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Il passaggio dal pastello alla pittura

nella forma che si vuol creare. A tal proposito la «carta scolpita» trova l’impiego più naturale e impellente nelle carte ritagliate di Matisse: la carta, preventivamente dipinta, viene cesellata con le forbici come se si operasse direttamente sul colore e il suo contorno. Matisse disegna ritagliando. Dopo di lui si potrebbe ancora citare Lucio Fontana, che conferisce spessore a un foglio bianco fendendolo con un taglio di rasoio e aprendolo sul nero di uno sfondo, ultima variazione del bianco e nero, che allude, nella sua assenza, al disegno. Nel 1984 presentammo un collage di Chagall, datato 1921, nel quale la carta da rivestimento di una cartella per disegni, combinata al frammento di un cartoncino di invito per l’inaugurazione del Teatro Ebraico di Mosca, compongono un reticolo diagonale sul fondo di un foglio bianco. Appartiene al periodo durante il quale Chagall ha quasi esclusivamente disegnato, e per molteplici ragioni: nella Russia degli anni della Rivoluzione e della guerra esisteva senza dubbio una seria diffi coltà nel reperire la tela e anche i colori. Ma Chagall soprattutto non gode più delle disponibilità di cui fruiva a Parigi dal 1911 al 1914: si era arruolato nel servizio pubblico dell’economia di guerra e passava le ore in uffi cio a copiare documenti. Davanti a sé inchiostro e scartoffi e dalle righe imperturbabili. Poco importa! Molti di questi fogli diventano il supporto per creazioni a inchiostro di stupenda ironia e inventiva, e che immaginiamo tracciate di nascosto nel corso di solitarie fantasie, in barba a un’amministrazione tutto sommato indulgente. Una seconda ragione di questa infatuazione negli anni 1918-20 per l’inchiostro su carta è da collegare agli stretti rapporti che Chagall intrattiene con i poeti: per illustrare i loro testi compone una serie di fi gure totalmente oniriche, fatte di esseri umani, animali e paesaggi mischiati a stampigliature di pizzo intinte in inchiostro nero – una via di mezzo fra il collage e il disegno – e a iscrizioni ebraiche. Arriviamo così alla terza ragione che spinge Chagall a dedicarsi, in questo periodo, e in maniera totale, al disegno a china su carta: la mistica ebraica conosce uno straordinario rifi orire negli anni dopo la liberazione dal potere zarista. Ora, essa è tutta contenuta in un libro i cui caratteri sono di per sé un disegno mirabile. Il grafi smo della

42 linea così come la sicurezza del segno tracciato in nero sul bianco della pagina conducono Chagall a sottili variazioni della lettera Aleph, le cui due gambe si animano improvvisamente di vita. Infi ne, se carta e inchiostro nella loro accoppiata possono dar vita a una pagina disegnata, allo stesso modo possono produrre un’incisione. Qui, ancora, il ruolo della materia stessa della carta agisce in modo determinante: la permeabilità, l’elasticità, la grana e la tessitura consentono o meno all’inchiostro di liberare i suoi neri più belli. Senza dubbio Chagall ha imparato davanti a un torchio a sperimentare sia la carta giapponese madreperlata sia il tipo Arches, e le ha in seguito utilizzate altrettanto bene nel disegno. Questa dimestichezza con la carta si rivela attraverso la molteplicità dei supporti utilizzati per i nostri pastelli: carte vergate bianche o crema, carta assorbente che pure, qui, è un supporto incongruo, tutto sembra convenire al pittore per ricevere i suoi colori e i suoi segni. Senza dubbio una conoscenza così profonda dei mezzi suppone in partenza una scelta dell’espressione e del supporto, oppure anche, afferrato il primo foglio a portata di mano, l’espressione si adegua al supporto. Mai, in ogni caso, Chagall ha perduto di vista l’uso che poteva fare della carta e dell’inchiostro, anche quando lavorava a pastello.

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CHAGALL DISEGNATORE

Nel mondo occidentale esiste una indiscussa tradizione secondo la quale un artista deve essere anzitutto un buon disegnatore, tradizione che trae le sue origini da un complesso di preconcetti e malintesi, e che risale, se non all’Antichità, certo al Rinascimento europeo. In seguito a ciò molte furono le opere escluse dall’universo culturale nel corso dei secoli, dalla pittura rupestre fi no alla scultura delle chiese romaniche o alla miniatura dei manoscritti. Ciò non signifi ca che queste opere antiche non fossero ammirate, utilizzate e recepite da intere popolazioni, ma semplicemente che furono accantonate nella duplice elaborazione di un’arte colta e di un’arte non religiosa. A questo proposito è signifi cativo il fatto che i capolavori dei Clouet siano al contempo ritratti e disegni; all’importanza del committente viene associata una tecnica relativamente nuova e padroneggiata in maniera sorprendente: arte di corte e virtuosismo, arte dotta e oggetto di curiosità, tale stupefacente precisione naturalistica dovette certo incantare i contemporanei, tanto che ancor oggi subiamo il fascino di questi volti che ci giungono attraverso i secoli. Tutte queste nuove vie della creazione vanno allora di pari passo. Ma se all’origine esse sono associate a un sistema sociale aristocratico – quello che dà vita alle collezioni, alle Wunderkammer e alle committenze regie o ecclesiastiche –, vengono poi rapidamente assimilate anche dagli altri strati della società: quei valori di virtuosismo e abilità, veicolati dalla pittura religiosa, dai Salon e infi ne, lungo tutto il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, dal mercato dell’arte, diventano i valori non già della classe borghese, ma – attraverso i nuovi mezzi dell’incisione, dell’immagine stampata e, sotto i nostri occhi, della fotografi a e della riproduzione a colori – coinvolgono l’intera società. E ciò che rimane «borghese» è il desiderio, condiviso dai più, di rimanere «colpiti» dall’opera d’arte nel suo rapporto, auspicato sempre più stretto, con la realtà. Tutto il diciannovesimo secolo europeo si è beato della pittura di David e di Ingres, nella quale gli artisti non si limitavano a instaurare con i modelli un mero rapporto fra maestro e allievo nell’ambiente dello studio, ma creavano un rapporto legale e istituzionale con il totale beneplacito della società. È facile riconoscere in tutte le manifestazioni artistiche questa vo-

44 lontà istintiva di offrire a chi guarda la dimostrazione di un «mestiere» da parte dell’artefi ce, e il culto dell’opera bella fi orisce nelle opere levigate di Alma Tadema o di Bouguereau, dopo aver prodotto i ritratti del signor Ingres e negli interni di Drolling. Quest’ultimo ci ricorda in proposito che la pittura olandese del diciassettesimo secolo gode nello stesso periodo di una rinnovata popolarità, come se tutta la borghesia del diciannovesimo secolo plaudesse ai mercanti di Amsterdam o ai Sindaci dei drappieri di Rembrandt, riconoscendosi in essi. È sempre il «mestiere» che in modo clamoroso si impone agli architetti che rilevano le antiche rovine ed eseguono disegni lumeggiati di un’abbagliante precisione, e agli scultori per i quali la materia non rappresenta più un ostacolo nella resa di un merletto o di una capigliatura. Scopriamo senza diffi coltà le violente reazioni a questa cappa di formale perfezione che sovrasta l’arte all’inizio del diciannovesimo secolo; non intendiamo soffermarci qui né sul Romanticismo e sulla pittura universalmente denominata concorrente di Delacroix, né sui preraffaelliti inglesi. È tuttavia importante notare che il virtuosismo con il quale si valuta ogni opera va di pari passo con una ricerca poetica sempre più complessa e irrazionale: Dante e Ariosto avevano fatto il loro tempo quando nel 1887 nasce il giovane Chagall, e altre saghe erano venute dai pennelli di Gustave Moreau e dalla penna di Rostand e di Wagner. Così la pittura degli impressionisti appare doppiamente rivoluzionaria, sia riguardo alla forma sia riguardo alla sostanza. Nato nel pieno della civiltà del mestiere e dell’abilità, l’Impressionismo è anzitutto una pittura-martirio. Per lo meno stando a quello che i cronisti ci riferiscono, e i loro racconti compongono una chanson de geste a sua volta appassionante dal nostro punto di vista. Senza soffermarci sulle ragioni che hanno potuto causare il rigetto e che John Rewald ha altrove esposto, soffermiamoci sulla riabilitazione dell’Impressionismo in un contesto sociale che, tutto sommato, non era sostanzialmente mutato. Va da sé che il ruolo dei critici e dei mercanti d’arte è stato determinante nel credito riconosciuto alla maggior parte di questi artisti. Ma essi non avrebbero trionfato se l’Impressionismo non fosse a sua volta apparso come un’arte dotta. Superato l’iniziale disprezzo di coloro che erano abbagliati

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