche precisazione in margine all’articolo di Fabio Isman su «Federico II e l’arte dello spreco», apparso su «Il Messaggero» del 24 settembre. Isman trova da ridire sul «Programma» delle celebrazioni stesse, curato dal Comitato. Sarebbe una pubblicazione caratterizzata da un’evidente sproporzione fra veste grafica e contenuto: lussuosa quella, deludente questo. Se un torto abbiamo avuto, è stato solo quello di esserci uniformati a una moda imperante. Mi segnali, Isman, un esempio di invito alla più modesta manifestazione culturale che non riveli una certa pretenziosità grafica! In questo caso, il volumetto in questione è destinato a raggiungere i possibili interessati di tutto il mondo, che sono legione e, soprattutto, sono raggiungibili attraverso indirizzari specializzati. (Fra parentesi, le illustrazioni sono tutte tratte, e abbiamo avuto il torto di non dirlo, da un manoscritto vaticano del De arte venandi di Federico II). Quanto al contenuto, esso riflette quanto autonomamente hanno deciso di fare per celebrare Federico II enti culturali, attingendo a risorse proprie. Il Comitato nazionale si è limitato a fare una cernita, scegliendo solo quello che sembrava dare una qualche garanzia di essere effettivamente realizzato e di avere una probabile dignità scientifica. Solo a posteriori sapremo se abbiamo ecceduto in generosità. Per ora, siamo alle prese con le proteste degli esclusi. Non si può fare dell’ironia a buon mercato su Mercogliano, «seimila abitanti, provincia di Avellino», senza dire che è il comune nel cui distretto si trova l’abbazia di


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Montevergine, stabilimento monastico di una qualche notorietà. Chi non mi prende sulla parola, vada a vedere. Fuori posto anche l’ironia sui restauri di Jesi, concernenti due prodotti della pittura storica del secolo scorso, che non appartengono certo alla storia dell’arte, ma a quella del gusto e della cultura sì. Anch’io mi sono domandato cosa andranno a dire colleghi anche illustri che si sono prenotati per relazioni in più sedi congressuali. Ma, siccome il Comitato ha deciso di curare la stampa in un’unica collana degli atti dei convegni, è da augurarsi che quei colleghi staranno attenti a non ripetersi. Il trionfo dell’effimero, si dirà. Ma effimere non sono almeno le «Pubblicazioni» elencate nella prima sezione del contestato Programma. Sfido Isman a rivolgere un’attenzione critica particolare a quelle che saranno curate dall’Istituto storico italiano per il medioevo, di cui sono presidente. Ma è solo un esempio. Altri istituti faranno cose ancora più utili di quelle cui ho pensato io. Da parte sua, il Comitato nazionale non intende limitarsi a pubblicizzare iniziative altrui mediante il discusso volumetto. Organizzerà anche una grande mostra federiciano a Roma, che sarà inaugurata alla fine del ’95, dopo le due di Palermo e di Bari. La mostra servirà fra l’altro a valorizzare i cimeli federiciani che si trovano in Campidoglio e che la stragrande maggioranza dei romani, c’è da giurarlo, non sa nemmeno che esistono. Certo, è assurdo che si debba attendere, per fare questo, una ricorrenza centenaria. Ma questo è un problema di carattere generale, sul quale meriterebbe riflettere. A Isman, che è stato così severo e sgarbato nei nostri confronti vorrei dare un consiglio. Nel 1995, il 20 settembre (manca giusto un anno), ricorre non solo il centoventicinquesimo anniversario di Roma italiana, ma anche il centenario della prima celebrazione ufficiale di quell’evento. Una celebrazione che scatenò un puti-


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ferio nell’Italia di fine secolo. Perché Isman non propone a «Il Messaggero» di prendere fino da ora l’iniziativa di celebrare il centenario di quel memorabile venticinquennale? Il Messaggero/Cultura & Spettacoli, 4 luglio 1995 Profumi d’Oriente/Un libro di Jaen-Paul Roux rivisita la storia dell’emiro mongolo Per il feroce Tamerlano una parziale riabilitazione Nel 1941, quando due archeologi sovietici aprirono il sarcofago d’ebano ricoperto d’argento, in cui era sepolto Tamerlano, se ne sprigionò un profumo di piante aromatiche così forte che dovettero allontanarsi un momento per riprendere fiato. “Timur”, Ferro, non un soprannome ma un nome, “leng”, zoppo, per una ferita da freccia che lo aveva colpito in battaglia quando aveva ventisette anni, producendogli un raccorciamento dell’arto inferiore sinistro, era nato nel 1336 in una città a sud di Samarcanda. E a Samarcanda (oggi nella repubblica ex sovietica dell’Uzbekistan), dov’era rientrato diciannove volte da vincitore, fu sepolto nel 1405. La morte lo aveva colto subito dopo la partenza per una spedizione in Cina, d’inverno com’egli preferiva, perché paventava più la steppa arsa dal sole che la steppa gelata. La spedizione era stata preparata con cura particolare. «Per condurre la guerra contro la Cina bisogna disporre di potenza estrema», aveva detto un giorno. Contadini scortati da soldati erano stati mandati avanti per seminare, dove possibile, grano, lungo le piste. Ancora nell’estate del 1404 aveva ricevuto l’ambasciatore di Castiglia Ruyz Gonzales de Clavijo, che, per buona sorte, consegnò le sue impressioni allo scritto. Era rimasto colpito anche dalla straordinaria resistenza al mangiare e al bere di quel sessantanovenne, che pure aveva le palpebre che gli chiudevano gli occhi. Uno degli archeologi sovietici del ’41, tale Guerassimov,


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aveva messo a punto una tecnica che, secondo lui, gli consentiva di ricostruire le fattezze di un defunto a partire dal suo cranio. E, di ritorno da Samarcanda, presentò il “vero ritratto” di Tamerlano all’Accademia delle Scienze dell’Urss. Jean-Paul Roux in un recentissimo libro (Tamerlano, Garzanti, 298 pagine, 42.000 lire) suppone che, «anche se in buona fede Guerassimov si lasciò guidare dall’idea che del conquistatore s’era fatto, e dai ritratti che aveva visto». E aggiunge: «Se però così non è, dobbiamo riconoscere che la sua scultura non si differenzia in modo sensibile dalle immagini trasmesse da pittori e letterati, e corrisponde a una certa idea che abbiamo dell’uomo. L’espressione è dura, feroce, priva di qualunque umanità». Appunto questa “certa idea” l’autore cerca di rettificare. Lo fa garbatamente, con misura, una virtù sconosciuta al suo eroe («Tutto è misura della dismisura del signore», a cominciare dal fausto inaudito della sua corte), senza indulgere, se non di quando in quando, al fastidioso partito preso della riabilitazione. Glielo avrebbero impedito, fra l’altro, le famose quarantacinque “torri” o “minareti”, edificati per ordine di Tamerlano a Isfahan, nella Persia meridionale, usando come materiale da costruzione millecinquecento teste mozze – non una di meno, ma neanche una di più – per ciascuna torre. Essendo stato impartito l’ordine di risparmiare le donne, poiché i crani maschili non erano disponibili in quantità sufficiente, i soldati rasarono i capelli e annerirono il volto di teste mozze femminili, in modo di raggiungere lo stesso la quota prestabilita. Di norma risparmiate, le donne – le giovani, s’intende – venivano razziate. Le mussulmane, condannate alla segregazione, erano la preda più ambita. Dopo un saccheggio, i soldati di Tamerlano «uscirono dalle città trascinando per i capelli donne e fanciulle di cui il sole non aveva mai vista l’ombra». Nato da una famiglia mongola d’origine, ma turchizzata, Tamerlano, il Grande Emiro come volle essere sempre


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chiamato, voltò le spalle alla steppa e optò per la città. Non per questo, tradì il retaggio di Gengis Khan, nella cui discendenza si fece collocare in una “genealogia inventata”. In questa doppia appartenenza risiede, secondo Roux, il suo vero segreto. Le sue guerre furono tanto poco “sante” che le combatté tutte non contro gli infedeli, ma contro potenze mussulmane, a cominciare dagli ottomani, che sconfisse ad Ankara nel 1402, regalando altri cinquant’anni di vita all’impero bizantino. Nonostante una serie imponente di vittorie, il territorio su cui regnò non reggeva il confronto, per dimensioni, con gli imperi delle steppe del passato. Assicurò qualche anno di relativa pace alla Transoxiana e all’Iran. Alla sua morte tutto andò in frantumi. Ma da tanto sangue versato sbocciò un frutto inatteso; il cosiddetto “rinascimento timuride”. Dei suoi discendenti quello che fece miglior prova fu il nipote Ulu Beg, “uomo di guerra meschino e governante mediocre”, ma anche “uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi”. Il Messaggero/Cultura, 19 agosto 1995 A lezione dalla Storia/Etica e conflitti dal Medioevo ad oggi Le “buone” guerre? Non sono mai esistite «Oh Dio! Allora erano guerre, se mi è consentito dirlo, buone guerre, nelle quali uno si batteva virilmente con un altro, e tuttavia, se per caso cadeva prigioniero, non veniva subito ammazzato». A distinguere così le bone werre del passato da quelle combattute sotto i suoi occhi nella Marca Trevigiana a partire dagli anni Trenta del secolo XIII è il cronista padovano Rolandino. Nel suo libro bello e fortunato, che torna in libreria in una nuova edizione (Quella antica festa crudele. Guerre e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Arnoldo Mondadori Editore,


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Milano 1995, pp. XI + 489, lire 55.000), Franco Cardini, contrariamente a quello che suggerisce una lettura affrettata del titolo, non si propone affatto di dimostrare che le guerre del tempo che fu fossero migliori delle attuali. Festa, sì, in un certo senso, le guerre del passato, se si intende per «festa» un’occasione privilegiata e ritualizzata di sperpero, trasgressione, esaltazione collettiva, ma non per questo meno «crudeli», giacché «non esistono guerre in sé per sé buone», tanto meno quelle che pretendono di essere «giuste» e che provocano «per così dire ipso facto la colpevolizzazione e la demonizzazione dell’avversario». Secondo Cardini, gli otto secoli del «lungo medioevo» e dell’«età preindustriale» (XI-XVIII) sono caratterizzati, per ciò che concerne la «cultura della guerra» nell’Europa cristiana, proprio da uno scostamento dell’attenzione dalle cause della guerra (ciò che aveva indotto sant’Agostino a formulare il concetto di guerra giusta) al comportamento che si doveva tenere durante il suo svolgersi. La prima risposta alla nuova esigenza di «controllare, delimitare, umanizzare» la guerra fu costituita dall’affermarsi degli ideali cavallereschi. La cavalleria, anzitutto come regina medievale delle battaglie, e poi come ceto sociale chiuso, come «ordine», formato da professionisti della guerra, detentori di un’etica professionale ai cui dettami dovevano attenersi pena il disonore, è stata sempre insieme alla Crociata, che ebbe i cavalieri come protagonisti, la specialità di Cardini medievista. In questo suo libro di vasto respiro anche cronologico, che sfora ampiamente nell’età moderna, il filo conduttore è costituito dalla vicenda del lento declino sui campi di battaglia della cavalleria e della parallela affermazione delle fanterie, un processo tutt’altro che lineare, contrassegnato da frequenti inversioni di tendenza, e, in corrispondenza con esso, dall’esaurirsi della carica propositiva dell’etica cavalleresca, la cui funzione regolatrice dell’asperità dei conflitti viene recuperata prima


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dal nascente diritto internazionale e poi dall’«illuminismo militare» del secolo XVIII. «Questo libro – scrive Cardini nell’introduzione – è dedicato a un lungo tempo nel quale l’esistenza delle guerre era accettata con minor scandalo di adesso, ma le guerre venivano condotte con ferocia minore – e non solo meno efficace a causa del più primitivo apparato tecnologico –, o nel quale comunque, alla ferocia, non si concedevano alibi». Ma all’interno di questo «lungo tempo», i tre secoli che vanno dalla peste del 1348 a quella del 1630, e in particolare i decenni fra Cinque e Seicento («il secolo di ferro»), si presentano come una non breve parentesi nel tentativo plurisecolare di circoscrivere la guerra, caratterizzati come furono dallo scatenarsi della violenza contro gli inermi. Fra le righe di questo suo nuovo libro Cardini ha insinuato i lineamenti di un pamphlet. La conduzione «moderata» della guerra settecentesca, se aveva «un suo fondamentale connotato nell’estraneità degli inermi alle operazioni militari», aveva il suo corrispondente nell’«estraneità assoluta dei popoli governati rispetto alle decisioni dei “despoti illuminati”». La Francia rivoluzionaria «avrebbe promosso i suoi da sudditi a cittadini, ma ne avrebbe fatto anche carne da cannone». Si inauguravano così i tempi nuovi, che Cardini mostra di non amare. Ma allora che dire dei tempi nuovissimi, quando despoti non più illuminati avrebbero fatto carne di cannone di cittadini retrocessi alla condizione di sudditi?


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Il Messaggero/Cultura, 24 settembre 1995 Polemiche/Il “poverello di Assisi” sta per essere ricordato nella sua città con una mostra di cimeli mai esposti al pubblico. Celebrazione o speculazione? Aria di affari da Giubileo per il tesoro di san Francesco «Uscirà presto dal segreto il “Tesoro di san Francesco”»: è il titolo di una notizia di agenzia nella quale si dà annuncio dell’apertura, prevista per la prossima vigilia della festa del Santo di Assisi, di una mostra di cimeli che lo concernono, conservati nella “Cappella delle reliquie” e di solito non esposti alla curiosità del pubblico. Come se Assisi non attirasse abbastanza turisti, si vuole introdurre un ulteriore elemento di richiamo. La mostra avrà come sede la Sala capitolare del Convento attiguo alla Basilica, e resterà aperta fino al 2000. È un anticipo del Giubileo di fine millennio e si comprende che fin da adesso ci si dia da fare per incanalare verso i centri minori (si fa per dire) rivoli consistenti del flusso gigantesco che si metterà in moto in direzione di Roma. Se non fosse per questo, non vedo altre plausibili ragioni per mettere in piazza una serie di oggetti che, in gran parte, concernono aspetti controversi della vita del santo, come l’episodio delle stimmate. Mi auguro solo che si abbia il buon senso di non intitolare la mostra “Il tesoro di san Francesco”. Anche se il termine “tesoro”, come insegna qualunque buon dizionario della lingua italiana, non si usa solo per indicare un’«ingente quantità di monete e di oggetti preziosi», sarebbe infatti oltremodo disdicevole che qualcuno pensasse che finalmente, dopo essere stato accuratamente nascosto, è venuto alla luce il tesoro accumulato in vita da Francesco. Sarebbe veramente il peggior oltraggio che si potrebbe fare al poverello di Assisi. Non pongono problemi le undici monete lucchesi trovate nel 1818 accanto alla sua salma, e nemmeno la perga-


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mena con la bolla di conferma della Regola dell’Ordine dei Frati Minori, rilasciata da papa Onorio III, il corno da caccia che il sultano al-Malik al-Kamil avrebbe donato a Francesco quanto si recò in Terrasanta. Che il santo abbia incontrato il sultano lo conferma un teologo e giurista egiziano, direttore spirituale e consigliere di al-Kamil. Ma, fra gli oggetti esposti, ci sarà anche il biglietto di frate Leone, cioè la benedizione autografa della mano di Francesco, che il santo indirizzò al compagno più caro. Si tratta di un «prezioso pezzetto di pergamena, consumato in modo commovente per essere stato portato dall’amico come una reliquia». Traggo la citazione dal libro che Chiara Frugoni ha consacrato di recente a Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Torino, Giulio Einaudi Editore, 1993), nel cui titolo la parola “invenzione” è usata nel duplice senso di “rinnovamento” e di “creazione immaginaria”. A commento della benedizione, il destinatario della medesima aggiunse, di suo pugno, con un inchiostro rosso, una notizia circa la circostanza in cui Francesco aveva vergato la benedizione che era stata appunto «l’impressione delle stimmate sul suo corpo». La Frugoni commenta: «Con la propria dichiarazione sottoscritta Leone mutava la natura della pergamena da privato segno di affetto da parte di Francesco a pubblica testimonianza della veridicità dell’apparizione del Serafino e del manifestarsi delle stimmate». Tutto questo, però, molti anni dopo il preteso evento miracoloso. Dobbiamo credere che i frati del Convento di Assisi siano così ingenui da credere che l’esibizione del reperto sia sufficiente a mettere a tacere le polemiche? È da prevedere che accadrà esattamente il contrario. Un problema analogo lo pone un altro dei pezzi che saranno esposti nella mostra: un lino ricamato a Roma, che la nobildonna Giacoma dei Settesoli avrebbe impiegato per asciugare il volto di Francesco durante l’agonia. Anche


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Giacoma risulta coinvolta nell’operazione della stimmate, in quanto testimone oculare delle stesse sul corpo del santo appena deceduto. Ma Jacques Dalarun, in un altro libro recente (Francesco: un passaggio. Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi, Roma, Viella, 1994), ha mostrato che anche Giacoma, come altre figure femminili dell’entourage di Francesco, è emersa a un dato punto della tradizione, per poi scomparire, o essere radicalmente ridimensionata: non più il «grande testimone delle stimmate», ma solo il «custode di un agnello lasciato da Francesco al termine di un suo soggiorno romano». Solo un povero di spirito può pensare che questi interrogativi sollevati da studiosi seri e non animati da futili intenti dissacratori rischino di togliere qualcosa a una delle figure più alte della spiritualità cristiana di tutti i tempi, il che, considerata la sua ricchezza ineguagliabile, non è dire poco. Ci si domanda solo se valeva veramente la pena di sottrarre una ventina di cimeli francescani alla custodia riservata in cui si trovano da sempre, per offrirli agli sguardi smaliziati del pellegrini del 2000. Il Messaggero/Cultura, 9 dicembre 1995 Saggi/Così Innocenzo III ruppe per primo un tabù millenario E il Papa decise: chiamo il medico Il codice di Giustiniano aveva definito i senatori “parte del corpo” dell’imperatore. I canonisti del secolo XIII gli fanno eco definendo pars corporis del papa i cardinali. Volendo sottolineare ancora di più l’“intimità ecclesiologica” fra il papa e i cardinali, l’Ostiense (1271) affermava che essi facevano addirittura «parte delle sue viscere». E, a ribadire meglio il suo pensiero, con esemplare conseguenzialità deduceva dalla sua audace metafora un precetto pratico di indubbia rilevanza per i porporati: dunque, «i cardinali


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infermi non possono subire prelievo di sangue da una vena senza licenza speciale del sommo pontefice». Sul doppio registro di concezioni ecclesiologiche espresse mediante metafore corporali prese alla lettera, Agostino Paravicini Bagliani ha organato Il corpo del Papa (Einaudi 394 pagine, 75.000 lire), un libro affascinante, nutrito di solida erudizione e costruito con grande scaltrezza storiografica. La materia, di per sé peregrina, pare fatta apposta per generare un libro descrittivo come oggi se ne scrivono tanti, pieno di aneddoti curiosi, al quale non ci si sogna neppure di chiedere che abbia un filo conduttore. Ormai il corpo del papa è sotto gli occhi impietosi delle telecamere in occasione dei frequenti ricoveri al “Policlinico Gemelli” e i bollettini medici che lo concernono sono redatti nello stesso linguaggio, a un tempo tecnico ed evasivo, in uso per i comuni mortali. Ma, ancora quarant’anni fa, non era così. Il poco più che un ragazzo, che era allora chi scrive, ricorda ancora i racconti del principe dei vaticanisti, Silvio Negro, circa la rivalità fra il chiacchieratissimo archiatra pontificio e il medico svizzero, praticante terapie non proprio ortodosse, che si alternavano al capezzale dell’ottuagenario Pio XII. Paravicini Bagliani ci informa che il primo papa che abbia avuto un suo medico è stato Innocenzo III. Si chiamava Giovanni Castellomata, di origine non a caso salernitana. A lui l’autore del più antico trattato occidentale su come ritardare la vecchiaia attribuisce il merito di averlo indotto a scrivere la sua opera. E alle ricerche di medici e alchimisti intorno all’elisir di lunga vita, in particolare alla ricetta dell’oro potabile, ottenuto facendo bollire o limando monete, la curia papale della seconda metà del secolo XIII avrebbe dedicato un’attenzione speciale. Tutto era cominciato subito dopo la metà del secolo XI, quando Pier Damiani, uno dei protagonisti della riforma della Chiesa cosiddetta gregoriana, si era domandato perché mai i papi non vivessero in media più di quattro o cin-


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que anni e perché nessun papa fosse comunque vissuto più dei venticinque anni che la tradizione assegna al pontificato di san Pietro (che, sia detto fra parentesi, non fu mai con ogni probabilità vescovo di Roma). Per Pier Damiani, la brevità della vita dei papi era da considerarsi un avvertimento che ricordava a tutti gli uomini la vanità della gloria mondana, incitandoli a prepararsi alla propria morte. È degno di nota che il limite dei venticinque anni sarebbe stato superato solo da Pio IX, papa dal 1846 al 1878. La caducità del papa diventava così un valore da esaltare nella liturgia per la sua intronizzazione e per la sua morte, non senza però introdurre adeguati contrappesi volti a sottolineare, invece, l’altezza ineguagliabile della finzione che era chiamato a esercitare. E non senza che l’attenzione in tal modo prestata alla corporeità del papa inducesse i papi medesimi e il loro entourage a mettere in atto gli accorgimenti adatti a fare sì che quella vita, pur breve, fosse il meno breve possibile e, finché durava, fosse allietata da una buona salute. È proprio in omaggio all’esigenza del “ristoro del corpo” (recreatio corporis), che, a partire da Innocenzo III, i papi del Duecento presero l’abitudine di allontanarsi dall’insania di Roma dei mesi estivi per andare a villeggiare in località del Lazio settentrionale o meridionale, dove si respirava un’aria migliore. Il Messaggero, 28 marzo 1996 Tante comunità, il primato di Pietro e una città-simbolo Le strade della fede portano a Roma In occasione della mostra di Rimini*, sarà utile richiamare alcuni pochi punti fermi, o relativamente fermi, con* Dalla terrra alle genti. Dedicata ai primi secoli del cristianesimo.


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cernenti la Chiesa dei primi secoli. Chiesa meglio che cristianesimo, dal momento che il cristianesimo non si diffuse come una filosofia popolare, bensì mediante una proliferazione di comunità organizzate, di chiese. La fugace esistenza della Chiesa primitiva è attestata dal primo storico della Chiesa. Luca, negli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che avevano creduto era un cuor solo e un’anima sola, né c’era alcuno che dicesse suo quel che gli apparteneva, ma tutto era ad essi comune. E gli apostoli con grande efficacia rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e gran favore era su tutti loro. Né infatti c’era alcun bisogno tra loro, perché quanti erano proprietari di poderi e case, li vendevano e portando il prezzo delle cose vendute, lo deponevano ai piedi degli apostoli, i quali lo distribuivano a ciascuno secondo il suo bisogno». Non è molto, ma è stato sufficiente a costruire un modello di Chiesa che nei secoli a venire sarà riproposto in antitesi a quello che sarà prospettato, più di due secoli dopo, dal secondo storico della Chiesa, il vescovo Eusebio di Cesarea, il testimone e l’ideologo della svolta costantiniana. All’ispirazione comunitaria che connota la Chiesa primitiva fa riscontro, sempre secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, la posizione di preminenza di Pietro rispetto agli altri undici, che si manifesta a partire dal momento in cui egli presiede all’elezione suppletiva del dodicesimo apostolo, destinato a sostituire Giuda. Questa preminenza, consistente nella guida della comunità-madre di Gerusalemme nel periodo posteriore alla Passione, è preannunciata nel loghion riportato unicamente nel vangelo di Matteo, che, proprio perché coniugato al futuro – “Tu sei la Roccia (in latino Petrus), e su questa roccia (in latino petram) costruirò la mia chiesa… a te darò le chiavi del regno dei cieli…” – lasciava aperta la porta a un’indefinita dilatazione del tempo. Dal secolo II, ma poi sistematicamente nel successivo, i capi delle diverse comunità cristiane, ch’erano scelti dai fedeli fra gli anziani e si ponevano come “successori degli


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apostoli”, cessarono di essere dei primi inter pares, per diventare veri e propri “sovrintendenti”, o “vescovi”. Già sporadicamente, nel sec. II e in modo più sistematico nel III, si riscontra la propensione ad attribuire alla sede romana una sorta di precedenza d’onore, soprattutto come comprensibile riflesso del prestigio del caput orbis. In assenza di un collegamento di carattere istituzionale fra le chiese locali, quella che veniva già chiamata l’unità “cattolica” consisteva unicamente nell’uniformità della fede professata nelle diverse chiese cristiane. Orbene, assai per tempo si diffuse la convinzione che la vera garanzia della persistenza di tale unità fosse offerta, per ciascuna di esse, dal fatto di trovarsi “in comunione” con quella di Roma. Il Messaggero, 23 maggio 1996 Studiosi a congresso Centocinquanta storici a Roma, guidati da Le Goff L’«Associazione degli storici medievisti dell’insegnamento superiore» francesi tiene quest’anno il suo congresso annuale eccezionalmente in Italia. Lo tiene qui a Roma, all’École française, la cui biblioteca è all’ultimo piano di Palazzo Farnese, e la cui foresteria e sala delle conferenze sono a piazza Navona. Quanto di meglio si possa immaginare per la progettata trasferta dei medievisti d’oltralpe che oltretutto trovano ad accoglierli il nuovo direttore dell’École, André Vauchez, autore di studi fondamentali sulla santità e la spiritualità medievali. Il congresso ha per tema «Le élites urbane nel medio evo», cioè a dire quanto di più domestico e familiare si potesse immaginare per il paese ospitante, anche se si tende a esagerare la specificità del caso italiano sotto questo profilo. È vero che qui da noi le élites urbane hanno avuto un peso particolare nell’autogoverno cittadino, ma, a parte il


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fatto che se non altro in Fiandra e in Provenza si riscontrano situazioni paragonabili alla nostra, altrove ci sono casi in cui il raggiunto prestigio sociale compensa il mancato rilievo politico. Nel segno di una consolidata fraternità d’armi storiografica italo-francese, sono stati invitati a tenere relazioni anche quattro storici italiani. Da notare che non tutte le relazioni di medievisti francesi concernono la Francia. Un buon numero di esse concerne città italiane. Mentre sul piano della qualità non temiamo il confronto con i confratelli d’oltralpe, il punto sul quale siamo carenti è che, passati gli anni dell’immediato dopoguerra, quando non pochi giovani studiosi italiani hanno affrontato temi di storia non italiana, sono ormai rarissimi i casi in cui vengono tentate avventure del genere, che pure a suo tempo hanno dato ottimi frutti. È una carenza cui dovrebbe porre riparo l’auspicabile istituzione di centri italiani di ricerca all’estero, che si affiancassero ai tradizionali istituti di cultura alle dipendenze del ministero degli Esteri, ma con compiti radicalmente diversi, come quelli che caratterizzano gli istituti di ricerca stranieri qui a Roma. A concludere il congresso, a cui parteciperanno più di 150 medievisti, sarà Jacques Le Goff, che viene con l’aureola della sua monumentale biografia di Luigi IX, re di Francia (Saint Louis), uscito qualche mese fa, e che sarà presto disponibile in traduzione italiana. Il Messaggero, 27 giugno 1996 Idee/In un convegno a Roma un aspetto meno noto del grande studioso francese del medioevo Bloch, uno storico che non volle “prestarsi” alla politica È un omaggio a un grande storico e anche a un uomo vero. Marc Bloch viene ricordato grazie all’Einaudi, all’École française de


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Rome, all’Istituto Storico Italiano per il Medioevo. Arnaldi, Aymard, il figlio Étienne, Lanaro, Mastrogregori, Pitocco e Vauchez domani alle 10,30 discuteranno di “Bloch, politica e storia” all’Istituto per il Medioevo, piazza dell’Orologio 4, Roma.

Essendo ormai un secolo agli sgoccioli, un’anticipazione del giudizio è possibile: Marc Bloch è stato uno dei maggiori storici del ’900, e forse il maggiore degli storici del medioevo. Discutere, come faremo domani, di Marc Bloch. Politica e storia, sarà un’occasione per mettere a fuoco un aspetto interessante, ma solo marginale, della sua personalità, per non dire della sua opera, che ha, fra le caratteristiche che la distinguono da quella di altri storici, pure insigni, del secolo che si chiude, anche quella di essere stata pensata e scritta al riparo dalle passioni che lo hanno agitato. Una caratteristica tanto più notevole, in quanto, a differenza degli altri grandi cultori di Clio che gli possono essere accompagnati, non è morto nel suo letto, ma combattendo contro gli invasori nazisti del suo Paese, nelle file del movimento partigiano “Franc-Tireur”, dopo avere preso onorevolmente parte, prima come sergente poi come ufficiale di complemento dell’esercito francese, ai due conflitti mondiali. Nel 1940, di sua volontà, perché i sei figli gli avrebbero potuto valere l’esonero. L’occasione per l’incontro di domani è costituita dalla recente apparizione nella collana “Biblioteca Studio” di Einaudi di La strana disfatta. Testimonianza del 1940, con introduzione di Silvio Lanaro (XXXIII+255 pagine, 34.000 lire). Già disponibile in traduzione italiana (Napoli, Guida Editori, 1970), questo libro straordinario, scritto di getto fra il luglio e il settembre di quello stesso 1940, che vide consumarsi la sconfitta e la resa della Francia non voleva essere una trattazione di storia militare. Intendeva bensì rendere testimonianza delle crepe profonde nel tessuto morale e civile della nazione francese, prima ancora che nella arretrata e


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inadeguata preparazione delle sue forze armate, che quelle sei settimane avevano reso visibili a un osservatore d’eccezione, capace di registrare i controsensi di stagionati comandanti che avevano perso letteralmente la testa e, insieme, di cogliere le improvvise accelerazioni che gli avvenimenti in corso stavano imprimendo ai movimenti della storia profonda, quella, cioè, che il professore Bloch aveva indagato instancabilmente fra una chiamata alle armi e l’altra. Nato nel 1886, Bloch si collocava “all’estremo limite di quella che si potrebbe, credo, chiamare la generazione del caso Dreyfus”. Non a caso, nell’Apologia della storia, la seconda, e più nota, delle sue opere postume, da cui ho tratto la citazione, egli rivendica a titolo d’onore per la critica storica, così come si è venuta configurando verso la fine del secolo XVII con i benedettini francesi della congregazione di san Mauro, quello di avere influito sulla pratica dei tribunali, fornendo gli strumenti per la critica delle testimonianze. Ma quella decisiva opzione iniziale non aveva in alcun modo contribuito a fare di lui in seguito un esponente della casta degli intellettuali, che nei protagonisti di quella vicenda di fine secolo avrebbero avuto i propri acclamati progenitori. Egli volle essere fino alla fine uno storico e un professore di storia, che mai e poi mai avrebbe potuto prendere in considerazione di essere, come suol dirsi, prestato alla politica. Forse Lucien Febvre esagera nel dire che solo “a partire dal 1936” Bloch ed egli stesso cominciarono a preoccuparsi seriamente degli “avvenimenti pubblici”. Le rassegne critiche di libri tedeschi di storia medievale, che Bloch redasse per la “Revue historique” del 1928 al 1932, stanno a mostrare che era ben consapevole di ciò che stava dietro certi sviamenti storiografici.


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Il Messaggero, 15 luglio 1996 Medioevo/«Signore del secolo XII», secondo volume della trilogia di Duby Il potere delle donne passava per l’alcova Il titolo ammiccante dell’edizione italiana di quest’altro libro di Georges Duby, secondo di una trilogia consacrata alle Signore del secolo XII (Il potere delle donne nel medioevo, Laterza, 228 pagine, 30.000 lire), non deve trarre in inganno. Le arti della seduzione, l’eterno femminino, non c’entrano. Il sottotitolo originario lascia meglio intendere di cosa si tratta: Il ricordo delle antenate. Metti un appartenente a una famiglia aristocratica della Francia settentrionale, dalla Normandia alla Fiandra, che nutra una forte ambizione dinastica. Ha già qualche generazione alle spalle, ma il patrimonio di cui dispone, in terre, servi, castello, gioielli non è lontanamente all’altezza di tale ambizione. Si dà allora a cercare, o piuttosto è suo padre che si dà a cercare per lui, un partito conveniente, non importa se una bambina ancora impubere o una vedova stagionata, che consenta di fare compiere all’interessato e alla famiglia nel suo complesso un salto, insieme quantitativo e qualitativo. Le leggi del mercato sono fatte per facilitare la ricerca: come suo padre, che punta solo su di lui per assicurare l’avvenire della casata, indirizzando con chiaroveggente fermezza verso il chiostro, la Crociata, l’agonismo sportivo (i tornei) gli altri figli maschi, anche gli altri padri della stessa condizione sociale fanno lo stesso calcolo elementare. Per conseguenza, l’offerta di buoni partiti femminili supera di molto la domanda di pretendenti maschi che inseguono una rapida promozione sociale. E così è presto affare fatto. Ma perché il lignaggio proseguisse era indispensabile che il talamo della coppia che veniva a costituirsi, fosse prontamente e ripetutamente fecondo, in misura tale da garantire


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una progenitura maschile al riparo dall’alea rappresentata dall’elevato tasso di mortalità infantile del tempo. E poteva anche venire il momento in cui occorreva arrendersi all’evidenza. Riconoscere che la scommessa sul futuro della schiatta, benché fondata su solide premesse sociali e patrimoniali, era perduta: l’erede non veniva o, se veniva, moriva prima di avere raggiunta l’età che gli avrebbe consentito di essere a sua volta immesso sul mercato matrimoniale, ripetendo, se possibile, nella sua persona l’operazione di avanzamento nella gerarchia del potere e della ricchezza compiuta del padre. In tal caso, occorreva trovare un onesto ripiego, per salvare almeno l’acquisto, rinunciando al passo avanti. Esso consisteva nel passaggio del signore dal talamo, benedetto, a suo tempo, dal ministro di Dio, a un talamo nascosto in qualche angolo della sua dimora dove un’ospite anonima fra le tante che affollavano il gineceo, magari frequentata furtivamente da lui già in precedenza, metteva il proprio grembo a disposizione di chi, a questo punto, doveva a tutti i costi procurarsi un erede maschio, se non voleva che gli sforzi di più generazioni andassero perduti per colpa sua. Le fonti messe a frutto da Duby sono «storie genealogiche», che le dinastie signorili uscite vincitrici da una competizione durata almeno due secoli hanno commissionato a chierici di loro fiducia nel secolo XII. Il nucleo vivo di questo libro non è rappresentato dall’illustrazione del modello di sviluppo aristocratico, che ha cercato di prosperare. Ciò che veramente stava a cuore all’autore era mostrare come autori inevitabilmente di sesso maschile, impegnati nel descrivere le vicende di lignaggi nei quali il bastone di comando passava di padre in figlio, e le donne erano semplici oggetti (ventri da ingravidare), non abbiano potuto fare a meno di riservare un qualche spazio a figure di «dame» e di «amanti», che di quelle vicende hanno contrassegnato passaggi essenziali, uscendo vittoriosamente dall’anonimato cui sembravano in partenza condannate.


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Il Messaggero, 18 settembre 1996 Il peso della storia/Verità e leggende dietro l’evento che cambiò i rapporti di forza in Europa millecinquecento anni fa Clodoveo, il piccolo re che volle farsi cattolico Il morbo della “centenarite” (da celebrazioni centenarie) attecchisce soprattutto in Francia. 1987: decimo centenario dell’ascesa al trono di Ugo Capeto, il cui successore Luigi XVI finirà sulla ghigliottina nel 1793; 1989: secondo bicentenario della Rivoluzione; 1996: quindicesimo centenario del battesimo di Clodoveo, re dei Franchi… È un riflesso della forte consapevolezza della loro identità nazionale che hanno i francesi, molto maggiore di quella che nutriamo noi italiani. Ciò non toglie che, in occasione delle celebrazioni che si susseguono, riaffiorino in Francia i conflitti e le divisioni, anch’essi fortemente radicati nella tradizione nazionale: blu e bianchi (giacobini e vandeani), rossi e bianchi, cattolici e laici. Persino Galli e Franchi, se qualche sera fa, durante una trasmissione di France 2, uno dei più accesi oppositori delle celebrazioni ufficiali che avranno inizio a Reims il 19 settembre per il battesimo di Clodoveo, ha affermato che la culla della Francia non è stata Reims medesima, come ritengono i promotori delle celebrazioni, bensì Bibracte, città gallica vicina all’odierna Autun. Si è giustamente insistito in queste settimane nel sottolineare gli stravolgimenti storici operati per l’occasione degli integristi cattolici. Ma anche i loro oppositori non sono da meno. Proclamare che la Francia è nata sul campo di battaglia di Valmy (1792!) è una semplificazione polemica non priva di senso. Ma fare dei riti dei druidi celtici il contraltare al fonte battesimale di Reims vuol dire scendere al livello argomentativo di chi indica nella Gallia cisalpina la precorritrice della Padania di oggi. Di là delle polemiche, chi era, dunque, Clodoveo? Un re di uno dei piccoli regni fondati dagli invasori o dagli “ospi-


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ti” franchi nelle province settentrionali della Gallia romana. Asceso al trono nel 481, morto trent’anni dopo, ha, dapprima, riunito sotto di sé tutti i Franchi, poi conquistato buona parte del restante territorio della Gallia, combattendo contro Alemanni, Visigoti e Burgundi. Buona parte, ma non tutto, perché, se ne superava i confini oltre il Reno, non comprendeva né la valle del Rodano, né lo stesso corso inferiore della Saona, né le coste mediterranee per intero, divise fra Visigoti e Ostrogoti. Era comunque un regno e dai Pirenei al Reno, può grosso modo richiamare a un francese di oggi l’Hexagone. A patto di non sapere che, prima che il regno dei Franchi diventasse la Francia, ci sarebbero state di mezzo le continue spartizioni dei sovrani merovingi, poi la grande dilatazione, con Carlomagno, di quel regno ben oltre i confini della Gallia romana e, infine, la lenta riconquista operata dai re capetingi dei vari brandelli di regno, resisi autonomi dopo la disgregazione dell’impero di Carlo. A un certo punto, in un anno che sta fra il 496 e il 506, forse in seguito a una battaglia vinta, interpretata come una grazia ricevuta, Clodoveo, che era ancora pagano, si è fatto battezzare a Reims, insieme a tremila dei suoi, secondo il rito cattolico romano. L’incertezza sulla data è uno degli argomenti usati dagli oppositori delle celebrazioni. Che senso ha celebrare un avvenimento, che non si sa nemmeno quando abbia avuto luogo? Il battesimo di Clodoveo è stata una scelta, al tempo stesso, obbligata e di valore storico universale. Gli altri sovrani dei regni romano-barbarici si erano già convertiti al cristianesimo, ma, per un capriccio della storia, avevano abbracciato un cristianesimo eterodosso, l’ariano. Arrivato buon ultimo, Clodoveo, un po’ per differenziarsi dai suoi vicini Burgundi, Visigoti, Ostrogoti, un po’ perché aveva a portata di mano vescovi cattolici del prestigio di Remigio di Reims e di Avito di Vienne, optò per il battesimo cattolico. Così l’ultimo divenne il primo. Le conseguenze di questa scelta sono ricadute anche su noi italiani. Nel secolo VIII, i Longobardi, che avevano da


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poco abbandonato l’arianesimo, avevano ormai le carte in regola per estendere il loro dominio su tutta l’Italia. A sbarrare loro la strada furono i papi, niente affatto persuasi da quella conversione tardiva. Essi invocarono l’aiuto dei Franchi, che loro sì avevano saputo imboccare per primi la via giusta. A Reims, quel 25 dicembre 496, furono poste le premesse per una svolta decisiva nella storia d’Italia: la caduta del regno longobardo. Machiavelli era dell’opinione che tutti i nostri mali siano cominciati da lì. Il Messaggero, 23 settembre 1996 Protagonisti/Una nuova biografia di un “eroe negativo” del ’200 Così era Ezzelino, gigante del male Nel 1867, un anno dopo l’annessione del Veneto al regno d’Italia, il consiglio comunale di Romano, una cittadina del pedemonte poco a nord di Bassano del Grappa, con una delibera che non si è conservata decise di aggiungere al toponimo con cui era stata designata fino allora, un genitivo di appartenenza: “d’Ezzelino”. Così facendo, i Romanesi intendevano assicurarsi l’esclusiva del ricordo del terzo e più universalmente noto a portare tale nome dei membri di una famiglia divenuta ricca e potente nella Marca Trevigiana fra lo scorcio del secolo XII e gli inizi del successivo, che in quella località aveva posseduto un castello. Uno dei tanti, che facevano la sua forza, ma per l’appunto proprio il castello da cui, dopo la distruzione di quello di Onara ad opera dei Padovani, la famiglia prese a intitolarsi. Se Ezzelino III, dunque, era detto, a quei tempi “da Romano”, non si vede perché Romano, dai giorni dei nostri bisnonni e tuttora, non possa chiamarsi “d’Ezzelino”. Ma la cosa non è così liscia, per la semplice ragione che il personaggio in questione, nonché non essere un eroe


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positivo, è, per una consolidata tradizione storiografica, che si fonda su unanimi giudizi di cronisti coevi, addirittura una specie di gigante del male del Duecento se non altro italiano. E non importa che i detrattori, appartenenti tutti all’area guelfa, scrivessero dichiaratamente per partito preso. La delibera romanese è probabilmente da interpretarsi come un’iniziativa di evoluti e facoltosi patrioti locali, che vedevano in Ezzelino «un simbolo ante litteram dell’Italia liberale e progressista, finalmente liberata dal giogo dei preti». Giorgio Cracco non si è limitato a usare questo aneddoto come prezioso esordio retorico di Nato sul mezzogiorno. La storia di Ezzelino (Neri Pozza, 172 pagine, 28.000 lire). Non senza una certa civetteria, ha cercato di fare sì che questo suo libro dotto e informato, ma privo di note, raggiungesse non solo gli addetti ai lavori, bensì anche i suoi conterranei pedemontani. I quali ultimi, secondo recenti sondaggi d’opinione, insistono nel vantare il possesso del loro Ezzelino, non però nelle vesti insolite di un benpensante ottocentesco, ma in quelle tradizioni del personaggio grondante sangue della cronachistica guelfa, «crudele e disumano, perverso e diabolico, che fa sognare ancor oggi di cose tenebrose, e per il quale ancor oggi i genitori addormentano la sera i loro bambini». L’operazione che compie Cracco è esente dalle volgarità della moda revisionista. Del resto, non si è dovuto attendere lui per stabilire che gli undicimila padovani morti ammazzati, messi in conto a Ezzelino da un cronista contemporaneo, sono incompatibili con le approssimazioni di cui disponiamo circa la demografia di Padova duecentesca. Ma il bilancio delle uccisioni, delle mutilazioni, degli imprigionamenti promossi a Padova, Vicenza, Treviso, Verona ecc. dal tiranno della Marca Trevigiana, rimane lo stesso imponente. Questa macabra contabilità interessa però solo fino a un certo punto Cracco, che cerca piuttosto di capire perché Ezzelino sia arrivato a tanto.


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Forte dei risultati conseguiti negli ultimi 35 anni dai molti studiosi che hanno scandagliato la Marca Trevigiana al tempo dei da Romano e forse ancora di più in occasione dell’ottavo centenario della nascita di Federico I, Cracco tende a fare di Ezzelino un “altro Federico”. A consentire di accomunarlo allo Svevo, con il conseguente salto di qualità che questo comporta, non è più solo il noto amore di entrambi per l’astrologia, ma la dedizione comune alla causa dell’impero. Nonostante le quattro mogli che ebbe, Ezzelino non si curò affatto di assicurare la propria successione nel governo della Marca, come avrebbe fatto un qualunque previdente signore territoriale. Alleato, mai però subalterno, di Federico, egli, finché questo visse e dopo la sua scomparsa, guardò sempre oltre gli orizzonti della Marca. E fu proprio l’evidente sproporzione fra i mezzi di cui disponeva e le ambizioni che nutriva, a spingerlo sulla strada senza ritorno della violenza indiscriminata. I pedemontani devono rassegnarsi ad ammettere, che più o meno efferato che fosse, Ezzelino non è uno dei loro, ma un protagonista della storia d’Italia nel secolo XIII, degno di essere affiancato nella gloria della comune sconfitta all’ultimo degli Svevi. Il Messaggero, 4 dicembre 1996 È morto a 77 anni l’insigne medievista. L’originalità della sua ricerca Duby, il volto privato della Storia Georges Duby è morto ieri ad Aix-en-Provence, a 77 anni. Ha avuto tutto quello che la vita può offrire ad un uomo di studio: il riconoscimento unanime dei suoi meriti scientifici da parte degli addetti ai lavori; una fama consolidata e diffusa presso il vasto pubblico dei lettori; onori di ogni genere. Il tutto meritato ed ottenuto con fatica. Il tutto bene ammini-


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strato, senza passi falsi, per esempio sul terreno della politica. Anche per merito delle qualità eccezionali della sua vita. Gli anni trascorsi ad Aix-en-Provence sono stati essenziali. È arrivato a Parigi al Collège de France al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi, ma con Aix ha conservato sempre un rapporto molto stretto, fino ad avere scelto di morirvi (era malato di tumore), in una casa di campagna dove ritrovava la pace necessaria per scrivere i suoi libri. Duby ha molti insistito sul debito nei confronti delle “Annales”. Credo che abbia esagerato. Egli è stato il frutto di una autoformazione, nella quale ha avuto certo una parte predominante la lettura dell’opera di Marc Bloch, ma la sua carriera intellettuale si è svolta secondo linee del tutto originali. Il punto di partenza è stato l’interesse per il passaggio dalla prima alla seconda età feudale, cioè per la storia della società nel secolo XII. E a questo secolo è rimasto sempre fedele, anche quando i suoi interessi si sono andati estendendo ad altri aspetti che non fossero quelli dei rapporti sociali nella campagna e della nascita dell’aristocrazia, cosiddetta “di diritto”, per distinguerla dall’aristocrazia “di fatto” dell’alto medioevo. Nella storia della storiografia sull’età feudale, la sua tesi sul Maconnais, anche se appartiene al tipico genere delle monografie regionali, costituisce il proseguimento ideale della Società feudale di Bloch, che non aveva prestato molta attenzione al fenomeno capitale della nascita della “signoria di banno”, o “territoriale”. Non fosse stato per l’intraprendenza del “Mulino”, la tesi sul Maconnais sarebbe rimasta senza una traduzione italiana, quando ormai da tempo i maggiori editori del nostro paese si assicuravano i diritti di traduzioni delle opere di Duby ancora prima che uscissero in Francia. Dopo la prova iniziale a livello di storia regionale, Duby ha affrontato l’alea delle grandi sintesi, sempre nel campo della storia sociale, con particolare riguardo alla vita della


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campagna. Ma, una volta a Parigi, egli ha battuto strade nuove. Nella commozione dell’ora mi riesce difficile organizzare un profilo, non dico esaustivo, ma almeno indicativo, delle direzioni di ricerca su cui si è avventurato Duby negli anni della maturità. Nato da una fortunatissima serie televisiva, il suo libro sull’età delle cattedrali è qualcosa di più che un brillante saggio di storia sociale dell’arte. È un tentativo di ripercorrere la nascita dell’arte nel contesto di uno sviluppo spirituale e intellettuale che costituisce uno dei tornanti del medioevo. L’interesse per l’antropologia culturale, questo sì maturato in contatto con l’esperienza delle “Annales”, lo ha indotto a studiare il modo di conformarsi delle strutture di parentela nei ceti aristocratici del regno di Francia capetingio. Decisiva nell’affermazione della dinastia regia, la scelta a favore della patrilinearità lo è stata anche nel consolidamento del ceto aristocratico. Fino agli ultimi suoi libri, la trilogia sulle grandi donne del secolo XII, Duby ha saputo mettere a frutto la letteratura genealogica che ha conosciuto in quel tempo un grande sviluppo, per ricostruire le strategie matrimoniali mediante le quali i grandi lignaggi costruivano, consolidavano, conservavano il loro potere. E se erano gli uomini a condurre il gioco, come Duby non si stancava di ricordare, e ad avere il monopolio della memoria genealogica, la posta del gioco erano pur sempre le donne, vergini o vedove, strumenti indispensabili di ascesa sociale per chi sapesse assicurarsi i migliori partiti. La storia della vita privata (non “quotidiana”) e la storia delle donne sono stati gli oggetti di due fortunatissime imprese editoriali. Contrapposta alla vita pubblica, la vita privata non ha più nulla dell’aneddotico che caratterizza il quotidiano. Mescolata intimamente, strutturalmente, alla vita degli uomini, la storia delle donne non ha più nulla che risenta delle rivendicazioni del sesso debole, come accade


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nella spesso decadente produzione storiografica dedicata a questo tema. Col passare del tempo Duby è diventato uno scrittore, e anche in quanto tale è stato associato all’Académie française. Il suo francese si è andato colorando di una patina antica, che lo rende difficilmente traducibile. Il che sembra un controsenso per un autore così universalmente tradotto. Con Duby se ne va uno storico di razza che, senza essersi mai atteggiato a maître-à-penser, ha – molto più di tanti che si sono succeduti nel suo paese – onorato il mestiere di intellettuale nei decenni inquietanti che segneranno la fine del secolo XX. Il Messaggero, 14 febbraio 1997 Alle origini della prima spedizione del 1096 E papa Urbano II disse: liberiamo il Santo Sepolcro Ancora nel secolo IV, quella del transfretare, di recarsi oltremare, per visitare le proprietà che aveva nelle province dell’altra sponda del Mediterraneo, era per un esponente dell’aristocrazia senatoria di Spagna, Gallia o Italia un’esperienza non dico di tutti i mesi, ma certamente di tutte le stagioni. Esattamente come oggi, per un uomo d’affari occidentale, che più volte nel corso di un anno sale con disinvoltura la scaletta di un jet che, in poche ore, lo porterà oltreoceano per attendere ai suoi affari. Sia quel senatore che il nostro uomo d’affari, una volta giunti a destinazione, si sentivano, e si sentono, come a casa loro. Ma, per circa sette secoli, in conseguenza della fine dell’impero romano d’Occidente, i grandi di un tempo e i nuovi grandi emersi dal grande rimescolio politico-sociale prodotto dalle invasioni germaniche si ridussero a essere più casalinghi. A solcare il mare, non più nostrum, rimasero durante quei secoli le sole navi di qualche ardimentoso mercante.


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Anche qualche nave di pellegrini, diretti a Gerusalemme, prendeva il largo, magari solo per attraversare il canale di Otranto (poi avrebbe proseguito via terra). Ma le tombe degli Apostoli, a Roma, e Santiago de Compostela, in Galizia, facevano concorrenza al sepolcro di Cristo. Tutto cambiò in prossimità della fine del primo secolo del secondo millennio. Si discute e, anche in questo caso, si continuerà a farlo, se sia stato all’improvviso o se, da un momento all’altro, sia diventato visibile, percettibile da parte dei contemporanei, un fenomeno già in atto da tempo. Come che sia, un numero sempre più considerevole di europei occidentali, da coloro che occupavano i gradini più alti a coloro che sedevano sui più bassi, si disposero a transfretare, a compiere il passagium del mare, che separava le loro residenze abituali dalle coste della Palestina. Mentre altri, ancora più numerosi dei primi, preferivano arrivare alla terra di Gesù senza correre il rischio di una traversata a bordo di navi puzzolenti, sulle quali ammalarsi voleva dire morire. Come se, a parte altre incognite del lungo viaggio, l’attraversamento dell’Anatolia, dove da qualche decennio erano venuti a insediarsi i turchi, fosse un’avventura da poco! Spiccavano sugli altri che si misero in cammino, alcuni dei maggiori signori feudali, soprattutto dell’Europa del nord. Al loro seguito, un nugolo di cavalieri di belle speranze, cadetti di famiglie che non chiedevano di meglio che toglierseli da torno per fare posto al primogenito, al quale solo spettava assicurare la continuità del lignaggio e la compattezza del patrimonio familiare. Se l’appello che gli è attributo da cronisti non sempre fededegni contiene un briciolo di verità, sarebbe stato papa Urbano II, alla fine di un concilio tenuto a Clermont, in Alvernia, nel 1095, a fare presente l’opportunità che quanti più uomini d’arme possibile rispondessero alla pressante richiesta d’aiuto che l’imperatore di Costantinopoli, che si trovava i turchi musul-


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mani alle porte di casa, aveva rivolto ai fratelli separati d’Occidente (nel 1054 c’era stato lo scisma fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli). Il papa aggiungeva anche fuori dai denti, che sarebbe stato opportuno che ci si decidesse a volgere contro i musulmani le armi che venivano così spesso male usate in lotte fratricide fra cristiani. Ma al seguito della spedizione armata che, frammentata in diversi contingenti, si incamminò verso Costantinopoli, si misero anche frotte di pellegrini disarmati, di poveri cristiani, con in testa l’idea fissa che la vera meta del lungo viaggio avrebbe dovuto essere Gerusalemme. E fu la prima crociata (1096-1099), la sola che, quando il termine stesso di “crociata” non era ancora entrato nell’uso, abbia portato alla “liberazione” del Santo Sepolcro. Talvolta anche l’improvvisazione è premiata. Il Messaggero, 12 marzo 1997 Dalla Germania alla città dei papi. Un viaggio per conquistare il mondo E l’invenzione arrivò in Italia a dorso di mulo Una quarantina d’anni fa lo storico dei Longobardi Gian Piero Bognetti, che veniva spesso da Milano a Roma per ragioni di studio, soleva dire che sul tragitto del 64, nel tratto fra piazza Venezia e il Vaticano, uno trovava tutti i libri di cui si può avere bisogno. Si riferiva alla Biblioteca di archeologia e storia dell’arte, a palazzo Venezia, e alla Vaticana, al capolinea; alla Nazionale Centrale, allora ancora al Collegio Romano; alla Casanatense, all’Angelica, alla Vallicelliana, sempre sulla destra, più o meno discoste da corso Vittorio Emanuele II; alla Corsiniana, sulla sinistra, subito al di là del Tevere; alla biblioteca dell’Accademia Americana, raggiungibile con un altro autobus da largo Argentina; alla biblioteca dell’École française, a palazzo


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Farnese; alle biblioteche dell’Istituto storico germanico, allora ancora in corso Vittorio, e dell’Istituto storico italiano per il medio evo, a piazza dell’Orologio. Salvo due, trasmigrate altrove, tutte le altre sono ancora al loro posto, per la gioia e la comodità degli studiosi. L’aneddoto del maestro e amico prematuramente scomparso nel ’63 mi è tornato in mente quando ho appreso che, per iniziativa dell’Assessorato alle Politiche culturali del Comune d Roma, sta per decollare la manifestazione Una strada in mostra: Corso Vittorio Emanuele II e che il primo appuntamento di essa sarà costituito dall’inaugurazione al Museo Barracco della mostra Gutenberg a Roma. Le origini della stampa nella città dei papi (1467-1477). La Roma del “quartiere Rinascimento”, che gravita su corso Vittorio, è miracolosamente intatta, con le sue vie strette e non rettilinee, salvo via Giulia, che oppongono una strenua resistenza alle esigenze del traffico. Ma proprio il corso la taglia a metà. Questo largo solco, che, come scrive Mario Sanfilippo, ha costituito il «più grande ed importante sventramento nel cuore del centro antico», fu tracciato negli anni ’80 del secolo scorso e venne concepito come il prolungamento di via Nazionale in direzione di S. Pietro. Le manifestazioni che seguiranno ci inviteranno a sostare ai punti salienti del tracciato di questa strada moderna, che trasuda ancora ad ogni metro l’antico su cui insiste. Il primo appuntamento servirà a renderci edotti del fatto che quella che è oggi la strada delle biblioteche ha ospitato, a suo tempo, nei propri paraggi, le officine dei prototipografi. Erano naturalmente tedeschi, come tedesco di Magonza era stato il primo dei primi, Johannes Gensfleisch “della corte di Gutenberg”, come veniva chiamato in riferimento ai possessi di famiglia; si chiamavano Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz ed erano entrambi chierici. «Un piccolo corteo di muli», scrive Massimo Miglio nel catalogo della mostra, «aveva attraversato le Alpi portando in Italia l’invenzione di Gutenberg, la stampa a


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caratteri mobili, che aveva impressionato la Germania e che s’apprestava a conquistare il mondo e a segnare una svolta epocale». Anche se la meta era probabilmente Roma, la prima tappa fu il monastero di S. Scolastica, a Subiaco. È qui che venne stampato in 300 copie il primo libro italiano, una grammatica per principianti, della quale non si è salvata nessuna copia. Poi fu la volta di Lattanzio, di Cicerone e di Agostino. E nello stesso 1467 in cui vide la luce l’Agostino, i due si trasferirono a Roma in una casa presso Campo dei Fiori di proprietà dei Massimo, in tempo per stampare le Epistolae ad familiares di Cicerone. Nei dieci anni successivi all’installazione di questa prima, furono dodici le tipografie tedesche attive nel quartiere. Accusata di essere sempre in ritardo agli appuntamenti con la modernità, la Roma dei papi si dimostrò precoce almeno nel promuovere il “boom” della carta stampata. Il Messaggero, 15 luglio 1997 Penne velenose/Una biografia racconta vita e misteri dello scrittore Pietro Aretino, flagellatore dei principi Il tentativo di compiere un’“illusoria riabilitazione morale” di Pietro Aretino è stato già fatto a più riprese in passato con scarso successo. Non è certo a ripetere quel tentativo che mira ora Paul Larivaille con questo suo voluminoso Pietro Aretino (Roma 1997, 555 pagine), che, ricco di erudizione di prima mano, si propone anche di riuscire leggibile da lettori non frettolosi, desiderosi di sapere finalmente com’era fatto questo chiacchieratissimo “flagello de principi” (la definizione è tratta nientemeno che dall’Orlando Furioso). Dell’Aretino la Salerno Editrice ha avviato nel 1992 l’“edizione nazionale” delle opere e l’autore della biografia, che ora vede la luce nella collana di “Profili” della


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stessa editrice, non è il solo studioso impegnato nel dipanare i fili dell’intricata matassa in cui è tuttora avvolto questo personaggio. La sua bio-bibliografia è punteggiata da una miriade di piccoli e grandi misteri. È ovvio che il “flagellatore”, il maldicente per antonomasia, sia stato a sua volta flagellato con maldicenze di ogni genere dai molti che, lui vivo, si sono sforzati di rispondere colpo su colpo e che, dopo morto, si sono adoperati per gettare a piene mani fango sulla sua esistenza dalla culla (la leggenda della nascita bastarda e delle due sue sorelle gambettanti “nel bordello d’Arezzo”) alla tomba. C’è chi è arrivato a attribuirgli lo scherzo sacrilego, secondo cui ricevuta l’estrema unzione, avrebbe esclamato: «guardatemi da’ topo or che son unto». La clandestinità cui sono stati costretti i suoi editori dalla messa all’indice controriformista della sua opera ha favorito il proliferare di attribuzioni spurie dalle quali gli eruditi moderni cercano a fatica di sgomberare il terreno. Impiantato come una biografia, il libro di Larivaille fa però molto spazio anche all’opera dell’Aretino. Questo di puntare sull’“autore” non è un modo di eludere il giudizio sull’“uomo” e sui suoi comportamenti, cui il Larivaille certo non si sottrae (ed è un giudizio che in sostanza permane severo), bensì il solo che consenta di spiegare come le “strategie”, cui l’Aretino ricorre sistematicamente per campare la vita – e per camparla alla grande, nel suo palazzo sul Canal Grande, all’insegna del lusso e di una sfrenata prodigalità –, abbiano finito col riuscire quasi sempre vincenti. Con niente non si fa niente – è proprio il caso di dire. L’arte di alternare mediante opportuni dosaggi a sfondo ricattatorio l’attacco frontale, nello stile della satira pasquinesca, e l’insinuazione maldicente con l’encomio sfrontato o il compiacente complimento indiretto era praticata anche da altri, anche se non tutti ardimentosi al punto di cercare di imbonirsi il sultano Solimano il Magnifico, ma senza possedere il dono della penna era un’arte che difficil-


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mente pagava, tanto meno nella misura strabocchevole in cui ha ripagato vita natural durante l’Aretino, riuscito a farsi “arbitro stipendiato delle reputazioni”. Sono perciò le numerose, opportune citazioni che costellano il racconto di Larivaille a rendere ragione di un successo, di una rinomanza universale, che altrimenti rimarrebbero senza una spiegazione plausibile. Lo stesso biografo, senza avere alcuna pretesa di esaurire in uno schema precettistico “le risorse della diplomazia aretiniana”, fa notare che i corrispondenti dell’Aretino, fossero essi «principi e cortigiani, ma anche ecclesiastici, militari, artisti, scrittori o altri, di ogni ceto ed ogni rango, vengono sottoposti a uno stesso trattamento globalmente analizzabile come una sequenza ordinata di azioni». Ma, di là della pedissequa applicazione di questo schema collaudato, sono le strabilianti invenzioni linguistiche, i pirotecnici giri di frase che, affidati all’industria tipografica veneziana allora in piena espansione, consentono al colpo di arrivare a segno e di lasciare un segno. Fra i denigratori volgari dell’Aretino non può essere certo incluso Francesco De Sanctis, che pure, prendendo per buona la diceria secondo cui egli sarebbe morto dal ridere al racconto delle prodezze erotiche delle sorelle meretrici, così termina il suo capitolo aretiniano: «Secondo una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l’Italia». Lo stesso Larivaille, che rifiuta di stabilire un rapporto «tra gli avvenimenti politico-militari e la sua carriera», non manca di sottolineare la coincidenza per cui l’Aretino (1492-1556) è nato e vissuto «in un arco cronologico contrassegnato e interamente occupato dalle guerre d’Italia, iniziate nel 1494 con la calata di Carlo VIII e conclusesi due terzi di secolo dopo a CateauCambrésis (1559), con la consacrazione dell’egemonia spagnola nella penisola».


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Il Messaggero, 30 luglio 1997 Storia/Finalmente colmata una lacuna che risaliva a un famoso errore L’Italia torna a bere alle fonti medievali Ci sono le premesse perché anche l’Italia abbia una collana di fonti storiche medievali degna della sua tradizione. Una collana di tal genere esisteva già: sono le Fonti per la storia d’Italia, edite, a partire dal 1887, dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo. Ma un incidente di percorso avvenuto nel 1900 ha inferto indirettamente un duro colpo a tale iniziativa. Solo ora la ferita può dirsi risanata. L’episodio merita di essere raccontato, perché, indipendentemente dalle conseguenze negative che ha avuto sugli studi medievali nel nostro paese, costituisce un’ennesima prova della leggerezza con cui hanno operato anche in un passato che siamo propensi a dipingere in rosa, i nostri ministri della Pubblica istruzione. L’Istituto era stato fondato nel 1883, ministro il clinico Guido Baccelli, col compito specifico di attendere all’edizione di fonti medievali. L’attività dell’Istituto era cominciata fra mille difficoltà, soprattutto per la manifesta gelosia che le deputazioni di storia patria e le società storiche locali, sorte in gran numero dopo l’Unità, manifestavano nei confronti di un’iniziativa “nazionale”. Gli ardori risorgimentali andavano rapidamente sbollendo e il vecchio municipalismo rialzava un po’ dovunque la testa. In più, c’era da parte dei membri dell’Istituto un evidente complesso d’inferiorità nei confronti della scienza storica tedesca, che proprio in questo campo specifico aveva compiuto passi da gigante per merito dei celeberrimi Monumenta Germaniae historica, che sfornavano a getto continuo edizioni critiche non solo di cronache e annali, ma anche di diplomi, lettere di papi, raccolte di leggi…


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Nel 1900 l’Istituto aveva al suo attivo una ventina di volumi, per lo più di ottimo livello. Ma ecco levarsi la voce degli scontenti, che deploravano che l’Italia, il paese nel quale Ludovico Antonio Muratori, fra il 1723 e il 1751, aveva pubblicato ventisette volumi di Rerum Italicarum Scriptores, una raccolta che, così ampia, nessun altro paese d’Europa poteva vantare, si fosse rassegnata ad andare a scuola dai tedeschi dei Monumenta. Un editore-tipografo in Città di Castello, Scipione Lapi, ebbe allora l’idea di avviare la pubblicazione di una nuova edizione dei Rerum, nella quale i testi editi dal Muratori sarebbero stati collazionati almeno su un manoscritto e convenientemente annotati. Il tutto all’insegna del “meglio nemico del bene”, insidiosissima premessa al tirare via. A onor del vero, molte edizioni apparse in questa collana, a cominciare da quella della Cronaca di Dino Compagni, finirono con l’essere ottime edizioni. In altri casi, la manovalanza di professori di liceo reclutata dal direttore di fatto della ristampa dei Rerum, Vittorio Fiorini, che – a quanto dicono i maligni – compensava l’ingrata fatica con la prospettiva di trasferimenti verso sedi più ambite, produsse edizioni a dir poco discutibili. Ma anche nella collana dell’Istituto e nelle prestigiose serie dei Monumenta non mancavano le pecore nere. Piuttosto, quello che sorprende è che il Lapi, non pago di avere assicurato alla sua impresa il patrocinio di Giosuè Carducci, che scrisse, come prefazione al primo volume, una storia della genesi dei Rerum muratoriani in qualche decina di pagine degne di figurare in un’antologia della prosa italiana del Novecento, riuscì ad assicurarsi anche il sostegno finanziario dello Stato. E, a fornirglielo, fu lo stesso Baccelli, ministro per la terza volta nel 1900, che aveva decretato la nascita dell’Istituto storico italiano. Come ebbe a dire con fine ironia Pasquale Villari, allora presidente dell’Istituto, lo Stato, “senza avvedersene”, si era risolto a finanziare un’impresa che faceva la concorrenza a se stesso.


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Morti Carducci (1907) e Fiorini (1925), passata la collana alla casa editrice Zanichelli (1917), sempre il medesimo Stato non poté fare altro che affidare alle cure dell’Istituto il proseguimento della ristampa muratoriana, che rimaneva però separata dalle Fonti per la storia d’Italia, mentre proprietaria della ristampa rimaneva la Zanichelli. Non era una soluzione. Solo in questi ultimi tempi, un accordo raggiunto fra l’Istituto e la Zanichelli ha consentito di sanare quella vecchia piaga. D’ora in avanti, una delle serie della collana dell’Istituto avrà come titolo Rerum Italicarum Scriptores, mentre la casa editrice bolognese stamperà e diffonderà una collana a uso delle scuole, curata dall’Istituto. Con vantaggio, c’è da augurarsi, per i nostri studi di storia medievale. Corriere della Sera/Cultura, 12 novembre 2003 La questione Nord-Sud nacque con i Longobardi Non presero il Meridione. E cominciò l’anomalia italiana Una tradizione ultradiscutibile, ma radicata e ostinata, pretende che, nel 476, quando il giovanissimo imperatore Romolo Augustolo, un «augustarello» senza né arte né parte, fu deposto dallo sciro Odoacre, da un giorno all’altro abbia avuto fine l’età antica, e inizio il medioevo. Certo, i tre giorni del saccheggio di Roma da parte dei Visigoti di Alarico, nel 410, ebbero una risonanza senza paragone più vasta. È da qui che non a caso nel Rinascimento si fece partire il millennio di decadenza, che fu chiamato, appunto, l’età gotica, in attesa che gli storici dell’arte, con un ribaltamento riparatore, ricorressero allo stesso aggettivo per battezzare proprio l’esperienza artistica che di quel millennio, fatto di luci e ombre come tutte le stagioni della storia, costituisce uno dei punti più alti. Ma non può nemmeno dirsi trascurabile il fatto che quel giorno del 476 anche


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l’Italia diventasse, al pari delle altre province dell’ex impero d’Occidente, la sede di un regno barbarico. Solo che Odoacre, «re delle genti», come lo designano alcune fonti coeve, non era a capo di un popolo di invasori, come sarebbero stati una novantina d’anni dopo i Longobardi di re Alboino. Era semplicemente alla testa di un gruppo di barbari di diverse etnie, che si trovavano già in Italia, e la prima cosa che fece fu di indurre il senato a spedire a Costantinopoli le insegne imperiali. Semmai, a segnare una cesura fra un prima e un poi sotto il profilo economico e sociale furono, prima dell’invasione longobarda, i diciotto anni della vorace, devastatrice guerra goto-bizantina (535-553), alla fine della quale gli eserciti di Giustiniano, imperatore di quello che era ormai l’impero romano, non più d’Oriente, dal momento che quello d’Occidente era finito nel 476, restituirono l’Italia all’impero stesso, mettendo fine al regno degli Ostrogoti, fondato da re Teodorico (493-526). Un regno questo per davvero romano-barbarico, vista la collaborazione che, almeno fino a un certo punto, egli cercò ed ottenne, di esponenti della vecchia classe dirigente senatoria romana. Questa difficoltà a entrare nel Medioevo è la prima manifestazione di quella che si suole definire l’anomalia italiana, come se la storia dovesse procedere secondo regole e ritmi che non ammettono eccezioni. I Longobardi, un popolo di guerrieri che non tardò a inventarsi una fantasmagorica etnogenesi che ne esaltò l’autocoscienza, sembravano avere le carte in regola per rimetterci in carreggiata, facendoci riguadagnare il tempo perduto. Ma, primo, essi non vollero mai veramente, o non ebbero la forza di conquistare l’Italia meridionale. È con loro che l’immagine, tuttora perdurante, delle «due Italie» si affaccia all’orizzonte. Secondo, restii come furono ad abbracciare il Cristianesimo nella sua versione cattolicoromana, non seppero allontanare il sospetto, per non dire


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l’aperta avversione, che nutrivano nei loro confronti i vescovi di Roma. Al momento decisivo, questi non esitarono ad appellarsi a quei primi della classe in fatto di cristianizzazione che i Franchi erano già stati al tempo del merovingio Clodoveo (466 circa-511) e continuavano ad essere a quello dei maestri di palazzo e re carolingi, grazie all’appoggio politico e logistico che essi prestavano alle missioni dei monaci anglosassoni oltre il Reno. Andò a finire che Carlomagno accolse di buon grado l’invito, cancellò più facilmente del previsto il regno longobardo di Pavia o, meglio, si autoproclamò sovrano anche di questo. Nel contempo, sempre i vescovi di Roma, senza averne il chiaro proposito, trascinati dalle circostanze, che non mancarono, al momento buono, di assecondare, divennero principi territoriali di Roma e del Lazio attuale. Mentre il regno d’Italia diveniva una tappa del percorso che i sovrani d’oltralpe dovevano compiere per recarsi a Roma a cingere la corona del restaurato impero d’Occidente, nasceva così, in sordina, il dominio temporale dei papi, che fu per essi, in sostanza, una palla al piede come ha ammesso per primo Paolo VI, avrebbe soprattutto costituito per secoli e secoli un ostacolo insuperabile all’unificazione territoriale della penisola. All’inizio del secondo millennio – l’anno Mille della leggenda –, i giochi per l’Italia erano in parte già fatti o perlomeno ne esistevano le premesse. Tagliata fuori dalla corsa allora incipiente verso la costituzione di monarchie feudali, che avrebbero predisposto i quadri territoriali dei futuri stati nazionali, l’Italia vide consolidarsi, con la nascita del regno normanno, e poi svevo, di Sicilia (l’isola, più l’Italia meridionale), la dicotomia fra il suo settore settentrionale e il suo mezzogiorno. A sud di Roma, prendeva infatti vita un organismo statale che, forte anche del duplice retaggio delle amministrazioni bizantina, presente in Puglia e in Calabria fino a quasi alla fine del sec. XI, e arabo-mussulmana, introdotta in Sicilia all’inizio del secolo XI e soppiantata dai nor-


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manni contemporaneamente alla bizantina, costituiva un’eccezione rispetto agli altri Stati europei del tempo. A nord di Roma, in particolare in Toscana e nella valle del Po, il fenomeno della rinascita della città, comune a buona parte dell’Europa, assumeva frattanto caratteri anomali (di nuovo l’anomalia italiana!) sia sul piano della sperimentazione di forme inedite di autogoverno locale che su quelli dell’intensificazione dei traffici commerciali, della crescita esponenziale della produzione di manufatti e dello sviluppo delle attività finanziarie. Era la conseguenza indiretta e, in un certo senso il compenso, della scomparsa prematura del regno che i Longobardi avevano creato, ma che non avevano avuto la forza di difendere, forse perché – come è stato sostenuto di recente – la superiore civiltà dei Romani vinti aveva presto affievolito le loro virtù ancestrali.


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