Viteliú. Il viaggio di Marzio (Nicola Mastronardi)

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VITELI Ú

IL VIAGGIO DI MARZIO

Nicola Mastronardi

Il viaggio di Marzio

Nelle

edizioni Itaca

Alessandro Grittini

Costellazione Kurt

Sara Allegrini

Mina sul davanzale

Manuel Mussoni

Le ferite che non volevo

Cristiano Guarneri

Marta fuori dal guscio

Nicola Mastronardi

Viteliú. Il viaggio di Marzio

www.itacaedizioni.it/viteliu-viaggio-marzio

Scrivi all’autore: nmastronardi7@gmail.com

Prima edizione: giugno 2018

Prima ristampa: marzo 2023

© 2018 Itaca srl, Castel Bolognese

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-526-0557-4

Riduzione a cura di Alessandro Grittini

Illustrazione di copertina: Luca Tarlazzi

Cartine: Giovanni Fossaceca

Stampato in Italia da Mediagraf, Noventa Padovana (PD)

Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC‰ per una gestione responsabile delle foreste.

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IL VIAGGIO DI MARZIO

ROMANZO STORICO
Nicola Mastronardi
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A Sofia, Emanuele e Federico, ai loro cugini e a tutti i giovanissimi discendenti dei Safinos.

Perché la memoria abbia un futuro.

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Il viaggio di Marzio

Parte I

I. E venne il tempo

Roma, idi di Majus dell’anno 6811

Il vecchio si svegliò di soprassalto. Sudato e in preda all’agitazione, come ogni volta che quel sogno tornava. Accadeva sempre più spesso, ultimamente. Quella scena lo perseguitava. «Signore…»

Sentì la voce del servo vicina e preoccupata. Durante il sonno aveva gridato e Kaeso era entrato nella stanza per vedere cosa fosse accaduto.

«Sto bene, era solo quel sogno. Il solito incubo, ma è sempre più vivo e… sempre più doloroso.»

«Succede quasi ogni notte ormai, signore» disse il servo. «Non riposate più.»

L’anziano cieco tese la mano per farsi aiutare e sedette sul letto.

«… si direbbe che il passato torni con insistenza per annunciarmi qualcosa. Forse vuole invitarmi a rompere gli indugi.»

Chiese acqua per lavarsi il viso e lo fece con particolare cura.

«Salvare la memoria e l’onore» mormorò, come se dovesse ricordare a sé stesso un dovere. «Salvare la vita di chi è rimasto» aggiunse. Si asciugò il volto con un panno di lino grezzo e subito dopo ordinò con risolutezza: «Prepara un bagno caldo».

«Padrone» disse il servo «oggi… con tutto il rispetto… non è nessuna delle ricorrenze che voi solitamente celebrate…»

Non si spiegava, Kaeso, quella richiesta inconsueta.

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1 15 maggio dell’anno 72 a.C.

«Fai come ti dico» fu l’unica risposta, dal tono piuttosto deciso.

Il vecchio attese che l’acqua si scaldasse nel caldaio di rame appeso sul focolare, poi si fece aiutare per spogliarsi ed entrare nella tinozza di legno. Kaeso non l’aveva mai visto completamente nudo, in tutti quegli anni. Notò il suo fisico solido, la spalla e il braccio destro più muscolosi rispetto all’altra parte del corpo, come accadeva per gli uomini atti alle armi, segni lievi di antiche ferite e uno strano tatuaggio al centro del petto. Un toro che incornava un cane o qualcosa del genere. Ciò che lo colpì di più era un segno sotto il ginocchio sinistro. Il sangue gli si raggelò nelle vene: era l’inconfondibile callo lasciato dallo schiniere2 indossato dai più feroci tra i guerrieri italici. Il servo deglutì, ma non ebbe il coraggio di proferir parola.

«Non pensare che io sia impazzito» disse l’anziano rialzandosi per asciugarsi «o invecchiato al punto da non ricordare il calendario del mio popolo e le ricorrenze. Ho ancora bene a mente tutte le feste sacre dell’anno, i templi e tutti gli dèi della Tavola.»

S’interruppe. Pensò al sogno e alle ultime, terribili, immagini che i suoi occhi avevano visto.

«La Tavola…» riprese e alzò la testa come per guardare lontano «… è tempo che riveda la luce e che torni al suo posto. Viene un tempo per tutte le cose» disse rivolto a Kaeso «e anche questa volta il giorno è arrivato.»

Fece una pausa, restò assorto nei suoi pensieri.

«Ieri mi hai detto dei falchi» riprese «volteggiavano con insistenza su questa casa. Non è vero?»

«Sì, è così, erano tanti, tutti insieme. E i piccioni fuggivano terrorizzati.»

2 Parastinco in metallo, imbottito di stoffa e pelle e tenuto fermo con stringhe, che nell’armamentario sannita copriva la parte inferiore della sola gamba sinistra, proteggendola fin sotto il ginocchio.

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Ancora una pausa.

Infine disse con risolutezza: «Sì, accadrà oggi» e trasse un profondo respiro. «Prendi le forbici e il rasoio» ordinò.

Non era mai accaduto. Da quando lo conosceva – ormai erano quasi otto anni – il vecchio non si era mai tagliato i capelli né la barba, che insieme formavano un’unica foresta bianca e selvaggia, a tratti ingiallita, intorno al viso scavato dalle rughe. Kaeso aveva imparato ad avere rispetto di quel vecchio che Lucio Cornelio Silla, il Dictator in persona, gli aveva ordinato di servire.

«Dovrà vivere il più a lungo possibile sino a che io sarò in vita» gli aveva detto «ma non dovrà lasciare Roma, senza che io lo sappia, pena la tua morte.» E Silla non era uomo da non mantenere certe promesse. Da quel momento lo schiavo si era preso cura di quel vecchio e un funzionario aveva sempre badato a versare quanto bastava per sostenere entrambi. Perciò lo schiavo aveva imparato a vedere nell’anziano la sua rendita vitalizia e gli era rimasto accanto nonostante la morte di Silla, perché, per ordine espresso del senatore Gaio Licinio Verre, il denaro continuava a essere versato regolarmente e l’ordine del Dictator era stato ribadito: se mai il vecchio avesse deciso di lasciare Roma, Kaeso avrebbe dovuto avvertire immediatamente il senatore in persona.

Molti a Roma credevano che il suo assistito fosse un notabile di una qualche tribù non latina, forse un sacerdote, che aveva reso dei servigi a Silla tanto da guadagnarsi il vitalizio dello stato romano, ma nessuno sapeva davvero la verità. Kaeso, pur non conoscendo chi fosse veramente quell’uomo, aveva capito che nel passato doveva essere stato importante fra la sua gente. Italici, certamente, e la lingua osca3 che par-

3 La lingua dei Sanniti. Si definisce osco-umbro-sabello il gruppo linguistico indoeuropeo che comprende la lingua degli antichi Umbri, la lingua osca delle genti di stirpe sannitica e gli idiomi di Sabini, Marsi e degli altri popoli italici.

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«Un segno… un altro. E l’incubo che si fa insistente…»

lava lo testimoniava, ma quale delle genti delle montagne? Quel vecchio aveva i tratti e il parlar colto e autorevole di un capo, o di un sacerdote, senza particolari inflessioni.

Ora, la certezza di trovarsi di fronte un guerriero, sannita forse, aveva provocato nel servo fremiti di paura. Temette per più di un attimo che fosse un Pentro, sopravvissuto chissà come alle stragi ordinate da Silla. I Pentri, la razza più temuta e odiata dai Romani da due secoli e oltre. Il popolo che Silla aveva condannato alla damnatio memoriae 4. Era forse, il vecchio, un capo sopravvissuto alla battaglia di Porta Collina? Un traditore passato in segreto dalla parte dei Romani? Chi fosse dunque l’anziano e perché Roma continuasse a mantenerlo come un prigioniero privilegiato, Kaeso lo ignorava. Una sola volta lo schiavo aveva provato a chiedere spiegazioni, ricevendo una risposta tale da non lasciar dubbi. Non avrebbe saputo la verità e soprattutto non doveva chiederla.

Quella mattina però stavano succedendo cose nuove. Qualcosa si preparava. La stranezza del bagno, il taglio dei capelli e della barba. Un fremito di paura attraversò di nuovo la schiena del servo.

Terminò l’operazione seguendo le istruzioni dell’anziano che chiamava “signore” o “padrone” ignorandone del tutto il nome. Il casco dei capelli bianchi ora era ordinato e la barba bianca, lunga pochi centimetri, incorniciava il viso che sembrava ringiovanito di almeno dieci anni. Il vecchio chiese al servo di trarre da una cassa, fino a quel momento mai aperta, una tunica, un cinturone di bronzo dorato e il bastone che vi erano contenuti. Terminata la vestizione, l’uomo si alzò: davanti a Kaeso apparve una figura diversa, solenne e dritta, dentro quella tunica chiara di lana grezza bordata di

4 Espressione latina che, nell’antica Roma, indicava la cancellazione dalla società di ogni traccia che ricordasse una persona o, come in questo caso, un popolo (letteralmente “condanna della memoria”).

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rosso, il vestito di un capo. Il volto autorevole, nella mano destra l’alto bastone di legno chiaro che alla sommità portava una piccola scultura di bronzo raffigurante la testa di un toro. Lo schiavo stentò a riconoscere nella persona che stava osservando il vecchio silenzioso e burbero che aveva servito per quegli otto lunghi anni.

«È ora di andare» disse il cieco e porse il braccio per farsi accompagnare all’uscita.

La temperatura era fresca a Roma in quel mattino di mezza primavera. Una rossa aurora annunciava il sole che non era ancora spuntato all’orizzonte. Nelle strade la vita aveva cominciato a correre in quello che era uno dei quartieri commerciali della città. Svoltarono nella via dei pellai, una strada larga, in leggera discesa, con marciapiedi su entrambi i lati. Non erano poche le botteghe già aperte; sui banconi all’esterno gli artigiani e i loro schiavi sistemavano le merci in bella evidenza; qualcuno era già al lavoro, chino a tagliare pelli o a cucire suole. A metà della via i due svoltarono a destra, imboccando una strada più stretta. Era la strada dei lanaioli impegnati dal periodo di lavoro più intenso di tutto l’anno. L’anziano conosceva bene l’odore dolciastro della lana grezza e a un certo punto si fermò. Alzò un poco il capo e dilatò le narici inspirando profondamente. Catturò con un leggero senso di piacere quel profumo a lui tanto familiare. Restò fermo solo per pochi attimi, assorto. Il grido di un nibbio che volava basso sui tetti di Roma alla ricerca della prima preda della giornata lo distolse. Volse la testa in alto come per vederne il volo, quindi riprese la marcia, nuovamente concentrato sulla missione che da troppi anni attendeva di compiere.

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II. Un fantasma dal passato

Giunsero dunque, il vecchio e il servo, in una via elegante della zona settentrionale di Roma, un quartiere formato soprattutto da case di benestanti. Si fermarono davanti all’ingresso di una delle ville; Kaeso la conosceva bene. Per almeno sei anni, per un preciso, assillante ordine del vecchio, aveva spiato il ragazzo che abitava in quella casa, con il compito di riferire ogni particolare significativo senza farsi notare. Non conosceva il motivo dell’interesse del suo padrone per quel giovane, pur avendo cercato di scoprirlo in molte maniere. Cosa c’era nel figlio di Lucio Stazio Caro e di Livia che lo legasse al vecchio cieco? Egli lo ignorava ancora, dopo tutti quegli anni.

«Siamo forse arrivati signore?» chiese il servo con una lieve incertezza nella voce. «Questa è la casa di… del… giovane. Era qui che volevate recarvi? Siamo dinanzi all’ingresso.»

«Bene» mormorò l’anziano. Un respiro profondo gli gonfiò il torace. «Il momento è giunto. Annuncia ai padroni di casa il nostro arrivo.»

Kaeso tirò la corda e dall’interno si udì il suono di campanelle. Immediato fu l’abbaiare dei cani e subito una finestrella si aprì e apparvero gli occhi azzurri e sospettosi di un vecchio.

«Chi siete?» chiese questi interrogando gli estranei più con lo sguardo che con le parole. L’uomo soffermò la sua curiosità soprattutto su quel cieco dall’aria solenne e sullo strano bastone che teneva nella mano destra. Fu quest’ultimo a parlare in latino.

«Annuncia ai tuoi padroni che un parente venuto dal Sannio Pentro è tornato a prendersi ciò che è suo.»

L’interlocutore, sorpreso, trasalì a quelle parole; poi chiuse di scatto la piccola finestra e corse ad avvertire i padroni di casa.

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Kaeso, dal canto suo, aveva appena sentito le parole che non avrebbe voluto udire. Era la conferma dei suoi sospetti più neri e aveva solo una voglia matta di fuggire per miglia lontano da quella situazione. Ignorava cosa sarebbe accaduto di lì a pochi minuti, ma a incutergli terrore gli bastava la certezza di aver servito, per anni, un Sannita della touto5 dei Pentri. Un capo, forse, sotto mentite spoglie, pensò, visto che se Silla ne avesse conosciuta la vera identità, mai si sarebbe sognato di proteggerlo. Ma il dittatore non era uomo da farsi gabbare facilmente. E allora? Tornò confusamente all’ipotesi del traditore. In quale situazione si stava cacciando? Il tradimento è sempre pericoloso…

Il cancello si aprì e sulla soglia apparve il padrone di casa, Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum6. Un uomo non alto, ma dall’aspetto gradevole. Aveva il fisico robusto degli Italici; la sua era una gens7 originaria di quella zona del Sannio Pentro meridionale, divenuta romana da più di due secoli, dal tempo in cui erano terminate le guerre sannitiche. Fin da allora gli Stazi avevano fatto fortuna vendendo a Roma il pregiato olio di Venafrum, tanto da permettersi una vita agiata da più generazioni e anche un’abitazione nella capitale dove risiedevano da sette anni.

L’uomo, che aveva superato da poco i cinquant’anni, guardò con intensità il vecchio soffermandosi sulla tunica, sul cinturone di bronzo e su quello strano bastone, dal quale, in particolare, sembrò turbato. Senza staccare lo sguardo dalla piccola scultura a forma di toro, si rivolse al servo.

«Un parente che viene dal Sannio, avevi detto. Ma questi

5 Termine osco che individua la “comunità statale” dei vari popoli italici, a base territoriale ed etnica.

6 È l’attuale comune di Venafro, in provincia di Isernia.

7 Nell’antica Roma era un gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune e che praticava culti comuni.

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due non mi sembrano parenti. Tanto meno che… vengano dalle nostre terre. Sono di Roma, mi sembra.»

Fissò l’anziano.

«Un viso conosciuto… sì, ci sono! Sei l’anziano protetto da Silla! Che cosa vuoi dalla mia casa?»

«E tu sei Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum.» Il vecchio aveva parlato in osco e nella sua voce si avvertì un impercettibile cenno d’emozione. «Io conoscevo tuo padre Calvo Stazio. Il nostro affetto andava molto oltre il legame di sangue» continuò, parlando nella lingua dei Sanniti che sapeva essere ben compresa dal suo interlocutore. «Chi io sia veramente lo saprai presto. Accoglimi nella tua casa» aggiunse soltanto.

A quelle parole, accompagnate dal tono di chi ha autorità, Lucio Stazio non esitò un attimo di più ad aprire il cancello per far entrare i due nell’atrio. Prima di chiudere guardò in strada, a destra, poi a sinistra, per capire chi avesse potuto assistere alla scena. Nessuno, e ne fu rincuorato.

«Nella stanza delle visite» ordinò «e che non ci disturbi nessuno. Nessuno, capito?»

I due ospiti, preceduti dall’anziano servo, attraversarono l’atrium e imboccarono il corridoio che portava al giardino. Furono introdotti in una camera ben arredata. Il vecchio chiese di potersi sedere, lo fecero accomodare su uno sgabello. Non senza un nuovo moto di sorpresa da parte di Lucio, il cieco chiese che fosse convocata anche la moglie di questi, Livia. La donna venne; entrando osservò curiosa lo strano personaggio. Questi, non appena la sentì arrivare, si alzò in piedi. Poi tese la mano verso di lei, che in un primo momento si ritrasse, e ne cercò il viso; lo sfiorò con una carezza, come per indovinarne i lineamenti. Un sorriso si dipinse, impercettibile, sotto la folta barba bianca.

Livia aveva superato da poco i quarant’anni ma era ancora una donna molto bella. Nel portamento e nei suoi modi di fare mostrava tutta l’orgogliosa eleganza della stirpe ita-

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lica di cui conservava anche a Roma le tradizioni più significative. Il comportamento di quell’anziano sconosciuto la incuriosì, senza tuttavia turbarla troppo. Il vecchio Sannita pretese di restare solo con Livia e Lucio e questi acconsentì.

«La benedizione di tutti gli dèi sia su questa casa. Meritate ogni bene per ciò che avete fatto.»

Il vecchio aveva pronunciato la frase con solennità rimanendo in piedi. Le sue parole erano state accompagnate dal gesto solenne delle mani protese a benedire i due. I coniugi si guardarono, entrambi con apprensione negli occhi. Livia strinse la mano di Lucio. Una sensazione di disagio le attraversava ora il cuore e la mente.

«Avete chiesto il mio nome. Ebbene lo saprete. È un nome impronunciabile a Roma. Ma è giunto il tempo di rivelarlo a voi. A voi soli.»

L’inquietudine della donna cresceva visibilmente. Lucio scrutò il viso del vecchio, che si sedette. Parlò in lingua sannita con il tono austero di un antico oracolo.

«Il mio nome è Gaavis Paapiís Mutíl, Meddíss Toutίks8 dei Sanniti Pentri, Embratur 9 degli Italici nella grande guerra contro Roma.»

Silenzio. Un lungo, interminabile attimo di stupore fra i due coniugi. Lucio Stazio dapprima scosse la testa, evidentemente incredulo, poi reagì; scattò in piedi e affrontò il vecchio faccia a faccia, sovrastandolo minaccioso, come se questi potesse vederlo.

«Non è possibile, sei un impostore! Papio Mutilo si è ucciso a Teano più di otto anni fa! Tutti videro la sua testa nel

8 Capo dello stato in ambito sannita e italico, al vertice della touto. Era una carica elettiva e aveva durata di un anno, e la stessa persona poteva essere rieletta, anche più volte. G. Papio, padre di Gavio Papio Mutilo, sembrerebbe aver assunto la carica per una decina di volte nell’ultimo trentennio del II secolo a.C.

9 Duce supremo a capo degli eserciti italici (poi solo sanniti) nel corso della guerra sociale.

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trionfo10 di Silla. Chi sei e cosa vuoi da noi, vecchio? Farai bene a lasciare subito questa casa se non vuoi…»

Il tono della voce era stato violento, minaccioso, ma Lucio Stazio non riuscì a finire la frase. Colui che aveva detto di chiamarsi Gavio Papio Mutilo gli aveva chiuso la bocca con un gesto della mano, alzandosi di scatto e interrompendolo. Si alzò di nuovo e riprese a parlare in latino per esser certo di esser ben compreso.

«Era la testa di mio fratello, morto durante l’assedio di Nola. Aveva il volto sfigurato in modo che non fosse riconosciuto. Mia moglie Bantia, d’accordo con me, l’aveva inviata a Silla in un cesto: volemmo fargli credere che io mi fossi suicidato. Ma Lucio Cornelio, pur lasciando che tutti credessero a quella storia, non cadde nell’inganno.»

Tolse la mano dalla bocca di Lucio e tornò lentamente a sedersi.

«Ma lasciate che vi racconti tutto, affinché possiate sapere.»

Lucio Stazio si avvicinò alla moglie prendendole le mani. Aveva ancora il respiro grosso dovuto alla reazione di poco prima. Si sedette accanto a lei e l’abbracciò. Nel suo viso si leggeva l’ombra del sospetto, in quello di Livia la paura; il suo cuore intravedeva, con terrore, il vero motivo di quella inattesa visita.

«Mi catturarono più di un anno dopo. Fu Verre a prendermi, sui sentieri del Monte Tiferno11, su ordine di Silla che non aveva mai smesso di cercarmi. Da qualche tempo mi ero ritirato, cieco, stanco di guerre, lotte, sangue, di tanti sogni infranti contro il destino che aveva sempre favorito, implacabilmen-

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Nell’antica Roma era la cerimonia solenne con la quale si tributavano gli onori a un generale che avesse conseguito una importante vittoria militare. Nella parata che lo costituiva venivano esibiti ai cittadini romani i prigionieri catturati, i resti delle vittime illustri uccise in battaglia e il bottino conquistato.

11 Nome antico del Matese, massiccio montuoso fra Molise e Campania, del quale il monte Miletto è la vetta più alta.

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te, Roma. Tuttavia abbandonare la lotta contro i nemici della nostra libertà non mi era stato possibile. L’odio di Silla nei miei confronti era vivo più che mai e io sapevo di non poter cadere nelle sue mani. Il suo desiderio di vendetta non si era saziato delle stragi e del sangue sannita versato a fiumi. Egli voleva anche me. Voleva la vendetta contro chi era riuscito a progettare persino uno stato indipendente da Roma, minacciando ancora una volta la sua stessa sopravvivenza; contro il capo dei più ostinati nemici… i più pericolosi: i Samnites, che avevano osato alzare la testa per riconquistare l’antica dignitas e la libertà… la nazione che al tempo dei padri aveva messo in discussione il dominio di Roma sull’Italia. Io, sopra tutti; mi considerava la mente della nuova rivolta, insieme a Silone, lo stratega della Confederazione nata per distruggere la Repubblica. Il Romano non mi aveva perdonato nemmeno la moneta oscena del Toro e della Lupa che ricordava a tutti l’oltraggio delle Forche a Caudio. Infine, avendo subito più volte sconfitte da noi, considerava la touto dei Pentri nefasta per la glorificazione piena della sua persona.»

Una pausa. Si aprì le vesti e mostrò in silenzio il tatuaggio sul petto. Nella stanza il silenzio era assoluto. Riprese.

«Il Dictator non volle lasciarmi andare. Fu dopo la caduta di Nola e la mia cattura, che decise di ritirarsi a vita privata. Fu il suo ultimo atto, aveva compiuto ciò che voleva.»

Lucio Stazio si liberò dalla mano della moglie e, ancora evidentemente incredulo, domandò: «Perché mai Silla ti avrebbe lasciato in vita?».

«Con me vivo, accecato e ridotto in schiavitù nella stessa Roma, la sua sete di vendetta otteneva ancora di più: la mia umiliazione a vita e, attraverso me, l’umiliazione perenne di tutti i Sanniti Pentri. Progettò che il mio dolore dovesse rinnovarsi giorno dopo giorno, fino alla mia morte che avrebbe dovuto coincidere con la sua. Fu questa, ai suoi occhi, la vittoria più raffinata. Il capo dei capi dei Sanniti costretto ad assistere al trionfo di Lucio Cornelio Silla, all’avvento del suo

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potere assoluto, alla restaurazione della grandezza di Roma. Capite, ora?»

Ancora una volta solo il silenzio rispose alla domanda del vecchio.

«Nel tempo in cui mi ha tenuto prigioniero, prima che morisse, egli mi faceva informare delle vittorie di Roma ovunque accadessero. Sapevo puntualmente delle sue vendette contro i nemici e delle proscrizioni. La Repubblica delle antiche e nobili famiglie patrizie, questo il suo disegno, solo dopo la definitiva scomparsa dei Sanniti, avrebbe potuto finalmente dominare il mondo.»

Chiese dell’acqua. Gli fu portata dal servo di casa. Riprese.

«Fui messo a conoscenza di tutti i dettagli della devastazione cui sottopose la mia terra. Un suo centurione recitava per me, una volta al mese, l’elenco dei nomi di capi famiglia catturati e decapitati nel Sannio da Verre e m’informava del destino di ogni famiglia i cui membri erano trucidati e i figli condotti in terre lontane. Le giovani stuprate, i giovinetti fatti schiavi. Un resoconto puntuale in cui le atrocità venivano narrate ridendo. Forse Silla sperava in un mio suicidio. O forse era il suo modo di torturarmi attuando ciò che aveva promesso: la cancellazione della nazione sannita e della sua memoria; l’oblio eterno dei nomi dei luoghi e dei monti abitati dai Pentri.»

Lucio Stazio e Livia apparivano impressionati da ciò che udivano, così come il loro servo che aveva continuato ad ascoltare fuori della stanza. Nessuno osò ancora fiatare.

«Una crudeltà violenta e raffinata» riprese il vecchio «superiore a ogni umana immaginazione. Ma poteva dirsi uomo Lucio Cornelio Silla? No, egli fu più faclmente uno spirito del male incarnato. Prima di essere accecato, la notte della mia prima cattura diciassette anni fa, mi costrinsero a guardare lo sterminio di tutti i membri della mia famiglia. L’ultima cosa che i miei occhi han visto. Tutto per un suo preciso ordine.»

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Chinò il capo e, per la prima volta dall’inizio del suo narrare, una smorfia di dolore gli apparve sul volto.

«Aveva deciso l’estinzione del sangue della mia famiglia, oltre che della mia touto…»

Una lunga pausa come a cercare un pensiero più profondo degli altri.

«Ma il Romano non ha vinto» disse, e alzò la testa in un rigurgito di orgoglio.

Livia strinse forte la mano del marito, mentre un dolore acuto le attraversò il petto. Lucio Stazio si scosse e riuscì a parlare. Si accorse in quel momento di avere la bocca secca.

«Cosa… che cosa vuoi nella mia casa? Perché racconti a noi tutto questo? Sono storie passate. Silla è morto da anni, ormai. Anche se tu… anche se voi foste davvero chi dite di essere, che senso ha ricordare il passato? E perché farlo oggi, qui in casa mia?»

Gavio Papio Mutilo volse i suoi occhi spenti verso i coniugi.

«Una notte di sedici anni fa» disse lentamente «riceveste qualcosa da custodire. Lo avete fatto bene. Qualcosa, o meglio, qualcuno che è caro a me come a voi, ma che non vi appartiene. Quel ragazzo è sangue del mio sangue e parte della grande nazione sannita. È l’ultimo dei Papii. Appartiene ai suoi monti, non a voi e tanto meno a Roma.»

Livia emise un urlo appena soffocato, il marito dovette sorreggerla. La donna cadde, esanime, fra le sue braccia.

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III. Promesse

Quella mattina Marzio Stazio si alzò prima dell’alba, come accadeva solo nei giorni dedicati ai viaggi o agli eventi eccezionali. La luce del sole, che iniziava appena a colorare l’orizzonte, prometteva di illuminare per lui una giornata memorabile e l’eccitazione non gli aveva permesso di dormire più a lungo. Il giovane si sciacquò appena gli occhi e con gesti frettolosi iniziò a cercare gli abiti nella semioscurità. Erano i vestiti nuovi per montare a cavallo: un regalo di sua madre, i più belli mai ricevuti. Fu preso da un’euforia difficile da controllare che raggiunse il culmine quando calzò gli stivali nuovi, fatti dal migliore artigiano di Roma. Si sentì come un semidio in grado di domare tutti i cavalli del mondo e di cavalcare persino Pegasus12.

Non alto, ma robusto, un fisico non proprio latino il suo, di certo originale fra i giovani di Roma. Era forte e in salute, Marzio, anche bello; a sentire la governante di casa, il più bel giovane di Roma. «Il mio dio greco» diceva di lui la madre Livia. Erano queste le parole con le quali la donna aveva sempre rassicurato suo figlio, che fin da piccolo aveva domandato alla madre il perché della sua diversità dalla maggior parte dei suoi compagni di giochi. I capelli nerissimi e crespi, le sopracciglia folte e una barba che si annunciava precoce e ispida tradivano origini lontane dalla città dei sette colli e dalle genti della stessa campagna romana. I suoi erano lineamenti decisi, a tratti di una certa durezza. In questo il giovane sembrava somigliare proprio a sua madre, una donna dall’aspetto fiero, gli occhi nerissimi e la pelle bruna. Del tutto diverso, invece, era il suo sorriso, che iniziava da un

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12 Nella mitologia greca era un cavallo alato a cui si attribuivano imprese favolose.

PARTE I

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Indice
I E venne il tempo 8 II Un fantasma dal passato 13 III Promesse 21 IV La rivelazione 33 V Nessuno deve sapere 46 VI In viaggio 55 VII Prima Guerra Sacra 63 VIII La terra dei Marsi 75 IX Il Luco di Anxa 90 X Presentimento 104 XI Radici 107 XII Il Monte del Luparo 122 XIII Soldati 138 XIV Un matrimonio 148 XV Il nipote di Silone 156

PARTE II

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XVI Amori 170 XVII All’ombra della Montagna Madre 181 XVIII L’esercito del Gladiatore 195 XIX Verso il Sannio 218 XX Vereja 227 XXI I fuochi del solstizio 235 XXII Visioni 247 XXIII La Tavola degli Dèi 258 XXIV Iniziazione 264 XXV Safinìm! 274 XXVI Gli ultimi Safinos 281 XXVII La luce e le tenebre 295 XXVIII Terra madre 311 XXIX Nel Santuario della Nazione 319 XXX Onore e virtù 344 Note storico-didattiche 358

La prima moneta col nome Italia Moneta della guerra sociale, 91 a.C. È la prima documentazione del termine “Italia” coniato su moneta sia nella traduzione latina, come nell’esemplare qui riprodotto, sia nella versione originale in lingua osca: Viteliú. Al dritto, figura femminile con serto di olivo e gioielli (Italia, appunto).

Nel rovescio, la scena del giuramento con i rappresentanti di otto dei dodici popoli insorti.

La moneta della riconciliazione tra Roma e Italia Denario in argento emesso il 68 a.C. a nome di Q. Fufius Calenus e Mucius Cordus. Al dritto, le teste affiancate di Honos e Virtus, le due divinità sotto i cui auspici avvenne la riconciliazione.

Nel rovescio, il simbolo della pace e le due donne che si stringono la mano: l’Italia con cornucopia, simbolo di fertilità e abbondanza, e Roma armata di giavellotto con il piede destro sul globo.

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Il nome che abbiamo dato al nostro sogno di libertà sopravvivrà: Viteliú o, nella lingua dei Romani, Italia, esiste, rappresenta popoli forti di cui Roma non potrà fare a meno se vorrà recitare il ruolo che gli dèi le hanno riservato. Ciò che è nato dal sangue e dal dolore dei nostri tempi sta germogliando. Dalla morte nasce sempre una nuova vita.

72 a.C., idi di maggio. Il giorno tanto atteso da Marzio: per la prima volta monterà Arco, uno splendido stallone, e darà il primo bacio alla bella Lucilla. Ma in serbo per lui c’è qualcosa di ben più grande.

Un vecchio cieco si presenta alla sua porta con un segreto che travolgerà la sua vita. Per Marzio è l’inizio di un viaggio nella natura selvaggia e misteriosa, teatro di epiche battaglie, amori, gesta di uomini e dèi, alla scoperta di un popolo indomito e fiero che ha combattuto per realizzare il sogno di una nazione unita e libera. Un grande e rigoroso affresco storico che getta luce su un periodo ancora poco noto della storia romana e sannita, da cui ebbe origine l’Italia.

Un romanzo dalla scrittura rigorosa e avvolgente, ricco di avventure e colpi di scena che lasciano senza fiato il lettore dall’inizio alla fine.

Nicola Mastronardi è scrittore, giornalista e autore di programmi televisivi per la Rai. Membro dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, ha scritto saggi sulla civiltà pastorale appenninica. Il suo romanzo Viteliú. Il nome della libertà, alla quinta ristampa, è divenuto un caso letterario.

€ 14,50

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