Girolamo Arnaldi, Pagine quotidiane - SECONDA PARTE

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

GIROLAMO ARNALDI

PAGINE QUOTIDIANE a cura di MASSIMO MIGLIO - SALVATORE SANSONE

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI 2017


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Ringraziamo Lianella Arnaldi, Antonio Menniti Ippolito, scomparso nel 2016, Livia Maggioni e gli eredi di Girolamo Arnaldi che hanno permesso la realizzazione del volume. Si ringraziano i quotidiani e le riviste che hanno concesso la loro autorizzazione per la pubblicazione degli articoli. Ringraziamo Fabiana Battisti per la collaborazione. Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone

ISBN 978-88-98079-53-7 Stabilimento Tipografico Pliniana, V.le F. Nardi, 12 – 06016 Selci-Lama (Perugia)


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Il Caffè/Recensioni, [dopo il 1953?] L’ultimo Bontempelli “L’acqua” (M. Bontempelli, L’acqua, Darsena 1945) segna una svolta importante nell’arte di questo nostro fecondo scrittore. La formula del “realismo magico”, almeno com’era intesa riguardo alle opere precedenti, non è più del tutto sufficiente. Perché, se la narrazione si svolge ancora sul doppio binario del verismo e della féerie, lo stile è radicalmente mutato. Quel che di intellettualistico, di problematico, di pirandelliano c’era nella sua prosa, s’è disciolto in una lingua nuova che ha, qua e là, il fascino del primitivo. E, specialmente nella frasi della incolta e selvaggia Madina, la parola sembra venir miracolosamente riscoperta per riacquistare in pieno il suo valore di verità e di poesia. Anche questa volta, come sempre, il mondo del personaggi è del tutto estraneo all’anima del loro creatore, ma se altrove essi sembrano soltanto il parto di un cervello, qui essi sono, anche se staccati e lontani, il parto di un cuore. E nelle vicende della fanciulla di campagna venuta in città a servire ed esposta ai pericoli di un padroncino troppo intraprendente e di un nobile fannullone e galante, Bontempelli, che pur è così poco intimista, vuol certamente rivelarci le sue ansie per certe ingiustizie della società attuale, fornirci un’evidente condanna di situazioni e cose che costituiscono il disonore e l’infamia del mondo borghese. Tale motivo polemico è però ben nascosto nelle pagine dello scrittore che narra soltanto i fatti senza fermarsi mai a sottolineare, senza lasciarsi mai andare a considerazioni e commenti. L’acqua tra cui Madina è nata, durante un’inondazione, nei pressi di una fresca zampillante cascatella, è la nota dominante del libro: “l’acqua terribile e l’acqua innocente”. E dopo tante avventure, tutte sotto il segno di questo elemento – dal bagno clandestino nella vasca del “signorino”


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momentaneamente assente e troppo presto ritornato, alla passeggiata lungo il fiume col Conte, al lieto soggiorno fra i contadini ospitali che si chiamano fra loro con nomi di sorgenti di fiumi – alla fine Madina si bagna nel suo ruscello, presso la fontana dove una donna era morta dandola alla luce. E nel ruscello accade un miracolo. Il suo corpo si dissolve nell’elemento che lo circonda e che essa tanto amava, “il volto di Madina si scioglie in onde fresche di felicità.” Qui non c’è della magia, c’è del mito. E lo stile contribuisce magistralmente a creare questa atmosfera di quasi religiosità che fa di Madina un simbolo. Il periodo scorre veramente come il ruscello della montagna, trasparente e lento, tutto pieno di svolte dolci anche se improvvise, interrotto talvolta da disperse cascatelle che non ricordano il fragore del tuono, ma semplicemente il canto e il sorriso di una donna. Una cosa di pessimo gusto va però sottolineata. Si tratta di quel “pieghevole” dove sta seduto il pittore Grisante. È una brutta parola che specie in questo contesto stona, anche se sarebbe certamente piaciuta all’apostolo del nazionalismo linguistico a tutti i costi, morto qualche tempo fa a Milano. Il Mondo, 1 agosto 1961 Il rigorista Muratori Al cardinale Fortunato Tamburini, che gli aveva restituito pieno d’appunti il manoscritto del suo trattato sulla “Regolata divozione de’ Cristiani”, il Muratori così scriveva, nel novembre del 1745: «Cercherò io di profittare della carità che mi ha fatto, benché le confessi, che mi dispiacerà sempre di non poter esporre ciò, che pure a me sembra di maggior decoro della santa religiona, che professiamo, e che serve di pretesto ai nemici per isparlare di noi. M’accorgo,


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infine, che bisogna lasciar il mondo com’è e cercherò di accomodarmi anch’io». Quattro anni dopo, pochi giorni pima di morire, ripeterà a Scipione Maffei i motivi profondi di quella sua finale rinuncia, che ormai è anche una rinuncia a vivere («per me poco importa, che la finisca in breve»), aggiungendo però ch’egli prega Dio che conservi in vita lui, che è «il campione più vigoroso e coraggioso della letteratura italiana». Era il momento conclusivo del tormentato itinerario spirituale e culturale, che Sergio Bertelli ha rintracciato con intelligenza e dottrina nel suo libro su “Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori” (Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1960). Bertelli ha dichiaratamente scartato la via, in fondo più facile, dell’esame delle singole opere del Muratori. La valutazione puntuale di ciò che hanno rappresentato i “Rerum Italicarum Scriptores”, le “Antiquitates Italicae Medii Aevi”, gli “Annali d’Italia” per il progresso degli studi sul Medioevo italiano ed europeo è infatti un’impresa praticamente irrealizzabile, o che almeno supera le possibilità di qualunque studioso singolo. E, allora, un discorso così impostato non mancherebbe di scadere al livello di una di quelle vacue esercitazioni letterarie in cui gli storici della storiografia vagliano i giudizi degli storici del passato in merito a fatti che essi, per primi, conoscono solo per sentito dire. Il nostro autore, che ha preparazione ed interessi da storico dell’età moderna, e che è una persona seria, si è invece mantenuto sulla direttiva che gli era più congeniale e ci ha dato una storia della formazione culturale di Muratori, dai tranquilli inizi modenesi sotto la guida sicura di Benedetto Bacchini, alla parentesi milanese fra i codici dell’Ambrosiana, al ritorno in patria con relativo ingresso nella “mischia giurisdizionalistica”, alle varie fasi della battaglia diplomatica intorno al possesso delle valli di Comacchio, fino agli anni eccezionalmente fertili della maturità e della vecchiaia. Ma tutte le volte che è stato necessario, il Bertelli si è fatto


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medievalista, e con buon senso, senza strafare, magari mediante un semplice appropriato rimando alla bibliografia più recente, mostra di porsi sempre il problema di «come sono effettivamente andate le cose» – una preoccupazione, questa, da cui una ricerca di storia della storiografia non dovrebbe mai poter prescindere. La tesi centrale del libro è l’importanza, come di una “svolta decisiva” nella sua vita, che avrebbe avuto per il Muratori la collaborazione, certo non priva di contrasti, con Leibniz, quando entrambi, per incarico rispettivamente del duca d’Este e del duca di Brunswick, avevano affrontato il problema delle origini della Casa guelfa, dal cui ceppo si facevano appunto discendere il ramo italiano dei da Este e quello germanico degli Hannover. Corollario di questa tesi è, necessariamente, una certa svalutazione dell’influsso che su di lui avrebbero invece avuto i benedettini di SaintMaur, rinomati iniziatori secenteschi della moderna metodologia erudita. Forse un po’ sbrigativamente, Croce aveva sentenziato che il Leibniz, «per filosofo che fosse, non sorpassò il livello di quei bravi e dotti monaci». Al contrario, Bertelli è convinto che un sostanziale progresso fra i primi e il secondo ci sia stato e nell’oscillazione fra questi due poli pone il travaglio intimo del Muratori nel momento cruciale della sua formazione. Finché la vittoria – per così dire – del Leibniz non segnò il suo definitivo passaggio dall’erudizione ecclesiastica alla storia civile. Bertelli difende la sua tesi con ottimi argomenti. Le pagine sulla impasse in cui venne a trovarsi l’erudizione maurina verso la fine del secolo XVII, per quanto essenziali nell’economia del libro, costituiscono anche un brillante excursus di storia intellettuale, una specie di capitolo aggiuntivo a quel libro affascinante che resta sempre la “Crisi della coscienza europea” di Paul Hazard. I Maurini, e poi i Bollandisti, avevano operato del tutto al riparo delle dispute filosofiche; di fronte agli attacchi mossile contro dai


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giansenisti, cartesiani e libertini, la storia s’era ritirata nelle celle dei conventi, con grande vantaggio dello sviluppo delle tecniche di ricerca: per la prima volta, si stabilivano i criteri per giudicare della autenticità, o della falsità, di un diploma; nascevano la diplomatica e la paleografia, dopo di allora compagne inseparabili della storia medievale… Sottratta ai compiti altamente onorifici, ma anche troppo gravosi, di chi l’aveva chiamata a testimoniare delle infinite peripezie e oscuramenti che la “vera religione di Cristo” ebbe a subire nei secoli dell’età di mezzo, o a celebrare, dall’altra sponda la immutata stabilità della sede di Pietro di fronte all’idea sempre risorgente della deviazione ereticale, la Storia aveva guadagnato in serietà di metodi e di risultati tutto quello che aveva perduto in vivacità ed aderenza ai problemi del mondo contemporaneo. Ma, a un certo punto, ci si accorse che proprio l’impiego del nuovo e più perfezionato strumento che si era elaborato per la conoscenza del passato, presupponeva una serie di scelte pregiudiziali, ben più angosciose di quelle che i Maurini erano maestri nel compiere, nel corso del loro lavoro quotidiano, quando si trattava di pesare i pro e i contra in merito alla genuinità del diploma di un re merovingio. Andare avanti coraggiosamente, magari applicando i ritrovati della nuova filologia all’esegesi dei testi sacri, o fare macchina indietro, accontentandosi di riprendere la battaglia difensiva del Baronio con armi più efficaci di quelle di cui egli disponeva? Nell’attesa, tutta la cura era posta nel non andare oltre l’esame del testo della singola bolla o dei singoli diplomi. Solo che, in queste condizioni, quando i pro e i contra si equilibravano, non si davano più vie d’uscita. Ai Maurini sfiduciati, l’abate de la Trappe fece presente che l’erudizione, dopotutto, non era il compito istituzionale dei monaci: «on peut montrer que presque dans tous temps, il y en a cinquante mille qui ont véçu avec les seules connaissances qui convenaient à leur profession et qui


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étaient capables de les santifier». Argomento che, almeno per un cristiano, ha una forza formidabile. Al giovane Muratori che, con maggiore o minore consapevolezza, subiva anche lui i contraccolpi di questa crisi, e che, in mancanza di meglio, sfogava la sua sete di sapere e di celebrità andando a caccia di inediti «da far godere al mondo», negli scaffali dell’Ambrosiana (salvo poi a vivere nel dubbio assillante di non essere arrivato per primo), venne incontro il Leibniz e, attraverso di lui, la cultura storico-giuridica tedesca, offrendogli una prospettiva di lavoro, all’interno della quale l’erudizione acquistava un senso, in un contesto che è ormai di veri e propri problemi storici. «Suddito di un impero la cui struttura richiamava di continuo l’età medievale, l’interesse storico del Leibniz – precisa Bertelli – si appuntava soprattutto sul Medioevo, ricercando in esso le origini delle popolazioni del mondo intero, i loro costumi, le loro credenze religiose, il potere politico, quindi l’esercizio della regalità, la potestà assoluta del monarca, i suoi rapporti con la Chiesa e le prerogative imperiali e papali che erano alla base dello Stato – allora come oggi – in pieno Seicento». Con il senno di poi, si dovrà a questo punto ammettere che in effetti l’ipoteca giurisdizionalistica, che così si accendeva, avrebbe gravato a lungo e pesantemente sugli studi di storia medievale: nonché lo Stato, che evidentemente non era allora lo stesso di oggi o dei tempi di Leibniz e del Muratori, neanche la stessa Chiesa post-tridentina aveva più molti punti in comune con la Chiesa tardo-antica od altomedievale, almeno prima che Gregorio VII operasse la sua grande riforma. Ma questi sono, appunto, discorsi che facciamo col senno di poi: resta il fatto che, attraverso l’impostazione leibniziana, il mondo barbarico, i Germani vincitori, acquistavano finalmente pieno diritto di cittadinanza nella storiografia. Muratori era ben consapevole di tale


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novità: «All’udire questo nome di Longobardi, si risveglierà, il so, in non pochi dei lettori quella sola terribile idea, che di tal gente ci hanno lasciato certe storie, ed alcune memorie antiche e moderne. Erano barbari: e tanto basta. Forse ancora sembrerà loro di vedersi davanti agli occhi l’esemplare di quel brutto ceffo d’un longobardo, che in grossolano intaglio di legno già ci rappresentò Wolfgang Lazio tedesco dottissimo: cioè un uomo di torva guardatura, d’aspetto orrido, con barba e mustacchi distesi sul petto, raso nella parte deretana del capo, vestito a musaico, armato di spintoni ne’ ginocchi, e di spadone da due mani, e tale in somma che a guatarlo mangia le persone…». Che importa se poi Muratori arriverà addirittura al punto di presentare il regno di Pavia come un modello valido per tutti i tempi, per quanto si riferisce alla regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa? Il Bertelli, forse anche per la scusabile civetteria di farci vedere che sa suonare egualmente bene più di uno strumento, si è addentrato in un’analisi minuta del quadro politicodiplomatico della “disputa di Comacchio”. Nella partita aperta fra la Corte imperiale e Roma, il ducato di Modena aveva assunto una parte di primo piano: senza dare soverchio ascolto alle mire estensi su Comacchio e Ferrara, Vienna si serviva di Modena come un “pungolo continuo” per tenere a bada il papa. In tutta la vicenda, che vide i “diplomatisti”, cioè a dire gli studiosi di antichi diplomi, schierati in prima linea, combattere fianco a fianco con i diplomatici e gli uomini di governo, il Muratori tenne un costante atteggiamento di fermezza e di moderazione. Il suo sforzo principale fu sempre quello di riportare la discussione entro termini rigorosamente storico-politici, dai quali esulava ogni considerazione religiosa: tutto il rispetto dovuto ai pontefici «sacri pastori» del gregge di Cristo, ma quando si presentavano nelle vesti di “principi del secolo”, sarebbe assurdo pretendere «ch’eglino potessero far leghe, muo-


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vere guerra, conquistare gli stati altrui, o ripigliarli o pretenderli come suoi, quando si credono d’aver ragione di così fare, e ciò fosse poscia vietato a gli altri principi di fare contra il Pontefice Romano, quando anch’essi credono di avere giustizia dal canto loro». Quando il Muratori scriveva: «Il signor Iddio doni grazia agli avvocati estensi di continuare in una onorata moderazione!», traduceva in termini pratici, di tattica politica, quello che era un orientamento profondo del suo spirito. Anche se sostanzialmente rimarrà fedele fino all’ultimo al rigorismo respirato nell’ambiente agostiniano milanese, certe punte col tempo vennero infatti attutite, un po’ per prudenza, un po’ anche per un mutamento intervenuto nelle sue convinzioni, soprattutto in materia di grazia e di libero arbitrio. La stessa capacità di adattarsi alle circostanze pur tenendo duro sull’essenziale, la riscontriamo anche in tutta la fase preparatoria dell’edizione dei “Rerum Italicarum Scriptores”, che videro la luce nonostante e contro il veto dell’inquisizione ecclesiastica. Il tributo pagato all’autorità religiosa consistette nel taglio di qualche brano di cronaca medievale che, per un verso o per l’altro, poteva offrire un appiglio allo zelo dei censori. Ma il Bertelli, che è giustamente piuttosto severo nel giudicare il metodo di edizione seguito in più di un caso dal Muratori, è arrivato alla conclusione che, con i “Rerum Italicarum Scriptores”, il Muratori, più che una raccolta di fonti per la storia d’Italia nel Medioevo, voleva mettere insieme una storia dell’Italia vista attraverso le fonti coeve. E, in questa prospettiva, le amputazioni e le ricuciture arbitrarie non dovettero mai apparirgli come un delitto di lesa filologia. Al centro di tutta la produzione muratoriana, collegate a tutto il resto da molteplici fili, stanno le “Antiquitates Italicae Medii Aevi”, che al Croce erano apparse «una vera e propria Kulturgeschichte» del nostro Medioevo, e che il Bertelli ritiene ora «il più compiuto tentativo di sistemazio-


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ne critica della storia medievale che ci abbia dato la storiografia italiana settecentesca». Ma qui forse il giudizio d’insieme avrebbe meritato di essere svolto un po’ più largamente di quello che non faccia l’autore sempre fedele, troppo fedele almeno in questo caso, alla consegna iniziale di non affrontare l’analisi dettagliata delle singole opere. Giustamente, Vittorio de Caprariis ha scritto una volta che Croce, con la storia della storiografia, ha introdotto nella cultura del nostro paese una nuova dimensione della ricerca storica. Questo libro di Bertelli sta a dimostrare che, nel periodo di sbandamento e di incertezza che attraversa oggi la nostra storiografia, un filone ormai tradizionale di studi possiede una vitale capacità di rinnovamento. Il Giornale, 31 ottobre 1975 Risultati di un convegno su «I terrori dell’Anno Duemila»* Il passato per il futuro Gli storici sono passati al contrattacco: armati del sussidio della memoria hanno messo in discussione le catastrofiche previsioni dei futurologi «La futurologia è una merce. I futurologi offrono il prodotto richiesto dal mercato. Oggi spaventano, domani tranquillizzano la loro clientela: per essi non fa differenza». A sentire risuonare di continuo proposizioni come queste uno non avrebbe detto di assistere a un congresso che aveva in oggetto il futuro. Ma era da aspettarsi che il convegno di Parigi su «I terrori dell’Anno 2000», con il suo titolo volutamente ad affetto ricalcato sui molti ipotetici terrori di mille anni prima, riservasse delle sorprese. La lista dei relatori si apriva con il nome

* Si veda, in questo volume, L’Europa/Idee e costume, La leggenda “progressista” dell’«oscuro Mille», 14-28 novembre 1975.


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di Henri-Irénée Marrou, del tutto sconosciuto come futurologo, noto per aver scritto libri come Sant’Agostino e la fine della cultura antica e La storia dell’educazione nell’antichità. La «Fondation Internationale des Sciences Humaines», che è l’ente promotore del convegno, ha della funzione e posizione di tali scienze un’idea alquanto diversa da quella oggi condivisa dai più: «Nuove discipline – antropologia, etnologia, sociologia ecc. – sorgono ovunque. Ognuna di esse porta con sé la sua verità particolare, con la pretesa poco felice, a volte, di soppiantare le altre. Le Scienze Umane, così come le intendiamo, implicano, oltre alle nuove acquisizioni, l’ancien savoir: la storia, la giurisprudenza, la filosofia, la teologia». Per il «progresso» Sono saggi propositi, esenti dai volgari luoghi comuni che circolano in materia, non dal sospetto di una compiacente strizzatina di occhio alla moda «rétro». A suo modo indicativa anche la sede prescelta per il convegno: il castello Jouy-en-Josas, un centro a una decina di chilometri da Versailles che ha un posto di rilievo negli annali dell’industria francese per esservi stata installata nel 1760 la prima manifattura di «tele dipinte». L’idea ispiratrice del convegno risale a Pierre Chaunu, un credente nella idea illuministica di «progresso», di cui rivendica però con energia l’originaria matrice giudaico-cristiana, nell’atto stesso in cui pretende di misurarne l’incidenza sulla realtà in termini di aumento della produzione di beni materiali, servendosi delle tecniche più aggiornate della storia quantitativa. Il suo «contre-rapporteur», François Furet, autore di un libro sulla rivoluzione francese recensito con favore su queste colonne da Rosario Romeo, ha detto che ama raffigurarsi Chaunu con la Bibbia in una mano e il Pnb (prodotto nazionale lordo) nell’altra.


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Dopo avere scritto dodici volumi su Siviglia e l’Atlantico dal 1504 al 1650, che costituiscono uno dei risultati più consistenti della campagna promossa dopo il 1930 dalla rivista «Annales» a favore della applicazione alla ricerca storica delle metodologie statistiche in uso nelle scienze sociali, lo Chaunu è andato sempre più allargando la sfera dei suoi interessi fino ad affacciarsi agli orizzonti proibiti della storia universale. E storia «universale», per chi come lui, non si accontenti dell’accezione pratico-editoriale del temine, significa riflessione sul destino dell’umanità, lettura nel passato del futuro che l’attende, di modo che la «previsione» finisce di necessità con l’acquistare anche valore di monito per il presente, cioè a dire di «profezia», nel senso biblico, e non corrente, del vocabolo. Intrappolati Ma tutto questo, nel caso atipico dello Chaunu, sempre sul fondamento di una analisi storica che mira alla qualificazione totale dell’economia, della realtà sociale e degli stessi fenomeni culturali. La chiave di un itinerario mentale così complesso e a tratti sconcertante ci è data dallo Chaunu medesimo in un libro che si intitola Dalla storia alla prospettiva. La relazione presentata al convegno di Jouy-enJosas, «L’analisi dell’ultimo quarto del ventesimo secolo», è una specie di condensato del libro. Rispetto ai futurologi propriamente detti che si limitano ad applicare in modo meccanico l’estrapolazione, un procedimento matematico mediante il quale si cerca di prevedere come si svolgerà in futuro un fenomeno di cui si conosce l’andamento fino a un punto determinato, lo storico che si volge alla futurologia avrebbe il vantaggio di poter trarre dall’esperienza del passato la lezione della «discontinuità», il che renderebbe le sue previsioni di gran lunga più attendibili proprio sotto il profilo scientifico.


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Il futuro che, tramite i mass media, viene di solito propinato all’europeo di oggi non è invece che il prolungamento in linea punteggiata delle tendenze degli ultimi dieci anni. «Si fa una proiezione, scrive lo Chaunu, senza tentare di prevedere il cambiamento. Al limite, si mobilita il grande Ordinatore per parafrasare l’Ecclesiaste: “Ciò che è stato è stato e ciò che si è fatto è ciò che si farà”. La prospettiva di questi ultimi anni si è lasciata intrappolare nel tempo corto. Il proprio dell’analisi storica è di distinguere nel presente ciò che è eterogeneo rispetto al passato e, al tempo stesso, di annunciare e prevedere la modificazione dei parametri, di andare dunque al di là del prolungamento su venti o trenta anni della china degli ultimi dieci». Fuori dal bozzolo «Un tempo di riferimento racchiuso nell’istante è ripetitivo. Occorre restituire alla durata le sue immense possibilità di rinnovamento. Il futuro è nella memoria. Spetta forse agli storici di trarlo fuori». Ma la questione di metodo nasconde una questione di sostanza, nella quale sta il vero nocciolo del problema. Questa appassionata polemica contro i futurologi, falsi profeti, e la connessa apologia dei profeti veri che sarebbero invece gli storici, ben lungi dal riflettere, come pure potrebbe sembrare, preoccupazioni bassamente corporative, sono nutrite dalla consapevolezza della funzione determinante che il senso della storia ha avuto nella formazione della moderna civiltà occidentale in ciò che, sempre secondo lo Chaunu, la caratterizzerebbe maggiormente: la pratica, cioè, dell’«investitura sul futuro dell’ascetismo laicizzato». Mettendo in chiaro, si tratta, in sostanza, di questo: la cultura greca, da un lato, e la rivelazione giudaico-cristiana, dall’altro, hanno contribuito a sostituire all’immagine «ciclica» del tempo ricalcata sul ritorno delle stagioni e sul-


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l’alternarsi del giorno e della notte, propria delle altre civiltà, un’immagine del tempo che potrebbe dirsi «vettoriale» e che comporta una percezione specifica del trascorrere di esso, in altre parole la sua storicizzazione. Divenuta patrimonio della cristianità latina occidentale, nello «spazio privilegiato di un Mediterraneo ribaltato verso nord-ovest», questa immagine della durata aveva come implicito corollario la prospettiva di una «costruzione ottimistica dell’avvenire concepito come proseguimento della storia». Ma solo al secolo XVIII, per un concorrere di circostanze esterne favorevoli, sarebbe toccato in sorte di trarre fuori dal bozzolo di quella che era ancora una concezione prevalentemente teologica la nozione laica di «progresso», alla quale però restava congiunta l’idea «ascetica» di un sacrificio da compiere nel presente in vista del conseguimento di un bene futuro. «Dato che l’idea di un tempo vettoriale, che è tempo del compimento, appartiene specificamente al retaggio giudaico-cristiano, è normale che l’ascetica dell’investimento sul futuro sia stata la grande caratteristica della discendenza giudaico-cristiana e che essa non si sia imposta altrove agli altissimi livelli raggiunti dopo i secoli XVIII-XIX che tramite acculturazione del modulo europeo». Di là della efficace e aggiornatissima presentazione, il processo delineato dal calvinista Chaunu denuncia apertamente il suo debito verso Max Weber di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, uno dei tipici libri che hanno la non piccola virtù di risorgere sempre di nuovo dalle ceneri delle confutazioni cui vengono sistematicamente sottoposti. Ma una discussione in materia ci porterebbe molto lontano. Occorreva, d’altronde, accennare al problema, perché l’intera concezione dello Chaunu e, quindi, anche l’impostazione del convegno su «I terrori dell’Anno 2000», ruota intorno all’idea dell’«investimento sul futuro dell’ascetismo laicizzato» come struttura costitutiva della civiltà europeooccidentale, il cui venir meno negli spiriti prima ancora che


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nelle cose rappresenterebbe la causa della crisi che stiamo vivendo. È la fonte delle vere paure per il futuro che lo storicoprofeta, armato del sussidio della memoria, contrappone alle paure immaginarie propagandate dai futurologi che, immersi come sono nella cultura della crisi, la memoria hanno invece perduta e costruiscono le loro ipotesi fallaci sulla proiezione di un «tempo corto». È a questo punto che il discorso metodologico si salda con quello politico-ideologico. La rivendicazione del ruolo della memoria nella previsione ha come presupposto una lettura della crisi in una chiave che direi liberale e cristiana e quindi, di necessità, europocentrica, se non altro perché i valori ad esser minacciati sono quelli costitutivi della civiltà europea. L’astuzia, se così si può dire, degli organizzatori del convegno di Jouy-en-Josas è consistita nel tenere tutto questo sullo sfondo. Invece di porre al centro del dibattito una concezione complessa come quella che abbiamo cercato di illustrare, Chaunu e i suoi amici, una volta enunciate le loro tesi, hanno preferito discutere liberamente da specialisti molto accreditati l’insieme di previsioni per il futuro che oggi vanno per la maggiore, nell’intento di dimostrare la loro scarsa attendibilità. Così gli storici, come il già ricordato Marrou, che ha parlato della «Fine del mondo antico vista dai contemporanei», e Pierre Riché, che è tornato ad affrontare «Il mito dei terrori dell’Anno Mille», sono stati un po’ il garofano all’occhiello di un convegno che ha avuto come protagonisti gli esperti della demografia, dell’ecologia, dell’alimentazione, che sono com’è noto, i settori battuti a preferenza dai futurologi. Per chi non lo avesse ancora capito, la bestia nera degli organizzatori del convegno su «I terrori dell’Anno 2000» è la «crescita zero», una parola d’ordine ch’essi ritengono formulata sulla base di previsioni errate, e nei cui effetti a lunga scadenza, se gli europei occidentali insisteranno nel


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volerla far propria, essi incarnano i loro, del tutto diversi, «terrori» per il futuro. Il Giornale, 18 settembre 1977 Guide storico-critiche in Europa La «galassia» Gutenberg L. Febvre e H.-J. Martin La nascita del libro, a cura di A. Petrucci, 2 voll., Bari, Laterza, 1977, pp. I-XLVIII e 1-430, lire 5.800 Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di A. Petrucci, Bari, Laterza, 1977, pp. IXXIX e 1-294, lire 3.600 L’uscita, nel 1958, de L’apparition du livre di Febvre e Martin ha segnato una svolta nel campo degli studiosi di bibliologia e storia del libro, fino allora dominio riservato di eruditi specializzatissimi, per lo più amatori e collezionisti di libri antichi, oppure bibliotecari preposti alla conservazione delle raccolte pubbliche di incunaboli e cinquecentine. Gli interessi dominanti in questi studiosi erano la catalogazione dei preziosi cimeli dei primordi della stampa e, nel migliore dei casi, la ricostruzione dell’attività editoriale dei «prototipografi», che una visione storica un po’ semplicistica e del tutto sganciata dai risultati di quelle ricerche tendeva ad accomunare ai navigatori e ai riformatori religiosi contemporanei quali protagonisti, meno avventurosi ed eroici ma altrettanto benemeriti, della fase di transizione dal medioevo all’evo moderno. Basta scorrere l’indice, pianificato e iniziato da Lucien Febvre prima di morire (nel 1956) e poi compiuto dal Martin, per rendersi conto dell’allargamento di orizzonti che il grande maestro delle «Annales» aveva previsto, come per tanti altri settori dello scibile storico, anche per il giardino riservato della bibliografia: comparsa della carta in Europa; difficoltà tecniche e


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loro soluzione (caratteri, composizione, «messa in macchina»); presentazione del libro (colophon, formato, illustrazioni, legatura); il libro come merce (prezzi, finanziamento); geografia e commercio del libro (tirature, contraffazioni, privilegi di stampa e censura). Specialista del Rinascimento e della Riforma, il Febvre, sulla base della propria esperienza di ricerche, condivideva nel fondo le tesi che il libro a stampa – in quanto veicolo delle nuove idee e dei nuovi credi più diffuso e maneggevole del vecchio libro manoscritto – fosse stato di per sé un grande strumento di liberazione. Non a caso, l’ultimo capitolo del libro si intitola inequivocabilmente: «Il libro, questo fermento». Sulle orme de La nascita del libro, molti studiosi soprattutto francesi (fra gli altri, lo stesso Martin) hanno ripreso l’uno e l’altro aspetto del grandioso programma di studio tracciato dal Fevbre, rivolgendo l’attenzione alle aree periferiche trascurate nel libro del 1958 e spingendosi ben oltre il periodo delle origini (1450-1550), fino alle soglie della rivoluzione francese. Alcuni saggi di questa ricerca, che finora ha toccato in modo solo marginale l’Italia, formano il volume dal titolo Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna, che Armando Petrucci ha voluto affiancare molto opportunamente alla tardiva traduzione italiana dell’opera ormai classica, di Fevbre e Martin. Caratteristica essenziale di queste indagini più recenti è l’estensione alla storia del libro dei metodi della storia quantitativa. Valga per tutti l’esempio di François Furet, che ha messo a frutto ed elaborato i dati, per il secolo XVIII, dell’amministrazione preposta al controllo della produzione letteraria nel regno di Francia: la librairie. Le introduzioni che il Petrucci ha premesso ad entrambi i volumi sono un singolare miscuglio di notazioni acutissime e di giudizi a dir poco sconcertanti, ispirati al marxismo sociologizzante e populista oggi di moda. In testa alla


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prefazione alla Nascita del libro egli riporta un passo di Engels: «Ogni progresso della produzione è nel medesimo tempo un regresso della situazione della classe oppressa, vale a dire della maggioranza. Ogni beneficio per gli uni è necessariamente un male per gli altri». Ma non si vede come un modello elaborato per rendere ragione delle contraddizioni insite nei processi fondati sullo sfruttamento possa, a prescindere dalla sua intrinseca validità, essere esteso a coprire il rapporto che, nella civiltà dello scritto, lega i produttori di libri ai potenziali lettori di questi, nonché alla massa di quanti, per il fatto di essere analfabeti, non possono essere considerati tali. Editori e lettori (o non lettori) non sono infatti configurabili come i protagonisti dialetticamente contrapposti del medesimo processo produttivo, bensì, semmai, come i fabbricanti di un prodotto, da un lato, e i consumatori (o non consumatori) di esso, dall’altro. Basandosi su quella falsa analogia, il Petrucci si sforza invece di mettere in evidenza gli inconvenienti arrecati alla «maggioranza» dalla nascita del libro a stampa e, per converso, i vantaggi della situazione precedente caratterizzata dalla circolazione del libro manoscritto. Per nostra fortuna, la predilezione del Petrucci per i libri manoscritti rispetto ai libri stampati non si fonda solo sul progressismo oscurantista della sua ideologia. Il campo di studi nel quale si è meritatamente affermato è la paleografia, intesa come storia della scrittura nel senso largo indicato dal suo maestro Giorgio Cencetti, e perciò conosce i segreti dei libri scritti a mano molto meglio di quanto non possano conoscerli gli specialisti della storia del libro a stampa, per non dire dei profani. La produzione di libri manoscritti era giunta nel tardo medioevo a un livello di efficienza e di speditezza che la nascente industria tipografica stenterà in un primo momento ad eguagliare, proprio sul piano quantitativo. Dopo che la nuova invenzione avrà preso piede, il manoscritto conti-


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nuerà non solo a influenzare a lungo le forme del libro a stampa, ma anche a vivere di una sua propria vita, caratterizzata da una minore fissità di tipi e da una molto maggiore autonomia nei confronti sia dei poteri costituiti che delle fonti di finanziamento. Ma non occorreva, per questo, scomodare l’ombra di Engels. Bastava riflettere sulla straordinaria esperienza contemporanea del samiszdat. Il Giornale, 25 settembre 1977 Bologna in Tv Cervellati fa la storia Nella serie televisiva «Raccontare la città», curata per la seconda rete da Giulio Macchi, la seconda puntata, dedicata a Bologna, era tutta imperniata su Giulio Cesare Croce, il padre cinquecentesco della letteratura dialettale bolognese, il creatore di Bertoldo e Bertoldino. L’autore del programma, Giancarlo Mengozzi, ha immaginato che il Croce, tornato nella sua città per prendere parte a un raduno di cantastorie, ne ripercorra strade, portici e piazze, nonché i secoli di storia che l’hanno fatta com’è. La scelta degli episodi è apparsa adatta allo scopo di individuare le fasi di maggior rilievo nella crescita di Bologna: la fondazione dell’università, che ha attirato studenti da ogni dove; la signoria dei Bentivoglio, che ha coinciso con la fioritura rinascimentale; la controversa costruzione dell’Archiginnasio, che è l’impresa della Controriforma; la congiura giacobina di Luigi Zamboni, che prelude all’età borghese. Più discutibile il taglio dato agli episodi stessi: gli studenti erano tanti, ma a studiare erano solo i figli di papà; i Bentivoglio non esprimevano un governo illuminato, ma erano una manica di pazzi; la Controriforma consisteva in una abile messinscena per tenere a bada i gonzi; Zamboni non poteva che fallire perché non aveva saputo assicurarsi l’appoggio delle


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masse popolari. Sarebbe da ingenui meravigliarsene. Tutti, o quasi, concordano sul punto che la storia non va spiegata, ma contestata. Questo è ormai il modo corrente di atteggiarsi di fronte al passato e sarebbe ingiusto farne carico a Giancarlo Mengozzi, che invece è uno che sa il fatto suo, ha un certo estro e non è privo di gusto. Ma gli ultimi dieci, quindici minuti del programma meritano un commento a parte. Arrivati ai giorni nostri e alle prospettive per il futuro, fa la sua comparsa sul video l’assessore bolognese all’urbanistica, Pierluigi Cervellati, al quale, a scanso di equivoci, va subito riconosciuto il merito di aver saputo difendere il volto del capoluogo emiliano meglio di quanto non abbiano fatto in genere i suoi colleghi di tutt’Italia. Ma Cervellati è anche l’autore di un macchinoso progetto per il risanamento del centro storico di Bologna, che prevede anzitutto l’esproprio generalizzato delle case contenute in quell’area, poi il loro sistematico restauro a spese del comune mentre gli attuali inquilini verrebbero provvisoriamente sistemati nelle cosiddette «case parcheggio» all’uopo predisposte, e infine il ritorno di questi nelle loro vecchie case, a restauro ultimato. Qualche anno fa, quando il progetto fu lanciato, alcuni tecnici francesi, nel corso di un convegno a Bologna, si sono provati ad azzardare una ragionevole previsione circa i costi dell’intera operazione: una tombola. E infatti finora non si è andati oltre un esperimento su scala ridottissima, a miracol mostrare al Nobécourt [1923-2011] di turno, prima che Guattari [1930-1992] venisse a fare il guastafeste. Nel programma di Mengozzi, Cervellati illustra il suo progetto a Giulio Cesare Croce, che lo ascolta senza battere ciglio, lui che si era allegramente fatto beffe per un’ora dello Studio e dei cardinali della Curia, e come se, di fronte alla rivelazione del verbo, avesse perso di colpo il suo scanzonato buon umore. Il Croce non chiede nemmeno spiegazioni quando Cervellati, di passaggio, annuncia can-


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didamente che saranno i «consigli di quartiere» a decidere chi deve andare ad abitare nelle case restaurate e chi no. Ma qui ci muoviamo sul piano, a suo modo legittimo, della propaganda. Ciò che non riesco proprio a capire è come si possa far dire a Cervellati che, conservando il volto della città – così come l’ha fatto la storia – per i suoi abitanti, si tutela il loro equilibrio esistenziale, perché l’uomo non può vivere senza la memoria del proprio passato, dopo aver speso tanto ingegno per dimostrare che la storia che ha fatto Bologna è solo una storia di soprusi e di espropriazioni, di inganni preteschi e di malversazioni nobiliari. Il Giornale, 23 ottobre 1977 Eco sulle tesi di laurea Il dettatore Umberto Eco Come si fa una tesi di laurea Milano, Bompiani, pp. 249, lire 1.800 Nel mondo antico l’insegnamento della retorica mirava alla formazione degli oratori che dovevano parlare nelle assemblee e convincere gli altri della bontà della loro tesi. Nel mondo medievale l’insegnamento della retorica risorse in Italia, fra i secoli XII e XIII, sotto forma di «ars dictandi», l’arte di scrivere lettere per ogni caso della vita pubblica e privata avendo in vista i destinatari più svariati: i genitori, il papa, lo zio prete, l’imperatore, il vescovo, l’amante lontana, il podestà cittadino. Boncompagno da Signa, «dettatore» famoso della prima metà del secolo XIII, ravvivò l’inamena tradizione dell’insegnamento della retorica nelle scuole del tempo, introducendo nei suoi manuali una dose d’urto di estro e bizzarria. La stessa ricetta applica ora Umberto Eco, successore di Boncompagno sulla cattedra bolognese, alla nuova versione di «ars dictandi» riservata al


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milione circa di italiani che, quattro, cinque, sei anni dopo avere consegnato agli esaminatori il tema della maturità, e senza mai avere più avuto nel frattempo l’occasione di prendere la penna in mano, si trovano improvvisamente di fronte all’impresa di scrivere l’equivalente delle almeno cento cartelle dattiloscritte in cui consiste una tesi di laurea presentabile. Alquanto a sproposito la maggior parte dei recensori di Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea. Le materie umanistiche, Tascabili Bompiani, 1977, hanno imbastito intorno a questo libro una discussione sull’utilità della tesi di laurea, insaporita di tanto in tanto da qualche ricordo personale, del tutto irrilevante però ai fini della dimostrazione dell’assunto. Eppure, Eco, che non è uno sprovveduto, si era affannato a chiarire che il suo libro non intendeva essere una presa di posizione né pro né contro la conservazione della tesi di laurea così come oggi viene assegnata e svolta (o copiata, o comprata), a coronamento del curriculum degli studi universitari. Giustamente, Eco osserva che, in un modo o nell’altro, qualcosa di simile alla tesi di oggi sopravvivrà nell’università riformata di domani e che, in ogni caso, chiunque si trovi a dover stendere una relazione di una qualche complessità deve affrontare le stesse difficoltà che incontra il laureando con la sua tesi. Anche Boncompagno, che insegnava a scrivere solo lettere, aveva indirettamente presenti le esigenze di chi si sarebbe dedicato a rogare atti notarili, o a redigere verbali di consigli ed assemblee, o a scrivere cronache e storie. E la tesi di laurea è più impegnativa. Per chi ha vissuto l’esperienza di lavorare in una biblioteca non domestica con il tempo contato, il racconto di come in tre pomeriggi, dalle tre alle sei, si può mettere insieme nella Biblioteca Civica di Alessandria la bibliografia necessaria per impiantare una tesi sul concetto di metafora nei trattatisti del Barocco italiano, è avvincente come un giallo. Ma lo spirito che ha ispirato questo libro risulterà più


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evidente dalla citazione di un passo che introduce il discorso sulla «citazione bibliografica» e le sue norme: «Vedrete che sono anzitutto norme funzionali, perché consentono sia a voi sia al vostro lettore di identificare il libro di cui si parla. Ma sono anche norme, per così dire, di etichetta erudita: la loro osservanza rivela la persona che ha familiarità con la disciplina, la loro violazione tradisce il parvenu scientifico e talora getta un’ombra di discredito su un lavoro altrimenti ben fatto». Ma Eco non si limita a dettar legge sulle virgole e i corsivi, che non debbono mancare quando il loro uso è richiesto da una convenzione liberamente accettata, che però non assolutizzerei, come l’autore, trascinato dall’entusiasmo e dal gioco, tende un po’ a fare. Affronta anche punti scabrosi, come l’alternativa «Tesi “scientifica” o tesi politica?» o gli accorgimenti da usare per «non farsi sfruttare dal relatore», con osservazioni ragionevoli ed equilibrate che sarei disposto a sottoscrivere quasi per intero. Ma questo improvviso ritorno alla ragione mi lascia interdetto. Che il nuovo «dettatore» bolognese non si stia facendo allegramente beffe di noi, come era solito fare a suo tempo Boncompagno? Il Giornale, 29 agosto 1978 Pubblicato il «carteggio» Don Giustino Giustino Fortunato (a cura di Emilio Gentile) Carteggio, vol. I Bari, Laterza, pp. 416, lire 15.800 Uno dei medaglioni con i profili parlamentari tipici, che Ettore Ciccotti, storico dell’antichità e deputato socialista in più legislature, incluse nel suo Montecitorio. Noterelle di «uno che c’è stato» (Roma 1908), era dedicato al Solitario. Questo veniva descritto come un oratore elegante, che impiega sei mesi a pre-


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parare i suoi discorsi, curando persino i gesti e l’intonazione della voce; in aula, tutti lo applaudiscono, ma nessuno vota a favore della sua proposta; né l’interessato si mostra in alcun modo preoccupato di far trionfare il proprio punto di vista: «Non vorrebbe nemmeno andare al potere per tradurlo in atto». Giustino Fortunato, deputato del collegio di Melfi dal 1880 al 1909, capì subito che il modello esclusivo del medaglione era lui e scrisse al collega ed amico una garbatissima lettera a nome del «povero» Solitario: «il quale non fu dolente, no, del giudizio espresso intorno al suo carattere politico, sia perché in gran parte conforme al vero, avendogli purtroppo madre natura negato il dono della combattività, sia perché indubbiamente dovuto a un animo amico, ma solo in quanto egli è coscientissimo che nessun discorso gli costò nientemeno che sei mesi di lavoro, e che proprio non mai, accuratamente o non, egli studiò il gesto e l’intonazione della voce». Era una rettifica per modo di dire, in cui Fortunato concedeva tutto sul punto davvero capitale della scarsa combattività, smentendo solo i tratti più apertamente caricaturali e perciò, anche, meno velenosi del ritratto. Il primo volume del Carteggio di Giustino Fortunato (editore Laterza, Bari, 1978), edito per iniziativa opportunissima dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, copre il periodo 1865-1911. A parte le prime lettere, che hanno un interesse prevalentemente biografico (il Fortunato era nato nel 1848), il grosso del volume può essere diviso in due parti: una quantità veramente minore, relativa agli anni del mandato parlamentare; l’altra, molto più consistente, relativa agli anni in cui, allontanandosi dalla vita politica attiva, senza più l’incubo del «collegio» da curare, con tutti gli annessi e connessi delle beghe locali e della pioggia di raccomandazioni, la corrispondenza epistolare diventa il principale sfogo del Solitario, che non disponeva più di una tribuna da cui pronunciare quei suoi famosi discorsi che piacevano a tutti e che non convincevano nessuno.


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Le linee maestre del Fortunato erano, ad un tempo, ossessivamente semplici ed apparentemente contradditorie. Per chi avesse occhi per vedere, la realizzazione dell’Unità politico-territoriale aveva messo a nudo con una nettezza prima impensabile la disparità esistente fra le «due Italie» e il superamento di questa disparità, non la cosiddetta «questione sociale» di cui parlavano i socialisti o la «questione nazionale» di cui cominciavano a blaterare i nazionalisti, costituiva il vero banco di prova per lo Stato unitario. La «storia» e soprattutto la «geografia» erano responsabili dell’inferiorità meridionale: la prospettiva di superare questo dislivello con leggi speciali e provvidenze governative di vario genere era solo fumo negli occhi, un mezzo disonesto per agganciare ai carrozzoni delle maggioranze governative gli sprovveduti parlamentari delle province meridionali, figli di quella borghesia, media e piccola, legata per lo più alla professione forense, che la rivoluzione parlamentare del 1876 aveva portato al potere. Consentendole di ammantarsi di un’etichetta di Sinistra, mentre invece proprio questa classe, e non il ceto dei grandi proprietari di terre, era la vera responsabile della fame dei contadini meridionali. La apparente contraddizione stava nel fatto che, date queste premesse, il Fortunato non malediceva l’Unità d’Italia, ma anzi indicava in essa la sola possibilità di un riscatto, alla lunga, delle genti meridionali. Quando il Fortunato trovava qualcuno disposto a dargli ascolto su questi temi, non mollava la presa. Anche due lettere partivano lo stesso giorno per lo stesso indirizzo. Nelle pagine di questo Carteggio sfilavano così i più bei nomi dell’Italia del tempo: da Croce e Gentile a Pareto e Mosca, da Sonnino e Nitti a Guglielmo Ferrero, a Giuseppe Lombardo-Radice, a Gaetano Salvemini… Soprattutto Salvemini, in cui il Fortunato preconizzava il nuovo Mazzini, apostolo dell’unificazione delle «due Italie». Il Solitario, come si vede, si trovava in ottima compagnia.


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Il Giornale, 10 settembre 1980 Il centenario della nascita del filologo Giulio Bertoni Una vita tessuta con le parole Il centenario della nascita è una misura giusta, né troppo lunga né troppo corta, per riconsiderare l’opera di maestri universitari che abbiamo fatto in tempo, o che avremmo potuto fare in tempo, a conoscere; per ristabilire nel ricordo e nel connesso ripensamento critico quella continuità fra le generazioni di cui è fatta anche, in parte, la tradizione degli studi, soprattutto di quelli più appartati e severi. Il ’78 è stata la volta di un maestro di filologia romanza, Giulio Bertoni (Modena 1878 – Roma 1942), ma i frutti a stampa delle celebrazioni indette da discepoli, amici, estimatori hanno tardato qualche po’ a venire, Li abbiamo ora allineati sul nostro tavolo e si deve riconoscere che era difficile procedere con più discrezione e buon senso: una serie di calibrati interventi sui moltiformi aspetti della personalità e dell’attività scientifica di Bertoni – il linguista, il provenzale, il dialettologo…–, ad opera di competentissimi delle diverse discipline (Heilmann, Roncaglia, Boni, Ruggieri, Sapegno, Coco…), raccolti in un fascicolo della «Biblioteca» della Deputazione di Storia patria per le antiche province modenesi; e, a margine, un omaggio, non estemporaneo ma indiretto, alla memoria del Maestro, consistente nella riproduzione anastatica, a cura di d’Arco Silvio Avalle ed Emanuele Casamassima, per i tipi della benemerita editrice Mucchi di Modena, dei primi cento fogli del Canzoniere provenzale estense, un manoscritto fondamentale nella storia della tradizione dei trovatori. La raccolta di liriche provenzali che vi è compresa, se non anche con certezza il manoscritto che la tramanda, risale al 1254 ed è appartenuta ad Alberico da Romano, fratello del più tristemente famoso Ezzelino III, signore e tiranno della Marca Trevigiana. Agli inizi del ’500, il manoscritto, di provenienza veneta, fu portato a Ferrara da Pietro


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Bembo, il grande restauratore cinquecentesco del culto di Petrarca, e, quindi, di necessità, studioso anche dei trovatori, con i quali a suo tempo tutto era cominciato. Scrive a ragione Aurelio Roncaglia che gli studi provenzali, che sono anche il campo in cui il Bertoni forse eccelse, non rappresentano un fatto di mera tecnica filologica: «La lirica dei trovatori costituisce un passaggio obbligato e privilegiato a prender coscienza delle radici da cui è nata tutta la poesia occidentale moderna, delle matrici che hanno stampato un’impronta indelebile sui modi in cui l’uomo europeo ha atteggiato la propria vita sentimentale». Secondo la tradizione orale della Biblioteca Estense di Modena, raccolta per l’occasione da Guido Stendardo che ne fu per qualche tempo il direttore, il Bertoni, ancora adolescente e del tutto ignaro di provenzale, chiese di consultare il famoso codice che ora viene riprodotto in suo onore, per il desiderio e la curiosità di leggere nel testo originale le poesie che aveva lette nella traduzione di un erudito modenese degli inizi dell’Ottocento. In seguito, avrebbe dedicato a quel manoscritto ben quindici interventi critici. (È un aneddoto sul quale richiamiamo l’attenzione di quanti si illudono di propagandare la tutela dei beni culturali con esposizioni dispendiose e consimili manifestazioni turisticoculturali di massa). Filologo di stretta osservanza, il Bertoni sentì il fascino come tantissimi altri della sua generazione, del magistero di Croce. Nella sua distinzione, maturata in margine a tale esperienza, fra la «lingua» intesa come espressione di un popolo, e quindi materia di storia, e il «linguaggio», come espressione individuale di un sentimento poetico, che sfugge alla presa dello storico ed è qualcosa di inafferrabile, Luigi Heilmann, che di queste cose se ne intende, sente «echeggiare un’aria stranamente attuale».


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Il Giornale, 25 agosto 1982 Un lontano incontro fra Croce e Montale Lady Chatterley e il senatore Verso la fine di un articolo scritto per il «Corriere della Sera» (19 nov. 1972) in occasione del ventesimo anniversario della morte di Croce, Montale accenna a quelli che erano stati i suoi rapporti con lui: «Personalmente ho conosciuto poco e male il Croce. Poco, perché posso ricordare tre o quattro casuali nostri incontri. Male, perché il Maestro era sempre accompagnato da una piccola turba di crociani che rendevano il dialogo impossibile». A uno di questi incontri, avvenuto il 20 aprile 1950, ho assistito di persona. Parte anch’io, almeno in quell’occasione, che fu presumibilmente l’ultima, della «piccola turba di crociani», che – secondo Montale – «rendevano il dialogo impossibile», serbo dell’incontro un ricordo preciso e penoso. Nel clima del dopoguerra napoletano era stata costituita al Vomero un’associazione culturale: «Cultura nuova». La avevano creata gli studenti del liceo «Sannazzaro», ma aveva presto assunto rilievo cittadino. Era, naturalmente, un’associazione unitaria, il che voleva dire fino da allora dominata dai comunisti, che a Napoli, e in particolare al Vomero, erano amendoliani. La leggenda dello storicismo di Giorgio Amendola come terreno d’incontro fra comunisti e liberaldemocratici ancora ci affligge a livello nazionale. Fu, all’origine, una leggenda vomerese. Dopo il successo iniziale, «Cultura nuova» presto decadde. Risorse qualche anno dopo, quando i liceali che l’avevano fondata erano all’Università. Questa volta in clima di guerra fredda e con un’etichetta di parte più accentuata. Anche nella nuova versione l’associazione ebbe una certa presa. Era stagione dei primi cineclub. Sfidando le ire dei questori, servi sciocchi del nuovo potere clericale, i liceali e gli universitari napole-


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tani accorrevano a frotte per vedere finalmente le sequenze del caminetto nel «Diable au corps» di Autant-Lara. Dal Vomero «Cultura nuova» dilagò verso via dei Mille destando qualche allarme nei miei amici del «Mattino d’Italia», il giornale fondato da Ugo Amedeo Angiolillo, che era diventato la tribuna cittadina dei collaboratori napoletani del «Mondo» di Mario Pannunzio: Renato Giordano, Francesco Compagna, Guido Macera, i cosiddetti «radicali del Mezzogiorno». Di comune accordo, decidemmo di mettere fine all’equivoco di «Cultura nuova». Niente più convivenza con i comunisti: o fuori loro, o fuori noi. Adesso il problema era di organizzare al più presto qualche manifestazione pubblica che attirasse l’attenzione su di noi. Soprattutto l’attenzione dei più giovani, ancora egemonizzati da «Cultura nuova». Cominciammo con una conferenza di Bacchelli. Ma l’autore del «Mulino del Po», un libro che Federico Chabod ci aveva insegnato ad amare, attrasse pochi spettatori nella sala dell’Unione industriali. Solo i collegiali del «Bianchi», precettati all’ultimo momento da Vincenzo Cilento, il barnabita traduttore di Plotino e amico di Croce, consentirono di colmare i vuoti troppo evidenti. Ho ancora nelle orecchie lo scalpiccio delle loro scarpe pesanti, mente entravano nella sala, a conferenza incominciata. Per rifarci, decidemmo di giocare una carta sicuramente vincente: Montale, che sapevamo però alieno dalle conferenze. L’invito gli fu rivolto da Lidia Croce. Montale accettò, ma chiese di potersi incontrare, venendo a Napoli, con Croce padre. Era quasi una condizione ch’egli poneva e, almeno, la sua richiesta fu allora giudicata da noi come tale. Avvertito il padre e ottenutone il consenso, Lidia gli rispose che venisse pure. Il 19 aprile, un sabato, la conferenza di Montale, dal titolo «Poeta suo malgrado», fu un vero successo. «Città libera», con il suo manifesto un po’ troppo pretenzioso e altisonante, non sarebbe stata più l’oggetto di facili ironie.


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L’incontro a palazzo Filomarino era previsto per l’indomani mattina. Lidia, che l’aveva organizzato, fece sapere che sarebbe stata opportuna la presenza di qualche estraneo: era già, a saperlo interpretare, un brutto segnale. Nel mio ricordo c’è un vuoto: non saprei dire chi fossero i presenti, oltre a Montale e sua moglie, Alda e Lidia Croce, Vittorio de Caprariis e il sottoscritto. Non riesco soprattutto a ricordare se Chabod, che dirigeva l’Istituto italiano per gli studi storici e abitava in un’altra ala dello stesso edificio, fosse uscito dal suo studio per venirci a dare una mano. L’esordio di Montale, predisposto con cura, fu una tipica partenza sul piede sbagliato. «Senatore, il Direttore Le manda a dire che ambirebbe avere qualcosa di Suo per il Corriere». «Dica a Emanuel [1879-1965] che mi ha reso un bel servizio tirando fuori dal cassetto, e pubblicando, un mio vecchio articolo su Lady Chatterly. Tutti crederanno che alla mia età mi diletto con simili letture». A rompere il gelo ch’egli stesso aveva prodotto, provvide signorilmente il padrone di casa. Aveva appena ricevuto un libro raro della sua biblioteca, rilegato con cura speciale da un artigiano di fiducia. Croce sottolineò i pregi della rilegatura; poi passò il libro di mano in mano fra i presenti, che si associarono variamente all’elogio. Quindi la conversazione riprese, ma in modo di lasciare a Croce la possibilità di astrarsi. Il tema doveva essere – lo arguisco da ciò che seguì – la dimora in cui ci trovavamo. Perché Croce, rivolgendosi d’un tratto a me, mentre gli altri continuavano a conversare fra loro, mi chiese se avessi mai visto il soffitto di una sala attigua, su cui, quando era venuto ad abitare in quella casa, aveva fatto dipingere un famoso motto del Vico. Non mi diede tempo di rispondere (ammetto che in sua presenza, data la scarsissima consuetudine che avevo con lui, entravo in uno stato quasi confusionale); si alzò dalla sua poltrona e, facendomi strada, mi condusse nella sala in questione. Sempre stordito, fui così sbadato da non guardare subito verso il soffitto. Allora il gesto


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di guardare in alto lo accennò lui e, nel farlo, barcollò lievemente all’indietro, tanto che mi affrettai a sostenerlo. Quando rientrammo nello studio, è probabile che la conversazione, che intanto gli altri non avevano interrotto, tornasse a includere anche Croce, non saprei dire per quanti minuti. Non ricordo assolutamente di che cosa si sia parlato. Forse non di futilità. Ma tutto quello che veniva detto era così lontano dall’idea che mi ero fatto in anticipo di un possibile incontro fra Croce e Montale, da lasciarmi il ricordo che non si sia parlato di niente. Ci ritrovammo affranti sulle scale. A de Caprariis e a me sembrava impossibile che chi aveva saputo trarre fuori pagliuzze d’oro dalla montagna di carta degli «scrittori della nuova Italia» non avesse saputo trovare per il poeta degli Ossi di seppia la parola che questo certamente attendeva da lui. Con lo slancio e la generosità che gli erano propri, de Caprariis, che sapeva a memoria molti versi di Montale, cominciò a recitarli per la via, camminandogli a fianco. Anche la colazione alla trattoria dei «Due leoni», che ora credo non esista più, si svolse nell’imbarazzo generale. Il Giornale, 4 agosto 1983 Il saggio sul sionismo di Rosellina Balbi La strada della speranza Data di nascita: 1944. Data di aliyah: 1976. Aliyah, in ebraico «salita», è il termine con cui viene comunemente indicata l’immigrazione degli ebrei in Palestina dai fautori e dai protagonisti dell’impresa. Nel curriculum di uno storico israeliano, che ho per caso sul tavolo, la sua «data di rinascita» – perché è di questo, in realtà, che si tratta – appare come la presa d’atto burocratica, in riferimento al destino di un singolo, dell’avverarsi della speranza collettiva del


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popolo ebraico, così come è sintetizzata nell’augurio che gli ebrei si scambiano durante la cena pasquale, quando commemorano la fine della cattività babilonese: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Da questa «speranza», Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa, si intitola il libro (Bari, Laterza, 1983, pp. 159), in cui Rosellina Balbi ha opportunamente ristampato e rielaborato alcuni suoi pacati e documentati articoli, apparsi su «la Repubblica» nell’autunno scorso, quando, in seguito agli avvenimenti del Libano, sembrava che l’opinione, specialmente di sinistra, del nostro paese avesse trovato nel sionismo il nuovo «nemico oggettivo» da sostituire al fascismo ormai in gran parte esorcizzato. La Balbi giunge con il suo racconto fino al 14 maggio 1948, giorno della proclamazione del nuovo Stato d’Israele, non perché ritenga che quel giorno la «speranza» si sia realizzata, ma perché da quel giorno ha avuto inizio un nuovo ciclo storico, che è ancora in pieno svolgimento. Ma il problema del rapporto fra il prima e il poi, fra il tempo della speranza e il tempo del suo, diciamo così, compimento, non poteva essere eluso, e difatti non c’è pagina di questo libro, nella quale, pur facendosi riferimento a fatti accaduti anche molti decenni fa, il lettore non trovi motivo per riflettere utilmente sull’immediato passato o sul presente. Dal punto di vista della storia diplomatica, l’intera vicenda del ritorno degli ebrei nella Terra Promessa si è svolta all’insegna dell’ambiguità. Nel 1917, il punto chiave della Dichiarazione Belfour è passato da una prima stesura, secondo cui il governo di Sua Maestà britannica affermava di vedere con favore l’istituzione in Palestina della «national home» per gli ebrei. Ma, contrariamente a ciò che uno potrebbe immaginare, il ridimensionamento del progetto, insito in quel passaggio dell’articolo determinato all’articolo indeterminato, non fu dovuto al fatto che ci si ponesse il problema dei rapporti fra i nuovi venuti e gli arabi che dal


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settimo secolo vivevano in Palestina, bensì solo alla preoccupazione di non fare nascere sospetti sulla fedeltà degli ebrei non sionisti nei confronti dei paesi in cui vivevano e che non si proponevano di abbandonare. Solo in seguito la prudenza così mostrata, per tutt’altre ragioni, all’inizio ispirerà la politica dei contingenti, con cui gli inglesi cercheranno invano di regolamentare il flusso migratorio. La Balbi dedica molta attenzione anche al momento delle origini del sionismo, che non ha un solo padre, Theodor Herzl, come si ritiene di solito, ma più padri, uno dei quali, Moses Hess, ammiratore non corrisposto di Carlo Marx, pubblicò già nel 1862 un libro dal titolo «Roma e Gerusalemme», nel quale sosteneva che il problema ebraico avrebbe trovato soluzione solo col reinserimento degli ebrei in Palestina, dove essi sarebbero vissuti «in conformità di principi mosaici, cioè socialisti». Per Herzl invece, un ebreo ungro-austriaco laicizzato che, nella Francia dell’«affare Dreyfus», aveva maturato la convinzione secondo cui neanche l’avvento della democrazia nell’Europa occidentale aveva mutato la condizione di insicurezza radicale degli ebrei la scelta della «terra senza popolo», che avrebbe dovuto accogliere il «popolo senza terra», era un punto secondario e negoziabile. Tanto è vero che, in un primo momento, egli prese in considerazione soluzioni alternative alla Palestina, come il sud dell’Argentina e l’Uganda, meglio rispondenti alla condizione, richiesta dal suo assunto, di essere «terre senza popolo». La storia del sionismo e della fondazione dello Stato di Israele, così come appare tratteggiata in questo libro, è affascinante soprattutto perché sembra svolgersi tutta all’insegna dell’eterogenesi dei fini. Se si pensa ai quattordici gerarchi nazisti che, riuniti a Berlino il 20 gennaio 1942, decisero freddamente di imboccare la strada della «soluzione finale», e si guardi, da un lato alla Germania divisa di oggi e, dall’altro, allo Stato d’Israele, quarta potenza militare del mondo


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ed elemento essenziale dell’equilibrio strategico mondiale in uno dei settori più caldi del globo, si ha veramente l’impressione di trovarsi di fronte a un esempio straordinario di nemesi storica, tale da non sfigurare nella Bibbia. Ma se si vada al di là delle apparenze e si misurino le distanze che corrono fra gli ideali dei padri fondatori e la realtà israeliana di oggi, il quadro cambia completamente. È normale, sarebbe un’eccezione l’incontrario, che gli ideali, nel realizzarsi, perdano la loro assolutezza originaria. Ma, nel caso di Israele, è proprio la vistosità del successo conseguito su un altro piano che dà risalto a ciò che è andato perduto per strada. Anche la Balbi è convinta che, senza l’olocausto, l’esperienza sionista si sarebbe presto risolta in un fallimento. «Il genocidio hitleriano – scrive François Furet in un suo saggio recente – è alle origini della società israeliana per delle ragioni di fatto, perché molti israeliani sono dei sopravvissuti rispetto ad esso». Ma lo è anche nel senso che «il genocidio è diventato la verità della Diaspora. E lo Stato d’Israele, la legge del ritorno, le sole garanzie contro la sua ripetizione». Alla difficoltà, cui si accenna ogni giorno sui nostri giornali, di fare convivere pacificamente in Palestina arabi ed ebrei, se ne aggiunge un’altra, più sottile, relativa ai rapporti sempre più difficili fra gli ebrei che sono approdati a quelle sponde e quelli che sono rimasti e che intendono rimanere dov’erano. Anche se le statistiche sono di necessità imprecise per l’impossibilità di distinguere con sicurezza fra le partenze provvisorie e quelle definitive, ormai il numero degli ebrei che lasciano ogni anno Israele è più alto di quello degli ebrei, per lo più russi, che vengono a stabilirvisi. Si dirà che questi sono affari loro, mentre a noi importa solo che la pace non sia minacciata a ripetizione nel Medio Oriente. Ma la Balbi osserva acutamente che i due problemi ne fanno in realtà uno solo: proprio perché la


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maggior parte della popolazione di Israele è costituita ormai da cittadini originari da paesi asiatici o africani, ai quali nulla dicono gli ideali comunitari e socialisti, in una parola «ottocenteschi», che sono alle radici del sionismo, in quel paese tende sempre più a prevalere «la concezione della politica come dimostrazione di forza». Data la complessità della situazione, l’appello della Ragione, che conclude il libro, ci trova consenzienti, ma ci lascia perplessi e insoddisfatti. Come scrive ancora Furet, «i due grandi ancoraggi della pedagogia e del consenso nazionale sono i due punti estremi della storia ebraica, il più antico e il più recente, la Bibbia e il sionismo. Ciò che sta in mezzo, in altre parole quasi tutto il passato ebraico, è l’oggetto di una semicensura collettiva, iscritta nella natura stessa del sentimento nazionale». Se si pensa all’ingente sforzo organizzativo che stanno compiendo gli israeliani per diventare una potenza storiografica, raccogliendo negli archivi nazionali, sotto forma di microfilm, le reliquie disperse del loro grande passato, viene fatto di dare torto a Furet. Ma è evidente che egli ha in mente qualcosa d’altro, che non ha nulla a che vedere con i progressi della ricerca storica. E allora, utopia per utopia, sarei portato a fare appello alla Storia piuttosto che alla Ragione. Rimuovendo la «semicensura collettiva», di cui parla lo storico francese, gli israeliani oltretutto incontrerebbero sulla loro strada gli arabi, in una prospettiva meno uniformemente conflittuale di quella in cui oggi sono abituati a considerarli. In un libro, tradotto anche in italiano, ma passato quasi inosservato (Ebrei e Arabi nella storia, Roma, Jouvence, 1980), uno dei maggiori storici ebrei, Shelomo D. Goitein, ha sintetizzato efficacemente la storia di un rapporto secolare che ha conosciuto, se Dio vuole, giorni ben diversi da quelli dell’autunno scorso, nel Libano.


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Il Messaggero, 20 marzo 1989 Idee/Gianfranco Contini interpreta Benedetto Croce Un’avventura personale Ai grandi che abbiano avuto in sorte di essere longevi capita che la celebrazione del centenario della nascita venga a cadere troppo a ridosso della morte per consentire una riaccensione d’interesse temperata da quell’opportuna stagionatura che sola consentirebbe un primo assestamento del giudizio critico. Mentre, poi, devono attendere poco meno di un secolo per vedersi celebrati di nuovo, col rischio che nel frattempo si determini un calo d’interesse che potrebbe riuscire loro anche gravemente pregiudizievole. È, questo, fra i tanti altri di natura non più cronologica bensì politica, uno degli inconvenienti in cui è andato incontro «quel sommo atleta della cultura» che fu Benedetto Croce. La definizione è tratta da un libretto, in sedicesimo, di cinquantasette pagine di testo, più undici di premessa, apparso nei «Saggi brevi» di Einaudi, che sembra fatto apposta per smentire il detto attribuito, credo abusivamente, alla summa crociana, secondo cui, dopo avere letto, senza capire, una prima e una seconda volta uno scritto qualsiasi, non vale più la pena d’insistere, perché evidentemente il vizio è nell’autore, non nell’inadeguatezza. Per ciò che mi concerne, non ho difficoltà ad ammettere di aver percorso più di due volte da cima a fondo La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana di Gianfranco Contini, con la sicurezza di non avere perso il mio tempo. Anzi, non è detto che, dopo averne dato conto oggi, non mi risolva a riprendere ancora in mano questo libretto, per imparare qualcos’altro, e forse anche un po’ per consolarmi. Con uno scrupolo esemplare che in qualche altro caso l’editore ha mostrato di avere, Contini stesso ci informa che questo suo scritto è tutt’altro che inedito: redatto nel 1951 anco-


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ra vivo Croce (che sarebbe morto l’anno dopo) e rimasto in un cassetto; stampato in due sedi diverse fra 1966 e 1967, in occasione del centenario della nascita; incluso nella silloge einaudiana di saggi letterari di Contini, che si intitola Altri esercizi; riproposto in questo volumetto a sé stante, oggi che «mi sussurrano che stanno per aumentare i lettori del Croce». L’allusione finale è alla ristampa attualmente in corso di quindici titoli crociani presso l’editore Adelphi, che, soprattutto per via dei pettegolezzi fioriti in margine all’inopinata translatio editoriale dalla città di san Nicola a quella di sant’Ambrogio, ha rotto la cortina di silenzio che era calata su Croce e la sua opera dopo i fuochi fatui del 1966, dando la stura a una miriade di interventi giornalistici, nei quali, in attesa delle reazioni ancora di là da venire dei lettori finalmente «posteri» auspicati da Contini nella chiusa della premessa, lettori immemori e disincantati si sono limitati, con qualche rara eccezione, a rifriggere vecchi pregiudizi. La cosa davvero straordinaria è che Contini, molto più di altri truci censori della famosa riduzione della scienza a «pseudoconcetto», aveva con Croce conti personali aperti di entità non trascurabile. Basti dire che il filosofo napoletano, oltre che professarsi spregiatore della grammatica e della retorica, aveva impietosamente bollato come «critica degli scartafacci» quella «critica delle varianti», che, come si sa, è una delle arti in cui il nostro filologo maggiormente eccelle. Un singolare caso di masochismo, questo di Contini? Certamente no, perché altrimenti non gli dedicheremmo tanta attenzione. E nemmeno una manifestazione tardiva di quel «crocianesimo corrente» (sono parole sue) al cui attivo va purtuttavia ascritto il merito di avere felicemente divulgato l’«abito del distinguere e della riduzione all’unità», che ha contrassegnato una generazione oggi pressoché estinta. Benché intrapreso nel segno di un equivoco iniziale, denunciato per tempo da Gennaro Sasso, il maggiore interprete vivente di Croce, in una recensione per altro


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molto simpatetica apparsa su «La cultura» del 1967, il percorso di Contini entro l’«enciclopedia» crociana è tutto interno e pertinentissimo. Descrive, e valuta; assumendo come criterio di valutazione la riduzione, che è tipicamente crociana, della filosofia a metodologia (ma per Croce, ricorda appunto Sasso, la metodologia è «trascendente», non «funzionale», come per Contini), di modo che «la sua analisi non si svolge in forma di critica filosofica diretta, bensì piuttosto in forma di analisi storica di risultati raggiunti», privilegiando – com’era da attendersi – il campo che gli è più congeniale della storiografia letteraria, ma senza trascurare nulla di tutto il resto. Occasione dichiarata di questo breve percorso, così irto di ostacoli, non fu una circostanza di carattere biografico (la scomparsa di Croce o, quattordici anni dopo, il centenario della nascita), ma quel singolare evento di carattere letterario-editoriale che era stato l’apparizione, nel 1951, come numero uno della collana ricciardiana «La letteratura italiana. Storia e testi», di un’antologia di scritti di Croce, curata con preveggenza dall’autore in persona. «L’ausilio che così egli dava al suo storico», chiosa Contini con ricercato understatement, «era di avanzare nella base con procedure da recensente»; tanto più che Croce, mai come in quell’occasione, aveva dato prova di saper «maneggiare la cosa letteraria», adottando «la tecnica pubblicistica dei letterati». Si legga a riprova, quello «specimine perfetto di prosa crociana» che è, nello stesso volume, la chiusa dell’Introduzione all’Appendice – una sorta di quarta di copertina che comincia con le parole: «Nella moderna letteratura non v’ha niente di simile a questo complesso ordinato di lavori che ora l’Italia possiede…» Ora che l’Italia sta per rientrarne in possesso sotto forma dei quindici volumi annunciati da Adelphi, ci auguriamo che più d’uno, pur senza avere necessariamente l’ingegno di Gianfranco Contini, si apra, seguendo il suo esem-


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pio, un proprio personale itinerario attraverso quel «complesso ordinato di lavori», per ritrovare il gusto, che libero ma tutt’altro che frivolo trascorre dall’estetica alla politica, dall’etica alla storia, che costituisce l’acquisto per sempre della lezione crociana e, insieme, l’antidoto virile contro le angosce del tempo che è stato di Croce, e del nostro. Il Messaggero/Cultura, 17 luglio 1989 Inediti/I taccuini di Croce in un saggio di Gennaro Sasso. Una miniera di riflessioni e notizie storiche, private, politiche. Ma anche una barriera quotidiana contro l’angoscia per il filosofo La fortezza di carta In una lettera del 24 marzo 1948, Benedetto Croce esortava la figlia Alda a serbare «gelosamente come documento di una vita laboriosa» i suoi Taccuini di lavoro, dandone visione, «in casi speciali, e in tempi propizii, cioè tranquilli», a «uomini d’ingegno serii, che potranno trarre qualche parte per pubblicazione testuale o per informazione». A quarant’anni di distanza, queste disposizioni di Croce appaiono pienamente rispettate almeno per ciò che concerne il punto principale: quanto a serietà «di animo e d’ingegno», Gennaro Sasso, che per i tipi del Mulino viene di pubblicare un libro dal titolo Per invigilare me stesso. I Taccuini del lavoro di Benedetto Croce (Bologna, 1989, 308 pagine, 30 mila lire), non è secondo a nessuno. Ma si dà il caso che, avuti nelle mani i Taccuini per trarne «informazioni» circa la genesi della Storia dell’Europa nel secolo decimonono, Sasso, che è un lettore insaziabile, li abbia percorsi da cima a fondo, se ne sia fatto l’idea come di un’opera in sé compiuta, e non come di un semplice serbatoio di notizie variamente utili, e abbia finito per scrivere un libro, in cui la genesi e gli imprevedibili sviluppi di quest’opera tutt’ora inedita, che d’ora in avanti va mentalmente allineata accanto


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alle moltissime altre di Croce, sono sviscerati a fondo. Il che, si converrà, esula largamente dall’arco delle possibilità di utilizzo previste dall’autore per il suo diario. Ma credo anche che si possa onestamente dire che è stato un bene che sia andata così. Storico della filosofia abituato a tenere fermi i concetti, Sasso possiede altresì l’attenzione e la manicatura del filologo. Ad apertura di libro, queste due ottiche convergenti vengono impiegate per spiegare, da un lato, perché Croce, a un dato punto della sua vita (precisamente nel 1906) si sia risolto a tenere un diario, che lo avrebbe poi accompagnato per un lunghissimo tratto di essa (fino al 1950), e, dall’altro, per mettere a fuoco i problemi non piccoli che, decifrabilità della scrittura a parte, dovrà affrontare chi, un giorno o l’altro, si risolverà a curarne l’edizione. Per ciò che concerne il primo punto, Sasso, riprospettando uno dei motivi centrali della sua pluridecennale riflessione su Croce, insiste sul fatto che il suo autore era, sì, giunto per tempo alla persuasione che «il mondo è positività, ma alla condizione segreta, estranea alla filosofia e da questa non sul serio attingibile, che il ritmo del lavoro non ci si spezzi fra le mani e il nembo avverso del negativo, che soffia quando vuole e come suole, non sradichi dal nostro civile e ordinato giardino il fragile fiore della positività e del valore». Data questa premessa, la stesura del diario acquista per Croce il significato di una verifica quotidiana della ininterrotta continuità del ritmo del suo lavoro, la sede naturale, nella quale, «giorno dopo giorno, implacabilmente, il diventare opera dell’individuo potesse essere controllato, e “investigato”». Un diario, dunque, concepito non come un rimedio virile contro il male del secolo: l’angoscia, che nemmeno una filosofia ancora per certi versi ottocentesca come la sua, bastava evidentemente a esorcizzare. Nel 1926, Croce cominciò a ricopiare in grandi volumi in carta a mano, di eguale formato, i libricini di vario formato che aveva utilizzato per il suo diario a partire dal 1906,


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continuando però anche dopo di allora a procedere lungo il doppio binario della brutta e bella copia e utilizzando spesso il momento della ricopiatura per emendare il testo originario, che veniva così, a seconda dei casi, abbellito, integrato, talvolta anche censurato. Degli interi Taccuini abbiamo così due distinti esemplari, entrambi autografi, con la complicazione in più che la sezione relativa al periodo luglio 1943 – giugno 1944 fu data alle stampe da Croce stesso nel 1948, sotto il titolo Quando l’Italia era tagliata in due che più eloquente di così non potrebbe essere, in una redazione che in qualche punto si distacca a sua volta, da entrambe le redazioni manoscritte. Non è il caso di soffermarci sui dettagli della sensata proposta editoriale di Sasso. Basti sapere che, a riprova dell’interesse che questa molteplicità di stesure assume talvolta in concreto, egli ha scelto, non proprio a caso, la triplice stesura della pagina del diario del 17 aprile 1944, che è il giorno in cui pervenne a Croce la notizia dell’assassinio del suo ex amico e compagno di studi, poi acerrimo avversario sia in filosofia che, soprattutto, in politica, Giovanni Gentile. In coincidenza, o giù di lì, con la decisione presa da Croce di farsi amanuense di se stesso, sottoponendosi alla fatica non indifferente di ricopiare i suoi Taccuini, questi subirono anche una rilevante trasformazione strutturale. Infatti, a partire dal 1925-26, abbandonato il costume di «autentico pudore dell’attualità» (l’espressione è di Sasso), cui si era attenuto anche negli anni del primo conflitto mondiale e dell’avvento del fascismo, Croce, senza per questo alterare il carattere «documentario», nel senso forte che abbiamo sottolineato più su, che aveva inteso conferire al suo diario, si lasciò andare a registrare in essi anche riflessioni che non concernevano direttamente il lavoro quotidiano. Come se il crescente isolamento in cui stava riducendolo la sua posizione di oppositore intellettuale numero uno al fascismo, lo avesse indotto, se non a rendere ancora


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più fitto il dialogo che intratteneva da sempre con se stesso, a consegnare alle pagine dei suoi libricini alcuni frammenti di esso, concernenti anche l’attualità, soprattutto nei casi in cui questa batteva con tanta insistenza alle porte del suo studio da spingerlo a rimettere drammaticamente in discussione punti nodali non solo di etica e di politica, ma anche di estetica e di logica, così come li aveva definiti negli anni ormai lontani in cui aveva posto i fondamenti della sua «filosofia dello spirito». Ed è, appunto, sull’arco di tempo che va dal 1926, quando i Taccuini cominciano a fare più posto all’attualità, al 1943, quando, dopo la liberazione di Napoli, la politica diventa per Croce predominante, che Sasso concentra la sua attenzione, ma senza trascurare del tutto né il prima, né il dopo. Se proprio all’inizio del suo libro, ci imbattiamo, come si diceva, nel dramma dei rapporti fra Croce e Gentile, ripercorso a ritroso a partire dal suo tragico epilogo, praticamente alla fine – prima del breve epilogo sugli «ultimi anni» –, Sasso si sofferma sul duro contrasto fra Croce e Adolfo Omodeo, che in qualche modo aveva preso il posto di Gentile negli affetti del filosofo napoletano, un contrasto, questo secondo, di natura né filosofica, né morale, ma prettamente politica, che appare come una specie di prologo in cielo delle difficoltà che, nei decenni a venire, e ancora oggi, si sarebbero sempre frapposte alla pur ragionevole prospettiva del «polo laico». Gli anni 1926-1943 sono, dunque, al centro dell’interesse di Sasso; anni, per Croce, travagliatissimi, ma che, in particolare nell’ultimo segmento di essi (i primi anni Quaranta), sembrano rinnovare il successo straordinario che la sua opera aveva incontrato nel primo decennio del secolo. Mentre l’Europa, ch’era stata la sua, stava andando in pezzi, i lettori dei suoi libri, con sua sorpresa e, addirittura, con un certo suo disappunto, si facevano sempre più numerosi.


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In una pagina della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, apparsa nel 1928, Croce aveva deplorato che la sua Estetica, concepita «per ispiegare la grande poesia di Dante e dello Shakespeare, la pittura di Raffaello e del Rembrandt», nelle mani di lettori non attenti alle connessioni, fosse diventata lo strumento con cui si giustificava «il più scompigliato e decadente romanticismo o “futurismo”», cioè a dire, chiosa Sasso, «quel che più il suo autore detestava e aborriva». Orbene, del tema della distorta fortuna di Croce, delle «sconnessioni» che l’hanno sempre caratterizzata, Sasso ha finito, da parte sua, col fare una sorta di nobile e comprensibile fissazione, che sottintende un giudizio molto severo sullo stato attuale degli studi storici, letterari e, soprattutto, filosofici nel nostro paese. Ecco la vera chiave con cui si deve affrontare la lettura di questo suo ultimo libro. Pienamente partecipe – ma occorre davvero dirlo? – delle alte motivazioni ideali dell’antifascismo crociano e convinto, anche, della sua rilevante importanza storicopolitica Sasso è tuttavia impietoso nel registrare i passi dei Taccuini da cui risulta che Croce stesso, pur così pronto a rimettere sempre tutto in discussione, qualche volta si è lasciato andare, senza accorgersene, a giudizi che lo mettevano in serio contrasto con se stesso. Come il 10 aprile del 1929, quando, a un giovane che, «con gran dispendio di sottigliezze filosofico-storiche», cercava di giustificare ai suoi occhi la propria adesione al fascismo, aveva detto fuori dai denti: «Voi vedete in lotta dei deboli e dei forti. Dalla parte di chi siete tratto a mettervi? E il giovane, esplosivamente: da quella dei forti! Ebbene, se sentite così, siate fascista con chiara coscienza: con la stessa coscienza con la quale io sono avversario, perché io e coloro presso cui mi sono educato e formato abbiamo avuto e abbiamo per massima, che bisogna porsi sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi». «Era, questa, un’idea – commenta Sasso – che gli avrebbe procurato qualche disagio, e anzi non piccole diffi-


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coltà, se avesse dovuto difenderla, non già sul piano dei sentimenti, ma, come si richiede in filosofia, svolgendone fin alle conseguenze estreme la logica intrinseca». Che è poi quanto egli, Sasso, si è sempre sentito di dover fare, senza attendere che scoccasse l’ora del ritorno a Croce, di cui si parla a vanvera da qualche tempo in qua. Il Messaggero, 5 novembre 1989 Discussioni/Le cronache familiari: romanzo o ricostruzione storica? Sapore d’Ottocento in casa Citati In un recente articolo di giornale, Giovanni Spadolini ha avuto occasione di ritornare sulla vicenda del suo predecessore Ruggero Settimo, uno dei protagonisti della rivolta costituzionale siciliana del 1812, che, riparato a Malta dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 in Sicilia, rifiutò di abbandonare l’isola anche dopo che, nel febbraio ’61, era stato scelto come primo presidente del Senato del Regno d’Italia, a Torino. Si erano voluti così riconoscere in modo solenne i suoi indiscutibili meriti di patriota e, al tempo stesso, attenuare il carattere sfacciatamente nordico del regno unitario che aveva appena visto la luce. Ma «Settimo non si sentì di lasciare Malta. Fu l’unico presidente di assemblea che per oltre due anni non si recò neanche a una seduta». Morì nel maggio 1863. Ho ripensato alla singolare vicenda di Ruggiero Settimo, leggendo il racconto di quella di Gaetano Citati, ricostruita o reinventata (non importa) dal suo bisnipote Pietro nella Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, appena pubblicata da Rizzoli, di cui Giampaolo Rugarli ha già detto autorevolmente il bene necessario su queste stesse colonne. Pure Gaetano Citati aveva da vantare benemerenze patriottiche, acquisite nel 1820 (quando il suo nome era stato «magico nella gioventù») e rinnovate parzialmente nel ’48, sempre in Sicilia, ch’era,


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anche, la sua patria, dopo un intervallo in Grecia combattendo contro i Turchi e un lungo soggiorno in Algeria, per affari. Al ritorno dei Borboni, avrebbe voluto risalire verso il Nord, «ma nessuno aveva più posti o incarichi o uffici, per Gaetano Citati. Ormai era un vecchio… Rimase a Palermo, senza servire i Borboni». Finché, nel 1854, lasciò per sempre la sua Palermo, per approdare a Genova, una delle mete – accanto a Torino, Firenze, Marsiglia, Parigi, Londra, appunto Malta – dalla folta emigrazione siciliana postquarantottesca. A differenza di Ruggiero Settimo, non avrebbe fatto in tempo a vedere l’Italia unita e i suoi meriti, chissà, riconosciuti. Ad Alessandria d’Egitto, dove si era recato con alcune commendatizie per Ferdinand de Lesseps (il diplomatico francese che stava preparando il taglio dell’istmo di Suez), il 9 agosto 1857 fu freddato da un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo, probabilmente da un siciliano, che si vendicava così dell’arresto di due connazionali che Citati aveva fatto eseguire nella sua qualità di segretario generale del Consolato del Regno delle Due Sicilie, il posto che si era risolto ad accettare una volta tramontata la speranza di vendere al Lesseps uno dei suoi mirabolanti progetti. Storia o romanzo, questa Storia di Pietro Citati junior, fondata a suo dire sull’archivietto famigliare messo insieme dal nonno Pietro senior, figlio del succitato Gaetano? Mi meraviglio che nessuno abbia cercato di tagliar corto il dibattito imbastito sulle terze pagine dei quotidiani intorno a questo dilemma, chiedendo il permesso a Citati di dare una sbirciatina a quelle vecchie carte ingiallite. In altri tempi, in tempi – intendo dire – di «scuola storica» imperante negli studi letterari o, in genere, di positivismo erudito, è probabile che qualcuno si sarebbe fatto già avanti con questa non impertinente richiesta, tanto più che l’autore ha provveduto, da parte sua, a rendere il giochino più avvincente informandoci che, prima di arrivare sul suo scrittorio, le carte raccolte dal nonno, «sovente in cattivo


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stato di conservazione o in pessima calligrafia», sono state ricopiate, per facilitargliene l’utilizzo, dalla mano premurosa di un amanuense (sua moglie). Ma anche dal particolare punto di vista di chi scrive professionalmente di storia, una verifica come quella accennata risulterebbe priva di senso. Chiunque si sia trovato a raccontare un fatto storico, sia esso la congiure di Catilina, l’incoronazione di Carlomagno, o la battaglia di Waterloo, sa benissimo che, se non ci si limita a un’esegesi delle fonti coeve e si pretende di «narrare» il fatto medesimo, l’intervento della fantasia creativa è indispensabile. Il guaio è che appunto gli storici positivisti non arrivavano a rendersene bene conto e avevano la pretesa di produrre narrazioni basate ferreamente sulle fonti, solo perché infittivano le note a piè di pagina. A proposito di questo libro (sempre nello sforzo di uscire dal dilemma fra storia e romanzo) si è parlato anche di «microstoria», a mio avviso impropriamente, perché la caratteristica di questo nuovissimo genere storiografico consiste nel cercare di isolare polemicamente le storie «piccole» da quella «grande», mentre invece – storia o romanzo che sia – nelle pagine di Citati si assiste a un continuo, anche se sommesso e discreto, rilancio delle vicende private dei due protagonisti in direzione della Storia con la esse maiuscola, quella dell’età della Restaurazione, e dei sussulti rivoluzionari che la attraversano. Ma a caratterizzare storicamente la cronaca famigliare narrata da Citati è anche la dimensione spaziale. A parte Parma, dove Clementina Sanvitale, la protagonista femminile, trascorre l’infanzia e l’adolescenza, ai margini della corte ducale di Maria Luigia d’Asburgo-Lorena, ex imperatrice dei Francesi, l’Ottocento (che costituisce il fondale) è sì romantico, non però brumoso e terragno, come nella prima parte della Camera da letto di Attilio Bertolucci, ma assolato e mediterraneo: percorso non dalle diligenze o


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dalle prime locomotive, ma da piroscafi e, quando non ci sono abbastanza soldi per pagarsi il biglietto, da più economici brigantini a vela. Col mare di mezzo e la difficoltà di attraversarlo, il matrimonio celebrato a distanza fra Clementina a Genova e Gaetano ad Algeri si spiega meglio anche se – quando i due sposi per procura finalmente si conoscono di persona – l’incontro assume per necessità di cose il rilievo di una recognitio in un romanzo alessandrino (due fratelli che si ritrovano molti anni dopo essere stati separati da un naufragio). E, visto che l’aggettivo mi è uscito dalla penna, direi che di gusto alessandrino è anche il solo luogo mitico, fra i tanti reali, in cui si dipana la Storia di Citati: quella sorta di Itaca, cui, dopo avere fatto tappa a Malta, approda il brigantino la Rondine, che trasporta Gaetano verso Alessandria, e la morte. Frequentatore di piroscafi, Gaetano Citati aveva progettato anche una locomotiva, una «locomotiva senza rotaie», che è poi una specie di carro armato, concepito come ausilio e forza d’urto della fanteria, in un momento in cui ci si stava rendendo conto che la cavalleria aveva fatto il suo tempo. Citati junior non resiste alla tentazione di immaginare che il bisnonno avesse tratto l’ispirazione per la sua locomotiva dalle pagine del De rebus bellicis, un «piccolo trattato latino, quintessenza del tardo genio tecnico-militare di Roma». Ora, si dà il caso che il De rebus bellicis sia uno degli ultimi volumi usciti nella collana di scrittori latini della Fondazione Valla, che costituisce l’oggetto delle cure attente di Citati medesimo. Ma nella sua dotta prefazione Andrea Giardina spiega come il carro falcato degli antichi, da realtà dei campi di battaglia sia diventato un grande mito degli ingegneri, fino a destare l’interesse di Voltaire e degli enciclopedisti, che conoscevano il De rebus bellicis. La mia sospettosità è stata punita. Può darsi benissimo che, una o due generazioni dopo, anche Gaetano Citati lo abbia davvero avuto fra le mani.


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Il Messaggero, 2 gennaio 1991 Storia/Adolfo Omodeo e l’antifascismo liberale crociano L’importanza di stare al centro Di gran lunga il più dotato e operoso dei collaboratori stretti di Croce, dopo la drammatica rottura con Gentile, Adolfo Omodeo, se la morte non lo avesse prematuramente rapito, sarebbe dovuto essere, il primo e l’ideale direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici, che il filosofo napoletano intendeva creare a fianco della sua biblioteca, nella sua propria casa, disponendosi ad aprire l’una e l’altra ai migliori laureati sfornati dalle università dell’Italia restituita alla libertà. A prima vista, non parrebbe esserci, dunque, nulla di strano che la biografia intellettuale di Omodeo, da lungo tempo attesa, sia apparsa proprio nella collana dell’istituto napoletano, che per certi aspetti, era stato concepito anche a sua immagine e somiglianza. Eppure, a guardare bene, la cosa non è poi così ovvia, perché l’autore della biografia, Marcello Musté (Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico, Il Mulino, 1990, pagine XIII+446, 50 mila lire), appartiene a una leva abbastanza recente di allievi dell’istituto, e quindi a una generazione che, per molteplici versi, risultava essere fino a ieri, e fino a prova contraria è ancora oggi, mille miglia lontana dagli ideali filosofici, storiografici, politici nutriti dal biografo. Ciò però non ha impedito che, in questo caso, la distanza che c’era quasi sicuramente all’inizio, sia stata come annullata nell’impegno della ricerca; e anzi il lettore, che di una parte almeno di quella ormai lontana vicenda e dei suoi immediati strascichi abbia fatto in tempo ad essere diretto testimone, proverà il gusto sottile di vedersela riproporre dinanzi agli occhi depurata dagli umori polemici che la accompagnarono nel suo corso e talvolta la svisarono gravemente. La pagina di vita intellettuale italiana della prima metà del secolo che ora volge al termine, ricostruita da Musté con


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opportuno distacco generazionale, è, in chiave di biografia di uno dei suoi massimi protagonisti, né più né meno che la storia della genesi, della piena maturità e dell’annunciata sconfitta politico-culturale dell’antifascismo liberale, in un intreccio singolarissimo e, forse, addirittura irripetibile di istanze filosofiche religiose, di prospettive storiografiche e di prese di posizione politiche. Per poterlo dipanare, questo giovane studioso ha dovuto provvedere anzitutto a farsi interdisciplinare nella sua propria testa, dal momento che l’impresa cui si è accinto escludeva di per sé il ricorso, oggi di moda, a una pluralità di competenze specifiche. Ragion per cui a pagine in cui vengono analizzate le varie fasi del lento distacco di Omodeo dall’attualismo gentiliano, ne seguono altre in cui vengono ricostruite la lancinante e virilmente sofferta esperienza omodeiana della prima guerra mondiale o la parte che Omodeo ebbe nelle vicende del minuscolo, e pur fieramente diviso, partito d’Azione nella Napoli del secondo dopoguerra; e altre ancora, tecnicissime, in cui è esposta la posizione dello storico delle origini cristiane circa il rapporto che intercorre fra i sinottici e il quarto vangelo. Una vita straordinariamente intensa, ma relativamente breve, quella di Omodeo, anche se dilatata da una sorprendente precocità più sicula (in coerenza con il suo luogo natale, Palermo, e l’ascendenza materna) che lombarda (com’era il padre, ingegnere). Nato nel 1889, Omodeo è morto nel 1946, a soli cinquantasette anni. Croce, l’anno della morte dell’amico, ne aveva compiuti ottanta; gliene sarebbero rimasti da vivere altri sei. Anche se mi rendo bene conto dell’assurdità manifesta di ragionamenti del genere, credo sia lecito domandarsi cosa sarebbe stato della cultura italiana, anche della cultura politica (non della politica in senso stretto, si badi bene, che nolente Omodeo avrebbe comunque seguitato il suo corso), se Croce avesse potuto avere accanto l’amico nei sei anni seguenti, e se questo, raccolto il testimo-


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ne, avesse potuto raggiungere a sua volta l’età di Croce, vivere cioè, e pensare e lavorare fino al 1975… Sono elucubrazioni astratte, di un tipo che i due interessati avrebbero certo deprecato per serissime ragioni di principio, che anch’io condivido. Ma, a suggerirmele, è l’evidenza stessa di una vita spezzata, nel momento in cui, reagendo virilmente alle cocenti delusioni della sua breve esperienza ministeriale (era stato ministro della Pubblica istruzione nel ministero Badoglio formatosi a Salerno nell’aprile del 1944) e della militanza politica (la fatidica scissione dell’amato, e da lui tanto criticato Partito d’Azione), Omodeo si apprestava ad affrontare lo studio dell’età di Pericle, un’altra delle grandi «primavere della storia», come egli amava chiamarle, generatrici di «miti», che scandiscono il cammino dell’umanità. Le altre due «primavere» che aveva affrontato in precedenza erano state, agli inizi della sua carriera di studioso, le origini cristiane e, in tempi più recenti, l’età della Restaurazione della Francia postnapoleonica, con il suo corollario italiano dell’impresa liberatrice e unificatrice cavouriana. Per Omodeo, come osserva finemente Musté, «l’età della Restaurazione, lungi dall’essere risolubile nel concetto di “decadenza”, segna un decisivo passaggio di civiltà. Forse più rilevante, anche se più nascosto, della stessa Rivoluzione». È infatti dalla dialettica fra le nuove ideologie di dopo il 1815 e i da poco trascorsi eventi rivoluzionari che ha preso vita quel «nuovo liberalismo» incentrato sull’idea di una «libertà costruttrice» aperta alle istanze democratiche, che, così enucleato in sede storiografica, costituirà fino alla fine il fuoco centrale del pensiero politico omodeiano. Necessariamente ostile, date le premesse, ai partiti «ideologici» di stampo sia marxista che cattolico, Omodeo si dichiarò contro il modello del bipartitismo anglosassone, rivendicando contro di esso la bontà del modello cavouriano, l’esempio del «connubio»: «piuttosto che l’irrigidimento di due parti istituzionali, che dividono il consenso e s’al-


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ternano al potere, egli prefigura la continua rifusione e trasformazione delle tendenze politiche in un centro capace di arricchirsi, di modificarsi, e quindi di muoversi progressivamente nel senso della società civile». Paradossalmente, benché attraverso le note distorsioni, la linea preconizzata da Omodeo è risultata finora quella vincente. Il Messaggero/Cultura, 18 febbraio 1991 Storia/Nel 1899 un giovane studioso pubblicò un volume destinato ad esercitare una vastissima e controversa influenza. Si chiamava Gaetano Salvemini. Oggi la sua figura torna d’attualità. Perché obbliga a rivedere molti luoghi comuni Né con Croce né con Marx Fra i libri di storia di autore italiano apparsi negli ultimi cento anni probabilmente nessuno ha inciso di più nel dibattito storiografico di quanto non abbia fatto Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 di Gaetano Salvemini, che è del 1899. Si consideri che, ventisette anni dopo, quel libro è stato oggetto di un’attenta, polemicissima revisione critica da parte di Nicola Ottokar, uno storico di origine russa, emigrato dal suo paese dopo la rivoluzione d’Ottobre e successore sulla cattedra fiorentina dello stesso Salvemini, nel frattempo emigrato negli Stati Uniti perché antifascista. E negli ultimi anni Quaranta, all’Istituto italiano per gli studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce e allora diretto da Federico Chabod (ottokariano per la pelle), Il Comune di Firenze alla fine del dugento, così si intitola il libro-recensione dello storico russo, e Magnati e popolani venivano ancora discussi, come se fossero stati delle novità, da Rosario Romeo e Cinzio Violante, le due maggiori promesse, in quel momento, della storiografia italiana…


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Eppure, niente di tutto questo, ma molto altro e almeno altrettanto interessante, il lettore troverà nel libro che Enrico Artifoni dedica ora a Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento (Liguori, 266 pagine, 28 mila lire), dove di Magnati e popolani è unicamente indagata la genesi e ricostruito il dibattito intenso e vivacissimo che suscitò già al suo primo apparire, tanto da costituire un tornante decisivo nella vicenda della storiografica italiana fra i due secoli, che organizzata intorno a quel fuoco centrale sembra acquistare una coerenza e un’esemplarità finora insospettate. La vicenda narrata da Artifoni risulta così conclusa in se stessa (con Salvemini che si rende conto per primo di avere operato alcune forzature e manifesta il proposito di tornare sull’argomento per apportare le opportune rettifiche) che non si capisce bene come sia potuto accadere che il dibattito intorno a Magnati e popolani abbia potuto riaccendersi cinque lustri più tardi con la risonanza di cui s’è detto. Ci auguriamo perciò vivamente che Artifoni ci dia presto un secondo libro, con il seguito della storia, di cui ha ricostruito con intelligenza e passione l’episodio iniziale. Tanto più che, se è vero che in questa prima fase, intorno al libro di Salvemini, si giocarono le sorti del rapporto fra storiografia e scienze sociali in Italia, è stato proprio nella seconda fase che la recensione di Ottokar rese manifeste le virtù insite in un approccio di tipo «prosopografico» – consistente nell’attenzione prestata al «volto», alla vicenda individuale dei singoli protagonisti –, che lo storico russo applicava con successo allo studio della storia comunale fiorentina fra Due e Trecento, e che ora Artifoni applica altrettanto opportunamente allo studio della storiografia italiana fra Otto e Novecento, in contrapposizione all’approccio da lui definito «idealistico». La sua ricostruzione si distacca infatti in alcuni punti anche essenziali dal quadro delineato da Croce nell’ultimo capitolo della Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono,


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dove l’indirizzo di studi culminato in Magnati e popolani è battezzato come «scuola economico-giuridica», celebrato per la sua novità e fecondità, e condotto all’influenza del pensiero marxista nella versione di Antonio Labriola, il che voleva poi dire riportato nel clima di reazione antipositivistica che lo stesso Croce aveva tanto contribuito a instaurare. Artifoni è invece convinto che il marxismo labriolano, o di altra matrice, c’entri in tutto questo poco o niente; che, almeno per ciò che concerne Salvemini, l’influenza decisiva la esercitò, in un dato momento, l’economista e sociologo Arturo Loria (benché non citato); e che, attraverso il magistero pisano di Amedeo Crivellucci e fiorentino di Pasquale Villari, si sia operata una sostanziale continuità fra la generazione tardo-romantica e positivistica e quella venuta alla ribalta sul finire del secolo. Tale continuità è indicata nella persistente centralità del modello di «storiografia delle antitesi», che, affermatosi in età risorgimentale come contrapposizione fra latinità e germanesimo, si veniva allora mutando, su indicazione dello stesso Villari ultima maniera, in contrapposizione fra ceti portatori di interessi economici contrastanti; nel caso Salvemini di Magnati e popolani, come lotta fra «produttori» e «consumatori», che, riecheggiando Loria, egli arriva a definire il «fatto universale della storia umana». Artifoni dà anche molta importanza alle due istituzioni culturali, pisana l’uno, fiorentina l’altra, che in diversi modi e misura furono al centro della breve stagione della «scuola economico-giuridica»: una rivista, gli «Studi storici» fondati da Amedeo Crivellucci ed Ettore Pais nel 1892, e una scuola, l’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento, creato a Firenze per decreto di Bettino Ricasoli, «nella prospettiva – come scrive Giovani Spadolini – di quella nuova realtà nazionale, di quello Stato finalmente unitario, che egli perfettamente intravedeva e tenacemente voleva, mentre forti erano intorno a lui, a Firenze (siamo nel settembre 1859!), le tensioni e tendenza di segno opposto, fra separatista, leopoldino e


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dialettale». Presidente dal 1865-’66 della sezione di filosofia e filologia dell’Istituto, Pasquale Villari riuscì a farne una facoltà di lettere e filosofia sui generis, di qualità superiore, nella quale la formazione all’insegnamento nei licei e l’addestramento alla ricerca scientifica venivano insieme perseguiti, ma tenuti anche opportunamente distinti. Era qui che era approdato Salvemini dalla natia Molfetta, nell’autunno del 1890. Nella ricostruzione di Artifoni, subito dopo la comparsa di Magnati e popolani, e lo straordinario successo che questo libro incontrò nei settori più disparati della cultura italiana, la rivista pisana, con Gioacchino Volpe come presunto erede di Crivellucci, e l’Istituto fiorentino, con Salvemini come presunto erede di Villari, sembrano predestinati ad anticipare la prestigiosa simbiosi che, cinquant’anni più tardi, si sarebbe realizzata in terra di Francia fra le «Annales» e la sesta sezione dell’«École pratique des hautes études», creata da Lucien Febvre e Fernand Braudel alla fine delle seconda guerra mondiale. Protagonista in tutti i sensi del fallito tentativo fu, più che Salvemini, Volpe, autore di una serie di micidiali recensioni, apparse sulla «Critica» di Croce, nelle quali mentre di inneggiava a Salvemini nonostante i suoi presto rinnegati trascorsi loriani, erano infilzati insigni esponenti della «scuola economico-giuridica», accusati di deteriore sociologismo. Visti i risultati, si direbbe, ma a torto, che la troppa «chiarezza» concettuale talvolta non giovi.

Il Messaggero, 7 aprile 1991 Storia/Una monografia su Rosario Romeo mentre sulla sua opera si annuncia un convegno Contro le ideologie per descrivere una nazione A tre anni dalla sua scomparsa, la storiografia e, direi, in genere la cultura italiana non ha ancora trovato il modo di


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fare i conti fino in fondo con Rosario Romeo. Per la fine di novembre è annunciato un convegno indetto dall’Istituto della Enciclopedia Italiana. Staremo a vedere. Per l’Enciclopedia del Novecento, Romeo aveva scritto, fra l’altro, la voce «Nazione», un testo tormentato e ultraimpegnativo in cui, prima di dedicarsi anima e corpo all’esperienza del Parlamento europeo, aveva consegnato le sue riflessioni sulla storia d’Europa dal ’45 in poi, vista sotto l’angolazione della crisi dello stato nazionale, particolarmente in Germania, cuore della vecchia Europa fine Ottocento e dei primi decenni del secolo che era andato allora in frantumi. Sarebbe stato, come tutto dà a credere, il tema al quale intendeva dedicarsi di proposito, una volta restituito agli studi. Tre anni fa, a rendere ancora più difficile il compito di tentare un primo bilancio «a caldo» della sua opera storiografica, ha pesato il fatto che la sua militanza politico-parlamentare, soprattutto dopo la morte di Altiero Spinelli, di cui si era posto in qualche modo come l’erede nel parlamento di Strasburgo, aveva assunto nel frattempo un rilievo tale da indurre molti di coloro che hanno scritto di lui in quei giorni, a soffermarsi, anche al di là di quello che sarebbe stato giusto, sul nesso, in Romeo, fra impegno storiografico e impegno civile, come se la massima parte della sua vita, così immaturamente interrotta, non fosse consistita in un’immensa, eroica solitaria fatica (materiale oltre che intellettuale) spesa consultando libri e documenti d’archivio. Ad avviare il discorso su basi finalmente adeguate all’entità e complessità della sua opera storiografica, provvede ora ottimamente il libretto (sono solo un centinaio di pagine) che gli ha dedicato uno dei suoi pochi allievi in senso stretto, Guido Pescosolido (Rosario Romeo, Laterza, 16 mila lire). Reagendo al vezzo cui indulgono molti autori contemporanei di profili di storici, che tendono a dissolvere il biografato in una rete di rapporti con interlocutori esterni o,


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peggio, con istituzioni culturali, nell’illusione che solo così ci si possa sottrarre al rischio di un’interpretazione soggettiva, il Pescosolido prende di petto il suo autore e si assume la responsabilità di indicare una linea di sviluppo del suo pensiero, che ha comunque il merito della concisione e della coerenza, ma che, almeno nei passaggi essenziali, viene a costituire un solido punto di riferimento per ulteriori riflessioni, magari già in sede del convegno previsto per il prossimo novembre. D’altra parte, chi lo abbia conosciuto anche solo superficialmente, sa bene che, socievolissimo com’era a modo suo, Romeo non era certo un tipo da condividere la moderna mitologia della ricerca di gruppo o da rendersi disponibile alle illuminazioni congressuali. Era piuttosto un tipo che amava procedere di testa sua, senza guardare né a destra né a sinistra, concentrando le sue energie su obiettivi ambiziosissimi ma, al tempo stesso, severamente circoscritti. Compiendo una radicale semplificazione, che va molto oltre quella stessa operata da Pescosolido, col risultato di lasciare fuori del discorso un complesso di opere che basterebbero da sole ad assicurare la rinomanza di uno storico, si può dire che la carriera intellettuale di Romeo abbia avuto come punto di partenza Il Risorgimento in Sicilia (1950), come punto d’arrivo i tre volumi in quattro tomi di Cavour e il suo tempo (1969-1984) e, come punto intermedio, da un lato, i due saggi su La storiografia politica marxista (1956) e sui Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887 (1958), apparsi prima su «Nord e Sud» di Francesco Compagna, e poi confluiti in Risorgimento e capitalismo (1959), e, dall’altro, il volume del 1963, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, nel quale il grosso era rappresentato dai capitoli su Il Risorgimento in Piemonte, scritti per la Storia del Piemonte della «Famija Piemontèisa» di Roma, ma che si concludeva con un importantissimo saggio intitolato Il Risorgimento: realtà storica e tradizione morale.


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Di là dell’occasione particolare per cui era stato prodotto (la celebrazione, nel 1961, del centenario dell’Unità), per il fatto stesso di estendere il discorso dalla «realtà storica» alla «tradizione morale», esso sembrava indicare che, da storico del Risorgimento – prima perifericamente siciliano, poi centralissimamente sabaudo – quale era stato finora, Romeo stava per trasformarsi definitivamente in uno storico dell’Italia unita. La stessa considerazione vale infatti, fatte le debite differenze, anche per i saggi di Risorgimento e capitalismo, che, originati da una serrata discussione della tesi di Gramsci sul Risorgimento come rivoluzione agraria mancata, approdavano alla prospettazione di un suo modello interpretativo dello sviluppo capitalistico in un’Italia ormai sulla via di divenire postrisorgimentale. Si noti di passaggio che, se è vero che Il Risorgimento in Sicilia era stato salutato dalla ristretta cerchia degli storici come la rivelazione di un autentico talento, è stato solo con Risorgimento e capitalismo che Romeo ha raggiunto una notorietà di cui non ha goduto forse nessun altro storico italiano, a parte Renzo De Felice. E non importa che, anche nel suo caso, la notorietà fosse in buona parte il risultato delle aspre critiche provenienti dalla sponda della cultura allora dominante, che si pretendeva marxista e mal sopportò di vedersi affrontata sul proprio terreno d’azione, che era quello dell’accumulazione capitalistica. Eppure, anche senza mai trascurare del tutto gli studi sull’Italia moderna, Romeo non avrebbe fatto di questi il suo impegno prevalente negli anni della sua maturità. Avrebbe bensì lavorato indefessamente alla edificazione di quel Cavour e il suo tempo, in cui realizzò appieno l’ideale di un’opera anche esteriormente monumentale (oltre 2.700 pagine!), di respiro – com’egli amava dire – ottocentesco, qualcosa come la Storia di Roma del Mommsen o la tetralogia wagneriana.


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Secondo Pescosolido, «le ragioni di questa prevalenza di interesse per la fase unitaria vanno ricercate nell’importanza che l’unificazione politica della penisola riveste agli occhi di Romeo sia nel quadro della storia europea… sia, soprattutto, nel quadro dello sviluppo storico della nazione italiana, per il ruolo essenziale in esso rivestito dalla creazione di uno Stato sovrano, lo studio della cui genesi risultava di particolare attualità in un periodo storico come quello in cui Romeo viveva, quando la nazione sembrava ormai aver perso la sua funzione traente nella storia europea e la storiografia gramsciana e radicale faceva risalire la crisi dello Stato liberale, in modo più o meno mediato, alla stessa fase di formazione dell’unità». Il Messaggero, 22 aprile 1991 Medioevo/Premiato il francese Pierre Toubert Il paladino della storia globale* Il premio «Cultori di Roma» 1991 è stato assegnato ieri a Pierre Toubert, un medievista francese che si è dedicato prevalentemente a studi di storia italiana. La sua monumentale tesi sulle Strutture del Lazio medievale. Il Lazio Meridionale e la Sabina dal secolo IX alla fine del secolo XII, apparsa nel 1973 nella collana dell’«École française de Rome», è stata tradotta parzialmente in italiano da Jaca Book nel 1980 con il titolo Feudalesimo mediterraneo. Il caso del Lazio medievale. Ma, a prescindere dalla «tesi» che l’ha reso immediatamente noto nel mondo degli studiosi e che costituisce tuttora un punto di riferimento obbligato, nonché un oggetto di appassionata discussione, anche per i medievisti non direttamente interessati alle vicende di Roma e del Lazio, * Si veda, in questo volume, Il Giornale, Geografia alleata della storia, 17 ottobre 1975.


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Toubert ha continuato anche negli anni successivi a occuparsi di cose nostre nelle sedi più disparate, dalle «settimane di studio» di Spoleto agli einaudiani Annali della Storia d’Italia. Per non dire delle periodiche rassegne nelle quali rende conto ai suoi connazionali, spesso distratti, di ciò che si produce in Italia in questo campo di studi. Oggi professore alla Sorbona, ma in gioventù membro della Scuola francese di Roma (palazzo Farnese), Toubert è solo un esempio fra i tanti, benché uno fra i più luminosi, di quello che significa per Roma e l’Italia la presenza di stabilimenti di ricerca straniera. Ben lungi dal venirci a colonizzare, gli amici d’Oltralpe e d’oltre Oceano che si fermano per qualche tempo a studiare fra noi, costituiscono per gli studiosi italiani di discipline storico-archeologiche uno stimolo di valore inestimabile, che accelera la formazione dei più giovani e rallenta l’invecchiamento di quelli che giovani non sono più. Il premiato di quest’anno non si può assolutamente dire che goda della rinomanza che una maggiore familiarità con i media ha assicurato ad alcuni dei suoi confratelli medievisti. Eppure, Toubert è uno dei pochi, per non dire il solo storico ad avere tentato e realizzato un’impresa che proprio il settore più avanzato della storiografia francese aveva indicato, negli anni Cinquanta e Sessanta, come il vero traguardo da raggiungere, guadagnando significativi consensi anche fra noi: la storia «globale». Per un verso la storia etico-politica, per l’altro quella incentrata sulla successione dei modi di produzione e la lotta di classe, erano ormai giudicate troppo parziali e unilaterali. E si fece perciò buon viso alla prospettiva di provare a ricostruire i processi storici nella loro «globalità», senza impantanarsi in scelte aprioristiche, di necessità limitanti. Ma quando qualcuno ci si provò, ci si rese subito conto che l’impresa era tutt’altro che agevole. La storia che si sarebbe voluta globale tendeva irrimediabilmente a risolversi in una «storia a cassettini»: uno per l’economia, uno per la religione, un altro per la politica, e così via.


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Il merito di Toubert consiste proprio nell’essere riuscito a scansare quest’insidia e a costruire un oggetto dove tout se tient. Certo, aveva alle spalle la tradizione tipicamente francese delle monografie di storia regionale, frutto del matrimonio più riuscito fra la storiografia e una scienza sociale, dei tanti che se ne sono consumati negli ultimi sessant’anni: intendo dire quello con la geografia. Solo una attenzione costante, scientifica, alla scena su cui si svolge l’azione, consente infatti di tenere insieme le varie fila del discorso. Ma con tutto il rispetto per il passato delle regioni francesi, nessuno potrà negare che il Lazio, con la sua stratificazione storica ben più che bimillenaria e soprattutto con la capitale che si ritrova ad avere, presentasse caratteristiche tali da sottoporre una formula più che sperimentata a una tensione che avrebbe potuto essere fatale alla riuscita dell’impresa. Com’è noto, la lingua francese, sia quella popolare che quella dotta, si arricchisce costantemente mediante imprestiti dall’inglese. Una delle poche parole italiane entrata nell’uso d’Oltralpe è «aggiornamento», riferita alle vicende della Chiesa postconciliare. Un’altra è «incastellamento» per merito (o colpa) di Toubert. Di recente, quest’ultimo si è lamentato che si tenda a ridurlo a essere lo storico dell’«incastellamento», mentre egli è giustamente consapevole di avere affrontato temi di interesse altrettanto, e più grande. Ciò non toglie che il fenomeno in questione, oltre ad avere avuto oggettivamente un’incidenza fortissima nella storia del Lazio medievale, si è visto assegnato nella sua tesi la funzione di fuoco centrale, intorno al quale ruota tutto il resto. A scanso di equivoci, i «castelli» di Toubert non hanno niente a che vedere con quelli forniti di merli e ponti levatoi, che verranno costruiti nei secoli del basso medioevo. I suoi «castelli» sono, in realtà, dei veri e propri villaggi, sorgenti su sommità collinari o speroni rocciosi, edificati però


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in modo che le mura perimetrali esterne delle case che si affacciano sul vuoto non presentano interruzioni e suggeriscono perciò l’idea di una cinta fortificata. Chiunque voglia vedere di cosa si tratta, non ha che da imboccare una delle vie consolari che si diramano da Roma in direzione nord, nord-est, est, sud-est, e guardarsi intorno. L’edificazione, a partire dai primi decenni del secolo X, e poi durante i cento e più anni seguenti, di decine e decine di questi «villaggi fortificati» ha coinciso con una trasformazione radicale del paesaggio da un habitat disperso a un habitat concentrato, intorno al quale vengono organizzate, in successive fasi concentriche, le diverse colture e lo stesso incolto. Anche un profano si renderà facilmente conto che una mutazione strutturale di questa portata non poté mancare di ripercuotersi su tutti gli aspetti della vita sociale; da quelli familiari a quelli religiosi (cura delle anime); dal regime degli scambi (strumenti monetari) all’esercizio della giustizia… Con buona pace del Toubert, è proprio la centralità dell’«incastellamento» che gli ha consentito di sfuggire alle insidie della «storia a cassettini». Si dirà che tutto questo sembrerebbe destinare l’autore a un premio di «cultore del Lazio» più che a un premio di «cultore di Roma». Non è assolutamente così, ammesso che un’obiezione del genere abbia un senso. La Roma altomedioevale, con i suoi papi «aristocratici» e la sua aristocrazia che si definiva «senatoria», con gli imperatori tedeschi che venivano di tanto in tanto a mettere ordine e se ne ripartivano sconsolati in tutta fretta verso la loro terra natale, è sempre presente sullo sfondo, giusto quanto basta a dare a questa storia regionale una patina di universalità.


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Il Messaggero/Cultura, 9 febbraio 1992 Hobby da Re/Vittorio Emanuele III e il suo amore per la numismatica. Una collezione di oltre centomila pezzi e la stesura di un repertorio di venti volumi. In un libro la storia di una grande passione Quel soldino di Pio IX Presumo che siano numerosi gli italiani che, senza nutrire alcuna nostalgia per la monarchia (vorrebbero, semmai una repubblica migliore di questa), si sono rammaricati, qualche mese fa, nel vedere l’ultimo dei Savoia trascinato in un’aula di tribunale con un’accusa infamante, e poi dubbiosamente assolto. A quel nome va infatti congiunta, nel bene e nel male, una parte non trascurabile del nostro passato nazionale e il senso di disagio che molti hanno certamente avvertito è del tutto comprensibile, anche se – lo ripeto – mi guarderei bene dall’attribuirgli un significato politico. Allo stesso modo, solo uno stolto potrebbe vedere un tentativo di riabilitazione del più discusso dei Savoia, Vittorio Emanuele III, nel libro, a un tempo delizioso e dottissimo, che Lucia Travaini ha dedicato alla Storia di una passione: Vittorio Emanuele III e le monete (Pietro Laveglia Editore, Salerno 1991, 292 pagine, 30 mila lire). La Travaini è una giovane, ma molto valente, specialista di numismatica medievale, che ha lasciato di recente l’Italia per un incarico prestigioso di ricerca a Cambridge. Philip Grierson, principe dei numismatici, che ce l’ha portata via, ha voluto, in poche ma molto impegnative pagine di presentazione, avallare con la sua indiscussa autorità questa fatica stravagante della sua allieva italiana e, direi, ancora di più la serietà dell’impegno scientifico, ben maggiore che di semplice collezionista, del protagonista della Storia: «Vittorio Emanuele III, re d’Italia dal 1990 al 1946, fu uno dei più grandi collezionisti di monete dei suoi giorni, anzi,


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di tutti i tempi, e per i 20 enormi volumi del suo Corpus Nummorum Italicorum egli merita un posto permanente nella storia della numismatica». Considerato l’understatement caratteristico degli inglesi non è dire poco. Il collezionismo di monete, in particolare, è stato praticato, un po’ come la caccia, da molti sovrani europei e, come sottolinea la Travaini, anche fra i predecessori del suo re non sono mancati i raccoglitori di medaglie e monete, che hanno dato vita a vere e proprie collezioni, confluite poi, almeno in parte, in quella di Vittorio Emanuele. Ma, per non parlare del salto qualitativo, che in una materia come questa, non è certo da sottovalutare (alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, i «pezzi» regolarmente classificati erano ben 103.846), il punto su cui insiste l’autrice è che, iniziato per gioco (un gioco molto indicato per bambini un po’ diversi dagli altri), il rapporto di Vittorio Emanuele con quei piccoli pezzi di metallo pregiati e non, ha finito col diventare la «passione» di tutta una vita, la quale però, per potere essere coltivata a quei livelli, ha dovuto per necessità di cose accompagnarsi alla progressiva maturazione di un interesse di tipo scientifico. La vicenda narrata nel libro si svolge nell’arco di tempo che va dal giorno del 1879, in cui la sua governante irlandese gli regalò un soldo di Pio IX, acquistato da un robivecchi a Campo de’ Fiori, fino al 9 maggio del 1946, quando, sul punto di lasciare per sempre l’Italia, egli scrisse ad Alcide De Gasperi: «Signor Presidente, lascio al popolo italiano la collezione di monete che è stata la più grande passione della mia vita». Dalla donazione restavano escluse le sole monete di casa Savoia, che Vittorio Emanuele portò con sé in Egitto e che furono ricongiunte al resto nel 1983, dopo la morte di Umberto II, per esplicita volontà di questo. Una parte decisiva nell’intera vicenda va attribuita – i documenti citati dalla Travaini non consentono dubbi in


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materia – all’influenza esercitata sul giovane principe dal suo precettore Egidio Osio, che ebbe cura della sua formazione intellettuale, e non solo intellettuale, dal maggio del 1881 al novembre 1889, quando Vittorio Emanuele compiva vent’anni. Ma fino alla morte di Osio, nel 1902, il principe che nel frattempo era diventato re, continuò a corrispondere con lui, tenendolo informato soprattutto dei continui arricchimenti della sua collezione. Osio, che, a sua volta, collezionava monete, si era servito di esse per trarne lo spunto per insufflare nel suo augusto allievo nozioni di storia e di cronologia, che altrimenti gli sarebbero riuscite indigeste. E proprio questo approccio di didattica empiristica contribuì largamente a consolidare in Vittorio Emanuele un interesse per gli oggetti che andava raccogliendo, che andò presto al di là di quello del collezionista tradizionale. Con il risultato che l’allievo progredì ben oltre gli orizzonti limitati di Osio, destando in questo addirittura una sorta di gelosia, che traspare dalla corrispondenza successiva al periodo in cui prestò la sua opera di precettore regale. Con una mossa che si sarebbe rivelata vincente, il re numismatico decise per tempo che la sua collezione sarebbe stata circoscritta alle sole monete italiane o coniate da italiani fuori dall’Italia, per esempio nel Levante, durante le crociate. Questo significava tagliare fuori non tanto le monete di altri stati, quanto quelle greche e romane, che avevano un posto di tutto rilievo in altre collezioni. A dettare questa scelta fu non solo la logica di un collezionista oculato, che si rende conto che è impossibile raccogliere tutto, ma anche l’antipatia di Vittorio Emanuele per l’antichità classica, che non sarebbe venuta meno nemmeno nei giorni in cui l’Italia finse di credere di avere rinverdito il proprio destino «imperiale». Criticato dagli addetti ai lavori, e quindi anche dal Grierson e dalla Travaini, è il metodo di classificazione delle monete (per regione storica e per ordine alfabetico di


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zecca, e non, come sarebbe stato corretto, per autorità emittente), adottato da Vittorio Emanuele e poi trasferito tale e quale nella pianificazione dei volumi del Corpus Nummorum Italicorum, cioè nella grande impresa editoriale, che egli intraprese valendosi del consiglio e dell’aiuto di numismatici di professione e che non consisté nella semplice pubblicazione della sua collezione, ma ambì a essere il repertorio della produzione numismatica italiana, compresi quindi i pezzi sui quali non gli riuscì di mettere le mani. Anche la corrispondenza del re con i commercianti di monete antiche è messa a frutto dalla Travaini, che mostra come in molti casi questo collezionista privilegiato arretrasse di fronte a un progettato acquisto, perché non riteneva congruo il prezzo richiesto. D’altra parte, l’autrice, che conosce bene la collezione di Vittorio Emanuele, non manca di segnalare i casi in cui qualcuno è riuscito a rifilargli qualche falso. «Molti ritengono», conclude la Travaini, «che Vittorio Emanuele abbia lasciato all’Italia la sua collezione per pagare un debito, e, invece di donazione, ne parlano come di restituzione all’Italia. Sull’ammontare di questo debito morale e materiale verso l’Italia e gli italiani non è il caso di parlare qui: in questa sede, non si parla del re, ma del numismatico. Certo non è facile separare le due facce di una moneta, però, visto che tanti biografi e storici, finora, hanno parlato di Vittorio Emanuele III come re, senza dire quasi nulla della sua faccia numismatica, ho pensato che fosse giusto parlare anche di questo, in dettaglio». Il pregio del libro, che si raccomanda anzitutto per l’ampiezza della documentazione messa a frutto e per la familiarità che l’autrice mostra di avere con le monete della collezione reale, sta anche nella discrezione e nell’equilibrio con cui viene affrontato di scorcio un protagonista ultradiscusso della nostra storia recente.


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Il Messaggero, 12 gennaio 1993 Storia/Il «contratto» politico nelle Costituzioni statuali dell’Occidente Tredicesimo, non spergiurare Nell’atto di prendere possesso della carica, i funzionari dell’impero bizantino erano tenuti a giurare all’imperatore che «avrebbero conservato una pura coscienza e osservato uno schietto servizio». Giuravano «per Dio onnipotente e il suo figlio unigenito, il signore nostro Gesù Cristo, e la santa gloriosa madre di Dio e sempre vergine, Maria, e i quattro vangeli», che – come la formula stessa precisava – essi tenevano fra le mani. Si direbbe che nel frattempo ci si fosse dimenticati che, in uno dei quattro, in quello di Matteo, erano riportate queste parole di Gesù: «Voi sapete che cosa fu detto agli antichi: “Non spergiurare, ma adempi i tuoi giuramenti al Signore”. Io però vi dico di non giurare mai… Ma sia il vostro parlare: Sì, sì; no, no; quello che c’è di più deriva dal male». In realtà, nessuno se n’era dimenticato, ma molte voci di cristiani autorevoli, a cominciare da quella autorevolissima di sant’Agostino, avevano fatto presente che la proibizione di Cristo andava letta come semplice esortazione alla cautela, giacché nel giuramento umano è sempre presente il pericolo dello spergiuro (il solo giuramento sicuro era quello di Dio). D’altra parte, il giuramento, proprio per la debolezza umana, era necessario per la sopravvivenza dello Stato e della società. E infatti, per tornare all’esempio da cui abbiamo preso l’avvio, l’impero bizantino, rimossa la consigliata cautela, ne farà un lunghissimo uso, non limitandone l’obbligo ai pubblici funzionari (giuramento d’ufficio), ma pretendendolo da tutti, indistintamente, i sudditi. Anche il patriarca e i prelati giuravano fedeltà all’imperatore: «In sostanza, vi è la totale sottomissione della Chiesa allo Stato con una pratica del giuramento come atto religio-


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so e espressione di coesione sociale ma a senso unico, come conferma dell’origine divina del potere imperiale, fisso e sovrastante». A Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (il Mulino, 602 pagine) Paolo Prodi ha dedicato un libro molto importante e anche, per molti versi, insolito nel panorama della nostra storiografia. Non eravamo più abituati a libri di storia scritti perché l’autore mostra coi fatti, non a parole, di volere fare luce su un nodo di problemi che gli stanno a cuore. L’ultimo capitolo ha un titolo che, in questo senso, parla da sé: «Tra passato e futuro». In quanto cattolico, Prodi addita per la Chiesa cui appartiene l’opportunità di ripensare il suo ordinamento interno, modellatosi negli ultimi secoli «sul rapporto – di collaborazione, di alterità, di coesistenza – con il sovrano Stato moderno» e che si riflette, appunto, nelle norme sul giuramento, deplorevolmente passate tali e quali dal Codice di diritto canonico del 1917 a quello entrato in vigore nel 1983. È, insomma, rimasto in piedi quel «sistema di controllo nel quale l’esercizio del potere interno alla Chiesa si è trasformato, con una sostanziale fusione fra voto e giuramento come quella avvenuta nell’ambito della politica secolare, in un rapporto analogo a quello sovrano-suddito». In quanto, poi, cittadino angosciato dalle conseguenze che, per il futuro delle democrazie occidentali, e in primis della nostra, sta producendo «la frattura in atto dello Stato moderno in una molteplicità di detentori del potere con la perdita del monopolio politico», Prodi ritiene che il ristabilimento dell’«identità collettiva» non debba assolutamente passare attraverso la «costruzione di un’unità organica intorno a un nuovo principe», bensì essere promosso in forma contrattualistica. Non però nei modi inaugurati da Rousseau, per il quale il giuramento diventava «lo strumento primo e originario


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per la fusione dell’individuo nel corpo sociale», cessando così di essere «un patto tra persone e gruppi umani garantito da una divinità metapolitica», per fornire «il riconoscimento della sacralità della politica e del potere» (cap. IX: «La metamorfosi del giuramento e la sacralizzazione della politica»). Il giuramento «come contratto di status, come “matrimonio politico” (se è lecito usare questa metafora)», cui guarda Prodi come via d’uscita dalla crisi, presuppone invece «un riferimento esterno al potere, un garante a cui riferirsi, una struttura triadica in cui il sacro sia in qualche modo messo fuori e al di sopra dei contraenti: non espulso e annullato perché la storia dimostra che, come i demoni cacciati ricordati nel Nuovo Testamento, ritornerebbe con una forza sette volte maggiore». Contro le minacce incombenti dell’anarchia, dell’autocrazia e, all’orizzonte, degli stessi fondamentalismi religiosi Prodi rivendica la perenne attualità del «dualismo cristiano», in cui già Max Weber aveva indicato a suo tempo il fattore dinamico della civiltà occidentale nei confronti dei dispotismi orientali, compreso quello bizantino cui si accennava all’inizio. È il cattolico che si riaffaccia inaspettatamente dietro le spalle del cittadino? Non direi proprio. Quello che Prodi indica è un modello, che va semmai riproposto (e qui sta il difficile) in termini accettabili da un mondo ormai largamente scristianizzato come quello in cui egli, per primo, sa benissimo di vivere. Non vorrei però dare l’impressione che il libro di Prodi sia l’opera di un politologo o, peggio, di un teologo. Il suo è un libro di storia e come tale va letto e giudicato, a prescindere dal messaggio che l’autore ha creduto di poter ricavare dall’accidentato percorso che ha compiuto attraverso duemila anni di storia dell’Occidente (il prima di Cristo è trattato di scorcio), una lunga durata anch’essa


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insolita per un’opera di «storia costituzionale», come si proclama nel titolo, o semplicemente di storia politica, come Prodi stesso dichiara di averla concepita, dando un non piccolo contributo alla riabilitazione e al rilancio, che è in atto, di questo genere di storia che fino a qualche tempo fa sembrava passato di moda. Storico dei primi secoli moderni, di quella che una volta veniva chiamata l’età della Riforma e della Controriforma e che egli preferisce chiamare l’«età della confessionalizzazione e del disciplinamento», due processi comuni, benché con differenze non trascurabili, sia all’Europa rimasta cattolica che a quella diventata protestante, ed attuati entrambi proprio mediante un nuovo uso del giuramento. Prodi dedica pour cause a questo periodo la maggior parte del libro senza trascurare «la contestazione del giuramento» da parte del «cristianesimo radicale» e la contraddizione che la caratterizza, in quanto, da una parte, esso contesta «l’ordine esistente negando la liceità per il cristiano del giuramento» e dall’altra, ricorre «al giudizio iniziatico tutte le volte che la setta si propone finalità di tipo pubblico e politico». Ma nell’economia interna del libro sono i tre capitoli dedicati al medioevo, in particolare il terzo su «La rivoluzione papale: riforma gregoriana e giuramento», che finiscono con l’acquistare un rilievo del tutto particolare, dal momento che è proprio nei secoli centrali del medioevo che si afferma il giuramento-contratto, a struttura triadica, in cui Prodi indica un modello spendibile anche in futuro. Ma non solo per questo: ciò che sarebbe accaduto nell’età della confessionalizzazione e del disciplinamento, e nei secoli successivi, fino al nostro, che ha visto l’esaurimento di questo istituto dopo le sue truci fortune in età hitleriana, è comprensibile solo se si tenga presente quel lontano, felicemente innovativo punto di partenza.


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Il Messaggero, 27 luglio 1994 Ma lo storico invita alla prudenza Una scoperta da verificare È ormai da molto tempo che le epidemie si sono guadagnate un posto di riguardo negli studi storici. Anche il più retrogrado dei manuali insegna che i secoli durante i quali l’Occidente fu immune da malattie epidemiche (pressappoco da Giustiniano a Boccaccio) furono anche quelli che consentirono prima (fino al sec. X), il recupero delle perdite demografiche che, per ragioni appunto sanitarie, accompagnarono la crisi e il tramonto della civiltà antica, poi, a partire dall’XI, il decollo dell’economia occidentale. Ma si tratta di solito di prospettive che includono il fattore «epidemia» nella lunga durata. La notizia, che rimbalza ora da un cantiere di scavo nei pressi di Amelia sulle pagine del New York Times e da lì sui flash d’agenzia, fa sensazione perché tende a mettere in rapporto il fattore «epidemia» con un episodio specifico, con un avvenimento. Con un avvenimento, per lo più, che, anche per il fatto di avere avuto una grande fortuna di rappresentazioni artistiche, era entrato a fare parte dell’immaginario collettivo. Tutti hanno sentito parlare, o meglio, hanno “visto” Attila avviato al sacco di Roma, che Leone Magno arresta e induce a fare marcia indietro, armato di una semplice croce e del suo carisma di vescovo di Roma, di successore di Pietro. Già gli scettici, che non mancano mai, avevano proposto altre spiegazioni di quell’inspiegabile cambio di direzione. La storia della invasioni è costellata di misteri del genere. I barbari, che sono sempre alle porte, e non arrivano mai, sono diventati un topos letterario. Ora, ci viene spiegato che Attila fu fermato non da papa Leone, ma dalla malaria. Non sarebbe stata né la prima, né l’ultima volta. La storia medievale è piena di imperatori venuti dal nord che non


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reggono alle torride estati romane e risalgono la penisola in preda alla dissenteria, salvo imbattersi in qualche cronista dietrologo che assicura essersi trattato degli effetti di un veleno propinato al sovrano in questione dai perfidi romani. Non vorremmo avere l’idea di prendere sottogamba questa annunciata, nuova scoperta archeologica. Prudenza insegna che fino a quando i risultati di uno scavo non sono pubblicati, pubblicati, s’intende, in sede scientifica, non sulle colonne di un giornale pure autorevole come il New York Times, non è il caso di pronunciarsi. Ma è anche vero che, da qualche tempo, l’archeologia, fattasi, da esclusivamente classica che era, anche tardoantica e altomedievale, sta rivoluzionando le nostre conoscenze sui secoli che videro la transizione fra il mondo antico e quello medievale. Può darsi benissimo, e lo auguro di cuore ai fortunati scopritori, che il ritrovamento di questo triste cimitero di bambini, ancora una fossa comune di innocenti come se non bastassero quelle che ci arrivano in diretta da ogni angolo del mondo, risulti essere davvero importante, Ma potrebbe essere tale anche indipendentemente dal collegamento, che si è voluto trovare, con la retromarcia di Attila. Ritrosia, da parte di chi scrive, a rinunciare al gesto salvifico di papa Leone? Certamente no. Da tempo immemorabile, come dicevo, non ci crede più nessuno. E Leone resterebbe un grandissimo papa, decisivo per l’affermazione del papato e, quindi, per il futuro dell’Europa, anche se non avesse visto Attila neppure da lontano.


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Il Messaggero/Cultura, 22 marzo 1995 Gialli ante litteram/Tradotto il curioso romanzo in versi che Robert Browning pubblicò nel 1868, ispirandosi a un delitto commesso nel Seicento. Che il papa giudicò e punì Innocenzo XII: «A morte». E fu preda del dubbio Su una bancarella di piazza San Lorenzo a Firenze, nel 1860 Robert Browning trovò ed acquistò uno scartafaccio contenente il dossier, misto di manoscritti e di stampati, concernente un triplice assassinio che aveva destato grande scalpore nella Roma della fine del secolo XVII. Poiché era rilegato in pergamena, Browning battezzò il suo acquisto “il libro giallo”. Da esso trasse un romanzo in versi liberi, L’anello e il libro, pubblicato nel 1868-69, e ora disponibile in traduzione italiana a cura di Simone Saglia (Zanetti Editore, 717 pagine, 45mila lire). L’“anello” è il simbolo dell’arte, che sublima il fattaccio di cronaca nera esposto nel “libro”. Un nobile aretino, il conte Guido Franceschi, con l’aiuto di quattro giovani contadini assoldati nelle sue terre, la sera del 2 gennaio 1698 uccise i suoceri e la moglie, Pompilia. Svoltosi il processo, il 22 febbraio Guido fu decapitato in piazza del Popolo, e impiccati i suoi complici plebei. A insaporire il racconto intervengono gli antefatti, i retroscena, le motivazioni. Pompilia non era la figlia di Violante Comparini, che aveva simulato una gravidanza quando era ormai sulla cinquantina. Dalla dimora di Arezzo, dove era andata sposa, Pompilia era fuggita, stanca dei maltrattamenti subiti, con la complicità di un prete, il canonico Caponsacchi, suo amante. Il poema consiste in una serie di lunghi monologhi, nei quali i singoli protagonisti e il coro, che fa da cornice, diviso nelle sue componenti essenziali (i colpevolisti e gli innocentisti), espongono le loro ragioni, i loro incubi, i loro dubbi. La mia attenzione di medievista è stata attirata da un


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brano del monologo di papa Innocenzo XII, che occupa il libro X del poema. È lui che l’indomani dovrà pronunciare la sentenza definitiva e, come tutte le altre sere da sette anni a questa parte (era stato eletto nel 1691), si era messo a leggere la storia dei papi suoi predecessori. Intendeva seguire così l’esempio riportato nella Bibbia, del re persiano Assuero (Serse I) che evitò di compiere una grave ingiustizia solo per «aver dato ordine che gli fossero portati le storie e gli annali dei tempi passati». Historia magistra iustitie, si potrebbe dire. «Se sono sul punto di emettere un giudizio, come ora, / cerco come abbia giudicato, bene o male, nel passato, un altro papa /… / Così squadro e metto in ordine la pagina seguente, / destinata ad essere stesa, tutta liscia, sul mio sepolcro». E, cercando, Innocenzo si imbatté in un papa che era stato eletto oltre ottocento anni esatti prima di lui: Formoso. Poiché allora vigeva ancora la norma della non trasferibilità dei vescovi, che contraevano con la loro sede originaria un matrimonio indissolubile, Formoso, che era vescovo di Porto, fu dissotterrato dopo morto, rivestito dei suoi paramenti pontificali e processato, per questo suo “trasloco”, come se fosse vivo, mentre un diacono postogli accanto dall’organizzatore di quella macabra farsa, papa Stefano VI, «rispettoso della forma, /per rispondere all’accusa», abbozzava qualche timida risposta, «balbettante con labbra bianche e la lingua secca / (era giovane, /e il volto del cadavere era spaventoso a vedersi)». Giudicato colpevole, gli furono amputate le tre dita della mano destra, quelle con cui benediceva, e fu gettato nel Tevere, che lo restituì qualche tempo dopo. Parve un miracolo, tanto più che, subentrato un nuovo papa, quando fu trasportato nella basilica di S. Pietro per esservi finalmente sepolto, dalle pareti le immagini dei santi, come racconta il cronista Liutprando di Cremona, «lo salutarono con riverenza». Fu ancora un altro papa che, nell’898, giusto ottocento anni prima che


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Innocenzo XII si trovasse, a sua volta, a dover giudicare, si illuse di dire l’ultima parola riabilitando pienamente Formoso. In realtà la “questione formosiana” era tutt’altro che chiusa. Due papi la riaprirono all’inizio del secolo successivo, annullando le ordinazioni di sacerdoti e vescovi fatte da Formoso e gettando così scompiglio nella vita della Chiesa. Viene fatto di domandarsi quale luce potesse venire all’Innocenzo di Robert Browning da questo focoso precedente della storia pontificia, tante erano le differenze intercorrenti fra i due casi. Si danno due possibilità: o che Browning sia stato attratto dalla sorte riservata a Formoso e non abbia voluto rinunciare a dedicare un excursus del suo poema a tale episodio (fra parentesi, anche Cromwell subì un trattamento del genere); o che, allegando un caso tanto dissimile, egli abbia voluto rendere indirettamente più drammatica la scelta di vita o di morte, di fronte alla quale si trovava Innocenzo XII, richiamando quella che aveva dovuto compiere Giovanni IX, ottocento anni prima, risolvendosi a rendere infine giustizia a un morto. Il Messaggero, 30 luglio 1996 Atlanti/In sessanta tavole le trasformazioni del territorio dal Paleolitico a oggi. Con molte sorprese Il Lazio, una storia stravolta dalla Costituzione L’Atlante storico-politico del Lazio, appena apparso nella collana “Grandi opere” degli Editori Laterza (1-166 pagine; 60 tavole a colori; 60.000 lire), è un frutto vistoso, ma non effimero, della collaborazione sempre più stretta che si è stabilita negli ultimi anni fra l’Assessorato alla Cultura della Regione Lazio e il Coordinamento degli Istituti culturali del Lazio. La più parte di questi, a cominciare dalla Società geografica italiana, non hanno un carat-


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tere regionale laziale o cittadino, bensì dichiaratamente nazionale. Un comitato scientifico, formato da membri dei sei istituti coinvolti nell’impresa, ha selezionato e guidato gli studiosi autori dei testi: Luisa Migliorati per l’età antica (fino al sec. III d.C.), Antonio Sennis per l’età di mezzo (secc. IVXVI), Giovanni Pizzorusso per l’età moderna (secc. XVXVIII), Domenico Scacchi per l’Ottocento e gli inizi del Novecento, Leonardo Musci per l’età contemporanea. Autore delle tavole (solo quindici su sessanta sono riprese da altre fonti) è Stefano Bellezza. Un lucido trasparente, con i confini e le principali località del Lazio di oggi, sovrapponibile alle varie tavole, tutte della stessa scala, che vanno dai Siti del Paleolitico ai Collegi uninominali per la Camera dei deputati secondo la riforma del 1993, offre, ad un tempo, un utile sussidio alla consultazione dell’Atlante e la sua chiave di lettura. Il punto di partenza, che gli ideatori dell’opera hanno consapevolmente scelto, è infatti il Lazio di oggi. Anche se esso, contrariamente a ciò che si potrebbe essere indotti a ritenere, non è affatto, o lo è solo parzialmente, una creazione della storia. Si presenta piuttosto, attraverso lo scorrere del tempo, come una regione volta a volta “virtuale” o “indefinibile”, non riconducibile, nella sua configurazione, nemmeno ai criteri di per sé ambigui e autocontraddittori, cui si sono ispirati i costituenti nel ’47, quando disegnarono le diciannove regioni, diventate poi venti nel ’63 in seguito alla separazione fra Abruzzo e Molise. Il duplice, conclamato richiamo alle regioni “storico-tradizionali” e ai cosiddetti “compartimenti statistici”, ch’erano stati disegnati per tutt’altri scopi nel 1864 mise allora di fatto capo, come nota Leonardo Musci, alla «scorciatoia di identificare come tradizionali, storiche, se non naturali, aree regionali che di storico avevano solo, e non sempre, il nome». Ma, appunto, proprio nel caso del Lazio i due criteri adottabili non risul-


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tarono componibili, «con il risultato che la regione costituzionale non è né quella tradizionale (nel senso dei costituenti) né quella statistica, ma veramente la somma delle cinque province» (Roma, Viterbo, Rieti, Frosinone, Latina). Se il punto di partenza dell’Atlante, il Lazio attuale, è dunque artificiale, le sessanta tavole e le cinque dotte monografie, che le accompagnano, le spiegano e le giustificano, evidenziano nella storia plurisecolare delle terre che un giorno avrebbero corso a configurarlo così come si presenta oggi, alcune sorprendenti persistenze, cui fanno da contrappunto svolte repentine altrettanto significative. Avvicinandosi il momento in cui, dovendosi deliberare intorno ai nuovi poteri da attribuire alle regioni, verrà inevitabilmente sul tappeto il problema di come ridisegnare la carta regionale d’Italia (le due questioni sono strettamente legate), questa anamnesi storica del Lazio potrà forse risultare anche di una qualche utilità pratica. Per non dire dei molti motivi di interesse che studiosi di storia del territorio e appassionati cultori di memorie laziali troveranno nello sfogliare questo libro insolito, che offre risposte a tante domande e, ancora di più servirà da stimolo a porne di nuove.


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Gioventù liberale, 2 giugno 1953 Non voler essere minori Cominciarono col rinfacciarselo gli altri, come un motivo di scherno, sulle orme di Giannini che aveva avuto tanto successo nel ripeter sino alla noia che il Partito d’azione non era, in effetti, che un partitino. Ma, col tempo, liberali, repubblicani, socialdemocratici, si sono affezionati a quelle espressioni, fino ad usarle correntemente essi per primi. E a compiacersene segretamente. Non partiti piccoli, ma peggio, partiti minori: fissati addirittura ad un termine di paragone implicito e sottointeso, non autonomi neppure nella loro piccolezza. Si dirà che, una volta accettata – come noi accettiamo – la politica dell’apparentamento, alla base di quella espressione c’è solo il coraggioso senso della realtà di chi vede rapporti di forze, quali sono, di chi conta i voti, quanti sono… Ma ci si scorge qualcosa di più che il riconoscimento di una situazione di fatto (sempre modificabile del resto, e non solo in teoria): talvolta – ripeto – affiora proprio il compiacimento. Non il compiacimento di servire, che ci viene attribuito dai pulpiti più impensati e più inadatti a tal genere, la cui motivazione è piuttosto complessa. I democratici italiani, in genere, sono persone serie, e gli italiani seri sono tutti molto pessimisti sul loro paese. In conseguenza di ciò, un partito che goda larghi suffragi desta in essi un giustificato sospetto, mentre un partito più piccolo offre, per questo solo motivo, una maggiore garanzia. (Lo stesso avviene, del resto, anche su di un piano più ristretto. Nell’insuccesso della propria candidatura, l’uomo politico democratico ha la riprova della sua elevatezza morale. Una vittoria, domani, lo turberebbe come un presagio di corruzione). A giustificare tale atteggiamento, su cui è troppo facile fare dell’ironia, si potrebbero addurre molti elementi:


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sarebbe un elenco di speranze deluse e tradite, un capitolo non trascurabile della storia d’Italia. Ma bisognerà comunque guarire da questo stato d’animo, evitando almeno di ricamarci sopra variazioni decadentistiche, perché questa paura del successo diventa inevitabilmente nausea della politica, sentimento la cui meschinità fu bollata dal Croce in una pagina famosa. Ma nel complesso d’inferiorità dei partiti minori si inserisce un altro elemento, di origine non morale o moralistica, questa volta, ma più specificatamente ideologica. Alludo al fraintendimento di motivi del pensiero politico di Mosca [1858-1941] e di Croce. La storia – si dice – non è opera di masse, ma di élites: e fin qui va bene. Solo che si attribuisce il carattere di élite ad ogni raggruppamento politico di scarsa consistenza numerica, così che la concezione grossolanamente aritmetica contro cui fu elaborato il concetto stesso di élite viene conservata, solo che grottescamente capovolta. Non basta essere pochi per costituire una élite. E, soprattutto, le vere élites non perdono il tempo a contarsi e a riconoscersi come tali, ma si rivelano proprio nel trascinarsi dietro le maggioranze, nello scomparire e nell’identificarsi con esse. Anche qui, lo so, obbiezioni sono possibili. A chi esamini senza pregiudizi la politica dei governi democristiani, risultano evidenti, proprio là dove il bilancio è più favorevole, le tracce di orientamenti propri dei partiti minori. Ma non per questo tali gruppi devono illudersi di aver esercitato la funzione di élites dirigenti, quando invece abbiamo assistito alla semplice utilizzazione di quei motivi da parte della Democrazia Cristiana in funzione, come è naturale, della sua politica. Questa dei «Partiti minori», come già quella della terza forza, minaccia di diventare una formula politica a cui si rimane fedeli per abitudine o per pigrizia, anche quando ha cessato di essere attuale. Non che smettendo di usarla, i


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partiti minori – nel nostro caso il partito Liberale – possano perciò solo ingrandirsi e diventare capaci di un’azione autonoma, ma è bene però che rinuncino fin da adesso all’alibi che essa sembra garantire, dietro il falso miraggio di una politica per interposto partito, in cui sia lecito non assumere tutte le proprie responsabilità. Il Punto/Politica interna, 27 ottobre 1956 Il marxismo nella storiografia italiana Un rivoluzione mancata all’origine dell’Italia moderna L’insolita concretezza che vengono ad assumere in Italia i dibattiti culturali qualora si risolvano nel confronto di posizioni storiografiche è dovuto al fatto che, su questo terreno, la lezione crociana, comunque sia stata accolta, predispone tuttora a chiarezza di idee e a rigore logico. L’opportunità di aprire un dibattito sulla rassegna che Rosario Romeo ha dedicato alla storiografia politica marxista, nel quadro di una più vasta disamina predisposta da Nord e Sud su “Dieci anni di cultura in Italia”, si fonda, oltre che sul valore intrinseco dello scritto in questione, proprio sulla comune disposizione di molti intellettuali italiani (anche se non storici di professione) a tradurre polemiche troppo generali, e dunque necessariamente generiche, in una discussione sulla conoscenza storica o, meglio ancora, su fatti storici determinati. Per questo motivo di fondo, più che per l’influsso occasionale di un preteso clima distensivo, ci sono tutte le premesse necessarie a che il dibattito aperto sul Punto riesca utile e chiarificatore. L’intervento di Claudio Pavone, uno studioso di formazione marxista, dimostra nel suo insieme che il dialogo, in questo caso, non si esaurisce nella ripetizione di posizioni irreducibili e non genera, d’altra parte equivoci pericolosi. Ma il Pavone ha avuto il torto di spostare alquanto i termi-


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ni del dibattito: molto più che degli storici marxisti, nel suo intervento egli parla delle concezioni storiografiche del Romeo. Mentre si trattava di decidere se erano esatti o no gli appunti che il Romeo muove ai marxisti italiani, il Pavone si rivela soprattutto interessato a stabilire fino a che punto l’autore del saggio in discussione possa essere considerato «estraneo alla ideologia che combatte». Occorre perciò riportare il discorso nei suoi termini iniziali. A mio avviso, la tesi centrale sostenuta dal Romeo nel suo saggio si riduce all’affermazione che gli storici marxisti italiani hanno trascurato il tema più suggestivo che la loro formazione ideologica avrebbe dovuto indicare alla loro attenzione di studiosi di storia. Osserva infatti il Romeo che i marxisti italiani (con la parziale eccezione di Emilio Sereni) hanno tralasciato di indagare le vie per cui si è compiuta in Italia l’accumulazione capitalistica. Invece di imboccare questa via maestra, gli studiosi marxisti si sarebbero lasciati sviare dalla tesi di Gramsci sul Risorgimento, attingendo da questa lo stimolo principale per il loro lavoro. La mancata rivoluzione contadina, l’incapacità del partito d’azione a realizzare l’alleanza di tipo giacobino fra borghesi e contadini e, per ciò stesso, l’inevitabilità della sorte, cui esso si condannava, di subire l’egemonia politica dei moderati segnerebbero il limite o addirittura il fallimento dell’intero processo unitario. Contro questa tesi venivano finora fatte valere, da parte non marxista due obiezioni fondamentali: la prima insisteva sulla pregiudiziale che la conoscenza di un processo storico effettivamente accaduto non riceve alcuna luce dall’immaginare una processo diverso; la seconda denunciava nella posizione di Gramsci la proiezione verso il passato di preoccupazioni di ordine pratico, proprie di chi, nel primo dopoguerra, aveva constatato l’insufficienza dell’azione del partito socialista nelle campagne. Il Romeo, da parte sua, accetta la seconda obiezione, trascura – et pour cause – la prima e ne aggiunge due nuove.


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Tra gli aforismi cui è spesso affidata la circolazione del pensiero crociano, quello secondo cui la storia non si fa con i “se” è forse il più noto. Nel saggio di Nord e Sud il Romeo non solo evita di sbandierarlo vittoriosamente contro la tesi Gramsci sul Risorgimento, ma si spinge anche più in là: accantonata la pregiudiziale metodologica, lo sviluppo ipotizzato dal Gramsci viene sottoposto ad una duplice ed approfondita analisi, che investe, da un lato le possibilità oggettive (in senso marxista) di un suo effettivo accadimento e, dall’altro, paragona la pretesa progressività dell’attività della rivoluzione agraria con la struttura sociale ed economica realizzatasi in Italia attraverso il Risorgimento. Il risultato dell’analisi è, in entrambi i casi, una risposta negativa: la rivoluzione agraria non si poteva e non si doveva fare, pena l’arresto del processo di crescita dell’Italia moderna. A tale proposito il Pavone rimprovera al Romeo «di prendere troppo alla lettera, cambiandone il segno, i se di Gramsci». Certo, il procedimento usato dal Romeo, qualora non si voglia considerarlo (il che non credo legittimo) un puro artificio polemico, solleva problemi assai complessi che esulano dal contesto di una discussione sulla storiografia politica marxista. Al di là di un’interpretazione letterale dell’aforisma che ho citato più sopra, la possibilità di dialettizzare la ricostruzione di svolgimenti diversi ed ipotetici offre in concreto un buon sussidio alla conoscenza storica. Resta il problema di precisare i limiti entro cui questo procedimento non conduce a perdersi dietro storie immaginarie. Nel nostro caso, mi sembra che proprio quell’operazione di cambiamento di segno, cui il Pavone accenna felicemente in un inciso, sia il punto su sui occorre insistere: infatti è solo attraverso di essa che un’ipotesi di per sé sviante può essere piegata a qualificare meglio, anche se indirettamente, il processo in questione. Nel suo intervento, Claudio Pavone ha creduto di poter trascurare un secondo argomento che il Romeo oppone alla


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tesi di Gramsci, sia pure sacrificandolo in una mezza paginetta. Ricerche recenti hanno dimostrato che, nel 1860, l’alternativa democratica alla soluzione moderata fu qualcosa di ben reale. Cade così anche la premessa storico-politica della tesi del Gramsci, secondo cui il partito d’azione ha mancato d’iniziativa propria e ha subìto perciò fino in fondo la direzione dei moderati. Per l’influenza che ha avuto nel determinare ricerche storiche particolari e per il favore con cui è stata passivamente accolta da vari settori della cultura italiana (si sfoglino, a riprova, le vari riviste d’avanguardia cattoliche!), la tesi del Gramsci sulla mancata rivoluzione contadina meritava un discorso serio e meditato come quello di Rosario Romeo. Ed è naturale che questo aspetto del saggio di Nord e Sud resti al centro del dibattito. Ma c’è un altro lato del saggio stesso che merita anche la nostra attenzione. Le esigenze della battaglia politico-culturale non inducono certo il Romeo a smettere la propria veste di storico di mestiere, preoccupato dei progressi della sua disciplina. È perciò naturale che egli lamenti come il successo incontrato dalla impostazione del Gramsci abbia portato i ricercatori marxisti a trascurare i temi essenziali che il marxismo stesso proponeva alla meditazione storiografica. Mentre era da sperare che la concezione etico-politica del Risorgimento fosse integrata ed arricchita da una storiografia attenta allo sviluppo delle strutture economico-sociali, gli storici marxisti, che disponevano degli strumenti adatti a ciò, si sono troppo spesso limitati ad individuare nelle varie insurrezioni contadine i prodromi della mancata rivoluzione nelle campagne. A questa direzione di ricerca, rivelatasi piuttosto sterile, il Romeo ne contrappone un’altra, che ha come tema centrale «il compito che si poneva agli uomini del Risorgimento sul piano economico-sociale, e che essi risolsero nel modo più coerente alle condizioni dell’Italia del tempo», compito consistente nel «potenziamento forzato


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dell’economia capitalistica cittadina del Nord» e nella unificazione del mercato, «quali premesse storicamente indispensabili per l’ulteriore riscatto e per la trasformazione delle campagne meridionali». È proprio la formulazione di questa ipotesi di lavoro che induce il Pavone a parlare di un preteso classismo del Romeo, di un suo marxismo reazionario, per concludere con l’accusa più precisa di determinismo economicistico. Secondo il Pavone, la definizione del Risorgimento che si può ricavare dalle obiezioni rivolte da Romeo alla tesi di Gramsci, sarebbe la seguente: «il Risorgimento è il processo storico attraverso il quale la borghesia italiana crea le forme politiche più atte perché proceda nel modo più spedito l’accumulazione capitalistica». Tale illazione è arbitraria. Una volta accettato il punto di vista secondo cui il Risorgimento italiano, ben lungi dal risolversi nell’unificazione politico-territoriale, rappresenta l’epifania del mondo moderno in territorio italiano, non si comprende infatti come, nell’indicare le strade attraverso cui si è svolto tale processo, si possa prescindere dal considerare le tappe dell’ammodernamento della struttura economica della penisola, quasi che, anche a prescindere da suggestioni weberiane che in questo caso non c’entrano affatto, i modi di produzione capitalistica non costituiscono un connotato essenziale di quello che noi intendiamo per mondo moderno. L’Europeo/Lettere al giornale [prima del 3 novembre 1964] Il diario di Jerry Shank «Gentile direttore, chiunque legga con un po’ di attenzione le lettere del capitano pilota Jerry Shank, pubblicate nel numero 34 dell’Europeo, non può non notare la singolare coincidenza delle tesi che emergono dalle lettere stesse con alcuni dei punti della piattaforma del candidato repub-


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blicano alle elezioni presidenziali Usa. Un’elementare prudenza avrebbe dovuto consigliare di mettere in luce tale coincidenza, forse non del tutto fortuita. Senza pensare a un falso (benché i falsi non siano un privilegio esclusivo del Medioevo), potrebbe trattarsi di un abile montaggio. Le lettere, fra l’altro, non sono date nel loro testo completo. È troppo viva e giustificata la preoccupazione di molti per l’isterismo del signor Goldwater, perché si possa dare in pasto ai lettori un documento come le lettere del capitano pilota Jerry Shank, caduto nel Vietnam, senza accompagnarle da una parola di commento. Perché se fosse vero che le tesi di Goldwater sono così popolari nelle forze armate americane, ci sarebbe solo da aver paura del nostro futuro». L’Europa/L’Università (Supplemento sull’istruzione superiore e la ricerca), 15 gennaio 1975 nota siglata G.A. e P.U. [Paolo Ungaro] L’Università sta male. Ma non è detto che abbia un peso tale nella vita della Repubblica da giustificare un trattamento preferenziale – un «trattamento» tutto per sé –, rispetto, per esempio, agli Enti previdenziali e agli ospedali, per non parlare dei tribunali e delle altre istituzioni scolastiche, dalla scuola materna ai licei, che stanno altrettanto male, e forse peggio, e coinvolgono un numero di gran lunga maggiore di cittadini. Non è, comunque, un problema di numeri. Quelli che circolano intorno all’Università sono spesso, più che numeri, cifre esclamative del tipo di quelle con cui i cronisti medievali davano conto dei morti di una battaglia o di un’epidemia, indicazioni approssimative di grandezza, in ogni modo niente affatto «eloquenti», come pretende la retorica fiorita sull’arte statistica. Ricordiamo di avere assistito, in un consiglio di Facoltà, allo scontro assai vivace fra due


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professori, la cui buona fede era in entrambi i casi fuori discussione, i quali, cifre alla mano, attribuivano l’uno dodicimila, l’altro ventimila studenti alla Facoltà in questione. Morale: per contare gli studenti, bisogna sapere che cos’è uno «studente», e questa, oggi come oggi, è una nozione oltremodo incerta. L’Università come «anello più debole del sistema». È l’intuizione di base della strategia rivoluzionaria del ’68, la premessa dell’ultima ora di celebrità dell’istituzione universitaria nel nostro paese. Dopo di che, nonostante qualche sporadico sussulto, il silenzio della dissoluzione, interrotto solo, di quando in quando, dai clamori a freddo delle richieste corporative. Università, insomma, perché? Perché riteniamo che, intorno a questo tema, possa ancora fiorire quella che, nell’editoriale di questo numero del nostro giornale, è definita un’«amicizia intellettuale», l’incontro fra un gruppo di persone di diversa origine, provenienza, esperienza, che non siano disposte a prendere atto del tramonto di quest’istituzione, una lagrima e via, ma che, anche nel caso che dovessero giungere alla conclusione che essa è irriformabile, si preoccupino già di pensare a quello che domani si dovrà pure inventare per sostituirla. La nostra proposta consiste anzitutto in un invito a guardare indietro per vedere se è possibile, confrontando i giudizi dei singoli sull’accaduto, raggiungere qualche punto fermo che ci consenta di esorcizzare il passato, voltare pagina e andare avanti. Perciò ogni «supplemento», a partire dal prossimo, conterrà una serie di interventi su un singolo tema, alternando la rimeditazione di ciò che è stato alla discussione di precisi nodi di carattere istituzionale, che, a nostro avviso, non hanno avuto finora l’attenzione che meritavano. Inoltre, e non per semplice omaggio alla testata di questo giornale, uno sguardo sarà sempre rivolto a ciò che si è


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fatto e si fa fuori dall’Italia, in Europa e nel mondo, perché se è vero che, anche in questo campo, la «crisi» ha una faccia tipicamente italiana, è anche vero che la vecchia Università è in crisi dovunque e non si può continuare ad operare in questo campo, come se gli altri non esistessero. Ma, con o senza riforma, l’Università esiste e continua, a suo modo, a funzionare, mentre diventa sempre più difficile entrare in possesso di informazioni sicure e non tendenziose circa i progetti che bollono in pentola e, addirittura, circa i tempi e i modi di attuazione di ciò che è stato già deliberato. Per venire incontro a questa esigenza, il nostro «supplemento», sempre a partire dal prossimo numero, conterrà anche un ampio notiziario. L’Europa/L’Università (Supplemento sull’istruzione superiore e la ricerca), 15 gennaio 1975 Voltare pagina …nelle more dei provvedimenti urgenti… Sono passati i tempi in cui l’Università faceva notizia sulla prima pagina dei quotidiani. Sono passati anche i tempi nei quali la «filosofia del docente unico» figurava fra i punti qualificanti delle piattaforme programmatiche dei governi di centro-sinistra. Dal ’68 ad oggi sono stati elaborati due progetti di riforma dell’Università, ma nessuno dei due è arrivato in porto, anche se il secondo ci è andato vicino. Nel frattempo abbiamo avuto la liberalizzazione degli accessi e dei piani di studio che ha consentito o facilitato la conquista della laurea a qualche centinaio di migliaia di persone. E l’anno scorso, con i «provvedimenti urgenti», si sono poste le basi per la sistemazione in cattedra di qualche decina di migliaia di assistenti e incaricati. Nel discorso programmatico dell’on. Moro, l’Università si è visto riservato un brevissimo cenno che presenta qualche lato di interesse


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(se ne parla altrove, su queste stesse pagine). In un bilancio di fine anno apparso su «Il Giornale» del 27 dicembre, un «osservatore scolastico» non privo di acume registra «un tenue processo di ripresa a livello universitario». Il moderato ottimismo di Giovanni Gozzer si fonda sulla constatazione che emergono, qua e là «cauti atteggiamenti di consapevolezza» in concomitanza con «il rigetto psicologico dell’estremismo verbale e inconcludente dei vari movimenti e gruppuscoli». Limitatamente ad alcune sedi e ad alcune facoltà il giudizio è probabilmente esatto, anche se non sarebbe difficile allegare una serie di situazioni locali che presentano un andamento difforme, benché – come dicevamo all’inizio – gli episodi relativi non facciano più notizia. È solo da domandarsi se sia lecito usare unicamente questi parametri per misurare le condizioni di salute dell’istruzione universitaria nel nostro paese. Certo, se fosse perdurato il clima del ’68 – e là dove perdura, il nostro discorso cessa di essere ipotetico –, ogni prospettiva di ripresa sarebbe stata illusoria. Ma non bisogna mai dimenticare: I) che l’Università italiana si trovava alla vigilia del ’68 in una situazione di gravissima crisi che la rendeva inadatta a svolgere i propri compiti in un paese come il nostro, allora in via di sviluppo; II) che, interpretando a modo suo le istanze del ’68, la classe politica, pur incapace di varare una vera e propria riforma, ha di fatto «riformato» l’Università con i provvedimenti cui si accennava più sopra. Ne consegue che è impossibile applicare agli atenei di Milano, di Napoli o di Roma una diagnosi del tipo di quella che Alberto Ronchey ha proposto per Berkeley sul «Corriere della Sera» di qualche giorno fa, confermando la sostanza delle condizioni del libro di J. Katz recensito… Lì, dove la grande rivolta ha avuto inizio, il fatto di constatarne il riassorbimento e il riflusso ha un significato ben diverso che da noi. A meno di non far finta di prendere sul serio i ciclostilati dei gruppuscoli di casa nostra che, riecheggian-


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do acriticamente i motivi della polemica d’oltre Atlantico, accusavano di «efficientismo neo-capitalistico» la fabbrica scassata della nostra istituzione superiore… Ma, scrivendo, la penna mi ha preso la mano e mi accorgo di aver dato prova, per primo, della cattiva abitudine che questo articolo si proponeva di denunciare. Falliti come classe di governo dell’Università, affidata fino a ieri (pur con certi limiti) alle loro sole mani, i professori universitari hanno cercato di consolarsi delle amarezze subite costruendosi, ciascuno per contro proprio, una versione fatta su misura degli avvenimenti di cui sono stati spettatori e vittime. Poiché i professori, checché ne sia stato detto, sono nella maggioranza dei casi abbastanza intelligenti, queste versioni presentano tutte qualche motivo di interesse. Il guaio è che non solo ciascuna di esse si differenzia da tutte le altre, ma che non si è mai nemmeno tentato di confrontarle fra loro, secondo i dettami del buon metodo storico positivo. Così, sono sicuro che le due proposizioni affacciate più sopra e che, a mio avviso, peccano semmai di ovvietà, non sono affatto condivise dalla generalità di coloro che, come me, hanno vissuto dall’interno, in questi anni, il dramma dell’Università. Forse sono anche delle proposizioni false. Falliti anche come storici o, almeno, come cronisti delle traversie proprie e dell’istituzione, i professori universitari hanno avallato con il loro silenzio una delle più insidiose campagne di disinformazione cui si sia assistito negli ultimi anni. Finita la stagione delle barricate, quando i titoli a lettere cubitali informavano i borghesi sgomenti che i loro figli occupavano le sedi universitarie «perché volevano studiare di più» (ma, da questo punto di vista, chi è senza peccato scagli la prima pietra!), è cominciata l’età delle statistiche. Tanti studenti, tanti professori; dividendo il primo dato per il secondo si otteneva un risultato che, in forma più eloquente di ogni discorso, forniva la misura della crisi


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dell’Università italiana. Nessuno che si chiedesse qual era la natura delle prestazioni che gli studenti (nel frattempo era intervenuta la «liberalizzazione») si attendevano dai loro professori, in proporzione sempre meno numerosi, oltre agli esami di profitto da scaglionarsi lungo l’intero corso dell’anno scolastico, in sessioni sempre più frequenti. C’era sotto la grande spinta costituita dal legittimo desiderio di un «posto» all’interno dell’Università, nutrito dalla vasta schiera di coloro che l’Università stessa aveva utilizzato e, in più di un caso, sfruttato nella forma umiliante di un bracciantato semigratuito, privo comunque di ogni garanzia di stabilità. Ma, laddove, nel resto del mondo, l’espansione dell’istruzione universitaria aveva prodotto sempre nuove articolazioni nel corpo insegnante, si voleva che qui da noi la sistemazione in ruolo dei precari avvenisse al massimo livello e per puri meriti di anzianità, senza il controllo di un concorso. Suffragata dalle statistiche, nasceva così la «filosofia del docente unico», che è l’unica idea nuova emersa dopo il ’68 e che ha dovuto il suo successo al fatto di essere da un lato, una tesi corporativa (e quindi capace di mobilitare delle forze reali operanti nell’Università) e di riproporre, dall’altro, alcuni dei miti del ’68 medesimo. Essa venne infatti presentata come unico correttivo radicale dell’«autoritarismo accademico» e come strumento di assemblearizzazione dei costituendi dipartimenti, che altrimenti, permanendo la varietà dei livelli (ordinari, aggregati, assistenti), avrebbero perpetuato i vizi delle vecchie facoltà. Tutta la stampa e praticamente tutte le forze politiche organizzate, con la sola eccezione del partito repubblicano, hanno fatto propria, a un certo momento, la tesi del «docente unico». Come ciò sia potuto accadere, è un interrogativo che resta per ora senza risposta possibile. Basti dire che, a tutt’oggi, nessun esponente qualificato della politica scolastica ha ancora osato mettere apertamente una pietra


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sopra la «filosofia del docente unico». E difatti, nel redigere il testo dei «provvedimenti urgenti», si è avuta la massima cura nel presentare come solo livello di personale docente, esistente a pieno diritto, quello di professore ordinario. Non che manchi la menzione di altri livelli, ma di tutti si è badato a precisare bene che si tratta solo di situazioni provvisorie (Ci risentiremo quando coloro i quali hanno sottoscritto i contratti di studio quadriennali di nuova istituzione, si troveranno, a quadriennio scaduto, senza la prospettiva di sistemazione in vista. Allora è probabile che gli interessati si coalizzeranno per ottenere che venga ristabilito il vecchio ruolo degli «assistenti»). Ancora una volta, la penna ci ha preso la mano e ci troviamo a discutere di temi (il «docente unico») dei quali si è parlato anche troppo, in un senso o nell’altro, mentre siamo convinti che occorra voltare pagina e andare avanti. Dicevamo i «provvedimenti urgenti». Se ne è già detto tutto il bene e tutto il male che meritavano. Probabilmente, ciascuno di noi, al posto di chi si è assunto con coraggio la responsabilità di tradurre in provvedimento legislativo il bilancio del fallimento e delle inadempienze di un decennio di politica scolastica, non avrebbe fatto meglio. E, se è vero che il punto principale di questa legge è costituito dai mille e mille concorsi a cattedra che essi prevedono, ne consegue anche che le responsabilità di far sì che non abbiano motivi di compiacimento coloro i quali, fino all’ultimo, di concorsi non ne volevano affatto e propugnavano invece i vari ope legis di infausta memoria, spetta solo ed esclusivamente ai professori chiamati, per sorteggio, a far parte delle commissioni giudicatrici. C’è da sperare che, in questa occasione, molti siano capaci di quello scatto d’orgoglio professionale, in mancanza del quale è inutile lamentare che le leggi non siano tempestive e buone come si vorrebbe. Diamo per dimostrato che i «provvedimenti urgenti» siano una discreta legge che aiuta a risolvere i problemi di


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sistemazione personale di qualche decina di migliaia di persone che lavorano nell’Università. Resta il fatto che non rappresentano comunque più che questo, e si concederà che non è lecito continuare a credere che i problemi dell’istruzione superiore nel nostro paese siano solo problemi di «sistemazione». La proposta che parte dalle colonne di questo giornale può essere così formulata: dato che gli adempimenti connessi con l’attuazione della legge suddetta garantiscono un po’ di respiro, vediamo se è possibile aprire sull’Università, sul suo modo di essere, sul futuro che l’attende, un dibattito che esca dai binari consueti sui quali si è svolta la discussione nell’immediato passato, a partire dal momento – diciamo – della fase di gestazione del progetto Gui. Problemi di fondo come «l’autonomia universitaria» hanno avuto, per esempio, che io sappia, una scarsissima attenzione. Per ciò che concerne quello che si fa fuori d’Italia, mentre le cronache delle agitazioni studentesche sono state sempre ampie e documentate, pochissimo si è scritto sulle riforme che, con esiti diversi, sono state tentate qua e là. Sono solo due esempi, ma indicativi di un metodo che intendiamo seguire con rigore critico e senza compromessi con una falsa idea dell’attualità. È fuori dubbio che le grandi scelte di politica scolastica devono essere fatte, in un paese moderno, in sede di discussione politica. Che non si sia fatto così anche in Italia, è la vera colpa della classe politica democratica, molto più grande di quella che gli viene contestata di solito, di non avere avuto il coraggio di impiegare la forza per tutelare nelle facoltà la serenità necessaria allo studio. Ma, di fronte a un parlamento che riprendesse a parlare di istruzione superiore in Italia all’interno di una ipotesi di sviluppo dell’intera comunità nazionale, anche l’istituzione in cui finora l’istruzione superiore si incarna, cioè a dire l’Università, avrebbe una sua parola da dire. Poco sensibili per tempera-


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mento alla dialettica corporativa delle «componenti» universitarie, ci sentiamo attratti dalla prospettiva di un confronto di opinioni fra l’Università in cui operiamo, e le forze politiche, economiche e sociali del paese, di cui siamo al tempo stesso cittadini. Ciò che ha turbato le regole del gioco negli anni scorsi non è stata tanto la pretesa di sottrarci alla famosa «torre di avorio», quanto il fatto che la forzata rinuncia alle nostre abitudini ci sia stata imposta da forze che non interpretavano affatto interessi reali della comunità nazionale. Di qui nasce il senso di frustrazione che caratterizza il mondo universitario nel suo complesso e in particolare quanti, al suo interno, non intendevano vivere di nostalgie per un passato molto meno roseo e glorioso di quello che alcuni vorrebbero far credere, ma che non intendono nemmeno rinunciare alla specificità della loro funzione. Essa, per dirla in breve, consiste nell’esercizio, a livello dell’insegnamento e della ricerca, di ciò che senza enfasi chiameremo il pensiero critico. L’Europa/L’Università (Supplemento sull’istruzione superiore e la ricerca), 15 febbraio 1975 Le libertà universitarie e la polizia negli atenei nota siglata G.A. e P.U. [Paolo Ungaro] Verso la metà degli anni sessanta sembrò che stesse per scoccare l’ora di una riforma dell’Università nel nostro paese. Non è ancora ben chiaro per quali ragioni, varata la scuola dell’obbligo (1962), i pianificatori del centrosinistra avessero deciso di mettere subito in cantiere la riforma universitaria e non, per esempio, la riforma della scuola media superiore. Per non parlare della scuola materna, che era ancora tutta da fare. Anche i disegni dei pianificatori sono oscuri come quelli della Provvidenza, tanto da fare talvolta dubitare che essi davvero esistano.


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Non che l’Università non avesse bisogno di essere riformata. Ne aveva, e come. E difatti, non appena si ebbe l’impressione che le forze politiche fossero decise a fare sul serio, qualcosa cominciò a muoversi anche all’interno dell’Università, sia fra i professori che fra le altre «componenti» (è allora che il temine entrò nell’uso). Nella prospettiva dell’imminente riforma, lo storico steccato fra laici e cattolici, che negli atenei – almeno in alcune facoltà – si ergeva ancora, creando divisioni del tutto fittizie, buone solo a dare una parvenza di legittimità alle mafie concorsuali, cominciò a vacillare. In molte sedi si delinearono degli schieramenti riformisti, che ripetevano «grosso modo» le linee del centro-sinistra. Nella fucina dell’on. Gui, gli universitari che gravitavano intorno al «Mulino» lavoravano gomito a gomito con l’on. Codignola. Su questo quadro promettente si rovesciò la «lotta dura senza paura» sperimentata dapprima nei «campus» delle progredite università U.S.A., in attesa di dare maggiore prova di sé sui «boulevards» del Quartiere Latino. Ritorneremo sull’argomento in un’altra occasione. Per oggi, ci basti ricordare che, d’un tratto, le solidarietà riformistiche che andavano intrecciandosi fra professori, per lo più giovani, ma di diversa provenienza politico-ideologica, caddero in frantumi. Di fronte al dilemma «fare intervenire» o «non fare intervenire» la forza pubblica, le amicizie sorte nei giorni in cui si discuteva pacatamente sui poteri del «consiglio di amministrazione» nel progetto Gui, cedettero il campo a un clima di sospetto e di diffidenza reciproca. Irresponsabilmente, la mancata approvazione del suddetto progetto di riforma fu salutata quasi con un respiro di sollievo. Radicalizzando la lotta, i giovani del movimento studentesco volevano costringere i professori ad abbandonare la falsa neutralità della scienza, a dichiararsi, a prendere partito. Ottennero il risultato di far bollare come «fascista» da una parte dei suoi colleghi chi si richiamava al principio


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della territorialità del diritto, irrinunciabile per lo stato moderno; e di far passare da spericolato progressista chi, con altrettanta buona fede, riteneva che la contestata istituzione universitaria si potesse meglio difendere nel rispetto degli antichi, forse ormai ingiustificabili, privilegi che tuttora vagamente la circondano. Se torniamo sull’argomento, non è per amore di concordismo ad ogni costo: nei loro articoli, Caputo e Orti sostengono tesi del tutto divergenti; ma per cercare di sanare quelle vecchie ferite, più sanguinanti di quanto non si creda, riproponendo questo tema fuori del clima rovente in cui fu allora dibattuto, con il nemico (si fa per dire) alle porte. Anche un estraneo alla «corporazione», Mario Cervi*, è stato invitato a dire la sua, a riconferma del punto di vista – ovvio per noi – secondo cui ciò che accade nell’Università non può interessare solo gli addetti ai lavori, ma l’intera comunità nazionale. L’Europa/L’Università (Supplemento sull’istruzione superiore e la ricerca), 15 febbraio 1975 La scheda dello storico Il primo privilegio scolastico fu concesso da Federico Barbarossa nel 1158 ai professori e agli studenti di Bologna, quando non era ancora sorta la associazione o univesitas, che gli studenti forestieri avrebbero in seguito costituita, per meglio tutelare i loro interessi nei confronti sia del Comune che dei professori medesimi. Le concessioni di Federico vertevano in sostanza su due punti: l’esenzione dalle «rappresaglie», che rappresentavano un modo, allora in uso, di rivalersi sugli averi dei connazionali di un debitore altrimenti * Mario Cervi, 1921-2015, fondatore, con I. Montanelli, de Il Giornale.


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irraggiungibile; e il diritto di adire, a scelta, se chiamati in giudizio, il tribunale del vescovo oppure il proprio professore, in veste di giudice. Poiché gli studenti erano allora, nella quasi totalità, dei clerici, cioè a dire «tonsurati», la seconda concessione non faceva che ribadire il punto già acquisito del «foro ecclesiastico», salvo la novità del professore che veniva così equiparato al vescovo-giudice. Entrato a far parte del codice delle leggi imperiali (quello decretato da Giustiniano, e che gli imperatori medievali continuarono ad arricchire con la loro designazione), il «privilegio scolastico» del Barbarossa acquistò validità universale. Il secondo passo avanti fu fatto a Parigi, nel 1200. In una taverna venne assalito il servo di un nobile studente di Liegi. Ne nacque una rissa. L’oste venne picchiato di santa ragione e lasciato – ci assicura un cronista – più morto che vivo. Il capo della polizia di Parigi («prevosto»), alla testa di una banda armata di cittadini, organizzò una spedizione punitiva contro la casa-albergo degli studenti tedeschi. Gli studenti aggrediti si difesero, ma alcuni di loro – cinque, per la precisione – vennero uccisi. Tra di essi, lo studente di Liegi, il cui servo era stato all’origine di tutto. I maestri dello Studio, non ancora riuniti nella loro associazione, o universitas, ma già abbastanza influenti da fare sentire la loro voce, si appellarono al re, minacciando la sospensione delle lezioni. Il re, che era Filippo II Augusto, destituì ed imprigionò a vita il prevosto, promettendo che il successore di questo nonché il popolo di Parigi, si sarebbero impegnati con giuramento, da prestarsi davanti agli studenti, a rispettare una serie di guarentigie che il sovrano concedeva, seduta stante, agli studenti medesimi. Il re di Francia era il sovrano di un regno particolare, e le sue statuizioni non pretendevano dunque a una validità universale come quella dell’imperatore. Ma il privilegio di Filippo rimbalzò lo stesso da Parigi a Bologna, ad Oxford, e via, via a tutte le nuove sedi universitarie.


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Nel 1231, in un documento fondamentale per la storia delle università medievali, papa Gregorio IX richiamò le guarentigie che il re di Francia aveva riconosciute nel 1200 agli studenti parigini. Tre anni prima c’era stata a Parigi, un’altra crisi, anch’essa cagionata da futili motivi (un litigio fra un oste e un gruppo di studenti circa il prezzo dell’ottimo vino «et ad bibendum suave» che avevano scovato presso di lui), ma produttrice di conseguenze ben più gravi di quelle del 1200. Infatti nel 1228, maestri e scolari, per non avere ottenuta ragione, abbandonarono le rive della Senna, disperdendosi per tutta la Francia. Il papa era poi intervenuto, dando tutta la ragione agli universitari e tutto il torto al vescovo, che sovrintendeva alle scuole di Parigi. Nel 1231, appunto, il compromesso poteva dirsi raggiunto, gli universitari tornare, le lezioni riprendere regolarmente, mentre la «immunità universitaria» faceva un altro, notevole passo avanti. Ma il documento del 1231 non è noto solo per la parte relativa ai rapporti fra universitari e amministrazione della giustizia. È anche il documento che apre di fatto le porte allo studio di tutto Aristotele nelle scuole parigine. È, soprattutto, il documento che riconosce di fatto all’«università» dei maestri il diritto di cooptare i nuovi membri della corporazione, riducendo di converso i poteri del «cancelliere», il quale pure continuava a conferire la licentia docendi in nome del vescovo. Fino a che punto questi privilegi universitari, almeno nel momento della loro genesi, possono essere considerati separatamente uno dall’altro? Fino a che punto oggi è possibile e prudente far getto della tradizione?


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L’Europa/Editoriali, 28 febbraio 1975 Il voto nelle università Si è votato nelle Università per la designazione dei rappresentanti degli studenti nei Consigli di amministrazione, nell’Opera universitaria e nei Consigli di facoltà. Queste elezioni, che, a differenza di quelle di una volta per i consigli interfacoltà, sono previste e regolate da una legge della Repubblica, erano state sempre osteggiate dai cosiddetti «gruppuscoli», eredi morali della contestazione del ’68, che aveva fatto dell’assemblea di tutti gli studenti non tanto e non solo un efficace espediente di mobilitazione, quanto addirittura di un mito politico-ideologico di pretesa derivazione leninista. L’assemblea poteva, nel caso, esprimere dei «delegati»; dei rappresentanti stabili, mai. La loro elezione sarebbe servita solo a dividere la massa degli studenti, fiaccandone l’energia rivoluzionaria. Così stando le cose, è certamente un fatto positivo che le elezioni si siano potute tenere. Ma non esageriamo, per carità, la portata di questa vittoria della Repubblica sui nemici dichiarati. Sopravvalutata anche nel ’68, la forza d’urto degli studenti è ridotta nel ’75 a un’entità trascurabile. Quanto ai riflessi che le avvenute elezioni dei rappresentanti degli studenti potranno avere sulla funzionalità degli organi di governo dei quali essi sono stati chiamati a far parte, ogni previsione è possibile. È probabile che una presenza studentesca, più che giustificata nell’Opera universitaria, possa anche concorrere a dare autorità ai Consigli di amministrazione, troppo spesso ridotti a mettere lo spolverino su decisioni già prese dall’onnipotente burocrazia universitaria con la complicità di rettori preoccupati soprattutto di mantenersi in equilibrio. Tanto meglio se la rappresentanza studentesca, portatrice in teoria di istanze di carattere generale, entrerà in un rapporto di dialettica costruttiva con i rappresentanti, in seno agli stessi consigli, delle forze socia-


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li e degli enti locali. Ma questo, appunto, è ancora da vedersi. Come è da vedersi che cosa i rappresentanti degli studenti potranno fare nei Consigli di facoltà, che le recenti immissioni in ruolo e la stabilizzazione degli incarichi hanno di fatto già «assemblearizzato», soprattutto nelle sedi più grandi, snaturandoli completamente. Non vorremmo che la presenza dei rappresentanti degli studenti, selezionati in base all’attitudine a parlare in assemblea, contribuisse ad escludere in pratica dal dibattito dei valentuomini che siedono in quegli stessi consessi per avere dimostrato in vita loro attitudini non propriamente oratorie. Da più parti si è messa in rilievo la scarsa partecipazione degli studenti a queste elezioni. In previsione di ciò, era stata a suo tempo eliminata una norma che prevedeva, per la validità delle elezioni medesime, un minimo di votanti. Ma va onestamente riconosciuto che le percentuali sono press’a poco le stesse che si avevano una volta, quando si votava per l’interfacoltà. E, per quanto il calcolo sia difficile a farsi, riteniamo non infondato il giudizio di chi ritiene che la percentuale dei votanti sia stata, in ogni caso, superiore a quella degli effettivamente frequentanti. Il che costituisce, dobbiamo ammetterlo, una bella consolazione, considerati i fini dell’istituzione universitaria. Ma questo è un tutt’altro discorso, e ci proponiamo di riprenderlo in sede opportuna. Oggi come oggi, resta piuttosto da sottolineare un aspetto di questa vicenda sul quale la stampa quotidiana ha pietosamente sorvolato. Le recenti elezioni dei rappresentanti degli studenti negli organi di governo delle Università sono state le prime elezioni non libere che si siano tenute in Italia dopo la liberazione. Sorprende che chi a suo tempo, non del tutto ingiustificatamente, menava scandalo per i vecchi trascinati alle urne dai volontari dei Comitati civici, abbia lasciato passare senza una parola di condanna ciò che è accaduto intorno alle urne durante le elezioni dei giorni scorsi.


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Sappiamo benissimo che si trattava di elezioni sui generis, svolgentisi in un ambito che, in forza di una tradizione secolare del cui fondamento abbiamo pacatamente discusso nel numero scorso de «L’Europa», è in parte sottratto alla legge comune. Ma poiché ricordiamo come alcuni «comportamenti collettivi» (i sociologi li chiamano così), sperimentati negli atenei negli anni della contestazione, siano poi con facilità passati su terreni diversi (le piazze, le fabbriche, le stazioni ferroviarie etc.), non vorremmo che si creasse, nella disattenzione generale, un precedente pericoloso. Lungi da noi l’idea che, in Italia, dal ’45 in poi si sia votato bene; ma è indubbio che si è votato sempre liberamente. Guai se questo punto all’attivo della nostra convivenza civile dovesse andare perduto. Si è cominciato col dire che i «fascisti» non avevano diritto a presentare le loro liste. È una posizione che ha una sua legittimità storica e persino costituzionale. Ma le difficoltà iniziavano dal momento in cui si prendeva a stabilire in concreto chi debbano essere gli esclusi: gli anticomunisti? gli acomunisti? i democristiani sospettati di connivenze con i fascisti? Di fatto è accaduto che la lotta elettorale ha avuto in molte facoltà come soli protagonisti, da una parte, chi le elezioni non le voleva affatto, e, dall’altra, chi le voleva, ma escludendo questi e quelli. In conclusione, il boicottaggio dichiarato o l’astensionismo attivo (si apprezzi l’eleganza dell’eufemismo!) hanno in più parti straordinariamente favorito i candidati appoggiati dal P.C.I., svillaneggiati come «revisionisti» sui manifesti murali, ma in grado comunque di esercitare il loro diritto di voto, a differenza dei loro meno organizzati concorrenti, che la prudenza ha indotto a starsene lontani dalle urne. A onore del vero, va riconosciuto che i socialisti per lo più non hanno approfittato dell’occasione per varare candidati loro in liste unitarie di sinistra. Hanno scelto invece apertamente la strada del boicottaggio.


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L’Europa/Appunti, 31 marzo 1975 Gli «arcana imperii» del PCI Anche a costo di apparire dei politici «realisti» (e perciò nel fondo, inguaribilmente ingenui), dobbiamo riconoscere di non aver mai dedicato soverchia attenzione alle discussioni volte a stabilire fino a che punto Togliatti fosse informato, mentre si trovava a Mosca, di ciò che accadeva nelle segrete del Cremlino. Era questo uno dei temi prediletti dai professori dell’anticomunismo nei tempi in cui tale professione aveva almeno il vantaggio di essere redditizia. Da parte nostra, ci limitavamo a pensare che non avremmo mai voluto trovarci nei panni di Togliatti e finivamo col guardare con una certa comprensione a chi in quei panni ci si era invece trovato e ne era venuto fuori vivo. Poiché, in ogni caso, non dovevano essere stati momenti allegri per nessuno, e tanto meno per un Togliatti, come abbiamo avuto tutti modo di conoscerlo dopo il suo ritorno in Italia dall’URSS, seguaci o avversati che fossimo del PCI. Gramsci e Togliatti In un primo momento, siamo rimasti perciò molto sorpresi nel vedere che Davide Lajolo è andato a rimestare questa materia, per raccontarci che Togliatti stesso ammetteva di avere saputo della «purga» dei dirigenti del partito comunista polacco, ordinata da Stalin nel 1937, e di averne taciuto, mentre riconosceva che Gramsci, al posto suo, si sarebbe regolato diversamente, e sarebbe certo finito male. Ma la sorpresa è scomparsa non appena ci siamo detti che Lajolo doveva pur pagare un qualche prezzo per essere ammesso a scrivere su un settimanale come il «Mondo», un circolo del quale si può entrare a far parte dopo aver dato prova nei confronti del Sacro di ogni ordine e grado, se non proprio di un abito costante di spirito critico come si richie-


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deva ai tempi di Pannunzio, almeno di un minimo di spregiudicatezza «radicalborghese», secondo la vulgata di oggi. Subito dopo, ci è sorto il dubbio che le cose non stessero in questi termini, nel senso che a sorprendersi devono essere stati solo quelli come noi, fuori del giro, mentre invece gli adepti potevano benissimo leggere l’aneddoto togliattiano in chiave di disputa accademica sulle «virtù» necessarie al leader del partito-guida della classe operaria, nel qual caso la morale da trarre dall’episodio era che chi aveva evitato il sacrificio personale per restare al suo posto di responsabilità e di comando era senz’altro da preferirsi a chi avesse eventualmente optato per la soluzione opposta. Non avremmo mai pensato a questa interpretazione «casuistica» del racconto di Lajolo se nel frattempo non avessimo visto «Il sospetto»: un film politico di pregevole fattura che non a caso ha attirato l’attenzione di molti giornalisti e scrittori che non fanno il mestiere di critico cinematografico (Fra parentesi, dal momento che basta un film appena un po’ interessante a fare versare fiumi d’inchiostro, vuol dire che ha ragione Nicola Matteucci a lamentare sul «Giornale» che in Italia non ci sia più un vero dibattito di idee). Protagonista del film di Francesco Maselli è un fuoriuscito comunista a Parigi nel ’34, che ha dei conti in sospeso con il PCI, per via di una certa sua ostinata propensione a discutere la linea politica del partito e a non accettare le direttive dall’alto. Adesso però che l’ora del «settarismo» volge al tramonto e si preannuncia il clima in cui maturerà la politica dei «fronti popolari», Emilio è riagganciato ed ammesso a sostenere un esame; dopo di che si vedrà. L’esame si svolge su due piani diversi: davanti ai responsabili dell’ufficio competente in una stanza piena di scartoffie e, peripateticamente, per le strade di Parigi, davanti a una compagna che gli è anche amica, ma che, a differenza di lui, non ha mai fatto passi falsi. Superato l’esame, il figliuol prodigo ha la soddisfazione di veder pubblicato un suo artico-


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lo e di essere incluso nella lista d’attesa per il Comitato centrale. Lo attende di lì a poco una missione di fiducia in Italia. Occorre ristabilire i collegamenti fra i quadri che operano clandestinamente all’interno e il «centro estero» del Partito. Da qualche tempo, i dirigenti partiti da Parigi vengono regolarmente arrestati appena messo piede in Italia; c’è il fondato sospetto di qualche infiltrazione; si decide di adoperare proprio il riabilitato Emilio per rivelare la presenza di eventuali spie. A onor del vero, un dirigente prima della sua partenza, gli spiega di che si tratta. Ma l’interessato, evidentemente, capisce solo a metà, cosicché, a Torino, quando di accorge che stanno per arrestarlo (sapremo poi che la colpa non è di una spia annidata fra i compagni, bensì dei cento occhi dell’OVRA), ritiene in tutta buona fede di dover applicare anche al suo caso l’articolo del minuzioso codice di comportamento che gli avevano fatto imparare a memoria a Parigi, secondo il quale, un dirigente in condizioni come le sue, doveva pensare anzitutto a mettersi in salvo. «Ragion di partito» Soltanto a Milano, dalle labbra del compagno che pur si mostra disposto a fornirgli un nuovo passaporto per il ritorno in Francia, Emilio apprende fino in fondo ciò che in realtà il Partito si attendeva da lui. Posto così brutalmente di fronte all’alternativa fra un umiliante rientro a Parigi – dove lo aspettava (è facile immaginarlo) un esame ancora più severo di quello che aveva subìto prima di essere riammesso nei ranghi, e chissà, questa volta, dati i suoi precedenti, la radiazione definitiva – e il ritorno a Torino, per portare a compimento la missione affidatagli, con la quasi sicurezza di finire in una galera fascista, sceglie Torino e la galera… Allo sbirro che cerca invano di farlo parlare, dichiarerà soltanto, come prescriveva il regolamento: «Sono un militante del partito


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comunista italiano». Ma quando l’altro, che la sa lunga, gli darà dell’idiota perché non si era nemmeno accorto che i suoi si erano serviti di lui come di una cavia, avrà uno scatto di orgoglio e, fuori regolamento, risponderà di essersi scelto questa parte volontariamente e di essere stato a conoscenza fin dal principio del vero scopo della sua missione. Le sequenze più interessanti, dal nostro punto di vista, non sono tanto quelle d’azione, a Torino, dove Emilio viene a contatto con i compagni ingiustamente sospettati di tradimento, quanto quelle parigine e milanesi, dove il «sospetto» – prima nei riguardi di Emilio, poi nei riguardi dei compagni torinesi – viene presentato come l’elemento costitutivo e necessaria «ragion di partito», di fronte alla quale tutti gli iscritti devono inchinarsi. Si badi bene che, con una coerenza di gli cui va reso atto, l’autore del film evita di proposito di calcare la mano sulla eccezionalità della situazione – l’impegno di lotta al fascismo e le forme che tale lotta doveva di necessità assumere –, per giustificare la prassi inquisitoriale dei dirigenti del PCI. L’Italia che si intravede sullo sfondo è quella che si avvia verso gli «anni del consenso» di cui ci ha parlato Renzo De Felice. Il volto odioso della dittatura di rivela solo nella faccia del funzionario dell’OVRA, glabro e tutto azzimato nella scena finale. Agghiacciante storia segreta Che senso ha, allora, per un intellettuale comunista presentare al pubblico italiano di oggi, col beneplacito dell’Istituto Gramsci debitamente ringraziato alla fine per aver fornito del materiale documentario, questa agghiacciante storia segreta, il cui vero protagonista non è il compagno Emilio, ma il Sospetto? Forse che si ritiene di avere già vinto e che sia giunta l’ora di celebrare apertamente, fuori della facile retorica dei «lendemaind qui chantent», il


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lavoro ingrato e paziente di chi, dossier e schedari alla mano, ha costruito pezzo per pezzo il Partito, artefice primo della conseguita vittoria? Vorremmo sapere qualcosa di preciso sulle reazioni del «destinatario del messaggio», come sul dirsi in gergo: il grosso pubblico. Scommetteremmo che, a parte l’ovvio consenso per la libera scelta finale di Emilio di fronte al poliziotto fascista, alla quale plaudiamo toto corde anche noi, l’intimo disagio che abbiamo avvertito quando Emilio accetta di farsi vivisezionare dalla compagna per le vie di Parigi o quando il dirigente milanese prende in esame le schede segnaletiche dei compagni torinesi sospettati, deve accompagnarsi in molti spettatori a un senso di oscura ammirazione per il rigore degli inquisitori e la dedizione assoluta degli inquisiti. In una sua «noterella» del 1938, Benedetto Croce scriveva: «Uno dei sintomi più spiccati delle malattie che affliggono il nostro tempo (ogni tempo ha malattie che possono dirsi sue particolari) è la perdita o la grave diminuzione della fiducia che l’individuo pone in se stesso, e l’avida ricerca di qualcosa che a lui sia esterno (un partito, una chiesa, uno stato, una razza, e via), non già al fine di una seria collaborazione che è sempre anche opposizione, ma per uniformarvisi e dissolversi in esso». Nel film «Il sospetto» questa malattia è descritta con cura ammirevole, ma presentata come una malattia necessaria, addirittura come una premessa di salute. Noi, con Croce, ci ostiniamo a considerarla soltanto come una malattia.


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L’Europa/Università, 16-30 maggio 1975 A che punto siamo con l’attuazione delle «misure urgenti per l’Università»? Un bilancio disinteressato con qualche proposta per risolvere le difficoltà emerse Lo stato d’animo nel quale, a diciassette mesi e mezzo dalla definitiva approvazione delle «misure urgenti per l’Università», ci apprestiamo a fare il punto sullo stato di attuazione delle medesime, è di relativo distacco. Quando sono state approvate, non abbiamo fatto salti di gioia, ma ci siamo resi contro che avrebbero potuto facilmente riuscire molto, molto peggiori. Oggi che le cose nelle università continuano ad andare male, non crediamo affatto che ciò dipenda dalla mancata o ritardata attuazione di qualche articolo della legge n. 766 e, soprattutto, ci rifiutiamo, se non altro per ragioni di elementare buon senso, di gettare la croce addosso al superiore Ministero, il quale si arrabatta come può per applicare la legge, né più né meno di quel che fanno alla periferia, nell’ordine delle rispettive competenze, i consigli di facoltà e i senati accademici. Vediamo, dunque, con distacco, a che punto siamo, limitandoci – se del caso – a qualche nota di commento. Concorsi espletati e commissioni convocate I concorsi – I «concorsi a posti di professore universitario di ruolo» banditi alla fine di giugno del ’74 e destinati ad attribuire il primo dei tre contingenti di 2.500 posti per anno, istituiti in base all’art. 1 della legge, sono in corso di lento espletamento. Da voci raccolte nei corridoi del Ministero risulta che i concorsi espletati sono finora cinquanta; quelli le cui commissioni sono state convocate dal Ministro, centosessanta. A proposito di questi ultimi, va ricordato che, in base al tredicesimo comma dell’art. 2, le commissio-


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ni giudicatrici convocate dal Ministro devono concludere i lavori entro quattro mesi dalla data di prima convocazione. È da presumere che il Ministro imporrà il rispetto di tale norma, valendosi in caso di bisogno della potestà, riconosciutagli dallo stesso comma, di fare sorteggiare una nuova commissione in sostituzione di quella inadempiente. I giudici incompetenti Non siamo riusciti a sapere con esattezza il numero, rispettivamente, delle commissioni non ancora convocate, ma già regolarmente formate e quindi in grado di essere convocate da un momento all’altro (ma dovrebbero essere circa 250), e delle commissioni che non si è ancora riusciti a costituire. Fra queste ultime dovrebbero, a loro volta, essere distinte quelle per cui non si è riusciti a mettere insieme il numero di sorteggiabili previsto dalla legge (ma dovrebbero essere circa una ventina), quelle che, invece, sono state regolarmente estratte, ma che zoppicano in conseguenza della mancata accettazione da parte di qualcuno dei sorteggiati (si parla di quattro dozzine di concorsi). A proposito di questi rifiuti, che sarebbero abbastanza numerosi e a catena, circolano una serie di aneddoti talvolta anche divertenti. Di affinità in affinità, si sono dati casi spassosi di professori sorteggiati per materie di cui non potevano che dichiararsi incompetenti, ed è davvero incomprensibile che da parte di qualcuno si sia potuto pensare che invece lo fossero. Con tanti concorsi banditi contemporaneamente, e con la proliferazione, in parte anche artificiosa, di materie nuove, caratteristica di questi ultimi anni, era da prevedere che si andasse incontro a questa difficoltà, stante la ristrettezza del «parco esaminatori». E, dunque, pare strano che la legge non abbia contemplato una via d’uscita. Si dice che al Ministero ci stiano pensando ora, dal momento che questa impasse rischia di rendere inapplicabi-


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le la legge in uno dei suoi punti più qualificanti, e già si intravedono all’orizzonte le avanguardie sindacali pronte a riproporre la sanatoria dell’ope legis, visto che i concorsi normali non si riesce a farli per mancanza di commissioni competenti. Né basta consolarsi con la prospettiva che, in tutti i modi, la grande maggioranza delle commissioni è stata costituita, perché, alla lunga, la mancata costituzione delle commissioni pregiudicherebbe il funzionamento dell’intero meccanismo concorsuale. Proposta per uscire dallo stallo Perciò, prima di dire no o di insistere nel rifiuto, rendendo pubblica la assurdità della propria situazione, il «sorteggiato incompetente» dovrebbe valutare seriamente le conseguenze del suo gesto. Senza voler coartare la volontà di nessuno, ci permettiamo solo di fare presente che, anche nel caso di «trasferimenti», accade talvolta di dover dare il voto a un candidato piuttosto che a un altro, sulla base di relazioni dense di apprezzamenti tecnici formulati dai competenti della materia, ma valutabili, sia pure in misura diversa, anche da non addetti ai lavori. Poiché, di fatto, nel nostro ordinamento le commissioni giudicatrici dei concorsi a cattedra si configurano come consigli di facoltà costituiti ad hoc per giudicare con maggiore conoscenza di causa i concorrenti specialisti di una determinata disciplina, non dovrebbe essere difficile architettare un sistema per il quale, di fronte alla constatata impossibilità di formare una commissione formata tutta di competenti (o, se si preferisce, di giudici che accettano di farsi passare per tali), si procedesse al sorteggio di una commissione formata solo in parte, se possibile in maggioranza, da veri competenti e, per il resto, da non competenti o da competenti a metà (sorteggiabili al di fuori di qualsiasi criterio di affinità), i quali dovrebbero esprimere il loro voto


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sulla base di relazioni motivate, predisposte dai competenti a pieno titolo, consentendo magari anche il ricorso al parere di esperti stranieri della materia, dato per iscritto e regolarmente verbalizzato. Ciò che si è detto comporta però che, almeno su di un punto, il dettato della legge verrà inevitabilmente disatteso: o, per meglio dire, lo è stato già ampliamente. La legge prevedeva infatti che i 7.500 nuovi posti di professore universitario di ruolo fossero assegnati nel corso degli anni accademici 1973-74, 1974-75 e 1975-76. Tutto lascia credere che sarà un bel successo se, diciamo, fra un anno (e cioè a metà del ’76) sarà stato attribuito il primo lotto di 2.500 cattedre, quello che in teoria avrebbe dovuto essere assegnato entro l’anno accademico 1973-74. Registriamo, insomma, un ritardo di circa un anno e mezzo. Un’occasione per gli «outsider» Poiché la legge prevede, come si è visto, dei termini fissi per lo svolgimento dei lavori, il Ministero dispone degli strumenti necessari per fare sì che il ritardo non abbia ad aumentare ulteriormente. Se ne serva, senza guardare in faccia a nessuno, perché qui l’«autonomia» non c’era per niente. Quanto agli effetti del ritardo in sé, è tutt’altro discorso. In primo luogo, va detto che il ritardo potrebbe essere provvidenziale se si approfittasse del maggiore tempo a disposizione per predisporre le stanze e le scrivanie da assegnare ai nuovi venuti. Non ci facciamo invece nessuna illusione sulla possibilità che nel frattempo divengano meno «introvabili» gli studenti da affidare alle loro cure (mi riferisco al titolo dell’articolo di Antonio Malintoppi pubblicato sul penultimo numero de «L’Europa»). Ma c’è anche un’altra considerazione da fare, senza volere con questo riaprire polemiche che, da parte nostra,


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riteniamo superate. La scelta fatta dal legislatore di provvedere al necessario allargamento del ruolo mediante regolari concorsi aperti a tutti e non mediante immissioni indiscriminate, operate in base a criteri di anzianità, è destinata ad incidere tanto più nelle cose, quanto più tempo passa dal momento in cui la legge è entrata in vigore. Il numero di 7.500 cattedre da attribuire nei tre anni successivi non è stato infatti originariamente determinato in base all’apprezzamento di un auspicabile o prevedibile sviluppo delle nostre istituzioni universitarie, bensì soltanto calcolato come contropartita politico-sindacale offerta dai sostenitori dell’immissione mediante concorsi ai sostenitori dell’ope legis, i quali, considerato il numero delle cattedre messe a concorso, potevano trovare consolazione nell’idea che, nei concorsi stessi, sarebbero riusciti vincitori, «con qualche scarto infinitesimale in più o in meno, le identiche persone che già svolgono la funzione del professore universitario in qualità di incaricati e di assistenti, con vari anni di anzianità» (relazione di Giorgio Spini al congresso del CNU) – col risultato, dunque, di rendere di fatto inutili i concorsi e di dimostrare retrospettivamente che sarebbe stato, se non altro, più economico il sistema dell’immissione in ruolo senza concorso. Ma ogni giorno che passa, e ammesso che i più giovani continuino a studiare, quella equivalenza viene messa sempre più in forse, nel senso che aumenta il numero dei concorrenti al secondo e terzo lotto di cattedre, con la possibilità – per le commissioni giudicatrici – di scovare fuori outsider di talento, che nel 1973 (data di approvazione delle «misure urgenti») non erano ancora in condizione di prendere parte alla gara. In tale senso, e senza volere con questo offrire in nessun modo un alibi a chi non fa il possibile perché i concorsi banditi vengano espletati al più presto, credo che si possa onestamente sostenere la tesi secondo cui, in realtà, il ritardo, per ragioni di forza maggiore, nell’espletamento dei concorsi consente una migliore attua-


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zione della volontà del legislatore, il quale ha voluto che le nuove cattedre fossero attribuite mediante concorsi aperti a tutti i meritevoli, non esclusi i cittadini stranieri. L’Europa/Editoriali, 27 giugno-11 luglio 1975 La «laicizzazione» della DC Nel 1948, il successo elettorale della Democrazia Cristiana fu determinato in larga misura dall’appoggio aperto che il partito dello scudo crociato ebbe dalla Chiesa (vescovi, parroci, ordini religiosi) e dalle organizzazioni collaterali del laicato cattolico. Il 15 giugno la Democrazia Cristiana ha goduto di quest’appoggio in maniera così discreta che qualcuno può essere indotto addirittura a domandarsi se questo appoggio è stato davvero dato, e in che limiti. Da questo ad attribuire alla «diserzione» del clero o dei cattolici organizzati la responsabilità della sconfitta elettorale della DC, il passo è lungo. Non si è sentito di compierlo in pieno nemmeno l’on. Fanfani, il quale avrebbe avuto tutto l’interesse a battere su questo tasto. Ma un suo accenno c’è stato, tanto più significativo se lo si collega ad analoghe recriminazioni dell’anno scorso, quando la DC ha avuto l’impressione di essere abbandonata al suo destino in un’occasione come quella del referendum sul divorzio, che pareva fatta apposta per consolidare i rapporti fra il partito dei cattolici e le sue retrovie ecclesiastiche. Se fosse vero che i dieci, undici milioni di voti raccolti dalla DC sono tutti voti ottenuti da questo partito senza l’intervento attivo dell’apparato ecclesiastico, che a suo tempo aveva avuto una parte determinante nell’assicurare le fortune elettorali dello scudo crociato, dovremmo salutare questo fatto come uno dei pochi aspetti consolanti del voto del 15 giugno. Ma non ci sentiremmo, oggi come oggi, di dare per scontata un’affermazione del genere.


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Indipendentemente però dalla valutazione dei limiti entro i quali è avvenuta la «laicizzazione» della DC (non disponiamo dell’attrezzatura necessaria per quantificare quelle che sono e restano semplici impressioni), il tema della «laicizzazione» della DC come obiettivo da perseguire scientemente è fra quelli più meritevoli di attenzione nel caso che, nei prossimi mesi, cessata l’ora delle autocritiche che non convincono nessuno, e che servono solo a rendere più deboli, i dirigenti di quel partito si mettano a pensare sul serio a ciò che occorre fare per uscire all’impasse in cui sono venuti a trovarsi, con grave danno di quella gran fetta di paese che essi, bene o male, continuano a rappresentare, anche al di là dell’area di espansione elettorale della Democrazia Cristiana. In vista di quel momento di riflessione sui principî, avanziamo disordinatamente, e in attesa di tornare sull’argomento, alcune considerazioni di carattere generale. All’indomani del trionfo del 18 aprile, quando la DC ebbe la possibilità di governare da sola, De Gasperi cercò di scongiurare l’eventualità di un bipartitismo, che non sarebbe mai stato «perfetto», in quanto allora si dava per scontato che il PCI non costituiva in nessun modo un’alternativa interna al sistema, puntando sulla valorizzazione di quel tanto di dialettica politica che poteva essere spigionata dal rapporto fra il grande partito dei cattolici e i piccoli partiti democratici che, un po’ per la loro tradizione risorgimentale, un po’ per la logica stessa di quel rapporto, furono indotti a qualificarsi soprattutto come partiti «laici». La storia travagliata di questa collaborazione è ancora tutta da scriversi, in particolare per ciò che riguarda la valutazione del peso che essa ebbe negli anni decisivi della trasformazione dell’Italia da paese agricolo a paese industrializzato. Con il centro-sinistra e l’ingresso nell’area democratica del partito socialista, che era qualcosa di diverso da un quarto partito «laico» venuto ad aggiungersi agli altri tre, la


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circoscritta dialettica di tipo degasperiano si complicò con un elemento del tutto nuovo, in quanto i socialisti non hanno mai fatto mistero di voler guardare, di là dei limitati orizzonti dello schieramento laico-risorgimentale, alle «forze sociali» egemonizzate dal partito comunista. Ciononostante, per uno strano paradosso, i socialisti sono riusciti a presentarsi per un momento come forza traente dell’intera sinistra solo in occasione della campagna del referendum, quando, vincendo le esitazioni del PCI, hanno fatto il possibile per radicalizzare la lotta contro la DC su un tipico tema «laicista» come il divorzio. A un anno di distanza, il voto del 15 giugno ha dimostrato come l’euforia socialista il giorno dopo il referendum fosse il frutto di un abbaglio. Perché l’umiliazione inflitta allora alla DC è servita solo a convogliare verso il PCI i suffragi della borghesia radicale, premiando poco i socialisti e pochissimo gli altri partiti laici. A questo punto, molti tengono a dare la colpa dell’accaduto a Fanfani, reo di avere voluto il referendum e di avere guidato imperterrito la DC alla duplice sconfitta. Pur fatta la debita parte al temperamento dell’uomo, crediamo invece che la natura stessa del suo partito lo abbia costretto a una linea obbligata – quella che è stata seguita –, indipendentemente dalla misura dello zelo spiegato poi dal clero e dalle organizzazioni cattoliche nell’appoggiare la campagna per il sì… Ma il nostro discorso guarda al futuro. Dopo il divorzio, c’è l’aborto; dopo l’aborto, altri temi, sempre in materia di diritti civili, diventeranno attuali nei prossimi tempi, dal momento che ci sono rispettabilissime minoranze impegnate in questo settore; dal momento che tutto un meno rispettabile settore della stampa è pronto a gettarsi su ogni novità al riguardo per propinarla a lettori sempre più privi di discernimento critico; dal momento, soprattutto, che alcuni partiti – oggi in prima linea, il PCI, che è sulla cresta dell’onda – sono pronti a fornire l’appoggio del loro apparato,


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sicuri di ricavarne vantaggi sostanziosi alla prossima tornata elettorale. In questa situazione, è urgente che i cattolici democratici e i democratici laici trovino un terreno comune di intesa per fornire su questi temi delle indicazioni alternative a quelle sfornate a getto continuo dalle minoranze radicali. Altrimenti vedremo repubblicani, socialdemocratici, liberali, accodati, talvolta con buona coscienza laica ma sempre con cattiva coscienza democratica, alle iniziative degli altri, e i democristiani schierati sempre su posizioni conservatrici, che individualmente sono i primi a non condividere, ma che devono far proprie per onor della firma. Convinti come siamo che un cattolico possa benissimo discutere di questi temi con un laico, preoccupato – cominciano ad essercene molti – del clima di pessimismo in cui verrebbero a cadere le progettate riforme, crediamo però che la DC, con i vincoli e le responsabilità di rappresentanza che tuttora conserva, non possa addivenire a una discussione del genere se prima non si sarà «laicizzata». In che modo, lo vedremo la prossima volta. L’Europa/Il tempo e il sentimento, 11-25 luglio 1975 La nuova edizione dei «Quaderni dal carcere» di Gramsci Filologia, storia e industria culturale C’è ora la possibilità di vedere che cosa, nel 1948, il PCI giudicasse censurabile dei «quaderni» di Gramsci Solo negli ultimi anni i francesi hanno scoperto Gramsci. E poiché Parigi costituisce ancora, nonostante tutto, una grande cassa di risonanza per gli avvenimenti culturali, è naturale che Giulio Einaudi l’abbia scelta per il lancio della nuova edizione dei «Quaderni del carcere» (tre volumi di testo, un quarto con l’apparato e gli indici, a cura di Valentino Gerratana), arrivati in questi giorni in libreria.


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Una parte notevole della tardiva fortuna di Gramsci in Francia spetta senza dubbio a Maria Antonietta Macciocchi, transfuga del PCI ed esule «volontaria» (almeno per ora) a Parigi, dove tiene un corso – dicono molto affollato – all’università di Vincennes. Ma la presentazione einaudiana, benché avvenuta in ambito universitario, non ha avuto luogo a Vincennes, uno dei nuovi atenei periferici nati dal saggio disegno di smembrare e decongestionare l’enfatica Sorbona e rimasto fedele agli ideali e ai riti del ’68, bensì nella più centrale «École des hautes études en sciences sociales», di recente riformata, dove il prestigio delle «grandi scuole» tanto care ai tecnocrati giscardiani si combina felicemente con lo scintillio delle nuove mode socio-antropologiche, qui rappresentate da alcuni dei massimi esponenti mondiali di questo settore di studi. Giovanni Russo, sul «Corriere della Sera», ha dato ampia notizia di questo avvenimento, annotando i nomi della squadra venuta al seguito di Einaudi dall’Italia e quelli della rappresentativa francese. Per ragioni che sarebbe lungo esporre, siamo anche noi convinti che gli intellettuali francesi, compresi i non marxisti (ma i marxisti più di tutti gli altri), abbiano molto da imparare da Gramsci. Tanto meglio, poi, se qualcuno di essi si lascerà vincere dalla curiosità e andrà a sincerarsi sui testi intorno all’identità di quel Carneade napoletano, le cui tesi Gramsci si attarda a discutere per pagine e pagine sui suoi quaderni. Vorrà dire che la fortuna di Gramsci si tirerà dietro quella di Croce. Meglio tardi che mai. Ci meraviglia solo che Russo, il quale – da parte sua – ha letto da tempo sia Croce che Gramsci, abbia registrato senza battere ciglio gli entusiasmi un po’ ingenui manifestati per l’occasione da alcuni degli ospitanti. Sempre nello stesso resoconto leggiamo che Einaudi ha illustrato le ragioni che, a suo tempo (1948 e seguenti), avevano indotto la sua casa editrice, o chi per lei, a non pubblicare i «Quaderni del carcere» così come si presentavano


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nei manoscritti originali, ma a vivisezionarli e riorganizzare gli scritti che essi contengono intorno ad alcuni temi tipici della meditazione gramsciana («Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce», «gli intellettuali e l’organizzazione della cultura», «il Risorgimento» etc.). Sono ragioni ovvie e plausibilissime analoghe a quelle che in altri tempi inducevano gli ecclesiastici a sminuzzare i Sermoni di sant’Agostino per ricavarne dei trattati di teologia, meglio utilizzabili per l’apologetica e l’insegnamento di quanto non fossero i farraginosi testi originali. Abbiamo sfogliato i volumi della nuova edizione di Gramsci, sorridendo al pensiero dei moltissimi che nel clima del dopo 15 giugno, in cui viviamo, li acquisteranno per portarseli in vacanza (gli italiani, si sa, sono pronti ad uniformarsi) e si arresteranno smarriti dopo le prime pagine. Al ritorno, l’editore Einaudi, ne siamo certi provvederà a rendere disponibile la vecchia edizione, di gran lunga più accessibile al lettore comune, di modo che è da presumere che questa nuova servirà a un rilancio editoriale della precedente… Ironie consumistiche a parte, è indubbio che la nuova edizione dei «quaderni» consentirà agli addetti ai lavori di porre su più sicure basi filologiche lo studio dell’opera di Gramsci, approfondendo le nostre conoscenze sul farsi stesso del suo pensiero, mentre le «tavole di concordanze» che si trovano nel quarto volume daranno modo a chi lo voglia di risalire da un luogo della nuova edizione al passo corrispondente della precedente, dove alcune note tesi gramsciane risultano necessariamente irrigidite dalle esigenze di carattere sistematico cui essa doveva soddisfare. Nella prefazione, dove rende conto dei criteri seguiti nell’edizione, il Gerratana asserisce che questa sua, a differenza della precedente, è un’edizione «integrale» dei «quaderni». Da parte nostra, sarebbe unfair non crederlo sulla parola e pretendere invece di avere accesso ai manoscritti originali per verificare la completezza della nuova edizione.


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Vogliamo dare per scontato che tale accesso ci sarebbe, nel caso, consentito. Ma aperta a tutti rimane, fino da questo momento, la possibilità di mettere pazientemente a confronto le due edizioni a stampa per vedere che cosa, nel 1948, il PCI (qui l’editore Einaudi non c’entra più) giudicasse censurabile dei «quaderni» di Gramsci. In un’intervista postelettorale a un giornale straniero, l’on. Berlinguer ha affermato che oggi, a differenza di ciò che accadeva una volta, il PCI prescinde nella sua azione dai «consigli» che di tanto in tanto gli possono venir rivolti dal partito confratello al potere nell’URSS. In analogia al trattamento che abbiamo riservato a Gerratana, vogliamo credere anche a lui sulla parola. Ma resta il fatto che, per ammissione, rispettivamente di Berlinguer e Gerratana, il PCI una volta prendeva ordini da Mosca e «castrava» l’opera del leader intellettuale più prestigioso che abbia mai avuto. Stando al citato resoconto di Giovanni Russo, nessuno a Parigi ha avuto il cattivo gusto di rovinare la festa tirando fuori il tema delle censure cui Gramsci era stato finora sottoposto. Mentre invece è qui che un problema apparentemente solo filologico come questo della differenza fra i criteri che hanno presieduto alle due edizioni di Gramsci, diventa un problema storico, concernente la tradizione e, perciò, il modo di essere di quello che è sul punto di diventare il maggiore partito italiano. Si fa tanto parlare di Controriforma, di Italia vecchia e decrepita destinata a sparire per lasciare il posto a quella nuova, prefigurata dal voto del 15 giugno. Ci limitiamo a ricordare che quando nel 1584, centoventi anni dopo la morte di papa Pio II, un nipote di questo, Francesco Bandini Piccolomini, diede alle stampe i Commentarî del suo antenato, essi furono sottoposti preventivamente a un’operazione che un codice della Biblioteca Nazionale di Roma, in cui sono riportati i passi tralasciati dall’edizione a stampa, definisce in modo che non potrebbe essere più effi-


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cace: «castratura». La strada in discesa percorsa in quel secolo dall’Italia, tutto il servilismo e la viltà di cui gli italiani di allora diedero prova, si riflettono in questa lontana vicenda editoriale che attende ancora di essere chiarita fino in fondo. A voler essere ottimisti a tutti i costi, potremmo rallegrarci che, nel caso dei «Quaderni del carcere», la reintegrazione (se davvero c’è stata, ed è completa, come ci viene assicurato) si sia fatta attendere solo venticinque anni. Ciò che però non manca di preoccuparci seriamente è che il riguardo nei confronti di chi si vanta di averla compiuta si spinga al punto di far passare sotto silenzio la ammessa censura di venticinque anni fa. L’Europa/Editoriali, 25 luglio-8 agosto 1975 La «laicizzazione» della DC La Chiesa non è più di là dal fiume La tesi che ci apprestiamo a sostenere ha tutta l’aria di esser un paradosso e una provocazione. La ragione più profonda che, a nostro avviso, spinge la D.C. a «laicizzarsi» consiste nel fatto che, altrimenti, essa è destinata a perdere o a trovarsi mai più a contatto con i fermenti cristiani, postconciliari, della società italiana. Dopo tanto parlare che si è fatto, anche a vanvera, di sociologia religiosa, è difficile farsi un’idea anche approssimativa della situazione della Chiesa oggi in Italia. Difficile sapere quale sia il vero stato di salute delle strutture tradizionali; molto difficile avere una mappa precisa di ciò che di nuovo sta maturando; difficilissimo prevedere l’esito finale degli sforzi della gerarchia (usiamo il termine senza il sottinteso negativo che gli affibbiano i «carismatici») per ricondurre il nuovo in una norma, per «istituzionalizzarlo». Basta conoscere un po’ di storia della Chiesa pretridentina (dopo


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le cose sono cambiate, ma adesso sono tornate come prima), per sapere come questi processi siano lenti, nel momento che è al tempo che si finisce coll’affidare, più o meno consapevolmente, la funzione di separare il loglio dal grano. È un gioco fatto di prudenze, di audacia, soprattutto di pazienza, nel quale un laico stenta ad orientarsi, bisognoso com’è di ricondurre immediatamente uomini e movimenti, situazioni negli stampi che, soli, gli sono familiari; di qua i progressisti, i novatori, di là i conservatori, i reazionari. Abituata ad avere al proprio fianco un «movimento cattolico», rispetto al quale poteva anche darsi che occorresse prendere le distanze, ma che purtuttavia costituiva un punto di riferimento sicuro anche nella polemica, la D.C. avverte ora, tutto il disagio della nuova situazione che è venuta a crearsi su questo fronte, di importanza, per essa, così vitale. Una volta, ai tempi di De Gasperi, era possibile – avendone il coraggio morale – svolgere fino alle estreme conseguenze il discorso dell’autonomia «politica» dei cattolici: autonomia rispetto alla Chiesa, identificata con la gerarchia, e autonomia rispetto al «movimento cattolico», identificato con le organizzazioni ufficiali del laicato. Prendendo le debite distanze da Pio XII e da Gedda, De Gasperi o chi per lui si muoveva ancora nella tradizione ottocentesca del «Tevere più largo» nella sua versione cattolico-liberale. Ma questa concezione si fondava sul presupposto che, appunto, la Chiesa fosse di là dal fiume. Dal momento in cui il modo di essere della Chiesa è stato messo in discussione, e la discussione ha cominciato a coinvolgere l’intero «popolo di Dio», clero e laici insieme, la prima vittima è stato il «movimento cattolico» le cui strutture tradizionali, come scriveva qualche giorno fa sul «Corriere della Sera» un esponente di «Comunione e Liberazione», sono oggi quasi dovunque in rovina, «ed il concetto stesso di un movimento cattolico è stato degradato a quello più chiuso e stagnante di mondo cattolico». Al posto dei dirigenti dell’Azione


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Cattolica, che oggi l’uomo della strada non si domanda più nemmeno come si chiamino, sono subentrati di fatto gli animatori di piccole comunità parrocchiali, molto più numerose di quanto non lasci trapelare la cronaca dei giornali, che si limita a registrare i casi-limite, quelli che fanno notizia perché arrivano al punto di rottura con l’ordinario diocesano. Di fronte a un fenomeno spiccatamente religioso come questo, ma che mette in forse la separazione istituzionale fra il «sacro» e il «profano», l’opinione laica tende in generale a riesumare l’accusa di «integrismo». Affronteremo in un’altra occasione il tema del «laicismo dei laici». Per ora basti dire che l’accusa, in questo caso, e avendo riguardo alla vecchia accezione del termine, è del tutto infondata; ma sarebbe assurdo pretendere che proprio da quella parte si prestasse attenzione alle diatribe ecclesiologiche della comunità di base. L’attenzione si desta, e non ci fa meraviglia, non appena si crede di capire che il discorso ha un sottofondo politico-sociale. La denuncia, che accomuna queste esperienze, del «temporalismo» della Chiesa costantiniana di ieri, troppe volte alleata degli oppressori e degli sfruttatori, non sempre, infatti, trova facilmente il suo culmine e il suo punto di assestamento positivo nella riassunzione a un motivo centrale del Vangelo secondo sui «il Regno di Dio non è di questa terra», ma tende a scivolare in una sorta di «neo-temporalismo» giustizialista, i cui limiti sono ormai chiari a tutti, compresi coloro i quali sono poi abilissimi a incanalare questa protesta, che ha – come si è detto – una matrice religiosa, verso un voto a sinistra. Rispetto a questi «movimenti (al plurale!) cattolici» di tipo nuovo, la D.C. non ha più nessuna «autonomia» da rivendicare. È semplicemente tagliata fuori. Con il rischio sempre maggiore di essere considerata essa stessa come la manifestazione più scandalosa, in terra italiana, di quel temporalismo post-costantiniano di cui il Vaticano II ha decretato il tramonto. D’altra parte, proprio il rispetto dovuto


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alla Chiesa «al di là del fiume», di cui ritiene ancora di essere, pur nella sua conclamata e collaudata autonomia, la rappresentante accreditata sulla scena italiana, impedisce alla D.C. di avviare un dialogo, sul terreno politico-religioso (il secondo termine è fondamentale), con gruppi che la gerarchia tiene tuttora sotto osservazione, nel modo peculiare che si è detto, al quale la abilita una esperienza plurisecolare. Così, paradossalmente, la D.C. sconta ad un tempo gli effetti negativi della «secolarizzazione» di un paese, che ha avuto in ritardo e tutta d’un colpo la sua rivoluzione industriale, e di quel tanto di «ricristianizzazione» che ha preso l’avvio dal concilio e dal magistero di papa Giovanni. La formula dell’autonomia politica accompagnata al pieno ossequio sul piano religioso non paga più. Per aspirare ad interpretare autonomamente in sede politica i fermenti cristiani che pervadono la società italiana, la D.C. deve acquistare la sua autonomia anche sul piano religioso, rinunciando in altre parole ad una sua etica, non per quello che essa è, ma in quanto essa rimanda inevitabilmente a un assetto dei rapporti fra Chiesa, movimento cattolico e organizzazione politica dei cattolici che, piaccia o no, è ormai solo un ricordo del passato. L’Europa/Editoriali, 8 agosto-5 settembre 1975 Il «laicismo» dei laici Accanto alla «questione comunista» e alla «questione democristiana» c’è anche, benché più latente, una «questione laica». Il mancato progresso dei partiti di democrazia laica (tranne che per i socialisti, i quali rappresentano un problema a sé), in coincidenza con il calo elettorale della Democrazia Cristiana, può essere infatti interpretato come la definitiva riprova della tesi secondo cui la dialettica fra «laici» e «cattolici» che ha caratterizzato le coalizioni di centro, prima, e di centro-sinistra, poi, era solo una dialet-


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tica fittizia, una specie di gioco dei quattro cantoni che serviva a mascherare la realtà della egemonia del partito di maggioranza relativa. Entrato in crisi questo, pochi hanno infatti creduto di dover premiare il 15 giugno la posizione di critica all’interno del sistema svolta più coerentemente dai repubblicani, ma anche, sia pure con qualche discontinuità, dai socialdemocratici e liberali. La storia di quella difficile collaborazione è ancora tutta da scrivere, ma è probabile che gli schemi meccanici e sbrigativi dei politologi non reggeranno a un’analisi attenta e serena dell’accaduto, restandone invece confermata l’impressione che la parte svolta degli ultimi trent’anni dai partiti cosiddetti «minori» – per lo meno in alcuni campi, come per esempio, la politica estera – sia stata, in assoluto, molto notevole e, certo, sorprendentemente maggiore di quello che avrebbe comportato il loro peso elettorale. Ma il giudizio che un giorno verrà a confortare retrospettivamente la dura, ingrata fatica dei La Malfa e dei Saragat, oggi disconosciuta dai più, o non abbastanza apprezzata, non potrà fare a meno di registrare anche una partita nettamente negativa. Non si tratta solo, lo diciamo subito a scanso di equivoci, della scarsa fermezza dimostrata dai laici in questa o in quella occasione nei confronti dell’alleato più forte, o della eccessiva tolleranza, se non connivenza, con cui essi hanno avallato metodi di gestione della cosa pubblica rivelatisi alla lunga pressoché fallimentari: La Malfa, in particolare, non ha niente da rimproverarsi in materia. Si tratta piuttosto, a nostro avviso, di una carenza di fondo che riguarda il loro modo stesso di essere, il loro «laicismo», cioè a dire quello che, di fronte all’opinione, li caratterizza unitariamente, di là dei differenti retaggi che si trascinano con sempre maggiore fatica e disagio dietro le spalle. Essere «laici» nell’Italia degli anni della ricostruzione e dello sviluppo economico avrebbe dovuto voler dire porsi


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con serietà il problema morale ed intellettuale dell’italiano nuovo uscito da quel bailamme. Impossibile sperare che ci pensasse la DC. Ma il grave è che non ci hanno pensato neanche i partiti laici. Il fascismo si era speso tutto il capitale di capacità e di energie «liberali» ch’era stato accumulato nel primo cinquantennio di vita unitaria e che era sopravvissuto alla tormentata guerra ’15-’18 e del primo dopoguerra. Alla DC, dato e non concesso che un partito con la sua connotazione avesse potuto fare qualcosa di diverso, non era restato altro che ricorrere alla vecchia Italia delle parrocchie, la sola rimasta in piedi dopo l’8 settembre e che si mostrasse disposta a farsi mobilitare per un programma che non fosse la rivoluzione a portata di mano, prospettata come il compimento necessario della Resistenza, che aveva visto per un momento tutti uniti, parroci e commissari del popolo, nella lotta armata contro tedeschi e fascisti. Non c’era in realtà un’altra strada da scegliere, e la DC di allora, incoraggiata dal voto plebiscitario della borghesia ex-liberale ed exfascista che stava riprendendo fiato, la imboccò con una decisione che non avrebbe mai più ritrovata. Ebbe però, con De Gasperi, l’accortezza di garantirsi con il controveleno dei laici nei confronti dell’insidia che la scelta fatta portava con sé. Il problema era di garantire l’instabile equilibrio raggiunto, impedendo, da un lato, che l’Italia uscita dall’isolamento della Controriforma in cui l’aveva a suo tempo confinata la rivoluzione liberale, si prendesse intera la sua rivincita e ci regalasse, dopo il ventennio fascista, un ventennio salazariano; e facendo in modo, dall’altro, che gli eredi della rivoluzione liberale stessero alle regole del gioco e dimenticassero le illusioni dell’«azionismo». Su questo punto (se fossero state o no illusioni) la discussione è aperta. Rosario Romeo, nella sua relazione a un recente convegno pubblicata anche da questo giornale, ha sostenuto che


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nel ’45 una «rivoluzione democratica» non sarebbe stata possibile, perché mancava la base sociale necessaria per attuarla; Leo Valiani, in questa stessa sede, ha espresso un parere diametralmente opposto. Ma il nostro discorso non verte sul ’45, bensì sul ’48. E nel ’48, se la situazione imponeva di accantonare le illusioni ancora possibili tre anni prima e di accettare l’offerta di collaborazione avanzata dalla DC, non per questo i partiti laici avrebbero dovuto rinunciare alla loro identità. Il terreno naturale e privilegiato dello scontro con la DC avrebbe dovuto essere rappresentato dalla scuola. Era infatti evidente che più il paese fosse cresciuto materialmente nella sua ritrovata libertà, più i suoi fondamenti morali sarebbero stati scossi, ed era quindi necessario provvedere a stabilirne di nuovi, servendosi della via regia costituita dalla scuola. Ma è proprio qui che il «laicismo» dei laici rivelò tutti i suoi limiti, la sua sostanziale arretratezza. Mentre il problema sarebbe stato quello di creare una scuola seria ed efficiente, capace di educare allo spirito critico e aperta a tutti i meritevoli (la formula, oggi rifiutata dai pedagogisti, aveva allora un suo senso preciso), ci si assestò su una linea puramente difensiva: «niente sovvenzioni alle scuole dei preti!», salvo poi accodarsi a ogni iniziativa dei democristiani volta a togliere alla scuola di Stato il suo unico vero privilegio, consistente nel fatto di disporre di un corpo di insegnanti selezionati mediante concorsi severi e di non dovere fare sistematicamente ricorso, come la scuola privata, al bracciantato dei supplenti. La solita, stantia polemica contro la Controriforma continuava a parole. Ma in essa, troppe volte, si esprimeva solo una sorta di complesso di superiorità intellettuale, non privo di venature snobistiche, raramente una ferma volontà di cambiare le cose nell’unico modo possibile. Oggi quella vecchia Italia, con i suoi molti difetti e le sue poche virtù, non esiste più. Non ha retto allo sforzo, alla


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tensione, alle tentazioni di ogni genere cui l’ha sottoposta il trentennale governo della DC. Qualcuno dice che, nel frattempo, è cresciuta e si è sviluppata un’Italia diversa, che è pronta a prendere il suo posto. La materia è molto dibattuta dai sociologi, che però spesso non sono attendibili perché appaiono troppo preoccupati di compiacere il temuto o sperato principe di domani. Ai «laici» resta il rammarico di non aver fatto abbastanza per aiutarla a nascere quest’Italia «diversa» – dato che davvero ci sia e non si viva invece nella più completa confusione e anarchia – in un modo più consono ai loro gusti e ai loro ideali. L’Europa/Editoriali, 29 settembre-3 ottobre 1975 Un futuro per i «laici» A diciassette giorni di distanza, l’on. Moro ha indirettamente risposto da Bari alla lettera che gli era stata indirizzata il 26 agosto dall’on. La Malfa. Con ogni probabilità il presidente dei Consiglio, prima di farsi avanti a proporre quella che – quale che sia il giudizio che se ne vorrà dare – è comunque una linea politica, ha dovuto attendere che l’on. Forlani levasse la sua voce per ammonire i suoi compagni di partito che, se troveranno la forze di rialzare la schiena, non tutto è perduto per la DC. Contrariamente alle apparenze e alla logica degli schieramenti (la «strategia dell’attenzione» dell’uno, la «centralità» dell’altro), il buon senso vorrebbe infatti che i due interventi siano stati almeno in parte concordati. Ma se non fosse stato per l’on. La Malfa, le cui tesi «economiche» vengono adesso riprese dal presidente del Consiglio, le grandi vacanze sarebbero trascorse in un imbarazzato silenzio rotto solo dalle indiscrezioni giornalistiche su presunti conciliaboli dolomitici fra i maggiori «leader» della DC e, a più bassa quota, dalle confidenze destinate alla pubblicità che il presidente della Repubblica ha


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affidato a un giornalista amico sulla collina del Pincio. Con la tempestività che lo distingue, il vice-presidente del Consiglio deve avere intuito il sottofondo polemico di quest’iniziativa e si è affrettato a scrivere la sua lettera per mostrare che, dopotutto, in Italia c’era ancora un governo. A quanto informano le cronache, lo stesso avviso egli lo ha anche rivolto, nei giorni scorsi, ai rappresentanti delle Regioni venuti a Roma con il fermo proposito di rimettere in discussione il «pacchetto» dei provvedimenti urgenti per la ripresa produttiva, faticosamente varata dal governo nazionale; di fronte alle irate proteste dei convenuti, per dare ulteriore forza ai propri argomenti, l’onorevole La Malfa se ne sarebbe andato dalla riunione sbattendo la porta. L’autorità dello Stato in tempi difficili come questi talvolta si difende anche così. Altrettanto fermo, pur nell’ovvia diversità dei temperamenti, ci risulta essere l’on. Spadolini che sta adoprandosi in tutti i modi per difendere archivi, biblioteche, gallerie dall’arrembaggio dei pianificatori regionali del tempo libero. Morale della favola: nello smarrimento generale seguito al voto del 15 giugno, i repubblicani, impegnati in prima linea nell’azione governativa, si sono dati da fare perché almeno una parvenza di vita continuasse ad aleggiare nell’edificio della coalizione quadripartitica, che nessuno dei «partiti» intende per ora abbandonare, ma che rischierebbe di precipitare per conto suo, se qualcuno, dall’interno, non si agitasse di tanto in tanto per evitarne la putrefazione. È, a prima vista, un nuovo titolo di merito che la più responsabile fra le forze «laiche» si è guadagnata nei confronti del paese, sempre così avaro nel premiarla al momento del voto. Ma viene fatto di domandarsi quale sia, dietro il responsabile atteggiamento tenuto oggi dai repubblicani, il loro disegno a largo respiro, di là del prevedibile (anche se non auspicabile) tramonto definitivo della prospettiva del centro-sinistra. Una cosa sembra certa: continuando a sostenere in prima persona e con grande zelo l’attuale governo, i


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repubblicani non possono avere di mira un ulteriore indebolimento della DC (come è nel progetto dei socialisti, che di fatti si limitano ad «appoggiare» il governo dal di fuori, e a modo loro). A rigore, l’atteggiamento dei repubblicani parrebbe invece fondato sul presupposto che la tenuta del governo Moro, oltre che rispondere alle immediate esigenze del paese, sia una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché la DC ritrovi al più presto un assetto interno compatibile con le responsabilità che le derivano dall’essere tuttora il maggior partito italiano. Non occorre infatti molta immaginazione per rendersi conto che, se l’ultima sessione del consiglio nazionale democristiano si fosse svolta in coincidenza con una crisi di governo, il dramma cui abbiamo assistito sarebbe stato ancora maggiore, e forse senza soluzione. Nel qual caso, il generale rimescolamento di carte che ne sarebbe seguito, avrebbe costretto tutti, «laici» compresi, a un’immediata revisione dei ruoli. E i repubblicani, in particolare, abbandonata la pretesa di fornire «idee chiare» a una sinistra che non sembra disposta a recepirle, avrebbero avuto aperta dinanzi a loro la strada di porsi come polo «giscardiano» di una nuova aggregazione di forze rese disponibili dal crollo della DC. Ammettendo invece che la DC riesca a rimettersi in piedi (nel senso letterale indicato dall’on. Forlani), spetterà ad essa di decidere se fare propria o respingere la proposta politica avanzata a Bari dall’on. Moro. Ma sia che i democristiani decidano per l’«associazione» oppure per lo «scontro» con i comunisti, una volta terminata la fase di interregno in cui ci troviamo, il problema numero uno della politica italiana diventerà ormai quello dei rapporti fra i due partiti maggiori. A partire da quel momento, è improbabile che la dialettica DC – partiti laici minori (con o senza i socialisti), della quale abbiamo in buona parte vissuto dal 1948 in poi, continui ad avere uno spazio per sé, sia pure notevolmente ridotto.


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Affascinati dal ricordo di una indimenticabile serata del maggio 1974, quando ci ritrovammo in tanti a piazza del Popolo, per applaudire tutti insieme Parri, La Malfa, Saragat, Nenni e Malagodi, che parlavano dalla stessa tribuna, molti vagheggiano di dedurre da esso una formula politica, buona oggi per risolvere qualche caso di giunta difficile, domani – chissà – per dare vita a un grande schieramento, dai liberali ai socialisti, capace di porsi come terzo incomodo fra DC e PCI. Ma costoro dimenticano che solo per un tratto di interessata delicatezza l’on. Berlinguer ha accettato quella sera di mandare i suoi a riempire i vuoti di una piazza comunque troppo grande per noi, e di restarsene a casa, in paziente attesa del momento di scuotere l’albero e di raccogliere i frutti. Il ricordo di un «maggio radioso» ha abbastanza gravato sulla storia d’Italia perché possiamo concedercene un secondo. I prossimi mesi si preannunciano decisivi non solo per la rinascita (se davvero ci sarà) della DC, ma anche per la sopravvivenza in senso lato delle forze politiche laiche, che dovranno imparare a muoversi fuori quadro in cui si sono mosse finora, caratterizzato da una sorta di «concordia discors» con la Democrazia Cristiana, nutrita di nostalgie in parte risorgimentali in parte azionistiche, senza cedere per questo alle lusinghe che verranno certamente da sinistra tutte le volte che un nuovo ostacolo sulla strada del «compromesso storico» consiglierà di fare ricorso alla sirena del 12 maggio.


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L’Europa/Idee e costume, 3-17 ottobre 1975 Il passo falso di Amalrik: una tesi sulla «Russia di Kiev» Intorno al problema della «Russia di Kiev» si è venuta a creare, su scala più ridotta, la stessa contrapposizione fra «occidentalizzanti» e «slavofili» che ha costituito uno dei cardini della vita intellettuale russa del secolo scorso La Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce inizia a partire dal Vespro siciliano (1282). Scegliendo questo periodizzamento, Croce tagliava fuori una fetta considerevole della storia dell’Italia meridionale, proprio quella sulla quale, dopo il 1860, si erano appuntate a preferenza le nostalgie di quanti, non osando confessare il loro rimpianto per la caduta di una dinastia universalmente malfamata come la borbonica, andavano a cercare molto all’indietro, nei secoli del medioevo, i titoli di gloria della loro patria napoletana. In particolare, assieme all’epoca sveva, veniva amputato da Croce l’intero periodo della fondazione e del promettentissimo inizio del regno di Sicilia, creato da un pugno di cavalieri normanni, che in pochi decenni seppero venire a capo dell’estrema frammentazione politica dell’Italia meridionale e della Sicilia – divise com’erano fra principati longobardi, ducati autonomi, possedimenti bizantini e dominazione arabo-musulmana – e dar vita a un regno unitario che costituì subito l’oggetto dell’ammirazione e dell’invidia degli altri sovrani del tempo, a cominciare da quello di Germania e d’Italia, e imperatore, che non riuscì a rassegnarsi all’idea di avere un simile gioiello così a portata di mano, e difatti tanto fece che riuscì ad assicurarselo mediante il matrimonio di Enrico VI con Costanza d’Altavilla (1186), finendo così di invischiare l’impero nelle cose italiane, con conseguenze, a giudizio di alcuni, funeste per l’avvenire della Germania. Ma questo è tutt’altro discorsi da quello che ci terrà occupati oggi. A giustificazione del suo operato, Croce adduceva, in primo luogo, il fatto che «quella monarchia normanno-sveva


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non coincideva territorialmente con quel che si disse poi il regno di Napoli, perché comprendeva, oltre le province continentali, la Sicilia». Ma questa prima motivazione la avvertiamo subito come non tipicamente sua, perché troppo estrinseca e, oltretutto, valida solo in via provvisoria, dal momento che, con Alfonso d’Aragona (1442), Napoli e Sicilia torneranno a essere unite nelle stesse mani. Piuttosto è un secondo motivo a render regione della scelta di Croce: «fu quella (cioè a dire la storia della monarchia normanno-sveva) una storia di somma importanza per il progresso statale e civile d’Europa nel medioevo, del quale prenunziò la fine; … ma fu rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle nostre viscere». A differenza di ciò che accadde in Inghilterra, dove dalla conquista di Guglielmo – un normanno anche lui! – nacque una nazione inglese comune ai conquistatori e ai conquistati, nell’Italia meridionale e in Sicilia «non accadde lo stesso: un popolo, una nazione non nacque: non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie popolazioni si riconoscessero come subietto». Checché, insomma, ne dicessero i patiti ottocenteschi del «glorioso regno di Ruggiero» (il primo sovrano normanno di Sicilia), «sta di fatto che quella storia, nella sua sostanza, non è nostra». Se avessimo il tempo per farlo, ripercorreremmo la storia della fortuna di questo giudizio di Croce. Sarebbe come tentare un bilancio degli ultimi cinquant’anni di storiografia sul medioevo meridionale e siciliano. Così, a prima vista, diremmo che questa impostazione è stata largamente temperata e corretta e che nessuno oggi sottoscriverebbe un giudizio tanto radicale da porsi quasi al limite del paradosso. Ma è anche vero che, senza lo choc salutare prodotto da quelle pagine, sarebbe stato molto più difficile sgomberare il terreno dai luoghi comuni connessi alla leggenda del «bel regno di Sicilia», duri a morire proprio perché nutriti dei risentimenti e delle delusioni di dopo il 1860. La problematica sollevata da Croce nei confronti del regno normanno di Sicilia richiama da vicino, mutatis


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mutandis (il che, in italiano, vuol dire: tenuto soprattutto conto della abissale diversità della documentazione di cui disponiamo noi e loro), i termini della polemica che ha diviso, e continua a dividere, gli storici dell’Europa orientale a proposito della cosiddetta «Russia di Kiev». La «Russia di Kiev» è il primo stato russo: sorto fra i secoli IX e X ed estendentesi in senso longitudinale dal lago Ladoga fino a Kiev, che ne era appunto la capitale, era orientato commercialmente verso Bisanzio. Secondo la cronaca di Nestore (inizio del secolo XII), questo stato sarebbe nato in seguito all’assoggettamento della tribù slava dei Poliani da parte dei conquistatori stranieri venuti dal nord: i Russi. Prima di dirigersi verso sud, i Russi avevano creato un vasto dominio che si estendeva in senso latitudinale dall’Estonia fino a Murom, con Novgorod come capitale e con interessi commerciali gravitanti sul bacino del Volga. Sempre secondo questa tradizione, i Russi erano una popolazione scandinava che all’inizio del secolo IX era venuta a stanziarsi nella regione del lago Ladoga, sottomettendo tre tribù finniche e due tribù slave. Da due secoli gli storici dell’Europa orientale, e in particolare gli storici russi, discutono animosamente la veridicità di questa tradizione, divisi in due schieramenti principali, fra i quali – com’è di norma in questi casi – si sono venute delineando una serie di posizioni intermedie. Per il primo dei due gruppi, il racconto dell’antica cronaca travisa i fatti, dando ai Normanni un posto che non gli spetta nella creazione del primo stato russo, che fu invece il prodotto di forze autoctone, genuinamente slave. Per il secondo gruppo, quel racconto è invece attendibilissimo e la «Russia di Kiev» deve essere annoverata fra le creazioni statali dei Normanni – un popolo specializzato, del resto, in imprese del genere (regno d’Inghilterra, regno di Sicilia…). Un po’ come abbiamo visto essere accaduto a proposito delle discussioni sul regno normanno di Sicilia, anche le


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polemiche sulla «Russia di Kiev» non sono rimaste dominio esclusivo degli specialisti, ma hanno sempre interessato una cerchia più larga di quella, necessariamente ristretta dei filologi, capaci di seguire nei minimi dettagli la discussione sulla origine del nome Russi. In sostanza, intorno al problema delle origini della «Russia di Kiev» si è venuta a creare, su scala più ridotta, la stessa contrapposizione fra «occidentalizzanti» e «slavofili» che ha costituito uno dei cardini della vita intellettuale russa nel secolo scorso. Solo come curiosità, e non perché la sua opinione su questo punto abbia il benché minimo peso, ricorderemo che anche Marx è stato a conoscenza del problema e ha preso nettamente posizione a favore della tesi degli «occidentalizzanti». «Il periodo gotico della Russia non è che un capitolo delle conquiste normanne… La rapida crescita dell’impero dei discendenti di Rurik non è stata il risultato di piani maturati nel profondo, ma un’espansione naturale dell’organizzazione primitiva dei conquistatori normanni…». Nonostante la presa di posizione di Marx, la tesi antinormanna è diventata un dogma nella Russia sovietica. È di questi giorni la notizia che la prima disavventura dello scrittore Andrej Amalrik, che gli è valsa a suo tempo l’espulsione dell’Università di Mosca, è stata provocata da una sua dissertazione sulla «Russia di Kiev», nella quale evidentemente egli sosteneva che i Normanni non erano estranei alla fondazione del primo stato russo, come imponeva, e impone ancora di credere la scienza ufficiale. Una conoscenza anche superficiale dei termini in cui si pone questa questione dal punto di vista scientifico, la vastità stessa della gamma di soluzioni che essa consente, aiutando a misurare l’assurdità di compromettere un’istituzione come l’Università di Mosca, benemerita – come ci viene da più parti assicurato – soprattutto nei diversi campi della ricerca sperimentale, con una scelta aprioristica, dalla quale discendono addirittura misure repressive per i dissenzienti.


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Anche se ordinato alla dimostrazione di una tesi precostituita, non tutto il lavoro degli storici sovietici sulla «Russia di Kiev» è però da gettar via. Gli archeologi, in particolare, hanno gradatamente arricchito il dossier delle testimonianze, che una volta era ridotto a un esiguo manipolo di fonti scritte. Ma anche l’entusiasmo per l’archeologia va moderato, perché il dato archeologico, per quanto di prima mano, è – in casi come questo – una testimonianza di necessità unilaterale. Torniamo per un momento ai Normanni di casa nostra. Se non disponessimo, come disponiamo, di fonti scritte in abbondanza, che attestano la venuta dei cavalieri normanni nell’Italia meridionale già nei primi decenni del secolo XI e ci decidessimo di chiedere allo scavo stratigrafico la prova della loro presenza, è probabile che resteremmo delusi. Lo scavo stratigrafico, come viene praticato nei paesi dell’est europeo, con tecniche raffinate meritevoli di ogni riguardo, tende infatti a ricostruire la «cultura materiale» di un determinato periodo, il che vuol dire individuare il tipo di vasellame domestico (la ceramica è un materiale praticamente indistruttibile), gli strumenti usati per i diversi mestieri, le tecniche in uso per la coltivazione del suolo, e così via. Ora, c’è da essere sicuri che la venuta in Italia di quei pochi cavalieri normanni non ha provocato sul momento nessuna modifica a livello della «cultura materiale», di modo che l’ipotizzata ricerca metterebbe alla luce le sole testimonianze di una preesistente cultura materiale, autoctona. E questo, appunto, è accaduto in Russia, dove i valentissimi archeologi di quel paese non si sono mai imbattuti, a quanto risulta, in tracce riferibili alla presenza dei conquistatori venuti dal nord, di cui parla la cronaca di Nestore. Più semplice, alla fine, se proprio si vuole eliminare il disturbo arrecato dai Normanni (o Vareghi) al mito dell’incontaminata autoctonia slava della storia russa, isolare i passi dei cronisti, e bollarli come interpolazioni successive ed interessate. L’operazione è stata tentata, e chi sa come


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vanno queste cose, sa anche che peso dare ad argomentazioni del genere. A favore della tesi che vuole i Normanni impegnati da protagonisti nella creazione del primo stato russo parla in ogni caso una testimonianza ineccepibile qual è quella costituita dalle liste degli ambasciatori inviati da Kiev a Bisanzio nel secolo X, per stipulare i trattati che regolavano il commercio fra i due paesi. La maggior parte dei nomi contenuti in queste liste sono infatti incontestabilmente di origine scandinava, come di origine scandinava era la dinastia di Rurik che si serviva di questi plenipotenziari internazionali. Assodato questo, resta aperto il campo per tutta una serie di accertamenti ulteriori su punti niente affatto marginali, a cominciare dalla differenza, non ancora ben chiara, fra i Russi e i Vareghi (è sotto questi due nomi che i Normanni fanno la loro comparsa nell’Europa orientale): secondo un’ipotesi abbastanza plausibile, i Russi sarebbero stati i Normanni già stanziati da tempo in Russia e integrati alle organizzazioni politiche e sociali esistenti, in contrapposizione ai Vareghi, che sarebbero sopraggiunti solo più tardi, quando ormai esisteva la «Russia di Kiev» come stato unitario. Un altro problema essenziale è costituito dallo studio della struttura sociale delle tribù slave al momento di essere assoggettate dai conquistatori normanni. Ma sono, come si vede, delle questioni che andrebbero risolte senza che chi le affronta debba correre il rischio di perdere il posto per aver sostenuto una tesi piuttosto che un’altra. Direi che in questo caso non è tanto in gioco la «libertà di pensiero», che uno esita a scomodare per tanto poco, quanto il semplice buon senso. Il dissidente Amalrik, che conosce bene i guai del suo paese, ha scelto per la sua carriera di «provocatore» un ottimo punto di partenza.


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L’Europa/Argomenti e opinioni, 17-31 ottobre 1975 La scorza di fuori e il midollo di dentro Se si vuole vincere la disaffezione di quel che resta in Italia di borghesia produttiva per le istituzioni, occorre prendere una chiara posizione nei confronti dell’insostituibile funzione dell’impresa privata fondata sul profitto Il voto del 15 giugno ha messo in moto nella DC un processo di «agonizing reappraisal» che dura tuttora. Nessun segno lascia presagire che stia per concludersi presto. Di tanto in tanto, nei quattro mesi trascorsi, la cronaca cittadina di qualche quotidiano non allineato sulle posizioni della «crociata antidemocristiana» ha dato notizia di affollate riunioni in sezioni periferiche di quel partito, di «soci» in villeggiatura che telefonavano per farsi presenti e per assicurare che, al ritorno dalle vacanze, ecc. Ma, col passare del tempo, queste notizie si fanno sempre più rade. Centoventi giorni leniscono piaghe anche più profonde di quelle prodotte da una sconfitta elettorale. Quanti sono i protagonisti attivi del dilacerante riesame democristiano? Qualche centinaio, forse qualche migliaio. Ammesso che il 15 giugno essi abbiano tutti votato per lo scudo crociato, si tratta di una minima percentuale rispetto alla massa di quanti hanno dato il loro suffragio alla DC. Esclusi o autoesclusi dal dibattito in corso sulla «rifondazione» del partito cui hanno confermato la loro fiducia, gli elettori democristiani costituiscono il preteso asso nella manica di un settore dei partecipanti al dibattito. Per costoro chi ha votato DC il 15 giugno è senz’altro un fautore dell’on. Fanfani, il che equivale ad accusare i democristiani, che non sono fautori dell’on. Fanfani, di avere votato per altri partiti, cosa altamente improbabile e comunque impossibile da dimostrare. Per un elettore democristiano di media cultura, la nozione di «rifondazione» della DC non ha presumibilmente un


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suono estraneo. Una qualche eco dell’insegnamento paolino arriva anche al fedele medio italiano, cosicché l’idea del «partito vecchio che muore» e del «partito nuovo che nasce» ha tutta la possibilità di venir accettata, indipendentemente dalla specificazione dei modi concreti in cui dovrebbe attuarsi l’annunciata rigenerazione. Se a sinistra si specula sul mito della rivoluzione, e nessuno mostra di scandalizzarsene più di tanto, non si vede perché la DC non possa cercare di costruire il suo difficile futuro sul moto del rinnovamento. Ma il tema della «rifondazione», agitato ad uso interno, non esenta la DC in via di rigenerarsi dall’esercizio delle responsabilità di governo che i moltissimi che hanno continuato, e presumibilmente continueranno a votarla, hanno voluto addossarle. L’esercizio di questa responsabilità comporta che la DC faccia anzitutto alcune scelte in merito a problemi sui quali in passato non si è mai voluta pronunciare con chiarezza, riuscendo – dobbiamo ammetterlo – a governare lo stesso, e con esiti, fino a una certa data, molto meno disastrosi di quello che vorrebbero far credere oggi i suoi detrattori di professione. Queste scelte vertono intorno al destino di ciò che i marxisti chiamano il «modo di produzione capitalistico» e che, più terra terra, potremmo anche chiamare «l’impresa privata», volta alla produzione di beni e al conseguimento di un «profitto», piccolo o grande che sia, più o meno falcidiato che sia dall’imposizione tributaria. Ci rendiamo contro che per uomini impegnati della rigenerazione della DC (e ce ne sono molti di seriamente e religiosamente impegnati) questa tematica laica ed economicistica possa suonare addirittura come provocatoria. Ma ci ridurremmo davvero alle fattezze delle «beghine di Porta Pia» cui un democristiano ha avuto il gusto assai discutibile di ricondurci, se non ci facessimo avanti a richiamare questo punto fondamentale. Negli anni del «boom», un’ideologia vaga come il «pensiero sociale cristiano» poteva ancora servire. Oggi, se si


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vuole vincere la disaffezione di quel che resta in Italia di borghesia produttiva per le istituzioni democratiche e per il partito che ne costituisce tuttora il presidio numericamente più valido, occorre uscire dall’equivoco e prendere una chiara posizione nei confronti dell’insostituibile funzione dell’impresa privata fondata sul profitto, intendendo la tanto sbandierata «socialità» nell’unico modo compatibile con l’esistenza di una moderna società industriale, che è quello della creazione di una rete di «servizi» che migliorino la qualità della vita o, per dirla con una espressione meno enfatica, che rendano più sopportabili i disagi che una siffatta società porta inevitabilmente con sé. Fuori da questa scelta pregiudiziale, il dibattito sulle alleanze da cercare o da rifiutare diventa un non senso. In una lettera di qualche tempo fa a un quotidiano, l’on. Fanfani precisava che l’on. Moro aveva fatto bene a dire nel suo discorso di Bari che… seguivano una serie di proposizioni attentamente ritagliate dal testo del discorso del Presidente del Consiglio, messe insieme allo scopo di dimostrare che, dopotutto, checché se ne fosse detto, l’on. Moro aveva ribadito la tesi della «contrapposizione» al PCI consacrata negli atti dell’ultimo congresso della DC e tanto cara all’on. Fanfani. Letta la lettera, abbiamo provato a rileggerla per controllare se al principio c’era davvero scritto «l’on. Moro ha fatto bene a dire…», oppure piuttosto, come il senso richiedeva, «l’on. Moro avrebbe fatto bene a dire…» – tanto il montaggio delle citazioni ci era sembrato artificioso. In realtà, le parole come «confronto» e come «contrapposizione», che da alcuni mesi ritornano di continuo nel dibattito politico-giornalistico, non significano più nulla, a meno di non usarle come sigle al posto del nome di alcuni dei leader della DC che, in mancanza di altre parole d’ordine, legano ad esse la propria fortuna politica. Siamo arrivati al punto di discutere seriamente se era poi vero che la «contrapposizione» dovesse essere di necessità «frontale»,


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mentre poteva essere anche laterale o tergale – con il che il discorso sfiora addirittura il rischio del doppio senso. Si giostri pure con le parole, ma i termini dell’equazione restano immutati. Visto che ciò a cui ci si deve «confrontare» o «contrapporre» non è oggetto di discussione, si tratta di vedere cosa i democristiani vogliono mettere a confronto o contrapporre: se un partito che crede ancora nella democrazia politica e nella libera intrapresa, e nel legame che unisce fra loro le due cose, oppure una partito che, sacrificando la libera intrapresa, mira all’edificazione di uno stato assistenziale che si assume in toto l’onore della produzione e provvede a distribuire equamente (?) i frutti fra le diverse corporazioni di produttori. In questo secondo caso, la linea della «contrapposizione frontale» si tradurrebbe nella difesa a tutti i costi degli interessi dei dodici milioni e mezzo di «bottegai», dei quali, secondo il giudizio un po’ sbrigativo dell’on. Bassetti, sarebbe costituito l’elettorato della DC. Accanto alla prospettiva del «rinnovamento interiore» i notabili democristiani impegnati nella «rifondazione» del loro partito dovrebbero tener presente anche la dialettica dello «spirito» e della «lettera», onde evitare che – come soleva dire nel secolo XV il famoso predicatore Bernardino da Siena – la «scorza di fuori» non nasconda il vuoto della «midolla di dentro». Il Giornale, 17 ottobre 1975 Al francese Pierre Toubert il Premio internazionale Galilei Geografia alleata della storia* Quest’anno il vincitore del «Premio Galileo Galilei dei Rotary italiani» è lo storico francese Pierre Toubert. Il pre* Si veda, in questo volume, Il Messaggero, Il paladino della storia globale, 22 aprile 1991.


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mio gli è stato assegnato domenica scorsa nell’Aula Magna dell’Università di Pisa; si tratta di una scultura di Emilio Greco, e l’ha consegnata al vincitore il ministro Spadolini. Ospite d’onore della cerimonia, la signora Sachrov, che ha diviso gli applausi col premiato. Il Premio Galilei è destinato a stranieri che si sono dedicati in modo prevalente allo studio della storia italiana, intesa nella vasta gamma delle possibili specializzazioni accademiche (archeologia, letteratura, lingua, storia, politica, dell’arte, della musica, del pensiero, e così via). Nonostante gli alti e bassi delle quotazioni dell’Italia di oggi, gli italianisants, o patiti colti dell’Italia di ieri, sono ancora legioni nel mondo intero, e l’imbarazzo delle giurie designate anno per anno dal rettore dell’Università di Pisa e stabilmente presiedute dal glottologo Tristano Bolelli, che è l’inventore della formula, consiste solo nella difficoltà di scegliere bene. Quest’anno, per la quattordicesima edizione, il premio toccava a uno storico come suol dirsi politico. Dieci anni fa, il prescelto era stato Hans Baron, sottile indagatore dei rapporti fra vita politica e riflessioni sulla politica e gli stati nell’Italia del primo Rinascimento. Anche il vincitore per il 1975, Pierre Toubert, è lontano dal rappresentare il tipo tradizionale dello «storico politico». Ungari e saraceni L’idea di storiografia ch’egli ha perseguito nelle millecinquecento pagine della sua opera sulle strutture del Lazio medievale (Il Lazio meridionale e la Sabina dal IX secolo alla fine del XII) è infatti quello della «Storia globale», elaborato in Francia a partire dagli Anni Trenta dal gruppo di storici che gravitano intorno alla rivista «Annales». Il problema che sta al centro di quest’opera è la radicale trasformazione delle forme di occupazione del suolo che si ebbe fra secolo X e secolo XI, in seguito alla costruzione


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di villaggi fortificati che presero il posto dell’habitat rurale disperso, caratteristico dei secoli precedenti. Il Toubert dimostra che le invasioni di ungari e saraceni non ebbero il peso che la tradizione attribuisce loro nel determinare questo fenomeno, che modificò in profondità il paesaggio agrario e le strutture sociali dell’Italia del Mille. La vecchia tradizione francese di una geografia alleata della storia, senza pretendere per questo di riaffermare di soppiatto il primato dell’ambiente naturale sull’uomo, si rivela ancora una volta vitale. Scegliendo il Lazio, una regione povera di vita cittadina, il Toubert ha inteso volgere le spalle alla consolidata tradizione, agli occhi della quale l’un per cento di mercanti di cui era fatta l’Italia di allora finiva col contare di più del restante novantanove per cento rappresentato dai contadini. Ma questo mutamento di indirizzo non si accompagna nel suo caso al fastidioso antistorico riecheggiamento della polemica «piagnona», oggi tanto di moda, contro l’Italia delle città. È solo il frutto di una scelta storiografica che tende a ridurre, nei limiti del possibile, il Medioevo italiano nel quadro del Medioevo Europeo. Centenario Per una felice coincidenza, l’assegnazione del Premio Galilei al Toubert ha luogo nel momento in cui l’École française de Rome, che lo ha avuto come allievo, si appresta a celebrare il suo centenario. Dopo tanto parlare per lo più a vanvera di collaborazione culturale europea, ecco finalmente un esempio di buone intenzioni che non restano tali. All’iniziativa pisana dei Rotary italiani va riconosciuto il merito di avere attirato sugli scambi internazionali di cultura l’attenzione di un pubblico più vasto di quello, necessariamente specializzato, cui il Toubert si rivolge nella sua opera monumentale.


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L’Europa/Comunità, 31 ottobre-14 novembre 1975 La «rifondazione» e lo scisma L’eventualità di un secondo partito cattolico e i prevedibili riflessi sull’atteggiamento della Chiesa Nulla di nuovo da segnalare sul fronte della «rifondazione» della DC, tranne le quotidiane illazioni, più o meno arbitrarie, dei pastonisti. Ciò che metterebbe drammaticamente termine, da un giorno all’altro, ai travagli di rifondazione sarebbe solo la «fondazione» di un secondo partito cattolico, non importa se a sinistra o a destra della DC. Sui due diversi progetti esistenti al riguardo ci intrattiene Giuseppe Mazzei in un’altra pagina di questa rivista, facendo – com’è doveroso – nomi e cognomi. A noi preme soltanto di prospettare alcuni risvolti di una tale eventualità, in particolare per ciò che concerne il prevedibile atteggiamento della Chiesa. L’ipotesi di una rifondazione della DC che consista soprattutto in una sua «laicizzazione», è fra le più frequentemente ventilate, sia per propugnarla che per scongiurarla. Noi stessi abbiamo indicato su queste colonne alcuni motivi che militano a favore di questa soluzione. Uno dei più sottili di essi sta, a nostro avviso, nel fatto che, «laicizzandosi», la DC si metterebbe forse in condizione di assorbire almeno una parte dei movimenti cattolici (al plurale) postconciliari. Tale affermazione ha, ce ne rendiamo conto benissimo, un carattere paradossale, ma si fonda sul presupposto secondo cui una DC che non sia purgata anche dall’ombra del sospetto di pretendere al monopolio della rappresentanza degli interessi in senso lato della Chiesa in Italia, non avrà mai la libertà di movimento necessaria per elaborare le risposte che quei movimenti si attendono anzitutto sul piano culturale (Che poi la DC, una volta liberata totalmente all’ipoteca confessionale, queste risposte sia davvero in grado di darle è tutt’altro discorso che per il momento non ci interessa).


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Il problema di assorbire quelle spinte esiste realmente: su ciò sono in molti a concordare, a cominciare da Francesco Alberoni che da qualche tempo pone al centro delle sue analisi sulla crisi della DC proprio il fallimento del «dissenso cattolico» come «movimento riformatore». Ma chi non ritiene che la soluzione di tale problema passi attraverso una DC laicizzata, tende di necessità a prendere in considerazione l’ipotesi della fondazione di un secondo partito cattolico, che si collochi a sinistra della DC, fuori dalle compromissioni con il blocco storico che terrebbero imprigionata senza rimedio questa e la Chiesa medesima. È difficile dire quale sia il vero atteggiamento del PCI di fronte a questa prospettiva, che, a seconda dei punti di vista, pare fatta apposta per rendere possibile e vicina, oppure per allontanare definitivamente, la stipulazione del «compromesso storico». Si può invece dire con certezza che la Chiesa farà il possibile per scongiurare una eventualità che, nella situazione italiana, dato il filo che tuttora collega piazza del Gesù* all’altra sponda del Tevere, acquisterebbe l’aria di uno «scisma» nel senso proprio ed ecclesiastico del termine. In conseguenza, si avrebbe sicuramente una riaccensione di interesse della Curia per il partito rimasto «ortodosso», che verrebbe a perdere l’autonomia faticosamente conquistata negli anni degasperiani e pacificamente goduta dal Vaticano II in poi, creando nuovi imbarazzi ai suoi alleati laici e facendo fare un altro passo indietro alla situazione italiana nel suo complesso, come se non bastassero quelli che si registrano sul piano dell’economia. Intorno al nuovo partito, il «dissenso cattolico», nelle sue varie manifestazioni laiche ed ecclesiali, si istituzionalizzerebbe come tale, rendendo impossibile il processo di recupero descritto e, a quanto sembra, auspicato da Alberoni. Quanto ai laici, anche quelli che in cuor loro sono * A piazza del Gesù era la sede della Democrazia Cristiana.


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portati a indicare nell’estraneità dell’Italia alla Riforma protestante una delle cause della debolezza morale del paese, è da escludere che possano illudersi che questa sia l’occasione per riguadagnare oggi il terreno perduto allora, indipendentemente dalle opinioni che uno può nutrite sulla consistenza religiosa e morale dei dissenzienti cattolici spuntati in Italia dopo il ’68. Le considerazioni che veniamo facendo hanno il difetto dell’ovvietà. Ciò che a qualcuno potrà sembrare meno pacifico è che la fondazione di un partito cattolico a destra della DC avrebbe conseguenze addirittura più gravi. Nelle varie analisi che si sono tentate a suo tempo dell’atteggiamento dei promotori del referendum per il divorzio, non si è mai abbastanza sottolineato il punto secondo cui alcuni di essi, i più coerenti, miravano a mettere nell’imbarazzo non solo la DC, ma anche la Chiesa post-conciliare, considerata troppo arrendevole di fronte alle suggestioni del mondo moderno. Poiché, alla lunga, la sola rivendicazione dell’eredità del genuino «popolarismo» non basterebbe a giustificare l’esistenza di un secondo partito cattolico, è da ritenersi per certo che la nuova formazione offrirebbe un punto di coagulazione e di incontro allo scontento dei cattolici tradizionalisti, quelli – tanto per intenderci – che chiedono a gran voce la canonizzazione di Pio XII e sarebbero pronti a includere nel Sillabo le costituzioni più innovatrici del Vaticano. Avremmo, insomma, anche in questo caso, una specie di «scisma», con l’aggravante che esso rimesterebbe le zone più oscure della nostra tradizione religiosa, rimettendo in circolazione fantasmi che ritenevamo per sempre sepolti. Quanto alle prospettive politico-elettorali di questa nuova formazione, il voto del maggio ’74 sta ad indicare che la svolta a destra, anche sul piano etico-religioso, non paga. L’ipotesi della fondazione di un secondo partito cattolico, sia nell’una che nell’altra versione, deve infine fare i conti con una possibilità che non è poi tanto remota quan-


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to si potrebbe credere. Verrà il giorno in cui i partiti laici si decideranno a porre sul tappeto, in modo perentorio, il problema della revoca unilaterale del Concordato. Molti inizi lasciano pensare che si tratterebbe di un’operazione indolore quasi come la rinuncia alla «zona B», un atto che fino a qualche anno fa sarebbe sembrato impossibile. Ne ricaveremmo tutti, laici e cattolici, il vantaggio inestimabile di avere tolto un argomento di grande peso alla polemica radicale, sempre più invadente e fastidiosa. Quel giorno, per la DC rifondata o in via di rifondarsi, si aprirà una nuova chance: rinnovare i propri quadri attingendo alle fila del clero. Non è da escludersi che nuovi don Sturzo siano in attesa della loro ora nelle diocesi e nelle parrocchie italiane. Ora, è chiaro che se i partiti cattolici diventassero due, questa possibilità di risanamento verrebbe meno, perché la Chiesa farebbe di tutto per evitare lo scandalo, generatore di scisma, di membri del clero che si scontrassero sulle pubbliche piazze per contendersi il voto degli elettori. L’Europa/Il tempo e il sentimento, 16-26 dicembre 1975 «Identikit» dei Maroniti* Una comunità politico-religiosa nell’infuocato crogiuolo del Medio-Oriente Nelle cronache delle sanguinose giornate libanesi ritorna spesso il nome dei maroniti. Ma mai nessuno che si soffermi un istante a spiegare chi sono, da dove vengono, cosa vogliono, perché si chiamano così. Si sa solo che sono cristiani – una comunità politico-religiosa che ha i suoi seggi in parlamento. Eppure la storia dei maroniti ha aspetti affascinanti per la sua sorprendente continuità attraverso un suc* Si veda, in questo volume, Il Giornale, Sotto il segno dell’anacoreta, 2 settembre 1982.


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cedersi di dominazioni e persecuzioni che dà il capogiro. In breve, possono essere definiti come una specie superstite dell’era delle grandi controversie cristologiche del quinto secolo, sopravvissuta nel suo isolamento all’invasione arabomusulmana e a tutto ciò che si è abbattuto dopo di allora sulle provincie più tormentate del Levante mediterraneo. Un osso duro, con tutto quel passato dietro le spalle, per chi si proponesse di cancellarli dalla faccia della terra. All’inizio, nelle vesti di eroe eponimo, il santo eremita Marone, vissuto fra quarto e quinto secolo nei pressi di Apamea, in Siria. Uno fra i tanti, dotato delle virtù austere e dei poteri taumaturgici fatti per impressionare le folle. Alla sua morte (verso il 410, l’anno – tanto per orizzontarci – del sacco di Roma), fu costruita una chiesa per custodirne il corpo e onorarne la memoria. Ma ben presto, al posto della chiesa, subentrò una comunità di monaci, riuniti nel suo nome: erano già i maroniti. Nel secolo X, prima di essere distrutto dai musulmani, il monastero di S. Marone risultava costituito da più di trecento celle: si diceva che vi fosse conservato oro, argento e pietre preziose in quantità considerevole. Ma, a partire dalla fine del secolo VII, i maroniti avevano cominciato a sciamare dalle ricche pianure della Siria verso il Libano, prima settentrionale, poi centrale e meridionale, che sarebbe stata la loro sede definitiva. Ormai non erano più una comunità di monaci, ma una chiesa (con alla testa un patriarca e dei vescovi) o – meglio – un popolo attivo e laborioso che, cementato dalla fede comune, obbediva a dei capi, ad un tempo politici e religiosi. A produrre tutto questo non era stata né la predicazione né l’esempio di Marone, un anacoreta, distinguibile a mala pena da tanti altri come lui, il cui ricordo resta affidato solo a una casella in una uniforme galleria di santi. Perché quella comunità di monaci generasse una chiesa ed un popolo con una identità propria, gelosamente conservata attraverso i secoli, furono necessarie le controversie dottrinali del secolo V.


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Accettata ormai da tutti la soluzione «nicena» del problema del rapporto intercorrente fra le prime due persone della Trinità, il dibattito teologico investì allora il problema altrettanto delicato, del rapporto fra le due nature – la divina e l’umana – coesistenti nel Figlio, investendo anche la questione, ad esso strettamente collegata, della parte che andava assegnata alla Madonna nella storia della salvezza. Il contrasto ebbe inizio quando il patriarca di Costantinopoli Nestorio, esponente della scuola teologica di Antiochia, nell’intento di tenere concettualmente distinte le due nature congiunte nel Cristo, protestò contro l’appellativo di «madre di Dio» (theotókos) che la scuola di Alessandria attribuiva alla Madonna. Secondo Nestorio, l’appellativo corretto era invece «madre di Cristo» (christotókos). L’obiezione fu distorta polemicamente dagli alessandrini, che la presentarono come un attentato al culto della Madonna e come una negazione della indissolubilità delle due nature. Roma di schierò con Alessandria contro Antiochia, mentre l’imperatore Teodosio II cercò, nei limiti del possibile, di mantenersi neutrale. Nestorio restò soccombente (terzo concilio ecumenico: Efeso, 431) e fu esiliato in Egitto, dove morì assassinato da un monaco. Ma la chiesa e la scuola di Alessandria, uscite vincitrici dallo scontro con Antiochia, persero il senso della misura. Eutiche, rappresentante del partito alessandrino a Costantinopoli, formulò la tesi estremistica secondo cui, al momento dell’incarnazione, le due nature di Cristo avrebbero dato vita a una sola natura divina. Tale dottrina, che fu per l’appunto chiamata «monofisismo», si risolveva in una negazione della natura umana di Gesù, laddove il «nestorianesimo» veniva accusato dai suoi detrattori di negare quella divina. A favore del «monofisismo» prese posizione Teodosio II contro papa Leone I, che cercò di evitare la convocazione di un nuovo concilio, sostenendo la tesi che l’ultima parola spettava a lui, in quanto successore di Pietro, principe degli apostoli. Ma il concilio si tenne egualmente, ad Efeso, nel


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449, e il patriarca di Alessandria Dioscoro, ricorrendo alla violenza, costrinse i vescovi a riconoscere come ortodossa la dottrina alessandrina. Solo la scomparsa di Teodosio II e il mutato atteggiamento del suo successore consentirono che le decisioni prese in quello che venne chiamato il «latrocinio di Efeso», fossero rimesse in discussione in un nuovo concilio ecumenico, il quarto, che fu tenuto a Calcedonia, nel 451, alla presenza di legati papali. Il concilio di Calcedonia si concluse con la condanna del «monofisismo», pronunciata sulla base delle tesi sostenute da papa Leone. Le decisioni dei concili ecumenici di Efeso e di Calcedonia fissarono per sempre la dottrina cristologica della Chiesa, sia latina che greca. Ma estremisti nestoriani, da un lato, e dall’altro, in misura molto maggiore, monofisiti egiziani, siriaci ed armeni rifiutarono di accettare, per opposte ragioni, questa piattaforma comune, trincerandosi in una posizione di rifiuto che, nelle sue estreme propaggini, resta ferma ancora oggi (chiesa copta in Egitto e in Etiopia; giacobiti di Siria). Subito dopo Calcedonia, la reazione degli sconfitti fu violentissima. Ad Alessandria, appena arrivata la notizia dell’esito del concilio, fu sterminato il presidio imperiale. Da allora in poi, la vera autorità dell’Egitto non fu più costituita dal governatore inviato da Costantinopoli, ma dal patriarca scismatico eletto dai monofisiti. L’Impero, che, dopo Costantino, aveva cercato nel cristianesimo la forza per resistere alle minacce sempre più incombenti che gli venivano dall’esterno, trovava un nuovo motivo di debolezza e di disgregazione nelle eresie e negli scismi che dilaniavano la Chiesa e che tendevano a ripercuotersi immediatamente su di esso, compromettendone l’unità. In una regione dove prevalevano i monofisiti, i seguaci di s. Marone optarono per l’ortodossia calcedoniana. Ogni anno, il 31 luglio, la chiesa maronita venera i trecentocinquanta monaci massacrati dalla opposta fazione. Un tributo di sangue che, esattezza delle cifre a parte, era destinato a tradursi in un elemento di coesione per i superstiti.


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Viene poi il momento oscuro della storia dei maroniti, quello che ancora oggi divide gli storici della cristianità orientale, destando passioni che chi è fuori da quel mondo non potrà mai comprendere. Si tratta, in poche parole, di questo. Verso il terzo decennio del secolo VII, l’Imperatore Eraclio ristabilì l’autorità dell’Impero sulla Siria, dopo aver sconfitto i persiani in una serie di campagne, coronate dalla vittoria su Cosroe II. Poiché, nel periodo dell’egemonia persiana, i monofisiti avevano goduto della protezione dei nemici dell’Impero, Eraclio cercò di approfittare della situazione per imporre nelle regioni riconquistate l’ortodossia calcedoniana. Ma i vescovi monofisiti non accettarono l’ingiunzione e allora Eraclio ricorse alla maniera forte, spossessando i dissidenti di chiese e monasteri che vennero trasferiti agli ortodossi. Anche i maroniti beneficiarono di questo rovesciamento della situazione: fin qui non c’è problema. L’incertezza comincia dal momento in cui, qualche anno dopo la vittoria sui Persiani e il mancato ritorno all’ortodossia dei monofisiti, Eraclio propose a questi ultimi un compromesso di carattere teologico. Fermo restando il deliberato di Calcedonia circa le due nature del Cristo, si cercava di venire incontro alle esigenze dei monofisiti, riconoscendo nel Cristo medesimo una sola volontà (monotelismo). È assodato che a un certo momento i maroniti accettarono questa dottrina che veniva in qualche modo ad intaccare la loro ortodossia calcedoniana, allontanandoli per di più dalla comunione con Roma, che fu pronta nel rifiutare il compromesso escogitato da Bisanzio per ragioni in prevalenza politiche. Non sappiamo però né quando i maroniti vennero a conoscenza della nuova dottrina né quando l’abbandonarono, ritornando all’ortodossia. La tendenza degli storici maroniti consiste nel ritardare il più possibile il momento dell’apostasia e di anticipare di converso il momento del definitivo riavvicinarsi a Roma.


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A favore dei sostenitori di una data tarda per l’adesione dei maroniti al monoteismo gioca un argomento di indubbio valore. La promulgazione di tale dottrina risale agli anni fra il 636 e il 638. Orbene, fra il 634 e il 636 la Siria fu conquistata dagli arabo-musulmani. Sembra perciò difficile immaginare che i maroniti abbiano fatto in tempo a ricevere e a far loro questo «vient-de-paraître» della teologia imperiale bizantina. Sta di fatto che i monofisiti accolsero a braccia aperte i seguaci di Maometto, sotto il cui dominio essi ritenevano di poter meglio tutelare nella sua integrità originaria la propria fede anti-calcedoniana. Da parte loro, i maroniti, che avevano assaporato per un attimo i vantaggi di trovarsi dalla parte del più forte, ripiombarono nella condizione ad essi abituale di minoranza perseguitata. Non tanto però da non poter far sentire pubblicamente le loro ragioni, se è vero che, nel 659, a Damasco, si svolse una disputa teologica fra due vescovi monofisiti e una rappresentativa maronita: a presiederla sedeva il califfo in persona. La spiegazione della conversione dei maroniti al monotelismo offerta dagli apologeti è ingegnosa e suggestiva. Le più antiche testimonianze di una propensione maronita al monoteismo risalgono ai primi decenni del secolo VIII. Le cose sarebbero andate press’a poco così. I maroniti erano rimasti tagliati fuori dal contatto con Costantinopoli e con Roma e quindi non avevano neanche sentito parlare né del monotelismo, né della nuova dottrina elaborata in risposta ad esso, che ribadiva la presenza nel Cristo di due volontà distinte in corrispondenza delle sue due distinte nature. Trovandosi in questa ignoranza, i maroniti sarebbero venuti in contatto con prigionieri bizantini catturati degli Arabi all’inizio del secolo VIII, i quali nei loro discorsi mostravano uno sconcertante interesse per la dottrina delle due volontà (nel frattempo il monotelismo era stato condannato dal sesto concilio ecumenico). Preoccupati di questa svolta del pensiero teologico che avrebbe complicato ancora di


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più i loro rapporti già difficili con i monofisiti, i maroniti avrebbero elaborato una dottrina loro propria, che, senza spingersi ad ammettere la dottrina della sola volontà, sottolineava con fermezza il punto secondo cui fra le due volontà non poteva esserci nessun contrasto. In altre parole, i maroniti avrebbero inventato per conto loro una specie di monotelismo attenuato, più che altro a sfondo morale. La spiegazione ha tutta l’aria di essere artificiosa, ma riflette bene la situazione di isolamento in cui si trovavano allora i maroniti, venuti ad accamparsi nelle valli del Libano (dopo avere abbandonato la loro sede originaria in Siria) e schiacciati fra musulmani, da un lato, che li guardavano con sospetto, e i monofisiti, dall’altro, che godevano invece della aperta protezione degli invasori. È soprattutto in questo periodo che, indipendentemente dalla loro adesione al monotelismo, i maroniti si realizzarono come comunità politico-religiosa, chiusa in se stessa ed inassimilabile dai dominatori del mondo circostante. Il ritorno dei maroniti all’ortodossia sarebbe avvenuto al più tardi in coincidenza con le crociate verso la fine del secolo XII. Innocenzo III, qualche tempo dopo, sancì la dipendenza da Roma del patriarcato maronita. P.S.: Una curiosità: la «testa» di s. Marone è conservata da Foligno. Proponiamo di restituirla ai maroniti del Libano. L’Europa/Editoriali, 26 dicembre 1975-16 gennaio 1976 La dichiarazione dei vescovi Talvolta, nei mesi scorsi, avevamo sperato che il governo Moro, in un soprassalto di energia e di fantasia simili a quello che gli hanno permesso di liquidare in modo praticamente indolore il fastidioso residuo postbellico della «zona B», provvedesse a una denuncia del Concordato. Avremmo avuto qualche protesta. Ma lo scioglimento del


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nodo avrebbe soddisfatto tutti nell’intimo, tranne forse i radicali e i loro amici sparsi qua e là nei partiti laici, che si sarebbero visti sottrarre un bersaglio polemico di tutto riposo. Se non altro, oggi potremmo discutere della dichiarazione dei vescovi della CEI negli stessi termini nei quali un intervento di analoga portata verrebbe discusso, per esempio, in Francia. Ha un bel dire l’editorialista del «Corriere della Sera» che gli italiani non sono più sensibili alla problematica del Tevere più largo o più stretto. Sta di fatto che, non appena la dichiarazione è stata resa pubblica, la polemica sul Concordato si è riaccesa e non abbiamo sentito parlare di un vulnus solo perché ormai il latino non lo sa più nessuno. Da parte nostra, convinti come siamo che il Concordato sia da rimuovere alla prima occasione quando le acque si siano un poco calmate (farlo oggi sarebbe, evidentemente, impossibile), cercheremo di discutere della dichiarazione dei vescovi prescindendo dal problema dell’assetto presente e futuro dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia. Ci sembra assurdo menare scandalo del fatto che i vescovi abbiano richiamata la posizione della Chiesa – del resto mai rinnegata o attenuata – in materia di aborto, proprio nel momento in cui questo problema è all’esame del Parlamento. Se non l’avessero richiamata ora che il problema è in discussione, non vediamo quale altro mai sarebbe stato il momento opportuno per farlo. La posizione della Chiesa riguardo all’aborto ha un saldo fondamento teologico: qui sta la sua forza e, in un certo senso, la sua debolezza. Da parte nostra, ci augureremmo che quest’intervento non servisse tanto a rafforzare il fronte ormai vacillante dell’intransigentismo antiabortista, quanto a dare indirettamente vigore alla grande area di opinione silenziosa (l’assonanza con altre espressioni del genere non ci spaventa), costituita da tutti coloro che in sostanza convengono, anche se non a cuor leggero, sulla


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necessità della «depenalizzazione», ma arretrano esterrefatti di fronte alla stortura mentale consistente nel presentare l’aborto come una festa alla quale ogni donna abbia diritto di essere ammessa, come in una sorta di kermesse popolare nella quale si celebrino i fasti dell’amore disinibito. È invece probabile che, data la situazione italiana, la dichiarazione dei vescovi non sortisca affatto questo risultato, ma anzi l’effetto opposto di rendere ancora più emarginata ed inespressa l’opinione di cui sopra o, peggio, di consentire al PCI di porsi come l’unico interprete di essa, aggiungendo così un altro tratto alla sua fisionomia di partito d’ordine, il solo capace di compiere le necessarie riforme nel pieno rispetto delle tradizioni profonde del popolo italiano. La DC, che già si muoveva su questo terreno con grande imbarazzo, sarà infatti costretta a muoversi con un imbarazzo maggiore. Quanto ai partiti laici, essi saranno sempre più schiavi delle aggressive minoranze radicali che si agitano nel loro interno, usando con spregiudicatezza l’arma del ricatto morale. Ma la parte della dichiarazione che ha sollevato più scalpore è stata quella con la quale i vescovi hanno voluto ribadire l’inconciliabilità fra cristianesimo e marxismo. Di fronte all’insensatezza di certe proteste verrebbe fatto di prendere le parti dei vescovi e di replicare che, per ciò che ci concerne, avremmo trovato molto maggiore motivo di scandalo se i vescovi avessero affermato la tesi opposta: essere, cioè, il cristianesimo e il marxismo perfettamente conciliabili. Purtroppo però non è tempo di sofismi. I giorni che ci attendono si annunciano irti di incognite gravi. Sforzandoci, dunque, di prevedere sine ira et studio come la dichiarazione dei vescovi potrà giocare nel nostro incerto futuro. Nel dare notizia della dichiarazione, i titoli dei giornali hanno messo in risalto il paragrafo che, più di tutti gli altri, «faceva notizia»: quello, appunto, relativo alla riconfermata inconciliabilità fra cristianesimo e marxismo. Ma era da attendersi che, proprio perché impostato sul piano strettamente


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dottrinale, il discorso non avrebbe potuto attestarsi qui: e difatti, puntualmente, con la logica conseguenziaria tipica di ogni «sillabo» che si rispetti, i vescovi hanno accomunato al marxismo, nella condanna, il pensiero liberale e laico – in altre parole, l’intera tradizione di pensiero del mondo moderno. Così diluita, la asserita inconciliabilità fra cristianesimo e marxismo perde gran parte del mordente pratico che gli autori della dichiarazione intendevano attribuirgli, dal momento che è difficile pensare che si proponessero di fare della semplice accademia intorno a un tema dopotutto scontato. Dal suo punto di vista, ha avuto ragione l’on. Zaccagnin a «Tribuna politica», quando ha detto che, come cattolico obbediente, non poteva fare a meno di prendere atto delle proposizioni dottrinali dei vescovi, ma che, sul terreno politico, che è poi quello delle scelte delle alleanze (visto che, oggi come oggi, i cattolici in Italia non possono fare da soli), le cose restavano come prima: c’era un salto da compiere e, compierlo in una direzione piuttosto che in un’altra, non c’era da appellarsi alla dichiarazione dei vescovi bensì alle ragioni della politica, la cui autonomia nei confronti del magistero ecclesiastico è un valore acquisito per i cattolici italiani almeno dai tempi di De Gasperi in qua. Perché allora la dichiarazione dei vescovi? Non facciamoli, per carità, degli sprovveduti e cerchiamo di metterci nei loro panni. Anche loro, come noi, assistono preoccupati al quotidiano sgretolamento di ciò che noi, a differenza di loro, consideriamo il patrimonio di valori della civiltà liberale e cristiana dell’Occidente, e vorrebbero fare qualcosa per arrestarlo. Cercano di muoversi con prudenza, sul piano delle idee, per non urtare suscettibilità che sanno forti anche nelle loro file (l’autonomia della politica è un assioma laico che ha fatto scuola); non si accorgono di introdurre così nuovi elementi di divisione in un campo composito e reattivo come è quello dello schieramento democratico, dal quale ieri è venuta alla Chiesa l’amarezza


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della legge sul divorzio e che riserverà domani – c’è da esserne certi – l’amarezza ancora più forte della depenalizzazione dell’aborto, ma che è anche il solo probabile in grado di garantire in Italia una assoluta libertà di apostolato, senza le pesanti contropartite che, per uno scampolo di libertà, essa è tenuta, per esempio, a pagare in Polonia. Tirando le somme, mentre è probabile che la dichiarazione dei vescovi avrà un effetto limitato nei confronti delle scelte politico-elettorali di quei cattolici che sentono il richiamo dei partiti di ispirazione marxista, è sicuro che essa contribuirà ad approfondire le divisioni fra le forze dell’arco democratico, visto anche il perdurare dell’ipoteca concordataria cui accennavano all’inizio. La nostra posizione potrebbe essere bollata di cecità laicista, se solo si potesse sperare che la dichiarazione dei vescovi avrà almeno la virtù di creare una mobilitazione degli animi all’interno della Chiesa, considerando questa, alquanto strumentalmente e irrealisticamente, come l’ultimo ridotto della libertà minacciata. Ma non occorre molta immaginazione per prevedere una sorda resistenza proprio in quella parte del clero postconciliare che, senza cadere nel neotemporalismo giustizialista dei dissenzienti, ha la precisa coscienza di avere finalmente raggiunto la maggiore età e ritiene di poter predicare il Vangelo senza doversi interrompere ad ogni versetto per distribuire condanne ideologiche in tutte le possibili direzioni. In conclusione, un certo «fin de non recevoir» dei cattolici impegnati nell’azione politica troverà un riscontro in un certo «fin de non recevoir» dei parroci impegnati nell’azione pastorale. Dopo tanto rumore, la dichiarazione dei vescovi della CEI è destinata a mostrare i suoi limiti soprattutto sul terreno pratico.


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Il Giornale, 8 febbraio 1976 Il vuoto Anche negli anni di maggiore voga post-settantottesca delle scienze umane gli studenti delle facoltà umanistiche non hanno mai smesso di includere nei loro piani di studio «liberalizzati» un congruo numero di esami di storia. E non solo di storia contemporanea, ma anche di storia antica, medievale e moderna, decidendo poi, in molti casi di preparare la tesi di laurea in una di queste discipline. Perdite assai gravi ha subito invece la geografia, come se per il passato noi italiani l’avessimo studiata abbastanza. Ma la storia, che moltissimi continuano a studiare, è spesso una storia «sui generis». Un anno fa, in un’intervista al sen. Spadolini, fatta subito dopo il passaggio degli Archivi di Stato dal ministero dell’Interno al nuovo ministero per i Beni Culturali, l’intervistatore, evidentemente non soddisfatto delle pacate spiegazioni ricevute dal ministro, cercava di trarre così, per conto suo, la morale dell’avvenuto trasferimento di competenze: ora che gli archivi erano stato sottratti alla giurisdizione prefettizia, si avvicinava l’ora in cui tutte le trame oscure di cui è stata intessuta «ab initio» la storia d’Italia sarebbero state finalmente smascherate. Novanta casi su cento, lo studente universitario che si appresta a studiare storia nutre intorno al passato e allo studio di esso un’idea analoga. Dai tempi di Voltaire in giù alla storia che si vede passare sotto i nostri occhi, punteggiata di colpi di stato, di crisi di governo e di armi sferraglianti sui campi di battaglia, è stata sempre di nuovo contrapposta la storia che non si vede, una «storia profonda». Volta a volta, come protagonisti di questa storia più vera sono stati indicati i pregiudizi, le religioni, le idee, le classi sociali, le innovazioni tecnologiche, le istituzioni, l’inconscio, i cicli economici, le strut-


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ture variamente intese. La versione più vulgata di storia profonda è oggi quella secondo cui la struttura di base della realtà politico-sociale è costituita da un intreccio di macchinazioni oscure. Non è da escludere a priori che chi, partendo da questi presupposti, affronti le fatiche di una ricerca d’archivio, non possa anche fare delle scoperte interessanti: la conoscenza dei semplici retroscena e, di tanto in tanto, la scoperta postuma di qualche congiuntura propriamente detta giovano, da che mondo è mondo, a una migliore comprensione dell’accaduto. Ma questa possibilità è subordinata ad alcune condizioni: anzitutto che si abbia la pazienza di ricercare e si disponga dell’armamento critico e linguistico (anche bene addentro nell’età moderna le trame venivano ordite… in latino); in secondo luogo, che si abbia rispetto per i «fatti». Tempo fa, un illustre storico italiano, di formazione non certo positivistica, ma che vive da anni in Inghilterra, un Paese nel quale i «fatti» sono tradizionalmente rispettati, si dichiarava preoccupato della disinvolta ostinazione con cui alcuni giovani storici che aveva avuto occasione di incontrare in Italia, rifiutavano di arrendersi all’evidenza delle testimonianze, come se tutto fosse sempre in discussione. In questo modo, il documento d’archivio pazientemente dissepolto non basta più: anch’esso, per il solo fatto di essere stato scritto da un cancelliere asservito ai padroni nella lingua artificiale in cui si esprimono i ceti dominanti, è «mistificatorio». La coerenza vorrebbe che, con un ulteriore passo in avanti, i nostri ipercritici ricercatori dichiarassero bancarotta, reinventando il «pirronismo storico». Ma a questo punto li soccorre l’ideologia. Non subito, né necessariamente l’ideologia marxista, bensì l’ideologia molto più elementare, e che si appella al senso comune, secondo cui la molla della storia è la «lotta per il potere». Una chiave usata per aprire tutte le porte e


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indifferente all’esame dei contesti e delle mediazioni in cui e attraverso cui una siffatta lotta viene via via combattuta. Il tragico è che chi pensa così si illude di leggere nel profondo. Mentre non fa altro che tradurre in un canone storiografico il gran vuoto che ha dentro di sé. Il Giornale/La parola ai lettori, 16 giugno 1976 Alleanza e verità sgradevoli Caro direttore, consenti a un tuo collaboratore, che non scrive di politica, di esprimere la propria opinione sul progetto dell’Alleanza laica. Nato col proposito di unire, esso rischia di introdurre nuovi elementi di divisione e di sospetto fra i partner interessati all’operazione. Questo accade per colpa un po’ di tutti, compreso te, che pure hai dato al progetto l’appoggio caloroso del nostro giornale. Come le altre formule politiche che oggi circolano in Italia, anche l’Alleanza laica non è una novità. Se n’è parlato da anni, in mille occasioni diverse, senza che si sia mai approdato a nulla di concreto. Ciò vuol dire, da un lato, che il progetto risponde a una esigenza sentita profondamente e, dall’altro, che le resistenze sono reali e non tutte riconducibili alla mancanza di buona volontà da parte dei leader che si sono succeduti alla guida dei tre partiti. Durante un intero trentennio, attraverso la costante riprova dei risultati elettorali, la qualifica di «partiti minori», che i maggiori hanno per tempo affibbiata ai tre partiti di democrazia laica, ha finito col diventare parte integrante della loro natura, elemento costitutivo dell’immagine che essi hanno di se stessi. La semplice prospettiva di diventare un po’ meno «minori», unendosi insieme, non è apparsa evidentemente, almeno finora, così allettante da indurli a far getto delle peculiari e divergenti tradizioni storiche ed


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ideologiche che, a loro volta, nutrono la vocazione minoritaria propria di ciascuna di essi. Anche all’approssimarsi dell’imprevista scadenza elettorale di quest’anno, come era già accaduto l’anno scorso, è tornato a risuonare l’appello accorato all’unione, ma troppo spesso accompagnato dall’avvertimento che, se non si fosse provveduto in tal senso, la logica del referendum avrebbe imposto di far dirottare, sebbene a malincuore, i voti verso il maggiore partito dell’arco democratico. Formulata in questi termini, diciamo ultimativi, la proposta aveva ben scarse possibilità di essere accolta dagli interessati, che hanno visto indirettamente ribadita attraverso di essa la loro posizione di sudditanza psicologica verso la Dc, laddove solo il superamento di questo stato d’animo consentirebbe di avviare su binari sicuri il processo di unificazione propugnato dai fautori dell’Alleanza. Avendo anch’io sottoscritto il «Manifesto degli intellettuali in difesa della libertà», ho di fatto accettato pubblicamente la logica del referendum. Ma, domenica prossima, anche se la mia circoscrizione elettorale non è una di quelle in cui i tre partiti hanno presentato candidati comuni per il Senato, non avrò esitazioni a votare, per entrambi i rami del Parlamento, le liste di uno dei partiti «minori», che sarebbero destinati a diventare minimi, se il mio esempio non fosse largamente seguito. Dopo di che, anche se riuscissero eletti tutti i candidati al Senato dell’Alleanza laica, è da presumere che di questa iniziativa non si parlerebbe mai. La posta del referendum di domenica prossima è solo la conservazione da parte della Dc della palma di «partito di maggioranza relativa», fulcro di un indifferenziato blocco d’ordine, che i democristiani sono i primi a non volere, perché sarebbe l’anticamera della guerra civile. Lo scavalcamento della Dc da parte dei comunisti costituirebbe certo un trauma gravissimo per l’intero schieramento democratico, ma sarebbe anche una grande iattura se, nel Parlamento che ci apprestiamo ad eleg-


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gere, l’Italia non comunista e non socialista (e, naturalmente non fascista) fosse in pratica rappresentata da un partito cattolico in via – non dimentichiamolo – di «rifondazione». È in questa ottica che va, fino da adesso, rilanciata la proposta per l’Alleanza laica, senza attendere un’altra vigilia elettorale. Alleanza laica o, come preferiscono alcuni democratica? La scelta dell’etichetta non è indifferente, dal momento che ciò che accomuna i tre partiti interessati all’operazione, è, in modo più specifico, il «laicismo» e sarebbe, perciò molto strano se si cominciasse con il disfarsi proprio dell’elemento aggregatore. Proprio perché l’Alleanza deve proporsi di diventare un punto di aggregazione per forze nuove e diverse rispetto a quelle che i tre partiti hanno finora rappresentato, è necessario affrontare subito i temi più scottanti per l’elettorato cattolico tradizionale: revisione (meglio abrogazione) del Concordato e regolamentazione ragionevole (il che vuol dire liberale e non permissiva) dell’intera materia dei diritti civili. Nel bagaglio comune dei tre partiti minori, oltre al laicismo, ci sono poi l’europeismo e l’antifascismo democratico – un valore quest’ultimo da ricuperare al più presto, dopo tanto strazio che se ne è fatto negli ultimi anni, nei comitati unitari antifascisti. Ma, come dicevamo all’inizio, non bisogna pensare di poter bruciare le tappe. L’Alleanza laica è tutta da inventare, sempre a patto che i suoi partner designati si ritrovino in buona salute dopo il 20 giugno. Caro Arnaldi, vedo dalla tua lettera che non siamo riusciti ad essere abbastanza chiari. Approfitto quindi del pretesto che mi offri per mettere ancora più a fuoco la linea che abbiamo deciso di assumere dopo un’approfondita discussione fra noi. E te la riassumo in pochi punti. 1) Prima ancora che fossero bandite, noi sapevamo (e ci voleva poco) che le elezioni sarebbero state per un «sì» o per


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un «no» al comunismo, cioè che si sarebbero imposte come un referendum, il che avrebbe come sempre provocato l’ammassamento dei voti sul protagonista (Pci) e sull’antagonista (Dc) a scapito di tutti gli altri partiti. Possiamo deprecarlo. Ma l’impegno dell’obbiettività ci costringe a constatarlo. Se non lo facessimo, perderemmo ogni credito presso il lettore, il quale sa che di referendum di tratta, e come tale lo affronta. 2) Proprio perché presentivamo tutto questo, abbiamo sollecitato i tre partiti laici almeno a un patto di alleanza che consentisse loro di presentarsi come una forza alternativa alla Dc. Ma non possiamo fare a meno di constatare che, non essendoci riusciti, è fatale che la logica del referendum li falcidi. È una iattura, lo sappiamo. Ma tu non devi addebitarla a noi che abbiamo fatto il possibile per evitarla, se non vuoi fare come un mio zio che, quando aveva la febbre, se la pigliava col termometro e ne buttava via tre al giorno (ma la febbre gli restava). 3) anch’io voto, come te, per uno dei partiti laici. Ma quando il lettore mi chiede che cosa succederebbe se la Dc cedesse al Pci il suo margine di maggioranza relativa, devo dirgli la verità: e cioè che il capo dello Stato convocherebbe il signor Berlinguer e che questi, anche se al momento in cui sale le scale del Quirinale non avesse altro alleato che i socialisti, se ne troverebbe al fianco, ridiscendendone, parecchi altri, compresa una metà della Dc, con cui fare tranquillamente il suo governo. Queste cose, caro Arnaldi, sono estremamente sgradevoli. Ma sono verità. E come tali, noi abbiamo il dovere di registrarle. Indro Montanelli


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L’Europa, 14-28 giugno 1976 La logica della proposta comunista per l’Università I comunisti si impegnano a ristabilire la serietà degli studi, ma pretendono tutto il potere per sé nelle università Se nel mezzo di una campagna elettorale diversa da tutte le altre cui avevamo assistito fin qui, torniamo sul tema Università, non è solo per riaffermare la continuità fra «L’Europa» che oggi riappare nelle edicole e quella che ne è scomparsa alla fine del ’75, nella quale un apposito supplemento era dedicato mensilmente all’«istruzione superiore» e alla «ricerca»; e nemmeno solo per ribadire, a proposito di un problema specifico che può assurgere a valore di simbolo di ciò che si sarebbe voluto fare e, invece, non si è fatto, la nostra fede – nonostante tutto – nella politica delle riforme. Certo, la circostanza per cui un’altra legislatura si è chiusa senza che i Governi e il Parlamento della Repubblica siano riusciti ad andare oltre il traguardo provvisorio e, per tanti aspetti, insoddisfacente delle «misure urgenti per l’Università» dell’ottobre ’73, rende perplessi sulle attitudini della nostra attuale classe politica ad affrontare i problemi di fondo di una società moderna. Ma proprio il caso dell’Università, che è uno di quelli che meglio si presentano a rinfacciare le inadempienze di chi finora era tenuto a provvedere e non ha provveduto, consente anche di denunciare l’interessato semplicismo di chi vorrebbe far credere che, una volta estesa l’area del consenso (è l’eufemismo di moda fra i tecnocrati per designare l’ingresso dei comunisti nella maggioranza governativa), le riforme auspicate da sempre dai buoni democratici, e mai realizzate finché duravano i vecchi equilibri di forza, diventerebbero improvvisamente possibili. Concesso in partenza che, con maggioranze più stabili e più larghe, il meccanismo della produzione legislativa sarebbe messo in condizione di funzionare più


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speditamente, si tratta di vedere che tipo di leggi verrebbero prodotte. Accantonando per un momento il discorso sugli «schieramenti», affronteremo, insomma, un tipico problema di «contenuti». Un’ombra sinistra Nel caso dell’Università, i comunisti hanno avuto il merito di andare al di là delle vaghe enunciazioni che costituiscono la norma dei loro programmi e affidamenti per il dopo, anche se non ci vuole molta fantasia per comprendere, ad esempio, che una formula come «credito selezionato», prospettata come presupposto necessario del «nuovo modello di sviluppo», getti un’ombra sinistra sull’avvenire di quella «libera impresa» che di tale sviluppo dovrebbe essere la indiscussa protagonista. Benché presentato come un semplice abbozzo, come una prima proposta aperta agli interventi migliorativi e correttivi di tutti, un progetto comunista di riforma universitaria esiste, e solo il clamore della campagna elettorale sopravvenuta poco dopo la sua pubblicazione ha fatto passare in secondo piano le polemiche che esso ha suscitate da parte dei pochi che amano ancora ricavarsi la libertà del giudizio (Alberto Rochery sul «Corriere della Sera», Rosario Romeo su «Il Giornale»). Il progetto, va riconosciuto subito, ha aspetti molto positivi. L’on. Berlinguer, qualche tempo fa, aveva detto a Genova che i giovani della FGCI dovevano dare l’esempio di un ritorno agli studi severi, e il progetto manifesta in più punti la volontà di fare marcia indietro nei confronti della demagogia populista post-sessantottesca degli studi resi facili per tutti. Risuonano nel documento parole antiche e quasi dimenticate come «i doveri degli studenti». Di più – e qui la dose di coraggio e di spregiudicatezza richiesti per andare controcorrente era ancora maggiore –, si dice a chiare lettere che non è possibile prevedere che tutti i laureati


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che hanno avuto una borsa di studio o qualcosa di simile (i cosiddetti «precari») rimangano a vita nell’Università come docenti di ruolo. Persino il dogma nazionale secondo cui, contrariamente a ciò che avviene negli altri paesi del mondo, tutti i docenti dovrebbero essere dello stesso livello («docente unico»), è, se non negato, almeno scalfito, poiché i livelli previsti sulla carta sono due. Quello che qui si rivela è, insomma, il volto serio del PCI, fatto apposta per incantare tutte le brave persone che sono stanche della demagogia socialista e, in questo settore, anche cattolica. Ci voleva, evidentemente, la sicurezza di sé propria di un partito che si sente sulla cresta dell’onda, per avviare la demolizione e la rimozione delle autentiche stupidaggini e dei semplici luoghi comuni che hanno ispirato negli ultimi otto, dieci anni la politica universitaria dei partiti dell’arco democratico, ad eccezione – in parte, dei soli repubblicani. Ma di quella politica dissennata i comunisti hanno saputo approfittare per estendere giorno dopo giorno il loro potere nell’Università. Di fronte ai «gruppuscoli» che passano, FGCI e CGIL-Scuola che restano, hanno provveduto a creare posizioni di forza che, oggi, in alcune sedi, assicurano al PCI una condizione di assoluta egemonia politico-sindacale. Solo il sen. Bufalini, in quanto parlamentare comunista, può permettersi il lusso di tenere un comizio elettorale in un’aula della Facoltà di Lettere di Roma, senza neanche il bisogno di chiedere un’autorizzazione a un’autorità accademica che si nasconde. Le scritte che, dai muri, imprecano contro i compromessi dei «revisionisti», possono essere ottimisticamente interpretate come una prova di pluralismo in atto là dove il cambiamento è già avvenuto. Nel progetto di riforma presentato dai comunisti, gli organi di governo dell’Università sono congegnati in modo da consacrare questo nuovo equilibrio di forze. L’insidia contenuta nel progetto è tutta e solo qui, ma si concederà che non è un punto marginale.


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Libertà di insegnamento Partendo da esigenze largamente condivise, come la «democratizzazione» e la «partecipazione», gli estensori del progetto hanno delineato dei dipartimenti retti da organi di governo cui spetta, fra l’altro, il compito di decidere, anno per anno, che cosa un professore debba o non debba insegnare, e come. L’abolizione delle «cattedre» e della titolarità dell’insegnamento mira infatti a rendere i docenti dipendenti dall’assemblea dipartimentale non solo per ciò che riguarda la disponibilità dei fondi di ricerca, ma anche per ciò che concerne la scelta degli argomenti da trattare nei corsi. Poiché a deliberare sono chiamati anche gli studenti e il personale non docente, è inevitabile che, soprattutto nelle facoltà umanistiche, le decisioni siano prese in base a considerazioni di carattere politico-ideologico, le sole capaci di aggregare maggioranze in assemblee nelle quali siedono in prevalenza persone che, anche volendolo, non sarebbero in grado di esprimere giudizi di carattere scientifico culturale. Il prezzo richiesto dai comunisti per ristabilire la serietà degli studi è, dunque, puramente e semplicemente, il sacrificio della libertà d’insegnamento, che la Costituzione tutela anche indipendentemente dall’esercizio della speciale autonomia riconosciuta dalla Costituzione stessa alle Università. Ricondotta nei suoi termini essenziali, la proposta comunista per l’Università lascia trasparire una logica che ha un campo di applicazione vastissimo. Quando si impegnano a collaborare al ristabilimento dell’ordine, purché vengano istituiti, da un lato, il sindacato di polizia e, dall’altro, i comitati per il controllo del credito, i comunisti in fondo non fanno altro che estendere ad altri settori della vita associata la ricetta dei «dipartimenti» universitari. Solo che, a questo punto, le sottili dispute linguistiche sul duplice modo in cui è possibile tradurre in russo la magica paro-


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la «pluralismo», pronunciata dall’on. Berlinguer nel corso del suo intervento al Congresso del PCUS, perdono ogni senso, perché è il pluralismo in sé che va a farsi benedire. Il Giornale, 4 settembre 1976 Proposte per i laici Come uscire dal ghetto La proposta di associare fra loro i partiti di tradizione risorgimentale, ridotti a una condizione minoritaria fin dalle prime tornate elettorali del restaurato regime democratico, è una specie di filo rosso che attraversa questi trent’anni. Emarginato il Pci per le note ragioni; con il settore di destra popolato da soli fantasmi del passato; nell’attesa che il Psi si presentasse all’appuntamento, la sola dialettica possibile era quella fra la Dc e i partiti cosiddetti minori. Che fu la strategia di De Gasperi. È col 15 giugno 1975 che le cose sono cambiate. Costretti dalla dura eloquenza delle cifre ad affrontare la concorrenza diretta del Pci, tutti i democristiani, sia quelli favorevoli che quelli contrari al «compromesso storico», si sono adoperati a cercare voti a destra e a manca, come se si fosse già in regime di bipartitismo. Si fa presto ad accusare lo stato di nevrosi in cui sono caduti i tre partiti laici. Non si può fare carico a nessuno di darsi da fare per sopravvivere. Messo alle strette, ciascuno si arrabatta come può. È certo molto pericoloso prestare ascolto alle sirene del «pluralismo», ma ciò che viene offerto dall’altra parte è, per ora, unicamente la morte per consunzione. Avanzata nell’agitata vigilia del 20 giugno da gruppi di volenterosi estranei ai partiti, la proposta dell’«alleanza laica», intesa di nuovo come unione dei tre partiti minori, non ha trovato e non poteva trovare, buona accoglienza da


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parte degli interessati. Operazioni del genere, che hanno sempre un costo elevato, si possono tentare quando c’è un largo margine di sicurezza. Altrimenti, si risolvono in più o meno maldestri tentativi di socializzare le perdite e i fallimenti di tutti e di ciascuno. Da questo a configurare l’«alleanza laica» come una specie di subdolo veicolo di voti laici verso la Dc, il passo però è lungo, e il rispetto dovuto alla verità, nonché il semplice buon senso, impediscono di prendere in considerazione un’accusa così assurda. Il vero torto dei recenti fautori dell’«alleanza laica» è stato piuttosto quello di non avere avuto finora abbastanza fantasia e di essersi incaponiti nel tentativo di concretizzare le loro legittime, attualissime esigenze in un tipo d’iniziativa (l’unione elettorale fra i tre partiti) che, come tale, ha fatto del tutto il suo tempo. L’identikit del tipico fautore dell’«alleanza» può essere così tracciato. È un appartenente al ceto medio che ha sempre votato, salvo forse il 18 aprile 1948 (e, chissà, il 20 giugno 1976), per uno dei partiti di democrazia laica oppure anche, negli anni dopo Pralognan, per i socialisti*. Non nutre nei confronti della Dc né il sordo rancore dei militanti di tali partiti, giustificato da decenni di autentiche sopraffazioni e di piccole meschinità, né l’odio teologico di chi, dietro il democristiano, vede l’ombra del prete, non importa se pre o post conciliare; si rende, però, conto che un partito come questo, con il peso della tradizione che si porta dietro, è poco indicato a difendere i valori terreni su cui si fondano le moderne democrazie occidentali e, quindi, ciò che più conta, per risolvere gli enormi problemi politici, economici, sociali e morali che dovunque nel mondo caratterizzano e rendono precaria la loro esistenza, soprattutto * A Pralognan si incontrarono, nell’agosto del 1956, Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, nella prospettiva di una possibile unione di socialisti e socialdemocratici.


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in presenza di una sfida come quella comunista, così abilmente orchestrata sui due fronti convergenti della teoria e della prassi. Abituato a concepire la partecipazione alla vita politica nella sola forma del voto da esprimere la domenica delle elezioni, ha subìto in pieno lo shock del ’68, quando sul posto di lavoro o nelle scuole frequentate dai propri figli ha visto germinare sotto i propri occhi nuove, tumultuose forme di politica, caratterizzate dall’intimidazione anche fisica di minoranze organizzate e faziose, con il risultato di sentirsi declassato, da un momento all’altro, a cittadino di serie B. Ha ritenuto che l’ora di una parziale rinascita fosse suonata con l’entrata in vigore dei «decreti delegati», ma ha dovuto constatare che, a questo livello, i partiti per cui ha sempre votato non esistono neppure, come del resto risultano latitanti gli stessi democristiani, onnipresenti nelle stanze in cui ci sia anche solo la più vaga apparenza di bottoni. Ha bussato, allora, alle porte dei tre partiti, sollecitandone l’intervento e offrendo collaborazione, ma si è visto respingere come un seccatore inopportuno. Resta tuttora convinto che sarebbe una gran cosa se i tre diventassero uno. Nell’ultima versione, l’antica proposta per l’«alleanza laica» esprime dunque, in sostanza, la ricerca di nuovi, più adeguati canali di partecipazione politica da parte degli elementi più consapevoli ed attivi del ceto medio, i quali forse, per essersi guardati un po’ intorno, convengono anch’essi, in cuor loro, sulla ineluttabilità del «compromesso storico», ma sono lo stesso fermamente intenzionati ad agire come se invece ci fosse ancora molto da fare per scongiurarlo, e moltissimo per combattere, nel caso, le conseguenze più funeste. Orbene, nella situazione in cui ci troviamo, sarebbe un delitto che queste energie si consumassero in uno sterile dialogo fra sordi, condito di recriminazioni reciproche, con gli attuali dirigenti dei tre partiti di democrazia laica.


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Quali che siano le formule dei prossimi governi, è certo che nell’immediato futuro una battaglia decisiva si combatterà anche al livello della società civile, nei comitati di quartiere, nei consigli di facoltà, d’istituto ecc., domani nei comitati di cui già si parla, per la lotta all’evasione fiscale o in quelli di controllo del credito, e in tutte le altre «istanze», di cui è lastricata la strada che conduce alla «democrazia popolare». Una resistenza spontanea in queste sedi, sorretta e coordinata da un’agile struttura associativa, sortirebbe anche l’effetto di esercitare una pressione indiretta sui tre partiti di democrazia laica, molto più efficace di quanto non riescano ad esserlo i soliti appelli all’unità. Una volta costituita, un’associazione del genere avrebbe un campo sterminato d’azione davanti a sé. Dall’appoggio critico a esperienze di sindacalismo autonomo da parte di esponenti di categorie oggi prese particolarmente di mira (i professori universitari, i medici ospedalieri), che dovrebbero essere invogliati a farsi promotori di radicali, ma sensati, progetti di riforma delle rispettive istituzioni di appartenenza (università, ospedali); all’elaborazione di proposte di soluzione di problemi di interesse comune, delicati e controversi come l’aborto: non c’è che da scegliere, solo commisurando i fini ai mezzi di cui si dispone. I radicali hanno mostrato che peso possono acquistare i movimenti di opinione anche in regime di grandi movimenti di massa. Un ultimo punto: operando nel senso che abbiamo cercato di indicare, i promotori dell’«alleanza laica» avrebbero la sorpresa di trovarsi accanto delle facce nuove, mai viste prima, quando ci si muoveva sul terreno dell’intesa elettorale fra i tre partiti. Ci si accorgerebbe così finalmente che il ghetto cattolico in Italia non esiste più, se non nei pregiudizi di un certo razzismo laicista e nei calcoli interessati, ma sbagliati, di chi crede che la Dc rappresenti un dato permanente della vita politica italiana.


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Il Giornale, 21 aprile 1977 La responsabilità del Governo e del Parlamento Cultura e forza del numero Durante una delle recenti forzate interruzioni dell’attività didattica nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, un professore ha dichiarato che non se la sarebbe sentita di ricominciare a fare lezione con un semplice heri dicebamus, come se non fosse accaduto nulla. La frase ha subito incontrato una certa fortuna anche fra coloro i quali ritenevano, invece, che dialogare con gli studenti intorno ai fatti successi nel frattempo costituisse solo un’ulteriore perdita di tempo. Per celia, uno di questi, riprendendo il suo corso, ha cominciato la lezione con quelle due parolette latine, facendole seguire dall’invito a farsi avanti per dire che cosa di preciso esse significassero. L’uditorio era scarso: sta di fatto che nessuno dei presenti ha saputo rispondere. La più pericolosa insidia dell’autonomia universitaria viene proprio da qui. Alle «istituzioni di alta cultura, universitarie ed accademiche», la Costituzione (art. 33, comma 6) riconosce «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Il giorno che le università cessassero definitivamente di essere istituzioni di alta cultura, la condizione cui va legato l’esercizio di quell’antico privilegio, risalente ai tempi lontani nei quali lo Stato ancora non si attribuiva tutti i poteri in materia di istruzione, verrebbe infatti a mancare. Sappiamo bene che la nostra ipotesi è irreale. A impedire che un’assemblea parlamentare prenda atto della irrimediabile decadenza dell’università provvederebbe quel tale giorno la corporazione universitaria, dilatata nel frattempo a dismisura, e quindi in grado di fare pesare nella decisione la forza del numero. Ciò non toglie che autonoma o non, l’università come tale sarebbe allora morta del tutto e sopravviverebbe solo come articolazione politico-sindacale di una società imbarbarita.


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Sorprende la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica di fronte ad un’eventualità del genere. Ci si ricorda dell’esistenza dell’università solo quando ci scappa il morto o un gruppuscolo si segnala per le sue inedite stramberie. Tra il ’68 e il ’77, paragonati con compunta serietà dai sociologi, si è studiato intanto sempre di meno. Il miraggio della promozione facile che, di là del rapido succedersi delle ideologie e degli slogan, è stato fino dall’inizio il principale elemento di aggregazione dei gruppi studenteschi, ha attirato in un primo momento anche i padri benpensanti, intrepidi nell’appoggiare dalle retrovie la sacrosanta battaglia contro i professori che pretendevano troppo. In seguito, quando la situazione è andata deteriorandosi, la prospettiva di una laurea facile in Italia per i propri figli si è combinata, almeno nel caso delle famiglie dotate di più ampie vedute e di maggiori disponibilità finanziarie, con il vago progetto di studi seri da farsi non si sa bene dove, purché all’estero, come se le nostre università non fossero piene di studenti stranieri, che la legge del numero chiuso esclude dagli atenei dei loro paesi d’origine. Immaginarsi se le porte di quegli atenei si aprirebbero davanti agli studenti italiani. Quanto al Governo e al Parlamento, l’autonomia è un tabù che fa comodo rispettare quando si tratta di scaricare su altri le proprie responsabilità, in caso di violenze e di disordini nei recinti universitari. Ma il tabù cade non appena si intravede il modo di sistemare praticamente senza concorso qualche decina di migliaia di laureati in posizioni che agli occhi degli ingenui sono ancora circondate dall’alone mitico della vecchia università e che costano all’erario molto meno di altrettanti posti nel parastato o negli enti locali. A completare il quadro, i corpi accademici insistono nell’esercitare l’autonomia che la legge riconosce loro, soprattutto nel senso di proporre ad ogni occasione modifiche di statuto che consentano l’attribuzione di sempre


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nuovi incarichi per l’insegnamento di discipline talvolta insussistenti. Così il cerchio si chiude, con buona pace dell’«altra cintura», che l’università autonoma dovrebbe promuovere e tutelare. Il Giornale, 19 maggio 1977 Area di parcheggio Non so bene chi per primo (forse Marzio Barbagli, sul «Manifesto») abbia lanciato la formula dell’università come «area di parcheggio della disoccupazione». Ma non ci sono dubbi che la metafora era nata in origine come succinto e perentorio atto d’accusa contro quanti – governo, forze politiche e sociali in genere – avevano lasciato che l’università si riducesse ad essere nient’altro che un paravento della crisi e disfunzioni del sistema produttivo. Mi ha perciò sorpreso la serena disinvoltura, come di chi dicesse cosa ovvia, che non ammette di essere posta in discussione, con la quale anni addietro un alto responsabile del settore invitava gli astanti a tenere conto del fatto che l’università doveva assolvere anzitutto al compito sopraindicato, e che il resto veniva solo dopo. L’aneddoto riflette un modo, fra il cinico e l’irresponsabile, di concepire il rapporto fra governo ed opposizione cui dobbiamo guasti che vanno molto al di là del caso in esame. Ma la specifica gravità di esso è ormai davanti agli occhi di tutti. Ridotta così l’università, anche programmaticamente, ad area di parcheggio della disoccupazione, si è operato su due piani diversi ma correlati fra loro. Da un lato, con l’istituto del «precariato» (le vecchie, aleatorie borse di studio trasformate surrettiziamente in titolo di credito per una sistemazione a vita), ci si è sforzati di assorbire in via definitiva aliquote sempre maggiori di laureati, a prescindere da ogni ragionevole previsione circa la possibilità d’impegno dei nuovi


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docenti nelle strutture dipartimentali, tutte da definire, degli atenei ancora in attesa di riforme. Dall’altro, si è adeguato l’istituto del «presalario» alle note carenze degli impianti, sganciando la corresponsione del medesimo da qualsiasi obbligo di frequenza e lezioni, seminari, esercitazioni di laboratorio, nonché di residenza stabile nella sede universitaria, e legandola solo al conseguimento nel numero d’esami stabilito dal famoso «ventisette» di media, che oggi gli «autonomi» vorrebbero «politico», cioè a dire garantito esame per esame, come se in molti casi non lo fosse già fino da adesso. A parte quelli (pochi in percentuale, troppi in assoluto) che studiano con il miraggio non tanto della laurea quanto del successivo «assegno di studio» che verrà a consacrarli «precari», gli studenti titolari di un presalario hanno dunque cessato di essere veri studenti, con uno status definito da una serie di obblighi e da un tipo di vita caratterizzato dall’applicazione e dallo studio, per diventare anzitempo dei «disoccupati intellettuali», cui il conseguimento della laurea toglierà per l’intanto il beneficio del presalario, immettendoli di autorità nelle lista d’attesa di una prima occupazione che in una percentuale di casi sempre maggiore tarda per anni a venire. Mentre le rilevazioni del Censis hanno reso noto che, all’inizio del ’75, su circa 800.000 giovani fra i 15 e i 24 anni in cerca di prima occupazione, quasi metà erano forniti di laurea o diploma di scuola secondaria superiore, il disagio artatamente gonfiato di qualche decina di migliaia di «precari», ansiosi di ottenere subito quella sistemazione definitiva nei ruoli dell’insegnamento universitario che da anni, con leggerezza, è fatto loro intravedere, rimane tuttora al centro del dibattito sulla riforma universitaria, ostacolando la presa di coscienza del vero dramma delle nostre università e, in genere, del nostro sistema formativo, che è «nell’ambito della comunità europea quello più separato dal mondo del lavoro». Solo un’università in continua, incon-


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trollata espansione può infatti giustificare agli occhi di un’opinione pubblica male informata e distratta il progettato, vertiginoso aumento del corpo insegnante che sostituisce la vantata conquista dei sindacati confederali nella recente trattativa con il ministro Malfatti. Soltanto negli ultimissimi tempi la questione studenti comincia a fare parlare di sé. A operare il miracolo sono stati alcuni articoli di Alberto Ronchey sul «Corriere della Sera» e, soprattutto, la defenestrazione di Lama dal recinto universitario romano il 17 febbraio u.s. I termini essenziali del problema, limitatamente almeno alle persone dotate di senso comune, sono incontrovertibili: «Mentre la disoccupazione dei giovani senza qualificazione risente soprattutto dell’andamento congiunturale, la disoccupazione dei diplomati e dei laureati ha caratteristiche strutturali». E ancora: «È impensabile che una qualsiasi società (sotto qualsiasi regime politico) possa sopportare una mobilità professionale intergenerazionale quale è quella programmata dalle famiglie popolari e piccolo borghesi italiane attraverso l’accesso alla scuola» (le citazioni provengono entrambe dal rapporto del Censis). Le soluzioni proposte possono in genere essere ricondotte a due diverse strategie: lasciare del tutto libero l’accesso alla scuola fino agli ultimi gradi, ridimensionando le speranze di promozione sociale che ancora oggi, nell’attesa dei più, vanno legate a tale accesso; oppure, invece, intervenire direttamente nella regolamentazione di esso. La prima soluzione passa attraverso l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, la rivalutazione morale ed economica del lavoro manuale rispetto a quello intellettuale, la lotta contro «gli stereotipi della tradizione borghese». La seconda soluzione, frettolosamente battezzata «di destra», passa attraverso l’introduzione del numero chiuso o programmato, che peraltro potrebbe essere usato per impedire l’accesso all’università a figli e nipoti dei colletti bianchi di oggi.


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I motivi di incertezza e di perplessità, come si vede, non mancano. L’importante è che, sbolliti gli odierni entusiasmi, non si torni a dimenticare che questo nodo di problemi, e non la sistemazione dei «precari», costituisce il nocciolo duro della questione universitaria. Ma un risvolto non secondario del problema non ha avuto finora il rilievo che merita. Contro il mito della scolarizzazione di massa, il comma 2 dell’art. 34 della Costituzione, anche esso in vigore alla pari di tanti altri articoli e commi che hanno maggiore fortuna di citazioni, dispone che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ma a decidere chi davvero siano «i capaci e meritevoli», e quindi ad allontanare per la parte che ad esso istituzionalmente compete lo spettro della disoccupazione intellettuale, potrà provvedere solo un corpo insegnante liberato infine dalla paura. Il Giornale, 24 giugno 1977 A proposito del provvedimento sulle immatricolazioni universitarie degli stranieri Verso il numero «semichiuso» Il gran polverone suscitato dall’annuncio di un provvedimento che dovrebbe impedire per qualche tempo l’immatricolazione nelle nostre università di studenti stranieri, non accenna ancora a posarsi. Ma si comincia a vedere più chiaro nelle motivazioni della decisione governativa. All’origine, ci sono stati evidentemente motivi di ordine pubblico. L’Italia ha una nobile tradizione, che va rispettata, di grande larghezza nella concessione del diritto d’asilo. Ma lo status di studente universitario comporta in più un privilegio non scritto, di origine medievale, che può essere anche negato se c’è il fondato sospetto che i beneficiari tendano ad abusarne. È come per i diplomatici: ci sono intoc-


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cabili, ma, quando vengono colti con le mani nel sacco, sono espulsi immediatamente e nessuno si sogna mai di protestare. Nel caso degli studenti stranieri, dispiace che il provvedimento venga preso in forma indiscriminata e preventiva, mentre probabilmente gli indiziati provengono in massima parte dallo stesso paese e magari non proprio da quelli che danno il gettito maggiore di matricole. Ma a differenza di ciò che avviene per le rappresentanze diplomatiche, una decisione che colpisce solo in una direzione susciterebbe proteste ancora maggiori, stante anche il fatto che forse più che di vere prove a carico, il governo dispone di semplici indizi, consistenti però e, con i tempi che corrono, ci si è risolti a prendere in considerazione una misura così impopolare. Del resto, gli esuli politici, fra gli studenti stranieri, sono un’infima minoranza. Non erano certamente degli esuli politici gli studenti arabi, numerosissimi in un nostro ateneo e politicamente molto attivi, la cui presenza ha sconsigliato per anni, a ragion veduta, lo svolgimento in una città vicina di un congresso scientifico internazionale sugli ebrei nell’alto medioevo. Questo non nell’Italia del 1938, ma in quella degli anni ’70. Entrati nell’ordine di idee, per i motivi che abbiamo cercato di indovinare, di bloccare per qualche anno l’immatricolazione di studenti stranieri nelle università italiane, i responsabili della nostra politica scolastica devono essersi resi conto che, alla scadenza del divieto, sarà più facile regolamentare in qualche modo l’afflusso delle matricole straniere, introducendo un elemento di «numero chiuso» nel nostro ordinamento ultraliberalizzato. Poiché l’applicazione generalizzata è per ora una misura improponibile, e d’altra parte tutti ormai convengono che così non si possa andare più avanti, è probabile che, per familiarizzare gli italiani con la prospettiva ostica di un tetto delle iscrizioni fis-


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sato per legge, ci si avvii verso una programmazione degli accessi limitatamente ad alcuni settori. Si è cominciato, sotto la spinta dei regolamenti comunitari, con le facoltà di medicina; fra due anni si potrebbe fare altrettanto per i soli studenti stranieri, in tutte le facoltà; e così via. C’è chi ritiene che un possibile compromesso fra i democristiani, che, in sede di discussione della riforma, vogliono il «diploma» a conclusione di un ciclo corto di studi universitari, e i comunisti, che si battono contro l’introduzione di questa presunta prelaurea di serie B, consisterà proprio nell’adozione, per i soli diplomati, del numero chiuso, che dovrebbe evitare la dequalificazione del nuovo titolo di studio rispetto alla laurea. Delle proteste contro il ventilato provvedimento di blocco per gli stranieri, comprensibilissime nei direttamente interessati, si sono fatte carico, come al solito, le sinistre, in tutte le possibili sfumature. Sorprende che nessuno all’infuori di Vittorio Enzo Alfieri su queste colonne si sia finora accorto della lampante contraddizione in cui cade chi, come i comunisti e i socialisti, protesta contro questo provvedimento «illiberale» e, al tempo stesso, propugna il modello di università, aperta, come si suol dire, al territorio, e quindi tendenzialmente chiusa, non dico agli studenti dei paesi della Cee o del terzo mondo, ma addirittura a quelli provenienti da altre regioni o province della Repubblica. Le due righe dell’intervista di Achille Ochetto a «Le Monde de l’éducation», riportate da Alfieri, sono di una sconcertante chiarezza in proposito: «Occorre abbandonare una falsa nozione di libertà ed esigere l’iscrizione nel luogo di residenza». È la vecchia idea dell’università servita sulla porta di casa come la bottiglia del latte, che ha ispirato in altri tempi la dissennata politica democristiana di disseminazione di facoltà universitarie, e in particolare di magistero, nelle località più impensate, e che oggi viene riproposta in edizione aggiornata, adeguandola alle esigen-


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ze del nuovo potere locale comunista. L’autonomia di queste università incardinate nel territorio verrebbe infatti ad essere confusa ed annullata in quella degli enti territoriali circonvicini, che ha tutt’altro carattere e ragione d’essere. Ci auguriamo che lo scalpore suscitato dal recente provvedimento induca tutti, governo compreso, a meditare sulla natura e funzione dell’università, che vanno riscoperte dopo gli appannamenti di questi ultimi anni. Per cominciare, sarebbe bene mettere alla prova chi oggi tanto protesta per le limitazioni poste alle immatricolazioni di studenti stranieri e si distingueva ieri per lo zelo impiegato nell’ostacolare in tutti i modi possibili l’impiego in Italia di docenti stranieri, al fine di tutelare il diritto al posto di lavoro dei «precari» nostrani. Perché il ministro della Pubblica istruzione, in occasione della discussione della legge di riforma, non assume un atteggiamento di coraggiosa apertura nei confronti degli stranieri che hanno l’intenzione di venire ad insegnare in Italia? Se i sindacati protestassero, non sarebbe difficile richiamarli a un minimo di coerenza con le poteste di questi giorni. Il Giornale, 8 settembre 1977 L’università alla vigilia del nuovo anno «Guerra» a Malfatti All’approssimarsi del nuovo anno accademico, c’è da giurare che il motivo dominante degli scritti d’occasione sarà la deprecazione per la esasperante lentezza con cui, a palazzo Madama, procede la discussione sui progetti di riforma dell’università. Non che tale deprecazione non sia motivata. Il fatto stesso che si discuta di più progetti ad un tempo e non di un solo progetto (il che vuol dire che i senatori della commissione Pi stanno redigendo collegialmente la nuova legge, articolo per articolo) induce al più cupo pes-


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simismo. Ma questo non è che un riflesso parlamentare della situazione politica generale. Gli accordi sottobanco fra partiti dell’arco costituzionale consentono il varo di provvedimenti singoli. Per le grandi riforme, che di necessità dividono perché altrimenti non sarebbero tali, ci vogliono maggioranze organiche anche se aperte ai contributi dell’opposizione e governi che, nel caso, l’opposizione sappiano sfidarla. Mentre invece i senatori della commissione Pi del Senato su un punto solo si sono subito trovati d’accordo: sull’opportunità di non prendere come base per la discussione il progetto presentato dal ministro Malfatti. E sì che i tratti qualificanti di questo progetto avevano avuto l’avallo previo dei sindacati confederali. Solo un irresponsabile potrebbe rallegrarsi di questo ulteriore impantanamento della riforma universitaria. Ma le deprecazioni stagionali di rito per la riforma che tarda ancora a venire non devono ingenerare confusione circa i prevedibili contenuti della riforma stessa, la sua reale incidenza sulla situazione dei nostri atenei, che si apprestano a riaprire i battenti dopo le vacanze estive. A volte sensibilmente divergenti nelle soluzioni di punti particolari, e ciò spiega le difficoltà insorte a palazzo Madama, i progetti di riforma elaborati dalle diverse forze politiche sono accomunati dal fatto di ruotare intorno a determinati aspetti del problema universitario e, soprattutto, di eluderne altri, che pure l’opinione pubblica più avvertita insiste nel giudicare nient’affatto trascurabili. Abolizione delle cattedre e delle facoltà; istituzione dei dipartimenti: su questa linea di fondo esiste un accordo di massima, sia a livello di forze politiche che fra le componenti universitarie. E non importa che gli uni (in particolare i professori delle facoltà di Scienze) guardino speranzosamente al futuro dipartimento come a una possibilità di associare più strettamente fra loro alcune discipline affini, con evidente beneficio della didattica e della ricerca; gli altri (in


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particolare gli attivisti di Cgil-scuola) pensino piuttosto con lungimiranza all’assemblea mista di docenti-ricercatori e di personale non docente, che dovrà esprimere il governo del dipartimento stesso, in un clima che si vorrebbe simile a quello che vige nei comitati di quartiere… Il dipartimento nascerà nel segno dell’equivoco, ma sarà certamente istituito. A dissipare l’equivoco non varranno né gli accorgimenti né le astuzie dei legislatori, ma la situazione del Paese. Altro punto che impegna a preferenza i nostri legislatori è la sistemazione in seno agli istituendi dipartimenti dell’esercito di assistenti, incaricati, borsisti, contrattisti, che si è andato formando nel corso degli ultimi dieci, vent’anni, sempre in attesa della riforma che non veniva mai. Ora, agli occhi degli interessati, che sono legioni e rappresentano quanto di meglio l’università italiana sia stata capace di produrre in questi anni difficili, ma inestricabilmente frammischiato di frutti sovrabbondanti dello sfrenato clientelismo di molti professori in combutta con le forze politiche e sindacali, riforma universitaria ed immissione in ruolo al più alto livello per tutti (magari con lo spolverino di un concorso) sono la stessa, identica cosa. E, con la difficoltà a sistemarsi che incontrano in genere i giovani laureati, possiamo comprendere le loro ragioni. Ma un pezzo sulla rentrée, veramente conforme alle regole del genere, non può esaurirsi nello storico e nel profetico. Deve di necessità culminare nell’esortativo. Un’esortazione, anzitutto, ai professori che si apprestano a riprendere lezioni ed esami, perché vinciamo la paura e la cattiva coscienza che ci attanagliano dal ’68 e ci rendiamo conto che, in mancanza di altre indicazioni (di quanti medici, di quanti professori ha bisogno il Paese?), la misura dell’università siamo noi a stabilirla di fatto giorno per giorno, alzando o abbassando il tono dell’insegnamento, prima ancora che mostrandoci più o meno esigenti agli esami. Un’altra esortazione ai tutori dell’ordine pubblico,


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perché intervengano tempestivamente e indiscriminatamente tutte le volte che sarà necessario, per salvaguardare la libertà e la dignità di chi lavora nell’università, senza più le esitazioni dell’anno scorso quando probabilmente ci fu un momento in cui ci si illuse che anche gli «autonomi» potessero essere una carta da giocare nel quadro degli equilibri politici del Paese. Una terza esortazione al ministro Malfatti perché riceva meno sindacalisti della scuola (compresi, naturalmente, i rappresentanti dei professori di ruolo), faccia lavorare di più la fantasia riformatrice che una volta gli veniva riconosciuta, e insista nel mantenere ferme le circolari che diffonde, senza dare troppo peso alle reazioni negative che producono: se piacesse a tutti, non servirebbe a nulla. Il Giornale, 20 settembre 1977 La contrastata celebrazione del 20 settembre ’95 Quella breccia fatale* Il 20 settembre fu dichiarato «giorno festivo per gli effetti civili» solo nel luglio del 1895, appena in tempo per dare il crisma dell’ufficialità alle celebrazioni già indette per il venticinquennale di Porta Pia che sarebbero culminate nell’inaugurazione del monumento equestre a Garibaldi, sul Gianicolo. Il progetto di legge relativo era stato di iniziativa parlamentare. Intervenendo nel dibattito, il presidente del Consiglio Crispi precisò che la legge non era stata voluta dal governo: veniva solo accettata. Nelle elezioni politiche del maggio-giugno, riuscite nel complesso abbastanza favorevoli a Crispi, l’astensionismo cattolico aveva contribuito a far puni* Si veda, in questo volume, Il Messaggero/Cultura, E Cadorna ripudiò Porta Pia, 20 settembre 1995.


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re i candidati governativi sulla piazza ultrasecolare di Milano. Senza rinunciare alla strategia di fondo che, contro le sinistre, privilegiava l’alleanza con moderati e cattolici, Crispi colse l’occasione per dare un’avvisata agli ambienti clericali e, insieme, un contentino agli ambienti massonici, che quell’alleanza avevano in orrore. Del resto, data la formula intermedia prescelta, l’unica «festa nazionale» in senso stretto continuava ad essere la prima domenica di giugno, festa dello Statuto. Alla Camera: l’on. Colajanni, repubblicano, denunciò la «politica a partita doppia» di Crispi; il socialista on. Costa subordinò il suo voto favorevole all’accoglimento della proposta di amnistia per i moti dei Fasci Siciliani; un altro repubblicano, l’on. Imbriani, si dichiarò contrario, perché, prima di pensare a feste nazionali, bisognava riaffermare «la dignità della patria ai piedi delle Alpi Giulie…». Evidentemente, il ricordo di Porta Pia non bastava a cancellare le ansie e le divisioni del presente nemmeno fra quanti erano ben lungi dall’avere motivo di sentirla come una ferita ancora sanguinante. Figurarsi gli altri. Al Senato, dove le voci contrarie furono piuttosto di destra, il sen. Negri chiese candidamente perché non si fosse pensato anche a festeggiare l’annessione di Napoli e di Firenze; e aggiunse: «Una padrona di casa non si affanna quotidianamente a dire che è proprio sua la casa dove essa si trova». Approvata la legge, il problema diventava quello di predisporre qualcosa di degno nei due mesi che restavano. Quando si era trattato di organizzare i funerali di Vittorio Emanuele II, Cesare Correnti aveva ammonito: «Ricordatevi che i prelati queste cose le sapevano far bene. Non abbiamo precedenti? Tanto meglio. Inventateli». Dalla discussione parlamentare non erano venuti contributi apprezzabili al riguardo: un senatore aveva proposto che il ministro della Pubblica Istruzione provvedesse a far musicare tre strofe del «Carmen saeculare» di Orazio. Crispi si mise all’opera con l’impegno che metteva in tutte le sue cose, forse davvero con-


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vinto che si potesse dare vita a una specie di Quattordici Luglio italiano (tutto sta ad incominciare bene), certo molto preoccupato che le prossime celebrazioni non pregiudicassero gli incerti equilibri su cui poggiava il suo governo. Il progetto per una «Esposizione generale italiana», elaborato dalla Società per il bene economico di Roma, era stato abbandonato da un pezzo. In gravi difficoltà versava il «Comitato generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma»: il 16 luglio, il presidente della commissione esecutiva, Menotti Garibaldi, chiedeva a Crispi una sovvenzione di centomila lire, minacciando in caso contrario le dimissioni, che vennero puntualmente una settimana dopo. Ma l’approvazione definitiva della legge (17 luglio) valse a rilanciare le iniziative. Il 26 agosto, Crispi, che era a Castellammare, ricevette dal sottosegretario all’Interno, Galli, ampi ragguagli telegrafici sul programma approntato del Comune di Roma: inaugurazione di monumenti, riviste militari, ecc. Il Galli richiamava l’attenzione del presidente del Consiglio sul testo, dettato da Oreste Tommasini, per la nuova lapide a Porta Pia: «Come scultore della parola e pensatore di Stato vi prego specialmente osservare se possa concedersi dichiarazione che libertà pensiero e autorità fede sotto eque leggi in Roma convivono. In una affermazione tutta civile fede non entra e frase del Tommasini sembrami dichiarazione mendicata quasi ad invocar tolleranza come ai tempi del Venosta». Crispi si dichiarò d’accordo per la soppressione del passo incriminato, che dovette apparirgli troppo sbilanciato in senso conciliatorista (Ciononostante si finì con l’adottare il testo primitivo che ancora si legge in loco). In un primo momento si pensò di convocare a Roma le bandiere di tutto l’esercito, ma poi si decise di limitare l’invito alle sole rappresentanze dei corpi che avevano effettivamente partecipato alla spedizione del 1870. «Prevale la pedanteria militare della caserma», telegrafò sempre il Galli


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a Crispi; «non è a questa che si affidò il valoroso imperatore di Germania per entusiasmare il suo popolo. Credilo, è la storia che lo dimostra. Da Cristo a Garibaldi è medesimo il metodo». Passi per Garibaldi, ma Cristo chissà mai perché. Poiché si trattava di un «giorno dichiarato festivo per gli affetti nazionali», e non di una «festa nazionale», gli enti locali potevano a rigore negare la loro adesione. L’elenco dei comuni che rifiutarono di associarsi alle celebrazioni ne comprende dieci in provincia di Belluno, nove in provincia di Vicenza, cinque in provincia di Padova, due in quella di Torino, inoltre i comuni di Cremona, Trescore (Bergamo), Castello di Serravalle (Bologna), Cesenatico (Forlì), Albano (Roma), Cutrofiano (Lecce). Al no di Napoli tenne dietro una delle ricorrenti crisi dell’amministrazione comunale. A Venezia, il sì fu votato da ventitré consiglieri, mentre altrettanti si astennero: gli astenuti appartenevano al partito clericale ed alla minoranza progressista. Maggiore scalpore suscitò il rifiuto opposto da Cadorna all’invito di recarsi a Roma per le celebrazioni ufficiali. In una lettera al sindaco, il generale della Breccia spiegava: «Mi compiacerò di ricordare che fui semplice ma fedele esecutore dei voleri di un Re, di un Governo, di una rappresentanza nazionale che, nell’ineluttabile necessità di ridonare all’Italia la sua capitale, vollero che si tentasse ogni mezzo persuasivo prima di addivenire alla ragione delle armi». Durissimo il commento della «Tribuna»: «Il generale ha l’aria di un uomo il quale dopo avere aperto la breccia a Porta Pia, ci pensa su un pezzo, poi dice: “Ma sapete che l’ho fatta grossa!”». In una lettera personale al Presidente del Consiglio conservata fra le carte di Crispi all’Archivio Centrale dello Stato, Cadorna cercò di imbastire un distinguo: «Io, sebbene consenziente come Deputato alla proposta di Cavour, nella lettera al Sindaco mi ridussi alla parte di esecutore». Per tagliare corto ai pettegolezzi, re Umberto il 20 settembre gli conferì l’Ordine Supremo della SS.


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Annunziata. Ma l’«Osservatore Romano» dell’8 ottobre, a celebrazioni concluse, ritornava puntigliosamente sull’argomento: «Tutti coloro, che nell’opera della Breccia e nel suo effetto continuativo sentivano d’avere di fronte al paese e alla storia una grave responsabilità, facevano a gara per indebitarsene. Così il Cadorna ecc.». Nel discorso ufficiale pronunciato sul Gianicolo, Crispi affermò che il papato doveva essere grato all’Italia per essere stato «discaricato dalle pesanti suppellettili temporali»: un concetto al quale nessuno, allora, avrebbe osato preconizzare la fortuna di cui avrebbe goduto ai giorni nostri. Ricordandosi del suo passato di uno di sinistra, nel fare i nomi di coloro in cui «si compendia la storia del Risorgimento nazionale», il presidente del Consiglio volle prescindere dalla consuetudine e ne fece soltanto tre, Vittorio Emanuele, Mazzini e Garibaldi. Il nome di Cavour lo tacque. Accanto all’inaugurazione di monumenti, i congressi e le manifestazioni sportive contribuirono a rendere più vario e complesso il ciclo commemorativo. In quei giorni si riunirono a Roma i prigionieri, i militari in congresso, gli impiegati dello Stato. Al congresso ginnastico internazionale parteciparono i soli atleti tedeschi. Il sottosegretario Galli, che era andato ad accoglierli, telegrafava a Crispi: «Sono giunti ginnasti tedeschi ricevuti festosamente. Vedremo se saranno più bravi, ma intanto più belli ed eleganti sono i nostri». A leggere i telegrammi dei prefetti, si ha l’impressione che la prima celebrazione ufficiale del 20 settembre si sia svolta dovunque nell’ordine e in un’atmosfera di relativo entusiasmo. Il governo Crispi, per il momento, poteva segnare un punto al suo attivo.


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Il Giornale, 22 gennaio 1978 «Misericordie» La sfinge comunista Nella «Sfinge comunista» Alfredo Vinciguerra osserva che la ormai arcifamosa lettera di risposta dell’on. Berlinguer al vescovo di Ivrea è stata scritta nel momento in cui, in seguito all’approvazione della legge 382 sul decentramento, si è passati dalla discussione sui grandi princìpi al comportamento sui fatti concreti: «e cioè se il pluralismo delle iniziative che riguardano la vita dei cittadini debba essere salvaguardato, o gli enti locali non debbano, invece, assumere la gestione pubblica di tutto, dalle misericordie alla scodella di minestra delle refezioni scolastiche». Questo problema lo aveva timidamente sollevato monsignor Bettazzi nella sua lettera di circa un anno prima, quando la 382 era ancora di là da venire; su questo problema è stata incentrata la replica più dura che sia venuta al segretario del Pci da parte cattolica: quella dettata da mons. Benelli, che non ha parlato tanto come presunto leader dell’ala intransigente dell’episcopato italiano, quanto come arcivescovo, benché fresco di nomina, della terra di elezione delle minacciate «misericordie»: Firenze. Così quella specie benigna e caritatevole di Ku Klux Klan nostrani, vestiti e incappucciati di tela cerata nera, che sono gli accompagnatori dei mortori nelle città toscane, sono venuti impetuosamente alla ribalta come i maggiori ostacoli alla stipulazione del «compromesso religioso» proposto dal Pci alla Chiesa nel nostro Paese, per farle trangugiare la sua scalata al potere. Di fronte agli artifici dialettici con cui, nel numero 1 di «Bozze 78» (la nuova rivista di Raniero La Valle), Pietro Pratesi tenta di conciliare l’inconciliabile, e cioè il «pluralismo nelle istituzioni», caro all’on. Berlinguer, e il «pluralismo delle strutture», proprio della tradizione cattolica, resta intatto l’interrogativo di fondo: che ne facciamo delle «misericordie» e, in genere, delle Ipab


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(istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza)? Si continuerà a riservare ad esse lo spazio che lo Stato «liberal-borghese» riserva loro, tollerandone l’esistenza accanto alle analoghe istituzioni che gestiva direttamente, improntandole – è sempre Berlinguer che parla – alla propria ispirazione classista, anticlericale e massonica? Oppure sarà il nuovo Stato «democratico e pluralista» ad assicurare loro l’esistenza? In attesa che la partita venga giocata e decisa da chi di dovere, dalla torre d’avorio al riparo della quale coltiva da un’intera vita i suoi studi lenti e severi, un erudito domenicano di origine fiamminga, Gilles Gérard Meersseman, con inconsapevole tempestività, ha pubblicato tre volumi, per complessive millequattrocento pagine, del suo «Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo» (Herder, Roma, 1977). Nel secolo XIII, che fu anche la stagione della loro maggiore fioritura, le confraternite rappresentarono il modo con cui gli abitanti dei comuni di sforzarono di vincere il loro complesso d’inferiorità verso il clero: «Volevano diventare chierici rimanendo laici. Parecchi di loro volevano anche vivere una vita religiosa più intensa, sull’esempio dei nuovi ordini mendicanti, però come laici, sposati, e rimanendo nella propria casa. Questi applicavano il principio del fare da sé (già sperimentato nel campo della politica comunale) al campo religioso». «Fare da sé»: quanto basta, se fosse ancora vero, come ci auguriamo che almeno in parte sia, per legittimare i sospetti dei nuovi «chierici» del ventesimo secolo. Ma padre Meersseman non fa nulla per alimentare le nostre illusioni: «Le pie confraternite sono istituzioni viventi, ma effimere: come tutte le aspirazioni umane, così anche le forme di devozione variano da un periodo all’altro. Non tutte le riformazioni sono vere riforme!». Che pensare di quella che verrà?


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Il Giornale, 11 maggio 1978* (Testo pubblicato) L’accusa che veniva rivolta a Moro dai suoi avversari politici era di subire troppo spesso l’iniziativa degli altri, di rimandare ad un futuro imprecisato il momento della replica, dell’iniziativa. È un’accusa seria, a suo modo radicale, dal momento che veniva indirizzata ad un uomo politico. La sua fondatezza costituirà uno dei poli intorno ai quali ruoterà certamente la discussione sulla storia dell’Italia nell’ultimo quindicennio. Ma chi affronterà tale problema non potrà prescindere, nel valutare l’operato di Moro, dal valutare le strutture profonde del suo pensiero. Questo cattolico democratico non era integralista e aveva un’idea del tempo diversa dalla nostra. Citando le parole dei HenriIrénée Marrou, diremmo che per lui il tempo era «una crescita misteriosa, una lenta maturazione, come suggerisce la parabola del fico i cui rami diventano teneri e le foglie si schiudono quando viene la primavera». Vedo già il sorriso affiorare sulle labbra dei miei amici che non amano sentire citare il Vangelo. Li aspetto alla prova, quando i cedimenti quotidiani dei democristiani rimasti orfani di Moro non avranno nemmeno più la prospettiva di un vagheggiato riscatto finale. (Dattiloscritto originale) Vivisezionato da occhi laici, l’articolo di Aldo Moro apparso su “Il Giorno” la domenica di Pasqua del 1977 appariva come un sermone domenicale da parrocchia cittadina di ottimo livello chiamato a fare da cornice a un brevissimo “messaggio speciale”, che il solerte direttore prov* Si pubblica l’intervento a stampa sulla morte di Aldo Moro e il dattiloscritto conservato nel fondo Girolamo Arnaldi presso l’Archivio storico dell’Istituto storico italiano per il medio evo.


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vedeva infatti ad evidenziare nel titolo, certo che il martedì successivo sarebbe stato ripreso e sottoposto ad attente decifrazioni dei commentatori politici degli altri quotidiani; i quali si sarebbero naturalmente ben guardati di leggere il testo nel suo contesto, come insegna l’abbiccì di quell’ardua disciplina che è l’esegesi delle fonti. Dai democristiani i laici, in questi trent’anni, hanno subito tutto, o quasi, riservandosi solo il lusso di non starli a sentire le rare volte in cui alcuni di loro – senz’altro i migliori, i meno “clericali” – parlavano da cristiani. Da questo punto di vista, l’assassinato del 9 maggio è praticamente uno sconosciuto, destinato a rimanere tale, salvo che per una cerchia limitata di devoti che non fanno opinione. Fossi un brigatista rosso – poche idee in testa, la pallottola sempre in canna – avrei esecrato Aldo Moro, la sua retorica, il suo periodare ed argomentare così articolato, con gli aggettivi che servono a dosare e a controbilanciare, con le proposizioni subordinate che ti lasciano con il fiato sospeso in attesa che il discorso arrivi finalmente in porto. Aveva ragione Rosario Romeo martedì sera alla televisione: si poteva essere disposti a seguire Moro, oppure no, ma attraverso di lui parlava questa nostra civiltà occidentale, in cui la ragione, e quindi le parole, hanno sempre tanto pesato, da Demostene a Cicerone, a Giovanni Crisostomo, a Bossuet, a Churchill. Si può sparare anche per la disperazione di non capire. C’è di peggio: Moro non aveva la voce squillante del profeta che gridi la verità dall’alto dei tetti, ma quella pacata dell’osservatore che pretende di registrare tutto, anche le spinte più contraddittorie e divergenti, e tutto comporre in una sintesi che è di là da venire, ma che certamente sarebbe venuta, solo se si fosse lasciato tempo al tempo. Un vero insulto per chi del tempo ha l’idea stravolta di un brigatista, abituato a misurarlo il cronometro alla mano: tanti minuti da via del Forte Trionfale a via Fani, tanti da via Fani al raccordo anulare.


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L’accusa che veniva rivolta a Moro dai suoi avversari politici era di subire troppo spesso l’iniziativa degli altri, di rimandare ad un futuro imprecisato il momento della replica, dell’iniziativa. È un’accusa seria, a suo modo radicale, dal momento che veniva indirizzata ad un uomo politico. La sua fondatezza costituirà uno dei poli intorno ai quali ruoterà certamente la discussione sulla storia dell’Italia nell’ultimo quindicennio. Ma chi affronterà tale problema non potrà prescindere, nel valutare l’operato di Moro, dal valutare le strutture profonde del suo pensiero. Questo cattolico democratico, non integralista, perché la sua Chiesa non era quella che sta sull’altra sponda del Tevere, bensì quella invisibile costituita dal popolo di Dio in marcia verso la Gerusalemme celeste, aveva un’idea del tempo diversa dalla nostra. Citando le parole dei Henri-Irénée Marrou, diremmo che per lui il tempo era “una crescita misteriosa, una lenta maturazione, come suggerisce la parabola del fico i cui rami diventano teneri e le foglie si schiudono quando viene la primavera”. Vedo già il sorriso affiorare sulle labbra dei miei amici che non amano sentire citare il Vangelo. Li aspetto alla prova, quando i cedimenti quotidiani dei democristiani rimasti orfani di Moro non avranno nemmeno più la prospettiva di un vagheggiato riscatto finale. Il Giornale, 17 settembre 1978 Lenin e l’89 Rivoluzione in due tempi La discussione sul leninismo e le sue ascendenze ha riproposto anche il problema dei rapporti fra leninismo e giacobinismo. In margine alla polemica in corso, l’aspetto non ideologico, bensì storico e storiografico, di tale questione è stato affrontato con rigore e lucidità in un breve, densissimo scritto di François Furet su Il problema delle ori-


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gini della rivoluzione francese, apparso sulla rivista «La Cultura» (XV-4). L’intero secolo XIX francese è percorso dalla battaglia politica e storiografica intorno ai princìpi e ai valori dell’Ottantanove. Secondo il Furet, questa lotta si concluse, vittoriosamente per la Rivoluzione (che solo allora ebbe davvero termine), verso il 1880, quando il maestro elementare francese venne a trovarsi nei villaggi in posizione di forza nei confronti del parroco. Ma, nella seconda metà dell’Ottocento, intrecciata alla battaglia per la democrazia, comincia a svilupparsi la battaglia del movimento socialista, che mirava anch’essa all’affermazione dei valori dell’Ottantanove, concependoli però non come fini a se stessi, bensì come prima tappa di un processo storico destinato a sboccare nella rivoluzione socialista, necessario compimento delle promesse egualitarie dell’Ottantanove, tradite dalla reazione termidoriana. «Si trattava in sostanza di un meccanismo a doppio scatto, per il quale i grandi autori socialisti di prima del 1917 (per esempio, il Jaurès) non avevano ancora, e pour cause, fissato la seconda scadenza, per la buona ragione che questa non era ancora arrivata». Sul piano del periodizzamento interno, la concezione socialista comportava l’assunzione del Terrore come momento culminante dell’intero processo rivoluzionario, non senza una grave contraddizione con la tesi marxista della Rivoluzione francese come «rivoluzione borghese». Dato e non concesso che la rivoluzione dell’89 abbia favorito il passaggio dal «modo di produzione feudale» al «modo di produzione capitalistico», risulta infatti assurdo fare cessare la Rivoluzione stessa nel ’94, alla vigilia del momento in cui sta per toccare il culmine il suo periodo per l’appunto borghese. Frattanto, con il 1917, la rivoluzione socialista ebbe un volto e, in conseguenza di ciò, la Rivoluzione francese cessò di essere «una generatrice di probabilità», per divenire «la


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madre di un avvenimento reale, datato, preciso, che ha già avuto luogo, e che è la rivoluzione d’Ottobre». Il preteso rapporto genetico fra le due esperienze rivoluzionarie viene dichiarato senza ambagi fino dal 1920 da Albert Mathiez, notissimo storico della Rivoluzione francese: «Giacobinismo e bolscevismo sono ad eguale titolo due dittature nate dalla guerra contro lo straniero, due dittature di classe che si sono servite degli stessi mezzi: il terrore, le perquisizioni e le imposte, e si sono proposte, in ultima analisi, il raggiungimento dello stesso obiettivo: la trasformazione della società, e non solo della società russa o della società francese, ma della società universale». C’è di più. Il Furet osserva che la contaminazione fra le due rivoluzioni ha operato non solo nello spirito di molti storici della Rivoluzione francese, portati d’istinto a simpatizzare sia con i motagnardi del 1793 sia con i bolscevichi del 1917, ma anche nella testa di chi la rivoluzione russa, l’ha fatta: «Si sa, per esempio, che dopo la presa di potere da parte dei bolscevichi, e specialmente dopo la morte di Lenin, tutti i rivoluzionati russi, da Trockij a Bucharin a Zinoviev, temono Termidoro, perché si suppone che Termidoro abbia posto fine alla Rivoluzione francese… Nell’immaginazione del triumvirato Stalin-Zinoviev-Kamenev, Trockij è Bonaparte», con quel che seguì. E poi dicono che le questioni sollevate dagli intellettuali del Psi sono questioni astratte, prive di riferimenti alla politica concreta! Il Giornale, 19 ottobre 1978 Il cerchio di stringe La vicenda dei vari tentativi di riforma dell’Università si presterebbe perfettamente a fornire il filo per un discorso di carattere più generale sul fallimento delle ipotesi riformistiche del nostro Paese. Mai come in questo caso, le inten-


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zioni sono state stravolte e tradite. Al punto in cui siamo, non c’è più niente da conservare, mentre una riforma degna di questo nome è diventata oggettivamente impossibile. Anche se sembra ormai certo che questa volta a una «riforma» in qualche modo si arriverà. L’unico progetto di riforma organico venuto in discussione è quello che porta il nome dell’on. Gui. Esso rispecchiava le illusioni riformistiche degli anni del centrosinistra. Si voleva adeguare le strutture dell’Università italiane alle esigenze di una società industriale avanzata, facendo salve le garanzie che la Costituzione e la tradizione avevano poste a salvaguardia dell’autonomia degli atenei e della libertà di insegnamento e di ricerca all’interno di essi. Non mancava un pizzico di «partecipazione», come correttivo dell’autoritarismo che da più parti, non senza qualche motivazione, veniva imputato all’istituzione universitaria. Mancava, invece, una precisa indicazione circa la quantificazione dello sviluppo, perché allora facevano testo le statistiche della Svimez, secondo le quali la nostra produzione di laureati era molto al di sotto del fabbisogno previsto per gli anni a venire. Per il rispetto dovuto, ormai, a un morto, tralasceremo di discutere il problema della mancata approvazione del progetto Gui. Basti dire che la difficoltà che fu giudicata insuperabile consisteva nell’affermazione dell’incompatibilità fra insegnamento universitario e mandato parlamentare. Nel frattempo ci fu il ’68. Benché i sociologi, allora venuti improvvisamente di moda, si industriarono a costruire elaboratissime spiegazioni dell’accaduto, si fece finta di credere che un movimento sorto sui campus delle meglio organizzate università del mondo avesse invece la sua matrice nella presunta arretratezza delle nostre. Da allora in poi i progetti di riforma della nostra Università non sono stati più misurati sulle reali esigenze di questa, ma sulle inquietudini di una studentesca introuvable.


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In questo clima si diffuse la sola idea nuova che sia nata in Italia in fatto di riforma universitaria; la cosiddetta «filosofia del docente unico» (a definirla così fu un ministro della P.I. in un discorso al Senato). In prospettiva, voleva dire assemblearizzare gli organi di governo della futura Università riformata. Per il momento, voleva dire assicurare una rapida carriera, senza sbarramenti concorsuali, a quanti, senza essere professori di ruolo, prestavano la loro opera all’interno dell’Università. A questo punto, un articolista del «Manifesto» lanciò contro l’Università italiana un’accusa, che, nelle sue intenzioni iconoclastiche, non avrebbe potuto essere più sanguinosa: i nostri atenei erano ridotti ad essere un’«area di parcheggio della disoccupazione». Il suggerimento fu colto a volo dai responsabili della nostra politica scolastica e trasformato in un programma. L’Università doveva effettivamente fungere da «area di parcheggio della disoccupazione», in attesa di tempi migliori che tardavano a venire. Per adeguarla a questa funzione, occorreva aprirne l’accesso a tutti e facilitare al tempo stesso gli studi. L’Università di massa, l’Università di tutti può anche essere una mèta da perseguire. Da noi è nata all’insegna della truffa per tanti poveri diavoli che, mettendovi piede, hanno creduto forse di toccare il cielo col dito, e poi si sono trovati con inutili pezzi di carta in mano – la patente di «disoccupati intellettuali». Gonfiata a dismisura di studenti, l’Università abbisognava di una congrua dilatazione del corpo docente. Mentre le aule si andavano sempre più svuotando di studenti veri, giornalisti compiacenti fingevano di prendere per buone le cifre fornite dai sindacati-scuola, che davano un solo professore per migliaia di studenti. I conti sarebbero andati a posto solo che ci si fosse risolti a trasformare in «docenti unici» gli assistenti e gli incaricati, sulle cui spalle gravava in gran parte – si faceva notare – il peso della didattica.


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Se si arriverà all’organico di professori di ruolo, ordinari e associati, previsto dal progetto che sta per essere varato, si potrà dire che la lunga marcia verso l’istituzione del «docente unico» cominciata nel ’68, è arrivata felicemente a conclusione. Tanto è vero che si parla già di reintrodurre un livello corrispondente a quello dei vecchi assistenti, nel quale sistemare i cosiddetti «precari», cioè a dire i «borsisti» di una volta adeguatamente sindacalizzati. Approvata la riforma, che consacra ad un tempo, con un gioco di prestigio all’italiana, la filosofia nostrana del docente unico e la prassi europea e mondiale dei più livelli di docenza, sarà davvero bravo chi riuscirà ad espugnare il munitissimo bunker universitario. Mai la vituperata corporazione dei chierici avrà celebrato un maggiore trionfo. Ma se non sarà aperta ai «giovani», ci assicurano che, in compenso l’Università riformata sarà aperta al «territorio». Così il cerchio si chiude: i consigli di dipartimento assemblearizzati entreranno in una fruttuosa concorrenza con i comitati di quartiere. Mi domando cosa aspettano i privati che possono farlo, a investire denaro nell’istruzione universitaria. Si era parlato di ambiziosi progetti confindustriali per la «Pro Deo», ma poi non se ne è saputo più nulla. Il Giornale, 31 dicembre 1978 «Memoriali» Black-out d’archivio Una striscia Ansa del 17 ottobre scorso recava: «Il testo del cosiddetto “Memoriale Moro” fornito alla stampa è dattiloscritto e fotocopiato e riproduce, a sua volta, il testo del dattiloscritto (non manoscritto), trovato dai magistrati a Milano… Quasi tutte le righe dattiloscritte di ciascuna pagina risultano incomplete ai due margini evidentemente


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perché i fogli della macchina fotocopiatrice erano più stretti di quelli usati per l’originale dattiloscritto». Se l’anonimo redattore avesse frequentato (ma come pretenderlo!) la Scuola di paleografica e diplomatica dell’Archivio Vaticano o la parigina «École des chartes», il suo discorso sarebbe certo riuscito più perspicuo. Ma quella gran confusione di manoscritti, dattiloscritti e fotocopie, queste ultime incomplete ai margini come un registro in pergamena rosicchiato dai topi, è una spia preziosa delle difficoltà che le moderne tecniche di riproduzione meccanica dei documenti, a cominciare dalla ancora innocente dattilografia, pongono ai fini della loro utilizzazione da parte degli studiosi. Jean Favier, direttore generale degli archivi francesi, osservava recentemente che l’uso contemporaneo di moltiplicare all’infinito i documenti, ben oltre il limite suggerito dalle reali necessità di informazione reciproca, creerà grandi difficoltà allo studioso di domani. Fino adesso, quando nell’archivio di un determinato uomo politico del passato si trovava un certo documento, la presenza di questo era in qualche modo significativa e si poteva presumere che una decisione fosse stata presa anche sulla base di una consultazione di esso. Domani invece, quando si troverà tutto dovunque, diventerà difficilissimo orientarsi. Inoltre, man mano che si perfezionano e si generalizzano le tecniche di riproduzione, diventerà sempre più difficile scoprire le tracce di eventuali falsificazioni. I tempi nei quali un documento, a riprova della sua autenticità, doveva portare appeso un sigillo, sono molto lontani. Ma i timbri e l’uso della carta intestata sono ritrovati che fino a ieri consentivano di raggiungere praticamente lo stesso scopo. Ora, l’uso generalizzato delle fotocopie annulla quasi completamente gli effetti di queste guarentigie, rendono impossibile quella che i vecchi trattati di metodo storico chiamano la «critica esterna» del documento.


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Documenti sempre più numerosi, anche perché riprodotti in una molteplicità di copie, vogliono anche dire documenti sempre più numerosi da scartare prima di disporne la conservazione definitiva in un archivio storico. Si tratta di vedere con quali criteri. Una soluzione possibile è quella consistente nel conservare gli originali e di scartare le copie. Ma che cosa è un documento originale oggi? Certo, non una minuta vergata frettolosamente con una biro. Un’altra soluzione, attenta al contenuto e non più alla forma, consiglierebbe di conservare solo i documenti presumibilmente importanti per lo storico di domani. Qui l’insidia sta in quel «presumibilmente». Una volta, al momento dello scarto, venivano fatti spensieratamente dei guasti irrimediabili. Ma chi presiedeva all’operazione aveva almeno il vantaggio di nutrire dei saldi convincimenti in proposito, perché sapeva, o meglio, presumeva di sapere, che cosa poteva interessare lo storico di domani. Noi, invece, apparteniamo a una generazione che, dopo avere sbandierato che la storia si fa anche, e soprattutto, con i conti della serva, non sa neppure più bene che cosa sia storia. Secondo alcuni, il problema dello spazio necessario per la conservazione di gradi masse di documenti si risolverebbe memorizzando il tutto. Ma il Favier fa osservare che contro la proposta di organizzare grandi archivi di bande magnetiche militano almeno due ragioni serissime. Primo, si tratta di materiale molto delicato: se per caso viene a contatto con un campo elettrico, si cancella tutto, senza scampo. Secondo, le bande sarebbero prodotte in funzione dei computer esistenti sul mercato in un determinato momento: che ne sarebbe domani, quando questa generazione di computer fosse stata sostituita da modelli diversi? Le nostre bande sarebbero da buttare via. Anche l’entusiasmo per il microfilm, che era in voga di regola venti, trent’anni fa, quando ci si esaltava all’idea che, durante la guerra, il governo americano se ne fosse servito per fare arrivare ai soldati al fronte le lettere da casa, oggi è


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del tutto sbollito. Nessuno è ancora in grado di dire quanto dureranno le bobine allora prodotte così freneticamente: cinquanta, cento anni? Niente, comunque, in confronto ai quattromila anni e passa che sono durate le migliaia di tavolette d’argilla costituenti gli archivi di Stato di Ebla, la città siriana esplorata dalla missione archeologica dell’Università di Roma guidata da Paolo Matthiae (cfr., di questo autore, Ebla, un impero ritrovato, Torino, Einaudi, 1977). Così scriveva il secondo re di Ebla al re di Khamazi, una città ad est del Tigri: «Tu sei mio fratello ed io sono tuo fratello; per te che sei un fratello, qualsiasi desiderio tu esprima io esaudisco e tu il desiderio che io esprimo esaudisci. Mandami buoni soldati, ti prego: tu sei mio fratello ed io sono tuo fratello. Dieci mobili in legno, due soprammobili io ho dato al messaggero». Consegnate all’indistruttibile argilla, le parole del patetico messaggio del re di Ebla ci giungono da lontananze siderali. Che ne sarà delle nostre povere fotocopie? Il Giornale, 12 marzo 1980 A proposito della morte di Bachelet Cattolici senza miracoli Dopo trent’anni di governo democristiano, dopo anni e anni di quasi monopolio democristiano della Rai, dopo miliardi e miliardi dell’industria di Stato dissipati per assicurare alla Dc le principali testate giornalistiche, c’è voluto il funerale di Vittorio Bachelet perché l’Italia scoprisse che la fede cattolica, sinceramente ed umilmente vissuta, aiuta a guardare con serenità, addirittura con gioia, alla morte. È stato come se la macchina da presa di un reporter intraprendente fosse riuscita a violare il segreto di una setta minoritaria e poco conosciuta di un altro continente. La sorpresa è stata grande: i Bachelet e i loro amici non limita-


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no il loro culto al Cristo crocefisso, nel quale anche un laico arriva a riconoscersi nell’ora del dolore, ma lo estendono al Cristo risorto, ignorando il teologo Hans Küng, che bolla questo antico culto come «trionfalistico». La preghiera con le parole di perdono per gli assassini del padre recitata dal figlio ha commosso tutti, com’era stato, a suo tempo, per la lettera del vecchio Papa Paolo agli uomini delle brigate rosse che tenevano prigioniero Aldo Moro. Sono intermittenti segnali di speranza che danno un po’ di luce in queste giornate. Qualcuno ha anche scritto che questi segnali anticipano profeticamente «un’epoca nella quale non vi sia più terrorismo». Quando? Come? Già e non ancora per chi crede davvero che Cristo abbia sconfitto la morte una volta per tutte, e riesce a bruciare il tempo che resta da consumare nell’attesa fidente del suo ritorno e del conseguente giudizio finale. Per gli altri – e sono di gran lunga i più –, che rifiutano di credere che Cristo sia risorto o che in qualche modo ci credono, ma senza che, per questo, il tempo che ha ancora da venire si vanifichi davanti ai loro occhi, il problema del «come» e del «quando» resta dominante, anche se molti di essi sono stati pronti ad accogliere nel suo grande valore umano il messaggio di speranza cristiana che si è levato dall’assemblea dei fedeli di San Roberto Bellarmino. L’importante, per il rispetto dovuto alla credenza degli uni e alla miscredenza degli altri, è di non confondere le due prospettive, come tende invece a fare Giovanni Franzoni su «La Repubblica» del 23 febbraio, preoccupato, dal suo punto di vista, che si possa «configurare una sorta di spartizione di ruoli, fra credenti e sinistra, confinati ciascuno nei suoi contenuti e nei suoi metodi». La sinistra e la destra in tutto questo non c’entrano, e tanto meno il compromesso storico, che non è in discussione. Qui è questione di escatologia, da una parte, e di politica dall’altra. Dedurre una politica dell’escatologia, come in


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sostanza propone don Franzoni, conduce diritto al terzomondismo e al giustizialismo del più ambiguo cattolicesimo postconciliare, che non a caso è stato una delle matrici del terrorismo. Rifiutarsi di riconoscere in linea di principio dignità e forza alla prospettiva escatologica dei cristiani in nome di un realismo politico da caffè di provincia porta al ridicolo in cui sono inconsapevolmente caduti i tanti laici e miscredenti che, al funerale di Bachelet, hanno gridato al miracolo, laddove di davvero sorprendente c’è solo che essi abbiano dovuto mettere piede per caso nel recinto sacro per scoprire che c’è chi crede nella Resurrezione e, quindi, non teme, ma anzi benedice la morte. Questo però è ancora il male minore. Se il cattolicesimo che, col Vaticano II, ha ritrovato la dimensione escatologica del messaggio cristiano, ha esagerato, con un’evidente distorsione, l’utopia del regno di Dio da costruire subito su questa terra, il cattolicesimo preconciliare, non escatologico, delle grandi encicliche sociali ha generato in Italia, con una distorsione forse minore, ma con effetti altrettanto deleteri, il mostro dello Stato assistenziale. Che è, si badi bene, non solo un modo di governare l’economia, ma anche di amministrare la giustizia e l’ordine pubblico, e se possibile (ma finora, per fortuna, non lo è stato) la stessa politica estera. Una maggiore attenzione da parte dei laici (e qui mi riferisco all’opinione liberaldemocratica) all’essenza del cristianesimo avrebbe consentito di denunciare per tempo entrambe quelle distorsioni, richiamando i devianti ai principi da essi stessi professati e mettendo alla gogna i laici per modo di dire che hanno fomentato dal di fuori quelle deviazioni per ragioni bassamente politiche. Si è assunto invece un atteggiamento di superiorità snobistica, fondato sulla pretesa di rappresentare per definizione un’altra Italia, più evoluta e moderna, solo perché non si crede nell’aldilà. Un amico carissimo, Gennaro Sasso, che è anche il maggiore interprete vivente di Machiavelli, ha riscritto intera-


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mente il suo libro di vent’anni fa sul segretario fiorentino. Credo di non commettere nessuna indiscrezione, anticipando che una delle novità della nuova edizione (in corso di stampa presso «Il Mulino») consiste nel mostrare come il Machiavelli abbia preso molto più sul serio il Savonarola di quello che si è ritenuto fin qui, isolando dal contesto qualche frase di apparente dileggio. Per il segretario fiorentino il famoso profeta disarmato non fu un bersaglio polemico di comodo, su cui esercitare la propria tagliente ironia, ma costituì una difficoltà interna al suo pensiero, un ostacolo duro da superare, negli anni in cui questo pensiero venne prendendo forma. Purtroppo nessun laico della taglia di Machiavelli era presente al funerale di Vittorio Bachelet. D’altra parte, i profeti che circolano fra noi non sono lontanamente all’altezza del Savonarola. Il Giornale, 26 marzo 1980 La Malfa un anno dopo Un italiano diverso Per via della sua biografia e della sua formazione politico-culturale Ugo La Malfa apparteneva alla pattuglia di italiani laici, democratici, antifascisti, rassegnati a sentirsi «diversi» rispetto ai propri connazionali, anche perché di solito persuasi nell’intimo di prefigurare già un’altra Italia, più progredita e migliore, che forse però non verrà mai, perché non abbiamo avuto la Riforma protestante e il Risorgimento si è concluso con la vittoria dei moderati. Pur facendo parte a pieno titolo di quest’eletta minoranza, La Malfa non ne trasse mai un motivo di sia pure amara consolazione, o una garanzia di salvazione individuale, ma si impegnò dal principio alla fine per fare sì che tutta l’Italia – a cominciare dalla sua isola e dal più profondo


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Mezzogiorno – diventasse un’altra, ciò che per lui voleva dire, senza esitazioni e riserve mentali, una grande democrazia occidentale. Questo senso di solidarietà profonda, sofferta, con la sua terra e la sua gente, se contribuì a distinguerlo in parte dai suoi stessi compagni di lotta antifascista, contribuì a distinguerlo sempre nettamente dall’altra pattuglia di italiani «diversi», in cui egli finì col trovare, soprattutto negli ultimi anni, gli interlocutori più attenti. Intendo dire gli eroi eponimi del capitalismo avanzato e dell’efficientismo tecnocratico: gli Agnelli, i Carli. Dubito che La Malfa parlasse bene l’inglese. Se anche sì, non ne avrebbe certo fatto motivo di vanto. Il suo smisurato e giustificato orgoglio intellettuale era tutt’altra cosa dall’inconsapevole riflesso razzista con cui le élites del nostro paese cercano di compensare il loro isolamento. La Malfa ha collaborato in posizioni-chiave all’impresa della ricostruzione nazionale. Ricerche fin d’ora auspicabili, che troveranno la loro sede naturale nell’Istituto di studi intitolato al suo nome, di cui viene annunciata in questi giorni la costituzione, metteranno in luce, al riparo dall’enfasi commemorativa, la parte effettivamente avuta negli anni del centrismo. Ciò che, per il momento, preme di sottolineare è come, a impresa compiuta, pur avvertendo meglio forse di chiunque altro i limiti e la precarietà del miracolo realizzato in così breve giro di anni, egli si sia sentito partecipe del clima di laboriosità e di creatività, collettiva e individuale, che aveva accompagnato il grande balzo avanti. Forse solo in lui, di tutto un gruppo di uomini probi rimasti in sostanza ostici al paese, la mutria antifascista a un certo momento cedette il posto a un senso di aperta soddisfazione per un’impresa di pace compiuta dagli italiani tutti insieme. Eppure, per la stragrande maggioranza degli italiani La Malfa è restato sempre e solo il fastidioso predicatore del-


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l’austerità, uno di quelli che hanno contribuito a porre fine alla festa prima del tempo. A creare e a far perdurare l’equivoco, fino – direi – al giorno dei suoi funerali, ha contribuito da ultimo, involontariamente, lo stesso La Malfa, quando ha mostrato di credere che l’austerità predicata invano da lui avesse qualcosa in comune con quella teorizzata dai cattocomunisti vicini all’on. Berlinguer, che era invece un progetto a lungo termine, mirante ad appiattire e a mortificare proprio quelle energie, soprattutto individuali, che La Malfa si riprometteva così di risvegliare e di rimettere in moto. Sarebbe far torto a La Malfa il ritenere che, a questo punto, abbia ripreso tardivamente forza in lui il «pas d’ennemi à gauche», che era stato per necessità di cose il leitmotiv dell’antifascismo militante. La spiegazione è, a mio avviso, un’altra. Sulla base dell’esperienza del crollo della repubblica di Weimar, decisiva per la sua formazione, La Malfa era sinceramente convinto che ci fosse una soglia, oltre la quale l’inflazione provoca in modo necessario, quasi automatico, la disgregazione di un sistema politico fondato sulla democrazia rappresentativa. Di fronte a questa minaccia, avvertita fisicamente, i distinguo, sottili o no, fra la sua austerità e quella di Berlinguer non avrebbero avuto più ragione d’essere. Il problema è di vedere se la premessa teorica sia esatta (ciò che non credo) e, subordinatamente, se la politica di solidarietà nazionale sia davvero in grado di debellare l’inflazione (ciò che resta ancora da dimostrare). Un partito di nobili tradizioni, come quello repubblicano, che rischiava di perdere la sua ragione d’essere sulla scena politica italiana, deve a La Malfa la vita. In esso egli ha trovato lo strumento ideale con cui svolgere un’azione politica non di partito, come era e voleva restare la sua. Ricordo che una mattina, nei giorni terribili dell’affare Moro, mi disse di avere appena dettato per «La Voce Repubblicana» il più breve editoriale della storia del giornali-


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smo (quindici righe in tutto) e di avere quindi telefonato al direttore de «Il Popolo» per protestare che non si poteva continuare ad andare avanti come se non fosse successo nulla. Era un leader nato, che l’insuccesso e la scomparsa del suo Partito d’Azione ha costretto spesso a far politica per interposto partito. Resta, nel ricordo, un uomo straordinariamente intelligente, onestissimo e umano, come sanno esserlo solo i meridionali che reagiscono con la forza del carattere alla mortificazione del sottosviluppo; l’italiano, forse, che ha saputo leggere con più penetrazione nel triste destino che ci minaccia, dopo aver contribuito ad assicurare al paese gli anni più prosperi della sua storia unitaria, ed esserne sinceramente rallegrato come uno di noi. Viterbo. La Provincia, 8 giugno 1981 Storia e scienze del territorio dell’università di domani Alternative al “Corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali”. Atti del convegno – Girolamo Arnaldi, presidente del comitato tecnico amministrativo dell’Università della Tuscia. Tutte le volte, e mi è accaduto più di una volta, che ho espresso in pubblico il mio parere sul problema del corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali, previsto dalla legge istitutiva dell’Università della Tuscia, chi mi ha ascoltato sa che ho parlato con calore di questo tema perché è una materia che mi interessa intellettualmente, che stimola anche la mia fantasia. Il testo che adesso leggerò è un testo, invece, quanto mai povero: ha il carattere, del tutto notarile, del verbale di una assemblea o di un consiglio. D’altra parte, ho creduto che in questa sede, per l’importanza che questo convegno indetto dall’Amministrazio-


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ne Provinciale di Viterbo finirà con l’assumere ai fini del dipanamento di questa complessa materia, fosse finalmente opportuno uscire dall’alibi delle posizioni prese a titolo personale e presentare quindi un documento che riflettesse l’orientamento del Comitato tecnico amministrativo dell’Università della Tuscia. Riservandomi per il pomeriggio, se ci sarà tempo e se mi verrà concesso, di esprimere in breve quello che è invece il frutto di mie meditazioni su questo tema. Meditazioni che non ho fatto nella solitudine, ma con un gruppo di amici (di questo si tratta), che, del tutto disinteressatamente, del tutto informalmente, senza nessuna investitura ufficiale, si sono posti il problema di che cosa fosse possibile inventare in sostituzione dei corsi di laurea in conservazione dei Beni Culturali e in Chimica. Sono stato accusato più volte di avere un pregiudizio verso il corso di conservazione dei Beni Culturali, magari anche di carattere politico. Ma non è vero. Si tratta di altro. Quando il Comitato tecnico amministrativo dell’Università della Tuscia si è riunito per la prima volta, c’era già stata una pronuncia del C.U.N. contro gli statuti proposti da Udine per l’attivazione di ben tre dei quattro indirizzi costitutivi del corso. Quindi, pensare ad una possibile alternativa non era fare del sabotaggio, ma tenere conto dell’andamento delle cose e, insomma, una conseguenza del guardarsi intorno. Un discorso un po’ più sottile era quello relativo alla Chimica: ma anche in questo caso erano tali le voci che giungevano, ufficializzate in documenti di associazioni, sulla difficoltà di sbocchi professionali per i laureati in Chimica che era impossibile non pensare a qualche altra cosa. Per fortuna, poi, le due difficoltà sono potute diventare una sola, perché si è visto che questa posta di un corso di laurea in Chimica poteva essere utilmente utilizzata nel contesto di una ristrutturazione dell’intero settore della conservazione dei Beni Culturali.


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Passerei senz’altro a leggere il mio testo, se alcune parole dette dal Sindaco di Viterbo nel suo intervento non mi costringessero a una piccola rettifica personale. Alcune delle persone che oggi sono qui, appartengono al numero di coloro che hanno così generosamente collaborato con me nella preparazione di due progetti alternativi per i corsi di laurea in discussione. Nello scegliere questi amici, nel rivolgermi a loro, io non mi sono mai lontanamente preoccupato di quale orientamento fossero, a quale scuola filosofica appartenessero, né che tessera di partito avessero in tasca. Il gruppo si è esteso con questa logica e quando vedevo che andavamo troppo d’accordo (i presenti sono testimoni di quello che dico) cercavamo di inventare qualcuno che potesse avere un parere diverso, perché mi sembrava opportuno che questi nostri pensamenti fossero il più possibile al sicuro dalle difficoltà che potevano nascere in seguito. Questa è l’unica logica che ha obbedito alla costituzione di questo gruppo, che oggi è, in qualche modo, l’interlocutore non ufficiale di chi è invece latore di una proposta ufficiale, l’unica realmente esistente, quella che sarà illustrata dal prof. Gullini, Presidente della Commissione ad hoc creata dal C.U.N. Questa è la realtà delle cose: d’altra parte chi mi conosce un po’ sa che io non avrei potuto agire altrimenti che in questa maniera; mi vanto di avere questa disinvoltura; ho la pretesa che possa, in questioni che riguardano gli studenti, non stare a guardare se siano presenti tutte le “componenti” – una preoccupazione, che a mio avviso, aduggia inutilmente la vita italiana, anche in casi nei quali non ha nessuna giustificazione. Vengo alla lettura del nostro documento: scusate se è un po’ noioso, ma ha anche la virtù di essere breve. “La legge 3 aprile 1979, istitutiva dell’Università Statale della Tuscia, assegna a questa nuova Università quattro corsi di laurea.


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Nell’ordine: il corso di laurea in scienze agrarie, il corso di laurea in chimica, il corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali (con tre indirizzi: beni archivistici e librari, beni culturali mobili e artistici) e il corso di laurea in lingue e letterature moderne. L’art. 11 della stessa legge prevedeva che il corso di laurea in scienze agrarie fosse attivato già a decorrere dall’anno accademico 1979/80 nell’ambito della facoltà di Agraria. In realtà, per una serie di motivi di forza maggiore, tale corso è stato attivato solo a partire dall’anno accademico presente. Ma la neonata facoltà di Agraria, la prima del Lazio, comprende già anche un secondo corso di laurea, quello in scienze forestali, non contemplato dalla legge, la cui istituzione è stata resa possibile dall’accoglimento, in sede di approvazione della legge, da parte dei rappresentanti del Governo, di un ordine del giorno in tal senso. Il giorno 7 luglio sarà solennemente celebrata la conclusione del primo anno accademico della nuova Università, congiuntamente alla presa di possesso, da parte della facoltà di Agraria, della sede in località Riello, che l’Università ha acquisito dal Comune di Viterbo. Rendendosi così disponibili i locali del convento degli Agostiniani, che erano la sede provvisoria della facoltà di Agraria, il Comitato tecnico amministrativo già nella primavera del 1980 aveva fatto presente al Ministro della Pubblica Istruzione che esistevano questa e le altre condizioni perché, in base all’art. 10 della legge istitutiva, si provvedesse all’attivazione di un altro corso di laurea, quello in Lingue e letterature straniere moderne, costituendosi a tal fine il relativo Comitato ordinatore. Ciò non è ancora avvenuto, con grave danno della nuova Università, che vede dilatato nel tempo l’attivazione dell’insieme degli insegnanti che la legge le attribuisce, e con grave disagio dei molti studenti della provincia di


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Viterbo che devono recarsi a Roma nelle affollatissime aule in cui vengono tenuti i corsi di lingue. Il ritardo nel provvedere alla nomina del Comitato ordinatore per lingue è indirettamente, ma strettamente connesso con il tema oggi all’ordine del giorno. L’art. 2 dello Statuto dell’Università della Tuscia prevede che i tre corsi di laurea indicati dalla legge istitutiva vengano istituiti “nell’ambito delle rispettive facoltà”, ma senza precisare quali. Nell’atto di chiedere al Ministro della Pubblica Istruzione l’attivazione del corso di laurea in lingue, il Comitato tecnico amministrativo aveva indicato la facoltà di Lettere come la più adatta a comprendere questo nuovo corso di laurea, intendendo in tal modo predisporre, fin da ora, la struttura destinata a raccogliere un altro corso di laurea, quello di conservazione dei Beni Culturali con relativi indirizzi. Stante però l’incertezza che tuttora perdura (dopo le note traversie, subite in sede C.U.N. dallo Statuto di questo corso di laurea che era stato predisposto per l’Università di Udine) circa la fisionomia di tale corso, il C.U.N. non ha ancora dato il suo benestare alla nomina del Comitato ordinatore della facoltà di Lettere dell’Università della Tuscia, rendendo così impossibile attivare il corso di laurea in lingue. Per riparare a tale incresciosa situazione, il Comitato tecnico amministrativo è tornato di recente sulla decisione già presa e ha chiesto che il corso di laurea in lingue e letterature straniere moderne venga attivato nell’ambito di una facoltà di Lingue. A quanto risulta, il C.U.N. dovrebbe esaminare questa nostra richiesta proprio domani. Confidiamo vivamente che essa venga accolta, anche se, al punto in cui siamo, è molto difficile che il Comitato ordinatore possa venire nominato in tempo utile per dare inizio ai corsi a decorrere dall’anno accademico 1981/1982.


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Ciò detto – e mi scuso per la lunga premessa – colgo l’occasione per fare presente che, anche se ci siamo risolti a sganciare la partita “lingue” dalla partita “Beni Culturali”, assistiamo con viva preoccupazione al ritardo con cui il C.U.N. procede alla definizione del nuovo assetto del corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali. Questo corso, per il solo fatto di essere nuovo e raro (solo l’Università di Udine ne ha un altro), ha destato una viva attesa nell’ambiente viterbese e, a lungo andare, l’incertezza perdurante a riguardo creerebbe uno stato di frustrazione, pregiudizievole ad un felice decollo della nuova Università della Tuscia. Approfittando della nuova tribuna che ci è stata offerta dall’Amministrazione provinciale di Viterbo, anche in questo caso attenta al destino della nostra Università, condenso in tre punti le esigenze irrinunciabili di questo Ateneo, di cui il C.U.N. e il Ministero della Pubblica Istruzione non potranno non tenere conto, perché fondate sul dettato della legge istitutiva: 1. poiché l’orientamento che, a quanto ci è dato sapere, finirà per prevalere in sede C.U.N. tende a smembrare in più corsi di laurea di facoltà diverse il previsto corso di laurea (unico) in conservazione dei Beni Culturali, rimane inteso che l’Università della Tuscia dovrà comprendere il nucleo centrale di questi insegnamenti; 2. nel predisporre il progettato smembramento dell’unico corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali, che, nel suo secondo indirizzo comprende anche “beni dell’ambiente”, il C.U.N. dovrà considerare la possibilità di utilizzare a questo fine il corso di laurea in chimica, che la legge istitutiva riconosce a Viterbo; 3. poiché la sola facoltà per il momento funzionante a Viterbo è quella di Agraria, il C.U.N., nel ristrutturare il settore degli insegnamenti attinenti ai “beni ambientali”, dovrà tenere nel massimo conto le esigenze e le possibilità


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dei due corsi di laurea in scienze agrarie e scienze forestali, che, entrambi a diverso titolo, pretendono giustamente di avere posto in questa ristrutturazione. Preposto dalla legge istitutiva a presiedere all’acquisizione delle aree e all’approntamento delle opere edilizie e delle relative attrezzature della nuova Università – a questo e non ad altro –, il Comitato tecnico amministrativo dell’Università della Tuscia verrebbe però meno alla sua funzione di organo di governo provvisorio di questa Università se non manifestasse a chiare lettere la sua viva preoccupazione per l’incertezza che tuttora permane sul futuro di ben due dei quattro corsi di laurea che la legge succitata assegna a Viterbo. Bisogna che al più presto questa incertezza sia rimossa e lasci il posto ad un disegno ben meditato e coerente, valido sia sotto il profilo dell’impianto culturale, che sotto quello, non meno delicato e importante, degli sbocchi professionali che si apriranno ai giovani laureati. *** Devo innanzitutto fare qualche considerazione in margine all’intervento di Pino Fasano. Credevo che la 382 potesse avere l’effetto di sdrammatizzare la discussione sul “dipartimento”. Negli anni passati ho partecipato a questa discussione schierato su posizioni anti dipartimentali. Allora, l’ipotesi del dipartimento era legata alla prospettiva del “docente unico” e dell’“assemblearizzazione” degli organi di governo delle nostre Università. Il dipartimento previsto dalla nuova legge non ha nessuno di questi caratteri che rendevano inviso il dipartimento come tale e molti, pur riformisti per natura, hanno accettato di ridursi nella posizione ingrata di conservatori arrabbiati perché vedevano in gioco valori essenziali come la libertà di insegnamento. Credevo che tutto questo fosse acqua passata e che oggi si potesse essere favorevoli al dipartimento, oppure contrari, in base a considerazioni di opportunità organizzativa, e


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non di altro. Invece Fasano torna a bollare come “oscurantisti” gli avversari del dipartimento. Anche se uomini che non appartengono certo al campo dei conservatori come Giorgio Tecce, non si stancano di esprimere delle riserve di ordine culturale in merito all’istituzione generalizzata dei dipartimenti! In un recente convegno ho sentito dire che i dipartimenti sono “un nuovo modo di fare politica”. Ebbene, se è così, vuol dire che in molti continueremo a batterci contro i dipartimenti. Ma parliamo di ciò che ci riguarda più da vicino: il corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali e l’Università della Tuscia. A questa Università, come a tutte quelle di nuova istituzione, la 382 impone di organizzarsi per dipartimenti, che altrove – come è noto – sono invece almeno per il momento facoltativi. Ma, mi si perdoni il bisticcio, i dipartimenti che la legge impone a Viterbo sono, non i dipartimenti previsti nei vecchi progetti di legge mai arrivati in porto, ma i dipartimenti… facoltativi della 382. In altre parole, si tratta di dipartimenti chiamati a coesistere con la facoltà. E, dunque, chi propone che il corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali venga attuato su base dipartimentale e fuori dal quadro di una facoltà, dice cosa impossibile a realizzarsi se restiamo sul terreno della 382 – una legge che è piena di angoli riposti, di virtualità non del tutto espresse, ma che non può essere tirata impunemente in tutte le direzioni. Avrei preferito che il convegno di oggi si fosse tenuto prima del 3 aprile 1979 (data della legge istitutiva delle tre nuove Università laziali). Se così, avremmo potuto discutere in piena libertà, senza condizionamenti, il tema: “opportunità di creare insegnamenti volti a preparare gli operatori nel campo dei beni culturali”. C’è da giurare che, se lasciati liberi di decidere (o almeno di pronunciarsi), i presenti avrebbero concordato sui due punti seguenti: a) non è il caso di istituire appositi corsi di laurea in questo settore; b) è molto opportuno pensare a scuole di specializzazione post-laurea e


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a scuole speciali per diplomi (il famoso ciclo corto), che preparino operatori nel campo dei Beni Culturali rispondenti alle esigenze dell’utenza esterna e ai profili professionali che hanno corso in questo settore. Tra parentesi, credo che il rettore Ruberti abbia ragione quando dice che, anche in base alla legislazione attuale, è possibile porsi fin da ora il problema del ciclo corto. Ma la storia non si fa con i se. Oggi che ci troviamo qui riuniti, abbiamo da fare i conti con la legge n. 122 del 3 aprile 1979, che prevede per l’Università della Tuscia l’attivazione di un corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali con i seguenti indirizzi: beni culturali archivistici e librari; beni culturali architettonici, archeologici e dell’ambiente; beni culturali mobili e artistici. Le scuole di specializzazione o il ciclo corto verranno in un secondo momento. Bisogna prima decidere cosa si deve fare di questo corso di laurea che la legge attribuisce a Viterbo. Esiste inoltre un secondo condizionamento. A suo tempo, il vecchio Consiglio superiore, sulla base di una lucida relazione dell’amico Gullini, ha respinto, in riferimento all’Università di Udine, l’attivazione del secondo e del terzo indirizzo del corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali, previsto dalla legge istitutiva di quella Università in termini identici a quelli contenuti nella legge per Viterbo. Ma, dovendo pur concedere qualcosa ai friulani, lo stesso Consiglio superiore, invece di rimettere in discussione l’intera materia, ha autorizzato l’attivazione, nell’ambito di una facoltà di Lettere, del corso di laurea suddetto, limitatamente all’indirizzo in beni culturali archivistici e librari. Di modo che, per questa parte, il corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali è già entrato a far parte dell’ordinamento didattico nazionale. Qui a Viterbo, in teoria, avremmo potuto benissimo seguire l’esempio di Udine e proporre l’attivazione del corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali, limitatamente a quel solo indirizzo. Non abbiamo preso nemmeno in considerazione questa even-


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tualità in nome dell’esigenza di evitare doppioni inutili con Roma, dove esiste la Scuola speciale per archivisti e bibliotecari. D’altra parte, se l’accoppiamento di archivi e biblioteche ha un senso in sede di scuola di specializzazione, ne ha meno in sede di indirizzo di corso di laurea. L’archivista è molto legato alla dimensione della storia regionale; il bibliotecario presuppone una formazione del tutto diversa, di storia della cultura, non necessariamente legata al territorio. Ma, ripeto, l’indirizzo in beni culturali archivistici e librari a Udine funziona già! Prima di venire al cuore del problema, devo una spiegazione a chi ha deplorato che, nell’ambito delle riflessioni che abbiamo avviato sui modi di raddrizzare il corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali, non abbiamo fatto posto a un tema molto importante come quello del rapporto scuola secondaria – Beni Culturali. Ai miei amici pedagogisti di Roma, che mi hanno fatto la stessa osservazione, ho fatto presente che, ferma restando l’importanza del tema, il problema del corso di laurea in conservazione dei Beni Culturali è già abbastanza complicato e che non è il caso di complicarlo ulteriormente. Una volta elaborato un modello accettabile, non sarà difficile inventare a fianco della nuova facoltà, o di quello che sarà, dei corsi di aggiornamento degli insegnanti delle scuole secondarie, al fine di istruirli sulle tematiche più adeguate a trasferire nella scuola la problematica della conservazione e dell’uso dei Beni Culturali. Come vedremo fra poco, il problema maggiore davanti al quale ci troviamo è costituito dalla necessità di non accrescere troppo il numero degli esami, moltiplicando le materie di insegnamento. Se ai progetti intorno ai quali stiamo discutendo dovessimo aggiungere anche un congruo numero di discipline della scienza dell’educazione, non so dove andremmo a finire. Veniamo, da ultimo, al progetto Gullini. Questo progetto prevede due corsi di laurea nuovi (quello in Chimica del-


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l’ambiente e quello in Analisi e organizzazione delle risorse storico-territoriali) e alcuni nuovi indirizzi in corsi di laurea già esistenti. Stando alla legge istitutiva, l’Università della Tuscia è interessata solo ai due corsi di laurea nuovi, perché non sono previsti a Viterbo i corsi di laurea per i quali Gullini prevede l’aggiunta di nuovi indirizzi in più di quelli esistenti. Tranne che in un caso. Vedo infatti con piacere che, rispetto alle stesure precedenti, il progetto Gullini prende in considerazione di istituire un indirizzo “ambientologico” nel corso di laurea della facoltà di Agraria. Per noi viterbesi, questo aspetto del problema ha un’importanza particolare. Al momento attuale, l’Università della Tuscia comprende solo una facoltà di Agraria. Indipendentemente dai problemi epistemologici, sarebbe assurdo tenere fuori Agraria – e in particolare Agraria a Viterbo – dal discorso dell’ambiente. Il progetto per un corso di laurea in Chimica dell’ambiente contenuto nello schema Gullini ricalca da vicino quello elaborato dai professori Branca, Nebbia e Liquori all’interno del gruppo di amici cui mi sono rivolto per consiglio. Non posso che prenderne atto con soddisfazione. Si tratta ora di pensare ai necessari collegamenti di tipo dipartimentale con il corso di laurea in Scienze Agrarie della facoltà di Agraria, che – ripeto – qui a Viterbo è per il momento la sola funzionante. Sempre per ciò che concerne il corso di Chimica dell’ambiente, desidero richiamare la vostra attenzione sul lavoro di spoglio fatto dal prof. Branca sulla legislazione esistente in materia di tutela dell’ambiente, dal quale risulta che in questo settore gli eventuali laureati avrebbero molte possibilità d’impiego. Confesso che vorrei poter essere altrettanto tranquillizzato sulla sorte che attenderebbe i laureati dell’altro dei due nuovi corsi di laurea cui stiamo pensando! Il progetto Gullini prevede anche un nuovo corso di laurea in Analisi e organizzazione delle risorse storico-territoriali, articolato in quattro indirizzi: l’archivistico-librario;


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l’archeologico; lo storico-artistico-architettonico e l’etnoantropologico. La mia riserva fondamentale nei confronti di questo progetto è di ordine non culturale, ma pratico. Dalle stesse oneste parole di Gullini questa difficoltà emerge a chiare lettere. Gli studenti che si iscrivono a ciascuno di questi indirizzi devono anzitutto sostenere un certo numero di esami comuni anche agli altri corsi delle facoltà di Lettere (dimenticavo che questo corso di laurea è concepito come un nuovo corso della facoltà di Lettere e Filosofia); inoltre, dovranno sostenere alcuni esami comuni ai quattro indirizzi e caratterizzanti, come tali, il corso di laurea in questione; infine, dovranno sostenere gli esami nelle materie specifiche di ciascuno dei quattro indirizzi; né va dimenticato che, in più delle materie che ogni studente è tenuto a frequentare, dovrà pure essere lasciato un qualche spazio alle opzioni individuali, in omaggio al principio della liberalizzazione del piano di studi. Troppi esami! Per aggirare la difficoltà, Gullini prevede un corso di laurea di cinque anni e non di quattro, come sono di norma i corsi di laurea della facoltà di Lettere. Noi pure avevamo pensato a una possibilità del genere, anche come disincentivo atto a evitare che folle di studenti si avviino verso il corso di nuova istituzione, trasformandolo in una fabbrica di disoccupati. Ma sarà possibile introdurre un’anomalia così evidente nel nostro ordinamento didattico? E se anche fosse possibile introdurre questa anomalia, è il caso di andare contro l’indicazione che viene da molti paesi, nel senso di limitare i tempi della scolarizzazione, sia per le scuole secondarie che per l’Università? Altro punto. Gullini stesso si rende conto che, puntando sui quattro indirizzi, il momento di formazione comune viene indebitamente ridotto ai minimi termini. Proprio per questo Gullini prevede, allo sbocco di questo suo corso di laurea, una scuola di specializzazione. Senza questo complemento indispensabile, il progetto di Gullini zoppica. Ora, la creazione di


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questo complemento non è nelle mani nostre; non è nemmeno nelle mani del C.U.N.; perché è qualcosa che riguarda il Ministero dei Beni Culturali. Se la politica del Ministero dei Beni Culturali andrà in direzione contraria a quella del decentramento, si potrà anche arrivare a “scuole nazionali di patrimonio” e del tipo di quelle previste in Francia. Se prevarrà invece la linea della decentralizzazione, queste scuole, o questa scuola, non verrà mai istituita in Italia. Quindi c’è una serie di “se” che rendono incerta questa prospettiva. A mio avviso, i quattro indirizzi di corso di laurea indicati da Gullini andrebbero trasformati in quattro diversi corsi di laurea. Accettando questa prospettiva, cadrebbe almeno il problema di una formazione comune agli studenti dei quattro indirizzi, che in ogni caso non riuscirebbe a fornire, dovendosi dare anche la formazione comune a tutti gli studenti di una facoltà di Lettere. Tanto vale rimandare il momento della formazione comune degli operatori nel campo dei Beni Culturali alla prevista scuola di specializzazione post-laurea. Nella facoltà di Lettere abbiamo già un corso di laurea in storia ed un corso di laurea in geografia. Non vedo perché non si possa pensare ad un corso di laurea di tipo archivistico-librario (con due indirizzi), ad un corso di laurea in archeologia, ad un terzo corso di laurea di tipo antropologico e ad un quarto corso di laurea al quale darei il titolo che Gullini aveva scelto per il corso di laurea comprensivo dei quattro indirizzi succitati, cioè Analisi e organizzazione delle risorse storico-territoriali. Questo quarto corso di laurea verrebbe ad assumere una fisionomia molto vicina a quella espressa dal progetto di Manieri Elia e di Delogu. Questa è, in sostanza, la contro proposta che io faccio, a titolo necessariamente personale, dopo aver preso visione della meditata proposta di Gullini.


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Postilla Nell’atto di licenziare per le stampe il testo di questo mio secondo intervento al convegno viterbese, aggiungo qualche altra considerazione. Nel caso che quattro corsi di laurea da me previsti al posto del solo corso di laurea su quattro indirizzi proposto da Gullini, fossero ritenuti troppo, si potrebbe: – tenere fermo il corso di laurea di tipo archivisticolibrario con i suoi due naturali indirizzi; – rinunciare al corso di laurea, o indirizzo che sia, di tipo etno-antropologico, che è anche quello che presenta minori possibilità in materia di sbocchi occupazionali; – accorpare in un solo corso di laurea due indirizzi archeologico e storico-artistico architettonico, conservando al corso di laurea in questione il titolo di Analisi e organizzazione delle risorse storico-territoriali a mio avviso felicissimo. Il Giornale, 8 marzo 1983 Si è concluso a Milano il convegno dedicato a Federico Chabod Quando lo storico faceva i conti col duce* Una grande, e forse insperata, affluenza di congressisti e di pubblico alle «giornate di studio» su «Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950)» ha compensato lo sforzo molto ingente compiuto dagli organizzatori e, in particolare, da Brunello Vigezzi. Ancora una volta, un’iniziativa culturale incentrata sulla rivisitazione degli anni ’30 (è di queste decennio intermedio che si è soprattutto parlato) ha confermato che,

* Si veda, in questo volume, Il Giornale, La storia e il suo sguardo, 3 marzo 1983.


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dopo la rimozione collettiva durata fino a qualche tempo fa, oggi ci si sente abbastanza maturi e sicuri di sé per andare a rimestare quelle carte ormai ingiallite. Poiché la rimozione era dovuta principalmente alla presenza del fattore «fascismo», è naturale che si attendesse con particolare e un po’ morbosa curiosità la relazione di Renzo De Felice su «Il fascismo e gli storici italiani». Al solito, De Felice non ha deluso l’attesa. Si è ben guardato dall’impegnarsi nel dimostrare che Gioacchino Volpe non fosse fascista. Ha dato invece per scontato che lo fosse. Ma quando è passato a parlare di ciò che avveniva nei dintorni, e con la copertura, di Volpe, la massa stessa dei documenti addotti (alcuni, anche, per la prima volta) ha impresso per necessità di cose al suo discorso un andamento articolato e problematico, lontano mille miglia dal manicheismo di moda fino a ieri. Così, per esempio, si è potuto constatare che ciò che passava finora per un’anticipazione da parte della «nuova storiografia», dell’interesse postbellico per l’Europa unita, era invece il frutto di preoccupate riflessioni tardofasciste sull’assetto del nostro continente dopo la pur auspicata vittoria hitleriana. Se De Felice non è nuovo a prove del genere, nuova è l’accoglienza che gli viene ora riservata. Ieri il suo modo di fare era motivo di scandalo; oggi praticamente nessuno osa più protestare. E quando, nella discussione seguita alla sua relazione, è intervenuto Piero Treves, per ricordare che, comunque, negli anni ’30 era in corso una guerra e che anche fra gli storici c’è stato chi ne ha pagato il prezzo in termini di prigione e, persino, di vita (è il caso di Nello Rosselli, uno dei pupilli di Volpe), gli applausi dei presenti stavano sì a significare che non ritenevano tale intervento un’aggiunta pleonastica, ma non volevano dire in nessun modo che lo salutassero come un correttivo polemico di ciò che aveva detto poco prima De Felice. Due guerre mondiali e, in mezzo fra l’una e l’altra, il fascismo non hanno impedito che vecchi maestri (magari


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non tutti d’un pezzo) facessero scuola, e giovani alunni (magari non del tutto insensibili alle parole d’ordine del momento) facessero tesoro del loro insegnamento. Anche negli studi storici, più forte, o, almeno, altrettanto forte delle cesure segnate dalle guerra, dalle rivoluzioni e dalle tirannidi, si impone il dato di fatto della «continuità», che non a caso Chabod richiamava instancabilmente ai suoi discepoli, talvolta troppo ansiosi di individuare «svolte» a ogni piè sospinto. Ma il fascismo non era la sola causa della rimozione operata a proposito degli anni ’30. E, da questo altro punto di vista, il recente convegno di Milano sta a dimostrare che il disagio permane. Anzi, uno dei motivi di maggior interesse del convegno stesso è stato di avere messo a nudo questa piaga riposta. Gli storici degli anni ’30 o giù di lì, oltre che a dovere fare i conti con il fascismo, il che costituiva una prova tutt’altro che agevole, sul piano morale, erano tenuti a fare i conti con Croce, cioè a dire con la «filosofia», il che costituiva una prova tutt’altro che agevole sul piano intellettuale. Sia per una ragione che per un’altra, a meno di non rifugiarsi nell’erudizione, essi erano, insomma, tenuti a nuotare nel centro della corrente della cultura nazionale, molto più di quanto non siano tenuti a fare oggi, dopo che le ideologie, nella loro caduta rovinosa, si sono tirate dietro anche la «filosofia», e non solo quella crociana. Per rimuovere il disagio che, in fondo, non mancano di provare nei confronti degli Adolfo Omodeo e dei Carlo Antoni, o anche, per altro verso, dei Gaetano De Sanctis, alcuni storici di oggi tentano di accreditare il punto di vista secondo cui i loro predecessori sarebbero stati però, in genere, dei «provinciali», in quanto tagliati fuori, per forza di cose, dalle grandi correnti del pensiero storico internazionale. Un vivace scambio di idee fra Gennaro Sasso, contrario alla scappatoia del «provincialismo», e Furio Diaz,


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che tende a erigerlo a criterio di giudizio, ci ha confermati nell’impressione che questo, e non quello del fascismo, sia ora il punto veramente controverso. Se fosse vero – come vuole Vigezzi – che l’interesse per le «relazioni internazionali», intese nel senso più largo possibile e lontanissimo, quindi, da quello familiare agli studiosi di storia diplomatica, sarebbe stato il motivo dominante e unificante della «nuova storiografia» degli anni ’30, la tesi del «provincialismo» riceverebbe un duro colpo. Ma non è – torniamo a dirlo – solo un problema di contenuti. La Voce Repubblicana, 20 ottobre 1983 Perché così tardi la “scoperta” di Aron? Dieci giorni fa, la prima domanda a un amico francese che non incontravo da tempo era stata: «È vero che la sinistra del tuo paese ha scoperto Aron?». Era una domanda, a un tempo, maliziosa e interessata. Maliziosa, perché il mio interlocutore, oltre a essere una testa pensante, condivide grosso modo, almeno sentimentalmente, gli stati d’animo della sinistra francese e, quindi, anche l’insofferenza di fondo per il tipo di analisi politico-strategica che era proprio di Aron; interessata perché, sapendo bene come le novità francesi di oggi tendono ad anticipare le novità italiane, di domani, avrei avuto di che rallegrarmi di una risposta positiva. La risposta è stata in sostanza questa: morto Sartre (che il mio amico, fra parentesi, non amava affatto), è venuta meno in Francia l’idea stessa dell’intellettuale-guida, del «maître-à-penser». Del che bisognava solo rallegrarsi, perché al mondo attuale servono le competenze specifiche, non gli esperti di tutto. E di Aron, pur manifestando stima e simpatia per l’uomo, sul piano della competenza specifica salvava solo il libro sul Clausewitz: un vero capolavoro.


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Gli risposi che trovavo strano che in Francia, per mettere in discussione la figura dell’intellettuale, si fosse atteso proprio il momento in cui, a detta di tutti il numero uno della categoria era diventato Raymond Aron – un intellettuale non di destra, ma nemmeno di sinistra e, comunque alla sinistra certamente poco congeniale, se non altro per le sue concezioni in materia di dissuasione nucleare. Ora apprendo che, nell’ultima pagina delle sue «Memorie», non ancora tradotte in italiano, in testa alle ragioni di pessimismo per il futuro prima ancora del rallentamento della crescita, dell’inflazione e del disordine monetario, Aron pone la crisi demografica: «Gli europei stanno suicidandosi per denatalità». Gli esperti francesi di statistica demografica e di demografia storica hanno da tempo dato l’allarme, ma nessuno li ha ascoltati perché avevano contro il conformismo terzomondista. Come poteva piacere Aron ai lettori di «Le Monde»? Credo anch’io che quello della scoperta di Aron da parte della sinistra francese sia un sogno troppo bello per essere vero. Eppure, noi italiani avremmo una ragione seria per prendercela con Aron. Nel 1938, in due libri usciti quasi contemporaneamente, l’Introduzione alla filosofia della storia. Saggio sui limiti dell’obiettività storica e La filosofia critica della storia. Saggio su una teoria tedesca della storia, Raymond Aron ha ripercorso per gli ignari lettori di lingua francese un itinerario paragonabile a quello tracciato dal nostro Carlo Antoni in Dallo storicismo alla sociologia, che è del 1940. Ma, mentre Antoni si inseriva con il suo libro in un dibattito sulla storia vivo in Italia fino agli inizi del secolo, i libri di Aron cadevano su un terreno non preparato, tanto è vero che passeranno praticamente inosservati dai Febvre e dai Bloch, per essere apprezzati nel loro giusto valore solo dal cattolico Henri-Irénée Marrou, che da essi, appunto, avrebbe preso le mosse per il suo Della conoscenza storica, del 1954. Il fatto di avere ignorato tutto ciò che si


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era pensato e scritto in Italia sul tema della conoscenza storica dal 1900 in poi ha privato Aron di interlocutori più validi e interessati di quelli che, da questo punto di vista, ha potuto trovare nel suo paese. Il Giornale, 12 gennaio 1985 L’invitato A prova d’evasione (fiscale) C’è da ammirare la garbata testardaggine con cui il ministro Visentini ha difeso il suo progetto di legge una volta scelta la via da battere. Nel giro di dodici mesi il governo ha attuato per la prima volta un embrione di politica di redditi senza bisogno di patto sociale e senza coinvolgere il Pci, smettendo in tale modo un dogma dei benpensanti. Il Parlamento è stato ricondotto per qualche settimana alle funzioni per cui sono sorti a suo tempo tutti i parlamenti del mondo. Con sollievo di chi non si sente la vocazione né del moralista né del detective, la questione morale ha ceduto un po’ il campo sui giornali alla questione fiscale, cioè a una grande questione politica. Offerta agli sconfitti un’occasione di rivincita Certo Visentini non ha avuto avversari alla sua altezza. Tali non possono dirsi i difensori a viso aperto di un reato come l’evasione fiscale, anche se talvolta (non sempre però) ammantati di garantismo. E solo un gradino più su stanno coloro i quali, prendendo le cose alla larga, hanno stabilito una connessione «a posteriori» fra l’ineguale distribuzione del carico fiscale e certo sviluppo economico. Mi hanno fatto ricordare – il modo di ragionare è lo stesso – un insigne sociologo che anni fa dava per certo che il denaro speso per le pensioni di invalidità fosse il solo che, nella nostra storia unitaria, sia andato realmente a beneficio della


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negletta gente dei campi, consentendo in modo indiretto lo sviluppo di alcuni settori stagnanti dell’agricoltura. È molto probabile che avesse ragione, ma un uomo di Stato non può fare conto a priori, nel governare, di aggiustamenti semiprovvidenziali del genere. Saranno semmai gli storici a dimostrare che anche dalle sperequazioni e dagli abusi può essere venuto del bene per il nostro Paese. Ma il discredito che il fatto stesso di avere tollerato sperequazioni e abusi ha gettato sulle istituzioni apparirà comunque un male maggiore di quel bene, piccolo o grande che esso sia stato. Ai milioni di italiani sconfitti da Visentini auguriamo una rivincita diversa da quella che si stanno adoperando a preparargli a suon di franchi tiratori i loro cattivi e miopi consiglieri di oggi. Se il ministro delle Finanze, oltre che una battaglia, vincerà la guerra, avremo alcuni milioni di nuovi contribuenti (perché di questo in pratica si tratta), che saranno i soli a pagare «veramente» le tasse, un fatto sconosciuto nella vita del nostro Paese. Perché non è vero che oggi le tasse le paghino i lavoratori dipendenti. Gli vengono bensì trattenute sullo stipendio, il che è tutt’altra cosa, come potrà facilmente testimoniare chiunque partecipi a un tempo, che sia pure in misura diversa, dell’una condizione e dell’altra. Le lire trattenute sullo stipendio sono soldi che uno non ha mai visto e di cui nessuno fa veramente conto; non incassandoli, non ci si può nemmeno lasciare andare a spenderli, con l’angoscia poi di doverseli procurare di nuovo per versarli al fisco alla scadenza annuale. Ridurre l’invadenza dello Stato impiccione È per questo che i lavoratori dipendenti, per quanto tartassati dal fisco, si sono sempre dimostrati scarsamente sensibili al problema della lievitazione della spesa pubblica. Chi non avverte il senso doloroso del denaro onestamente guadagnato che viene sottratto alle proprie tasche e inca-


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merato dallo Stato tende anche a disinteressarsi del modo in cui il denaro pubblico viene speso e soprattutto non sente la spinta necessaria a operare in modo che il fabbisogno dello Stato non continui ad aumentare rendendo necessari ulteriori incrementi del prelievo fiscale, ma anzi cominci una buona volta a decrescere. Se la tendenza vincente dei secondi anni ottanta in tutto il mondo occidentale sarà quella che si propone l’«impicciolimento dello Stato», l’esercito dei nuovi contribuenti che Visentini sta così faticosamente e meritatamente reclutando potrà essere la forza d’urto che spingerà con maggior risolutezza in direzione dello smantellamento delle costosissime e poco produttive strutture dello Stato assistenziale. Così gruppi sociali che oggi rischiano di venire coinvolti in un’ingloriosa battaglia di retroguardia destinata all’insuccesso, potrebbero diventare domani i protagonisti di una grande battaglia civile, alimentando una dialettica politica che rivitalizzerebbe oltretutto istituzioni e partiti. Il Giornale, 17 marzo 1987 Dall’unità d’Italia all’Europa unita* Roma – Anzitutto lo storico. Da quando, nel 1950, è apparso Il Risorgimento in Sicilia, nessuno di noi – coetanei, un po’ più vecchi, un po’ più giovani, non importa – ha mai avuto più dubbi: Romeo era incontestabilmente il migliore di tutti, un valore fuori discussione anche quando le divisioni politiche sono intervenute a separare. Si rileggano le cinque pagine di conclusione di quel suo primo libro e si vedrà che tale giudizio si imponeva con la forza dell’evidenza, un’evidenza morale ancora prima che intellettuale. Da ultimo, a coronare l’opera allora intrapresa è venuta la * Il 16 marzo 1987 era morto Rosario Romeo.


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monumentale biografia di Cavour, che nella grave crisi che attraversano gli studi storici in Italia e nel mondo è passata come una meteora. Romeo lo sapeva e segretamente se ne doleva. Ma di questo diremo meglio quando sarà finito lo sgomento di oggi. In secondo luogo, Romeo polemista. La discussione che egli ha fatto su Nord e Sud della tesi di Gramsci sul Risorgimento va citata come una delle poche risposte veramente valide all’aggressione della cultura di orientamento marxista contro la tradizione liberale. A chi rispolverava il vecchio mito della rivoluzione mancata Romeo rispondeva ponendo le premesse per una storia della accumulazione capitalistica del nostro Paese. Ma questo secondo aspetto di Romeo è ben noto ai lettori di questo giornale, che egli sentiva come cosa anche sua. Quando si discuteva del nuovo corso socialista, egli, che non amava né i socialisti di ieri né quelli di oggi, sosteneva che non era vero che in Italia si fosse cominciato a respirare solo quando era apparso sulla scena Bettino Craxi. La svolta, secondo lui, era avvenuta anni prima, quando era uscito il primo numero del «Giornale» di Montanelli. Negli ultimi anni Romeo ha svolto con zelo straordinario le sue funzioni di parlamentare europeo. Mi ha sorpreso sentirlo discutere con competenza assoluta gli aspetti più astrusi della politica agraria della Comunità. A Strasburgo aveva ritrovato Altiero Spinelli e si era fatto sostenitore senza riserve del suo radicalismo europeista. Nessuno come Romeo aveva il senso di cosa rappresentasse una nazione e lo stato nazionale nella moderna storia europea. Proprio per questo, il suo europeismo non suonava falso come quello di tanti altri che in fondo non credono all’Europa unita anche perché non sanno cosa veramente è stata l’Europa degli Stati nazionali sovrani. Ai primi di marzo Romeo ha tenuto una meditata relazione al convegno del Pri sulla «Cultura democratica


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nell’Italia che cambia». Nella sua relazione si poneva fra l’altro il problema del perché la classe dirigente liberaldemocratica di estrazione antifascista non fosse stata mai chiamata ad assumere responsabilità di primo piano nel governo dell’Italia dopo la liberazione. Sabato mattina, pochi minuti dopo il suo ricovero nella clinica romana, mi diceva di avere ripensato la notte prima a quel problema. Mi ha detto: «Vedi, per gli esuli del Risorgimento, per gli Spaventa, per i De Sanctis era facile. L’Italia di allora era oppressa dai tiranni, bastava eliminare i tiranni e il problema era risolto. Non avevano nessun malanimo verso il popolo italiano. Invece, gli antifascisti non potevano non vedere che gli italiani davano il loro consenso al tiranno e perciò hanno preso a disprezzarli. In fondo, non si sono mai liberati del tutto da questo stato d’animo e per questo l’Italia li ha respinti, anche se avevano tutti i titoli per governare il Paese». Anche guardando le cose da Strasburgo, Romeo non perdeva la fiducia nella sua Italia e persino nella sua sciagurata Sicilia. Il Messaggero/Cultura, 2 novembre 1988 Interventi/Gli ultimi studi di Paolo Spriano sulla fine di Gramsci – Il leader comunista fu abbandonato da Togliatti e Stalin? Con il sospetto nel cuore Negli ultimi anni ho avuto occasione di incontrare frequentemente Paolo Spriano. Credo di poter dire che eravamo diventati amici, di un’amicizia di cui erano parte integrante anche le nostre rispettive mogli. Egli mostrava un sincero interesse per i miei studi di storia medievale, ma è naturale che la conversazione concernesse di norma gli studi suoi, di interesse più generale.


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Quando è repentinamente scomparso, avrei voluto scrivere subito di lui. Non l’ho fatto per una ragione molto semplice. Il lavoro storiografico di Spriano aveva come tema pressoché esclusivo la storia del movimento operaio e del Pci, il partito in cui egli militava, e mi sarebbe sembrato di pessimo gusto che qualcuno totalmente estraneo, come sono io, al mondo ch’era stato da sempre il suo, si valesse di confidenze fatte in momenti di serena convivialità per presentare in una forma che rischiava di essere parzialmente distorta la serietà del travaglio con cui egli andava ripercorrendo quella storia anche nelle sue fasi più spinose. Tanto più che quella mattina del 28 settembre in cui gli demmo l’ultimo saluto davanti alla Facoltà di Lettere alla Sapienza, Giuliano Procacci e Giorgio Napolitano hanno parlato significativamente dell’opera del loro compagno e amico senza reticenza, in termini accettabili anche da un ascoltatore pienamente partecipe dei loro sentimenti in quel momento, ma per ovvie ragioni prevenuto, come il sottoscritto. Se sono ritornato sulla decisione presa è perché il volumetto intitolato L’ultima ricerca di Paolo Spriano. Dagli archivi dell’Urss i documenti segreti sui tentativi per salvare Antonio Gramsci, annesso a «l’Unità» del 27 ottobre, esige qualche ulteriore parola di commento, in più di quelle che sono state scritte ancora prima che uscisse, quando ne fu anticipato il contenuto, per la parte almeno che si presupponeva destinata a fare notizia: un manipolo di quattordici documenti provenienti dagli archivi sovietici, che erano stati consegnati ad Alessandro Natta dai dirigenti di quel Paese, che Natta aveva passati a Spriano, e sui quali Spriano stava lavorando prima di essere colpito dal male che lo avrebbe stroncato di lì a poco. Come lascia trasparire già il titolo del volumetto, i documenti in questione concernono due distinti tentativi messi in opera delle autorità dell’Urss in momenti successivi (1927-1928 e 1934-1935) per libera-


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re Gramsci e consentirgli di espatriare, nonché i passi fatti da quel governo dopo la sua morte per recuperarne gli scritti (corrispondenza e quaderni). Ma i documenti, annotati in parte dallo stesso Spriano (queste scarne note esplicative sono state la sua ultima fatica), e gli scritti introduttivi di Massimo D’Alema, Natta e Valentino Gerratana occupano solo le prime trentatré pagine. Le restanti novanta, di cui quasi nessuno si è accorto, contengono, oltre a un breve, toccante discorso di un alunno, una silloge di cose: articoli di giornale, alcuni appunti da sue lezioni universitarie, il testo di una conferenza su Gramsci tenuta a Modena, a un convegno della Fgci. In complesso, una scelta felice che ci ripropone di scorcio il «professore» e il «giornalista». Eugenio Manca, autore delle pagine sul «nostro professore», ha l’onestà di dire che Spriano mostrava interesse per le iniziative culturali dei cattolici popolari, ciò che consta anche a me. Toccante il particolare tratto da una composizione di Carla Spriano, che adorna la copertina: uno scaffale pieno di libri immerso in un’atmosfera che non lascia presagire nulla di buono… Fra gli articoli riportati nel volumetto, ce n’è uno, che non conoscevo, apparso su «Rinascita» del settembre 1978, che contiene un’ottima lezione di metodo, mai abbastanza ripetuta. Si intitola «Polemiche e uso delle citazioni» ed è consacrata a rivedere le bucce a Bettino Craxi che, in uno dei suoi, per fortuna rari, interventi di tipo dottrinario, aveva infilzato una serie di citazioni tratte da testi del pensiero socialista, «una vera galleria, aperta dal vecchio Proudhon». Spriano, in questo caso più bravo professore che bravo giornalista, si limita a ricondurre quei frammenti nei loro rispettivi contesti, dimostrando che altrimenti il loro senso risultava irrimediabilmente falsato. Natta, nella sua introduzione, ricorda lo «sdegno acceso» e le «ironie» (direi, soprattutto, queste), con cui Spriano accolse la rivelazione di un Gramsci tornato a farsi


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«socialista», sbandierata da uno sprovveduto, evidentemente incapace di rendersi conto dei criteri classificatori che presiedono alla redazione delle carte di polizia, da cui la pretesa rivelazione era stata ricavata. Anch’io, che da parte mia ho sempre dato e continuo a dare un giudizio molto positivo del nuovo corso del Psi, mi trovai d’accordo con Spriano sull’inopportunità di tali iniziative, destinate a ritorcersi contro chi incautamente le prende, lasciandosi trascinare dal furor polemico interpartitico. Ma in nome della deontologia storiografica che ispira il giudizio sui suaccennati episodi, ritengo a dir poco improprio il titolo che si è voluto dare al volumetto de «l’Unità». Quello cui esso allude non è l’«ultima ricerca di Paolo Spriano», è solo una ricerca che Spriano aveva intrapresa e non ha potuto purtroppo portare a termine, perché nessuno potrebbe sostenere, senza fargli torto, che quei quattordici documenti trovati, ma che gli erano stati trasmessi attraverso il doppio tramite di cui si è detto, costituiscano una «ricerca» degna di questo nome. Né frutto di una vera ricerca possono essere dette le diligenti note con cui Spriano si stava ingegnando a corredare i documenti medesimi, in vista della loro progettata pubblicazione. Da tempo Spriano stava indagando sulla fine di Gramsci. Era un problema che lo inquietava. Da un lato, la sua attitudine di esegeta di documenti attento anche al fatto espressivo e letterario, lo aveva portato a cogliere nelle Lettere dal carcere «la percezione di un isolamento pauroso, in parte anche un isolamento politico verso i suoi compagni, in parte anche verso la famiglia che non avverte in tutta la drammaticità la sua condizione» (dalla conferenza tenuta da Spriano a Modena). Dall’altro, l’idea che si era fatta del clima regnante nella Terza Internazionale e che, senza alcun bisogno di fare riferimenti a confidenze conviviali, è rispecchiata senza ambagi nelle pagine di I comunisti europei e Stalin (Torino, Einaudi, 1983), lo aveva indotto a pensare


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che tutte le ipotesi in proposito erano possibili. Si rilegga, del resto, l’articolo I conti con Trotzkij, apparso sul «Corriere della Sera» del 16 giugno scorso e riportato nel volumetto: «Cani impazziti li aveva definiti il terribile P.M. Vishinskij » (Spriano si riferisce alle accuse rivolte nel 1936 contro Zinoviev e Kamenev). E prosegue: «Ma l’etichetta che doveva portare nella tomba era quella di banditi trotzkisti-zinovievisti. Così li chiamò in un allucinante articolo Palmiro Togliatti avallando, a nome dell’Internazionale comunista, le tesi più gravide di conseguenze, di Stalin». Se i documenti pervenutigli da Mosca e le alte testimonianze che stava raccogliendo, debitamente vagliati, avessero consentito a Spriano di allontanare il sospetto che nutriva in cuor suo sul comportamento del Comintern nei confronti di Gramsci in carcere, avrebbe tirato, è da essere certi, un bel respiro di sollievo. Ma non ne ha avuto il tempo. Dalle sue note a quei documenti si evince solo il particolare agghiacciante che tre dei quattro dirigenti o burocrati sovietici che si adoperarono per Gramsci sono finiti fucilati negli anni immediatamente successivi. Occupandosi di questo problema, Spriano, dunque, più e oltre che preoccuparsi di smentire controversisticamente, come scrive Natta, la «campagna triste e verminosa», montata «per far credere che Gramsci era stato abbandonato, escluso dal Partito comunista, perseguitato in carcere dai sui stessi compagni e, in definitiva, messo al bando e lasciato alla sua sorte per volontà e macchinazione del Comintern e di Stalin, con la complicità, naturalmente!, di Togliatti»; voleva chiarire un punto della storia del suo partito che angosciava grandemente lui per primo. Giulio Andreotti, su un quotidiano di qualche giorno fa, ha addotto la testimonianza di documenti conservati dell’Archivio segreto Vaticano, che confermano la notizia di un tentativo esperito dall’Urss attraverso mons. Eugenio Pacelli, allora nunzio a Berlino, per organizzare uno scam-


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bio di prigionieri, di cui avrebbe dovuto beneficiare anche Gramsci. È un altro tassello che va a posto, anche se i documenti venuti da Mosca non destavano particolari sospetti, a meno di non essere proprio prevenuti. Ma la tempestività dell’intervento ha richiamato alla mia memoria lo zelo interessato di un altro esponente democristiano che aveva mandato a dire a Spriano che non capiva perché si fosse preoccupato di mettere in luce le provate responsabilità di Togliatti in occasione della liquidazione del gruppo dirigente del partito operaio polacco (È l’unica indiscrezione con cui mi sono permesso di infiorare un articolo basato tutto su testi editi e ispirato alle sole ragioni dell’amicizia e della colleganza intellettuale). La Voce Repubblicana, 11 novembre 1988 Quel vicentino raffinato che guardava all’Europa Neri Pozza lascia, salvo possibili omissioni, una decina di libri di narrativa, di memorialistica, di poesie; moltissime incisioni (vedute di Vicenza, aquiloni, ecc.); molte sculture; il catalogo di una casa editrice, che ha redatto con piglio padronale e che è quindi una personalissima opera sua; nonché una collezione di quadri e sculture non tanto piccola e soprattutto molto selettiva, e una cospicua collezione di grafica contemporanea (che andranno, mi si assicura al museo civico di Vicenza, al comune di Venezia e alla fondazione Cini, alle cui mostre ha collaborato da sempre, stampandone religiosamente i cataloghi). Ha avuto, insomma, come suol dirsi, modo di esprimersi e di realizzarsi, facilitato anche dal fatto di avere avuto in sorte una vita lunga, ma non troppo, dati gli “standard” dei nostri giorni: è morto a settantasei anni, tutti produttivi, perché del male che lo insidiava da tempo, forse anche per averlo tenuto gelosamente nascosto perfino agli amici più cari, era come se se ne fosse dimenticato egli stesso. Di ogni libro suo, o di altrui,


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pubblicato dalla sua casa editrice, non sapeva godere nemmeno cinque minuti; aveva già il pensiero rivolto ansiosamente al prossimo. Per questo, lascia tanto dietro di sé. Eppure, anche giustapponendo con cura tutte le sue opere come in un collage, si avrebbe solo una vaga idea della stoffa ruvida e, insieme, sopraffina di cui era fatto questo straordinario, rabbioso, dolcissimo autodidatta, un protagonista della vita culturale e civile del Veneto contemporaneo; un miracolo sui generis anche lui, che ha assolto al compito di fare da contrappunto e un po’ da bastian contrario alla crescita miracolosa che negli ultimi quarant’anni ha trasformato questa sua regione, arricchendola e, al tempo stesso, snaturandola e involgarendola. L’amico che ci ha lasciato ha saputo dimostrare coi fatti come si può vivere in provincia, senza lasciarsi soffocare dalla provincia, dalle sua delizie e dai suoi miasmi. Da Negro a Piovene, a Ghiotto, a Meneghello, a Barolini, a Parise, a Chirotti, i suoi amici letterati e giornalisti, sono tutti andati a cercare fortuna altrove. Lui non si è mosso, è rimasto a vigilare sul posto, se non per spostarsi per le linee interne, a preferenza lungo il quadrilatero Vicenza – Venezia – Asolo – Cortina, ma facendo sempre centro a Vicenza, la posizione più riparata, ma anche sotto molti aspetti la più difficile da mantenere. Qualche raro viaggio a Milano; a Roma praticamente mai, anche se non si può certo dire che condividesse il disdegno per la politica che accomuna tanti provinciali. Ma la sua casa editrice vicentina non ha pubblicato solo le memorie di Negro (La stella Boara), bensì anche quelle di Levi Della Vida e di Jemolo, tre capolavori del genere autobiografico. E a Vicenza, da Neri, è approdato un giorno persino De Caprariis, che certo vicentino non era. Prima di lui, il fiorentino Ragghianti e tanti altri, da tutta l’Italia. Spero bene che il Pri trovi modo di ricordare nei prossimi mesi, come si conviene, un amico che gli ha reso servizi di valore inestimabile, non solo senza pretendere niente


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in cambio, ma addirittura senza immaginare che si potesse pretendere qualcosa, e perciò senza mai menare vanto del suo disinteresse. Quante volte si è presentato candidato nelle liste del Pri, riuscendo anche eletto al comune e alla provincia, almeno da un certo momento in avanti? Oltre ad avere dato l’esempio di come si può vivere in provincia, Neri Pozza ha dato l’esempio di come si può vivere da “repubblicano” in una provincia bianca (almeno fino a qualche tempo fa), senza scendere a compromessi, ma anche senza indulgere alla tentazione dello sprezzo da minoranza eletta, anzi partecipando con pari dignità a ogni iniziativa che mirasse a tutelare e a promuovere i valori insiti nella tradizione della sua terra veneta. Sotto questo aspetto, gli può essere messo accanto il solo Licisco Magagnato*, la cui prematura scomparsa, meno di due anni fa, lo aveva colpito tanto nel profondo. Anche per questo, è giusto oggi ricordarli insieme, mentre battagliavano che so io, contro il progetto insensato di costruire una balera a pochi metri dalla Rotonda palladiana. Corriere della Sera/Università, 12 febbraio 1989 Più valore nello studio quando si sconfina dal singolo argomento Due occhi nuovi su un millennio Ripercorrere in un anno di corso, cioè a dire in cinquanta, sessanta ore di lezione, l’intero millennio medioevale, così come lo ha configurato una tradizione plurisecolare mille volte contestata ma mai definitivamente abbandonata, se non altro in sede di ordinamenti scolastico-universitari, è del tutto impossibile, salvo che a tenere questo corso non sia chiamato un filosofo o, meglio, un teologo * Licisco Magagnato (1921-1987), partigiano, storico dell’arte, direttore dei Musei Civici di Verona.


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della storia. Sempre, beninteso, che si voglia conservare all’insegnamento universitario il carattere critico e non ripetitivo che in teoria dovrebbe contraddistinguerlo. Nel caso della Storia medioevale, più forse che in altri, il corso monografico s’impone, dunque, per necessità di cose, come muro di questa disciplina. Ma poiché è da escludere che uno studente universitario padroneggi i lineamenti essenziali dell’intero tragitto della storia medioevale, così come gli sono stati prospettati mentre frequentava la scuola secondaria e, ancora prima, la scuola media, ecco che, accanto allo studio di uno o più testi attinenti alla materia su cui verte il corso monografico, i titolari di corso di storia medioevale mettono in programma lo studio della cosiddetta storia generale, da effettuarsi di norma sulla scorta di uno dei «profili del Medioevo» che vanno per la maggiore (Pirenne, Lopez, Le Goff, ecc.), ma tenendo sempre presente quello che, non senza una certa dose di condiscendenza, viene definito «un buon manuale per i licei». Quando l’insegnamento nelle scuole medie rappresentava lo stacco professionale della stragrande maggioranza degli studenti delle facoltà umanistiche, lo studio della storia generale era giustificato con l’esigenza di assicurare al futuro laureato un’adeguata «preparazione professionale». Anche se tutti sapevano benissimo che, al momento di affrontare il concorso per l’abilitazione all’insegnamento, quel laureato avrebbe dovuto riaprire da capo il mai dismesso buon manuale per i licei. Oggi, come si diceva, la storia generale continua a essere pretesa soprattutto in nome di una ben riposta sfiducia nell’insegnamento della storia nelle scuole medie. È infatti evidente che, senza una visione d’insieme dell’intero periodo medioevale, il corso monografico riuscirebbe indigeribile. Sta di fatto che, in sede d’esame, questa parte del programma, dopotutto secondaria, finisce con l’essere decisiva


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ai fini del superamento della prova che risulta per lo più difficile proprio perché gli studenti in grado di rispondere decentemente sul manuale sono pochi. Dopo decenni di condanna del nazionalismo, è una constatazione che dovrebbe far meditare. Magari per arrivare alla conclusione che non ha più senso pretendere il manuale in un’età dominata dal personal computer, che d’informazioni ne fornisce, volendo, molte di più, senza dovere compiere sforzi di memoria, che le nuove generazioni e, ammettiamolo francamente, anche quella a cui appartiene chi scrive, non sono più preparate ad affrontare. In una situazione dominata dall’incubo dello studio della storia generale, un corso monografico è tanto più buono quanto più serve a mettere lo studente in condizione di leggere con occhi nuovi il suo vecchio manuale, nel senso di fargli scorgere difficoltà e problemi là dove vedeva sino a ieri solo delle nude nozioni, così difficili da ritenere. Per questo, un buon corso deve aver per tema un argomento ristretto (altrimenti non sarebbe più monografico), ma non troppo, in modo di offrire molte occasioni di sconfinamento in ambiti cronologici e tematici diversi, offrendo l’esempio di quella possibilità di estendere i procedimenti d’indagine e sperimentati sul campo ad altri aspetti della storia, che poi lo studente dovrebbe poter saggiare da solo, quando affronta il famoso manuale. La materia presentata nel corso deve, inoltre, essere al punto giusto di cottura. E il professore che ripeta dalla cattedra i risultati di una ricerca che ha già licenziato per le stampe e dalla quale si è già distaccato, corre più facilmente il rischio di essere noioso e poco interessante del professore che accetti di denunciare apertamente le difficoltà che incontra ogni giorno nel suo lavoro, gli erramenti in cui può capitargli di incorrere, magari riconoscendo di avere cambiato idea fra una lezione e l’altra. È un modo, fra l’altro, di dare a vedere che passa almeno una parte del suo tempo


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studiando, come è, del resto, suo stretto dovere fare. Ciò è di per sé molto istruttivo, anche se poi i risultati della sua fatica non dovessero essere eccelsi. Il Messaggero, 26 febbraio 1989 Un cocktail per il biennio Fa specie vedere illustri studiosi che si accaniscono nel sostenere aprioristicamente l’opportunità che nelle scuole medie superiori si insegni più storia contemporanea o più storia antica, senza fare lo sforzo di rendersi conto delle connessioni fra questo problema particolare e quello più generale della progettata riforma di tale scuola, e senza mai soffermarsi a riflettere su come la storia vada insegnata, e perché. Negli anni in cui, pur non senza qualche serio motivo, abbiamo smantellato allegramente gli ospedali psichiatrici, era opinione comunemente accettata anche nelle forze politiche di centro che la scuola media superiore dovesse essere resa uguale per tutti, come l’inferiore, almeno nei primi anni, salvo poi fare luogo negli anni successivi a una possibilità di scelta fra indirizzi diversi. Quando però si cominciò a discutere di questi ultimi, il fronte dei riformatori si sfaldò, perché da un lato, si cercava surrettiziamente di restaurare, al coperto degli «indirizzi», i profili dei vecchi istituti differenziali, dall’altro ci si ingegnava a moltiplicare gli indirizzi medesimi, per fare posto a costellazioni disciplinari alla moda, come le ultime arrivate fra le scienze sociali (antropologia culturale, sociologia, ecc.). Ciononostante, si continuava ad appellarsi allo «spirito di Frascati», cosiddetto dal luogo di un mitico convegno che aveva sancito la soluzione unitaria. Gli «indirizzi» furono così accantonati e ci si diede a costruire l’ossatura dell’«area comune», cuore della scuola tutta nuova cui si intendeva comunque dar vita. Ma, a pro-


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posito della delimitazione e strutturazione di quest’area, si ripresentarono subito gli stessi contrasti sorti in merito agli indirizzi. Mentre il dibattito fra gli esperti ristagnava, è maturato in sede politica il proposito di prolungare dal quattordicesimo al sedicesimo anno d’età l’obbligo scolastico. Per questa via traversa, il problema della riforma della scuola secondaria superiore è tornato d’attualità, perché, anche se appaiono ormai del tutto tramontate le velleità riformatrici «frascatane», è evidente che qualcosa dovrà pur farsi per adeguare i due primi anni delle scuole esistenti alle esigenze che l’innalzamento dell’obbligo porta con sé. La quadratura del cerchio davanti alla quale questo nuovo orientamento ha posto gli addetti ai lavori consiste nell’escogitare per alcune materie del biennio, destinato a divenire «d’obbligo», programmi comuni, che introdurrebbero una nota di uniformità in scuole che restano differenziate. Poiché queste scuole hanno di norma (a parte il caso molto controverso degli istituti professionali) una durata quinquennale, i programmi in questione dovrebbero essere double face: rispondere, cioè, alle esigenze di chi, dopo i due anni, abbandona, e di chi, invece, è deciso a continuare. In sostanza, gli «anti frascatani», che nel frattempo sono diventati legione, l’hanno avuta vinta sul punto che le scuole restano quelle che sono; mentre l’ultima trincea dei riformatori è rappresentata dal rifiuto di accettare l’idea che si stabilisca fino dall’inizio una discriminazione fra chi intende continuare gli studi e chi intende fermarsi, una volta espletato l’obbligo, dovendosi prevedere i cambiamenti di proposito in un senso o nell’altro lungo il tragitto. Fra le discipline per le quali si prevede un programma comune c’è, manco a dirlo, la storia. E dalla storia vengono le maggiori difficoltà, perché l’insegnamento di questa disciplina ha caratteristiche particolari che rendono impossibile la redazione di programmi double face. Se infatti, nel


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primo biennio, si continuasse a studiare, come oggi, storia antica, chi abbandona si troverebbe fra le mani un ciclo storico interrotto sul più bello. La soluzione che allora sembrerebbe imporsi è storia contemporanea per tutti (tanto più che nella scuola media inferiore non si fa in tempo a studiarla), ma in tal caso bisognerebbe dimostrare che nei tre anni restanti è possibile ripercorrere l’intera storia dell’umanità dai primordi ai giorni nostri, visto che allo studio della storia più antica nessuno intende rinunciare. Se, dunque, alla prova dei fatti, questo proposito risultasse irrealizzabile, non resterebbe altra soluzione se non quella consistente nel declassare la storia a materia d’indirizzo, il che per la scuola dell’obbligo sarebbe alquanto bizzarro. Sempre meglio, comunque, di soluzioni pasticciate. Ma ai sostenitori della storia contemporanea nel biennio, per tutti, tocca anche di formulare proposte tali da vincere la perplessità di quanti ritengono la storia troppo vicina a noi, più facilmente manipolabile dal punto di vista ideologico. Oggi le ideologie sono in crisi, ma domani chissà. Dopo aver cercato di fare onestamente il notaio della situazione, a questo punto lancio anch’io la mia brava proposta. Accorpando alla storia e a una recuperata geografia le due discipline nuove (diritto ed economia) che si ha in animo di introdurre nel curriculo del biennio, si potrebbe pensare a una Storia e geografia del mondo contemporaneo con nozioni di diritto e di economia. Il problema sarebbe poi formare insegnanti capaci di insegnare la nuova disciplina. Ma ognuno concederà che, sia per chi continua che per chi si ferma lì, lo studio di essa non sarebbe certo fatica sprecata.


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Il Messaggero, 21 ottobre 1989 La moda delle celebrazioni/Nazioni, partiti e istituzioni cercano nel passato un’identità Guardate la Storia: è proprio uno spettacolo In apparenza, l’interesse per la storia negli ultimi tempi sembrerebbe essere salito alle stelle. Sempre più incapaci di proporre alcunché di nuovo, i partiti cercano ormai a preferenza nel passato la loro identità (si pensi alla celebrazione indetta dal Msi, del settantennio dell’impresa fiumana; la polemica all’interno del Pci non verte tanto sul che fare oggi quanto sul come «storicizzare» Togliatti). Invivibili e ingovernabili, le città più colpite dalle distorsioni dello sviluppo si affidano alla prospettiva di un centenario per provocare l’intervento straordinario di uno Stato altrimenti distratto (è il caso di Genova e delle manifestazioni colombiane del 1992, già cominciate con tre anni d’anticipo). Umiliate dalla massificazione e dalla concorrenza che le spendaccione amministrazioni locali fanno loro sul piano stesso delle iniziative culturali, le Università si rifanno rispolverando il blasone delle proprie origini medievali (è il caso di Bologna, il cui intraprendente rettore ha saputo eclissare per questi due anni l’attivismo del Comune rosso). Nazioni divise dai contrastanti appetiti delle moderne corporazioni e dalle spinte disgregatrici dei vecchi regionalismi, si sforzano di ritrovare la propria unità guardando all’indietro (è il caso delle celebrazioni, tuttora in corso, del bicentenario della rivoluzione francese). Anche se hanno avuto il buon gusto di farlo in sordina, persino le disastratissime Ferrovie dello Stato non hanno saputo rinunciare alla tentazione di rimettere in moto, per un giorno, nella ricorrenza centocinquantenaria, la locomotiva della Napoli-Portici… Non sarebbe difficile continuare nell’enumerazione. I dodici mesi trascorsi offrono a tale proposito un campionario di una ricchezza eccezionale, tanto più istruttivo in


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quanto non si può certo dire che questi stessi mesi, nell’intervallo fra le celebrazioni di due anniversari (e talvolta proprio in rapporto diretto con queste celebrazioni), non abbiano prodotto anche una messe straordinariamente abbondante di fatti nuovi. Benché mancasse il richiamo suggestivo della cifra tonda, a segnare in agosto la svolta in Polonia è stata l’approvazione di una mozione di condanna dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia, il 21 agosto di ventun anni prima, da parte della stragrande maggioranza dei deputati della Dieta. E, sempre in agosto, il 23, il cinquantesimo, in questo caso, del patto di non aggressione tedesco-sovietico è stato celebrato da centinaia di migliaia di baltici che si tenevano stretti per mano, da Vilna, a Riga, a Tallinn, dando vita a uno spettacolo (mi si perdoni il termine) di un’intensità molto maggiore di quelli allestiti con tanta cura e tanto maggior spesa, negli ultimi mesi a Parigi, per il Bicentenario. A proposito delle celebrazioni parigine, chi scrive ha un piccolo conto personale da regolare. Passati i festeggiamenti del 14 luglio, attendevo con trepidazione la prima decade d’agosto, memore del fatto che, appunto fra il 4 e l’11 agosto 1789, a Versailles, l’Assemblea Nazionale – impressionata dalle notizie circa l’estendersi dell’insurrezione di contadini, che sembrava preludere all’apertura di un minaccioso secondo fronte nelle province – aveva deciso di abrogare il plurisecolare «regime feudale». Da medievista qual sono, mi ripromettevo di salire in cattedra per precisare che le numerose consuetudini lesive dello stato di piena libertà personale che venivano così soppresse, erano dette impropriamente «feudali», dal momento che la potestà riconosciuta ab antiquo ai «signori» di comandare, obbligare, punire gli uomini che vivevano sulle loro terre, non aveva niente a che vedere con l’origine e la natura dei diritti che vantavano sulle medesime, le quali potevano essere indiffe-


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rentemente terre possedute in piena proprietà o terre ricevute in feudo. In conclusione, era stato il «regime signorile» a venir cancellato nell’agosto del 1789, non il «regime feudale», già scomparso come tale da tempo immemorabile. Ma dalla presa della Bastiglia gli organizzatori parigini sono saltati a piè pari alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto), togliendomi così l’occasione di fare una bella figura a buon mercato. Scherzi a parte, l’abrogazione del regime feudale, o signorile che dir si voglia, è stata – a giudizio di François Furet – una delle tappe di quell’anno prodigioso che hanno inciso più nel profondo. Ma il vero problema è un altro. Essendosi risolto a celebrare il bicentenario della Rivoluzione, al fine di trasformare in un potente elemento di coesione fra tutti i francesi quello che, per più di un secolo, era stato un costante, drammatico elemento di divisione fra di essi, il governo della repubblica transalpina ha deciso di concentrare la luce dei riflettori sull’89 e su alcune giornate di quell’anno, in modo da lasciare in una penombra discreta gli anni del Terrore. Nel suo intervento più impegnativo sul piano storiografico, Mitterand si è spinto fino al punto di accostare il nome di Danton a quelli di Condorcet e dall’abbé Grégoire, in una triade di eroi senz’altro positivi della Rivoluzione. Ma nelle celebrazioni vere e proprie si è stati molto più prudenti, accontentandosi di aggirarsi nei paraggi dei primi due e lasciando stare in pace il terzo. Sta però di fatto che, a parte i contributi dei revisionisti, che, con evidente imbarazzo dei benpensanti, hanno puntato soprattutto sulla contabilità del genocidio «franco-francese» della Vandea, la storiografia più scaltrita, proprio per trovare una via d’uscita scientifica rispetto alle non risolte antinomie della storiografia ottocentesca, si è sforzata da tempo di porre il problema della Rivoluzione nella prospettiva della lunga durata.


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Il già citato Furet, per esempio, va proponendo da alcuni anni il profilo di una storia della Rivoluzione che durerebbe addirittura un secolo (1789-1880) e che avrebbe termine nel momento in cui il maestro elementare francese, nuovo missionario dei valori della Rivoluzione medesima, viene a stabilirsi nei villaggi in posizione di forza nei confronti del parroco. E difatti, in un ciclo televisivo curato da Furet per «Antenne 2» e mandato in onda solo a settembre inoltrato, compariva ogni tanto un instituteur intento ad addottrinare una scolaresca tardottocentesca. Ma la logica e la regìa celebrativa non possono fare a meno di prescindere da simili finezze: esse debbono muovere di necessità dal falso presupposto che, nella storia, a decidere tutto siano state alcune poche giornate, scelte con cura come quelle che presentano più elementi capaci di fare spettacolo. Celebrando degnamente (dobbiamo ammetterlo) la sua Rivoluzione, la Francia ha messo in soffitta il meglio della sua storiografia. Battere una via diversa avrebbe comportato, del resto, gravissimi rischi di fraintendimento. Ci ha provato, a modo suo, lo scorso novembre, il presidente del Parlamento della Germania federale, Philipp Jenninger, lasciandoci le penne. Doveva ricordare, a cinquant’anni di distanza, la «notte dei cristalli» del novembre 1938. Non si è voluto limitare a commemorare, deprecando, quella notte di orrori. Ha cercato di spiegare perché si era potuti arrivare a tanto. Non mi pronuncio, per manifesta incompetenza, sul merito di quella spiegazione. Ma sono in grado di attestare che era costruita con i materiali argomentativi di cui usano servirsi gli storici. Ora, l’accoglienza che una platea così qualificata ha riservato a quel discorso mi ha persuaso che non è affatto vero che la crisi attuale delle ideologie abbia spianato la via alla rinascita di un vero interesse per la storia. Mitterand e i suoi consiglieri hanno mostrato di avere appresa bene la lezione.


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Il Giornale, 11 dicembre 1989 Un convegno a Bologna su «Religione e politica negli anni Ottanta» Quando è il potere che fa il monaco Dagli Stati Uniti all’Iran all’America Latina alla Polonia i sintomi di una sempre più accentuata ripresa dell’elemento religioso nella vita sociale e politica si vanno moltiplicando. Il fenomeno, che costituisce una manna per i sociologi a corto di argomenti, è fatto per dispiacere soprattutto ai «laici», siano essi cultori della nuda razionalità o seguaci di una o dell’altra delle ideologie secolarizzanti otto-novecentesche. Ma preoccupa ancora di più i depositari cattolici dello spirito del concilio Vaticano II che, di là delle interpretazioni semplicistiche e di comodo, consistette in primo luogo nella riproposizione della prospettiva escatologica in una Chiesa che l’aveva praticamente accantonata. Il rapporto fra religione e politica, qualunque forma esso assuma, da alleanza fra trono e altare a partito cattolico a «maggioranza morale», tende infatti a far passare in secondo piano l’annuncio evangelico dell’avvento del Regno di Dio, che – com’è noto (o dovrebbe esserlo) – «non è di questa Terra». Indetto dall’Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia, che ha sede in Bologna, si è svolto l’8 e il 9 dicembre un convegno su «Religione e politica negli anni ’80. Una nuova pace costantiniana?», dove il riferimento alla famosa svolta del 313 d.C. è tratto di peso da un articolo del domenicano francese Maria Dominique Chenu che agli inizi aveva preconizzato e salutato con gioia la fine dell’«era costantiniana» propriamente detta. In sintesi, il convegno bolognese ha mostrato che questa non è affatto terminata con il concilio Vaticano II, ma anche che nessuna «nuova pace costantiniana» è in vista. Ad auspicarla si è trovato solo fra i presenti, col suo conosciuto amore per i paradossi, Beniamino Andreatta che in un breve, appassionato intervento ha disegnato i linea-


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menti di una sorta di teocrazia papale capace di gestire razionalmente e su scala mondiale la sfida congiunta della crescita demografica e dell’esaurirsi delle risorse naturali. Il convegno ha vissuto il suo momento più alto dell’intervento finale di Enzo Bianchi, presidente (dopo Dossetti) dell’Associazione bolognese, che, riprendendo spunti già presenti nella prolusione di Giuseppe Ruggieri, ha contrapposto con intransigenza monastica, ai vari pasticci politicoreligiosi che fioriscono nel vasto mondo, la prospettiva dell’evangelismo radicale, del cristianesimo come fermento e messa in causa di ogni città dell’uomo presente e futura. Forse in parte contro le attese degli organizzatori del convegno, le due giornate bolognesi si sono risolte in una rassegna di quei «pasticci», che non sempre i diversi relatori hanno presentato criticamente come tali, a scapito certo dell’ipotesi che presiedeva al convegno medesimo ma con il vantaggio che quando gli atti saranno pubblicati disporremo, per alcuni almeno dei casi trattati, di relazioni documentate e illuminanti. Del resto, devo confessare che un laico non laicista non può fare a meno di dare ragione ad Andreatta quando dice che non se la sente di condannare indiscriminatamente i cristiani che si sporcano le mani con la politica. Ammesso che tradiscano tutti l’indicazione più profonda della predicazione di Gesù, si tratta di vedere qual è la funzione che la loro «eresia» esercita nei diversi contesti storici. Se positiva o no. Sotto questo profilo i casi polacco e latino-americano presentati l’uno dopo l’altro nell’ultima seduta del convegno sono apparsi oltremodo esemplari. A prospettare il primo è stato K. Pomian, una delle intelligenze più vive dell’emigrazione polacca a Parigi, che ha messo a frutto le risorse di una puntigliosa erudizione e delle più scaltrite storiografie per controbattere, proprio in Italia, la tesi di chi si ostina a riscontrare nel suo Paese un compromesso storico in atto fra partito comunista e chiesa cattolica, cui si


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opporrebbe solo qualche prete oltranzista, a suo rischio e pericolo. Pomian ha mostrato come i rapporti fra Stato (partito) e Chiesa, con il terzo incomodo rappresentato dalla «contestazione», siano stati in Polonia sempre tendenzialmente conflittuali negli ultimi quarant’anni; come il loro andamento sia ciclico, con periodi di relativa pacificazione; come alla lunga la Chiesa abbia sempre guadagnato terreno, scongiurando definitivamente l’ipotesi tutt’altro che irrealistica nel 1945, di una sovietizzazione della Polonia. È vero che la Chiesa contribuisce a tenere a freno la contestazione, ma le concessioni che riceve in cambio dello Stato, in quanto accrescono la sua possibilità di azione, leggi di «predicazione», favoriscono la ripresa della contestazione a un livello sempre quantitativamente e qualitativamente più alto. In un regime totalitario dell’Est europeo come la Polonia la predicazione religiosa assume di necessità valenze politiche se non altro per ciò che concerne la riaffermazione dei diritti umani. L.A. de Zousa, dell’Università cattolica di Rio de Janeiro, ha illustrato con grande eloquenza l’esperienza delle comunità di base in Brasile, che costituisce il fondamento della «teologia della liberazione». Ai poveri dell’America latina, «nuovi barbari» ma «cristiani» a differenza di quelli che abbatterono l’impero romano, de Zousa assegna il compito provvidenziale di costruire con la preghiera e la lotta una nuova società e una nuova Chiesa affrancate dal demone del Potere. Ascoltandolo, anche un osservatore prevenuto cedeva al fascino di questa predicazione militaristica rivolta a milioni di diseredati. Ma è inevitabile che ci si domandi quale altro può essere lo sbocco pratico di questa predicazione se non un invito a imbracciare il fucile per poi finire irrimediabilmente ammazzati. Chi si propone come fine la liberazione totale (e quindi anche politica e sociale) dell’uomo, non può infatti mancare di valutare realisticamente le possibilità di successo della propria impresa. Quanto all’a-


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spetto religioso, sorprende che la contaminazione del sacro e del profano che tanto preoccupa i seguaci dell’evangelismo radicale quando si tratta di Chiesa polacca, venga guardata quasi di buon occhio quando c’è di mezzo il millenarismo latino-americano, dove la dimensione escatologica non è accantonata ma addirittura stravolta. La Repubblica - Mercurio/Discussioni, 27 gennaio 1990 Lettera a un soldato della libertà Caro Karol*, […] che io sappia, tu sei, almeno fra gli storici polacchi, quello che ha passato più anni in carcere: 1965-1967, 1968-1971, 1981-1983 (ndr, in realtà fino all’84). In quest’ultimo anno, sul «Soldato della libertà», eri ancora bollato come «il nemico pubblico numero uno». Forse, in altri paesi socialisti, per esempio nell’Urss, qualche storico di anni di carcere ne ha fatti anche più di te. Ma non è questa amara contabilità storiografico-carceraria a costituire l’oggetto della mia domanda. Altri storici «dissenzienti» di paesi socialisti si muovono sul piano storiografico su un terreno abbastanza vicino a quello tipico delle «Annales» (Penso ad Aron Ja. Gurevic). Anche in Italia, le «Annales» hanno costituito per molti la via maestra di fuoriuscita dal marxismo scolastico. Se non altro per questo, esse hanno assolto a una funzione di valore incomparabile nel panorama degli studi storici contemporanei. Tu, invece, ti sei sempre mosso, e continui a muoverti, in un’orbita di interessi marxiani […]. Ecco, ora la domanda: che ripercussione avrà, a tuo avviso, la rivoluzione in corso nell’Europa dell’Est sulle sorti del marxismo teorico? È anche ovvio che verrà allora * La lettera è indirizzata a Karol Modzelewski (n. 1937).


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sciolto il binomio marxismo-leninismo, con il sacrificio di quella piccola lineetta fatale. Ti sei battuto tutta la vita per questo! È infine ovvio che si farà sempre meno ricorso ai sacri testi marxiani per trarne indicazioni utili per il presente e per il futuro delle società appartenenti all’area del socialismo reale. E come potrebbe essere altrimenti, visti i risultati? […]. Talvolta mi domando cosa ne sarebbe stato delle fortune del marxismo senza l’Ottobre rosso. La storia, lo sappiamo bene, non si fa con i se; ma credo che si possa rispondere che una qualche influenza sugli studi storici il marxismo l’avrebbe avuta lo stesso, per virtù propria. Ciò che potrebbe costituire un’indicazione per il futuro, ora che quella formidabile spinta di propulsione esterna sembra destinata ad esaurirsi. Mi piacerebbe sapere cosa pensi di tutto questo, dal tuo osservatorio privilegiato. Tuo Girolamo Arnaldi Il Messaggero, 29 novembre 1990 Troviamo insieme le parole per parlare a quei ragazzi Luogo i due lati di via dei Filippini, che va da piazza dell’Orologio a piazza della Chiesa Nuova a Roma, sono parcheggiate in permanenza due file ininterrotte di macchine. Fino a qualche tempo fa – poi, non saprei quando e perché, la cosa è cessata – nel piccolo spazio che separa le macchine in sosta dai muri delle case che costeggiano la via, approfittando della comodità offerta da qualche gradino, venivano in molti a bucarsi. Questa è stata la mia sola esperienza diretta della droga e perciò mi risolvo a parlarne, invece di affidarmi al sentirlo per dire.


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Percorro via dei Filippini più volte al giorno e, dunque, si tratta di un’esperienza ripetuta. Mi sono subito accorto che alcune facce erano sempre le stesse. Venivano soli, o due a due aiutandosi a vicenda. Mi colpivano in particolare i casi nei quali era evidente che solo uno dei due si bucava: l’altro, che era lì per dare una mano, si affaccendava intorno al partner, lo colmava di attenzioni, cercava di nasconderlo agli sguardi indiscreti dei passanti, com’ero anch’io. Più volte ho pensato: questi qui si stanno ammazzando; se vedessi qualcuno che sta per tirarsi un colpo di rivoltella, certamente farei qualcosa, chiederei aiuto, farei in modo di impedire che succeda il peggio, anche per non sentire rimorso una volta partito il colpo e arrivato a segno; invece, di fronte a quelli lì mi sentivo come paralizzato, senza sapere che parola dire, senza avere l’idea di qualcuno cui rivolgermi perché dicesse le parole giuste che io non trovavo. Non ho commercio con i santi, ma poiché san Filippo Neri, lì è di casa, talvolta mi è venuto da pensare che le parole giuste avrebbe saputo forse trovarle lui, che di giovani se ne intendeva (Giro la domanda al mio amico padre Peppino Ferrari, viceparroco della Vallicella, che, lui sì, ha un intenso commercio con san Filippo). Ora, a via dei Filippini, le macchine stazionano ancora, peggio di prima, dacché è stata pedonalizzata piazza dell’Orologio; ma di drogati in giro non se ne vedono più, almeno da queste parti. Il che costituisce per me un invito a rimuovere il problema, a fare come se non esistesse più, anche se so benissimo (ma altro è sapere per sentito dire, altro vedere con i propri occhi) che nel frattempo si è ancora aggravato. A risvegliarmi è intervenuta la campagna del «Messaggero», alla quale vorrei offrire il mio contributo di cittadino come tutti gli altri. In quanto «intellettuale», a parte la qualifica che detesto, farei bene a tacere, ciò che ho fatto quando,


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mesi fa, sono stato invitato a più riprese a pronunciarmi in un senso o nell’altro a proposito della famosa legge allora in discussione*. Ho sempre risposto dichiarando la mia incompetenza. Come mescolare la mia voce a quella di persone che a questo problema hanno dedicato la loro vita, giungendo magari a conclusioni contrastanti su ciò che era più opportuno fare, col rischio che un mio giudizio sparato a caso senza alcuna cognizione di causa, tanto per dire qualcosa, potesse contribuire a fare pendere la bilancia da una parte piuttosto che dall’altra? Per non dire di quanti, ma il lor numero se non mi sbaglio, è in diminuzione, hanno condito le loro prese di posizione con riferimenti più o meno velati alla cosiddetta «cultura della droga» di buona memoria. Ben venga la campagna di informazione nelle scuole, se non altro come controinformazione nei confronti dei nefasti pregiudizi in senso contrario che circolano ancora, e ai quali si accennava or ora. Ma, soprattutto, occorre sostenere, e non solo con generose oblazioni, quanti operano sul campo, nelle comunità terapeutiche, a diretto contatto con gli aspiranti suicidi, il cui sguardo incontravo attraversando fino a qualche tempo fa via dei Filippini. Quanti di loro saranno ancora vivi oggi? A quelli di loro che hanno trovato una via di scampo e a quelli che sono arrivati fino in fondo vorrei manifestare la mia vergogna per non avere saputo trovare una parola da dire, delle tante con cui mi balocco dalla mattina alla sera nel mio studio di piazza dell’Orologio.

* Il testo unico 309 del 1990, conosciuto come Iervolino-Vassalli, stabilisce che l’uso personale di droga, sia leggera che pesante, è reato.


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Il Messaggero, 28 agosto 1991 Ma il secolo dei totalitarismi non si è concluso: il pericolo è il caos Le incognite aperte dal tramonto dell’ideologia sovietica costituiscono una sfida per il pensiero liberaldemocratico Quei giovani che a Mosca prendevano a sassate il monumento a Carlo Marx non mi sono affatto piaciuti. Un amico, cui ho manifestato questa mia reazione, mi ha subito ricordato il caso Gentile. Ma, appunto, non è un problema di preferenze filosofiche. Il fatto è che, nella sua caduta, il comunismo ha trascinato con sé l’idea di rivoluzione. Sono le rivoluzioni che non ci piacciono più. Solo qualche anno fa, c’era voluto il coraggio intellettuale di Raymond Aron per osare di scrivere che, «vista da vicino, la rivoluzione è raramente edificante». Vedendo quei ragazzi che se la prendevano con Marx, morto nel 1883, quando Lenin aveva ancora i calzoncini corti, pensavo anche a quello che direbbe oggi Pietro Gobetti, lui che, per la disistima in cui teneva i socialriformisti, ha commesso l’errore enorme di scambiare la rivoluzione d’ottobre per una «rivoluzione liberale». Ma la splendida, prodigiosa giovinezza di Gobetti è stata stroncata dalle manganellate dei fascisti quando la Nep* non era ancora fallita e il giudizio sull’ottobre rosso poteva essere ancora sospeso. Se fosse vissuto si sarebbe certo ricreduto, a differenza dei tanti che hanno continuato a rimasticare acriticamente i suoi giudizi di allora, in nome dell’unità antifascista, di quello che, fino a qualche anno addietro, era il cemento ideale del cosiddetto «arco costituzionale». Abbiamo visto risorgere tutto questo per qualche

* Sistema di riforme economiche in parte orientate al libero mercato, istituito in Russia da Lenin nel 1921 (NEP: Nuova politica economica).


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secondo, giusto due mesi fa, quando si trattava di dare addosso al Presidente della Repubblica per le venti, esemplari pagine di storia, che fanno da premessa al suo messaggio sulle riforme istituzionali*. Ho la precisa coscienza che solo il caso, che nella Napoli dei primi anni Cinquanta mi ha fatto incontrare amici come Vittorio De Caprariis, Renato Giordano, Rosario Romeo, ha voluto che non pagassi anch’io il mio tributo alle illusioni sul «socialismo reale» e sulle «insanabili contraddizioni» del capitalismo. Perciò non nutro nessun sentimento di rivalsa nei confronti dei moltissimi che, per lo più con onestà di convincimenti, hanno battuto strade diverse dalla mia. Piuttosto, viene da domandarsi se la cultura liberaldemocratica abbia davvero esercitato fino in fondato negli anni passati la funzione che avrebbe dovuto essere la sua. La funzione, cioè, di fare chiarezza sul nostro passato recente, a cominciare da ciò che concerne il nodo cruciale dell’antifascismo. Sembra l’uovo di Colombo, ma in realtà non lo si è mai affermato con chiarezza: l’antifascismo per essere più precisi, è stato un fatto essenzialmente liberale. Solo uno sciocco potrebbe negare che il peso maggiore della lotta antifascista, prima e dopo il 1945, sia stato sostenuto dai comunisti. Il fascismo era sorto proprio per combatterli, ed era da attendersi che essi ripagassero i fascisti della stessa moneta, operando in un contesto che era quello per alcuni aspetti «criminali» della Terza Internazionale. Con un coraggio però, con una dedizione alla causa – la causa loro, che era

* Il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, inviò alle Camere il 26 giugno 1991 un messaggio in materia di riforme costituzionali, relativo alle procedure previste dall’art. 138 della Costituzione, alla utilizzazione da parte delle Camere di poteri costituenti e all’elezione di un’Assemblea costituente.


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solo in parte anche nostra –, che nessun ritrovamento di cadaveri nel triangolo emiliano della morte può offuscare. Ma l’antifascismo era un’altra cosa. Era cosa unicamente di coloro che, senza essere comunisti, hanno detto recisamente di no al modo fascista di esser anticomunisti, e hanno, perciò, ripensato in quell’ora drammatica i termini essenziali della civiltà liberale, che, in quanto minacciata a morte dallo scontro in atto nel mondo fra fascismo e comunismo, cessava di esser un dato acquisto per sempre, per diventare un orizzonte nuovo da riscoprire. Rivendicare oggi il valore della cultura antifascista può far sorridere, dal momento che con il comunismo e il fascismo sono venuti meno anche i suoi presupposti storici. Ma poiché, adesso come allora, la civiltà liberale non è un dato acquisito, ma un orizzonte nuovo da riscoprire, meglio: da costruire, chi si rifà a quella tradizione di pensiero ha ancora forse una sua parola da dire. Rispetto ai giorni della caduta del muro di Berlino, quelli che stiamo vivendo hanno portato, se non mi sbaglio, meno euforia. Si avverte in giro un senso di preoccupazione, come se da questo ribollimento di nazionalità e di libertà possano essere generati nuovi, più terribili mostri. Il secolo dei totalitarismi non è ancora finito. I dieci anni che restano possono riservarci le più amare sorprese. Di fronte a queste incognite, non avrebbe senso trincerarsi dietro la soddisfazione di avere visto giusto. Nei quarantacinque anni di vita democratica, la cultura liberale nel nostro paese non ha lontanamente espresso la potenzialità accumulata negli anni dell’opposizione intellettuale al fascismo. Ha subìto, da un lato, il condizionamento derivante dai rapporti di forza che si sono stabilisti sul piano politicoparlamentare, e, dall’altro, il condizionamento derivante dal retaggio, duro a morire, dell’unità antifascista. Chi non ricorda i riguardi usati dalla stampa per eccellenza «borghese» nei confronti dei meeting antifascisti a


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Milano? E sono di ieri i sottili distinguo sulle vere finalità dell’organizzazione «Gladio», nei quali si sono a lungo esercitati i migliori cervelli dell’intellighenzia che si vuole liberale. Ma tutto questo dovrebbe essere finito per sempre, oggi che sono caduti anche gli ultimi muri. Il caos che minaccia di tenere dietro a questa epifania della libertà attende di essere addomesticato dalla ragione liberale. Il Messaggero, 30 ottobre 1991 Grandi storici/L’ultimo soggiorno di Gregorovius nella capitale in un periodo decisivo per l’unità d’Italia. La soddisfazione del radicale per il crollo dello Stato Pontificio, la nostalgia dello studioso per un’epoca che spariva Una finestra su Roma Una lapide, come si suole dire delle croci di cavaliere, non si nega a nessuno. Ciò non toglie che ci siano croci di cavaliere e lapidi più meritate delle altre. È il caso della lapide che oggi viene inaugurata a Roma sulla casa di via Gregoriana 13, dove Ferdinando Gregorovius, lo storico tedesco di Roma medievale, visse dal 1860 al 1874. Non era quella la sua prima, bensì la terza residenza romana. Aveva abitato in precedenza a via Felice 107, nei pressi di piazza Barberini, e a via della Purificazione 63. Approdava a via Gregoriana il 16 ottobre ’60, al ritorno da un viaggio in Germania. Annota nel suo diario: «La tempesta ci ha obbligato a fermarci la notte nel canale di Piombino (si era imbarcato a Marsiglia). Non approdammo a Civitavecchia che alle 4 e ho dovuto passarvi la notte. L’undici ottobre alle 10 antimeridiane sono entrato in Roma. Mi sono sistemato subito nella nuova dimora di via Gregoriana n. 13 presso lo scultore Meier: tre stanzette con incantevole vista su Roma ai miei piedi. La città formicola di soldati francesi, la guarnigione è stata rinforzata di dieci-


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mila uomini. Il 12 i francesi hanno occupato Viterbo. La sera del 14 è arrivato qui Lamoricière, come martire di Castelfidardo». Era la fase cruciale del nostro Risorgimento, quando Cavour, per risolvere il problema di Garibaldi ormai padrone del regno delle Due Sicilie, ma restio a venire a patti con il governo di Torino, diede audacemente il via alla spedizione Cialdini, che, attraverso le Marche, e dunque il territorio dello Stato Pontificio, risparmiando Roma per il momento intoccabile, doveva portare l’esercito piemontese nell’Italia meridionale. Lo scontro fra i reparti francesi che, al comando appunto del gen. Lamoricière, presidiavano il territorio papale, e l’esercito piemontese era avvenuto a Castelfidardo, nei pressi di Ancona, capitolata subito dopo. Agli sconfitti fu possibile solo recuperare la Tuscia romana, Viterbo compreso, che difatti avrebbe dovuto attendere il 1870 per unirsi all’Italia. Appena il tempo di uno sguardo al panorama di Roma che si godeva dal terzo piano di via Gregoriana 13, e il Gregorovius si rituffava nell’attualità, e quale attualità. Ciò che stava avvenendo sotto gli occhi di questo tedesco romanizzato, appena rientrato da un viaggio nella sua patria, lo toccava fino nel profondo. Lo sbriciolamento dello Stato Pontificio, che prima o poi sarebbe giunto alla sua fase terminale con l’annessione di Roma stessa al regno d’Italia, era, da un lato, salutato dal Gregorovius con l’animo di un liberale del secolo scorso per di più con venature radicaleggianti, e riguardato dall’altro come la distruzione delle scenario, materiale e, insieme, ideale, della plurisecolare vicenda storica, quella di Roma medievale, cui egli stava consacrando gli anni centrali della sua vita di scrittore per altro prolifico e attratto da molteplici interessi. Come scrive felicemente Arnold Esch, direttore dell’Istituto storico germanico di Roma e promotore dell’iniziativa celebrativa di oggi, si era venuta creando una spe-


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cie di «gara di corsa fra storia scritta e storia vissuta, con una tensione che di tanto in tanto gli mozzava il fiato, cosicché, turbato per le sorti presenti di Roma, Gregorovius non riusciva più a scrivere sulle sue sorti più remote». Gli otto volumi di cui consta la Storia della città di Roma nel medioevo furono pubblicati fra il 1859 e il 1872. Per ciò che lo concerne, scrisse la parola fine il 19 gennaio 1871, vincendo così la gara con il tempo, cui si riferisce Esch. A questo punto, compiuta l’opera che lo avrebbe reso famoso, nonostante le riserve degli storici universitari che lo trovavano troppo «romantico», e visto realizzare il voto con cui aveva auspicato la fine di quella intollerabile sopravvivenza di un passato stramorto che era lo Stato Pontificio, Gregorovius non restò a lungo a godersi la vista che gli si offriva dalle finestre di via Gregoriana. Scrive nel diario del 14 luglio 1874: «È mia ferma intenzione riunirmi ai miei fratelli in Germania. La mia missione a Roma è terminata. Qui sono stato come un ambasciatore, in modestissima forma, ma forse in un senso più alto di quanto non lo siano i diplomatici di professione. Ho creato ciò che ancora non esisteva, ho rischiarato undici oscuri secoli della città (la sua Storia va dal secolo V all’inizio del XVII) e ho dato ai romani la storia del loro medioevo. È questo il mio monumento qui. Ora posso andarmene in pace». Segue la nota di cocente nostalgia per la scomparsa in atto del mondo che era stato il suo, e che pure aveva così fortemente auspicata: «Potrei rimanere ancora. Ma mi ripugna il pensiero di sopravvivere a me nella solitudine e di invecchiare a Roma ove tutto si rinnova e si muta, ove una nuova vita incalzante coprirebbe presto i miei antichi e cari sentieri e li renderebbe irriconoscibili». A differenza di Robert Davidsohn, lo storico di Firenze medievale, che non ebbe mai la cittadinanza onoraria di Firenze e che per di più fece in tempo a subire l’oltraggio di vederla conferire, pochi mesi prima di morire, a Galeazzo


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Ciano, Gregorovius ebbe la cittadinanza onoraria di Roma, nel 1876. Ma, mai e poi mai, Firenze avrebbe potuto riservare a Davidsohn la specialissima distinzione che l’ex sovrano temporale della città eterna decretò a Gregorovius il 6 febbraio 1874, quando la sua Storia venne messa all’Indice. Fu quel giorno che, come lascia capire lo stesso Gregorovius nel suo diario, la sua immedesimazione con l’oggetto dei propri studi raggiunse l’apice. Giocava certo in lui la soddisfazione per il fatto che la condanna avesse tanto tardato a venire, quando ormai sarebbe stata priva di conseguenze pratiche negative sullo svolgimento delle sue ricerche nelle biblioteche e negli archivi di Roma. Ma c’era anche qualcosa di più, e di diverso. Altrimenti, non si potrebbe spiegare il suo disappunto quando amici zelanti strapparono il decreto relativo, ch’era stato affixum et publicatum – come prevedeva la sentenza – alle porte delle tre grandi basiliche, risparmiando solo la copia esposta al più defilato Laterano. Ciò che comunque gli consentì ancora di mostrarla con un certo compiacimento al fratello, giunto nel frattempo dalla Germania a Roma. In occasione del convegno indetto dall’Istituto storico germanico per il centenario della morte di Gregorovius (1 maggio 1891), Arnold Esch ha ottenuto un estratto della sentenza di condanna finora inedita. Il sottoscritto che, in un suo intervento a quel convegno, si era provato a immaginare quali avrebbero potuto essere le ragioni che avevano spinto il Sant’Uffizio a prendere quella decisione, deve onestamente ammettere che si era sbagliato quasi del tutto. Era andato troppo nel difficile. Ciò che ha attirato l’attenzione del censore pontificio sono stati una serie di dettagli, apparentemente insignificanti.


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Il Messaggero, 23 gennaio 1992 Torna l’insidioso attacco alla cultura democratica Le violenze dei nuovi razzisti minacciano il nostro futuro Per una pura coincidenza (non mi pare che si possa pensare ad altro), il cinquantesimo anniversario della riunione di gerarchi nazisti nel corso della quale si decise di passare dalla persecuzione degli ebrei, che aveva rappresentato da sempre un connotato essenziale del nazismo, a quella che con un inequivocabile eufemismo venne definita la «soluzione finale», è venuto a coincidere con un intensificarsi di episodi di violenza razzista, in vari paesi d’Europa. La rievocazione di ciò che tenne dietro a quella decisione si è alternata in questi giorni nei notiziari e nelle rubriche televisive con le cronache dei fatti accaduti qualche ora prima. A collegare le immagini di repertorio e quelle girate ai giorni nostri sono i macabri simboli di cui amano adornarsi i razzisti di oggi che sono, tali e quali, gli stessi di allora. Viene però fatto di domandarsi se l’analogia così suggerita sia legittima, e soprattutto quali effetti pratici produca. Lasciamo da parte gli ebrei, cui pure va riconosciuta una voce in capitolo del tutto particolare. Per essi l’unicità dell’Olocausto è un assioma che non ammette di essere messo in discussione. Ma per i non ebrei è inevitabile che il problema si ponga in termini in parte diversi. La condanna, direi meglio l’esecrazione, per la «soluzione finale» e ciò che l’ha preceduta è pressoché unanime. La stessa ostinata minoranza di quanti negano che essa sia mai stata messa in atto, adducendo argomenti puerili che nessuno storico, degno di questo nome, appare disposto a pendere sul serio, per quanto introduca un pericoloso elemento di confusione, non può essere onestamente interpretata come una giustificazione dell’accaduto.


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Sposando, dunque, la logica della Chiesa medievale, che, quando si trovava di fronte a una nuova forma di devianza, si sforzava di assimilarla a un’eresia di secoli e secoli prima, a suo tempo debitamente condannata, ci sentiremmo portati a classificare come neo-nazisti gli autori contemporanei di violenza a sfondo razziale, tanto più che in molti casi sono gli stessi interessati a suggerire l’analogia con i loro simboli e rituali, attinti a piene mani nelle soffitte dei nonni. Eppure, contrariamente a ciò che ritengono molti, questa forma di assimilazione porta paradossalmente a sottovalutare il pericolo. Il razzismo hitleriano è nato, su premesse ottocentesche, nel clima del dopo Versailles. Il razzismo dei giorni nostri si sta sviluppando in coincidenza con i progressi del processo di unificazione europea, che ha ormai le sue precise scadenze ed è, dunque, uscito dal mondo dei sogni, per entrare in quello delle prospettive politiche concrete. È evidente che la libera circolazione della manodopera rappresenta uno dei traguardi essenziali del nuovo ordine che si va a costruire. È anche evidente che, se l’operazione del processo di integrazione europea avrà, come è da sperare, successo, l’Europa diventerà sempre più il miraggio di quanti, non avendo avuto la ventura di nascere entro i suoi confini, faranno il possibile per venire a godere i benefici dell’auspicabile benessere europeo. Non occorre dire che sarà impossibile accogliere tutti. Norme precise e severe dovranno regolare l’afflusso dall’esterno. Ma un’Europa che non garantisse lavoro e, anzitutto, sicurezza agli extracomunitari accolti entro i propri confini e, peggio, che non garantisse una vita serena ai cittadini membri di paesi facenti parte della comunità stessa, che, per una ragione o per l’altra, vogliano spostarsi dal paese d’origine a un paese nuovo, rinnegherebbe la propria anima, cioè i fondamenti basilari della civiltà liberale e


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democratica, tanto vantata a parole, ma ancora tanto fragile, nonostante i suoi sbandierati trionfi recenti contro la civiltà ad essa antagonista. Più che indurci a riflettere sul passato, che è materia giudicata, tranne che per una minoranza di irriducibili che non dovrebbe essere difficile tenere sotto controllo, ciò che è accaduto in questi giorni deve indurci a considerare l’insidia che grava sul nostro futuro. Che è un’insidia nuova, anche se si presenta talvolta con abominevoli tratti antichi. Il Messaggero, 17 febbraio 1992 Barbarie e velleità nella nuova «febbre dell’oro» per gli archivi del Kgb A Mosca, come per la papessa Giovanna Nel 1880/81, papa Leone XII decideva l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano agli studiosi di tutto il mondo e di tutte le confessioni. Furono in molti a precipitarsi subito a Roma, compresa – c’è da giurarlo – qualche virago antipapista britannica mossa dalla speranza di trovare un documento che confermasse finalmente l’esistenza della papessa Giovanna. Come scrive lo storico tedesco Reinhard Elze, «sembrava quasi una febbre dell’oro. E l’oro c’era: una quantità infinita di fonti e atti sconosciuti o inediti sulla storia millenaria dei paesi europei e della Chiesa. Eppure, quasi nessuno dei cercatori sapeva dove scavare. L’Archivio, infatti, possedeva solo pochi repertori in gran parte antiquati e, fra gli addetti molto disponibili, non erano in molti quelli veramente in grado di aiutare». Assistiamo a una nuova poussée di febbre dell’oro archivistica, questa volta a Mosca. A costo di guadagnarmi una fama di inguaribile ingenuità voglio rammentare ciò che l’Europa colta degli anni Ottanta del secolo scorso seppe escogitare per abbassare la temperatura. È presto detto. Fu


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allora che molti paesi europei crearono a Roma quelle che, in qualche caso, vennero chiamate delle «stazioni storiche», progenitrici degli istituti storici stranieri, che sostituiscono ancora uno dei vanti, a dire il vero non abbastanza pubblicizzati, di questa città. È davvero irrealistico pensare che qualcosa di simile possa avvenire oggi sulle rive della Moscova? L’Italia potrebbe dare l’esempio, dato che altri non ci abbiano già pensato. Negli anni Trenta, la missione archivistica a Simancas, dove sono conservate le carte della Corona di Castiglia, ha avviato il rinnovamento degli studi di storia moderna nel nostro paese. Fossi il ministro dei BbCc darei subito i mezzi all’Istituto italiano per la storia moderna e contemporanea perché apra una «stazione storica» a Mosca. Da parte sua, uno sponsor illuminato potrebbe mettere a disposizione del governo russo qualche borsa di studio per consentire ad archivisti di quel paese di frequentare la rinomata Scuola di Archivistica Vaticana. Essi potrebbero imparare a redigere un inventario e apprendere come va regolata, in un archivio che non voglia diventare un bazar, la consultazione dei documenti, compreso l’uso accorto di quelle macchine diaboliche che possono diventare le fotocopiatrici. La determinazione del numero di anni, trascorsi i quali una determinata serie diventa consultabile, deve, da una parte, venire incontro alle esigenze degli storici che vogliono «sapere», ma dall’altra, non offendere la suscettibilità delle amministrazioni attive, che producono i documenti destinati poi a essere depositati negli archivi, e che non ci penserebbero due volte a fare sparire i documenti più compromettenti, se non si sentissero tutelate dall’esistenza di norme precise in proposito. In questa materia, la demagogia di chi vorrebbe vedere tutto subito va contro gli interessi reali della ricerca storica nel luogo periodo. So benis-


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simo che questo modo di porre il problema degli archivi moscoviti, e non solo moscoviti, sembrerà passatista. Siamo di fronte a un curioso paradosso. La storia politica non attraversa in storiografia, per ragioni sulle quali non ho il tempo di soffermarmi, un momento favorevole. A torto, a mio avviso, la si considera un genere superato, ma questo è un altro discorso. Contemporaneamente, mai come in questo momento la politica attiva ha guardato tanto all’indietro, al passato. Forse la cosa si spiega in un paese che ha trangugiato senza dare apprezzabili segni di reazione la notizia di qualche giorno fa, secondo cui abbiamo il coefficiente di natalità più basso del mondo. È giusto, in un certo senso, che nell’Italia di vecchi che si profila ormai all’orizzonte, i partiti, invece di proporre programmi per il futuro, si accapiglino per le rivisitazioni del passato. C’è però modo e modo di guardare indietro. Lo spettatore distaccato ha l’impressione che, nella loro diaspora verso i nuovi lidi della liberaldemocrazia, molti intellettuali ex comunisti abbiano portato con sé la parte deteriore del loro bagaglio ideologico, non la migliore, che è dopotutto la tradizione marxiana. Intendo dire la propensione a demonizzare l’avversario, a farne il nemico oggettivo, e soprattutto il gusto, di origine giacobina, di denunciare a getto continuo «congiure aristocratiche», complotti oscuri, che avrebbero deviato il corso della storia, prevalendo su quei movimenti di fondo che, appunto, Marx aveva avuto il torto di privilegiare in modo assoluto, ma anche il merito di proporre all’attenzione degli storici. Nella confusione generale, i giudici come ha scritto Carlo Ginzburg nelle sue «considerazioni in margine al processo Sofri», tendono a rubare il mestiere agli storici, non limitandosi ad acclamare il fatto, ma richiamandosi al «contesto». Da parte loro, gli storici, o per lo meno alcuni di essi, sembrano presi dalla smania di pronunciare sentenze, come se una sentenza ineseguibile non fosse la cosa più ridicola


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del mondo. E tutto questo avviene nel paese dove, non dieci secoli fa, bensì nella prima metà del nostro, ha vissuto e operato Benedetto Croce. Le culture politiche affermatesi in seguito hanno fatto di tutto per metterlo in soffitta. Ora ne vediamo i risultati: sono tornati i barbari. Il Messaggero, 24 luglio 1992 Dieci anni fa moriva Compagna. Buon profeta in cattiva compagnia Meridione e criminalità Anche per chi, come me, sente tuttora il rimpianto per Francesco Compagna, oltre che come amico, anche come sicuro e pressoché unico punto di riferimento politicomorale, sarebbe fuori posto continuare a parlarne negli stessi termini usati all’indomani della sua scomparsa, avvenuta dieci anni fa. D’altra parte, i dieci anni trascorsi non sono sufficienti a garantire il distacco necessario per farne un oggetto di riflessione spassionata. Non lo sono, non soltanto perché sono oggettivamente troppo pochi, ma soprattutto perché sono stati tali da falsare la prospettiva, di modo che, avendo ripreso in mano i suoi scritti, che coprono all’incirca il trentennio 1950-1980, ho avuto l’impressione che non dieci anni siano trascorsi dal quel triste 24 luglio 1982, bensì un secolo. Un’impressione in parte falsa, aggiungiamo subito a scanso di equivoci, perché, una volta superate – almeno così confidiamo – le varie «emergenze» che ci attanagliano nell’ora presente, le preoccupazioni di tipo «strutturale» che sono state tipicamente sue, torneranno a presentarsi, benché in termini molto diversi da quelli in cui se ne è fatto carico lui, in quanto aggravate dall’inevitabile deterioramento che colpisce le situazioni lasciate marcire per troppo lungo tempo.


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Nato nel 1921, Compagna ha vissuto ormai da adulto l’8 settembre 1943, ma la sorte per lui altrimenti maligna, gli ha almeno risparmiato l’«8 settembre» numero due, che la sua e nostra generazione, quella formatasi nel secondo dopoguerra, sta vivendo da qualche tempo a questa parte, dopo la grande euforia seguita alla caduta del Muro e al successivo sfaldamento dell’impero sovietico. Anche se Compagna fece più che in tempo ad avvertire i segni premonitori del cambiamento in atto, la «questione meridionale» non si era ancora trasformata, lui vivo, in «questione criminale», come si presenta purtroppo oggi. Né il posto di quella era stato ancora usurpato sulla scena politica nazionale dalla «questione settentrionale», posta con un linguaggio virulento tale da fare addirittura rimpiangere i toni queruli del meridionalismo «alla Scarfoglio» che Compagna detestava, ed artificiosamente esacerbata al punto da mettere in discussione la stessa unità d’Italia. Il tutto, in un quadro internazionale, che vede l’«Europa delle etnie», risorte a nuova vita dalle ceneri di un passato barbarico e immemoriale, subentrata alla civile «Europa delle regioni», preconizzata da Compagna in un libro del ’64 «come circoscrizioni di raccordo ai fini di una tecnica liberale della pianificazione e come spazi organizzati e animati da città motrici». Il «mercato europeo del lavoro» è un altro dei temi affrontati nel libro del ’64, con la solita intelligenza nutrita, a un tempo, di storicismo e di illuminismo. Ma, se allora il problema dominante sembrava essere quello del prevedibile esaurirsi della riserva di mano d’opera rappresentata dai «terroni» di casa nostra e, in genere, dell’Europa meridionale (I terroni in città è il titolo di un precedente libro di Compagna, apparso nel 1959), e non più quello di «un’invasione di emigranti a danno dei paesi ad economia opulenta», oggi è quest’ultimo a porsi in maniera angosciosa, con protagonisti mutati, appartenenti a proletariati esterni rispetto al Vecchio Continente, che, con la loro ingombrante presenza, risvegliano nei proletariati interni indigeni rea-


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zioni ben più violente e preoccupanti di quelle che potevano destare in Svizzera, o a Torino, i terroni del Mezzogiorno d’Italia. «L’emigrante programmato», titolo di uno dei capitoli del libro del ’64, suona come una chimera nell’Italia del ’92. La denuncia delle «cattedrali del deserto» in cui si vanificò per tempo il disegno di un’industrializzazione forzata del Mezzogiorno, da lui sempre propugnato, è già un motivo dominante dell’ultimo Compagna. Ma certo, solo dieci anni fa, nessuno avrebbe potuto prevedere che la prospettiva di una deindustrializzazione della stessa Italia del Nord venisse ventilata dagli osservatori economici come un possibile sbocco della nostra economia. Non sarebbe difficile, riprendendo i molti temi affrontati da Compagna, continuare in questo malinconico o, forse meglio, drammatico riscontro della loro sopravvenuta inattualità. Ma, oltre che libero studioso e, da un certo momento, professore universitario (di geografia), Compagna, dal ’68, è stato parlamentare, più volte anche sottosegretario e ministro, insomma un esponente autorevole della classe politica, oggi tutta indiscriminatamente sotto accusa, che – si dice – ha portato l’Italia sull’orlo del baratro. Conoscendolo, sono sicuro che egli non avrebbe ceduto alla tentazione di chiamarsi fuori, con la fragile scusa di non avere rubato, ma anzi di avere operato per lo più nelle direzioni giuste. E sono anche certo che, di fronte alla proposta, che riecheggia sempre più spesso, di una democrazia da rifondare oltre i partiti, egli che ha speso una buona parte della sua vita a denunciare i comportamenti dei maggiori di essi, fossero al governo o all’opposizione, in ispecie nel Mezzogiorno, avrebbe preso le debite distanze, in attesa di chiarimenti e approfondimenti che tardavano a venire, salvo che per ciò che concerne il taumaturgico ristabilimento del collegio uninominale. Sensibile com’era, egli non avrebbe potuto però mancare di porsi l’interrogativo fondamentale se non sia accaduto


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che, per una sorta di ritrosia a generalizzare, l’area politica minoritaria, cui apparteneva, pur così vigile nel denunciare le singole distorsioni che accompagnavano l’indubbio cammino ascensionale dell’Italia, abbia trascurato di valutare le conseguenze devastatrici che la somma di esse avrebbe finito con provocare nel lungo periodo sull’intero sistema politico. Né la preoccupazione per lo scenario politico internazionale, sempre vivissima in Compagna e nei suoi amici, può essere addotta a scusa di quello che resta un grave peccato di omissione. Se oggi rischiamo di perdere l’appuntamento con l’Europa, che i «radicali del Mezzogiorno», Compagna in testa, hanno auspicato con più coerenza e determinazione di ogni altra forza politica, è proprio perché quelle conseguenze devastatrici hanno delegittimato un’intera classe dirigente, senza che all’orizzonte si profili per il momento l’ombra di un ricambio possibile. Il Messaggero, 7 settembre 1992 Una visione antistorica dell’unità del vecchio continente dietro violenze e razzismo Il meschino calcolo dell’Europa delle etnie L’anfiteatro della Sorbona, era maggio del ’68, ospitò i deliri di una generazione traviata da cattivi maestri. A ripercorrerlo a cinque lustri di distanza, le parole d’ordine di allora – quelle almeno di carattere politico e sociale – appaiono arnesi di robivecchi. Giovedì scorso, François Mitterand ha avuto il coraggio di scegliere quello stesso scenario per un confronto pubblico sul referendum da lui indetto sugli accordi di Maastricht, cioè a dire sulla forma concreta di cui le diplomazie di Stati ancora sovrani hanno rivestito la prospettiva di un’Europa economicamente e politicamente unita, che, se tutto dovesse andare secondo le previsioni, subentrerebbe in un breve giro d’anni al posto di questi. Mentre


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Mitterand si batteva per il sì all’interno dell’anfiteatro contro i variegati campioni del no, nelle strade adiacenti si aggiravano squadracce di naziskin, i soli giovani di oggi che assurgono di tanto in tanto agli onori della cronaca. Un segno inquietante, visto che è in gioco il nostro futuro. La prospettiva dell’unificazione del Vecchio Continente è la sola idea veramente nuova che sia venuta alla luce nei Paesi dell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Per il resto, in materia di economia, di istituzioni, di vita dei partiti, abbiamo vissuto di rendita di quanto prodotto nei Paesi democratici e, in parte, anche in quelli totalitari, durante gli anni Trenta, per sanare le ferite della crisi del ’29. Lo stesso Welfare state, realizzato un po’ dovunque solo dopo il ’45, ha lì le sue vere radici. Probabilmente, la contraddizione insita nel fatto di essersi attardati a procedere all’interno dei diversi Paesi sui vecchi binari, mentre si lavorava, con intensità e convinzione – a dire il vero – intermittenti, a costruire il nuovo edificio comune europeo, è all’origine delle difficoltà in cui vengono a trovarsi più o meno tutti i partner del progetto (Germania a parte, che ha in aggiunta un problema tutto suo), ora che siamo alla vigilia di un passo decisivo della sua realizzazione. Nel dibattito alla Sorbona, non solo le parole dei fautori del no, ma anche quelle del valoroso paladino del sì, avevano un che di risaputo. Pareva di assistere a una battaglia di oggi combattuta con armi di cinquanta, cento anni fa. E sì che, se non altro in materia istituzionale, la Francia, a differenza di noi, nel frattempo ha tentato di aprirsi e di battere strade nuove! Il dibattito sugli accordi di Maastricht in Italia è pressoché inesistente. Per dirla in breve, mentre altrove si discute se starci o non starci, per noi c’è il rischio che siano altri a tenerci fuori, di modo che si finisce col ritenere che sia tempo perso quello speso nel discutere, non soltanto sul punto se convenga starci oppure no (questo si dà di solito per scontato), ma anche sul significato che l’intera opera-


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zione, architettata in anni ormai lontani, i tempi di De Gasperi di Schuman di Adenauer, viene ad assumere oggi, in una situazione mondiale radicalmente mutata. Dio voglia che la minaccia, o il ricatto, di tenerci fuori dall’Europa, valga a ricondurre alla ragione una classe politica che sembrava averla perduta, ridandole la forza e la legittimazione necessarie per imporci i sacrifici cui tutti saremo chiamati nei prossimi anni. Ma un grande Paese come il nostro non può presentarsi all’appuntamento europeo solo per non avere l’umiliazione di vederci sbattere la porta in faccia. Proprio la debolezza costituzionale del nostro apparato statale, i ritardi secolari delle strutture della nostra vita associata, la varietà straordinaria delle «nazioni» entrate a costituire lo Stato unitario (pensate: la Lombardia e la Sicilia!) fanno dell’Italia un terreno di sperimentazione senza eguali su cui saggiare le prospettive dell’unificazione europea. E anche i rischi che essa comporta. Per esempio, è evidente, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia lo insegnano!, che la possibilità di entrare a far parte, domani di un’Europa unita opera come fattore di disgregazione degli Stati esistenti. Difficilmente, la Slovenia e la Slovacchia avrebbero ambito all’indipendenza se non fosse stato nella prospettiva, più o meno ravvicinata, di un ancoraggio europeo. La stessa minaccia di disgregazione incombe però anche sugli Stati partner fino da oggi dell’Europa unita. Il fantasma dell’«Europa delle patrie» era agitato da De Gaulle per scongiurare i progetti di unione federale. Ma l’attenuazione del senso di appartenenza comune all’interno dei singoli Stati, a cominciare ancora una volta dal nostro, apre la strada a un’altrettanto improbabile «Europa delle etnie», ciascuna delle quali chiusa in un suo meschino, sterile isolamento, presidiato magari da schiere di giovani col cranio rasato.


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Il Messaggero, 13 aprile 1993 Riti/Dall’antico ippodromo alla tv Il video, che circo Fra le varie emergenze del difficile momento che attraversiamo, nei giorni scorsi i giornali hanno prospettato anche quella dei circhi equestri. Essi incontrano infatti sempre maggiori difficoltà a farsi assegnare dalle amministrazioni comunali gli spazi, le «piazze», di cui hanno bisogno per montarvi i loro tendoni e parcheggiarvi la caratteristica carovana, a un tempo mezzo di trasporto, officina, domicilio, serraglio. Conformemente al tono dominante della molta letteratura, e pittura, e cinema, e poesia, che dal circo ha tratto ispirazione, e che si compendia dell’immagine romantica del pagliaccio che ride con la morte nel cuore, questo problema, che viene ad aggiungersi ai tantissimi altri che affliggono il nostro presente nazionale e, in particolare, le città in cui viviamo, ha introdotto una nota che è, insieme, di mestizia e di ilarità. Ci mancava solo la crisi dei circhi equestri! Eppure, nessuno sembra essersi accorto che, parallelamente alla crisi del circo equestre, che è una creazione del tardo Seicento, destinata a una grande fortuna nei due secoli successivi e ancora, almeno fino a ieri, nel nostro, stiamo assistendo a una inaspettata rinascita del «circo» antico, quello che a Costantinopoli, la città concepita a immagine e somiglianza di Roma, si chiamò l’«ippodromo». Come lascia trasparire il suo nome greco, il circo-ippodromo, con la caratteristica forma oblunga osservabile tuttora a Roma al Circo Massimo, era stato concepito per ospitare le corse dei carri trainati da cavalli. Ma il circo-ippodromo era anche uno «spazio politico», la sede deputata nella quale un popolo ancora teoricamente sovrano e spogliato di fatto di ogni suo diritto, era invitato, a scadenze fisse, a dialogare – si fa per dire – con l’imperatore, l’onnipotente padrone del


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destino di tutti. Di fronte all’imperatore, che era uno, il rito prevedeva però che il popolo si presentasse nelle gradinate diviso in «fazioni», contrassegnate da altrettanti colori, in origine tre (bianco, rosso, verde), divenute poi quattro per lo sdoppiamento dei «verdi» in «verdi» e in «azzurri» e ridottesi di fatto, da ultimo, a queste due sole. Esse finirono col compendiare in sé l’intero corpo politico cittadino, assicurandosi, ora l’una ora l’altra, il mutevole favore di chi conduceva il gioco dall’alto della tribuna d’onore, circondato da uno stuolo di senatori e notabili. Gli studiosi si sono dati da fare, sollecitando, talvolta anche senza la delicatezza che si richiede in questi casi, le scarse testimonianze coeve disponibili, per trovare il supposto fondamento socio-economico di questa divisione. Ma si sono dovuti arrendere all’evidenza che si tratta di una divisione artificiale, che – come scrive Gilbert Dagron a proposito di Costantinopoli – «il rituale dell’Ippodromo ha imposto al popolo, e che il popolo impone a sua volta come forma politica alla città… Questi popolani, che si alternano nelle attività sediziose, non rappresentano né delle classi sociali, né dei partiti». Sotto questo aspetto non sportivo, ma politico, benché di una politica – si concederà – sui generis, il circo-ippodromo mi sembra presentare una forte, preoccupante analogia con la struttura di alcune trasmissioni televisive, che si pretendono ispirate all’esigenza di dare voce alla «gente». Lasciamo stare la gestualità e, in qualche caso, i tratti fisiognomici dei vari conduttori, che non stenteremmo a vedere paludati in panni tardoantichi. A fare pensare al circo e alle sue «fazioni» sono soprattutto le «piazze» collegate con la plancia di comando. La loro composizione è evidentemente artificiale, frutto di un abile dosaggio che garantisca la riuscita dello spettacolo. Certo, all’imperatore non era dato di mostrare il suo favore di «verdi», zittendo col solo premere un bottone gli «azzurri», costretti a tratte-


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nere la loro rabbia in attesa che il collegamento venga ristabilito. Ma il favore, quale che sia la forma attraverso la quale riesce a manifestarsi, discende sempre capricciosamente da una tribuna posta ben in alto. La sola vera differenza consiste nel fatto che oggi gli «esperti» che occupano i posti d’onore accanto al conduttore, là dove sedevano in silenzio i «senatori», sono invitati a dialogare fra loro e con le «piazze» periferiche. Ma le analogie, si sa, non possono essere mai forzate oltre un certo limite, pena la perdita della loro eventuale validità. In conclusione, con tutto l’amore che portiamo ai moderni circhi equestri, la crisi che momentaneamente attraversano ci preoccupa meno di questa resurrezione di un aspetto non trascurabile del circo antico, che, forse a torto, ritenevamo appartenesse a una cultura politica tramontata per sempre. Il Messaggero, 27 giugno 1993 La democrazia del Duemila L’utopia di Tocqueville sui banchi di scuola È stata una felice sorpresa che a viale Trastevere quest’anno, per i temi della maturità, si siano ricordati accanto ai più scontati e domestici Pavese e Vittorini, anche di Alexis de Tocqueville. Trascriviamo il brano prescelto per chi se lo fosse lasciato sfuggire: «Ogni individuo porta con sé, dalla nascita, un diritto uguale ed intangibile a vivere indipendentemente dai suoi simili in tutto ciò che lo riguarda personalmente ed a regolare da sé il suo proprio destino». Vorremmo mandare in visione queste poche parole allo spirito arguto e superficiale che, dopo la caduta del Muro, ha sentenziato che la storia era finita perché i «nostri» avevano vinto. Nonché ai moltissimi che, pur plaudendo (e noi stessi con loro) alla fine delle ideologie, lamentano l’assen-


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za di «utopie», che diano un senso, che segnino un traguardo al nostro agitarci e affannarci quotidiano. Esse costituiscono infatti una risposta ai facili ottimismi, durati del resto lo spazio di un mattino, e alle false angosce, che hanno ben presto preso il posto di quelli. La risposta ci viene da un pensatore politico, messo in soffitta anche dai suoi connazionali fino a qualche anno fa, morto nel lontano 1859. Tocqueville, nel passo che i maturandi del ’93 sono stati chiamati a commentare, propone né più né meno che un’utopia ancora universalmente valida per il 2000 che è alle porte, e per la quale non si saprebbe trovare un aggettivo meglio adatto a qualificarla che «liberale», tanto più che nella nostra lingua esso ha il vantaggio di andare accoppiato e, insieme, disgiunto dal termine «liberista», attinente questo secondo al solo governo dell’economia, un aspetto del quale solo uno stolto potrebbe negare l’importanza, ma che viene, per così dire, soltanto dopo l’istanza più generale su cui Tocqueville intendeva richiamare l’attenzione. Il «diritto» di cui egli parla configura, a ben vedere, il privilegio di cui avevano goduto gli aristocratici suoi pari durante l’ancien Régime. La Rivoluzione aveva eliminato questo privilegio in nome di una spinta egualitaria degenerata in una nuova forma di dispotismo. Benché formatosi negli anni della Restaurazione, Tocqueville era arrivato lucidamente alla conclusione che la democrazia avesse per sé l’avvenire. Ma, con «il senso profondo che egli aveva dell’ambiguità, delle contraddizioni implicite in ogni processo storico» (De Caprariis), si era anche convinto della necessità che, a prevenire le degenerazioni della democrazia, quell’antico privilegio venisse restaurato, non più beninteso a vantaggio di pochi, ma a vantaggio di tutti. Comprendiamo benissimo le ragioni che hanno indotto le autorità scolastiche a far seguire al passo citato qualche riga di commento che richiama gli «odierni e gravi fenomeni di violazione dei diritti umani», ben più elementari di


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quelli cui si riferiva Tocqueville. Ma è anche vero che in tal modo si è finito col proporne una lettura riduttiva, dalla quale esce sacrificato proprio l’aspetto utopistico, sul quale mi è parso invece opportuno insistere. Certo, finché alle porte di casa nostra succede quel che succede, è addirittura immorale pensare ad altro. Ciò non toglie che, quando ho letto quelle righe, ho subito pensato alla difficoltà di conciliare l’esigenza di assicurare a «ogni individuo» la possibilità di «regolare da sé il suo proprio destino» con le strutture del moderno Stato assistenziale. Sarebbe davvero follia pretendere, per esempio, che ciascuno di noi possa liberamente decidere se tutelarsi di più di fronte alle distinte eventualità di una morte precoce, o di una lunga malattia, o di una vecchiaia matusalemmica? Non credo di stare andando fuori tema. Nel commento ministeriale si ricorda che la carta delle Nazioni Unite e la nostra Costituzione pongono «a fondamento della convivenza civile il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo e l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà». Ma Tocqueville, da parte sua, si mostra soprattutto preoccupato di garantire il godimento di quei diritti, intesi nel senso più largo possibile, proprio contro le minacce derivanti da un eccesso di democrazia, convinto che fosse tutt’altro che facile fare marciare le due cose di pari passo. Il Messaggero, 10 ottobre 1993 Palazzo Barberini/Le ragioni dell’arte e quelle dei militari Anche Raffaello è una bandiera L’auspicio ciceroniano arma cedant togae, «cedano le armi di guerra a quelle pacifiche», meglio se con una piccola variante: arma cedant Raphaeli (si intende Raffaelo Sanzio), si presta benissimo a diventare la divisa dei moltissimi che desiderano


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di vedere al più presto disponibile l’intero palazzo Barberini per la Galleria nazionale d’arte antica. Per chi non lo sapesse, la «Fornarina» di Raffaello è uno dei tanti capolavori della Galleria, impossibilitata di espandersi perché lo stesso palazzo ospita anche il Circolo ufficiali delle Forze Armate d’Italia. La vicenda della ricerca di una nuova sede per il Circolo si trascina da mesi. Il ministro Alberto Ronchey, se, il giorno che avrà termine la sua felice esperienza ministeriale, si ritroverà la forza e la voglia di tornare sull’argomento, potrà scrivere un istruttivo pamphlet su «La difficoltà di governare in Italia». Dico subito che capisco perfettamente la ritrosia dei militari ad abbandonare una sede come quella che attualmente occupano, se non con la sicurezza di potere disporre di un’altra sede altrettanto corrispondente alle loro esigenze. Capisco meno bene che delle soluzioni che vengono loro proposte venga sempre preferita quella la cui concessione presenta le maggiori controindicazioni sotto altri punti di vista. Poiché questo giornale non ha mancato di tenere informati i lettori sugli sviluppi, anche ahimè giudiziari, di questa intricata vicenda, non entrerò nel merito del problema. Mi limiterò, da profano (non sono uno storico dell’arte), a esporre le ragioni per le quali ritengo che anche in un momento in cui sono sul tappeto questioni di primaria grandezza, dalla soluzione delle quali dipende il nostro futuro di comunità nazionale, la questione di palazzo Barberini abbia un rilievo da non sottovalutare. Venendo a Roma, l’Italia unita, per farsi presente in una città dove tutti gli spazi utili erano già abbondantemente occupati, non ha saputo fare di meglio che costruire il monumento a Vittorio Emanuele II e il Palazzo di Giustizia. Non ha pensato a qualcosa di simile al Louvre o al British Museum e alla National Gallery. Mi domando, e giro la domanda per una risposta adeguata ai miei amici Pomian e Bettagno, specialisti di storia del collezionismo, se la rinuncia a imboccare la strada del grande museo o galle-


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ria nazionale sia stata dovuta a una precoce attenzione per le collezioni principesche, valutate come preziose testimonianze per la storia del gusto artistico, oppure semplicemente a preoccupazioni di carattere politico, che consigliavano di lasciare le cose come stavano. Sta di fatto che la Galleria nazionale di arte antica nacque dapprima come appendice di una delle grandi collezioni settecentesche, la Corsiniana, e solo in un secondo momento se ne staccò per raggiungere l’attuale sede di palazzo Barberini, passando così dalla coabitazione con quella collezione alla coabitazione, cui oggi si intende mettere termine per consentirle di svilupparsi, con il Circolo ufficiali. In realtà, senza volere con questo sminuire il valore di quello che è già oggi la Galleria nazionale d’arte antica, si tratta di un progetto che non ha mai avuto una compiuta realizzazione. Per lo straniero colto e informato (ne conosco più d’uno che a Roma è più a casa di me) farsi il giro delle sedi museali, in cui è disperso il patrimonio artistico di questa città, è un gioco da ragazzi, meglio, un divertimento. Ma per chi abbia meno familiarità con la Città eterna, la mancanza di qualcosa di simile agli Uffizi si fa vivamente sentire. E rincresce rinviare chi ti si rivolge per consiglio al Colle Vaticano, come se fuori di là non si desse la possibilità di avere un’idea complessiva della grande arte italiana dell’età rinascimentale e barocca, dedicando all’impresa quella mezza giornata che rientra nella disponibilità di tempo di un turista medio, che ha in programma anche il Foro, gli Etruschi a Valle Giulia, la Sistina. Certo, c’è, quando è aperta al pubblico, la Galleria Borghese. Ma è troppo piccola per i troppi capolavori che contiene. La gran folla dei visitatori ti sospinge in avanti, senza lasciarti il tempo di soffermarti a guardare. Se ne esce storditi, come dopo avere assistito a un miracolo, con le immagini che si sovrappongono nel ricordo le une alle altre.


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Ma non ci sono solo gli stranieri. Ci sono gli italiani, gli stessi romani, scolaresche comprese. Se hanno studiato un po’ di storia patria, sanno che i secoli di fioritura della grande pittura italiana, dal XVI al XVIII, sono stati secoli molto poco brillanti per la nostra vita politica e civile: i «tempi bui della storia d’Italia», come li chiamava il mio maestro napoletano Ernesto Pontieri. Ora, come non è mai vero che una mano lava l’altra, sarebbe da stolti vantare, a nostra consolazione, il primato (almeno per una parte di quei secoli) nel campo delle arti. Ma Pierre Nora, nella prefazione al primo volume dei tre volumi su Les France (al plurale), che concludono l’opera da lui diretta sui «Luoghi di memoria», una formula fortunata che corre il rischio di diventare banale, osserva acutamente che l’insistenza attuale sul «patrimonio» (come lo chiamano i francesi), sui «beni culturali» (come li chiamiamo noi), ha avuto come effetto di concorrere alla frammentazione della «memoria nazionale», che oggi si incarna a preferenza in monumenti, musei, archivi, biblioteche. Se questo è vero, mi sembra che il fatto che le «armi» si apprestino a cedere il campo a Raffaello acquisti un valore simbolico, che va oltre il risultato pratico che si vuole conseguire: dotare Roma di una galleria di arte antica all’altezza delle nostre tradizioni artistiche. Con questo non intendo affatto dire che possiamo fare a meno delle «armi». Quello che accade nel mondo tutto intorno a noi è fatto per convincerci del contrario, con buona pace dei pacifisti a oltranza e degli antimilitaristi di ispirazione pseudofrancescana. Né, dopotutto, un circolo ufficiali è una caserma o un poligono di tiro. Le «armi» c’entrano fino a un certo punto. La morale che si può trarre dal mio ragionamento, per quello che può valere, è un’altra. Anche Raffaello è, a suo modo, una bandiera, sotto cui possiamo ritrovarci uniti. Cedergli il passo, per dei militari, non è subire una sconfitta, ma contribuire a un riscatto, a una auspicabile vittoria sullo scoramento che ci ha presi un po’ tutti.


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Il Messaggero, 18 ottobre 1993 Cinquanta anni fa a Roma la deportazione degli ebrei Dobbiamo nutrire la memoria perché quell’orrore non si ripeta Sabato sera mi sono trovato a passare per via Catalana. Ero con mia moglie; andavamo a trovare degli amici che abitano lì e siamo rimasti sorpresi nel vedere tanta gente e i pulmini della polizia tutt’intorno. Per un attimo abbiamo temuto che fosse successo qualcosa. Poi, visti i visi dei presenti, abbiamo pensato che dovesse trattarsi di una festa ebraica, di un sabato speciale nel loro calendario liturgico. Sono stati gli amici, le cui finestre di affacciano sulla Sinagoga, a spiegarci di cosa si trattava. Era per ricordare la razzia di cinquant’anni fa. Confesso di avere provato un po’ di vergogna a non esserci arrivato da solo. Eppure, ora lo ricordavo benissimo, i giornali, a cominciare da questo, avevano fatto il loro dovere, dedicando anche intere pagine alle rievocazione dell’accaduto. Ma, fra l’ultima rivelazione su via Fani e le dispute sul nocciolo duro, la mia attenzione era evidentemente rivolta altrove. È l’assedio dell’attualità che costituisce una minaccia quotidiana all’esercizio della memoria. Per chi pratica, come il sottoscritto, il mestiere dello storico, addirittura un tradimento della propria professione. Per i moltissimi altri, che, ne sono certo, sono incorsi in questi giorni nel mio stesso peccato d’omissione, c’è il rischio di privarsi dei punti di riferimento alla luce dei quali soltanto si possono scongiurare le ipoteche più funeste che gravano sul nostro futuro. Gli eredi più diretti delle vittime di allora, si sa, insistono nel negare che l’Olocausto possa avere avuto dei precedenti o essere paragonato a qualcosa accaduto in seguito o che possa accadere in futuro. Semmai, insistono, potrebbe tornare a ripetersi contro quello che resta del loro popolo


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decimato. Questa privativa, conquistata con tante lacrime e con tanto sangue, non può essere discussa con argomenti razionali. Se ne deve prendere atto e basta. Ciò non toglie che l’Olocausto concerna anche quanti ebrei non sono, perché sta scritto in caratteri indelebili al centro del secolo che sta volgendo al tramonto. Ed è inevitabile che esso sia assurto a modello della massima degenerazione cui può arrivare la civiltà nata nel solco delle tradizioni classica, giudaico-cristiana, rinascimentale, illuministica e socialista, la civiltà, insomma, dell’Europa moderna con le sue propaggini al di là dell’Atlantico. Ma un «modello» è, per definizione, qualcosa che può essere ripetuto in contesti diversi da quello in cui si è manifestato la prima volta. Questo non vuol dire gridare all’Olocausto solo perché un gruppo di uomini esercita la violenza a danno di altri uomini. L’Olocausto non accetta di essere banalizzato. Ne abbiano o no l’esclusiva, gli ebrei hanno perfettamente ragione di essere molto suscettibili in proposito. E anche da questo punto di vista, il richiamare costantemente alla memoria ciò che è stato l’Olocausto propriamente detto, compreso l’episodio romano, con le sue immagini datate, i volti inconfondibili delle vittime e le divise dei carnefici, gli scorci delle strade e i profili delle case di quel quartiere della vecchia Roma, contribuisce a non fare del modello uno stereotipo, che finirebbe col non parlare più al cuore degli uomini del nostro tempo, mitridatizzati agli orrori che si consumano ogni giorno in tutti gli angoli della terra. Perché l’Olocausto ha anche questo di singolare, di essersi consumato in località minori dell’Europa centrorientale, che solo così sono passate alla storia, ma di essere stato predisposto e avviato in città dai nomi famosi, ricche di storia, nelle cui strade continuiamo a passeggiare, come facevo io stesso sabato sera senza rendermi conto di cosa fossero venuti a fare tanti ebrei coi loro zucchetti in testa. È questa familiarità con le stazioni di partenza dell’Olocausto


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che dovrebbe nutrire la nostra memoria, renderci consapevoli in ogni ora delle nostre giornate che la Storia potrebbe anche ripetersi. Il Messaggero/Primo piano, 5 agosto 1994 La scomparsa di un leader/L’imponente lavoro storiografico sull’Italia post-unitaria. Prediligendo i cattolici e le minoranze radicali Il padre di un nuovo Risorgimento Roma – Non giornalista, mi ritrovo a due anni di distanza a dover scrivere un pezzo su Spadolini nei tempi che solo ai giornalisti sono abituali. Era il tragico fine di settimana dell’assassinio del giudice Borsellino e il presidente del Senato era andato a Palermo a rappresentare lo Stato ancora una volta umiliato e a prendersi una delle poche salve di fischi che abbiano contrassegnato una carriera politica svoltasi dal principio alla fine all’insegna della popolarità. Contemporaneamente, a Roma si decideva della presidenza della Repubblica, e chi dirigeva allora questo giornale mi ha chiesto di scrivere un articolo sull’Amico che, secondo tutte le previsioni, stava per diventare presidente. Poi le cose andarono diversamente, e Spadolini, gran tesaurizzatore di carte, chiese al Direttore una copia del mio articolo. Cortese come sempre, mi scrisse subito per ringraziarmi, ma non senza manifestarmi il suo rincrescimento per un passo nel quale dicevo che, nel suo caso, il profluvio di lauree ad honorem che gli erano state decretate come ad altri uomini di stato, era riscattata dalla felicità dei discorsi di ringraziamento, che egli curava con l’impegno che, quando usava le prolusioni, i professori di una volta mettevano nel redigerle. Il giudizio gli era dispiaciuto, perché, formulandolo, era come se io mettessi in dubbio il fatto che quegli atenei intendevano onorare in lui il professore di storia che, in


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cuor suo, non aveva mai cessato di essere. Lo stesso valeva per il suo passato di giornalista. Quando lasciò la segreteria del Partito Repubblicano mi arrischiai a dirgli: «Di’ la verità che ti rincresce solo perché devi lasciare la Voce». Ancora qualche giorno fa, ammise che avevo ragione. La politica dei partiti della sua prima Repubblica, alla quale non è sopravvissuto, lo ha avuto come protagonista, ma un protagonista che ha conservato sempre il distacco del cronista, del commentatore, certo non spassionato, propenso però sempre a mobilitare le categorie del giudizio storico per leggere i fatti del giorno. I due temi principali, che Spadolini ha affrontato da storico, sono stati i cattolici dopo l’Unità e, sempre in riferimento allo stesso periodo, le minoranze radicali e repubblicane. Quando verrà il momento di parlare di Lui cessata l’ora dei necrologi e delle commemorazioni, gli addetti ai lavori (e un medievista, come io sono, non può certo dirsi di questi) dovranno assegnargli il posto che merita nella fondazione di una tradizione di studi di storia contemporanea nel nostro Paese, e, al tempo stesso, cogliere i nessi che collegano la sua opera storiografica alla sua militanza politico-giornalistica e, da ultimo, alla sua attività di uomo di governo e di Stato. Saranno di grande aiuto i documenti e i libri che ha accumulati nel paradiso terrestre di Pian dei Giullari, nella prospettiva di riordinarli il giorno, che non verrà, del meritato riposo, per poterli poi mettere a disposizione degli studiosi. Era il sogno di chi, non a caso, ha posto, e ne era fiero, la prima pietra del Ministero dei Beni Culturali. Un sogno, che gli allievi e collaboratori di Spadolini, a cominciare da Cosimo Ceccuti, contribuiranno a realizzare – ne siamo sicuri – a partire da domani. Non sarà un monumento alla memoria del maestro scomparso, ma uno strumento di lavoro. Ricorderò sempre la sera di un simpatico incontro conviviale, quando, al levar delle mense, fece sciorinare sulla tavola la serie pressoché completa delle edizioni Gobetti,


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una raccolta iniziata da un ragazzo prodigio tanti anni fa. C’è poi la Nuova Antologia. L’impegno di curare il prossimo fascicolo ha tenuto vivo negli ultimi giorni Spadolini, sottraendolo alla vita vegetativa cui lo costringeva la malattia. È una rivista unica nel suo genere, oggi che le riviste propriamente dette (non gli annali pubblicati da istituti culturali o le pubblicazioni periodiche specializzatissime) sono una specie in via di estinzione. Nella pagina della sua rivista dalla testata gloriosa, che richiamava una stagione d’oro della vecchia Firenze, Spadolini travasava, non senza una cernita severa, gli interessi che può coltivare un uomo di cultura, che sia anche un uomo pubblico. Nelle ultime annate, erano particolarmente presenti epistolari e pagine di diario di esponenti di primo piano, o che avrebbero meritato di esserlo, dalla vita intellettuale in senso lato dell’Italia di ieri o dell’altro ieri, nella quale il direttore della rivista si sentiva più di casa che in quella di oggi, che pure non gli ha lesinato onori e soddisfazioni di ogni genere, come a pochi altri. Che ne sarà della Nuova Antologia? Qui la prosecuzione della sua opera appare più difficile, quasi impossibile. Non volevo lasciarmi trascinare dall’emozione dell’ora. Rileggendomi, mi rendo conto di esserci riuscito anche troppo. Come se avessi continuato per iscritto un discorso che sabato 23 luglio facevo a voce con lui, anche per evitare l’amarezza che destava in entrambi il parlare dei fatti del giorno. «Mi raccomando, voglio pubblicare sulla Nuova Antologia il discorso che terrai a Jesi in settembre su Federico II». Sono le ultime parole che mi ha rivolte prima che, insieme a mia moglie mi congedassi, da Lui, per sempre*.

* Giovanni Spadolini è morto il 4 agosto 1994.


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Il Messaggero, 25 agosto 1994 Polemiche/Perché la guerra fra le due Italie, quella che scrive e quella che produce Intellettuali contro borghesia? Colpa della scuola «Eppure, da ragazzi hanno scaldato i banchi delle stesse scuole». Intendo dire i giornalisti e, in genere, quanti hanno l’esclusiva della parola scritta, da un lato, e, dall’altro, gli «italiani di mentalità conservatrice, culturalmente non certo à la page, ma laboriosi, sparagnini, motori infaticabili delle loro botteghe e fabrichette». Ad evocare la massa di questi ultimi, e non solo la piccola folla di coloro che essi hanno votato alle ultime elezioni, è stato Sandro Viola, che in tal modo ha dato uno sviluppo inatteso al dibattito aperto da Mario Monti sulla «lontananza» culturale del giornalismo italiano dalla maggioranza di governo scaturita dal voto dell’Italia moderata e produttiva. L’apertura di Viola è interessante anche perché, allargando il discorso dalla «lontananza» rispetto agli elettori, si è esentati dal dovere di premettere che, a parte gli effetti della denunciata «lontananza» sul piano della comunicazione, gli eletti o, per lo meno, il governo cui hanno dato vita, sta finora dando oggettivamente una misera prova di sé. E, dunque, anche chi non svolge la professione di osservatore politico, ma appartiene semplicemente al campo dell’Italia che scrive e non produce, è abilitato a dire la sua. Impostato in questi termini più larghi, il problema sollevato da Viola non è nemmeno più di sinistra e di destra. Non pratico la pubblicistica di destra, ma sarei pronto a scommettere che gli autori cui essa si richiama di preferenza sono altrettanto poco familiari agli «italiani di mentalità conservatrice» di quanto lo sono quelli che, agli occhi di questi ultimi, passano per essere di sinistra, ammesso e non concesso che li abbiamo anche solo sentiti nominare. Davvero Schmitt o Evola hanno più ascolto da quelle parti di Kelsen o di Bobbio?


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Ma limitiamoci, per comodità di esposizione, al campo degli intellettuali non di destra. «Su la cresta», intima loro Cesare Garboli. Venendo l’invito da un uomo dotato di una fine intelligenza, sarebbe di cattivo gusto fare dell’ironia. Ma, dopo decenni nei quali, la presenza di un potere politico interessato soprattutto alla spartizione delle casse di risparmio, la cultura di sinistra ha avuto in molti settori della vita del paese (editoria, università, spettacolo, ecc.) uno spazio molto più ampio di quello di cui godevano i suoi referenti politici, l’invito di Garboli presuppone una seria autocritica sull’uso che si è fatto a suo tempo di tale opportunità. L’impressione di un osservatore esterno è che si sia operato come se quei tali «italiani di mentalità conservatrice», che allora erano rassegnati a morire votando per la Democrazia Cristiana, fossero un’entità trascurabile. Più rassicurante e gratificante limitarsi a discorrere fra persone «intelligenti», già convinte delle magnifiche sorti progressive dell’umanità socialista. Semmai, valeva la pena di intrattenersi sulle diverse letture che di essa si davano a Cuba o a Pechino. È facile immaginare che interesse potevano avere per tutto questo gli sprovveduti che nel frattempo si ingegnavano a produrre scarpe, maglierie, ma anche macchine utensili, a prezzi appetibili per i possibili acquirenti del vasto mondo. Non di destra, ma neppure propriamente parlando, di sinistra, c’erano poi le reliquie della cultura che definirei liberale e antifascista, nel senso nobile del termine. Costretti dalle dure ragioni della politica realistica a una sostanziale subalternità nei confronti del potere democristiano, i «liberali» si sono illusi di salvarsi l’anima rimanendo fedeli all’antifascismo, questo sì per necessità di cose fazioso, degli anni della guerra di Liberazione. Ciò che, in parole povere, voleva dire subalternità alla cultura di sinistra e, di conseguenza, impossibilità di bonificare sotto il profilo culturale


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l’area occupata dagli «italiani di mentalità conservatrice», non beninteso, per farne dei progressisti, bensì solo per farne dei conservatori moderni. Per convincerli, è solo un esempio ma non scelto a caso, che non è affatto vero che Mussolini avrebbe potuto fermarsi nel ’38, e così sarebbe passato alla storia come un grand’uomo. E sullo sfondo, ma, in realtà, si dovrebbe dire in principio, la scuola. Direi soprattutto la scuola media superiore, che attende da anni di essere riformata nei suoi ordinamenti e nei sui programmi. Probabilmente, è un bene che non si sia provveduto a riformarla negli anni della maggiore insania collettiva, quelli, per intenderci che hanno visto il varo del sistema sanitario nazionale e l’abolizione dei manicomi. Ma la rinuncia a riformare la scuola media superiore ha voluto dire rinunciare a creare lo strumento che, solo, avrebbe consentito di colmare quel divario fra «paese intellettuale» e «paese produttivo», che oggi viene giustamente lamentato. È sui banchi di scuola che gli italiani destinati a scrivere e gli italiani destinati a produrre avrebbero dovuto ricevere quel tanto di formazione comune (mi riferisco in particolare a un minimo di nozioni di storia patria), che assicurerebbe fra le due categorie, che non sono, non debbono essere, due caste, la necessaria comunicazione che manca invece del tutto. Nell’attesa dell’auspicata riforma scolastica, che tenderà comunque a dare i suoi frutti, gli italiani che scrivono, quale che sia il loro colore, dovrebbero preoccuparsi non tanto di «rialzare la cresta» quanto di non perdere la faccia. Nella guerra estiva per bande che si è scatenata nel nostro paese, non si è esitato, da destra, a riabilitare l’inquisizione e a celebrare i fasti del sanfedismo, mentre, da sinistra, come ieri nei confronti di Borges, oggi in quelli di Vargas Llosa, la censura ideologica riaffila le sue forbici, come se volesse rendere un estremo omaggio al castrismo che affonda nel mar dei Caraibi. Ma essendosi – come si diceva –


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interrotte le comunicazioni, tutta questa effervescenza estiva interessa solo gli addetti ai lavori. E, per come stanno le cose, in fondo è meglio che sia così. Storia e Dossier/Editoriale, settembre 1994 Il filo di Arianna Il primo numero di “Storia e Dossier” è uscito a novembre del 1986. Si è attesa l’estate del 1994 per domandarsi «Ma quale Italia?». Abbiamo sbagliato a non farlo prima. Oggi, dopo tutto quello che è successo e sta succedendo nel nostro Paese dal 1992 in poi, non siamo abbastanza sereni per dare risposte che non risentano dell’angoscia che, al di là delle posizioni personali, ci attanaglia un po’ tutti, come cittadini, prima ancora che come storici. Date queste premesse, i quattro storici chiamati a rispondere se la sono cavata come meglio potevano fare. Certo, Ernest Renan, quando scriveva che «l’oblio, e addirittura l’errore storico sono un fattore essenziale della creazione di una nazione», disautorava la categoria cui egli stesso apparteneva, per la quale l’oblio e l’errore non sono altro che incerti del mestiere, da evitare a tutti i costi. Anch’io nei mesi scorsi sono stato chiamato a dire la mia sull’identità italiana. L’occasione era costituita da un invito rivoltomi dalla rivista francese “Le débat”, a commentare dal punto di vista italiano i tre ultimi volumi della serie dei “Lieux de mémoire” dedicati a Les France, in particolare il primo di essi, che ha come sottotitolo Conflits et partages. Mi ha colpito che, proprio in una sede nella quale “conflitti e divisioni” francesi venivano in primo piano, il sostantivo France restasse indeclinato accanto all’articolo doverosamente plurale, mentre noi italiani di Italie al plurale, due o più di due, usiamo parlare con grande disinvoltura. Tullio De Mauro, al quale mi ero rivolto per avere il parere di un linguista, mi ha detto che il plurale “Italie”


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risale probabilmente al periodo delle guerres d’Italie e che, del resto, il nome di Italia in tedesco (Italien) è geneticamente un plurale. Ma il topos delle “due Italie”, la settentrionale e la meridionale, nato sul terreno della pubblicistica meridionalistica e oggi fatto proprio dalla storiografia anche dell’età di mezzo (si pensi all’inglese Abulafia studioso di Federico II), presuppone l’Unità d’Italia. Prima, di Italia ce n’era una sola, ma soltanto per i letterati; e più di due per i diplomatici. È nei decenni successivi all’Unità che la «questione meridionale» è venuta all’ordine del giorno con prepotenza. E proprio perché è vero che, come concordano i quattro interpellati, essa è tuttora la questione numero uno, ritengo che un sintomo preoccupante dell’affievolimento della prospettiva unitaria sia costituito dal fatto che oggi se ne parli, tutto sommato, assai poco (non fosse per l’aspetto malavita organizzata), e prevalentemente nel contesto di un’insorta «questione settentrionale», agitata dai nostri confratelli del Nord con gli stessi accenti vittimistici che appartenevano una volta al meridionalismo deteriore, quello, tanto per intenderci, di Edoardo Scarfoglio, e non quello di Giustino Fortunato o, in tempi più recenti, di Francesco Compagna. Sul piano storiografico meriterebbe un approfondimento il tema del confine fra le “due Italie”, che rimane un po’ sempre nel vago: un confine che, a rifletterci bene, non solo muta a seconda delle età, ma che corre a latitudini diverse anche nella stessa età, a seconda che si guardi alla politica, all’economia, alla religione, alla cultura. Mi sono meravigliato che, fra gli interrogativi posti ai quattro storici, non si sia pensato a uno concernente il punto se ciò che è accaduto in Italia in questi ultimi anni sia configurabile come una “rivoluzione”. Anche se questo quesito è implicito in quello concernente la continuità o discontinuità della nostra storia recente.


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Personalmente ritengo che non si tratti di una rivoluzione per mancanza di un soggetto rivoluzionario che non sia la corporazione dei magistrati. Ma se davvero l’ipotesi di una vera rivoluzione in atto prendesse corpo, essa se non altro verrebbe a tranquillizzare i molti che non sanno darsi pace del fatto che all’Italia siano mancate la Riforma protestante e la Rivoluzione francese. Almeno una delle due mancanze sarebbe infatti sanata. Anche se nei quesiti non vi si fa esplicito riferimento, è evidente che sullo sfondo di essi c’è il vecchio problema della «unità della storia d’Italia». Nell’articolo per “Le débat”, mi sono arrischiato a scrivere che il vero problema è costituito dal perché la asserita mancanza di questa unità sia avvertita come un problema. È infatti vero che non è facile trovare un filo conduttore che ci guidi attraverso le vicende della nostra storia. Ma, come è stato più volte osservato (rimando per tutti gli accenti polemici dalla prefazione che Vivanti e Romano hanno scritto per la Storia d’Italia, Einaudi), non è che le storie nazionali di altri Paesi europei pongano difficoltà molto minori. In altre parole, è sviante attribuire le nostre disunioni, le nostre debolezze presenti alla mancanza di unità della nostra storia. A produrle sono stati certo alcuni tratti caratteristici di essa, che i quattro interpellati mettono in luce, non il suo mancato carattere unitario. Se così fosse, i nostri mali sarebbero senza rimedio, mentre invece i rimedi ci sarebbero, solo che ritrovassimo tutti la forza per metterli in pratica. Non sono uno storico contemporaneo e trovo deplorevole che i non addetti ai lavori anche se storici di professione, ma di altre età, pronuncino giudizi su materie che, benché ancora scottanti, richiedono di essere trattate a tavolino col dovuto distacco e a prezzo della fatica necessaria per ottenere risultati “scientificamente” validi (mi servo di questo avverbio con intento provocatorio). Ma approfitto dell’occasione che mi viene offerta per dire la mia su un punto


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capitale. Non credo che il fascismo, soprattutto dopo la grande fatica di Renzo De Felice, costituisca più un problema, anche se, dopo avere subito l’oltraggio degli insulti “antifascisti”, oggi De Felice subisce l’oltraggio ancora maggiore dei complimenti d’obbligo che gli rivolgono gli ex-fascisti. Sarà banale il constatarlo, ma l’ottica del respice finem dovrebbe risparmiarci le sciocchezze del revisionismo, che è cosa ben diversa dallo studio spassionato dell’accaduto, con risultati sempre soggetti, non occorre dirlo, ad approfondimenti e a ripensamenti. Piuttosto, il compito veramente difficile che attende gli storici che si affacciano oggi agli studi è la storia degli ultimi cinquant’anni. Più ci penso, e più mi pare un intrico nel quale non saprei dove mettere le mani. Il Messaggero/Cultura e costume, 17 gennaio 1995 Idee/Concorsi universitari equi? Un proposta controcorrente Ricominciamo da cinque In tanto parlare di «regole», di quando in quando voce si leva per invocarne di nuove anche in materia di concorsi universitari, trovando echi nella stampa quotidiana, segno che ci si rende contro che la cosa riveste interesse per il futuro del paese. Di solito questi interventi hanno un tono moralistico, comprensibile ma sterile. La proposta che sto per avanzare non si pone di rendere più onesti noi potenziali giudici di concorsi universitari. Mira solo a consentirci di essere onesti, volendolo. O, se si preferisce, a renderci più agevole il compito di non essere disonesti. È, la mia, una proposta macchinosa, che, sono pronto a scommetterlo, non troverà del tutto consenziente neppure uno dei miei colleghi. Perché allora perdere tempo e chiedere ospitalità a un giornale? Perché ho la certezza che gli inconvenienti cui essa intende porre riparo, sono realmente


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tali. Quanto ai modi di farlo, mi limito a indicarne uno come possibile. Lascio ad altri la fatica di escogitarne di migliori. Per agevolarmi il compito, mi limiterò per oggi a parlare dei concorsi per la prima fascia (professore ordinario). Per entrare in medias res, scelgo un punto che attiene al dominio della cosiddetta «cultura materiale». Mettiamo che si tratti di un concorso della mia disciplina, che è la Storia medievale, e che i concorrenti siano ottanta. Quanti sono i giudici che hanno uno studio, privato o no, abbastanza spazioso da consentire non dico la semplice collocazione, ma la agevole consultazione, resa necessaria dall’esigenza di confrontare i titoli di un candidato con quelli di un altro, di una siffatta massa di carta stampata? E come potrebbero trovare il tempo, non dico di leggere, ma di sfogliare tutto con la dovuta attenzione, se non rimandando la decisione alle calende greche? Il problema si pone diversamente per le discipline che si servono di linguaggi molto formalizzati, di modo che i titoli dei candidati consistono di solito in poche pagine. Ma, anche in questo caso, occorrerà pure verificare i risultati, non bastando, a mio avviso, la garanzia che, a quanto si dice, sarebbe offerta dalla pubblicazione su riviste particolarmente qualificate, meglio se in lingua inglese. Rimane comunque aperta, anche se in questi casi che riconosciamo più fortunati, l’esigenza di mettere a confronto, di comparare. Un esercizio che non è possibile quando i candidati siano più, diciamo, di venticinque. Entrati nel cuore della questione, passo a esporre le linee essenziali del mio progetto. Non appena, in qualunque momento di qualsiasi anno, siano giunte al ministero tre richieste di concorso per una data disciplina, viene bandito il concorso relativo, nel senso che chi intende parteciparvi è invitato a inviare al ministero una domanda e un curriculum, con l’elenco delle pubblicazioni. Nei tempi più brevi possibili, domande e curricula vengono inviati ai professori della materia, con l’invito a indicare tre nomi.


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I ventidue aspiranti candidati che abbiano ottenuto più indicazioni, più i tre candidati segnalati da ciascuna delle sedi che hanno messo un posto a concorso, saranno i soli che potranno prendere parte al concorso vero e proprio per le tre cattedre in palio. I cinque giudici del concorso saranno eletti da un collegio elettorale attivo composto da tutti i professori della facoltà interessata o, almeno, del corso di laurea. Oltre ai tre vincitori, la commissione giudicatrice potrà indicare cinque concorrenti che acquisiscono il diritto di partecipare al concorso successivo, per il quale, dunque dovranno, a suo tempo, essere scelti solo diciassette candidati, tenendo conto dei tre designati dalle sedi. E così via. I concorsi, così come vengono espletati oggi, sono troppo rari, troppo affollati (è il punto di partenza della mia analisi) e durano troppo a lungo (come i processi). Inoltre, per i troppi posti messi in palio contemporaneamente, possono risolversi in autentiche catastrofi per una data disciplina. Gli eventuali vincitori non meritevoli saranno infatti possibili giudici dei concorsi successivi. Essenziale, in ogni modo (l’ha notato Cesare Segre), che i posti da assegnare siano in numero inferiore a quello dei giudici che li assegnano. Con la mia proposta, che prevede la designazione di cinque idonei a concorrere la prossima volta, si dovrebbe evitare che, come accade oggi, ogni concorso faccia storia a sé. Mentre il fatto di riconoscere alle sedi che mettono posti a concorso il diritto a indicare il loro candidato costituisce un equo, limitato riconoscimento dello ius loci. Due ultime notazioni. Al momento della prima selezione, gli aspiranti candidati avranno modo di farsi meglio conoscere inviando ai professori della materia il loro ultimo libro o estratto. L’elezione dei cinque giudici va riservata a un collegio elettorale molto più esteso di quello attuale. Riuscirebbero certamente elette commissioni più autorevoli.


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Il Messaggero/Cronache italiane, 16 aprile 1995 L’Università e le polemiche Il ministro Salvini si muove in un campo minato Marcello Pera ha ragione nel sostenere che il problema della riforma dei concorsi universitari andrebbe considerato nel contesto di una riforma globale dell’Università. Ma è anche vero che dal tempo del progetto Gui (chi se ne ricorda più?) progetti di riforma globale dell’Università non se ne sono più visti; che non si può attendere oltre a bandire nuovi concorsi; che è impossibile bandirli con l’attuale normativa, non fosse altro che negli ultimi tempi i casi di concorsi universitari che finiscono davanti al giudice, prima rarissimi, si vanno facendo sempre più frequenti. Ecco, allora, che anche la materia dei concorsi universitari è diventata urgente e si comprende che anche un governo «tecnico» come quello in carica abbia deciso di farsene carico. Pera ha torto marcio a buttarla in politica, prendendosela con i «progressisti». Sarebbe facile rispondergli che, dopo le prove del precedente governo non progressista in materia di Università e di scuola secondaria (per lo più progetti rimasti tali, ma anche le intenzioni fanno testo), una polemica del genere ha le armi spuntate. Non vorrei trovarmi nei panni dell’amico Salvini. Il campo sul quale è chiamato a intervenire è minato, perché decenni di malgoverno universitario, paradossalmente aggravati dall’unico tentativo serio di imboccare una strada nuova, quella dell’«autonomia», avviato dal ministro Ruberti, ma rimasto a metà, hanno prodotto guasti forse irreparabili. Una riforma parziale anche buona rischia di dare pessimi frutti, se incontra un terreno non preparato a riceverla. Da quanto ho detto fin qui chi è a conoscenza della materia del contendere avrà già capito che concordo in gran parte con le riserve espresse da Pera, tranne, ripeto, che per


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la fobia antiprogressista, qui del tutto fuori luogo. Il progetto Eco, che Salvini sembra avere fatto proprio, presuppone un esercizio dell’autonomia delle sedi universitarie, i cui limiti sono per ora non ben definiti. Il progetto che, da parte mia, avevo affidato il 17 gennaio scorso alle colonne di questo stesso giornale, andava in una direzione opposta dell’autonomia, che – a mio avviso – comporterebbe di necessità anche l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, proponevo una serie di correttivi volti a eliminare alcuni degli inconvenienti più macroscopici del sistema attuale, che, ridotto all’osso, consiste nel bando di concorsi nazionali per un determinato numero di posti. Il meccanismo farraginoso da me proposto presupponeva concorsi per pochi posti alla volta (solo tre), ma frequentissimi, con commissioni di cinque membri (due in più dei posti a concorso), ai quali si poteva essere ammessi solo dopo aver conseguito, in un giudizio precedente, l’idoneità a concorrere, onde evitare concorsi troppo affollati e, perciò, impraticabili. Anche il progetto Eco-Salvini prevede una lista di idonei, ma fra questi idonei i dipartimenti e le facoltà sarebbero lasciati liberi di scegliere gli effettivi vincitori. Un compromesso, dunque, fra concorso nazionale e concorso locale, che richiama quello che si è voluto fare in maniera elettorale fra sistema proporzionale e sistema maggioritario. Anche in questo caso senza pensare prima a riformare la Costituzione. Il Messaggero/Cultura, 16 giugno 1995 Parallelismi/Le antiche tecniche divinatorie e i test elettorali I sondaggi? Meglio affidarli alle stelle Fra “astrologia delle elezioni” e “sondaggi elettorali” c’è un’ingannevole assonanza, facile da denunciare e, insie-


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me, una sottile affinità, che merita di essere messa in rilievo, a conferma della persistenza, attraverso i secoli, di alcuni atteggiamenti mentali di fondo di chi governa. I “sondaggi elettorali” cui intendo riferirmi non sono quelli, futili, che vengono compiuti il giorno in cui le elezioni hanno luogo, interrogando un certo numero di elettori all’uscita dai seggi ma quelli, molto più impegnativi, che vengono commissionati ed effettuati in un giorno qualsiasi, per seguire l’andamento degli umori dell’elettorato, al fine di conoscere le reazioni di questo all’azione del governo (o dell’opposizione) e, in un sistema come il nostro, nel quale la data delle prossime elezioni è sempre solo virtuale, al fine di scegliere il giorno più adatto per andare a votare. L’“astrologia delle elezioni” ci rimanda invece a tempi lontani e poiché siamo in pieno anno federiciano (ottavo centenario della nascita di Federico II), è al secolo XIII che faremo particolare riferimento, quando questa tecnica divinatoria fu tenuta in gran conto dai ceti dominanti. Anche le nostre “elezioni” sono anch’esse delle electiones, cioè delle “scelte”, le “scelte”, per cui ci si rivolgeva allora agli esperti del settore, non avevano nulla a che vedere con le consultazioni popolari nei regimi democratici moderni (ecco la falsa assonanza). Le scelte, per le quali, prima di compierle, si riteneva opportuno di interrogare gli astri, concernevano il giorno in cui dare battaglia con speranza di successo, o sposarsi, o intraprendere un viaggio pericoloso, o gettare le fondamenta di una nuova città. O, per un vescovo eletto, la scelta del giorno in cui farsi solennemente ordinare. Poiché questo tipo di astrologia, orientata a consentire la scelta del momento più opportuno per fare qualcosa, non comportava nessuna limitazione dell’onnipotenza di Dio o del libero arbitrio dell’uomo, com’era invece il caso degli oroscopi ricavati dalla data di nascita, l’astrologia delle elezioni non destava, infatti, alcun sospetto da parte della Chiesa.


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La fiducia in questo strumento, che si riteneva idoneo a garantire il sicuro successo di un’impresa cui si era dato avvio dopo aver fatto buon uso di esso, era tale che, se l’impresa falliva, i cronisti del tempo non perdevano tempo nel valutare la correttezza della decisione in sé da un punto di vista politico, ma si ingegnavano a individuare il particolare nel rilevamento del quale l’astrologo interpellato per l’occasione poteva aver sbagliato o non tenuto debitamente presente. A meno che il cielo nuvoloso non avesse impedito il rilevamento stesso dei dati astronomici, come accadde una volta a Teodoro “il filosofo”, un’illustrazione del tempo, che col suo astrolabio passò una notte sulla torre del palazzo del comune di Padova, in attesa di una schiarita che non venne, e non fu in grado di fornire in tempo utile a Federico II la prestazione richiesta, con esito funesto – manco a dirlo – per l’imperatore. Va da sé che i detentori di questa tecnica erano i consiglieri più ascoltati dai loro committenti laici ed ecclesiastici, che se ne contendevano i servizi pagando, senza battere ciglio, compensi adeguati. L’aspetto preoccupante che accomuna le prestazioni degli specialisti di sondaggi elettorali di oggi e di rilevamenti astrologici di ieri, è indipendentemente dalla valutazione del grado di scientificità dei metodi rispettivamente usati, comunque tutt’altro che trascurabile negli astrologi di corte di Federico II e di Ezzelino Romano, l’atrofizzazione del fiuto politico, che il ricorso a queste tecniche produce, – quel sesto senso di cui gli uomini politici di una volta andavano giustamente fieri. Mentre il preteso possesso di una ricetta sicura per vincere induce a sentirsi con troppa facilità uomini della Provvidenza.


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Il Messaggero/Cultura, 20 settembre 1995 Date che scottano/Un secolo fa, dopo ben 25 anni di silenzio, si celebrava per la prima volta il Venti settembre, anniversario della presa di Roma. Ma a destra e sinistra fu polemica. Perfino il generale dei bersaglieri disse no E Cadorna ripudiò Porta Pia* La celebrazione dell’anniversario di Roma capitale ha cessato di avere un senso nel momento in cui il ricordo della breccia di Porta Pia ha smesso di dare fastidio ai «preti», ormai quasi disposti a celebrarlo anch’essi come una liberazione dai fasti e nefasti del dominio temporale. Ma il 20 settembre di quest’anno, oltre ad essere il centoventicinquesimo anniversario, è anche il centenario della prima celebrazione ufficiale della Breccia, che fu tenuta ben venticinque anni dopo l’apertura della medesima e culminò nell’inaugurazione del monumento a Garibaldi sul Gianicolo. La «storia delle commemorazioni» è diventata, per iniziativa del contemporaneista francese Pierre Nora, un nuovo genere storiografico. Come sempre accade, anche questa proposta rischia di dare vita a una moda, che non va incoraggiata. Resta il fatto che le polemiche che hanno accompagnato la celebrazione del 20 settembre 1895 rispecchiano le inquietudini e le contraddizioni che pervadevano la vita del nostro Paese alla fine del secolo scorso. A portare l’Italia a Roma con la forza delle armi era stata la Destra, con la ferma determinazione di chi aveva la consapevolezza che non si poteva fare altrimenti, pur sapendo di farla grossa. Nel motivare il rifiuto a prendere parte alle manifestazioni indette per il 20 settembre 1895, il generale Raffaele Cadorna, che aveva comandato i reparti

* Si veda, in questo volume, Il Giornale, Quella breccia fatale, 20 settembre 1977.


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cui fu affidata l’operazione, scriveva: «Mi compiacerò di ricordare che fui semplice esecutore dei voleri di un Re, di un Governo, di una rappresentanza nazionale che, nell’ineluttabile necessità di ridonare all’Italia la sua capitale, vollero che si tentasse ogni mezzo persuasivo prima di addivenire alla regione delle armi». Non è un caso che Quintino Sella avesse insistito che gli fosse affiancato nel comando il generale Bixio, che si sapeva più spicciativo. Si comprende, dunque, che, portata a termine l’operazione in modo relativamente indolore (sulla foto commemorativa della Breccia furono aggiunte sagome di morti per accrescere il valore militare dell’impresa), si fosse evitato di riaprire la ferita, a ogni venti settembre, con una celebrazione ufficiale. Del resto, neanche la Sinistra, al potere dal ’76, si affannò a riparare a tale omissione. E anche quando, nel luglio ’95 fu discusso alla Camera il progetto legge Vischi, secondo cui il 20 settembre andava aggiunto ai giorni dichiarati festivi per gli effetti civili (non, si badi bene, proclamato festa nazionale), il presidente del Consiglio, che era allora Francesco Crispi, si espresse in termini non propriamente entusiastici: «Il 20 settembre è stato sempre festeggiato dal popolo, ed una prescrizione, un ordine a festeggiarlo non sarebbero necessari… Nulladimeno, una volta che la legge fu portata alla Camera, il rifiuto alla medesima sarebbe un’offesa alla coscienza nazionale». Già nella discussione del progetto Vischi nei due rami del Parlamento, le voci in senso contrario furono numerose e, ciò che più conta, di diversa provenienza, anche se in Senato il dibattito fu caratterizzato da una maggiore accentuazione delle opposizioni di destra, pronte a denunciare il patrocinio massonico dell’iniziativa. Ma l’on. Colaianni colse l’occasione per polemizzare contro la «politica a partita doppia del governo», colpevole di carezzare troppo il clero in vista delle elezioni; l’onorevole Imbriani motivò il suo rifiuto dicendo che, prima di pensare a celebrare la


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presa di Roma, bisognava preoccuparsi di riaffermare «la dignità della patria ai piedi delle Alpi Giulie»; ancora più insidiosamente, l’onorevole Costa subordinò il suo voto favorevole alla condizione che «in quel giorno nessun italiano dovesse ancora languire nel domicilio coatto; nelle carceri o nelle galere». Si ricordi che, nel gennaio dell’anno precedente, Crispi aveva proclamato lo stato d’assedio in Sicilia, dove vennero sciolti i Fasci, e in Lunigiana, per reprimere i moti anarchici, e che in ottobre aveva decretato lo scioglimento delle organizzazioni socialiste. La sorte dei condannati dai tribunali militari dei generali Morra di Lavriano e Heusch divideva gli animi dei deputati più di quanto ormai non li unisse il ricordo di Porta Pia. La legge Vischi fu approvata giusto due mesi prima della data fatidica. Crispi fece del suo meglio per cercare di dare vita a una festa in cui tutti gli italiani si riconoscessero, qualcosa di simile a ciò che sarebbe finito con il diventare il Quattordici Luglio francese. Ci riuscì fino a un certo punto, preoccupato com’era di mantenere le celebrazioni nei limiti dell’impostazione di fondo della politica governativa. La cronaca di quei due mesi e poi della giornata del 20 settembre è piena d episodi gustosi, sui quale sarebbe facile fare dell’ironia. Erano le debolezze congenite del nuovo stato unitario, la sua fragilità strutturale, che venivano impietosamente a galla per l’occasione. Basti un esempio. In coincidenza con l’inaugurazione del monumento a Garibaldi, irredentisti e repubblicani organizzarono lo scoprimento di un busto, sempre sul Gianicolo, in memoria di un garibaldino triestino morto al Vascello nel 1849. Ecco come il prefetto Guiccioli informò il ministro dell’Interno dell’accaduto: «Un centinaio di persone capitanate da Barzilai, Vendemini e Mazza pel nuovo viale si portò improvvisamente presso il Vascello e tolse la stuoia che copriva il busto di Venezian: la guardia colà di piantone corse ad avvertire il delegato De Lellis di servizio


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con truppa e carabinieri a piedi ed a cavallo a Porta S. Pancrazio, ma egli rispose non essere in sua facoltà occuparsi di ciò che stava facendosi». Il tempo occorso non era stato più di otto minuti. Ma il «Don Chisciotte» non perse l’occasione per dare addosso al governo: «Sul Gianicolo, con grande soffocatrice pompa ufficiale, si inaugurava un monumento a Garibaldi, ma si vieta il busto a un garibaldino… Si finirà coll’essere pel Giordano senza il Bruno, allo stesso modo che si vuole il cattolicesimo senza il Papa, Garibaldi senza i garibaldini, la patria senza Trieste, la grazia senza l’amnistia promessa». Il Messaggero, 26 maggio 1996 Non era un revisionista, osava pensare fuori dal gregge Dopo Romeo e Spadolini, ci ha lasciati anzitempo anche Renzo De Felice, che, insieme ai primi due, formava un sodalizio fondato non sulla sola amicizia, ma anche, di là delle inevitabili disparità di giudizio, su alcuni saldi convincimenti comuni*. Benché ripetutamente invitato a farlo, De Felice non ha mai abbandonato il suo tavolo di lavoro per scendere nell’agone politico, come Spadolini ha fatto molto per tempo, e Romeo solo da ultimo. Ma Romeo ha finito il suo Cavour; De Felice è morto prima di aver terminato il suo Mussolini, ciò che accresce in misura molto notevole il dolore e il rimpianto di chi gli è stato amico. Renzo era solito celiare con gli amici sulla gara per la sopravvivenza che si era venuta a instaurare fra lui e il suo biografo. Lo faceva probabilmente per scaramanzia, ma noi che lo sapevamo seriamente ammalato, eravamo sempre meno disposti a sorridere alla sua celia.

* Renzo De Felice muore il 25 maggio 1996.


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La fatica anche fisica, che egli ha sostenuto per decenni sottoponendosi a un lavoro massacrante, almeno questo, se non altro, dovrebbe incutere rispetto ai suoi avversari che restano numerosi. Anche se, al momento opportuno, Giorgio Amendola ha messo a tacere coloro che, in quelli che sono stati gli anni più bui per la cultura e il giornalismo italiani, avevano osato addirittura chiedere che gli fosse tolta la cattedra universitaria. De Felice non è stato uno storico revisionista, nel senso giustamente peggiorativo che questo termine ha assunto in riferimento ad alcuni casi specifici. Quando De Felice ha cominciato a scrivere la sua monumentale biografia di Mussolini, il fascismo aveva assunto la funzione di un grande cemento unitario: era il «nemico oggettivo» contro cui, fra l’altro, manifestavano a Milano, il sabato pomeriggio, i collettivi studenteschi. Chi non è con noi, è contro di noi; chi è contro di noi, è fascista. Era un po’ come la Chiesa del Medioevo, che, di fronte a un fenomeno ereticale nuovo, faceva di tutto per ricondurlo nei limiti di un’eresia già condannata in passato. La verità, come l’errore, stabiliti ab aeterno. A mettere in crisi questa impostazione ha certo contribuito l’affievolirsi del sovversivismo di destra. Ma il merito principale va riconosciuto a uno storico di professione, come Renzo De Felice, che ha affrontato il problema del fascismo come problema storiografico, sottraendolo al dominio della pubblicistica di più o meno dichiarata ispirazione politica. Il Messaggero, 6 settembre 1996 Idee/Latino, greco, storia: alcune proposte in vista della riforma della scuola secondaria superiore Il Novecento? Va insegnato anche nel “nuovo” biennio Sia la riforma della scuola secondaria superiore che il prolungamento dell’obbligo di istruzione da 8 a 10 anni complessivi sono ormai indilazionabili. Le difficoltà che


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incontra l’effettuazione della riforma risalgono in gran parte proprio alla necessità di tenere conto del contestuale prolungamento dell’obbligo. Il problema non si pone per i molti, i troppi, che stando a recenti statistiche, non fanno in tempo a completare entro il quattordicesimo anno d’età il triennio della scuola secondaria inferiore. Disponendo di altri due anni, costoro vedranno accresciute le probabilità di conseguire il diploma della secondaria inferiore. Questo e non altro. Impossibile da prevedere è invece la percentuale di quanti, superati entro gli otto anni dell’obbligo attuale i cicli delle scuole elementare e secondaria inferiore, impiegheranno i due nuovi anni di obbligo per frequentare i primi due anni della nuova scuola secondaria superiore, per poi, assolto l’obbligo, abbandonare. Il peso da dare, nella configurazione della secondaria superiore, alle esigenze normative di questi “biennalisti” rispetto a quelle di coloro che frequenteranno tutti i cinque anni di corso, costituiscono il punto controverso. Chi si preoccupa di più di coloro che abbandoneranno, tende a concepire il primo biennio come un segmento aggiuntivo dell’inferiore. Chi si preoccupa di più di coloro che continueranno, tende a concepire il biennio come parte integrante a tutti gli effetti di una scuola superiore di durata quinquennale. Si tratta di esigenze entrambe fondate e, a prima vista, inconciliabili. Tanto è vero che di riforma della secondaria superiore e di prolungamento dell’obbligo si parla da anni, senza venirne a capo. Poiché, invece, tutti sono concordi nel dire che entrambi i nodi vanno sciolti, è evidente che occorre trovare un possibile punto di equilibrio fra le due opposte esigenze, lasciando da parte i partiti persi. Senza pretendere di esaurire l’argomento, che è molto complesso, mi limiterò ad accennare a due punti particolarmente caldi: quello che concerne l’insegnamento del latino e del greco, e quello che concerne l’insegnamento della storia.


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La nuova scuola secondaria superiore, soprattutto per ciò che riguarda il biennio iniziale, non potrà non avere una forte impronta unitaria. Da qui discende l’esigenza di sacrificare testate (il liceo classico!) giustamente care a molti italiani. L’unitarietà non esclude però la pluralità degli indirizzi. A discipline comuni a tutti gli indirizzi si potranno affiancare discipline specifiche di singoli indirizzi. Uno di questi indirizzi non potrà non essere quello “classico”, con il latino e il greco insegnati fino dal biennio, pena il taglio di una radice essenziale della nostra civiltà. Fra le discipline comuni a tutti gli indirizzi, naturalmente, la storia. Il tentativo, che è stato fatto negli anni passati, di prevedere per il biennio, pensando a quelli che abbandonano, un programma di storia contemporanea, ha urtato contro la manifesta impossibilità di comprimere nel successivo triennio lo studio della storia dalla comparsa dell’uomo sulla terra ai giorni nostri. Mentre la distribuzione della materia su cinque anni consentirebbe di riservare l’ultimo, per intero, alla storia del Novecento. In questo modo, si dirà, quelli che abbandonano dopo il biennio non sapranno nulla della seconda guerra mondiale. Occorrerà, per riparare, fare più spazio alla storia contemporanea nel programma della secondaria inferiore. E, soprattutto, adoperarsi a che il programma per il biennio della superiore abbia un forte valore formativo, anche se i contenuti concernono età remote dalla nostra. In ciò che ho scritto non c’è nulla di nuovo. Sono concetti consacrati in testi ufficiali che sono da tempo di pubblico dominio e sui quali sembrava esserci un accordo di massima fra le forze politiche. Rimettere tutto in discussione non porterebbe a niente.


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Il Messaggero, 9 marzo 1997 Uno storico spiega l’evoluzione dei programmi nelle scuole Ecco perché abbiamo scelto di insegnare il Ventesimo secolo Il periodizzamento della storia è diventato inaspettatamente un problema di moda. La stampa quotidiana gli ha dedicato molto spazio, ospitando opinioni appassionatamente discordanti fra loro. All’origine di questo interesse c’è il Decreto numero 682 del Ministro della Pubblica Istruzione, del 4 novembre 1996, che reca “Modifiche delle disposizioni relative alla suddivisione annuale del programma di storia”. «Pensare la storia – scriveva Benedetto Croce – è certamente periodizzarla, perché il pensiero è organismo, dialettica, dramma, e, come tale, ha i suoi periodi, il suo principio, il suo mezzo e la sua fine, e tutte le altre pause ideali che un dramma comporta e richiede». «Sennonché – proseguiva – i bisogni pratici del cronachismo e dell’erudizione interferiscono anche in questa parte». Interferiscono anche i bisogni delle scuole dove la storia viene insegnata, aggiungiamo noi, insinuando che di questa verità elementare non sembrano avere tenuto conto quasi tutti coloro che sono intervenuti nella discussione. Un’insinuazione, la nostra, che non prelude affatto a una difesa d’ufficio del Diktat ministeriale, ma vuole soltanto indicare i termini entro i quali la discussione va mantenuta. È evidente, per esempio, che i limiti cronologici fissati dall’articolo 1 per la suddivisione annuale del programma dei Licei classici, scientifici, linguistici e degli Istituti tecnici, non possono essere adattati, mediante inaccettabili forzature, anche ai programmi per le scuole superiori a ciclo quadriennale (articolo 2) e, tanto meno, al programma per la Scuola media (articolo 3), che ha durata triennale. Si tratta di storture alle quali occorre porre subito riparo.


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La suddivisione proposta per il quinquennio, la sola di cui valga la pena di discutere, prevede, per il primo anno, il periodo dalla preistoria ai primi due secoli dell’Impero romano; per il secondo, il periodo che va dall’età dei Severi alla metà del XIV secolo; per il terzo, quello che va dalla crisi socio-economica del XIV secolo alla prima metà del Seicento; per il quarto, il tratto seconda metà del Seicentofine Ottocento; per il quinto, il Novecento. I programmi in vigore prima del decreto prevedevano, per ciò che concerne i due anni del Ginnasio superiore più alti tre del Liceo classico, e i cinque anni del Liceo scientifico, la suddivisione seguente: I) L’Oriente e la Grecia; II) Roma e la civiltà romana; III) Dal Medioevo al Rinascimento; IV) L’età moderna (fino al Congresso di Vienna); V) L’età contemporanea. Il piccolo terremoto è stato dovuto all’esigenza molto sentita di assicurare uno spazio, maggiore di quello che le viene riservato attualmente, alla storia dell’ultimo secolo, che ora ha per sé un intero anno. L’indicazione contenuta nell’articolo 4 del decreto, secondo cui «lo svolgimento del programma dell’ultimo anno dovrà essere caratterizzato, oltre che da continuità di sviluppo come negli anni precedenti, anche da maggiore ricchezza di dati e di riferimenti», dovrebbe, se le parole hanno un senso, scongiurare il pericolo, giustamente paventato da alcuni critici del decreto, che l’attenzione degli insegnanti si concentri su alcuni luoghi topici del nostro secolo, che si prestano maggiormente all’imbonitura ideologica. Era inevitabile che la scelta fatta per l’ultimo anno si ripercuotesse sui quattro anni precedenti. Avendo fatto parte della commissione ministeriale, che, ben prima che l’attuale ministro entrasse in carica, aveva avuto affidato l’incarico di redigere una bozza di nuovi programmi di storia per il quinquennio delle superiori, sono in grado di esporre i criteri che ci hanno guidato nella determi-


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nazione della suddivisione annuale, che il ministro Luigi Berlinguer ha fatto propria. Dato per scontato che non era neppur pensabile una rinuncia all’insegnamento della storia antica, che pure in una certa fase della lunga vicenda della riscrittura dei programmi per le scuole superiori era stata ventilata, si trattava di evitare che la frenata finale (un secolo solo per un anno intero) fosse troppo brusca. Altrimenti, procedendo solo per piccoli aggiustamenti, si sarebbe finito col sacrificare l’età moderna, che ormai ingloba anche l’Ottocento. Se è vero che il programma del primo anno risulta molto pesante, è anche vero che la necessità in cui ci si è trovati di fare studiare parallelamente, e non, come una volta, una di seguito all’altra, le storie di Grecia e Roma antiche, si è risolta in un progresso. A coloro che lamentano la mutilazione del medioevo tradizionale (476-1492) si può replicare che l’erosione in atto dell’alto medioevo da parte della tarda antichità giustifica pienamente il tragitto previsto dal programma per il secondo anno, che parte dal Terzo secolo. Mentre, se è vero che la crisi socio-economica (e demografica!) di metà del secolo XIV ha avuto conseguenze sulle quali si continua a discutere, è anche vero che il pieno Rinascimento non è più considerato una cesura, come si riteneva una volta, fra età medievale ed età moderna. Non a caso, si parla di un “medioevo lungo”, che, amputato del suo prologo altomedievale, si distenderebbe da subito dopo il mille addirittura fino alla vigilia della Rivoluzione francese. Ma, a guardare bene, non è sul piano scientifico-storiografico che la nuova suddivisione annuale va giudicata. Il punto è se essa risponda, oppure no, ai “bisogni pratici”, di cui parlava Croce. È comunque da deplorare che lo sbandieramento che è stato fatto in varie sedi, non solo giornalistiche ma anche


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ministeriali, sul maggior posto che si è voluto riservare allo studio degli avvenimenti del secolo XX, abbia finito con l’ingenerare in molti la falsa impressione che d’ora in avanti nelle scuole italiane si sarebbe studiata solo la storia del secolo che sta per finire. Un’eventualità che, ne siamo certi, nessuno si è mai sognato di prendere in considerazione. Corriere della Sera/Lettere al Corriere, data mancante [probabilmente 1973] Norme per l’università con Gennaro Sasso Sul «Corriere» di sabato 31 ottobre, R.M. dà notizia dell’accordo intervenuto alla commissione pubblica istruzione del Senato circa le norme per l’ammissione (parte ope legis, parte mediante concorsi riservati) di settemila professori nel ruolo di «docente unico», previsto dal progetto di riforma universitaria, attualmente all’esame della commissione stessa. Poiché al riguardo regna la massima disinformazione, è bene che l’opinione pubblica sappia in che cosa esattamente consista questa operazione, da troppe parti propagandata come democratica e progressiva. Riteniamo infatti che queste norme transitorie non producano un allargamento reale del corpo insegnante, non distribuiscano meglio i professori fra le varie discipline, non costituiscano un provvedimento di giustizia e confermino infine la assenza di ogni autentica intenzione riformatrice nel presente progetto di legge. 1) Contrariamente a ciò che viene detto e ripetuto, l’immissione nel ruolo di docente unico di settemila fra gli attuali incaricati ed assistenti non rappresenta in nessun modo un allargamento del corpo docente e non consente quindi di migliorare il rapporto numerico fra discenti e docenti. Se infatti è vero (ed è vero) che i settemila in questione esercitano già la piena funzione di docente, allora


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non si vede in che modo la loro promozione, ope legis o mediante concorsi riservati, modificherebbe la situazione dal punto di vista numerico. Tanti sono e tanti resteranno. 2) Oltre a non produrre un effettivo allargamento del corpo docente, la progettata operazione non avrebbe nemmeno l’effetto di attuare una migliore distribuzione dei docenti fra le varie discipline. I settemila hanno infatti accumulato i loro titoli didattici e scientifici in una situazione che la legge di liberalizzazione dei piani di studio, decretata l’anno scorso, sta rapidamente trasformando. 3) L’indiscriminata immissione nel ruolo di «docente unico» di settemila assistenti e incaricati non può essere configurata come un provvedimento di giustizia. Se si hanno a cuore le sorti dell’Università, bisogna pur dire che, fra i settemila professori in questione, certamente molti non hanno alcuna reale capacità scientifica e sono stati chiamati nell’Università dalla incoscienza di molti degli attuali ordinari. Una legge assurdamente nata solo per colpire questi ultimi finisce quindi per santificarne l’opera proprio nei suoi aspetti meno pregevoli. Né vale opporre l’argomento che questi stessi professori ordinari avrebbero comunque esercitato la loro incoscienza anche in sede di concorsi espletati alla vecchia maniera: se invece di sprecare tempo ed ingegno a formulare i mortificanti meccanismi di conteggio previsti dalle norme transitorie, si fosse pensato con un poco di sistematicità intorno al modo di rendere più serio e spedito l’insostituibile sistema dei concorsi, si sarebbe operato non in pro di una categoria, ma dell’università. 4) È deplorevole infine che, al di là di coperture «ideali» sempre più tenui (l’ignobile, e certo né progressivo né democratico, compromesso raggiunto sul full time insegni), il tema della sistemazione in ruolo di assistenti e incaricati abbia finito col diventare non l’appendice, ma l’unico contenuto reale (anche in termini di spesa) della riforma.


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Ciò che si pensa di fare per il personale docente presuppone che si sia già scelta la strada della «licealizzazione» dell’Università. Spetterebbe anzi tutto al ministro della pubblica istruzione di spiegare come le norme transitorie, uscite dalla commissione del Senato, si accordino con l’idea di una Università selettiva, da lui in più occasioni espressa.


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SOMMARIO Gennaro Sasso, Ricordi di Gilmo Arnaldi . . . . . . . . . . Pag.

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Giuseppe Galasso, Attualità della storia . . . . . . . . . . .

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Amedeo Feniello, Medioevo sui giornali. Guida alla lettura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Massimo Miglio, Girolamo Arnaldi, storico “nuovo” del Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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MEDIOEVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Etica economica medievale . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Forse parroco vuol dire vivandiere . . . . . . Il Giornale, Il paesaggio europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Commonwealth bizantino . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Galla Placidia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Maometto e Carlomagno ovverosia il canale e il referendum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, La leggenda “progressista” dell’«oscuro Mille» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Europa Medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Diecimila navi contro i barbari . . . . . . . . . Il Giornale, Tutto più facile nel Medioevo . . . . . . . . . Il Giornale, Scienza a Bologna, a Napoli miracoli . . . . Il Giornale, Lambardi e Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Quel fatale lunedì di Pasqua . . . . . . . . . . Il Giornale nuovo, Mercati e trascendenza . . . . . . . . . Il Giornale, Dove riposa san Tommaso . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Sulle tracce dell’imperatore . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Maigret del ’300 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, In nome del Papa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, C’è anche l’«eurofeudalesimo» . . . . . . . . Storia illustrata, Anticristo o Messia? . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Il valore dei cocci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale nuovo, Soldo antico . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Tredici secoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


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SOMMARIO

Il Giornale nuovo, Specchio a tre facce . . . . . . . . . . . . Il Giornale di Sicilia, Un inedito di Croce sulla ristampa di Amari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Sotto il segno dell’anacoreta . . . . . . . . . . . Il Giornale, L’imbroglio bulgaro . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, La storia e il suo sguardo . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Se lo storico di occupa anche dei pesci . . . Il Giornale, All’armi per settecento anni . . . . . . . . . . . Il Giornale, Come il ghetto prosperò in Laguna . . . . . Il Giornale, Colonia antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Tempo, Le origini lontane dell’università del sapere Il Tempo, Il suo falso conservatorismo . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Battesimo, dagli splendori alla decadenza Il Giornale nuovo, Il campione dei tornei . . . . . . . . . . Il Messaggero, La storia raccontabile . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, E poi spunta la camera da letto . . . . . . Il Messaggero, Com’è dotto il volgare . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Metti pepe sulla stupidità . . . . . . . . . . Il Messaggero, Prove di fuoco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Venerare il sapere, diffidare dei miracoli Il Messaggero Più, Ravenna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, I presagi del monaco e l’apocalisse mancata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Quei paesaggi agrari che fecero la Storia Il Messaggero Più, La Roma dei primi papi . . . . . . . . Il Messaggero Più, Rimini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Decapitatelo pure se vive di Stato . . . . Il Messaggero Più, Nel Purgatorio di Dante il rimpianto del tempo che fu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, E il secolo di ferro cambiò il mondo . . Il Messaggero, Così civili, così barbari . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Un detective del Medioevo . . . . . . . . . Il Messaggero, Il diavolo con la cuffietta . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Un romantico in Vaticano . . . . . . . . . . Il Messaggero, Bisanzio, capitale d’Europa . . . . . . . . . Il Messaggero Più, Grande per i grandi . . . . . . . . . . . . Il Messaggero Più, Alla salute del papa . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Costantinopoli, l’Eterna . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Così il Papa studiava la natura . . . . . . Il Messaggero, Il Decamerone ritrovato . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il ritorno dei cavalieri . . . . . . . . . . . . .

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SOMMARIO

Il Messaggero, Il principe e il povero . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, La corsa di Lorenzo, i passi di Martino V Il Messaggero, Non solo per profitto . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Una veneta alla corte di Carlo Magno Il Messaggero, Dante e le dame galeotte . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Chi dice Spagna dice Isabella . . . . . . . Il Messaggero, Sbagliando si scopre . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Che ladro, è un vero gentiluomo . . . . Il Messaggero, E l’imperatore pentito s’inchino a sant’Ambrogio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Quella cattedrale sotto il fienile . . . . . Il Messaggero, Il Medio Evo parola per parola . . . . . . Il Messaggero, Sacre scritture? Meglio a fumetti . . . . Il Messaggero, Tra i chiostri virtuali . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, E il popolo ordinò: «Potenti, giù la testa» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Ferma la storia sulla pelle di pecora . . Il Messaggero, L’umanesimo al tempo di Dante . . . . . Il Messaggero, Ecco Machiavelli il Magnifico . . . . . . . Il Messaggero, Ma Croce si sbagliava . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, A ciascuno il suo Santo protettore . . . Il Messaggero, Ma al giudice vescovo bastava un’ammenda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Riabilitare l’Inquisizione, che vergogna Il Messaggero, Il viaggio di Enrico VII, che bella sceneggiatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Federico II, dopo Dante c’è chi vuole metterlo davvero all’Inferno . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Federico val bene un volumetto . . . . . Il Messaggero, Per il feroce Tamerlano una parziale riabilitazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Le “buone guerre”? Non sono mai esistite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Aria di affari da Giubileo per il tesoro di san Francesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, E il Papa decise: chiamo il medico . . . Il Messaggero, Le strade della fede portano a Roma . Il Messaggero, Centocinquanta storici a Roma . . . . . . Il Messaggero, Bloch, uno storico che non volle “prestarsi” alla politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il potere delle donne passava per l’alcova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Il Messaggero, Clodoveo, il piccolo re che volle farsi cattolico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Così era Ezzelino, gigante del male . . Il Messaggero, Duby, il volto privato della Storia . . . . Il Messaggero, E papa Urbano disse: liberiamo il Santo Sepolcro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, E l’invenzione arrivò in Italia a dorso di mulo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Pietro Aretino, flagellatore dei principi Il Messaggero, L’Italia torna a bere alle fonti medievali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Corriere della Sera, La questione Nord-Sud nacque con i Longobardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LIBRI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Caffè Recensioni, L’ultimo Bontempelli . . . . . . . . . Il Mondo, Il rigorista Muratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Il passato per il futuro . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, La «galassia» Gutenberg . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Cervellati fa la storia . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Il dettatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Don Giustino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Una vita tessuta con le parole . . . . . . . . . Il Giornale, Lady Chatterley e il senatore . . . . . . . . . . Il Giornale, La strada della speranza . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Un’avventura personale . . . . . . . . . . . Il Messaggero, La fortezza di carta . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Sapore d’Ottocento in casa Citati . . . . Il Messaggero, L’importanza di stare al centro . . . . . . Il Messaggero, Né con Croce né con Marx . . . . . . . . . Il Messaggero, Contro le ideologie per descrivere una nazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il paladino della storia globale . . . . . . Il Messaggero, Quel soldino di Pio IX . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Tredicesimo, non spergiurare . . . . . . . Il Messaggero, Una scoperta da verificare . . . . . . . . . . Il Messaggero, Innocenzo XII: «A morte». E fu preda del dubbio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il Lazio. Una storia stravolta dalla Costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CULTURA E SOCIETÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gioventù liberale, Non voler essere minori . . . . . . . . Il Punto, Una rivoluzione mancata all’origine dell’Italia moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europeo, Il diario di Jerry Shank . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Nota . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Voltare pagina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Le libertà universitarie e la polizia negli atenei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, La scheda dello storico . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Il voto nelle università . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Gli «arcana imperii» dei PCI . . . . . . . . . . L’Europa, A che punto siamo con l’attuazione delle «misure urgenti per l’Università»? . . . . . . . . . . . L’Europa, La «laicizzazione» della DC . . . . . . . . . . . L’Europa, Filologia, storia e industria culturale . . . . . L’Europa, La Chiesa non è più di là dal fiume . . . . . . L’Europa, Il «laicismo» dei laici . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Un futuro per i «laici» . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, Il passo falso di Amalrik: una tesi sulla «Russia di Kiev» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, La scorza di fuori e il midollo di dentro . . Il Giornale, Geografia alleata della storia . . . . . . . . . . L’Europa, La «rifondazione» e lo scisma . . . . . . . . . . L’Europa, «Identikit» dei Maroniti . . . . . . . . . . . . . . L’Europa, La dichiarazione dei vescovi . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Il vuoto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Alleanza e verità sgradevoli . . . . . . . . . . . L’Europeo, La logica della proposta comunista per l’Università . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Come uscire dal ghetto . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Cultura e forza del numero . . . . . . . . . . . Il Giornale, Area di parcheggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Verso il numero «semichiuso» . . . . . . . . Il Giornale, «Guerra» a Malfatti . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Quella breccia fatale . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, La sfinge comunista . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Su Moro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Rivoluzione in due tempi . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Il cerchio si stringe . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Black-out d’archivio . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Il Giornale, Cattolici senza miracoli . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Un italiano diverso . . . . . . . . . . . . . . . . . Viterbo. La Provincia, Storia e scienze del territorio dell’università di domani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Quando lo storico faceva i conti col duce La Voce Repubblicana, Perché così tardi la “scoperta” di Aron? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, A prova d’evasione (fiscale) . . . . . . . . . . . Il Giornale, Dall’Unità d’Italia all’Europa unita . . . . Il Messaggero, Con il sospetto nel cuore . . . . . . . . . . . La Voce Repubblicana, Quel vicentino raffinato che guardava all’Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Corriere della Sera, Due occhi nuovi su un millennio Il Messaggero, Un cocktail per il biennio . . . . . . . . . . Il Messaggero, Guardate la Storia: è proprio uno spettacolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Giornale, Quando è il potere che fa il monaco . . . . La Repubblica, Lettera a un soldato della libertà . . . . Il Messaggero, Troviamo insieme le parole per parlare a quei ragazzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Ma il secolo dei totalitarismi non si è concluso: il pericolo è il caos . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Una finestra su Roma . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Le violenze dei nuovi razzisti minacciano il nostro futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, A Mosca, come per la papessa Giovanna Il Messaggero, Meridione e criminalità . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il meschino calcolo dell’Europa delle etnie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il video, che circo . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, L’utopia di Tocqueville sui banchi di scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Anche Raffaello è una bandiera . . . . . Il Messaggero, Dobbiamo nutrire la memoria perché quell’orrore non si ripeta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il padre di un nuovo Risorgimento . . . Il Messaggero, Intellettuali contro borghesia? Colpa della scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Storie e Dossier, Il filo di Arianna . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Ricominciamo da cinque . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il ministro Salvini si muove in un campo minato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SOMMARIO

Il Messaggero, I sondaggi? Meglio affidarli alle stelle Il Messaggero, E Cadorna ripudiò Porta Pia . . . . . . . Il Messaggero, Non era un revisionista, osava pensare fuori dal gregge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Il Novecento? Va insegnato anche nel “nuovo” biennio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Messaggero, Ecco perché abbiamo scelto di insegnare il Ventesimo secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Corriere della Sera, Norme per l’università . . . . . . . .

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