Grazia Dore
VILLAGGIO e altri racconti
Pubblicazione a cura di Italus Edizioni dell’Associazione Italus (Roma) www.italusedizioni.info Editor: Tommaso Dore Progetto grafico e impaginazione: Francesco Voce Immagine di copertina: Scorcio di Olzai dal piazzale di Santa Barbara, acquerello di Josè Luis Vertiz (2014). © Copyright 2014 - Archivio famiglia Dore Ogni riproduzione, anche parziale, della presente opera è vietata salvo autorizzazione scritta. Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento sono riservati.
PREFAZIONE Vengono qui presentati alcuni racconti di Grazia Dore – scrittrice «schiva, sdegnosa quasi», come l’ha definita Maria Giacobbe – per troppi anni tenuti nascosti ai lettori e quasi dimenticati. Solo tre di questi, infatti, sono già stati pubblicati: il primo, “Villaggio”, apparve nel settembre del 1954 sul periodico sassarese Scuola in Sardegna; il secondo, “Triste tempo”, fu allegato alla raccolta completa delle sue poesie nel volume Giorni disabitati, edito nel 1990 e curato da Bachisio Porru; il terzo, “Le valige rubate” (senza titolo nel dattiloscritto originale), è stato pubblicato nel 2008 nella monografia sull’autrice, scritta in dialetto sardo da Francesco Casula per la collana Omines e feminas de gabbale, supplemento del periodico Sa Republica. In particolare, “Triste tempo” – come ha saputo ben sintetizzare Bachisio Porru – «è la proiezione delle reazioni umane, sentimentali, intellettuali e morali della scrittrice alla vicenda di cui fu protagonista il fratello 5
NOTA BIOGRAFICA Grazia Dore nasce l’8 febbraio 1908 a Orune, paese in cui il padre Francesco si era stabilito per esercitarvi la professione di medico condotto, lasciando la natia Olzai. Nel 1917 si trasferisce con tutta la famiglia a Roma, dove Francesco Dore già viveva dal 1913, dopo essere stato eletto deputato nel gruppo radicale. Studia al liceo Mamiani, divenendo l’alunna prediletta di Alfredo Panzini che, nella prima pagina de La Fiera Letteraria del 27 febbraio 1927, fa pubblicare un suo componimento annunciato a caratteri vistosi: “Alfredo Panzini scopre una nuova scrittrice”. Nel 1926 muore prematuramente la madre, Maria Giannichedda, e negli anni successivi il fratello Antonio, comunista, per il suo credo politico, è costretto dal regime fascista a una vita clandestina, finendo poi in carcere e al confino. Nel 1932, dopo la laurea in lettere, lavora per circa sei anni alla Biblioteca Vaticana, dove affina le sue capacità di ricerca storica. 9
VILLAGGIO Il villaggio si aggrappava alla montagna come una bocca avida, pendulo, però, e vizzo, perché la montagna, non solo si era sempre rifiutata di nutrirci, ma ci minacciava mostrando tutti i suoi denti nelle rocce bianche. Gli abitanti si aggiravano per le strade, piccoli di statura, e quasi furtivi, con grosse teste coperte da capelli ruvidi, bruno fulvi. Avevamo l’aspetto di volpi inquiete, non la malizia. Ci riusciva a stento di strappare un pugno di patate ai pochi campicelli coltivati quasi timidamente, per non irritare l’aspra natura disposta appena a tollerarci. Qualcuno tentava di trafficare nei paesi vicini, andava rubacchiando qua e là, ma senza fortuna. Animali selvatici si aggiravano attorno alle nostre case: cinghiali, volpi e grosse biscie, e le case stesse sopportavano con sdegno di servirci, si ricoprivano di muschio e di bizzarre vegetazioni, le pietre dei muri erano pur sempre roccia, il legno dei tavolati, albero frusciante. Noi dicevamo che, un giorno o l’altro, la na13
tura ci avrebbe ringoiato, semplicemente, annullando, una volta per tutte, il nostro sforzo di volerci umani a suo dispetto. Uno dei miei fratelli aveva deciso, nel caso, di diventare un cavallo rosso, ma poi se ne era pentito, perché quelli della pianura, più abili di noi, avrebbero potuto catturarlo e condurlo lontano. Io, invece, avrei preferito essere semplicemente una lucertola, e nelle solitudini. Il cimitero era assai vicino all’abitato, sui morti si gettavano appena poche pale di terra, così essi non dovevano sentirsi proprio isolati, ma ascoltavano le nostre voci, e la sera stavano sotto gli alberi, e si udivano mormorare tra loro. Ci osservavano sussurrando, e se nessuno di noi li scorgeva, era solo perché non osava volgere lo sguardo dalla loro parte. Al primo imbrunire ci chiudevamo in casa, tra mobili poco meno che informi, quasi squadrati da mani infantili. Per alcuni di essi era impossibile capirne l’uso, eppure erano già vecchi, e la mamma, o il babbo, dicevano con orgoglio di averli ereditati da qualche nonno, o prozia. Di questi parenti ciascuno di noi ragazzi aveva il nome. Io non ero io soltanto, ma anche la 24
mia bisnonna e una zia, e una lontana cugina. Sapevo la loro storia e chiedevo sempre che me la raccontassero. Dopo tutto, se erano riuscite esse a vivere, per virtù del nome ci sarei riuscita anch’io. Il semplice fatto d’aver vissuto acquistava ai nostri occhi un valore eroico specie se alla vita si era riusciti a dare una sia pure rozza forma. Ci vergognavamo di non aver saputo mai soggiogare la terra, cosa che, a quanto pareva, tutti altrove facevano. Mietere e raccogliere non erano per noi. La terra rifiutava con violenza i nostri semi, erompeva in macchie intense, in rovi. Così, in ogni generazione, c’era nel paese chi finiva con l’essere lui, a sottomettersi. Spariva nei boschi, vi derubava gli uomini, li uccideva. Il nostro bisnonno una volta rientrò dalla campagna insanguinato. Aveva strappato la camicia ed era riuscito a bendarsi. Non disse chi l’aveva ferito. Per coloro che rientravano nella ferinità era come se un male sacro li colpisse e ne avevamo orrore e rispetto. Pareva a me, nelle notti paurose, di sentirli cozzare contro le porte, disperati di voler essere an25
TRISTE TEMPO La mamma aveva un bellissimo modo di dire: «Mi sento male» oppure: «Mi duole la testa». E aggiungeva: «Se lo dico io, che non mi lamento mai!». Non c’era in queste parole nessun sottinteso raffronto ma Anna chinava le palpebre su uno sguardo che si faceva opaco, quasi ostilmente, lei che accusava ogni giorno un disturbo... La salute di noi tre bambine era causa di continui fastidi: tosse, raffreddori, mal di orecchi, mal di gola. Tuttavia la mamma non voleva sentir dire che eravamo delicate. Delicate! Alla nostra età lei non sapeva nemmeno cosa fosse un termometro. «Però – disse una volta Marta, la più piccina – tu eri ricca, non andavi a scuola lontana a piedi, ogni giorno». Parve alla mamma una risposta notevole e ne parlò a lungo. Sì, la piccola era intelligente, aveva il dono della risposta pronta, della osservazione opportuna. Era vero. Lei, la mamma, e le sue sorelle, studiavano a casa, non erano mai state costrette a uscire con qual26
siasi tempo. E se anche lo avessero fatto, le stoffe di allora proteggevano realmente chi le portava, e le scarpe non si rovinavano per un po’ di acqua! Lo sguardo di Anna, che taceva sempre, si fermava sulle nostre scarpe con una espressione difficile da definire. Ma io capivo che Anna era pronta a difendere anche loro, a far causa comune persino con i nostri abitini logori. E un giorno che la mamma sorrideva, scuotendo la testa nel doverci mettere a letto tutte e tre con la febbre, Anna ebbe a dire: «Non è colpa nostra». Non c’era, in quel che diceva Anna, la pacata constatazione della realtà che rendeva accettabile qualsiasi cosa dicesse Marta, ma una implicita polemica. La mamma ne fu offesa, rimase pensosa quella sera, parlò poco. Anna aveva tredici anni, in quel 1918, io undici, Marta nove. E poi c’era Gianni che divideva tutto con noi, compresa la tosse, i raffreddori, il mal di testa, e tuttavia era un ragazzo. Perciò vi erano momenti in cui pareva estraniarsi dalla nostra vita comune e quando lo sforzavamo a parlarci dei suoi amici, di giochi e progetti che non poteva dividere con le sorelline, lo faceva con riluttanza. C’era del mi27
stero in lui e anche per questo lo adoravamo, Anna soprattutto. Ma altre cose andavano meno bene. Gianni perdeva e sciupava ogni cosa, era disordinato, impulsivo, nelle sue brevi e violente collere pareva volesse scagliarsi persino contro Marta. Ma non lo faceva. Tuttavia non ce ne saremmo preoccupate. Le reazioni della mamma, di solito così orgogliosa di lui, erano ben altrimenti paurose. Inaudito, essa diceva, sciupare, perdere così ciò che il babbo guadagnava con tanta fatica. Gianni, se agiva in questo modo, non si curava dei genitori, non pensava alle sorelline. Un giorno o l’altro avrebbe dato alla famiglia un grande dolore. E questo dolore era già in noi, ma ben diversamente da come supponeva la mamma. Chinavamo la testa persuase di una sofferenza che maturava ma pronte, quando fosse venuta, a resisterle, insieme a Gianni. Non ci saremmo rifiutate di seguirlo in una strada pericolosa, se l’avesse presa. Pericolosa, ma certo giusta. Comunque, ed era strano che la mamma non lo capisse, non poteva esserci in lui nessuna volontà che ci fosse ostile od estranea. Intan66
LE VALIGE RUBATE Durante la guerra la famiglia dei miei nonni paterni viveva in un paese quasi privo di comunicazioni in un’isola. I porti erano praticamente chiusi, nulla più arrivava dal mondo di fuori. Gli abitanti dell’isola, priva di industrie, consumarono in breve tempo le scarsissime mercanzie dei poveri negozi. Dopo il primo anno era pressoché impossibile trovare in vendita un metro di stoffa o un paio di scarpe, a meno che non si pagassero fortissime somme al mercato nero. Ma la gente, nella grande maggioranza, non aveva denaro. Fu un tempo di miseria biblica, a cui si aggiunsero una siccità costante, e infine le cavallette. Appena giorno gli abitanti del piccolo paese sparivano nella campagna circostante, cercando, come bestie ansiose, se la terra non nascondesse ancora una possibilità di nutrimento. Insorsero anche istinti di violenza e di rapina illanguiditi, però, da una fame crescente. Chi usciva con delle calzature non ancora completamente logore sentiva 67
DIO CON NOI La mamma era molto bella e si era sposata assai giovine. Ebbe dei figli dall’uomo che amava, ma li riconosceva da Dio. Così essa era partecipe della continuazione, dell’ordine e della bellezza del mondo. Belli, però, noi non lo eravamo affatto, forse perché qualcosa in noi si rifiutava alla bellezza della mamma come ad una esigenza che minacciasse di soverchiarci, rinchiudendoci in una forma, che dopotutto, non era la nostra. Tuttavia la mamma asseriva egualmente che io, in special modo, ero bellissima, più ancora di lei. Sorrideva alla squisitezza delle mie mani e non si sentiva nella sua voce nessuna esitazione, nessuno sforzo, quando affermava che i capelli lisci davano uno straordinario carattere al mio visetto rotondo. Infine, tutto ciò che viene da Dio non può non essere bello. Pareva che appena nati, Egli si fosse chinato su di noi quasi a darci una compiutezza ultima. Probabilmente ci aveva sfiorato con una leggera carezza come faceva il babbo, proprio sulla fronte, magari, dove, a 88
sentire la mamma, tutti noi avevamo qualcosa di particolarmente delicato e notevole. Chissà che, invece, questo non fosse avvenuto al momento del Battesimo. Io immaginavo queste cose, ma non facevo alla mamma domande indiscrete. Tuttavia non tardai ad accorgermi che gli altri non pensavano allo stesso modo. «E chi erano – avrebbe risposto fieramente la mamma – questi altri?». Persone prive di importanza, sciocche e meschine. Lei non se ne sarebbe curata mai. L’avrebbe detto, ma non era vero. I suoi occhi, anzi, li scrutavano con una domanda ansiosa. Qualche volta persino me ne vergognavo per lei, con tanta chiarezza che mi pareva che l’esprimesse. Ci avrebbero voluto? Ci avrebbero capito? Ci avrebbero amato? E infine, come vivevano, essi? Come pensavano ed agivano? Era di un estremo interesse saperlo, perché noi avevamo dell’esistenza un’idea che non era più che una intuizione della mamma, basata su una eccessiva semplificazione di esperienze profonde. La mamma a volte, persino apertamente, voleva imporcela. Noi tentavamo di adeguarla alla 89
realtà in gran parte ancora misteriosa e mobile. Comunque, una cosa soltanto era certa. Dio era nel passato. Dio era nel futuro. Dio era con noi. Quando ero bambina, il Signore era vecchissimo, aveva appena creato il mondo ma non era ancora disceso ad abitarlo. Stava nei cieli, con la sua grande barba bianca. Lo spazio, dunque, lasciato, per così dire, a sé stesso, non conosceva né pietà né legge. Era orribilmente freddo, duro. Uomini e donne vi si agitavano con sguaiataggine, con strane mosse repulsive. «Via – diceva stizzita la mamma – svegliati, parla». Ma se tentavo di farlo era come se lo spazio mi si avventasse contro. La gente pareva non vedermi neppure, mi urtava sbadatamente. Mi soverchiavano le loro voci stridule. Poi s’incarnò la misericordia di Cristo. Noi leggevamo le parabole più semplici e attraverso la vacuità degli sguardi che incontravano per caso e quasi senza scorgermi i miei, cominciò a trasparirmi il dolore. Fu da allora che io amai il mondo, di un amore proprio disperato e infelice. 90
IL VISO COMPRATO Pareva che comprare un viso nuovo non fosse molto caro, e nemmeno difficile. L’importante, per questa, come per ogni altra cosa, era avere conoscenze, ma la donna conosceva, per caso, proprio la persona necessaria, e decise di comprarselo. Non volle un viso da giovanetta, ma da donna matura, com’era lei, bello, però, e soprattutto, di durata. Possibilmente due occhi lunghi e una bocca severa: nulla dunque di appariscente. Andò, dunque, a comprarlo, e non volle metterlo prima di essere nella sua camera. Lo avvolse con cura e lo mise nella borsa. La padrona di casa la vide rientrare con palese malumore. Non accadeva mai diversamente, anzi, comunque si facesse, era sempre o troppo presto o troppo tardi e, in ogni modo, un torto da scontare subito. Varcata la soglia di casa anche il tempo diveniva un feroce possesso della padrona, che però, non lo affittava, ma lo teneva fieramente per sé, rifiutandosi di svelarne il segreto e, tanto meno, di farlo corrispondere a quello dei suoi schiavi e 91
nemici: gli inquilini delle varie camere. La donna non volle avvertirne il freddo sguardo, né sentire come, lei entrata, veniva sbattuta la porta. Ora, ben diversamente dalle altre volte, questo non la turbava. Aveva qualcosa con sé. Sarebbe stata bella. Svolse il viso con precauzione, con mani che tremavano, e fu per mancarle il cuore. La sfortuna dei poveri: il viso, per quanto avvolto meticolosamente, aveva sofferto di qualche urto inavvertito per strada, come appariva da una piega sulla guancia, che, sebbene leggera e quasi invisibile, probabilmente non sarebbe andata via. Era bello ancora, ma non più tanto bello. Visi simili si potevano avere per molto meno di quel che aveva dato lei. Grosse lagrime le salirono agli occhi. Su queste lagrime, attentamente, ma risolutamente, cominciò a mettere il nuovo volto. E non è a dire che non le dolesse farlo. Il suo naso, per esempio, non aveva per un estraneo nulla di interessante, ma era un naso di famiglia, e lei stessa lo aveva visto, più o meno corto e grosso, a molte persone care. Qualcuno lo aveva trovato grazioso, e anche a lei era parso un tempo che la sua forma senza prete92
se ricordasse quel che di semplice, eppure di vivo e arguto, era nello spirito dei suoi. Spirito che, d’altra parte, a lei non era mai servito a nulla. Così era per la bocca, simile a quella della sua cara mamma, e per gli arruffati capelli. Ma inutile rattristarsene, tutto questo doveva ben morire, un giorno o l’altro. Meglio per lei non vedere più quell’intenso scolorare in cui la sua apparenza, invecchiando, pareva già sottrarsi ad ogni sguardo visto che non riusciva a sopportarlo. La padrona di casa intuì che avveniva qualcosa. Tutti, infatti, facevano come se fossero in casa loro, introducendo di soppiatto nelle camere emozioni e pensieri per i quali, però, non pagavano nulla. Bussò leggermente ed entrò senz’altro. Sorprese in tal modo la donna e non tardò a capire ciò che questa faceva, poiché anche lei aveva sentito parlare della nuova scoperta, da poco messa in vendita. Che razza di occhi! disse. Detestava gli occhi lunghi. Agli uomini non piacciono affatto. S’informò del prezzo: denari buttati. Lei non avrebbe cambiato il suo viso per tutto l’oro 93
IL VISO PERDUTO Si risvegliò allo stesso modo di tutte le mattine, poi sentì l’angoscia su di lei come una mano gelida, che volesse tenerla ferma. Eppure il giorno prima era stato lieto, e lui pareva veramente deciso a sposarla. Il suo corpo si riscosse, e con una mossa brusca scostò le coperte. Era un corpo energico, abile, straordinariamente bene educato ed efficiente. Più di una volta era stato lui, nei suoi smarrimenti, a prendere le redini, sottraendola a situazioni che avrebbero potuto diventare difficili. Bello, anche, e ben fatto. A quell’ora aveva l’abitudine di alzarsi, e si faceva tardi. Infilò la vestaglia e andò allo specchio. Solo per darsi una ravviata ai capelli prima di uscire dalla camera, non perché sentisse di dover sottoporre il suo viso a nessun controllo. Lo sguardo incontrò, senza a tutta prima riconoscerla, un’apparenza scolorata. Lei, invece, era piena di animazione, colore e vita. Prese distrattamente dal cassetto un sapone per sostituirlo al già consumato. Ma, chi era, 146
quell’apparenza? E come poteva essere lei? Fu un urto improvviso, un colpo diretto al cuore. Riuscì a schivarlo, così che non la colpisse in pieno. Ne aveva viste altre. Lei non aveva avuto un’esistenza facile. Ora, però, era riuscita. Un ultimo sforzo ancora, e sarebbe riuscita per sempre. Può capitare a chiunque di sentirsi un giorno stanco e pallido. O forse sullo specchio cadeva una luce falsa. (Ma non era stanca, e la luce non era falsa). Prima di scrutarsi un’altra volta sorrise e scosse i capelli. Ecco, così, senza paure ridicole. Si sarebbe ritrovata non diversa dagli altri giorni. Il sorriso che vide le stirava appena le labbra. L’immagine stava raccolta in fondo allo specchio, chiusa in sé stessa, indifferente a ciò che si poteva pensare di lei. Ne emanava un barlume freddo, una deliberata coscienza. L’uomo che amava, sebbene sembrasse realmente innamorato, era, però, più giovane di lei, e lo scoraggiamento, privo tuttavia di amarezza, colmava gli occhi dell’immagine. L’abitudine di ogni mattina la spingeva alla porta. Il suo corpo vivo, impaziente dell’immobilità, le belle gambe, le braccia perfette! E 147
quel miserabile viso contraddiva a tutto questo, se ne rendeva estraneo, aspettava proprio oggi a rivelare, in una brutale franchezza, i suoi più nascosti pensieri. Il viso a cui si era sempre sacrificata, che le doveva tanto. Aprì la porta e attraversò il corridoio quasi timidamente. La cognata le lanciò uno sguardo, si rivolse ancora ad osservarla, ma scosse le spalle. Era una madre di famiglia, lei, con quattro figli, aveva ben altro per la testa che gli umori altrui. I ragazzi, piuttosto, che avevano le scarpe inservibili. Entrò, decisamente, dove il marito finiva di vestirsi, gli disse: «I tuoi figli non hanno scarpe». Glielo diceva, col tono di un’accusa implacabile, ormai da qualche giorno. «Va bene – disse il marito – lo so. Cosa vuoi che ti faccia? Lo sai quanto guadagno, lo do tutto a te, lo stipendio. Vuoi che rubi?». «E con questo? – ribatté lei – Credi che me lo mangi io, il tuo stipendio?». I ragazzi, con le loro scarpacce in mano, mentre stavano per infilarsele, ne sentivano la voce stridula, sofferente. Era pazza, la mamma, a fare queste scene. Credevano di odiarla, quasi. Uscirono dopo un poco e il più piccino 148
INDICE Prefazione
5
Nota biografica
9
Villaggio
13
Triste tempo
26
Le valige rubate
67
Dio con noi
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Il viso comprato
91
Giorno di festa
116
Il Cristo povero
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Il viso perduto
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151