A SMALL TOWN. THE MONUMENTAL CEMETERY IN MILAN

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LA PICCOLA CITTÀ

IL MONUMENTALE DI MILANO



LA PICCOLA CITTÀ

IL MONUMENTALE DI MILANO Carla De Bernardi Lalla Fumagalli



Il Sindaco

Il Monumentale è il poema epico di Milano: è l’espressione della volontà di affrontare l’evento supremo in modo da non cancellare ma esaltare il talento, la voglia di fare e la generosità dei tanti che hanno reso grande la città. Tra i suoi viali ci si sente parte di una grandezza che attraversa il tempo, che cerca un senso non consolatorio ma ostinatamente costruttivo. Valorizzare il Monumentale è valorizzare Milano, svelandone i tanti aspetti meravigliosi e troppo poco conosciuti della sua storia. Questo volume ha il pregio di nascere da ore di cammino tra i marmi, dall’analisi puntigliosa di iscrizioni, manufatti, opere d’arte, disegni e fotografie d’archivio. La voce di diversi esperti riesce a comporre da tanti dettagli il ritratto coerente del nostro Monumentale. Un cimitero diverso, che non ti aspetti. Il Tempio Crematorio, progettato da Carlo Maciachini e dall’ingegner Celeste Clericetti è stato il primo in Europa. Fu copiato a Londra, a Parigi, a Boston, in India e in Giappone e contiene ricchissimi riferimenti architettonici ed epigrafici ai movimenti razionalisti e alle invenzioni scientifiche di metà Ottocento. Le sepolture sono la viva espressione della vita e dell’ingegno di chi vi riposa: visitarle è una conversazione con la storia e con i valori della nostra civitas di milanesi. Si parla spesso del Monumentale come di «un museo a cielo aperto»: è una espressione riduttiva. Il Monumentale è e rimane un luogo sacro, per laici e religiosi. Ma è insieme il luogo che meglio di ogni altro sintetizza e spiega il valore del nostro essere Milano. Giuseppe Sala


Con il Patrocinio dell’Accademia di Brera

Si ringrazia

Membro di

Amici del Monumentale di Milano è un’associazione senza fini di lucro nata nel 2013, allo scopo di tutelare, conservare e valorizzare i beni architettonici e artistici del prestigioso Cimitero, in collaborazione con le istituzioni. Si occupa di censire, documentare e promuovere quell’immenso patrimonio storico-culturale per salvaguardarne il valore di testimonianza e di memoria. Nel 2013, insieme alla Fonderia Artistica Battaglia e all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha progettato il Laboratorio di restauro interno al Cimitero e nel 2015 ha collaborato alla donazione di MU-141 La vita infinita, un’imponente scultura in bronzo offerta alla città di Milano dal Maestro Kengiro Azuma e da Battaglia. L’associazione ha inoltre realizzato i restauri dell’Ecce puer sulla tomba di Medardo Rosso e del monumento di Nicostrato Castellini, prima opera posizionata nel 1867 nell’illustre Recinto Maciachini. Per le sue attività, Amici del Monumentale di Milano si avvale di un Comitato di Garanti e di un Comitato Scientifico. È membro di ASCE, Association of Significant Cemeteries in Europe, e di FIDAM, Federazione Italiana delle Associazioni degli Amici dei Musei. Presidente Onorario è il Professor Marco Vitale. Il sito web dell’associazione è www.amicidelmonumentale.org.


Sommario

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Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi 13

46 Antonio Beretta, il primo sindaco e la Milano di allora 53

A chi legge

Il Cimitero Monumentale, finalmente

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56 Nicostrato Castellini

di Marco Vitale

58 Dopo Nicostrato

Cimitero Monumentale di Milano. Un museo a cielo aperto 24

Un tenace filo di seta

di Marco Galateri di Genola 27

In fondo al cimitero: una storia molto ÂŤmilaneseÂť di Alessandro Porro

61

IL MUSEO A CIELO APERTO 62 Arte e architettura

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Ricordi

di Vittorio Gregotti

79 Famedio e Cripta, Gallerie, Morgue e‌ giardino segreto

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114 Il censimento di Michele Sacerdoti

PARTE PRIMA La vera storia del Cimitero Monumentale di Carla De Bernardi

34 La macchina del tempo

117 Il Recinto Maciachini

36 Il cimitero di pietra

161 Riparti XVII-XVIII-XIX-XX ed Esterno di Ponente

39 Il concorso o, per meglio dire, i concorsi

169 Il Cimitero Maggiore

44 Gustavo Adolfo Noseda, promettente quanto sfortunato compositore

172 In memoriam di Carla De Bernardi e Lalla Fumagalli


© 2017 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Tutti i diritti riservati

Si ringraziano per il contributo:

In copertina © Carla De Bernardi Deposizione, 1936 Enrico Pancera, Fonderia Artistica Battaglia

Progetto grafico, impaginazione e copertina Break Point Sas Fotolito Break Point Sas

Associazione Leone Lodi C E N T RO A RT I S T I C O

ALIK CAVALIERE

Eredi Pellini

Pierluigi Donadoni - Sugar Corporate Image Srl per le pp. 15, 66-67, 70, 87, 90, 104-105, 129, 138-139, 163, 179, 192, 194, 230-233, 236-237 Disegni della sezione Simboli (pp. 268-278) Pierluigi Donadoni Sugar Corporate Image Srl Stampa e confezione Stamperia Scrl, Parma marzo 2017 ISBN 978-88-16-60539-8 © Tutti i diritti riservati Non è possibile riprodurre o archiviare quest’opera o parti di essa in nessuna forma cartacea, elettronica, meccanica, audiovisiva o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti.

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MUSEO MEDARDO ROSSO Barzio

SOCREM MILANO Società per la cremazione di Milano - Ente Morale dal 1876


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PARTE SECONDA Gli artisti 178 Enrico Butti di Francesco Rizzi 184 Ernesto Bazzaro al Monumentale di Marilisa Di Giovanni 192 Medardo Rosso al Cimitero Monumentale di Milano di Ilaria M.P. Barzaghi 196 Leonardo Bistolfi di Alessandra Montanera 204 Un museo nel museo. Adolfo Wildt al Monumentale di Elena Pontiggia 210 Eugenio Pellini al Cimitero Monumentale di Stefano Vittorini e Federica Berra

230 L’arte di vivere in eterno. Giannino Castiglioni e il Cimitero Monumentale di Paola Mormina 240 Lucio Fontana: l’attività al Cimitero Monumentale di Milano di Paolo Campiglio 248 Leone Lodi. Il riposo della pietra di Chiara Gatti 254 Alik Cavaliere di Fania Cavaliere 258 Incontri al Monumentale. Le sculture di Floriano Bodini nel cimitero milanese di Sara Bodini 262 Simbologia, allegoria, rappresentazione di Carla De Bernardi 268

216 Michele Vedani al Monumentale, una lunga fedeltà di Tiziana Rota

Simboli

di Carla De Bernardi e Lalla Fumagalli Disegni di Pierluigi Donadoni 279

224 Armando Violi, chi era costui? di Andrea Beltrami 229 La perizia calligrafica di Violi di Giulia Vescogni

Biografie 285

Bibliografia 289

Elenco dei cittadini illustri nel Famedio



Dialogo della Moda e della Morte Terza delle Operette Morali di Giacomo Leopardi Recanati 15-18 febbraio 1824

Moda. Madama Morte, madama Morte. Morte. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami. Moda. Madama Morte. Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai. Moda. Come se io non fossi immortale. Morte. Immortale? Passato è già più che ’l millesim’anno che sono finiti i tempi degl’immortali. Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del Cinque o dell’Ottocento? Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno. Moda. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami. Morte. Ti guardo. Moda. Non mi conosci? Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi. Moda. Io sono la Moda, tua sorella. Morte. Mia sorella? Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità? Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria. Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.

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A chi legge

Questo libro nasce per ricordare, celebrare e festeggiare i primi centocinquant’anni di vita del Cimitero Monumentale, inaugurato il 2 novembre 1866. Un secolo e mezzo fa. Cuore pulsante di Milano allora, cuore pulsante di Milano oggi. Tra i suoi viali riposano tutti coloro che hanno reso grande la città, permettendole di diventare una metropoli internazionale… Eterni ospiti di monumenti e di edicole che, a loro volta, testimoniano la bellezza dell’arte e dell’architettura italiane. Abbiamo voluto raccontare la storia di questo luogo unico e speciale anche attraverso le immagini, convinte come siamo che parlino più di qualsiasi testo, seppur interessante. Abbiamo cercato aneddoti, curiosità, piccoli segreti, episodi poco noti, pettegolezzi d’epoca. E schizzi, disegni, fotografie ingiallite, prospetti e planimetrie. Alcune grandi come un lenzuolo, come quelle interminabili dell’Edicola Zonda. Abbiamo scelto, visto che si tratta di celebrare un compleanno importante, un taglio di cronaca e di storia, lasciando che l’aspetto artistico appaia costantemente in filigrana ma senza prevalere, perché esistono esperti molto più preparati di noi in questo campo, mentre crediamo che narrare storie sia alla nostra portata di appassionate dilettanti e di curiose esploratrici. Per questo abbiamo chiesto agli studiosi, agli esperti, ai responsabili di musei e fondazioni e a chi li ha conosciuti e amati di parlarci dei «loro» artisti, mettendone in risalto soprattutto l’anima, al di là della fama e della gloria eterna che hanno meritato. E dalla piccola alla grande città il passo è stato breve.

Abbiamo raccolto, rincorrendole a una a una, vicende più o meno importanti ma, a volte, davvero intriganti, da metà Ottocento a oggi. Ci siamo molto divertite nel ricostruire scampoli di vita quotidiana, affiancandoli a eventi di vasta portata. Per fare tutto questo abbiamo camminato ore e ore, per giorni e giorni, per anni e anni, ormai davvero tanti, con il sole, il vento, la pioggia e la neve, osservando, dapprima quasi sbadatamente poi con sempre maggior attenzione, scrutando, interrogando, cercando firme, esaminando dettagli, dibattendo e confrontando per poi correre a consultare documenti negli archivi storici, a leggere libri nelle biblioteche, a visitare palazzi, mostre, musei e nascosti studi d’artista alla ricerca di conferme, di convalide, di riscontri, di testimonianze. Le nostre ricerche negli archivi hanno dato risultati sorprendenti per varietà e ricchezza di documenti e immagini. Un bel lavoro di cui siamo molto soddisfatte e che vogliamo condividere con tutti voi che avrete la pazienza, e speriamo il piacere, di leggerci. E poiché ogni scelta è, ahinoi, nello stesso tempo un’esclusione, ci scusiamo per tutto quello che non siamo riuscite a raccontare. Promettiamo che riprenderemo presto da dove oggi finiamo. C’è ancora così tanto da dire! Ringraziamo di cuore tutti coloro che non hanno esitato neppure un istante a offrirci la loro generosa competenza e che sono saliti con noi su questa macchina del tempo, fatta semplicemente di carta e inchiostro. Li trovate tutti in queste pagine. Carla e Lalla

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Tutti torniam alla gran madre antica Trionfo della Morte Francesco Petrarca


Cimitero Monumentale di Milano. Un museo a cielo aperto di Marco Vitale

Nel mio girovagare per il mondo, inseguendo affascinanti montagne, ho scoperto che, per calarsi rapidamente nello spirito di una nuova città o paese o villaggio, non vi è luogo più adatto del cimitero. E ciò vale nell’estremo Sud, a Ushuaia in Patagonia, l’estremo insediamento umano prima della traversata verso l’Antartide, come nell’estremo Nord, a Talkeetna, il villaggio dell’Alaska che è punto di partenza delle ascensioni verso il grandioso massiccio del Mount McKinley, la più alta vetta del Nord America. È solo passeggiando attraverso i vialetti e le tombe agresti del cimitero di Talkeetna e leggendo le scritte su alcune tombe rigorosamente di legno dello stesso che si capisce lo spirito del severo McKinley – Denali, come lo chiamano gli abitanti – da parte di chi si accinge ad affrontarlo, appena le tumultuose nuvole lo permetteranno. Ricordo la scritta sulla tomba del più famoso pilota di montagna che diceva: «HA LOTTATO CONTRO IL VENTO ED HA VINTO». Allora si capisce che non ci si sta preparando a salire una montagna, ma a combattere contro il vento. Non ho mai capito così bene Buenos Aires, l’Argentina e il peronismo come quando mi sono aggirato, per varie ore, nel grande cimitero di Buenos Aires. E se un appassionato di Arturo Benedetti Michelangeli vuol capire veramente perché Benedetti non era solo un grandissimo pianista bensì un grande spirito, deve andare da solo, in raccoglimento, davanti alla sua semplice e austera tomba nel prato del piccolo cimitero di Pura (Lugano). E che immagine di Brescia si può avere se, come è capitato a me pochi giorni fa, passeggiando nel bellissimo Cimitero Vantiniano lo si trova in condizioni di manutenzione molto mediocri, si raccolgono dodici bottiglie di plastica abbandonate nei viali e il cippo che ricorda i Caduti di piazza Loggia è così sporco che a fatica se ne leggono alcuni nomi? Nonostante questa mia passione per i cimiteri come chiave di lettura di città, paesi, villaggi, territori, persone ho vissuto molti decenni a Milano senza

mai visitare il Cimitero Monumentale. Non è facile neanche per me spiegare questo comportamento contraddittorio. Nella penombra della mia memoria ricordo che, qualche decennio fa, ci furono storie di tangenti persino sui cimiteri milanesi e forse un assessore fu anche arrestato; ciò produsse in me una reazione di rigetto verso tutto il settore cimiteriale. Fortunatamente l’iniziativa Musei Aperti del Comune e poi l’azione entusiasta e competente degli Amici del Monumentale mi hanno condotto alla scoperta di questa straordinaria e importantissima realtà cittadina. È qui e solo qui che si può capire veramente la Milano del nostro tempo. È qui e solo qui che si può cogliere la grandezza della Milano moderna e quante e quali persone hanno contribuito a crearla. Come dimenticare l’emozione che mi prese quando, entrando nel Famedio, mi trovai di fronte all’importante tomba dell’amato Carlo Cattaneo, appena un passo indietro da quella del grandissimo Manzoni? Manzoni e Cattaneo insieme e vicini: è come la battuta iniziale di una sinfonia di Beethoven, dalla quale si smuoverà poi tutto il canto sulla città. Manzoni è

Famedio con il sarcofago di Carlo Cattaneo 15


Milano, mentre Cattaneo, dopo le tante delusioni, da Milano si era allontanato da tempo. Ma è proprio la vicinanza delle tombe di questi due grandissimi milanesi che colpisce. Cosa sarebbe oggi Milano se non vi avessero vissuto e operato Manzoni e Cattaneo? E cosa diventeranno i nostri figli e nipoti se di questi due fondatori della Milano moderna svanisse la memoria? Cattaneo morì nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1869 a sessantotto anni, nella sua aprica casa di Castagnola (allora piccolo comune contiguo a Lugano, oggi incorporato in esso) dove visse con l’amata moglie Anne Pyne Woodcock di nobile famiglia di origine irlandese, che gli sopravvisse solo pochi mesi, gli ultimi vent’anni della sua vita. Nello stesso anno della morte, il 23 maggio, le sue spoglie furono trasferite al Cimitero Monumentale di Milano e la cosa mi ha molto colpito anche per la rapidità del trasferimento. Cattaneo era lontano da Milano da molto tempo, viveva in Canton Ticino, che amava e che chiamò «terra italiana e libera», e la classe politica che governava la città e l’Italia era quella che Cattaneo aveva avversato. Eppure Milano si affrettò a portare Cattaneo dal Canton Ticino al Monumentale (e pochi anni dopo, il 23 marzo 1884, al Famedio), a riprova dell’importanza sia di Cattaneo che del Monumentale. Il Monumentale è deposito di tante opere d’arte di valore, per cui è giusto anche chiamarlo «museo all’aperto». E capisco perfettamente come molte persone siano attratte soprattutto da questa componente del cimitero. Per me, invece, il Monumentale è quello che è perché conserva la memoria di tante persone che hanno fatto grande Milano e l’Italia con la loro opera, con il loro pensiero, con la loro passione, con la loro generosità, il loro senso civico. Se, per ipotesi, il Monumentale fosse una successione di tombe tutte uguali, spoglie e banali, sarebbe per me ugualmente, come è stato correttamente definito, «cuore pulsante della città» per quello che ricorda e documenta

della storia cittadina, per il deposito di memorie che rappresenta. Ma, naturalmente, se esso è invece arricchito di opere d’arte, anche la sua importanza storica viene ulteriormente esaltata. Limitandomi al filone di mio maggiore interesse, quello della storia imprenditoriale, considero impressionante l’elenco dei personaggi ospitati al Monumentale che hanno svolto un’azione fondamentale nel processo di decollo industriale del Milanese e, quindi, dell’Italia. Al Monumentale non c’è la tomba di Enrico Mylius, tedesco di nascita ma milanese d’adozione, promotore e primo presidente della Società d’Incoraggiamento Arti e Mestieri (SIAM) – la più potente fucina di imprenditorialità per il decollo industriale lombardo e italiano –, perché si trova al cimitero di Laveno di Menaggio, dove c’è la grande villa di famiglia; ma al Famedio Enrico Mylius è incluso nell’elenco dei benefattori e nel Cimitero degli Acattolici una bella tomba di famiglia ospita i suoi eredi. Il 7 agosto 1838 – notate il giorno e il mese: allora in agosto Milano rimaneva aperta! –, su iniziativa della Camera di Commercio e con la guida di Enrico Mylius (vicepresidente, sessantanove anni), nel salone della Borsa, in piazza Mercanti, viene invitata l’imprenditoria milanese per discutere la creazione di un soggetto capace di «promuovere l’incamminato progresso delle Arti e Mestieri a Milano». L’adesione è molto promettente e confluirà nella seduta costituente del 22 marzo 1841, nella quale si raccolsero ben 433 sottoscrizioni per un totale di L. 70.042. Presidente fu eletto Enrico Mylius, che conservò la carica sino al 21 aprile 1854, data della sua morte (ottantacinque anni). Mylius non si limitò a progettare e promuovere la SIAM, ma la finanziò generosamente e convinse molti a contribuire. È questa una caratteristica fondamentale dell’epoca: si tratta di una grande tradizione che accompagnerà la nostra città almeno lungo tutto l’Ottocento e della quale Mylius è l’indiscusso apripista. Così come 16


Tomba dell’ingegnere Giuseppe Colombo

Mylius finanziò generosamente la prima Scuola di Chimica applicata, nata nell’ambito della SIAM con il primo direttore Antonio Kramer. Mylius donò alla Scuola di Chimica una rendita perpetua di L. 4.605 pari a un capitale di L. 104.732, alla quale aggiunse L. 12.000 per l’attrezzatura della scuola. Non so se il magnifico motto lombardo «metà parè e metà danè» nacque allora, ma di certo interpreta perfettamente il modo di pensare e di agire dei leader economici di quel periodo ed è largamente testimoniato al Monumentale. Chi ha avuto successo sente di dover restituire alla città almeno parte di quello che ha ricevuto per sostenere ulteriormente le arti e i mestieri, lo sviluppo della conoscenza tecnica e scientifica, le scuole, la crescita economica, l’incivilimento. Il decollo industriale è opera di grandi individualità ma è anche – e sono tentato di dire soprattutto – opera collettiva. Questo movimento è stato giustamente denominato «mecenatismo produttivo». In questa sede non si dona per aiutare i bisognosi o per favorire la realizzazione o la tutela di opere d’arte, ma per rendere la città, nel suo insieme, più produttiva e più moderna. Sono donazioni di denaro, ma anche di impegno, di tempo, di trasmissione di esperienza, di docenza. E le donazioni si realizzano attraverso quei soggetti che hanno la missione di «promuovere l’incamminato progresso delle arti e mestieri di Milano», come la SIAM e, più tardi, il Politecnico (1863). Si instaurano così circuiti virtuosi. Si investe sui giovani di valore nell’ambito della SIAM, dove spesso partono come semplici operai (come Luciano Pomini) o tecnici (come Ercole Marelli) o laureati del Politecnico (come Giovan Battista Pirelli). Molti di loro ritornano, dopo il successo imprenditoriale, nelle scuole dalle quali sono decollati e li ritroviamo come insegnanti e come sovventori o come consiglieri delle istituzioni formative dalle quali provengono. La parola d’ordine nella classe dirigente del tempo è «i migliori nomi e i migliori intelletti». È per questo

che giovani di modeste origini come Carlo Cattaneo e Giuseppe Colombo vengono aiutati a esprimere rapidamente tutte le loro grandi doti. È anche così che nasce il mito di Milano capitale morale d’Italia. E tutto questo è ricordato nel e dal Monumentale, dove molti di questi uomini riposano. Prima di lasciare il Famedio ci spostiamo nella Galleria di Levante per una breve visita alla tomba di uno dei grandi protagonisti della storia scientifica e imprenditoriale milanese: Francesco Brioschi. Brioschi nacque a Milano nel 1824 e vi morì nel 1897. Scienziato e matematico fu professore all’Università di Pavia dal 1850; deputato al Parlamento nel 1861, fu due volte Segretario generale dell’Istruzione pubblica. Nel 1863 (a trentacinque anni) fu determinante per la creazione del Politecnico, del quale fu direttore sino alla morte, nel 1897, quando gli subentrò Giuseppe Colombo, un allievo che lui aveva aiutato a crescere e ad affermarsi, dapprima nella SIAM e poi nel Politecnico. Nel 1865 fu nominato senatore; nel 1884 succedette a Sella nella presidenza dell’Accademia dei Lincei. Gestì la se17


Proseguendo ancora un po’ verso nord non possiamo non notare sulla sinistra la magniloquente cappella di Davide Campari, sovrastata da un monumentale complesso statuario che, credo, rappresenta l’Ultima Cena. Questa tomba segna un passaggio di epoca e di stile. Oramai, grazie all’intelligenza iniettata nel sistema dai Cattaneo, Mylius, Brioschi, Kramer, l’imprenditoria milanese è diventata ricca e vuole esibire la sua ricchezza anche dopo la morte. Un po’ come i faraoni alla ricerca dell’immortalità. Lasciando la Cappella Campari alle spalle e prendendo il grande viale che va verso levante, notiamo a destra e a sinistra numerose cappelle familiari, tra le quali quella dei Pirelli. Poco prima dell’incrocio con il grande Viale Centrale che collega il Famedio all’Ossario Centrale ci spostiamo nel primo vialetto verso sud e troviamo la severa, sobria e un po’ trascurata tomba di Giuseppe Colombo, un altro grandissimo pilastro del benessere milanese del tempo (1836-1921). Qui, per chi conosce la storia dell’imprenditorialità lombarda e italiana, è un altro momento di commozione e di riverente omaggio a un altro grande ospite del Monumentale. Schematicamente: – nasce a Milano da famiglia della piccola borghesia nel 1836, lo stesso anno di nascita di Ferdinando Bocconi ma gli sopravviverà tredici anni, morendo nel 1921 a ottantacinque anni. Una vita lunghissima ed estremamente fertile. – In gioventù è garibaldino. – Studia meccanica a Pavia con Francesco Brioschi, laureandosi nel 1857 a ventuno anni. – Nello stesso anno viene chiamato, su segnalazione di Brioschi, a Milano a insegnare meccanica applicata alla SIAM, con la quale manterrà un legame stretto e reciprocamente fruttuoso per tutta la vita. – Nel 1862 la SIAM lo incarica di andare a Londra a studiare l’Esposizione Universale e le innovazioni presentate in tale sede. L’incarico è finanziato con

conda serie della rivista «Politecnico» (fondata da Cattaneo) che fuse con «il Giornale dell’ingegnere». Fu grande organizzatore e al tempo stesso autore di studi matematici raffinati e maestro di grandi matematici quali Beltrami, Cremona, Casorati. Le prime leve di ingegneri laureati nel «suo» Politecnico furono la componente essenziale del decollo industriale milanese. Usciti dal Famedio prendiamo (a sinistra) il grande viale che porta a ponente. Qui troviamo al termine del viale la bella tomba della famiglia Mylius ma non, come già detto, quella di Enrico. Prendendo poi il viale verso nord ci imbattiamo in un elegante cippo della famiglia De Kramer (o Kramer). La famiglia proviene da Essenheim, presso Francoforte. Trasferitosi a Milano verso la fine del Settecento, Giovanni Adamo De Kramer si affermò come uno dei più noti imprenditori tessili, aprendo un importante stabilimento per la stampa di tessuti in cotone. Il figlio Antonio nacque a Milano, ma compì i suoi studi di perfezionamento all’estero con la guida dei più importanti scienziati chimici del tempo: in Germania, a Ginevra, a Parigi. Rientrato a Milano si affermò come tecnologo chimico, collaboratore di istituzioni scientifiche, pubblicista – scrisse saggi importanti sul «Politecnico» di Cattaneo – e fu anche consigliere comunale – era allora comune che le persone competenti dedicassero del tempo agli affari cittadini nel Consiglio comunale –. Mylius gli affidò nel 1844 la direzione della nuova Scuola di Chimica nell’ambito di SIAM, che iniziò il 26 febbraio. La scuola fu un grande successo e alla seconda lezione, il 28 febbraio, l’affluenza fu così elevata che molti non trovarono posto. Tra il pubblico «molti giovani e molti operai», «50 industrianti» e «alcune centinaia delle più colte persone». Kramer morì giovane e morendo donò alla scuola l’attrezzatura del suo laboratorio, il cui valore fu stimato in L. 10.370, donazione che lo colloca nell’elenco dei maggiori benefattori, anche finanziari, della SIAM. 18


un contributo di L. 1.500 della Camera di Commercio. Il suo rapporto risulta prezioso per gli sviluppi successivi. – Nel 1863 segue Brioschi come professore di disegno meccanico al nuovo Politecnico, conservando in un primo tempo anche l’insegnamento alla SIAM per poi essere sostituito da Giovan Battista Pirelli, uno dei più brillanti nuovi laureati al Politecnico. Colombo appare sempre più un anello di congiunzione fondamentale tra le due istituzioni. – È uno dei principali organizzatori e protagonisti dell’Esposizione Industriale del 1881 (dopo quella fiorentina del 1861 e quelle di Milano del 1871 e 1874). L’Esposizione del 1881 mostra all’Italia e al mondo gli straordinari progressi nell’industrializzazione che il Paese ha saputo raggiungere in soli vent’anni, come ben illustra lo stesso Colombo in una relazione di grande interesse. La manifestazione è anche un successo commerciale: 7.139 espositori, un milione di biglietti venduti, saldo attivo di L. 135.504. – Sostiene strategie che si riveleranno preziose nei decenni successivi, come quella che Milano deve evitare lo sviluppo di grandi complessi industriali e puntare sull’industria media e diffusa sul territorio. – Nel 1883 avvia il sistema elettrico italiano, negoziando personalmente a Parigi con Edison, e installa il primo impianto europeo per la distribuzione di luce elettrica con il sistema Edison, in via Santa Radegonda (la stessa via dove, nel 1865, avevano aperto la prima bottega i fratelli Bocconi). Fonda la Edison, della quale diventa azionista: «O io m’inganno grandemente» affermava Colombo nel 1890, «o l’applicazione dell’elettricità alla trasmissione della forza a grandi distanze rappresenta per l’Italia un fatto di un’importanza così straordinaria che l’immaginazione più fervida difficilmente potrebbe prevederne tutte le conseguenze. È un fatto che può mutare completamente la faccia del Paese, che può portarlo un giorno al rango delle Nazioni

più favorite per ricchezza di prodotti naturali e per potenza d’industria». – Cura la formazione e la crescita anche economica dei migliori allievi come Pirelli, Saldini, Ponzio. È dubbio che i Pirelli potessero avere la cappella che hanno al Monumentale senza un professore come Colombo che spingesse Pirelli a perfezionarsi all’estero, che gli facesse avere le borse di studio per poterlo fare, che gli suggerisse di dedicarsi alla gomma – il prodotto del futuro – e che lo aiutasse al suo ritorno, con un’operazione di autentico venture capital, a raccogliere i fondi per la sua «start up». Certo, Giovan Battista Pirelli era un giovane particolarmente dotato e deciso, ma senza professori come Colombo il suo decollo sarebbe stato molto più difficile. – Scrive il celebre Manuale Hoepli dell’ingegnere, che ha resistito per quasi cento anni alle innovazioni tecnologiche in tutti gli studi di ingegneri e di tecnologi, con i necessari aggiornamenti. – È tra i promotori dell’Associazione degli Industriali d’Italia per prevenire gli infortuni sul lavoro (1894) e per la Cassa Nazionale d’Assicurazione contro gli infortuni. – Dal 1897 alla morte, nel 1921, è il secondo direttore del Politecnico dopo la scomparsa di Brioschi. – Dal 1881 è impegnato nell’attività politica, dapprima come consigliere comunale a Milano e dal 1886 come deputato. Sostenitore coerente e fermo del liberismo economico a cui accoppia una politica antifiscale, diviene ministro delle Finanze nel governo Rudinì (1891), dimettendosi ben presto per contrasti sugli eccessi di spese militari. Ministro del Tesoro (1896), presidente della Camera (1899-1900), è su posizioni moderate: condanna le repressioni seguite ai moti del 1898, è contrario alla politica coloniale, ritenendo più utile concentrarsi sullo sviluppo economico del Paese. Negli ultimi anni, pur non rinunciando alla battaglia politica, in particolare contro la partecipazione statale nell’industria e nei 19


servizi, si dedica soprattutto all’insegnamento come direttore del Politecnico. Alberto Saibene ha ben sintetizzato la straordinaria importanza di Giuseppe Colombo con queste parole: «Personalità esemplare dell’età positiva e della Nuova Italia, Colombo è riuscito a coniugare, nella sua lunga e operosa vita, una lucida visione teorica dei processi di innovazione tecnologica a una sterminata attività pratica di cui ancor oggi la nostra città porta il segno». La sua umile tomba non è lontana dalla cappella di famiglia del suo allievo Pirelli, che, senza Colombo, non avrebbe avuto la fortuna che ha avuto. Prendiamo il viale che volge a sud, parallelo al Viale Centrale. Ci sono tombe eleganti, come quella illuminata da una bellissima scultura in ceramica di Lucio Fontana. Ma ci sono anche roboanti mausolei, come la grande piramide di tipo egiziano dei Falck, e, al termine del viale, l’edicola della famiglia Bocconi. Qui ci soffermiamo, perché siamo arrivati all’ultimo grande personaggio della nostra passeggiata alle origini dell’imprenditoria milanese e lombarda: Ferdinando Bocconi. Ferdinando Bocconi nasce a Milano – nonostante alcune fonti si ostinino a farlo nascere a Lodi – nel 1836 e viene qui battezzato nella parrocchia di S. Alessandro. Ma i genitori sono di Lodi e vi si trasferiscono. Lì Ferdinando compie gli studi della scuola primaria (tre anni) per poi impegnarsi subito nel lavoro. Il padre è un povero sarto che per integrare il bilancio familiare fa anche il venditore ambulante di tessuti e mercerie. I tre figli (Ferdinando, Giuseppe, Luigi) lo aiutano in questa attività. Ferdinando viene messo a bottega presso un commerciante di tessuti. Il padre, che a Lodi ha avuto problemi di varia natura (anche giudiziari), si trasferisce a Milano nel 1850, quando Ferdinando ha quattordici anni. Raccontano che egli avesse con sé solo un libro, che in quegli anni era stato un best seller mondiale, Self-Help di Samuel Smiles, il cui insegnamento di fondo è: lavorate, lot-

tate, persistete, non contate che su voi stessi – resta il dubbio di dove avesse imparato l’inglese, lui che aveva fatto solo i primi tre anni delle scuole elementari, ma di Self-Help era disponibile una versione in italiano e in edizioni molto economiche, costituendo un pilastro della pedagogia economica postunitaria –. Ferdinando è un giovane di vivissima intelligenza, coraggioso e deciso e fa propri questi insegnamenti. Aiuta a Milano il padre nell’attività di venditore ambulante. Dicono che avesse una bancarella sul Naviglio. Nel 1861 si arruola come volontario nella guerra contro il brigantaggio meridionale. Nel 1864 muore il padre e un anno dopo Ferdinando apre con il fratello Luigi la prima bottega in via Santa Radegonda. Nel 1868 si sposa e avrà tre figli; il primo sarà Luigi. La decisione di aprire bottega è rischiosa, ma i fratelli Bocconi hanno le idee molto chiare e sono forti innovatori. Il loro è il primo esercizio commerciale a installare l’energia elettrica, il che attirerà l’attenzione del pubblico. Sono anche i primi ad applicare i prezzi fissi, a offrire vestiti pronti, a fare vendite su cataloghi per corrispondenza, a fare uso di pubblicità e cartellonistica (esistono vecchie foto di via Santa Radegonda che mostrano la grande evidenza dei cartelloni che segnalano i Magazzini Fratelli Bocconi). Nel 1867 viene inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele del Mengoni. Parte una grande discussione cittadina se demolire o meno tutte le stradine e i portici intorno per creare una prospettiva forte Galleria-Duomo. Ferdinando è attivo nel sostenere la demolizione dei vecchi edifici e quando questa tesi prevarrà sarà lesto a procurarsi un lotto di terreno vicino alla Galleria. Dove ora è la Rinascente vi era un importante albergo di quattrocento stanze denominato Albergo Confortable, la cui gestione non era in buone acque. Ferdinando è, ancora una volta, lesto e coraggioso. Si assicura in affitto il complesso per L. 50.000 annue e vi installa il primo grande magazzino italiano che chiama Aux villes d’Italie – 20


allora tutto quello che era francese era di moda –. L’intelligenza, la volontà, il coraggio dei fratelli Bocconi, soprattutto di Ferdinando, pagano, a conferma di quanto diceva Cattaneo: la ricchezza nasce dall’intelligenza e dalla volontà. Tra il 1870 e il 1880 lo sviluppo è rigoglioso e non solo a Milano, ma a Firenze, Genova, Trieste, Roma, Livorno, Palermo, Torino, Napoli e persino a Parigi. La sua è una gestione severa e dura ma anche umana. Il personale deve essere fedele e impegnato ma riceve anche le sue soddisfazioni, economiche e comportamentali. Ferdinando è sensibilissimo alla formazione ed educazione dei suoi dipendenti e mostra, in generale nel campo formativo ed educativo, un’attenzione particolare, anche al di fuori dell’azienda, lui che aveva solo la terza elementare. Sostiene la necessità di tenere aperti i grandi magazzini la domenica, con parole che vanno bene anche nel dibattito odierno sul tema: «Anche il commercio, nei suoi templi maggiori e minori, dovrebbe celebrare la domenica le sue esibizioni allettanti. È vero che con ciò si sacrificano schiere di lavoratori, ma questa è necessità ineluttabile della civiltà, quando la civiltà ha raggiunto una certa altezza. Nessuno si sogna di interrompere alla domenica il traffico dei treni e dei tranvai, la fornitura dell’acqua potabile, del gas e dell’energia elettrica. Nessuno chiude di domenica gli ospedali e le farmacie. Nessuno chiude la domenica i teatri. Anche queste attività implicano il sacrificio dei lavoratori che vi sono adibiti, ai quali è d’uopo consentire il riposo in un altro giorno della settimana. La legge biblica, religiosa, sociale muove evidentemente dalla considerazione che l’uomo ha bisogno di riposo e di distrazione per un intero giorno ogni sei giorni lavorativi; ma scientificamente considerata la prescrizione non v’è bisogno che quel giorno cada per tutti nell’identico ambito di 24 ore». Partecipa all’Expo 1881 con un padiglione importante. Nel 1887 avvia la costruzione del nuovo palazzo a Milano e inaugura la nuova sede di Roma

in piazza Colonna. In due anni, nel 1889, la nuova sede è pronta a Milano con un investimento di L. 5.500.000, 2.300 metri quadri di esposizione, 1.432 addetti. Il motto è «Fervet opus». La nuova sede sarà gravemente colpita da un incendio nel 1918 – riprenderà con il nome di Rinascente, creato da D’Annunzio – e dai bombardamenti nel 1943. A differenza dei personaggi che abbiamo incontrato in precedenza, Ferdinando rifiuta ogni incarico pubblico rispondendo a chi lo preme in tal senso: «Quello che mi proponete non è proprio il mio mestiere». Per la successione punta sul primogenito Luigi, che è un giovane di valore ma inquieto. È sottotenente di complemento, volontario nel V Alpini di Torino, viaggia molto. È alla ricerca di qualcosa che spieghi e giustifichi la sua posizione privilegiata. Nell’ultima lettera al padre scrive: «Non mi guida l’ambizione, mi guida invece il decoro del nostro nome e la volontà ferrea di volerlo stimato e riverito. Senza di ciò le ricchezze sono vane chimere, atte a indebolire i corpi e a falsare gli animi». Nel 1896 Luigi ha ventisette anni e, come tanti giovani di allora, è molto sensibile al messaggio socialista umanitario. Quando Crispi scatena la guerra d’Africa, Luigi, in disaccordo con il padre, si allontana da casa senza avvertire la famiglia. Si imbarcherà come inviato speciale, ma parteciperà al combattimento con una squadra di ascari da lui formata e finanziata. E al tramonto del 1° marzo 1896 cade sul campo insieme al colonnello Airage nella tragica sconfitta di Adua. Ferdinando Bocconi saprà della morte da una lettera che Luigi aveva scritto ai genitori prima di partire e che doveva essere consegnata al padre solo in caso di morte. È una lettera, piena di sentimento, di amore per i genitori, di ricerca di qualcosa di più alto e più nobile, qualcosa che dia un senso alla vita. Luigi scrive: «Non c’è gioia nel mondo dove non esiste poesia; la poesia non è senza sacrificio e il sacrificio non è vana parola. Vi assicuro che sono morto con il Vostro nome sulle labbra, perché, fin 21


che ho un ultimo soffio di vita lo respirerò per Voi». Luigi era sicuramente un giovane fuori dall’ordinario e ciò rende ancora più duro il colpo per Ferdinando. Ma come è proprio degli uomini d’azione e forti, Ferdinando cerca conforto nella sua ultima grande impresa: realizzare e finanziare la creazione di una grande Università per ricordare nel tempo il nome di Luigi Bocconi, l’amato figlio caduto ad Adua. L’idea dell’Università Luigi Bocconi nasce, sin dall’inizio, come una cosa grande. Deve essere qualcosa che rappresenti una novità assoluta per l’Italia, un istituto di elevato livello scientifico per gli studi economici, un’alta scuola di commercio. In un primo momento Ferdinando pensa di farla nascere come sezione speciale del Politecnico e l’ipotesi, accolta con entusiasmo dal direttore del Politecnico Giuseppe Colombo, è già molto avanti. Ma rendendosi conto che con questa impostazione ci sarebbero stati molti vincoli e condizionamenti, Ferdinando improvvisamente cambia strada: deve essere un’università libera e autonoma. Affida il progetto didattico a Leopoldo Sabbatini, un quarantenne di Camerino con studi a Pisa, segretario della Camera di Commercio di Milano. La scelta si rivela molto felice. Sabbatini si identifica nel pensiero e nella volontà di Ferdinando e li realizza al meglio, tanto che, come è stato scritto, se Ferdinando Bocconi ne è il fondatore, Leopoldo Sabbatini è il forgiatore della Bocconi. Fonda un organismo di alto livello come modello didattico e come qualità di docenti; resiste ai soliti, che vogliono una semplice preparazione tecnico-professionale e non scientifica; anzi alza l’asticella ancora più in alto di dove l’aveva posta Ferdinando. Ma questi lo segue in pieno, anche aumentando la dotazione finanziaria dalle iniziali L. 200.000 a 400.000 e poi a un milione. Nella prima riunione di Consiglio, il 5 luglio 1902, Sabbatini viene nominato primo presidente e il 10 novembre iniziano i corsi, nella sede di via Statuto, di quella che, rapidamente, diventerà una delle più

importanti università italiane, gloria e forza della nostra città. Nel 1906 Ferdinando viene nominato senatore del Regno, ma non partecipa e il 5 febbraio 1908 alle sei di sera si spegne. Quanta strada ha fatto il piccolo venditore ambulante di tagli di stoffa di Lodi, che oggi gode il meritato riposo nella serenità del Monumentale. Avevamo iniziato con Carlo Cattaneo, con la sua nota tesi che la ricchezza nasce dall’intelligenza e dalla volontà. Chiudiamo con Bocconi, che è una limpida testimonianza di quanto ciò sia vero. Da Cattaneo a Enrico Mylius, a Francesco Brioschi, a Giuseppe Colombo, a Ferdinando Bocconi il filo rosso che tutti li lega è la convinzione che intelligenza, volontà e scienza sono i pilastri di una buona imprenditoria, di un buon modello imprenditoriale, di un buono e civile sviluppo, di una buona città: tutti valori che il Monumentale testimonia e ricorda ai cittadini milanesi e ai suoi visitatori. Questi sono i pilastri sui quali ancora oggi noi poggiamo e che resistono anche se da qualche tempo, stupidamente, li stiamo prendendo a picconate. Ho voluto soffermarmi su questi grandi personaggi della storia imprenditoriale ed economica milanese, che riposano al Monumentale, per sottolineare quanta conoscenza, quante emozioni, quanti ricordi esso evoca. E la mia riflessione è limitata a un solo filone di attività e di pensiero. Conoscenze, emozioni e ricordi analoghi possono essere ascritti ad altri filoni, dal letterario al musicale all’artistico al giornalistico, come questo libro ampiamente illustra. La grandezza e l’importanza per Milano del Monumentale riposa sul fatto che si tratta di un cimitero. Su questo non è possibile nutrire dubbi. E come cimitero, non può non essere inquadrato nei regolamenti e nelle prassi cimiteriali. È un luogo dove si va per coltivare la memoria e la pietà dei morti, per portare fiori, per pregare, per ricordare. Ma è anche un cimitero che racchiude in sé e testimonia gran parte della storia cittadina, che racconta 22


le storie di personaggi fondamentali per la città, e che racchiude accanto a queste memorie tante opere d’arte importanti con le quali gli eredi o altri hanno voluto testimoniare il loro ricordo e la loro riconoscenza. E quindi è anche un monumento, per cui la denominazione di Cimitero Monumentale è perfetta. E dunque i soli regolamenti cimiteriali non sono sufficienti. Devono essere integrati e incrociati con i regolamenti e le risorse adatte a un monumento cittadino di questa importanza e complessità, a uno dei più importanti monumenti cittadini. Le necessità di funzionamento sono molte e ben conosciute. Ma anche le possibilità che questo monumento può

esprimere per i propri cittadini e per i visitatori di tutto il mondo sono molte e queste forze non sono, purtroppo, ancora sufficientemente conosciute. La presenza di un’associazione seria, attiva e appassionata come quella degli Amici del Monumentale, è di conforto. Ma questa presenza consapevole e animata da passione, competenza e generosità deve incrociarsi con altrettanta consapevolezza, passione, competenza e generosità da parte dell’Amministrazione comunale, perché è solo dall’incrocio di queste due presenze che il grande Cimitero Monumentale potrà esprimere tutte le sue potenzialità positive per Milano, per i suoi cittadini, per i visitatori e trasmettere alle nuove generazioni tanti insegnamenti.

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Un tenace filo di seta di Marco Galateri di Genola Presidente Accademia di Brera dal 2013 al 2016

L’Accademia di Brera e il Cimitero Monumentale di Milano, oggi considerato a ragione un museo a cielo aperto, sono due istituzioni unite da un tenace filo di seta. L’Accademia, fondata nel 1776 da Maria Teresa d’Austria, secondo i piani dell’imperatrice aveva il compito di sottrarre l’insegnamento delle Belle Arti ad artigiani e artisti privati, sottoponendolo «alla pubblica sorveglianza e al pubblico giudizio». Nel 1803 venne costituito il Consiglio accademico, composto da trenta membri, che ampliò e definì le materie di insegnamento: architettura, pittura, scultura, ornato, incisione, prospettiva, anatomia artistica ed elementi di figura. Nel 1805 presero avvio le esposizioni annuali, diventate triennali nel 1891, dove gli studenti e gli altri artisti, italiani ed europei, potevano «mettersi in mostra» senza andare in rovina. Ed è infatti in queste occasioni, da metà Ottocento in poi, che gli scultori e gli architetti espongono, pieni di speranze spesso ben riposte, i bozzetti e i modelli delle loro opere funerarie, manufatti artistici allora richiestissimi dalla nuova borghesia che si stava affermando dopo l’Unità d’Italia e che aveva il desiderio, tipico dei «nuovi arrivati», di rappresentare la propria importanza, potenza, ricchezza e a volte stravaganza anche dopo la morte. In vita frequentavano il Teatro alla Scala nei loro palchi neoclassici dove i domestici di casa, negli intervalli, servivano il risotto giallo; pregavano in Duomo su panche scomode ma esclusive; si incontravano in Galleria Vittorio Emanuele, simbolo della Milano avviata a grandi passi verso il futuro, al banco del nuovissimo Bar Camparino o ai tavoli dello sciccosissimo Ristorante Savini, tuttora esistenti. Gli artisti dell’Accademia di Brera, anche i ribelli che ne fuggirono per andare a Parigi a cercare un’arte nuova, come lo scapigliato Medardo Rosso, ebbero importanti commesse per il Monumentale proprio dopo averle messe in mostra in miniatura nelle Sale del Palazzo di Brera, così chiamato per la braida, il grande

prato su cui sorgeva l’antico convento degli Umiliati. In seguito le stesse famiglie che predisponevano la propria eterna dimora si rivolgevano a loro anche per i palazzi in città, le ville in campagna e persino le fabbriche e le banche. Personaggio di assoluto rilievo nella storia dell’Accademia fu l’architetto Camillo Boito, titolare della cattedra di Architettura dal 1860 al 1908, professore emerito nel 1872-1874 e presidente dal 1897 al 1914, anno in cui scomparve. Un esimio studioso, che fondò la teoria del restauro – fu per decenni consulente centrale delle Belle Arti – e che per primo piantò il seme del dibattito architettonico del Novecento a partire dal Convegno degli architetti e degli ingegneri, da lui voluto nel 1889. Storicista nel suo voler ricuperare e ricomporre tutti gli stili passati, fu anche un prerazionalista che non escludeva l’ornamento ma lo subordinava all’utilità, candidandosi così a essere anche uno dei precursori della nascita del disegno industriale. E fu anche scrittore scapigliato: la sua novella Senso ispirò l’omonimo film di Luchino Visconti. Fu lui a decretare la vittoria di Carlo Maciachini nel concorso per il Cimitero Monumentale di Milano nel 1863. E fu sempre lui, cinquant’anni dopo – che vitalità! – a incoronare Ulisse Stacchini come architetto della Stazione Centrale. Ecco allora che il 2 novembre 1866 monsignor Calvi e il sindaco Beretta aprono ai milanesi, che accorrono in massa, i cancelli dello stupefacente Cimitero Monumentale. E i viali incantati, dove da allora aleggia eternamente la memoria della città e dell’Italia intera, iniziano a popolarsi di angeli, a volte pietosi a volte intransigenti, di bambini dai sorrisi mesti, di madri in lacrime o rassegnate, di ufficiali e gentiluomini, di dame riverse sui sepolcri dimentiche della convenienza, fianco a fianco a Madonne, Deposizioni, Crocifissioni, Annunciazioni, Ultime Cene, Risurrezioni e Maddalene. Non mancano i santi, il più gettonato è san Francesco che addomestica il lupo di Gubbio o si rivolge agli 24


Nulla osta della Commissione Igienico-edilizia

di stili e di rimandi senza precedenti: piramidi, templi bramanteschi, chiesette romaniche, cattedrali gotiche, colonne simili a quella Traiana, mausolei a imitazione di quello di Reims, templi greci. Non manca nulla, neanche esempi sublimi di architettura novecentista e razionalista, con costruzioni severe che celebrano i nuovi stilemi degli edifici milanesi postbellici o fantasiose invenzioni non riconducibili a nulla, di cui è un esempio sublime l’Edicola Pier D’Houy, a metà tra una grotta primordiale e un mostro spaventoso. E di tutto questo si ha testimonianza nell’immenso archivio del cimitero dove, in grandi faldoni antiquati, si trovano documenti, disegni, schizzi, bozzetti, planimetrie, prospetti, dettagli architettonici, fotografie d’epoca. Un tesoro inestimabile che merita di essere riordinato e ricuperato per il pubblico e per gli studiosi – sappiamo bene come le antiche carte vivano solo se appassionatamente consultate –. E in questi polverosi fogli ingialliti si scopre che esistevano, fin dall’inizio, presso la sede dell’Accademia di Brera, un ufficio tecnico e due commissioni che dovevano esaminare, valutare e approvare l’inserimento di nuove opere, che fossero monumenti o piccoli edifici poco importava. La Commissione Igienico-edilizia forniva il nulla osta sui rapporti del decoro e dell’igiene e la Commissione Tecnico-artistica pei Cimiteri entrava nel merito del valore estetico e decorativo. Molti progetti riportano anche il sigillo con stemma del Comune della Commissione civica Edilizia o quello della Commissione civica dell’Ornato, o ancora di un generico Ufficio tecnico municipale. Le firme sui timbri di approvazione sono quelle degli ex alunni di Brera diventati professori e artisti famosi, che autorizzano i lavori dei loro colleghi, architetti o scultori che siano. Maciachini, Beltrami, Broggi, Barzaghi, Sommaruga, Bossi, Violi, Castiglioni, Wildt, Bedeschi e via elencando. Pochissimi i pittori – pregevole è un Giorno del Giudizio di Eleuterio Pagliano e splendida una Deposizione

uccellini; ma ci sono anche san Giovanni e san Giovannino, san Cristoforo con il suo prezioso carico, sant’Antonio il predicatore, santa Rita accasciata sulla sepoltura Piva Saportas. E papi, vescovi e prelati vicino a commercialisti, medici e avvocati o a studentesse, scalatrici e pittrici. Vengono rappresentati la disperazione, il dolore, lo strazio, la rassegnazione (tutti temi quasi sempre declinati al femminile) e lo studio, il pensiero, il coraggio, il sacrificio, il lavoro (e siamo in territorio perlopiù maschile). Sorella Morte, a volte a cavallo, si nasconde subdola dietro a un velo, fa volteggiare la sua scure implacabile e ha mani grifagne mentre afferra la tenera spalla di una fanciulla colpita dalla spagnola. Anche Crono, il barbuto dio del tempo, non conosce misericordia. E poi le edicole, dal latino aedes, piccoli templi, proprio come quelle che vendono i giornali. Sono chiamate cappelle solo se consacrate, si possono riconoscere dal piccolo quadrato dorato sull’altare coperto solitamente da un pizzo e sono piccole case che replicano la città reale là fuori con una commistione 25


Uovo di Eros Pellini per l’ammissione al corso di Scultura di Adolfo Wildt

rimossi, con mano delicatissima sulle numerose zone a rischio, gli strati di polvere. Poi con una soluzione tampone viene eliminato il guano e infine disteso il gel, a base di agar-agar e tensioattivi chelanti. Il Fauno Barberini – più noto come Fabbro ebbro, che per un atto vandalico ha perso una gamba – e l’Ercole Farnese sono già pronti. Molti altri attendono con pazienza, dote che alle opere d’arte non manca, il loro turno. L’Accademia ora è aperta: quando i lavori alle sculture saranno terminati, milanesi e turisti potranno passeggiare per i corridoi e ammirarle. Ma non è tutto, perché vogliamo trasformare il deposito in un vero museo, un luogo di grande impatto scenografico con una passerella centrale, un’adeguata illuminazione e i visitatori che si aggirano fra le opere. E a suggellare nuovamente il legame antico e prezioso con il Monumentale ora l’Accademia dispone di uno spazio all’interno del cimitero. Un laboratorio ben attrezzato anche se di piccole dimensioni, dal momento che perlopiù si lavora en plein air, con una bella porta finestra che si apre su un grande prato alberato, circondato da mura di mattoni, che ricordano quelle del giardino di un convento. Qui potete trovare i ragazzi, per la maggior parte ragazze, del corso di Restauro in camice bianco da chirurgo, armati di pennelli e spatole, intenti a infondere vita a stanche opere che pensavano di essere state abbandonate. Si danno il turno con i restauratori della Fonderia Artistica Battaglia, nata nel 1913 proprio per fondere, con l’antica e nobile tecnica della cera persa, le opere per il cimitero tra cui la famosa Ultima Cena di Giannino Castiglioni per la famiglia Campari, oltre ad altri 130 monumenti di tutte le dimensioni censiti finora dall’Associazione Amici del Monumentale, che nel 2013 ha promosso l’apertura del laboratorio. E con questo facciamo i nostri migliori auguri a questo museo a cielo aperto, «cuore pulsante» della nostra città.

di Mosè Bianchi, ohimè in totale degrado nel disinteresse generale – e ancor più rare le artiste. Di Wildt, che per il Monumentale ha creato numerose opere strabilianti, non possiamo dimenticare che nel 1922 fu il fondatore della Scuola biennale del Marmo (ora triennale) spostata l’anno seguente in Accademia, dalla quale uscirono artisti come Eros Pellini, Lucio Fontana e Fausto Melotti. Il suo insegnamento cominciava con un esercizio originale: la riproduzione, ovviamente in candido marmo, di un uovo, forma perfetta. Solo chi riusciva a renderlo senza difetti poteva diventare suo allievo. Voglio anche ricordare che in Accademia esiste un immenso patrimonio di quasi ottocento gessi, dall’antichità ai primi del Novecento, posteggiati in un deposito sotterraneo, che comprende una preziosa raccolta dei maggiori scultori lombardi del secolo scorso. Sono certo che tra loro ci siano molti degli amici che hanno lasciato la loro traccia perenne al cimitero. Ho trovato fondi pubblici e privati per avviare il recupero di questa gipsoteca e gruppi di allievi del quinto anno, con l’appoggio della Soprintendenza per i Beni storici artistici ed etnoantropologici, realizzano la loro prova pratica di fine corso su questi reperti. Hanno così tanto entusiasmo da ignorare il freddo davvero pungente di certe giornate dell’inverno milanese! I lavori sono soprattutto di pulizia. Prima vengono 26


In fondo al cimitero: una storia molto «milanese» di Alessandro Porro

Il visitatore che si spinga all’estremo nord del Cimitero Monumentale si imbatte in un edificio, che richiama un tempio dorico, sulla cui architrave spicca l’iscrizione: «TEMPIO CREMATORIO PER VOLONTÀ DEL NOBILE ALBERTO KELLER ERETTO E DONATO ALLA CITTÀ DI MILANO». Si tratta del Tempio Crematorio e quell’architettura così particolare, che ci ricorda che in origine il vestibolo scandito dalle colonne era aperto e non tamponato da monumenti accoglienti urne, è la testimonianza imperitura di una storia intrisa di «modernità» e di «milanesità». Siamo all’esordio dell’ultimo quarto dell’Ottocento e un eminente industriale serico, Alberto Keller (1800-1874), disponeva anticipatamente del destino del suo corpo, delle sue spoglie mortali. Esse, secondo l’uso antico, dovevano essere esposte all’opera del fuoco purificatore. Tuttavia, non dovevano essere deposte su una pira, come lo erano state l’8 luglio 1822 sulle rive del mar Tirreno quelle del poeta Percy Bysshe Shelley (1792-1822), l’autore del Prometeo liberato, bensì dovevano diventare anche segno e simbolo di igiene e modernità, di egualitarismo e di libertà di pensiero e azione. Infatti, erano tempi difficili e la libertà di pensiero e di azione doveva essere quotidianamente conquistata: una siffatta volontà di destinazione delle proprie spoglie mortali si scontrava con l’assenza di una qualsivoglia regolamentazione e con forti opposizioni. Alberto Keller morì il 21 gennaio 1874. Che cosa fare, dunque, della sua salma? In attesa che potesse rendersi concreta la possibilità di ottemperare alla volontà espressa, con un pragmatismo tutto meneghino si diede l’incarico a Giovanni Polli (1812-1880) di imbalsamarne il corpo. Singolare destino di un corpo, conservato nell’attesa di essere dissolto e purificato dall’opera del fuoco! L’esecutore materiale dell’imbalsamazione era un’al-

Tempio Crematorio donato da Alberto Keller alla città di Milano nel 1876

tra figura di gran rilievo della società milanese del tempo: si trattava di Carlo Frua (1810-1879), medico impegnato in molte istituzioni assistenziali milanesi, padre di quel Giuseppe Frua (1855-1937), che con Ernesto De Angeli (1849-1907) avrebbe rappresentato ai massimi livelli l’imprenditoria cittadina e nazionale. Quanto sarebbe durata l’attesa per l’esecuzione della prima cremazione dell’età moderna? Quale sarebbe stato lo strumento utilizzato? Nei due anni successivi alla morte di Keller si rese necessario regolamentare questa nuova pratica; si provvide ad acquisire l’area cimiteriale sulla quale costruire il luogo di questo nuovo rito civile e a costruire il Tempio Crematorio nel Cimitero Monumentale; si dovette sperimentare, scegliere e installare l’idonea apparecchiatura. Polli, con l’ingegnere Celeste Clericetti (1835-1887) e l’architetto Carlo Maciachini (1818-1899), tornò in campo. Per l’ara crematoria, Polli e Clericetti idearono un’apparecchiatura che sfruttava come combustibile il gas prodotto in un gasometro appositamente allestito. 27


Documenti storici della Società di Cremazione Milanese

l’architetto Augusto Guidini (1853-1928) provvide ad aggiungere la grande sala che accoglieva quattro apparecchi crematori, che era arricchita dalle lapidi commemoranti i padri della cremazione, mentre la chiusura del vestibolo consentì di trasformarlo in un altrettanto solenne salone d’ingresso. Anche la sala centrale veniva accogliendo le urne cinerarie. La necessità di incrementare gli spazi portò alla creazione, ai lati delle sale del Tempio, di nuove gallerie laterali: in quella di destra spicca per la sua solennità il Monumento a Fedele Sala, che diede un grande impulso economico allo sviluppo della Società per la Cremazione. Esso è ricco di simbologia massonica, come lo sono molte delle lapidi celebrative e delle epigrafi. Nella sala che accoglie gli apparecchi crematori (oggi non più funzionanti), al di sopra di una parete di formelle maiolicate che danno loro accesso, spicca la frase «PULVIS ES ET IN PULVEREM REVERTERIS»: essa ci ricorda che molte delle obiezioni cattoliche alla pratica crematoria si vennero attenuando nel tempo. In origine, un distico rappresentava e difendeva in maniera più decisa la scelta cremazionista. Fra le cellette che raccolgono le ceneri si segnalano quelle di don Giovanni Sartorio (m. 1884) e di Gaetano Corbetta (m. 1888), già capitano medico, che si era fatto frate cappuccino con il nome di padre Venceslao da Seregno. Il progressivo sviluppo della pratica cremazionista comportò la costruzione di Giardini Cinerari esterni, ai lati del Tempio Crematorio. Questa storia, molto «milanese», sembra stridere con lo stato attuale dei luoghi, più vicino al tempio dell’incuria, che al tempio della memoria e del ricordo. Eppure, su quelle lapidi e in ognuno dei loculi possiamo incontrare uomini e donne che hanno fatto grande la nostra città di Milano: molti di loro hanno mantenuto accesa la fiamma della libertà e della democrazia in tempi difficili.

Per quanto concerne il Tempio, l’opera di Maciachini ne integrava perfettamente la costruzione con l’architettura del Cimitero Monumentale. Certo, noi dobbiamo esercitare uno sforzo immaginativo, perché in origine i locali erano in parte diversi dagli attuali (che sono anche figli della progressiva diffusione della pratica crematoria): il fulcro era rappresentato dal vestibolo, al centro del quale troneggiava l’originaria ara crematoria, in posizione visibile anche da lontano, mentre i locali retrostanti erano prevalentemente di servizio. Ben presto l’ara originaria fu sostituita da apparecchiature più razionali, che sfruttavano la legna come combustibile: ciò portava a una semplificazione tecnica e a una maggiore sicurezza del processo crematorio. Fu così necessario mutare l’assetto del Tempio: 28


Piano generale del forno a gas

La fiaccola dell’ideale si tramandava così di generazione in generazione. Quando sembrò che la libertà potesse essere un patrimonio definitivamente acquisito, questo corteo di libertà non fu più tenuto e successivamente anche questo segno non fu più esposto. Tuttavia, la storia ci insegna che la libertà è un bene che deve essere quotidianamente conquistato. Essa si rafforza anche rispettando e conservando i luoghi che ne sono simbolo e il Tempio Crematorio del Cimitero Monumentale è uno dei simboli milanesi più evidenti della libertà. Ciò ci porta a considerare quel che il Tempio Crematorio potrebbe essere (e purtroppo non è ancora): non solo il luogo della cultura cremazionista, ma anche il luogo della libertà, del dialogo. Potrebbe essere lo spazio ideale per un Museo della Cremazione, un luogo nel quale si produca ricerca scientifica sulla cremazione e sui temi correlati, un luogo di cultura, senza aggettivi. Un secolo fa, questo a Milano era da molti considerato un’utopia: oggi quell’utopia si è realizzata con una decina di istituzioni universitarie cittadine. Oggi la conservazione del Tempio Crematorio e la sua trasformazione in un luogo di cultura e di ricerca ci appare un’utopia: in futuro, col nostro impegno anche questa utopia potrà realizzarsi.

In passato, ogni 1° novembre, una grande corona d’alloro posta nel Tempio testimoniava il ricordo affettuoso e riverente che i viventi portavano ai predecessori, paladini dell’idea cremazionista e della libertà, e un corteo percorreva il viale principale del Cimitero Monumentale.

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Ricordi di Vittorio Gregotti

Dopo quelli lituani, dove ha origine la mia famiglia, i cimiteri che essa ha frequentato sono vari ma tutti collocati nell’area che va da Mortara ai dintorni di Novara, salvo quello di Venezia che accoglierà le mie ceneri al termine della mia vita. Ho visitato due sole volte il Cimitero Monumentale di Milano e ho imparato molto di più leggendo il libro di Carla De Bernardi e Lalla Fumagalli sull’argomento, che mi ha incuriosito nei dettagli e ancora una volta ha risvegliato la mia ammirazione per il neoromanico lombardo-veneto e le sue capacità di concepire «uno stile ideale», anche al di là delle competizioni interne tra i suoi protagonisti. Anch’io, mentre scrivo questo testo, vivo e lavoro da molti anni in un edificio costruito da un architetto neoromanico, vicino a Camillo Boito, anche lui architetto e scrittore scapigliato. Fu il mio maestro Ernesto Nathan Rogers nel 1950, quando ero uno studente deluso, forse ingiustamente, dalla facoltà di architettura di Milano e avevo quindi cercato lavoro e insegnamento nello studio BBPR, che mi condusse per la prima volta al Cimitero Monumentale a visitare il Monumento ai Caduti nei campi di sterminio nazisti, costruito nel 1946 e in via di restauro proprio in quell’anno. Il memoriale, collocato al centro del grande pianale circolare sull’asse centrale del celebre Famedio, era nello stesso tempo per me testimonianza storica della grande dignità non solo di ciò che moralmente rappresentava ma dell’accesso di un autentico monumento del movimento moderno alla storia dell’architettura italiana: assai più del grande mausoleo romano costruito come «Altare della Patria» in onore dei Caduti della Prima guerra mondiale. Vi era in esso rappresentato il valore dell’internazionalismo critico del movimento moderno, della bellezza come verità necessaria alla nascita di un mondo in cui giustizia e libertà potessero costituire il fondamento possibile a un migliore futuro. Un monumento che rendeva giustizia a ogni sacrifi-

cio, condotto dopo due terribili guerre, per creare la possibilità di dar vita a una nuova Europa della pace e della solidarietà, basata sul rigoroso linguaggio del movimento moderno. Me ne resi conto per la prima volta proprio ripensando a quella visita al silenzioso monumento delle speranze, nel 1972, quando fui presente per la seconda volta al cimitero, in occasione delle celebrazioni funebri dell’amico Giangiacomo Feltrinelli, scomparso in circostanze drammatiche. In quella giornata il Cimitero Monumentale assunse per me tutto il carattere funebre delle speranze simboliche di un’intera società, che si spegnevano dopo pochi anni di attesa troppo spasmodica di una civiltà migliore. Quella volta la folla era molto numerosa, composta da gente religiosamente e politicamente assai scossa dal tragico evento, e mentre ero con altri vidi passare Tomas Maldonado che accompagnava Carlo, il piccolo figlio di Giangiacomo che sarebbe divenuto l’erede della grande casa editrice alla cui nascita anch’io avevo assistito negli anni Cinquanta, che mi salutò commosso e un poco sconcertato dall’intensità della cerimonia. Poi cercai, al Riparto II, l’Edicola Feltrinelli, una cappella dell’inizio del secolo in stile neorinascimentale con relativa cupola, maestosa e convenzionale, proprio il contrario dei principi che avevano condotto alla tragica fine di Giangiacomo, come voleva anche il Monumentale che lo ha accolto, in quanto luogo di testimonianza della nostra storia e delle sue contraddizioni. Un contrasto evidente persiste tra le condizioni sociali e politiche – oltre che architettoniche e storiche – in cui è stato costruito il cimitero, sovente reso grandioso da opere di qualità, e quelle in cui, dopo molti anni, la stessa famiglia commemora la scomparsa di uno dei suoi componenti animato da nuove speranze e da molte incertezze, in situazioni culturali totalmente diverse. 30


Disegno del Monumento ai Caduti nei campi di sterminio nazisti

Anche per questo forse il cimitero dell’architetto Carlo Maciachini offre, nella nobile storicità del suo stile, la solennità necessaria all’idea della scomparsa umana che deve essere onorata al di là di ogni convincimento religioso. Non a caso è uno stile, quello neoromanico, del momento del trionfo delle libertà comunali lombarde contro ogni potere imperiale. Più di un secolo prima Louis Antoine Léon de Saint-Just scriveva: «Le sepolture sono in comune e costituiscono parte del paesaggio. Le tombe sono coperte di fiori seminati ogni anno dai fanciulli. Chi reca oltraggio alle sepolture è bandito. I riti dei vari culti sono rispettati. I funerali dei cittadini si svolgono in forma solenne e sono accompagnati da un magistrato. A ogni famiglia è dato un piccolo pezzo di terra per le sepolture. Bisogna che il rispetto dei morti sia un culto e che si creda che i màrtiri della libertà sono i geni tutelari di un popolo e che l’immortalità attende coloro che li imitano».

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PARTE PRIMA

LA VERA STORIA DEL CIMITERO MONUMENTALE di Carla De Bernardi

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La macchina del tempo

Il Cimitero Monumentale di Milano nasce ufficialmente il 2 novembre 1866. Ma quando inizia la sua appassionante storia? Quel fatidico giorno di centocinquant’anni fa o prima? E se prima, quanto prima? Perché, come scrive Edgar Morin in L’uomo e la morte nel capitolo Ai confini della terra di nessuno, la sepoltura dei morti è l’avvenimento decisivo che segna il passaggio della civiltà dallo stato naturale a quello pienamente umano e le prime usanze in tal senso risalgono davvero a un tempo lontanissimo. Ma, lasciando agli eruditi il piacere di dissertare sugli antichi riti romani o etruschi, sulle catacombe e sulle piramidi, saliamo sulla nostra macchina del tempo e facciamo un salto nel Medioevo quando, di fatto, iniziò il percorso che porterà alla nascita dei cimiteri moderni. Iniziamo con l’interrogare l’etimologia, ottimo metodo per trovare una prima chiave di lettura simbolica. Cimitèro: koimetérion, singolare neutro, propriamente luogo dove si va a dormire, derivato del verbo koimân che significa fare addormentare, mettere a giacere. Termine di origine indoeuropea (dal Dizionario etimologico della lingua italiana Zanichelli, volume A-C). Cimitero [ci-mi-tè-ro]: cimiterio, singolare maschile, dal tardo latino coemeteriu(m), dal greco koimetérion «dormitorio» (dal Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana). Quindi il cimitero è il luogo dove si viene condotti per godere del sonno eterno. Non si dice forse «riposa in pace»? Tra l’VIII e il IX secolo – partiamo da qui – si cominciò a seppellire nelle chiese gli «uomini giusti», quindi i vescovi, gli abati e i preti. Erano ammessi anche i fedeli e i meritevoli, senza peraltro specificare chi potesse fregiarsi di tale appellativo, e giacere ad sanctos et apud ecclesiam era una posizione privilegiata che garantiva delizie eterne. Tutti gli altri trovavano una scomoda e malsana si-

stemazione nelle fosse comuni, scavate nel terreno del camposanto, uno spazio consacrato dove era proibito seppellire i suicidi, a meno che non fossero insani, le donne morte di parto, i bambini non battezzati e, chissà mai perché, le persone colpite da un fulmine, come se non fossero state già abbastanza prese di mira dalla sfortuna. La contiguità sempre maggiore del cimitero con la chiesa trasformò nel Medioevo questi luoghi in punti di ritrovo e di intrattenimento, dove si svolgevano manifestazioni religiose ma anche fiere, incontri galanti, scambi, contratti e commerci. Un vero crocevia di personaggi ambigui, prostitute, affaristi, azzeccagarbugli, mercanti, accattoni e persino ladri e delinquenti comuni protetti dall’extragiudizialità territoriale. E animali a caccia di prede. L’esempio più noto di questo tipo di insediamento – perché di questo si trattava – è certamente il Cimitière des Innocents a Parigi, dedicato ai figli di Giudea massacrati per ordine di Erode. Era famoso per la sua rapidità nel dissolvere i corpi – la leggenda dice in soli nove giorni e per questo era chiamato «charnier» – e per l’inquietante Danse macabre dipinta sotto le sue arcate, andata purtroppo distrutta nel 1669. Possiamo trovare un affresco dello stesso tipo nel Campo Santo di Pisa dove il più grande pittore dell’epoca, Buonamico Buffalmacco, dipinse intorno al 1340 il celebre Trionfo della Morte. In basso a sinistra ecco l’incontro dei tre vivi coi tre morti, sormontati da un eremo dove i monaci sono affaccendati in mansioni semplici, circondati da animali, indifferenti al loro destino; al centro una schiera di poveri che invocano inutilmente la morte e una battaglia tra angeli e demoni che si strappano bambini che in realtà sono anime; a destra, infine, i dieci giovani nel verziere, ragazzi e ragazze che si godono la vita seduti in un giardino fiorito all’ombra di profumati aranceti fra suoni e canti alla luce di torce tenute da angioletti in volo. Ma proprio la 34


Morte sta volgendo la sua falce verso di loro, in un tragico memento mori. Staccata dalla parete e riportata su tela, l’opera è oggi nel cosiddetto «Salone degli Affreschi» del cimitero. Ma torniamo a noi. Tra il XV e il XVI secolo iniziò a diffondersi l’idea di «cimitero pubblico», di cui troviamo una prima traccia nel libro Les Cimitières sacrés dell’arcivescovo Henri de Sponde (Bordeaux, 1598) e che, a detta dello storico francese Philippe Ariès, si impose da metà del Cinquecento, quando si fece strada l’esigenza di «allontanare» la morte dalla vita. Proseguendo a grandi passi – ci scuserete per le semplificazioni – per arrivare il prima possibile alla fatidica data del 2 novembre 1866, ricordiamo che in Francia agli inizi del Seicento iniziarono, per poi diffondersi in Inghilterra e quindi in tutta Europa e in America, gravi denunce dell’insalubrità delle sepolture in chiesa e nello spazio circostante. «Nel 1737 il Parlamento di Parigi incaricò i medici di fare un’inchiesta sui cimiteri che non ebbe seguito: proposero semplicemente più cura nella sepoltura e più decoro nei cimiteri», ci narra ancora Ariès. Nel 1756 Voltaire nel Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni si scagliò con violenza contro questa usanza, dichiarando che i Greci e i Romani erano più saggi di noi giacché seppellivano fuori dalle città e definendo la malsana pratica «un retaggio di barbarie che fa vergogna all’umanità». A Parigi nel 1763 furono quindi costruiti otto cimiteri parrocchiali fuori dalle mura cittadine in attesa della vera rivoluzione che avvenne solo con Napoleone Bonaparte. In Italia il dibattito si aprì nel 1764-1765 sulle pagine de «Il Caffè», giornale diretto dai fratelli Verri, con un articolo di Luigi Lambertenghi che sollevava

severe questioni igieniche e sanitarie, provocando nel contempo un attualissimo dibattito culturale di stampo illuminista. Fu perciò Napoleone a fondare il nuovo «culto dei morti» estendendone le regole ai territori occupati, e quindi anche all’Italia in quanto parte della Repubblica Cisalpina. Fu vietato seppellire chicchessia «dans les églises, temples, synagogues, hôpitaux, chapelles publiques, et généralement dans aucun des édifices clos et fermés». La legge stabilì precise disposizioni sull’organizzazione dei nuovi cimiteri extraurbani: dovevano essere circondati da alberi, le fosse dovevano essere separate secondo spazi precisi ed essere collocate a profondità stabilite. Erano inoltre assicurati i culti principali e la sorveglianza e la gestione erano a carico dell’Amministrazione comunale. Era il celebre Decreto del 23 pratile anno XII, corrispondente al 12 giugno 1804, conosciuto come Editto di Saint Cloud, nel quale vennero fissate le linee guida che diedero origine al cimitero moderno, seppur con differenze a seconda dei paesi e delle tradizioni. In Inghilterra e in Germania e in generale al Nord le tombe furono inserite, come elementi del paesaggio, in ambienti bucolici, tra fiori e piante, vialetti e cespugli, grotte e panchine a creare dei «rural cemeteries» e la visione romantica della morte influenzò poeti, scrittori, artisti e musicisti. L’esempio più noto è forse l’Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray (1751). In Italia e in Francia si affermò invece il cimitero «di pietra» ampiamente edificato con importanti monumenti, sculture pregiate, cappelle elaborate, seppur all’interno di vasti parchi alberati. Come il Monumentale di Milano, appunto.

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Il cimitero di pietra

Ed ecco arrivato il momento di raccontare la nascita dei cimiteri monumentali nelle grandi città italiane. Il primo fu quello di Bologna, sorto nel 1801 intorno al nucleo dell’antica Certosa, seguito da quello di Napoli nel 1812 e da quello di Brescia progettato da Rodolfo Vantini nel 1814 e perciò detto «il Vantiniano». Vennero poi il Verano a Roma, iniziato da Valadier nel 1807 e consacrato nel 1835, il Cimitero Generale, ora chiamato «Monumentale», di Torino nel 1827, Bonaria a Cagliari nel 1828, Staglieno a Genova nel 1851. E che dire del Gran Camposanto di Messina (1857)? Non citiamo gli altri per brevità ma li trovate tutti qui, insieme a quelli europei più significativi e importanti: http://www.significantcemeteries.org/p/ significant-cemeteries.html. E infine Milano. Ma prima di addentrarci in questa storia dobbiamo ricordare un significativo avvenimento letterario e culturale, che influenzò fortemente lo svolgersi degli eventi in campo «cimiteriale». L’estensione all’Italia, iniziata con una circolare del 10 maggio 1805 indirizzata ai parroci ed entrata definitivamente in vigore il 5 settembre 1806, dell’ormai a noi ben noto Editto di Saint Cloud aveva infatti acceso vivaci discussioni sulla legittimità di questa legislazione illuministica, contraria alle nostre tradizioni. Nel maggio del 1806 a Trovaso, tra Mestre e Treviso, nel salotto dell’irrequieta e insolente Isabella Teotochi Albrizzi a Villa Franchetti, dove fu ospite Napoleone, si scontrarono, seppur solo verbalmente, due veri big del tempo, Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte che in quei giorni stava componendo un poemetto, I cimiteri, con il quale intendeva riaffermare i valori del culto cristiano. Il Foscolo in quell’occasione contraddisse aspramente il «collega letterato» con argomentazioni scettiche e materialistiche.

Ma in seguito, riesaminando la questione, cambiò parere e scrisse il poema Dei sepolcri che volle dedicare al suo avversario «per fare ammenda del mio sdegno un po’ troppo politico». Il poeta non rinnega la sua concezione meccanicistica e razionalista, ma indica come sia possibile realizzare una «corrispondenza di amorosi sensi» tra i vivi e i morti, proprio intorno alle tombe. All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Esordisce accorato il Foscolo che si indigna, evocando visioni gotiche, al pensiero che il grande Parini, che idolatrava, non avesse avuto degna sepoltura e fosse stato gettato in una fossa comune. Col mozzo capo gl’insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna, l’ùpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna. Avrebbe dovuto cercarlo – e forse lo avrà fatto ma non sapremo mai se l’ha trovato – al Cimitero della Mojazza, altrimenti detto «di Porta Comasina». Lì erano sepolti insigni defunti poi spostati al Monumentale – tra i quali l’astronomo Scipione Breislack, il patriota Edoardo Kramer e il fondatore della SIAM, Società d’Incoraggiamento Arti e Mestieri, Federico Mylius – e le lapidi sul muretto di recinzione ricordavano personaggi le cui spoglie si trovavano le une sopra le altre, disposte senza cura, nel terreno circostante. Tra questi l’economista e uomo politico Melchiorre Gioia, lo scultore Camillo Pacetti, il matematico 36


Cimitero di Porta Garibaldi o della Mojazza

Esempio di Chi Rho

Mappa del Cimitero della Mojazza, tratta dal libro di Carlo Tedeschi, Origini e vicende dei cimiteri di Milano e del servizio mortuario. Studio storico, Agnelli, Milano 1899

Barnaba Oriani, l’odiato ministro delle Finanze di Napoleone Giuseppe Prina e, vicini vicini, Cesare Beccaria e l’abate Parini, proprio lui! Si narra che la croce posta sul luogo della sua sepoltura sia stata rubata ma ne resta un disegno dove si vede che riporta il monogramma Chi Rho o Chrismon, dove al posto della X ci sono due J incrociate con la P, a significare Joseph Parini Jacet. E questo ci costringe a un nuovo, piccolo passo indietro. A Milano nella seconda metà del Settecento, sia per l’aumento del numero degli abitanti sia per la volontà del governo di gestire le problematiche igieniche e sanitarie legate alla sepoltura, ma anche per meglio organizzare, alla maniera austriaca, gli aspetti della

vita cittadina, vennero allestiti cinque nuovi cimiteri in sostituzione di quelli più antichi e in corrispondenza delle porte cittadine. Quasi tutti aperti nel 1787, furono in seguito demoliti entro la fine dell’Ottocento, quando nacquero il Monumentale prima e il Cimitero di Musocco poi (1895). Il Cimitero di San Rocco al Vigentino, appena fuori Porta Romana, rimase aperto per soli quarantatré anni dal 1783 al 1826, anche se vi furono seppelliti alcuni soldati austriaci morti durante le Cinque Giornate del 1848. Il Cimitero di San Gregorio, situato in zona Porta Venezia, adiacente al Lazzaretto, teatro della famosa peste manzoniana, chiuse i battenti il 31 agosto 37


Epigrafe per la tomba dell’abate Giuseppe Parini al Cimitero della Mojazza Mappa dei cimiteri dismessi

1883. Ospitò il pittore neoclassico Andrea Appiani, l’architetto della Villa Reale Leopold Pollak, i poeti Carlo Porta e Vincenzo Monti e il medico Luigi Sacco che introdusse in Italia il pus vaccino per la cura del temibile vajolo. Il Cimitero del Gentilino, in zona Porta Ticinese, fu soppresso il 22 ottobre 1895. Il Fopponino di Porta Vercellina, dove esisteva una sezione ebraica, venne chiuso il 30 novembre 1895, ma ancora esiste ed è visitabile. L’ingresso è sovrastato da una lapide tardobarocca ornata da un saggio teschio che ammonisce severo: «QUEL CHE SARETE VOI, NOI SIAMO ADESSO. CHI SI SCORDA DI NOI, SCORDA SE STESSO». Una lastra di marmo sul vecchio muro, collocata nel 1970 dallo studioso Wolfango Pinardi, ricorda che qui furono sepolti fra gli altri: Alessandro Sanquirico, scenografo di Napoleone, ora al Monumentale; Amatore Sciesa, patriota e martire del Risorgimento; padre Angelo Fumagalli, diplomatico ed ecclesiastico, abate di Chiaravalle; Antonio Mussi, erudito e orientalista, direttore della Biblioteca Ambrosiana.

Nel cimitero vennero sepolti anche Margherita Barezzi, prima moglie di Giuseppe Verdi, che morì a Milano nel 1840 e il figlio Icilio, di appena un anno, entrambi vittime della tubercolosi, probabilmente dovuta all’indigenza della famigliola. Sembra però che il Pinardi sia caduto in errore per quanto riguarda le sepolture di Barnaba Oriani e di Melchiorre Gioia, che risultano invece essere stati sepolti anche loro al Cimitero della Mojazza, smontato il 22 ottobre 1895. Il Cimitero di Porta Vittoria – detto anche «di Porta Tosa» per via di un bassorilievo raffigurante una giovane che si rade le parti intime, si dice per disprezzo verso il Barbarossa o forse in omaggio a un rito celtico di accoglienza –, fu costruito nel 1826 per sostituire tutti i piccoli cimiteri sopra citati e venne a sua volta chiuso il 30 giugno 1896, ormai rimpiazzato dai due nuovi grandi cimiteri.

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Il concorso o, per meglio dire, i concorsi

FINO AL 1860

progetti adeguati al programma del concorso e si decise di dare il via a una nuova gara, vinta questa volta dall’architetto Giovanni Moraglia, testa a testa con Gaetano Besia, nonostante comportasse un aggravio di spesa di L. 2.824.000. Nella seduta del 4 settembre 1846 si approvò il suo progetto con un mutuo iniziale di L. 500.000. Ma… Ma poi tutto si fermò con le guerre di indipendenza e liberare la città dall’oppressore ed entrare nel costituendo Regno d’Italia fu più urgente di qualsiasi altra cosa. Il discorso fu ripreso solo nel 1857 quando, nella seduta consiliare del 4 dicembre, si deliberò di acquistare i terreni siti nei Corpi Santi di Porta Tenaglia, di proprietà dei signori Achille Rougier, Gaetano Taccioli e fratello, Giuseppe Agnelli, Carlo e Giacomo Bianchi, Rinaldo Colombi, Gaetano e Luigi Zucchetti, Carlo Gerosa e della Società Ferroviaria e Deputazione dei Corpi Santi. Per chi non lo sapesse, i Corpi Santi di Milano, in milanese Corp Sant, erano un insieme di piccole aree suburbane che formavano un comune autonomo istituito nel 1782 da Giuseppe II d’Asburgo su un’idea già venuta a sua madre, la riformatrice Maria Teresa, che comprendeva le cascine, gli orti e i borghi agricoli situati appena oltre i Bastioni. Unito in un primo tempo a Milano nel 1808 durante il periodo del Regno d’Italia napoleonico, fu ripristinato nel 1816 col ritorno degli Austriaci e riannesso definitivamente alla città dal governo Lanza con Regio Decreto dell’8 giugno 1873 n. 1413. Una leggenda poetica lega il nome del luogo alla presenza dei corpi dei tre Re Magi al di fuori delle mura di Milano, poiché, come vuole la tradizione, il carro che trasportava le sacre reliquie lì si fermò senza che gli uomini del santo convoglio riuscissero ad andare avanti, perché le ruote erano diventate troppo pesanti per essere spostate da buoi e cavalli. Così il vescovo dovette abbandonare l’idea di custodire i tre santi corpi nella cattedrale e costruì la basilica di Sant’Eustorgio.

L’Accademia di Brera aveva l’abitudine di bandire concorsi, tra cui quello del 1819 per un «camposanto quadrato chiuso da porte», vinto nel 1820 da Franceso Durelli, allora studente ma in seguito importante e innovativo docente dell’Accademia stessa. Il suo progetto Un camposanto di trecento metri per lato con annesso oratorio non fu mai attuato e la storia del Monumentale iniziò davvero solo qualche anno dopo. Il 10 giugno 1824 e l’11 luglio 1825, infatti, il Municipio di Milano «emise parere concreto» per la realizzazione di un nuovo cimitero e delegò la Congregazione municipale di redigere un preventivo e un progetto degni della città e del suo crescente sviluppo sociale, artistico e culturale ma anche, perché no, commerciale. Purtroppo l’idea naufragò a causa delle scarse risorse finanziarie del Comune che si riprese solo nel 1829, anno in cui la proposta venne rilanciata e approvata, dando inizio alla selezione del luogo dove doveva sorgere il futuro Monumentale. Il 4 dicembre 1835 venne deliberato l’acquisto di un fondo di proprietà del marchese Alessandro Rescalli alle Cascine Abbadesse, al costo di L. 100.000. Nella riunione consiliare del 20 febbraio 1837 si manifestarono le prime di una serie di discrepanze che vennero risolte con la nomina di una commissione, la prima di molte. Il 7 marzo dello stesso anno si stanziò per l’esecuzione dei lavori la somma di L. 1.300.000 e il 22 giugno venne insediata la commissione di artisti per la scelta del progetto migliore, ma altre aspre discussioni sorte in Consiglio suggerirono di rimandare al parere della Delegazione provinciale. Finalmente il 28 giugno 1838 venne pubblicato il bando con scadenza 30 giugno 1839. La commissione scelse, con grande fatica, il progetto dell’architetto Alessandro Sidoli e quello dell’architetto Giulio Aluisetti, ma nella seduta del 14 agosto 1844 il risultato fu dichiarato nullo non essendo i due 39


Arcore, dimora di Berlusconi –, erano costituiti da: 1. Sancta Maria Magdalena ad Vepram (La Maddalena) 2. Sanctus Syrus ad Vepram 3. Bativacca (Bativacca) 4. Calvairate 5. Carraria (Carrera) 6. Sanctus Petrus in Sala Rozoni 7. Casinae De Bifis 8. Morcincta 9. Fonticillum. Fontegium Monasterium 10.Mirasole Monasterium 11.Gratasollia Monasterium Questi villaggi, una volta aggregati alla città, divennero altrettanti quartieri: San Siro, La Barona, Gratosoglio, La Ghisolfa, La Bovisa, Calvairate, Tre Ronchetti, Monlué, Maddalena, Fontana, Niguarda, Greco, Turro. Le cascine divennero parrocchie, scuole o edifici comunali, dando spesso il nome alle vie o ai quartieri che si stavano formando intorno. Nel caso della Cascina Taliedo questa diede il nome anche al primo aeroporto di Milano, il Campo di Aviazione di Taliedo.

Al di là di questo racconto, il nome è da legarsi alla legislazione austriaca che impose di spostare i cimiteri fuori dalla cerchia cittadina: la dizione di corpi santi è infatti un altro modo di chiamare i fuochi fatui, ossia le piccole fiammelle che a volte si sprigionano dalle tombe. Inoltre proprio nei cimiteri dei Corp Sant venivano seppelliti santi e martiri e questo rafforza ulteriormente la definizione. Il Comune dei Corpi Santi si articolava ai fini fiscali su sei sestieri corrispondenti alle porte dove le merci dovevano pagare i dazi fin dai tempi dell’arcivescovo Carlo Borromeo. I sei sestieri, all’interno dei quali si trovavano le undici parrocchie extramurarie della città, corrispondevano ai seguenti varchi: Porta Orientale con Porta Tosa Parrocchia di S. Francesca Romana Parrocchia di Calvairate Parrocchia di Monluè Porta Romana con Porta Vigentina Parrocchia di S. Rocco Porta Ticinese con Porta Lodovica Parrocchia di S. Gottardo al Corso Parrocchia della Barona Parrocchia di Gratosoglio Parrocchia di Ronchetto delle Rane Porta Vercellina con Portello del Castello Parrocchia di S. Pietro in Sala Porta Comasina con Porta Tenaglia Parrocchia della SS. Trinità Parrocchia di S. Maria alla Fontana Porta Nuova. A queste porte andavano poi aggiunti i due dazi situati sulle vie d’acqua, il Tombone di S. Marco, posto lungo il Naviglio della Martesana, e il Tombone di via Arena, posto a nord della Darsena. Il Comune dei Corpi Santi era invece esente da dazio. Per la precisione, i Corpi Santi, come narra lo storiografo di Maria Teresa d’Austria Giorgio Giulini – la cui villa di famiglia è ora Villa S. Martino, ad

1860-1862 Il consigliere comunale cavalier Carlo Tenca (fidanzato della celebre contessa rivoluzionaria e salottiera Clara Maffei) il 25 luglio 1860 ottenne in Consiglio comunale l’abbandono definitivo dei precedenti progetti per non dare continuità a decisioni prese in tempi di dominio austro-ungarico. Nello stesso anno venne nominata una Commissione delegata che riferisse «sopra eventuale innovazione del Cimitero Monumentale», composta dall’ingegnere Cagnoni, dall’architetto Giovanni Brocca, dai consiglieri comunali Tullo Massarani e Carlo Tenca, dal pittore Eleuterio Pagliano, dall’ingegnere Guido Pestagalli e dal nobile avvocato Francesco dalla Porta. Il 31 agosto 1860 prese il via un nuovo bando internazionale indetto da Camillo Boito chiamato «nel mio bel San Giovanni», motto preso dal verso 17 del canto XIX 40


Nomina della Commissione delegata

otto progettisti ottennero un’indennità: Luigi Bolnestaz, architetto e professore all’Accademia imperiale di Belle Arti di San Pietroburgo; Carlo Maciachini di Induno Olona, residente in via San Nicolao n. 2620 a Milano; Giacomo Franco, architetto di Verona; Agostino Nazari, ingegnere di Treviglio, in collaborazione con Cesare Zappa, disegnatore di Lurago, entrambi addetti dell’Ufficio tecnico municipale di Milano; Cesare Osnago, Alessandro Arienti e Luigi Agliati, tutti e tre di Milano. Dell’ottavo concorrente selezionato si sa che era russo, che il progetto aveva per titolo Amalia e che il referente era il signor Ernesto Cavallini, residente a San Pietroburgo in Cateringofsky Prospect, ponte Charlamanoff, Casa Vogts n. 17, Log. 2. Cavallini avrebbe reso noto il nome del progettista solo qualora avesse vinto. La sua urna si trova nelle Gallerie Superiori di Ponente e si dice che Verdi abbia composto per lui l’assolo del terzo atto della Forza del destino. Il 3 settembre 1862 uscirono le Norme prescritte, firmate dal sindaco Beretta che, riprendendo il programma del 17 novembre 1860 e in esecuzione della delibera del 1° agosto 1862, confermarono il luogo scelto, l’area totale di 180.000 metri quadri (di cui 120.000 di campi aperti), il limite di spesa di 5 milioni (escluse le opere di terra), la necessità che il cimitero potesse essere completato in fasi successive e immediatamente aperto, la progettazione del Cimitero degli Acattolici, vista la presenza in città di 220 acattolici e 110 persone di altre religioni, e del Cimitero degli Israeliti, vista la presenza di 270 fedeli di quella religione, con la raccomandazione, fatto il computo della relativa mortalità, di non sprecare spazio. Venne altresì stabilito che ci dovesse essere una sala anatomica, una per le disinfezioni, una per le ispezioni giudiziarie e una per l’osservazione dei morti. Nello stesso documento vengono elencati i cinque progettisti considerati migliori, ai quali venne chiesto di preparare nuovi elaborati dietro un compenso di L. 4.000, lasciando facoltà a chiunque di proporne altri.

dell’Inferno di Dante e riferito al Battistero di Firenze. Il 4 aprile 1862 il Consiglio comunale nominò la Commissione giudicante, così composta: sindaco e architetto Antonio Beretta, presidente; architetto Francesco Mazzei, architetto fiorentino che lavorò a Volterra rielaborandone l’aspetto secondo la sua idea di architettura medievale; Nicola Matas, noto soprattutto per essere stato l’artefice della facciata della basilica di S. Croce a Firenze; Enrico Alvino, architetto e urbanista milanese attivo soprattutto a Napoli; Giovanni Brocca, architetto che si occupò a fondo dei problemi edilizi e urbanistici di Milano, realizzando anche un progetto per il Cimitero Monumentale; Camillo Boito, che già conosciamo; Giuseppe Bertini, pittore romantico e verista, docente e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano e primo direttore del Museo Poldi Pezzoli; Vincenzo Vela, scultore di origine ticinese ed esponente eccelso della scuola verista; e, per finire, Emilio Bignami, direttore dell’Ufficio tecnico Acque e Giardini del Comune di Milano e segretario e poi presidente del Collegio degli ingegneri e degli architetti, che svolse funzioni di segretario. Tra i partecipanti non venne indicato un vincitore, ma 41


Le Norme prescritte pei nuovi progetti di Cimitero pubblicate il 3 settembre 1862

Il motto del progetto di Maciachini, che portava il numero 11, forse in risposta a quello del concorso, era un altro verso dantesco: «mosse di prima quelle cose belle», riferito all’amor divino che fece muovere per la prima volta le stelle (Inferno, canto I, verso 40). Gli altri «eletti» furono: Alessandro Arienti con il progetto n. 16, motto «Deorum manium jura sancta sunto» (I diritti degli dèi Mani siano sacri, oppure I giuramenti sugli dèi Mani siano sacri), espressione latina riportata da Cicerone nel De Legibus e attribuita alle Dodici tavole. Questa citazione compare come epigrafe dei Sepolcri di Ugo Foscolo). Carlo Zappa in collaborazione con l’ingegnere Agostino Nazari, progetto n. 12, motto «Tutti torniam alla gran madre antica» (Francesco Petrarca, Trionfo della Morte, canto I, versi 106-108). Luigi Agliati, progetto n. 25, «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?» (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, versi 1-3). Cesare Osnago, progetto n. 26, «Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres» (Orazio, Carmina, A Sestio, libro I).

1863 Serviva ora una giuria di secondo grado per decretare il vincitore assoluto e così si riunirono il sindaco Antonio Beretta, di nuovo presidente, affiancato dagli architetti Mariano Falcini, fiorentino, autore del Cimitero delle Porte Sante e della Sinagoga della sua città; Gaetano Besia, cultore dello stile neoclassico, per quarant’anni membro della Commissione d’Ornato dell’Accademia di Belle Arti di Brera e… avo del «nostro» Vico Magistretti (quando si dice il DNA!), Giuseppe Balzaretto, ingegnere che tra il 1856 e il 1862 sistemò la parte dei Giardini Pubblici cosiddetta «all’inglese» con rocce, ruscelli, ponticelli, collinette, grotte. E ancora l’architetto Carlo Sala; Andrea Scala, architetto neoclassico il cui capolavoro è il duomo neogotico di Mortegliano in provincia di Udine, sua città natale; Giovanni Strazza, scultore neoclassico con influenze tardoromantiche, allievo di Pietro Tenerani; Giuseppe Mongeri, storico dell’arte, scrittore, critico d’arte e professore di Estetica a Brera; Emilio Bignami, ingegnere e di nuovo segretario. 42


giardini; Achille Alziati i cippi in pietra di Sarnico e i giardini a perpetuità; Bernasconi si occupò della facciata del Famedio nel 1865, dell’Ossario e del muro di cinta: si presume quindi che producesse mattoni. La ditta di Giuseppe Castelli costruì nel 1871 il Cimitero degli Israeliti e, tra il 1869 e il 1873, i due Rialzati con la terra di scavo delle Gallerie; i parapetti in ghisa e ferro furono opera della Fonderia Vittore Bouffier (1866). Molti altri si avvicendarono e completarono il cosiddetto «Recinto Maciachini» che rimase identico fino al 1929-1930, data del primo ampliamento. Il 2 novembre 1866, benedetto da monsignor Calvi e inaugurato dal primo sindaco della città Antonio Beretta, apriva i suoi cancelli il Cimitero Monumentale di Milano ed entrava il primo defunto, tale Gustavo Adolfo Noseda, promettente musicista precocemente scomparso, oltre naturalmente a tutti i vip dell’epoca che accorsero in massa a curiosare e a prendere visione degli spazi che avrebbero ospitato le loro ultime, fastose dimore.

Il 4 aprile 1863 – qualcuno dice il 31 marzo – i giurati scelsero il progetto di Carlo Maciachini, che portava il numero 1 ed era protocollato con il numero 7713, e il 22 dicembre 1863, dopo lunghe e controverse sedute, il Consiglio comunale si dichiarò a favore e ne decretò «la sollecita esecuzione». Il 28 novembre 1863 la commissione incaricata di valutare l’idoneità del terreno scelto aveva dato parere favorevole e il 23 dicembre seguente il progetto Maciachini ottenne la definitiva approvazione. Gli appalti – che sarebbero durati anni, anzi decenni – furono suddivisi per tipologia di materiali e la ditta Buzzi e Isola, poi Buzzi Giberto, si aggiudicò parte dei lavori in marmo, tra cui i colombari e gli ossari. Da notare che uno dei primi artisti a lavorare per il cimitero fu proprio Luigi Buzzi Giberto, scultore verista di grande eleganza. Il primo monumento piazzato nel 1867 nel terreno ancora intonso è suo e suoi sono i due superbi monumenti di Pietro Volpi e Annibale Zanoni nella Galleria Superiore di Ponente. Ajelli e Ghiringhelli si aggiudicarono lo sterro e i 43


Gustavo Adolfo Noseda, promettente quanto sfortunato compositore

Ma chi era questo giovane uomo di ventotto anni, il cui sepolcro si trova da allora nella Galleria Inferiore di Ponente, pieno di polvere, travolto dall’incuria e dall’abbandono, insieme a quelli dei famigliari che morirono dopo di lui e ai busti di mamma e papà, invero molto affaticati? Nato a Milano il 24 novembre 1837, Gustavo Adolfo era il primogenito di Giovanni, agiato commerciante e possidente, e di Vincenza Mazzucchelli. Portò a termine studi classici e di giurisprudenza finché ottenne, a partire dal 1857, il permesso del babbo di dedicarsi interamente alla musica, sua unica e bruciante passione. Aveva infatti seguito corsi di armonia e contrappunto con Raimondo Boucheron e di pianoforte con Giovanni Ferrari al Conservatorio di Milano. L’ambiente musicale milanese cominciò a conoscere il suo nome in occasione di due concerti: il primo il 29 marzo 1857 e il secondo il 28 marzo 1858. Al cospetto di personalità eminenti, senza nessun imbarazzo suonò soavemente musiche di Beethoven e di Verdi insieme ad alcuni suoi brani. Decisivo nella sua brevissima vita fu il lungo soggiorno, dalla fine del 1859 al 1863, a Napoli, dove studiò con Saverio Mercadante e dove cercò sollievo alla salute cagionevole, poiché fin da bambino aveva manifestato i sintomi di quel mal sottile che l’avrebbe condotto a morte precoce. Nella città partenopea scrisse l’opera Ada, su libretto di Piave, e raccolse un’imponente biblioteca di 10.253 volumi che alla sua morte fu donata al Comune di Milano e ora è custodita nel Conservatorio come Fondo Noseda, formato soprattutto da volumi di provenienza napoletana del Sette e Ottocento e dalle intere biblioteche di Pietro Lichtenthal e di Alessandro Rolla, violista eccelso e maestro di Verdi. Nel Fondo si trova l’unico manoscritto completo a noi noto dell’Europa riconosciuta di Antonio Salieri, l’opera che inaugurò il Teatro alla Scala nel 1778, nonché autografi e preziosi manoscritti di Giovanni

Paisiello, Domenico Cimarosa, Wolfgang Amadeus Mozart, Giacomo Meyerbeer, Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini e Felix Mendelssohn. Nel luglio 1863 lasciò Napoli per tornare a Milano dove, nel 1864 e nel 1865, organizzò, nella sua elegante dimora, concerti di musica strumentale che ebbero larga eco sulla stampa. Se ne occuparono infatti firme di primo piano come Arrigo Boito, allora ventiduenne, e Filippo Filippi, entrambi sepolti al Monumentale. L’ultimo melodramma a cui lavorò è Arminia, sempre su libretto di Piave, che avrebbe dovuto debuttare alla Scala durante il carnevale 1865-1866 e che è ricordato sulla sua lapide. La gloria stava infine per cingere d’alloro il capo cagionevole di Gustavo Adolfo! Il 6 maggio 1865 firmò il contratto con la direzione del teatro, in giugno scelse i cantanti, ma in settembre le sue condizioni di salute peggiorarono e accadde l’irreparabile. Morì a Milano il 27 gennaio 1866, fu seppellito al Cimitero di Porta Magenta e traslato al Monumentale quello storico 2 novembre. Sul suo semplice sarcofago si legge con una certa fatica un epitaffio che ricorda che fu lui a «INAUGURARE QUESTA NECROPOLI OCCUPANDO PER PRIMO I SEPOLCRI DELLA FAMIGLIA»

e che lo descrive «MODESTO, PERSPICACE, COLTISSIMO, PER MUSICHE E ISPIRAZIONI AMMIRATO». Prosegue il funebre ricordo raccontando che «PROSSIMO A COGLIERE IL SERTO DEGLI ELETTI COMPOSITORI NEL DÌ DEL 1866 VIGESIMO OTTAVO DALLA SUA NASCITA FU RAPITO AI PARENTI, ALL’ARTE, ALLA GLORIA». Riposa in pace Gustavo Adolfo, sfortunato ragazzo! E speriamo che qualcuno di misericordioso restituisca dignità alla tua ultima casa. Vogliamo ora dire qualcosa anche dell’intelligente, capace, intraprendente, astuto e forse un po’ mariuolo sindaco Beretta? 44


Firma di Luigi Buzzi Giberto sulla lapide di Antonio Albrighi

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Antonio Beretta, il primo sindaco e la Milano di allora

Nato a Milano il 17 aprile 1808 da Luigi e da Maria Bontempi, da giovane si occupò delle proprietà agricole di famiglia, ma dal 1843 si dedicò interamente a scalare la vita pubblica con vari incarichi fino a quando, nel 1859, fu eletto consigliere comunale e nominato sindaco di Milano, il 10 febbraio 1860. Il giovane era ambizioso, capace e astuto, forse troppo come si vide in seguito. Nei sette anni del suo governo, terminato con disonore nel 1867, lanciò letteralmente Milano nel futuro, seppure a volte con metodi discutibili. Fu lui a porre le basi dei pubblici servizi, ad avviare la trasformazione del centro, la costruzione di nuovi quartieri, l’allargamento del territorio urbano, l’apertura del macello, dei mercati coperti e dei bagni pubblici. Fu allora che vennero edificati i primi monumenti nelle piazze – a Cavour, a Beccaria e a Leonardo –, nacquero le prime case popolari in via San Fermo e vennero ristrutturate le carceri. Uno dei suoi primi atti fu l’emanazione del bando per la sistemazione di piazza del Duomo, che avrebbe dovuto essere larga 122 metri e avere una lussuosa Galleria di collegamento con piazza della Scala. Nel 1863, dopo lunghe discussioni, incertezze e i lavori di tre successive commissioni, ebbe la meglio il progetto Dante dell’architetto bolognese Giuseppe Mengoni. I lavori, iniziati il 7 marzo 1865 con la solenne posa della prima pietra alla presenza del re Vittorio Emanuele II, si protrassero con alterne vicende fino al 30 dicembre 1877, quando ebbero un epilogo tragico con la morte del progettista che volò da un’impalcatura il giorno prima dell’inaugurazione. Intanto, il 29 novembre 1863 Francesco Brioschi, uomo politico e illustre matematico e idraulico, nel suo duplice ruolo di presidente del Consiglio direttivo dell’Accademia Scientifico-letteraria – nucleo originario della futura Università degli Studi – e di fondatore e direttore dell’Istituto Tecnico Superio-

Monumento funebre dell’industriale Ambrogio Binda, 1876

re – il primo Politecnico d’Italia – inaugurava i due atenei sottolineandone gli «scopi comuni e speciali» e la loro rispondenza ai «bisogni intellettuali e materiali del Paese». Intorno al 1865 nacquero poi i nuovi quartieri di via Solferino e di via Principe Umberto, a ridosso della vecchia stazione centrale, e quello di Porta Genova, che fu dotato di una sua stazione ferroviaria. Ma, nonostante tutto questo virtuoso darsi da fare per il bene della città, Beretta e la sua giunta avevano scontentato tutti per la gravità del deficit comunale, arrivato a 30 milioni, per le manie di grandezza del primo cittadino e per l’esorbitante prezzo di espro46


Pegaso, Stazione Centrale di Milano

prio di un paio di palazzi, pagato a un assessore, tale G.B. Marzorati, casualmente cognato del Beretta medesimo. Il processo terminò con un’archiviazione ma le polemiche e il trasferimento a Firenze, nuova capitale, di importanti uffici favorirono la vittoria nelle elezioni parziali del 7 luglio 1867 della lista di opposizione che annoverava il conte Luigi Belgiojoso, l’industriale Ambrogio Binda (fondatore della cartiera e sepolto al… Monumentale!), l’avvocato Pompeo Castelli, il notaio Alberto Parola e altre personalità meneghine. Il sindaco si dimise il 17 del mese stesso mettendo fine al predominio cittadino del gruppo di aristocratici a lui legati che avevano forti interessi immobiliari, tanto che si mormora che il nostro sia stato il primo a intascare una tangente. Infatti nel marzo precedente l’architetto Giuseppe Pestagalli – che non si rivelerà neppure lui un santo, visto che nel 1872 avrà una condanna a tre anni per appropriazione indebita – visitando il cantiere scoprì che gli edifici della Galleria erano più alti di un piano rispetto al progetto, innalzamento concordato segretamente dal Beretta con la società inglese City of Milan Improvements Company Limited che aveva vinto l’appalto per la costruzione del «Salotto di Milano». Sembra che avesse acquistato quintali di ferro in eccesso e avesse costretto il povero Mengoni a nasconderli in luogo sicuro. E quale luogo era più sicuro della cupola stessa? E rieccoci alla morte di Mengoni: cadde perché era stressato per il pesante segreto e preoccupato della tenuta della galleria o, per gli stessi motivi, si suicidò? O si suicidò invece perché il re non avrebbe partecipato alla cerimonia, non sapendo che era morente poiché che la notizia era stata tenuta nascosta? Oppure «fu suicidato», iniziando una macabra tradizione, perché sapeva troppo? Non lo sapremo mai. Il Beretta dunque si dimise, ma nonostante tutto fu

nominato senatore e pure conte. Negli ultimi anni della sua vita, abbandonati i pubblici affari, visse a Roma, dove, cieco e quasi in povertà, morì il 14 novembre 1891. Ma vediamo cos’altro aveva combinato di buono, durante il suo mandato. Furono pochi ma intensi anni, che videro l’apertura dei Giardini Pubblici di Porta Venezia, l’inaugurazione della nuova Stazione Centrale nell’attuale piazza della Repubblica, progettata in stile parigino dall’architetto Jean-Louis Bouchet, l’esordio dei Sorveglianti urbani, primo corpo di vigili a Milano, vestiti con un pesante soprabito blu e un’alta tuba, la nascita de L’Albergo di Milano – oggi Grand Hotel et de Milan – in via Manzoni n. 29, dove nel 1901 morì, nella stanza n. 105, a ottantasette anni il Maestro Giuseppe Verdi, e prese avvio la rete del gas di città. Riposa naturalmente al Monumentale nella Galleria Inferiore di Ponente, alle spalle del busto del robusto tenore Franco Corelli, vestito per sempre da matador. La sua tomba, come molte altre, anche quelle di altri sindaci, è in pessimo stato! 47


Non fece però in tempo a battezzare, il 15 settembre 1867, la «sua» Galleria. Ormai caduto in disgrazia dovette cedere il passo al banchiere Giulio Belinzaghi, che a capo di una giunta di «riparazione» aveva tutte le intenzioni di ridurre il deficit dello sventato Beretta e che fu il sindaco che governò più a lungo nella storia di Milano: per due mandati, dal 1868 al 1884 e poi dal 1889 al 1892. Il nuovo primo cittadino risanò il bilancio comunale, completò la sistemazione di piazza del Duomo, realizzò l’annessione dei Corp Sant, promosse il trasporto pubblico, inaugurò la stazione Cadorna. Nel 1868 si aprì anche il Teatro Gerolamo, in piazza Beccaria, progettato dall’architetto Giuseppe Mengoni, chiamato la «Scala in miniatura». I milanesi, sempre pronti alla battuta, lo chiamarono «gilé de ges» (panciotto bianco) per sottolineare la sua tendenza conservatrice. Il suo principale obiettivo fu risanare il bilancio, vendendo vaste aree urbane, tra cui quella tra la Galleria e via Berchet dove fu innalzato un importante palazzo, quella di piazza San Fedele dove nacque nel 1870 il Teatro della Commedia, ribattezzato Teatro Manzoni nel 1873 alla morte dello scrittore e trasferito dopo la guerra in via Manzoni n. 42, e quella in via San Giovanni sul Muro dove venne costruito il Teatro Dal Verme. Intanto nel 1876 era stato fondato «Il Corriere della Sera». Milano era diventata il centro morale e imprenditoriale del Paese, processo che non si sarebbe più interrotto e che fu consacrato dall’Esposizione Nazionale del 1881 ai Giardini Pubblici, il cui motto era «Labor omnia vincit», che vide l’afflusso di un milione di visitatori. I trasporti pubblici urbani ebbero un forte sviluppo: nel 1881 c’erano undici linee tramviarie a cavallo e chilometri di binari, la rete extraurbana si ampliò e piazza del Duomo divenne il cuore da cui si dipartiva tutta la rete di comunicazioni. Per fare ordine nell’inevitabile anarchia di questa

espansione un ingegnere comunale fu incaricato di redigere il primo Piano regolatore di Milano, redatto nel 1894 e approvato nel 1898, che da lui prese il nome di Piano Beruto e che stabilì l’abbattimento delle mura spagnole e la copertura dei Navigli. Gaetano Negri, sindaco dal 1884 al 1889, illuminò corso Vittorio Emanuele, realizzò piazza Cordusio e via Dante, ristrutturò Palazzo Marino. Tutto questo richiese ulteriori dazi, compreso quello sul pane che gli operai portavano con sé, creando scontento e sommosse. Nel 1886 durante il suo governo fu promulgato il Regolamento per le onoranze postume ai milanesi illustri e benemeriti e, su proposta dei consiglieri radicali Giuseppe Marcora, Edoardo Porro, Napoleone Perelli e Giuseppe Mussi il primo cittadino a ricevere questo onore fu Carlo Cattaneo. Nascevano intanto ristoranti, alberghi, caffè, negozi di gastronomia raffinata. Nel 1881 Virgilio Savini, nato da una modesta famiglia del Varesotto, rilevò la Birreria Stocker in Galleria Vittorio Emanuele II e la trasformò nel 1884 nel Ristorante Savini, progettato da Ulisse Stacchini, che in breve diventò il luogo di ritrovo più ambito della città. Per la sua posizione vicino al Teatro Manzoni fu il punto di riferimento di artisti e letterati, il salotto dell’arte e della cultura che Emilio Praga e gli «scapigliati» milanesi avevano eletto quale loro Parnaso. Nel 1883 in via Orefici Francesco Peck, un salumiere di Praga che commerciava al dettaglio salumi e carni affumicate secondo la tradizione ceca, fondò la salumeria Peck. La Edison, nata il 6 gennaio 1884 come Società Generale Italiana di Elettricità Sistema Edison per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, ebbe un ruolo capitale nell’evoluzione della città. Giuseppe Colombo, il presidente, costruì nel centro di Milano, nell’ex Teatro Santa Radegonda, la prima centrale elettrica europea, che entrò in funzione il 18 giugno 1883 illuminando i locali della Galleria di Milano, delle strade vicine e del Teatro alla Scala. 48


Monumento Luca Beltrami

piazza Cordusio, piazza del Duomo, il campanile di S. Marco, il Cenacolo, S. Ambrogio… e se non fosse stato per lui i resti del Castello Sforzesco, distrutto durante la Prima guerra mondiale, sarebbero stati eliminati senza scrupoli. Suoi sono anche la sede del «Corriere della Sera» in via Solferino n. 28, realizzata nel 1904, per la quale si dice che si sia ispirato a quella del «Times» di Londra, la Sinagoga di via Guastalla n. 19 (1892) e Palazzo Biandrà, tra via Mercanti e via Tommaso Grossi, realizzato nel 1900 in libere forme rinascimentali. Superfluo dire che detestava lo stile liberty che si stava affermando, dando vita a interi quartieri come Monforte e Magenta. «Inventò» la vedovella, detta anche il «bar del drago verde», ovvero la fontanella che è diffusa in tutta Milano e al Monumentale. La prima, con elementi in ottone, più lussuosa delle sorelle in ghisa verde, e circondata da un mosaico a greca classica, è ancora davanti al Municipio. Milano prendeva forma: sorgevano quartieri residenziali entro la Cerchia dei Navigli, abitativi o adibiti al settore terziario; le aziende manifatturieroindustriali si insediavano nel territorio degli ex Corp Sant e così le case popolari; la fascia suburbana rimaneva prevalentemente agricola. A Gaetano Negri successe, dal 1892 al 1894 e dal 1895 al 1899, Giuseppe Vigoni, geografo ed esploratore, moderato e molto cauto verso il proletariato. Fu durante il suo mandato che nacque la tramvia per il trasporto funebre tra il Monumentale e Musocco e il rondò del tram in piazza Duomo e fu approvato il progetto delle fognature. La crisi economica esplosa in tutta Italia sfociò a Milano in una rivolta soffocata nel sangue dal generale Fiorenzo Bava Beccaris che «riportò la città alla calma». La Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare dei Savoia che gli conferì il re Umberto I costò al sovrano l’uccisione da parte dell’anarchico Bresci, nel 1901.

Dal 1889 al 1892 tornò in carica il Belinzaghi, che diede vita a via XX Settembre e avviò un piano finanziario per il rinnovamento igienico-edilizio della città. Naturalmente alla fine della sua operosa vita si trasferì anche lui in modo definitivo al Monumentale, nell’edicola di famiglia nella Necropoli. L’architetto Luca Beltrami, allievo di Camillo Boito alla Scuola di Architettura del Politecnico di Milano dove si laureò nel 1876, pian piano cambiò volto al centro della città. Divenne famoso nel campo del restauro perché fu uno dei pochi a preoccuparsi di legittimare i suoi interventi con la ricerca storica del contesto e della vita precedente del monumento o dell’edificio, cautelandosi in questo modo da scelte arbitrarie e perciò discutibili. Aristocratico e tradizionalista, spalmò instancabilmente per decenni, tra l’Otto e il Novecento, i suoi scrupolosi restauri conservativi e storicisti. Dalla ristrutturazione di Palazzo Marino, nel 1888, a Palazzo Beltrami in piazza della Scala, nel 1927, non si fermò più. Palazzo dei Giureconsulti e quello della Permanente, la chiesa di S. Lorenzo e quella del S. Sepolcro, l’Arengario, il Lazzaretto e via dicendo, ridisegnando strade e piazze e riedificando torri e campanili: 49


Il Maestro Arturo Toscanini dirige il coro del Va’ pensiero durante i funerali di Giuseppe Verdi

Milano cresceva di diecimila abitanti l’anno e si configurava come un città moderna. Nel 1898 Arturo Toscanini assunse la direzione del Teatro alla Scala e riformò il modo di rappresentare l’opera. Ottenne, inoltre, di abbassare le luci durante le rappresentazioni, proibì l’ingresso ai ritardatari e tolse di mezzo i bis. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Monumentale alla Casa di Riposo per Musicisti, avrebbe diretto centoventi strumentisti e novecento voci nel Va’ pensiero, sulla scalinata del Famedio. Non tutti sanno che Giuseppe Verdi ebbe due funerali. Il 30 gennaio del 1901, in una giornata nebbiosa, fu portato al Monumentale con una cerimonia molto semplice e sepolto a fianco della moglie Giuseppina Strepponi, morta il 14 novembre 1897, nello spazio dove ora sorge l’Edicola Bonelli ex Riboni. Un mese dopo Giuseppe e Giuseppina lasciarono la loro eterna dimora provvisoria e con un unico grandioso carro funebre ricoperto da un drappo, con tripudio di fiori e bandiere, raggiunsero la loro eterna dimora definitiva. Nacquero manifatture come le cartiere Ambrogio Binda, le ceramiche Jules Richard, le aziende meccaniche Izar, Carlo Dell’Acqua ed Edoardo Süffert, nacquero i Magazzini Aux Villes d’Italie, futura Rinascente, presero vita quelle che sarebbero state le grandi imprese conosciute in tutto il mondo: la Pirelli, la Borletti, la Carlo Erba, la Magneti Marelli, la Falck, la Edison, la Isotta Fraschini, le industrie editoriali Fratelli Treves, Tumminelli e Bestetti, Sonzogno, Antonio Vallardi, Ricordi, Lucca. Tutti i fondatori di questi futuri imperi si premurarono di acquistare una concessione a perpetuità al Cimitero Monumentale per il loro eterno riposo e quello della loro discendenza, e da allora questa fu un’usanza che divenne consueta per tutti coloro che potevano permetterselo. Mentre il sindaco Greppi, in carica dal 1911 al 1913,

si dava un gran da fare per modernizzare la «grande città» – con l’illuminazione elettrica delle strade, la nascita dei Mercati Generali, il tracciato di corso Italia, l’arteria da piazza della Scala a piazza San Babila, l’asse viario tra piazza Duomo, via Orefici, via Dante, Castello Sforzesco e corso Sempione con il suo parco – i magnati del Novecento edificarono a sua immagine e somiglianza la «piccola città». Arnoldo Mondadori, Luigi Motta, Gioacchino Alemagna, Angelo Rizzoli, Giovanni Treccani degli Alfieri e molti altri si aggiudicarono importanti lotti perpetui, seppur mai, per regolamento, con un perimetro maggiore a 7 x 7 metri e un’altezza superiore a 20 metri, dimensioni raggiunte solo dall’Edicola Bocconi, seguita a ruota dall’Edicola Erba. Nel racconto Weekend, Dino Buzzati, amante e cantore del cimitero, li prende bonariamente in giro per la solitudine in cui si trovano dopo una vita piena di lavoro, di ricchezza e di potere. E gli artisti, i musicisti, i letterati, i poeti, gli attori, i cantanti, le grandi sarte, le persone del bel mondo, i 50


Targa commemorativa dei Volontari Ciclisti Automobilisti

politici trovarono tutti il loro posto tra i viali alberati. Molte persone di buona volontà, perlopiù di pensiero socialista nel suo senso storico, prima di approdare qui diedero vita a una fitta rete di istituzioni filantropiche per i diseredati, i miserabili, gli ammalati, gli operai. Fondarono asili, brefotrofi, case dove accogliere giovani destinate a prostituirsi, luoghi dove nutrire gli affamati e dove dare un’educazione ai giovani: l’Asilo Mariuccia, finanziato da Luigi ed Ersilia Majno, «destinato al recupero delle bambine e delle adolescenti pericolanti o avviate alla prostituzione»; il Pio Ricovero per Bimbi lattanti e slattati, in casa di Laura Solera Mantegazza; la Minestra dei Poveri, ideata da Alessandrina Ravizza. Nel 1883 nacque, in viale Monte Grappa su progetto dell’architetto Luigi Broggi, l’Opera Pia Cucine Economiche, che offriva pasti a basso prezzo a operai e famiglie non abbienti. E inoltre veri e propri centri di istruzione, come la Società Umanitaria il cui scopo era di «aiutare i diseredati a rilevarsi da sé medesimi», procurando loro assistenza, lavoro e istruzione. Non mancarono mecenati di artisti che li aiutarono, mentre faticosamente tiravano a campare, ad affermarsi e ottenere il successo, come i coniugi Cairati Vogt. E fu così che la «piccola città» divenne la gemella «ctonia» della «grande città». Nel 1906, dal 28 aprile all’11 novembre, in occasione dell’apertura del traforo del Sempione, venne allestita un’Esposizione Internazionale nel parco dell’ex piazza d’Armi e i maggiori architetti dell’epoca, attivi anche al Monumentale, come Sebastiano Locati, Orsino Bongi, Augusto Guidini progettarono i fantasiosi, esotici e splendidi padiglioni. Arrivarono cinque milioni e mezzo di visitatori e Milano si lanciò nell’empireo delle città europee più prestigiose. Il primo self-service in Italia, su modello di quelli americani, venne allestito dalla ditta Pelzer & C. di Colonia.

Purtroppo la Grande Guerra era in agguato, con il suo carico di sconfitte, di lutti e di dolore, ma un altro grande primo cittadino, Emilio Caldara, da bravo socialista, durante il suo mandato dal 1914 al 1920 aumentò l’assistenza ai disoccupati e ai ceti deboli con la calmierazione dei prezzi, municipalizzò i trasporti pubblici, diede il via a grandi opere pubbliche e all’edificazione di Città Studi. Ma non potè impedire l’entrata nel conflitto, a cui si oppose fieramente fino alla disfatta di Caporetto. Nel suo Consiglio comunale sedeva Benito Mussolini, che venne espulso quando divenne interventista. Caldara riposa al Monumentale, come molti altri primi cittadini, tra cui Beretta e Belinzaghi, come già ricordato, e Giuseppe Mussi, Bassano Gabba, Angelo Filippetti, Luigi Mangiagalli, Virgilio Ferrari, Gino Cassinis, Aldo Aniasi. A ognuno di loro corrisponde qualche significativo mutamento nell’evoluzione della città e del Monumentale. Ai militari di tante guerre sono dedicati i portici sotto le Gallerie Est e Ovest del Famedio, quello 51


Lapide dei Reduci dalle Patrie Battaglie di Milano

A fronte: Disegni dell’Edicola Maciachini

sotto la scalinata dove si trova l’ingresso principale alla Cripta e il criptoportico della chiesa del SS. Crocifisso. In queste zone sono ricordati i Martiri del 6 Febbrajo 1853 e i soldati e ufficiali dei due conflitti mondiali, compresi i Volontari Ciclisti Automobilisti, corpo nel quale si arruolarono i futuristi, il Battaglione Lupi di Toscana, i Bersaglieri, i Caduti del corpo dei Vigili Urbani, le Vittime di Venezia Giulia, Istria, Pola, Fiume e Zara trucidati nelle foibe, in mare e nei campi di sterminio e quelle della Divisione Acqui, Cefalonia, Corfù. Nella Cripta una lapide celebra le Vittime di Nassirya, un’altra i Caduti durante la campagna di Russia, un’altra ancora i Combattenti milanesi inquadrati nelle forze regolari durante la Guerra di Liberazione.

All’ingresso della Galleria Inferiore di Levante ecco i caduti appartenenti alla Società Dante Alighieri. I Reduci dalle Patrie Battaglie di Milano e della Società Democratica di Mutuo Soccorso sono invece riportati tutti nella Galleria AB Superiore di Ponente e i Reduci dalle Patrie Battaglie d’Italia e di Casa Savoia nella Galleria AB Superiore di Levante. Molti eroi come il capitano Carlo Bazzi, il capitano Arrigo Biasioli, il tenente Luigi Fossati, il guardiamarina Arnaldo Arioli, il tenente Lorenzo Sigurtà, il guardiamarina Tuccio Portaluppi, l’ammiraglio Carlo Mirabello e tanti, tanti altri hanno tombe private, così come, tra i partigiani, i fratelli Bruno e Fofi Vigorelli, l’architetto Mario Baciocchi e il pittore Alfredo Agostoni detto «Ciri». Menzionarli tutti è purtroppo impossibile.

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Il Cimitero Monumentale, finalmente

E ora, ripassata un po’ di storia, è utile entrare nel vivo della descrizione tecnica e artistica del Monumentale, partendo da colui che vinse il concorso e dai motivi per cui fu proprio lui a spuntarla nel 1863. Carlo Maciachini, dunque, ebanista e intagliatore di Induno Olona, di origine contadina, diplomato in Architettura e Ornato all’Accademia di Brera, quando si aggiudicò il bando non era più un ragazzino: aveva infatti quarantacinque anni e al suo attivo c’era ben poco, solo i capitelli in stile corinzio della chiesa di Bodio e il pulpito di S. Vittore a Varese. Aveva inoltre partecipato al concorso – che avrebbe vinto facilmente – per la nuova chiesa serboortodossa di S. Spiridione a Trieste, costruita poi nel 1869, in cui per la prima volta si era cimentato con lo stile neobizantino e neoromanico e con la struttura a croce greca con grande cupola centrale, modello che avrebbe scelto anche per il Famedio del Monumentale. Filosofo positivista, con un’incrollabile fede nella scienza e nel progresso, si dice che fosse un massone, vista anche la sua amicizia con l’industriale della seta Alberto Keller, per esteso Keller di Kellerer – lui sì, sicuramente massone e altrettanto positivista – che gli affiderà l’incarico di progettare il Tempio Crematorio e i fondi per realizzarlo, in tempi in cui la cremazione era un affare riservato a pochi iniziati. Dopo il Monumentale la sua carriera continuò con importanti restauri in città e in tutta la Lombardia, da S. Simpliciano, S. Marco e S. Maria del Carmine a Milano, a S. Maria in Strada a Monza, dal Duomo di Voghera alla chiesa di S. Maria Assunta di Soncino, vicino a Cremona. Morì il 10 giugno 1899 e fu sepolto nel «suo» Cimitero Monumentale, nella Galleria AB Inferiore di Ponente, nella semplice tomba di famiglia da lui stesso disegnata che, come quella del povero Gustavo Adolfo, è attualmente abbandonata e in attesa di cure. Nel suo necrologio sull’«Illustrazione italiana» si ac-

cennò a un problema edilizio che aveva amareggiato gli ultimi anni della sua vita. Si lasciò infatti convincere dal vescovo di Pavia a costruire la cupola del Duomo nonostante non fosse stata eretta per secoli per il timore che i pilastri dell’ottagono centrale non fossero in grado di reggerla. Nel 1885, appena costruita, si spaccò e venne quindi ingabbiata con tre fasce di ferro, una delle quali si ruppe subito, e poiché dall’alto cadevano schegge di marmo sui fedeli, la cattedrale restò chiusa per sette anni. Rimasta comunque in piedi aveva, e ha tuttora, 53


Planimetria originale del Recinto Maciachini

pesanti carenze strutturali ed è la cintura di contenimento a tenerla insieme, e non, come si conviene a una cupola degna di tale nome, una corretta ripartizione delle spinte. Povero Carlo, che brutti momenti deve aver passato! E ora veniamo alle ragioni che assicurarono al Maciachini la vittoria. Il tema centrale del secondo bando era stato enunciato da Camillo Boito, architetto eclettico, fondatore della Scuola moderna di Restauro e scrittore scapigliato, con queste parole: «Collegare, rispettando le esigenze della convenevolezza e dei riti, e insieme guardando a quelle dell’arte e della prospettiva, la parte architettonica del cimitero con la parte a giardino». Pane per i denti di Maciachini, che interpretò a meraviglia questo ideale «inventando» qualcosa di totalmente nuovo, una sintesi dei cimiteri anglosassoni immersi nel verde e di quelli in forma di «piccola città», dove è sovrana la pietra. Il suo progetto era risultato il migliore anche per la struttura semplice e geometrica e forse soprattutto per il rapporto qualità-prezzo. Inoltre era stato pensato per poter essere costruito a più riprese, a seconda delle risorse economiche del momento, con la possibilità di aggiungere padiglioni e nuovi reparti senza rivedere l’impianto generale e quindi con spese contenute. I lavori infatti durarono ventiquattro anni. Un’opera aperta come diremmo oggi. Questa possibilità di ampliare, aggiungere, aggregare, erigere in tempi successivi risiede nel modo in cui Maciachini saldò fra loro gli elementi architettonici. Il fulcro della composizione è l’edificio principale, il Famedio, da cui si dipartono ali laterali speculari di portici, logge e gallerie, interrotte nei punti di intersezione o di testa dalle «edicole», veri e propri snodi che consentono ai corpi di fabbrica di ruotare ad angolo retto e che con i loro pinnacoli spiccano ritmicamente nell’aspetto altimetrico del cimitero. Le edicole riprendono la cupola del Famedio, a sua

volta riconducibile ai battisteri lombardi di epoca romanico-gotica. Il Municipio di Milano poté così dormire sonni tranquilli, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, quando furono realizzati cospicui ampliamenti. In un’illustrazione originale dell’epoca si può vedere il disegno di quello che prese il nome di «Recinto Maciachini». Una «piccola città», bella, simmetrica e armoniosa. L’intero complesso era stato disegnato secondo criteri urbanistici, come già raccomandato nel solito Editto di Saint Cloud, inserendo le diverse costruzioni in un giardino all’italiana movimentato da promenades alberate, viali e vialetti, piccole piazze, aiuole, giardinetti, siepi divisorie e sopraelevazioni, fontanelle in un alternarsi di elementi e di materiali che sintetizzavano tutte le epoche passate in modo diverso e originale. In questo modo l’architetto ovviò anche alla monotonia del terreno, completamente in pianura. Un parco, praticamente, dove fosse possibile andare abitualmente anche solo per passeggiare o per 54


Prospetto del Cimitero degli Acattolici

sedersi tranquilli su una delle sobrie panchine di pietra. Per questo motivo il fronte era costituito da una leggiadra cancellata e non da un muro, come ci si aspetterebbe. Maciachini era convinto infatti che i defunti non dovessero essere visitati solo una volta all’anno, il 2 novembre, o nei dolenti anniversari, ma che si dovesse prendere l’abitudine di frequentare il cimitero come qualsiasi altro giardino della città. Nel suo impianto originario, da bravo laico qual era, aveva inserito pochi simboli religiosi e aveva previsto fin da subito due piccoli cimiteri con ingressi privati, uno per gli acattolici e uno per gli israeliti, e un Tempio per la cremazione, pratica allora condannata dalla Chiesa, che sarebbe stato inaugurato nel gennaio 1876. Nei primi decenni, esattamente fino al 1895, quel regno silenzioso era destinato a tutti i milanesi, che potevano avere in concessione un lotto in base a un «listino prezzi» pubblico, che variava in base a diversi parametri come la durata, decennale o superiore.

Ma fu ben presto chiaro che il Monumentale non bastava a soddisfare le esigenze di una città in espansione demografica e territoriale né le richieste, che si facevano sempre più frequenti, di sepolture prestigiose, e venne così aperto un altro cimitero che fu chiamato Cimitero Maggiore. Ma questa è un’altra storia.

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Nicostrato Castellini

1867

contrato nelle Gallerie di Ponente, nacque a Viggiù, patria di molti scalpellini divenuti artisti. Il padre, scultore, era direttore della Fabbrica del Duomo. Luigi frequentò i corsi di Pompeo Marchesi e di Innocenzo Fraccaroli all’Accademia di Brera e nel 1849 con il bassorilievo Gesù deposto nel sepolcro vinse un premio che gli permise di trasferirsi a Roma, dove restò tre anni. Al suo ritorno, dal 1857 al 1877, lavorò per la cattedrale milanese realizzando le statue di Santa Monica, San Dionigi vescovo e San Nabore. Per l’Arco della Pace scolpì il bassorilievo Apollo. Per la sua scrupolosa e quasi maniacale cura dei dettagli fu soprannominato «il Preciso». Morì nel 1909. All’esecuzione del sepolcro collaborò l’ingegnere Antonio Sfrondini e la veridicità delle carabine di bronzo che reggono una catena induce a pensare che siano state realizzate partendo da un calco su armi autentiche. L’opera, che versava in grave stato di degrado, è stata sottoposta alle amorevoli cure dello Studio Formica e ora brilla di nuova vita. L’Associazione Amici del Monumentale, in occasione del centocinquantesimo dell’inaugurazione del cimitero (2 novembre 2016), ha raccolto i fondi necessari tramite un’asta di opere donate da autori contemporanei e da eredi di artisti collegati al cimitero – come Pellini, Castiglioni, Lodi, Vaccaro, Piter – e con una raccolta pubblica di fondi, continuando la bella tradizione milanese che ha sempre permesso di realizzare o restaurare opere d’arte. Nicostrato è menzionato in una canzonetta risorgimentale contro la guerra, di autore anonimo: Il povero Luisin.

All’inizio non c’erano quindi solo celebrità, magnati, ricchi borghesi e fondatori di imperi, ma quando le concessioni divennero «a perpetuità» e la loro manutenzione, affidata alle famiglie, molto costosa, tutti coloro che erano stati artigiani, falegnami, tipografi, fornai o agricoltori e che avevano potuto in precedenza trovare lì la loro ultima dimora in base a un equo tariffario ne furono da allora in poi esclusi, a meno di essersi arricchiti nel frattempo. E le tombe più semplici, di durata decennale, vennero demolite per fare posto a monumenti ed edicole di famiglia pagate a peso d’oro. Ma quale fu il primo monumento a essere inserito nel «Recinto Maciachini», come allora veniva chiamato il cimitero? E quando? Il primo in assoluto fu Il custode della tomba, un semplice sarcofago sorretto da piedi di leone, sul quale un angelo avvolto in soavi panneggi classici regge una corona funebre, che venne posizionato al Riparto X, n. 252, nel gennaio 1867. È la tomba di Nicostrato Castellini, eroe garibaldino nato a Rezzato il 17 ottobre 1829. Nel 1848 partecipò alle Dieci Giornate di Brescia, l’anno successivo lo troviamo a difendere Venezia e nel 1860 nel Sud Italia con i Mille. Promosso maggiore, seguì Garibaldi sull’Aspromonte e allo scoppio della Terza guerra d’indipendenza si arruolò nel II Battaglione dei Bersaglieri Volontari. A Ponte Caffaro comandò l’intero schieramento delle giubbe rosse. Morì eroicamente, a trentasette anni, il 4 luglio 1866 nella battaglia di Vezza d’Oglio contro gli Austriaci, colpito al petto. L’autore, Luigi Buzzi Giberto, che abbiamo già in-

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Sepoltura del garibaldino Nicostrato Castellini dopo il restauro

IL POVERO LUISIN Un dì per sta cuntrada pasava un bel fiö e un masulin de ros l’ha trà in sül me pugiö.

Un dì piuveva, vers sera, s’ciupavi del magun quand m’è rivà ’na lètera cul bord de cundiziun.

E per tri mes de fila e squasi tüti i dì, el pasegiava semper dumà per vedèm mi.

Scriveva la surela del pover Luisin che l’era mort in guera de fianc al Castelin.

Vegnü el cinquantanöv, che guera desperada! e mi per sta cuntrada l’hu pü vedù a pasà.

Hin già passà tri an, l’è mort, el vedi pü, epür stu pover cör l’è chi ancamò per lü. 57


Dopo Nicostrato

Mussolini e Starace in visita al Monumentale il 2 novembre 1936 in occasione della Ricorrenza dei Defunti

A fine Ottocento il Monumentale divenne dunque il luogo dedicato alla memoria degli eroi del Risorgimento che avevano liberato Milano dall’oppressore e, nello stesso tempo, il cimitero preferito dalla nuova borghesia postunitaria, dalla quale stava nascendo la leggendaria classe dirigente e imprenditoriale lombarda. Qui avrebbero eletto la loro ultima dimora terrena i protagonisti della nuova stagione artistica in tutti i campi, dalla musica alla poesia, all’architettura, al teatro. E i filantropi, i banchieri, gli scienziati, gli innovatori e i pionieri e tutti coloro che avrebbero scelto di servire la patria sacrificando la vita per la libertà nelle lotte e nelle guerre future. Come abbiamo visto, negli stessi anni nella città del sindaco Beretta fervevano i lavori per rendere Milano sempre più importante e internazionale, e agli architetti e agli scultori che avevano realizzato opere per il cimitero venivano affidati progetti che avrebbero contribuito a questo sviluppo. Questo perché i monumenti funerari permettevano agli artisti di mettersi in luce e di esporre i modellini in gesso o in bronzo alle esposizioni artistiche triennali dell’Accademia di Brera, senza spendere una fortuna, date le piccole dimensioni. Venivano così contattati da committenti pubblici e privati per progettare palazzi moderni, sistemare piazze abbellendole con monumenti, spesso equestri, creare o rinnovare parchi e giardini, costruire dimore di villeggiatura in campagna e sui grandi laghi, restaurare chiese e antichi edifici. Stava nascendo la Milano moderna, culla dello sviluppo e del progresso di tutto il Paese e la «grande città» saliva, fiera e ardimentosa, mentre la «piccola città» ne diventava il cuore pulsante, replicando gli edifici, i monumenti, i viali, le piazze e i giardini in scala ridotta. C’era un sacco da fare! I milanesi stavano diventando ricchi e potenti ed erano in procinto di partire alla scoperta, quando non alla conquista, del mondo.

«Una panca in Duomo, un palco alla Scala, una tomba al Monumentale.» Le famiglie borghesi della fine dell’Ottocento e dell’inizio del secolo successivo, per essere veramente grandi, dovevano avere tutti e tre questi privilegi insieme: la mancanza di uno solo rendeva inutili gli altri due. Per quella classe privilegiata la visita al Monumentale il Giorno dei Morti era un rito irrinunciabile a cui tutta la città, compreso chi ne era escluso per nascita o per censo, partecipava con curiosità più ancora che con cordoglio. Una foto storica ritrae Mussolini e Starace in visita il 2 novembre 1936. E ogni anno un’opera veniva eletta come la più bella. Nel 1890 toccò all’Isabella Casati di Enrico Butti, nel 1901 a Erminia Cairati Vogt di Leonardo Bistolfi. I giornali riportavano i nomi dei personaggi scomparsi e descrivevano le loro ultime dimore. Nel secondo dopoguerra Dino Buzzati ne fu il cantore. Ogni anno tombe e cappelle appena costruite raccontavano chi fosse passato a miglior vita e se avesse avuto l’onore di entrare, magari non proprio di sua volontà, in quel «club» prestigioso ed esclusivo. 58


Nulla osta della Commissione artistica dell’Accademia di Belle Arti di Brera

stati fondamentali nella realizzazione di opere d’arte non solo cimiteriali. Spesso rimasero anonimi ma lasciarono una traccia importante e contribuirono al successo della proposta visionaria del Maciachini e di quel nuovo stile, da allora chiamato «eclettico». Ibrido, sì, ma rigoroso e coerente. Come scrisse Luca Beltrami, si trattava di una nuova sensibilità che dava origine a una «architettura libera dagli impacci della riproduzione servile di una sola epoca». Gli edifici del Monumentale furono infatti disegnati in forme romanico-gotico-lombarde, non senza innesti di elementi bizantini e rimandi al camposanto medievale di Pisa e, in sovrappiù, con simboli e allegorie – figure zoomorfe, mostri, grifoni, nodi, stelle a cinque punte – che ricordavano i Magistri Comacini, eredi dei costruttori del Tempio di Re Salomone a Gerusalemme e iniziatori della massoneria di mestiere, guarda caso. Il legame con la tradizione era potente, pur nella novità e nonostante il sovrapporsi di elementi diversi e lontani tra loro, in quanto il risultato era armonico, omogeneo, equilibrato, insolito, elegante e… adattissimo alla nascente classe borghese che andava in cerca di qualcosa di mai visto prima. Non un’accozzaglia di stili superati, ma qualcosa di nuovo che sarebbe stato esportato negli edifici civili e che avrebbe anticipato il simbolismo, il liberty e il déco. Rosoni romanici, guglie e pinnacoli, trafori simili a pizzi, bifore, colonnette tortili e nuove invenzioni come i graffiti, i mosaici, i ferri battuti. Un capolavoro! E va detto che la grande corte d’onore antistante all’edificio principale, che svetta in cima a una scala alta 5 metri, fu un vero colpo di genio. Va infine ricordato che il passaggio dalla prima alla terza dimensione, dal sottile segno di grafite ai potenti volumi del marmo e della pietra, fu rapidissimo. Neanche tre anni. Per essere esatti 1.045 giorni, in quanto il 1864 fu bisestile.

Una commissione apposita dell’Accademia di Brera, tuttora attiva, esaminava i progetti di cappelle e monumenti, anche se non furono mai dichiarati esplicitamente i criteri e i parametri con i quali venivano approvati o bocciati. Le autorizzazioni erano firmate dai maggiori artisti e architetti dell’epoca che insegnavano a Brera o ne erano funzionari. E non basta, perché mentre i grandi si affermavano e creavano nuovi stili, nel 1879 nasceva la II Sezione dell’Accademia che avrebbe poi preso il nome di Scuola degli Artefici, riservata ai corsi per gli artigiani, gli scalpellini, gli incisori, gli apprendisti e gli operai che volevano cimentarsi o perfezionarsi nelle arti applicate alla decorazione e alla nascente industria lombarda. Le lezioni avevano la durata di un anno scolastico, più o meno, ed erano al mattino molto presto o alla sera, per permettere agli studenti-lavoratori di frequentarle. Purtroppo le notizie sulla scuola e sui nomi dei docenti sono ancora scarse, ma dai registri scopriamo, per esempio, che nell’anno scolastico 1880-1881 il dodicenne Adolfo Wildt risultava iscritto al corso di Ornato. Questi artigiani sarebbero 59


Disegno del Recinto Maciachini con treno a vapore in lontananza

E quindi, a 2.500 metri dal Duomo, in fondo a un viale lungo 350 metri, fuori Porta Volta, tra l’antica strada Varesina e la Comasina, prese vita il «Recinto Maciachini»: 180.000 metri quadri, destinati a diventare tra gli anni Trenta e Ottanta del Novecento 260.000. In aperta campagna.

Venne predisposto un vasto piazzale con romantici lampioni in ferro battuto, ancora esistenti, e un’esile cancellata in ferro per non isolare dalla città il nuovo camposanto, ma sottolinearne invece l’aspetto di parco cittadino aperto a tutti e non solo ai dolenti. Passavano in lontananza treni a vapore.

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IL MUSEO A CIELO APERTO

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Arte e architettura

Disegno di Aldo Falchi per l’Edicola Besenzanica Lo scultore Enrico Butti accanto all’Edicola Isabella Airoldi Casati in una copertina dell’Illustrazione Italiana del novembre 1890

Fin dall’inaugurazione – in realtà a partire dal 1867 dopo l’inserimento del sepolcro di Nicostrato Castellini – furono inseriti monumenti di importanti artisti nelle Gallerie, in tutto il Recinto Maciachini, nei cimiteri riservati gli israeliti e agli acattolici e, quando furono aperte, nelle zone aggiunte negli anni Venti e Ottanta del XX secolo. In contemporanea, tranne che nelle Gallerie e sui Rialzati, iniziò la costruzione di edicole e cappelle, progettate dai maggiori architetti e ingegneri perlopiù meneghini e lombardi, con poche eccezioni. L’immensa varietà di soggetti, di ispirazioni e di stili rende obbligatoria una breve escursione nella storia dell’arte e dell’architettura del cimitero, parallela a quella milanese e italiana. ARTISTI, PERLOPIÙ SCULTORI Nella seconda metà dell’Ottocento dominava la scena il realismo tardoromantico, anche nelle versioni chiamate verismo e verismo sociale, che raggiunse – con Vincenzo Vela, Antonio Tantardini, Francesco Barzaghi, Odoardo Tabacchi, Giovanni Strazza e altri – elevate vette artistiche, legate all’intento celebrativo e non solo raffigurativo. Erano tutti allievi dell’Accademia di Brera, molti di loro ne diventarono docenti, e tutti realizzarono superbe opere funebri per il Monumentale e lo popolarono di dame, di gentiluomini e di bambini. La fulminante stagione che seguì, o meglio si affiancò, al realismo ormai in estinzione a partire dagli anni Sessanta fu quella rivoluzionaria della scapigliatura, che ebbe come suoi esponenti più rilevanti in scultura Giuseppe Grandi e Medardo Rosso e i loro allievi, e «seguaci» come Ernesto Bazzaro, Enrico Butti e Paolo Troubetzkoy, che introdussero al Monumentale un nuovo modo di rappresentare e commemorare i morti, vibrante e inquieto, e che cercarono di rendere nella scultura il movimento e le variazioni della luce, con un modellato rapido e incompiuto.

Furono influenzati da Rodin, in particolar modo Bazzaro che ne riprese gli stilemi principali, eliminando i dettagli e le decorazioni, accentuando i chiaroscuri, alternando superfici lisce e scabre e con il ritorno alla centralità della figura umana, a cui talvolta assegnò pose esasperate e contorte come nell’Edicola Pasquale Crespi o, in città, nel Monumento a Felice Cavallotti in via Senato. Nell’Edicola Isabella Airoldi Casati, nell’Edicola Besenzanica e nel Monumento Alberto Weill-Schott Enrico Butti contagiò il suo realismo scapigliato con una forte vena simbolista. Troubetzkoy – di cui nel 2016 ricorreva il centocinquantenario della nascita – fu un grande nella picco62


Enrico Butti, Edicola Isabella Airoldi Casati

Leonardo Bistolfi, Monumento Erminia Cairati Vogt

la dimensione dei suoi bronzetti e nei suoi ritratti e busti, tra cui quello del giornalista Felice Cameroni detto «il Pessimista» nella Galleria Superiore di Ponente, o quello di Dario Papa – critico musicale – ai Giardini Cinerari di Levante. Sul crinale tra questa breve epoca e quella successiva del liberty, che esplose subito dopo trasformando la realtà in sogno e trasfigurazione – anche per la nascita della psicanalisi e la scoperta dell’inconscio –, la studiosa Rossana Bossaglia pone proprio l’Isabella Casati morente di Enrico Butti. Autori come Leonardo Bistolfi, Alfredo Sassi, Michele Vedani, Eugenio Pellini, Luigi Panzeri, Francesco Penna sono tra gli scultori più rappresentativi

al Monumentale di questo movimento che ebbe diffusione europea. E ognuno di loro ha lasciato una traccia profonda nell’arte non solo funeraria e non solo milanese. Leonardo Bistolfi, definito il «poeta della morte», allievo di Tabacchi e Grandi, fece scuola con il suo simbolismo elegante e decadente, che diede origine a un modello di donna bistolfiana dal volto sognante, avvolta in drappi leggiadri, il lungo collo flessuoso, polsi e dita sottili, lunga chioma fluente. Il monumento Il sogno, per Erminia Cairati Vogt avvolta nelle onde di un abito che si trasforma in una nuvola, ne è uno splendido esempio. Volutamente ambiguo il bellissimo volto, che non si sa se 63


Adolfo Wildt, particolare dell’Edicola Körner

sia di una bella defunta o di un bella addormentata. Nel Monumento Pozzani, Armando Violi riprende nelle chine figure che trasportano il sarcofago un altro tema saliente di Bistolfi, l’anatomia potente in evidenza e ben differenziata tra maschile e femminile. Negli anni Venti le linee curve e il naturalismo a volte esasperato, che erano le principali caratteristiche del liberty, lasciarono il passo a un nuovo modello espressivo che prese il nome di art déco, con il suo «linearismo secco, il purismo prezioso, la riduzione dell’immagine ad arabesco».

È ancora Rossana Bossaglia che scrive e dilata questa definizione fino a includervi Adolfo Wildt che, fino alla sua morte nel 1931, fu un protagonista tra i più importanti e originali del Monumentale – e dell’arte italiana in assoluto – con opere ieratiche ed espressioniste come il gruppo La casa del sonno e l’Edicola Körner ma che, in realtà, sfugge a qualsiasi recinto stilistico. Nei decenni successivi tornò il filone realistico filtrato da una nuova plasticità classicista ben rappresentata dagli aderenti al movimento Novecento, fondato 64


Adolfo Wildt, gesso dell’Edicola Körner

Enrico Girbafranti, gesso del Monumento Magatti

da Margherita Sarfatti, tra cui ricordiamo Carlo Bonomi, Arturo Martini, Leone Lodi, Arrigo Minerbi. Enrico Pancera, allievo di Butti, ne lasciò numerose testimonianze al Monumentale e, soprattutto, nel Monumento ai Caduti in piazza Trento e Trieste a Monza (1932), per la fusione del quale i monzesi si privarono delle pentole di rame e dei loro risparmi! Anche Enrico Girbafranti, cremasco, fu uno degli allievi di Butti all’Accademia di Brera ed ebbe molte commesse per il Monumentale e per il Cimitero Maggiore.

Un autore che riuscì a passare dalla tradizione simbolista e liberty al purismo novecentista – pur senza farsi contaminare dalla sua corrente più innovativa – e al naturalismo postbellico fu Giannino Castiglioni, che si barcamenò tra le più svariate ispirazioni, forse per far contenti i suoi importanti committenti ma condannandosi, in questo modo, all’indifferenza della critica ufficiale che non gli riconobbe un’impronta originale sufficiente a farlo includere tra i grandi. Una recente monografia gli ha reso finalmente giustizia. Era uso annotare in taccuini tutto quello che 65


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Ritratto di Giannino Castiglioni Giannino Castiglioni, bozzetto per il Monumento Pasini Giannino Castiglioni, Pleurants, Edicola Sommaruga Faini, particolare Il taccuino di Giannino Castiglioni Riccardo Piter nel suo studio Giuseppe Enrini, bozzetto per il Monumento Bonfiglio

accadeva quasi ora per ora, riferendo persino le condizioni meteorologiche. Nel secondo dopoguerra molti artisti moderni e contemporanei diedero il loro contributo alla bellezza e alla grandiosità del Monumentale. Tra questi Lucio Fontana, Fausto Melotti ed Eros Pellini, allievi di Wildt, Francesco Messina, Giacomo Manzù, i fratelli Arnaldo e Giò Pomodoro, Piero Cascella, Alik Cavaliere. E ancora Lucio del Pezzo, Domenico Cantatore, Michele Cascella. Alcuni di loro realizzarono opere animate dall’intento di rappresentare la caducità della vita e il mistero della morte con un’iconografia non figurativa. Altri artisti moderni considerati minori, ma importanti anche come numero di monumenti, sono Giuseppe Enrini, Otello Montaguti e Riccardo Piter, autori di opere spesso notevoli. Tra le poche donne scultrici Lina Arpesani, autrice dei monumenti Del Bino e Radius Zuccari; Thea Casalbore Rasini, che ha realizzato la tomba della propria famiglia; Eva Olah Arré e Lea D’Avanzo, artefici rispettivamente della Tomba Formiga e della stele a bassorilievo di Jole Veneziani. Come «quota rosa» è modesta, ma così è! 67


Otello Montaguti, Monumento Gianotti, particolare

FOTOCERAMICA

Sono sparse in tutti i reparti, non c’è che da girare senza meta per incontrarle. Fu con il brevetto n. 20.230 del 15 luglio 1854 che Pierre-Michel Lafon de Camarsac e Joly de Saint François, entrambi pittori parigini, depositarono il loro procedimento di fixation et coloration des épreuves photographiques par le procédés céramiques, il primo procedimento per la realizzazione di immagini fotografiche su ceramica con l’utilizzo di lastre al collodio, all’albumina o alla gelatina virate con composti vetrificabili in sostituzione dei sali d’argen-

Un capitolo artistico magari minore ma di grande interesse è quello dell’immagine fotografica su ceramica, molto diffusa a cavallo tra Otto e Novecento su lapidi di tombe tutto sommato semplici e prive di decorazioni importanti. Sono ritratti di tutti i tipi, deliziosi lattanti, teneri bambini, anziani dagli occhi saggi, fanciulle delicate, giovani uomini di tutte le età con il vestito della festa, e signore eleganti e altere. 68


Esempi dell’utilizzo della fotoceramica per la ritrattistica

ca funeraria, proprio per la sua caratteristica di essere inalterabile, se di alta qualità, dagli agenti atmosferici. Per renderla ancora più realistica, la raffigurazione del defunto veniva spesso ritoccata e acquarellata, a volte da abili artisti, ma con costi elevati. In Italia questa tecnica fece la sua apparizione intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento e diversi laboratori, come quello di Temistocle De Bernardi e quello di Carlo Crivelli, socio del Circolo Fotografico Lombardo, si specializzarono in questa forma artistica. Nel 1892 nella collana dei «Manuali» di Ulrico Hoepli compare un Dizionario fotografico con un capitolo per realizzare la fotoceramica fai da te. Al Monumentale c’è un ampio catalogo di ritratti ottenuti con questa tecnica a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, la maggior parte prodotti da Leonida Pagliano, fratello di Eleuterio, o dalla ditta Pagliano & Ricordi.

to per creare un’immagine brillante da trasferire su ceramica cotta più volte nel forno «a muffola», dopo aver steso vari strati di vernice trasparente. Sempre in Francia, nel 1858, con il n. 37.337, il medico Alphonse Salmon e il litografo Henri Garnier, brevettarono un altro metodo all’albumina bicromatata e, nel tempo, ci fu un continuo miglioramento dei processi. Dapprima la fotoceramica venne utilizzata per vasi, piatti, coppe, tazze, spille di porcellana; ma il suo uso principale divenne ben presto quello della ritrattisti-

E I PITTORI? Ovviamente i dipinti non sono esposti a cielo aperto ed è per questo che non sono conosciuti né resi noti nei libri e nelle guide, dal momento che si trovano nelle edicole, purtroppo non sempre al sicuro. Infatti nell’Edicola Frova, di Luigi Beltrami, una 69


Giannino Castiglioni, mosaico, Catacomba Achille Peja Mosè Bianchi, Deposizione, Edicola Frova nel 1966 Mosè Bianchi, Deposizione, Edicola Frova nel 2015

Deposizione di Mosè Bianchi sta facendo una doccia perpetua sotto le infiltrazioni di acqua e umido della cupola (nelle immagini è possibile notare il degrado avvenuto negli ultimi decenni). L’edicola è stata lasciata per testamento da un membro della famiglia concessionaria – commercianti di legno per traversine ferroviarie – all’Istituto Oftalmico. Altrettanto abbandonato è il Cristo risorto di Luigi Cavenaghi nell’Edicola Alberto Keller. Stanno meglio Il Giudizio Universale di Eleuterio Pagliano (1889), al riparo nell’Edicola Genolini, e un’Ascensione di santa Caterina della scuola bolognese di Francesco Albani (1578-1660), nell’Edicola Ghilardi. È stato fortunato anche il mosaico di Giannino Castiglioni nella Catacomba Peja, restaurato con grande cura e con la tutela delle Belle Arti. GLI ARCHITETTI DELLE DUE CITTÀ Le edicole, migliaia, sono costruite in tutte le forme, gli stili e le dimensioni. Alcune sono vere e proprie chiese in scala ridotta, neogotiche, neoromaniche, bramantesche, neobizantine e assiro-meneghine. Altre sono costruite a imitazione di piccole piramidi, di templi greci, romani od orientali, di cappelle 70


Eleuterio Pagliano, La risurrezione finale, Edicola Genolini

Scuola dell’Albani, Trionfo di Santa Caterina, Edicola Ghilardi

gentilizie, di mausolei, di thòlos micenei, di ziggurrat o si ispirano agli antichi mausolei di Galla Placidia e di Saint Rémy. E offrono esempi di tutte le tendenze architettoniche che si sono susseguite dall’apertura del Monumentale a oggi. Alcune non sono riconducibili a nessuno stile particolare, poiché frutto della creatività, della fantasia e dell’ingegno dei loro autori e della contaminazione di differenti ispirazioni. La commissione che doveva dare la sua approvazione ai progetti non fissò mai criteri estetici ma solo tecnici e così ognuno era libero di dare sfogo ai suoi sogni e, qualche volta, ai suoi incubi.

Anche oggi è così e nel Riparto XX sono sorte edicole prive di stile, di armonia, di coerenza con il contesto. L’architettura della «piccola città» rispecchiò sin dall’inizio quella della sorella maggiore, che si stava evolvendo artisticamente, socialmente e culturalmente. La borghesia, in rapida crescita di ricchezza, importanza e potere sviluppò una pressante domanda di architetture funerarie che ne celebrassero l’ascesa e trovò tutto quello che cercava. Luca Beltrami, dal 1891 direttore dell’Ufficio per la Conservazione dei monumenti lombardi e teorico del restauro filologico, realizzò a fine Ottocento le 71


Sotto: copertine dei fascicoli I e IV della pubblicazione Monumenti Funebri, edito da Antonio Vallardi Editore A destra: Monumenti funebri, fascicolo I: tavola I, Edicola Hayez, architetto Carlo Maciachini, scultore Francesco Barzaghi; tavola XXV, Edicola Brambilla, architetto Carlo Maciachini, scultore Pietro Magni; Monumenti funebri, fascicolo IV: tavola XXIV, Edicola Sutti Farinoni, architetto Borsani

tradizionaliste edicole Frova, Cottini e Gritti, per nulla contaminate dal vento del modernismo in arrivo. Negli anni Venti a queste si aggiungerà la piccola e sobria cappella romanica per la famiglia Pirelli. La Frova che apre la sfilata di cappelle del Viale Centrale, a imitazione dell’Appia Antica con le sue antiche sepolture romane, è simmetrica per forma e dimensioni all’Edicola Gabba dell’architetto Cesa Bianchi, che le sta di fronte. Alta 14 metri, slanciata, elegante, ha un alto tamburo ottagonale su cui poggia la cupola. Riprende, nell’alternarsi di fasce di marmo di diverso colore, le proporzioni e gli stilemi 72 72


Monumenti funebri, fascicolo IV: tavola VIII, Edicola Ferrario, architetto G.B. Torretta; tavola XI, Edicola Salvi, ingegner Giuseppe Vanini; tavola XXV, Edicola Pisa, architetto Carlo Maciachini

Monumenti funebri, fascicolo IV: tavola XII, Edicola Occa, architetto Camillo Boito, scultore Antonio Soldini

del classicismo lombardo, con l’aggiunta di elementi decorativi in mosaico. Maciachini, nell’arco del ventennio tra il 1869 e il 1888, produsse una lunga serie di piccole costruzioni passando dall’eclettismo al neorinascimentale, dal neogotico, soprattutto di ispirazione nordica, al neobizantino e all’egizio. Le sue edicole Mongeri, Sonzogno, Keller, Decio, Turati, Brambilla, Calegari, Dall’Acqua, Rosazza, tutte nel Recinto che porta il suo nome, le edicole Pisa e Leonino al Cimitero degli Israeliti e la Keller agli Acattolici costituiscono un campionario straordinario di tutte queste ispirazioni. Da allora tutti gli architetti di rilievo si avvicendarono tra i viali alberati. Guido Sartirana e Cecilio Arpesani scelsero per le edicole Michel, Ceruti e Marelli il modello della chiesa romanica; mentre Emilio Alemagna (Edicola Esengrini) e Luigi Broggi (Edicola Bazzero) preferirono quello delle piccole cappelle gotico-lombarde in mattoni, con rosoni, colonnine tortili, pinnacoli. Camillo Boito realizzò solo l’Edicola Occa, dove si sforzò di semplificare e modernizzare lo stile gotico. Il suo miglior allievo, Giuseppe Locati, fu il progettista di importanti edifici per l’Esposizione del Sempione, tra cui il sopravvissuto Acquario, e al 73


Giuseppe Boni e Orazio Grossoni, Edicola Bocconi

Ulisse Stacchini, Edicola Pinardi

Monumentale firma l’Edicola Villa dove comincia a fare capolino, nel mosaico con i papaveri dai colori brillanti e nelle decorazioni lapidee, il nuovo stile liberty che si stava affermando e che darà origine a casette simili a quelle di città con l’architettura strettamente integrata con la decorazione, i ferri battuti e, a volte, con sculture vere e proprie come nella klimtiana Edicola Orsi Raschi di Ariodante Bazzaro. A volte vengono messe in scena rappresentazioni quasi teatrali come nell’Edicola Melzi D’Eril Branca (ingegnere Cesare Nava, scultore Urbano Nono), dove un Cristo risorge sulle macerie di un tempio,

oppure nella Risurrezione di Lazzaro di Ernesto Bazzaro per l’Edicola Squadrelli, vero e proprio palcoscenico dove si dipana una scena biblica con personaggi in costumi orientali. Oppure vengono allestite scene allegoriche altamente evocative come la serie di figure, ancora di Bazzaro, intorno all’Edicola Pasquale Crespi (architetto Giacinto Zari, ingegnere Carlo Monzini). Quando, nel 1908, l’artista presentò il bozzetto, ne ottenne l’approvazione solo a patto che la nudità della figura maschile e del putto ridente fossero meno sfacciate. Così si adattò a coprirle in parte e poté realizzare lo splendido gruppo simbolista in marmo 74


Enrico Panzeri e Francesco Confalonieri, Edicola Alexandri

Gio Ponti e Libero Andreotti, Edicola Borletti

di Carrara che, su una base di granito grezzo, offre allo sguardo una vera e propria riflessione filosofica. Le figure allegoriche infatti rappresentano il ciclo della vita narrando L’eredità d’affetti che i defunti lasciano ai vivi, il Mistero della morte, l’Inesorabilità e il Rinnovellamento. Giuseppe Sommaruga, scomparso giovane, lascia al cimitero la propria tomba, quella per i suoi genitori e l’Edicola Moretti. In tutte il suo stile asciutto, a incastro di volumi e di piani, è pienamente espresso, anche se la Moretti è ricca di elementi plastici simbolici: teschi, civette, melograni, capsule di papavero, crisantemi.

Assolutamente liberty in tutto e per tutto sono le confinanti edicole Verga, di Ernesto Pirovano (sepolto al Riparto XI), e Passoni, di Francesco Carminati ed Emilio Gussalli, entrambe del 1906-1907, tozze, a tronco di piramide, con rimandi secessionisti. Splendido, come sempre, il cancello di Alessandro Mazzucotelli per la prima. Il geniale inventore dello stile assiro-meneghino per la Stazione Centrale, Ulisse Stacchini, esibisce il suo talento nelle edicole Beaux e Pinardi, progettate nei primissimi anni del Novecento con spiccato gusto modernista che occhieggia alla secessione viennese. Architetto di grande rilievo è Giuseppe Boni, inter75


Piero Portaluppi, Edicola Girola

prete di altissimo livello anche lui dello stile liberty. L’Edicola Origgi, con il suo cancello di ferro che mette in scena una preghiera nell’Orto dei Getsemani, ne è un esempio fulgido. Boni, con lo scultore Orazio Grossoni autore liberty con richiami neoberniniani, è l’autore dell’Edicola Bocconi che con i suoi 20 metri ha raggiunto il record assoluto in altezza tra le costruzioni del cimitero. Negli anni Venti progettò l’Edicola Passardi, nella quale la sua curvilinea vena modernista lascia il passo a volumi compatti e massicci. Negli stessi anni molti architetti si spostano su posizioni art déco e brilla l’astro di Giulio Ulisse Arata, che si ispira al mausoleo di Teodorico nella sepoltura Körner con il gruppo in bronzo Et ultra di Adolfo 76


Giannino Castiglioni, Edicola Antonio Bernocchi, particolare

Wildt come portale. È il progettista anche dell’Edicola Giuseppe Chierichetti, unica nel suo genere, di nuovo in collaborazione con Adolfo Wildt. Si tratta di un’opera rimasta incompiuta: mancano infatti le teste di bronzo che avrebbero dovuto essere collocate in alto sulle croci intorno a quella centrale, in onice e ferro battuto dorato, della moglie del defunto e che non furono realizzate per mancanza di fondi. In realtà, così come è, l’opera ha un suo scarno rigore geometrico del tutto autosufficiente, che ha spinto i critici a inserirla, in modo un po’ forzoso, nel filone razionalista. Le pareti della Cripta sono completamente incise con graffiti monocromi color rosso pompeiano, su dise-

gno di Wildt. Lungo la scala due anime scarnificate ascendono al cielo. Anche Piero Portaluppi, Gio Ponti, Giovanni Greppi ed Enrico Griffini approdano a nuove forme che saranno tipiche degli anni Trenta, con l’utilizzo di elementi geometrici abbinati a elementi classici, come archi a tutto sesto, colonne e timpani. Ne sono un esempio l’Edicola Collini di Giovanni Greppi, l’Edicola Porcile di Griffini e l’Edicola Caminada di Portaluppi, che abbandonerà qualche anno dopo questi stilemi nell’Edicola Girola dove si sentono netti gli echi piacentiniani. Gio Ponti nell’Edicola Borletti fa sfoggio di una grande semplicità creando un parallelepipedo mosso solo 77


dalle variazioni del colore del marmo di Vallestrona, arricchito da due angeli a bassorilievo di Libero Andreotti e da acroteri in bronzo che corrono sulla sommità. Nell’Edicola Foglia Werther Sevèr di Schindenfeld utilizza l’arco curvo in modo enfatico con esiti spettacolari. Nel Cimitero Ebraico le edicole Jarach, di Manfredo D’Urbino, e Goldfinger, di Luigi Perrone, rientrano a pieno titolo nelle architetture di quel periodo. L’Edicola Bernocchi costituisce un caso particolare. Posta in posizione isolata – esemplare scelta di carattere urbanistico – nel cuore della Necropoli, si configura come un’attrazione visiva di notevole impatto non solo per le dimensioni (12 metri di altezza), ma per l’andamento a torre elicoidale che si staglia letteralmente «contro» il cielo e lo stile classicista di stampo littorio, enfatizzato dalle grandi scritte in latino. Il candore del marmo di Musso esalta le forme delle cento figure a tutto tondo che mettono in scena le stazioni della Via Crucis, commentata da personaggi in abiti romani dell’epoca, tra cui Ponzio Pilato in poltrona, soldati anche a cavallo, famiglie, bambini e cani. Nel secondo dopoguerra compare, anche se non in modo massiccio, il fenomeno razionalista, la cui opera più rappresentativa sarà il Monumento ai Caduti nei campi di sterminio nazisti. Ma non sarà meno significativa l’Edicola Manusardi di Luigi Figini e Gino Pollini, con angelo lapideo a

guardia della tomba, opera di Fausto Melotti. L’Edicola Achille, più tarda di dieci anni, vedrà ancora all’opera il trio con un altro bell’angelo di rame dorato, questa volta neogotico, a custodia del sacello. Si arriva così agli anni Cinquanta. L’Edicola Dompé, di Giorgio Clerici di Cavenago e Stefano Lo Bianco, li interpreta alla perfezione con il suo aspetto di tensostruttura a vela ispirata ai lavori di Pier Luigi Nervi. Angeli musicanti di Nando Conti in bronzo corrono lungo il perimetro esterno. All’interno un prezioso sarcofago romano del III secolo d.C. Luigi Caccia Dominioni nell’Edicola Penagini fa ampio uso di elementi convessi, ellittici e curvilinei, con un effetto di sinuosa morbidezza. L’Edicola Centemeri di Mario Baciocchi (scultori Arnaldo e Giò Pomodoro), perfetta sintesi di scultura e architettura, è del 1973. Le edicole Giampieri di Pietro Tolomei (1975) con bassorilievi in bronzo di Giancarlo Marchese e Galimberti Faussone di Germagnano di Vincenzo Ferrari (1984) sono le ultime realizzazioni d’autore. Enrico Panzeri fu molto attivo negli anni Settanta ed è facilmente riconoscibile per l’uso di volumi nitidi con tetti a falde spioventi e angoli acuti, di cui è un esempio l’Edicola Alexandri. Si fece anche notare nel campo del restauro felice di antiche cappelle, in particolare nell’Edicola Benedini ex Demidoff. Da allora in poi la richiesta di nuove edicole di importanti architetti si fermerà del tutto.

Prospetto interno ed esterno della facciata d’ingresso del Cimitero Monumentale Sezione del Famedio 78


Famedio e Cripta, Gallerie, Morgue e… giardino segreto

FAMEDIO Dal latino Fama Aedes, Tempio della fama, in parole povere – si fa per dire – un pantheon. Il Famedio! È detto anche «Tempio della Gloria», e la Gloria personificata in un angelo di bronzo svetta sull’arco di ingresso brandendo una corona d’alloro. L’autore è Lodovico Pogliaghi, lo stesso della porta centrale del Duomo. Delle tre lunette sulla facciata, dello stesso artista, quella centrale rappresenta la Storia con in mano il registro dei nomi dei grandi, quella di sinistra la Luce e quella di destra la Fama. La grandiosa costruzione neorinascimentale a strisce alterne di marmo botticino e di pietra Simona rossa della Valcamonica si erge maestosa in cima a una scalinata tripartita alta 5 metri e composta da 29 gradini. La corte d’onore antistante sembrava destinata all’arrivo di cocchi sontuosi, con dame e cavalieri festanti nei loro abiti di gala. Iniziarono invece ad

Carrozza nel piazzale, fotografia

arrivare lussuosi carri di legno scuro trainati da cavalli morelli addobbati a lutto, con un mesto carico coperto di fiori, seguiti da gentiluomini in redingote e tuba e gentildonne velate. Quel luogo solenne era destinato a festeggiare la morte e non la vita.

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Lodovico Pogliaghi, lunetta in mosaico, Famedio Lodovico Pogliaghi, la Gloria sulla facciata del Famedio

L’edificio era nato per il culto, ma ben presto cambiò destinazione e divenne il regno degli uomini illustri che era nei desideri, non esauditi dalla storia, di Napoleone. Infatti il 22 giugno 1809, il principe Eugenio di Beauharnais – figliastro dell’imperatore, viceré del Regno d’Italia, principe di Venezia, granduca ereditario di Francoforte, primo duca di Leuchtenberg, primo principe di Eichstätt ad personam e ancora, come se non bastasse, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia e primo sovrano gran commendatore del Supremo Consiglio d’Italia del Rito Scozzese Antico e Accettato con patente dei fratelli massoni Grasse-Tilly, Pyron, Remier e Vidal – emanò un decreto per stabilire che «la sepoltura dei cittadini segnalati alla patria nell’esercizio delle prime dignità e magistrature, nella carriera militare, nelle cariche civili, o nel coltivare le scienze e le arti» dovesse trovare luogo nella chiesa del Foppone dell’Ospedale Maggiore – l’attuale Rotonda della Besana – convertita in pantheon. Tramontato il sogno del Bonaparte, una prima commissione municipale nel 1869 ebbe l’incarico di scegliere l’eterna dimora dei grandi e venne scelto, d’accordo col Maciachini, il bellissimo palazzo che costituiva il cuore del cimitero, destinato inizialmente al culto cattolico.

L’architetto mantenne sostanzialmente inalterato l’impianto, ma cambiò radicalmente l’interno per adeguarlo al nuovo ruolo di tempio laico della memoria e sostituì la croce della cupola con un pinnacolo. La giunta municipale nominò direttore dei lavori il professor Luigi Cavenaghi e assegnò ai fratelli Stocchetti la decorazione pittorica. Ora occorreva un regolamento per stabilire chi e perché potesse ricevere imperituri onori e fu insediata una commissione, presieduta dall’assessore Pietro Molinelli e composta dai signori: assessore conte Francesco Sebregondi, ingegnere Francesco Brioschi, senatore Giuseppe Piolti de’ Bianchi, deputato Carlo Tenca, consiglieri comunali Tullio Massarani e Giovanni Visconti Venosta e conte Carlo Belgiojoso, presidente della Reale Accademia di Belle Arti. Vennero presto decise le linee-guida che prevedevano la divisione degli inserimenti per periodi storici e l’affidamento della scelta dei nomi a «istituti investiti di speciale autorità scientifica o artistica». Fu stabilita un’altra condizione importantissima: che dovessero passare dieci anni dalla morte per concedere l’onore ai contemporanei, per evitare scelte fatte sull’onda del cordoglio del momento. Passarono molti anni finché nel 1883 una commissione fu incaricata di predisporre il regolamento in dieci articoli, presentato nella seduta del 28 marzo 1884. 80


A questo secondo tavolo sedevano i signori: Stefano Labus, presidente, Giulio Carcano, Lodovico Gatta, Giuseppe Marcora, Tullo Massarani, Andrea Verga ed Emilio Belgiojoso, relatore. Ecco cosa ne uscì.

Art. VII - La proposta di decretare gli onori del Famedio può essere recata innanzi al Consiglio comunale o dalla Giunta municipale, o da uno o più Consiglieri, e dovrà sempre essere suffragata da motivazione scritta. Quando non sia ammessa la proposta di tributare a un nome le onoranze degli illustri, può essere proposta o deliberata al medesimo nome la onoranza dei benemeriti. Una proposta che non sia stata accolta dal Consiglio comunale non può essere riprodotta, se non dopo cinque anni. Art. VIII - Riguardo ai cittadini morti prima della metà di questo secolo la Giunta recherà al Consiglio proposte suffragate dal parere di Istituti investiti da speciale autorità scientifica o artistica; e agli Istituti medesimi saranno deferite per esame le proposte che fossero presentate da uno o più Consiglieri. Udito il parere di detti Istituti, seguirà la deliberazione del Consiglio a voti palesi e a maggioranza dei presenti. Art. IX - Riguardo ai cittadini morti dopo la metà di questo secolo, le proposte, sia che emanino dalla Giunta municipale, sia che vengano presentate da uno o più Consiglieri, saranno deferite all’esame di una Commissione composta di cinque altri Consiglieri da nominarsi a schede segrete, ed a maggioranza assoluta. Sulla relazione di detta Commissione seguirà poi colle stesse forme la deliberazione del Consiglio. Art. X - Le spese per le onoranze da tributarsi nel Famedio saranno sostenute dal Comune e inscritte in una speciale categoria fra le spese straordinarie.

REGOLAMENTO

Art. I - Nel Cimitero Monumentale di Milano, l’edifizio che sorge a mezzo della sua fronte, denominato il Famedio, è destinato ad accogliere le salme e ad onorare la memoria dei cittadini milanesi illustri o benemeriti, senz’altro riguardo che al merito personale. Art. II - Si considerano cittadini illustri quelli che per opere virtuose abbiano ottenuto alta e meritata fama presso l’intiera nazione. Si considerano cittadini benemeriti quelli che, onorandi per virtù proprie, abbiano arrecato alla città cospicuo beneficio e decoro. Art. III - Sono considerati cittadini milanesi, oltreché quelli i quali abbiano avuto i natali in Milano o ne sieno originarii, anche coloro che abbiano fatto lunga dimora in questa città, o che massimamente per opere in questa compiute, abbiano acquisita fama e benemerenza. Art. IV - Gli onori del Famedio possono essere tributati alla memoria di un cittadino illustre o benemerito quand’anche non vi sia collocata la sua salma, o per non essersi rinvenuta, o perché altrimenti abbia disposto la volontà del defunto o dei congiunti. Ove la salma sia da accogliere nel Famedio, essa verrà deposta nei colombari. Art. V - A compendiare per quanto è possibile nel Famedio i fasti milanesi, saranno scritti nella zona più elevata delle pareti interne i nomi dei cittadini più illustri e dei più benemeriti, che appartengono alla storia del Comune dalla sua fondazione fino alla metà del secolo XVIII; in altra zona mediana saranno ricordati con effigie in bassorilievo i cittadini più illustri, e con epigrafe i più benemeriti vissuti fra la metà del secolo XVIII e la prima metà del secolo presente. Tutto il giro delle pareti fino all’altezza di tre metri dal suolo sarà riserbato, insieme con l’area occupabile, a commemorare con busto gli illustri e con epigrafi i benemeriti morti dopo la metà di questo secolo. Art. VI - Gli onori del Famedio non possono essere decretati ad alcun cittadino se non dieci anni dopo la sua morte e per deliberazione del Consiglio del Comune, la quale, ove si tratti di cittadini morti dopo la metà di questo secolo, dovrà rendersi a schede segrete e riunire la maggioranza assoluta.

L’approvazione avvenne nella seduta del Consiglio comunale del 31 marzo 1886 da parte dei volenterosi cittadini Enrico Fano, Andrea Verga, C. Ermes Visconti, Giuseppe Ancona, Giovanni Visconti Venosta, Tullo Massarani, Lodovico Gatta, Giuseppe Marcora, Stefano Labus, Emilio Belgiojoso, che si erano costituiti – indovinate un po’ – in commissione. 1904 Nel 1904 ci fu una nuova edizione che confermava l’intervallo di dieci anni (salvo casi speciali come accadde per Carlo Cattaneo nel 1884) per ottenere gli onori del Famedio, ma ai giorni nostri questa regola non è più applicata. 81


Planimetria del Famedio con sviluppo delle pareti

Una piccola curiosità: all’epoca visitare il Famedio era gratuito solo la domenica e nelle festività, negli altri giorni era necessario farsi dare un «buono» da una lira dall’ispettore e consegnarlo al custode che avrebbe aperto il Salone, restando a vigilare. BRACCIO DI TRAMONTANA, DI LEVANTE, DI MEZZODÌ E DI PONENTE La pianta a croce greca del Famedio consentì una ripartizione degli spazi uniforme e geometrica, con tre aree ben distinte tra loro su ogni parete, riservate a tre grandi epoche. La parte superiore, racchiusa nei grandi emicicli con rosone, fu dedicata ai personaggi antichi morti tra il IV secolo e la metà del XVIII, la zona di mezzo a quelli scomparsi tra il 1751 e il 1850; ai contemporanei, morti dal 1851, venne assegnato tutto lo spazio perimetrale restante fino al pavimento. Gli spazi dedicati ai primi due periodi storici furono velocemente riempiti. Non fu così difficile decidere chi fosse illustre e chi non tanto, dal momento che a stabilirlo aveva provveduto la storia. Per la parte superiore si decise di limitarsi alla sola iscrizione dei nomi ed ecco Massimiliano Erculeo (310?), per gli amici Massimiano, imperatore dell’Impero Romano d’Occidente; sant’Ambrogio (397); sant’Agostino (430); il poeta e «grammatico» Ausonio (IV secolo); l’arciprete Dateo (VIII secolo), fondatore del primo «brefotrofio od ospedale dei bambini esposti»; Ansperto da Biassono (IX secolo), arcivescovo, cui viene erroneamente attribuita la Torre di 24 lati attigua a S. Maurizio al Monastero Maggiore in via Luini, che in realtà era quella del Circo di Massimiano; Pinamonte da Vimercate (XII secolo), che il 7 aprile 1167 sigla il Giuramento di Pontida contro il Barbarossa; Alberto da Giussano (XII secolo), leggendario eroe della battaglia di Legnano, secondo alcuni storici mai esistito; Matteo,

Azzone e Gian Galeazzo Visconti (1322, 1339, 1402), signori di Milano; Francesco e Ludovico Sforza (1466 e 1508), pure loro signori di Milano; Donato Bramante (1514), architetto di S. Maria delle Grazie di S. Satiro; Leonardo da Vinci (1519) – superfluo dire chi fosse –; Carlo e Federico Borromeo (1584 e 1631), arcivescovi; Ludovico Settala (1633), medico che si prodigò durante la peste dei Promessi sposi, citato anche dal Manzoni; Giuseppe Ripamonti (1643), cronista della peste del 1630; Paolo Gerolamo Biumi (1731), medico dell’Ospedale Maggiore e anatomopatologo, l’ultimo in ordine cronologico del primo periodo. Donne? Una sola: Lodovica Torelli, signora di Guastalla, fondatrice del monastero delle Angeliche e del Collegio della Guastalla – oggi con sede a Binasco – per le «milanesi nobili ma povere», come scrisse nel testamento. Il settore mediano presenta quattro busti di «ospiti e abitanti onorari di Milano»: Bettino Ricasoli detto «il Barone di Ferro», sindaco di Firenze e secondo primo ministro del Regno d’Italia, morto nel 1880; Camillo Benso Conte di Cavour (1861); Carlo Farini (1866), medico, storico e presidente del Consiglio del Regno d’Italia tra il 1862 e il 1863 e Giuseppe Garibaldi (1882). Il resto, oltre a semplici epigrafi, è costituito da 34 bassorilievi. Proprio al confine con il periodo precedente si parte 82


Disegno originale del medaglione nel Famedio

Fatebenefratelli. Maria Del Sesto Valcarzel, benefattrice dell’Ospedale Maggiore e terziaria francescana, scomparsa nel 1802, ha solo la sua semplice lapide personale. La realizzazione dei medaglioni fu spalmata su diversi artisti e precisamente:

con Ludovico Antonio Muratori (1750), storico ma anche presbitero, scrittore, numismatico e bibliotecario. Seguono Francesco Londonio (1783), artista prediletto dalle casate dell’aristocrazia antica, come i Borromeo, e anche della nuova nobiltà, come i Greppi, i Tanzi, i Mellerio, e scenografo della Scala sotto Maria Teresa; Ruggiero Boscovich (1787), gesuita e fondatore dell’Osservatorio astronomico di Brera; Leopoldo Pollak (1806), allievo del Piermarini e architetto di Villa Reale; Alessandro Verri (1816), fratello di Pietro e letterato; Carlo Porta (1821), sommo poeta dialettale; Vincenzo Monti (1828), poeta, scrittore, drammaturgo e traduttore dell’Iliade; Luigi Cagnola (1833), marchese e architetto dell’Arco di Trionfo; Alessandro Rolla (1841), violista eccelso che incoraggiò Giuseppe Verdi a continuare a studiare musica dopo la bocciatura al Conservatorio; Alessandro Sanquirico (1849), scenografo di Napoleone. E qui – che fortuna! – le signore degne di bassorilievo sono ben due: Maria Gaetana Agnesi (1799), illustre matematica e filantropa e Laura Ciceri Visconti (1841), finanziatrice del primo nucleo dell’Ospedale 83

Autore

Defunto

Carlo Abate

Giovan Battista Monteggia e Giovan Battista Paletta

Giosuè Argenti

Enrico Acerbi e Luigi Sacco

Emilio Bisi

Angelo Fumagalli e Giuseppe Longhi

Luigi Brivio

Francesco Melzi d’Eril e Alessandro Verri

Enrico Butti

Cesare Beccaria e Giuseppe Parini

Francesco Confalonieri

Luigi Sabatelli e Pietro Moscati

Ferruccio Crespi

Gian Domenico Romagnosi e Bernardino Moscati

Bassano Danielli

Melchiorre Gioia e Ludovico Muratori

Primo Giudici

Giuseppe Luosi e Giuseppe Prina

Salvatore Pisani

Maria Gaetana Agnesi e Barnaba Oriani

Emilio Quadrelli

Giuseppe Bossi e Carlo Ottavio Castiglioni

Luigi Secchi

Giuseppe Marocco e Giuseppe Pozzone

Giovanni Spertini

Andrea Appiani, Luigi Cagnola, Ugo Foscolo, Giorgio Giulini e Vincenzo Monti

Ettore Strauss

Pietro Verri

Lorenzo Vela

Laura Ciceri Visconti e Tolomeo Trivulzio Gallio

Luigi Vimercati

Carlo Porta e Pietro Teulié


Nel libro Guida al Famedio nel Cimitero Monumentale di Milano dell’editore e libraio Giuseppe Galli del 1888 troviamo un interessante e dettagliato resoconto che trascriviamo. «Nella disposizione dei nomi sarebbe stato più facile attenersi all’ordine strettamente cronologico, dai più antichi agli ultimi, se non che uno studio diligente condusse al concetto di riunire i nomi in armonia coi caratteri, pur rispettando in ogni gruppo la cronologia. Affinché il concetto degli aggruppamenti trovasse la sua applicazione anche nella desiderata distinzione fra ospiti e cittadini milanesi, si volle per atto di riverenza che il braccio di croce opposto all’ingresso principale del Famedio fosse assegnato agli uomini illustri che ebbero l’ospitalità milanese. Mentre pertanto si ritennero cittadini nostri quelli nati nel Ducato o che passarono la maggior parte della loro vita in Milano, benché nati altrove, si considerarono ospiti quelli che onorarono la città in qualsiasi modo, ma non vi ebbero che dimora temporanea. Ordinando gli ospiti intorno al nome illustre di Alessandro Manzoni, che il Consiglio comunale con suo decreto chiamò per primo all’onoranza del Famedio, si reputò pensiero gentile di associarlo a chi nei passati secoli ricambiò l’ospitalità con benemerenze specialissime qui acquistate, cui risponde la ingrandita rinomanza delle glorie cittadine. Così mentre tutto il braccio di tramontana porta la iscrizione agli ospiti illustri o benemeriti, gli altri tre sono dedicati ai cittadini milanesi. La designazione dei nomi risponde a un lavoro d’indagine che può dirsi di doppio grado, poiché l’Autorità comunale invocò sulle sue proposte il parere dell’Istituto lombardo, dell’Accademia di Belle Arti, delle due Biblioteche, la Braidense e l’Ambrosiana, del Regio Conservatorio di Musica, del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Cogli Istituti concorsero a rendere più complete le investigazioni e a ordinare meglio le proposte anche gli studi di uomini eruditi,

i quali aiutarono validamente il lavoro, rispondendo volenterosi alle richieste del Comune. Si abbiano il meritato ringraziamento i signori: archivisti Pietro Ghinzoni e Giuseppe Porro dell’Archivio di Stato; Pietro Canetta e il prof. Gentile Pagani reggenti gli Archivi dell’Ospedale Maggiore e civico di S. Carpoforo, del pari che il segretario municipale dottor Carlo Tedeschi, che sussidiò con opera efficace e utilissima la ricerca di notizie interessanti per questa pubblicazione. Le glorie storiche milanesi sono compendiate negli antichi ricordi delle grandezze romane, nelle eccelse virtù di Ambrogio e di Lanzone, nella gloria della Lega contro il Barbarossa, nella carità dei Borromei. Le tavole del Famedio illustrano la fondazione del Collegio della Guastalla, delle Scuole Arcimbolde, dell’Osservatorio Astronomico, del Gabinetto Numismatico, del Museo civico di Storia Naturale. Le virtù civili e le gesta delle armi hanno numerose ricordanze di illustri magistrati, di valorosi uomini di guerra, di fervidi patrioti, come la floridezza e l’importanza politica di Milano è rammemorata dai nomi celebri di alcuni dei Della Torre, dei Visconti e degli Sforza, alla storia politica si intrecciano i meriti dell’ingegno: la non breve serie di nomi comprende scienziati e medici, letterati e storici, orientalisti e numismatici, poeti e giureconsulti. La pittura e l’arte dello scalpello sono associate coi ricordi dell’architettura e della musica, né manca qualche illustrazione per l’incisione, la tarsia, il cesello, l’agemina, l’oreficeria, e l’industria celebre delle armi. Il Duomo e il grande Ospedale, il monumentale Lazzaretto, l’Arco della Pace, sono illustrati nei nomi degli artisti che concorsero alla loro creazione, nei benefattori che ne assicurarono la fondazione o l’ampliamento. Le grandi istituzioni della beneficenza milanese nei fondatori di Santa Corona, del Pio Albergo Trivulzio, dell’Ospedale Fate-bene-sorelle e nella numerosa schiera di benemeriti filantropi hanno la prova più degna della meritata e dovuta considerazione.» 84


che ebbe un ruolo di primo piano nei moti carbonari milanesi del 1821; Maria Montessori, pedagogista, filosofa, medico e scienziata; Anna Maria Mozzoni, giornalista, attivista dei diritti civili e pioniera del femminismo in Italia a cavallo dell’Otto-Novecento; Antonia Pozzi, scrittrice e poetessa; Alessandrina Ravizza, filantropa detta «la Contessa del brodo» per aver creato la «Cucina degli ammalati poveri»; Maria Maddalena Rossi, membro dell’Assemblea Costituente nel 1946 e presidente dell’Unione Donne Italiane (UDI); Costanza Trotti Arconati, patriota liberale, anche lei carbonara, sostenitrice di Giolitti; Matilde Viscontini Dembowski, patriota, innamorata (ma non ricambiata) di Stendhal. Nel 2016, infine, anno del centocinquantenario, le «elette» e gli «eletti» sono stati quindici. In ordine alfabetico: Agostino Casali, presidente ANPI Milano; Anna Castelli Ferrieri, designer e fondatrice di Kartell; Carla Cerati, scultrice e fotografa; Armando Cossutta, partigiano, fondatore di Rifondazione Comunista e dirigente del Partito Comunista (PCI); Umberto Eco, filosofo, semiologo, scrittore; Cesare Johnson, imprenditore medaglista; Cesare Maldini, calciatore e allenatore della Nazionale; Mariuccia Mandelli detta «Krizia», stilista di fama internazionale; Paolo Mantegazza, rettore dell’Università Statale; Gianfranco Maris, senatore e avvocato; Lucilla Morlachi, attrice di teatro; Guglielmo Mozzoni, architetto e teorico della «città ideale»; Bianca Orsi, scultrice; Giancarlo Ossola, pittore, e Piera Santambrogio, imprenditrice e filantropa. Un insieme di personalità che rendono ancora più grande Milano, proiettando la luce delle loro esistenze virtuose.

I MODERNI E I CONTEMPORANEI Siamo arrivati ai nomi iscritti nella terza fascia delle pareti del salone del Famedio, quella riservata ai defunti dal 1850 a oggi. Qui c’è davvero tutta la storia meneghina moderna. Da Cesare Correnti a Eugenio Villoresi, da Giuseppe Piolti de’ Bianchi ad Alessandro Tadino, da Gerolamo e Domenico Induno a Giulio Carcano, da Abbondio San Giorgio a Vincenzo Vela. E i contemporanei. Qui possiamo solo citarne alcuni, sono davvero tanti. Dino Buzzati, Eugenio Montale, Carlo Maria Martini, Claudio Abbado, Mike Bongiorno, Raimondo e Sandra Vianello, Gino Bramieri, Elio Fiorucci, Mariangela Melato, Leopoldo Pirelli, Luca Ronconi, Ada Burroni, Marisa Bellisario, Carlo Camerana, Achille Castiglioni, Oreste Del Buono, Luigi Santucci, Luciano Chailly, Anna Del Bo Boffino, Fratel Ettore Boschini, Renata Tebaldi, Carlo Maria Giulini, Gaetano Afeltra, Giacinto Facchetti, Vico Magistretti, Carlo Maria Badini, Alberto Falck, Mercedes Garberi, Giorgio Pardi, Luciano Pavarotti, Enzo Biagi, Giuseppe Di Stefano, Teresa Pomodoro. E nel 2015 è stato posto in parte rimedio alla mancanza di nomi femminili e sono state iscritte ben quattordici signore, frutto di una ricerca storica sulle grandi figure femminili di Milano. Eccole, con sommarie ma sufficienti informazioni: Angelica Balabanoff, importante militante socialista e amica di Anna Kuliscioff; Ersilia Bronzini Majno, filantropa fondatrice dell’Asilo Mariuccia; Maria Grazia Cutuli, coraggiosa giornalista uccisa in Afghanistan nel 2001; Rosa Genoni, stilista ante litteram, giornalista, socialista, pacifista e contraria alla guerra del ’15-’18; Elvira Leonardi Bouyeure detta «Biki», sarta del bel mondo milanese, a cui lei stessa apparteneva; Clara Maffei, animatrice del salotto risorgimentale da cui nacquero le Cinque Giornate del 1848; Bianca Milesi, scrittrice, pittrice e patriota,

I MAGNIFICI SETTE Ma ora dobbiamo parlare proprio delle sette personalità sepolte nel salone del Famedio, alcune così 85


famose da non aver bisogno che ci si dilunghi sulle loro biografie. Poi passeremo ai defunti del Famedio. In tutto al momento settantacinque, di cui sette nel salone. Dunque, primo fra tutti Alessandro Manzoni, detto «don Lisander», portato qui nel 1873. Il suo sarcofago inizialmente era nell’angolo nordovest del Famedio come si vede nella fotografia, ma nel 1955 fu innalzato su un’alta base di bronzo scolpita a bassorilievo da Giannino Castiglioni. Sul lato corto verso l’ingresso una dama maestosa seduta, con una penna d’oca e un libro in mano, impersona la Scrittura; al suo fianco, mezza nascosta, sta una civetta, sacra a Pallade Atena, divinità della Sapienza e delle Arti. Un aneddoto racconta che quando spostarono il sepolcro ci fu l’esigenza di togliere il coperchio a tettuccio di marmo per paura che cadesse. Allora accadde un fatto strano. Lo scrittore giaceva sereno sotto una lastra di vetro, quando un fascio di luce accecante emanò dal suo corpo perfettamente conservato e vestito da sera, come se stesse andando alla Scala. Gli operai incaricati del trasloco fuggirono urlando allo spaventoso miracolo dell’inattesa risurrezione. In verità si trattava di un fascio di sole filtrato dal rosone romanico della facciata che simulò un raggio extraterreno. Rassicurati a fatica gli operai, i lavori furono finalmente conclusi e da allora don Lisander occupa la posizione più importante del Famedio, esattamente nel mezzo, dove prima c’era la scala per scendere nella Cripta. Il secondo arrivato, nel 1884, fu Carlo Cattaneo, pioniere del federalismo e, fatto meno conosciuto, bello, intelligente e pieno di ammiratrici e dolci amiche della buona società. Fu un paladino ante litteram nelle sue Interdizioni israelitiche del 1835-1836 della tolleranza e della libertà di culto. Nel 1958 nelle zone occidentale e orientale sono stati inseriti dei nuovi colombari per poter ospi-

tare altrettante personalità; solo quattro sono al momento occupati da Carlo Forlanini, Salvatore Quasimodo, Leo Valiani e Bruno Munari: quattro pezzi da novanta. Carlo Forlanini, medico e inventore, con il suo pneumotorace artificiale del 1882 salvò la vita a migliaia di tubercolotici, prima condannati a morte certa. Anche lo sfigmomanometro per misurare la pressione che si continua a usare arriva dalla sua scuola e dai suoi studi. Salvatore Quasimodo, figlio di un ferroviere siciliano di Modica, vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1959. Si trasferì dapprima a Roma, poi fu inviato a Firenze da Elio Vittorini, che intanto era diventato suo cognato, infine a Milano dove fino alla morte insegnò letteratura italiana al Conservatorio. Amò moltissimo la nostra città e ne cantò il Naviglio e le nebbie nella struggente Lettera alla Madre, per la quale sentiva una nostalgia dolorosa. Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe, gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord: non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno, molti mi devono lacrime da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti, povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani. Oggi sono io che ti scrivo. Morì a Napoli e fu trasportato a Milano, nel Famedio appunto. Di lui si dice nell’Enciclopedia Treccani che «dopo iniziali riecheggiamenti ungarettiani e montaliani, trovò espressione alla sua densa e dolente sensualità in trepide visioni di terre, acque, stagioni, in un’aura memore di metamorfosi e di miti». Poiché non riusciremmo certo a dirlo meglio, ci asteniamo da ogni commento. 86


Il salone del Famedio a fine Ottocento, con il sarcofago di Alessandro Manzoni

Veduta del Famedio durante il restauro del 1958. Al centro, la tomba di Alessandro Manzoni con i bozzetti provvisori dell’ara in costruzione

Leo Valiani, all’anagrafe Leo Weiczen, nacque a Fiume nel 1909 in una famiglia di origine ebraica e italianizzò il suo nome nel 1927. Aveva soltanto dodici anni quando a Fiume, sua città natale, assistette sconvolto all’incendio di una sede autonomista appiccato da squadristi. Nel 1926, dopo il varo delle leggi razziali, divenne antifascista militante, scelta che gli costò il confino a Ponza dove entrò nel Partito Comunista, con il quale ruppe nel 1939 dopo il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop. Nel corso degli anni fu perseguitato, arrestato, incarcerato, esiliato e spedito in un campo di concentramento in Francia, dove divenne amico dello scrittore Arthur Koestler, che gli dedicò un bel ritratto nel libro La schiuma della terra. Rifugiato in Messico nel 1940, rientrò in Italia nel 1943, divenne membro del

Partito d’Azione e fu uno dei pilastri della Resistenza. Quando il partito si sciolse divenne giornalista, scrivendo sui più importanti giornali. Nominato nel 1980 senatore a vita, morì nel 1999. E ora Bruno Munari, definito la figura più leonardesca del Novecento. Fu il primo a proporre le installazioni e le videoinstallazioni, l’arte cinetica, gli esperimenti con la luce, l’uso di oggetti trovati per caso in natura, il gioco come forma d’arte, gli oggetti immaginari. Amico di Filippo Tommaso Marinetti, esordì nel movimento futurista ma presto se ne distaccò con lievità e ironia. Nel 1930 realizzò una delle prime opere d’arte «mobili», nota con il nome di Macchina aerea, a cui seguirono le Macchine inutili, assemblaggi di oggetti appesi in armonico equilibrio. Da 87


allora non smise di sperimentare e inventare nella grafica, nel design, in letteratura e in fotografia e non disdegnò come mezzo espressivo neanche la fotocopiatrice. Sue sono le Macchine aritmiche, i Libri illeggibili, i Negativi-positivi, i Polariscopi, le Sculture da viaggio, le Ricostruzioni tecniche di oggetti immaginari. Non trascurò il cinema con pellicole d’avanguardia e la creazione della Cineteca di Monte Olimpino. Amante dei bambini organizzò per loro un laboratorio all’interno della Pinacoteca di Brera. Morì nel 1997 a novantuno anni, poco dopo aver finito la sua ultima opera, l’orologio Tempo libero per Swatch.

Una delle sue frasi più celebri è: «Il sogno dell’artista è quello di arrivare al Museo, mentre il sogno del designer è quello di arrivare al mercato rionale». Un genio, indubbiamente. Chi saranno i prossimi a occupare gli spazi liberi sopra a questi quattro grandi? «Ai posteri l’ardua sentenza», direbbe il Manzoni. CRIPTA Ora vediamo chi c’è nella Cripta. L’ingresso è nella breve galleria situata sotto lo scalone del Famedio, ma vi si accede anche lateral88


Il salone del Famedio oggi

Basamento del sarcofago di Alessandro Manzoni, particolare della Scrittura con la civetta nascosta tra le vesti

mente da due portici simmetrici che immettono nel giardino, tappezzati di lapidi di soldati delle guerre mondiali e di qualche insurrezione, come quella mazziniana, amaramente fallita, del 6 febbraio 1853. I giovani nelle stanche fotoceramiche hanno i volti mesti e pallidi di chi sa che non tornerà, incasellati in piccole cornici di bronzo, usurate dal tempo e ornate di fiori pieni di polvere. Nel Portico di Ponente si trova la tomba, da lui stesso disegnata per sé e per la sua famiglia, di Carlo Maciachini. Presto verrà restaurata e illuminata, almeno lo speriamo. Alcune incisioni ricordano strani personaggi come Teresa Galimberti, «madre esemplare di venticinque figlioli» o Pietro Legnani, armaiolo, ucciso a soli quarantadue anni da «mano amica per inopinato caso con un revolver». Un delitto passionale? Forse. Una lapide è dedicata a Raffaele Kuon, direttore d’orchestra, compositore e violinista (1837-1885); un’altra a Bassano Finoli, morto nel 1849, che scrisse l’Igilda di Brivio, Le rovine di Milano e di Lodi e decine di altri, ai suoi tempi, famosi romanzi storici. A Levante incontriamo, invece, per la prima volta la firma di Luigi Giberto Buzzi, incisa nel calcio di un fucile nel 1884 sulla lapide di Antonio Albrighi, cittadino esemplare ed eroe della Guerra d’indipendenza. La Cripta è a piano terra, non sotterranea, ed è un unico spazio a croce che confina con la sagrestia della chiesa. I soffitti sono a vela, la luce è bassa e il sole non penetra mai tra queste mura fredde. Qui sono custoditi sepolcri, tutti uguali, di defunti vissuti e morti negli ultimi tre secoli. A tutt’oggi sessantotto più una statua, la Malinconia, di Antonio Tantardini, e due busti: uno di Francesco Hayez, che riposa lì accanto, e uno di Giovanni D’Anzi, autore di O mia bela madunina, che invece ha trovato eterno riposo al Civico Mausoleo Palanti. Hayez è l’autore del famoso Bacio conservato alla Pinacoteca di Brera, che si dice sia stato realizzato per

celebrare l’alleanza tra l’Italia di Vittorio Emanuele e la Francia di Napoleone III siglata a Plombières nel 1869, celando nei colori degli abiti quelli delle bandiere dei due paesi. Non lontano, nel ramo a est, riposano in pace il pittore scapigliato Tranquillo Cremona, i due fratelli Induno, Domenico e Gerolamo, pittori di scene popolari, e Francesco Maria Piave, librettista delle più belle opere di Giuseppe Verdi, tra cui Traviata, Rigoletto, Macbeth. E ancora Francesco Brioschi, illustre matematico e fondatore del Politecnico. Si racconta che pretendesse che le assenze alle sue lezioni fossero giustifi89


cate per scritto dai genitori dello studente o da un medico la cui firma doveva essere autenticata niente di meno che dal sindaco del paese di residenza! Questo valse alla sua facoltà il soprannome di «Asilo Brioschi». E poi il letterato Cesare Correnti, l’economista e filosofo Melchiorre Gioia, che scrisse il Nuovo Galateo, il musicista Amilcare Ponchielli, autore dell’opera La Gioconda, i cui funerali fecero epoca. E ancora il chimico e geologo Scipione Breislak, che diede il nome allo Scipionyx Samniticus, primo dinosauro italiano, e l’astronomo Giovanni Schiaparelli, a cui sono stati dedicati asteroidi, crateri e una catena montuosa su Mercurio. Di fronte a loro ecco l’eterna dimora di una donna speciale, che per molti anni fu l’unica «signora» del Famedio. Si tratta di Laura Solera Mantegazza, fervente patriota, amica di Mazzini, che nella villa La Sabbioncella a Cannero, sulla sponda piemontese

del Lago Maggiore, prestò soccorso a garibaldini e austriaci, senza distinzioni. Filantropa, inventò la coccarda tricolore, adottò i neonati delle madri operaie che non potevano occuparsene e poi, con l’aiuto di Giovanni Sacchi, pedagogo, aprì nel 1850 il primo Pio Ricovero per Bimbi lattanti e slattati – di fatto il primo asilo nido – al piano terra della sua casa di Milano, formato da due camerate di culle, una cucina e i servizi. Nei cinquant’anni che seguirono, i ricoveri di Laura accolsero 38.287 piccini dai quindici giorni ai due anni di età. Va detto che di filantropi il Monumentale è pieno! Nello stesso tratto c’è quel Giuseppe Rovani che fu bibliotecario di Brera e scrisse Cento anni, un romanzo storico che ebbe un folgorante successo, ma che fu soprattutto un grande consumatore di alcol e di assenzio, come molti dei suoi amici scapigliati. Questa passione gli costò la vita. Il grande medico-poeta-cantautore della Milano 90


Funerali di Amilcare Ponchielli, disegno dal vero di O. Silvestri

Anna Radius Zuccari, in arte «Neera»

degli ultimi Enzo Jannacci, la splendida e ribelle attrice Franca Rame e il «suo» amato giullare Dario Fo – drammaturgo, attore, regista, scrittore, pittore, attivista e premio Nobel per la letteratura – e il geniale regista e fondatore di teatri Franco Parenti non sono lontani e hanno sempre fiori freschi. E ancora Bob Noorda, designer olandese di tanti simboli di Milano, e Gabriele Basilico, cantore fotografico di guerre e periferie e ritrattista geniale. Nel ramo ovest riposa l’architetto neoclassico Luigi Cagnola che progettò l’Arena e l’Arco della Pace, da cui entrarono trionfalmente in città, l’8 giugno 1859, Napoleone III e Vittorio Emanuele, anche lui III, acclamati da una folla osannante. Il suo «vicino di casa» è Emilio Caldara, primo sindaco socialista di Milano, pacifista e contrario all’entrata in guerra dell’Italia fino a Caporetto. E dall’altra parte il poeta dialettale e antifascista Delio Tessa, così ironico da scrivere la Sonada quasi ona fantasia «L’è el dì di mort, alegher!»; il primo basso del Teatro alla Scala Tancredi Pasero, grande Mefistofele; nonché la senatrice Lina Merlin. Lì accanto un’atletica donna senza veli in marmo di Edolo si dispera perennemente in ricordo della scrittrice protofemminista Neera reggendo con le braccia incrociate sul volto sensuale un grosso libro. Sulla base una dedica altrettanto succinta: «QUI ANGELA RADIUS ZUCCARI, NELLE SUE PAGINE NEERA». Le ali che la circondano sono cosparse da un lato di spine e croci per narrare la fatica della sua emancipazione, dall’altro di stelle e allori per raccontare la gloria raggiunta con le sue opere di scrittrice. La statua è stata di recente restaurata con microrganismi che eliminano le croste scure dovute alla solfatazione, con un prodotto brevettato dallo spin-off della Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, diretto dalla dottoressa Annalisa Balloi. Non mancano i contemporanei: i due coraggiosi partigiani Aldo Aniasi, detto «Iso» e sindaco di Milano, e Giovanni Pesce, sepolto con la moglie Onorina,

compagna di lotte e grande amore della sua vita. Sulla stessa parete Antonio Maspes che vinse per cinque volte consecutive il Gran Premio di Parigi, Giuseppe Meazza, per alcuni il più grande calciatore italiano di tutti i tempi; e da non dimenticare Candido Cannavò, direttore della «Gazzetta dello Sport», sempre in polemica con Gianni Brera; Renato Cepparo, scrittore, esploratore, alpino, organizzatore e inventore della Stramilano, e Duilio Loi, riconosciuto dalla International Boxing Hall of Fame come uno fra i più grandi pugili di ogni tempo. Chiudono questo elenco di persone speciali Giorgio Gaber, detto «il Signor G.», poeta e libero pensatore; la poetessa dei Navigli Alda Merini, così geniale da venire a più riprese rinchiusa come pazza e instancabile fumatrice, tanto che i suoi ammiratori non fanno mai mancare un pacchetto di sigarette dietro il portafiori; il disegnatore Guido Crepax, che creò Valentina. 91


Funerali di Agostino Bertani, Stabilimento Treves

Non è finita. Giovanni Raboni, nato in via San Gregorio, che tradusse tutta la Recherche di Marcel Proust e che è senza dubbio uno dei grandi poeti del Novecento. E Paolo Grassi, sovrintendente del Teatro alla Scala e fondatore con Giorgio Strehler del Piccolo, primo teatro stabile italiano, uno dei vanti della città. Giorgio Gaslini, musicista jazz, pianista, compositore e direttore d’orchestra, e il soprano Magda Olivero, la più grande interprete dell’Adriana Lecouvreur, che si esibì per l’ultima volta a novantanove anni e morì a centoquattro, sono arrivati nel novembre 2015. Ne andrebbero ricordati ancora molti, tra cui Giancarlo Vigorelli, giornalista, scrittore, considerato uno dei maggiori critici letterari italiani ed esimio studioso manzoniano. Una grande lapide sul fondo ricorda i Caduti dell’Arma dei Carabinieri e di Nassirya, un’altra le vittime della ritirata di Russia.

trasferirlo nel Famedio: Cagnola aveva fatto grandi cose per Milano, aveva contribuito a trasformare il suo volto; era un dovere tributargli l’onore del Famedio. Ma gli abitanti di Ozzero mal accettarono questa imposizione e ancor oggi si sentono defraudati del diritto di custodire le spoglie di quel grande loro concittadino. Analogo caso per un altro personaggio, pure lui architetto, Luca Beltrami. Muore nel 1933. La sua salma viene tumulata nella tomba di famiglia da lui stesso progettata a Cireggio, frazione di Omegna, comune nel quale era nato e con il quale aveva avuto sempre stretti rapporti. Considerava Omegna sua seconda patria e l’asilo, ancor oggi funzionante, era stato progettato e costruito a sue spese. Cinquant’anni dopo la sua tumulazione, il Comune di Milano – sempre lui – manda a prelevare la salma per trasferirla al Famedio. Giustificate le reazioni degli abitanti di Omegna che ancor oggi protestano e rivogliono indietro il proprio illustre concittadino. Ricca è l’aneddotica intorno a Giuseppe Rovani, morto nel 1874. Scrittore, letterato, di grande cultura, ottimo parlatore, assiduo frequentatore di osterie. ‘Si imparava di più stando ad ascoltarlo quand’egli tuonava dagli scranni di qualche bettola, che non stando per un anno sulle panche di qualche regia accademia’, hanno scritto i giornali dopo la sua morte. ‘Non aveva peli sulla lingua’, diremmo noi oggi e si scagliava spesso contro i ricchi, i nobili, le autorità. Lui stesso diceva di aver scelto il ruolo di ‘fustigatore dei costumi della garrula Milano’. Il popolo lo amava per questa sua schiettezza, ma era ovvio che i nobili e le autorità lo detestassero; a tal punto che alla sua morte fecero di tutto per boicottare i suoi funerali e temendo che intervenisse troppa gente e che si tributassero troppi onori a questo personaggio scomodo, vietarono che la cerimonia funebre si tenesse di domenica, come richiesto dagli organizzatori per permettere anche agli abitanti della provincia di intervenire. Rovani infatti era famoso ben al di fuori delle mura di Milano.

QUALCHE ANEDDOTO Nel volume Quelli che hanno fatto grande Milano, l’Italia, Bruno Maffeis narra le storie dei sepolti nel Famedio con gustosi aneddoti, se così si può dire. Apprendiamoli direttamente dalla penna dell’autore. «Avere un proprio concittadino sepolto nel Famedio è senza dubbio motivo di orgoglio. Però non sempre i ‘compaesani’ l’hanno accettato di buon grado; in molti casi preferivano tenersi strette le spoglie dei loro illustri personaggi. È il caso dell’architetto Luigi Cagnola; lui stesso per disposizione testamentaria volle essere inumato nel cimitero di Ozzero, piccola frazione vicino ad Abbiategrasso dove aveva una castello. Si sentiva inoltre molto legato alla popolazione, che amava e stimava. E così nel 1833 alla sua morte venne sepolto lì e la sua salma lì rimase fino al 1933 quando il Comune di Milano, prendendo occasione dal centenario della sua scomparsa, mandò funzionari per prelevarlo e 92


Per ostacolare il corteo venne imposto anche che passasse per vie strette e contorte anziché lungo il viale di accesso al Monumentale. Nonostante questo, enorme fu la folla che intervenne. Va aggiunto che alcuni suoi amici si prodigarono per far ‘pietrificare’ la sua salma. Fu lo stesso sindaco di Milano Bellinzaghi, suo amico, a telegrafare a Paolo Gorini, lo scienziato lodigiano che aveva inventato riusciti procedimenti di ‘mummificazione’. In quel periodo Gorini si trovava a Pisa alle prese con la difficile operazione di ‘pietrificazione’ della salma di Giuseppe Mazzini, impresa che gli richiese due anni di lavoro ma si precipitò a Milano, anche perché era amico di Rovani e sottopose la salma a trattamenti segreti con risultati sorprendenti, tanto che venne organizzata una processione per le vie di Milano con un carro sul quale era ben visibile la salma di Rovani, perfettamente conservata. Ricordiamo anche che nei loculi del Famedio vengono quasi sempre collocate le salme, ma in alcuni casi sono presenti le urne cinerarie. È il caso di quella

di Giuseppe Missori, il garibaldino amatissimo dai milanesi. Il suo nome entrò nella storia perché aveva salvato la vita al generale Garibaldi. Quando entrava nel Teatro alla Scala tutti si alzavano in piedi, come stesse entrando la Regina. Il generale morì nel 1911 e le sue ceneri furono tumulate in un loculo del Famedio nel 1929. Celebre il monumento nella piazza che porta il suo nome. Il nostro eroe, orgoglioso e quasi tronfio guarda dritto davanti a sé, in una posa appunto statuaria, mentre il suo cavallo è abbattuto, sfinito, depresso, tant’è che a Milano per dire di uno male in arnese si dice ‘Te paret el caval del Missori ’. Si racconta che il quadrupede sia stato riciclato, per risparmiare, da un monumento dedicato alla battaglia di Waterloo. Sarà vero? Chissà. Anche la salma di Agostino Bertani, medico chirurgo e garibaldino, alla sua morte nel 1886, per suo volere testamentario venne introdotta nel forno crematorio e le ceneri poste in un’urna, successivamente collocata in un loculo del Famedio». 93


Enrico Pancera, Deposizione per la famiglia Martinoli

Nelle Gallerie Inferiori è possibile trovare le sepolture di tutti i membri di alcune famiglie titolari dei monumenti collocati al livello superiore. Uscendo a Levante dal salone del Famedio, sotto la seconda arcata, il busto verista del professore di ostetricia e patriota Pietro Lazzati si innalza su una base triangolare che indica l’appartenenza del defunto alla massoneria. Due bassorilievi narrano la vita del medico e ricordano che fu presidente della Ruota degli Esposti. Segue l’emozionante Deposizione di Enrico Pancera per la famiglia Martinoli, restaurata dalla Ditta Simonetta, fondata nel 1946 per realizzare e recuperare sculture e opere funerarie e per dare un accurato servizio di sepoltura. Verso il giardino si trova il sepolcro neorinascimentale per il mecenate Achille Bertarelli che lasciò al Comune di Milano tutta la sua imponente e preziosa collezione di stampe e fotografie, consultabile al Castello Sforzesco. Nel tratto B-G due capolavori liberty, La culla celeste e il monumento per la famiglia Maurer, sono entrambi di Francesco Penna, mentre la corpulenta dama di bronzo che raffigura L’industria appartiene al primo periodo di Lucio Fontana. Voltando a sinistra dopo questo sepolcro l’Edicola F di Levante è occupata da un Ossario per i «Cittadini celebri e meritevoli» e da una colonna sulla quale è posta l’urna delle ceneri del presentatore Enzo Tortora (architetto Ruggero Ercoli), vittima di una persecuzione giudiziaria. Vicino a lui, in semplici cellette, Lea Garofalo, vittima della ’ndrangheta, l’attrice Lina Volonghi, Alessandro Sanquirico, scenografo neoclassico, l’attore Renzo Palmer, il soprano Rosina Storchio, il comico Walter Valdi e molti altri. Sulla Terrazza Esterna, che è la continuazione all’aperto delle Gallerie, sono sepolti, tra gli altri, il designer Roberto Sambonet, l’attore Gino Bramieri e l’attrice Wanda Osiris, conosciuta da tutti gli italiani del suo tempo che stravedevano per lei, Mussolini compreso, come la «Wandissima».

GALLERIE SUPERIORI, INFERIORI, ESTERNE Il Famedio continua lateralmente, verso est e verso ovest, con due ordini di gallerie, superiori e inferiori, raccordate ad angolo retto in corrispondenza di otto grandi edicole. Le Gallerie Superiori partono dalle porte laterali del Salone ma vi si può accedere anche dalle scalinate anteriori e posteriori e sono formate sia a Levante che a Ponente da due segmenti principali A-B e B-G, coperti da portici ad arcate che circondano il cortile di accesso e che continuano con i tratti B-C, F-C e C-D. Il tratto B-C non ha aperture. A ovest il tratto G-F ospita gli uffici. A Ponente sfociano in un lungo terrazzo vuoto, a Levante nella Terrazza Superiore, fiancheggiata da due lunghe file di sarcofaghi di marmo bianco tutti uguali per forma e dimensioni. Le Gallerie Inferiori, identiche per decorso a quelle Superiori, sono indicate con le stesse lettere fino alla E, dove le seconde finiscono e le prime proseguono ancora per lunghi tratti. Al posto delle edicole nei punti di svolta sono presenti semplici slarghi. Le Gallerie Inferiori sono molto più tetre delle loro sorelle maggiori perché strette e quasi prive di luce naturale; la poca che filtra arriva da aperture a rosone. Sul retro della costruzione ci sono inoltre due camminamenti simmetrici situati a mezza altezza con dieci nicchie ognuno, chiamati Gallerie Esterne di Levante e di Ponente. GALLERIE DI LEVANTE E DI PONENTE Gallerie di Levante I portici delle Gallerie Superiori sono ricchi di monumenti importanti che spaziano dalle opere veriste e tardoromantiche dell’Ottocento alle opere simboliste, liberty, novecentiste e, più raramente, di epoca recente. 94


Nelle Gallerie Inferiori non ci sono monumenti, ma qualche grande personaggio e qualche pregevole bassorilievo. Sono qui conservate le spoglie mortali di Herbert Kilpin, tessitore di Nottingham e fondatore del Milan Cricket Club – oggi semplicemente Milan – e, indirettamente, dell’Inter; gli scrittori e giornalisti Orio e Leo Vergani; il critico, storico dell’arte, poeta e saggista Roberto Sanesi; l’attore Gianfranco Funari; la moglie e la figlia dello scultore e pittore Vito Vaccaro, palermitano e allievo di Mario Rutelli, che per loro ha scolpito un delicato bassorilievo.

custodisce le spoglie dell’architetto Alfredo Campanini, artefice, ai primi del Novecento, del borgo neogotico-rinascimentale di Grazzano Visconti e del palazzo omonimo in via Bellini n. 11, fulgido esempio di stile liberty, con ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli e due cariatidi lapidee ai lati del portone di Michele Vedani. Il corteo funebre di Giannino Castiglioni per Giuditta e Carlotta Sommaruga ed Emilia Faini è un alto esempio dell’abilità dell’autore nel ritrarre figure assorte e in preghiera e rivela strette analogie con i pleurants medievali di marmo che portano il feretro di Filippo l’Ardito nella cattedrale di Digione, opera inquietante e tetra di Claus Sluter (1360 circa-1406). Giuditta ereditò dal nonno Angelo uno stabilimento ortofrutticolo in via Melchiorre Gioia n. 39, conosciuto come il più esteso del Regno d’Italia, che affittò nel 1928 al floricoltore Elia Fumagalli, pur continuando ad abitare nella villa che si trovava nello stesso terreno. Ebbe una vita travagliata perché nel 1941 perse la figlia Emilietta di soli trentanove anni e nel 1944 la sua casa fu distrutta dai bombardamenti. Quando morì, nel 1964, lasciò la sua proprietà

Gallerie di Ponente Anche a Ponente molte sono le opere di grande valore e anche qui alcuni monumenti hanno i loro defunti, spesso importanti, nelle Gallerie Inferiori. Nel primo tratto, affacciato sul piazzale, l’arcata centrale è occupata dal monumento dell’ingegnere che costruì la linea ferroviaria Milano-Monza, Giulio Sarti, realizzato da Giovanni Strazza. Alla sua destra un elegante sarcofago di A. Ragotti 95


Alessandro Mazzucotelli, disegno del cancello per la Tomba Famiglia Celle Monumento Arrigo e Camillo Boito, particolare

all’Ospedale Maggiore perché la trasformasse in un centro di cura; invece, tradendo il patto, l’Ospedale preferì continuare ad affittarlo al Vivaio Fumagalli per poi tentare, nel 1983, di sfrattarlo e di vendere il terreno che valeva una fortuna: si parla di 11 miliardi di lire come base d’asta. Nel 2001 l’inquilino dovette infine cedere e liberare lo spazio di 12.000 metri quadri che, nel corso della lunga causa, aveva lasciato senza cure, tanto che nel frattempo era cresciuta una fitta selva incolta che gli abitanti della zona avevano battezzato «il Bosco di Gioia». La giunta regionale che si era aggiudicata il lotto aveva intanto deliberato di tagliarlo per costruire la sua nuova sede. Il 27 dicembre 2005 l’impresa incaricata, sorda a ogni supplica, iniziò i lavori. I residenti tentarono sotto la neve una coraggiosa quanto inutile difesa; l’ambientalista Michele Sacerdoti si arrampicò su un faggio

e il musicista Rocco Tanica fece lo sciopero della fame; molti altri, tra cui Dario Fo ed Elio e Le Storie Tese, diedero il loro sostegno, ma le forze dell’ordine intervennero per allontanare con la forza chi osava protestare ed entro il mese di gennaio 2006 tutte le piante, tranne dieci esemplari che furono spostati, vennero crudelmente abbattute e triturate sul posto. Una solitaria magnolia è l’ultimo albero rimasto di tutto il bosco al cui posto c’è ora l’area cementificata su cui si erge il nuovo Palazzo della Regione. Giovanni Maccia fondò l’Opera Pia, che porta il suo nome, per accogliere madri in difficoltà con i loro piccoli. Il monumento di Luigi Crippa utilizza 96


Emilio Quadrelli, Ultimo Bacio, Monumento Volontè Vezzoli

il tema misterioso della porta socchiusa, simbolo del passaggio tra la vita e la morte. I fratelli Boito – Camillo, architetto e scrittore, e Arrigo, musicista e librettista di Giuseppe Verdi, entrambi scapigliati – riposano in pace in un sepolcro equamente diviso a metà anche nella realizzazione di Luigi Albertini e Lodovico Pogliaghi, sormontato dall’urna in porfido della madre Caterina Radolinska. Nella parte di Galleria chiusa che congiunge i portici a metà corridoio si incontra il busto di Giuseppina Pizzigoni, fondatrice della Scuola Rinnovata Pizzigoni alla Ghisolfa.

Alunni ed ex alunni le portano spesso bigliettini e fiori. Nel tratto successivo, nel quale entriamo svoltando a destra, ci attendono lo stupefacente Ultimo bacio, realizzato da Emilio Quadrelli per la famiglia Volontè Vezzoli, e due opere veriste, raffinatissime nei dettagli: il Monumento Pietro Volpi e il Monumento Annibale Zanoni di Luigi Buzzi Giberto, lo scultore che fu tra i primi a inserire opere nel cimitero, tra cui la prima in assoluto, quella già citata sulla tomba di Nicostrato Castellini. Sul retro delle Gallerie Superiori si può ammirare quella che viene definita Galleria Esterna di Po97


nente. Si tratta di un percorso all’aperto a mezza altezza rivolto verso l’area cimiteriale interna nel quale sono allineate dieci nicchie ad arcate con altrettante sepolture di cui alcune davvero interessanti per la loro qualità artistica, l’interesse storico o per entrambe le cose. Nella nicchia 3 i fratelli Tullo e Manlio Morgagni, giornalisti, sono celebrati da sei figure allegoriche femminili che spengono una fiammella, di gusto littorio (architetto Enzo Bifoli, scultore Guido Micheletti). Tullo fu l’inventore del Giro d’Italia, del Giro di Lombardia e della Milano-Sanremo; Manlio, fondatore dell’agenzia di stampa Stefani (oggi ANSA), fu un fedelissimo di Mussolini e si uccise alla notizia del suo arresto il 25 luglio 1943. E nella nicchia 8 troviamo il gruppo I gigli del Cielo di Francesco Penna. Lo scultore ha ideato per la famiglia Elisi, proprietaria dello storico Hotel Francia Europa in corso Vittorio Emanuele, un angelo che spicca il volo da un prato di gigli, simbolo dell’innocenza e della purezza della

piccola defunta, Adriana, stretta tra le sue braccia. Anche a Levante è presente un’analoga Galleria Esterna con dieci nicchie. Nella n. 8 una composizione in bronzo dorato di Nello Finotti del 1987 allude alle Trombe del Giudizio. LA MORGUE Nell’edificio principale fu anche ricavato uno spazio per l’obitorio e per la sala macchine che lo rendeva funzionante. L’esigenza della città di dotarsi di una sala anatomica moderna che rispondesse ai bisogni crescenti della città fu risolta aprendo uno spazio al Monumentale, oltre a quello esistente di Musocco che risultava scomodo per la sua distanza. Fu allestito un locale attrezzato per le autopsie, un locale per esporre i defunti e una cella frigorifera per tenere in osservazione gli sconosciuti, dal momento che erano frequenti le morti in albergo e la mancanza di documenti li rendeva non identificabili. 98


Guido Micheletti, figure allegoriche per la tomba dei fratelli Tullo e Manlio Morgagni

Un funerale negli anni Cinquanta

La sede venne individuata nel fabbricato a est, vicino al Cimitero degli Israeliti, dove si predispose un atrio di ingresso verso la strada per l’arrivo dei cortei funebri o delle salme. La sala anatomica era un vasto locale con finestroni e lucernari. Pareti verniciate a smalto e rivestite per un metro e mezzo di «piastrelle smaltate di Germania in tinte bianco-arancio in fasciature celesti», pavimento in gres bianco e celeste, soffitto a smalto. L’arredo era costituito da un tavolo in porcellana bianca, due lavabi per ospedali, rubinetti manovrabili col gomito, uno spazio per le casse dei ferri (tra cui un macabro «pescacervello»!). Il locale riservato ai «morti d’albergo» aveva un’apposita conduttura collegata a un quadro nella stanza dei custodi per applicare alle salme campanelli elettrici di segnalazioni. La sala di esposizione, mantenuta a 2 °C, aveva un’ampia vetrata di cristallo che dei cassetti contenenti cloruro di calcio preservavano dai depositi di umidità e poteva ospitare fino a sei defunti. La sala frigorifera aveva dodici celle doppie e comunicava con la sala macchine. Per il trasporto dei defunti destinati alla Morgue fu istituito un servizio di autolettiga che le autorità potevano richiedere direttamente al cimitero e che partiva immediatamente dal garage con il personale addetto. La vettura era composta da un sedile anteriore a tre posti e da due lettighe, di cui una con suoneria per eventuali casi di morte apparente. Ora la Morgue non esiste più e al suo posto sono stati ricavati spazi per la mensa, gli spogliatoi, ecc.

no segreto». Nel portico con soffitto a volta che lo precede sono posteggiati due antiquati carri funebri del 1927 – però elettrici! – costituiti da un abitacolo per il guidatore e da una parte aperta posteriore, delimitata da quattro colonne di legno rastremato, dove poteva – e potrebbe anche oggi se tornassero in funzione per funerali speciali – trovare posto un feretro. Uno dei due veicoli è di prima classe e infatti è più ricco, con malconce tende di velluto e frange e sfibrati pennacchi; l’altro è di seconda classe e perciò più semplice. Entrambi sono decorati sul lato posteriore da una clessidra con le ali, intagliata nel legno, a ricordare che tempus fugit. Sono rimasti attivi fino agli anni Cinquanta, quando sono stati sostituiti da veicoli a benzina più moderni e meno ingombranti. Nel grande prato verde, circondato su tre lati da alti muri in mattoni, simili a quelli di un carcere o di un convento di clausura, svettano tre floridi cipressi americani che formano una specie di quinta. Lungo il

IL GIARDINO SEGRETO Esattamente dal lato opposto della Morgue, quindi nel corpo di fabbrica a ovest, furono ricavati spazi per uffici e servizi. In questa zona c’è tuttora un portone d’ingresso in legno che immette in un vasto «giardi99


perimetro sono appoggiate a terra decine di sculture, apparentemente della stessa epoca, la fine dell’Ottocento o gli inizi del Novecento, probabilmente provenienti da tombe che non avevano più eredi che se ne prendessero cura e quindi smantellate. I manufatti artistici, infatti, sono di proprietà dei concessionari, anche se collocati su terreno demaniale e sottoposti per legge alla tutela delle Belle Arti. Le sepolture, i monumenti e le edicole, possono essere dichiarati in stato di degrado o di abbandono e, dopo seri e lunghi tentativi di rintracciare e coinvolgere gli interessati, tornano a disposizione dell’amministrazione, che può nuovamente cederli in concessione o disporne diversamente. Busti di marmo e di bronzo di dame e gentiluomini, teste sbrecciate, busti senza braccia, neonati, una testa di Medusa, angeli di tutti i tipi, vegliardi, bambini, insomma ritroviamo qui tutto il repertorio di opere del cimitero, rimaste lì per anni ma ora prese in carico dalla Soprintendenza che ne ha autorizzato il restauro. Sono opere di scultori come Luigi Buzzi Giberto,

Donato Barcaglia, Ernesto Bazzaro, Ludovico Montegani, Armando Violi. La base lapidea di un’opera di Giuseppe Grandi aspetta pazientemente di essere ricongiunta alla bambina in bronzo che vi era collocata e che ora si trova negli uffici. Si tratta di un delicatissimo monumento, Tumulo recente, per Giuseppina Astori (1877) che Rossana Bossaglia, la grande studiosa, definì uno dei capolavori del Monumentale, segnalando il dettaglio dell’orma del piedino, e di cui si erano perse le tracce. L’originale si trova in deposito alla GAM, la Galleria d’Arte Moderna di Milano, in via Palestro, inventariata con il numero 687, insieme a molti altri gessi, bronzi e marmi del cimitero tra cui il Ritratto serio di Ernesto Bazzaro, Esaurimento dello stesso autore, la testa di Dario Papa di Paolo Troubetzkoy, le figure femminili allegoriche dell’Edicola Dell’Ovo di Luigi Secchi e i tre grandi bozzetti a olio dei mosaici della facciata del Famedio, la Storia, l’Angelo della luce, l’Angelo della morte, di Ludovico Pogliaghi. Per fortuna la dolce e sfortunata Giuseppina, nel suo bell’abitino elegante, è stata ritrovata e presto 100


Il giardino segreto

La sala laica

sarà sottoposta alle cure nel laboratorio interno che si apre proprio sul «giardino segreto». Qui, dal 2 novembre 2013, giorno dell’inaugurazione, la dottoressa Bruna Mariani della Fonderia Artistica Battaglia, diplomata all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, si prende cura dei bronzi e gli studenti dei corsi di restauro dell’Accademia di Brera seguono lezioni pratiche e teoriche sui monumenti lapidei con la dottoressa Donatella Bonelli, subentrata al professor Luciano Formica, che ora dirige il Museo della basilica di S. Gottardo. L’Associazione Amici del Monumentale di Milano è nata proprio intorno a questo progetto, la Fonderia Battaglia e l’Accademia hanno fornito le attrezzature e l’Amministrazione comunale ha concesso lo spazio e le autorizzazioni, dimostrando grande sensibilità verso l’arte e la storia di questo luogo e verso la sua tutela e valorizzazione.

di S. Gregorio, in un’area situata a sinistra dopo l’ingresso. Erano protestanti, in tutte le loro derivazioni, dai valdesi ai luterani, ma anche greco-ortodossi, armeni, copti. Nonché ugonotti, avventisti del settimo giorno, presbiteriani e altro. I nomi sulle tombe del Monumentale testimoniano la provenienza poliglotta e cosmopolita dei sepolti. Achenbach, Stauffer-Wyss, Kikabilekian, Zollinger, Haussmann, Towsey, Kinross, Dilsizian. Moltissimi gli inglesi che hanno sempre amato l’Italia e il suo clima, a partire dai poeti romantici che la visitavano nei lunghi mesi dei loro Grand Tour. Il cimitero ha un suo ingresso privato da un piccolo piazzale a sinistra della cancellata del Monumentale, ai muri del quale si appoggia con due lati che ospitano nicchie e colombari. Una costruzione in mattoni con un’apertura a tre archi sovrastata da un Cristo disegnato da Maciachini è l’ingresso principale, ma sul davanti e sul lato est di questo edificio sono state collocate negli ultimi anni, senza delimitazioni, altre sepolture che appar-

I DUE CIMITERI RISERVATI Le mura esterne delle Gallerie Superiori e Inferiori di Levante e di Ponente costituiscono i confini di due piccoli cimiteri previsti fin dall’inizio nel progetto, situati all’esterno del Recinto Maciachini, destinati dall’architetto ai defunti delle altre due confessioni maggiori di allora, israeliti e cristiani non cattolici, su precisa indicazione del bando di concorso che recepiva i principi dell’Editto di Saint Cloud. Il più antico cimitero islamico italiano è infatti quello di Trieste che Francesco Giuseppe destinò ai musulmani bosniaci nel 1846 e la prima area riservata ai defunti della comunità islamica a Milano è stata realizzata nel cimitero di Lambrate solo nel 1982, mentre l’area all’interno del cimitero di Bruzzano risale al 1995. Cimitero degli Acattolici Fino all’apertura del loro spazio al Monumentale, i cristiani non cattolici venivano sepolti nel Cimitero 101


Luigi Secchi, Dolore, Monumento Otto Joel

tengono di diritto a defunti del Riparto Esterno di Ponente, come il pittore Renato Birolli e l’editore Arnoldo Mondadori. All’interno si trova la sala per i funerali laici, da poco restaurata. Un altro accesso è possibile da una scalinata che scende dietro all’Edicola Alberto Keller dalla Galleria Superiore. Il riparto è diviso in quattro campi regolari allineati, di diverse dimensioni, che ospitano tombe, monumenti, edicole. L’Edicola di Alberto Keller di Kellerer, disegnata da Carlo Maciachini nel 1875, occupa la posizione centrale. Keller fu il primo defunto a essere cremato in Italia, nel 1876, nel Tempio Crematorio del Monumentale. Alle spalle e a destra dell’Edicola Keller un grande Angelo custode del sepolcro in marmo bianco, tipica scultura solenne di Giannino Castiglioni, veglia assorta la tomba della famiglia Fontana Roux, impugnando uno spadone medievale a difesa dei suoi morti. A sinistra troviamo un piccolo obelisco barocco in granito e bronzo realizzato per Federico Mylius, un pioniere nell’industria della seta in Lombardia – seppur tedesco – che fondò una Scuola di Chimica all’interno della Società di Incoraggiamento delle Arti e dei Mestieri. Il suo vicino è uno svizzero di origine francese importante e laborioso. Si tratta di Jules Richard, fondatore della fabbrica di ceramiche che nel 1896, in seguito alla fusione con le settecentesche Manifatture Ginori di proprietà del barone Doccia, divenne la celeberrima ditta Richard Ginori, produttrice di oggetti pregiati di porcellana di cui molti, negli anni Trenta, realizzati su disegno di Gio Ponti e di Fausto Melotti. Nel vialetto parallelo a quello centrale, a sinistra, ci sono due tombe di estremo interesse, per motivi diversi. La prima è quella dell’agiata famiglia tedesca di origine ebraica Joel. Su una lastra di marmo di Cando-

glia una figura femminile simboleggia il Dolore in uno stile liberty particolarmente morbido e sensuale. Otto Joel si convertì alla religione protestante per amore di Elisabeth Kitt, figlia del pastore Heinrich Kitt, capo della comunità evangelica di Bergamo. Nel 1894 fondò con Federico Weil, cugino del banchiere Weill-Schott sepolto ai Giardini Cinerari di Levante, la Banca Commerciale Italiana di cui fu, tra il 1894 e il 1908, direttore centrale e successivamente amministratore delegato. Nel 1914-1915 entrambi dovettero lasciare, uno dopo l’altro, le loro importanti cariche per via delle loro origini tedesche, incompatibili con il clima nazionalistico conseguente alla partecipazione italiana al primo conflitto mondiale, e vennero sostituiti da Giuseppe Toeplitz e da Pietro Fenoglio. La testa neoegizia di un’alta scultura in marmo di Carrara dal titolo Enigma ha un’espressione misteriosa che fa pensare al famoso quesito di Edipo. Il grande corpo androgino ha forme classiche e maestose ridi102


Armando Violi, Enigma, Monumento Eberhard

dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Doveva apprezzare molto, nonostante fosse un acceso sostenitore del restauro conservativo, gli stili nuovi e di rottura se premiò quello chiamato, non senza ironia, «assiro-milanese» di Stacchini per una delle opere più importanti della nuova Milano che si andava progettando ed edificando. Al Monumentale Stacchini firma le edicole Pinardi e Beaux. Un altro defunto davvero speciale è lo svizzero Ulrico Hoepli sepolto vicino alla moglie Elsa Haberlin sotto un enorme libro aperto appoggiato, da Adolfo Wildt, su un leggio. Sulle due grandi pagine di marmo possiamo leggere frasi di sant’Ambrogio e di Leonardo da Vinci. La sua storia è una di quelle emblematiche di chi, partito dal nulla, ha creato un impero. Il piccolo Ulrico nacque nel 1847 da una famiglia contadina nel villaggio di Tuttwil, nel Canton Turgovia, e a quindici anni andò a lavorare a Zurigo come garzone dal libraio Schabelitz; quindi vagabondò da Magonza a Trieste e a Breslavia finchè approdò al Cairo, dove fu incaricato dal kedivè d’Egitto di riordinare la biblioteca. In seguito, con grande capacità imprenditoriale, rilevò per corrispondenza la libreria di Theodor Laengner a Milano nella Galleria De Cristoforis, che divenne un punto di riferimento della borghesia colta della città che lì trovava preziosi libri di antiquariato ma anche testi scientifici e tecnici in tutte le principali lingue europee, che spaziavano dalla letteratura bizantina alla cura delle malattie mentali. Fondò poi la Casa Editrice Hoepli che esordì con una piccola grammatica francese per poi passare a una collana di manuali, neologismo che il capace Ulrico derivò dall’inglese handbook, cominciando con quello del Tintore fino a quello che resterà il più famoso, Il manuale dell’ingegnere di Giovanni Giuseppe Colombo che arrivò a 84 edizioni. Fu lui che realizzò la prima rivista di viaggi «La prima metà

segnate geometricamente in stile déco. La sepoltura è quella della famiglia di origine svizzera proprietaria in via Dante n. 2 della famosa Orologeria Eberhard che aveva la migliore clientela di tutta Milano. L’autore, Armando Violi, è lo stesso che realizzò, ispirandosi a Pegaso, due sculture per la facciata della nuova Stazione Centrale che hanno grande affinità stilistica con quest’opera funeraria. Si tratta di due cavalli alati alti otto metri che rappresentano Il progresso guidato dall’intelligenza e Il progresso guidato dalla volontà, collocati a 35 metri di altezza. «La Centrale», come la chiamano i milanesi, fu progettata da Ulisse Stacchini sul modello della Union Station di Washington. Il suo progetto uscì vincitore dalla gara del 1911 ed è interessante notare che il presidente della Commissione giudicante era di nuovo, quarantotto anni dopo, l’architetto Camillo Boito, lo stesso che scelse per il Monumentale il progetto di Maciachini e che era allora il preside 103


L’ Ecce puer nello studio di Medardo Rosso

Foto della libreria Hoepli negli anni Trenta

A fronte: Medardo Rosso all’opera

del mondo vista dal finestrino dell’auto» di Luigi Barzini. Pubblicò anche una riproduzione del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci e la monumentale Storia dell’arte italiana, fondò la Biblioteca Pubblica Ulrico Hoepli e donò alla città il Planetario, incaricando del progetto Piero Portaluppi che lo ultimò nel 1930. Probabilmente per questo gli venne dedicato l’asteroide 8111. Percorso il vialetto tra i monumenti Joel ed Eberhard si arriva alla stele di granito sulla tomba di Medardo Rosso, che ospita in una nicchia la testa, opera del defunto stesso, del piccolo Alfred William Mond. Medardo la realizzò nel 1906 durante una visita a Londra a casa di Ludwig, padre del bimbo, un geniale industriale chimico nato in una famiglia ebrea di Kassel che era un suo collezionista e che acquistò una grande quantità di importanti opere di Old Masters che lasciò per testamento alla National Gallery di Londra. Tra questi, molti italiani di altissimo pregio come Tiziano, Raffaello, Dosso Dossi, Palma il Vecchio. Un biografo di Medardo ha scritto in merito alla

creazione di quest’opera: «Una sera c’era stato un ricevimento e la sala era piena di ospiti eleganti. La tenda era aperta un po’ e a un tratto un bambino guardò dentro, le labbra aperte di sorpresa, poi si ritirò. Medardo corse alla sua stanza, lavorò tutta la notte fino al giorno dopo per completare la testa. Lo trovarono sul divano con i vestiti serali indosso». Medardo Rosso è uno dei grandi innovatori della scultura non solo italiana. Fin dagli inizi della sua carriera enunciò il suo principio ispiratore con queste parole: «A me, nell’arte, interessa soprattutto far dimenticare la materia». 104


E ci riuscì, contaminando con quell’idea gli esordi di Ernesto Bazzaro e di Enrico Butti, due autori importantissimi per il Monumentale, anche se poi entrambi maturarono uno stile a seconda delle opere più realista o più simbolista, mentre Medardo rimase fino alla fine fedele alla sua ispirazione iniziale. Nelle sue sculture il soggetto si fonde con l’ambiente circostante attraverso l’abolizione dei contorni e le figure appaiono incompiute, quasi senza forma, animate solo dalla luce e dalle ombre, e questa è sicuramente la principale particolarità del suo stile impressionista che, per l’epoca, era una grande novità.

Eccelleva nei ritratti di bambini tra i quali ricordiamo Bambina che ride, Bambino malato, Bambino ebreo, Bambino alle cucine economiche e diverse versioni dell’Ecce puer, anche in marmo e cera. Di lui qualcuno scrisse che le sue sculture erano destinate a «un secolo che le avrebbe capite». E Auguste Rodin, l’altro gigante del scultura europea del XIX secolo, nonostante i furiosi litigi riconobbe che la sua arte non sarebbe mai esistita se non avesse incontrato Medardo. Nato a Torino, studiò all’Accademia di Brera, dalla quale fu espulso nel 1883 per il suo comportamento 105


insofferente e ribelle a un insegnamento che considerava troppo antiquato rispetto alle correnti moderne che si andavano affermando. Fu allora che si accostò alla scapigliatura. Fu Carlo Righetti, avvocato di professione e scrittore per passione con lo pseudonimo di Cletto Arrighi, che inventò questo termine, dando al suo romanzo il titolo La scapigliatura e il 6 febbrajo. Il gruppo era formato da artisti, letterati, musicisti, giornalisti, reduci delle guerre di indipendenza, rampolli di facoltose famiglie borghesi che avevano scelto di far saltare tutti gli schemi convenzionali nell’arte e nella vita, a partire dall’abbigliamento e dai lunghi capelli scarmigliati. Erano giovani, eccentrici, ribelli, anticonformisti, antiaccademici, insofferenti al buonsenso borghese e a tutta la cultura ufficiale romantica e risorgimentale ma, pur essendo degli individualisti, non erano affatto indifferenti alla questione sociale che spesso è al centro delle loro opere. Bevevano vino e assenzio, a imitazione dei poeti maledetti francesi che erano i loro idoli, Baudelaire e Rimbaud in prima fila, ma erano anche dotati di una notevole ironia. Amavano l’esoterismo, l’erotismo e i cimiteri ma parlavano tra loro in dialetto, giocavano a bocce e si trovavano dal Polpetta, una folcloristica osteria-trattoria in zona Monforte. Frequentavano anche l’Osteria dell’Ortaglia, che aveva sede nel parco del palazzo dove ora si trova l’Istituto dei Ciechi, in via Vivaio, e che allora era la residenza dei conti Cicogna, o la Cassina de’ Pomm, amata anche da Carlo Porta e da Stendhal. Anche il Bar Hagy, in piazza Duomo, frequentato da Stendhal e da Foscolo, li vedeva spesso ai suoi tavoli. Ovviamente erano antimilitaristi e anticlericali e disprezzavano i droghieri e i banchieri che, secondo loro, avevano preso il potere dopo l’Unità d’Italia. Erano gli anni tra il 1860 e il 1890 e il loro modello era la vie de Bohème parigina descritta nel romanzo di Henri Murger che diede nome a quel modo di

vivere disordinato e anticonvenzionale, spinto da alcuni al confine con la dissolutezza. La scapigliatura non fu però mai un vero e proprio movimento organizzato bensì una specie di crocevia intellettuale con il fulcro a Milano e in Lombardia, nel quale confluì l’esigenza di rinnovare il clima artistico e culturale italiano sottraendolo al provincialismo e al moralismo dell’epoca e che aprì la strada in tutti i campi, alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, a nuove forme espressive tra le quali anche il futurismo di cui anticipò molti aspetti tranne, ovviamente, quello guerresco. Coinvolse personaggi di primo piano tra cui i letterati Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Giuseppe Rovani e Carlo Pisani Dossi e, oltre a Medardo, gli scultori Giuseppe Grandi, Paolo Troubetzkoy, i già citati Ernesto Bazzaro ed Enrico Butti, i pittori Tranquillo Cremona, Filippo Carcano e Mosè Bianchi, i musicisti Alfredo Catalani, Amilcare Ponchielli e Arrigo Boito e, ancora, Giovanni Camerana, figlio «degenere» di una grande famiglia, e il critico Felice Cameroni. Molti di loro morirono devastati dal loro stile di vita. Alcuni alcolizzati, come Rovani e Praga che sembra sia crollato proprio su un tavolo della loro trattoria preferita; altri suicidi come il Camerana; altri ancora in miseria, in manicomio o malati di tisi. Tranquillo Cremona morì avvelenato dai colori che mescolava sulla sua pelle come se fosse una tavolozza. Altri ebbero sorte assai più fausta, come Arrigo Boito, compositore e librettista dell’Otello e del Falstaff di Giuseppe Verdi, e Carlo Pisani Dossi, scrittore, diplomatico e archeologo. Molti di loro sono sepolti in diverse zone del Monumentale, alcuni al Famedio. Cimitero degli Israeliti 1872 In anni lontani, fuori Porta Tenaglia dove ora c’è il civico 3 di via Bramante esisteva un piccolo campo106


Disegno Maciachini, Pianta del Cimitero degli Israeliti

santo di cui si sono perse le tracce e di cui si ignora l’anno di creazione. Dal 1809 al 1895 i defunti israeliti furono inumati nel Camposanto di Porta Vercellina che restò pienamente attivo fino al 1872, quando si aprì lo spazio riservato presso il Monumentale, ma che continuò a funzionare, principalmente per i bambini, fino al 1895, quando si inaugurò il Campo VIII a Musocco. Tra il 5 marzo 1938 e il 9 giugno 1939 a cavallo dell’emanazione delle leggi razziali fasciste, fu invece costruito il Cimitero Ebraico fuori dal recin-

to di Musocco, seppur in contiguità con questo. La storia del Cimitero degli Israeliti, che fu approvato contestualmente al resto del Recinto Maciachini il 23 dicembre 1866, può essere ricostruita attraverso i documenti dell’Archivio Civico di Milano. Il 29 ottobre 1870 avviene la presentazione alla Giunta municipale «dei tipi, dei disegni, dei dettagli e del capitolato». Maciachini si premura subito di informare che sarà necessario demolire la Cascina Villetta che si trova nello spazio destinato. Il 7 febbraio 1871 l’architetto consegna il fascicolo 107


Manifesto del bando di appalto del 25 aprile 1871 per il Cimitero degli Israeliti

All’ingresso del cimitero viene eretta una grande edicola centrale a pianta rettangolare con due absidi, inizialmente pensata come semplice padiglione di ingresso e ora invece usata dalla comunità ebraica milanese, che gestisce il cimitero, come sala per le celebrazioni e le funzioni. Le tavole di Mosè che decorano la facciata sono in pietra di Rezzato, la porta è in pietra di Breno e Valcamonica, i cordoli sono in pietra di Sarnico, gli zoccoli in granito serizzo, gli zoccoli di base dei colombari in nero di Ascona. Nel 1913 avviene un primo ampliamento, un secondo negli anni Venti, un terzo nel 1932 quando si costruiscono i colombari di Ponente. Nel 2015 il piccolo edificio è stato arricchito da vetrate a cattedrale, ispirate a disegni di Marc Chagall, realizzate dall’architetto e artista Diego Pennacchi Ardemagni e donate dalla famiglia Sabbadini Eskenazy. Sono stati usati vetri soffiati all’uso antico, realizzati dai Laboratori Lambert di Francoforte. Le vetrate policrome dai colori brillanti rappresentano figure simboliche tra cui Menorah, Tavole della Legge, fiori, pesci, uccelli e stelle che si stagliano su paesaggi stilizzati e riportano in alto i nomi dei figli maschi di Giacobbe, che diedero origine alle dodici tribù di Israele. All’interno è conservato un prezioso seggio rabbinico in legno con scritte ebraiche in bronzo, disegnato da Mario Quadrelli per la famiglia Pisa. Il Cimitero degli Israeliti dispone di due campi comuni destinati ai bambini, con semplici lapidi tutte uguali consunte e illeggibili, intorno alle quali sono distribuite le tombe e le edicole di famiglia. L’alternanza di stili appartenenti alle diverse epoche artistiche, dal verismo tardoromantico al modernismo, e la presenza di elementi decorativi caratteristici del simbolismo ebraico vicino ad altri di gusto esotico testimoniano come «nel corso del XIX secolo i simboli della cultura ebraica si siano intrecciati con quelli della società civile in un lento processo di assi-

progettuale con mappe e disegni e il preventivo di L. 57.568,12 di cui 26.089,75 per le spese murarie e 31.478,37 per le opere in pietra. Il 25 aprile 1871 viene pubblicato con affissione pubblica il bando per l’appalto di costruzione, vinto dalla ditta Castelli, che firma il contratto il 22 giugno dello stesso anno. Il 29 ottobre viene presentato il prospetto delle diverse pietre da taglio occorrenti con i dettagli, le quantità e i prezzi, il che testimonia la grande abilità di Maciachini nella scelta dei materiali. L’appalto per la fornitura delle pietre è vinto dalla ditta Pietro Carminati. 108


Disegno del seggio per l’Edicola Pisa

milazione e di integrazione. Appare quindi evidente da un lato il contributo fornito dai membri della comunità alla vita della città, dall’altro come la fattura delle opere si allontani spesso dall’ortodossia ebraica riecheggiando invece modelli cristiani» (Rony Hamaui, Ebrei a Milano, Il Mulino, Bologna 2016). La tradizione anti-iconica ebraica non prevede infatti la riproduzione di volti dei defunti o di persone a loro vicine, come invece avviene in molte delle sepolture qui presenti. Fu Alessandro Elishà da Fano (Firenze 1847 - Milano 1935), rabbino dal 1892 al 1935, preoccupato dalla scarsa affluenza in sinagoga e dai numerosi segni di crisi culturale degli ebrei milanesi, ad assecondare la richiesta di coniugare modernità e tradizione e promuovere la presenza di statue e loculi nell’ala israelitica del Cimitero Monumentale, non previsti dall’ortodossia ebraica. Molto più semplice e più aderente ai canoni di quella religione è il Campo VIII del Cimitero di Musocco. Tra le edicole di maggior pregio ricordiamo per prima la centralissima costruzione neogotica per Leon Davide Levi, banchiere e cambiavalute mantovano, allo spazio 8. Candida, alta e slanciata, con pinnacoli, cuspidi e archi è opera dell’architetto Enrico Balossi Merlo ed è sorretta da ponteggi perché pericolante. Alla sua sinistra troviamo opere di grande interesse a cominciare dall’Edicola Pisa di Carlo Maciachini. Ugo Pisa, garibaldino, banchiere, senatore e benefattore, fondò nel 1883 il Patronato per gli infortuni sul lavoro e divenne, nel 1892, presidente della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Milano. La sua edicola è in uno stile vagamente mediorientale soprattutto nel motivo del rosone. Alle sue spalle, ecco il tempietto della famiglia Segre che nella parte superiore ha quattro grandi Menorah, i candelabri a sette braccia tipicamente ebraici. È opera di Luigi Conconi, un importante architetto, pittore, incisore ed esponente della scapigliatura

milanese, forse a tutt’oggi non ancora degnamente riconosciuto, progettista dell’allora innovativo, per forma e materiali, palazzo di via Dante n. 8. Quasi di fronte, a sinistra, si trova l’Edicola Vitali, opera dell’architetto Giovanni Ceruti, progettista dell’Esposizione Nazionale del 1881, nonché del Museo di Storia Naturale ai Giardini di via Palestro. La costruzione, orientaleggiante, ha una parte inferiore che funge da basamento e si raccorda tramite un piccolo colonnato a una torre, il tutto in pietra a fasce chiare e scure alternate. Sul portale una lunetta a mosaico su sfondo oro. Una piccola ma splendida edicola di marmo di 109


Ettore Ximenes, Edicola Treves, particolare

Carrara ricorda i fratelli Treves, figli del rabbino Sabato Graziadio e animatori della vita intellettuale della loro epoca, che iniziarono la loro attività con una tipografia che poi divenne una rilevante casa editrice. Un altorilievo del 1906 dello scultore siciliano Ettore Ximenes, lo stesso che realizzò il Monumento equestre a Garibaldi in largo Cairoli, ripercorre la vita di Giuseppe e della moglie Virginia Dolci Tedeschi, la scrittrice Cordelia, circondati da amici come Gabriele D’Annunzio, Edmondo De Amicis e Giuseppe Verga. Sui lati sono raffigurati momenti

del lavoro di riproduzione e di stampa nello stabilimento. Una ricca decorazione floreale circonda l’ingresso della cappella e ravviva la parte superiore a forma di sarcofago. Sul muro di cinta occidentale sono murati i colombari della famiglia Levi Minzi. La famiglia De Benedetti ha trovato pace eterna in una piccola e compatta edicola liberty il cui autore è l’architetto Giovanni Battista Bossi, che in città ha realizzato quel capolavoro di Casa Galimberti (1903-1905) in via Malpighi n. 3, completamente ricoperta di piastrelle con figure femminili e motivi 110


Ettore Ximenes, Edicola Treves, particolare

Adolfo Wildt, testa di Cesare Sarfatti

floreali in stile liberty disegnati da lui stesso, e al n. 12 della stessa via la Casa Guazzoni (1905). La nostra vecchia conoscenza Carlo Maciachini ha pensato per il barone Davide Leonino un quadriportico in marmo posto su un basamento a scalini in granito grigio dal quale si scende nella cripta. Lo stile è un lineare neoegizio che si nota soprattutto nei capitelli e nelle decorazioni a fior di loto e foglie di papiro. L’avvocato penalista Cesare Sarfatti, che fu prima socialista e poi seguace di Mussolini nonché marito della mitica Margherita – critica d’arte, giornalista

e intellettuale –, ha un sepoltura molto semplice, decorata solo da un candelabro ebraico di Adolfo Widlt, del quale sono peraltro riconoscibili alcuni stilemi nella parte in pietra. Due semplici lastroni gemelli di marmo riportano i nomi e le date fatidiche di Anna Tedeschi e del marito Moisè Loria, fondatore della Società Umanitaria, nata con la missione di «aiutare i diseredati a rilevarsi da sé medesimi, procurando loro assistenza, lavoro ed istruzione». L’epigrafe di Moisè è singolare perché dichiara che «VOLLE AUTOPSIA E CREMAZIONE, UTILE USANZA». Stra111


Tomba della famiglia Pavia, Menorah

L’Edicola Jarach di Manfredo D’Urbino, in travertino etrusco e di forma compatta con rimandi déco, fu costruita su commissione di Federico Jarach, industriale del settore meccanico e metallurgico, presidente della comunità ebraica e comandante di Marina. Jarach fu molto vicino al fascismo fino alle leggi razziali del 1938 che misero d’accordo tutta la comunità prima divisa su due fronti opposti. Per finire questa breve panoramica, che meriterebbe di essere più estesa, ricordiamo il Monumento Mizrahi che celebra sette esponenti della famiglia Fernandez Diaz trucidati a Meina, le cui salme vennero gettate nelle acque del Lago Maggiore il 22 e 23 settembre del 1943. All’Hotel Meina, infatti, di proprietà della famiglia turca Behar, che si salvò perché ospitava il console, fu compiuta una delle prime stragi di civili in Italia dopo l’armistizio. Il 15 settembre 1943 le SS si presentarono all’albergo dopo essere stati avvisati della presenza di ebrei. Erano giovanissimi e spietati soldati nazisti della 1ª Divisione Panzer SS «Leibstandarte SS Adolf Hitler» appena tornati dalla Russia. Dopo avere occupato l’hotel individuarono gli ospiti ebrei e li rinchiusero all’ultimo piano. Il 22 sera dopo cena li trasferirono ma la loro destinazione fu chiara solo il mattino del 23 settembre. Erano stati infatti portati poco lontano, alla casa cantoniera di Pontecchio, dove erano stati fucilati e gettati nel lago con sassi legati al collo per impedirne il riaffioramento, che invece avvenne rivelando agli abitanti di Meina l’orrenda verità. Non ancora sazi di atrocità, le SS raggiunsero i cadaveri con una barca e li colpirono con le baionette per affondarli in modo definitivo. I Behar si costituirono parte civile nel processo contro i cinque maggiori responsabili dell’eccidio – i capitani delle SS Hans Roewher, Hans Krueger, Herbert Schnelle e i sottufficiali Ludwig Leithe e Oskar Schultz – che si svolse a Osnabrück, in Germania, fra il gennaio 1968 e il luglio 1969: dopo sessantuno udienze

no, visto che la religione ebraica condanna entrambe le pratiche! A est il monumento più importante è quello ai Martiri Israeliti del nazismo, dell’architetto Manfredo D’Urbino, costruito a cura della comunità ebraica. Su una grande Menorah in marmo scuro la fiamma della libertà arde in memoria di dodici vittime, ricordate da altrettante lapidi. L’Edicola Foligno si trova posteriormente all’edificio delle cerimonie. È opera dell’architetto Cesare Mazzocchi e dell’ingegnere Luigi, suo padre, progettista con Enrico Brotti alla fine dell’Ottocento del Cimitero di Musocco. Le sottili decorazioni sul marmo chiaro riprendono il consueto candelabro appaiato a crisantemi e a nastri di gusto liberty con richiami orientaleggianti. La parte architettonica dell’Edicola Goldfinger è dell’architetto Luigi Perrone, che nel 1906 ha progettato il Circolo Filologico in via Clerici, la più antica associazione culturale di Milano, e il portale in bronzo, realizzato da Giannino Castiglioni, è un fitto traforo che dà vita a un albero di melograno, simbolo ebraico di abbondanza. 112


Eccidio di Meina, da «La Stampa» del 17 gennaio 1968

e l’escussione di centottanta testi, gli imputati furono condannati: gli ufficiali all’ergastolo e i due sottufficiali a pene minori. Ricorsero in appello e il 17 aprile 1970 la Corte Suprema di Berlino li scagionò con l’incredibile motivazione che i reati erano caduti in prescrizione. In Italia non fu mai fatto un processo e quei sedici morti non ebbero mai giustizia. Potete trovare tutta la vicenda nei libri di Marco Nozza, Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia (Mondadori, Milano 1993), in La strage dimenticata. Meina settembre 1943. Il primo eccidio di ebrei in Italia (Interlinea) e nel film che ne trasse Carlo Lizzani nel 2007. Rebecca Behar, detta «Beky Behar», scrisse un diario e passò la sua vita nelle scuole a raccontare ai giovani l’orrore di quell’eccidio. Morì nel 2009 mentre si recava a una conferenza della figlia ed è sepolta a Musocco. Ricordiamo alcuni altri sepolti che hanno lasciato una traccia nella storia di Milano. Salomone Mayer, detto «Sally» (la sua tomba porta la firma di Manfredo D’Urbino), industriale della carta, primo presidente della comunità dopo la guerra. Si prodigò nell’assistenza ai profughi, nella ricostruzione del Tempio di via Guastalla, della scuola di via Eupili e della casa di riposo di via Jommelli. Con lui il figlio Astorre, acceso sionista, che promosse la nascita di un importante quartiere ebraico tra piazza Bande Nere e via Lorenteggio, dove sono nati ed esistono tuttora una grande scuola, diverse sinagoghe e molti negozi kosher. Eugenio Colorni (la cappella di famiglia è nel muro di cinta verso il cimitero cattolico), filosofo, politico socialista e antifascista, uno dei massimi promotori del federalismo europeo, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi partecipò alla scrittura del Manifesto di Ventotene di cui curò l’introduzione e la pubblicazione. Il 28 maggio 1944, pochi giorni prima della liberazione di Roma, venne fermato da una pattuglia di militi della banda Koch: tentò di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all’Ospedale San Giovanni, morì

il 30 maggio sotto la falsa identità di Franco Tanzi. Nel 1946 fu conferita alla sua memoria la Medaglia d’oro al valor militare. Sulla tomba di Giovanni Norsa, che insieme al fratello fondò un importante opificio, un’anima si innalza in volo: di Giulio Branca, è una delle più poetiche di tutto il cimitero. I banchieri Weill-Schott e Toeplitz, pur essendo di origine ebraica, sono invece sepolti all’interno del Recinto Maciachini, il primo ai Giardini Cinerari di Ponente, protetto da una sfinge di Enrico Butti, l’altro al Riparto IX. La Banca Figli Weill-Schott fu molto attiva nella gestione dei patrimoni e proprietaria del palazzo in via Sant’Andrea n. 6 dove oggi hanno sede il Museo di Milano e la collezione Costume Moda Immagine. Al museo è esposta la collezione d’arte donata dalla duchessa Eugenia Litta Visconti Arese, nata Attendolo Bolognini, all’Ospedale Maggiore di Milano comprendente la famosa Preghiera del Mattino, scultura romantica di Vincenzo Vela, autore molto presente al Monumentale. Jósef Leopold Toeplitz, banchiere polacco naturaliz113


Vincenzo Vela, Preghiera del mattino, Museo di Milano

zato italiano, fu amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana che sviluppò fino a renderla la maggiore holding industriale italiana dell’epoca. Nato a Varsavia da una ricca famiglia borghese ebraica, si convertì per amore della moglie alla religione protestante. Nel 2015 Michele Sacerdoti, ambientalista militante ed ex consigliere di zona, ha censito tutte le sepolture del Riparto Israeliti del Cimitero Monumentale di Milano. Così lo racconta.

Il censimento di Michele Sacerdoti

Cosa mi ha spinto a censire le 1.778 sepolture del Riparto Israeliti del Cimitero Monumentale di Milano? Da quando sono piccolo frequento questo cimitero perché vi sono sepolti i miei genitori, i nonni, i prozii, i bisnonni, due fratelli di mio bisnonno, una trisnonna. Mi sono sempre domandato chi fossero gli altri sepolti accanto ai miei parenti, a parte alcuni amici di famiglia. Di qui l’idea di fare un censimento di tutte le sepolture con fotografie per conservare la memoria di monumenti che con gli anni si stanno deteriorando, in assenza di discendenti che se ne occupino. E così nell’aprile 2015 ho cominciato partendo da quelle più vicine ai miei cari, trascrivendo i dati anagrafici dedotti dalle epigrafi. L’Archivio del cimitero mi ha concesso di fotografare le planimetrie del cimitero e di accedere alla documentazione delle edicole chiuse per poter sapere chi era sepolto all’interno. L’applicazione Not24get, resa disponibile dal Comune dalla fine dello scorso anno, mi ha consentito di trovare molte date di morte che non erano più leggibili. Dal libro di Giovanna Ginex e Ornella Selvafolta, Il Cimitero Monumentale di Milano (Silvana Editoriale, Milano 1999) ho potuto estrarre i nomi degli architetti e scultori delle sepolture più importanti dal punto di vista artistico. Conoscevo già la tomba De Benedetti progettata dall’architetto Giovan Battista Bossi perché è lo stesso dell’edificio liberty in cui abito in via Malpighi 12. Non so quante volte sono tornato al cimitero per fotografare le sepolture e poter decifrare nomi e date. Questo ha implicato anche ripulire alcune tombe della vegetazione che le aveva coperte e salire sulle scale a castello per raggiungere i colombari più alti. Il clima è passato dalle giornate più fredde dell’inverno alle più torride dell’estate, dai fiori del giorno dei morti, alle foglie cadute dagli alberi. L’atmosfera del cimitero mi ha pienamente coinvolto e ho sentito intorno a me la presenza delle anime che volevano essere ricordate. E quando tornavo a casa cerca-


Cimitero degli Israeliti, campo comune

Edicola Leon David Levi

vo notizie su ognuno di loro, memorizzati sugli alberi genealogici, sul web, negli studi del prof. Germano Maifreda dell’Università Statale sulla comunità ebraica di Milano nel periodo austro-ungarico. E ho scoperto personaggi interessanti che mi erano sconosciuti. Ne è uscito un ritratto di tutta la comunità ebraica milanese in quanto questo è stato il più importante cimitero ebraico fino alla Seconda guerra mondiale. Oggi non si seppellisce più quasi nessuno ma è rimasto un museo a cielo aperto, ricco di arte e di storia. I tre campi comuni nella parte più antica, con le piccole pietre in fila in mezzo al prato, come i cimiteri militari anglosassoni, sono la parte che amo di più. Ho dovuto sedermi sul prato per fotografarle e ho recuperato frammenti sepolti dall’erba, con nome e cognome del defunto. Il campo centrale è quello dei bambini morti tra il 1873 e il 1894. Più proseguivo con il censimento, che non finiva mai, e più sentivo che dovevo completarlo per le future generazioni. Ho risolto alcuni misteri, come la tomba

più alta e ricca del cimitero in stile neogotico transennata da anni per il rischio di crollo e la mancanza di eredi che possano restaurarla. Vi erano sepolti il ricco banchiere Leon David Levi, nato a Mantova nel 1819 e morto a Milano nel 1882, la moglie, i genitori, i fratelli. Quando l’edicola divenne pericolante nel 1962 i resti furono trasferiti in un ossario. La particolarità dei cimiteri ebraici è che le sepolture sono perpetue e quindi tutto viene conservato com’era. Non è chiaro chi dovrà occuparsi del restauro delle sepolture in mancanza di discendenti. E una volta finito il censimento mi sono posto il problema di cosa farne. Tra i tanti siti ho individuato www. jewishgen.org che censisce un gran numero di cimiteri ebraici nel mondo. Dopo un notevole lavoro di allineamento dei dati ai loro standard le sepolture sono state caricate il 18 giugno 2016. Il sito consente di registrarsi gratuitamente e trovare i dati e le fotografie delle sepolture interrogando per nome e cognome. 115


Planimetria originale con campo bambini 116


Il Recinto Maciachini

Enrico Pancera, Monumento Carla Pauly

La costruzione principale che introduce all’interno del Recinto Maciachini fu pensata a suo tempo come traguardo prospettico della città, in fondo al viale che ora si chiama Ceresio e in linea d’aria con il Duomo, da cui lo separa una linea retta lunga 2.500 metri. Intorno, il vuoto. I 180.000 metri quadri di terreno destinati al cimitero dal sindaco Beretta e dalla sua giunta si trovano alle spalle di questo edificio bislungo. La planimetria originale ha uno schema costruttivo molto semplice, dato dall’incrocio di un asse principale con numerosi assi secondari paralleli e ortogonali, che creano una scacchiera dentro la quale sono collocati gli edifici e le varie tipologie di sepolture. Un impianto di tipo urbanistico a lotti che ricalca in miniatura quello della «grande città». Nei punti di incontro dei viali Maciachini ritagliò, al centro di piazzali arricchiti con panchine e fontanelle, lo spazio per maestosi seppur piccoli edifici, attualmente le edicole Brambilla, Falck, Moretti, Chiesa. Il progettista aveva previsto anche un vasto campo dedicato ai bambini che non fu mai realizzato. Le costruzioni più importanti, sono l’Ossario Centrale che introduce alla Necropoli ottagonale, cuore del cimitero, e il Tempio Crematorio, affiancato dai Giardini Cinerari. Sono tutte collocate sul Viale Centrale, lungo 625 metri, che lo divide nelle due grandi aree di Levante e Ponente e che ha inizio dal Piazzale Centrale sul retro del Famedio e dall’Emiciclo in esso collocato. Ai confini con la recinzione sia a est che a ovest sono stati costruiti i Rialzati A e B, sopraelevati di un metro rispetto al piano di base, e i Circondanti, sottili fasce perimetrali, collocate alla stessa altezza, che restringono il terreno dando al cimitero la forma di una nave con una larga poppa a sud e una stretta prua a nord. Lo spazio restante è occupato da sedici Riparti, otto per parte, indicati ognuno con cippi in pietra di Sar-

nico. L’abbreviazione di Riparto in RIP curiosamente è l’acronimo di requiescat in pacem. Negli anni Venti sono stati realizzati due Riparti C, speculari e identici, davanti alle Gallerie Esterne: due piccoli giardini che accolgono monumenti di media grandezza. A Ponente si possono ammirare una dolce madre con un bimbo morente, un panettiere vigoroso al lavoro, una tragica e disperata figura femminile, un angelo atletico, una studentessa in divisa. A Levante ecco La casa del sonno, in ricordo dei fratelli Bistoletti scomparsi a poca distanza l’uno dall’altro, una delicata e casta fanciulla dal viso so117


Marco Bisi, Monumento Arnaldo Luraschi

Francesco Atschko, detto Asco, Monumento Mauro Rota A fronte: Adolfo Wildt, La casa del sonno, Monumento Bistoletti

gnante, un’anima che si alza in volo spiegando ali di farfalla, un arcaico corteo funebre, una Deposizione con figure dolenti. La cittadella, che a nord si restringe convergendo verso il vertice dove si trova il Crematorio, è completamente circondata da un muro di cinta mistilineo in mattoni, le cui gallerie sono destinate ai colombari e alle cellette. Il Recinto ospita migliaia di sepolture, di cui piĂš o meno 18.000 corredate di monumenti di pregio e circa 1.500 importanti edicole (dal latino aedes, tempio, quindi tempietti), costruzioni in miniatura destinate a custodire le spoglie mortali di intere famiglie e chiamate cappelle solo laddove siano consacrate e vi si possa dire messa. Il grado di parentela per ospitarvi un defunto arrivava, e arriva tuttora, fino al sesto, ma da qualche tempo anche i conviventi possono essere tumulati vicino ai loro cari. Maciachini volle scegliere anche le piante del parco 118


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Armando Violi, interpretazione simbolica di un corteo funebre per il Monumento Pozzani

Planimetria attuale generale del Cimitero di Milano A fronte: Armando Violi, bassorilievo per il Monumento Massimo Croci

e posizionò subito al di là dei portici di ingresso grandi abeti argentati e magnolie del genere Picea abies, Picea pungens glauca e Magnolia grandiflora. Il Viale Centrale fino alla Necropoli fu affiancato da filari di Cedrus atlantica, di origine nordafricana. Dalla Necropoli al Tempio Crematorio, ecco i Taxus baccata dalle bacche velenose, potati in forme geometriche secondo l’arte topiaria particolarmente diffusa nel Rinascimento, sebbene di origine romana, e considerato l’albero della morte. Nei viali laterali troviamo il tiglio europeo, genere Tilia, che in autunno si tinge di sfumature gialle, creando un effetto «estate indiana». I Rialzati e i Circondanti sono caratterizzati dal Calocendrus recurrens. Molti esemplari, cresciuti a

dismisura, non hanno un bell’aspetto. Ci sono anche abeti rossi (rossa è la corteccia, e non sono altro che gli alberi di Natale!), il Fagus sylvatica pendula, il Salix, le tuie, i Chamaecyparis e il Prunus. E dietro al Monumento Ulisse Merini, al Riparto IV, ecco un bell’esemplare esotico, l’unico presente, di Cephalotaxus Harringtonia. Non ci sono cipressi, alberi cimiteriali per eccellenza. Si vede che al nostro amico Carlo non piacevano. Negli anni Venti e negli anni Ottanta sono poi stati aggiunti all’esterno del Recinto nuovi campi che hanno modificato la planimetria, privandola della sua simmetria. A nord-ovest sono stati annessi, sotto la guida dell’architetto Ranieri Arcaini, il Riparto Esterno e i Riparti 120


XVII, XVIII, XIX e XX, ottenuti demolendo in parte la

all’Ossario per ammirare il grandioso spettacolo simile a certe vedute dei parchi del Sei e del Settecento, che Maciachini dichiarò di voler evocare. L’eclettico architetto attinse per la sua creatura a modelli di ispirazione diversa ma sempre eccelsi e, infatti, le edicole del viale si fronteggiano come le tombe degli imperatori sull’Appia Antica, sempre stando alle intenzioni del progettista. Di fronte a ognuna sono posizionate tombe basse in doppia fila. Il grande spiazzo è occupato in gran parte dal Monumento ai Caduti nei campi di sterminio nazisti. Al centro di un’aiuola ben curata circondata da un cordolo di pietra, di fronte al portico della chiesa, è collocato un grande cubo formato da tubolari di

recinzione in mattoni e creando passaggi tra le edicole del Circondante e dietro l’Edicola Davide Campari. A est, al confine con la ferrovia, è stato edificato intorno al 1980 il Riparto Esterno di Levante. Infine, nel 1989 è stata inaugurata la Terrazza di Levante scoperta, in continuazione della Galleria Superiore di Levante. EMICICLO E VIALE CENTRALE Il loggiato che si trova sul retro del Famedio, esattamente sopra la chiesa, è un vero e proprio belvedere che consente di ammirare lo spiazzo sottostante e di spingere lo sguardo lungo il Viale Centrale fino 121


Viale dei Tigli

metallo verniciati di bianco che all’interno formano una croce greca, al centro della quale, su un ripiano all’altezza degli occhi dei visitatori, è appoggiata una gavetta. È avvolta nel filo spinato e contiene una manciata di terra di Mauthausen, con il preciso intento di ricordare ciò che ogni maledetto giorno accadeva nei lager tedeschi. Le facce esterne del cubo, nelle quali sono inserite due lastre di marmo di Candoglia bianco e due di granito nero di Svezia, sono suddivise in nove parti ciascuna, in base alla regola della proporzione aurea. Le lapidi riportano brani del Discorso della montagna dal Vangelo secondo Matteo. Nel prato, su sette lastre di granito, aggiunte nel 1961 su richiesta dei famigliari, sono incisi i nomi delle 847 vittime milanesi tra cui, per

volontà popolare, è stato inserito anche quello di Mafalda di Savoia, ferita a Buchenwald nel 1944 durante un bombardamento alleato e lasciata morire dissanguata per vendetta nei confronti della sua famiglia. È stato progettato dallo studio BBPR in una sola settimana e costruito con materiale recuperato tra le macerie nel 1945, quando il cimitero era ancora pesantemente danneggiato dai bombardamenti, e rispecchia, nel suo semplice rigore geometrico, il senso di un’etica profonda di cui, all’indomani della guerra e dell’olocausto, si sentivano profondamente il desiderio e la necessità. Poiché si deteriorò rapidamente, proprio per la fragilità dei tubi che lo componevano, venne riassem122


I «magnifici quattro» fondatori dello studio BBPR

Documento provvisorio di riconoscimento di Ludovico Barbiano di Belgiojoso durante la detenzione nel campo di concentramento Disegno della camera a gas nel campo di concentramento di Ludovico Barbiano di Belgiojoso

blato con alcune varianti nel 1950 e assunse la sua forma definitiva nel 1955. Lo studio BBPR, fondato nel 1932 dagli architetti razionalisti Gian Luigi Banfi detto «Giangio», Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti detto «Aurel», ed Ernesto Nathan Rogers fu a sua volta profondamente colpito perché i primi due furono deportati e, mentre Belgiojoso riuscì a salvarsi, Banfi morì a Gusen pochi giorni prima della fine del conflitto e fu sepolto all’inizio del Viale Centrale. Rogers, a sua volta, dovette fuggire per non essere internato. I «Bibipierre», come sono stati sempre chiamati da tutti anche dopo la scomparsa di Banfi, in città hanno progettato diversi edifici, ma la loro fama è legata, nel bene e nel male, alla Torre Velasca, del 1958, alta 106 metri, il cui nome deriva dal governatore spagnolo della Milano seicentesca, Juan Fernández de Velasco, per costruire la quale ci vollero 292 giorni, otto in meno del tempo stabilito dal contratto. Nelle intenzioni dei progettisti il grattacielo si collocava in rapporto armonico con l’assetto urbano della città, svettando insieme al Duomo e al Castello Sforzesco a cui fecero esplicito riferimento nella scelta dei colori e dei materiali, in una citazione contemporanea della Torre del Filarete.

Nonostante questo il quotidiano inglese «The Daily Telegraph» nel 2002 la inserì al primo posto nella lista degli edifici più brutti al mondo, scatenando dibattiti e polemiche. La restante parte del piazzale è occupata dall’Emiciclo, area in cui le sepolture sono disposte in un doppio anfiteatro che sembra accogliere i visitatori in un abbraccio, già anticipando le meraviglie che verranno. In ogni segmento le tombe sono collocate in doppia 123


fila, appoggiate di spalle le une alle altre e disposte a terra, per lasciar libera la grandiosa visione di tutto il cimitero. Dietro al semicerchio si trova una corona di sei edicole, progettate da artisti e architetti famosi, che fanno parte dei Riparti IV e V e che sono rivolte verso l’ingresso, schierate in modo da creare una quinta architettonica di grande impatto. Nella prima fila di Ponente è sepolto il capitano Carlo Bazzi, primo milanese a essere stato decorato con la Medaglia d’oro nella Grande Guerra, caduto nel 1916 a San Michele del Carso, la cui anima è stata simbolicamente rinchiusa in un’armatura di marmo a metà tra quella di un crociato e quella di un personaggio di Guerre stellari. L’ispirazione proviene dalla tomba rinascimentale di Gastone di Foix, del Bambaja, che si può visitare al Castello Sforzesco.

Uno dei sepolcri più importanti di questa zona è stato realizzato per Ermenegildo Castiglioni, filantropo e imprenditore. Una carola di putti di bronzo testimonia in forma allegorica gli ideali del defunto. Il bimbo in primo piano regge una croce, altri due si abbracciano felici e un quarto ne aiuta un altro a rialzarsi. Rappresentano la Fede, l’Amor fraterno e il Soccorso. Sotto di loro la bandiera sulla quale si intravvede il motto mazziniano «DIO E POPOLO». È opera di Ernesto Bazzaro, allievo come molti altri artisti del Monumentale dell’Accademia di Brera, fortemente influenzato dal suo maestro scapigliato Giuseppe Grandi e dal pittore Tranquillo Cremona. Il curioso destino di Bazzaro fu quello di suscitare sempre accesi dibattiti, quando non veri e propri scandali, come con le sculture del palazzo di corso 124


Ernesto Bazzaro, allegoria della Pace e dell’ Industria collocate sulla facciata di Palazzo Castiglioni in corso Venezia 47, ribattezzato Ca’ di Ciapp, e in seguito spostate a Palazzo Faccanoni in via Buonarroti n. 48

Motivazione della Medaglia d’oro al valor militare concessa al capitano Carlo Bazzi A fronte: Armando Violi, scultura per il Monumento Carlo Bazzi, particolare

Venezia n. 47, soprannominato la «Ca’ di Ciapp», di proprietà proprio di Ermenegildo Castiglioni. L’artista arricchì la facciata, progettata dal giovane e innovativo architetto Sommaruga sepolto nella Galleria Superiore di Ponente, con due figure femminili seminude e procaci, la Pace e l’Industria. Girate di schiena mostravano, ridendo, i grandi glutei, da cui il soprannome. I benpensanti autorevoli della città insorsero ottenendo di spostarle subito in posizione un po’ defilata e così furono sistemate sulla facciata laterale di Palazzo Faccanoni, in via Buonarroti, che era la casa dell’ingegner Romeo, fondatore della casa automobilistica, anche quella progettata dal Sommaruga, dove si trovano tuttora. Un doppio spazio è occupato da un’aggraziata figura candida con due ali gigantesche che si dispera con il

viso tra le mani in una posa di dolore senza speranza. Non si tratta esattamente di un angelo poiché, a quell’epoca, gli artisti rappresentavano la morte con caratteristiche ideali e simboliche ma senza far necessariamente riferimento a un’iconografia cristiana o religiosa in senso stretto. L’autore, Eugenio Pellini, è un indiscusso protagonista dell’epoca liberty. Per aver partecipato come manifestante alla rivolta per il caro prezzi sedata nel sangue dal generale Bava Beccaris, fuggì a Parigi dove anche lui entrò in contatto artistico con Rodin. Dietro all’Emiciclo sono schierate, come già detto, anch’esse in disposizione ellittica, sei edicole che è bene apprezzare sia come singole opere sia come straordinario insieme di rara armonia, pur nella diversità degli stili, dei materiali e delle dimensioni. Sono infatti monumenti notevoli tanto per l’impor125


Disegno per l’Edicola Pasquale Crespi

Disegno del Civico Mausoleo Palanti A fronte: I danni causati dal bombardamento nell’agosto 1943 Lo stesso luogo in una foto dell’agosto 2016

tanza delle famiglie a cui appartengono quanto per gli autori che le hanno realizzate. La prima a sinistra, spalle alla città, è l’Edicola Bonelli ex Riboni con il gruppo liberty in bronzo chiamato Gioie e dolori, un ultimo bacio appassionato tra due amanti che la morte sta separando, sotto gli occhi di un angelo che porge loro dei fiori. All’interno è sepolto Sergio Bonelli, figlio del creatore di Tex, Gianluigi, grande fumettista ed editore a sua volta. L’Edicola Dall’Ovo, a destra della precedente, ha una base di granito rosa di Baveno su cui tre figure femminili di classica eleganza in marmo di Candoglia rappresentano La Meditazione sul mistero della morte, Il Dolore muto e Il Pianto. Sono opera dello scultore Luigi Secchi, il cui capolavoro è il Monumento a Giuseppe Parini in piazza Cordusio. La terza, al confine con il Viale Centrale, è l’Edicola Crespi di Ernesto Bazzaro, nella quale l’influsso di Rodin è molto esplicito: fu commissionata da Pasquale Crespi, appartenente alla famiglia di cotonieri che edificò il villaggio operaio di Crespi d’Adda, per la moglie Paolina Sioli. Le altre tre edicole, sul lato opposto del viale, sono l’Edicola Squadrelli, il Civico Mausoleo Palanti e l’Edicola Branca.

La Squadrelli, la prima a destra del viale, è stata realizzata da Ernesto Bazzaro per l’architetto Romolo Squadrelli, progettista tra l’altro del Kursaal e del Grand Hotel di San Pellegrino Terme, e mette in scena la Risurrezione di Lazzaro. A destra della Squadrelli si erge massiccia l’edicola progettata dall’architetto Mario Palanti, fratello del famoso scenografo e costumista Giuseppe, che nel 1973 fu trasformata in Civico Mausoleo per ospitare, oltre all’autore e ai suoi famigliari che ne conservarono il diritto avendo ceduto la costruzione al Comune, alcuni defunti benemeriti e illustri per scienze, lettere e arti. Tra questi Fernanda Wittgens, prima donna sovrintendente di Brera, il cui nome nel 2014 è stato inserito tra quelli incisi nella pietra nel «Giardino dei Giusti» alla Montagnetta di San Siro in quanto, oltre a mettere al sicuro dai bombardamenti i capolavori di Brera, salvò la vita a numerosi ebrei, guadagnandosi una condanna a quattro anni di carcere a San Vittore che per fortuna scontò solo in parte perché la guerra finì. E sempre al Palanti, riposano Franco Russoli, sovrintendente di Brera negli anni Settanta e Hermann Einstein, padre di Albert, che visse a lungo a Milano in via Bigli n. 21. 126


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Disegno di Ernesto Bazzaro per l’Edicola Branca

Disegno di Michele Vedani per l’Edicola Branca

L’epigrafe di Walter Chiari afferma con la sua consueta vis comica: «AMICI, NON PIANGETE, È SOLTANTO SONNO ARRETRATO». E non basta, perché sono qui anche il primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, Virgilio Ferrari, il poeta Ciro Fontana, che scrisse molte opere in dialetto milanese, il musicista Giovanni D’Anzi e Innocenzo Gasparini, economista e rettore dell’Università Bocconi. Il Palanti è un magniloquente e tarchiato sarcofago di cemento armato issato su basse e tozze colonne tronche in marmo rosa di Baveno, usato nel 1943 anche come rifugio antiaereo durante i bombardamenti alleati che distrussero Milano. L’ultima edicola del gruppo è dedicata alla memoria

di Stefano Branca, figlio di Bernardino, l’inventore del liquore omonimo. Il monumento attuale è una Deposizione con un volo di angeli intorno alla croce, di Michele Vedani, e sostituisce l’opera che la moglie dell’industriale aveva in un primo tempo commissionato a Bazzaro e che venne rimossa con la consueta accusa di oscenità. Si trattava dell’ascesa in cielo di un’anima nelle procaci forme di una splendida donna seminuda sorretta da altre figure femminili discinte, un po’ come quelle della Ca’ di Ciapp, e perciò sconvenienti. Non valse a salvarla neppure la genialità della struttura che si innalzava a otto metri dal suolo senza nessun supporto architettonico, come se sorgesse dal terreno. 128


Giannino Castiglioni, Annunciazione e Deposizione, Edicola Falck

Ulisse Stacchini, Edicola Beaux

RIPARTI DA I A XVI

opera di anonimi e diligenti geometri. Tra scultura e architettura una potente e coerente fusione che genera opere uniche e a volte strabilianti. Gli esempi sono migliaia, non resta che aggirarsi con curiositĂ e attenzione, armati di una buona guida, magari ancora cartacea, o accompagnati da un guida in carne e ossa. Ma sono le persone, i personaggi e le personalitĂ , che qui trascorrono la loro vita eterna e che hanno contribuito alla grandezza e bellezza di Milano di allora e di oggi, a rendere storicamente unico il Recinto Maciachini. Gli imprenditori, gli artisti, i letterati, i poeti, i musicisti, i filantropi, gli architetti, gli industriali, gli spor-

I Riparti dal I al XVI sono letteralmente disseminati di capolavori di tutte le epoche, senza nessuna eccezione. Monumenti di bronzo e lapidei di ogni dimensione, alcuni maestosi e magniloquenti, altri sobri e poco vistosi: busti, figure intere, gruppi, paesaggi montuosi, vedute, scene bibliche, officine e ambienti di studio e di lavoro, simboli e allegorie. Sarcofaghi, altorilievi e bassorilievi anche di grande ampiezza, stele che reggono busti e teste, baldacchini, gisants, urne, colonne, tempietti. Ed edicole e cappelle di ogni stile e materiale, quasi sempre di grandi architetti e ingegneri, ma, a volte, 129


Monumento Carlo Bertolazzi

tivi, i medici, i militari, gli esploratori, gli educatori… Impossibile citarli tutti e per non fare torto a nessuno la cosa migliore è andare di persona a rendere loro omaggio, magari in occasione di qualche importante anniversario o ricorrenza. I RIALZATI E I CIRCONDANTI DI LEVANTE E DI PONENTE 1869-1873 I Rialzati e i Circondanti sono le aree perimetrali simmetriche del Recinto Maciachini e sono state costruite con la terra di scavo delle Gallerie Inferiori dalla ditta Castelli, la stessa del Cimitero degli Israeliti, tra il 1869 e il 1873. Sono ripartite in due zone chiamate A e B a pianta rettangolare e da una zona intermedia AB; tutte si affacciano sui viali paralleli a quello centrale e si appoggiano al muro di recinzione e alle sue Gallerie Inferiori. Le sepolture sono molto ravvicinate, probabilmente per sfruttare al meglio le concessioni, e risalgono ai primi decenni del cimitero. Si tratta quindi molto spesso di opere realiste tardoromantiche e veriste o comunque pienamente in linea con gli stilemi ottocenteschi che rendono questi spazi fortemente suggestivi. A Levante compare in abbondanza lo stile liberty il che fa pensare che l’area, se non come costruzione ma almeno come utilizzo, sia immediatamente successiva a quella di Ponente, dove il liberty è poco rappresentato. Poche ovunque le opere moderne e soprattutto contemporanee, come la teca di vetro che contiene rose spinose di Alik Cavaliere per la famiglia Di Paola e l’insieme di simboli in marmi di diverse varietà di Lucio Del Pezzo per la famiglia Valente, entrambe a ovest.

inizia il Riparto Esterno di Levante, costruito intorno al 1989 annettendo un terreno confinante con la ferrovia e creando un passaggio per accedervi nel muro di cinta in corrispondenza del Circondante. Tra i due la striscia della zona AB. Molti gli ospiti illustri spesso con sepolture rilevanti sul Rialzato B. Il giornalista del «Corriere della Sera» Otello Cavara, scomparso nel 1928, è celebrato da una musicista che suona una cetra con espressione mistica, attorniata da tre aquilotti. Il rimando allo stile di Adolfo Wildt è palese. Il capitano cavalier ufficiale Giuseppe Cancelliere, presidente della Federazione milanese dell’Associazione Nazionale Combattenti, è assorto in preghiera e impugna a due mani il suo fucile dando vita a una figura a croce molto intensa che emoziona. Giuseppe Enrini è l’autore di questa e di molte altre opere situate in quasi tutti i riparti. Romeo Bottelli e la moglie Adele Carini sono vegliati da una figura femminile con la testa tra le mani, che regge un enorme mazzo di rose. Sulla recinzione in ferro battuto si ripete il tema del papavero, simbolo del sonno eterno.

Rialzato di Levante Il Rialzato B confina a sud con il Cimitero degli Israeliti mentre il Rialzato A termina a nord dove 130


In basso, da sinistra: Francesco Messina, Vanni Scheiwiller e Salvatore Quasimodo

Tre immagini di Francesco Messina alla Fonderia Artistica Battaglia

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Francesco Messina, Memoria, Monumento Della Torre, particolare

Francesco Messina, busto in bronzo di Ruggero Ruggeri

L’architetto Romeo Bottelli progettò in città nel 1892-1893 i due palazzi in via Dante 12 e 14 e nel 1896 la casa di sua proprietà in piazza Castello 16. Carlo Bertolazzi, drammaturgo, critico teatrale e autore di commedie in dialetto come El nost Milan e La povera gent, ha una semplice tomba sulla quale una barbuta maschera della Commedia se la ride tra rami di alloro e manoscritti di pergamena. Un’opera decisamente liberty è il monumento voluto dal padre della giovane Eugenia Süffert, figlia di uno dei primi imprenditori della Milano postuni-

taria, dall’evocativo titolo Coro di angeli sul tumulo di una vergine. Sulla sepoltura Bianchi Bonomi, una Maddalena in bronzo, i lunghi capelli scomposti coperti da un velo, piange accorata con le mani giunte in preghiera come se stesse chiedendo perdono per i suoi peccati. L’autore è Francesco Messina, sepolto sullo stesso rialzato sotto una croce realizzata con grossi tronchi di bronzo su una base di marmo rosso. Messina, uno tra i più grandi scultori figurativi del Novecento, è l’autore del Cavallo morente esposto 132


Francesco Messina, La Maddalena, Monumento Bianchi Bonomi

della Scala. In via Verri n. 1/3, due figure femminili in marmo, la Primavera e l’Estate, si sporgono dal cornicione del primo piano. Al Monumentale ci sono sue opere di ispirazione biblica, oltre a questa: la Pietà nell’Edicola Bonomi, la Risurrezione per la Tomba Zanaboni, il Ritorno del figliol prodigo per l’Edicola Del Duca, un’altra Pietà per la famiglia Pozzi Tridenti, un Ecce Homo per Arnoldo Mondadori. Una giovane donna con un abito di una semplicità monacale, splendida nell’abbagliante sobrietà di un marmo bianco privo di ombre, è stata realizzata per la famiglia Della Torre. Una Santa Rita è collocata sul sepolcro Piva Saportas e il busto in bronzo dell’attore di teatro Ruggero Ruggeri è visibile al Circondante di Levante. Lo studio Messina, in via San Sisto 4A, si trova in una chiesa sconsacrata vicino a via Torino ed è aperto al pubblico. L’artista siciliano, milanese di adozione, ha voluto infatti concentrare qui una buona parte della sua opera per donarla al Comune. Nello studio-museo sono esposte circa ottanta sculture tra gessi, terrecotte policrome, bronzi e cere e una trentina di opere grafiche tra litografie, pastelli, acquerelli e disegni a matita. Il Rialzato AB seppur ristretto, è storicamente interessante. Sulla Tomba Cusini un San Francesco a grandezza naturale di Arrigo Minerbi, in posizione sopraelevata, sta parlando a un gruppo di uccellini che lo ascoltano rapiti. L’architetto Adolfo Zacchi che progettò l’edicola è l’autore del maestoso Palazzo Cusini in via Durini 11 in stile novecentista e fu, inoltre, colui che ebbe la grande responsabilità di smontare le vetrate del Duomo durante la Seconda guerra mondiale per evitare che andassero in frantumi. L’edicola della famiglia Alemagna, fondata da Ginetto, orfano poverissimo ma capace di evolversi e di emanciparsi come tanti altri milanesi fondatori di imprese, è composta da due altissime vetrate

all’ingresso della sede principale della Rai, in viale Mazzini 14 a Roma, e di altri quattro giganteschi equini meno noti di proprietà della famiglia dell’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone, citati in un’opera di Piero Chiara: Una storia italiana, il caso Leone. Forse non tutti sanno che è suo anche il massiccio gruppo davanti all’Ospedale di Niguarda, che raffigura Carlo Borromeo che consegna agli ambasciatori milanesi la bolla di Pio IV, e il massiccio busto in bronzo di Pietro Mascagni nel foyer dei palchi 133


Eros Pellini

Sul Rialzato A è di grande impatto visivo la tomba del baritono Titta Ruffo, una pesante lastra di marmo nero con una grande cetra cinta di alloro e il nome a caratteri cubitali sulla base scura e lucida. Titta Ruffo, il cui vero nome era Ruffo Cafiero Titta, era un baritono pisano che eguagliò la fama mondiale di Enrico Caruso. Titta era cognato di Giacomo Matteotti, a cui era legatissimo, tanto da portarne a spalla il feretro durante il funerale. A seguito del suo omicidio decise di non cantare più in Italia e le autorità fasciste lo schedarono come sovversivo. Verso la fine del rialzato, un’altra intensa figura femminile si eleva verso il cielo, con il volto trasfigurato. È Invocazione, ultima opera dello scultore Antonio Carminati che la volle sulla sua sepoltura. L’artista vinse il concorso per il Monumento a Giuseppe Verdi di piazza Buonarroti ma non poté ultimarlo perché morì nel 1908 e nel 1913 una scultura di Enrico Butti venne collocata al posto della sua. L’epigrafe fa polemicamente riferimento a quanto accaduto allora: «ARTISTA INSIGNE A CUI LA MORTE TOLSE DI ETERNARE COL MONUMENTO A GIUSEPPE VERDI LA FAMA DEL PROPRIO VALORE».

dispiaciuti per lui.

rette da montanti di marmo coperti da bassorilievi che rappresentano le opere di misericordia spirituale e corporale, realizzate da Eros Pellini, figlio di quell’Eugenio esponente di punta del liberty milanese e autore, tra l’altro, degli Innamorati del Muretto di Alassio. Verso il viale, l’imperioso Monumento ai Martiri Italiani che hanno sacrificato la giovinezza per il loro ideale, con cripta, è un gruppo di gigantesche e auliche figure maschili che ricordano tredici giovani fascisti caduti, tra cui tre milanesi, Cesare Melloni, Emilio Tonoli ed Edoardo Crespi, morti negli scontri del 4 agosto 1922. Il ramo d’alloro sostituisce l’originale fascio sormontato da un’aquila che è stato rimosso per motivi di opportunità politica. Tra i defunti il figlio di Giuglielmo Pepe.

Firmato: gli amici e i parenti,

Rialzato di Ponente Lo schema è identico a quello di Levante: un rettangolo diviso da viali ortogonali dove le sepolture, tra le più antiche, sono disposte in file ordinate e molto vicine tra loro; ma qui, al centro delle due zone principali, sono collocate due edicole attorniate da statue. È una zona ricchissima di sculture realiste e romantiche proprio per il periodo in cui ha cominciato a riempirsi: gli ultimi decenni dell’Ottocento. Il Rialzato B è il più vicino all’ingresso. Uno dei capolavori della scultura verista dell’epoca è il Memore omaggio in marmo bianco che tutti chiamano la «Signora in gramaglie». Odoardo 134


Armando Violi, Monumento ai Martiri Italiani che hanno sacrificato la giovinezza per il loro ideale Benito Mussolini in visita al Monumentale il 2 novembre 1936 Armando Violi, Monumento ai Martiri Italiani che hanno sacrificato la giovinezza per il loro ideale, particolare

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Tabacchi riesce a dar vita a un’opera emozionante pur se insiste a lungo nei dettagli dell’abito, della corona di fiori, dell’acconciatura. Ma il viso della donna, appoggiato alla mano in un’espressione di composta desolazione, è magnifico. Tabacchi divide con Antonio Tantardini la fattura pregevole del Monumento a Cavour nella piazza omonima. Il monumento per Antonio, Carlo ed Edoardo Kramer è di Vincenzo Vela, uno più eccelsi esponenti della corrente verista della seconda metà dell’Ottocento, non solo nella scultura funeraria. Il titolo è Il dolore della Scienza e rappresenta una donna pensierosa – Teresa Berra Kramer – con

un grande libro in mano, seduta su una panchetta neoclassica. Un’iconografia quindi non mistica e religiosa ma ispirata ai temi civili e sociali cari all’autore che era, come Maciachini, un positivista convinto. I volti di Antonio ed Edoardo, scolpiti sulla base, sono quelli di uomini intelligenti, assertivi, coraggiosi, animati da un profondo senso etico. In memoria di Edoardo, scomparso a soli quarant’anni, la madre Teresa su consiglio di Mazzini, a cui da fervente patriota era molto legata, istituì la Pia Fondazione Edoardo Kramer per incoraggiare la ricerca tecnica e scientifica. 136


Odoardo Tabacchi, Memore Omaggio, Monumento Omodeo, particolare

Angelo Pietrasanta, Europa, affresco, Galleria Vittorio Emanuele II, lunetta dell’ottagono centrale

La vincita di una delle sue borse di studio da parte di un giovane ingegnere diede inizio a una grande industria milanese, la Pirelli. Posizionati in modo da formare una corona sono quattro membri della famiglia Branca, tra cui ovviamente il fondatore dell’azienda Bernardino e la moglie Carolina. Dove termina la parte sopraelevata si trovano la Tomba Vallardi e quella di Angelo Pietrasanta. Nella prima è sepolto Francesco che ereditò, insieme al fratello Antonio, la casa editrice fondata dal nonno nel 1790 e che fu un combattente delle guerre d’indipendenza; nella seconda riposa un pittore allievo di Hayez scomparso precocemente a quarantadue

anni, autore di due affreschi a semiluna per la Galleria Vittorio Emanuele, L’Europa e La Scienza. Il Rialzato AB presenta unicamente la tomba spettacolare di Davide Campari. È la celebre Ultima Cena in bronzo di Giannino Castiglioni con le tredici figure bibliche appoggiate su un gigantesco masso erratico porfirico ben levigato, in dimensioni molto superiori al vero. Il volto di Giuda è subdolo, forse l’apostolo è consapevole di essere in procinto di venir bollato per l’eternità come il più vile traditore di tutti i tempi. Gaspare Campari fondò la ditta di liquori nel 1867 e da allora il suo Bitter Campari, un mix ancora segreto di erbe, scorre a fiumi nei bar di tutto il mondo. 137


Disegno preparatorio per l’Edicola Davide Campari

Suo figlio Davide, primo milanese a nascere in Galleria, fu l’inventore, nel 1932, del Campari Soda, di color rosso splendente, contenuto in una bottiglietta conica disegnata dall’artista futurista Fortunato Depero. La sua idea più brillante fu l’apertura sotto casa del Camparino, un bar che divenne ben presto un salotto frequentato dalla Duse, da Puccini e Toscanini e da Re Umberto I, dove direttamente dallo scantinato un impianto idraulico garantiva al bancone di mescita un flusso continuo di seltz ghiacciato. Anche Filippo Turati e Anna Kuliscioff, che abitavano proprio sopra, erano assidui frequentatori del locale e, in anni più recenti, Fausto Coppi e il

principe Antonio De’ Curtis, in arte Totò. Boccioni, che vi ambientò il celebre dipinto Rissa in Galleria, non si negava una sosta al bancone. Davide Campari capì tra i primi i vantaggi della pubblicità e ingaggiò illustratori come Dudovich, Cappiello, Munari, Metlicovitz, Sto (Sergio Tofano). Sulla base dell’Ultima Cena, oltre alla firma dell’autore troviamo quella della Fonderia Artistica Battaglia, nata nel 1913 e tuttora in attività non lontano dal cimitero. Girando alle spalle di questo colosso si scopre una Meditazione di Tantardini identica a quel situata nella Cripta del Famedio. In questo punto del muro 138


Giannino Castiglioni lavora al gesso dell’Edicola Davide Campari

Andrea Boni, portale in cotto della casa di Alessandro Manzoni a Milano, in via Gerolamo Morone n. 1

di cinta è stato aperto un passaggio per dare accesso al Riparto Esterno di Ponente. Sul Rialzato A un simpatico avvocato garibaldino ed esponente di spicco del Risorgimento, Antonio Semenza, definito «uno dei Mille», non è l’unico patriota di questo reparto; gli altri sono Riccardo Luzzato e Carlo Antongini che partecipò all’impresa di Garibaldi generosamente finanziata dalla sua famiglia, fondatrice della Manifattura Lane Borgosesia. Tra Semenza e Antongini è situato il busto di Andrea Boni, famoso scultore e fabbricante di terrecotte artistiche che rinnovò, nel 1865, la facciata della casa di Alessandro Manzoni su richiesta dello scrittore,

che voleva rimodernarla per seguire la moda di recuperare la tradizione dell’uso in architettura del cotto quattrocentesco lombardo, che è ricomparsa anche ai giorni nostri. Di Boni sono anche le decorazioni sulla facciata dell’ex Teatro Fossati in corso Garibaldi, angolo via Rivoli, che rappresentano Garibaldi e la sua Anita. Il monumento Lo Studio, la Composizione, la Musica e la Riconoscenza è dedicato a Francesco Lucca, l’editore musicale che fece concorrenza a Ricordi con il quale litigò per tutta la vita per i diritti di Giuseppe Verdi, e che ebbe la fortuna di avere l’esclusiva di pubblicare tutte le opere di Richard Wagner. Infat139


Due testimonianze scultoree d’epoca: gentiluomo e gentildonna

ti siede in una lussuosa poltrona sopra una pila di spartiti tra cui il Lohengrin. Per la tomba di Giovanni Caglio e di Felicita Perego, Enrico Butti ha creato il gruppo Muto pianto. Una donna dolente ma composta siede davanti al sepolcro, in eleganti abiti ottocenteschi ricchi di dettagli come il corpetto incrociato, le maniche a sbuffo, i bottoni sui polsini, gli orecchini minuscoli da lutto, gli scarponcini stringati. Il Monumentale fornisce spesso informazioni preziose sulla moda e sul suo evolversi. Le fotoceramiche in particolare sono un

tesoro di immagini di moda maschile, femminile e di anziani e bambini in abbigliamento dei diversi periodi storici. Quasi alla fine del rialzato un’amorevole mamma, Natalina Ravera, con una bella pettinatura a trecce stringe al seno due bambini piccolissimi, mentre un terzo piÚ grandicello, che quasi non si vede, appoggia il capino sul suo grembo. Hanno tutti gli occhi chiusi e l’autore, Adolfo Wildt, riesce a farci ben capire che non stanno dormendo ma che sono ormai passati oltre il confine della vita, simboleggiato 140


Francesco Penna, Bimba con abito della festa, Monumento Cesarina Pestagalli, ora Monumento Duchi Adolfo Wildt, Madre Ravera

praelevati di un metro, ma sono molto più stretti. Convergono, con andamento mistilineo, verso i Giardini Cinerari con i quali sono in continuità. Costituiscono il perimetro originario del Recinto Maciachini, ma negli anni Trenta hanno subito variazioni per l’apertura, a ovest, dei Riparti Esterni nn. XVII, XVIII, XIX, XX e del Riparto Esterno di Ponente – ottenuti sfondando il muro tra le edicole – e, a est, del Riparto Esterno di Levante, collocato dove termina il Rialzato A, con un’apertura nella recinzione originaria. Sui due Circondanti sono presenti monumenti ed edicole rilevanti per motivi storici (ma anche artistici): a Ponente, procedendo da sud verso nord, quelle dello scultore Adolfo Wildt e della moglie Dina, dell’architetto Giuseppe Mengoni sepolto con la sua bambina morta poco dopo di lui, di Ilka Scarneo attrice di operetta della celebre compagnia di Leon Bard, di Eugenio Villoresi ingegnere idraulico progettista del canale omonimo, e di Gio Ponti architetto.

dall’arco in cui sono inseriti. Furono tra le vittime dell’attentato a Vittorio Emanuele III il 27 aprile 1928. Il re, scampato alla strage, lo stesso giorno inaugurò con il sindaco Luigi Mangiagalli l’odierno Istituto dei Tumori. CIRCONDANTE DI LEVANTE CIRCONDANTE DI PONENTE

E

I due Circondanti sono stati costruiti nello stesso periodo dei Rialzati e come quelli sono stati so141


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Adolfo Wildt, Maschera del dolore, Monumento Adolfo e Dina Wildt

Riccardo Piter accanto al Monumento Ilka Scarneo e Giorgio Moroni 143


Alessandro Agudio, Edicola Carones

OSSARIO CENTRALE 1874 L’Ossario Centrale fu costruito nel 1874 come chiesa cattolica e costituisce l’approdo visivo della prima parte del viale principale e dell’area cimiteriale che lo affianca. Collocato all’inizio della zona centrale del cimitero chiamata Necropoli, ricorda in piccolo il Famedio, con il quale è in comunicazione visiva diretta, e si presenta con le stesse fasce alterne rosso scuro e avorio, ma di materiali più poveri: mattoni a vista e pietra. Sul muro esterno destro, all’altezza degli occhi, una lapide ricorda Carlo Mozart, ultimogenito di Wolfang Amadeus, funzionario del governo asburgico durante la dominazione di Milano. La costruzione è formata da due corpi di fabbrica sovrapposti. Quello inferiore è l’Ossario vero e proprio, una grande cripta retta da colonne, con le pareti destinate a loculi anche molto antichi. Il rivestimento esterno in pietra è composto in parte da lapidi che ricordano defunti sepolti nei cimiteri dismessi. Non è facile vedere le scritte se il sole è alto perché sono molto tenui. Al corpo superiore, dove si svolgevano i riti religiosi, si accede con una scalinata che ricorda quella del Pantheon. Il locale per il culto, con regolare abside, ha un altare a forma di sepolcro scoperchiato da cui esce un sudario. Una doppia cupola ottagonale che termina con un esile pinnacolo completa la costruzione. La facciata è fiancheggiata da due torrioni che sembrano campanili, replicati in forma più sottile sul retro e l’ingresso è un ampio arco a trifora. Non ci sono sculture degne di nota se si esclude, all’ingresso della Cripta, un’elegante figura femminile ottocentesca, la Carità, china con sollecitudine materna su un bimbo cieco. Accanto si trova la stele con il medaglione del defunto Carlo Ronchetti, benefattore dell’Istituto dei

Le edicole più significative sono la Occa, l’unica progettata da Camillo Boito, e quella di Carlo Pozzi, un «salsamentiere» diventato così ricco da potersi permettere questa sepoltura, progettata da Sebastiano Locati. A Levante, sempre procedendo da sud a nord, vanno ricordate le sepolture della famiglia Johnson, medaglisti, di Ruggero Ruggeri, attore di teatro, di Filippo Filippi, critico musicale, di Francesco Turati e Anna Kuliscioff, sepolti sotto un masso erratico coperto di edera. L’Edicola Beltrami, dell’architetto Giovanni Battista Borsani, e l’Edicola Carones, dell’ingegnere Alessandro Agudio, sono le più rilevanti. 144


Disegno del prospetto dell’Ossario Centrale

di Modrone, la chiesa fu spostata nel criptoportico del Famedio con dedica al SS. Crocifisso dove, da allora, vengono celebrate le messe, le commemorazioni, gli anniversari e i funerali. NECROPOLI In questa zona, il cui nome deriva dal greco e significa città dei morti, lo schema ortogonale salta, seppure non completamente perché permangono un viale principale, in continuazione diretta di quello centrale che arriva dal Famedio, e uno secondario perpendicolare al primo, che divide l’area in quattro spicchi attraversati da strade oblique. In due slarghi importanti trovano collocazione le due edicole più rappresentative, l’Antonio Bernocchi e la Chierichetti. Per Maciachini questo doveva essere il cuore del cimitero, collocato tra l’emisfero nord e quello sud. La forma della Necropoli, concepita fin dall’inizio per ospitare soprattutto cappelle gentilizie, è a ottagoni concentrici che simulano un labirinto. L’ottagono è la forma geometrica dei battisteri, delle antiche terme, dei templi buddisti e delle cupole di molte chiese. Nel 387 nella grande vasca ottagonale del Battistero di S. Giovanni alle Fonti, sotto il Duomo di Milano, Ambrogio vescovo battezzò Agostino d’Ippona, convertitosi al cristianesimo, poi diventato santo. In campo esoterico, il numero otto è simbolo dell’infinito e simboleggia la morte, infatti precede il numero nove che indica la nascita. Indica inoltre l’incognito che segue alla perfezione del sette. L’otto orizzontale è la rappresentazione algebrica dell’infinito. Il numero otto è fra i simboli più antichi, è il numero della Rosa dei Venti, della Torre dei Venti ateniese, dei petali del loto e perciò, nella terminologia buddista, dell’Ottuplice Sentiero che conduce al Nirvana. Negli scacchi, la scacchiera è costituita da otto righe e otto colonne e ogni giocatore dispone di otto pedoni.

Ciechi di via Vivaio, che ha in carico una cinquantina di tombe, ricevute in seguito a lasciti testamentari. Tra le personalità i cui resti si trovano qui ricordiamo Pietro Valpreda, l’anarchico ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana, e la celebre attrice di teatro e televisione Luisa Rossi. L’Ossario nacque per l’esigenza di contenere i resti provenienti dai cimiteri dismessi e da quelli dei Corpi Santi. La scalinata posteriore scende nel cuore della Necropoli, in corrispondenza di una delle edicole più strabilianti, ed è il caso di dirlo, monumentali: quella dedicata al senatore Antonio Bernocchi. Nel 1930, per delibera del podestà Marcello Visconti 145


Disegno di Aldo Falchi per il Monumento Borghi Disegno di Aldo Falchi per il Monumento Cavi Bussi

Nella Necropoli individuare le posizioni delle sepolture non è facile, così come è piuttosto complesso seguirne la numerazione che, pur essendo progressiva, spesso genera confusione e non fa distinzione, come negli altri riparti, tra le edicole e i monumenti, molti di artisti importanti. Enrico Butti è l’autore scelto dalle famiglie Borghi, Cavi Bussi e Guerrini Pigni. Carlo Borghi, intellettuale scapigliato, fu direttore del quotidiano milanese «L’Italia – Giornale del Popolo». Angelo Biancini è l’artefice dell’enigmatica statua dell’attrice Dina Galli; Achille Alberti della Conoscenza per la famiglia Quaglino; Benedetto Caccia-

tori della Pietà per se stesso; Odoardo Tabacchi del meraviglioso e dolcissimo angelo tardoromantico per la famiglia Pigni. Ma la Necropoli è unica e straordinaria soprattutto per la varietà e la quantità di edicole. Si può camminare a lungo tra costruzioni di tutti i tipi, dal tempio greco alla piramide, da piccole chiese romaniche a cappelle neoclassiche, da costruzioni liberty ad altre in stile eclettico. Gli stili architettonici si alternano in una varietà di grande impatto visivo che obbliga ad audaci e improvvisi salti storici e temporali che spesso sorprendono. Diverse le opere di Maciachini di svariata ispirazione, tra cui la neoegizia Edicola Dall’Acqua che cu146


Edicola Dall’Acqua: particolare della firma di Antonio Canova; Stele Traversa

Lorenzo Vela, crocifisso con altorilievo, Edicola Dall’Acqua

stodisce una stele funebre del 1817 di Canova, datata e firmata in basso a destra, citata a pagina 67 della Biografia di Canova del cavalier Leopoldo Cicognara, editore Giambattista Missaglia, Da’ Torchi della Tipografia di Alvisopoli, Venezia 1823, dove è così descritta: «Piccolo monumento sepolcrale con due angioletti e un ritratto di donna in medaglia, collocato in Milano», il che non lascia dubbi sull’autenticità. Nella stessa cappella è presente un bel crocifisso in marmo bianco di Lorenzo Vela, fratello del più noto Vincenzo. Sulla base del piccolo monumento si legge questa epigrafe: «BEATO CHI RIPOSA SUI PRIMI PASSI DELLA VITA», dedicata ai bambini Peppino e Giacomino Dall’Acqua. 147


Piero Portaluppi, Edicola Conti Disegno dell’architetto Alessandro Minali per l’Edicola Antonio Bernocchi

A Giannino Castiglioni la famiglia Bernocchi commissionò ben tre edicole, di cui la più riuscita è Il Golgota. Per le 100 figure di marmo di Musso a tutto tondo l’artista prese in prestito gli abiti romani dal Teatro alla Scala. Furono ritrovati dopo la sua morte, etichettati uno a uno, ma purtroppo ormai danneggiati irreparabilmente. Alessandro Minali, che faceva parte del gruppo del Club degli architetti urbanisti milanesi, è il progettista della struttura del monumento. Piero Portaluppi realizza per il senatore Ettore Conti, che finanziò il restauro di S. Maria delle Grazie, una piccola basilica rinascimentale in cotto quattrocentesco lombardo. Gio Ponti per la famiglia Borletti concepisce un pa-

rallelepipedo razionalista con acroteri simili a quelli dei templi greci. Enrico Agostino Griffini si esibisce nel neorococò per la famiglia dell’architetto e ingegnere Paolo Cesa Bianchi, di origine cinquecentesca, i cui membri dal 1850 a oggi sono stati importanti ingegneri, architetti, medici e avvocati. Il fratello Luigi fu un ingegnere assai noto; ebbe sette figli, fra cui Ettore, il famoso tenore, e Domenico, il grande clinico, primario dell’Ospedale Maggiore di Milano. La figlia di Paolo sposò l’architetto Cesare Nava. 148


Adolfo Wildt, graffiti, cripta dell’Edicola Giuseppe Chierichetti

Adolfo Wildt, Il santo, il giovane, la saggezza, giardini di Villa Reale, particolare

Gaetano Landriani appronta l’ultima dimora di Giulio Belinzaghi, sindaco di Milano per due mandati dal 1868 al 1884 e dal 1889 al 1892. Oltre alla sua brillante carriera politica milanese, fu anche il fondatore della Banca Belinzaghi, sindaco di Cernobbio e senatore. Un’opera fuori da qualsiasi schema stilistico, come il suo geniale e controverso autore, è l’edicola di Giuseppe Chierichetti, un ricco imprenditore andato in rovina prima che la sua tomba, una distesa di 16 croci di marmo di Carrara, a cui corrispondono altrettanti spazi nella Cripta, fosse finita. È opera di Adolfo Wildt, che ha realizzato in città parecchie opere, come il grande orecchio sulla facciata di un palazzo di via Serbelloni, la testa d’angelo a Palazzo Berri Meregalli in via Cappuccini 8, dove abitava proprio la famiglia Chierichetti e che sorge sull’antico cimitero del convento dei Cappuccini, il busto di Toscanini alla Scala – copia dell’originale che si trova a Roma –, un Parsifal a Villa Necchi

Campiglio in via Mozart e un bronzo di Sant’Ambrogio che calpesta i sette vizi capitali in largo Gemelli, vicino all’Università Cattolica, sulla facciata del Tempio della Vittoria. Da non dimenticare un inquietante gruppo nei Giardini della Villa Reale, Il santo, il giovane, la saggezza. Ritrattista straordinario, realizzò i busti di Mussolini, Toscanini, Vittorio Emanuele III e molti altri, cercando di rappresentarne l’anima e di «iconizzarne» i volti, sempre di grandi dimensioni e simili a maschere, con fessure al posto delle orbite e delle labbra. Grandissimo artista, genio mai abbastanza apprezzato, Wildt non fu minimamente toccato dalle avanguardie della sua epoca ma rivolse sempre il suo sguardo all’indietro, verso le maschere, la mitologia, le figure gotiche ed espressioniste, il Rinascimento, i volti barocchi in estasi del Bernini. Rivisitò praticamente tutta la storia dell’arte, da Fidia a Michelangelo, da Klimt ad Arturo Martini, anticipando allo stesso tempo i personaggi futuribili di Guerre stel149


Adolfo Wildt, Busto di Arturo Toscanini, foyer del Teatro alla Scala

Adolfo Wildt, l’opera rimasta incompiuta realizzata per l’Edicola Giuseppe Chierichetti

lari. Tra i suoi allievi si annoverano Lucio Fontana, Fausto Melotti, Eros Pellini, Leone Lodi, Werther Sevèr e tutti quelli della Scuola per la lavorazione del marmo che fondò nel 1927.

Siemens nel 1874 e 1875, ma che si trattò di episodi isolati. Il Tempio Crematorio, progettato da Carlo Maciachini con il supporto dell’ingegnere Celeste Clericetti, fu invece il primo luogo in Europa destinato alla cremazione e divenne subito un modello copiato a Londra, a Boston, in India, in Giappone e chissà dove altro. Fu inventato all’epoca anche un crematoio mobile, utile in assenza di un luogo deputato, montato su quattro ruote trainato da cavalli, realizzato nell’Officina Meccanica Giuseppe Candiglio di Firenze nel 1886, su progetto del capitano D. Rey. Il tempio non è più in funzione ma è ancora visitabile. Costruito in stile dorico-corinzio, in riferimento ai riti di purificazione degli eroi omerici, ha alte colonne che sorreggono il timpano e formano due peristili laterali. Una cuspide gotica mascherava un tempo il camino a ciminiera.

IL TEMPIO CREMATORIO 1876 Il 1876 fu un data di grande rilievo per la storia del Monumentale e per la storia dell’evoluzione della civiltà e della società. Il primo documento che cita l’intenzione di promuovere la costruzione del «crematoio» è una lettera di Paolo Gorini al dottor Paolo Pini scritta da Lodi il 1° gennaio 1848, ma dovranno passare molti anni prima che dall’idea si passi al progetto. La storia racconta che i primi esperimenti di cremazione avvennero a Breslavia e a Dresda con forni 150


Tempio Crematorio. La prima cremazione è datata 22 gennaio 1876

La sala dei forni del Crematoio

Lettera di Paolo Gorini a Gaetano Pini

mazione Ticinese. Fu membro della Commissione conservatrice dei Monumenti di Milano e della Commissione delle Belle Arti e Antichità, sovrintendente ai restauri della basilica di S. Ambrogio e membro della giuria per la nuova facciata del Duomo di Milano nel 1886. Suo il piano regolatore di Montevideo del 1911-1912. All’interno un vestibolo con urne di pregio e piccole sculture precede il grande salone «ellenico-pompeiano» ai lati del quale sono ricavati due stretti locali per cellette e anfore. In quello di destra troneggia il Monumento a Fedele Sala, di cui riparleremo; in quello di sinistra troviamo l’urna di Claudio Treves e Olga Levi Treves, issata su un alto basamento collocato in una nicchia di mosaico azzurro decorata con due fiamme rosse che si intrecciano. L’epigrafe dichiara che «MORTI IN DIVERSO ESILIO, UNITI CI ATTENDONO

È circondato sui due lati da portici con colonne e architravi, aggiunti nel 1896 da Augusto Guidini, che continuano senza interruzione nei Giardini Cinerari. Augusto Guidini (1853-1928), architetto e urbanista svizzero, fu molto attivo nella Società di Cre151


Lapide che riporta la volontà di Alberto Keller di farsi cremare Carlo Maciachini, Edicola Alberto Keller Luigi Cavenaghi, Cristo risorto, affresco, Edicola Alberto Keller, particolare

QUA». La firma dell’artista Alfeo Bedeschi è in alto.

L’ultima sala è riservata ai quattro forni con le porte a formelle neorinascimentali in materiale refrattario, sovrastati dalla scritta biblica «PULVIS ES ET IN PULVEREM REVERTERIS» (Genesi 3, 19). Sull’entrata è collocato il busto del primo presidente della Società di Cremazione Milanese, Malachia De Cristoforis (Orazio Grossoni, 1915), le cui ceneri si trovano nell’edicola di famiglia sul Circondante di Ponente. Sul pavimento si possono notare le rotaie su cui scorrevano i feretri, provenienti da quattro salottini, riservati ai dolenti, per essere introdotti nei forni. 152


Libro di Paolo Gorini, detto «il Mago di Lodi»

Primo libro delle cremazioni

Urna contenente le ceneri di Giuseppe Pini

Il Tempio fu finanziato dall’aristocratico Alberto Keller di Kellerer, che riposa al Cimitero degli Acattolici in un tempietto neorinascimentale di ispirazione bramantesca, disegnato da Carlo Maciachini nel 1875, molto ricco di decorazioni: nicchie con statue di cui una centrale sopra al nome del defunto eccellente e poi fregi, formelle, marmi, epigrafi. La scultura che raffigura la Protezione, di Giosuè Argenti, posta sotto l’arco d’ingresso alla cappella, un tempo teneva tra le mani un’urna cineraria che ora è scomparsa. È stata trafugata? Non è mai stato acclarato. L’affresco dietro l’altare, di Luigi Cavenaghi, pittore

lombardo considerato il più importante restauratore della sua epoca, rappresenta un Cristo risorto, ma purtroppo è molto deteriorato, come del resto tutta l’edicola che sta in piedi per miracolo. Alberto Keller di Kellerer, di religione protestante, era un tipo non comune. Nato a Roma da una famiglia di Zurigo, si trasferì nel 1820 a Milano con l’intenzione di «intraprendere», cosa che gli riuscì in pieno. Scelse il settore della seta, del quale l’Italia all’epoca deteneva quasi un terzo del mercato mondiale, e fu il primo a utilizzare la caldaia a vapore nelle sue filande, nelle quali introdusse innovazioni tecniche per migliorare la produzione 153


e per contrastare la concorrenza asiatica già allora feroce. Non contento, pensò che fosse anche il caso di diventare banchiere e scienziato. E molto ricco. In seguito ai suoi studi presso l’Università di Padova divenne un promotore della cremazione come salubre alternativa alla sepoltura e alla sua morte lasciò una grossa somma per la costruzione del Tempio Crematorio e disposizioni perché il suo corpo fosse il primo a essere incenerito. Si dice che anche la massoneria finanziò il progetto attraverso di lui. Morì nel 1874 ma dovette aspettare il 22 gennaio 1876 per essere cremato per primo con una cerimonia svoltasi in una giornata in cui, nonostante l’abbondante nevicata, si radunò una grande folla. Fu dunque conservato per due anni prima di poter accedere alla «purificazione» mediante il fuoco, da lui tanto auspicata. Assistettero alla cerimonia un erede del defunto, i professori Emilio Valusani e Luigi Gadda per il Consiglio sanitario provinciale, gli assessori Franco Zinotti e Stefano Labus (celebre scultore), e Luigi Bono capo medico del Municipio. Il rito fu autorizzato dal neoministro degli Interni Nicotera che faceva parte del governo di sinistra di Agostino Depretis, insediatosi nel 1876 dopo la caduta della Destra storica. Del Depretis ricordiamo solo che fu il «padre» del trasformismo, sistema che prevedeva il coinvolgimento di tutti i deputati che volessero appoggiare il governo (nel suo caso progressista…) a prescindere dal loro schieramento politico, e che il suo secondo governo cadde per dissensi interni alla Sinistra. La storia passata davvero ci illumina spesso su quella presente! Pochi giorni dopo questo avvenimento, l’8 febbraio 1876, si costituì la Società per la Cremazione dei Cadaveri di Milano (Socrem), tuttora esistente, e la prima pubblicazione fu appunto Gli Atti della Cremazione di Alberto Keller.

L’8 aprile dello stesso anno il primo presidente della società, Malachia De Cristoforis, donò il Tempio al Comune. Torniamo per un momento a quei tempi, quando la scelta di farsi cremare rappresentava un preciso schieramento di campo: si trattava, come scrive il professor Alessandro Porro nella pubblicazione che celebra i 140 anni della società, di «una militanza per la libertà, il progresso, la modernità, il libero pensiero, la scienza apportatrice di bene, la filantropia, il razionalismo, la libertà religiosa, la fratellanza, l’uguaglianza». «QUO CITIUS RURSUM NATURA PEREMPTA RESOLVAT DA TUA PURGANTI MEMBRA CREMANDA ROGO» (lascia che un rogo purificatore porti a compimento la cremazione del tuo corpo, permettendo così alla natura di completare più rapidamente il suo corso). In questa epigrafe, all’ingresso del Tempio Crematorio di Torino, è sintetizzata la questione ontologica del movimento cremazionista. Da sempre il processo di decomposizione dei corpi è stato fonte di disagio, di sconcerto, di intima ribellione ed è stato considerato come un’offesa alla dignità dell’uomo oltre che un pericolo dal punto di vista igienico-sanitario. Per questo, in tutte le civiltà, si è provveduto a formulare riti e procedure per allontanare questo avvenimento. Per alcune culture si tratta di un allontanamento fisico mediante sepoltura, in altre di un tentativo di fermare il processo con l’imbalsamazione, in altre ancora di un’accelerazione dei processi naturali attraverso il fuoco. Il pensiero «cremazionista» intende rispondere razionalmente a questa esigenza ma vuole anche proporre una simbolica alternativa al «ritorno alla terra», orientando la direzione che porta al di là dei confini corporali verso l’alto, contribuendo in questo modo a reinterpretare il rapporto esistente tra corpo e natura, tra vita e tempo eterno. 154


Illustrazione del pamphlet Se sia lecito abbrucciare i morti di Giacomo Scurati

Lettera di Giuseppe Garibaldi di adesione alla Socrem Documento che attesta che Garibaldi non fu cremato per volontà delle figlie

Attivissimo nella promozione della neonata associazione, che per qualche anno ebbe sede nella sua abitazione, fu il giovane medico livornese Gaetano Pini, che proprio nel 1874 aveva fondato la Scuola dei Rachitici, oggi Istituto Ortopedico Gaetano Pini. Vanno inoltre ricordati Giuseppe Sacchi, che diede vita ai primi asili milanesi già dal 1836, e l’avvocato Enrico Rosmini che fu tra i fondatori della Siae. Gli scienziati Giovanni Polli, Celeste Clericetti e Augusto Guidini si occuparono dell’evoluzione tecnica delle apparecchiature per la cremazione. Ci furono naturalmente fieri oppositori e nel 1885 il sacerdote Giacomo Scurati pubblicò Se sia lecito abbruciare i morti, un pamphlet con descrizioni e immagini macabre volte a risvegliare le coscienze. Così scriveva l’autore sotto una terrificante illustrazione in cui un corpo nudo e legato bruciava avvolto da alte fiamme: «…Appena il calore comincia a far

Il 25 gennaio1876 era già diventato socio della Socrem Giuseppe Garibaldi, che non poté peraltro essere cremato per l’opposizione delle figlie, la qual cosa scatenò un putiferio all’interno della società. 155


Documentazione relativa alla citazione in giudizio di Paolo Gorini da parte di Giuseppe Venini e Giuseppe Poma per la contraffazione del Crematoio Lodigiano

sentire il suo effetto il cadavere si dimena come persona che soffre orribilmente, le braccia si contraggono per l’arsura della fiamma, le gambe si ritirano, ripiegandosi in modo deforme e il volto presenta le più tetre contorsioni; poi lo schianto, lo scoppio dei gas, infine un acre odore nauseante…». E, bastian contrario, il frate cappuccino Venceslao da Seregno si fece cremare il 30 gennaio 1888. Sulla sua lapide afferma deciso che è «QUESTIONE CIVILE E NON RELIGIOSA LA SOTTRAZIONE DEI CADAVERI ALLA PUTREDINE DELLA TERRA».

In realtà nel Nuovo Testamento non risulta che Gesù Cristo abbia predicato nulla circa il modo di dare sepoltura ai corpi, ma il fatto che tra il Sette e l’Ottocento l’incenerimento fosse praticato da membri di logge esoteriche e anticlericali pose la Chiesa in una posizione difensiva, invitando i fedeli a conservare la pia consuetudine di seppellire i defunti. Col Codex Iuris Canonici del 1917 venne invece vietato esplicitamente come atto di negazione dell’immortalità dell’anima e della risurrezione di corpi. Con il Concilio Vaticano II, si aprì un dibattito ma neppure allora emersero argomenti teologici contrari e la sepoltura fu riproposta solo come tradizione della comunità dei cristiani in opposizione alla cremazione, appannaggio degli atei e dei non cattolici. Nel 1963 Paolo VI, con un’apposita bolla, dichiarò la libertà di questa scelta, perché, affermò, non tocca l’anima e non impedisce all’onnipotenza divina di ricostruire il corpo. Nel 1968, con il decreto Ordo Exsequiarum, la Santa Congregazione per il Culto Divino stabilì definitivamente la possibilità di esequie cristiane per coloro che avessero scelto la cremazione, pur riconfermando il rispetto e la preferenza per il rito antico dell’inumazione. Le prime cremazioni avvennero con un sistema abbastanza semplice e un po’ primordiale, una specie di altare in pietra al centro del salone con fiammelle invisibili che sfruttava il gas illuminante di città,

quello che alimentava all’epoca i lampioni stradali, il tutto ideato da Polli e Clericetti. Nel 1896 Augusto Guidini ampliò il Tempio costruendo sul retro una nuova sala con quattro forni chiusi da battenti in materiale refrattario che utilizzavano il «metodo Gorini», più semplice, meno costoso e più efficace. Il medico Paolo Gorini, detto «il Mago di Lodi», nel 1877 aveva progettato il crematoio al cimitero di Riolo nella sua città natale, a lungo modello tecnico di riferimento per tutti quelli successivi. Prima di allora aveva sperimentato una tecnica di conservazione dei cadaveri a cui, subito dopo la morte, iniettava nell’arteria femorale una miscela frutto di una formula segreta, parzialmente svelata solo nel 2005, a base di bicloruro di mercurio e muriato di calce, che «pietrificava» i corpi. Ma questa modalità era molto costosa e così lo scienziato decise di concentrarsi sull’idea di cremazione 156


Disegno del Crematoio Lodigiano

Gorini è ricordato nella sala dei forni, in un medaglione in bronzo di Giuseppe Grandi, con un’epigrafe potente. Nel 1879 il medico fu citato in giudizio da Venini e Poma, entrambi di nome Giuseppe, per contraffazione del Crematoio Lodigiano che, a loro dire, «non era nuovo, non era industriale e non era brevettabile», ma il 14 luglio del 1880 vinse la causa a seguito di una perizia giudiziale di Augusto Guidini. L’avvocato difensore dei suoi avversari era Teodosio Cottini, anche lui sepolto al Monumentale. Un momento di importanza capitale nella storia della cremazione e della Socrem fu quando, nel 1883, si costituì in ente morale e questo le permise di accettare legati testamentari. In una delle due piccole gallerie adiacenti alla sala centrale descritte, in una nicchia si trova il monumento di Fedele Sala, morto il 1° maggio 1883, che proprio quello stesso anno evitò la bancarotta della società lasciando un patrimonio di 90.000 franchi. Il ritratto in piedi del massone, ricco proprietario immobiliare con palazzi in Sud America, è situato in una specie di tempietto che sembra quello di una loggia, affiancato da due colonne interrotte a mezza altezza da intrecci vegetali con al centro il bastone del dio Mercurio, detto «caduceo», a sinistra e un timone a destra. Sul timpano un occhio posto all’interno del delta luminoso, il triangolo con il vertice rivolto verso l’alto, è il simbolo del numero perfetto, il tre. Sotto l’architrave un compasso aperto incrocia una squadra con le estremità troncate, riferimento ai compagni massoni che lavorarono con l’architetto capo Hiram Habif alla costruzione del Tempio di Gerusalemme, e sulla base c’è una corda con un nodo e un’ancora marinara con la scritta «ROSARIO», riferimento forse al Rosarium philosophorum, un testo alchemico del XIII secolo. Un’altra fondamentale donazione fu quella, in vita, dell’importo di L. 1.000 di Prospero Moisè Loria, fondatore con la moglie Anna Tedeschi – entram-

alla quale giunse quasi per caso osservando alcuni insetti che, caduti in un crogiuolo che conteneva lava vulcanica incandescente, si dissolsero trasformandosi in minuscole fiamme lucenti. Questo lo spinse a pensare che la stessa cosa sarebbe accaduta con la materia organica e a inventare il processo di cremazione che, come scrisse ad Alberto Keller di Kellerer, «dà origine a una fiamma lucentissima e affatto inodore e la vista dell’operazione non desta alcuna impressione disgradevole, e vi possono assistere molte gentili Signore senza provare ribrezzo». La cremazione secondo il «metodo Gorini» avveniva con fascine di pioppo o altra legna dolce e durava circa due ore. Il feretro era spinto all’interno del forno per scorrimento su rotelle e veniva investito orizzontalmente per tutta la sua lunghezza, dalla testa ai piedi, dalle fiamme. Il consumo era di circa due quintali di legna. 157


Disegno di Piero Portaluppi per il monumento di Emilio e Marco Praga Guido Bracchi, nudo maschile per il Monumento Emma Stixa Papini Grubicy de Dragon, particolare

formulazione degli articoli 3 e 49. Fu anche membro del Tribunale Russell. A Levante le opere degne di nota sono parecchie. Una composizione allegorica a firma di Ernesto Bazzaro ricorda Carlo Romussi, pubblicista e storico, importante esponente della cultura milanese radicale della seconda metà dell’Ottocento. Non lontano la tomba di Cesare Pozzo, presidente della Società di Mutuo Soccorso tra Macchinisti e Fuochisti delle Ferrovie dell’Alta Italia, dotato di grandi capacità intellettuali e organizzative e di forte sensibilità ai problemi sociali dell’epoca. Il letterato e autore teatrale Emilio Praga, anche lui scapigliato come quasi tutti gli artisti sepolti in questa zona, e suo figlio Marco, morto suicida, sono ricordati, come da disposizioni testamentarie, solo con le date di nascita e di morte su un cippo di granito disegnato da Pietro Portaluppi. Una figura maschile nuda di Achille Alberti, Sconforto, si dispera su un sarcofago sulla cui base è collocato un simbolo di risurrezione, un gallo in bronzo che annuncia l’arrivo del nuovo giorno. È l’ultima dimora di Ferdinando Gian Pietro Lucini, narratore, poeta prima futurista e poi simbolista e critico, riscoperto recentemente dal poeta Edoardo Sanguineti. Sulla tomba di Emma Stixa Papini, moglie dell’editore e mercante d’arte Alberto Grubicy De Dragon, un uomo nudo riverso su se stesso è una delle rare rappresentazioni di disperazione maschile, al confine tra liberty e déco. I fratelli Alberto e Vittore Grubicy furono critici e galleristi importantissimi e a loro dobbiamo la scoperta di Segantini, Previati, Morbelli e persino Carrà. Vittore fu anche un pittore divisionista. Il monumento al confine tra i Giardini Cinerari e il Circondante di Levante, Il sogno, ci regala un meraviglioso viso addormentato ed estatico che rappresenta l’anima nel momento in cui lascia il corpo. Un piedino leggiadro spunta da una veste vorticosa. Celebra la memoria di Erminia Cairati Vogt, mece-

bi sepolti al Cimitero degli Israeliti – della Società Umanitaria che, per contrastare l’opposizione dei medici legali alla cremazione, dotò il Tempio di una sala anatomica per effettuare le autopsie e verificare che i defunti non fossero stati vittime di atti criminosi. La Prima guerra mondiale e il fascismo misero in crisi l’ideale cremazionista e la società che lo impersonava, ma in seguito tutto tornò alla normalità fino al 1993, anno in cui tutte le attività, da tempo gestite dal Comune, furono spostate a Lambrate. Oggi il Tempio, culla di libertà e civiltà, è purtroppo del tutto abbandonato in attesa che, come molti sperano, sia trasformato in museo. Nel Tempio e nei Giardini Cinerari adiacenti sono tuttora conservate le ceneri di personaggi della vita culturale milanese e lombarda. Artisti e letterati, soldati ed eroi, cospiratori e benefattori, anarchici e collezionisti d’arte, filantropi e, naturalmente, scapigliati di varia ispirazione. A Ponente scopriamo il monumento del radicale mazziniano Vincenzo Brusco Onnis, piccolo capolavoro di Medardo Rosso; l’autoritratto in bronzo che lo scultore Ernesto Bazzaro realizzò per la propria tomba; la sobria sepoltura dei coniugi Luigi ed Ersilia Majno di Giuseppe Enrini, fondatori dell’Asilo Mariuccia che accoglieva senza vincoli religiosi o di nazionalità le giovani senza risorse che rischiavano di prostituirsi, garantendo loro emancipazione e indipendenza. L’avvocato penalista Luigi Majno difese Filippo Turati e Anna Kuliscioff dopo i moti milanesi del 1898 e fu presidente della Società Umanitaria, rettore della Bocconi e deputato socialista. Sul monumento di Lelio Basso, un semplice masso levigato di marmo grigio, è incisa la seguente epigrafe, poetica ed evocativa della personalità del defunto: «NON FU DI QUELLE ANIME STANCHE IN CUI MUORE LA GIOIA A POCO A POCO». Basso fu deputato dell’Assemblea Costituente e fece parte della commissione, formata da 75 membri, che scrisse il testo della Costituzione contribuendo, in particolar modo, alla 158


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nate e filantropa il cui salotto milanese era un ritrovo molto ambito da artisti e letterati. Il monumento di Dario Papa ci rammenta che il defunto era un pubblicista repubblicano, come è scritto nell’epigrafe. A livello del viale, quindi più in basso rispetto al resto dei Giardini, un sepolto interessante è Lumir Vesely detto «Leo», un veneto di origine ceca, inventore dello Yomo. L’idea del coagulo omogeneo gli venne in tempo di guerra per conservare il latte, che era razionato, a beneficio dei bambini e degli orfani dei brefotrofi. Non volle mai brevettare la formula perché pensava generosamente che fosse un bene universale. Leo riposa vicino ad Alik Cavaliere, suo cognato, uno degli esponenti più rappresentativi della scultura italiana moderna. Artista difficile da definire o inquadrare, influenzato dalla pop art americana,

era costantemente all’inseguimento di nuove forme espressive. In oltre quarant’anni di attività ha utilizzato i materiali più vari, dai metalli pregiati come il rame, il bronzo, l’oro e l’argento, a quelli meno nobili come l’acciaio, la ghisa, l’ottone e il piombo, senza disdegnare la plastica, la stoffa, il legno, la carta, le fotografie e persino l’acqua. Negli ultimi anni ha racchiuso le sue opere in grate o in teche di vetro per significare il mistero del mondo e il dramma dell’esistenza. Altrettanto interessante è il padre Alberto che sposò la fascinosa russa di Yalta Fanny Kaufmann, a cui la nipote Fania ha recentemente dedicato un romanzo. Scrisse migliaia di poesie per la radio e moltissimi ricordano come nella sua quotidiana conclusione della cronaca del «Gazzettino Padano», suggellasse le notizie con una morale in versi e con il fonema «Rataplan» ripetuto più volte.

Terreno per l’ampliamento del Recinto Maciachini Alfeo Bedeschi, Monumento Don Angelo Giuseppe Gervasini detto «el Pret de Ratanàa» 160


Riparti XVII-XVIII-XIX-XX ed Esterno di Ponente

niera dell’aviazione Gaby Angelini, rampolla di una famiglia di industriali farmaceutici. Partita per Nuova Delhi durante la tappa Tripoli-Tobruk scelse di attraversare il deserto libico invece di sorvolare il Golfo della Sirte, ritenendolo meno rischioso e questo le costò la vita. La sua epigrafe recita così: «IN ARDIMENTO CADDE DAL CIELO E IN GLORIA VI RISALÌ. CIELO D’AFRICA 1932». Il suo monumento funebre rappresenta in modo molto dinamico la sua anima che ascende in cielo con grande slancio, come se decollasse. Ma il personaggio più particolare e intrigante di tutto il Monumentale occupa, quasi «in castigo», l’angolo più estremo del Riparto XX e quindi di tutto il cimitero. È Giuseppe Gervasini detto «el Pret de Ratanàa», nato nel 1867 a Robarello lungo la strada del Sacro Monte di Varese, in una famiglia molto povera. Considerato dalla Chiesa un prete scomodo, veniva per questo motivo continuamente spostato come succede a tutti i religiosi disobbedienti. L’unico che lo apprezzò e lo benedì fu il cardinale Schuster. Don Giuseppe aveva una passione sfrenata per la medicina alternativa, che aveva studiato durante il servizio militare a Caserta, ed era un esperto di erbe, infusi e decotti. Aveva la rara capacità di capire al primo sguardo che male opprimesse la persona che gli stava di fronte e di curarla con metodi sempli-

1929 – 1930 Alla fine degli anni Venti venne edificata un’ampia area nuova a nord-ovest, al confine con l’attuale viale Luigi Nono. Il progetto dell’architetto Ranieri Arcaini prevedeva quattro Riparti dal XVII al XX, divisi in due aree da un largo viale principale che li percorre longitudinalmente e un Riparto Esterno di Ponente che arriva a lambire il Cimitero Acattolico. La storia di Milano qui continua con defunti che in vita hanno realizzato grandi imprese. Qualche nome. L’editore Angelo Rizzoli, l’industriale del panettone Angelo Motta, la ballerina Irina Lukaszewicz, il nobil homo Biagio Gabardi, cavaliere di Gran Croce e membro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro, fondato nel 1099 da Goffredo di Buglione, Bice Gandini benefattrice che lasciò tutta la sua ingente fortuna all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano, l’imprenditore Umberto Girola costruttore di centrali idroelettriche, Ivanoe Fraizzoli presidente dell’Inter e industriale, la famiglia di banchieri Manusardi, gli industriali Baghetti, un membro dei quali, Giancarlo, fu un campione di Formula 1, e i Crespi Morbio fondatori del «Corriere della Sera». Non mancano monumenti altrettanto significativi come quello della giovanissima e coraggiosa pio-

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Edicola Manusardi, architetti Figini e Pollini, scultore Fausto Melotti Disegno per il Monumento Irina Lukaszewicz Edicola Baghetti, scultore Gianni Remuzzi Arturo Martini, Il sogno, opera nota anche come Tersicore caduta, Monumento Irina Lukaszewicz

ci e naturali. La sua fama di guaritore si diffuse e da lui cominciarono ad arrivavare malati di tutti i tipi, poveretti o potenti. Non era un mago, o uno stregone, ma le sue guarigioni finirono per essere considerate miracolose dagli ammalati e questo non piacque per nulla ai suoi superiori. Inoltre, nel 1898 si schierò con la folla che protestava contro il gene-

rale Bava Beccaris e questo lo rese inviso a molti. Un giorno ricevette in dono da un uomo che aveva guarito una casetta a Baggio, in via Fratelli Zoia, vicino alla Cascina Linterno dove si dice abbia abitato Francesco Petrarca, e che divenne «la casa dei miracoli». La fermata del tram 34 di via Forze Armate divenne per tutti quella del «Pret de Ratanaà». 162


Giannino Castiglioni sull’Edicola Gabardi

Edicola Gabardi

Lì continuò la sua attività di guaritore fino al 1941, anno di guerra in cui morì. La Chiesa ufficiale negò la sua capacità di fare miracoli e demolì immediatamente la sua casa per evitare che diventasse meta di pellegrinaggi. Al Riparto Esterno di Ponente non ci sono edicole ma solo monumenti e di nuovo non mancano defunti che hanno storie da narrare. L’editore Arnoldo Mondadori con la figlia Cristina, il pittore Renato Birolli, l’attrice e musa di Pirandello

Marta Abba, gli industriali tessili Borghi, l’editore Mario Formenton Macola e, soprattutto, la sfortunata Daniela Samuele, giovanissima campionessa italiana di nuoto. Nel 1966 era stata selezionata per un importante incontro in Germania. A Francoforte aveva perso, per pochi minuti di ritardo, il suo aereo, che sarebbe atterrato a Brema all’ora prevista con nove posti vuoti. Il suo, quello dei suoi sei compagni di avventura, quello di Nico Sapio, telecronista della Rai, e quello 163


Floriano Bodini, Angelo, Monumento Mario Formenton Macola, particolare

Alberto Viani, Monumento Renato Birolli

TERRAZZA E RIPARTO ESTERNO DI LEVANTE 1980 – 1989

di Paolo Costoli, l’allenatore. La sera del 28 gennaio sull’aeroporto tedesco c’era una miscela di nebbia e di pioggia e il bimotore della Lufthansa su cui erano saliti si schiantò a terra con 47 persone a bordo, per cause che non furono mai chiarite. I sette giovani della Nazionale azzurra si stavano preparando per i Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968. Erano quattro ragazzi e tre ragazze, legati da profonda e sincera amicizia, provenienti tutti da famiglie semplici. La sciagura fu chiamata la «Superga del nuoto», evocando l’incidente aereo in cui scomparve tutta la squadra di calcio del Torino, e Pier Paolo Pasolini scrisse uno struggente articolo, ammettendo con disperazione la sua incapacità, da non credente, di capire e accettare un evento così agghiacciante.

Negli anni Ottanta fu ampliata anche la zona a est con l’edificazione del Riparto esterno di Levante. Diviso in tre sezioni, A, B e C, è formato da una sequenza di giardinetti rettangolari con monumenti ed edicole a cui si accede da un varco nel muro di cinta settentrionale. Piccolo ma quasi allegro perché ricco di prati verdi e di cespugli e fiori, con molto spazio tra le sepolture, a differenza della parte antica dove si costruì fittamente per ottenere il massimo profitto dalle concessioni di terreno. Una croce imponente sovrasta una composizione geometrica di massi di granito bianco sulla tomba 164


Otello Montaguti, Monumento Palumbo, particolare

Disegno di Floriano Bodini per il Monumento Piera Santambrogio

della famiglia De Nora della quale un membro, Niccolò, fu protagonista di un clamoroso rapimento nel 1977 che durò 524 giorni, forse il più lungo della storia, per il quale furono richiesti otto miliardi di riscatto. Il fondatore dell’azienda omonima, Oronzio, inventò, nel 1923 l’Amuchina e oggi l’azienda è tra i primi produttori al mondo degli elettrodi utilizzati nello stampaggio dei circuiti di smartphone e tablet. Non lontano due copie in bronzo della «Gazzetta dello Sport» e del «Corriere della Sera», così realistiche che sembra di poterle sfogliare, ricordano Gino Palumbo direttore del «Corriere d’Informazione» e della «Gazzetta dello Sport». Palumbo rivoluzionò il giornalismo sportivo raccontando l’umanità delle persone e non solo i loro primati. Il suo erede naturale fu il grande Candido Cannavò, che è sepolto al Famedio, nella Cripta. Nella medesima area il bronzo Ragazza e cane del Monumento Piera Santambrogio richiama una celebre incisione di Albrecht Dürer, la Melancholia. Piera Santambrogio, imprenditrice e filantropa è ricordata dal 2016 nel Famedio. Il monumento sulla tomba di Alessandro Vaia è un’opera dello scultore Giò Pomodoro che iniziò la sua attività, come il fratello Arnaldo, come orafo

e poi, divenuto scultore, si dedicò a opere di ispirazione costruttivista, come questa. Il defunto, scrittore e poeta e Medaglia d’argento al valor militare, fu dapprima comandante partigiano della Brigata Garibaldi in Spagna e poi commissario di guerra a Milano durante l’insurrezione del 1945.

MU-141- LA VITA INFINITA 2014 L’ultima opera artisticamente rilevante pensata per il Cimitero Monumentale si trova… all’esterno! Sul prato dal lato ovest, verso viale Luigi Nono, svetta dal 4 giugno 2015 la stele in bronzo MU-141-La Vita Infinita di Kengiro Azuma. 165


Da sinistra: Alik Cavaliere, Marino Marini, Kengiro Azuma

Disegno per l’opera MU-141-La Vita Infinita

Il Maestro Kengiro Azuma

Il Maestro, di origine giapponese, si trasferì a Milano dopo la Seconda guerra mondiale, entrando come allievo nello studio di Marino Marini dove incontrò Alik Cavaliere, assistente del Maestro. Il suo mentore un giorno lo cacciò con gentile forza dall’atelier per costringerlo a riappropriarsi delle sue origini e dell’ispirazione artistica e filosofica del suo Paese. Fu così che, influenzato anche da Lucio Fontana e dallo spazialismo, Kengiro elaborò un’arte del tutto individuale, libera da schemi e non ascrivibile a nessuna scuola o corrente, diventando uno dei più apprezzati scultori contemporanei.

Riuscì sempre a tenersi al di fuori delle logiche più trite di mercato restando fedele alla pacata visione zen del mondo. Ascoltarlo parlare era una lezione di umiltà e grandezza. L’amore e la riconoscenza di questo sapiente personaggio per Milano erano talmente grandi da spingerlo a chiamare suo figlio Ambrogio e sua figlia Mami, dalle iniziali di Marino Marini e dalle prime due lettere della città. Il Maestro si è spento «prematuramente» a soli novant’anni, silenzioso e quieto come ha vissuto, nella notte tra il 14 e il 15 ottobre 2016. 166


Kengiro Azuma lavora all’opera MU-141-La Vita Infinita nella Fonderia Battaglia

Kengiro Azuma, MU-141-La Vita Infinita, davanti al Monumentale

L’opera MU-141-La Vita Infinita, alta 4 metri, è una metafora della vita e della morte e di tutti gli opposti, il cielo e la terra, il maschile e il femminile, il bene e il male, la luce e il buio. L’artista l’ha generosamente donata alla sua Milano partendo da un’idea della giovane Olì Bonzanigo, luminosa responsabile artistica della Fonderia Battaglia e l’Associazione Amici del Monumentale di Milano ha condiviso con entusiasmo e passione il progetto fino al raggiungimento del traguardo. Trenta piccole gocce di bronzo acquistate da altrettanti collezionisti hanno finanziato la realizzazione dell’opera.

È una fusione a cera persa, che ha preso vita negli altiforni della Fonderia Artistica Battaglia, fondata nel 1913 proprio per eseguire monumenti funebri per il Monumentale, ma poi diventata la prediletta da molti artisti di importanza internazionale. Situata da sempre in via Stilicone 10, dietro un austero portone grigio, cela un luogo magico, regno del silenzio e del fuoco, generatori di arte e di bellezza. Artigiani esperti maneggiano con semplicità il gesso, la cera, la polvere di argilla per realizzare capolavori di grandi artisti. Il silenzio è interrotto solo dal rumore delle fiamme e degli strumenti di lavoro. 167


Foto di gruppo della Fonderia Artistica Battaglia in occasione della realizzazione della copia dei cavalli di S. Marco a Venezia nel 1979 Montaggio del Genio del Fascismo di Giorgio Gori presso la Fonderia Artistica Battaglia nel 1937

I piÚ importanti scultori del Novecento hanno visto nascere qui le loro creature, da Marino Marini a Francesco Messina, da Arturo Martini a Floriano Bodini, da Vito Vaccaro a Velasco, da Arnaldo Pomodoro a Giuseppe Penone, per citarne solo alcuni. Ma Battaglia vuole essere anche un mecenate per giovani artisti che qui trovano aiuto, ascolto, accoglienza, appoggio e preziosi consigli, frutto dell’esperienza e della passione per il bronzo e per l’arte.

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Il Cimitero Maggiore

dai campi decennali del Monumentale, demoliti per far posto a tombe più prestigiose, iniziarono il 23 ottobre 1895 con i defunti del Gentilino-Ticinese e della Mojazza-Porta Vittoria; dal 1° dicembre cominciarono a portare quelli di Porta Magenta e dal 1° luglio quelli di Porta Vittoria. Venne allora istituito un apposito percorso tranviario, la cui stazione di partenza si trovava a Porta Romana, dove ora ci sono le Terme di Milano e in precedenza il dopolavoro ATM. I milanesi, forse per sdrammatizzare e con la loro consueta ironia meneghina, chiamarono questo tram, progettato dall’ingegnere Giuseppe Ponzio, «la Gioconda». Un breve cenno storico al trasporto dei defunti lo troviamo nel libro di Carlo Tedeschi Origini e vicende dei cimiteri di Milano e del servizio mortuario (editore G. Agnelli, Milano 1899). L’autore ci spiega che nell’antichità i defunti venivano accompagnati alla sepoltura da parenti e amici e che solo con «la crescita della specie umana» si avviò un servizio pubblico dapprima assicurato dai frati agostiniani dell’Ospedale della Colombetta, perciò chiamati «colombetti», che «assistevano gli ammalati, raccoglievano elemosine per gli infermi e per i poveri vergognosi e per i carcerati della Malastalla». Le carceri della Malastalla, per chi non lo sapesse, erano ubicate sin dalla seconda metà del Duecento e fino al 1787 nell’isolato compreso tra le contrade degli Orefici e degli Armorari, vicino alla chiesa di S. Galdino. L’ospedale fu unificato nel 1458 con la Ca’ Granda, fondata nel 1456 da Francesco Sforza, che accolse i frati colombetti destinandoli al trasporto funebre retribuito, tranne che per i «miserabili» per i quali era «in omaggio». Napoleone soppresse l’Ordine e a metà Settecento il servizio regolare fu assicurato dai becchini che dal 1859 dovettero indossare una cappa nera per coprire i loro cenci.

1895 Il 5 luglio 1886 il Consiglio comunale deliberò la costruzione di un nuovo e più vasto cimitero in quanto lo sviluppo demografico della città era andato oltre ogni aspettativa e il Monumentale da solo non era in grado di accogliere tutti i defunti. Le mutate condizioni sociali, con l’ascesa di una nuova classe borghese con notevoli disponibilità economiche, provocò la richiesta di tombe adeguate al rango e all’importanza dei defunti che desideravano opere artisticamente rilevanti che facessero effetto. La chiusura definitiva dei camposanti del Gentilino o di Porta Ticinese, di San Giovannino alla Paglia o Porta Magenta, della Mojazza o di Porta Garibaldi o del Fopponino o di Porta Vercellina avvenne quello stesso anno. San Gregorio era già stato dismesso il 31 agosto 1883. In San Gregorio esisteva un reparto suicidi, in terra sconsacrata, che venne abolito con il Regolamento pei funerali civili del 13 maggio 1867. Una curiosità riguarda i «giustiziati per pena capitale» che dovevano essere seppelliti nel luogo di esecuzione che erano la piazza del Duomo, il Broletto, il Carrobio o i cimiteri del Vigentino, di Melegnano e di Monza. I soldati erano uccisi e inumati nel Lazzaretto. Dal giorno dell’apertura di Musocco, il 1° gennaio 1895, le sepolture al Monumentale divennero quindi perpetue e tali restarono fino al 1963, quando divennero novantanovennali, rinnovabili una sola volta. Luigi Mazzocchi ed Enrico Brotti furono incaricati del progetto e la zona scelta per costruirlo fu l’antico Bosco della Merlata, vicino alla Certosa di Garegnano, dissodato a seguito dell’entrata in vigore della Legge 3917/1877, che eliminò il vincolo di tutela da tutti i boschi di pianura e collina. Il 26 settembre 1895 il nuovo cimitero fu benedetto da monsignor Ferrari e le inumazioni delle salme prima destinate ai cimiteri dismessi e quelle provenienti 169


Prospetto e pianta dell’ingresso del Cimitero di Musocco, tratti dal libro di Carlo Tedeschi, Origini e vicende dei cimiteri di Milano e del servizio mortuario. Studio storico, Agnelli, Milano 1899

Nel 1867 entrarono in servizio i necrofori, antenati degli attuali operatori cimiteriali.

Nella parte posteriore della struttura centrale, oltre i cancelli, si trova, al Campo VIII, il Cimitero Ebraico, aperto nel 1895. Da quel momento il Monumentale accolse solo le sepolture di ebrei illustri. Tra le personalitĂ milanesi sepolte a Musocco ricordiamo Becky Behar (1929-2009), saggista e conferenziera turca sopravvissuta alla strage nazista di

La superficie complessiva del Cimitero Maggiore, originariamente di 400.000 metri quadri, è ora di 678.000 metri quadri, di cui 80.000 a giardino. I defunti attualmente sono oltre mezzo milione. 170


Meina del 1943; Eugenio Curiel (1912-1945), partigiano e fisico italiano; Benito Mussolini (1883-1945), fino al 1946 poi trasferito al cimitero di San Cassiano di Predappio; l’amatissima cantante Giuni Russo (1951-2004), autrice e interprete italiana; Osvaldo Valenti (1906-1945), attore italiano dell’epoca fasci-

sta; Luisa Ferida moglie di Valenti, fucilata con lui (1914-1945); Clara Petacci (1912-1945), amante di Benito Mussolini, dopo il 1947 trasferita al Cimitero del Verano a Roma; Evita Perón (1919-1952), dal 1955 al 1971 col nome fittizio di Maria Maggi De Magistris. Oggi è sepolta a Buenos Aires. 171


In memoriam di Carla De Bernardi e Lalla Fumagalli

Per concludere questo viaggio nel cuore, nella mente e nell’anima di Milano, vanno ricordati defunti che hanno scelto – o qualcuno ha scelto per loro – sepolture semplici, poco appariscenti, che non sono presenti nelle guide e nei libri d’arte ma che a buon diritto appartengono a quelli di storia. Nessun giro turistico, seppur colto, li visiterà mai e sarà possibile trovarne notizia solo in testi specialistici. Per questo sono qui menzionati. Certamente qualcuno che li ha amati e stimati ne sarà felice.

oggi Politecnico di Milano. Progettò e contribuì ai progetti di diversi padiglioni dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906. Fra le sue creazioni la Galleria Warowland a Salsomaggiore Terme, in stile medievalista lombardo commissionata nel 1914 dal conte Ladislao Tyszkiewicz. Nel 1911 per il senatore e banchiere Cesare Mangili, presidente dell’Expo del 1906, realizzò al Cimitero Monumentale di Milano l’Edicola Mangili. Bossi Giovan Battista (Novara, 5 maggio 1864-Milano, 26 luglio 1924), architetto, progettista di importanti edifici liberty a Milano. Nel 1906 partecipò all’Esposizione Internazionale del Sempione per la quale aveva progettato il classicheggiante Padiglione della Pace. Al Monumentale ha realizzato nel 1903 l’Edicola Biffi in stile romanico con accenni bizantini, nel 1904 l’Edicola De Benedetti nel Cimitero degli Israeliti, nello stesso anno Casa Bossi (Milano, viale Piave 11-13) con decorazioni cementizie a motivi floreali (l’edificio del numero 15 è stato distrutto durante un bombardamento nella Seconda guerra mondiale). Sue sono alcune splendide dimore liberty: Casa Guazzoni in via Malpighi 12, angolo via Melzo, con ferri di Alessandro Mazzucotelli; Casa Galimberti in via Malpighi 3, angolo via Sirtori, considerato uno degli edifici più belli del liberty milanese; Casa Alessio in via De Bernardi 1; Casa Centenara in corso Buenos Aires 66. Inoltre, Casa Fratelli Conti in corso Magenta 84, in stile neoquattrocentesco e Casa Riotta in corso Vercelli 38, angolo via Belfiore, in stile eclettico con elementi liberty, e altre. Bouyeure Elvira Leonardi detta «Biki» (Milano, 1º giugno 1906-24 febbraio 1999), una delle più celebri sarte italiane tra gli anni Quaranta e Settanta. Fu lei a trasformare Maria Callas da giovane donna goffa in una sfolgorante ed elegantissima, seppur imperfetta, bellezza. Alla morte della madre, moglie di Mario Crespi comproprietario del «Corriere della Sera», ereditò una parte cospicua di quell’impero editoriale ma non per questo smise di lavorare nel suo atelier

Abba Marta (Milano, 25 giugno 1900-24 giugno 1988), attrice italiana. Musa ispiratrice di Luigi Pirandello, fu una delle più grandi interpreti del Novecento. Esordì nel 1922 nel dramma Il gabbiano di Anton Cechov e si fece immediatamente notare per la sua recitazione istintuale ed esuberante. Fu la prima ragazza a sfoggiare un bikini sulla spiaggia di Castiglioncello, suscitando uno scandalo. Nel 1947 divenne la musa e l’interprete preferita di Luigi Pirandello che la scritturò come prima attrice del suo Teatro d’Arte di Roma e con cui scambiò più di cinquecento lettere. Banfi Gian Luigi detto «Giangio» (Milano, 2 aprile 1910-Gusen, 10 aprile 1945), architetto e urbanista, fondatore dello studio Gruppo BBPR. Arrestato il 21 marzo 1944 con Ludovico Barbiano di Belgiojoso, suo amico e socio, morì nel campo di concentramento di Gusen poco prima della liberazione. Barbiera Raffaello (Venezia, 1851-Milano, 1934), giornalista e critico letterario, autore de Il salotto della Contessa Maffei. Bongi Orsino (Firenze, 1875-Milano, 1921), architetto e docente, esponente di spicco del movimento architettonico liberty. Toscano di nascita, si trasferì in giovane età a Milano dove frequentò la Scuola superiore di Architettura con Camillo Boito e Luigi Broggi presso il «Regio Istituto Tecnico superiore», 172


di via Sant’Andrea. Nell’ultimo periodo, in un clima culturale molto mutato, lanciò una moda molto più sobria e fece la consulente per ditte di confezioni in serie. Davvero una gran lavoratrice. Breveglieri Cesare (Milano, 12 marzo 1902-22 marzo 1948), pittore e poeta. Frequentò le magistrali e contemporaneamente la Scuola serale degli Artefici all’Accademia di Brera. Passò attraverso esperienze diverse: maestro, impiegato, commesso viaggiatore, ma seppe mantenere viva la propria vocazione artistica, finché nel 1928, abbandonate queste attività, si dedicò completamente alla pittura. Broggi Aloysius (Milano, 6 maggio 1851-14 ottobre 1926) architetto. Caremoli Davide (1870-1935), imprenditore dolciario. Una stella verde a sei punte come marchio: la caramella Golia alla liquirizia «inventata» nel 1945 da Davide Caremoli, da allora è conosciuta in tutto il mondo. Il nome è dovuto alla sua minuscola dimensione. Cassinis Gino (Milano, 27 gennaio 1885-Roma, 13 gennaio 1964), matematico, politico, sindaco di Milano. Castelli Pompeo (Milano, 1820-1901), patriota, avvocato e consigliere comunale. Nel suo studio fece pratica forense Antonio Fogazzaro. Cederna Camilla (Milano, 21 gennaio 1911-5 novembre 1997), giornalista e scrittrice. Ciriello Raffaele (Venosa, 1959-Ramallah, 2002), chirurgo, reporter di guerra. Colombo Giuseppe (Milano, 18 dicembre 1836-16 gennaio 1921), ingegnere, imprenditore e politico. Comerio Luca (Milano, 19 novembre 1878-Mombello di Limbiate, 5 luglio 1940), fotografo e cineasta, pioniere del documentario e dell’industria cinematografica italiana. Iniziò la sua carriera come fotografo e, appena ventenne, documentò a rischio della vita i moti popolari scoppiati a Milano nel maggio del 1898 e la sanguinosa repressione del generale Bava Beccaris. Nel 1907 fu nominato fotografo della Real

Casa nonché ritrattista ufficiale di Vittorio Emanuele

III. Nel 1908, fece costruire uno stabilimento cinema-

tografico nel quartiere Turro dotato di un teatro di posa di 22.000 metri quadri, il più grande d’Europa. Afflitto da problemi di amnesia e da malattie mentali, morì all’Ospedale psichiatrico di Mombello nel 1940. Crivelli Gerolamo (Milano, 15 settembre 1924-24 luglio 2013), pittore e scultore. De Togni Aristide (1828-1884), facoltoso commerciante di pizzi e ricami, dispose un cospicuo lascito per il rifacimento della facciata del Duomo. Fraccaroli Arnaldo (Villa Bartolomea, 1882-Milano, 1956), brillante scrittore di romanzi, resoconti di viaggio come inviato speciale del «Corriere della Sera», per il quale era stato corrispondente dal fronte nella guerra ’15-’18. Tra le sue opere Ostrega che sbrego! e Biraghin. Greco Icilio Artabano († 1892), pittore. Isotta Cesare (1870-1946), avvocato e imprenditore del settore automobilistico. Fu il fondatore, nel 1900, in società con i fratelli Vincenzo, Oreste e Antonio Fraschini, dell’Isotta Fraschini, per la fabbricazione di automobili lussuose, di camion, di motori navali e per aerei. Alcuni modelli di auto hanno fatto storia come la Tipo 8 del 1919, che divenne l’auto più desiderata al mondo. Venne acquistata anche da Rodolfo Valentino, Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti. Landini Achille (Milano, 22 aprile 1890-1988). Aviatore italiano, pioniere dell’aviazione e pilota da competizione, svolse l’incarico di collaudatore per la Helios, per la Società Italiana Aviazione (SIA) e infine per l’Aeronautica Gabardini. La sua impresa più clamorosa fu la trasvolata del Rosa, il 27 luglio 1914, evento che passò quasi inosservato poiché il 28 luglio la Serbia dichiarò guerra all’Ungheria dando inizio al primo conflitto mondiale. Lepetit Roberto e famiglia (Lezza, 1906-Ebensee, 1945), famiglia di chimici di origine francese, trasferitasi in Italia negli anni Sessanta dell’Ottocento. 173


Roberto collaborò con la Resistenza, fu arrestato in seguito a una delazione e morì nel campo di concentramento di Ebensee, amena località austriaca, tristemente nota per essere stata dal 1943 al 1945 un sottocampo di quello di Mauthausen-Gusen. Mangiagalli Luigi (Mortara, 16 giugno 1850-Milano, 3 luglio 1928), ginecologo, politico italiano, primo rettore dell’Università Statale, sindaco di Milano. Fondatore, nel 1928, dell’Istituto Vittorio Emanuele III per la Cura e lo studio dei Tumori. Marinetti Filippo Tommaso (Alessandria d’Egitto, 22 dicembre 1876-Bellagio, 2 dicembre 1944), poeta, scrittore, drammaturgo, visionario fondatore del movimento futurista. Moisè Loria Prospero (Mantova, 7 aprile 1814-Milano, 28 ottobre 1892), imprenditore e filantropo, il cui nome è legato alla Società Umanitaria di Milano da lui promossa e finanziata. È sepolto con la moglie Anna Tedeschi. Monneret de Villard Ugo (Milano, 16 gennaio 1881Roma, 4 novembre 1954), ingegnere, archeologo e orientalista. Motta Luigi (Bussolengo, 11 luglio 1881-Milano, 18 dicembre 1955), scrittore di romanzi d’avventura. In poco più di cinquant’anni scrisse più di cento romanzi dai titoli evocativi tra cui I flagellatori dell’oceano, L’albatros fuggente, La principessa delle rose, Il dominatore della Malesia, Fiamme sul Bosforo, Le tigri del Gange, L’isola senza nome. Collaborò per molti anni con la «Domenica del Corriere». Nizzoli Marcello (Boretto, 2 gennaio 1887-Camogli, 31 luglio 1969), designer, architetto, pittore e pubblicitario. La sua fama è legata principalmente all’Olivetti e alla realizzazione della famosa Lettera 22. Sue anche la macchina per cucire Mirella, disegnata per la Necchi Spa, Premio Compasso d’oro 1957, e la penna stilografica Aurora 88. Palazzi Ferdinando (Arcevia, 21 giugno 1884-Milano, 8 giugno 1962), romanziere, lessicografo e critico letterario. Scrisse numerosi testi scolastici di storia,

geografia, grammatica e curò antologie di letture e raccolte di fiabe. Tra le sue opere un romanzo sentimentale, La storia amorosa di Rosetta e del cavalier di Nérac e un’Enciclopedia degli aneddoti. Il suo nome è ricordato principalmente quale autore del Novissimo dizionario della lingua italiana, edito da Ceschina nel 1939 e ristampato fino a tempi recenti, e de Il Piccolo Palazzi – Moderno dizionario della lingua italiana. Pantaleoni Alceo (Sebenico, 7 ottobre 1837-Udine, 18 dicembre 1908), baritono. Pantaleoni Romilda (Udine, 29 agosto 1847-Milano, 20 maggio 1917), soprano, prima interprete di Desdemona nell’Otello di Verdi. Penco Rosina (Napoli, 1834-Porretta, 1894), interprete di Rossini e di Verdi. Pirella Emanuele (Reggio Emilia, 1940-2010), uno dei più noti pubblicitari italiani, fondatore e presidente dell’agenzia pubblicitaria Lowe Pirella e della Scuola di Emanuele Pirella, oltre che autore satirico in coppia con il disegnatore Tullio Pericoli. Pirovano Ernesto (Milano, 1866-1934), architetto italiano modernista. Progettò, con l’ingegnere Pietro Brunati, il villaggio industriale di Crespi d’Adda, costruito nel 1893-1894, uno degli esempi meglio conservati al mondo di archeologia industriale. Fra il 1902 e il 1904 realizzò la celebre Casa Ferrario in via Spadari a Milano, con le decorazioni in ferro battuto disegnate da Alessandro Mazzucotelli. Nel 1906 progettò il Cimitero Monumentale di Mantova. Pizzigoni Giuseppina (Milano, 1870-1947). Nel borgo milanese della Ghisolfa fondò agli inizi del Novecento la Scuola Rinnovata, che costituiva un metodo di insegnamento del tutto nuovo, paragonabile per innovazione e importanza a quello di Maria Montessori. La sua scuola, che esiste tuttora, comprendeva aule aperte sul giardino, con spogliatoi, sala da musica e da proiezioni, aule di lavoro, palestra, refettorio, laboratori per le scuole d’avviamento, gabinetto medico e odontoiatrico, padiglione per le lezioni di agraria, campo di gioco, giardini e padiglioni per le lezioni 174


di Jules Burgmein. Il 12 febbraio 1882 fu nominato commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia da Umberto I re d’Italia. Morì nel 1912, e gli successe il figlio Tito II. Ricordi Tito I (Milano, 1811-1888), editore musicale. Figlio di Giovanni Ricordi e di Giuseppina Arosio, studiò da pianista ed entrò nell’azienda di famiglia nel 1825. Alla morte del padre continuò il rapporto con Giuseppe Verdi pubblicando tre opere inedite: I vespri siciliani nel 1855, Simon Boccanegra nel 1857 e Un ballo in maschera nel 1858. Nel 1888 rilevò la casa editrice Lucca, sua diretta concorrente. Morì nello stesso anno e la direzione della casa editrice passò al figlio Giulio. Romussi Carlo (Milano, 10 dicembre 1847-2 marzo 1913), avvocato, giornalista e politico, direttore del quotidiano «Il Secolo» dal 1896 al 1909 ed esponente del riformismo milanese, sepolto poco distante. Rovetta Gerolamo (Verola Nuova, 1851-Milano, 1910), romanziere, commediografo fecondissimo. Il suo capolavoro è la commedia Romanticismo. Sangiorgio Abbondio (Milano, 16 luglio 1798-2 aprile 1879) è stato uno scultore italiano, a cavallo tra neoclassicismo e verismo. Studiò all’Accademia di Brera, collaborò nella Fabbrica del Duomo e per l’Arco della Pace realizzò il grandioso gruppo scultoreo in bronzo detto «Sestiga della Pace», composto da sei cavalli che trainano un carro finemente decorato su cui si erge Minerva. Stambucchi Rupertus (1855-1902), astronomus braydensis preclarus. Stolz Teresa nata Tereza Stolzová (Kostelec nad Labem, 2 giugno 1834-Milano, 23 agosto 1902), soprano ceco naturalizzato italiano, solista nel 1874 nella prima esecuzione assoluta del Requiem di Verdi. È stata descritta come «il soprano verdiano drammatico per eccellenza, potente e appassionata, ma dotata da tono sicuro e da molto autocontrollo». Tallone Cesare (Savona, 11 agosto 1853-Milano, 21 giugno 1919), pittore. Il suo successo esplose all’Esposizione di Brera dove, nel 1884, presentò al

all’aperto, campi sperimentali per le esercitazioni di lavoro e recinti per gli animali. Morì in povertà all’Istituto Sant’Anna di Saronno. Polo Enrico (Parma, 1868-Milano, 1953). Violinista, amico del cuore di Leonardo Bistolfi e di Arturo Toscanini, di cui divenne cognato avendo sposato Ida De Martini, sorella di Carla, moglie del Maestro. Pozza Giovanni (Schio, 1852-Milano, 1914), critico teatrale, critico musicale e giornalista. Poeta dialettale milanese e librettista, era detto, nell’ambiente della scapigliatura, «Pozza negher» per distinguerlo dal fratello Francesco (1855-1921), detto «Pozza biond». Con Francesco, che riposa al suo fianco, e con Luca Beltrami, Tranquillo Cremona, Marco Praga e Carlo Borghi fondò il settimanale satirico «Il Guerin Meschino» (1881-1921). Pozzo Cesare (Serravalle Scrivia, 1º gennaio 1853-Udine, 15 maggio 1898), sindacalista italiano. Fu il primo macchinista ferroviario che curò l’organizzazione dei ferrovieri e in particolare dei macchinisti, rivestendo anche la carica di presidente della Mutua di Milano. La sua attività fu improntata a ideali prima mazziniani e poi socialisti. Fu più volte costretto a emigrare in diversi depositi di locomotive italiani. Morì tragicamente a Udine lanciandosi sotto un treno. La Società di Mutuo soccorso tra macchinisti e fuochisti delle Ferrovie dell’Alta Italia, fondata a Milano il 1° maggio del 1877, di cui fu presidente, è oggi la più grande società di questo tipo in Italia e porta il suo nome: Società nazionale di Mutuo soccorso «Cesare Pozzo». Fu molto amico di Carlo Romussi. Ricordi Giulio (Milano, 1840-1912), figlio dell’editore Tito I. Diresse la casa editrice dal 1888 al 1912. Con lui Casa Ricordi raggiunse l’apice della fortuna e della fama. Ma è passato alla storia soprattutto per essere stato l’editore di Giuseppe Verdi, di Amilcare Ponchielli e di alcuni compositori della Giovane Scuola, tra cui Giacomo Puccini, al quale fu particolarmente legato, Alfredo Catalani e Umberto Giordano. Fu anche compositore adottando lo pseudonimo 175


pubblico quattro ritratti grazie ai quali divenne l’interprete ufficiale dell’aristocrazia e dell’alta borghesia milanesi, tanto che ritrasse più volte sia il re Umberto che la regina Margherita. Nel 1888 sposò Eleonora Tango, da cui ebbe nove figli. Ebbe tra i suoi allievi Carrà, Boccioni, Funi, Dudreville, Sant’Elia. Morì nel 1919 a causa delle sue precarie condizioni di salute, aggravate dal dolore per la partenza per il fronte dei quattro figli maschi. Torelli Viollier Eugenio nato Eugenio Torelli (Napoli, 26 marzo 1842-26 aprile 1900), giornalista e politico. Nel 1875 fu ideatore e cofondatore del «Corriere della Sera» di cui fu direttore fino alla morte, nel 1900. Veneziani Jole (Taranto, 11 luglio 1901-Milano, 10 gennaio 1989), sarta di alta moda. Nata a Taranto, studiò ragioneria a Milano prima di aprire, durante la guerra, un atelier di pellicce a cui affiancò una produzione di abiti di alta moda. Richiestissima dalle dame del bel mondo, al pari di «Biki», fu lei a suggerire ai dirigenti dell’Alfa Romeo, dopo un viaggio in America, di sostituire le auto, che erano tutte nere, con modelli colorati «come caramelle». Fissata con l’idea che per essere felici bisogna vivere in un mondo variopinto, fu la prima a tingere le pellicce in tutte le tonalità e a proporre le calze da donna colorate. Vergani Orio (Milano, 1898-1960) e Leonardo (Milano, 1932-1994), padre e figlio, entrambi scrittori e giornalisti. Orio era fratello dell’attrice Vera Vergani. Per trentaquattro anni al «Corriere della Sera», divenne celebre come giornalista sportivo per le sue cronache del Giro d’Italia e del Tour de France. Nel 1926 istituì il Premio Bagutta, che si svolge ancora ogni anno al ristorante omonimo, e nel 1953 fondò l’Accademia Italiana della Cucina. Leonardo, a lungo corrispondente da Londra del «Corriere», scrisse anche romanzi tra cui ricordiamo Un amore sulla vita di Eleonora Duse.

PROGETTO PER I PROSSIMI CENTOCINQUANT’ANNI Ora si tratta di tutelare questo immenso patrimonio per le generazioni future, in modo che fra centocinquant’anni si possa celebrare un altro anniversario come questo. Come? Cominciando da quello che manca, il censimento completo delle opere, che già nel 1992 nel volume Il Cimitero Monumentale di Milano, edito da Electa e dal Comune, veniva indicato come una priorità ma che non ha mai avuto seguito. Esiste un censimento iniziato da Ornella Selvafolta e Giovanna Ginex, storiche dell’arte e dell’architettura, che hanno pubblicato la guida al Monumentale che ancor oggi è il più importante ed esaustivo testo in materia, ma è rimasto incompleto. Come scritto già allora è disponibile un archivio che permette di risalire agli autori partendo dalla posizione delle opere nel cimitero, ma non esiste una catalogazione per artisti e architetti, date, condizioni, materiali ecc… È dunque urgente approfondire la conoscenza e lo studio di tutti i manufatti, uno per uno: sculture, architetture piccole e grandi, bassorilievi, altorilievi, mosaici, affreschi, dipinti, decorazioni. L’Associazione Amici del Monumentale ha avviato una ricerca sul campo e un archivio che consta per ora di alcune migliaia di voci e questo lavoro continua senza interruzione. Incrociando i dati con quelli del censimento di Ginex e Selvafolta si può già creare un database aggiornato e tecnologicamente avanzato, dal quale partire per arrivare a un buon risultato soddisfacente in tempi ragionevoli. Il supporto dell’Amministrazione comunale e della Soprintendenza saranno di basilare importanza. Tutto il resto – conservazione, promozione, valorizzazione – verrà, semplicemente, di conseguenza.

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PARTE SECONDA

GLI ARTISTI


Enrico Butti di Francesco Rizzi

Enrico Butti (1847-1932) è stato uno dei protagonisti indiscussi della scultura lombardo-milanese tra Ottocento e Novecento: nel lungo periodo della sua attività, infatti, partecipò ai principali movimenti artistici che si svilupparono in tale contesto, quali la scapigliatura, il verismo e il simbolismo. Butti era originario di Viggiù, ameno borgo della provincia di Varese, dove si cavava un’arenaria che traeva il suo nome dalla stessa località, utilizzata principalmente per elementi di decoro architettonico in molti centri della Lombardia e del Piemonte. La presenza delle cave e le attività sviluppatesi intor-

no a esse hanno determinato nel corso dei secoli il fiorire di una folta schiera di artisti e scalpellini che con le loro opere hanno dato lustro al paese. Butti proveniva da una famiglia di artisti: il padre scalpellino, lo zio Stefano famoso scultore e il cugino Guido, anche lui scultore di rilievo. Sin da giovane fu evidente la bravura del ragazzo, che ancora adolescente si recò a Milano per apprendere la tecnica dell’arte all’Accademia di Brera. A Milano dapprima si dedicò alla riproduzione in marmo delle opere di famosi artisti e solo quando raggiunse una certa indipendenza economica iniziò a 178


A fronte: Diploma dell’Accademia di Brera

Angelo dell’evocazione, Monumento Cavi Bussi

produrre opere proprie. Nel primo periodo di attività, che si inquadra nella tendenza scapigliata, realizzò alcune opere che raccolsero un discreto successo da parte della critica. In quegli anni il fervore artistico della città trovava sfogo nei principali cantieri del momento: il Duomo e il Cimitero Monumentale da poco inaugurato e nel quale tanti validi scultori avevano potuto collocare le proprie opere. Tra questi segnaliamo un altro artista viggiutese: Luigi Buzzi Giberto (1838-1915). La sua opera, il grande angelo sulla sepoltura del garibaldino Nicostrato Castellini, fu la prima a essere collocata al Monumentale. Tra il 1893 e il 1913 Butti fu titolare della Cattedra di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Brera e sotto la sua guida si formarono decine di validi scultori, molte opere dei quali sono anch’esse collocate nel cimitero milanese a fianco di quelle del Maestro (tra gli allievi ricordiamo Vedani, Chiesa, Labò, Castiglioni, Pancera, Dressler, Favini, Capsoni, ecc.). Se già conoscete le tre opere milanesi più note di Enrico Butti – il Monumento a Giuseppe Verdi di piazzale Buonarroti, innalzato di fronte alla Casa di Riposo per Musicisti, il Monumento al generale Sirtori nei Giardini Pubblici e da ultimo, nell’adiacente Museo dell’Ottocento, l’opera Il minatore, presentato all’Expo di Parigi del 1889 (quello che vide la costruzione della Tour Eiffel) – ora potreste andare alla scoperta delle altre sue opere collocate all’interno del maestoso Cimitero Monumentale di Milano. Il primo lavoro dell’artista ivi innalzato, che sintetizza maestria, semplicità e grandiosità, è stato l’Angelo dell’evocazione: un colossale angelo di 3 metri d’altezza, scolpito in marmo di Carrara, avvolto in una fluida e semplice tunica, che poggia la propria mano su un cippo che indica la tomba su cui è inciso il nome della famiglia Cavi Bussi. L’opera essenziale e plastica, priva di manieristici particolari, viene armonizzata nelle dimensioni da una croce che la sovrasta. Con quest’opera monumentale Butti vinse per la prima volta il Premio Principe Umberto,

riconoscimento che gli sarà poi conferito per altre due sculture. Questo stesso monumento verrà utilizzato anche per altre due sepolture: quella del pittore Acosta, a Granada, e quella della famiglia Crosti, a Tradate. Furono, infatti, proprio le grandiose e affascinanti sculture cimiteriali a rendere celebre l’artista. Già nella scultura dell’Angelo della risurrezione lo scultore denota una poliedricità e un eclettismo che lo contraddistingueranno nel prosieguo della sua vita artistica. In prossimità di quest’opera troviamo un altro grandioso gruppo scultoreo denominato Il Tempo 179


A fronte: Edicola Isabella Airoldi Brioschi Casati. In primo piano il Monumento Giuseppe Pessina di Armando Violi

Disegno per il Monumento Borghi

Il Lavoro, Edicola Besenzanica

bronzo associato alla pietra Simona, cavata in Valcamonica, dal colore rosso scuro: materiale questo molto apprezzato dallo scultore che lo utilizzerà anche in altri monumenti. Le opere, però, che senz’altro lasceranno senza fiato lo spettatore sono quelle che si trovano lungo il Viale Centrale d’accesso del Monumentale. Tra queste, quella di maggior rilievo è senza dubbio la sepoltura della famiglia Besenzanica: un imprenditore edile che lasciò carta bianca all’artista per la realizzazione del suo monumento. Si tratta di una struttura complessa, formata da due elementi principali: una coppia di buoi aggiogati guidati da due contadini e una donna sfinge che ingloba e occulta la parte dedicata alle sepolture. È senza dubbio il più rilevante lavoro del genere di Butti, che per essere il più verista possibile per la sua realizzazione acquistò una coppia di buoi che tenne nel parco della sua villa di Viggiù, per meglio studiarne l’anatomia e la conformazione. I modelli dei contadini, come di consuetudine, l’artista li sceglieva trai suoi concittadini. Il tema protagonista della composizione, in questo caso, non è la morte ma il lavoro per eccellenza: quello della terra, da cui nasciamo e a cui torneremo, mentre la parte posteriore rappresenta la madre terra che con il suo alito dà la vita. Poco distante da questa sepoltura un’altra toccante opera di Butti, che emana un forte senso di serenità e dona a chi la osserva la convinzione che nulla possa turbare l’animo dell’uomo dopo la morte, è l’opera dedicata alla contessa Casati Brioschi, morta di parto a soli ventiquattro anni. L’opera che meglio coniuga simbolismo e verismo ritrae una fanciulla, a seno scoperto, dolcemente adagiata sul letto di morte, alle cui spalle un vorticoso volo di angeli ne sta portando in cielo l’anima. La modella di quest’opera è Virginia Sevesi che, dopo la prematura scomparsa della moglie dell’artista, divenne sua compagna di vita fino alla morte. Percorrendo il Viale Centrale del cimitero, quasi di fronte a queste sepolture, si trova l’ardita prospet-

a indicare la sepoltura dell’intellettuale scapigliato Carlo Borghi. Esso ritrae un vecchio alato meditabondo, a torso nudo, dai tratti anatomici molto curati, appoggiato stancamente a un altare decorato da figure riferite al periodo altomedievale: si tratta della classica rappresentazione allegorica del tempo. Anche in questa sepoltura Butti giocherà con il contrasto dei materiali utilizzando il marmo di Carrara per la figura del vecchio e un granito grigio per il basamento e il fondale. Adiacente a quest’ultima sepoltura si trova quella della famiglia Crosti, nella quale l’artista utilizza il 180


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Quiete, Monumento Teresa Migliavacca Butti A fronte: Siamo fratelli, Monumento Famiglia Galbiati

non trovava una fidanzata, il detto «vai a Viggiù da Butti che te la fa in marmo su misura». Certamente con tale modo di dire si alludeva all’estrema abilità del Maestro nel ritrarre dal vero. Questo suo tratto caratteristico è riscontrabile anche nel piccolo ritratto che fa nel monumento della moglie e nel busto che dedica al suo amico e collega, professore di Brera, Giovanni De Castro, posizionato nei Portici Superiori di Ponente. Se questa breve descrizione ha suscitato in voi interesse per l’autore potete sempre andare alla scoperta di altre sue opere presso il Museo Butti di Viggiù. REGESTO ENRICO BUTTI Edicola Isabella Airoldi Casati Il sogno della morte Edicola Besenzanica Il Lavoro Edicola Erba, scultura La Pietà Edicola Crosti Maddalena al Sepolcro

tiva dal titolo Quiete, collocata sulla tomba della moglie dell’artista: Teresa Migliavacca, deceduta di peritonite, appena quarantenne. Questa edicola si caratterizza per la presenza di un gioco di luci nella rappresentazione delle arcate del monastero, luogo simbolo di speranza di vita oltre la morte. In prossimità di quest’opera scorgiamo il Crocifisso realizzato per lo scultore Vincenzo Tantardini. Il crocifisso, iconografia cristiana tra le più ricorrenti in ambito cimiteriale, è stato interpretato da Butti nella consueta maniera verista, riuscendo a imprimere all’opera quel pathos e quella drammaticità che la caratterizzano. Per crearla pensate che legò il modello alla croce per diverse ore e lo ritrasse proprio nel momento dello sfinimento dovuto alla stanchezza! L’opera piacque talmente all’artista che decise di utilizzarla per la sua sepoltura nel cimitero del borgo natio di Viggiù e a lato venne posta la tomba della compagna modella. Infine una curiosità: nel secolo scorso vigeva, per chi

1890 1912 1912 1922

Busto Giovanni De Castro Monumento Cavi Bussi L’angelo dell’evocazione Monumento Carlo Borghi Il Tempo Monumento Guerrini Pigni Monumento Renato Ghezzi Monumento Giovanni Caglio e Felicita Perego Muto pianto Monumento Vincenzo Tantardini Cristo crocifisso Monumento Teresa Migliavacca Butti La Quiete Monumento Galbiati Siamo fratelli Monumento Antonio Cremascoli Preghiera Monumento Alberto Weill-Schott Dolore Monumento Macchi Sommaruga

1894 1894 1885 1895 1904 1908

Sepoltura Pietro Curletti

1901

Medaglione Cesare Beccaria Medaglione Giuseppe Parini

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1880 1884 1888 1891 1892


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Ernesto Bazzaro al Monumentale di Marilisa Di Giovanni

Qualcuno ha detto: «Non si fa storia senza i documenti» e la vicenda umana e artistica di Ernesto Bazzaro è stata quasi completamente ricostruita grazie alla donazione degli eredi di un ricco epistolario, costituito da 540 tra lettere, minute e copialettere scritte tra gli anni 1873 e 1937 (anno della morte dello scultore), depositato in fotocopie presso il Dipartimento di Scienza della Letteratura e dell’Arte medievale e moderna della Facoltà di Lettere dell’Università di Pavia e attualmente conservato presso il Fondo Maria Corti. La trascrizione si è rivelata importante per la ricchezza di notizie che ha permesso di identificare e datare con sicurezza opere, bozzetti, partecipazione a mostre e a concorsi pubblici e… vicende felici o deludenti, con qualche risvolto polemico e discutibile – oggi da considerarsi anacronistico e quasi ridicolo – come la collocazione del Monumento a Felice Cavallotti davanti all’Ambrosiana, ritenuto «sconveniente» e quindi fatto traslocare per volere del prefetto della prestigiosa istituzione, divenuto poi papa Ratti; oppure il «giallo», ancora oggi irrisolto, della scultura Il volo dell’anima per la Tomba Branca – ambedue le vicende sono state pubblicate da me su «Arte Lombarda» –. In alcuni casi è stato proprio un percorso «investigativo» per riuscire a individuare i corrispondenti dell’artista, semplici conoscenti o persone a lui legate da diversi affetti, come è il caso del primo amore, la giovane cantante Osanna, sorella di due carissimi amici di gioventù, a cui sono indirizzate lettere appassionate, pudiche e dolci, con il timore di essere intercettate dalla madre di lei: cose d’altri tempi! Ernesto Bazzaro era nato a Milano nel 1859 da Francesco, commerciante di oggetti d’arte, e da Marianna Boschetti, ricamatrice. Ricordiamo il fratello Leonardo, pittore di buona reputazione e di una certa fama; Francesco, sfortunato padre di una numerosa famiglia a cui con affetto e sollecitudine Ernesto accudiva, ed Enrico, ingegnere che fu tra i

progettisti del traforo del Sempione. Dopo gli studi tecnici presso la Regia Scuola di via Cappuccio (oggi l’Istituto Cattaneo), si iscrisse a Brera. Nelle lettere troviamo ricordi di alcuni insegnanti – Ferrari, Casnedi, Barzaghi, Hayez e Bertini –, non particolarmente calorosi, e di alcuni compagni di corso: Bistolfi, proveniente a Brera dall’Albertina di Torino, Alberti, Carminati e Medardo Rosso. Compagni di grande eccellenza e di stimolanti confronti. Ma su tutti Bazzaro ricorderà come ideale maestro, sebbene non avesse frequentato il suo studio, lo scultore Giuseppe Grandi, i cui suggerimenti gli furono preziosi nel superare una certa scultura «romantica» di cui sono esempio alcune vivaci statuette del primo periodo, ripetute per esigenze economiche, da 184


A fronte: Ernesto Bazzaro con la moglie

Esaurimento, Monumento Alfredo Lombardi

ritenersi «sculture da salotto», omaggio a una certa moda «orientalista», molto richieste dal mercato. Viaggiando in Italia, rimase colpito a Firenze dalla potenza delle opere di Michelangelo, in particolare gli esempi forti e vigorosi del Giorno e della Notte della Cappella Medicea nella sagrestia di S. Lorenzo che gli ispirarono, nella tensione della gamba stesa e l’altra ripiegata e nella torsione del busto, la statua del Leonida del Monumento a Cavallotti. Vicenda vissuta da Bazzaro con grande apprensione, con meticolosa cura nella scelta del marmo, con infelicità per l’umiliazione dovuta alla durissima lettera di Achille Ratti che definì il monumento segno di «inciviltà». Vince il Premio Principe Umberto con La vedova per l’abile fattura e l’espressione naturale e commovente della donna che stringe la figlioletta. E ancora, aderendo a nuove istanze sociali alle quali fu estremamente sensibile, scolpisce Trovatella ed Esaurimento in cui, da artista diremmo oggi «impegnato», vuole esprimere la sofferenza degli umili, dei diseredati. Adotta un linguaggio veristico spesso servendosi di contenuti simbolisti in metafore che esprimano grandi ideali e verità e alti valori, seguendo in realtà la direttrice Grandi-Bistolfi con un recupero della grande tradizione cinquecentesca, e non appare interessato alle contemporanee ricerche luministiche di Medardo Rosso, se non in qualche sporadico esempio al Monumentale nelle superfici mosse e lavorate con effetti indefiniti, mentre lo tenta tecnicamente la resa del movimento e della vitalità nella virtuosistica realizzazione della Tomba Branca. In una lettera del 1918 esprime chiaramente i principi che informano la sua scelta tematica nell’esecuzione di un monumento: «L’idea psicologica, filosofica e sentimentale è il linguaggio informatorio del monumento… L’idea è il verbo e la scultura è l’arte che comunica all’osservatore…». Fu personalità di forte levatura nell’ambito culturale milanese intervenendo nel dibattito sull’insegna-

mento all’Accademia sia polemizzando sulla Scuola di Modellatura basata sulla copia di statue («la figura umana perfetta è la più bella statua»), sia invitando a introdurre la modellazione dal vero «per essere padrone della forma». Dopo la Prima guerra i suoi interventi pubblici riguarderanno la vita artistica della città e particolarmente l’assetto dell’Accademia di Brera: insegnamento, reclutamento del personale sia insegnante che amministrativo, lamentele circa la mancanza di chiarezza nei concorsi pubblici, la conservazione e il restauro dei monumenti pubblici, mentre non 185


A fronte: Monumento Carinelli Montini

Edicola Branca

tomba di Andrea Radice con un verismo tardottocentesco, con influenza di Odoardo Tabacchi del Monumento Omodeo e anche di Grandi della tomba detta «Tumulo recente», nel pianto composto, trattenuto e dignitoso della figura femminile che esprime speranza nel futuro ultraterreno nella tomba per Andrea Radice Rassegnazione; o Meditazione, con la figura femminile seduta sulla tomba, assorta in un silenzioso dolore; o la tomba della famiglia Tonta, che rappresenta una donna inginocchiata con i segni di un grande dolore sul viso, sorretta dalla croce che stringe tra le braccia; a Dolore austero per la tomba di Bettina Torroni De Grandi, in cui unisce un’immagine forte dal torso quasi michelangiolesco a un simbolismo che vede la figura ancora racchiusa nelle forme indefinite nella materia da cui a fatica emerge, una sorta di irrisolta contaminazione tra passato e presente, tra naturalismo e simbolismo, tra Vela e Grandi, Rodin e Bistolfi. La sua capacità espressiva si coglie nei medaglioni raffiguranti i defunti, veri ritratti di efficace naturalezza, anche se a volte qualche committente gli rimprovera la scarsa somiglianza con il caro estinto, dovuta spesso a una pessima fotografia da cui ricavare il ritratto – è il caso della signora Panceri che rifiutò il lavoro dello scultore –. La prova della sua abilità di modellatore seguace di Grandi e di prontezza nel cogliere la personalità l’abbiamo nella simpatica sfida con il fratello pittore: ne risultano i due lavori oggi conservati agli Uffizi, nella Galleria degli autoritratti, mentre una copia è sul suo tumulo. La tomba per Stefano Branca ha una vicenda molto travagliata che peserà sull’artista. Due sono gli aspetti che oggi ci interessano e che vengono messi in luce nella complicata progettazione: da un lato, la posizione ideologica di Bazzaro, fortemente difesa da Rossana Bossaglia, fu sempre ritenuta laica e genericamente libertaria, lo conferma la composizione dei puttini danzanti sulla tomba per Ermenegildo Castiglioni, nonostante l’iscrizione «CREDENTE IN DIO», la croce,

parteciperà più alle elezioni, ma verrà chiamato per commemorazioni ufficiali, particolarmente in occasione di funerali di colleghi. Fu sempre persuaso della sua personale funzione pubblica e sostenitore della nuova dignità dell’artista nella società all’inizio del nuovo secolo. Dopo il primo riconoscimento del Comune di Monza per il Monumento a Garibaldi, ebbe numerosi incarichi e commissioni per monumenti funerari e l’Epistolario ci permette di ricostruire la sua evoluzione di artista attraverso i diversi atteggiamenti in cui il lutto per la perdita di una persona cara viene visto e rappresentato: da Pianto rassegnato per la 186


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Edicola Squadrelli, particolare

l’abbraccio e l’amichevole aiuto nei gesti dei bambini; dall’altro, la lunga, laboriosa e sofferta preparazione della Tomba Branca è stilisticamente in linea con la cultura verista e simbolista al tempo stesso, ma rivela nella tematica una visione cattolica che è presente nelle parole indirizzate a Vittorio Pica: «L’anima liberatasi dal peso del corpo vola leggera e gioiosa verso il cielo; gli angeli si pongono quali intercessori tra gli uomini e Dio per la salvezza della stessa. L’aspetto terreno è rappresentato dal dolore, michelangiolesca figura che simbolicamente incarna lo strazio fisico che proviamo alla perdita di una persona cara, che ci chiude in noi stessi e che non accetta il conforto dall’esterno». Il volo degli angeli in equilibrio – defi-

nito «una piramide di acrobati» – che si innalzavano prodigiosamente fino a 8 metri senza supporto architettonico – prova di grande abilità tecnica nella resa della vita, della vitalità e del movimento – esprime la visione conforme alla teologia di pura spiritualità, senza peso, libera da ogni legame terreno. Si apre un lungo e inspiegabile contenzioso con la vedova Branca, apparentemente più legato a un aspetto economico, e la tomba con tutti gli accessori (ostensorio, turibolo, aspersorio), già installata al cimitero, dovette essere rimossa; in parte fu comprata per L. 12.000 dall’industriale Ernesto Ottolini di Busto Arsizio, che la sistemò nel giardino della sua villa e lì sicuramente restò fino alla Seconda guerra, 188


Edicola Pasquale Crespi

ma oggi risulta dispersa. Sulla Tomba Branca oggi vi è la scultura di Michele Vedani Pietà, che riprende l’imponente struttura proiettata verso l’alto della composizione di Bazzaro. Della sua partecipazione al concorso per il Monumento a Giuseppe Verdi, vinto da Butti, rimane il bel bozzetto passato dalla famiglia di Umberto Montini al ramo Montini Carinelli e posto sulla tomba di famiglia: al realistico ritratto di Verdi seduto con le gambe accavallate si contrappongono le due sinuose figure femminili, allegorie di Armonia e Musica, richiamo alla cartellonistica liberty. Stranamente scarsi sono nell’Epistolario i riferimenti alle due imprese delle tombe Squadrelli del 1911 e Crespi del 1913, legate stilisticamente al monumentalismo simbolista d’ispirazione rodiniana nella Risurrezione di Lazzaro, che si intravede all’interno del sepolcro formato da grossi blocchi di pietra grigia di Sarnico – la stessa usata nel fregio decorativo della Villa Faccanoni, oggi clinica Columbus –, richiamato in vita dal Cristo in bronzo. Marta è in ginocchio nell’atto di baciare i piedi a Cristo mentre Maria è in disparte. Per conferire forza e imponenza a un simbolismo denso di significati l’anno dopo Bazzaro lavora all’Edicola Pasquale Crespi, dallo stesso linguaggio potente, in cui quattro figure sono addossate ai massi che costituiscono il sepolcro. Simboleggiano, secondo le dichiarazioni dello scultore, l’eredità di affetti, l’insondabilità del disegno divino e l’ineluttabilità della morte, mentre un bimbo sorridente all’ingresso è il rinnovarsi della vita, apertura verso la speranza. La cultura del tempo, le figure dei defunti – che costituiscono la nuova classe di borghesi, ricchi industriali, come le famiglie Ponti di Villahermosa, Monticelli, Rigamonti, Crespi Rosati – e il loro stato sociale spingerebbe a interpretare queste scelte tanto imponenti come la voglia di prestigio, di affermazione del proprio stato, confermata dalle scelte stilistiche aggiornate e legate alla tradizione e anche dal

luogo di immediato impatto per chi visita il cimitero nell’Emiciclo all’ingresso. Altre tombe, meno rilevanti, si susseguono negli anni, alcune costituite da un busto-ritratto – per Enrico Polo nel 1921, per Carolina Galimberti, per Ernesta Baietta, per la famiglia Guffanti, per Carlo Ciovini, per Vittorio Schenoni –, o un profilo tratteggiato sulla parete del Tempio Crematorio per Vespasiano Bignami. Altre in cui la forte influenza di Rodin è ancora sentita, come nel Pensatore per lo svizzero Fiebiger del 1925, commissione che gli fu procurata da Remo Rossi di Locarno, uno degli allievi più affezionati. Alcune lettere scambiate dallo scultore con l’avvo189


Monumento Emilio Rigamonti

Autoritratto, Monumento Ernesto Bazzaro

cato Pancera, legale della cantante Luisa Tetrazzini, hanno fatto ritenere che la commissione andasse a buon fine ma un’indagine recente della studiosa Tiziana Rota nella pubblicazione dedicata a Michele Vedani, ricca di documentazione, ha attribuito la tomba a quest’ultimo, scultore molto attivo nel cimitero; lo confermerebbe l’analisi stilistica delle figure poste sulla struttura. Più problematica appare l’attribuzione del delicato intaglio della porta, che non trova riscontri nelle opere dei due artisti milanesi. Gli ultimi anni della vita di Bazzaro furono travagliati per problemi economici e per mancate commissioni di lavori: dopo numerosi monumenti ai caduti da erigersi in Lombardia, la cui preparazione fu rigorosa,

sembra venire meno in Bazzaro la potenza espressiva indirizzandolo in lavori più convenzionali. Infine, la bocciatura al concorso per il Monumento ai Caduti di Monza gli procurò una cocente delusione. Anche nei monumenti funerari sembra avere esaurito la spinta più colta, più riflessiva capace di esprimere quei valori alti della nostra cultura: nella Tomba Supino sono raffigurate alcune pecore che si abbeverano alla fonte, mentre si esprime in forme di maggiore valore stilistico per Dar da bere agli assetati o forse meglio Gesù e la Samaritana alla fontana per la Tomba Ciovini, nell’acconciatura orientale della donna. Stanchezza, amarezze e cattive condizioni di salute lo porteranno alla conclusione della vita nel 1937. 190


REGESTO ERNESTO BAZZARO Edicola Stefano Branca 1897 rimossa Edicola Pasquale Crespi, sculture 1909-1912 Eredità d’affetti - lato anteriore Indeprecabilità - lato destro Imperscrutabilità - lato sinistro Rinovellamento della vita - lato posteriore Edicola Romolo Squadrelli, gruppo scultoreo 1911 La risurrezione di Lazzaro Edicola Supino 1914 Edicola Carlo Pasquinelli Caporetto 1920

Monumento Edoardo Astori Monumento Rodolfo Gatti Preghiera Monumento Coniugi Minorini La soavità dell’anima Monumento Guffanti Sinite parvulos venire ad me Monumento Giovanna Rotondi Monumento Scipione Ronchetti Monumento Giuseppe Fiebiger Monumento Carlo Mariani Monumento Anna Maria Ronconi Monumento Ermenegildo Baietta Monumento Dionigi Astori Monumento Carolina Bernacchi Galimberti Monumento Bardelstein Monumento Agnese Visconti Monrath Monumento Severino Moncalieri Monumento Goldman Monumento Carlo Ciovini Monumento Piero Castelli Monumento Ernesto Bazzaro Autoritratto

Monumento Andrea Radice 1887 Monumento Emilio Rigamonti La rassegnazione 1890 Monumento Francesco Redaello Monticelli 1891 Monumento Gerolamo Ponti La meditazione 1893 Monumento Alfredo Lombardi Esaurimento 1894 Monumento Bettina De Grandi Torrani 1894 Dolore austero Monumento Virginia Crespi Rosati 1896-1898 Monumento Ermenegildo Castiglioni 1897 La fede, l’amor fraterno e il soccorso Monumento Domenico Vismara 1898 Monumento Giuseppe Tonta 1904 Fede conturbata dal dolore di aver perduto il padre Monumento Carinelli Montini 1906 Omaggio a Giuseppe Verdi

1907 1910 1917 1918 1919 1921 1925 1926 1927

Lapide Vittorio Schenoni, altorilievo Lapide Guido Pomares y de Morantes, bassorilievo 1926 Lapide Carlo Radaelli, bassorilievo Lapide Vespasiano Bignami, bassorilievo

191


Medardo Rosso al Cimitero Monumentale di Milano di Ilaria M.P. Barzaghi

Il 1889 è un anno fondamentale per Parigi: nel centenario della Rivoluzione francese, l’Esposizione Universale ne stravolge in maniera epocale l’orizzonte con l’iconica presenza della Tour Eiffel, testimonianza dell’afflato alla modernità della capitale francese, monumento inizialmente vituperato in quanto struttura metallica progettata dalla mente di un ingegnere. Proprio nel 1889, che risulta essere un anno determinante, lo scultore Medardo Rosso (1858-1928), milanese di adozione, decide di trasferirsi nella Ville Lumière per sviluppare la sua carriera artistica, lasciando in Italia la moglie e il piccolo Francesco. La moglie non la prende bene e gli devasta lo studio, danneggiando e distruggendo parecchi lavori tra cui lo splendido gesso monumentale Impressione d’omnibus, andato perso per sempre (resta una straordinaria serie di fotografie a cui lo scultore lavorerà per molti anni). Rosso è un trentenne di talento e carattere, che si è fatto notare per la sua attenzione ai temi sociali della vita moderna, per il suo sguardo empatico rivolto a figure di poveri ed emarginati, rappresentati con un linguaggio in sintonia con le ricerche degli scapigliati e degli impressionisti e già molto personale. Un giovane uomo che si dichiara anarchico, un artista che per la sua arte ricerca la verità nella natura e nella vita sociale, a cui Milano ormai sta stretta, e che tornerà a vivere in Italia perché obbligato dagli sconvolgimenti della Prima guerra mondiale. Ma prima di trasferirsi a Parigi, dove resterà per trent’anni, lascia alla città tre opere (tre bronzi) accessibili a tutti: i monumenti funebri di Vincenzo Brusco Onnis, Filippo Filippi ed Elisa Rognoni Faini dentro al Cimitero Monumentale. Per la tomba di Vincenzo Brusco Onnis (18821888), patriota mazziniano intransigente, Rosso realizza una stele con il ritratto del defunto, incastonata nel muro di cinta. Il monumento (datato 1888) viene inaugurato in concomitanza con la commemorazione delle Cinque Giornate, il 24 marzo 1889. Si tratta

di un piccolo bronzo, che emana una vivida presenza sia grazie al trattamento brullo delle superfici, sia alla postura non frontale del viso: come se Onnis si girasse in questo momento (quello in cui lo guardiamo) verso la sua sinistra, perché è appena stato chiamato da una voce che noi non abbiamo potuto udire. È un’immagine caratterizzata da intensità e freschezza al contempo, qualità amplificate dal fatto che l’opera è incastonata in un supporto murario e il busto risulta incorniciato da un rettangolo che fa pensare a una finestra da cui si sporge un uomo, oltre a richiamare la dimensione pittorica del quadro e a dissolvere completamente ogni monumentalità del lavoro. Nel caso del monumento per Filippo Filippi (1830192


Monumento Brusco Onnis

Monumento Filippo Filippi, particolare

1887), critico musicale della «Perseveranza» e personaggio di rilievo della scapigliatura milanese (inaugurato il 26 giugno 1889), Rosso elabora una soluzione originale e di estremo interesse: la stele e il busto-ritratto fanno corpo unico e sono realizzati in un’unica fusione in bronzo. Lungo il cippo figurato si dispongono piccole, mosse figure femminili insieme a putti musicanti, che conducono lo sguardo a un palpitante ritratto del Filippi. La base è coperta da alcuni fogli di musica su cui risultano leggibili pentagrammi e frasi musicali: ne resta fuori solo un angolo che lascia intuire la struttura sottostante. Anche qui,

utilizzando una modalità del tutto differente, Rosso perviene a una piena demonumentalizzazione della stele, di cui destruttura il canone classicamente tradizionale, introducendo dinamismo e senso di instabilità. Il trascorrere della luce sulle superfici irregolari che l’assorbono o riflettono allude al trascorrere del tempo e ai mutamenti che accompagna. Del lavoro per la tomba di Elisa Rognoni Faini (inaugurato il 2 novembre 1889), che ebbe una buona accoglienza sulla stampa, Rosso non era soddisfatto: stretto dal bisogno di denaro, in questo caso l’artista ribelle si dovette piegare ad accontentare la 193


Disegno per il Monumento Elisa Rognoni Faini

Progetto per la tomba di Medardo Rosso Ecce puer nello studio di Medardo Rosso

committenza seguendone i dettami (egli stesso lo confessa in una lettera, sottolineando che è l’unico caso). La fattura più definita, la resa più nitida sono evidentemente concessioni stilistiche fatte al cliente da Medardo Rosso, che si è qui piegato a edulcorare i suoi modi in favore di un linguaggio più convenzionalmente e tranquillamente realistico, con l’aggiunta di una piccola cascata di fiori, tradizionale omaggio alla femminilità. Si ha il senso della distanza che separa questo risultato dagli intenti di cui si nutriva la creatività di Rosso, guardando l’immagine sopravvissuta fino a noi della Riconoscenza, scultura realizzata nel 1883 per la tomba di Angelo Curletti nel Cimitero di Porta Ticinese (il Gentilino), andata poi distrutta: una donna giace sdraiata a terra, prona su una tomba, e attraverso una 194


Ecce puer, Monumento Medardo Rosso

grata all’altezza del viso sembra volersi sporgere per chiamare, o addirittura raggiungere, il defunto da cui non riesce a separarsi, scarmigliata e vestita di pelli o stracci: un’immagine forte, di strazio, dolore e forse passione, che suscitò scandalo e ne provocò la rimozione dal camposanto. Anche Medardo Rosso è sepolto al Monumentale, nel Settore degli Acattolici, e a vegliare sulla sua quiete è stato posto l’Ecce puer. Opera capitale nella produzione di Rosso, realizzata in diversi materiali (cera, bronzo, gesso colorato), è l’ultimo soggetto da lui concepito, nel 1906: da quell’anno fino alla sua morte, l’artista si dedicherà all’approfondimento e all’esplorazione seriale dei temi fino ad allora realizzati, attraverso la scultura e la fotografia. Il Puer ritratto (due volte il naturale) è il piccolo Alfred Mond, rampollo della nota dinastia di industriali inglesi. Il bambino è colto nell’istante in cui correndo si imbatte in una tenda, delicato ostacolo trasparente che gli vela il volto. Un’immagine al contempo realistica e simbolica, che allude alla purezza della prima età e alle sue promesse: una figura che collocata sulla sepoltura del suo autore fa inevitabilmente pensare a un’anima ormai libera che attraversa la soglia tra la vita e la morte, tra la luce e l’ombra, tra una dimensione nota e l’ignoto. REGESTO MEDARDO ROSSO Monumento Elisa Rognoni Faini Monumento Vincenzo Brusco Onnis Monumento Filippo Filippi Monumento Medardo Rosso Ecce puer

1888 1888 1889 1906

195


Leonardo Bistolfi di Alessandra Montanera

Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, Alessandria, 1859-La Loggia, Torino, 1933) è stato certamente uno dei maggiori interpreti del simbolismo europeo e – per dirla con le parole che utilizzò Paola Lombroso in un articolo interamente dedicato allo scultore casalese, apparso nel 1899 sulla rivista «Emporium» – «il frutto magnifico di questo suo simbolismo è tutto un ciclo di poemi in marmo sulla morte, in cui la potenza più grandiosa si unisce alla poesia più delicata». E di «ciclo» non a caso parlava la figlia del celebre antropologo criminale Cesare Lombroso, «perché ognuno di essi è riallacciato all’altro da un filo invisibile, segna la tappa, la sosta seguita da un’idea nella mente dell’artista»1. L’iter artistico di Leonardo Bistolfi inizia proprio a Milano, all’Accademia di Brera, usufruendo della borsa di studio che il Comune di Casale destinava ai propri giovani cittadini talentuosi, preferendo tuttavia, quattro anni più tardi, nel 1878, l’ambiente accademico torinese, dove si trasferirà per seguire i corsi di Odoardo Tabacchi. Le prime opere presentano tratti veristici (Il boaro, 1885), pur caratterizzati da una scioltezza non estranea a una fluidità di matrice scapigliata (Gli amanti, 1884), rivelando la propensione del giovane Bistolfi a sperimentare e ad aprirsi verso formule più moderne e meno convenzionali. Se gli anni Settanta rappresentano la formazione, è nel corso del decennio successivo che inizia a delinearsi la personalità artistica dello scultore, che giungerà a maturazione a partire dagli anni Novanta2. Al 1880 risale l’esecuzione del suo primo monumento funerario commissionatogli dalla famiglia Braida Fontanella (Torino, cimitero) per cui realizzerà, ancora nel solco di un linguaggio sostanzialmente tradizionale, L’angelo della morte3. Si dovrà tuttavia aspettare quasi un decennio per sancire il definitivo ingresso di Bistolfi, ormai pienamente simbolista, nella cerchia di quegli artisti che troveranno nell’arte funeraria numerose e importanti commissioni. Come

è noto sarà la Tomba Pansa di Cuneo (1890-1892), per cui elaborerà la celebre immagine de La sfinge, a rappresentare «il monumento più significativo ed espressivo del concetto della morte e dell’infinito pensiero moderno» e ad amplificare la fama di Bistolfi come «poeta della morte», definizione che mai apprezzò, definendosi in più occasioni piuttosto un cantore della vita, «della vita che continua, che apre squarci di mistero e di armonia oltre i limiti dell’esistenza fisica»4. Tutta la produzione funeraria di Bistolfi, risente del contesto socio-culturale che lo scultore frequentava nella Torino dell’epoca, permeato in particolare dal pensiero storico-positivista e orientato a un socialismo di stampo umanitario. Particolarmente significative sono le frequentazioni di casa Lombroso, che non lo lasciano neppure estraneo alla teosofia e allo spiritismo e che anzi lo vedono coinvolto in prima persona nel tentativo di comprensione di quei feno196


Il sogno, Monumento Erminia Cairati Vogt

meni spiritici5 che attirarono l’interesse di molti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Teorie, pensieri ed esperienze che permeano e si sostanziano nelle sculture funerarie di Bistolfi, realizzate per perpetuare la memoria dei morti tra i vivi, facendo dell’artista una sorta di medium. Lo stesso atto creativo vissuto e descritto dallo scultore scaturisce da stati inconsapevoli della mente: «Quando creo non so mai bene cosa voglio fare, prendo della terra e lascio che le mie mani tastino, facciano (…) a un certo momento basta che io sposti l’argilla per capire cosa debbo fare e a un tratto vi ritrovo dentro quello che cercavo confusamente»6. Il risultato di queste «cerebrazioni incoscienti» – per citare nuovamente Paola Lombroso – si ritrova oggi in quel «museo diffuso en plein air» che sono i cimiteri, riscoperti come tali negli ultimi anni grazie alle iniziative volte alla valorizzazione di quello straordinario patrimonio storico-artistico che custodiscono. Le opere di Leonardo Bistolfi si ritrovano in numerosi cimiteri del Nord Italia – celebri, come quello di Staglieno a Genova o il Monumentale di Torino o di Milano, e meno noti, se ci si sposta nei territori di provincia –, in quelli svizzeri di Ginevra, Zurigo e a Saint Moritz7 o, quasi inaspettatamente, oltreoceano, a Buenos Aires e Montevideo. Certo è che il Cimitero Monumentale di Milano ne conserva un considerevole numero, eterogeneo per qualità, fortuna e dimensioni. Realizzati nell’arco di un trentennio, dagli inizi del secolo giungendo quasi a ridosso del 1933, anno della morte dello scultore originario di Casale Monferrato, dove oggi si conserva parte della sua gipsoteca. La raccolta casalese raccoglie innumerevoli bozzetti e modelli, in terracotta e gesso (quasi duecento in tutto), che testimoniano il modus operandi di Bistolfi, documentando la genesi e l’elaborazione dell’opera finale scolpita nel marmo o nel bronzo, spesso eseguita con l’intervento di maestranze specializzate. È il caso del monumento funerario per Erminia 197


Letto di rose, Monumento Fanny Lacroix

«Emporium» e all’esposizione del gesso alla Biennale veneziana di quello stesso anno. Resta invece solo memoria del monumento funerario per Fanny Lacroix (Letto di rose), realizzato nel 1905, andato distrutto nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale che danneggiarono pesantemente ampie zone del cimitero. La tomba riprendeva forme e linee del monumento sepolcrale realizzato per il giovane Hermann Bauer (La resurrezione, 1902-1904) nel Cimitero di Staglieno9, rappresentando una figura femminile sdraiata tra altre due figure femminili inginocchiate, tutte e tre coperte da rose. Allo stesso periodo risale anche il monumento funerario Stefani10, che ripropone, a grandezza naturale ma in forme ridotte rispetto all’originale, la scultura in bronzo de Il Dolore ideata per la Tomba Durio al Monumentale di Torino (Il dolore confortato dalle memorie, 1898-1901)11, di cui a Casale si conserva, oltre al bozzetto, il grande modello del bassorilievo in cui sono rappresentate le Memorie che giungono a confortare il Dolore. Se già per sua natura la gipsoteca casalese riveste un ruolo fondamentale nella comprensione dell’iter creativo di numerose opere, permettendo di ripercorrerne le diverse fasi di elaborazione, dal bozzetto in terracotta al modello in gesso, essa diviene talvolta unica testimone di opere non più rintracciabili o andate perdute: è il caso della targa funeraria per Arnoldo Usigli (1906 ca.), non più reperita ma di cui a Casale si conserva il modello in gesso12, la cui iconografia si ispira ancora al tema del conforto del dolore già trattato per la Tomba Durio. La raccolta casalese conserva poi i bozzetti relativi all’opera più celebre che Bistolfi abbia realizzato per il Monumentale di Milano, ovvero l’Edicola Toscanini (1909-1911)13: si tratta dei bozzetti in gesso della cappella, progettata dall’architetto Mario Labò, e dei tre bassorilievi che la ornano lateralmente. Commissionata allo sculture dal famoso direttore d’orchestra Arturo Toscanini per accogliere la salma del figlio-

Cairati Vogt (1900), mecenate e filantropa, moglie dell’architetto pittore Gerolamo Cairati, animatrice di un «salotto» molto ambito da artisti e letterati. Nota anche come Il sogno, questa imponente scultura di marmo bianco, di cui a Casale se ne conserva il modello in gesso, bene rimanda alle suggestioni assorbite nell’entourage lombrosiano e a quel simbolismo che Bistolfi contribuì a diffondere in Italia quale alternativa al dilagante realismo ottocentesco: una figura femminile, di cui si riconoscono soltanto il volto idealizzato, il braccio sinistro e i piedi che emergono dall’onda vaporosa che la ingloba, sembra intrappolata in una dimensione onirica, sospesa tra la vita e la morte, in cui la natura non rimane esclusa8. Inaugurata il giorno dei morti del 1900, l’opera conobbe rapida diffusione anche grazie alla recensione apparsa nel gennaio del 1901 sulla rivista 198


Lapide funeraria Arnoldo Usigli

Bozzetto in gesso del bassorilievo I genitori, Edicola Toscanini

letto Giorgio, morto all’età di cinque anni a Buenos Aires, la cappella presenta forme sobrie e una decorazione delicata e armonica e, al contempo, profondamente simbolica: evocativa del trasporto della salma via mare è la decorazione che sovrasta la porta d’ingresso che presenta due figure angeliche ai lati che accompagnano la nave, simbolo della vita come viaggio e come ciclo. Sul lato opposto due nudi abbracciati rappresentano il dolore de I genitori e, sulle pareti laterali, La culla e I giocattoli sono dominati dalla presenza femminile, che rimane ambiguamente sospesa tra la vita e la morte, tra l’assenza e la presenza. Ne risulta un complesso scultoreo armonico da cui bene emerge l’attenzione e l’apprezzamento di Bistolfi per l’arte secessionista viennese e la personale elaborazione di un simbolismo spiritualista. La cappella non riscosse subito l’attenzione della critica

che la riscoprì posteriormente, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, di cui porta ancora i segni evidenti dei bombardamenti che per volontà dello stesso Arturo non furono del tutto cancellati. Essa diviene inoltre prova del profondo rapporto di amicizia che legò il musicista allo scultore14, con cui aveva condiviso viaggi e i rari momenti di quiete lontano dagli impegni lavorativi, tanto da affidargli anche l’elaborazione del delicato epitaffio che ricorda «LA PICCOLA BARA DI GIORGIO TOSCANINI PER LE LONTANE VIE DELL’AMERICA PORTATA DALL’AMORE DEI SUOI», che accanto a lui si fecero poi tumulare. La gipsoteca conserva i modelli in gesso di altri due monumenti funerari, realizzati per Attilio Centelli (1915-1918)15 e per Emilio Treves (1921)16: un grande bassorilievo in marmo bianco per il primo e un tondo in bronzo inserito in una lapide in granito 199


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Da sinistra, Enrico Poli, Leonardo Bistolfi e Arturo Toscanini

Gesso per il Monumento Emilio Treves

Leonardo Bistolfi e Arturo Toscanini a Camburzano A fronte: Edicola Toscanini

Milano. Ancora tre le opere da citare, realizzate nell’ultimo decennio di attività dello scultore, ma di cui la raccolta casalese non conserva testimonianze: una lapide funeraria marmorea per la famiglia Modiano (1924)18, evocativamente intitolata L’orma, in cui viene rappresentata – così scrive lo stesso Bistolfi nella relazione che accompagna il progetto presentato nel 1924 – «l’immagine spirituale del padre defunto seguita dalla figura della madre che, piegata nelle gramaglie del suo lutto, avvolge del suo profondo tutelare gesto d’amore il giovinetto figlio, sospingendolo teneramente e accompagnandolo nel trepido passo, sulle orme paterne cui accenna»19; il monumento funerario Baisini (1912 ca.)20, in marmo bianco, che presenta un angelo che suona l’arpa ancora pregno di echi secessionisti; infine, il monu-

per il secondo. Non solo diversi per dimensioni e scelta dei materiali, i due monumenti si differenziano profondamente, proponendo da un lato una «classicheggiante allegoria dell’amore coniugale»17 per perpetuare la memoria del giornalista e dall’altro un ritratto in grado di restituire le esatte fattezze del celebre editore milanese. Si è intanto giunti alla conclusione del repertorio delle opere di Bistolfi presenti al Monumentale di 201


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Monumento Modiano

mento funerario per Tina Di Lorenzo (1930 ca.)21, un altorilievo in bronzo che ritrae a figura intera, al centro, l’attrice – «FIORE ED ORGOGLIO DELLA SCENA DRAMMATICA ITALIANA», come cita l’epitaffio – attorniata da due figure femminili. Ma la presenza di Bistolfi al Monumentale di Milano non si esaurisce con le opere da lui realizzate e firmate, bensì prosegue nelle tante citazioni di quei numerosi artisti che hanno trovato in lui ispirazione e che a lui hanno guardato: il «bistolfismo» aleggia tra decine di sepolture realizzate nel primo trentennio del Novecento quando il gusto liberty aveva trovato un largo apprezzamento di pubblico, «facendo quindi del Monumentale uno straordina-

rio repertorio di varianti»22 che bene si sarebbero adeguate al contesto funerario.

P. LOMBROSO, Artisti contemporanei. Leonardo Bistolfi, in «Emporium», IX, 49, gennaio 1899, pp. 3-17. 2. Si segnalano S. BERRESFORD (a cura di), Leonardo Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, catalogo della mostra (Casale Monferrato, Chiostro di Santa Croce, 5 maggio - 17 giugno 1984), Casale Monferrato 1984 e G. MAZZA (a cura di), La Gipsoteca Leonardo Bistolfi, Casale Monferrato 2001 (ristampa aggiornata 2013), come testi fondamentali per lo studio di Leonardo Bistolfi e della sua opera. Recenti contributi hanno permesso di approfondire la conoscenza dello scultore e di contestualizzarne meglio il pensiero e l’opera, si pensi per esempio ai numerosi articoli di Walter Canavesio, che verranno puntualmente citati in bibliografia, laddove occorra. 3. Si segnala che nella gipsoteca di Casale Monferrato è conservato un bozzetto in terra cruda di quest’opera. G. MAZZA, cit., p. 135. 4. W. CANAVESIO, Leonardo Bistolfi e il «Poema della morte», in P. DRAGONE (a cura di), Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920, 2003, p. 111. 5. Per il rapporto tra Bistolfi e Lombroso si rimanda a P. SOFFIANTINO, I contatti tra Leonardo Bistolfi e la famiglia Lombroso: tangibili e plasmati indizi, in S. MONTALDO, P. TRAPPERO, Il Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso», Torino 2009, pp. 137-144. Più specifico per approfondire il coinvolgimento di Bistolfi e lo spiritismo si veda W. CANAVESIO, Un’arte autre: Cesare Lombroso, Leonardo Bistolfi e le sculture spiritiche, in «Percorsi», 6, 2004, pp. 85-93 e, più in generale M. VINARDI, Bistolfi. Scultura come visione, in «Ricerche di storia dell’arte», 109, 2013, pp. 18-30. 6. P. LOMBROSO, cit.

La celebre scultura La Bellezza liberata dalla materia, oggi collocata all’esterno del Museo Segantini di Saint Moritz, fu scolpita originariamente per la tomba del pittore a Maloja. Cfr. S. BERRESFORD, cit., pp. 79-82. 8. Un primo bozzetto per la sepoltura venne presentato e approvato nel 1897; esso differiva profondamente nella scelta iconografica dall’opera poi realizzata. Bistolfi aveva infatti presentato un disegno dove tre figure femminili avvolte in morbidi panneggi ruotavano attorno a una colonna classicheggiante. 9. G. MAZZA, cit., 2013, p. 123. 10. S. BERRESFORD, cit., p. 234. 11. G. MAZZA, cit., 2013, pp. 78-79. 12. Ivi, p. 115. 13. Ivi, pp. 128-129. 14. Si segnala E. PALMINTERI MATTEUCCI, Toscanini tra note e colori, catalogo della mostra, Biblioteca di via Senato, Milano 2007, pp. 16-19. 15. G. MAZZA, cit., 2013, p. 133. 16. Ivi, p. 104. 17. G. GINEX, O. SELVAFOLTA, Il cimitero monumentale di Milano. Guida storico-artistica, Milano 1996 (ristampa 2003), p. 125. 18. S. BERRESFORD, cit., 1983, p. 244. 19. G. GINEX, O. SELVAFOLTA, cit., p. 100. 20. S. BERRESFORD, cit., p. 245. 21. Ivi, p. 246. 22. G. GINEX, O. SELVAFOLTA, cit., p. 15.

REGESTO LEONARDO BISTOLFI Edicola Toscanini, bassorilievi Monumento Erminia Cairati Vogt Il sogno Monumento Baisini Armonia dolente Monumento Agostino Stefani Monumento Attilio Centelli Monumento Emilio Treves Monumento Modiano Monumento Tina Di Lorenzo

1.

7.

203

1909-1911 1900 1912 1914 1918 1921 1924 1932


Un museo nel museo. Adolfo Wildt al Monumentale di Elena Pontiggia

Se, come è stato ripetuto tante volte, il Monumentale è un museo a cielo aperto, l’opera di Wildt nel grande cimitero milanese è un museo nel museo. L’artista vi ha lasciato infatti tanti monumenti e tutti della sua piena maturità, compresi in un lungo arco di tempo che va dal 1917, quando aveva quarantanove anni, al 1930, pochi mesi prima di morire. La sua presenza è così incisiva che Sironi (cronista d’eccezione delle opere del Monumentale alla fine degli anni Venti) vede nel nucleo di sculture wildtiane non un semplice gruppo di marmi e bronzi radunati in uno stesso spazio, ma una poetica: i suoi lavori, sostiene, creano un «lirismo funerario», una «misticità scolpita»1. Torneremo, nel nostro breve excursus, sulle osservazioni critiche di Sironi, che analizza le opere di cui qui ci occupiamo in due brevi ma intensi articoli (rimasti purtroppo esclusi dalla fondamentale antologia feltrinelliana dei suoi testi2, e quindi completamente dimenticati). Veniamo invece al percorso di Wildt. La prima opera dello scultore che entra nella Casa dei Morti, come allora era anche chiamato il Monumentale, è Madre adottiva3. È il settembre 1917 e la scultura è destinata alla tomba di Maria Salsi Crespi Bramati, una signora milanese rimasta due volte vedova che, non avendo figli, aveva adottato un trovatello. L’opera è profondamente originale sia nell’iconografia che nello stile. Per suggerire la maternità elettiva e non fisica della donna, Wildt non pone il bambino fra le sue braccia, ma sulla sua stola. La madre non lo sorregge ma, con il leggero inchinarsi del capo e il passo di danza appena accennato, sembra consegnarlo all’eternità. Evoca così anche la rinascita (non secondo le viscere, ma secondo lo spirito) a cui l’uomo, nella visione religiosa dell’artista, è destinato. Altrettanto originale è il motivo del nastro ricamato di croci: una linea pura e quasi astratta che, come avrebbe detto Melotti, non è più «modellata» ma è «modulata» nello spazio. Due anni dopo, nel 1919, Wildt realizza il monumento funebre di Aroldo Bonzagni, lo sventurato

artista morto a trentun anni nel dicembre 1918. L’epidemia di spagnola non gli aveva concesso di festeggiare la vittoria e la pace. Anche quest’opera, poi trasferita alla Galleria d’Arte Moderna di Cento, si incentra su una singolare innovazione tematica. Wildt non scolpisce i tradizionali simboli funerari, ma tre maschere (Ironia, Satira, Dolore) che sono le vere muse del pittore ferrarese, il cuore della sua ricerca sofferente e sarcastica. L’alto tronco d’albero di evidente ascendenza secessionista è poi, come il nastro della Madre adottiva, un «disegno nell’aria» in cui il vuoto ha la stessa dignità espressiva del pieno. In questi motivi Wildt non è lontano dalla scultura linearistica del Picasso surrealista, ma anche di Calder, Gonzales, del primo Giacometti e dell’astrattismo degli anni Trenta. Non a caso Melotti è uno dei suoi allievi a Brera. Passano due anni dal «Bonzagni» e, nel 1921, troviamo un’altra opera dello scultore nel grande cimitero 204


Edicola Giuseppe Chierichetti Madre adottiva, Monumento Maria Salsi Crespi Bramati, in Guida al Cimitero Monumentale di Luigi Larghi 1923 Monumento Aroldo Bonzagni, in Guida al Cimitero Monumentale di Luigi Larghi, 1923

proprio per questo: per il motivo nudo, minimalista, delle croci ritmicamente ripetute, dove la sensibilità linearistica dell’artista si traduce anche in una dimensione architettonica. Poco nota, tra l’altro, è la cripta del monumento, dove Wildt ha lasciato altre tracce della sua arte, con una sequenza di disegni graffiti sul muro in cui si avverte il suo senso decorativo di ascendenza secessionista, ma anche il suo pathos espressionista. Nel 1924 lo scultore è impegnato invece nel Cimitero degli Israeliti per il Monumento Cesare Sarfatti, il marito di Margherita, scomparso lo stesso anno. È una Menorah di bronzo che ricorda la religione ebraica dell’avvocato: un motivo linearistico caro a Wildt – come abbiamo visto – ma forse suggerito da Margherita per seguire i dettami anti-iconici della tradizione mosaica. Nel 1927 la Sarfatti farà eseguire, sempre da Wildt, un ritratto di Cesare tratto da una fotografia: un lavoro che poteva diventare

milanese. È l’Edicola Chierichetti, commissionata da Giuseppe Chierichetti, uno dei suoi mecenati. L’opera è rimasta incompiuta perché ogni croce doveva sostenere una statua, ma – felix culpa – è suggestiva 205


Monumento Ulrico Hoepli ed Elsa Haberlin Disegno per La casa del sonno, Monumento Bistoletti Monumento Giovanni Zucchetti A fronte: Et ultra , Edicola Körner

un’icona funebre, ma che non lo sarà mai, appunto per rispettare il divieto biblico. Il 1927 è anche l’anno più fecondo di opere wildtiane nel cimitero. Lo scultore milanese realizza nello stesso anno non solo il Monumento Bistoletti o La casa del sonno, ma anche il Monumento Ulrico Hoepli, impostato sul motivo di un grande libro, e la lapide di Ada Cavalieri Salietti, moglie del segretario del Novecento Italiano. I corpi scheletrici dei due fratelli Bistoletti sono uno dei vertici del simbolismo espressionista wildtiano, per quell’urlo senza suono, quel grido muto e impotente, scagliato vanamente contro il destino. Ma sentiamo ancora Sironi, che avverte tutto il valore dell’opera, anche se non ne condivide l’eccesso di pathos. «La sua tomba dei fratelli Bistoletti, ribellione all’inesorabilità di un fato terribile, di un accento forse troppo funebre e costretto in un’astratta rigidezza formale, induce alla pietà e quasi al raccapriccio. Il più giovane fratello urla rabbrividendo accanto all’altra figura drammaticamente piegata nelle forme scarne e gelide di palpito umano; ma la consueta preziosità della fattura e l’equilibrio assai abile dei mezzi impiegati fanno di quest’opera, che racchiusa in un nudo spazio angolare si intitola

La casa del sonno, nella sua curiosa originalità una delle più personali dell’intero cimitero.»4 Se nel 1927 il Monumentale è particolarmente ricco di interventi wildtiani, e il 1928 è probabilmente l’anno in cui vi entra il tormentato ritratto Zucchetti, è però il 1929 l’anno in cui vi giungono i maggiori capolavori dell’artista: Et ultra e il Monumento Ravera. Et ultra viene esposto per la prima volta nel marzo 1929 alla seconda mostra del Novecento Italiano alla Permanente. Nell’opera due figure efebiche, quasi adolescenti, che rimandano palesemente al Cristo della Pietà Rondanini, si scambiano una fede nuziale davanti alla porta chiusa dell’aldilà. La loro corrisponden206


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Monumento Ravera

za d’amorosi sensi, intende dire l’artista, continua anche oltre (et ultra) la vita. Wildt sviluppa qui il tema dell’amore che supera la materia e sconfigge la brevità dell’esistenza. Per suggerire il movimento ascensionale delle anime, in particolare, le posa su una piatta aureola obliqua, la cui forma curva richiama quella rotonda della porta, infondendo nella composizione un sottile slancio dinamico. Il Monumento Ravera è dedicato invece a Natalina Ravera, moglie di Antonio Ravera, un piccolo commerciante milanese. La giovane donna era rimasta uccisa con il suo bambino di tre anni e i due nipotini di cinque e otto nell’attentato dinamitardo anarchico a Vittorio Emanuele III, avvenuto all’inaugurazione della Fiera Campionaria del 1928. «XII APRILE ANNO 1928 DATA FUNESTA / IL GIORNO SI OSCURÒ AVANTI SERA / LA STRAGE INSENSATA E ORRENDA FU COMPIUTA», dice la scritta incisa alla base della scultura. Per il monumento Wildt pensa a una struttura frontale, quasi bidimensionale, dove la figura della donna, che ha gli occhi chiusi come se fosse immersa in un sonno metafisico, è sovrastata da un arco ed è sospesa sul globo d’oro del mondo, suggerendo un senso di levità immateriale. Al suo volto, in particolare, in cui si legano armoniosamente purismo e classicismo, Wildt darà dignità autonoma scolpendola nel marmo. Ma lasciamo, per l’ultima volta, la parola a Sironi, che vede le sculture nel 1929 e le considera «tra le più belle» del Cimitero Monumentale. «Notiamo, tra le più belle, le tombe eseguite dallo scultore Wildt; prima, per mole se non per valore, quella della famiglia Körner, innestata su di un’e-

dicola dell’architetto Giulio Ulisse Arata nel XV Riparto. Il gruppo in bronzo, esposto recentemente alla Mostra del Novecento a Milano, ha ancora guadagnato all’aria aperta. La tinta ha perso monotonia e si ravviva di scabre patine e di radi fulgori. Inquadrato in un piano concavo, semplicissimo, di massi dalla grana ricca e dura, il monumento assume solennità patetica, dove dolore e reverenza, umiltà e disperazione si compongono silenziosi sotto il bronzo levigato. Più composta, più serena e forse più bella, la Tomba Ravera nel Rialzato di Ponente (…) riunisce le spoglie di quattro vittime, di cui ben tre bimbi inconsapevoli, dell’eccidio di piazzale Giulio Cesare. Qui Wildt rinuncia a certo arbitrio di invenzione e ci appare serrato in più severa e più ritmica armonia», scrive Sironi5. E, sempre della Tomba Ravera, giunge a dire: «È tra le opere migliori del cimitero e una delle opere più riuscite del Wildt». Un giudizio che non si può non condividere.

M. SIRONI, «Il Popolo d’Italia», 3 novembre 1928, ora in E. PONTIGGIA (a cura di), Mario Sironi. Scritti inediti (1927-1931), Milano 2013, p. 32. E. CAMESASCA (a cura di), Mario Sironi. Scritti editi e inediti, Milano 1980. 3. Ho analizzato il percorso espressivo di Wildt, che qui non è possibile ricostruire, in Adolfo Wildt e i suoi allievi, catalogo della mostra, Milano 2000, di cui nel presente scritto riprendo, con modifiche e integrazioni, alcune tesi centrali. Su Wildt i saggi

più recenti sono: Wildt, l’anima e le forme tra Michelangelo e Klimt, catalogo della mostra, a cura di Fernando Mazzocca e Paola Mola, Cinisello Balsamo 2012; Adolfo Wildt. L’ultimo simbolista, catalogo della mostra, a cura di Paola Zatti e Beatrice Avanzi, Milano 2015 (con bibliografia precedente). 4. M. SIRONI, cit., p. 32. 5. Ivi, pp. 39-40.

REGESTO ADOLFO WILDT Edicola Giuseppe Chierichetti Edicola Körner Et ultra Monumento Ulrico Hoepli Monumento Cesare Sarfatti Monumento Bistoletti La casa del sonno Monumento Ravera Monumento Adolfo e Dina Wildt Maschera del dolore Monumento Giovanni Zucchetti

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2.

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1921 1929 1924 1924 1927 1929 1931


Eugenio Pellini al Cimitero Monumentale di Stefano Vittorini e Federica Berra

I due Pellini, Eugenio (1864-1934) e suo figlio Eros (1909-1993), sono presenti con molte, notevoli opere al Cimitero Monumentale di Milano. Qui tratteremo del primo, esponente immenso della scultura simbolista e floreale – liberty dunque – tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Eugenio nasce nel 1864 a Marchirolo, in Valganna, ma si trasferisce giovanissimo a Milano, ospite del fratello maggiore Oreste, e viene assunto come apprendista nella bottega di un marmista. Nel primo periodo milanese si avvicina alle idee socialiste e frequenta con grande interesse l’ambiente della scapigliatura. Intanto si trasforma in un giovane artista assai amato dalla borghesia e diventa una delle figure più emblematiche di quello che può definirsi, con Rossana Bossaglia, il «museo all’aperto delle sculture lombarde fra Otto e Novecento». Nel 1884 si iscrive, come tutti gli aspiranti scultori di belle speranze dell’epoca, all’Accademia di Belle Arti di Brera ed entra nella Scuola di Scultura diretta da Ambrogio Borghi. Il clima della scapigliatura milanese lo contagia, con i suoi temi fortemente sociali. Sotto l’Arco della Pace o Spazzacamino del 1884, il cui bronzo è conservato alla GAM-Civica Galleria d’Arte Moderna di Milano e il gesso alla gipsoteca di Marchirolo, è palesemente dedicato al tema dello sfruttamento del lavoro minorile. Frutto di questo periodo, ancora di formazione, è il Fanciullo di Nazareth, detto anche Il monello, realizzato in bronzo e in cemento, il cui bozzetto si trova anch’esso a Marchirolo: un’opera giocata sull’identificazione tra il figlio del popolo e il Figlio di Dio e, forse per tale motivo, male accolta dalla critica al momento, ma molto valorizzata in seguito. Nel 1891 vince il Premio Triennale Pietro Oggioni, e con la ricca borsa di studio corre a Roma, visita l’Italia e si concede una lunga permanenza a Parigi, dove naturalmente non può mancare di avvicinarsi

all’opera di Medardo Rosso, fuggito nella Ville Lumière per cercare un’arte nuova, ad Auguste Rodin e ai grandi classici ospitati al Louvre. Rientra a Milano dove realizza opere sui temi che caratterizzeranno la sua produzione intera. Tra queste Cesto d’uva, del 1893, dove modella un bambino intento a estrarre i grappoli da un cesto di vimini, e Pagine d’album, del 1894, dove una fanciulla è concentrata nell’osservare e sfogliare un grande libro. Proprio in quel periodo vince il concorso per il Monumento ai Caduti di Domodossola, che realizza in bronzo, e ottiene la prima importante commissione privata per un’opera funeraria per il Monumentale. Si tratta della celebre, ammirata, amata, copiata 210


Pagine d’album, gesso Dolore e tumulo di fiori, Monumento Giovanni e Giuseppina Baj Macario, particolare dell’angelo del Dolore Il monello, bozzetto in cemento

scultura in marmo Dolore a cui si aggiunge poco dopo il contiguo Tumulo di fiori, entrambi per le tombe della famiglia Baj Macario, palesi manifestazioni – specie quest’ultimo – di adesione totale allo stile modernista. Uno dei fili conduttori più amati nell’arte di Eugenio Pellini riguarda le «piccole cose» della quotidianità, con un’attenzione acuta al mondo della fanciullezza e alla condizione infantile, con una rappresentazione dei sentimenti semplice, pervasa da una malinconia suasiva, in particolar modo nelle opere riguardanti la maternità. Questo tema, famigliare e intimista – talora presente anche nelle sculture funerarie – è sicuramente il suo preferito. L’interesse per le figure infantili deriva probabilmente dalla scapigliatura, e già prima di avere figli suoi scolpisce donne e infanti. Quando mette al mondo Nives, Eros e Silvana li utilizza come modelli per moltissime delle sue opere, così come farà sempre con Dina, la bellissima modella che divenne sua moglie. Nell’angelo del Dolore la figura ha fattezze acerbe e l’autore rifugge dal pittoresco e dal declamatorio 211


Bambina morente, Monumento Vittorio Emanuele Alberto Trento Fazzari

Cristo nel Getsemani , particolare del busto in bronzo realizzato per il Monumento Ernestina Lardera A fronte: Rose, Monumento Romeo Bottelli Adele Carini, particolare

sporgendosi verso un’imponderabilità spirituale, grazie alla sensibilità e alla dolcezza propria del suo linguaggio. Si oppone alla solennità e alla monumentalità propria dell’arte funeraria e presenta un essere né orgoglioso né maestoso, ma fragile, piegato dal dolore a tal punto da coprirsi il viso in una posa disperata che ritroviamo nella tomba di Luigi Santambrogio e in quella di Romeo Bottelli. La scultura di Pellini nulla trattiene di certa retorica del tempo e il suo impegno si mantiene entro un delicato, costante equilibrio tra forma, volume e

introspezione. Naturalmente, emerge con chiarezza l’influenza simbolista in tutte le opere, anche attraverso l’utilizzo potente della decorazione. Il Cristo nel Getsemani del 1906 si configura come un’eccezione: stante, isolato, immobile, il volto affilato teso verso l’alto: non sta più dialogando col suo tempo, sembra estraneo ad esso, come d’altra parte suggerisce il testo evangelico. Viene messa da parte tutta quell’intimità e quell’introspezione propria delle sculture precedenti e successive. La posa è solida, compatta e monumentale e ci presenta un uomo ormai del tutto affidato alla volontà del Padre. 212


213


Cristo flagellato, Monumento Ferdinando Mazzi, particolare

Pellini aveva già lavorato a una rappresentazione cristologica nel 1901 nel Cristo flagellato per la tomba di Ferdinando Mazzi, ma in quel caso aveva scelto di raffigurarlo nella sua forma più fragile e umana, appoggiato a terra e stremato. Come in quasi tutte le rappresentazioni funerarie pelliniane, il Cristo ha lo sguardo rivolto verso il basso e il corpo abbandonato in una posa indifesa, e la vulnerabilità di questa raffigurazione è del tutto opposta alla solidità del Cristo nel Getsemani. Situazioni, sentimenti, toni spirituali diversi, ma sempre affrontati dall’artista con chiarezza ideativa e intensa partecipazione umana.

REGESTO EUGENIO PELLINI Edicola Curci Gramitto Ricci ex Merli Maggi, bassorilievo Edicola Bettino Levi Edicola Vaccarossi, bassorilievo

1909 1921

Monumento Giovanni Baj Macario 1894-1897 e Giuseppina Macario Dolore e tumulo di fiori Monumento Ernestina Lardera Getsemani 1895-1896 Monumento Aurelio Franzetti Dolente 1899 Monumento Ferdinando Mazzi Cristo flagellato 1901 Monumento Romeo Bottelli e Adele Carini Rose 1907 214


Studio Pellini

Monumento Enrichetta Maffei Vannoni e Giulia Vannoni Preghiera degli angeli Angelo della morte Monumento Clerici Angela Visione Monumento Campelli Monumento Prestini Le due sorelle Monumento Bonomi Pinoli Mentre più le sorrideva la vita Monumento Luigi Santambrogio Pianto Monumento Vittorio Emanuele Alberto Trento Fazzari Bambina morente

1907

Monumento Matilde Luisa Cernitori L’ultimo bacio a papà e mamma Monumento Renata Goldflones Ultimo bacio Monumento Salvi Monumento Monsignor Luigi Pellegrini Monumento Giorgio e Paolo Oriani Monumento Carbonaro Monumento Guido Pozzi Monumento Primavesi Resta Monumento Parrini Monumento Giuditta Sigurtà, bassorilievo Monumento Cesare e Pietro Sordelli, bassorilievo

1908 1909 1913 1917 1919 1920

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1921 1921


Michele Vedani al Monumentale, una lunga fedeltà di Tiziana Rota

Michele Vedani (Milano, 1874-1969) è uno degli ultimi scultori ad aver coniugato intensamente arte e mestiere, creatività e committenza, operando in tutti gli ambiti della scultura tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Si forma a Milano studiando all’Accademia di Brera con Enrico Butti e lavorando negli studi di quest’ultimo, di Odoardo Tabacchi e di Ludovico Pogliaghi. Una solida preparazione classica innescata su una matrice scapigliata gli permetterà di essere un grande interprete degli sviluppi liberty e simbolisti del secolo. I prestigiosi premi e i riconoscimenti all’inizio della sua carriera milanese gli garantiscono una ricca committenza in ambito decorativo, celebrativo e soprattutto funerario. La parte più significativa e consistente della sua produzione scultorea si concentra al Cimitero Monumentale di Milano dove ha lavorato ininterrottamente dai suoi esordi, all’inizio del secolo, sino agli anni Cinquanta del Novecento. Si può ben dire che il cimitero di Milano è la palestra in cui esercita la sua ricerca plastica proprio negli anni in cui si consolida la grande stagione nei cimiteri europei quali luoghi in cui la borghesia affida ai migliori scultori del tempo il compito di tramandare per l’eternità la propria memoria1. Nel suo diario, dove elenca i principali monumenti, dice di averne realizzati almeno 100 al Monumentale e ad oggi ne sono stati documentati 71, di cui 64 pubblicati nel catalogo generale Michele Vedani scultore: testimone di un’epoca (2013) e rintracciabili con l’ausilio della guida realizzata nel 2014, Michele Vedani al Cimitero Monumentale2. L’analisi della sua produzione al Monumentale ha fatto emergere la varietà di proposte che spaziano dal ritratto alla celebrazione, dalla decorazione al racconto, dal simbolo alla rappresentazione realistica. Tutto inizia con la vincita del concorso per il Monumento funebre a don Davide Albertario, direttore

dell’Osservatorio Cattolico e intransigente difensore della tradizione. «Ho concorso per il Monumento a don Davide Albertario, eravamo in 34 concorrenti. Mi hanno scelto. Il monumento è fatto con la statua dell’Alfiere che presenta il vessillo dell’Azione Cattolica e il ritratto dell’estinto»3. L’Alfiere (1904) è una figura classica, allegoria di una fede vigorosa difesa dal sacerdote ritratto realisticamente sul basamento, tra sviluppi di rigogliosa vegetazione. Sono già presenti tutti gli elementi che saranno una costante nella sua produzione: un forte ancoramento alla classicità nella struttura della figura e della composizione, un trattamento della superficie vibrante e scabro di matrice scapigliata coniugato a una linea mossa e sinuosa che ammorbidisce le figure e ne scioglie la rigidità strutturale, il realismo ritrattistico e il simbolismo liberty. Il monumento è stato traslato a Filighera negli anni Novanta. L’allegoria classica sarà la cifra di grandi gruppi come l’Edicola Peretti (1924) con l’imponente gruppo Il lavoro, guidato e sorretto dall’intelligenza e dall’amore, è strumento di elevazione dell’uomo; il Monumento Brivio (1914), dove l’anima accompagnata dalla riconoscenza è accolta sulla soglia dal grande angelo dalle braccia levate; 216


Bozzetto in gesso realizzato per l’Edicola Peretti

Edicola Peretti

il Monumento Noja (1926) con l’incoronazione del lavoratore, «CAPOMASTRO» come recita l’epigrafe; l’Edicola Tetrazzini ora Manuli (1929) sul cui tetto la cantante lirica si esibisce incoronata dalla Fama e assistita dalla Musa. Due grandi opere in marmo: l’Allegoria della fede, per il Monumento Pacchetti (1915), e l’Allegoria del dolore, nel sepolcro dell’Edicola Benni (1921), sono le prime realizzazioni in marmo di Vedani al Monumentale. Il concorso successivo è per l’Edicola Branca (19091912) dove la Pietà di Vedani sostituirà l’opera di Ernesto Bazzaro, rimossa per volontà dei committenti con grande scalpore della stampa milanese e salvata dalla fusione dallo stesso Vedani che la venderà al collezionista Ottolini. Se la croce con gli angeli riprende lo sviluppo verticale della precedente scultura, la pietà ai piedi

guarda allo schema michelangiolesco, rivisitato con diversi tagli delle pietà successive. Seguono importanti commissioni per le edicole Albini (1906), distrutta durante la Seconda guerra mondiale, e Riboni ora Bonelli (1907) che sviluppano il tema angelico: la prima in modo classico con due grandi angeli sui fianchi esterni dell’edicola; la seconda, Gioie e dolori, con una lettura inedita del distacco dove l’angelo custode della tomba è il primo anello di una catena di corpi allacciati in cui trascorre un tremito di dolce e sensuale languore culminante nel bacio di commiato. Il dinamismo sinuoso della composizione, il trattamento scabro delle superfici alternato alla finitezza levigata dei corpi, l’alta carica simbolica fanno di quest’opera un capolavoro del liberty d’inizio secolo da cui discendono le opere successive di Vedani che rielaborano con la stessa cifra stilistica il tema del distacco e il tema angelico. 217


A fronte: Edicola Bonelli ex Riboni

Edicola Manuli ex Tetrazzini, particolare

Il simbolo della croce, bozzetto in gesso per l’Edicola Branca Ritratto di Minuccia Vedani , bozzetto in creta

Fin dal 1908 inizia la produzione di busti ritratti a rilievo o a tuttotondo inseriti in eleganti architetture con sobri decori liberty e accompagnati da bronzetti porta lumini e portafiori, vere e proprie miniaturizzazioni di scene di compianto a cui è affidato il ruolo simbolico: una peculiarità di Vedani, in cui trova lo spazio espressivo per un racconto modellato con grande immediatezza e tocco di vibrante cromatismo. La grande abilità di modellatore rapido e geniale, sempre spontaneo, è stata la dote più apprezzata dell’artista per tutto l’arco della sua lunga carriera professionale e si riconosce soprattutto nella

realizzazione dei bronzetti e di questi «accessori» funerari4. I busti ritratti, ripresi da fotografie del defunto, sono sempre di grande vivacità e realismo e personificano una fiera coscienza del proprio ruolo, anche con riferimento alla professionalità. Dagli anni Trenta, a partire dal monumento per l’amata figlia Minuccia, Vedani (1931) elabora una nuova tipologia di ritratto che privilegia il marmo, dopo anni di quasi esclusivo lavoro con il bronzo, e realizza una serie di ritratti a figura intera di velato simbolismo dedicati a giovani adolescenti. 218


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Deposizione, gesso per il Monumento Carlo Attilio Manzoni

A fronte: Deposizione, bronzo, Monumento Carlo Attilio Manzoni

Negli anni Cinquanta-Sessanta ripropone repliche dei rilievi di alcune stazioni della Via Crucis realizzate a Esino Lario tra il 1939 e il 1940: Gesù incontra sua madre (Fabris), Deposizione (Ascari), Gesù davanti a Pilato (Morelli), Crocifissione (Carcano Ramazzi). L’ultima opera di Vedani per il Monumentale, dove

sempre si recava in bicicletta dal suo studio milanese, è del 1963 quando Vedani aveva ottantanove anni. Le foto dell’Archivio Vedani testimoniano il metodo di lavoro dello scultore appreso dal Maestro Butti che prendeva inizio direttamente dalla modellazione nella creta e, nel caso di piccoli bozzetti, nel gesso, materiale richiedente quella rapidità di tocco effi220


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cace che lo contraddistingueva. Gli scarsi disegni ritrovati sono schematiche progettazioni della composizione o schizzi successivi al modellato. Al bozzetto, trasposto nel gesso, seguivano l’ingrandimento in creta e il calco in gesso negativo per la fusione in bronzo e positivo per la trasposizione nel marmo. L’alta qualità e varietà della produzione di questo scultore «totale» raccolta al Cimitero Monumentale basterebbe a raccontare la sua storia di artista nel celebrare il lutto privato e collettivo e insieme nel raccontare i momenti cruciali di un’epoca. Da qui si può partire per scoprire la sua opera diffusa.

Monumento Antonio Re Mercalli, altorilievo 1911 Volto di Cristo Monumento Edoardo Curti 1912 Nel mistero della morte Monumento Ada Brivio 1913 Monumento Giuseppe Bianchi, altorilievo 1914 Monumento Francesco Arrigoni, busto 1914 Monumento Carati, busto 1914 Monumento Giuseppe Brivio, gruppo scultoreo 1914 Monumento Cleto Pastori, bassorilievo 1915 ca. Monumento Cicchieri Riva, bassorilievo 1915 Monumento Pacchetti 1915 Monumento Agostina Barbaglia Lampugnani 1915 Monumento Gino Bianchi 1920 Monumento Luigi Zampori 1920 Monumento Ferdinando Ferrari, bassorilievo 1921 Monumento Rosa Sacerdoti Angelo con fiori 1922 Monumento Margherita Franchini Graziosi 1923 Monumento Luigia Bardelli Mariani, ritratto rilievo 1924 Monumento Angelo Mascetti Sciagura alpina 1926 Monumento Guido Noja-Napoleone Noja 1926 Monumento Giovanni Palazzolo Pietà 1926 Monumento Magnocavallo, mezzo busto Pietà 1927 Monumento Medardo Rosso, piedistallo e scritte 1928 Monumento Virgilio Talli, busto 1928 Monumento Sironi Fasani, busto Vittoria pensosa 1930 Monumento Comoletti Monti 1930 Madonna del ciclamino Monumento Moneta Barioli Madonna 1930 Monumento Mortara 1931 Monumento Vedani 1931 Monumento Fabio Fabiani Unione d’anime 1932 Monumento Sala 1932 Monumento Sesone Vezzani Somaini 1932 Monumento De Cartis 1934 Monumento Strada Battioli, altorilievo 1934 Monumento Cassone Fiocchi La Fede 1935 Monumento Lydia Gianbartolomei 1935 Monumento Cacciatori 1936 Monumento Riccardi Pessina Pietà 1936

REGESTO MICHELE VEDANI Edicola Branca, gruppo scultoreo 1905-1912 Il simbolo della croce Edicola Bonelli ex Riboni, gruppo scultoreo 1907 L’ultimo bacio Edicola Peretti, gruppo scultoreo 1915-1929 Il lavoro, guidato e sorretto dall’intelligenza e dall’amore, è strumento di elevazione dell’uomo Edicola Moja, gruppo scultoreo 1917 Il dolore confortato dalla speranza e dalla fede Edicola Benni Il sepolcro 1921 Edicola Manuli ex Tetrazzini, gruppo scultoreo 1929 Edicola Granelli, bassorilievo lunetta esterno, 1932 altorilievo interno Edicola Manfredini, altorilievo 1958 San Francesco che predica agli uccelli Monumento Giuseppe Biraghi ed Elvira Cornalba 1908 Monumento Sarto Volpi Brocca 1909 Monumento Carlo, Angelina Rotta-Porro, altorilievo 1909 Monumento Hirschler, altorilievo 1909 Monumento Achille Testa, altorilievo 1910 Monumento Luigi Bestetti 1910 Monumento Francesco Magnocavallo 1910 Monumento Ferri, altorilievo 1910 222


Monumento Fabris, altorilievo 1939-1940 IV stazione Via Crucis Monumento Garlasche 1944 Monumento Morini Mazzoni 1945 Monumento Cesira Piera e Alex Andreae 1945 Monumento Cecilia Marinoni 1947 Monumento Dalle Nogare, altorilievo 1948 Monumento Edmondo Crocco 1952 Monumento Gilda Pirolli Buonocore 1955 Monumento Alberto Ascari, busto 1955 rimosso Monumento Morelli, altorilievo 1956 Gesù davanti a Pilato, I stazione Via Crucis Monumento Corbetta Ultima Cena 1960

Monumento Carcano Ramazzi, altorilievo La Crocifissione, XII stazione Via Crucis Monumento Pischiutta Monumento Rosa Lovati Rai Monumento Luigi Valentini, busto Monumento Antonio Beretta, busto Monumento Giuseppe Annoni Monumento Alessandro Brescianino, bassorilievo Monumento Carlo Attilio Manzoni Via Crucis, Gesù incontra sua Madre

T. ROTA, Scultura funeraria, in Michele Vedani scultore. Testimone di un’epoca, Amici dei Musei del territorio lecchese, Lecco 2013, pp. 177-229. Nel catalogo generale dell’opera di Vedani sono riportate le fonti archivistiche e bibliografiche e la ricca documentazione fotografica. 2 T. ROTA, C. DE SENARCLENS, Michele Vedani al Cimitero Monumentale di Milano, Amici dei Musei del territorio lecchese, Lecco 2014.

3

1961 1963

Porta lumini Olga Mazzoni Porta lumini Eugenio Caldara

Diario Vedani, manoscritto, 1964. Il quadernetto di memorie in cui lo scultore ricorda la sua attività artistica elencando le opere realizzate nel corso della sua vita e i luoghi a cui erano destinate è stato una traccia preziosa per il ritrovamento delle sue opere in Italia e all’estero. 4 M. CRESPI, I Bronzetti, in T. ROTA, Michele Vedani scultore, cit., pp. 160, 170-171.

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Armando Violi, chi era costui? di Andrea Beltrami

Armando Violi nacque a Reggio Emilia il 17 maggio 1883, morì a Milano il 28 ottobre 1931 e riposa al Monumentale, nelle Gallerie Inferiori di Ponente, in un semplice colombario di bronzo privo di decorazioni. Della sua vita sappiamo molto, della sua arte meno, forse perché fu considerato un artista di regime e non fu mai veramente studiato. La sua famiglia era poverissima e i suoi primi anni trascorsero tra privazioni e ristrettezze. I genitori, non essendo in grado di mantenere due figli, lo spedirono all’orfanotrofio dove entrò il 27 novembre 1893 a dieci anni, per uscirne solo nel 1901. La sua passione artistica fu precoce, tanto da spingerlo a utilizzare ogni spazio possibile per tracciare schizzi col carbone o per modellare bozzetti con residui di creta. Cercò senza successo di ottenere il «sussidio FerrariBonini» per la Scuola di Belle Arti a Firenze, ma nonostante questo partì ugualmente alla volta della città toscana per frequentare i corsi del professor Augusto Rivalta, autore di molte opere funebri come le celebri tombe delle famiglie Raggio e Drago a Genova. Augusto Mussini, suo conterraneo, lo aiutò economicamente durante il suo soggiorno toscano. Mussini, detto anche «Fra Paolo», fu una singolare e affascinante figura di frate-pittore, continuamente errante tra città italiane e straniere e potente partecipe del dibattito artistico della sua epoca. Uno strano personaggio mistico e visionario che deve aver parecchio affascinato il giovane Armando, che nel 1908 lasciò improvvisamente Reggio Emilia, ribaltando completamente il corso della sua vita. Si dice che prese la strada per Milano dopo aver abbandonato la fidanzata, in lacrime. La famiglia di lei era seriamente intenzionata a far rispettare la promessa di matrimonio e i fratelli decisero di dare una sonora lezione al Violi, che si dette alla fuga. Arrivato trafelato alla stazione, inseguì e raggiunse

un treno appena partito e si mise in salvo. Chiese quindi in quale direzione andasse il treno e i passeggeri risposero: «A Milano». Nel capoluogo lombardo frequentò la Scuola degli Artefici all’Accademia di Brera fondata nel 1879 proprio per artigiani, scalpellini, operai, apprendisti, che di giorno lavoravano e potevano frequentare solo al mattino presto o alla sera e per brevi periodi. I corsi duravano infatti non più di un anno. Vi studiò anche Adolfo Wildt, nel 1880-1881, ma i due certamente non si incontrarono per ragioni anagrafiche. In virtù del suo talento non fu difficile trovare studi di decorazione che lo accogliessero e gli permettessero di fare pratica e di farsi conoscere, fino al momen224


Monumento Carlo Bazzi, particolare

to in cui aprì un suo laboratorio vicino al cimitero, luogo dove ha lasciato una traccia indelebile della sua arte assolutamente inconfondibile. A Milano Violi aveva una bellissima modella fissa, Teresita, ma non disdegnava di pubblicare annunci sui giornali per cercare altre modelle. Teresita, innamorata del Maestro, non lo accettava e lo scultore Remo Brioschi, allora ragazzino, assistette spesso a discussioni, ombrellate e schiaffi tra lei e la malcapitata di turno. Artista piuttosto eccentrico, portava una scimmietta appollaiata sulla spalla. Nel suo studio arrivava a volte un artista che si faceva chiamare «Giandante X», piuttosto piccolo di statura, con occhi penetranti e buon parlatore. Negli anni Venti aveva eseguito disegni e caricature per «l’Unità», e suoi sono i medaglioni sul palazzo di via Caradosso 16 in città. Giandante X si atteggiava a cospiratore e criticava, neppure troppo velatamente, il regime fascista. Una sera il Violi architettò uno scherzo. Si procurò una grossa lampada, si avvicinò alla casa dove l’amico si riuniva con i suoi colleghi cospiratori e scagliò la lampada contro il muro scatenando un rumore simile a quello di una bomba, che mise in fuga la comitiva. Violi commentò l’episodio in dialetto reggiano: «I vol butar sò al Duce ei gà paura dna lampadina!». Tra le oltre venti opere dell’artista va ricordato il Monumento ai Martiri Italiani che hanno sacrificato la loro giovinezza per il loro ideale, a cui resero omaggio Mussolini e Starace il 2 novembre 1936, accompagnati da un folto gruppo di gerarchi. Nella magniloquente opera littoria del 1924, i fasci da combattimento e l’aquila sono stati sostituiti, per ovvi motivi di convenienza storica, con rami di alloro, e nella cripta sono stati sepolti in tempi successivi tredici militanti fascisti, tra cui tre giovani periti in un agguato e il figlio ventunenne dell’ammiraglio Gaetano Pepe, Ugo, autore di diverse spedizioni

punitive, i cui funerali si tennero al Cimitero Monumentale alla presenza di Mussolini e di centinaia di squadristi. Il Monumento alla Medaglia d’oro Carlo Bazzi, primo milanese a essere insignito dell’onorificenza al valor militare nella Grande Guerra, è tra i più ammirati e ricorda in modo evidente il rinascimentale gisant di Gastone di Foix del Bambaja, che impressionò anche Wildt quando lo vide al Castello Sforzesco, dove si trova tuttora. Marmo e bronzo furono i suoi materiali con una predilezione per il primo e il suo tratto distintivo è 225


l’imponenza classicista contaminata da stilemi novecentisti e déco, con attenzione estrema ai dettagli, come i panneggi, le mani e soprattutto i piedi, caratteristica che salta agli occhi in molti monumenti per la loro anatomia evidente, spesso contorta. I suoi volti scolpiti con mano sicura hanno nasi greci e lineamenti ieratici. In alcune opere sono presenti richiami egizi, come nel Monumento Eberhard al Cimitero degli Acattolici o nel Monumento Elisa Gola sul Viale Centrale. E il sepolcro della bella amazzone caduta da cavallo Wanda Mantovani, anch’esso un gisant, non può

non ricordarci quello di Ilaria del Carretto, anche per la presenza dell’amato cane accucciato ai piedi della defunta. Quest’opera fu disegnata da lui ma realizzata solo dopo la sua morte da Riccardo Piter, altro autore molto presente al Monumentale con opere di rilievo. E tutti conoscono, spesso senza sapere chi ne è l’autore, i due maestosi e muscolosi cavalli alati sulla facciata principale della Stazione Centrale, accompagnati da palafrenieri, che rappresentano Il progresso guidato dalla volontà e Il progresso guidato dall’intelligenza: un altro famoso esempio di impo226


Monumento Margherita Virginia Alessandrini

Disegno per il Monumento Wanda Mantovani Pegaso, Stazione Centrale di Milano

A fronte: Enigma, Monumento Eberhard, particolare

nente solennità lasciato alla città dove trovò rifugio. Sembra che abbia anche partecipato al concorso per la realizzazione delle porte laterali del Duomo, meritando le lodi di Lodovico Pogliaghi, autore della porta centrale della cattedrale e dei mosaici delle lunette del Famedio. Ma i tempi non coincidono del tutto. La sua fama è apprezzata anche oltre i confini cittadini e tra le sue opere più famose si annoverano le quattro statue in marmo del Tempio della Ghiara a Reggio Emilia. Artista piuttosto eccentrico, amava il cibo e i viaggi

e il suo modo di vivere lo rendeva divergente anche artisticamente dal contemporaneo Adolfo Wildt, con il quale si contendeva la scena. Si dice che non amasse affatto il più anziano e famoso collega e che, passando davanti alla Tomba Bistoletti, realizzata da quest’ultimo nel 1927 per il Riparto C di Levante al Monumentale, lo sbeffeggiasse in modo davvero poco cortese, per non dire scurrile. Violi partecipò alla Grande Guerra con la divisa italiana grigio-verde e disseminò di cippi e busti commemorativi i cimiteri del fronte. 227


Realizzò numerosi monumenti per soldati periti eroicamente: tra questi, al Monumentale, Luigi Fossati. Ritornato sano e salvo a casa si sposò ed ebbe due figli, un maschio e una femmina. Bruno nacque nel 1909 e con sacrifici immensi del padre poté frequentare l’Accademia di Brera, dove iniziò gli studi che perfezionò a Roma e terminò al Politecnico di Milano, laureandosi in architettura. Nello studio del padre apprese le capacità e la tecnica del chiaroscuro, che utilizzò quando si trasferì in Colombia a Bogotà – era il 1939 – dove divenne un apprezzato architetto e professore e dove morì nel 1971. Durante la sua permanenza a Milano fu allievo di Violi, dal 1925, lo scultore Remo Brioschi, allora quattordicenne, a cui trasmise la passione per l’arte e per la scultura.

Nei decenni successivi l’allievo applicò gli insegnamenti del suo primo maestro lasciando numerose opere di rara eleganza e raffinatezza al Monumentale. In città è suo il commovente, seppur macabro, Monumento ai Piccoli Martiri di Gorla, vittime di un bombardamento aereo alleato che bersagliò la scuola elementare «Francesco Crispi» il 20 ottobre 1944, centrando il vano scale e uccidendo 184 bambini e 19 insegnanti. Erano le 11:29 e la scuola fu colpita in seguito a un errore di manovra a cui il pilota rimediò sganciando sconsideratamente 80 tonnellate di bombe sul centro abitato. Violi, insignito della nomina di Cavaliere del Lavoro l’11 marzo 1926, si spense improvvisamente nel 1931 all’età di quarantotto anni, a causa di una grande indigestione. Una morte beffarda e crudele per un grande artista! 228


Monumento Luigi Fossati, particolare

La perizia calligrafica di Violi di Giulia Vescogni Non disponendo di manoscritti integrali dell’artista, ma solo di alcuni campioni della firma dello stesso, che in quanto isolati da un testo non consentono di formulare un’analisi grafologica approfondita, ci limiteremo in questa sede a una descrizione dell’aspetto grafico della firma di Violi, comunque segno del suo modo di essere e di proporsi all’esterno. I differenti campioni di scrittura presi in esame in modo longitudinale, che testimoniano una significativa variabilità grafica, coerente con un’evoluzione della persona, sono accomunati dallo stile calligrafico ma non privo di originalità, generato da un tratto elegante, agile e rapido. Maiuscole ampie e importanti anticipano lettere più sobrie ed essenziali, che si avvicendano ritmicamente, a suggerire la capacità di coniugare senso estetico, velocità di pensiero e concretezza da parte dello scrivente. Non passa inosservato un segno connotante che accomuna i diversi frammenti grafici: la cosiddetta «d» lirica, propria di poeti e artisti, prima diligentemente tracciata e poi più libera e ampia, fino quasi a trasformarsi in un vessillo, coerentemente REGESTO ARMANDO VIOLI Edicola Michele Silva, scultura Monumento Maria Alfonsita Manzoni Monumento Siracusa Monumento Eberhard Monumento Enzuccio Minolfi Monumento Luigi Cecchetti Monumento Luigi Fossati Monumento ai Martiri Italiani che hanno sacrificato la giovinezza per il loro ideale Monumento Carlo Bazzi Monumento Introvini Monumento Carlo Giudici Monumento Pozzani

con un tracciato che si fa via via più aperto, disteso e compiaciuto. Parallelamente è interessante notare come nome e cognome appaiano prima interrotti da uno spazio, suggerendo una separazione tra il piano privato (espresso dal nome) e quello pubblico (è nel cognome che si manifesta la dimensione sociale e professionale), per poi trovarsi più armoniosamente legati da un gesto abilmente continuo (segno di tenacia, logica e sintesi), assai disinvolto e quasi danzante nella morbidezza del paraffo. Quest’ultimo, da puro decoro, si evolve in un gesto avvolgente che si chiude con una sottolineatura del cognome, come a suggellare la raggiunta affermazione dell’artista, che sembra essere divenuto più consapevole del valore di se stesso (nelle volute ipertrofiche del nome e nell’andamento più spontaneo del filo grafico) e della sua opera (in un gesto protettivo, ma al contempo valorizzante che interessa in particolar modo il cognome). Monumento Margherita Alessandrini Riva Monumento Carlo Bezzi Monumento Elina Perelli Monumento Wanda ed Elide Mosetti vedova Mantovani Monumento Alessandro Bianchi Monumento Giovanni Broglia Monumento Massimo Croci Monumento Famiglia Gini Monumento Elisa Gola Monumento Giuseppe Pessina Monumento Vincenzo Zambelli Monumento Merati

1923-1924 1919 1920 1921 1921 1922 1924 1924 1925 1927 1928 1928

Lapide Teresa Bardestein Galli, bassorilievo

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1929 1931 1931 1932


L’arte di vivere in eterno. Giannino Castiglioni e il Cimitero Monumentale di Paola Mormina

«Laudato sii, mio Signore per sora nostra morte corporale, dalla quale nullo uomo vivente può scappare.» Questa strofa del cantico francescano è sicuramente quella più densa di vita e di risurrezione, perfetta sintesi delle città sacre dove regnano silenzio e pace. Del Cimitero Monumentale di Milano, la zona che più mi attrae, da sempre, è il Famedio. L’idea di morte e il mistero dell’eternità sono solo un sottofondo distratto dinanzi ai listoni bianchi e neri del Maciachini, agli archi, ai fiorami, alle statue. Passeggiando tra i viali alberati possiamo scorgere un addio tra sposi, la mano nella mano. Un soldato in armi, ritto di profilo. Una mamma che accarezza il capo alla sua bambina. Il vecchio padre che veglia il figlio ventenne, al quale è sopravvissuto, nel cammino verso l’aldilà. Sono piccole scene cariche di verità e non di verismo, di umanità e non di dolore. Scene che ancora oggi emozionano perché quelle figure scolpite tra la natura con tanta semplicità potrebbero realmente essere la tua mamma, il tuo papà, il tuo sposo, i tuoi figli. Questo è il Cimitero Monumentale, un luogo che esula la morte e celebra la vita, l’arte. L’ammirazione e l’attenzione per un posto tanto ricco di bellezza si manifesta sin dai primi anni Trenta: abbiamo testimonianza di diverse visite e «passeggiate» finalizzate a svelare le molteplici meraviglie del cimitero. Particolarmente curioso è un articolo del 1932, che promuove una passeggiata domenica 23 ottobre con ritrovo alle ore 9 davanti «all’ingresso di sinistra»; la speciale visita verrà però effettuata sotto la guida di noti scultori e artisti dell’epoca, come Alfeo Bedeschi, Dino Bonardi, Ambrogio Bolgiani, Giannino Castiglioni, Alberto Dressler, Andrea Fermini, Arrigo Minerbi, Giovanni Orsini, Enrico Pancera, Gino Pollini, Gian Battista Tedeschi e Michele Vedani. Gli articoli di quegli anni inoltre rivelano una particolare attenzione all’arte cimiteriale: il Monumentale di Milano e lo Staglieno di Genova restano i cimiteri più celebri in Italia, numerosi gli spazi a loro dedicati. E tra le

curiosità emerge anche qualche aneddoto regalato dai custodi del cimitero milanese, che conoscevano a perfezione il labirintico giardino in ogni alzato e riparto, e che mostrando le tombe ai visitatori aggiungevano a qualche commento estetico, moderate nozioni di storia dell’arte ed episodi di vita vissuta: 230


Edicola Antonio Bernocchi

Bozzetti in gesso per l’Edicola Antonio Bernocchi L’Edicola Antonio Bernocchi nello studio di Giannino Castiglioni

A fronte: Annuncio della visita guidata del 23 ottobre 1932 al Cimitero Monumentale

«Vede, quella monaca lì che prega è caduta su un piede di chi l’ha fatta e gli ha tagliato quattro dita. Pensi, l’è ancora a letto». La cronologia degli eventi ci conduce così a introdurre Giannino Castiglioni, scultore decisamente fecondo sul terreno meneghino in quegli anni. Non si possono infatti ricostruire le vicende del cimitero senza citarlo. È lui il vero protagonista, colui che ha scolpito 55 edicole e monumenti a oggi censiti, nonché le due più famose e visitate: l’Ultima Cena della Tomba Campari e la Salita al Golgota della suggestiva Bernocchi, altro 231


Trasporto dell’ Ultima Cena per l’Edicola Davide Campari A fronte: Edicola Davide Campari, particolare del modello in gesso dell’Ultima Cena Montaggio dell’ Ultima Cena per l’Edicola Davide Campari

mio «punto debole», nonché oggetto della mia assoluta ammirazione nei pomeriggi assolati trascorsi tra una tomba e l’altra, quando cercavo «sul campo» le opere del Castiglioni per l’archivio. Nato a Milano nel 1884, compirà gli studi all’Accademia di Brera, allievo del grande Maestro Butti. Artista di eccezionale eclettismo, deve in particolare la sua manualità e l’attenzione al dettaglio al suo iniziale lavoro come medaglista, svolto presso lo stabilimento Johnson di Milano. Scolpiva dal vero il Castiglioni, i suoi modelli erano spesso i figli (i designer di fama mondiale Livio, Piergiacomo e Achille) o gli amatissimi nipoti: Giannino Jr., Piero, Carlo e Giorgina. Sono proprio i suoi diari giornalieri, raccolti nell’archivio, a darci le informazioni più preziose. Annotava tutto, giorno per giorno: nomi dei modelli utilizzati, luoghi, incontri, appuntamenti e spostamenti. Sappiamo così che il giorno 26 aprile 1933, un mercoledì, il tempo era «buono ma freddo». La calligrafia elegante e affusolata annota: «In mattinata al fregio Andrea Bernocchi con Armanda e con pompiere. Pomeriggio io con pompiere e con Verona». Il pompiere, altro protagonista indiscusso dei diari e del Cimitero Monumentale, «modello» preferito dal Castiglioni per la sua fisicità imponente, verrà anche utilizzato per il Monumento Venturino, dove completamente nudo si erige con fare maestoso, e per il mausoleo ascensionale di Antonio Bernocchi. «Armanda», «Verona», «Mischi», tali sono i nomi di modelle e modelli che compaiono tra le righe delle minuziose note di lavoro giornaliere e che ci aiutano a ricostruire le vicende di un artista tanto prolifico, non solo a Milano. Nel 1936 sappiamo che lo scultore era già impegnato nel cantiere del Duomo, essendosi aggiudicato le Storie di sant’Ambrogio per uno dei portoni minori della cattedrale. Le quattro porte bronzee, rispettivamente realizzate dagli scultori Minguzzi, Lombardi, Minerbi e Castiglioni, racconteranno i temi della nascita del cristianesimo attraverso il susseguirsi delle vicende storiche di Milano e andranno

a sostituire le anonime porte lignee presenti all’epoca sulla facciata della bella cattedrale milanese. Il tema mariano a cui è intitolato il Duomo stesso, invece, verrà magistralmente trattato dal Pogliaghi nel maestoso portone centrale. A quanto pare questa importantissima commessa artistica non gli impedì però di realizzare una delle sue opere più belle e significative: il mausoleo ascensionale dedicato ad Antonio Bernocchi. Il senatore Bernocchi, che per virtù si distinse in vita, fu un vero esempio di mecenate moderno. Noto benefattore – molte furono le opere realizzate grazie al suo contributo – nel 1930 donò al Comune di Milano 5 milioni di lire per la costruzione del Palazzo dell’Esposizione Triennale Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne e dell’Architettura Moderna (meglio conosciuto oggi come «la Triennale»), che venne inaugurato nel 1933. Morì a Milano nel 1930 e nel 1936 venne realizzata la sua monumentale tomba, incarico che venne affidato al 232


e cento statue, alta 14 metri, consta di una massa di 150 metri cubi di marmo di Musso. Si parte dalla prima figura in basso, rattrappita, distesa di traverso, tortile come un serpente, la mano nervosa agguanta il sacchetto dei trenta denari del tradimento di Cristo. È Giuda, e su di lui grava tutto il peso della fascia spirale. C’è chi sostiene di aver visto nel suo volto le fattezze dello scultore di origine ebraica Arrigo Minerbi, colui che si aggiudicò per primo il lavoro per la Porta dell’Editto di Costantino, «rivale» del Castiglioni sul cantiere del Duomo. Purtroppo le fonti documentarie non ci aiutano in questo senso, non abbiamo un riscontro valido per poterlo affermare. Rappresentati invece nei panni dei «militi» possiamo riconoscere con certezza il fratello del senatore, Michele Bernocchi, e il progettista, architetto Alessandro Minali. Anche monsignor Galbiati dell’Ambrosiana presta il volto a un personaggio del corteo funebre, tra un pannello e l’altro. La Via Crucis inizia dunque con Giuda e termina con la

Castiglioni su progetto dell’architetto Alessandro Minali. Per oltre tre anni, in un cantiere fuori città, a Lambrate, si lavorò senza sosta a questo maestoso progetto. Una colonna, che per fattezze rimanda a quella Traiana, rappresenta la tragedia sacra del Golgota che sale a spirale e a vortice. Trenta quadri 233


Ultima Cena, Edicola Davide Campari

morte di Cristo, che occupa gli ultimi cinque spazi. Nei pannelli intercalati delle stazioni la narrazione è un susseguirsi di guerrieri, di ebrei, di cristiani, di ladroni, di peccatori, di dolenti; guerrieri a cavallo che impennano, scene pietose… una vera e propria «Babele» della Passione. Castiglioni sarà impegnato successivamente anche nella realizzazione delle tombe dei due fratelli del senatore: Andrea e Michele, dislocate nel cimitero a qualche metro di distanza da quella di Antonio. Di particolare intensità l’altorilievo che raffigura il Giudizio Universale a ornamento della tomba di Andrea Bernocchi. Una sorta di giudizio dantesco, le figure rappresentano sul lato sinistro dell’edicola i dannati, sul lato destro i beati e su quello posteriore le anime purganti, coloro che attendono la liberazione. Tale è l’impatto emotivo sull’occhio di chi osserva questa composizione che spesso sfugge un particolare curioso: sopra le colonne, disteso, giace un Cristo a grandezza naturale. Raramente si alza lo sguardo verso il cielo, rapiti dal susseguirsi della narrazione dei fregi, ma il mio consiglio è, giunti davanti all’edicola, di volgere anche il naso all’insù. Il 7 dicembre 1936, i giornali danno notizia della morte di Davide Campari, noto industriale milanese, figlio di Gaspare Campari, ideatore della famosa bevanda. Per sua disposizione sulla tomba di famiglia al cimitero sorgerà un monumento realizzato da Giannino Castiglioni, rappresentante l’Ultima Cena. Inaugurato il giorno dei morti del 1939, diverrà il simbolo del cimitero stesso, si parlerà ampiamente di questa nuova scultura del Monumentale di Milano, che contribuirà a tener alto il prestigio dell’arte funeraria. Un’opera di proporzioni inconsuete, grandiose, le figure umane componenti il gruppo infatti vennero fuse in bronzo in una grandezza al doppio del naturale. Una maestosa Ultima Cena dunque, dove si possono scorgere dettagli palesi dello studio delle figure dal vero, come di sua consuetudine. Quale modo migliore per celebrare i Campari se non

seduti attorno a un tavolo? Una dimostrazione del genio e della creatività del Castiglioni, che qui trova la sua massima espressione. Un’edicola che oltretutto si sposa perfettamente con il luogo circostante, una sorta di «nicchia» naturale nel cimitero, a dimostrazione che lo scultore era sempre molto attento a concepire opere in funzione del contesto, con un occhio da vero e proprio «urbanista». Si può quasi considerare un precursore della land art, capacità che maturò pienamente in quegli anni durante la 234


realizzazione dei più importanti sacrari di guerra con l’architetto Greppi: Redipuglia, Monte Grappa… La natura è parte integrante dell’opera, ne segue le linee, la terra celebra gli eroi e il monumento si adagia perfettamente sul campo di battaglia. Sono però le figure angeliche a caratterizzare in particolare la produzione funeraria del Castiglioni, in tutta la sua attività. Angeli che vegliano il riposo, curano, proteggono, guidano. A volte minacciosi e annuncianti la morte, come nel caso dell’Edicola Gabardi, dove

immensi angeli armati di scudi custodiscono l’anima del defunto, ai lati dell’imponente sarcofago. A volte invece guidano coloro che restano terreni, liberandosi leggeri e sinuosi nell’aria come nello splendido gruppo Carità, Amore e Fede della Tomba Balzaretti. Una coppia di amanti e una madre con bambino seguono un angelo che, con ali spiegate in volo, si solleva da terra, perfetta metafora della contrapposizione tra bene terreno e spiritualità; concezione che va ben oltre la carne, ascende all’infinito. 235


Angelo, marmo per il Monumento Borioli Lazzati

venne poi modellato dallo scultore a Carrara nel marzo del 1947 e collocato nel cimitero il 29 dello stesso mese. Giannino trascorse altri cinque giorni al Monumentale a pulire e sistemare tutto il lavoro, come si evince dalle note giornaliere in archivio. Il tema della pietà torna a essere affrontato dallo scultore, in particolare nella Deposizione del Monumento Marco ed Ebe Moretti, dove l’umanità della composizione è data dalla Maddalena, colta nell’atto di stringere e baciare la mano sinistra di Gesù. Il confronto fatto tra l’opera attuale con il gesso del bozzetto, conservato presso la gipsoteca di Lierna, e le foto storiche in archivio mostra una discrepanza con la composizione bronzea finale posta nel cimitero. Il bozzetto prevedeva infatti la presenza di un quarto personaggio nel gruppo, una figura implorante ai piedi del Cristo, che però non venne mai realizzata. Assolutamente meritevole di visita anche la Deposizione dalla Croce per il gruppo bronzeo dell’Edicola Giuseppe Primi, dove la particolarità è data dalla bellissima figura esterna femminile, nuda, colta nell’atto di sorreggere il peso della croce, con le mani e il volto rivolti verso il cielo. Un capolavoro del liberty che introduce anche il tema del «nudo» nel cimitero, utilizzato più volte dallo scultore. Nel 1883 il Famedio si arricchì del suo defunto più illustre: dopo dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1873, venne lì tumulato Alessandro Manzoni. Collocato solo nel 1958 al centro del «Pantheon degli uomini illustri», concezione magistralmente espressa già nei Sepolcri del Foscolo, venne affidato al Castiglioni il compito di realizzare l’ara a lui dedicata. Il basamento del sarcofago, anche qui, ritorna al concetto angelico tanto caro allo scultore, che per l’occasione colloca una coppia di angeli che reggono la croce e l’effigie del Manzoni sui lati frontali, mentre, ai laterali, due bassorilievi bronzei con muse allegoriche rappresentano rispettivamente Musica e Poesia.

Nella particolarissima Edicola Falck invece, l’angelo è annunciante e si trova davanti alla deposizione di Cristo. Un dettaglio assolutamente unico, un’Annunciazione e una Deposizione riuniti nello stesso gruppo marmoreo, la nascita e la morte, messe una di fronte all’altra, si osservano. L’opera fu realizzata in collaborazione con gli architetti Chiesa e Fiocchi. I lavori, iniziati nel 1939, vennero approvati soltanto quattro anni dopo dall’ingegnere Falck. Il bozzetto 236


Gesso per il Monumento Giacomo Santiago Elias

È però forse nelle realizzazioni delle sue delicate figure femminili che il Castiglioni mostra a pieno tutte le sue capacità artistiche. Nello splendido Commiato per il Monumento Stella Mayer, datato 1910, uno dei primi lavori dell’artista nel cimitero, emerge tutta la sua attenzione al dettaglio ereditata dalla sua attività iniziale di medaglista. Le due figure, in pieno stile liberty, si tengono per mano. Il tema del distacco dai beni terreni è anche qui affrontato con delicatezza e dolcezza, il transito qui è colto nel momento del saluto: delle due figure femminili una segue fiduciosa l’angelo che la condurrà al suo destino, mentre all’altra non rimane che il suo dolore, racchiusa nel pianto. Qualche anno dopo, nel 1914, allo scultore toccò il compito più difficile: seppellire proprio la sua primogenita, la piccola Piera, l’unica femmina che il Castiglioni avrà, morta ancora bambina. Fra le rose è il suo posto, la bimba è adagiata tra i fiori ritratta nello spontaneo e naturale gesto di appoggiare il viso a un braccio. Commuove il dettaglio della sua bambola preferita custodita nella manina, particolare che tende a sottolineare il dramma di un affetto strappato così prematuramente alla famiglia. È molto diversa invece l’immagine della Dolente rappresentata, a mio parere, nella figura femminile più bella creata dallo scultore al Monumentale: l’Edicola Orsi Raschi, dove il morbido panneggio evidenzia la bellezza del corpo della giovane, la figura eretta, la testa reclinata verso sinistra, il braccio destro teso dal lato opposto, quasi a voler allontanare da lei la sofferenza. Il corteo funebre per la tomba di Carlotta e Giuditta Sommaruga e di Emilia Faini è composto invece da dieci donne con il capo chino, assorte ai lati del sarcofago in preghiera. Apparentemente tutte uguali, è nel dettaglio dei volti che l’artista, sempre attento, pone l’attenzione: avvicinandosi si può così constatare che in realtà i visi scolpiti sono tutti differenti, a partire dal primo a sinistra, di un’anziana, contrapposto al fresco viso di giovane, rappresentata invece alla destra.

L’eclettismo dello scultore si evidenzia in alcune particolari tombe assolutamente meritevoli di visita per l’unicità dei soggetti: il Monumento Giacomo Santiago Elias, ad esempio, dove su una semplice stele due bellissime mani si alzano verso il cielo, una sorta di «ponte» verso l’eternità; oppure il mosaico per la Catacomba Achille Peja, al quale il Castiglioni lavorò intensamente nel 1941, come riportano i diari. In chiusura, non ci si può non soffermare sul gruppo Onora il padre e la madre, meglio conosciuto come Monumento Rossi. Adagiati sul sepolcro circolare, due sposi, fianco a fianco, le braccia intrecciate, si guardano. In quello sguardo si può percepire tutta la dolcezza e tutto l’amore del mondo, mentre un piccolo putto ai piedi della tomba veglia sul loro eterno riposo. Un elogio all’amore oltre la morte che emotivamente evoca solo il sepolcro di Modigliani 237


Onora il padre e la madre, Monumento Rossi

al Père Lachaise di Parigi, dove l’epigrafe scolpita sulla nuda pietra ricorda che il giorno successivo la morte del pittore che «LO COLSE QUANDO GIUNSE ALLA GLORIA», la giovanissima compagna, Jeanne Hébuterne, incinta di nove mesi, lo seguì «DEVOTA FINO ALL’ESTREMO SACRIFICIO». Incredibilmente, lo spettatore non può che sentirsi terribilmente vivo e umano passeggiando tra questi viali alberati che hanno così tanto da raccontare, e che ci fanno dono del più grande insegnamento: solo l’amore, quello vero e incondizionato, non muore mai e tutto ciò che noi sappiamo donare resta. È davvero questa la ricetta dell’immortalità? C’è da dire che forse, osservando oggi le sue opere, il Castiglioni pareva conoscerla bene.

REGESTO GIANNINO CASTIGLIONI Edicola Ausonio Lazzaroni, bassorilievi Edicola Orsi Raschi Dolente Edicola Giuseppe Pozzi, sculture e rilievi a tutta rientranza Edicola Goldfinger, portale Edicola Ettore Frua, lunette a bassorilievi Edicola Andrea Bernocchi, altorilievi, scultura Edicola Antonio Bernocchi Via Crucis Edicola Davide Campari Ultima Cena Edicola Giorgio Enrico Falck, scultura Pietà Edicola Michele Bernocchi, altorilievi Edicola Girola, altorilievi Il seminatore, il minatore 238

1918-1919 1922 1924-1927 1926-1928 1927 1931-1933 1933-1936 1935 1939-1955 1940 1941


Edicola Angelo Rizzoli, sculture, ritratto di Rinella Edicola Biagio Gabardi Angeli con il capo velato Edicola Bice Gandini, gruppo scultoreo

1952-1954

Monumento Guido Vitale 1938 Monumento Guido Villa 1938 Madre inginocchiata sui figli Monumento Boselli 1940 Monumento Silvia Hasenmajer Forti 1942-1964 Maternità Monumento Uboldi Mazzucchelli 1943 Monumento Luca Beltrami, testa 1943 Monumento Elias Santiago Giacomo 1949 Monumento Borioli Lazzati Angelo 1951-1956 Monumento Enrico Mailland 1955 Monumento Rossi Onora il padre e la madre 1956 Monumento Alessandro Manzoni, bassorilievi 1958 del basamento Monumento Luigi Emanueli 1959 Monumento Secchi Madonna e angeli 1959 Monumento Michele Venturino 1960 Monumento Giuseppe Primi Deposizione 1961 Monumento Edmondo Favini 1962 Monumento Domenico Postiglione 1966 Monumento Pasini La famiglia 1968 Monumento Cerioni Monumento Eugenio Ara Monumento Invernizzi Monumento Adelina Porreca Fonzi Cruciani Monumento Annetta Bolla, bassorilievo Monumento Bellini Sormani, bassorilievo Monumento Bolla Castiglioni

1955-1956 1962-1965

Monumento Stella Mayer Il commiato 1910 Monumento Piera Castiglioni Fra le rose 1913-1914 Monumento Johnson, sarcofago 1913 Monumento Ettore Levis Gruppo del Disgrazia 1914 Monumento Giuseppe Noè e Paolina 1915 Manzoni Noè Coppia Monumento Virginia Cipolla Migliavacca 1920 Sulla via del dolore Monumento Marco ed Ebe Moretti 1920 Il Cristo, la Madre e la Maddalena Monumento Isabella Ciceri Paoli 1920 Monumento Fontana Roux 1925 Angelo custode del sepolcro Monumento Giovanni Giachi 1925-1926 Monumento Bozzi Cristo risorto 1927 Monumento Vittorio Balzaretti 1929-1931 e Olimpia Bordoni Carità, Amore, Fede Monumento Camillo Rapetti, busto 1929 Monumento Ferrario Il Cireneo 1932 Monumento Emilio Longoni 1934 Monumento Edoardo Dall’Orto 1934 Monumento Giuditta Sommaruga Faini Dolenti 1935 Monumento Paolina Tosi Galmarini La famiglia 1935 Monumento Carolina Rabuffetti Ronzoni 1935

Catacomba Peja Guido

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1968


Lucio Fontana: l’attività al Cimitero Monumentale di Milano di Paolo Campiglio

Figlio dello scultore Luigi Fontana, attivo dagli anni Novanta del XIX secolo a Rosario, in Argentina, dov’è nato, Lucio Fontana si misura con la scultura funeraria dagli anni giovanili di apprendistato fino alla fine degli anni Cinquanta, nel pieno della sua poetica spazialista. Giunto a Milano nel 1927 da Rosario, frequenta l’Accademia di Brera fino al 1929-1930, allievo prediletto di Adolfo Wildt. Grazie al cugino architetto Bruno Fontana, il giovane artista, già scultore professionista in Argentina, affronta tra il 1928 e il 1930 alcune commissioni funerarie. La prima è una Madonna (1928) per il Monumento Mapelli (1928) con il cugino Bruno e l’architetto Ercole Faccioli, dedicata a Caterina Mapelli, figlia di Assuero, morta in giovane età. Da un esemplare in gesso presentato alla Commissione del Monumentale nel 1928 per l’approvazione Lucio Fontana realizza un esemplare in bronzo e un marmo. Inizialmente scolpisce in prima persona, secondo gli insegnamenti di Wildt, la versione in marmo di Zandobbio bianco-rosa, da porre nella nicchia della cappella, all’esterno, come avevano previsto gli architetti (oggi in collezione privata). Il committente tuttavia, per maggiore sicurezza in caso di furti, preferisce collocare in loco una seconda versione in bronzo (originariamente dorata, oggi molto danneggiata), in armonia con le parti bronzee dell’architettura e con il travertino. L’opera dimostra che il giovane Fontana ha assimilato gli insegnamenti del Maestro Wildt: il virtuosismo dei capelli-serpenti sotto il velo, il profilo sottile del viso, gli occhi a fessura, l’espediente della mano che emerge da un vuoto anatomico, il sottile gioco dei pieni e dei vuoti. La Madonna del Monumento Mapelli serve da modello per un bassorilievo in marmo, d’identico soggetto e speculare, commissionato da Costantino Lentati nel 1929, insieme ad altre sculture funerarie. I coniugi Lentati (Costantino e sua moglie Maria De’ Medici dei conti di Gavardo), erano parenti dei

Fontana. La Madonna dedicata a Elisa Pasta (madre di Costantino Lentati, morta nel 1926) traduce sul piano bidimensionale il modello della Mapelli, impreziosita da un originale fondo d’oro (oggi poco visibile), con un assottigliamento dei volumi e dei piani in stile wildtiano. Un grande Angelo con un putto alato, che rappresenta l’anima di una bambina, domina invece il bassorilievo per il loculo della figlia di Costantino Lentati, la piccola Giuliana, morta a soli tre anni nell’aprile del 1927, ricavato come il precedente in una leggera nicchia in origine dorata. Nei volti e nella figura dell’angelo appare una grazia déco che ricorda certe figurine di Gio Ponti, dall’intonazione leggiadra e poco funeraria. Con il 1930, anno del congedo dall’Accademia, l’artista esegue altre due opere per il Monumentale: il Sarcofago De’ Medici (1930) commissionato sempre da Costantino Lentati, e il Monumento Berardi (architetto Mario De Ambrosis). In esse è più evidente la sperimentazione di una ricerca indipendente da Wildt, che consiste in una miscela di suggestioni di Novecento, da Carrà a Martini, dal postcubismo europeo di Zadkine all’e240


Madonna , Monumento Mapelli

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Angelo, Bassorilievo Giuliana Lentati

A fronte: L’industria, Monumento Berardi, e particolari dei bassorilievi

spressionismo tedesco. L’ideazione del Sarcofago De’ Medici risale al 1929 per la sepoltura di Ettore De’ Medici, conte di Gavardo, padre di Maria De’ Medici, morto il 19 novembre 1928; il cantiere viene portato a termine alla fine del 1930. Una prima idea, poi abbandonata, prevedeva un modesto sarcofago in granito con il Dormiente o Gigante caduto (1929), scultura in gesso esposta alla fine del 1929 alla II Mostra Sindacale Lombarda alla Permanente: un’imponente figura umana faceva corpo con la massa della roccia in un primitivismo essenziale. Nel progetto definitivo, presentato da Lucio nel 1930, l’imponente sarcofago antico, con coperchio a doppia falda e tozze colonne angolari, è decorato invece da due formelle a bassorilievo in bronzo, oggi molto danneggiate: La famiglia e La vedova (1930), vicine ai temi di Novecento, ripropongono il mito dei primordi dell’umanità e della famiglia, in senso

espressionista. Nella Famiglia le figure dagli arti larghi e tozzi, le braccia sproporzionate in lunghezza, il profilo del volto appena accennato rivelano un’interpretazione rustica del tema. Le figure della Vedova, dal profilo squadrato, senza delineazione di particolari fisionomici, anticipano gli importanti studi che Fontana elaborerà attorno all’Uomo nero (1930), un’opera divenuta poi simbolo della rottura coll’esperienza novecentista in nome di quella che è stata definita un’«antropologia primitiva». Le sculture in bronzo per il Monumento Berardi, dedicata all’argentino Juan Berardi titolare di una nota industria grafica, di un naturalismo vicino a Novecento, originariamente avevano una patina dorata. Notava infatti Mario Sironi nel 1930, colpito dall’oro della scultura in rapporto al nero della base marmorea: «Diverso e diremmo opposto è il Fontana della tomba della famiglia Berardi, un poco

Bassorilievo Elisa Pasta vedova Lentati

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cruda nel contrasto violento e decorativo tra il nero della base marmorea e la patina aurea dei bronzi, tra i quali, sovrastante, una grande figura femminile. Poco funeraria forse nell’atteggiamento, questa figura ha belle e pregevoli doti di modellazione e di composizione, soprattutto nella sua parte superiore, nel busto e nella testa». Il tema dell’Industria grafica, espresso dalla figura femminile con gli attributi della ruota dentata e del rullo, è affiancato da due formelle in bassorilievo che interpretano Il lavoro grafico, con operai al torchio in un’officina, e La famiglia del lavoratore. Nell’autunno del 1935, anno cruciale per lo scandalo delle sculture astratte e colorate di Fontana esposte in gennaio alla Galleria Il Milione, Carlo Carrà commentava il nuovo Cristo per il Monumento Castellotti (architetto Renzo Zavanella) lodando le capacità del giovane di rendere nella scultura figu-

rativa quel «vigore di verità naturale che non è più soltanto architettura di volume, ma forma rattenuta da un’essenza intima che riposa sulle facoltà di una reale vocazione alla scultura». Il dilemma tra astrazione e figurazione non si poneva invece per l’artista che affrontava la committenza di sculture monumentali evidenziandone le qualità «barocche» di luce e spazio, come l’oro del drappo che circonda la figura umana e l’equilibrio instabile che la caratterizza. In particolare, per il volto di questo Cristo fu lo stesso committente Giovanni Castellotti a posare, mentre Fontana durante l’esecuzione dell’opera confessava all’amico poeta Leonardo Sinisgalli che lo assisteva nello studio: «Sai come vedo il mio Cristo? Niente piedi, avvolto come un beduino in un lenzuolo bianco per difendersi dalle sabbie fino agli occhi. Io vedo il mio Cristo che cammina nel deserto». Nel dopoguerra, nel pieno dell’organizzazione del 243


Sarcofago De’ Medici di Gavardo

A fronte: Cristo, Monumento Castellotti

movimento spaziale, la collaborazione con l’architetto Renzo Zavanella conduce l’artista a ideare un Angelo, un notevole pezzo scultoreo in ceramica per il Monumento Chinelli. Gio Ponti nel 1955 lo riteneva «un’immagine, un’allusione poetica gentile (…) non al corpo sepolto ma all’anima liberata che tuttavia una prigione leggera e semiaperta come gabbia trattiene ancora ai nostri occhi perché ne conserviamo le sembianze». Fontana ribadisce la felicità solare e policroma di una proposta monumentale del tutto antifuneraria, che attesta la presenza del trascendente nella materia, l’eterno contrasto tra finito e infinito, la materializzazione di una forma aerea, secondo una convinzione che sostanzia la

sua immaginazione creativa: la scatola razionale di quinte, alternativamente aperte e chiuse contiene al centro, come un’apparizione, l’Angelo in maiolica azzurra, bianca e oro di grandi dimensioni, che si erge sopra la lastra tombale sorretto da un piedistallo. La maiolica «sospesa» ricorda l’allestimento della Nike di Samotracia al Louvre, a cui si collega l’idea del frammento ellenistico e neobarocco. Ancora con l’architetto Zavanella l’artista realizza nel 1952 il Crocifisso per la tomba di Alice Gualandri Bertolini (asportata nel 2016 per restauri), in bronzo, con innesti di vetri colorati, collocato sulla sommità di un’asta da processione, in una sintetica e lineare concezione architettonica. La figurazione agitata e 244


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Angelo, Monumento Paolo Chinelli

cielo, simbolo della separazione tra materia e spirito, è espresso da un rilievo molto leggero, magmatico, in una materia plastica dinamica, modellata con immediatezza e rapidità, in cui alcune figure umane e spiriti aerei prendono magicamente vita. Commissionato a Lucio Fontana da Alberto Rescali per la sepoltura del padre, il Monumento Rescali è un basso parallelepipedo in granito rosso lucidato che fa da cornice a un grande pannello in ceramica policroma nell’intero spazio della tomba. Il bassorilievo, intitolato Prato verde, esprime la concezione vitale e gioiosa della materia policroma, consona all’idea di scultura informale pienamente espressa dal Maestro negli anni Cinquanta. Il tema funerario è sublimato, come sempre nell’artista, con un inno alla leggerezza e alla vitalità della natura, in una concezione moderna di sepoltura, in cui la ceramica policroma diviene unica protagonista in rapporto all’architettura. Nel Volo di colombe per la sepoltura di Edoardo Caselli, in bronzo dorato, il concetto plastico aereo dei volatili che si inseguono nello spazio è uno spunto lirico per affermare la leggerezza della materia nel vuoto e nella luce, la sua liberazione definitiva da ogni compromesso terreno. REGESTO LUCIO FONTANA Monumento Mapelli Madonna 1928 Monumento Juan Berardi L’industria 1930 Monumento Giovanni Castellotti 1935 Monumento Paolo Chinelli Angelo 1949 Monumento Rescali Prato verde 1954 Monumento Alice Gualandri Bertolini 1952 Crocifisso asportato per restauri Monumento Caselli Volo di colombe Monumento Emilio De Magistris Ascesa delle anime al cielo Monumento Ettore De’ Medici

barocca del Cristo è un’emanazione, in bronzo, dei numerosi crocifissi in ceramica che l’artista realizza nei primi anni Cinquanta ad Albisola, mentre l’impiego dei vetri colorati incastonati nel bronzo ha la funzione di introdurre l’elemento luminoso nella materia, con una chiara connotazione simbolica. L’enfasi della produzione plastica di Fontana degli anni Cinquanta, espressa soprattutto nella ceramica, lascia una testimonianza significativa nel grande bassorilievo in bronzo dell’Ascesa delle anime al cielo, nel Monumento De Magistris, dove appare chiara un’influenza dei progetti per la quinta porta del Duomo di Milano che l’artista ha realizzato nel 1951 e nel 1952. Qui il racconto dell’ascesa delle anime al

Bassorilievo Elisa Pasta vedova Lentati Bassorilievo Giuliana Lentati Angelo 246

1929 1929


Ascesa delle anime al cielo, Monumento De Magistris

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Leone Lodi. Il riposo della pietra di Chiara Gatti

«Rivedo la selva dei monoliti sorgenti dalla terra come uno strano e magico spettacolo di vita fatta d’incantesimo e di sogno. Sono le creature di pietra che popolano l’immenso e sacro recinto del cimitero di Milano. In esse vi è scolpita l’anima fatta buona, misericordiosa e pura.» Bastano queste parole per spiegare il grande fascino esercitato sullo spirito di Leone Lodi (Soresina, 1900-1974) da uno spazio, mitico e tragico insieme, come quello del Cimitero Monumentale. Immerso nel silenzio dei sepolcri, sembra che Leone si sia perso molte volte nei suoi pensieri. «Così mi smarrivo in un labirinto di viali e vialetti perdendo la nozione del tempo, finché una voce, un ordine perentorio dei guardiani mi richiamava alla realtà per spingermi fuori, al di là dei cancelli, nelle strade, nelle piazze in tumulto ove tutto è mobile e rumoroso, ove gli uomini, continuamente incrociandosi, sfuggono allo sguardo.» Sono riflessioni inedite, appunti sparsi ritrovati fra le sue carte d’artista, a spiegare l’attrazione profonda per il valore mistico dell’arte sacra che Lodi seppe declinare magistralmente nella scultura monumentale. Autore votato, più di ogni altro, al dialogo con l’architettura, col panorama urbano e l’ambiente della vita quotidiana, cresciuto nei maggiori cantieri della Milano del Ventennio, accanto a progettisti del calibro di Mezzanotte, Pica, Piacentini o Pagano, Leone concepì le opere per il cimitero con una visione altrettanto architettonica. Le studiò a misura del contesto che le avrebbe abbracciate, pensando a strutture articolate nello spazio, a forme solenni come obelischi, a figure dallo slancio verticale. Pensò, insomma, agli abitanti immortali di una città dei morti. Forse proprio in virtù di questa sua doppia vocazione, per la scultura e per l’architettura, divenne, già nel 1931, membro della Commissione Tecnico-artistica cimiteriale di Milano, incaricata di giudicare i

progetti relativi ai cimiteri. Aveva la formazione perfetta per vagliare la qualità delle giuste proporzioni fra prospetti e immagini. Erede della lezione di Adolfo Wildt, signore del gesto assoluto e delle pose leggere, Leone aggiunse infatti al patrimonio del Maestro il suo dono – e anche la sua esigenza – di comprendere lo spazio, prima di popolarlo. Ogni corpo plasmato dalle sue dita era destinato a regolarsi con gli elementi scenografici del mondo che gli respirava intorno. Ciò spiega come, fra la fine degli anni Venti e gli anni Cinquanta – il lungo arco temporale in cui fu impegnato nella 248


Leone Lodi nel suo studio

Donna dormiente , Edicola Picozzi

realizzazione di ben 13 sepolcri, decorati con gruppi o sculture singole, bassorilievi o personaggi a tutto tondo – non smise mai di mescolare le riflessioni spirituali legate ai soggetti e alle iconografie cristiane con l’impianto volumetrico della scena. L’Edicola Ferretti, collocata subito all’ingresso del camposanto, spicca come un tempio, con l’immagine del Redentore che si inserisce naturalmente nella costruzione in travertino disegnata dall’architetto Piero della Noce nel 1939. Nella pianta quadrata che si proietta in alto, il fisico asciutto, tornito di Cristo segue le linee dell’edificio. È una parte connatura-

ta dell’insieme, memore del concetto – promosso dalla Scuola tedesca di Architettura, Arte e Design del Bauhaus – di fusione fra le arti, di opera d’arte totale. Colpisce l’attenzione anatomica per la carne, i muscoli, le vene che affiorano sotto la pelle del marmo. La testa aggettante è una citazione classica dell’amato Donatello, dei volti dei suoi santi, spinti in avanti per osservare dall’alto il passaggio dei fedeli. Poco distante, si incontra un altro capolavoro, la tomba della famiglia Locatelli, firmata nel 1933 dall’amico architetto Agnoldomenico Pica, con cui Lodi lavorò giovanissimo alla facciata del Palazzo 249


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A fronte: Bassorilievi dei quattro evangelisti per l’Edicola Ferretti. Gli evangelisti sono riconoscibili dai simboli evangelici: l’aquila per Giovanni , il bue per Luca , il leone per Marco, l’uomo alato per Matteo

Disegno di Donna dormiente per l’Edicola Picozzi Redentore, Edicola Ferretti

della Società Elettrica dell’Adamello, in via Caradosso. Qui, il rilievo del Buon Pastore, gotico nel suo elevarsi snello, sfoggia un ritmo di linee a zig-zag che sale verso l’apice. Un crescendo emotivo che, ancora una volta, sposa l’andamento lineare del progetto edile di Pica, inserendosi perfettamente nei confini di un parallelepipedo issato come una stele, un menhir razionalista. Armando Melis, celebre urbanista di primo Novecento, ne illustrò il concetto in un bell’articolo del 1936, apparso su «L’Architettura Italiana», corredato di foto e progetti sia della Tomba Locatelli che della gemella Tomba Vitagliano. Risalendo alle origine degli incarichi ottenuti da Leone per il cimitero, frutto di un alto gradimento da parte di committenti privati, ovvero famiglie della Milano borghese, per la sua opera pubblica, resta impressa la grazia eterna della Donna dormiente, scolpita nel 1929 per la Cappella Picozzi, preceduta da un piccolo, splendido schizzo preparatorio, in cui Lodi manifesta tutta la sua predisposizione per l’indagine dell’inconscio, in un viaggio fra le pieghe sottili che accarezzano la figura e varcano il suo sonno sospeso fra la vita e la morte. Ipnotico è il recupero iconografico dell’antico tema del sonno che – da Goya, avanti fino al simbolismo, per arrivare ad Arturo Martini – ha visto decine di personaggi cadere nel limbo del riposo, tradotto da Lodi nella pietra. Il collega Mario Sironi, col quale di lì a poco, nel 1933, Leone avrebbe lavorato in Triennale per la Fontana dell’impluvium, lodò gli esiti dell’opera, un tempo posta all’esterno della cappella, ora ricollocata all’interno. Fu sedotto dalle sue linee pulite, specchio di quell’anima «fatta buona, misericordiosa e pura», che riprendeva in sottotraccia il motivo tipico nelle raffigurazioni delle divinità fluviali greco-romane, a sua volta replicato dai primitivi del Duecento, come nella Fontana degli assetati di Perugia, gioiello di Arnolfo di Cambio. L’amore per la statuaria del passato è evidente anche nel rilievo per la Cappella Tintori (1936), dove i va251


Buon Pastore, Monumento Locatelli A fronte: Sarcofago Pinotti Gamba

lori autentici della famiglia e del lavoro rimandano al ciclo tradizionale dei mesi e dei segni zodiacali di origine medievale, all’esempio di Benedetto Antelami, scoperto da Lodi nelle opere emiliane, nel Battistero del Duomo di Parma. Arcaico è il palpito regolare dei panneggi sugli abiti, sui drappi, sul tendaggio di fondo, scavati e pesanti come quelli delle statue trecentesche, che rendono fisico e concreto il peso dell’anima. La presenza di un’altra vita, oltre la morte, è tangibile. Un tale velo di inquietudine e melancolia aleggia intorno al Sarcofago Pinotti Gamba, del 1935, e ai suoi tre rilievi – un Angelo e due Maschere – che evocano la lezione simbolista di Wildt, vagamente lugubre nel messaggio arcano; mentre al 1938 risale il bassorilievo per la tomba della famiglia Planzi Albera, che nella struttura rigorosa – progetto di Luigi Albera – ospita l’ombra eterea di una madre tesa a sollevare il suo bimbo verso il cielo, mentre si inabissa nella materia. E svanisce. Commovente e spettrale allo stesso tempo. Sulla via del ritorno, non può mancare una sosta davanti al sacello Polli Saronni, datato al 1946 e agitato dal gioco vaporoso delle vesti di un angelo annunziante e dalle linee molli del corpo di Maria, che si scioglie liquido nella preghiera. Dieci anni dopo, nel 1956, Lodi scolpì un Giovinetto ispirato, nella dolcezza fanciullesca, alla scultura ellenistica lo Spinario e posto come tenero custode alle porte del sepolcro della famiglia Casale. Passati trent’anni dal suo primo ingresso nella città del silenzio, in questo museo a cielo aperto dove fu circondato da celebri colleghi scultori, eletto nell’albo dei grandi della sua epoca, Leone Lodi continuò sempre ad affrontare ogni incarico con trasporto. La dimensione pedagogica messa in atto nei progetti famosi per le facciate di Milano (dal Palazzo della Borsa, progettato da Paolo Mezzanotte, alla Bocconi) non si distaccò mai dall’interesse per i moti del cuore, dando origine a una riflessione sull’arte 252


sacra come espressione del contemporaneo, di un sentimento universale di partecipazione ai territori dello spirito. L’esperienza di Lodi al Monumentale racconta – oltre al percorso coerente del suo stile, del suo linguaggio sviluppato negli anni – l’esperienza di un uomo chiamato a confrontarsi con una dimensione di senso che trascende il reale, al di là degli sguardi, al di là delle pietre. «In questo contrasto di immagini mobili e statiche accavallatesi nella mia mente ritrovavo infine me stesso nella quiete di una strada deserta. Meditando cercavo una risposta a quella voce che nel mio intimo era un desiderio e forse un’ambizione di poter un giorno riposare me stesso, tutto me stesso nella pietra».

REGESTO LEONE LODI Edicola Picozzi, scultura Donna dormiente Edicola Tintori La famiglia Edicola Ferretti, scultura e bassorilievo Cristo Redentore, La risurrezione Edicola Luigi Croce, bassorilievi, cancelli, mosaico, candelabri Annunciazione, Deposizione, Angeli Edicola Franzi Edicola Grosso Icaro

1929 1936 1939 1945-1948

1955

Monumento Locatelli Il Buon Pastore 1933 Monumento Nino Vitagliano 1934 L’angelo della risurrezione Monumento Giovanni Pinotti Gamba 1934-1935 Monumento Planzi Albera Donna con bambino 1938 Monumento Ponti Ecce Homo, Pietà 1941 Monumento Polli Saronni Annunciazione 1946 Monumento Casale Il giovinetto 1956

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Alik Cavaliere di Fania Cavaliere

«Niente è dunque la morte per noi e non ci riguarda per niente, giacché la natura dell’animo deve ritenersi mortale. (…) quando non ci saremo, quando avverrà la scissione del corpo e dell’anima di cui siamo insieme formati, è certo che a noi, che non ci saremo, niente potrà accadere e stimolare i nostri sensi, neanche se la terra si mescolasse al mare e il mare al cielo. (…). Anche se il tempo raccogliesse la nostra materia dopo la morte e la riportasse allo stato di ora, e ci fosse ridata la luce dell’esistenza, neppure questo ci riguarderebbe in qualche modo, una volta che sia interrotta la nostra memoria» (Lucrezio, De rerum natura, Zanichelli, Bologna 2010, vv. 870-893). Alik Cavaliere (Roma, 1926-Milano, 1998) si è formato sul De rerum natura di Lucrezio. Il padre socialista e la madre ebrea russa si trovarono la polizia politica in casa una mattina di novembre del 1943 e, salvati dalla portinaia, fuggirono dal balcone dell’appartamento al pianterreno di via Visconti di Modrone. Alik, che aveva passato la notte a casa di un compagno di scuola, avvisato, scappò immediatamente nel rifugio che avevano trovato i genitori, presso l’appartamento vuoto di alcuni parenti sfollati. Lì, solo con la sua cartella, Alik scoprì finalmente la dolce e straordinaria forza del capolavoro di Lucrezio, che, da sudato testo scolastico, divenne compagno e amico fedele di tutta la vita – una parte consistente dell’opera di Alik è dichiaratamente dedicata a Lucrezio, dai cui versi trae spesso anche i titoli delle sue sculture –. Come in Lucrezio, la morte appartiene per Alik all’esistere, binomio indissolubile e drammatico, ma anche fonte di ispirazione e di costante richiamo alla vita. Nelle opere di Alik quasi sempre la dimensione del tempo lineare si perde e affiora il ciclo eterno dell’essere, la contraddizione riemerge da un quotidiano sterilizzato e ripulito e piglia la forma di una natura che germoglia e appassisce, secca e riprende forza, avvizzisce e sboccia. La tomba di Alberto, suo padre – dove oggi giacciono l’artista stesso, sua madre Fanny Kaufmann e la sorella di

questa, il medico e pneumologo sopravvissuto ad Auschwitz Sofia Schafranov – è in questo senso un esempio straordinario della sua poetica. Su di essa, infatti, si erge l’arbusto che racconta il padre, Al poeta Alberto Cavaliere e, pur nel dolore della perdita e nel silenzio della poesia, l’albero si erge sul granito e il pianto sommesso dei rami secchi si incontra con il bocciolo centrale, nuovo, appena sorto, promettente e attivo, che in origine, peraltro, era toccato di rosso – ma il tempo ha le sue ragioni come ben sa chi ha in mano questo bel libro –. Come scrive Elena Pontiggia nella sua pregevole introduzione al Catalogo delle sculture di Alik: «La vita era entrata in quelle forme, come per un’inspiegabile magia. E che fosse vita, che avesse ancora il respiro della vita, lo provavano le gemmazioni dei rami, il moltiplicarsi di borse, brindilli, dardi, lamburde, gemme a fiore e a legno (…). Ma, al tempo stesso, la vita se ne era andata da quelle forme, lasciando dietro di sé una Pompei di metallo, una colata di minerali immobili, 254


Monumento Andreottola, particolare Sotto: Scultura nel giardino del Centro Artistico Alik Cavaliere a Milano A destra: Monumento Alberto Cavaliere

di stecchi artritici e pungenti, toccati da un Re Mida stranamente dimesso, che li aveva per sempre trasformati non in oro, ma in bronzo». Il sentimento di nobile e coraggioso amore per la contraddizione del vivere, il senso sublime di malinconica e sofferta grandezza che ci accompagna quando, vivi, passiamo tra le sepolture, era stato insegnato ad Alik, fin da bambino, dalla sua eccezionale madre, scultrice, russa, ebrea, per la quale il cimitero, il luogo di incontro con chi non è più, come spesso accade in altre regioni d’Europa, era un giardino da vivere e ammirare. Per rendere l’idea di quanto fosse così, basti pensare che il primo bacio tra Fanny e Alberto, il padre di Alik, dopo mesi di passeggiate innocenti, fu al Cimitero degli Inglesi a Roma, presso la piramide Cestia. Possiamo, così, quasi affermare che Alik è legato da 255


Rose, Centro Artistico Alik Cavaliere a Milano Monumento Quaggia, particolare A fronte: Monumento Marco Racic

un doppio destino al giardino dei morti e possiamo anche capire come abbia più volte amato misurarsi con l’arte funeraria e come anche in questo caso non sia mai stato un banale o semplice emulatore di se stesso. Le tombe di Alik, infatti, sono tutte diverse, ognuna è predisposta per qualcuno, ognuna ha vita propria e con ciascuna Alik sembra, come spesso fa con la sua arte, volersi misurare con il passato, con la tradizione e ripercorrerla trasmutandola nel nuovo. Ne sono esempio, in particolare, la prima, scolpita nel travertino candido come le urne degli antichi, e l’ultima, dedicata a un ragazzo, Marco Racic. In questo caso, su richiesta della sorella, si

è confrontato con un angelo, forte e poderoso, che ricorda nei tratti il giovane morto e nella potenza e nell’ardore la freschezza acerba della vita spezzata.

REGESTO ALIK CAVALIERE Monumento Di Paola Monumento Andreottola Roseto di Ebe Monumento Quaggia Monumento Marco Racic Angelo Monumento Alberto Cavaliere Monumento Lumir Leo Vesely

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1960 1988 1991 1998


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Incontri al Monumentale. Le sculture di Floriano Bodini nel cimitero milanese di Sara Bodini

Floriano Bodini (1933-2005) nasce a Gemonio, in provincia di Varese, e da lì, tra Milano, Carrara, Darmstadt sviluppa la sua produzione artistica, scultorea, ma anche grafica e medaglistica. A Milano troviamo molte sue opere, prima fra tutte il Paolo VI del Duomo, ma il Cimitero Monumentale è luogo unico per Bodini, luogo che mantiene nel corso della sua vita una persistenza e una connessione continua tra l’ambito artistico e quello più propriamente privato. Bodini amava molto questo cimitero, «un museo a cielo aperto» dove amava portare gli amici più cari e che fu anche testimone degli incontri tra lui e quella che gli sarà poi compagna per trentatré anni di vita, Caroline. I custodi, che ormai riconoscevano la coppia abituata a passeggiare nei vialetti, l’avevano presa in simpatia: «Signorina, guardi che la sta aspettando là davanti al Butti!», «Professore, no, non è ancora arrivata». Un delicato memento mori che accompagnava il nascere dell’amore. Il Monumentale è luogo unico perché rappresenta diversi periodi ed essenziali fasi artistiche dell’opera di Bodini, che è presente qui con 5 opere. La prima, del 1958, è quella commissionata dalla famiglia Bassino per la propria tomba: siamo in pieno realismo esistenziale e Bodini, non ancora trentenne, sceglie un soggetto forte di giovinezza e vigore, un Angelo guerriero. Su «Il Popolo»1 appare in quell’anno un articolo a firma di Giorgio Kaisserlian, Vere opere d’arte al Cimitero Monumentale, che, pur lamentando il grande divario tra vita economica delle classi dirigenti e autentica ricerca nell’arte contemporanea, trova nell’opera di Bodini una delle poche eccezioni alla regola, sottolineando anche la giovane età dell’artista non ancora affermato e dunque la scelta «eversiva» dei committenti. Nel 1962, a Bodini verrà commissionato dalla stessa famiglia anche il ritratto dell’adolescente Paola Bassino, dolcissimo bronzo che rammenta nelle sembianze un busto di Francesco Laurana. Proprio

la delicatezza e la fragilità del soggetto, molto diverso da quelli con cui si era confrontato negli anni del realismo esistenziale, disorientano Bodini, che vive in quel periodo una sorta di crisi artistica documentata dalla corrispondenza con Giuseppe Guerreschi e dalla distruzione di numerose opere. Del 1961 è invece il bronzo posto sul Monumento Mariani nel Settore degli Acattolici, Il Lamento sull’ucciso, opera presente anche al Museo Civico Floriano Bodini di Gemonio, di cui è centro e cardine. Inizialmente si trattava di due sculture distinte, entrambe esposte alla Biennale di Venezia del 1962: 258


Floriano Bodini lavora al Lamento sull’ucciso Donna, Monumento Maino, particolare L’angelo guerriero, Monumento Bassino A fronte: Floriano Bodini al lavoro nel suo studio

Donne e L’ucciso. Bodini sceglie poi di accostare il cadavere a una delle figure femminili, per «dare più drammaticità e forse più retorica»2 a questa pietà moderna e insieme universale, dall’eco grunewaldiana e dal forte impatto emotivo. Sempre di questo gruppo fa parte la donna solitaria che si trova invece sul Monumento Maino, che aveva originariamente delle colombe in volo tra i capelli scarmigliati, poi

tolte da Bodini per la sua continua aspirazione a «ripulire» e rendere sempre più essenziali le forme. Anni dopo, nel 1981, un anziano industriale lombardo chiede a Bodini un bronzo per la propria cappella mortuaria e lo scultore pensa di realizzare una Malinconia, ispirata a quella di Albrecht Dürer. Posa per l’opera Caroline in compagnia del cane Amedeo. La donna ha un abbigliamento prepoten259


Ragazza e cane, gesso

Gesso per il Monumento a Virgilio a Brindisi Tavolo da lavoro di Floriano Bodini in via Beato Angelico a Milano

temente rappresentativo degli anni Settanta, lunghi capelli sciolti, zoccoli alti e il guinzaglio del cane tra le mani. L’industriale si reca in studio da Bodini a vedere l’opera di cui è entusiasta, ma quando, felice come un bambino, torna qualche giorno dopo con la giovane moglie, questa si rabbuia. L’indomani il segretario dell’industriale comunicherà allo scultore che la signora trova l’abbigliamento e l’atteggiamento della donna troppo moderni e provocanti e teme che il cane al guinzaglio possa essere accostato al marito, in una metafora della loro relazione. Il monumento viene così rifiutato. Spesso però i progetti si attualizzano in tempi inaspettati e in modi trasver260


Porta Santa per la basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma

sali: la statua verrà vista e scelta per la propria tomba da Piera Santambrogio, imprenditrice milanese, collezionista e amica di Bodini, il cui nome nel 2016 è stato inciso sulle pareti del Famedio nell’elenco eterno dei milanesi illustri e benemeriti. Giungerà quindi al Monumentale, sulla tomba di una donna che proprio alle donne e alla loro affermazione sociale ha dedicato molto di sé. Sul Monumento Mario Formenton Macola troviamo l’unico marmo di Bodini presente al Monumentale, del 1987. È un Angelo, soggetto che Bodini inizia a indagare per il Monumento a Virgilio a Brindisi, nella sua forma di angelo alato e insieme di vittoria classica, e che lo scultore sceglierà anche per la tomba di famiglia ad Azzio (provincia di Varese), presso la quale egli stesso riposa. Il cimitero milanese resta tuttavia luogo privilegiato della memoria per Bodini, il cui nome è stato iscritto nel Famedio nel 2007, e della sua opera nella persuasione goethiana che qualcosa della personalità di un vero artista travalichi con slancio la morte proprio perché ha saputo cogliere e immortalare nelle forme la freschezza e l’innocenza della vita. REGESTO FLORIANO BODINI Monumento Maino Donna Monumento Paolo Santambrogio Ragazza e cane Monumento Mario Formenton Macola Angelo Monumento Mariani Lamento sull’ucciso Monumento Carlo Bassino Angelo guerriero

1961 1982 1987 1961 1958

G. KAISSERLIAN, Vere opere d’arte al Cimitero Monumentale, in «Il Popolo», 2 novembre 1958. E. PONTIGGIA, Conversazione con Bodini, in Floriano Bodini XI Biennale internazionale di Scultura, Città di Carrara, Pacini Editore, Pisa 2002, p. 25.

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Simbologia, allegoria, rappresentazione di Carla De Bernardi

Il cimitero è il luogo dove si parla la lingua misteriosa dei simboli e dove le attività umane, le emozioni e i sentimenti sono rappresentati in modo allegorico (dal greco antico αλληγορ α, composto da αλλη e αγορευω, letteralmente «un altro» e «parlare», vale a dire: parlare d’altro, leggere tra le righe, sottintendere qualcosa che non è espressamente dichiarato). I simboli possono provenire dalla natura, dalla storia, dalla religione, dagli oggetti della vita di tutti i giorni. Non c’è limite all’immaginazione quando si tratta di parlare al cuore più che alla mente. La clessidra, con o senza ali, rappresenta il tempo che fugge; l’ancora significa fermezza e capacità di vivere nella realtà; la scala e la porta rimandano al passaggio tra i due mondi; le fiaccole e le lanterne raffigurano, se accese, la fiamma della vita e, se spente, il buio della morte; le colonne spezzate simboleggiano una vita troncata in giovane età o all’improvviso; la falce allude alla mietitura e quindi all’uguaglianza di tutti gli esseri viventi. Le scarpe e la sedia vuota indicano la morte di un bambino. La spada è martirio; la tromba è trionfo ma anche Giudizio Universale. L’alfa e l’omega significano l’inizio e la fine, come nell’Apocalisse di san Giovanni, e sono spesso associati alle date di nascita e di morte. Il gallo e l’ape sono simboli di rinascita; la cicogna è considerata uno strumento della volontà divina; la civetta rappresenta la notte eterna ma anche la sapienza, poiché era l’uccello sacro ad Atena-Minerva; la farfalla-psiche non è altro che l’anima; l’aquila incarna la potenza cosmica, il trionfo del bene sul male e l’immortalità; il leone rappresenta l’eroismo; l’agnello allude al sacrificio; la colomba è lo Spirito Santo. Il coniglio ovviamente indica umiltà e sacrificio, il cane la fedeltà, l’Uroboro – il serpente che si mangia la coda – il ciclo dell’eterno ritorno, la vita e la morte che si inseguono. Il drago sconfitto da san Giorgio è la vittoria del bene sul male. E san Michele è re-

sponsabile della psicostasia, ovvero è colui che pesa le virtù e i peccati dei defunti per salvarli o dannarli: ed ecco la bilancia. La capsula del papavero rappresenta il sonno e l’oblio; il fior di loto la nuova vita; il rosso melograno, simbolo di abbondanza ma anche di risurrezione, è il frutto della morte, legato al mito di Persefone tanto che Carducci lo cita nella poesia in memoria del figlioletto scomparso. Gli intrecci di fiori freschi e di rami appassiti alludono al vincolo tra chi muore e chi sopravvive. L’ulivo parla di pace, la rosa d’amore e di caducità della vita, il cardo spinoso delle difficoltà dell’esistenza, l’iris, per la forma del gambo simile a una spada, allude alla lama di dolore che trafigge il cuore. Le rose annodate con i rovi rappresentano le gioie della vita eterna contrapposte alle pene di quella terrena. La palma è risurrezione. Il salice piangente, caro anch’esso a Persefone, evoca le lacrime ed è l’emblema della melanconia, del ricordo e del compianto, ma anche, poiché è sempreverde, della risurrezione e dell’immortalità. L’edera, sempre presente nell’iconografia cristiana e medievale, significa immortalità, ma anche devozione e affetto perenne in quanto avvinghiata al tronco, e la palma, associata al culto del sole per le foglie simili a raggi, compare spesso sulle tombe dei martiri. La margherita è l’innocenza, il frumento la fertilità, il girasole la devozione, l’uva e il pane rimandano all’Eucaristia. 262


A fronte: Clessidra alata Colonna Spezzata Maschera del terrore

Per finire il cipresso, che rappresenta il lutto e la morte, appartiene a Plutone. È legato alla leggenda del giovane Ciparisso che chiese agli dei di essere trasformato in albero dopo aver ucciso inavvertitamente un cervo dalle corna d’oro, suo compagno di giochi. Da allora è il simbolo del dolore inconsolabile. Nell’iconografia ebraica troviamo il candelabro a sette braccia, le mani unite rivolte al cielo, l’albero della vita, l’acqua purificatrice, la stella a sei punte. Sulle tombe dei massoni la squadra parla di equità ed equilibrio e dell’azione dell’uomo sulla materia; il compasso raffigura il pensiero e le sue due aste i diversi ragionamenti; il regolo è rettitudine, metodo e legge; il nodo: il vincolo tra massoni; il timone: la capacità di dirigere la propria vita. Cristo è evocato con i Cristogrammi tra i quali uno

dei più diffusi è il monogramma Chi Rho (o Chrismon), una combinazione di lettere dell’alfabeto greco, che formano un’abbreviazione del nome di Gesù. Il Titulus Crucis INRI è invece un acronimo ottenuto dalla frase latina Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, che significa: Gesù di Nazaret, re dei Giudei. ΙΧΘΥΣ (che letteralmente significa «pesce» in greco) è formato con le iniziali della frase greca: Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore. Le lettere sono normalmente accompagnate o addirittura sostituite dal disegno stilizzato di un pesce. ICXC è un altro acronimo ottenuto dalla prima e ultima lettera delle due parole Gesù e Cristo, scritte secondo l’alfabeto greco (ΙΗΣΟΥΣ ΧΡΙΣΤΟΣ). Il trigramma di Bernardino da Siena IHS o Nome di Gesù è formato dalle tre lettere del nome greco di Gesù (ΙΗΣΟΥΣ). È spesso arricchito di altri particolari 263


Medusa

opere di soggetto biblico: crocifissioni, risurrezioni, pietà, annunciazioni. Un caso molto particolare e forse unico è l’Edicola Falck dove, in un gruppo di impianto circolare, sono presenti sia l’Annunciazione che la Deposizione. L’inizio e la fine, appunto. I santi sono sempre riconoscibili e accompagnati dai loro simboli personali: gli evangelisti con angelo, leone, aquila, bue; san Francesco con il lupo o gli uccellini; san Giovanni con l’agnello. La Maddalena è sempre in lacrime!

ALLEGORIA DELLA MORTE La Morte appare sempre sotto mentite spoglie ma sotto i suoi molti travestimenti rimane sempre riconoscibile. A volte è una cupa figura con il volto coperto da un velo (Monumento Sofia Greppi e Monumento Resini). Altre volte imbraccia una falce o, in sella a un cavallo imbizzarrito e feroce quanto lei, sparge terrore (Monumento Sommariva e Bassorilievo Suvini). Oppure assume sembianze algide di scheletro (Monumento Ercole Mentasti) e accoglie tra le braccia il defunto ormai esanime; o ancora si cela dietro al volto vorace di Medusa (Monumento Fabe). Nel Monumento a Jole Ranza, giovinetta morta di spagnola, è un vecchio con le dita delle mani ad artiglio che la ghermisce arrivando subdolo alle sue spalle. La falce è nascosta nel cespuglio. Quando si tratta di soldati caduti ecco una maschera terrificante (Monumento alla Medaglia d’oro Carlo Bazzi). Ma non manca l’Angelo della morte, che circonda con le braccia i defunti con dolcezza ma con determinazione (Monumento Juanita Caracciolo), senza dare loro nessuna possibilità di fuga, soprattutto se a lasciare il suo mondo e i suoi affetti è un infante o un fanciullo (monumenti Elisi e Biraghi Cornalba). Un angelo noncurante dallo sguardo serenamente

grafici come la croce e il sole e utilizzato come monogramma. È caratteristico dei cristiani occidentali. Molti altri simboli grafici non contenenti lettere sono stati utilizzati per indicare Gesù. Fra questi la vesica piscis o mandorla di forma ogivale ottenuta da due cerchi dello stesso raggio che si intersecano in modo tale che il centro di ogni cerchio si trovi sulla circonferenza dell’altro. Il nome significa letteralmente «vescica di pesce». Ha una doppia valenza: alludendo al frutto della mandorla, e al seme in generale, diventa un chiaro simbolo di vita e quindi un naturale attributo per Cristo; mentre come sovrapposizione di due cerchi rappresenta la comunicazione fra due mondi, l’umano e il divino. La simbologia cristologica è sempre presente sulle 264


Vanitas Arcangelo Il lavoro

ambiguo cela tra le vesti la lama fatale (Monumento Gaslini), un volto pieno di grazia, stretto tra due alte ali da arcangelo, sembra aspettare solo il momento di intervenire (Monumento Dell’Avalle). Ma le allegorie angeliche prevedono anche soavi custodi del sepolcro, come nel Monumento Pigni e nell’Edicola Reinhold, o armati per difendere i loro morti da Satana, come nel Monumento Fontana Roux. Nell’Edicola Gabardi, sullo scudo del soldato alato è riportata la croce aumentata di Gerusalemme, simbolo dei Cavalieri del Santo Sepolcro. Quanto alla rappresentazione di attività umane, il Lavoro è celebrato in tutte le sue forme, incarnato in figure, solitamente maschili, atletiche e vigorose con utensili e strumenti, oppure prostrate dalla fatica. Un mietitore prega inginocchiato al tramonto con il 265


Disperazione

Maternità

cappello sul cuore (Ave Maria, Monumento Erminia Bianchi); un fornaio vigoroso a torso nudo mette il pane a cuocere (Monumento Arnaldo Luraschi); un minatore regge una lanterna (Monumento Giuseppe Pessina) e gruppi più complessi con animali raccontano la dura vita dei campi (Edicola Bolgé, Edicola Peretti ed Edicola Besenzanica). Anche lo studio e la conoscenza sono impersonati da uomini con libri e strumenti di ricerca (Monumento Faverio e Monumento Apostolo). Mentre il dolore e la disperazione sono quasi sempre

monopolio di madri, mogli, fidanzate, figlie e sorelle, come la tragica fanciulla con i lunghissimi capelli sciolti (Monumento Rosa Candella) o la vedova riversa sul sepolcro del coniuge (Monumento Candiani), affranta ma elegantissima nel ricco drappeggio del suo abito da lutto borghese. E se ne trovano molte altre, inginocchiate, in lacrime, in preghiera, abbandonate sui loro cari e sulle loro tombe, pronte a tutto pur di riaverli con sé. Ma è anche vero che molti defunti, o gli eredi che hanno dovuto scegliere per loro, hanno voluto una 266


Anima persa

rappresentazione non simbolica né allegorica, ma realistica e concreta e sempre colma di affetto e di rimpianto. E allora si sprecano i ritratti densi di vita quotidiana: medici in camice con bambini sulle ginocchia (Monumento Professor Arnaldo Corbellini), gentiluomini con cappello che sembrano usciti per una passeggiata (Monumento Renato Ghezzi), dame pronte per una serata importante (Monumento Virginia Cavajani), artisti con tavolozze e pennelli (Monumento Franca Milani), amanti della montagna in abiti da scalata (Monumento Liliana Ponzoni), defunti in compagnia del loro migliore amico (Monumento Moscheri), mature e opulente signore in poltrona (Virginia Crespi Rosati), soldatini in partenza in compagnia della mamma (Monumento Alessandro Brescianino), giovani spose avvolte in un candido velo (Monumento Cantoni), bambini abbigliati a festa (Monumento Cesarina Pestagalli). Un’ultima riflessione merita di essere fatta sull’uso della nudità nella scultura funeraria, il cui significato, facile da decifrare, suggerisce che il defunto ha lasciato su questa terra ogni bene e che a salire in cielo è solo la sua anima, completamente priva di qualsiasi ornamento materiale e perciò senza veli. Anche in questo il Monumentale ha costituito una rivoluzione, riproponendo il corpo come tempio dello spirito, senza scandalo di fronte alla sua esposizione. Davanti a queste opere si può infatti provare un senso di pudore, ma mai di vergogna. I nudi materni sono sempre puri e anche quelli maschili sono privi di morbosità. Spesso troviamo figure nelle quali domina un senso di innocenza e castità come nel gruppo sulla Tomba Pogliani, dove una donna adulta allatta un neonato vegliando una ragazza, forse la madre del piccolo, distesa ai suoi piedi. La vita e la morte appaiate serenamente e non contrapposte.

Inoltre spesso i nudi ricordano l’arte classica e non inducono quindi in nessun modo a pensieri ambigui. Anche se, altre volte, trapela una chiara carica sensuale, come nella tomba di Maria Beruccini di Piero da Verona. Una fanciulla riversa, come in estasi, con l’epigrafe «NON DITE AD ALCUNO PERCHÉ SONO MORTA» e il volto rovesciato all’indietro, la bocca semiaperta e i seni esposti con ostentazione o, del medesimo autore – e non pare un caso – il Monumento a Giana Venanzia Sabaini che suggerisce, più che mostrare direttamente, un intenso erotismo con il biancore abbagliante del giovane corpo abbandonato. Gli uomini nudi sono rari, accovacciati vicino a strumenti da lavoro, ruote dentate e incudini (Edicola Erlotti ed Edicola Grazioli), con fattezze da personaggi classici che tolgono ogni riferimento erotico. Un nudo maschile di spalle in posa fetale si trova sulla tomba di Emma Sixta Papini, a manifestare il dolore per la morte della moglie di Alberto Grubicy de Dragon.

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Simboli di Carla De Bernardi e Lalla Fumagalli. Disegni di Pierluigi Donadoni-Sugar Corporate Image

I simboli sono molti e di grande varietà, ma alcuni ricorrono più frequentemente. Tutte le immagini che seguono sono copie dal vero di elementi decorativi presenti su monumenti ed edicole del Monumentale.

ALLORO Simboleggia la gloria e il trionfo che derivano sia dalle attività politico-militari sia dalle doti artistiche. Con i suoi rami si incoronano i vincitori dei giochi e gli eroi, i cantori e i poeti, i condottieri e i saggi. Inoltre significa purezza fisica e spirituale.

ANCORA L’ancora mantiene ferma e sicura la nave ed è quindi simbolo di fermezza e di fede. L’ancora è anche simbolo della speranza.

URNA L’urna, dalla tradizione classica, è il simbolo del lamento funerario, ma se la troviamo drappeggiata sta a indicare che il deceduto era anziano e saggio.

FIGURA CHE SI ELEVA La figura umana i cui piedi non sono più appoggiati alla terra ma sollevati è un’anima protesa verso il cielo.

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MENORAH Candelabro a sette braccia simbolo della religione ebraica. È collegato al numero 7, metafora del cielo e dei sette pianeti. Simboleggia anche la ciclicità della natura. Sette è il numero perfetto, il numero di Dio. Sette sono i giorni in cui si compì il miracolo della Creazione. Nelle sette lampade della Menorah è contenuto il simbolo della creazione in sette giorni. La luce centrale rappresenta il sabato.

CANE È simbolo di fedeltà. Nell’antichità classica, Asclepio e Hermes sono divinità spesso accompagnate da cani e il cane stesso può essere guida delle anime nell’oltretomba. Nel mondo romano è il custode della casa.

LYRA Anticamente la lyra era ottenuta assemblando un carapace di tartaruga, una pelle tesa e due corna ed era simbolicamente l’unione fra il cielo e la terra.

CIVETTE La civetta è simbolo di saggezza, di conoscenza, di sensibilità, di dono profetico. È l’uccello sacro ad Atena-Minerva. La si associa anche a una lampada antica, simbolo della vita, indicandone così il significato di guida dalla vita al sonno della morte. La civetta vede nel buio e quindi è simbolo di illuminazione. È quasi sempre rappresentata in coppia. Questo simbolo è ancora usato in massoneria nel grado di cavaliere della saggezza. 269


CLESSIDRA ALATA La clessidra simboleggia l’incessante passare del tempo, l’ineluttabile avanzamento della vita e il suo inevitabile concludersi nella morte. Il movimento della sabbia contenuto nella clessidra è un movimento verso il basso e può ben simboleggiare il ritorno dell’uomo alla terra. Le ali sono simbolo del movimento e del cambiamento di stato. Alati sono i piedi di Mercurio, accompagnatore delle anime dei morti. Hanno ali Thanathos e Hypnos, così come i demoni e gli angeli.

COLOMBA Il biancore del suo piumaggio e la sua delicatezza ne fanno un simbolo di dolcezza e di purezza. Nella tradizione cristiana la colomba è simbolo dello Spirito Santo e accompagna spesso l’arcangelo Gabriele nel momento dell’Annunciazione.

COLONNA SPEZZATA La colonna spezzata può essere rappresentata come una vita interrotta bruscamente da una morte traumatica o in giovane età. Elemento architettonico verticale, sorregge l’edificio ed è garante della sua stabilità e della sua solidità, potenziandone lo sviluppo verso l’alto. Inoltre, come molti elementi verticali, mette in comunicazione la terra e il cielo, divenendo simbolo di riconoscenza degli uomini verso gli dei.

FALCE Spesso impugnata da figure maschili o da scheletri, indica la mietitura, alludendo alla morte di fronte alla quale tutti gli esseri viventi sono uguali.

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FIAMMA Rappresenta l’eternità e la sopravvivenza dello spirito del defunto a cui è di conforto per il lungo viaggio della morte.

FIORI DI LOTO Sono simbolo di purezza, di rinascita, di potenzialità nascoste. Il loto vive nel fango, ha un lungo stelo forte e resistente che sorregge un enorme fiore a forma di calice, simbolo della donna e della perfezione, della purezza e della grazia. Ha otto petali, numero collegato all’infinito e all’armonia.

ACQUA La brocca con l’acqua è il simbolo della famiglia Levi. Simbolo di purificazione, simbolo di Dio come sorgente di vita. In particolare al termine del funerale ebraico tutti i partecipanti devono lavarsi le mani come segno di purificazione, dopo essere stati così vicini alla morte.

GALLO Nella tradizione greco-romana il gallo regna sulla notte ed è associato alla luna. È animale considerato vigilante ed è attributo di Mercurio. Nel cristianesimo è legato alla figura del predicatore, in quanto metaforicamente, la predicazione della buona novella (il canto del gallo) risveglia il cuore degli uomini. In Italia, e molto più spesso in Francia, la figura di un gallo sormonta le croci dei campanili e delle chiese. 271


GIGLIO Il biancore dei suoi petali ne fa un simbolo di purezza e d’innocenza. Nella tradizione cristiana, a partire dalla fine del Medioevo, è associato alla Vergine e particolarmente all’Annunciazione. È anche attributo di alcuni santi come sant’Antonio da Padova. Il suo stelo rigido e appuntito ricorda la trafittura del dolore.

INFINITO Questo simbolo che si può tracciare senza mai staccare la penna dal foglio è considerato universalmente il numero dell’equilibrio cosmico, può rappresentare l’ignoto ed è formato dal numero 8 rovesciato. Il numero 8 è il numero della rosa dei venti, dei petali di loto e, per il buddismo, dei sentieri della Via. Ottagonali sono i battisteri, le cupole, le antiche vasche termali.

CHI RHO È il monogramma di Cristo. Antico simbolo solare, viene tradizionalmente usato come simbolo cristiano ed è uno dei principali cristogrammi. Si compone di due grandi lettere sovrapposte, la X e la P. Ai lati di queste due lettere, se ne trovano molto spesso altre due: una Α e un Ω, alfa e omega, prima e ultima lettera dell’alfabeto greco, usate come simbolo del principio e della fine.

SQUADRA E COMPASSO Il simbolo squadra e compasso è uno dei più noti emblemi della massoneria. Composto da due utensili da lavoro dell’architetto e del muratore, si collega direttamente alla massoneria operativa, legata alla figura di Hiram Abif, costruttore del Tempio di Re Salomone. La squadra rappresenta la materia e il compasso lo spirito o la mente. 272


LIBRO Il libro è il simbolo della scienza e della saggezza, ma anche dell’universo e dei segreti divini che vengono confidati solo agli iniziati. Nella massoneria italiana è denominato «Libro Sacro» o «Libro della Sacra Legge», quello che si pone sull’ara o altare dei giuramenti. Il Libro Sacro aperto significa che dovremmo regolare la nostra condotta secondo i suoi insegnamenti, è la regola e guida del nostro comportamento ed è un simbolo del riconoscimento da parte dell’uomo del suo rapporto con la divinità.

LUCERNA Il suo significato è legato alla simbologia della luce e del fuoco. Illumina le tenebre e guida i passi degli uomini. La lucerna e la lampada sono simbolo della luce che deriva dalla fede e della presenza di Dio. Inoltre, soprattutto in ambito esoterico, sono il simbolo della conoscenza. Infine, nell’arte funeraria possono ben rappresentare il legame del ricordo che rimane vivo in coloro che restano. Nei monumenti funebri ottocenteschi sono spesso fisicamente presenti o semplicemente riprodotte.

MANI EBRAICHE Molte tombe dei coen, cioè dei sacerdoti discendenti da Aronne, fratello di Mosè, hanno questo simbolo. I coen officiavano nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua distruzione. La traduzione in italiano del termine ebraico è sacerdote. Per essere un coen bisogna essere figlio di un coen, la discendenza patrilineare più antica del mondo. Nel simbolo, la posizione delle mani è quella assunta dai coen durante la loro benedizione rituale dei presenti nelle cerimonie religiose. 273


MASCHERA DELLA COMMEDIA Nella commedia dell’arte, la maschera sta a indicare i personaggi stilizzati che indossano, appunto, maschere insieme a costumi caratteristici e che si esprimono con gesti codificati. Ricorda che il sepolto era un attore.

MASCHERA DELLA TRAGEDIA Nel teatro greco, che le usò sistematicamente sin dalle origini, le maschere avevano la doppia funzione di caratterizzare il personaggio e di fungere da cassa di risonanza sonora per amplificare la voce e rendere più udibili i dialoghi. Ricorda un attore o un personaggio del mondo del teatro.

MASCHERA DEL DOLORE Rappresenta il momento tragico di un dolore e di una paura senza fine come ad esempio la guerra.

MELOGRANO Uno dei più antichi alberi coltivati nel Mediterraneo, i suoi frutti sono archetipo di fecondità e di abbondanza. Nell’arte funeraria del XIX secolo è spesso presente nelle ghirlande e nei festoni. 274


NAVE Il simbolo della nave come mezzo di salvezza affonda le sue radici già nell’Antico Testamento, nell’archetipo dell’arca di Noè. La sua rappresentazione in molti monumenti funerari è segno della speranza nell’eternità, e spesso è presente una croce, ora stilizzata sulla vela, ora rappresentata con l’incrocio dell’albero maestro. Simboleggia anche la nave che trasporta i defunti.

OCCHIO In virtù della sua importanza quale organo di senso, simboleggia presso quasi tutti i popoli l’occhio divino che vede tutto. A partire dal Rinascimento, nell’iconografia cristiana, viene disegnato dentro un triangolo, con riferimento al mistero della Trinità. Il triangolo equilatero è il corrispondente geometrico del numero 3, che universalmente rappresenta la perfezione.

UROBORO È un simbolo molto antico ed è un serpente o un drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Apparentemente immobile, ma in eterno movimento, rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose, che ricominciano dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine. Simboleggia quindi l’unità, la totalità del tutto, l’infinito, l’eternità, l’immortalità e la perfezione.

PALMA Il suo significato è quello della vittoria, dell’ascesa, della rinascita e dell’immortalità. La simbologia cristiana, presente fin dall’epoca paleocristiana, è legata a un passo dei Salmi, dove si dice che «come fiorirà la palma così farà il giusto», la palma infatti produce un’infiorescenza quando sembra ormai morta, così come i martiri hanno la loro ricompensa in Paradiso. 275


PAPAVERI Fiori e capsule di papavero sono legate al sonno eterno portato dalla morte e si trovano riprodotte in molta arte funeraria occidentale a partire dal Rinascimento. Assumono altri significati minori tra cui lentezza, dubbiosità, sorpresa, storditezza, sonno eterno, oblio e immaginazione.

PELLICANO Tra gli animali più rappresentati nella simbologia funeraria cristiana, il pellicano è simbolo del sacrificio di Cristo e attributo della carità. L’animale è frequente nell’iconografia funeraria dei moderni cimiteri d’occidente in chiave puramente cristologica. In alcuni casi la sua rappresentazione potrebbe essere legata alla simbologia massonica degli alti gradi.

STELLA DI DAVIDE La Stella di Davide, costituita da due triangoli equilateri intrecciati, rappresenta l’unione del Cielo e della Terra, del mondo spirituale con il mondo materiale. È detta anche «sigillo di Salomone» o «esalfa».

PORTA La porta indica il passaggio tra il mondo terreno e l’altro mondo, un aldilà dominato dalla luce divina o dalle tenebre, dove regna la grazia eterna, la dannazione o il nulla. Se la porta completamente chiusa materializza la funzione della tomba quale luogo di soglia tra i due mondi, rinviando però all’idea di un non ritorno, la porta semiaperta allude alla speranza di una vita oltre la morte. Nella religione ebraica è sostituita dalla scala. 276


ROSA È associata ai martiri e alla Vergine. Secondo i Padri della Chiesa in origine la rosa del Paradiso terrestre non aveva spine, ma queste sarebbero comparse sulla pianta per ricordare all’uomo la sua caduta e i suoi peccati. La Vergine, non essendo colpita dal peccato originale, è spesso chiamata «rosa senza spine».

ROVI Il groviglio dei rovi ricorda le difficoltà terrene che ciascun essere umano deve affrontare e che includono il dolore, la fatica, la disperazione. Spesso sono rappresentati in antitesi con rose o fiori simbolo della gioia eterna.

SALICE Il salice rappresenta l’immortalità, l’eternità e la spiritualità. Per questo motivo il suo legno è utilizzato per le statue, le colonne e gli elementi dell’architettura sacra orientale. Ha anche il significato di lutto e disperazione.

SCALA Rappresenta il passaggio, la salita dal mondo terreno al mondo celeste.

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SFINGE Nell’antico Egitto è guardiana dei templi, delle necropoli e delle porte della città. Nella cultura occidentale è fortemente legata al culto dei morti. E attraverso il mito classico viene associata alle età dell’uomo, al suo percorso vitale e al tempo che scorre.

TESCHIO È l’emblema della caducità della vita, immagine di ciò che è stato e di ciò che è, dell’esistenza che in esso è stata contenuta e che rappresenta. Ha il significato di fugacità della vita terrena, una raffigurazione estremamente semplice della non permanenza, di ciò che attende tutti. Spesso usata nelle nature morte chiamate «vanitas».

ULIVO Simboleggia l’ordine e la pace. Coltivato in molte parti del Mediterraneo, i suoi frutti sono da sempre considerati preziosi e l’olio che se ne ricava ha la facoltà di nutrire, di guarire e di illuminare. Da secoli continua a essere segno di pace e di concordia tra gli uomini e tra gli uomini e Dio.

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BIOGRAFIE


ENRICO BUTTI

LEONARDO BISTOLFI

Francesco Rizzi. Laureato in Architettura al Politecnico di Milano lavora da oltre venticinque anni quale Istruttore direttivo ai Musei Civici «Enrico Butti» di Viggiù. Appassionato di storia dell’arte e guida turistica di Milano, Varese, Como ha collaborato alla pubblicazione del libro W i pompieri di Viggiù e ha curato l’edizione di una monografia dedicata allo scultore Enrico Cassi.

Alessandra Montanera. Dopo la laurea in Lettere Moderne (indirizzo storico-artistico) presso l’Università degli Studi di Torino, consegue il Diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna a Genova. Dal 2012 è Conservatore del Museo Civico e Gipsoteca Bistolfi di Casale Monferrato. Ha all’attivo collaborazioni con enti e istituzioni museali per lo studio e la valorizzazione dei patrimoni storico-artistici e diverse pubblicazioni.

TEMPIO CREMATORIO

ERNESTO BAZZARO

Alessandro Porro. Medico-chirurgo e Dottore in ricerca in Storia della Metodologia Medica (Storia della Medicina), diplomato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica, perfezionato in Bioetica. Professore associato presso l’Università degli Studi di Milano-Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità. Autore di circa cinquecento fra pubblicazioni scientifiche e monografie di storia della medicina e della sanità, con particolare riguardo all’ambito lombardo.

Marilisa Di Giovanni. Laureata presso la Facoltà di Lettere Moderne dell’Università Cattolica, sotto la guida del professore Gian Alberto Dell’Acqua con la tesi su Giuseppe Grandi e la scultura del secondo Ottocento, ha conseguito il Diploma di perfezionamento in Archeologia Medievale. Con una borsa di studio ha lavorato nell’Istituto di Storia dell’Arte in Cattolica. Come contrattista si è trasferita a Pavia lavorando con Rossana Bossaglia presso la Cattedra di Storia dell’Arte Moderna, poi ricercatore e infine come docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso la stessa Università. Le sue pubblicazioni riguardano la scultura medievale, l’architettura romanica del Novarese, la scultura del Settecento nel Duomo di Milano, la scultura tra romanticismo e stile floreale nel Duomo e ha curato alcuni cataloghi di pittori tra Ottocento e Novecento. Attualmente ha curato alcune mostre di artisti contemporanei al Broletto di Pavia e al Museo Diocesano di Brescia.

MEDARDO ROSSO Ilaria M.P. Barzaghi. Storica dell’arte contemporaneista, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Studiosa degli aspetti simbolici dei fenomeni sociali, culturali e politici, di rappresentazione della modernità, di iconografia e visual culture, si occupa specialmente di Ottocento e Novecento. Nel 2015 è stata Research Fellow al CIMA-Center for Italian Modern Art di New York con un progetto di ricerca sulla produzione fotografica di Medardo Rosso. Ha pubblicato Milano 1881: tanto lusso e tanta folla, Silvana Editoriale, 2009.

ADOLFO WILDT Elena Pontiggia. Insegna all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano. Si occupa in particolare dell’arte italiana e internazionale fra le due guerre. Tra 280


ARMANDO VIOLI

i suoi ultimi volumi: Modernità e classicità. Il Ritorno all’ordine in Europa (Bruno Mondadori, Milano 2008, Premio Carducci 2009); Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia (Johan & Levi, Monza 2015); Christian Schad (Abscondita, Milano 2015). Ha vinto il premio San Valentino d’Oro per la Storia dell’arte. Collabora a «La Stampa» e a varie riviste.

Andrea Beltrami. Nato a Sesto San Giovanni, Milano, nel 1973 lavora nel campo dell’informatica. Grazie a un quadro donatogli in passato, ha dedicato con entusiasmo tempo e dedizione a ricostruire la vita e le opere del suo autore, lo scultore Armando Violi. Ciò lo ha portato al Monumentale, luogo dove ha potuto accrescere la sua passione per l’arte e approfondire la conoscenza di altri scultori, tra cui Remo Brioschi. Frequentando questo «museo a cielo aperto» ha conosciuto l’Associazione Amici del Monumentale di cui è socio e volontario. Nel 2012 la biografia da lui scritta è stata pubblicata sul trimestrale «Reggio Storia».

EUGENIO PELLINI Federica Berra. Giovanissima si appassiona alla fotografia e alla storia dell’arte. Frequenta il Liceo Artistico Sacro Cuore di Milano dove approfondisce diverse discipline artistiche e figurative. Collabora come fotografa con la Fondazione di Arte Contemporanea Rivoli 2. La frequentazione quotidiana dello studio e della gipsoteca di Eugenio Pellini e di suo figlio Eros le permette di acquisire un’esperienza che, con un taglio personale e intimo, trasmette nelle fotografie dei gessi. L’approfondimento della conoscenza delle opere, degli scritti e degli archivi dei due scultori la spinge a collaborare da vicino con Stefano Vittorini, avvocato, nipote ed erede dei due artisti. Stefano e Federica sono ora, con competenze differenti, i curatori dell’Atelier Pellini.

GIANNINO CASTIGLIONI Paola Mormina. Nata a Milano il 14 giugno 1984. Laurea conseguita nel 2008 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con tesi Ricerche sui restauri delle pitture murali nel sacello di San Satiro. Corso di specializzazione in Editoria e master come curatore di mostre. Nel 2009 stage e collaborazione presso la casa editrice Skira editore, come addetta all’ufficio iconografico e supporto alla redazione. Nel 2010 presta attività come Art Advisory, come supporto nella gestione dell’attività di stima e valutazione di opere d’arte, sopralluoghi tecnici, attività di ricerca bibliografica e storiografica inerenti le opere d’arte e gli artisti e redazione della relazione finale di stima. Dal 2014 si occupa dell’archivio dello scultore Giannino Castiglioni, con catalogazione di tutto il materiale in possesso della famiglia riguardante lo scultore e relativa attività di ricerca. Saggio pubblicato in una prima monografia dedicata completamente all’artista, edita da Skira a gennaio 2016, intitolata L’arte del fare – Giannino Castiglioni scultore.

MICHELE VEDANI Tiziana Rota. Storica e critica d’arte, laureata all’Università degli Studi di Milano (1978 e 1993) ha dedicato i suoi studi all’arte dell’Ottocento e Novecento con particolare attenzione alla scultura di ambito lombardo. Con l’Associazione Amici dei Musei del Territorio Lecchese, di cui è presidente, ha pubblicato diverse ricerche tese a documentare e tutelare il patrimonio scultoreo pubblico nelle piazze e nei cimiteri: Scultura all’aperto a Lecco e provincia (Lecco, 2009); Michele Vedani scultore: testimone di un’epoca (Lecco, 2013); Percorsi di arte, storia e paesaggio nei cimiteri di Lecco (Lecco, 2014). 281


LUCIO FONTANA

ni, Enrico Baj, Carlo Ramous, Mimmo Paladino, Bernardí Roig. Ha sviluppato contributi scientifici su temi come: l’arte tessile, fra cultura tessile primigenia e recupero della tessitura nell’ambito delle visual arts contemporanee; il pensiero anarchico veicolato dalle riviste francesi anarchiche di fine Ottocento. Ha pubblicato per la casa editrice Bruno Mondadori il manuale d’arte contemporanea L’arte tra noi. Ha firmato Insolite natività per le edizioni Interlinea. Ha curato, nel 2016, per lo Studio Museo Francesco Messina di Milano, in collaborazione con l’Institut du Monde Arabe di Parigi, la mostra Il mio nome è cavallo. Immagini tra Oriente e Occidente, promossa dal Comune di Milano, prodotta da Officina Libraria con il Patrocinio di ICOM. Si è occupata di Leone Lodi, curando la mostra Leone Lodi. I segreti dello scultore allestita presso la Sala del Podestà del Comune di Soresina, 2012-2013. Ha dedicato a Leone Lodi il volume, edito da Officina Libraria, La Milano scolpita da Leone Lodi, presentato in occasione di Bookcity 2015 e sostenuto da Fondazione Cariplo, Gallerie d’Italia e dalla Borsa di Milano.

Paolo Campiglio. Si è laureato all’Università degli Studi di Pavia e si è specializzato in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Siena. Dal 2005 è ricercatore e docente di questa materia presso l’Università di Pavia. Dal 1995 ha incentrato la sua produzione scientifica sulla figura di Lucio Fontana (1899-1968), di cui ha analizzato i rapporti con l’architettura, l’attività di ceramista, la dimensione del disegno, in volumi monografici, contributi in volumi, articoli di rivista. Dal 2006 al 2010 è stato consulente scientifico per la Fondazione Ambrosetti Arte Contemporanea a Palazzolo sull’Oglio, con il compito di ideare progetti espositivi di ricerca e cicli di conferenze sull’arte contemporanea. È membro del Comitato per le autentiche dell’Associazione Filippo de Pisis. Dal 2011 è tra gli Editor della rivista scientifica «Palinsesti. Contemporary Italian Art», Università degli Studi di Udine. È Direttore del Comitato scientifico per le autentiche dell’Archivio Dadamaino. Nel 2015 è ideatore e responsabile scientifico del progetto Analisi di studio e catalogazione del patrimonio confiscato in Lombardia, in partenariato con l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati alla criminalità organizzata e il Segretariato regionale del MIBACT. Ha pubblicato diversi volumi e saggi su artisti del Novecento.

ALIK CAVALIERE Fania Cavaliere. Nata a Milano nel 1959. Laureata in Filosofia all’Università Statale di Milano, dove ha in seguito conseguito il dottorato. Nel 1990, ha pubblicato La logica formale in Urss, gli anni del dibattito. 1946-65, La Nuova Italia. È autrice anche di un romanzo storico sulla famiglia della nonna paterna, Il Novecento di Fanny Kaufmann (Passigli, Bagno a Ripoli 2012). Attualmente insegna Storia e Filosofia al Liceo Linguistico Manzoni di Milano.

LEONE LODI Chiara Gatti. È storica e critica dell’arte, specialista di Scultura e di Grafica moderne e contemporanee. Scrive per le pagine del quotidiano «La Repubblica». Ha curato monografie e testi critici dedicati, fra gli altri, a Édouard Manet, Adolfo Wildt, George Rouault, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Marino Marini, Fausto Melotti, Alberto Giacometti, Angelo Bozzola, Gianfranco Ferro-

FLORIANO BODINI Sara Bodini. Nata a Milano nel 1984, è laureata in Filosofia all’Università degli Studi di Milano. Ha la282


vorato in vari archivi musicali, storici e d’artista e a oggi collabora con Sòno, nuovo metodo di consulenza personale. Ha collaborato con articoli e illustrazioni con varie riviste, con particolare interesse per la filosofia giapponese e per l’arte. Figlia dello scultore Floriano Bodini, si occupa con la madre Caroline e la sorella Paola dell’archivio dell’artista. Dal gennaio 2016 è stata nominata Direttore del Museo Civico a lui dedicato a Gemonio.

Monumentale di Milano, pubblicato sul sito www. jewishgen.org.

LA PERIZIA CALLIGRAFICA DI VIOLI Giulia Vescogni. Grafologa professionista AGP e AGI, Perito grafico ed Educatrice del gesto grafico. Opera a Milano e utilizza la grafologia nello studio cognitivo-temperamentale della persona, nell’orientamento scolastico e professionale, nella selezione delle risorse umane e nel potenziamento delle abilità grafo-motorie di bambini e adulti. In parallelo svolge un’intensa attività di corsi, conferenze e seminari dedicati all’universo della grafologia. Il suo sito internet è www.parlamiscrivendo.com.

IL CENSIMENTO DEL RIPARTO ISRAELITI Michele Sacerdoti. È nato a Milano il 14 aprile 1950 e risiede a Milano. È sposato e ha un figlio. Si è laureato in Fisica nel 1973 con 110 e lode con una tesi sui neutrini ad alta energia. Si è occupato professionalmente di software bancari dal 1975 in varie aziende. Dal 2009 è tornato a occuparsi di fisica collaborando all’esperimento Aegis sulla misura della gravità dell’antimateria al CERN di Ginevra. Dal 2011 al 2016 è stato Presidente della Commissione Lavoro, Attività produttive e Sicurezza del Consiglio di Zona 3 del Comune di Milano. È iscritto alla comunità ebraica di Milano. Ha svolto dal 2015 al 2016 un censimento completo delle sepolture del Settore Israelitico del Cimitero

QUALCHE ANEDDOTO SUL FAMEDIO Bruno Maffeis. Di recente in pensione, dopo una vita passata tra giornalismo, editoria e pubblicità. Originario di Bergamo e trapiantato a Milano, si è subito innamorato di questa città. Ora che ha tempo, ama conoscerne a fondo la storia, i monumenti e soprattutto i personaggi che in questi secoli l’hanno fatta grande e che riposano degnamente nel Famedio del Cimitero Monumentale.

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BIBLIOGRAFIA


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ELENCO DEI CITTADINI ILLUSTRI NEL FAMEDIO



Cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria tumulati al Famedio Alessandro Manzoni Carlo Cattaneo Luca Beltrami Leo Valiani Bruno Munari Carlo Forlanini Salvatore Quasimodo

Cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria ricordati con busto al Famedio Luca Beltrami Giuseppe Mazzini Giuseppe Verdi

Cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria tumulati nella Cripta sotto il Famedio Aldo Aniasi Gabriele Basilico Leone (Lionello) Beltramini Agostino Bertani Giovanni Bertini Onorina Brambilla Francesco Brioschi Oreste Bronzetti Luigi Cagnola Emilio Caldara Candido Cannavò Renato Cepparo Cesare Correnti Tranquillo Cremona

Guido Crepax Stefania Cresta Franco Faccio Giuseppe Ferrari Angelo Filippetti Dario Fo Ambrogio Fogar Giorgio Gaber Giorgio Gaslini Paolo Grassi Tommaso Grossi Francesco Hayez Gerolamo Induno Domenico Induno Enzo Jannacci Achille Landini Duilio Loi Elia Lombardini Giuseppe Marcora Antonio Maspes Achille Mauri Giuseppe Meazza Alda Merini Lina Merlin Giuseppe Missori Giovanni Battista Monteggia Bob Noorda Maria Maddalena Olivero Franco Parenti Tancredi Pasero Giovanni Pesce Giovanni Pettenella Francesco Maria Piave Giuseppe Piolti De’ Bianchi Amilcare Ponchielli Giuseppe Pozzone Alma Radius Zuccari «Neera» Giovanni Raboni Franca Rame 291

Alceo Riosa Giuseppe Rovani Milla Sannoner Giovanni Schiaparelli Renato Simoni Giuseppe Sirtori Laura Solera Mantegazza Mario Talamona Antonio Tantardini Giulio Tarra Carlo Tenca Delio Tessa Andrea Verga Giancarlo Vigorelli Giacomina Vinchi

Cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria iscritti al Famedio Lato Levante Giovanni Schiaparelli Cardinale Andrea Ferrari Gerolamo Rovetta Contardo Ferrini Ambrogio De Marchi Gherini Giuseppe Mercalli Carlo Baravalle Giovanni De Castro Gaetano Negri Ernesto Teodoro Moneta Carlo Maciachini Giuseppe Colombo Giuseppe Brentano Henry Beyle «Stendhal» Umberto Giordano Giorgio de Chirico Lucio Fontana Alberto Savinio


Mario Sironi Filippo De Pisis Umberto Boccioni Carlo Carrà Filippo Tommaso Marinetti Dino Buzzati Eugenio Montale Nicola Abbagnano Carlo Emilio Gadda Guido Piovene Oreste Del Buono Carlo Mo Riccardo Bacchelli Giovanni Testori Tommaso Gallarati Scotti Elio Vittorini Emilio De Marchi Antonio Fogazzaro Luigi Albertini Orio Vergani Vittorio Sereni Luigi Barzini Leo Longanesi Giulio Natta Luchino Visconti Arturo Toscanini Guido Cantelli Victor De Sabata Giacomo Puccini Maria Callas Giorgio Strehler Gio Ponti Giuseppe Terragni Giovanni Muzio Emilio Lancia Piero Portaluppi Antonio Sant’Elia Luigi Figini Gino Pollini

Giuseppe De Finetti Carlo Maria Giulini Roberto Negri Franco Angeli Enzo Biagi Pietro Cascella Giuseppe Di Stefano Romano Gandolfi Dante Isella Franca Pellini Gabardini Teresa Pomodoro Ennio Presutti Mila Schön Felice Bernasconi Mike Bongiorno Maria Luisa Gatti Perer Leyla Gencer Luigi Mauri Giorgio Mondadori Fernanda Pivano Mario Pria Teresa Sarti Strada Guido Ballo Giuseppino Bossi Lorenzo Cantù Piero Colombi Niny Comolli Ivan Dragoni Gian Maria Gazzaniga Herbert Kilpin Chiara Lubich Giorgio Manganelli Giorgio Muggiani Francesco Ogliari Gianni Ravasi Giulietta Simionato Gae Aulenti Carlo Basso Giancarlo Cobelli 292

Fausto Gardini Mariangela Melato Ottavio Missoni Claudio Sommaruga Claudio Abbado Carlo Bergonzi Rino Bindi Ada Burrone Carlo Castellaneta Roberto Cerati Vittorino Colombo Gerardo D’Ambrosio Luciano Erba Fabio Guzzini Guido Martinotti Monsignor Luciano Migliavacca Giuseppina Re Piero Sensi Anzelika Isakovna Balabanova Franco Bomprezzi Gianni Bonadonna Corrado Bonfantini Sandra Mondaini e Raimondo Vianello Elvira Bouyeure Leonardi Alighiero De Micheli Carlo De Angeli Giuseppe Ponzio Mario Buccellati Fantasio Piccoli Carlo Cannara Tommaso Zerbi Giuseppe Prisco Ardito Desio Alfredo Malgeri Gabriele Mucchi Maria Corti Salvatore Guglielmino Luigi Mengoni


Franco Brambilla Augusto Morello Ottiero Ottieri Massimo Martini Raffaele Durante Leonardo Mondadori Monsignor Angelo Majo Marisa Bellisario Enrica Pischel Collotti Achille Castiglioni Carlo Camerana Ulrico Hoepli Lodovico Barbiano di Belgiojoso Luciano Minguzzi Fratel Ettore Benito di Lauro Giovanni Battista Candiani Romeo Invernizzi Luciano Chailly Carlo Mangiarotti Mario Merz Anna Del Bo Boffino Claudio Demattè Riccardo Malipiero Bruna Moretti Enzo Vicari Gina Lagorio Alberto Lattuada Massimo della Campa Elda Scarzella Mazzocchi Guido Vergani Gianni Comencini Renata Tebaldi Giancarlo Vigorelli Gino Bramieri Giorgio Covi Lidia De Grada Gaetano Afeltra Giorgio Rumi

Vico Magistretti Maria Antonietta Setti Carraro Giacinto Facchetti Stefano Pastorino Laura Conti Monsignor Pietro Rampi Carlo Ramous Giuseppe Pagano Pogatschnig Aldo Rossi Marino Marini Arturo Martini Francesco Messina Medardo Rosso Adolfo Wildt Giacomo Manzù Gianni Mazzocchi Arnoldo Mondadori Angelo Rizzoli Valentino Bompiani Edilio Rusconi Enrico Mattei Piero Bottoni Edoardo Persico Giuseppe Eugenio Luraghi Luigi Veronesi Angelo Salmoiraghi Luigi Barzini junior Ludovico Geymonat Giulio Ricordi Pietro Mascagni Laila Romano Gina Cigna Marco Zanuso Emilio Tadini Giò Pomodoro Giuseppe Pontiggia Anna Kuliscioff Emilio Alemagna Nicola Benois 293

Raffaele Mattioli Clemente Rebora Cesare Musatti Julien Green Ulisse Stacchini Ernesto N. Rogers Antonio Banfi Fausto Melotti Ada Negri Ignazio Gardella Edoardo Sonzogno Emilio Treves Giovanni Scheiwiller Aldo Garzanti Mario Spagnol Adriano Bausola Enrico Cuccia Alik Cavaliere Arrigo Recordati Gaetano Baldacci Luigi Mattioni Indro Montanelli Carlo Bo Gaudenzio Fantoli Enrico Baj Attilio Rossi Luigi Santucci Ersilia Branzini Majno Maria Grazia Cutuli Pagano Della Torre Elio Fiorucci Elena Fischli Dreher Rosa Genoni Fiorella Ghilardotti Alberto Ghinzani Paolo Giuggioli Clara Maffei Bianca Milesi Mojon Maria Tecla Artemisia Montessori


Anna Maria Mozzoni Erasmo Peracchi Leopoldo Pirelli Antonia Pozzi Alessandra Ravizza Luca Ronconi Maria Maddalena Rossi Franco Servello Costanza Trotti Bentivoglio Arconati Metilde Viscontini Dembowski

Cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria iscritti al Famedio Lato Ponente Tommaso Grossi Giovanni Berchet Giuseppe Ferrari Elia Lombardini Angelo Maj Francesco Hayez Tranquillo Cremona Amilcare Ponchielli Giovanni Raiberti Giuseppe Rovani Carlo Mascheroni Agostino Bertani Cesare Cantù Giulio Carcano Emilio Cornalia Cesare Correnti Massimo D’Azeglio Paolo Ferrari Domenico Induno Pietro Lazzati Pompeo Litta Achille Mauri Antonio Rosmini

Abbondio Sangiorgio Antonio Stoppani Giovanni Torti Vincenzo Vela Andrea Verga Aldo Finzi Francesco Brioschi Giovanni Cantoni Felice Cavallotti Antonio Mosca Carlo Tenca Giuseppe Balzaretto Giberto Borromeo-Arese Benedetto Cacciatori Federico Faruffini Alessandro Focosi Stefano Jacini Pietro Magni Pietro Maestri Emilio Praga Antonio Tantardini Cristina Trivulzio Giulio Uberti Graziadio Ascoli Arrigo Boito Giovanni Gherardini Eugenio Camerini Giuseppe Mengoni Carlo Forlanini Luigi Mangiagalli Giovanni Segantini Gaetano Previati Carlo Mirabello Alfredo Catalani Cesare Rinaldi Laura Solera Mantegazza Antonio Kramer Paolo Marchiondi Enrico Mylius 294

Giorgio Jan Giovanni Battista Piatti Eugenio Villoresi Antonio Beretta Giuseppe Sacchi Michele Barozzi Vitaliano Borromeo-Arese Battista Nazari-Scagliapesci Giulio Tarra Virgilio Ferrari Lino Montagna Antonio Greppi Alfredo Ildefonso Schuster Giovanni Battista Pirelli Riccardo Jucker Antonio e Marieda Boschi Senatore Borletti Marcello Candia Giuseppe De Capitani D’Arzago Giuseppe Menotti De Francesco Agostino Gemelli Armando Sapori Giorgio Enrico Falck Giuseppe Lazzati Isa Miranda Agostino Rocca Giordano Dell’Amore Achille Bertarelli Ferdinando Bocconi Ernesto Breda Cristoforo Benigno Crespi Ettore Conti Davide Campari Ernesto De Angeli Ercole Marelli Serafino Belfanti Giacinto Motta Gianni Caproni Franco Tosi


Vittore Buzzi Ettore Bugatti Manfredo Camperio Giangiacomo Poldi Pezzoli Guido Ucelli di Nemi Antonio Ghiringhelli Guido Venosta Gino Alemagna Angelo Motta Ambrogio Cecchini Luciano Elmo Pietro Rondoni Dino Villani Giorgio Ambrosoli Mario Silvestri Silvio Pellico Federico Confalonieri Teresa Casati Confalonieri Giorgio Pallavicino Pietro Maroncelli Amatore Sciesa Luciano Manara Carlo De Cristoforis Giovanni Battista Carta Gerolamo Induno

Antonio Lazzati Giovanni Pezzetti Giuseppe Piolti De’ Bianchi Giuseppe Sirtori Luigi Anelli Francesco Arese Gabrio Piola Carlo Porro Emilio Dandolo Enrico Dandolo Camilla Vaccani Carlo Bellerio Giuditta Sidoli Bellerio Giuseppe Marcora Giacomo Ciani Filippo Ciani Pasquale Sottocorno Filippo Meda Giovanni Spadolini Giovanni Battista Montini Carlo Alberto Dalla Chiesa Cesare Merzagora Ferruccio Parri Alfredo Pizzoni Filippo Corridoni

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Giovanni Malagodi Riccardo Bauer Mario Enrico Sironi Ester Angiolini Carlo Maria Badini Gaspare Barbiellini Amidei Floriano Bodini Corso Bovio Jolanda Colombini Monti Monsignor Luigi Crivelli Alberto Falck Mercedes Garberi Giorgio Pardi Luciano Pavarotti Amato Santi Walter Valdi Gianni Versace Franco Bettinelli Fulvio Bracco Emanuele Dubini Carlo Sessa Carlo Sirtori Sandro Strohmenger


Referenze fotografiche

Le fotografie pubblicate sono state realizzate da Carla De Bernardi, ad eccezione di quelle riportate di seguito:

Abrate Enrico (courtesy of), 65 Archivi Alinari, 127, 151 p. 127 Codice: VVF-S-0COM49-7011 Titolo: Milano, il Cimitero monumentale dopo i bombardamenti Credito fotografico obbligatorio: Ministero dell’Interno, Dipartimento Vigili del Fuoco del Soc. Pub. e della Difesa Civile © Fratelli Alinari Fotografo: 52° Corpo dei Vigili del Fuoco Data dello scatto: 24/10/1942 Luogo dello scatto: Milano Collezione: Ministero dell’Interno, Dipartimento Vigili del Fuoco del Soc. Pub. e della Difesa Civile © Fratelli Alinari p. 151 Codice: BGA-F-009651-0000 Titolo: La Sala dei forni crematori, nel Cimitero Monumentale di Milano Credito fotografico obbligatorio: Archivi Alinari, Firenze Artista: Maciachini, Carlo Data dell’opera: 1863-1866 Periodo e stile: Neoclassico Collocazione: Milano, Cimitero Monumentale, sala dei forni crematori Fotografo: Brogi Data dello scatto: 1890 ca. Luogo dello scatto: Milano, Cimitero Monumentale, Sala dei forni crematori Collezione: Archivi Alinari-Archivio Brogi, Firenze

Archivio del Cimitero Monumentale di Milano, 53, 65, 125-126, 206 Archivio del Museo Medardo Rosso-Barzio, 104-105, 192, 194 ©Archivio di Stato di Milano* Fondo Arturo Toscanini, 50, 201 *Autorizzazione a pubblicare documenti dell’Archivio di Stato-Milano prot. 4518/28.13.11/12 del 19/10/2016

Archivio Floriano Bodini, 165, 258-260 (foto di Pepi Merisio), 259 (foto di Donato Frisia), 261 (foto di Moreno Maggi) © Archivio Fonderia Artistica Battaglia, 131, 168 Archivio Fotografico Milano, 37, 60, 79, 101, 129, 151, 161, 186, 227 Archivio Giannino Castiglioni Jr., 66-67, 70, 87, 126, 129, 138-139, 148, 163, 230-233, 236-237

Archivio Leone Lodi Milano, 248-252

Eredi Pellini, 26, 134, 210-211, 215

©Archivio M. Di Stefano, 219

Falchi Aldo (courtesy of), 62, 146

p. 219: Edicola Riboni ora Bonelli, bronzo, 1907. Foto M. Di Stefano

Famiglia Fossati (courtesy of), 99

©Archivio Michele Vedani, 217, 219-220

Fondazione Lucio Fontana, 240, 242-243, 246

p. 217: Il lavoro, guidato e sorretto dall’intelligenza e dall’amore, è strumento di elevazione dell’uomo, gesso per l’edicola Peretti, 1915 con l’imponente gruppo; sullo sfondo a destra il gesso del bozzetto p. 219: Il simbolo della croce, bozzetto per l’Edicola Branca, gesso, 1904 Ritratto di Minuccia, creta, 1931, modello per la scultura in marmo sulla tomba Veda p. 220: Deposizione, gesso, bassorilievo, Carlo Attilio Manzoni Foto n. 18

Fondazione Piero Portaluppi, Milano, 76, 148, 159

Archivio Socrem, 27, 151, 157 Archivio Ulrico Hoepli, 104 Azuma Ambrogio (courtesy of), 166 Barbiano di Belgiojoso Gianni (courtesy of), 123 Berra Federica, 211-212, 214 Centro Artistico Alik Cavaliere, 254-255 © Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, 29, 41, 43, 54-55, 79, 82-83, 107-108, 116, 145, 171 p. 29: Keller forno a gas p. 41: Commissione Delegata p. 43: Norme prescrittive pei nuovi cimiteri p. 54: Planimetria originale p. 55: Cimitero degli Acattolici p. 79: Sezione del Famedio p. 82: Planimetria Famedio p. 83: Medaglione p. 107: Pianta Cimitero Israeliti p. 108: Appalto per il Cimitero degli Israeliti p. 116: Planimetria originale p. 145: Ossario

© Civica Raccolta delle stampe «Achille Bertarelli», 79, 96 p. 79: Prospetto Cimitero p. 96: Mazzuccotelli 1.160 - Tomba Famiglia Celle. Cimitero Monumentale Milano. Cancello - PV. m 6-72 Planimetria generale del nuovo cimitero Monumentale di Milano

© Civico Archivio Fotografico, 37, 60, 79, 101, 129, 151, 161, 186 p. 37: Cimitero della Mojazza p. 60: Disegno p. 79: Carrozza nel piazzale p. 101: Sala laica p. 129: Edicola Beaux p. 151: Prima cremazione p. 161: Ampliamento p. 186: Edicola Branca

p. 76: Edicola Girola RP644_EdicolaGirola_B1696 Piero Portaluppi. Edicola Girola (1940-1941). Plastico, 1941: stampa fotografica su carta; 23x17 cm. Fotografia di Antonio Paoletti. Fondazione Piero Portaluppi, Milano. RP644_EdicolaGirola_B1698 Piero Portaluppi. Edicola Girola (1940-1941). Plastico, 1941: stampa fotografica su carta; 23x17 cm. Fotografia di Antonio Paoletti. Fondazione Piero Portaluppi, Milano. RP644_EdicolaGirola_D7948 Piero Portaluppi. Edicola Girola (1940-1941). Stampa fotografica su carta; 29x23 cm. Fotografia di Antonio Paoletti. Fondazione Piero Portaluppi, Milano. p. 148: Edicola Conti RP096_Edicola Conti Piero Portaluppi. Edicola Conti (1915-1924). Prospettiva, 1915: matite e acquerelli su cartoncino; 59x46 cm. Fondazione Piero Portaluppi, Milano. p. 159: Monumento Emilio e Marco Praga P470_Tomba Praga Piero Portaluppi. Tomba Marco Praga (1929). Prospetto, pianta, prospettiva: matite e inchiostro di china su carta da lucido; 42x56 cm. Fondazione Piero Portaluppi, Milano

© Istituto Luce, 58, 135 p. 58: 2 novembre 1936. Il duce al Monumentale p. 135: 2 novembre 1936. Il duce è accompagnato da fascisti milanesi con il loro labaro (codice foto A 00068252)

Musei Civici Viggiutesi, 109, 178, 180 Museo Civico di Casale Monferrato, 196, 199, 201 Piloto Sara (courtesy of), 57 Piter Giuliana (courtesy of), 67, 143

Trezzi Daniele (courtesy of), 67

Nel caso non sia stato possibile rintracciare eventuali detentori di diritti, l’Editore si dichiara disponibile ad adempiere ai propri obblighi relativi alle immagini del presente Volume.


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