I diseredati

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François-Xavier Bellamy

I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere Traduzione di Hélène Gaudin e Carla Pellandra Cazzoli Edizione italiana a cura di Emanuele Maffi e Raffaela Paggi


François-Xavier Bellamy I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere www.itacaedizioni.it/i-diseredati Prima edizione italiana: ottobre 2016 Titolo originale: Les déshérités ou l’urgence de transmettre © 2014 Editions Plon, Paris © 2016 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0507-9 Itaca srl via dell’Industria, 249 48014 Castel Bolognese (RA) - Italy tel. +39 0546 656188 fax +39 0546 652098 e-mail: itaca@itacalibri.it in libreria: www.itacaedizioni.it/librerie on line: www.itacalibri.it Cura editoriale: Cristina Zoli Grafica di copertina: Andrea Cimatti Stampato nel mese di ottobre 2016 da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC)


Prefazione

«“Non avete nulla da trasmettere”: queste parole, pronunciate a più riprese da un ispettore generale che ci introduceva al mestiere nel nostro primo giorno di formazione, erano così sorprendenti che hanno segnato profondamente la mia memoria». Così François-Xavier Bellamy ricorda il suo primo giorno allo iufm, Istituto universitario francese che prepara i giovani laureati all’insegnamento nelle scuole. «Non avete nulla da trasmettere»: nulla da tramandare o meglio ancora, nel rispetto dell’etimologia del latino trāde˘re, da affidare e da consegnare ai ragazzi che incontrerete in classe. Si tratta di un’affermazione paradossale perché in questo modo l’istituzione scolastica prende congedo dalla natura stessa della scuola: una scuola che non ha nulla da comunicare, una scuola senza tradizione potrebbe mai essere un luogo di educazione? Occorre forse soffermarsi un istante sulla parola tradizione per non incorrere nel rischio di confonderla con quella di erudizione o di immaginarla (quasi nostalgicamente) come il devoto ricordo di un passato in cui l’umano ingegno ha toccato vette mai più raggiungibili. In modo molto pertinente Luigi Giussani chiama “tradizione” «quel dato originario, con tutta la struttura di valori e significati in cui il ragazzo è nato»1; poiché la tradizione «offre una totalità di sguardo sulla realtà,

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L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005 [1977], p. 68.


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offre un’ipotesi di significato, un’immagine del destino»2, essa è il bagaglio con cui un giovane entra nel mondo. La tradizione è quindi uno degli elementi che sta all’origine dell’identità di ogni soggetto; e si tratta di un elemento imprescindibile perché fornisce ai giovani un’ipotesi di vita che rappresenta «quella certezza nella positività della propria intrapresa»3 senza di cui nessuno oserebbe aprirsi al mondo, fare nuovi passi e nuove scoperte. Si potrebbe dire in sintesi che un uomo che ama non può non trasmettere, ossia affidare agli altri, ciò che di meglio ha scelto e vissuto: impedire a un uomo di trasmettere significa perciò impedirgli di esercitare la sua umanità. Trasmettere ha in sé qualcosa di vitale ed essenziale: è consegnare ad altri il significato ultimo e totale della realtà, ciò per cui vale la pena vivere o morire. Perché oggi non è più così? Da dove proviene questa squalifica della trasmissione che, in senso lato, è una squalifica della cultura, della tradizione e dell’educazione? Il libro di Bellamy, che qui presentiamo nella traduzione italiana, si assume esplicitamente il compito di rispondere a tale domanda, facendo notare in via preliminare che questa crisi non è né casuale né estemporanea, ma è «il risultato di un lavoro meditato, durevole, esplicito»4. Durevole, perché ha la sua origine nel xvii secolo; meditato, perché è il frutto di laboriose riflessioni che si sono venute sviluppando nel tempo; esplicito, perché la decostruzione della tradizione è sempre stato l’obiettivo dichiaratamente perseguito. Tre sono, per l’autore, i protagonisti di questa operazione – le «scosse del sisma» per usare le sue parole – e si tratta di tre giganti del pensiero francese e, più in generale, del pensiero occidentale moderno: Cartesio, Rousseau e Bordieau.

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Ivi, p. 16. Ivi, p. 69. Cfr. infra, p. 36.


Prefazione 7

Tutta la prima parte del volume è così dedicata a rintracciare il filo rosso che lega le considerazioni di questi padri della società attuale; ed è sorprendente ritrovare nella loro riflessione i semi di tutte le concezioni relative all’educazione e alla didattica ora maggiormente in voga: l’idea di docente come facilitatore; la scuola come luogo di formazione delle competenze; la condanna della lezione frontale, dell’apprendimento mnemonico, della fatica dello studio; la sfiducia in ogni forma di autorità, concepita come alienante e opprimente. Si legge ad esempio nel Discorso sul metodo di Cartesio (1637) che egli, una volta finito il corso di studi in scuole rinomate e prestigiose, si trovava pieno di così tanti dubbi ed errori che gli sembrava di non aver raggiunto altro obiettivo se non l’aver scoperto sempre di più la sua ignoranza. Da qui lo scetticismo radicale verso il sapere impartito dagli altri: «imparai a non credere troppo a quello che mi proveniva dagli altri per non offuscare la mia luce naturale». La cultura dunque come alterazione della natura e la scuola come luogo principale di tale deformazione, di tale allontanamento dal vero sé. L’infanzia come periodo di infermità provvisoria della ragione, in quanto, influenzata dalla cultura, ostacolata nel proprio autonomo cammino di scoperta della verità. Diverse le premesse, eppure uguale la condanna finale della trasmissione nel pensiero di Rousseau. Riflettendo sul tema di un concorso bandito nel 1750 dall’Accademia di Digione: Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi, constata che il progresso della civiltà ha reso l’uomo cattivo e infelice: più l’uomo ha perfezionato la cultura, più si è allontanato dalla sua natura. Felice dunque l’uomo che rimane sempre bambino, che non diventa sapiente, perché solo così può conservare la prossimità al suo stato naturale. E nel trattato Emilio, o dell’educazione (1762), Rousseau declina il metodo attraverso il quale preservare il bambino dall’errore, metodo che ha il suo fondamento nell’immediatezza: l’educatore deve astenersi dal frapporre tra il bambino e la realtà


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qualsiasi forma di mediazione, in primis la parola. Occorre cioè favorire l’incontro diretto con le cose, senza spiegazioni, senza categorie che potrebbero condurre all’errore: «nessun altro libro che il mondo, nessun’altra istruzione che i fatti». E, ultima scossa del terremoto, il contributo di Bourdieu, il sociologo che, pochi anni prima del ’68, scrive il libro Les Héritiers (Gli eredi), nel quale, dando ormai per scontato che la trasmissione sia contro la libertà e la ragione, si chiede a chi possa giovare. La risposta che si dà è che la trasmissione non sia altro che una forma di autoaffermazione dell’élite: la classe dominante non perpetua sé stessa dando in eredità ai suoi figli esclusivamente un patrimonio economico, ma anche culturale. Una cultura che si trasmette per autolegittimarsi e per differenziare dalla massa chi la riceve. Da qui la condanna della scuola come luogo finalizzato alla dominazione della classe popolare da parte di quella dominante, ove si creano le diseguaglianze che si dice di voler combattere. La scuola dunque come istituzione intrinsecamente violenta. La soluzione per Bourdieu sarebbe una riforma della scuola che la rendesse meno artificiosa, finalizzata a preparare i giovani professionalmente all’universo del lavoro, il solo veramente reale: sviluppare delle attitudini, delle competenze, non perpetuare il sistema culturale dominante che non ha alcun fondamento se non l’autoconservazione dell’élite. Ci sia concesso qui un nota bene. Di certo la critica di Bellamy nasce all’interno del sistema francese e riprende una storia intellettuale sorta e cresciuta oltralpe. Il lettore italiano tuttavia non deve essere tratto in inganno: la situazione descritta dall’autore presenta preoccupanti affinità con la nostra realtà attuale. Rimandiamo alle note al testo per informazioni più circostanziate; qui ci limitiamo a elencare alcuni dei punti di contatto più macroscopici. A casa nostra il tasso di dispersione scolastica, seppur in diminuzione, è tra i più alti d’Europa; dai rapporti del 2013 emerge che l’Italia è ultima tra i paesi ocse quanto a capacità di lettura e penultima quanto a competenze


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matematiche. Nel frattempo impazza tra accademici e intellettuali il dibattito sull’ormai palese inutilità della traduzione dal greco e dal latino al liceo classico: questi dati non solo evidenziano carenze del sistema scolastico, ma rivelano anche una crisi culturale ed educativa che culmina nella violenza, nei vandalismi e nei cyberbullismi che attraversano tutta la nostra società. Nessuno di noi ha quindi il diritto di sentirsi escluso dalle domande che il lavoro di Bellamy pone. Che cosa rimprovera l’autore a questi tre giganti della cultura francese? Di aver individuato nella trasmissione della tradizione il proprio nemico, l’ostacolo che impedisce all’uomo una purezza e una saldezza di giudizio che solo la liberazione dalle incrostazioni della cultura passata potrà restituirgli. Insomma, la tradizione altera e deforma l’umana natura; così per creare un sapere nuovo, che sia davvero nostro, occorre decostruire ciò che i nostri padri ci hanno trasmesso. Una delle cifre della modernità, di cui Cartesio è il fondatore e Rousseau uno dei più influenti teorizzatori, è proprio questa centralità dell’io, questa esigenza di libertà, di non concedere alcuna deroga gratuita ad altra autorità che non sia la ragione del singolo individuo. È allora interessante chiedersi perché Cartesio avverta così intensamente questa esigenza e per quale motivo percepisca come insopportabile la tradizione che gli viene offerta. Com’è noto, Cartesio studia presso i gesuiti del collegio di La Flèche, una tra le più prestigiose scuole dell’Europa del Seicento, e qui respira quella filosofia scolastica che, sebbene primeggiasse ancora nella cultura del suo tempo, aveva perso lo smalto dei secoli d’oro ed era ormai decaduta a un sistema di principi e concetti spesso applicati in campi del sapere umano che non le erano propri. Dunque, agli occhi del giovane Cartesio, la tradizione si presenta come qualcosa di stantio: una meccanica e sterile ripetizione di quel grande sistema metafisico, per giunta applicato pedissequamente all’interno di ambiti che non gli appartengono. Non deve quindi sorprendere che egli ne avverta l’estraneità


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e lo interpreti come un fardello che appesantisce e confonde il cammino piuttosto che sostenerlo. Una tradizione supinamente accettata e acriticamente ripetuta, infatti, non può che degenerare nel tradizionalismo. Qui insorge un punto ancora di grande attualità per tutti coloro che sono coinvolti nel mondo della scuola o, più in generale, in qualunque ambito educativo. La vitalità e la forza della tradizione passata non sono l’esito di un passaggio automatico, come se si trattasse di travasare il contenuto di un recipiente in un altro; al contrario, come osservato da Giussani, il passato conserva la sua freschezza e vitalità solo se «è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore»5. Detto altrimenti: solo un vissuto presente capace di dare le ragioni di sé «ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato»6. Poiché, come suggerisce giustamente Bellamy, la cultura appartiene al nostro essere e non al nostro avere; essa non si mantiene in vita meccanicamente, ma deve risuonare nel presente, pulsare nella vita di chi la propone. A tal proposito ci sembra paradigmatico il racconto di un’amica, docente di lettere in un istituto tecnico milanese, la quale non ha mai rinunciato alla lettura de I promessi sposi anche in classi difficili. Stupita dal silenzio venutosi a creare tra i suoi studenti, di diverse provenienze, culture e religioni, in seguito alla lettura dell’“Addio monti”, in cui Manzoni descrive lo struggimento di Lucia costretta a lasciare la sua terra, ha chiesto loro a cosa stessero pensando. Timidamente uno ha risposto che non riusciva a capire come uno scrittore italiano dell’Ottocento potesse conoscere con tale precisione i sentimenti che lui aveva provato quando aveva lasciato il suo Paese. Solo se riaccade in chi la comunica, la tradizione non perde

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L. Giussani, Il rischio educativo, p. 17. Ibid.


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la sua intensità, che consiste nella capacità di parlare all’umano, al di là delle culture particolari: «Ciò che originariamente ed effettivamente abbiamo in comune con l’altro [una professoressa di lettere con il suo alunno proveniente da un’altra zona del globo] non è in primo luogo da ricercare sul piano delle concezioni del mondo, dei valori e delle norme, bensì in quella soglia indeducibile che si rivela precisamente a partire dall’incontro tra i diversi soggetti incarnati e storicamente determinati, come sua condizione, e che abbiamo chiamato “l’umano”»7. Le parole di Manzoni, che rivivono nella spiegazione della professoressa di lettere, bruciano ogni differenza culturale e lasciano emergere quel cuore umano che è più evidente di tutte le diversità. Conclude genialmente don Giussani che fuori da questo vissuto non solo il passato non appare nella sua portata, «ma non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all’educazione: la critica». La critica, ossia quella capacità (tanto desiderata da Cartesio) di giudizio personale che ciascuno ha il dovere di esercitare, si sviluppa solo mediante una presa di coscienza reale della tradizione. Così Cartesio, proprio perché privato di questa esperienza di comunicazione del passato in un vissuto presente, nel sacrosanto tentativo di essere critico e libero, non scorge la differenza tra un problema e un dubbio e riduce la critica a un momento essenzialmente negativo. È infatti necessario che quello che ci è stato comunicato, affinché diventi maturo e “nostro”, entri in crisi, diventi problema. Ma il problema non è il dubbio, «il problema è l’invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova»8: criticare significa perciò verificare la corrispondenza tra il dato offertomi, la 7  C. Di Martino, L’incontro e l’emergenza dell’umano, in J. Prades (a cura di), All’origine della diversità. Le sfide del multiculturalismo, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 95. 8  L. Giussani, Il rischio educativo, p. 19.


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tradizione che mi è proposta e quello di cui ho coscienza come struttura della mia natura umana. Per quanto paradossale possa apparire, per costruire qualcosa di nuovo occorre prendere sul serio il passato: «ma prendere sul serio la tradizione, prendere sul serio il proprio passato significa impegnarsi con esso secondo le modalità che quello implica, per poterne risentire i valori e abbandonare quello che valore non è, per poterne scoprire la corrispondenza con ciò che si è e potersi liberare da ciò che poteva corrispondere alla situazione solo di altri tempi, e non a quella dei nostri»9. Fuori da questa prospettiva non resta che il dubbio e il dubbio introduce un sospetto che tende a isolare l’individuo, a scollegarlo da quella trama di relazioni che costituiscono la sua esperienza, ossia il luogo in cui ogni fenomeno acquisisce consistenza e consapevolezza. Privato della trasmissione della cultura come avvenimento vivo, Cartesio, che voleva rifondare il sapere su basi certe e solide e percepiva la giusta esigenza di essere critico, lascia però in eredità il dubbio, quel dubbio che apre la via all’insicurezza esistenziale della nostra epoca. Il compito di ogni educatore è dunque quello di comunicare lealmente la tradizione, cioè il significato ultimo del reale che i grandi geni del passato hanno profondamente sentito e manifestato con la loro arte e che l’umanità del maestro deve offrire ai suoi discepoli. Disattendere a questo compito non è un atto neutrale né indolore, perché l’alternativa è una concezione neutralista per la quale «la personalità sarebbe il termine di una spontaneità evolutiva, senza che occorra altra regola o guida oltre sé stessi»10. Riecheggia in queste parole il grandioso e tragico esperimento pedagogico tentato da Rousseau nel suo Emilio, che tanta influenza ha avuto e ha tuttora sulla cultura di massa odierna – in questa prospettiva davvero interessante l’interpre-

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L. Giussani, Il rischio educativo, p. 115. Ivi, p. 71.


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tazione di Bellamy che rilegge il film Avatar di James Cameron in chiave rousseauiana11. Per salvare l’autenticità dei comportamenti umani, la loro originaria coerenza e sana naturalità – poiché, come Rousseau spiega nell’Emilio, «tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore di tutte le cose, tutto degenera tra le mani dell’uomo» – occorre che l’educazione, per usare ancora le sue parole, sia «negativa», ossia volta ad alterare e corrompere il meno possibile la bella spontaneità grazie a cui l’uomo vive in equilibrio con la natura. Un giovane che ha conservato la sua naturale genuinità, una volta entrato in società, sarà tollerante, aperto agli altri e capace di essere morale, cioè in grado di obliare sé a tal punto da agire in nome del puro amore per l’umanità. Emilio «ved[rà] con i suoi occhi e sent[irà] col suo cuore; […] nessuna autorità lo govern[erà], all’infuori di quella della sua propria ragione». In questo modo egli potrà estendere lo stesso atteggiamento all’intero genere umano e «l’amore del genere umano non è altro […] se non l’amore della giustizia». Nonostante gli altissimi e nobili fini che giustamente animano lo sforzo di Rousseau, non è difficile vedere oggi, alla luce dei tragici eventi causati dai fondamentalismi, il fallimento di questo modello, che non fornisce nient’altro che un relativismo scettico: tale relativismo lascia i più giovani alla mercé delle loro insicurezze, che vengono spesso superate solo in variegate forme di fanatismo, ossia di affermazione intransigente di un aspetto unilaterale o, come nota Bellamy, in forme di indifferenza «individualistica che ci separa[no] inesorabilmente gli uni dagli altri, nella diffidente solitudine in cui ci siamo rinchiusi». Lasciando al lettore il piacere di gustarsi il viaggio che conduce da Rousseau a Bordieu, qui interessa solo far notare, grazie all’occhio attento di Bellamy, che il padre della sociologia francese, dopo aver portato a termine la decostruzione di qua11

Cfr. infra, pp. 65-66.


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lunque sapere, ma anche di qualunque modello educativo, ci lascia in eredità solo il suo fatalismo: a chi sa che cos’è l’educazione, diventa impossibile educare12, perché ogni insegnamento, ogni atto educativo, in quanto forma di autorità, è necessariamente violento. Ma se le cose stanno davvero così, «per quale motivo entriamo ancora in classe, insegniamo, parliamo a questi allievi che l’intero postmoderno descrive come le vittime prescelte degli esami ai quali li prepariamo? […] Siamo condannati a insegnare, a educare, senza sapere bene perché, e senza nemmeno ardire di porci questa domanda?»13. Attraverso queste parole Bellamy si fa compagno di ciascuno di noi perché le sue domande non nascono dallo sconforto e dalla rassegnazione, ma sono il barlume di luce, la flebile ma tenace speranza che, anche nei momenti più bui, non abbandona il cuore di nessuno di noi. Nessuna circostanza è a tal punto negativa da impedirci di prendere sul serio queste domande, e soprattutto nessuna circostanza può impedirci il giorno dopo di ricominciare da capo, dal momento che l’educazione è, per sua natura, antitetica alla disperazione. Le risposte a questi interrogativi costituiscono la seconda parte del libro di Bellamy. Sarà compito del lettore analizzarle con precisione. Qui ci interessa sottolineare, senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni aspetti che riteniamo particolarmente utili e rilevanti. Innanzitutto I diseredati propone di rivedere la concezione di cultura e, per farne capire la parentela con l’essere piuttosto che con l’avere, ricorda la triste storia di Victor, il bambino selvatico dell’Aveyron, trovato alle soglie del 1800 nei boschi del Sud della Francia e studiato come caso di uomo allo stato naturale. Ebbene, lungi dall’essere il buon selvaggio auspicato

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Cfr. infra, p. 106. Cfr. infra, p. 108.


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da Rousseau, Victor era «indifferente a tutto, assolutamente incapace di attenzione. Aveva i sensi ma non sapeva usarli; i suoi occhi non sapevano guardare, le sue orecchie non sapevano ascoltare […] tutti i suoi sensi, o distratti, o insensibili, vagavano incessantemente da un oggetto all’altro senza sosta»14. Gli studiosi che se ne occuparono gridarono allo scandalo e bollarono il povero Victor come un «essere degradato, un essere diseredato dei più nobili attributi della sua specie […] un vero e proprio idiota». Solo un giovane studente di medicina ebbe la felice intuizione: senza mediazione non si sviluppa l’umano, perché – suggerisce Bellamy – l’essere umano è per natura un essere di cultura. Ed è attraverso l’incontro con ciò che un altro gli trasmette che compie la sua umanità. Per rifondare l’educazione, occorre dunque accettare che il nostro io dipenda da altro. E che, di conseguenza, essere sé stessi non sia immediato, non avvenga senza mediazione. Prima forma di mediazione, indispensabile per divenire sé stessi – sostiene Bellamy – è la parola. Si è a più riprese teorizzato che la lingua rende schiavi («l’uomo è parlato dalla lingua», Eco dixit, e Barthes: «la langue est tout simplement fasciste»), imponendo le categorie di pensiero che inficiano lo sguardo diretto sulla realtà e condizionano nella conoscenza della verità. Certo è innegabile il potere che la parola ha di categorizzare l’essere, ma la lingua non è qualcosa che si aggiunge al pensiero, bensì è l’alveo in cui esso può nascere. Dove non vi è padronanza della lingua non vi è pensiero, non vi è possibilità di denominare, cioè di differenziare, non vi è possibilità di predicare, cioè di giudicare, di riconoscere il rapporto tra sé e l’essere. Dove non c’è la lingua si genera violenza, perché la persona necessita di dire e di dirsi: se non ne ha gli strumenti, utilizza la forza per affermarsi. E attenzione: non basta un vocabolario minimo, di base, perché l’uomo è com14

Cfr. infra, pp. 115 e 157.


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plesso e ha bisogno di molte sfumature per dire anche solo le sue emozioni, i suoi sentimenti. Per essere noi stessi abbiamo bisogno delle parole degli altri. Bellamy propone poi altre forme di mediazione, quali i libri, come possibilità di fare i conti con il pensiero altrui per poter sviluppare un pensiero libero e personale (anche Cartesio ha dovuto studiare il pensiero di altri, per poterne elaborare uno suo); le regole, che permettono di differenziare e di ordinare ciò che rimarrebbe avvolto nella nebbia della confusione (bellissimo il suo esempio sull’ortografia: in francese è e abbia si pronunciano allo stesso modo /Ɛ/, ma si scrivono diversamente est, ait. L’indifferenza verso la forma grafica può aumentare la confusione categoriale); i maestri, persone appassionate delle loro discipline che insegnino autenticamente, che chiedano ai loro studenti di apprendere ciò che insegnano, che facciano vedere le differenze, perché l’indifferenza porta la noia e la noia spinge alla violenza, mentre l’accorgersi delle differenze porta a stupirsi della varietà della realtà e suscita interesse; che appassionino al particolare, perché il particolare è la sola strada possibile per raggiungere l’universale. Al riguardo vale la pena di riportare alcuni estratti del testo di Bellamy che mostrano la sua audacia nel sottolineare l’impossibilità di educare proponendo una cultura universale; infatti, non si può che educare proponendo una lingua, una cultura, una storia particolari, perché l’uomo non è un essere “di immediatezza”. Ecco i passaggi principali: «Dal momento che l’uomo non è un essere dell’immediatezza, bisogna ammettere che abbiamo bisogno di passare attraverso questa eredità singolare per progredire verso l’universalità della nostra natura, che si realizza solo attraverso la mediazione», perché «il particolare non ci imprigiona, al contrario: è grazie ad esso che possiamo andare verso l’universale»15. Qual è questa eredità 15

Cfr. infra, p. 173.


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singolare? La tradizione in cui siamo nati: «Così dovremmo amare la cultura che abbiamo ricevuto. Non perché essa sia migliore di tutte le altre, l’unica atta a dare del mondo visioni giuste e feconde. Ma perché questa è la nostra cultura, perché anima il luogo dove siamo nati, il territorio in cui viviamo, il paese dove siamo cresciuti. Perché negarlo? Un cultura ha modellato questa immensa famiglia che, generazione dopo generazione, ha continuato ad arricchirla: essa non costituisce un capitale ma un’eredità, un patrimonio comune che, come il nostro patrimonio genetico, fa di noi quello che siamo – degli uomini che siano davvero umani. Qualunque sia la diversità delle loro origini, una società si onora di trasmettere a tutti i bambini che accoglie il meglio della cultura comune che, plasmando il paese dove vivono e plasmata da esso, forma a pieno diritto il loro patrimonio»16. A partire da queste affermazioni, e quale conclusione di questa prefazione, ci preme mettere in evidenza due fattori tanto decisivi quanto forse non troppo espliciti nella riflessione di Bellamy. Il primo si può riassumere così: la forza di ogni cultura e di ogni tradizione, per quanto particolari possano essere, risiede nel fatto che esse sono l’incontro con l’altro e questo incontro costituisce una provocazione necessaria perché io possa rendermi conto della stoffa ultima della mia natura umana, quel nucleo di esigenze ed evidenze che Giussani chiama «esperienza elementare». Poiché l’uomo si conosce solo in atto, è solo imbattendomi nell’altro che si apre il viaggio entusiasmante della continua scoperta di sé. Ognuno di noi è chiamato a compiere questo viaggio per sé stesso – oseremmo dire per non morire, per non cristallizzarsi, per non smettere di crescere, ossia per educare lasciandosi educare – e per proporlo in modo credibile ai propri studenti. Solo così forniremo loro 16

Cfr. infra, p. 175.


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tutti gli strumenti adeguati per vagliare il patrimonio che abbiamo consegnato loro; solo così – ed è questo il secondo imprescindibile fattore – permetteremo loro di esercitare quella verifica critica senza la quale non vi né conoscenza, né crescita, né educazione. Come ben illustra Luigi Giussani ne Il rischio educativo, «per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative dell’adolescenza […] occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui»17. La chiave dell’educazione è tale verifica, il paragone tra l’ipotesi di senso proposta e ciò che accade nella vita, ed è su questo che oggi si gioca la partita con i giovani: come diventa esperienza l’ipotesi di significato che l’autorità consegna? Nihil cognoscitur nisi per amicitiam: nulla si conosce se non dentro un’amicizia; questa massima, che compendia tutta la saggezza di Agostino di Ippona, indica la condizione necessaria affinché non si inaridisca il nostro cammino umano e soprattutto quello delle generazioni a cui ci è data la fortuna di trasmetterlo. A ciò la lettura di questo libro è senz’altro un valido aiuto. Emanuele Maffi Raffaela Paggi avvertenza Nella presente edizione sono state aggiunte dai curatori alcune note, indicate dall’acronimo NdC, oltre a quelle già presenti nel testo originale. Tale scelta risponde a una duplice necessità: 1) contestualizzare all’interno della situazione italiana la riflessione di Bellamy per mostrarne la validità su larga scala; 2) fornire al lettore non specialista nel campo della filosofia alcune generalissime coordinate degli autori trattati, così da rendere più agevole la comprensione del percorso proposto dall’autore.

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L. Giussani, Il rischio educativo, p. 87.


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