LE ARTI CISTERCIENSI
Joan Barclay Lloyd, Xavier Barral i Altet, David N. Bell, Elek Benkő, Inos Biffi, Pierre-André Burton, Denis Cailleaux, Roberto Cassanelli, Michael Casey, Emmanuelle Cazabonne, Sheryl Frances Chen, Thomas Coomans, Maria Antonietta Crippa, James D’Emilio, Marie-Gérard Dubois †, James France, Elisabeth Freeman, Terryl N. Kinder, Christine Kratzke, Maria Christina Leaño, Anastasius Li, Claire Maître, Antonio Montanari, Paul M. Pearson, Javier Pérez-Embid, Eric Ramírez-Weaver, David M. Robinson, Jens Rüffer, Mario Sensi, Claudio Stercal, Markus Thome, Igino Vona, David H. Williams, Joaquín Yarza Luaces, M. Theophane Young
LE ARTI CISTERCIENSI a cura di Terryl N. Kinder e Roberto Cassanelli
International copyright © 2014 by Editoriale Jaca Book SpA, Milano All rights reserved
INDICE
LE SCENE DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO
Prima edizione italiana settembre 2014 9
INTRODUZIONE
Traduzioni Maria Cristina Beccattelli (spagnolo) Ida Bonali (francese, inglese, tedesco)
Copertina e grafica Break Point/Jaca Book Selezione e composizione Graphic srl, Milano Stampa e legatoria Xxxxxxxxxx
LE ORIGINI CISTERCIENSI Claudio Stercal
11
BERNARDO DI CLAIRVAUX E L’ESPERIENZA DEL MISTERO Inos Biffi
17
UNA SUBLIME ALLEANZA SIGILLATA DALLA MANO DI DIO. TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA ESTETICA Antonio Montanari
21
«FORMOSITÀ DEFORME» O «DEFORMITÀ FORMOSA». L’ESTETICA DELLA CROCE COME ETICA MISTICA DELLA BELLEZZA IN BERNARDO DI CLAIRVAUX Pierre-André Burton
31
LA PRIMA ARCHITETTURA CISTERCIENSE. ORIGINALITÀ E FUNZIONALITÀ
35
DI UN MODELLO EDILIZIO
Xavier Barral i Altet SAN BERNARDO COSTRUTTORE? IL PROBLEMA DELLA “PIANTA BERNARDINA” Roberto Cassanelli
75
PRIMORDI DI ARCHITETTURE CISTERCIENSI IN ITALIA (XII-XIII SECOLO) Roberto Cassanelli
79
DUE ABBAZIE CISTERCIENSI NELL’ITALIA PADANA Roberto Cassanelli
101
L’ARCHITETTURA DELL’ABBAZIA CISTERCIENSE DEI SANTI VINCENZO E ANASTASIO ALLE TRE FONTANE Joan Barclay Lloyd
105
I CISTERCIENSI NEL SACRO A NORD DELLE ALPI
109
ROMANO IMPERO
Jens Rüffer
ISBN 978-88-16-60441-4 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma: Editoriale Jaca Book Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02.48.56.15.20, fax 02.48.19.33.61 e-mail: libreria@jacabook.it www.jacabook.it
L’ARCHITETTURA CISTERCIENSE NELLA PENISOLA IBERICA James D’Emilio
125
ARCHITETTURA CISTERCIENSE IN GRAN BRETAGNA E IRLANDA David M. Robinson
145
I CISTERCIENSI E LA LORO ARCHITETTURA NELLA REGIONE DEL MAR BALTICO Christine Kratzke
157
I CISTERCIENSI NELL’UNGHERIA MEDIEVALE Elek Benkő
165
LE MONACHE CISTERCIENSI E L’ARTE NEL MEDIOEVO Elizabeth Freeman
175
ORNAMENTA ECCLESIAE CISTERCIENSES. L’ARTE ORNAMENTALE DEI MONASTERI CISTERCIENSI NEL MEDIOEVO Christine Kratzke
187
LA VITA LITURGICA COME ARTE: OGGETTI LITURGICI CISTERCIENSI Emma Cazabonne
201
LE VETRATE CISTERCIENSI Eric Ramírez-Weaver
207
L’ARTE MONASTICA DELLA LECTIO DIVINA Michael Casey
215
LE MINIATURE CISTERCIENSI Joaquín Yarza Luaces
223
DAL DEPOSITO ALLO STUDIO: ORIGINI E SVILUPPO DELLE BIBLIOTECHE CISTERCIENSI David N. Bell
239
I SIGILLI CISTERCIENSI MEDIEVALI David H. Williams
245
LA RIFORMA CISTERCIENSE DEL CANTO LITURGICO Claire Maître
251
LE GRANGE CISTERCIENSI David H. Williams
259
LA GRANGIA MAGGIORE DI FOSSANOVA Igino Vona
275
I CISTERCIENSI E L’ACQUA. IL MODELLO DELLE ABBAZIE FRANCESI E SPAGNOLE Javier Pérez-Embid
285
LA SIDERURGIA CISTERCIENSE Denis Cailleaux
293
RAFFIGURAZIONI CISTERCIENSI E DI SAN BERNARDO NELL’ARTE MEDIEVALE James France
297
COMMENDE E CONGREGAZIONI CISTERCIENSI Mario Sensi
309
L’ARTE CISTERCIENSE NEL XVII E XVIII SECOLO
323
NELLE REGIONI DI LINGUA TEDESCA
Markus Thome HEILIGENKREUZ Markus Thome
337
ARMAND-JEAN DE RANCÉ E I TRAPPISTI Marie-Gérard Dubois †
341
LA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITÀ NELL’ARCHITETTURA CISTERCIENSE DEL XIX SECOLO Thomas Coomans
349
EMBLEMI DI UN’ETÀ DI VIOLENZA: L’ARTE DI THOMAS MERTON Paul M. Pearson
367
L’ARCHITETTURA CISTERCIENSE NEL XX SECOLO Maria Antonietta Crippa
375
ANTICHE FABBRICHE CISTERCIENSI NEGLI STATI UNITI Terryl N. Kinder
395
OUR LADY OF JOY. UNA COMUNITÀ CISTERCIENSE IN ESTREMO ORIENTE Anastasius Li e M. Theophane Young
403
L’ABBAZIA DI NOSTRA SIGNORA DI REDWOODS Christina Leaño
407
IL MARIAKLOSTER DI TAUTRA: L’ARTE DEL RITORNO Sheryl Frances Chen
411
NOTE E BIBLIOGRAFIE
415
INDICE DEI NOMI DI PERSONE, ORDINI MONASTICI,
427
LUOGHI E FONDAZIONI
NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI Claudio STERCAL Docente ordinario di Teologia spirituale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano), ha pubblicato, in Italia e all’estero, studi sulle origini cisterciensi, Stefano Harding e Bernardo di Chiaravalle. Inos BIFFI Docente ordinario emerito di storia della teologia medievale e di teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano) e docente incaricato presso la Facoltà di Teologia di Lugano, è presidente dell’Istituto per la Storia della Teologia Medievale di Milano. Per Jaca Book dirige in collaborazione le collane Biblioteca di Cultura Medievale ed Eredità Medievale. Storia della teologia da Boezio a Erasmo da Rotterdam. Presso la stessa Jaca Book è in corso di pubblicazione la sua Opera Omnia.
figurativa medievale nonché sulla storia della ricerca. Elek BENKŐ È direttore dell’Istituto di Archeologia presso l’Accademia Ungherese di Scienze e Archeologia. Studia la storia degli insediamenti della Transilvania medievale, bronzi, chiostri e fondazioni monarchiche medievali nell’Ungheria centrale. Elizabeth FREEMAN Elizabeth Freeman, Senior Lecturer in Storia Medievale Europea presso la University of Tasmania (Australia), studia il monachesimo femminile medievale inglese. Ha pubblicato scritti all’interno di: The Cambridge Companion to the Cistercian Order, Parergon, Cistercian Studies Quarterly, e Cîteaux–Comm. cist.
Antonio MONTANARI È docente di Storia della Spiritualità e Storia dell’Ermeneutica biblica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano), dove è anche direttore del «Centro Studi di Spiritualità». È inoltre autore di diversi studi di teologia e spiritualità patristica e medievale.
Emma CAZABONNE È una scrittrice e traduttrice franco-americana e si occupa di studi sulla spiritualità cisterciense. Tra questi ha pubblicato A Light to Enlighten the Darkness, e alcuni articoli per l’International Congress of Medieval Studies (Kalamazoo, MI) e per la Orthodox Theological Society.
Pierre-André BURTON Laureato presso l’Università Cattolica di Lovanio (Lingue e Letterature romanze, Filosofia, Studi Medievali), Pierre-André Burton è un monaco cisterciense di Sainte Marie du Desert. Si è specializzato nello studio delle opere di Aelredo di Rievaulx cui ha dedicato numerosi articoli e una biografia.
Eric RAMÍREZ-WEAVER È professore associato di Storia dell’Arte presso la University of Virginia, e concentra i suoi studi sull’intersezione tra l’arte e le scienze nel Medioevo. Un altro dei suoi campi di interesse è costituito dalle miniature dei manoscritti Carolingi e Boemi.
Xavier BARRAL I ALTET Professore emerito di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Rennes (Francia), già direttore del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna (MNAC) a Barcellona e della Missione storica francese in Germania a Göttingen, commissario di grandi mostre internazionali, membro di diverse accademie e istituzioni culturali internazionali, è uno dei più eminenti storici dell’arte europei e i suoi libri sono stati tradotti in numerose lingue. A sua cura presso Jaca Book sono stati pubblicati Le vetrate medievali in Europa (2003) e L’arte gotica (2009). Roberto CASSANELLI Conservatore dei Musei Civici e direttore del Museo e Tesoro del Duomo di Monza, insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera e presso la Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; è direttore per Jaca Book della collana Patrimonio Artistico Italiano. Joan BARCLAY LLOYD Dopo gli studi presso la London University, ha lavorato a Roma come assistente di R. Krautheimer. Dal 1980 al 2006 ha insegnato presso la Trobe University (Australia) dove è Honorary Research Associate. Le tematiche dei suoi studi e scritti riguardano le chiese e gli edifici monastici nella Roma medievale. Jens RÜFFER È professore associato all’Istituto di Storia dell’Arte presso l’Università di Berna. Ha pubblicato libri e articoli sull’arte e l’architettura medievale, in particolare sugli ordini monastici, la scultura medievale e la Cattedrale di Santiago de Compostela. James D’EMILIO È professore associato di Scienze Umane presso la University of South Florida. Le sue aree di ricerca includono la Galizia medievale, l’arte romanica spagnola e il monachesimo iberico. Ha curato lo studio, in corso di pubblicazione, Culture and Society in Medieval Galicia: a Cultural Crossroads at the Edge of Europe (E.J. Brill, Leiden). David ROBINSON Ha lavorato per gli organi statali di conservazione Inglese e Gallese (English Heritage and Cadw) e attualmente, in qualità di studioso indipendente, focalizza suoi interessi sulla storia del monachesimo. Ha all’attivo numerosi scritti sulla Regola Cisterciense e Agostiniana. Christine KRATZKE Christine Kratzke, storica dell'arte, ha studiato a Kiel e Londra, dal 1996 al 2005 ha lavorato come ricercatrice per conto del Geisteswissenschaftliches Zentrum Geschichte und Kultur Ostmitteleuropas (GWZO, Centro per la Storia e la Cultura dell’Europa centro-orientale) presso l'Università di Lipsia e ora svolge l’attività di pubblicista e docente. È autrice di numerosi scritti sull’architettura e l’arte
Michael CASEY È monaco dell’abbazia di Tarrawarra (Australia) dal 1960. Ha studiato presso la Katholieke Universiteit (Leuven) e al Melbourne College of Divinity; ha scritto una dozzina di libri e più di un centinaio di articoli sulla storia e la spiritualità monastica. Joaquín YARZA LUACES Storico dell’arte spagnolo, nato a El Ferrol (A Coruña) nel 1936. Ha studiato storia dell’arte presso l’Universidad Complutense di Madrid, dove ha iniziato il suo insegnamento, dopo il dottorato. Dal 1974 è professore di Storia dell’Arte presso l’Università di Barcellona (Bellaterra). Ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio dell’arte spagnola medievale e bizantina. David N. BELL È professore emerito presso la Memorial University di Newfoundland e ricercatore presso la Royal Society of Canada. Ha pubblicato più di venti libri e circa cento articoli sulla storia del pensiero medievale e numerosi studi sul monachesimo cisterciense. David H. WILLIAMS È laureato a Cambridge in geografia storica, e ha conseguito un dottorato in storia monastica. Per circa quarant’anni ha studiato temi legati ai Cisterciensi, in particolare tutto ciò che riguarda la conformazione paesaggistica e architettonica, l’economia e lo studio di segni e sigilli. Claire MAÎTRE È direttore di ricerca presso il National Center of Scholarly Research (CNRS) a Parigi, e presso l’Institute of Research and History of Texts (IRHT) dove studia e pubblica sui temi della liturgia e del canto gregoriano nella Chiesa medievale. Igino VONA Nato a Monte San Giovanni Campano nel 1939, monaco e sacerdote dell’abbazia di Casamari, laureato in teologia all’università Angelicum, insegnante di lingue straniere. Nel tempo libero si dedica alla ricerca storica sul monachesimo cistercense. Ha all’attivo tra le molte pubblicazioni: L’organizzazione dei Cistercensi nell’epoca feudale (1988, in collaborazione con F. Farina), L’abate Giraldo di Casamari (1998, in collaborazione con F. Farina), Pio IX, Casamari e Valvisciolo (2000), Storia e documenti dell’abbazia di Casamari (1152-1254) (2007), Storia e documenti dell’abbazia di Casamari (1254-1430) (2011). Javier PÉREZ-EMBID È professore di Storia Medievale presso l’Università di Huelva (Spagna). La sua ricerca, rivolta in particolare alla storia ecclesiastica del Medioevo spagnolo e al monachesimo cisterciense, attualmente si occupa dei sistemi idraulici nei monasteri. Denis CAILLEAUX È docente in Arte e Archeologia medievale presso l’Uni-
versité de Bourgogne (Dijon). In qualità di membro del Gruppo di ricerca sulla storia delle miniere e della metallurgia (Université Paris I), ha studiato gli edifici industriali nel medioevo cisterciense in Borgogna. JAMES FRANCE Ha studiato presso la Oxford University e presso la Roskilde University ed è ricercatore presso la Society of Antiquaries. È autore di quattro libri sui Cisterciensi, il più recente dei quali è Separate but Equal; Cistercian Lay Brothers 1120-1350 (2012). Mario SENSI È professore emerito di Storia della Chiesa (Pontificia Università Lateranense). Fra le sue pubblicazioni, Santuari, pellegrini, eremiti nell’Italia centrale, 3 voll., (2003); «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, 2 voll. (2010) e oltre quattrocentocinquanta contributi di storia ecclesiastica, in riviste, enciclopedie e dizionari italiani e stranieri. Markus THOME È assistente di Arte Medievale presso la Tübingen Universität. Studia l’architettura e la scultura dell’Europa medievale, l’arte delle comunità religiose e la reinterpretazione degli oggetti medievali nel Museo del diciannovesimo e ventesimo secolo. Marie-Gérard DUBOIS † Marie-Gérard Dubois (1929-2011) è entrato nell’Ordine dei Cisterciensi della Stretta Osservanza (Trappisti) nel 1947. Dopo l’ordinazione e gli studi a Roma è stato abate di La Trappe dal 1977 al 2003 e autore di numerosi libri e articoli su Rancé e la vita monastica. Thomas COOMANS È professore di storia dell’architettura e conservazione presso la Katholieke Universiteit (Leuven), Dipartimento di Architettura e Centro Internazionale per la Conservazione R. Lemaire. Le sue ricerche riguardano l’architettura religiosa medievale e del diciannovesimo secolo. Paul M. PEARSON È direttore del Thomas Merton Center a Louisville, Kentucky (USA), e responsabile della Ricerca dell’eredità Merton. Ha curato Thomas Merton on Christian Contemplation, Seeking Paradise: Merton and the Shakers e A Meeting of Angels. Maria Antonietta CRIPPA Architetto, professore al Politecnico di Milano dove insegna storia dell’architettura e del restauro. Studia temi e architetti moderni. Dirige ISAL (Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda) e la Collana Fonti e saggi presso Jaca Book. Partecipa a convegni nazionali e internazionali. Terryl N. KINDER È storica dell’architettura, specializzata nello studio della costruzione delle abbazie cisterciensi medievali, in particolare l’abbazia di Pontigny. È direttore editoriale della rivista Cîteaux–Comm. cist. e visiting professor di Storia dell’Arte presso il St. Michael’s College (Vermont, USA). Anastasius LI e M. Theophane YOUNG Fr. Anastasius Li è nato a Hong Kong ed è entrato a far parte dell’Abbazia Our Lady of Joy a Lantao nel 1991. Si è formato presso l’Abbazia Gethsemani (Kentucky, USA) e a Roma. È stato nominato secondo abate nella sua comunità nel 2006, ed è un appassionato giardiniere. M. Theophane Young è monaco trappista dell’Abbazia Our Lady of Joy. Prima di intraprendere il percorso monastico presso l’abbazia di St. Joseph (USA), ha lavorato per le Nazioni Unite con i rifugiati vietnamiti e afghani e nell’istruzione (scuola secondaria e università) in America e Asia. Christina LEAÑO È stata novizia presso il monastero di Redwoods dal 2009 al 2011 e attualmente lavora presso il Center for Community Service Initiatives alla Barry University di Miami, Florida. Ha conseguito un master in Teologia Sistematica alla Graduate Theological Union di Berkeley. Sheryl Frances CHEN Amante della vita presso le grandi distese d’acqua, è diventata una delle prime sei monache che hanno rifondato il Mariakloster di Tautra (Norvegia). Presta servizio nella comunità monastica come cantore, addetto alla liturgia e, il sabato, alla cucina.
CREDITI FOTOGRAFICI I numeri indicano le pagine, quelli tra parentesi le illustrazioni © 2014 Foto Scala Firenze, 27 © 2014 Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin, 16, 33 © 2014 Foto Scala, Firenze/V&A Images/Victoria and Albert Museum, Londra, 205 © Abbaye d’Aiguebelle 364 © Abbaye Notre-Dame de La Trappe, 358(9) © Abbaye Notre Dame de Mistassini, 352 © Abbaye Notre Dame de Scourmont, 357, 358(8), 362 © ARCCIS, Abbaye de Cîteaux, 317(3-4) © BAMSPhoto Rodella, 83-90, 96, 97, 102 © Bibliothèque nationale de France, 77 © CERCCIS, 354-355 © English Heritage: 146, 148(4), 149, 154-157 © Jaca Book (da T. Kinder, I Cisterciensi, Jaca Book 1998), 138(15), 140, 142, 143, 208a, 211-213, 218221 © Jaca Book/AbbC, 294(3) © Jaca Book/Hirmer (da B. Schutz, L’Europa dei Monasteri, Jaca Book 2004), 68, 69, 74(15), 111, 115, 118, 120, 122, 137, 138(16), 139, 328, 330-332, 334, 339 © Jaca Book/Arnaldo Vescovo, 319, 321 © KADOC, KU Leuven, 356, 360 © Terryl Kinder, 22, 23, 25, 29, 72, 74(16), 123, 208b-c, 216, 217, 240(2-3), 241(4), 242, 243, 262, 263, 264, 273, 286-289, 291, 296, 379, 380, 391, 396-399 © National Museum of Scotland, 180(5) © Patrimonio Nacional, España, 234, 235 © David Robinson: 73, 147, 148(3), 150-153 © Arnaldo Vescovo, 91-95, 98-100, 108, 280, 281 © Photo Zodiaque, 37-66 © THOC, 359, 361, 363, 365, 366 Abbaye Marienlof, Kerniel, Belgique, 185 Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, 104 Marco Annoni, Praga, 392-393 Arxiu de l’Institut d’Estudis Catalans/fotografia Ramon Roca I Junyent, 209 Biblioteca Angelica, Roma/su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 233 Biblioteca Nacional de Portugal, 236 Bibliothèque municipale, Bar-sur-Aube, 304 Bibliothèque municipale de Dijon, 298, 299(1), 301 Bibliothèque municipale de Dijon/photo E. Juvin, 224, 225, 228-230, 232, 253-258 Bibliothèque municipale, Douai, 302
Bibliothèque municipale de Troyes, 13 Bildarchiv Foto Marburg, 198(16) By permission of the Archives de la Ville, Strasbourg, 247(3) By permission of Archiv Hansestadt Lübeck, 247(1) By permission of the Archiv der Hansestadt Rostock, 249(11) By permission of the Archives Nationales, Paris, 247(2) By permission of the Diocesan Archives, Włocławek, 247(6) By permission of the Historisches Archiv der Stadt Köln, 249(10) By permission of the Instituto dos Arquivos Nacionais, Lisbon, 249(7) By permission of Mr David Morris, Musée archéologique, Dijon, 249(12) By permission of the National Library of Wales/Trwy ganiatâd Llyfrgell Genedlaethol Cymru, 247(5) By permission of the Staatsarchiv des Kantons Basel Stadt-Basel, 247(4), 249(8) By permission of the Society of Antiquaries of London, 249(9) Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano/Foto Saporetti Immagini d’Arte, Milano, 314, 315 Crown copyright; reproduced by permission of the University of Cambridge, 260 da Zeit und Ewigkeit. 128 Tage in St. Marienstern, a cura di Judith Oexle, Markus Bauer e Marius Winzeler, Verlag Janos Stekovics 1998, 326 da Corpus der barocken Deckenmalerei in Deutschland, Photo Kai-Uwe Nielsen, 327 Fondazione Frate Sole/John Pawson, 386-390 Foto Luigi Pellegrini, 282 Foto F. Perrodin/Musée d’Art sacré Dijon, 317(5), 318 Foto Igino Vona, 276, 284 James France, 299(2) James France/Museu de Arte Sacra de Arouca, Portogallo, 183 Elizabeth Freeman, 179, 180(4), 181, 184 Javier Pérez-Embid, 290 Koninklijke Bibliotheek, Den Haag, 308 kunstverlag-peda.de, 325 Anastasius Li e M. Theophane Young, 404, 405 Acquerelli di Owen Merton, per autorizzazione di The
Merton Legacy Trust and The Thomas Merton Center at The Bellarmine University, 368 Disegni di Thomas Merton, per autorizzazione di The Merton Legacy Trust and The Thomas Merton Center at The Bellarmine University, 369-373 Arch. Maurizio Momo, Torino, 382-385 Bernardo Moncada, 381 Our Lady of New Clairvaux, Vina, California, 401-402 Our Lady of the Redwoods Abbey, 408-409 Munich, Bayerische Staatsbibliothek, 182 Musée Jacquemart-André, photo Virginie Potdevin, 204 Photo Bildarchiv Monheim/Archivi Alinari, 110, 113, 116, 119, 121 Photo Elek Benkő, 167, 168-173 Photo © Museum Für Kunst und Geschichte Freiburg/Primula Bossard, 197 Photo Archivo Real y General de Navarra, 237 Photo David N. Bell, 240(2), 241(5-6) Photo Denis Cailleaux, 294(1-2), 295 Photo Sheryl Chen, 412, 413 Photo James D’Emilio, 126-136, 141 Photo Dom M. Gérard Dubois, 347, 351 Photo Enric Duch, Barcelona 2004, 199 Photo Luc Ferran, Limoges, 206 Photo Flammarion/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari Firenze, 343 Photo Henri Gaud/Editions Gaud, 266, 267, 269, 353 Photo Christine Kratzke, 159-163, 189, 191, 192, 194, 195, 200 Photo Martin Mádl, 329 Photo Médiathèque Voyelles-Charleville Mézières, 252 Aerial Photo Zsuzsa Miklós, 166 Photo © Museu de Mallorca, 306 Photo ÖNB/Picture Archive, 210 Photo Jean-Luc Petit, Chalon-sur-Saône, 203 Photo Jens Rüffer, 114 Photo und © Toni Schneiders, Lindau, 335 Photo Private Collection Stolzenburg, 198(17) Photo Markus Thome, 324, 338-340 Photo Huberta Weigl Stift Stams, 333 Rheinisches Bildarchiv, Köln, 177, 193 University of San Francisco, 400 Siftsbibliothek, Zwettl, 303 David Williams, 261, 265, 270 Zisterzienserinnenabtei Oberschönenfeld, Deutschland, 17
INTRODUZIONE
Il volume, dedicato allo studio delle espressioni artistiche cisterciensi, prende in esame la pluralità delle creazioni intellettuali, spirituali e materiali dell’Ordine e la loro evoluzione nel tempo e nello spazio. A seguito della pubblicazione di una vasta raccolta di studi su san Benedetto e la produzione artistica dell’Ordine benedettino (Benedetto. L’eredità artistica, a cura di R. Cassanelli e E. López-Tello García, Jaca Book, Milano 2007), tradotta in più lingue, si era ipotizzato di progettarne una analoga e parallela sui diversi aspetti della vita e dell’eredità di san Bernardo. Considerando però la vasta serie di ricerche apparse negli ultimi due decenni su Bernardo di Clairvaux, spesso in rapporto ad eventi particolari (la celebrazione internazionale del nono centenario della sua nascita nel 1990, la fondazione di Cîteaux nel 1998 e l’850o anniversario della morte del santo nel 2003), si è ritenuto più interessante e utile adottare un criterio diverso, che garantisse una più ampia visione di Bernardo e dell’Ordine per il quale si è tanto adoperato. È importante, in via preliminare, interrogarsi sul significato di «arte» rispetto all’esperienza cisterciense, su che cosa essa comprenda e su quale ruolo vi svolga Bernardo. Il termine «arte» porta spesso con sé una connotazione piuttosto circoscritta, sebbene preziosa; così «arte cisterciense» si riferisce di norma alle squisite miniature dei più antichi manoscritti, ai motivi delle lastre pavimentali, alle vetrate a grisaille che proiettano disegni di luce bianca sulle linee mirabilmente austere dell’architettura del XII secolo. Sono tutti aspetti, esaminati nel corso del volume, che contribuiscono adeguatamente a definire l’immagine più nota e fortunata della cultura visuale dei primi Cisterciensi. Allo stesso tempo una più ampia definizione di arte – come prodotto della creatività umana – consente di aprire lo sguar-
do su un paesaggio molto più ricco, anche se meno conosciuto, ampliando l’orizzonte e mostrando che la vita cisterciense non si è conclusa nell’Europa nel XIII secolo e che il termine arte può significare più di quanto spesso si possa immaginare. I Cisterciensi sono tuttora attivi, sono state realizzate riforme – in particolare nel XVII e nel XX secolo – e l’Ordine si è espanso molto al di là delle sue radici europee, raggiungendo luoghi sconosciuti all’epoca di Bernardo. Vi è stata anche una tendenza non solo a limitare i Cisterciensi e la loro arte al Medioevo europeo, ma anche a presentarli come quasi immuni dalle influenze della geografia, del clima e della storia, o a gettare discredito sui necessari adattamenti, ritenuti impuri e «non più cisterciensi». Un clima estremo, rivoluzioni, costumi locali, riforme politiche, sviluppi tecnologici, altre religioni o forme di pratica religiosa sono tutti elementi che hanno avuto conseguenze sul monachesimo cisterciense. Cosa facevano i monaci e le monache durante il giorno, nel corso di una stagione o di un anno? Pregavano e cantavano, costruivano e ricostruivano, bonificavano e irrigavano per poter coltivare. Scrivevano e leggevano, ma chi realizzava i libri? E cosa significava «leggere»? Come tutti avevano il problema degli incendi, delle inondazioni, delle falsificazioni, dell’ingordigia, dei furti e di tutte le altre debolezze umane. I documenti recavano sigilli che ne garantivano l’autenticità e i libri, agli inizi, erano conservati tra la chiesa e la sala del capitolo; ma che cosa avvenne quando il loro numero crebbe da qualche dozzina a un centinaio e poi a qualche migliaio? L’Ordine si è propagato non solo in tutta Europa, ma anche in Cina, nelle Americhe, in Australia e in Africa, e recentemente in Norvegia ha fatto ritorno a un sito del XII secolo. Come possono gli edifici in
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questi luoghi conservare lo spirito cisterciense e nello stesso tempo adeguarsi alle norme antisismiche, ai nuovi materiali da costruzione e all’idea moderna di comodità (gli impianti idraulici nelle abitazioni, la climatizzazione, internet…)? In quale modo gli antichi princìpi devono essere reinterpretati per servire il medesimo spirito? E come il cambiamento nella considerazione delle donne al di fuori del monastero ha influenzato quelle che in esso vivono? Analogamente, osservare i Cisterciensi attraverso una lente antropologica può mostrare la nostra epoca sotto una nuova luce. L’Ordine ha dovuto adattarsi alle condizioni dettate dal tempo, altrimenti sarebbe scomparso, mentre la creatività necessaria alla sopravvivenza ha condotto a soluzioni inimmaginabili nel XII secolo.
L’obiettivo del volume è perciò di presentare un’ampia rassegna delle attività dei Cisterciensi attraverso una varietà di aspetti e punti di vista. È importante vedere come una nuova vita possa scaturire da differenti interpretazioni di antichi costumi, così come continuano ad emergere negli studi diversi modi di interpretare luoghi storici. Poiché è impossibile in un unico volume includere tutti i monasteri, continenti e regioni, un numero limitato di siti è stato selezionato come esempi delle diversità artistiche che si ritrovano in più luoghi. Questa diversità rispecchia la creatività di numerosi individui provenienti da culture, luoghi ed epoche diversi e rivela la ricchezza di espressioni che l’Ordine cisterciense ha prodotto nei secoli. Terryl N. Kinder
LE ORIGINI CISTERCIENSI Claudio Stercal
L’interpretazione di uno storico del XII secolo: la ricerca della ratio di Dio Guglielmo di Malmesbury non è uno scrittore cisterciense, ma uno storico benedettino inglese, nato attorno al 1095 e morto verso il 1142. Pur non appartenendo all’ordine cisterciense, ha scritto una delle pagine più illuminanti per ricostruire i motivi che, nel 1098, spinsero un gruppo di monaci del monastero benedettino di Molesmes1, guidati dall’abate Roberto2, a fondare il Novum monasterium, il monastero che, a partire dagli anni 1115-1116 e poi definitivamente dal 1119, fu chiamato Cistercium3 – oggi Cîteaux –, da cui deriva lo stesso nome Cisterciensi. Guglielmo di Malmesbury, nel suo breve scritto, contenuto nei Gesta Regum Anglorum [=GRA]4, dei quali concluse la stesura nel 1125, non dedica in realtà molta attenzione all’abate Roberto. Anche perché quest’ultimo, nel 1099, l’anno successivo alla fondazione del Novum monasterium, aveva fatto ritorno, con il consenso di papa Urbano II5, al monastero di Molesmes, dove poi rimase sino alla morte sopraggiunta nel 1111. Guglielmo ritrae, invece, il gruppo di monaci nel momento in cui viene interpellato dalle riflessioni di Stefano Harding6, colui che nel 1108 sarebbe divenuto il terzo abate di Cîteaux – dopo Alberico – e lo sarebbe rimasto sino al 1133, l’anno precedente la propria morte. Stefano e Guglielmo erano connazionali e in un probabile incontro, avvenuto tra il 1120 e il 1122 nell’abbazia di Cîteaux7, possono essersi scambiati le informazioni relative ai fatti che diedero vita alla fondazione dell’ordine cisterciense. Nel racconto di Guglielmo, Stefano viene presentato mentre a Molesmes, poco prima del 1098, fa maturare nel cuore della comunità l’idea di dare vita a una nuova esperienza monastica. In quella circostanza – riferisce
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Guglielmo – Stefano chiede «ragione (rationem), con tutta umiltà e nei modi che convengono a un monaco», delle osservanze che gli vengono presentate, ma che egli, d’altra parte, «non aveva letto nella Regola e non aveva visto altrove»8. Secondo lo storico benedettino, Stefano avrebbe potuto svolgere il discorso più o meno nei termini seguenti: «È secondo ragione (ratione) che il supremo creatore ha fatto ogni cosa, è secondo ragione (ratione) che egli guida ogni cosa; secondo ragione (ratione) viene fatta ruotare la volta celeste, secondo quella stessa ragione (ratione ipsa) vengono fatti girare anche gli astri chiamati “erranti”, secondo ragione (ratione) vengono mossi gli elementi; secondo ragione e con equilibrio (ratione et aequilibritate) deve vivere la nostra natura (nostra natura). Ma poiché, a causa della pigrizia, [la natura] si è spesso allontanata dalla ragione (a ratione), sono state proposte, in passato, molte leggi. Recentemente, per mezzo del beato Benedetto, è apparsa una regola, ispirata da Dio, per ricondurre il flusso della natura alla ragione (fluxum naturae ad rationem). E anche se [in questa regola] ci sono aspetti dei quali non sono in grado di comprendere sino in fondo la ragione (rationem), penso di dovermi fidare della sua autorità (auctoritati). Infatti, negli scritti ispirati da Dio, la ragione (ratio) e l’autorità (auctoritas), anche se sembrano in disaccordo, sono un’unica e medesima realtà; proprio poiché Dio non ha creato né rinnovato nulla senza ragione (sine ratione), come potrei credere che i santi padri, seguaci di Dio, abbiano deciso qualcosa contro la ragione (praeter rationem), come se dovessimo prestare fede solo in base all’autorità (soli auctoritati)? Così, di ciò che proponete, mostrate la ragione o l’autorità (aut rationem aut auctoritatem), anche se non si deve credere troppo a ciò che può essere sostenuto con la ragione umana (humanae rationis), poiché può esse-
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1. Incipit della Genesi, dalla Grande Bibbia di Clairvaux, Bibliothèque municipale de Troyes, ms 27.
re indebolito da argomenti [contrari] dello stesso valore. Perciò, mostrate esempi tratti dalla regola, la quale, in quanto ispirata dallo “spirito di tutti i giusti”, è fondata sulla ragione e sull’autorità (ratione et auctoritate); ma se non ci riuscite, invano dichiarate di avere scelto colui del quale non vi curate di seguire l’insegnamento»9. Di grande interesse il discorso di Stefano, poiché presenta il principio ispiratore della riforma cisterciense nei termini di una ricerca della ratio di Dio. Di quella ratio con la quale Dio ha creato il mondo e ora guida ogni cosa. Proprio per questo motivo essa può essere proposta come il criterio più sicuro per guidare con equilibrio anche la natura dell’uomo. In questa direzione la Regola di san Benedetto si propone come un testo particolarmente prezioso – ispirato da Dio e dallo “spirito di tutti i giusti”10 – per ricondurre il cammino della natura alla ratio di Dio. Dalla capacità di trasmettere quella ratio e di ricondurre ad essa, deriva alla Regola la sua auctoritas. Cosicché, precisa Stefano, ogni scelta della vita monastica, per essere autentica, deve fondarsi sulla ratio e sull’auctoritas della Regola. La prospettiva delineata in questi termini da Guglielmo sembra essere quella che ha dato origine e senso all’esperienza cisterciense. Ed è quanto documentano con chiarezza le stesse fonti cisterciensi.
Sotto la guida della Regola L’Exordium parvum – un dossier preparato dai Cisterciensi, nella prima metà del XII secolo, per documentare gli inizi della vita dell’Ordine11 – ricorda come il desiderio di quel primo gruppo di monaci fosse proprio quello di vivere in modo più rigoroso (arcius) e perfetto (perfectius) secondo la Regola di san Benedetto. L’Exordium parvum lo ricorda sin dall’inizio, nel primo e forse più antico documento che inserisce nel dossier: la lettera inviata, probabilmente già nel 1098, da Ugo – arcivescovo di Lione e legato della Sede apostolica – a Roberto, allora abate di Molesmes. «Ugo, arcivescovo di Lione e legato della sede apostolica, a Roberto abate di Molesmes e ai fratelli che con lui desiderano servire Dio secondo la regola di san Benedetto (secundum regulam sancti benedicti deo seruire cupientibus). Sia noto a tutti coloro che si rallegrano per il progresso della santa madre Chiesa: voi e alcuni vostri figli, fratelli del cenobio di Molesmes, siete comparsi alla nostra presenza a Lione e avete professato di voler aderire, d’ora in poi, in maniera più rigorosa (arcius) e perfetta (perfectius)
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alla regola del beatissimo Benedetto che, fino ad allora, avevate osservato là, in quel monastero, con tiepidezza e negligenza (tepide ac negligenter)»12. I due termini, arcius13 e perfectius, sembrano indicare non tanto una maggiore severità della disciplina o un’osservanza formale della Regola, ma quella che oggi indicheremmo come un’adesione “più convinta” e “personale”. Il desiderio e il proposito di quei monaci – che viene opportunamente precisato dalla contrapposizione con i due avverbi tepide e negligenter – sembra essere quello di prendere le distanze da un’adesione tiepida e negligente, per camminare verso una forma di vita monastica che si ispiri a un’osservanza della Regola capace di coinvolgere progressivamente la volontà (arcius) e il cuore (perfectius).
Una ricerca esemplare I primi documenti dell’Ordine – per quanto sintetici e non molto numerosi – consentono di individuare alcuni dei frutti dell’intensa e intelligente fedeltà alla Regola che caratterizzò i primi decenni dell’esperienza cisterciense. Non fu certamente un periodo facile. Dopo il ritorno a Molesmes di Roberto e di alcuni monaci del gruppo dei primi fondatori, nel Novum monasterium rimase una comunità non molto numerosa: le fonti parlano di un gruppo di persone oscillante tra le otto e le venticinque unità14. Quegli anni furono caratterizzati da non poche difficoltà: la ristrettezza di risorse umane ed economiche, alcuni periodi di carestia, le opposizioni di qualche persona ostile15. Ciononostante, i monaci seppero perseguire con costanza e coerenza, nei vari ambiti della loro vita, il proposito della ricerca della ratio di Dio. Tra i frutti più significativi di quella costante ricerca si possono ricordare: l’impegno messo nel verificare la correttezza delle diverse traduzioni latine della Bibbia che avevano a disposizione, facendo ricorso anche a studiosi ebrei per poter effettuare una verifica direttamente sul testo ebraico16; la scelta di inviare alcuni monaci a Milano per cercarvi gli inni autenticamente ambrosiani17; la decisione di mandare altri monaci a Metz per approfondire la conoscenza del canto gregoriano18. Scelte di grande rilievo culturale e spirituale, determinate dal desiderio di dotare la comunità dei migliori strumenti per progredire in un’autentica ricerca della ratio di Dio, nella convinzione che – come avevano potuto intuire grazie anche agli insegnamenti della Regola di san Benedetto – solo su quella ratio poteva appoggiarsi con sicurezza una solida vita monastica.
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I dati che abbiamo a disposizione a proposito dell’impegno dei primi Cisterciensi nella ricerca delle fonti bibliche e liturgiche ci consentono di ipotizzare che la stessa serietà e lo stesso rigore siano stati da loro esercitati anche in altri ambiti della loro esperienza monastica. Non è difficile verificarlo ricordando i grandi sviluppi cui essi diedero vita in vari settori. Anzitutto, nell’organizzazione delle attività agricole e commerciali, tra le quali è da segnalare la creazione della figura dei “fratelli conversi”: un gruppo di lavoratori che, pur rimanendo laici, condividevano almeno in parte la vita religiosa del monastero, ma, essendo più liberi, potevano provvedere alla cura dei campi più lontani dalle abbazie, permettendo ai monaci di non allontanarsi dalla comunità19. Si può ricordare, inoltre, l’influsso che i Cisterciensi esercitarono sulla legislazione degli altri ordini religiosi20. In particolare il contributo che essi offrirono per la creazione e la diffusione del Capitolo generale. Al punto che, nel 1215, il Concilio Lateranense IV prescrisse agli abati «di ogni regno e provincia» di tenere ogni tre anni un Capitolo sul modello di quello cisterciense, prevedendo addirittura che esso fosse presieduto da due abati cisterciensi, affiancati da due abati dell’Ordine che stava svolgendo il Capitolo21. Sono da ricordare, poi, nel campo dell’arte e dell’architettura, l’elaborazione di uno stile di edificazione e decorazione delle chiese che presto divenne inconfondibile, come pure, nel campo della letteratura e della teologia, la produzione di scritti di grande valore che hanno profondamente segnato la storia della cultura europea. Questa ricchezza e questa qualità sono legate naturalmente alla ricchezza e alla qualità delle persone che progressivamente scelsero di condividere l’esperienza cisterciense. Si creò, probabilmente, un “circolo virtuoso” in base al quale, da una parte, la serietà e l’impegno profusi nella ricerca di un’esperienza autentica attrassero persone di grande qualità e, dall’altra, il valore di quelle persone contribuì in maniera determinante allo sviluppo e alla maturazione di quella forma di vita. Così, non è impossibile comprendere come mai, a metà del XII secolo, le fondazioni e le affiliazioni cisterciensi si fossero diffuse in tutta Europa e avessero ampiamente superato le trecento unità22 e come mai grandi personalità del tempo avessero scelto di entrare a far parte dell’ordine cisterciense. Tra di esse si possono ricordare, oltre a Bernardo di Chiaravalle († 1153) – che entrò a Cîteaux, nel 1113, con circa trenta amici e parenti23 –, anche Guglielmo di Saint-Thierry († 1145), Guerrico d’Igny († 1157), Amedeo di Losanna († 1159), Ottone di Frisinga († 1159), Aelredo di Rievaulx († 1167), Isacco della Stella († 1169 ca.), Gilberto di Hoyland († 1172),
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Baldovino di Ford († 1190), Giovanni di Ford († 1214), Adamo di Perseigne († 1221)24.
La sintesi della ricerca: la caritas Gli antichi documenti dell’Ordine ci consentono anche di individuare quella che probabilmente fu la sintesi dell’intensa ed esemplare ricerca condotta dai primi monaci cisterciensi. Utilizzando il linguaggio di Guglielmo di Malmesbury, dovuto forse alla sua sintonia con il pensiero di Anselmo d’Aosta25, si può provare ad affermare che quel gruppo di monaci ritenne di aver trovato la ratio di Dio nella caritas. La caritas può essere, infatti, indicata come la ratio con la quale Dio ha creato e governa il mondo, la stessa ratio che viene autorevolmente proposta nella Regola di san Benedetto e la ratio con la quale essi desideravano fosse guidata la loro vita. È quanto appare con chiarezza in uno dei testi più antichi della legislazione dell’Ordine: la Carta caritatis prior. Scoperta solo nel 193926, essa è considerata oggi come la costituzione cisterciense fondamentale. Nasce nel momento in cui l’Ordine inizia a dare vita alle prime fondazioni: La Ferté (Firmitas) nel 1113, Pontigny (Pontiniacum) nel 1114, Clairvaux (Clara-vallis) e Morimond (Morimundus) nel 1115, Preuilly (Prulliacum) nel 1118, La Cour-Dieu (Curia Dei) e Bonnevaux (Bona-vallis) nel 1119. La redazione del testo avviene forse in fasi successive, cronologicamente collocabili tra il 1119, anno dell’approvazione ufficiale della Carta da parte di papa Callisto II (23 dicembre 1119), e il 1147, anno della probabile revisione finale, che sarebbe stata realizzata da Rainardo di Bar, abate di Cîteaux dal 1133 (o 1134) al 115027. Nel prologo – opera del redattore finale – vengono ricordati, oltre alle finalità del documento, anche i propositi dei padri fondatori: «In questo decreto, dunque, i suddetti fratelli, per prevenire un possibile naufragio della pace comune, chiarirono, stabilirono e trasmisero ai loro successori, con quale patto e in quale modo o, meglio, con quale carità (qua caritate), i loro monaci – separati fisicamente nelle abbazie in diverse parti della regione – dovessero rimanere indissolubilmente uniti nello spirito (animis indissolubiliter conglutinarentur)»28. Dopo circa cinquant’anni dall’avvio dell’esperienza cisterciense, la caritas appare, all’autore del prologo, come il grande valore in grado di esprimere e sintetizzare l’intera forma di vita cisterciense. È sulla caritas infatti che, secondo lui, si appoggiano la pace comune e l’indissolubile unità nello spirito che animano la vita quotidiana dei Cisterciensi
e i rapporti tra le varie comunità. È questo che giustifica il loro sforzo di “chiarire” il senso e i contenuti della caritas, di “stabilire” norme che possano aiutare a renderla concreta ed efficace, di “trasmetterla” alle generazioni future e a tutti coloro che desiderano assumerla come criterio della loro vita. L’esperienza guidata dalla caritas darà vita anche alle numerose e articolate decisioni dei Capitoli generali che saranno progressivamente raccolte negli Instituta generalis capituli apud Cistercium29. Esse testimoniano un ulteriore elemento della qualità dell’esperienza cisterciense: l’attenzione e la saggezza con le quali, in quegli anni, essi scelsero comportamenti e realizzazioni concrete in grado di tradurre in pratica i grandi ideali. Concretizzarli e metterli alla prova consentì di favorire ulteriormente il loro approfondimento e la loro messa a punto. Una vita concretamente e intensamente ispirata all’esercizio della caritas sarà il contesto adatto anche per la maturazione di un’ampia e attenta riflessione sull’amore di Dio e sul suo ruolo nell’esperienza dell’uomo. Ne nascerà una grande quantità di scritti, di straordinario valore teologico e letterario, capaci di suggerire agli uomini del proprio tempo come nella caritas di Dio fosse possibile trovare la risposta alle grandi questioni che attraversavano la cultura e la società del XII secolo. È quanto emerge, in modo scarno ed essenziale, anche dal primo capitolo della Carta caritatis prior, la parte più antica del documento, redatta forse da Stefano Harding nel periodo delle prime fondazioni cisterciensi, tra il 1113 e il 1114. Lo stile sobrio, di carattere
normativo, non impedisce di rintracciare nel testo la consapevolezza che quei monaci presto acquisirono di avere trovato nella caritas la ratio dell’«unico vero re e signore e maestro». La caritas che ora consentiva loro di essere veramente «di aiuto a tutti i figli della santa chiesa» e di far maturare il desidero di «conservare», proprio «per amore della carità (gratia caritatis)», «la cura delle anime» e la «rettitudine della vita»: «Poiché noi tutti sappiamo di essere servi, benché inutili, dell’unico vero re e signore e maestro (unius ueri regis et domini et magistri nos omnes seruos licet inutiles), proprio per questo non imponiamo nessun tributo in interesse materiale o beni temporali agli abati e ai nostri confratelli monaci, che la pietà di Dio avrà posto – per mezzo nostro, i più indegni degli uomini – in luoghi diversi, sotto la disciplina della regola. Infatti, desiderando essere di aiuto a loro e a tutti i figli della santa Chiesa (prodesse enim illis omnibusque sanctȩ ecclesiȩ filiis), stabiliamo di non fare, nei loro confronti, nulla che sia loro di peso o che ne diminuisca le sostanze, affinché non accada che – desiderando di essere in un’abbondanza che deriva dalla loro povertà – non siamo in grado di evitare il vizio dell’avarizia che, secondo l’apostolo, è una vera sottomissione agli idoli. Vogliamo, invece, per amore della carità, conservare la cura delle loro anime (curam tamen animarum illorum gratia caritatis) in modo che, se un giorno tentassero – non sia mai – di deviare, anche di poco, dal santo proposito e dall’osservanza della regola, grazie alla nostra sollecitudine, possano ritornare alla rettitudine della vita (ad rectitudinem uitȩ)»30.
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BERNARDO DI CLAIRVAUX E L’ESPERIENZA DEL MISTERO Inos Biffi
La scelta di Cîteaux: il «monasterium novum» Poco più che ventenne, nel 1112 o 1113, vincendo incertezze e forse troncando anni di inconcludente dissipazione, Bernardo imprime alla sua vita una svolta decisiva: la scelta del monastero; ma non di un monastero, noi diremmo, “benedettino”, come ne pullulavano intorno a lui, ma del monastero che era denominato “nuovo”, di recente fondazione, ossia Cîteaux, «luogo di orrore e di grande solitudine»1, che Roberto di Molesmes aveva fondato da poco, nel 1098, con l’intenzione di un’osservanza più fedele alla Regula Benedicti, di una solitudine più severa, di una più rigida povertà; e vi giunse non da solo, ma con una compagnia di familiari e di amici – forse una trentina –. I primi due o tre anni della presenza di Bernardo, con la sua compagnia, a Cîteaux, dov’è abate Stefano Harding2, sono avvolti dal silenzio, ma non è difficile immaginarlo impegnato ad assimilare lo spirito e la lettera sia della Regola di san Benedetto, sia delle costituzioni cisterciensi, sulla cui redazione, come ora ci si presenta, non devono essere mancati la mano e il “gusto claravallense” di Bernardo. In quegli anni «egli completa, con le sue letture, la formazione letteraria ricevuta in precedenza, e nutre il suo spirito di dottrina. Ben presto, da quando incomincerà a scrivere, lo farà da maestro; le sue prime opere saranno già dei capolavori di stile e di teologia. Nello stesso tempo matura già il progetto la cui attuazione occuperà tutta la sua esistenza: l’instaurazione di un monachesimo puro, libero da ogni compromesso col secolo»3. A cominciare da Cîteaux
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stessa, inattesamente invasa dai “bernardiani”, che – dopo la fondazione de La Ferté nel 1113 – saranno posti a capo delle abbazie figlie di Cîteaux: Pontigny nel 1114, e nel 1115 Clairvaux – dove vi sarà abate Bernardo, venticinquenne – e Morimond. Osserva Jean Leclercq: «Il giovane Bernardo è giunto molto presto ad acquistare un influsso preponderante nell’evoluzione dell’istituzione sorta da Cîteaux. I suoi compagni diventati abati rappresentano la maggioranza al Capitolo Generale da lui, in questo modo, dominato»4. «Degli “ex molesmiani” di Cîteaux egli ha fatto dei “cisterciensi” che, in verità, sono dei “chiaravallensi”, dei “bernardiani”», attraverso un radicalismo che doveva apparire «nell’abbigliamento, nel cibo, nell’intero stile di vita»5 e in particolare riflettersi: nel campo economico, come disimpegno sociale, e quindi come scelta di una «povertà volontaria», che significa il rifiuto di possedimenti o di beni non provenienti dal lavoro delle proprie mani, a differenza di quanto avveniva nel monachesimo tradizionale. Nel campo liturgico, come ritorno «alla semplicità nella decorazione degli edifici, degli ornamenti liturgici, dei vasi sacri e degli altri oggetti usati nel culto»6, nell’architettura, nei manoscritti, lontani da superfluità di colori e di ornamenti, ma brillanti per la «grafia pura»7. Il senso di questo «ascetismo liturgico» (Jean Leclercq) si trova spiegato ed esaltato nell’Apologia di Bernardo inviata a Guglielmo di Saint-Thierry – un «capolavoro» letterario – contro «un’arte liturgica deviante» a favore del «monachesimo puro», dove attraverso le consapevoli esagerazioni delle brillanti caricature l’abate di Clairvaux mirava a
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A fronte della pagina precedente: 1. Maria con il Bambino e Bernardo di Chiaravalle, incipit dei Sermones aestivales beati bernardi abbatis claravallensis, da Gaedsdonk (Niederrhein), XV secolo. Staatsbibliothek zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz, ms theol. lat. 246, f. 1r.
criticare non solo Cluny, ma tutta una corrente monastica, compresa quella cisterciense, che non corrispondeva alla concezione chiaravallense ossia alla sua concezione. «Le sue idee dell’arte fanno parte di una concezione estremamente coerente della vita monastica: Bernardo la vuole orante, austera, distaccata, povera»8. E in questo modo avverrà il passaggio dall’epoca molesmense di Cîteaux all’«epoca chiaravallense, che sarà dominata dalla sua personalità»9.
A Clairvaux, ma anche nel mondo Nel 1115 Bernardo – come abbiamo visto – diviene abate di Clairvaux, in Champagne. Sarà la sua residenza, anche se, per le cure ecclesiali, ne starà lontano spesso e anche a lungo, e sarà il luogo di irraggiamento e come il simbolo di un monachesimo rinnovato e ideale; e anche fecondo: «Per più di trent’anni, le fondazioni di Clairvaux si succederanno al ritmo di circa due per anno attraverso tutta la cristianità occidentale, ad eccezione dell’Europa centrale. Alla morte di Bernardo, Clairvaux avrà così diffuso circa settanta centri monastici [...]; ed un altro centinaio di monasteri, adottati o affiliati da Bernardo, verranno a dipendere, più o meno direttamente, da Clairvaux»10. Pensando al proprio strano e singolare modo di vivere, san Bernardo si definiva la chimera del suo secolo11: un essere strano, quasi un incrocio di contraddizioni nel suo essere per vocazione dedito alla solitudine appartata del chiostro, e per missione implicato in questioni e dibattiti teologici, ecclesiali e politici, che lo tengono, e lungamente, lontano e distratto dal ritiro claustrale: «Egli fu spesso assente dal suo monastero – scrive Jean Leclercq – in una proporzione che sembra rappresentare un terzo del suo tempo»12. Infatti, il «dinamismo così eccezionale»13 di san Bernardo, il suo magnetismo, la sua «estrema vitalità»14, dopo qualche breve anno di silenzio, saranno destinati a espandersi e a irraggiare sempre più potentemente, mentre le fondazioni di Clairvaux si moltiplicheranno in numero sorprendente. Il suo primo ambito di azione saranno i suoi monaci e i monaci in generale; poi saranno la Chiesa e la società civile di Francia. La sua presenza verrà ricercata e i suoi scritti incominceranno a rivelarlo un autore d’eccezione, «dalla dottrina tradizionale e pure inconfondibilmente personale, e dallo stile estremamente raffinato», che faranno di lui «“il best-seller” del secolo XII e forse di tutto il Medioevo»15. Ma l’orizzonte dell’azione dell’abate di Clairvaux si aprirà
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ancora: dal 1130 al 1138 sarà quello di Roma: egli andrà in Italia quattro volte, e finalmente riuscirà a comporre lo scisma e a far riconoscere come papa legittimo Innocenzo II. Tutto il campo della Chiesa lo vedrà poi attivo tra il 1139 e il 1148. Del 1141 sarà il dibattito con Abelardo: un episodio enfatizzato, dove la linearità del comportamento di Bernardo può essere discussa, dove furono a confronto due sensibilità diverse dinanzi allo stesso mistero cristiano16, e dove appare tutta la preoccupazione di Bernardo perché una logica intemperante non dissolva la proprietà del mistero cristiano, che domanda altre “sensibilità” oltre quelle dialettiche, senza d’altra parte pensare che Abelardo volesse ridurre la fede a ragione. Nel 1144 e 1147 la lotta sarà contro Arnaldo da Brescia. Gli errori di ispirazione catara lo vedranno impegnato nel 1145, e per incarico del suo antico monaco divenuto papa Eugenio III, negli anni 1146 e 1147 predicherà la seconda crociata, a non lieto fine, anzi a fine umiliante per Bernardo, la cui parte effettiva in essa «rimane ancora avvolta da una certa oscurità»17, e che, in ogni modo, «mette in evidenza i limiti di uno spirituale, quando fa politica»18. Ancora nella primavera del 1153 egli sarà in Lorena, ma il 20 agosto concluderà, «con un declino lucido e una fine gioiosa»19, la sua avventura, dopo aver fatto “testamento”, con l’ultima grande opera, il De consideratione, dove «conserva tutta la sua ardente vitalità ma tempera la sua pugnacità. In un distacco tranquillo di fronte a tutte le vicissitudini umane; pacificato dalla considerazione contemplativa, egli predica, più di prima, la discretio, la moderazione, questa virtù che sta “nel mezzo”. Di là dalle tensioni che la sua vigorosa personalità non ha cessato di sperimentare, la sua serenità contrassegna il punto di arrivo della salita verso Dio, che ha trasformato il giovane focoso abate in questo vecchio uomo di Chiesa»20. Bernardo verrà canonizzato nel 1174 da papa Alessandro III.
Una teologia monastica Pur in questa grande attività, d’altra parte con estese pause di permanenza, l’abate di Clairvaux trova il tempo per scrivere. Anzi, egli è uno scrittore nato, e si potrebbe dire che ogni sua opera è un capolavoro: dalla sua penna accuratissima non esce mai nulla di sciatto o di banale. Fragile di salute – lo affliggeva una gastrite cronica –, meno portato ai lavori manuali, dalla sua preghiera e dalla sua contemplazione, inserite nel ritmo della vita monastica, in-
cominciò presto a fiorire la sua ricca produzione letteraria, tra le più significative e attraenti di tutta la letteratura cristiana, ricche di dottrina e di bellezza, di profonda esperienza spirituale e di lucida verità21. Jean Leclercq ha connotato la teologia di Bernardo come «monastica»22, non senza suscitare reazione e perplessità, in realtà senza fondamento. «È ormai certo – egli scrive – che in san Bernardo vi è una teologia, una dottrina costruita, elaborata, talvolta sottile; vi è pure nella sua opera una teologia speculativa: è capace di pensare con vigore e precisione intorno ai misteri cristiani, e ne dà la prova. Ma il suo insegnamento non è scolastico, nel senso che non è sistematico [...]. È intelligente, non intellettuale. Non si compiace dell’astrazione: ama il concreto, cioè l’esperienza»23. Bernardo è tutto preso dallo stupore del mistero; ne sente l’attrazione, ne fa l’elogio, ne canta la bellezza e la dolcezza. Il suo linguaggio teologico è suscitato dalla comunione col mistero stesso; è il linguaggio della sua estetica; un linguaggio suscitato dalla Bibbia e dalla liturgia, e che si accompagna con l’orazione, accompagnato dal timore di essere invadente, di infrangere la maestà divina. È una teologia che nasce dall’esercizio della retorica e dallo stupore, e che inclina a diventare poesia, e che, pure, sa rendere e illustrare il mistero nella sua più vera oggettività, non alterata da indebita e arbitraria fantasia. Infatti, il mistero cristiano è multiforme nelle sue proprietà trascendentali (esse, verum, bonum, unum, pulchrum) ed è proposto a tutte le corrispondenti facoltà trascendentali dell’uomo, che con tutte vi reagisce, a partire da quella del verum. Esso, oltre che oggetto del pensiero, è termine dell’amore e del desiderio ed è gustato nella sua bellezza, ammirato e rappresentato. E infatti la storia mostra questa molteplicità di forme da esso assunte. In particolare, se nella “scuola” soprattutto risalta la forma “scientifica” della teologia, in altri ambiti – come appunto quelli dei monasteri – in rilievo appare la teologia come un sapere affettivo, una conoscenza «per connaturalità». Ora, la letteratura cisterciense ci ha lasciato un ricco e suggestivo patrimonio di autentica teologia “monastica” così intesa: «Egli fa della teologia, per così dire, senza saperlo»24. Potrebbe dubitarne chi ha della teologia una concezione unilaterale, come di riduzione alla “logica” del mistero cristiano, mentre essa è anche contemplazione da rendere con l’immagine, la “sensibilità”, gli accenti del desiderio e altre forme di linguaggio umano, “impressionato” dall’esperienza.
Il mistero di Cristo in san Bernardo Resterebbero, a questo punto, da percorrere le “regioni” o le materie della teologia di san Bernardo: la sua cristologia ed ecclesiologia; la sua mariologia e antropologia; la sua spiritualità e la sua mistica. Qui ci limitiamo ad accennare alla figura di Cristo: epifania di Dio e parabola dell’uomo25. Cristo è il cuore della vita di Bernardo, il soggetto appassionante della sua ininterrotta meditazione, intellettiva e affettiva, che ha teso al massimo sia il vigore della sua intelligenza, con le sue forti ed elaborate qualità di teologo, sia, e soprattutto, il suo fervore di contemplativo: nella figura di Cristo si colgono la genesi e la risoluzione che hanno unificato e sostenuto tutta l’esistenza di questo monaco come, del resto, devono unificare e sostenere l’esistenza e la ragione di ogni monaco, che bussa al monastero per cercare Dio, per incontrare Cristo, al quale nulla deve essere preposto (Regula Benedicti, 4, 20). Gesù Cristo è il Verbo che si fa carne, che nei suoi “misteri” “si abbrevia”, umanizzandosi, accondiscendendo e raggiungendo l’uomo nella sua carne, e quindi nella sua fragilità e nella sua miseria. In Cristo Dio esperimenta l’umanità. Così, attraverso la sua venuta nella carne, il Verbo offre l’epifania di Dio e traccia in sé il ritratto dell’uomo: in questa carne – ossia nei misteri concreti di Gesù Cristo – avviene la narrazione di Dio (Gv 1,18), e si trova plasmato e mostrato in atto il modello dell’uomo, secondo il disegno divino, dove l’uomo è originariamente costituito immagine di Dio, in prosieguo dell’Immagine che è lo stesso Unigenito di Dio. L’incarnazione del Verbo rende possibile e domanda l’imitazione di Dio, e insieme fonda la dignità dell’uomo. San Bernardo esplora l’uomo con esigente realismo – acuto com’è in lui il senso del peccato o della dissimilitudine –, e pure senza pessimismo: poiché la vocazione umana è la comunione col Figlio di Dio fino ai suoi misteri gloriosi, culminante nella sua ascensione. In questa umiltà divina l’uomo trova la sua “Forma”: «Il Signore della gloria si è umiliato per offrire agli uomini la forma di vita» (Ep., 190). E se Cristo è la “Forma”, la “Regola”, l’“Immagine”, grazie a lui e nella comunione con lui può avvenire la “conversione”. La teologia di san Bernardo è una teologia della conversione: grazie a Cristo l’uomo, che il peccato ha posto nella “regione della dissomiglianza” e nello stato della “difformità”, o “de-formità”, passa alla conformità; viene “trasformato” e ridiventa simile alla “Forma” e alla “Immagine” originaria. La vita spirituale è questo itinerario laborioso di grazia, che è proprio di ogni cristiano, e
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che san Bernardo ha teorizzato e praticato specialmente nella condizione monastica. «[...] resterebbe deforme l’immagine, se non [...] apparisse nella carne la Sapienza [...]. [L’immagine], privata della nativa bellezza e tutta brutta sotto la pelle del peccato, era nascosta come nella polvere; [la Sapienza], trovatala, la pulisce e la innalza dal luogo della dissomiglianza e, reintegratala nel primitivo aspetto, la rende simile a sé nella gloria dei santi, anzi un giorno la renderà in tutto conforme a se stessa, quando si avvereranno le parole della Scrittura: “Sappiamo che, quando egli apparirà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così com’è”. E in realtà a chi si addiceva quest’opera, più che al Figlio di Dio? Egli, che è splendore e figura della sostanza del Padre e sostiene con la sua parola tutto l’universo, apparve agevolmente provveduto di ambedue queste facoltà, con cui riformare chi era deforme e confortare chi si trovava nella debolezza, per renderlo sapiente grazie allo splendore della figura». Si domandava san Bernardo: «Che cosa c’è di più giocondo di questa conformità?»26, che avviene grazie alla familiarità dell’anima, la sposa, col Verbo: e, infatti, «l’anima ricerca il Verbo [...], dal quale essere riformata, per giungere alla Sapienza, e al quale essere conformata, per giungere alla bellezza»27. E nella festa dell’umiltà di Dio, il Natale, il santo pregava con questi accenti: «Appaia, o Signore, la bontà alla quale l’uomo, che è stato creato a tua immagine, si possa conformare»28. Soprattutto noi troviamo la teologia di Bernardo sui misteri di Cristo nella lunga serie dei sermoni, nei quali egli commenta le feste cristiane, nelle quali in certo modo prosegue la storia del Verbo che si fa visibile e accessibile. Esse istituiscono il percorso degli eventi di Gesù, e ne accendono – l’espressione, che menzioneremo più sotto, è di Bernardo – la «dolce memoria»29. «Questa è la mia più sublime e la mia interiore filosofia: sapere Gesù»30, dove il “sapere” è pregnante di composizione e di raccolta di tutte le sue facoltà, concentrate su Gesù Cristo. Sul Verbo incarnato è continuamente fisso lo sguardo contemplativo e ardente di san Bernardo, con l’intento della comprensione e soprattutto dell’esperienza e dell’unione: «Il Signore si trova al centro di tutto ciò che egli ha da dire sul mistero mediante il quale si compie l’incontro di Dio con l’umanità»31. Per altro, possiamo osservare che questa contemplazione cristologica si trova diffusa nella letteratura cisterciense dei tempi di san Bernardo e come irraggiamento della sua:
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«Cristo è il nostro amore», dichiarava Baldovino di Ford32; «Il nostro amore di Cristo dev’essere saporoso»33; «Tutto, e in pienezza, si trova in Cristo»34; «Tutta la dolcezza della terra è l’umanità di Cristo»35, gli faceva eco Aelredo di Rievaulx.
UNA SUBLIME ALLEANZA SIGILLATA DALLA MANO DI DIO TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA ESTETICA Antonio Montanari
Un’icona delle feste Possiamo riassumere questa teologia e spiritualità di Bernardo relativa al mistero di Cristo con un testo che paragoneremmo a una “icona delle feste”: «In principio – è detto – era il Verbo. Già la fonte scaturisce, ma per ora soltanto in lui stesso. Poi, il Verbo era presso Dio, inabitante certamente in una luce inaccessibile: fin dall’inizio Dio diceva: Io penso pensieri di pace e non di afflizione. Era incomprensibile e inaccessibile, affatto invisibile e impensabile. Ora, invece, volle rendersi comprensibile, volle rendersi visibile, volle rendersi pensabile, [...] giacendo in un presepio, riposando in un grembo verginale, predicando su un monte, trascorrendo la notte in preghiera, o pendendo dalla croce, impallidendo nella morte, trovandosi libero tra i morti, signore negli inferi, e anche risorgendo il terzo giorno, mostrando agli Apostoli come segni di vittoria il posto dei chiodi, e, alla fine, salendo dinanzi a loro nei luoghi reconditi del cielo. Che cosa, pensando questo, si pensa di non vero, di non pio, di non santo? Quando la mia mente pensa a ciò, pensa Dio, colui che in tutto questo è lo stesso mio Dio. Ho chiamato sapienza il ripercorrere questi eventi e prudenza l’emetterne la dolce memoria»36. Nulla del facile devozionismo si ritrova nella cristologia e nella mariologia di san Bernardo: la sua tenerezza si alimenta di solida teologia: ad essa attingono e si irrobustiscono i suoi sentimenti. D’altra parte non sorprende, se teniamo presenti le fonti della teologia di san Bernardo, il luogo dove egli incontra i misteri della salvezza: Bernardo attinge la sua cristologia alla sua sorgente – la Scrittura –, la ripassa incessantemente nel suo trapasso sacramentale nella liturgia, la colora coi tratti dell’estetica, la illumina con le sfumature della psicologia e soprattutto la costruisce con la passione del desiderio e dell’amore. La cristologia è per l’abate di Clairvaux una memoria viva di Cristo, che si fa esperienza. È il suo sapere più alto e più profondo. Come affermava: «Questa è la mia più sublime e la mia interiore filosofia: sapere Gesù».
L’esperienza: una condizione per la teologia È dichiarata convinzione degli autori cisterciensi del XII secolo che la teologia non possa essere che il frutto di un’autentica esperienza spirituale. La possibilità di conoscere Dio, infatti, si fonda sull’effettiva possibilità di sperimentarlo. Inoltre, secondo una tradizione monastica ben attestata, il luogo privilegiato dell’incontro e della conoscenza di Dio è la Scrittura santa, per cui l’esperienza cristiana non può che essere l’esperienza di un incontro con Dio, mediato dalla sua Parola. Si può inoltre precisare che l’esperienza di Dio non è una realtà da confinare esclusivamente nelle sfere dell’escatologia. Anzi, gli autori cisterciensi sembrano preoccupati di poterla gustare fin dal presente. Lo si evince, ad esempio, da alcune pagine di Guglielmo di Saint-Thierry, il quale, soffermandosi sulla metafora del “letto fiorito”, nel suo Commento al Cantico dei cantici, da un lato condivide il dato tradizionale secondo il quale l’unione piena tra l’uomo e Dio si realizzerà quando il cammino umano sarà interamente compiuto e la sposa potrà gustare senza fine la verità alla sua stessa fonte1. Tuttavia, egli è convinto che già fin d’ora Dio prepara al cuore dell’amata un paradiso, e alla sua buona coscienza un letto fiorito, perché le sia di aiuto nella fatica e sollievo nella dilazione2. Pertanto, dunque, già il presente dev’essere concepito come il tempo possibile dell’incontro con Dio, nel quale l’uomo può fare esperienza di Lui. Un’altra questione sempre intrigante, nella teologia del XII secolo, è la consapevolezza di una tensione inevitabile che collega fra loro la realtà della vita spirituale e le sue modalità espressive, cioè l’esperienza e il linguaggio necessario per comunicarla. Tale consapevolezza era pienamente av-
vertita in quest’epoca, nella quale la comunicazione non era immediata ed effimera come lo è oggi, ma in cui il testo manteneva una sua esplicita funzione, da tutti riconosciuta e imprescindibile. Era chiaro, allora, che la modalità espressiva della teologia doveva essere adeguata e non poteva scadere nelle forme parlate del quotidiano. Per questo, il linguaggio teologico – un linguaggio di tipo essenzialmente metaforico, nel quale il simbolico e l’immaginario manifestano tutta la loro ricchezza – veniva abitualmente desunto dal testo scritturistico e dalle immagini di cui esso è intessuto. Una teologia così elaborata, da una parte rivela l’universalità del linguaggio biblico, mentre dall’altra manifesta che, in Cristo, Dio è diventato “immaginabile”, si è cioè mostrato in immagine e ha parlato per immagini all’immaginazione dell’uomo3. È chiaro allora che, in questo tipo di letteratura, l’immaginario non può più essere semplicemente considerato come la folle du logis, ma va riabilitato. Esso infatti – collegandosi a un “mondo”, com’è appunto quello medievale, ancora caratterizzato da una concezione unitaria della vita, nella quale è determinante il soprannaturale – è in grado di rivelarci qualcosa di quella parte della realtà che non si vede immediatamente, dalla quale però dipende il senso di ciò che è visibile.
Paradisus claustri I monasteri cisterciensi, belli e austeri come la Gerusalemme nuova dell’Apocalisse, si ergevano solitari in luoghi deserti, distanti da questo mondo di male, quasi a rappresentare la città perfetta, un mondo nuovo rinnovato dalla grazia. Anche il contrasto fra le terre coltivate e le ampie
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distese circostanti, ancora in preda a una natura selvaggia e non domata, contribuiva a dare l’impressione, a chi attraversava quelle regioni, di trovarsi di fronte a un vero paradiso. Il lavoro sapiente dei monaci, infatti, aveva saputo trasformare quel locus horroris in un hortus deliciarum. Il deserto si era trasfigurato, sotto le loro mani, in un anticipo di quel paradiso perduto, che fa sognare l’uomo di ogni tempo (fig. 1). Nasce così il topos del paradisus claustri, che la letteratura medievale legge come anticipazione simbolica della Gerusalemme celeste4. Il chiostro, chiuso sui suoi quattro lati, che lo separano dal caos di questo mondo, diventa allora il simbolo di un ordine ristabilito, di una natura nuovamente sottomessa all’uomo e, chiudendo allo sguardo lo spazio circostante, diventa un invito a levare gli occhi verso la sospirata patria celeste. Qui anche il peccatore può trovare riposo: «Dal luogo in cui è richiuso, il monaco volga lo sguardo attraverso la fessura, scruti attraverso le sbarre, segua con la contemplazione il raggio che gli traccia la via [...]. Troverà così quell’ammirabile tenda in cui agli uomini viene offerto in cibo il pane degli angeli; troverà un paradiso delizioso (paradisum voluptatis) piantato dal Signore, un giardino tutto fiorito e incantevole (hortum flo-
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ridum et amoenissimum), nel quale si respira frescura»5. Subito, in questa pagina di san Bernardo, le immagini evanescenti e profumate del Cantico dei Cantici s’intrecciano e si fondono con quelle genesiache dell’Eden, per precisare che si tratta di una realtà mistica, che può essere pregustata già in questa vita: «Non credere che sia un luogo da godere con i sensi corporali, perché si tratta di un paradiso di delizie interiori (paradisum voluptatis internae). In questo giardino [...] non ti si presenta un’abbondanza di alberi terreni, ma una piantagione nobile e allettante di virtù spirituali. È un giardino chiuso (hortus conclusus) nel quale una fontana sigillata si ramifica in quattro corsi d’acqua, e da un’unica linfa di sapienza sgorga una virtù quadriforme. Lì fioriscono anche gigli di inconsueto splendore e l’apparire dei fiori è rallegrato dalla voce della tortora. Lì il nardo della Sposa esala il suo aroma e il vento del sud, fugati ormai i freddi venti invernali, riempie l’aria di lievi profumi. Nel mezzo del giardino sorge l’albero della vita, quel melo del Cantico, più prezioso di ogni altra pianta, che con la sua ombra rinfresca la Sposa e il cui frutto è dolce al suo palato»6. L’acqua di questo giardino, che scaturisce da una fonte di sapienza, simbolo di Cristo e dei quattro fiumi del paradiso, è acqua viva che purifica, cancella il passato e reimmer-
Nelle due pagine precedenti: 1. Bonnefont, il chiostro.
3. Cadouin, la galleria della collazione con il trono dell’abate.
2. Poblet, la fontana del chiostro.
ge l’uomo nell’istante iniziale della creazione. La fontana del chiostro rivela così il suo mistero: l’acqua che sale gorgogliando dalle viscere generose e segrete della terra, riversa sul nostro mondo la freschezza e la fecondità di una vita nuova che è puro dono. «La vita eterna è infatti come una sorgente inesauribile che irriga il paradiso». Anzi, questa «fonte e questo pozzo di acque vive che scorrono dal Libano» non solo irrigano il giardino, ma anche inebriano coloro che vi abitano. «Cos’altro è, infatti, questa fonte di vita se non il Signore Gesù» – esclama san Bernardo –, la cui sorgente si è rivolta verso di noi? È Lui quel «filo d’acqua» che dal cielo, attraverso il verginale acquedotto del grembo di Maria, è disceso fino a noi. È Lui quella sorgente che non riversa tutta la sua acqua in una sola volta, ma «stilla la sua grazia, goccia a goccia», per ristorare l’aridità dei nostri cuori7 (fig. 2). Il chiostro cisterciense è spoglio di tutto ciò che è superfluo. Nulla, infatti, deve distrarre il monaco dall’incontro con il suo Signore: «Cosa ci fanno, davanti ai monaci intenti alla lettura, queste bellezze deformi e queste deformità formose? Cosa ci fanno le scimmie immonde o i feroci leoni, i centauri o i semiuomini?», tuona ancora l’abate di Clairvaux dalle pagine della sua celebre Apologia riferendosi ai capitelli scolpiti. «Dovunque si apre allo sguardo una così grande e così strana varietà di forme eterogenee, che si prova più gusto a leggere i marmi che i codici e a passare la giornata ammirando l’una o l’altra di queste figure che meditando la Legge di Dio»8. Il chiostro invece è il luogo in cui il monaco cerca Dio scrutando, nel Testo Sacro, l’incomparabile profondità del suo mistero, e qui disseta il suo desiderio accostandosi inhians, con la bocca e il cuore spalancati, al dono della divina rugiada quotidiana (fig. 3). Anche il mistero racchiuso nelle Scritture è infatti paragonabile a una fonte di acque vive, «tanto più abbondante quanto più vi si attinge, così che nessuno la potrebbe estinguere»9. Tutta l’architettura cisterciense, con la semplicità del suo disegno, riflette l’estrema essenzialità della vita che si svolge fra le mura del monastero. In questo spazio sacro, la chiesa, rigorosamente orientata, risulta già significativa per la sua ubicazione; essa inoltre si innalza su una pianta a croce latina, quasi a voler inscrivere il corpo del Crocifisso nel corpo stesso dell’edificio. A est, in corrispondenza dell’altare giace la testa di Cristo, a ovest i piedi, a sud e a nord le braccia, mentre il cuore dimora al centro del transetto, all’incrocio dei due corpi. In questo luogo, il monaco si prostra nel giorno della sua professione per invocare la mi-
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sericordia di Dio e qui ancora verrà deposto nel giorno della sua morte, come per lasciarsi trasfigurare dalla pienezza del dono divino. Il mistero della vita e il mistero della morte si alternano così, con naturalezza, sotto la massa silenziosa di questi muri e di queste volte, dove il tempo scorre scandito dai ritmi regolari della preghiera. La chiesa si divide, nella sua lunghezza, in quattro parti principali: il presbiterio con l’altare, nella parte superiore, elevata di uno o più gradini rispetto al pavimento; poi il coro dei monaci, con gli stalli disposti lungo le pareti; dietro di esso uno spazio riservato agli infermi e, infine, il coro dei conversi, lungo tutto il resto della navata. Si può capire questa disposizione se si pensa che l’accesso alle chiese cisterciensi era riservato esclusivamente ai monaci, mentre i laici potevano entrare solo in rarissimi casi, previsti da una severa legislazione10. Nella sobrietà di questo contesto, anche la liturgia seguiva la logica del deserto, e l’austerità che accompagnava la celebrazione dei sacri riti rivelava l’umiltà con cui i monaci intendevano partecipare al mistero di Cristo. «Non ci saranno croci d’oro, né candelabri, tranne uno in ferro, né turiboli di metallo prezioso», prescriveva l’antica legislazione cisterciense11. E san Bernardo le fa eco dalle pagine della sua Apologia: «Ditemi: che ci fa l’oro nel santuario? Uno è il motivo che possono avere i vescovi e altro è quello che hanno i monaci. [...] Noi che siamo usciti di mezzo al popolo, che per Cristo abbiamo abbandonato le cose belle e preziose del mondo; che abbiamo reputato fango tutto ciò che risplende alla vista e che diletta l’udito, che è soave al gusto e piace al tatto [...] per guadagnare Cristo, di chi intendiamo eccitare la devozione con queste cose?»12. Si può percepire meglio l’impatto che queste parole devono aver esercitato nel mondo monastico contemporaneo, se si pensa che in quegli stessi anni Sugero, l’abate della celebre abbazia parigina di Saint-Denis, aveva fatto interamente rivestire di pannelli d’oro e di pietre preziose l’altare della sua chiesa, accanto al quale si innalzava una croce di sei metri di altezza, anch’essa rivestita d’oro e ornata di gemme. Egli era infatti convinto che la bellezza di una chiesa è anticipazione della bellezza celeste e, pur essendo costituita da elementi materiali, ha lo scopo di elevare l’uomo dal mondo terreno a quello soprannaturale. Pertanto, di fronte a quelli che lo criticavano obiettando che per celebrare basta un’anima santa, uno spirito puro e un’intenzione di fede, egli così si giustificava: «Lo ammetto, questo importa certamente prima di tutto. Ma affermo anche che si deve servire con gli ornamenti
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esteriori dei vasi sacri, e più che in qualunque cosa nel santo sacrificio, in assoluta purezza interiore, ma anche in assoluta nobiltà esteriore»13. I monaci di Cîteaux, però, ritenevano questo decoro e questa magnificenza per il culto divino incompatibili con l’austerità della loro vita, e avevano stabilito che «nella casa di Dio, nulla dovesse rimanere di lusso o di superfluo, o che potesse un giorno corrompere la povertà, liberamente scelta, custode di tutte le virtù»14. E, fra le pareti spoglie delle loro chiese, celebravano una liturgia austera, rifuggendo ogni sfarzo esteriore di luci, di oro e di colori, convinti che l’incontro con Dio può avvenire solo in quella festa interiore che «dispiega nell’animo i suoi fasti indicibili e tanto più splendidi quanto più è progredito il lavoro di riforma personale»15. Solo tre piccole lampade ad olio ardevano durante la notte nelle chiese cisterciensi. Certamente non erano sufficienti per dissiparne le ombre, tuttavia, brillando con la loro fragile luce in queste ore in cui il silenzio è più greve e la soli-
tudine più soave, ravvivavano la speranza fino al rinnovarsi del miracolo quotidiano dell’alba che, sorgendo, rifletteva le sue prime luci sulla pietra nuda del presbiterio. Nelle chiese cisterciensi esistevano diversi altari, che in origine erano costituiti da una semplice tavola sostenuta da colonne. La legislazione primitiva, che anche su questo punto era piuttosto severa, prevedeva che l’ornamento principale ed essenziale non potesse essere altro che una croce di legno dipinta16. I monaci avevano l’abitudine, nei tempi della preghiera personale, di raccogliersi davanti a una di queste croci, di cui erano ornati non solo l’altare del presbiterio, ma anche quelli delle varie cappelle laterali che si aprivano sul transetto. San Bernardo sembra proprio alludere a questa pratica quando esorta: «Anche tu, se con spirito raccolto e mente sobria e libera dalle vane preoccupazioni, entri da solo nella casa della preghiera, stando davanti al Signore ad uno degli altari, puoi toccare con la mano del santo desiderio la porta del cielo»17.
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4. Francisco da Ribalta, Cristo abbraccia san Bernardo (amplexus). Madrid, Museo del Prado.
E in un altro testo dell’abate di Clairvaux colpisce l’espressione sacra Imago, un termine tecnico che indicava l’icona medievale18 (fig. 4): «L’amore del cuore è in qualche modo carnale, perché il cuore umano si volge maggiormente alla carne di Cristo e a quelle cose che egli operò e ordinò nella sua carne. [...] Da qui l’olocausto delle sue preghiere trae abbondante alimento [...]. Perciò ci sia sempre davanti a chi prega la sacra Imago dell’Uomo Dio, o nella sua nascita, o mentre viene allattato, o mentre insegna, oppure nella sua morte o nella sua risurrezione o ascensione. Questa contemplazione accende nell’animo l’amore per le virtù, distoglie dai vizi della carne, schiaccia le turpi lusinghe e calma gli appetiti smodati»19. Tuttavia, per trovare una vera e propria “teologia dell’icona” nella letteratura cisterciense, bisogna ricorrere ad alcune pagine delle Meditativae orationes, nelle quali Guglielmo di Saint-Thierry, contemplando il mistero dell’Incarnazione, sofferma lo sguardo sull’icona del Crocifisso: «Ci poniamo davanti una rappresentazione della tua passione affinché anche i nostri occhi di carne abbiano qualcosa da vedere, qualcosa a cui aderire. Essi però non adorano una semplice immagine dipinta, perché quell’immagine rinvia alla realtà della tua passione. Quando infatti guardiamo più attentamente l’immagine della tua passione, nel suo silenzio ci sembra di udire la tua voce che ci dice: “Ecco come vi ho amato: vi ho amato sino alla fine”»20. L’Imago crucis diventa così la tappa iniziale di un cammino pedagogico che, rendendo più tangibile agli occhi di chi prega l’amore di Cristo, offre al principiante un sicuro punto di partenza per un’ascensione spirituale. La visione del Crocifisso, sacramentum passionis21, suscita infatti nell’anima il desiderio di una più profonda conoscenza di Dio e di una visione più perfetta e senza fine: «Nell’abbondanza del fiume che la rallegra, all’anima sembra di vederti così come tu sei. E partendo dal sacramento mirabile della tua passione, nella dolcezza della riflessione, rumina la bontà che tu hai avuto per noi, che è grande quanto tu sei grande, o meglio, che è ciò che tu stesso sei. Le sembra allora di vederti faccia a faccia, mentre tu, volto del sommo bene, ti mostri sulla croce e nella tua opera di salvezza»22. In queste espressioni si avverte la tensione – richiamata dall’antitesi paolina di 1Cor 13,12 – tra la visione «per speculum et in aenigmate», l’unica possibile in questa vita, e la visione «faccia a faccia», che invece rinvia al compimento futuro. Dunque, le scelte della solitudine, della povertà e di un lavoro umile, dell’austerità e della semplicità che, obbe-
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dendo alla logica del deserto, definiscono la vita cisterciense, non hanno altro scopo che di essere una preparazione a questa visione revelata facie, di cui il monaco porta nel cuore una nostalgia segreta.
Rivestire l’uomo nuovo L’esperienza di Cîteaux non può essere però ridotta a un sogno romantico, sentimentale e disincarnato. Cîteaux è nata infatti dall’esperienza sofferta di uomini che hanno consumato la loro vita nella ricerca di Dio e risponde a un’esigenza profonda che, sgorgando dal cuore, non poteva non coinvolgere ogni dimensione della loro esistenza. Su questo è importante insistere, perché l’esperienza cisterciense, tendendo alla contemplazione del mistero di Dio fatto uomo, vuole obbedire a una profonda volontà di incarnazione. Caratterizzandosi anzitutto per la sua attenzione all’uomo, il monachesimo di Cîteaux ha saputo offrire una risposta adeguata alla lunga ricerca e alle attese spirituali dell’XI secolo. Il novum monasterium, infatti, riflettendo le sue caratteristiche di solitudine, povertà, austerità, semplicità e umiltà su tutte le dimensioni della vita monastica, voleva rendere possibile, per l’uomo decaduto e inesorabilmente segnato dall’esperienza della frammentarietà e della divisione, quel rinnovamento spirituale interiore che le antiche strutture monastiche non erano più in grado di garantire, e che i primi documenti cisterciensi amano descrivere con l’immagine paolina dell’uomo nuovo: «Spogliatisi dell’uomo vecchio, erano lieti di essersi rivestiti di quello nuovo»23(fig. 5). Étienne Gilson, che è stato tra i primi studiosi a notare il ruolo centrale dell’antropologia negli scritti degli autori cisterciensi, si è a lungo impegnato nel delinearne le dimensioni filosofiche e teologiche che inseparabilmente si intrecciano nel loro discorso mistico24. Per i Cisterciensi, infatti, una salda antropologia doveva costituire il fondamento di ogni teoria mistica che volesse risultare adeguata. Plasmato a immagine e somiglianza del suo Creatore, l’uomo si differenzia dalle altre creature perché è frutto di una preziosa unità di spirito e carne25. Ma questa sublime alleanza, che Dio stesso aveva voluto sigillare con la propria mano, non sarebbe durata a lungo, perché un ladro malvagio avrebbe presto infranto il sigillo divino. Così, grazie a questa diabolica frode, il peccato attraversò il disegno di Dio provocando nel cuore dell’uomo il dramma della divisione e del disordine26. Una moltitudine di necessità corporali lo assorbì e lo trattenne; i sensi divennero la fonte dei
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suoi pensieri e il suo amore si rivolse alle cose sensibili. Da allora «una specie di vischio frena le sue ali e gli impedisce di volare»27. Fatto per dilatarsi negli spazi di Dio, di fatto, l’uomo viene a trovarsi prigioniero dei limiti angusti di questo mondo e, incurvato dal peccato, la sua miserabile vita è ovunque pervasa da un profondo egoismo. Ormai solo un Altro lo può rialzare: solo il Figlio di Dio, venuto nella carne per cercare ciò che era perduto, può risollevare la propria “immagine” – l’uomo – dal luogo della dissomiglianza, per reintegrarlo nel suo primitivo splendore e renderlo simile a sé nella gloria dei santi28. Alcuni dei monaci che l’abate di Clairvaux aveva davanti a sé mentre pronunciava i suoi sermoni, erano passati attraverso questa esperienza umiliante, ridotti talvolta fino alla condizione di bestie irragionevoli e desiderosi di nutrirsi del loro stesso cibo29. Ora, però, la conversatio monastica offriva anche a loro una via per tornare al Creatore. Bernardo ne è convinto e, nei suoi sermoni, non si stanca di riaffermare la possibilità del ritorno e della conversione, qualunque sia la situazione dell’uomo. Anzi, ogni anima, persino quella che vive nelle condizioni più disperate, «può avvertire in sé stessa la possibilità non solo di respirare la speranza del perdono e della misericordia, ma addirittura di aspirare alle nozze con il Verbo, senza aver paura di stringere un patto con Dio, né temere di portare, con il Re degli angeli, il giogo soave dell’amore»30. Si capisce però che, tracciando una via di ritorno a Dio per l’uomo peccatore, la pedagogia cisterciense non poteva accontentarsi di riprendere quella offerta dal “vecchio monachesimo”. A Cîteaux, infatti, a differenza di quanto avveniva negli Ordini tradizionali, le reclute non provenivano più dalla schiera degli oblati che, essendo stati offerti al monastero fin da bambini, non conoscevano altro che la vita del chiostro. I nuovi Ordini reclutavano invece i loro membri tra gli adulti e molti di essi, che erano stati in precedenza nobili o cavalieri, entravano in monastero in possesso delle conoscenze più varie dell’amore profano31. Si comprende allora perché, nella pedagogia cisterciense, l’attenzione si concentrasse sul problema essenziale dell’uomo, il problema dell’amore, e il monastero fosse pensato anzitutto come schola caritatis, cioè come luogo nel quale le facoltà dell’amore potevano essere rieducate. Passando attraverso la conoscenza del cuore e del paradosso che esso racchiude, il cammino monastico si dispiegava così dalla cupiditas (la concupiscenza che ha trascinato l’uomo lontano da Dio “deformandolo”), alla caritas (che lo riconduce a Lui “riformandolo”).
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In realtà, la pedagogia proposta dal monastero non voleva essere altro che la pedagogia stessa di Dio: la pedagogia dell’Incarnazione. Dio, infatti, che ben conosceva il cuore dell’uomo – afferma Bernardo – aveva preparato per lui una via “carnale”, al fine di conquistarlo al suo amore; si era cioè fatto uomo per poter essere amato dall’uomo in un modo umano. «Vedendo, infatti, che tutti gli uomini erano diventati “carnali”, Dio manifestò loro, nella propria carne, tanta dolcezza che sarebbe stato necessario avere un cuore di pietra per non amarlo con tutto il proprio affetto. [...] Venne, dunque, nella carne e si mostrò così amabile da testimoniare un amore di cui non ne esiste uno più grande, quello che lo portò a donare la sua vita per noi»32. Orientando verso di sé tutta la capacità affettiva dei suoi discepoli, Gesù li educava ad amare la sua “carne”, cioè la sua umanità, perché un giorno lo potessero incontrare nella pienezza del suo “spirito”33. «Nell’attesa, colui che non ha ancora lo Spirito vivificante, trovi consolazione nella devozione per l’umanità del Signore. [...] Sebbene la devozione verso l’umanità di Cristo sia un dono e un dono grande dello Spirito, tuttavia lo direi un amore umano, in rapporto a quell’amore in virtù del quale possiamo ormai assaporare non tanto il Verbo fatto carne, quanto invece il Verbo-Sapienza, il VerboGiustizia, il Verbo-Verità [...]. In realtà Cristo è tutto ciò, egli che per noi divenne Sapienza di Dio e giustizia e santificazione e redenzione»34. Con questa tenera devozione verso l’umanità di Gesù, la vita monastica si proponeva di educare il monaco ad amare, valorizzando anche gli aspetti umani dell’amore. Si spiega così l’insistenza della spiritualità cisterciense sul Verbo Incarnato e diventa comprensibile il rilievo assunto in essa dal Cantico dei Cantici. Così, mentre da una parte l’«amore cortese» elaborava una concezione mondana dell’amore, e il pagano Ovidio continuava ad esercitare un fascino non indifferente sui suoi lettori, nei monasteri veniva elaborata una letteratura diversa o, se si vuole, alternativa a quella del poeta pagano, orientata cioè ad un altro poeta dell’amore: Salomone35. Non bastava più, infatti, combattere apertamente Ovidio, ma bisognava offrire ai monaci «un antidoto alle futilità dei pagani», e l’antidoto migliore fu proprio il Cantico dei Cantici. Frequentemente letto, parafrasato e commentato, questo poema biblico veniva considerato un trattato sull’amore di Dio, come attesta la grande raccolta di sermoni che non solo Bernardo, ma anche altri suoi discepoli – Guglielmo di Saint-Thierry, Gilberto di Hoyland, Goffredo di Auxerre e Giovanni di Ford – hanno dedicato
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5. Sénanque, una galleria del chiostro.
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al commento di questo testo. Forse, non a caso il tema della ricerca di Dio, che crea l’unità di tutte queste opere, emerge con particolare insistenza negli ultimi tre sermoni che san Bernardo dedica al Cantico dei Cantici, interpretando il versetto: «Sul mio letto lungo la notte ho cercato l’amato dell’anima mia» (Ct 3,1). «Tu non cercheresti affatto se prima non fossi stata cercata, e neppure ameresti se prima non fossi stata amata. Sei stata preceduta non con una sola benedizione, ma con due: quella dell’amore e quella della ricerca. L’amore è all’origine della ricerca, mentre la ricerca è il frutto dell’amore e ne è la certezza. Sei stata amata affinché tu non creda di essere stata cercata per essere punita, e sei stata cercata affinché non ti lamenti di essere stata amata invano. La certezza di questa soavità amica, ti ha infuso l’ardire e ha cancellato il timore, ti ha convinto a tornare e ha ridestato in te l’affetto.
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Di qui lo zelo e di qui l’ardore nel cercare colui che la tua anima ama, poiché certamente non avresti potuto cercarlo se egli non ti avesse cercata, e ora, cercata, non puoi non cercarlo a tua volta»36. La psicoanalisi ci ha insegnato che il desiderio umano è pervaso da una sottile ambiguità: esso, infatti, mira a una risposta e alla piena soddisfazione, ma qualora l’ottenesse, verrebbe meno la sua dimensione di apertura. E ciò è ancor più vero quando è in gioco il desiderio di Dio, perché allora «nella pienezza del godimento non avrà fine il desiderio e neppure si estinguerà la ricerca»37. Nel godimento di Dio, infatti, non vi è reciprocità e l’oggetto desiderato continua ad essere al di là della portata dell’uomo. In questo senso si tratta di un “desiderio infinito” – desiderium sine anxietate – con il quale viene a coincidere la beatitudine dell’uomo.
«FORMOSITÀ DEFORME» E «DEFORMITÀ FORMOSA». L’ESTETICA DELLA CROCE COME ETICA MISTICA DELLA BELLEZZA IN BERNARDO DI CLAIRVAUX Pierre-André Burton
«Formosità deforme e deformità formosa», questa celebre espressione usata da san Bernardo nella sua Apologia (§ 29) per fustigare, nell’architettura e nella scultura della sua epoca, ciò che considera eccessi e, soprattutto, «bamboccerie» assolutamente superflue, è stata oggetto di gravi errori di interpretazione che hanno portato alcuni storici – e non fra i minori – a pensare che l’abate di Clairvaux sarebbe stato non solo insensibile alla bellezza materiale delle cose (cosa certo spiacevole per lui, ma ancora scusabile!), ma anche e soprattutto ferocemente ostile a qualsiasi forma di arte, con il pretesto che costituirebbe uno schermo e farebbe da ostacolo all’esperienza spirituale. Orbene, è proprio grande merito di Dom Louf, e di Conrad Rudolph1 l’aver mostrato, ognuno a suo modo – il primo sul versante più storico-teologico, il secondo sotto l’aspetto più socioculturale – che tale giudizio, per lo meno semplicistico e parziale, faceva un grave torto al pensiero bernardino e contraddiceva evidenze storiche, nonché letterarie e dottrinali. In realtà, chi più di Bernardo si è preoccupato della bellezza formale della sua scrittura? Non è forse Étienne Gilson che ha scritto queste parole così giuste, confermate da molti studi: «Bernardo ha rinunciato a tutto, tranne all’arte dello scrivere bene»? E chi, del resto, meglio di lui, ha mostrato, con la sua esegesi delle Scritture e con la sua antropologia spirituale, che la bellezza delle immagini bibliche così come la bellezza della creazione si presentano, a chi vuole guardarle attentamente, come un trampolino, sicuramente provvisorio ma purtuttavia necessario all’uomo che vuole accedere alla conoscenza di Dio? Infatti, come abbiamo già avuto occasione di approfondire in altro luogo2, per Bernardo – che in questo fa eco a san Paolo – non è forse unicamente attraverso «la bellezza visibile delle opere da lui compiute» che è possibile ve-
dere «le perfezioni invisibili di Dio» (cfr. Rom 1,20)? In quanto l’uomo rivestito di carne e dotato di capacità percettive sensoriali (i cinque sensi) può avere accesso al mistero di Dio solo «grazie alla mediazione delle realtà sensibili». Ci soffermeremo qui su due di queste «realtà», che hanno attratto anche l’attenzione particolare di san Bernardo e che lui stesso ha visto rispecchiarsi l’una nell’altra. Per trasporre l’espressione dell’Apologia: da una parte, la «formosità deforme» (deformis formositas) dell’uomo o la bellezza originale della creatura umana, creata a immagine e rassomiglianza di Dio ma «sfigurata» dal peccato e, dall’altra, la «deformità formosa» dell’Uomo-Dio (formosa deformitas) o la bellezza assolutamente paradossale del Cristo in croce, «immagine sacra» del Dio di misericordia che ha preso su di sé ciò che determina la bruttezza della nostra umanità ferita per rivestirla dello splendore della sua bellezza divina. Tale «contrappunto» mostra immediatamente che san Bernardo situa esplicitamente la «questione della bellezza» in un orizzonte di pensiero insieme antropologico e teologico3, etico e spirituale. Infatti, secondo lui, è la bellezza interiore quella che l’uomo «non deve ignorare», perché tale ignoranza – secondo Ct 1,7 che Bernardo ama commentare in questa prospettiva – è gravata di una doppia conseguenza: non solo comporta il rifiuto, l’esclusione, addirittura l’esilio dell’anima «fuori» dal luogo che le è proprio («Esci!»), ma, ancora più disastroso, è anche all’origine di un «abbassamento» (cfr. Cant 35, § 6) che la «sfigura», l’imbruttisce e l’assimila agli animali («Pascola i tuoi capretti»). Per rendere conto di questa sequenza (ignoranza di sé > esilio > abbassamento), Bernardo ricorre con notevole costanza a due versetti dei Salmi 48,13 e 105,20 che egli arti-
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1. Amplexus, l’abbraccio tra Cristo crocifisso e Bernardo, dal libro d’ore di Herrenalb, 1482-84. Staatsbibliothek zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz, ms theol. lat. Quart 9, f. 72v.
cola con un terzo passaggio delle Scritture: Gen 1,26. Questo versetto costituisce anche da solo la pietra d’angolo su cui Bernardo poggia tutto l’edificio della sua antropologia spirituale e precisamente nel senso che questo testo fonda «l’eccellenza» della natura umana. Fra tutte le creature, infatti, solo dell’uomo e della donna si dice che siano stati «creati a immagine e somiglianza di Dio». Orbene, per parlare di questa «eccellenza» della natura umana che differenzia l’uomo e la donna dal resto della creazione e che fa di loro «nobili creature» (Cant 35, § 3 e 64), Bernardo si compiace di moltiplicare i registri lessicali, fra i quali5 appunto si trova quello della «bellezza», qualificata per la maggior parte come «originaria o nativa» (Grat § 32; Cant 82, § 2). San Bernardo spiega che è proprio «l’ignoranza» (Dil § 4) di questa «bellezza nativa» che sta all’origine del dramma umano. A causa di questa l’anima «è trascinata dalla sua curiosità» (Dil § 4) e si lancia in una corsa tanto sfrenata quanto vana verso beni che le sono completamente estranei: in balia della tirannia dei sensi corporei, si trova, come suo malgrado, trascinata «dal peso del corpo corruttibile che appesantisce l’anima» (Sag 9,15) nel turbine folle dei suoi desideri scatenati che le comporta «di essere assimilata alla figura di un toro che mangia erba» (Sal 105, 20) o «comparata» a quelle «bestie senza ragione» (Sal 48,13) sulle quali tuttavia, per dono di creazione, aveva ricevuto diritto di signoria (Grat § 7)! Abbassata «al di sotto» di se stessa, l’anima si trova improvvisamente come «esiliata» da se stessa in quello che Bernardo chiama «la regione della dissomiglianza». Per sua vergogna (Grat § 22; Cant 82, § 5) o meglio per la «sua confusione» (Cant 82, § 5 citando Sal 108, 29), l’anima si vede rivestita di una «strana bellezza» (Cant 82, § 2) «tanto nociva quanto perniciosa» (Cant 74, § 10), che la sfigura e la rende totalmente «difforme» (Cant 82, 4) perché, come un «doppio mantello» (Sal 108, 29), essa arriva a «ricoprire» (superinduere [Cant 82, § 2 e 5]), senza peraltro sopprimere ciò che costituisce la sua «bellezza nativa», con cui si intende la sua «somiglianza originale [con Dio]». Da ciò che abbiamo appena esposto, emergono due serie di termini fra i quali Bernardo instaura una tensione: da una parte tutto ciò che deriva dalla «bellezza nativa» dell’anima e che, per dono originario di creazione, la rende «immagine» che partecipa alla natura o alla gloria stessa di Dio, suo Creatore (sequenza lessicale della «immagine/bellezza», costituita dai termini forma/similitudo/honor/gloria/decus/patria e dai loro sinonimi); dall’altra,
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tutto ciò che deriva dalla «ignoranza» di questa bellezza originale, cioè principalmente: l’anima resa «estranea» a se stessa e, improvvisamente, «dissomigliante» da Colui (Dio) a immagine e somiglianza del quale era stata invece creata (sequenza «bellezza estranea» della «dissomiglianza/dif-formità», specchio invertito della precedente, costituita dai termini difformitas/dissimilitudo/confusio/exsilium6). Non vi è ora lo spazio per dispiegare in tutte le loro possibilità le ricche armoniche di queste due sequenze tematiche che si rispondono vicendevolmente come in contrappunto. Ci soffermeremo solo su tre aspetti che si concateneranno gli uni con gli altri. Il primo concerne la tensione stessa che Bernardo instaura fra immagine/bellezza originale e somiglianza/bellezza estranea (o piuttosto dissomiglianza/difformità); il secondo riguarda la natura stessa della «bellezza» di cui ci parla Bernardo; e, infine, fra i due, preciseremo come l’anima, mediante Cristo, è in grado di ricuperare la sua bellezza nativa. Riguardo alla prima questione, è importante sottolineare l’innato ottimismo dell’antropologia bernardina. Infatti, ogni volta che parla di questo «passaggio» dallo stato di «bellezza/somiglianza» originale a quello di «difformità/dissomiglianza», sempre Bernardo insiste sul fatto che questo passaggio non intacca per nulla il «fattore» primario, in quanto la «difformità» arriva, per così dire, «solo» a «sovrapporsi» alla bellezza originaria dell’uomo, senza mai distruggerla né cancellarla. L’anima, spiega, verrebbe così a rivestirsi della «bassezza della difformità», cioè della «pelle del peccato», perdendo in questo modo lo «splendore» della sua nativa bellezza, ma non la «bellezza stessa della sua struttura» – pulchritudo compositionis (Cant 25, §3), poiché realmente, ciò in cui risiede la bellezza dell’anima, la sua originale somiglianza con Dio, le appartiene in «modo strutturale» (pertinet ad compositionem) (ibid.) ed è quindi «inseparabilmente in essa – inseparabiliter inesse» (Cant 82, § 2). Questo ottimismo antropologico e spirituale trova chiaramente il suo principale appoggio nell’affermazione biblica (Gen 1,10-31) della bontà ontologica dell’intera creazione, ma si fonda anche su una personale convinzione di Bernardo che, seguendo san Paolo e nella filiazione di sant’Agostino, pensa che «tutto concorra al bene per quelli che amano Dio» (Rom 8,28) «compreso il peccato» (Agostino). Questa convinzione è così profondamente radicata nel cuore di Bernardo che nel suo commento a Ct 6,7 («Bruna sono, ma bella»), affermerà non senza audacia e paradosso, ma sempre seguendo san Paolo (2 Cor 12,9),
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che la sposa può a buon diritto «glorificarsi volentieri» della sua negritudine anche perché contribuisce a mettere in risalto la sua bellezza! «Beata negritudine» o «desiderabile infermità» dirà dunque (Cant 25, § 5 e 7), ma non certo, precisa tuttavia, che siano «felici» o «desiderabili» in se stesse (come se si trattasse di «beni» che bisognerebbe ricercare in sé) ma perché l’una e l’altra permettono di far brillare ancora di più la gloria di Colui che, rivestendola del manto della grazia e delle sue virtù, Cristo, «rende (la sposa) a se stessa»7, ristabilendola nella sua antica bellezza. «Debolezza desiderabile» o «negritudine felice», quindi, ma unicamente perché «dimori in me la potenza di Cristo (2 Cor 12,9)» (Cant 25, § 7), e, di conseguenza, chiamate a manifestare che la Sposa riceve tutta la sua bellezza solo dalla bellezza stessa di Cristo, nella quale, contemporaneamente, è chiamata a ritrovare la sua «stabilità» e a ricuperare il suo splendore primitivo. La bellezza di Cristo-Sposo (cristologia) e la bellezza della Sposa (teologia battesimale) si richiamano vicendevolmente. Orbene, per la precisione, il genio spirituale di san Bernardo consisterà nel dispiegare tutte le implicazioni di questo nesso elaborando una teologia della forma/bellezza centrata su Cristo, che trova la sua sorgente nella theologia crucis paolina (Fil 2,7-8) e che è chiamata a svilupparsi in mistica nuziale di unione a Dio per mezzo della con-formazione a Cristo. Fondata su una sequenza di testi scritturistici richiamati con rara costanza e formulata in modo magistrale fin dal suo trattato sulla Grazia (§ 33), Bernardo non cesserà di tessere questa estetica mistica della Croce salvifica, ma le darà espressione particolarmente compiuta nei § 8 e 9 del Sermone 25 dove, di fatto, l’abate di Clairvaux fa della Croce contemporaneamente il luogo epifanico – ma paradossale8 – della bellezza di Gesù e, insieme, il luogo per eccellenza dell’abbraccio nuziale o dell’unione mistica, perché è qui, nella forma stessa della croce, che la sposa è chiamata a diventare simile/conforme a Cristo e a ricevere da Lui la sua bellezza, per trovarvi la sua gloria. E Bernardo conclude: «[La sposa] non arrossisce della negritudine, perché sa che tale condizione è stata presente anche nello sposo: chi potrà dire quanto è grande la gloria di assomigliare a lui? Ella, dunque, non ritiene nulla di più glorioso per sé che
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portare l’obbrobrio di Cristo. Di qui quella voce di giubilo e di salvezza: “Quanto a me non ci sia altro vanto, che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”; è gradito il disonore della croce a chi non è ingrato nei confronti del Crocifisso. È negritudine, ma è forma e somiglianza del Signore (Cant 25 § 8)». Questa re-formatio dell’anima alla sua antica bellezza per mezzo della con-formatio a immagine di Gesù crocifisso (sposare la forma/bellezza della croce) richiederebbe numerosi sviluppi. Sottolineiamo solo che questo principio spirituale fa chiaramente risaltare che l’etica bernardina è un’estetica cristica della forma crucis, o inversamente, che l’estetica bernardina della Croce non offre altro che un’etica dell’agire umano; che questa è un’etica della forma/bellezza; e, infine, che questa etica estetica della forma è un’etica cristica (cristocentrica) alla quale la Croce dà la sua forma perfetta. Aggiungiamo però che Bernardo non si accontenta di una simile affermazione di principio, ma si preoccupa anche di mostrare ciò che questa etica cristocentrica opera nell’uomo in quanto conformazione, dando così un più preciso contorno alla bellezza che vuole promuovere. A questo punto occorrerebbe riprendere tutta la dottrina del trattato Sulla grazia! Consideriamo solo la formulazione che Bernardo le dà nel Cant 82, § 4, dove sottolinea che l’anima è chiamata, in Cristo e conformandosi a Lui, a ricuperare «l’aspetto della libertà» (species libertatis) che essa ha perso (almeno parzialmente) dal giorno in cui essendosi assoggettata alla «legge del peccato» che regna nella carne (cfr. Rom 7,25), è diventata schiava delle sue passioni e, quindi, simile alle bestie da soma, addossandosi improvvisamente il manto della dissimilitudine e, insieme, una «condizione servile» (forma servilis). Orbene, mediante la Croce è proprio da questa condizione servile che l’uomo viene liberato, per diventare libero rispetto al peccato e rivestire nel Figlio la condizione di figlio adottivo. Parimenti, l’etica bernardina della bellezza, che era già una mistica della conformazione a Cristo per mezzo della Croce, si articola molto strettamente su un’etica della libertà e l’etica mistica sponsale della Croce diventa di conseguenza un’etica mistica della filiazione mediante adozione…
LA PRIMA ARCHITETTURA CISTERCIENSE. ORIGINALITÀ E FUNZIONALITÀ DI UN MODELLO EDILIZIO Xavier Barral i Altet
L’architettura dei monasteri cisterciensi costituisce, nel Medioevo, uno dei più grandi successi dell’applicazione materiale, costruttiva, strutturale, di un modello teorico, di un’idea, di una dottrina spirituale. Tale successo si può spiegare attraverso tre aspetti: innanzitutto, la chiarezza del modello, in particolare della pianta degli edifici, in quanto concetto architettonico che sarà seguito dappertutto in maniera uniforme, malgrado le resistenze locali; in secondo luogo, l’annullamento di ogni decorazione monumentale superflua, frutto della decisione di opporsi formalmente, nella durezza della pietra, agli eccessi e al deprecabile lusso dei Cluniacensi; infine, la messa in atto di un’architettura funzionale, di tipo pre-industriale, innovativa, pienamente integrata in un insieme di edifici dominati dalla basilica di culto. La grande originalità di tutta la prima architettura cisterciense risiede proprio nella sua estrema funzionalità, presente sia negli spazi destinati alla liturgia che in quelli destinati al lavoro quotidiano, all’economia dei monasteri. La prima abbazia di Cîteaux fu fondata a sud di Digione nel 1075 da Roberto di Molesmes. I monaci non si accordarono però sullo stile di vita da seguire e Roberto fondò una nuova abbazia (il cosiddetto Monasterium Novum), sempre a Cîteaux, nel 1098, con i sette monaci che l’avevano seguito. Tale fondazione diede rapidamente un carattere originale a tutta la regione, sia sul piano politico che su quello economico o culturale, e probabilmente anche architettonico. L’anno 1098 è a ragione considerato il vero punto di avvio dell’ordine, che dal luogo dove sorge il primo insediamento prende appunto il nome di “cisterciense”. Il nuovo ordine si distingue per un rigido e tenacemente perseguito ritorno all’osservanza della Regola di san Benedetto.
Ispirandosi alla Regula Magistri, la Regola cisterciense, divisa in 73 capitoli (preceduti da un prologo) nei quali si forniscono consigli sul piano spirituale e si stabiliscono precetti per la vita quotidiana, sancisce infatti la necessità di una vita comune ben organizzata, improntata alla povertà, caratterizzata dal principio di carità tra figli dello stesso Padre, e fondata su tre princìpi fondamentali: il lavoro manuale, la preghiera e la lectio divina, vale a dire la lettura e la meditazione sulla Bibbia. Il lavoro deve permettere la sussistenza dell’insediamento monastico: la regola tende dunque a creare dei monasteri economicamente autarchici. Le abbazie cisterciensi nascono in luoghi per lo più molto isolati, vicini a corsi d’acqua e a foreste, in ambienti naturali propizi alla vita silenziosa dei monaci e al distacco dal mondo. Lontano dalla città, il monastero deve essere completamente autosufficiente, e proprio per questo motivo si pone, quasi paradossalmente, come una sorta di riproduzione in scala ridotta della città stessa, svolgendo, da un punto di vista economico e demografico, un analogo ruolo di produzione di beni e di aggregazione umana. Dalla città il monastero cisterciense si distingue però nettamente per i princìpi rigorosamente spirituali ai quali è improntata la sua stessa costruzione materiale. Non sorprende, allora, in questo contesto, che l’architettura destinata ad ospitare e le preghiere e le attività manuali sia come uno specchio riflettente alcuni ideali irrinunciabili dei Cisterciensi. Nel 1112, l’arrivo a Cîteaux del futuro san Bernardo, insieme con esponenti delle migliori famiglie borgognone (e con un considerevole apporto finanziario), garantisce la perennità di un ordine destinato ad un eclatante successo. Bernardo raccomanda ai monaci di rispettare le tre virtù indispensabili alla comunione con Cristo: l’obbedienza
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1. La navata dell’abbazia di Fontenay.
ferrea all’abate, che rappresenta l’autorità di Cristo sulla terra; l’umiltà, considerata come la Madre e Signora di tutte le virtù; e il silenzio, perché a Dio non si può accedere che nel silenzio. Proprio a partire da questi ineludibili princìpi, nella sua Apologia ad Guillelmum abatem, redatta nel 1125, Bernardo attacca con ferocia e con profonda indignazione il fasto delle chiese, le loro dimensioni, l’inutilità delle loro decorazioni figurative, soprattutto se fantastiche e discordi dalla realtà: «Omitto oratoriorum immensas altitudines, immoderatas longitudines, supervacuas latitudines, sumptuosas depolitiones, curiosas depictiones. […] O vanitas vanitatum, sed non vanior quam insanior! Fulget ecclesia in parietibus, et in pauperibus eget. Suos lapides induit auro, et suos filios nudos deserit. De sumptibus egenorum servitur oculis divitum. Inveniunt curiosi quo delectentur, et non inveniunt miseri quo sustententur. Utquid saltem sanctorum imagines non reveremur, quibus utique ipsum, quod pedibus conculcatur, scatet pavimentum? Saepe spuitur in ore angeli, saepe alicujus sanctorum facies calcibus tunditur transeuntium. Et si non sacris his imaginibus, cur vel non parcitur pulchris coloribus? Cur decoras quod mox foedandum est? cur depingis quod necesse est conculcari? Quid ibi valent venustae formae, ubi pulvere maculantur assiduo?». Quale vanità, dice Bernardo, può aver mai condotto ad innalzare luoghi di culto dalle altezze immense, dalle lunghezze smisurate, dalle larghezze superflue, dagli ornamenti sontuosi e dalle strane pitture? A che serve tutto questo lusso, a che serve rivestire la pietra d’oro se i figli di Dio restano privi di vesti? E soprattutto, a che pro raffigurare i santi e gli angeli su pavimenti destinati ad esser malamente calpestati dai piedi? E perché dipingere le pareti di bei colori se poi la polvere le macchia di continuo? Siamo negli stessi anni nei quali l’abate Suger, pure molto vicino a Bernardo, sta riflettendo intensamente su come poter eseguire gli interventi che lo condurranno alla riedificazione maestosa e ben poco sobria dell’avancorpo occidentale (1137-1140 circa) e del nuovo presbiterio (11401144) della chiesa abbaziale di Saint-Denis. In questi anni è ormai giunto a conclusione anche il cantiere di Clairvaux, voluto dallo stesso Bernardo, sul quale ritornerò di qui ad un momento. Nell’Apologia, però, piuttosto che proporre le linee guida di una nuova architettura, tema che esula del tutto, in effetti, dall’argomento principale del testo, consacrato essenzialmente alla deprecazione della perdita di una retta via da parte di molti uomini di Chiesa
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(con un chiaro riferimento ai Cluniacensi, al loro lusso, alle loro vesti, alle loro ricchissime architetture), Bernardo, con una prosa ridondante e magniloquente, piena di sfumature e di puntuali notazioni estetiche, si limita, se così vogliamo dire, a dichiarare con grande chiarezza tutto quello che un’architettura monastica non deve essere. Eppure, malgrado Bernardo non teorizzi per iscritto i precetti architettonici dei quali abitualmente gli riconosciamo la paternità a partire dall’osservazione materiale delle costruzioni cistercensi, non c’è alcun dubbio che esista davvero una architettura definibile come “cisterciense”, cosa che costituisce un fenomeno piuttosto isolato nel Medioevo, quanto meno fino alla prima metà del Duecento, quando l’avvento degli ordini mendicanti segna il nascere di nuove tipologie architettoniche proprie delle nuove regole. Nell’affrontare il tema dell’architettura cisterciense sarebbe però fuori luogo vedervi una semplice reazione all’arte cluniacense, perché i monasteri cisterciensi mettono in scena una reazione molto più ampia contro l’ostentazione della stessa Chiesa di Roma, dimostrando nella pratica costruttiva il sorgere di nuove istanze spirituali ed insieme, o di conseguenza, di gusto e di scelte architettoniche. Nell’ottica cisterciense, l’eccesso di lusso non può che condurre ad un allontanamento dalla purezza di Dio insegnata dai Padri della Chiesa. È dunque una sorta di ritorno alle origini che spinge san Bernardo, e attraverso di lui l’intero ordine cisterciense, a modificare lo status quo in materia di architettura e di decorazione, perché evidentemente sarebbe impossibile parlare di povertà, perseguire la povertà, vivendo nel lusso. La riflessione sull’utilità delle arti spinge così i Cisterciensi a creare dei luoghi che corrispondano in pieno al loro ideale di semplicità, di povertà e di umiltà, privando le architetture di ogni ornamento sovrabbondante, riducendo le decorazioni al minimo indispensabile, cosa che si può ben constatare nelle sistemazioni liturgiche e architettoniche di complessi come, ad esempio, quello di Alcobaça. Persino gli scultori che lavorano i capitelli delle chiese cistercensi, verosimilmente gli stessi al servizio dei Cluniacensi o di altri committenti molto meno sensibili al richiamo di Bernardo, abbandonano le scene storiche, gli episodi evangelici, le figure mostruose, gli animali, tutti gli innumerevoli riferimenti allo sterminato immaginario medievale che si era dispiegato nelle chiese romaniche dell’intera Europa, e scelgono, o per meglio dire sono invitati a scegliere, un repertorio incredibilmente più sobrio, costituito da soli motivi vegetali e geometrici. Non di rado si osserva che essi attingono anche ai modelli antichi, ritrovando in
2. Il chiostro di Fontenay. Nelle pagine seguenti: 3. Una delle navate laterali di Fontenay. 4. Il gioco della luce in una delle navate laterali di Pontigny. 5. L’alzato a due livelli dell’abbazia di Pontigny. 6. La navata centrale dell’abbazia di Thoronet verso oriente. 7. Una navata laterale del Thoronet. 8. Il chiostro del Thoronet. 9. Il dormitorio dei monaci del Thoronet. 10. La facciata dell’abbazia di Silvacane. 11. L’interno dell’abbazia di Silvacane. 12. Volta a crociera di Silvacane all’incrocio del transetto. 13. La sala capitolare di Silvacane. 14. La sala comune dei monaci a Silvacane. 15. Transetto e navata centrale a Sénanque. 16. L’incrocio del transetto verso la testata a Sénanque. 17. Il chiostro di Sénanque. 18. La sala dei monaci di Sénanque. 19. La navata centrale di Fontfroide. 20. La sala capitolare di Fontfroide. 21. La facciata di Flaran.
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22. Un capitello doppio da Flaran. 23. Il chiostro di Flaran.
Nelle pagine seguenti: 24. La navata centrale di Noirlac verso l’abside.
26. Il refettorio dei monaci di Noirlac con le vetrate di Jean-Pierre Raynaud (1977). 27. Il chiostro di Noirlac.
25. Navatella e navata centrale di Noirlac.
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28. Il dormitorio dei conversi di Noirlac. 29. Alcune piante di monasteri cisterciensi: a. Fontenay; b. Thoronet; c. Silvacane; d. Noirlac; e. Eberbach; f. Fountains. (da B. Schütz, L’Europa dei monasteri, 2004).
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30. La cattedra del lettore, con scala d’accesso, nel refettorio di Alcobaça. 31. La navata centrale di Santa Maria di Poblet.
tal modo la ricchezza di intrecci o di fogliame che avevano caratterizzato la tarda Antichità e l’alto Medioevo. Non solo le sculture architettoniche, ma anche le vetrate, le pitture e i manoscritti vedono ricondurre la loro ornamentazione ad una sostanziale e profonda semplicità che possa prevenire e cancellare ogni deviazione dalla preghiera. La Ferté (1113), Pontigny (1114), Morimond e Clairvaux (1115) costituiscono le prime quattro grandi abbazie dell’ordine, le prime filiazioni da Cîteaux, e da esse si sviluppano le numerose altre che in quel periodo furono fondate in tutto l’Occidente, dal Mediterraneo alla Scandinavia. Le chiese di queste quattro fondazioni si presentano di dimensioni esigue, a sala unica, prive di ogni ornamento: nel loro rigore e nella loro apparente semplicità si mette in luce il grande compito al quale sono chiamate, la testimonianza visiva di una nuova limpida regola di comportamento individuale e sociale. È soprattutto con Clairvaux, però, che assistiamo al vero dispiegarsi della prima visione cisterciense e bernardina. Incaricato dall’abate Stefano Harding di fondare una nuova abbazia, Bernardo cerca prima di tutto il luogo nel quale erigerla, al centro di una vallata alberata ma anche adatta alla coltivazione, vicina naturalmente ad un corso d’acqua, e vi si istalla subito, nel 1115, insieme a dodici monaci e probabilmente a dei conversi, in modo che il complesso monastico sia fin da subito indipendente. Nel 1116 la nuova chiesa, in pietra, è già consacrata, accompagnata dai corpi di fabbrica destinati alle abitazioni, ad essa affiancati e formanti un unico organismo. Dalle fonti posteriori sappiamo che l’edificio destinato allo svolgimento della liturgia aveva pianta quadrata ed era diviso in due strutture quadrangolari concentriche (la più bassa, all’esterno, includeva il corpo centrale come un corridoio). Attraverso due porte simmetriche, a sud si apriva verso la campagna, a nord verso gli edifici monastici: dormitorio, refettorio, cucine, cantina, chiostro, armarium, infermeria, ospizio. Ad ovest era preceduto da un giardino, anch’esso di pianta quadrata. Gli ambienti del monastero si disponevano in perfetta armonia gli uni rispetto agli altri, tenendo sempre presente il principio del modulo quadrato, che a sua volta regolava persino la rete dei canali di approvvigionamento dell’acqua. Lo stesso Bernardo, che, come abbiamo visto, nei suoi testi teorici non sembra mostrare interesse esplicito per la struttura delle costruzioni, interviene invece talora a spiegare chiaramente quanta fatica era stata necessaria per mettere in piedi l’impianto idraulico di Clairvaux. Le parole di Bernardo dimostrano fino a che punto il futuro
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santo fosse a conoscenza delle tecniche utili alla realizzazione di tali sistemi idraulici. Non solo: la chiesa del monastero, con i suoi due cubi innestati l’uno sull’altro, rappresenta di fatto un unicum, un’idea originalissima, funzionale sia all’attuazione della liturgia che all’esplicazione di valori simbolici connessi al modulo quadrato sempre utilizzato secondo una ferrea logica distributiva. Tra il 1130 e il 1135, ed in particolare dopo la morte dell’abate Stefano Harding avvenuta nel 1133 (unico fino a quel momento a poter porre un freno all’imporsi dell’autorità unica di Bernardo sull’ordine), Bernardo abbandona definitivamente la vita contemplativa, divenendo il vero protagonista di questi anni: è a questa nuova fase che corrisponde la nuova ricostruzione di Clairvaux, e a partire da Clairvaux un’attività edilizia in scala monumentale che rivoluzionerà il paesaggio europeo con nuove filiazioni, tutte perfettamente simili al modello voluto da Bernardo per la sua abbazia, tutte omogenee nelle forme e nelle strutture, un fenomeno unico e straordinario. Il primo elemento che caratterizza questi nuovi complessi
Nelle pagine seguenti: 32. Il forno per le tegole della grangia di Commelles.
34. L’edificio del mulino di Fountains. 35. La fucina di Fontenay.
33. La grangia d’acqua di Hautecombe.
monastici cisterciensi è la pianta della chiesa abbaziale: a croce latina, con un corpo longitudinale suddiviso in tre navate, un transetto rettangolare e sporgente, una terminazione orientale rettilinea, vale a dire una testata quadrangolare fiancheggiata da file parallele e simmetriche di cappelle anch’esse quadrangolari. Si tratta della cosiddetta “pianta bernardina”, definizione novecentesca con la quale si attribuisce allo stesso san Bernardo l’ideazione del nuovo modello di chiesa che a partire da Clairvaux si diffonderà in maniera uniforme in decine di altri insediamenti, seguendo il medesimo progetto iniziale. Come è stato giustamente detto da diversi studiosi, il principio unificatore delle piante bernardine non consiste di fatto in un’identità di tracciato, ma nella permanenza del metodo che permette di conseguire tale identità. Alle piante con testata rettangolare e cappelle allineate si contrappongono, in alcuni casi, esempi nei quali la testata è semicircolare e il transetto privo di cappelle. L’area del coro, orientata ad est, può essere talvolta sopraelevata. Quanto all’alzato, di solito è costituito da due livelli, anche se esistono abbaziali cisterciensi che ne presentano uno solo, come Fontenay, o viceversa tre, come Clairvaux III, nella quale troviamo un livello di grandi arcate, un triforio e un cleristorio (nelle chiese femminili l’impianto si semplifica ulteriormente, mancano generalmente le navate laterali e il transetto, e il coro è poco sviluppato). La navata è generalmente coperta con una volta longitudinale, prima a botte poi ogivale, rafforzata dalle volte delle navate laterali. Si svilupperanno in seguito particolarità regionali dovute all’esistenza di tradizioni ed eredità differenti. Comunque, gli elementi essenziali di ciò che costituisce la chiesa cisterciense saranno sempre presenti, a Noirlac come a Eberbach, a Chiaravalle Milanese, a Rievaulx, a Casamari o nell’abbazia delle Tre Fontane a Roma. Tra il 1130 e il 1140 la nuova tipologia si diffonde ovunque in Europa. Si assiste così al sorgere quasi simultaneo di un gruppo di cantieri che mostrano caratteri talmente omogenei che si può pensare di ricondurli ad un unico modello, verosimilmente borgognone, attraverso il quale si diedero ai monaci cisterciensi gli strumenti materiali, tecnici ed intellettuali per riprodurre le forme e le strutture del modello madre, non senza il nascere di saperi locali e individuali. Fontenay, costruita tra il 1139 e il 1147, rappresenta uno degli esempi più celebri di questa prima fase dell’architettura cisterciense. Pur rispettando i princìpi del modello, l’architetto di questa abbazia utilizza due elementi destinati ad avere lunga fortuna: il primo, la luce, ampia, diffusa, uniforme, richiamo neanche tanto celato a Dio, che vi
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si vogliano riconoscere o meno istanze filosofiche; il secondo, la trasformazione originale dell’idea bernardina della sobrietà, dell’assenza figurale, evidente nella particolare decorazione dei capitelli. A partire dalla metà del XII secolo sono ricostruite anche le grandi abbazie madri di Pontigny, Cîteaux, La Ferté, Morimond, tutte secondo il modello ormai canonico di Clairvaux, che da modello bernardino è divenuto di fatto il modello cisterciense tout court. L’arte cisterciense gioca un ruolo niente affatto trascurabile nella nascita e nell’espansione di un’arte gotica monastica. L’abbazia di Fossanova in Italia, ricostruita a partire dal 1163, sembra ispirarsi a Fontenay in Borgogna. Vi si trova una bella conoscenza delle volte ogivali. L’Impero, invece, in questo contesto, non adotta che molto tardi la nuova tipologia di volte. Gli inizi in queste terre sono piuttosto timidi: nel 1170, ad esempio, le volte appaiono a Eberbach, dove si riprende anche la pianta di Fontenay. In generale, i diversi territori cisterciensi dell’Europa fanno rapidamente riferimento ad alcuni elementi del primo gotico, conservando nello stesso tempo le proprie tradizioni locali e soprattutto quelle elaborate nel mondo monastico. Quanto alla chiesa abbaziale di Fontenay, a lungo le si è attribuito un ruolo centrale, di modello architettonico, in particolare in Francia, ma oggi sembra che questo assunto si debba un po’ sfumare. Tra i casi più emblematici di questa prima architettura cisterciense va considerato quello dell’abbazia di Sénanque, costruita ex novo a partire dal 1160 circa fino all’inizio del XIII secolo, in due campagne di lavori: la prima terminata nel 1178, che vide la realizzazione del coro, del transetto e delle cappelle laterali, delle loro volte e del campanile posto sulla crociera del transetto (in questa fase la navata non possedeva che le mura esterne); e una seconda campagna di lavori, che riguardò proprio la navata (si alzarono le mura esterne e si aggiunsero i pilastri e le volte). Alla fine del XIII secolo si eressero gli altri edifici regolari previsti dall’ordine. La chiesa ha però la particolarità di essere orientata non ad est ma a nord, per adattarsi allo stretto terreno disponibile e al fluire dei corsi d’acqua. Di conseguenza anche gli edifici annessi presentano una posizione diversa rispetto alla norma. L’edificio dei monaci si situa nel prolungamento del transetto della chiesa ma a nord del chiostro. L’ala dei conversi chiude il chiostro a sud. Proprio a proposito di questa chiesa, ricordo che Georges Duby, che era provenzale d’adozione, aveva riflettuto a lungo sulle modalità con le quali i monasteri cisterciensi si
erano integrati nel paesaggio provenzale. Lo studioso amava raggiungere Sénanque, «a fatica, dopo aver inciampato nella ghiaia della collina, nella piena aridità di luglio». Come la morale di san Bernardo si era radicata profondamente nella meditazione sull’incarnazione, così Duby vedeva la costruzione cisterciense stabilmente insediata dietro lo schermo di un ambiente selvaggio: «L’opera d’arte che la predicazione bernardina ha fatto nascere prende l’avvio dalla traversata di un deserto, da una prova». L’abbazia di Silvacane sorse invece su un antico monastero fondato nell’XI secolo da monaci dell’abbazia di San Vittore di Marsiglia, che vi costruirono una piccola cappella in onore del loro santo titolare. Nel 1144, o 1145 o 1147, Bertrand de Baux, nipote del fondatore, vi volle l’abbazia cisterciense: in un arco di tempo collocabile tra il 1175 e il 1230, fu innalzata la chiesa; tra il 1250 e il 1300, le gallerie del chiostro. Nel 1358 il monastero fu saccheggiato e fortemente danneggiato. Tuttavia nel 1420-25 i monaci continuarono i lavori e costruirono il refettorio. Durante la battaglia per l’annessione dell’abbaziale, nel corso del XV secolo, i canonici di Aix fecero scolpire le armi del capitolo della cattedrale del Salvatore sulla lunetta del portale centrale della facciata occidentale. Nel 1846, dopo essere stata venduta come bene nazionale, passò allo Stato, cosa che la salvò dalla distruzione: la storia di questa abbazia riassume esemplarmente le vicende moderne di molti siti cisterciensi. A Silvacane, gli edifici si concentrano armoniosamente intorno al chiostro. La chiesa orientata possiede, come quella dell’abbazia di Thoronet, tre campate fiancheggiate da navate laterali divise allo stesso modo e dalle superfici regolari, un grande transetto e un abside a terminazione rettilinea con cappelle laterali. L’ala orientale del chiostro è occupata dalla sala del capitolo, la sala dei monaci e il dormitorio. Il refettorio, proprio come nei chiostri di Thoronet e di Sénanque, è posto a nord. Il metodo messo in atto a Clairvaux e nelle sedi da essa derivate non riguardava però la sola chiesa abbaziale, ma coinvolgeva l’intera struttura del monastero, che si veniva così a porre come una vera e propria città, del tutto indipendente e autonoma rispetto ai veri e propri organismi urbani. L’elemento più originale di queste strutture è che non vi si faceva differenza alcuna tra ciò che era visibile e ciò che non lo era, tra le architetture a vista e quelle nascoste, tra le chiese e gli impianti idraulici (si veda, a titolo esemplificativo, l’organizzazione generale del’abbazia di Fountains). La pianta bernardina, infatti, informava di sé tutta la vita cisterciense, non solo le chiese, ma tutta la struttura del vivere quotidiano, dando una disposizione ri-
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gorosa a ciascun edificio connesso all’insieme del complesso abbaziale. Nello spazio recintato del monastero la chiesa è generalmente posta sul lato settentrionale (più raramente su quello meridionale) del chiostro quadrangolare porticato: intorno al chiostro si dispongono, sul lato opposto a quello dove sorge la chiesa, il calidarium, il refettorio e la cucina. Sul lato occidentale si situa l’ala destinata ai conversi, posta in comunicazione con la chiesa attraverso una porta aperta nell’angolo sud-ovest o nord-ovest del chiostro stesso; sul lato orientale si dispongono il dormitorio dei monaci – una lunga sala rettangolare (dotata di latrine) che i Cisterciensi preferiscono alla divisione in piccole celle individuali –, posta al primo piano del chiostro e che una scala mette in comunicazione con l’adiacente braccio del transetto della chiesa. Al piano terra del chiostro vi sono la sacrestia e la sala capitolare, a loro volta fornite di passaggi che permettano ai monaci di recarsi nei campi. La sala capitolare, dove si legge quotidianamente un capitolo della Regola, commentato dall’abate, è il luogo dove si trattano gli affari dell’abbazia e si attribuiscono a ciascun monaco gli incarichi quotidiani: di solito è un ambiente quadrato o rettangolare, composto da sei o nove campate, con due o quattro colonne centrali finalizzate a sorreggere le volte. Nell’angolo sud-ovest o nord-ovest del chiostro, in corrispondenza della porta che conduce alla chiesa, si trova l’armarium dove i monaci possono lasciare i loro libri prima di entrare nella chiesa. La maggior parte dei monasteri possiede anche dei luoghi espressamente consacrati al lavoro intellettuale, come le biblioteche, analizzate più in dettaglio nel contributo di David N. Bell in questo volume. Il lavoro manuale e la creazione artistica sono associati negli scriptoria, dove si producono i manoscritti, o anche nelle botteghe di pittura e scultura. La struttura del monastero è dunque estremamente limpida e perfettamente corrispondente alle sue funzioni spirituali e materiali: l’abbazia è concepita ruotare intorno al chiostro, che si viene a porre come il vero nucleo fondamentale dell’organizzazione spaziale del monastero cisterciense, con una distribuzione regolare degli spazi destinati alla preghiera (la chiesa), lo studio (la sala capitolare o la biblioteca) e gli impegni materiali (ambienti di servizio e di lavoro), a seconda delle attività previste per i monaci e per i conversi. Botteghe artigiane sorgono in funzione delle diverse esigenze del monastero e ne seguono l’evoluzione. Ma il monastero cisterciense è riuscito soprattutto a promuovere l’industria monastica in grande scala, di frequente all’inter-
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no stesso delle cinte dei monasteri, e a tradurre questa industria in un’architettura di qualità: le forge (Fontenay), i frantoi (La Bussière, Pontigny, Clairvaux) e i birrifici (Villers-la-Ville) nelle regioni agricole e viticole, i forni per le tegole (Commelles di Chaâlis), le cantine (Vaugeot di Cîteaux, Clairvaux, Eberbach), i mulini (Fountains, Maintenay di Valloires) e le grange d’acqua (Hautecombe), i canali (Obazine, Aiguebelle, Royaumont, Maubuisson), le colombaie e i fienili, (Vaulerent e Fourcheret di Chaâlis, Elfingen di Maulbronn, Gaussan, Masse, Maubuisson, Fossanova, Eberbach), gli edifici di gestione o di trasformazione delle derrate, costituiscono le architetture di sussistenza, di sfruttamento agricolo o di metallurgia. Nel prosieguo del volume i molteplici aspetti legati alle diverse attività produttive monastiche sono sviluppati nei contributi di E. Ramirez-Weaver, D. Williams, I. Vona, J. Pérez-Embid, D. Cailleaux. L’attività mineraria e siderurgica cisterciense implica l’impianto di insediamenti di considerevole ampiezza, oggi meglio conosciuti che in passato, ancora visibili a Morimond, a Vauluisant o a Longuay. La bella forgia di Fontenay, situata nel cuore del territorio monastico, trasformava i materiali usciti dalle miniere. Le istallazioni idrauliche, le canalizzazioni monumentali, il suo ambiente naturale favorevole e l’organizzazione di un rigido sistema di sfrutta-
mento fanno dell’abbazia di Fontenay un vero sito pre-industriale medievale. La grangia d’acqua di Hautecombe, in Savoia, rappresenta a sua volta un raro e bell’esempio di queste architetture funzionali della fine del XII secolo. Le imbarcazioni potevano entrare sotto l’imponente volta a botte in modo da depositare direttamente le derrate nel granaio situato al piano superiore. Alla stessa epoca data la cantina di Clairvaux, a due piani divisi in due navate da una fila di pilastri che sorreggono delle volte ogivali. Talvolta questo tipo di costruzioni si trovava lontano dall’abbazia, nonostante che, in linea di principio, luoghi come ad esempio i granai, dove lavoravano i conversi, non dovessero trovarsi a più di una giornata di cammino dal monastero. L’abbazia di Obazine, nel Bas-Limousin, possedeva nel XII secolo almeno ventitré grange specializzate nella coltura, nell’allevamento, e nello sfruttamento delle foreste e delle saline: alcune si trovavano anche molto lontano, fino a Rocamadour a sud o a Meymac a nord, altre erano situate da 100 a 250 chilometri dall’abbazia dalla quale dipendevano. L’architettura dei monasteri cisterciensi è dunque anche il risultato di un sistema economico che traeva profitto dal carattere complementare di molte attività, mettendo in pratica materialmente i precetti teorici dell’ordine all’interno del recinto delle abbazie: un’economia fondata sul
lavoro manuale, lo sfruttamento dei patrimoni fondiari, la continua ricerca del miglioramento delle tecniche, il perfezionamento delle modalità di gestione. Quando si analizza tale architettura, sembra che l’ordine cisterciense abbia costantemente perseguito lo scopo principe di mettere in luce, attraverso le realizzazioni materiali, la propria concezione del mondo. Ciò non significa, inoltre, che, proprio di fronte al successo dell’ordine cisterciense, non si siano verificate delle modificazioni rispetto alla situazione originaria. Non è un caso, infatti, che al progressivo diffondersi dell’ideale cistercense abbia corrisposto anche la volontà, da parte di un certo numero di personaggi di grande potere politico ed economico, di farsi seppellire nei monasteri dell’Ordine. In Catalogna, ad esempio, il pantheon reale fu significativamente trasferito dall’antico complesso benedettino di Ripoll a quello cisterciense di Poblet. L’interesse delle monarchie e delle aristocrazie europee si tradusse di frequente in cospicui donativi finanziari e fondiari. Allo stesso tempo, lo sviluppo delle botteghe, e soprattutto di tutti gli aspetti che riguardavano il lavoro su scala pre-industriale, ha generato un tipo di economia che ha indirizzato verso i monasteri cisterciensi ragguardevoli mezzi finanziari. Tale situazione ha provocato nel tempo una trasformazione anche nell’ambito delle teorie sulla decora-
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zione delle abbazie, che non resisteranno a lungo al desiderio di mettere in mostra la propria ricchezza, tanto che a poco a poco le immagini faranno nuovamente la loro comparsa all’interno delle strutture monastiche, anche se all’inizio non si tratta che di scene animali o di temi piuttosto neutri. A partire dal XIII secolo e soprattutto in seguito, l’ordine conosce in generale un allontanamento dall’ideale cisterciense primitivo, sia sul piano monumentale, sia soprattutto sul piano economico. Le terre fino a quel momento coltivate dai monaci sono affidate a personaggi esterni al monastero incaricati di gestirle secondo diversi sistemi di dipendenza, mentre vengono stipulati contratti di allevamento con i coloni. A Grandselve, ad esempio, già alla fine del XII secolo si osserva il passaggio da un’economia di sussistenza ad un’economia di speculazione intensiva, ottenuta attraverso lo sviluppo di produzioni adatte ai terreni, come il vino, i cereali o la lana, e la loro commercializzazione e esportazione, cosa che si accompagna, in questi insediamenti, ad un’intensa attività architettonica. Comunque è importante sottolineare che l’ordine cisterciense ha promosso un modello architettonico che, in piena epoca romanica, ha trascritto nella pietra una specifica ideologia – un modello che presto scivola verso forme che annunciano il gotico, come si verifica nel sistema delle vol-
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te –, perfettamente adeguata alla sobrietà delle strutture cistercensi. Al di là della pianta complessiva dell’edificio, la caratteristica che definisce l’architettura religiosa cisterciense riguarda soprattutto la particolare struttura della testata ad absidi rettangolari a fondo piatto. Alla stessa maniera, il rifiuto delle immagini che caratterizza le costruzioni cisterciensi non rivela arcaismi: il repertorio vegetale utilizzato si adatta molto rapidamente allo stile in voga e alla delicatezza dei modelli gotici. L’austerità della prima architettura cisterciense e l’apparente semplicità dei suoi mezzi corrispondono ad un ideale di minimalismo architettonico che mi sembra tutto sommato paragonabile a quello al quale si è assistito, in diversi momenti del XX secolo, in contrapposizione alle tendenze barocchizzanti. Per questo motivo, i teorici del minimalismo contemporaneo hanno da sempre rivendicato come modello ideologico e funzionale la scelta rigorosa e austera di alcuni dei
principali complessi abbaziali cisterciensi, come ad esempio, quello di Le Thoronet. Ma nell’analizzare il modello cisterciense e il suo apporto alla vita comunitaria medievale non possiamo esimerci dal prendere in esame le architetture d’uso e di sfruttamento erette dai Cisterciensi, riprendendo in effetti la tradizione antica, romana, nella quale l’estetica monumentale era indispensabile per accompagnare i progressi tecnici. L’assunto che lavorare nella bellezza sia più gratificante che farlo nella bruttezza, e l’idea che la piacevolezza del monumento possa condurre ad una maggiore redditività del lavoro appartengono senza dubbio ai Cisterciensi, quanto meno nel periodo medievale. Se le costruzioni cistercensi costituiscono la proiezione nella pietra del sogno bernardino di perfezione morale, questo non sarebbe stato possibile senza il successo del sistema economico che accompagnò di pari passo il nuovo modello edilizio.
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SAN BERNARDO COSTRUTTORE? IL PROBLEMA DELLA “PIANTA BERNARDINA” Roberto Cassanelli
Nell’ambito degli studi sull’architettura cisterciense delle origini, la nozione di «pianta bernardina» è relativamente recente, non risalendo a oltre la metà del secolo scorso. Nella grande e tuttora fondamentale sintesi pubblicata da Marcel Aubert, coadiuvato dalla marchesa de Maillé, negli anni cruciali della seconda guerra mondiale, si accenna piuttosto timidamente a una possibile implicazione di san Bernardo come ispiratore della soluzione architettonica della testata absidale che da lui avrebbe tratto il nome (cappella maggiore a terminazione rettilinea, affiancata da analoghe cappelle minori), clamorosamente esemplificata dall’abbazia di Fontenay, ma si osserva anche come il tipo sia già presente in precedenti edifici romanici dell’area borgognona1. Gli anni dell’immediato dopoguerra marcano una significativa ripresa degli studi sull’argomento, anche grazie alle campagne di scavi archeologici connesse ai restauri resi necessari dalle distruzioni belliche. Nel 1951 un nutrito gruppo di studiosi di architettura medievale attivi in entrambe le sponde del Reno (Henri-Paul Eydoux, Anselme Dimier, Karl Heinz Esser, Elie Lambert) prendono parte con relazioni di argomento specificatamente cisterciense alla giornata di studi franco-tedesca di Magonza incentrata sull’architettura monastica2. Due anni dopo, nel convegno organizzato a Digione in occasione degli ottocento anni dalla morte di san Bernardo3, Karl Heinz Esser espone i risultati degli scavi condotti nell’abbazia di Himmerod (Salmtal/Eifel), filiazione di Clairvaux. Della chiesa abbaziale, consacrata nel 1178 e parzialmente superstite in redazione barocca, si ignorava l’impianto originario; si sapeva però che alla sua costruzione, iniziata nel 1138, aveva preso parte l’architetto Achard, inviato da Bernardo, e forse il santo stesso. Il tracciato ricostruibile della testata absidale indica-
va una soluzione a terminazione rettilinea con cappelle laterali. Esser, che intanto poteva comparativamente avvalersi del Recueil di planimetrie predisposto da Anselme Dimier4, considerando la relativa diffusione del tipo nelle filiazioni di Clairvaux, ritiene che questo rifletta non tanto (come si era sino a quel momento creduto) un indirizzo generale dell’ordine, quanto piuttosto un orientamento specifico impresso dal santo, di cui ipotizza l’intervento diretto nell’elaborazione e nell’adozione del tipo architettonico, per tale ragione definito appunto bernhardinischer Grundtypus o “pianta bernardina”5. Sulla stessa lunghezza d’onda, e in sostanziale contemporaneità, si muove anche Henri Paul Eydoux6. Nella suggestiva costruzione storiografica pesa a tutta evidenza la contemporanea esperienza razionalista, e il tentativo di riconoscere con proiezione retrospettiva in Bernardo (che peraltro nei suoi scritti tratta solo di sfuggita questioni architettoniche) più che un Bauherr, come altri celebri abati contemporanei, un architetto progettista, una sorta di Le Corbusier del Medioevo, e parallelamente nel “tipo bernardino” l’applicazione di uno schema lucidamente razionale affine al modulor7. In questa specifica direzione si è mosso in particolare Hanno Hahn (1957), indagando le proporzioni che governano l’abbazia di Eberbach (Eltville am Rhein, Assia), prima abbazia fondata sulla sponda est del Reno da san Bernardo nel 11368. Proposta con cautela, come ipotesi critica da sottoporre a verifica, anche per la scarsità dei dati documentari disponibili, la suggestiva formula, che mira a cristallizzare nella figura di Bernardo l’intera esperienza artistica cisterciense, ha esercitato una notevole suggestione su parte della critica; impiegata in sintesi rivolte al largo pubblico9, è stata sfruttata, con deformante, parossistica amplificazione da Angiola
SAN BERNARDO COSTRUTTORE? 75
1. Clairvaux, ricostruzione ideale della prima fase.
3. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 19093, Taccuino di Villard de Honnecourt, fo. 28.
2. Eberbach (Germania), segni di riconoscimento apposti dai lapicidi sui blocchi di pietra (da Hahn 1957).
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Maria Romanini e dalla scuola da lei animata all’università di Roma tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento10. Altrettanto rapido è stato il suo declino negli anni immediatamente successivi, isolata nel limbo delle idées reçues da ridiscutere radicalmente11. Che le chiese cisterciensi fossero costruite sulla base di uno schema modulare, di un modulo per la precisione «ad quadratum», la cui applicazione le distingueva nettamente dagli altri edifici religiosi, è stato avvertito con chiarezza già dai contemporanei. Nel suo taccuino (1230-36) Villard de Honnecourt accosta una schematica pianta cisterciense al coro della cattedrale di Cambrai, commentando «vesci une glize d’esquaire, ki fu esgardee a faire en l’ordene de cistiaus» (ecco una chiesa di schema quadrato che si pensò di fare per l’ordine cisterciense)12. E la cosa ha sempre trovato un’esplicazione logica. Innovando significativamente la plurisecolare tradizione monastica, i Cisterciensi delle origini dovettero da subito provvedere in modo autonomo all’edificazione dei propri insediamenti, in zone impervie, lontane dai centri abitati, sotto la spinta propulsiva dell’impetuosa ramificazione delle filiazioni, ritrovando o creando all’interno delle – almeno inizialmente esigue – comunità di religiosi e conversi le competenze necessarie. Le pochissime informazioni disponibili al proposito complicano lo studio delle prime abbazie13, ulteriormente aggravato dalla scomparsa delle fasi iniziali di Cîteaux e Clairvaux. La scarsità di documenti e il si-
lenzio al proposito della Regola benedettina, alla quale i Cisterciensi intendevano attenersi con rigore, rendono preziosi i pochi elementi estraibili dalle deliberazioni dei Capitoli generali dell’Ordine, che non contribuiscono comunque a formare una struttura normativa di riferimento14. Nella fase aurorale dell’Ordine le chiese abbaziali erano semplici oratori, privi di decorazione scolpita o dipinta, ad eccezione di un crocifisso ligneo posto al disopra dell’altare maggiore, a indicare, come scrive Aelredo di Rievaulx, le sofferenze che il monaco era chiamato a imitare e la consolazione che ne sarebbe derivata. Non erano di norma aperte ai laici, non ospitavano reliquie e non vi si svolgevano processioni. Già con il terzo-quarto decennio del XII secolo si pose il problema della loro ricostruzione per il rapido accrescimento delle comunità. Gli abusi sono stigmatizzati dai Capitoli generali («sculpturae vel picturae in ecclesiis nostris seu in officinis aliquibus monasterii ne fiant […]. Cruces tamen pictas sunt lignae habemus»)15. Più tarde (degli inizi del XIII sec.) sono le limitazioni concernenti i pavimenti, anticipate dall’invettiva di san Bernardo nell’Apologia, lettera indirizzata a Guglielmo di Saint-Thierry. Il rigorismo cisterciense, l’aspirazione cioè a una semplicità assoluta che distinguesse il nuovo ordine dalla tradizione benedettina, in particolare quella cluniacense (ma anche dalle esperienze dei grandi vescovi costruttori), impronta di sé tutto l’edificio sacro, almeno nei primi eroici decenni, e trova nel testo bernardino la sua più compiuta argomentazio3
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4. a. Maulbronn, testata absidale (in nero la fase più antica). b. Himmerod, prima fase con indicazione dei ritrovamenti in scavo. c. Fontenay, planimetria. d. Fontenay, sezione del corpo longitudinale verso est. (da Hahn 1957)
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ne. Considerata come una sorta di manifesto dell’estetica cisterciense, la lettera è però in primo luogo un’alta testimonianza di spiritualità16. La produzione artistica di questa fase iniziale appare dunque – per ripetere una formula di Hélène Toubert – fortemente «dirigé»17. È una tensione che con i decenni si attenua, così come il rifiuto delle figurazioni. Nel Reiner Musterbuch, libro di modelli degli inizi del XIII secolo proveniente dall’abbazia austriaca di Rein presso Graz (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Vindob. 507), accanto a motivi a intreccio per vetrate e pavimenti, e palmette stilizzate per capitelli e modanature architettoniche, compaiono molte scene figurate (raffigurazioni degli animali del Physiologus, immagini astronomiche, scene di vita quotidiana). Dal 1135 viene ricostruita Clairvaux, e la nuova chiesa abbaziale (completata nel 1174), lunga oltre 100 metri e inte-
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ramente voltata, non conserva più nulla dell’antica essenzialità. Benché poco si conosca di Clairvaux II, si è generalmente supposto che la testata prevedesse un’abside rettilinea affiancata a nord e a sud da due analoghe cappelle. La soluzione è adottata poco dopo a Fontenay (1139-47) e in numerose abbazie cisterciensi della seconda metà del XII secolo (circa settanta, senza distinzione di filiazione). Una tale soluzione fu forse ispirata da san Bernardo? Da giovane aveva studiato a Saint-Vorles (Châtillon-sur-Seine), edificio che avrebbe forse contribuito ad orientare in modo decisivo il suo gusto architettonico. Ma si tratta di un’ipotesi difficilmente verificabile. Resta il fatto che il primo oratorio del monasterium vetus di Clairvaux era formato in pianta da due quadrati iscritti, e potrebbe effettivamente aver costituito una matrice alla quale si intese rimanere fedeli, una “misura” che univa semplicità e razionalità costruttiva, ricollegandosi alle proprie radici spirituali18.
Anche se è nozione diffusa che l’irradiarsi dell’ordine cisterciense in Italia coincida sostanzialmente con l’azione incisiva di san Bernardo, marcata dalla cadenzata, incalzante sequenza dei tre viaggi – in realtà vere e proprie missioni compiute al servizio del papato (1135-38), quando presso Milano sorge Chiaravalle, prima figlia di Clairvaux in Italia, sono già quattro le abbazie cisterciensi fondate tra Piemonte e Liguria. Il fenomeno – particolarmente rilevante, in quanto segna il primo approdo dell’ordine al di fuori dei confini francesi – era stato avviato da La Ferté, la prima filiazione di Cîteaux, con l’invio un quindicennio prima di un piccolo gruppo di monaci a Tiglieto (Campo Ligure) in diocesi di Acqui. La fondazione, favorita (come poi avverrà di norma) da potentati locali, ebbe rapido successo e fu seguita pochi anni dopo da Staffarda (1135) e Santa Maria di Casanova presso Carmagnola (1142). Sempre a La Ferté (ed è cosa eccezionale, se si considera che questa diede vita nel complesso a sole diciassette filiazioni) si deve la fondazione di Lucedio (1123) in diocesi di Vercelli. Nel 1131 è invece Cîteaux a inviare propri monaci a Sant’Andrea di Sestri (Genova) sostituendo la preesistente comunità benedettina, mentre Morimond dà vita nel 1134 all’omonima filiazione a sud di Milano, presso il corso del Ticino. I viaggi italiani di Bernardo furono in ogni caso determinanti per promuovere e incrementare le fondazioni cisterciensi, soprattutto quelle di Clairvaux, la cui prima filiazione, Chiaravalle Milanese (1135), legata al clima emotivo creato dalla presenza del santo in città, fu seguita a breve distanza di tempo da Chiaravalle della Colomba (Alseno) per iniziativa del vescovo di Piacenza. Il terzo viaggio coincise con l’espansione dell’ordine in Italia centrale, soprattutto nel Lazio (Fossanova, Casamari) e nella stessa Roma,
dove nel 1140 papa Innocenzo II, in riconoscimento della difesa dell’autorità pontificia da parte del santo, fece dono all’ordine del monastero dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane. Si trattò di un passo decisivo, al quale fece seguito l’invio nel 1143 da parte di Pontigny, seconda filiazione di Cîteaux, di monaci a Santa Maria di Falleri e a San Martino al Cimino. Alla morte del santo (1153) la linea chiaravallense poteva contare già tredici abbazie in Italia. Neppure le isole, sebbene marginalmente, sfuggirono a queste puntuale disseminazione. Nel 1148 venne fondata in Sardegna Cabuabbas, su richiesta del giudice Gonario II di Torres, che aveva conosciuto personalmente Bernardo nel concilio di Pisa, mentre in Sicilia il fenomeno, lievemente più tardivo, fu reso possibile dall’appoggio della monarchia normanna. Il ventennio 1130-50 corrisponde alla fase più esplosivamente espansiva dell’ordine, in relazione soprattutto alla figura carismatica di Bernardo: sono gli anni della ricostruzione di Clairvaux e della diffusione – attraverso soprattutto le sue filiazioni, anche se non in modo esclusivo – della cosiddetta “pianta bernardina” in una serie di edifici che presentano caratteristiche comuni, come la pianta a tre navate e il blocco coro (con cappelle allineate)-transetto a terminazione rettilinea. A partire dalla metà del Novecento si è fortemente enfatizzato il presunto contributo diretto, personale, di Bernardo a un tale assetto, che da lui trae appunto il nome. È un dato però da calibrare con maggiore attenzione e da temperare: in effetti si tratta di uno schema riconosciuto come proprio dell’ordine cisterciense già dai contemporanei, come testimoniano i disegni e le annotazioni di Villard de Honnecourt nel proprio taccuino (Parigi, Bibliothéque Nationale), la cui connessione con la figura di Bernardo è stata avanzata in via
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1. Carta distributiva dei primi insediamenti cisterciensi in Italia (da Fraccaro de’ Longhi 1958).
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2. a. Casamari (Veroli, Frosinone), monastero.
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b. Cerreto (Lodi), chiesa abbaziale. c. Chiaravalle della Colomba (Alseno, Fiorenzuola d’Arda), chiesa abbaziale. 1
d. Rivalta Scrivia (Tortona, Alessandria), chiesa abbaziale. e. Paradigna (Parma), abbazia di S. Martino de’ Bocci in Valserena. f. Veroli (Frosinone), abbazia di Casamari.
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congetturale e ipotetica, in assenza di evidenze decisive. Come nelle strategie insediative risulta decisiva la triangolazione tra ordine, gerarchie ecclesiastiche (in particolare i vescovi) e signori locali, così nella valutazione delle tracce architettoniche e materiali dei primi monasteri e delle chiese abbaziali non è possibile prescindere dal nodo critico costituito dal rapporto tra la cultura di origine delle comu-
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nità monastica (quella del pieno romanico borgognone), le esigenze di essenzialità e razionalità modulare proprie dell’ordine e le diverse tradizioni costruttive locali con le quali queste vennero di volta in volta ibridate. È dalla tensione tra questi tre fuochi e dalle forme meticce che ne discendono che scaturisce la cifra più originale dell’esperienza cisterciense in Italia.
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3. a. Priverno (Latina), abbazia di Fossanova. b. S. Martino al Cimino (Viterbo), sezione longitudinale e, sotto, planimetria dell’abbazia. c. Priverno (Latina), abbazia di Fossanova, planimetria della chiesa abbaziale.
4. Staffarda (Cuneo), complesso abbaziale.
d. Sermoneta (Latina), abbazia di Valvisciolo, sala capitolare (da Enlart). e. Cabuabbas (Bosa), abbazia di S. Maria in Corte.
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Alle pagine seguenti: 5. Staffarda, chiesa abbaziale, interno. 6. Staffarda, chiostro. 7. Staffarda, foresteria.
8. Chiaravalle Milanese (Milano), abbazia. 9. Chiaravalle Milanese, chiesa abbaziale, veduta dell’interno verso la controfacciata. 10. Chiaravalle Milanese, chiesa abbaziale, cupola del tiburio.
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11. Chiaravalle Milanese, chiostro. 12. San Galgano (Siena), rotonda di Montesiepi. Alle pagine seguenti: 13. San Galgano (Siena), chiesa abbaziale. 14. San Martino al Cimino (Viterbo), interno della chiesa abbaziale.
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15. Civita Castellana (Roma), abbazia di S. Maria di Falleri, testata absidale. absidale.
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16. S. Maria di Falleri, interno della chiesa abbaziale. Alle pagine seguenti: 17. Priverno (Latina), abbazia di Fossanova, facciata. 18. Fossanova, sala capitolare e particolare della copertura a volte costolonate.
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19. Veroli (Frosinone), abbazia di Casamari.
20. Casamari, interno della chiesa abbaziale.
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Alle pagine seguenti: 21. Fiastra, atrio e portale della chiesa abbaziale. 22. Chiaravalle di Fiastra (Macerata), chiesa abbaziale, particolare del sistema dei sostegni. 23. Fiastra, refettorio. 24. Fiastra, particolare della fascia capitellare del portale della chiesa abbaziale.
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Morimondo Il 12 ottobre 1134 un gruppo di monaci cisterciensi provenienti dall’abbazia di Morimond, quarta “figlia” di Cîteaux in diocesi di Langres, si insedia in una località definita nei documenti «grangia Coronatae», a circa trenta chilometri a sud-ovest di Milano; due anni dopo, l’11 novembre 1136, la comunità si trasferisce in località «campo Falcherio», su di un terrazzamento a breve distanza dalla sponda destra del Ticino, che diverrà la sua sede definitiva. Qui erano stati predisposti evidentemente i primi edifici monastici. Nell’iscrizione apposta sulla facciata della chiesa abbaziale nel 1650 dall’abate Antonio Libanorio sono tramandati (non si sa con quale fondamento storico) i nomi dei due maggiorenti milanesi che, «S. Bernardi suasu», avrebbero favorito la venuta dei monaci dalla Borgogna «prope Ticinum», i fratelli Maginfredus e Bennonus de Ozeno. In realtà non vi è alcun nesso dimostrabile tra la nuova fondazione e la presenza del santo a Milano (1135), che promuoverà invece, come filiazione di Clairvaux, Chiaravalle Milanese. Una annotazione letta da Giulio Porro (1881) in un calendario proveniente dalla biblioteca abbaziale conferma la cronologia, definendo «grangia» anche il nuovo insediamento («que vocatur Morimundus»), a rimarcarne la fondamentale destinazione agricola e produttiva. Nel 1171 papa Alessandro III conferma la regola cisterciense nel monastero, e nel 1179 lo accoglie sotto la sua protezione. L’abbazia è contemporaneamente nell’orbita del favore imperiale, in particolare di Federico Barbarossa, che nel 1174 dona molte terre che le assicurano notevole prosperità. Coinvolta nelle lotte tra Milano e Pavia, è ripetutamente saccheggiata dai pavesi. Nel 1484 è trasfor-
mata in commenda, e nel 1561 deve cedere i vasti possedimenti all’Ospedale Maggiore di Milano. Nel 1799 il monastero è soppresso e la chiesa mutata in parrocchia. Negli ultimi decenni il complesso è stato sottoposto a un incisivo intervento di restauro che ha consolidato le strutture e restituito loro leggibilità. La data d’avvio della costruzione della chiesa abbaziale è controversa, anche a causa della perdita delle iscrizioni che ne conservavano memoria (trasmessaci dall’erudizione seicentesca). Una prima iscrizione (trascritta da Antonio Puccinelli) ne fissa l’inizio nel 1182 e la conclusione nel 1296; altre due (lette da Giovan Pietro Puricelli) concordano con la data di fine lavori, posticipandone però l’inizio al 1186. Negli stessi anni si accende un’aspra lite tra l’abbazia e la parrocchia di Sant’Ambrogio (dipendente dalla pieve di Casorate) per il possesso del terreno sul quale si stava edificando il nuovo edificio (nel 1199, chiedendo la demolizione di quanto sino a quel momento costruito, il parroco di Casorate vi si riferiva come «nova ecclesia»). Il contrasto venne risolto da papa Innocenzo III nel 1200 a favore dei Cisterciensi. Resta il fatto che per oltre sessant’anni dovette restare in funzione una «vetus ecclesia», certamente il primo, semplice oratorio delle origini, di cui si ignorano ubicazione e struttura. Indipendentemente dalle controversie, le campagne edilizie si susseguirono per circa un secolo, un lasso di tempo particolarmente lungo per una chiesa monastica, con fasi di cantiere che si sono impresse nelle strutture, nei disassamenti e nei dettagli decorativi. A. Kingsley Porter (1915-17) ha proposto di individuare quattro tappe fondamentali: 1) 1186-1197 (anno nel quale è intimata la sospensione dei lavori): costruzione di coro, transetto e prime quattro campate; 2)
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Alle pagine precedenti: 1. Santa Maria Arabona (Manoppello, Pescara), interno della chiesa abbaziale.
2. Morimondo (Milano), abbazia, facciata.
4. Morimondo (Milano), Prospetto est delle costruzioni monastiche.
3. Planimetria del complesso monastico.
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1200 ca. (conclusione della lite a vantaggio dei monaci): due ulteriori campate; 3) ante 1237 (saccheggio e incendio del monastero da parte dei pavesi): completamento del corpo longitudinale; 4) 1269: facciata. L’edificio, interamente in laterizio, è di ampie proporzioni (60 m circa di lunghezza per 13 di larghezza) e presenta uno sviluppo basilicale, con ampia nave maggiore e due minori laterali, corto transetto e coro “bernardino” con testata rettilinea e cappelle simmetriche laterali. Il sistema continuo dei sostegni individua al centro campate rettangolari oblunghe voltate a crociera costolonata ogivale cui corrispondono ai lati due campatelle ugualmente rettangolari. I sostegni hanno forme variate, che si corrispondono simmetricamente, e che suggeriscono specializzazioni funzionali degli spazi oggi non più apprezzabili: i
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primi due ad ovest sono pilastri compositi, con quattro colonnette alternate a riseghe; seguono quattro coppie di pilastri cilindrici poggianti su un alto zoccolo bianco e coronati in alto da una cornice a beccatelli sormontata da un cordone torico anch’esso in pietra bianca; chiudono la sequenza due pilastri ottagoni pure montati su alto zoccolo, che marcherebbero il confine (ipotizzato dalla Fraccaro De Longhi) tra il corpo longitudinale e il limite occidentale del coro monastico, che occupava le due successive campate (con pilastri privi di zoccolo sporgente) sino all’incrocio col transetto. Le cornici dei pilastri raccolgono fasci di colonnette (con fasce capitellari fogliate che riprendono il contrappunto cromatico dell’alternanza pietra-mattone) su cui ricadono i profili degli arconi trasversi, i costoloni delle volte archiacute e gli arconi incastrati delle pareti longitudinali. Il transetto, poco sporgente, è coperto da un’unica volta costolonata, così come la crociera d’incontro, sormontata da torretta ottagonale. Su ciascun braccio si aprono due cappelle, rimaneggiate in età barocca; le due più interne conservano l’originaria copertura a botte archiacuta. Il coro, formato da un’unica ampia campata voltata a crociera ogivale, è limitato da una parete rettilinea incisa da tre finestre (come a Silvanès) e ospita ora il coro ligneo realizzato nel 1522 da Giacomo da Abbiategrasso, con figurazioni di santi cisterciensi. La facciata (di restauro), pure in mattoni a vista , è “a vento”, ed è coronata da bacini ceramici. Nella parte inferiore presenta arconi che suggeriscono la presenza di un portico
oggi scomparso. Le incongruenze nella dislocazione delle numerose aperture lasciano peraltro intravvedere una gestazione lunga e contraddittoria. Tutta la struttura è caratterizzata dall’intreccio di componenti d’oltralpe (in particolare borgognone) e tradizioni locali (come l’utilizzo del mattone faccia a vista) e soprattutto di elementi culturali di un romanico maturo e di un gotico incipiente. Le strutture del chiostro si impostano lungo il lato meridionale, cui fanno seguito, assecondando l’orografia del luogo che digrada per terrazzamenti verso il fiume, le altre fabbriche monastiche. Del chiostro originario sussiste solo il lato nord, aderente alla chiesa; gli altri sono stati rifatti in seguito, mentre una parte dell’area è stata alienata dopo la soppressione. Vi si aprono due portali che immettono nel transetto (per i monaci) e nella seconda campata della chiesa (per i conversi). Tra gli ambienti monastici superstiti emerge in particolare la sala capitolare, illuminata da due ampie trifore, con sostegni polistili centrali.
Chiaravalle della Colomba Anche se la fondazione dell’abbazia di Chiaravalle della Colomba (Alseno, Fiorenzuola d’Arda) non può essere ragionevolmente disgiunta dal secondo viaggio di san Bernardo in Italia (1135), e collocata quindi tra il 1135 e i primi mesi del 1136, l’intricata situazione documentaria
lascia sulla vicenda ancora alcuni margini di dubbio. Un’epigrafe scomparsa, ma trascritta nel XVIII secolo da F. Ughelli, fissava la data di inizio del cenobio nel 1135. In un documento del 5 aprile 1136, alla presenza del vescovo di Piacenza Arduino, i piacentini fissavano il prezzo dei terreni da cedere al monastero, che risulta già precisamente denominato e ubicato in una località a breve distanza dal tracciato della via Emilia («decretum dare monasterio Clarevallis, sito in curia Basilicae ducis in loco qui dicitur sanctus Michaelis»). Qualche giorno prima il marchese Oberto Pallavicino aveva donato alcuni terreni affinché vi venissero edificati gli ambienti monastici, affidando l’atto al monaco Adelardo, procuratore del monastero. L’11 aprile dello stesso anno (ma la datazione è discussa e potrebbe essere posticipata di un anno) il vescovo esentava il monastero dalle decime e vietava di costruire entro le terre di sua proprietà. Bernardo si era recato a Piacenza nell’autunno del 1135 per chiedere la liberazione di alcuni prigionieri milanesi; è possibile che nell’occasione il vescovo Arduino (che era stato monaco benedettino) gli avesse proposto di inviare un gruppo di monaci (sull’esempio di quanto fatto a Chiaravalle Milanese) nella sua diocesi, e che il santo avesse acconsentito dando rapidamente seguito all’impegno. In ogni caso il monastero di Santa Maria della Colomba è attestato già nel 1136. La ragione della dedicazione (da cui si è sviluppata una leggenda che ha attribuito a una colomba la delimitazione del perimetro del monastero) va rintrac-
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5. Alseno (Fiorenzuola d’Arda), abbazia di S. Maria della Colomba, facciata della chiesa abbaziale durante i lavori di restauro della fine dell’Ottocento.
menda, fu soppresso una prima volta nel 1768 e definitivamente nel 1810. La chiesa, trasformata in parrocchia, è attualmente retta da monaci cisterciensi.
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ciata nella devozione cisterciense alla Vergine, e in particolare al mistero dell’Incarnazione attraverso lo Spirito Santo. Il primo abate, Giovanni, poi vescovo di Piacenza, venne nominato direttamente da Bernardo nel 1137 (anno del riconoscimento ufficiale da parte di papa Innocenzo II). La nuova abbazia attrasse da subito importanti donazioni e dette a sua volta vita a cinque “figlie” (di cui la prima, Fontevivo, già nel 1142). Sfruttando i materiali disponibili in loco, gli edifici monastici vennero presto edificati in laterizio; in documenti della seconda metà del XIII secolo sono descritti numerosi ambienti secondo le rispettive specializzazioni. Il monastero e i suoi possedimenti furono gravemente danneggiati, nel corso delle guerre di Lombardia, dalle truppe di Federico II (1248). Trasformata nel 1444 in com-
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Non vi sono evidenze documentarie che consentano di scandire le tappe costruttive del complesso architettonico, che ha vissuto comunque fasi diverse culminate nei grandi lavori di restauro tra il 1893 e il 1925 animati da monsignor Guglielmo Bertuzzi. La chiesa manifesta con chiarezza un impianto cisterciense affine a quello di Fontenay, e convenzionalmente definito “bernardino”. Ha andamento basilicale, con navata maggiore e laterali in rapporto 1:2, e ampio transetto, sui cui bracci si innestano tre cappelle per parte con terminazione rettilinea, così come l’ampia cappella maggiore. Il corpo longitudinale è articolato in quattro campate coperte da volte a crociera costolonata ad andamento cupoliforme (nelle minori le crociere sono semplici), delimitate da sostegni a ritmo alternato (pilastri forti polistili e deboli quadrilobi) e semicolonne pensili, di rafforzo delle voltine laterali. La decorazione dei capitelli è abbastanza omogenea, con variazioni sul tema del capitello cubico scantonato, e repertorio vegetale semplificato. Il braccio nord del transetto è frazionato in tre campate voltate a crociera, come quella d’incontro (ricostruita), mentre nel braccio sud, in cui è innestata la scala di salita al dormitorio, a una prima campata di raccordo coperta a crociera è accostata una di dimensioni doppie con volta a botte ad arco spezzato. È certamente questa una delle parti più antiche della fabbrica, da porre in diretta connessione con la fondazione. La costruzione, iniziata da est, procedette verso la facciata con una seconda campagna di lavori, collocabile nella seconda metà del XII secolo. La facciata, tripartita, presenta un profondo portico che ripete la scansione a salienti. Sul lato sud della chiesa si imposta il grande chiostro con gli ambienti destinati alle attività del cenobio. Si tratta di uno dei più grandi e meglio conservati chiostri cisterciensi italiani. I bracci, coperti da volte a crociera, sono incisi da arcatelle archiacute rette da colonnine binate, raggruppate in serie di quattro, con colonne ofide agli angoli. Nella ricca serie di mensole che ricevono a parete le ricadute dei costoloni si manifesta una variata tipologia di decorazione vegetale e figurata, a marcare il rapido superamento dei divieti originari dell’ordine, che comprende anche due telamoni scolpiti, strettamente collegati alla tradizione plastica piacentina della seconda metà del XII secolo. E tale superamento è ribadito dal complesso ciclo dipinto del XIV secolo rivelato dai restauri nella sagrestia.
L’ARCHITETTURA DELL’ABBAZIA CISTERCIENSE DEI SANTI VINCENZO E ANASTASIO ALLE TRE FONTANE Joan Barclay Lloyd
L’abbazia dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane è situata sulla Via Laurentina, 14 chilometri a sud delle mura aureliane di Roma. Nel Medioevo questa località era sufficientemente lontana da altre abitazioni da renderla adatta a una fondazione cisterciense. In questo luogo vi sono tre chiese (figg. 1 e 2): San Paolo alle Tre Fontane, ricostruita nel 1599 da Giacomo della Porta, è situata nel luogo del martirio di san Paolo ad Aquas Salvias; Santa Maria Scala Coeli, ricostruita dallo stesso architetto nel 1582-84, è collegata a san Zenone e ai 10.203 martiri romani, mentre il suo nome deriva dalla visione di anime che salivano al cielo su una scala, avuta da san Bernardo di Clairvaux (1090-1153) mentre vi celebrava la Messa. Vi è infine la chiesa medievale cisterciense oggi conosciuta come Santi Vincenzo e Anastasio ma originariamente dedicata solo a sant’Anastasio di Persia. A partire dal VII secolo, monaci orientali provenienti dalla Cilicia vivevano alle Tre Fontane. Quando il fuoco distrusse la loro chiesa, papa Adriano I (772-795) la ricostruì. Nell’XI secolo il monastero era una cella dell’abbazia benedettina di San Paolo fuori le Mura, ma era inutilizzata nel periodo fra il 1138 e il 1140 quando papa Innocenzo II (1130-1143) la offrì a san Bernardo per fondare un’abbazia cisterciense a Roma, dopo che il santo lo aveva aiutato a difendere il papato durante lo scisma del 1130-38. San Bernardo era tuttavia riluttante a fondare un’abbazia a Roma e il Papa si assunse personalmente il compito di trasferire un gruppo di Cisterciensi da Farfa alle Tre Fontane, con Pietro Bernardo Paganelli (il futuro papa Eugenio III, 1145-1153) come loro abate. L’abbazia divenne così la trentaquattresima casa-figlia di Clairvaux e rimase un monastero cisterciense fino al 1812, quando venne soppresso. Dopo che i Frati Minori l’ebbero gestito dal 1826, papa Pio
IX lo cedette nel 1868 ai Cisterciensi della Stretta Osservanza (Trappisti) che vivono tuttora qui. La chiesa e il monastero medievali alle Tre Fontane vennero costruiti secondo le regole cisterciensi e gran parte della struttura originale si è conservata. La chiesa monastica ha una “pianta bernardina” ma è costruita in mattoni e tufo, allora materiali di costruzione abituali a Roma. Venne edificata nel XII secolo ma fu consacrata solo nel 1221, dato che nella Roma medievale le chiese venivano spesso consacrate molto tempo dopo il loro completamento. La costruzione del monastero si prolungò dal XII al XIV secolo. Sebbene fosse normale nelle abbazie cisterciensi che gli edifici per i monaci venissero costruiti a sud della chiesa, alle Tre Fontane essi si trovano a nord, posizione più favorevole alla clausura dei monaci poiché i pellegrini visitavano spesso le due chiese meridionali. Si entra nel recinto dell’abbazia attraverso un portale medievale (chiamato anche “Arco di Carlo Magno” dagli affreschi che ritraggono l’assedio di Ansedonia da parte delle forze imperiali e la donazione di terre al monastero effettuata da Carlo Magno). Sul fronte della chiesa si trova un nartece a colonne del tipo comune nella Roma medievale. All’interno nove pilastri rettangolari in mattoni separano la navata centrale da quelle laterali (fig. 3). A oriente della navata centrale vi è un transetto che si estende poco oltre le navate laterali. Al centro e con un prolungamento verso oriente vi è un presbiterio a pianta rettangolare fiancheggiato sui due lati da due cappelle anch’esse rettangolari (quelle a sud sono state sostituite in epoca moderna). I pilastri sostengono cornici marmoree, archi a tutto sesto e le alte pareti del cleristorio. All’esterno del cleristorio vi sono pilastri di mattoni in corrispondenza di quelli interni. Erano evidentemente connessi al drenaggio del tetto e di-
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mostrano l’abilità idraulica dei Cisterciensi. Restauri recenti hanno evidenziato che originariamente era stata costruita una volta sopra alla navata centrale che però crollò poco dopo la costruzione. Le navate laterali hanno una volta a crociera. Il presbiterio, i bracci del transetto e le cappelle sono coperti da volte a botte leggermente ogivali, mentre la copertura all’intersezione è un proseguimento di quella della navata. Un arco a tutto sesto chiude il presbiterio e lo collega alla navata. Altri archi uguali a nord e a sud portano al transetto. Finestre ad arco strombate illuminano la navata centrale e quelle laterali. Due file di finestre uguali e un oculo si aprono nella facciata della chiesa. Tre finestre ad arco e un oculo nella parete orientale del transetto e un’uguale sequenza di finestre sopra l’arco che separa il presbiterio illuminavano il coro dei monaci medievali al mattino presto. Sopra le cappelle due finestre illuminano ciascun braccio del transetto. Mentre nella parete sud del transetto vi sono tre finestre, non ve ne è alcuna a nord, perché questo lato del transetto dove la scala notturna scende dal dormitorio è adiacente al monastero. Il pavimento della chiesa era originariamente in pendenza verso il chiostro, una misura di ordine idraulico per drenare la chiesa.
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Le arcate del chiostro furono costruite utilizzando colonne antiche e medievali, il lato del chiostro che corre parallelo alla chiesa è un portico a un solo piano mentre le altre ali sono a due piani. Sul lato orientale si trovavano le abitazioni dei monaci. A nord della chiesa si aprivano sul chiostro l’armarium (armadio dei libri) sotto la scala notturna, una piccola sacrestia, la sala capitolare, il passaggio coperto e altri spazi, che probabilmente costituivano il parlatorio e la sala comune dei monaci. Sopra vi era il dormitorio, originariamente con la latrina all’estremità nord. Due rampe di scale costruite su antiche colonne e archi medievali collegano ancora oggi il dormitorio alla chiesa e al chiostro. Alcune stanze a est del dormitorio erano probabilmente destinate ai novizi o ai malati. Una piccola stanza accanto alla scala notturna può essere stata la camera dell’abate, ma divenne più tardi la prigione del monastero. A oriente della sacrestia, una stanza con un’alta volta venne aggiunta alla fine del XIII secolo e decorata con affreschi; si trattava di una nuova sacrestia o della cappella dell’abate. Affreschi eseguiti nel 1306 circa lungo una parete che si trova attualmente fuori dal dormitorio, decoravano originariamente l’interno di due stanze dove probabilmente risiedeva l’abate. A nord, il refettorio era disposto perpendi-
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Nelle due pagine precedenti: 1. Pianta del sito delle Tre Fontane con due sezioni della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio e dell’adiacente monastero. Da A. Barbiero, San Paolo alle Tre Fontane, Roma 1938, tav. XXII.
In questa pagina: 3. Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio, navata centrale, veduta verso oriente.
2. Veduta del sito delle Tre Fontane con in primo piano l’arco detto di Carlo Magno, dietro di esso la chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio, sulla destra la chiesa di Santa Maria Scala Coeli e sul fondo la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane. Incisione di Giuseppe Vasi, Roma 1776, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano.
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colarmente al chiostro. A est di esso due stanze a volta indicano il luogo del calefattorio (spazio riscaldato), con una camera sovrastante, mentre la cucina si trovava a occidente. I fratelli laici (o conversi) vivevano in un edificio a occidente, separato dal chiostro da un “viottolo”, diventato ora un corridoio a volta. Il loro refettorio, un corridoio e un deposito erano al piano terreno, costruiti con pilastri che evi-
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denziano la pianta modulare cisterciense. Al piano superiore vi era il dormitorio dei conversi. Sul lato nord era disposta una torre, a sud un edificio utilizzato ora come foresteria e museo. La chiesa e il monastero sono stati costruiti con tecniche e materiali romani, ma il disegno è prettamente cisterciense; ben proporzionato, favorisce il silenzio monastico e la contemplazione.
All’inizio del XII secolo, il Sacro Romano Impero (Sacrum Romanum Imperium) si estendeva da Roma fino al mare del Nord e al mar Baltico, a occidente confinava con il regno di Francia e a oriente con i regni di Ungheria e di Polonia. A nord delle Alpi, a occidente appartenevano all’Impero parti della Borgogna e il ducato di Lorena, a oriente i ducati di Pomerania e di Slesia, ma anche il regno di Boemia con il margraviato di Moravia. Riferito ai confini degli stati nazionali moderni, il nucleo centrale del territorio imperiale corrispondeva all’incirca all’odierna Repubblica Federale Tedesca, all’Austria e alla Svizzera, nonché alla maggior parte della Repubblica Ceca. La sintesi che segue si concentra spazialmente su questo nucleo centrale e temporalmente sui secoli XII e XIII. Quando, nel secondo quarto del XII secolo, i Cisterciensi penetrarono nell’area linguistica tedesca, la lotta per le investiture era stata appena composta dal concordato di Worms (1122) e la nobile stirpe sveva degli Staufen era asce sa al trono imperiale. Con Federico I (1152/1155-1190), detto Barbarossa, e suo nipote Federico II (1212/1220-1250), due straordinari imperatori avevano attraversato la scena politica. I loro interessi erano rivolti soprattutto ai territori meridionali dell’Impero, in Italia e, in conseguenza della concentrazione dell’attenzione imperiale su queste regioni, a nord delle Alpi le grandi case principesche si contesero il potere, rivaleggiando e tessendo fra loro intrighi a cui i Cisterciensi non poterono sottrarsi totalmente. Elemento essenziale della politica di quel periodo era l’espansione verso oriente, che mirava alla sottomissione dei territori slavi a est dell’Elba. Non si trattava solo di procacciarsi risorse materiali, ma anche dell’opera di missione presso le tribù pagane. Le sedi episcopali abbandonate do-
vevano essere rioccupate o dovevano esserne fondate di nuove. A questo proposito dobbiamo citare la crociata contro i Vendi del 1147, sostenuta anche da Bernardo di Clairvaux e organizzata nel quadro della seconda crociata, indetta da papa Eugenio III (1145-1153). Nell’area linguistica tedesca furono poche le fondazioni dirette da parte delle prime abbazie borgognone. Bernardo di Clairvaux inviò monaci a Himmerod nel 1134 e nel 1136 a Eberbach. Con monaci di Morimond vennero popolati i monasteri di Kamp (1123), Ebrach (1127), Altenberg (1133) e Weiler-Bettnach (1133). Morimond, grazie all’abbazia di Kamp, alle sue abbazie figlie Walkenried (1129), Volkenroda (1131), Amelungsborn (1135), Hardehausen (1140), Michaelstein (1146) e Neuenkamp (1233) e alle relative fondazioni figlie, fu l’abbazia primaria più feconda sul territorio dell’attuale Repubblica Federale Tedesca. La sua influenza, per mezzo di filiazioni secondarie, giungeva ben oltre l’Europa centro-orientale. In Austria, per iniziativa di Ottone († 1158), abate di Morimond e in seguito vescovo di Frisinga, fu fondato il monastero di Heiligenkreuz (1133), che insieme alle sue abbazie figlie Zwettl (1138) e Lilienfeld (1202) ospita ancora oggi monaci cisterciensi. La più antica fondazione austriaca, il monastero di Rein (1129), venne popolato da Eberbach e appartiene quindi alla filiazione di Clairvaux. In Svizzera solo Bonmont (1131) risale direttamente a Clairvaux, mentre i monasteri di Hautcrêt (1143) e Hauterive (1132), con l’abbazia figlia Kappel am Albis (1185), fanno parte della filiazione di Clairvaux tramite l’abbazia francese di Cherlieu (1131). I monasteri di Montheron (1135) e di Lützel (1123/24), con la fondazione figlia Sankt Urban (1194), risalgono anch’essi all’abbazia primaria di Morimond attraverso Bellevaux (1119), situato nell’Alsazia meridionale.
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Nelle due pagine precedenti: 1. Bebenhausen, la chiesa monastica e il chiostro, veduta verso nord-est.
Sotto: 3. Eberbach, pianta del piano terra del monastero: 1. chiesa; 2. sacrestia; 3. sala capitolare; 4. sala dei monaci; 5. refettorio; 6. cucina; 7. fontana; 8. chiostro; 9. viottolo dei conversi; 10. refettorio dei conversi; 11. accesso alla clausura; 12. cellarium; 13. infirmarium. Al piano superiore, sopra le stanze 2-4 si trovava il dormitorio dei monaci e sopra le stanze 10-12 il dormitorio dei conversi.
2. Chorin, la facciata occidentale.
4. Doberan, chiesa monastica, la navata centrale verso oriente.
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L’indicazione di conseguire il proprio sostentamento per mezzo di un’economia autonoma e di stabilirsi lontano da regioni civilizzate, permetteva anche a famiglie della bassa nobiltà o discendenti da antichi liberi signori di intraprendere una fondazione, perché l’allestimento di un monastero cisterciense era meno costoso, paragonato a quello per una fondazione benedettina. Spesso veniva donato ai Cisterciensi un terreno poco dotato di infrastrutture, che doveva venire messo a coltura per la prima volta sia mediante disboscamento sia con la bonifica di terreni paludosi. Per i Cisterciensi rivestiva particolare importanza lo sviluppo delle aree a est dell’Elba, dove si fondevano con successo la pacificazione dei confini, la missione e lo sfruttamento agricolo di vasti territori mai coltivati. Tuttavia, i Cisterciensi incontravano anche limiti fisici alla loro azione; infatti alcune abbazie, dopo la fondazione, venivano trasferite in altro luogo poiché le condizioni climatiche e topografiche non permettevano una vita monastica stabile. I Cisterciensi rilevavano anche monasteri abbandonati o ne riformavano di antichi. Per esempio i monaci benedettini di Bonmont assunsero le consuetudini cisterciensi dopo una visita di Bernardo di Clairvaux nel 1131. La comunità inviata nel 1136 da Clairvaux a Eberbach si insediò nel luogo di una precedente fondazione maschile di agostiniani e i monaci giunti da Schönau a Bebenhausen (fig. 1) per fondare un nuovo monastero si stabilirono nel 1190 in
un monastero premostratense abbandonato. A oriente dell’Elba venivano invece occupati simbolicamente, a scopo dimostrativo, luoghi pagani. Per esempio, nel 1171, alcuni monaci di Amelungsborn si trasferirono a Doberan, una fondazione del vescovo Berno von Schwerin († 1191), egli stesso monaco nell’abbazia madre, e del duca Pribislav († 1178), convertito al cristianesimo. Il monastero dovette venire rifondato dopo il saccheggio da parte degli Slavi nel 1186. Anche alcune fondazioni della dinastia degli Ascanidi nella marca del Brandeburgo sperimentarono analoghe difficoltà, come il monastero di Zinna fondato da Alberto l’Orso (1170) e quello di Lehnin fondato da suo figlio, il margravio Ottone I († 1184). Accadde anche che alcune abbazie cisterciensi venissero fondate per motivi dinastici. La fondazione di un luogo di sepoltura dinastica accomunava valutazioni politiche ed economiche ad aspetti simbolici e spirituali (memoria del fondatore). Per esempio, i Wettin stabilirono il monastero di Altzella (1162/75) come proprio luogo di sepoltura, gli Ascanidi i monasteri di Lehnin e Chorin (1258/60, fig. 2), e i conti palatini di Tubinga la loro fondazione di Bebenhausen. In realtà, questo genere di fondazioni dell’alta nobiltà è complessivamente raro, ma iniziative similari sono testimoniate dalle fondazioni di Heiligenkreuz e di Lilienfeld da parte dei duchi d’Austria come dalla fondazione di Zbraslav (Königsaal, 1192) quale luogo di sepol-
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tura dei Premislidi e della dinastia dei Lussemburgo da parte di re Venceslao II (1290-1305) di Boemia. Nonostante le guerre, i saccheggi, la secolarizzazione e l’uso improprio, vi sono monasteri che hanno conservato in gran parte la loro essenza architettonica medievale. Per la Germania si possono citare come esempio Eberbach (fig. 3), Maulbronn, Bebenhausen e Chorin; per l’Austria Heiligenkreuz, Zwettl e Lilienfeld e per la Svizzera, anche se in misura molto più ridotta, il monastero di Hauterive. La vita contemplativa si svolgeva soprattutto negli ambienti di stretta clausura, in edifici che erano collegati dal chiostro e che, nella loro disposizione spaziale, raggiunsero con i Cisterciensi una sistematicità senza precedenti. Anche se lo schema del chiostro benedettino non era stato una loro invenzione, essi tuttavia lo portarono a un certo grado di perfezione. L’edificio più importante a livello spirituale era la chiesa del monastero. Il termine di oratorium, utilizzato spesso nelle fonti, indica il carattere stesso del luogo. Il punto focale dell’Ufficio dei monaci era la preghiera delle Ore,
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mentre l’importanza della celebrazione della Messa crebbe solo con la diffusione del sacerdozio dei monaci e l’avvento delle Messe private. Nell’alto Medioevo questo si rifletté nel crescente numero di altari che venivano sistemati nelle crociere o nelle cappelle dei deambulatori. Solo pochissime chiese cisterciensi presentano ancora resti del loro corredo medievale. La chiesa del monastero di Doberan, iniziata dopo il 1291, rappresenta un impressionante esempio di corredo risalente all’alto Medioevo, ancora in gran parte conservato (fig. 4). In essa è infatti possibile individuare ancora la struttura liturgica medievale dell’oratorio e nel corpo longitudinale della basilica a pilastri, a tre navate, gli stalli del coro e la croce trionfale nella navata centrale individuano la separazione fra coro dei conversi e coro dei monaci. Le parti più antiche del coro dei monaci con 24 stalli per lato e di quello dei conversi con 26 stalli per lato, completati e restaurati a più riprese in tempi più recenti, risalgono al 1300 circa. Sono conservati stalli medievali del coro dei monaci, fra altri luoghi, a Kappel in Svizzera (metà del XIV secolo) e a Maulbronn nel sud della Germania (metà del XV secolo). A Doberan il
coro dei conversi e quello dei monaci sono separati dall’altare con retablo (1368/70) e dalla sovrastante croce trionfale dipinta su ambedue i lati (fine del XV secolo). I monaci guardavano la Madonna e i fratelli laici Cristo. Anche a Loccum (1260), Pforta (1260/70) e a Kaisheim (fine del XV secolo) si sono conservate croci trionfali dipinte su ambedue i lati. Il coro dei monaci e quello dei conversi erano abitualmente separati da massicci tramezzi, come mostrano gli esempi conservatisi di Haina e Maulbronn. Dato che di regola gli stalli del coro si appoggiavano ai pilastri del corpo longitudinale, spesso le membrature degli archi di volta poggiavano su mensole sovrastanti gli schienali degli scranni. A volte, come nel monastero di Kappel, il tramezzo antistante il coro poteva essere costituito da un muro. A Doberan la continuità ininterrotta degli archi della navata centrale e la rinuncia ad articolare la crociera in modo indipendente sottolineano non solo l’asse longitudinale dell’ambiente liturgico, ma anche il suo relativo isolamento come spazio di preghiera per la Messa e la recita delle Ore. Qui l’altare principale, sul quale i monaci celebravano la Messa, è collocato all’interno di un coro a pian-
ta poligonale. L’alzata dell’altare risale circa al 1310 e venne completata intorno al 1350/60, è quindi uno dei primi esempi di altare a trittico. Uno scranno a tre posti per i diaconi e il celebrante, un tabernacolo indipendente in legno di quercia (1368/70 circa), il cosiddetto Kelchschrank dove si conservano i vasi sacri (1280/1310 circa) e altri altari completano l’arredo liturgico. A Doberan si sono conservati anche diversi monumenti funebri del tardo Medioevo. L’atmosfera della chiesa veniva largamente determinata dall’effetto della luce proveniente dalle finestre. In uno dei primi statuti del Capitolo generale dei Cisterciensi venivano proibite le finestre con motivi colorati e figurativi. In alternativa potevano essere usate pitture a grisaille e decorazioni a motivi geometrici o vegetali. Motivi a intreccio, simili a quelli del Reiner Musterbuch (primo quarto del XIII secolo) sono visibili nel chiostro di Heiligenkreuz e nel monastero di Eberbach, ma qui solo in un frammento esposto al museo. Particolarmente preziose sono le grisaille delle finestre delle cappelle nel deambulatorio di Altenberg, già presenti alla consacrazione del nuovo coro nel 1269 e quelle delle grandi finestre nel transetto nord (1300
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Nelle due pagine precedenti: 5. Bonmont, la chiesa monastica, veduta da nord-ovest.
7. Riddagshausen, veduta del coro da sud-est.
6. Eberbach, chiesa monastica, la navata verso oriente.
circa). Qui predominano i motivi a intreccio e la decorazione vegetale e sono presenti anche immagini figurative, che iniziarono a diffondersi a partire dal XIV secolo, come testimoniano le cosiddette lastre dei Babenberg nel padiglione della fontana a Heiligenkreuz (1290 circa), una finestra con il ritratto del fondatore a Doberan (1300 circa), la rappresentazione della Crocifissione nella finestra occidentale di Haina (inizio XIV secolo) e la finestra occidentale tardomedievale di Altenberg. Fra i più antichi edifici ecclesiastici ben conservati, nell’area geografica qui esaminata, vi sono le chiese monastiche di Bonmont (ca. 1131-ca. 1213, fig. 5), Hauterive (115060), Eberbach (1145-1186) e Maulbronn (1147-1178, volte e cappelle laterali meridionali del XV secolo), nonché il corpo longitudinale di Heiligenkreuz (1150-1187). La particolare caratteristica nel disegno della pianta è la disposizione spesso chiamata dagli studiosi “pianta Bernardina”, che consiste nella terminazione rettilinea della testata dell’abside e delle cappelle laterali. Lo spazio interno di Bonmont e di Hauterive è paragonabile all’abbazia borgognona di Fontenay, la volta a botte del corpo longitudinale si prolunga nel presbiterio e le navate laterali e i bracci del transetto sono stati provvisti di volte a botte trasversali. La chiesa di Maulbronn era originariamente una basilica a pilastri a soffitto piano, al cui presbiterio sono affiancate tre cappelle rettilinee, mentre la chiesa del monastero di Eberbach (fig. 6) ha una volta a crociera, con il corpo longitudinale a sistema alternato. A Heiligenkreuz la navata centrale del corpo longitudinale presenta una volta con costoloni a nastro. Le chiese monastiche di questa epoca sono molto ricche di varianti, sia nella pianta sia nella fattura delle singole forme. I nuovi presbiteri delle abbazie francesi di prima fondazione, eretti nella seconda metà del XII secolo con coro a deambulatorio e corona di cappelle, seguivano lo schema radiale (Clairvaux, Pontigny) o avevano forma rettilinea e disposizione ortogonale dei muri (Cîteaux, Morimond). Nell’area linguistica tedesca i primi cori gotici del XIII e XIV secolo ereditarono questi influssi, con i più svariati riferimenti architettonici. Per esempio a Heisterbach (1202-1237), Marienstatt (1220/27-1243), Altenberg (iniziato nel 1259, fig. 8), Doberan (iniziato nel 1291), Zwettl o Kaisheim (seconda metà del XIV secolo) vennero realizzati cori poligonali a deambulatorio, mentre a Ebrach (1200-1239), Lilienfeld (1206-1230), Georgenthal (metà del XIII secolo), Riddagshausen (1216-1275, fig. 7) e Salem (consacrazione del coro nel 1307) si fece ricorso alla testata piana. In questo caso il contributo dei Cisterciensi alla storia dell’architettura 7
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8. Altenberg, veduta del coro da nord-est. 9. Walkenried, l’ala della collatio a doppia navata, veduta verso sud-est.
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non consistette solo nella modifica dello schema radiale della cattedrale o nella riduzione delle singole forme, ma anche nelle soluzioni innovative ben evidenziate dagli esempi di Altenberg e Doberan. Nei cori a deambulatorio progettati con pianta ortogonale è visibile un’evoluzione autonoma nella quale è ancora in discussione l’influenza delle abbazie francesi di prima fondazione. Il chiostro (claustrum) si trova a nord o a sud dell’edificio ecclesiale, secondo la conformazione del terreno e le condizioni climatiche. A nord delle Alpi le arcate di stile gotico che si aprono sul cortile interno sono spesso provviste di muri e vetri (fig. 9). Il chiostro era uno spazio di soggior-
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no, di collegamento e di passaggio. Esso metteva in comunicazione gli spazi riservati alle varie funzioni e vi si svolgevano le processioni e la lavanda dei piedi (mandatum). Ma era anche luogo dove i monaci si soffermavano per la preghiera e per la lectio, che aveva luogo nell’ala del chiostro lungo la chiesa. L’ala della collatio, che prese il suo nome dalle Collationes patrum di Giovanni Cassiano († intorno al 435), i cui testi venivano utilizzati per la lettura serale, era provvista di panche di pietra che offrivano la possibilità di sedersi ai membri della comunità monastica. A Heiligenkreuz e a Zwettl sono state più tardi parzialmente rivestite di legno. Vi erano inoltre delle aperture dalla parte del cortile centrale, che servivano per eliminare l’acqua
della lavanda dei piedi e si sono ancora conservate a Zwettl e a Bebenhausen. Particolarmente degne di nota sono le ali della collatio di Walkenried e di Pforta, a doppia navata. Sul lato orientale del chiostro vi era la residenza dei monaci. Al punto di incrocio con la chiesa al piano terreno vi era un locale o una nicchia per i libri (armarium) e la sacrestia. Seguiva poi la sala del capitolo (capitulum), dove si riuniva ogni giorno la comunità per regolare le questioni interne, momento nel quale trovava il suo fondamento la comunità dei monaci in quanto istituzione. Questo locale poteva essere usato anche come luogo di sepoltura degli abati o dei membri della casata fondatrice, come a Bebenhausen (fig.
10). La sala del capitolo era solitamente un locale a volte con grandi aperture sul chiostro e un ingresso importante. Poiché sopra ad essa si trovava il dormitorio dei monaci, l’altezza era limitata e a volte veniva leggermente abbassato il pavimento per guadagnare un poco in altezza. Dato che la forma geometrica del locale doveva tener conto della volta, essa è per lo più basata sul quadrato a cui corrispondono i campi della volta; vi sono quindi sale con volte a crociera o costoloni con un solo pilastro di sostegno (fra gli altri Vyšší Brod/Hohenfurt, Zwettl), con due (fra gli altri Michaelstein, Haina, Zlatá Koruna/Goldenkron), con tre (Schönau), con quattro (fra gli altri Bronnbach, Bebenhausen, Heiligenkreuz e Lilienfeld) o con sei (Wal-
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kenried). A Eberbach (fig. 11) intorno alla metà del XIV secolo venne eliminata la vecchia volta a crociera e realizzata una volta stellata sostenuta da un unico pilastro centrale. Anche a Maulbronn venne realizzato questo ammodernamento intorno al 1300 e qui la volta è impostata sulla base di un disegno a tre raggi. Ad alcune sale capitolari venivano aggiunte sul lato orientale delle cappelle (fra le altre ad Altzella, Bebenhausen, Maulbronn, Osek/Ossegg e Neuberg). L’arredamento che ci è rimasto è per lo più limitato a panche in pietra lungo le pareti, che servivano da sedili per i monaci, ma a Osek si è conservato uno stupendo leggio in pietra lavorata (secondo quarto del XIII secolo). Accanto alla sala capitolare vi erano un passaggio, la scala che saliva al dormitorio dei monaci e il cosiddetto parlatorio. In quest’ultimo i monaci ricevevano oralmente le istruzioni, poiché nella clausura vigeva la severa regola del silenzio. L’ultimo locale dell’ala orientale era normalmente definito come sala comune dei monaci, e la sua funzione concreta non ha riscontro nelle fonti; si trattava probabilmente di uno spazio multifunzionale che veniva utilizzato secondo le necessità. A Eberbach, dove si è conservata,
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questa sala è a volta con due navate, mentre a Bebenhausen e a Heiligenkreuz è una sala a volta a tre navate. A Heiligenkreuz è ancora possibile vedere una parte dell’originale pittura di fughe. Lungo tutto il piano superiore si estendeva il dormitorio dei monaci (dormitorium), alla cui estremità si trovavano le latrine (necessaria). A Eberbach e a Heiligenkreuz si sono conservati due eccezionali dormitori dell’alto Medioevo. Il locale a due navate e a undici campate di Eberbach (fig. 12) è lungo 70 metri. Le pareti laterali delle campate presentavano gruppi di tre finestre che illuminavano il locale. Il dormitorio a undici campate di Heiligenkreuz è a tre navate, tuttavia le porte e le finestre attuali non rispecchiano più la costruzione medievale. La parte delle latrine è scomparsa nella maggior parte dei casi, ma a Zwettl si è conservato un piccolo gioiello architettonico dell’epoca intorno al 1140. Il necessarium faceva parte dell’edificio romanico precedente; sotto alle nicchie con i sedili scorre a dieci metri di profondità il fiumiciattolo Kamp. Nell’ala del chiostro più lontana dalla chiesa si trovavano da est verso ovest la stanza riscaldata (calefactorium), il re-
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Nelle due pagine precedenti: 10. Bebenhausen, la sala capitolare, veduta verso est.
A fronte e sopra: 12. Eberbach, il dormitorio dei monaci, veduta verso nord.
11. Eberbach, la sala capitolare, veduta verso nord-ovest.
13. Maulbronn, il refettorio, veduta verso nord.
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fettorio (refectorium), di fronte ai quali vi erano normalmente il padiglione della fontana (lavatorium) e la cucina (cucina). Oltre alla chiesa e alla sala capitolare, il refettorio rivestiva una particolare importanza liturgica poiché qui i membri della comunità si riunivano in agape in ricordo dell’Ultima Cena. Dato che l’ala del chiostro lontana dalla chiesa non aveva un piano superiore passante, i refettori potevano anche occupare un edificio isolato. La sala poteva essere parallela al chiostro (come a Michaelstein, Chorin, Eldena, Haina o Loccum) o perpendicolare a esso (come a Bebenhausen, Heilsbronn, Maulbronn, Schönau). Questi locali, per lo più a due navate con alte volte, costituivano un grande spazio ben illuminato da finestre. Alcuni, come dimostrano gli esempi di Maulbronn (fig. 13) e di Schönau, facevano addirittura concorrenza alle chiese. I refettori presentano altri due importanti particolari, un leggio ad uso del lettore durante i pasti e un passavivande che collegava la sala con la cucina. Sono pochissimi gli esempi di cucine conservatisi. A Chorin vi è una cu-
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cina in laterizi con grande focolare, il cui sfiatatoio attraversa ttto il dormitorio dei convessi. A Bebenhausen l’antica cucina viene oggi utilizzata come biglietteria. L’ala occidentale era riservata ai conversi. Era collegata direttamente al chiostro, ma, come a Eberbach (fig. 3) o a Schönau, poteva essere separata dal passaggio dei conversi. Per Maulbronn e Chorin si suppone che questo passaggio si collegasse a occidente direttamente con l’ala dei conversi. A pianterreno, nell’ala occidentale si trovavano i locali usati dal cantiniere come deposito (cellarium), spazi di lavoro e il refettorio dei conversi. Ne abbiamo due bellissimi esempi romanici ad Altzella e a Maulbronn. Ambedue sono a due navate a volta e a Maulbronn la volta è stata restaurata. Anche per il dormitorio al piano superiore abbiamo uno splendido esempio a Eberbach. Tuttavia il parziale restauro della volta del piano terreno ha fatto sì che le basi di alcune colonne si trovino oggi sotto il livello del pavimento del dormitorio.
L’ARCHITETTURA CISTERCIENSE NELLA PENISOLA IBERICA James D’Emilio
In Spagna e in Portogallo si sono conservati diversi edifici medievali cisterciensi1 alcuni dei quali, come i monasteri di Alcobaça, Poblet o Las Huelgas, sono molto conosciuti mentre altri sono poco noti persino agli studiosi. Questi monumenti sono la prova del successo conseguito dai Cisterciensi come riformatori religiosi, come portatori di innovazione architettonica e come mediatori fra i regni iberici e la cultura della cristianità latina2. Oltre a ciò il ruolo delle case figlie, le divisioni regionali fra le filiazioni di Clairvaux e di Morimond, le prerogative dei patroni, l’importanza del monacato femminile e della congregazione di Las Huelgas, l’appropriazione delle locali tradizioni artistiche e l’eterogeneità degli edifici, tutto concorre all’attuale discussione sulle istituzioni cisterciensi, le loro consuetudini e la loro estetica. Sugli inizi dell’insediamento dei Cisterciensi nella penisola iberica si sono scatenati i dibattiti fin da quando venne pubblicata nel XVII secolo la monumentale storia dell’Ordine di Angel Manrique3. Dallo studio pionieristico di P. Maur Cocheril, le prime date proposte per molte case e, in particolare, quelle sostenute per Oseira e Moreruela sono state persuasivamente rifiutate4. Il monastero di Sobrado dos Monxes in Galizia, affiliato a Clairvaux nel 1142, si è affermato, dopo un approfondito esame, come prima fondazione iberica5. Sono ancora incerte le candidature rivali di Fitero e dei monasteri portoghesi di Lafões e Tarouca6. Anche in presenza di una esauriente documentazione, le date precise restano incerte poiché le fasi dell’insediamento – la donazione e l’approvazione di nuove fondazioni, l’arrivo dei monaci e la scelta del sito definitivo, l’erezione delle strutture temporanee e, infine, di quelle permanenti – si articolano in fasi successive. Il lavoro di datare le affiliazioni di comunità esistenti è anche più sco-
raggiante poiché le riforme che di norma precedevano l’affiliazione formale non venivano per lo più registrate. Questi problemi sono aggravati dalle ambiguità dei documenti fondativi in cui non si comprendevano pienamente le consuetudini cisterciensi e la Regola benedettina stessa rappresentava in qualche modo una novità. I decenni ’40 e ’50 del XII secolo videro la prima ondata di fondazioni e affiliazioni iberiche, nonostante i timori espressi da san Bernardo all’abate Artaud de Preuilly (1129 circa)7. Alcune si collocano fra i più famosi monasteri iberici: Alcobaça (1153) in Portogallo; Huerta (1144), La Espina (1147), Sacramenia (prima del 1147) e Valbuena (1151) in Castiglia León; La Oliva (1149) in Navarra; Veruela (1146) in Aragona; Santes Creus (1150) e Poblet (1151) in Catalogna8. I primi cronisti moderni tentarono insistentemente di mettere in relazione le case con san Bernardo e con il re Alfonso VII (1126-1157), sedicente imperatore e sovrano del regno unificato di Castiglia León. Di fatto, la crescita più spettacolare di case cisterciensi e la notevole fioritura di monasteri femminili si verificarono dopo la morte di Alfonso VII, quando, per due generazioni, la penisola iberica cristiana fu suddivisa in cinque regni: Portogallo, León, Castiglia, Navarra e Aragona/Catalogna. Nel 1245 esistevano quasi settanta monasteri maschili, dai quindici forse esistenti alla morte di san Bernardo, mentre più di trenta monasteri femminili abbracciarono le consuetudini cisterciensi9. L’arrivo dei Cisterciensi e la loro espansione si svolsero secondo modelli regionali che lasciano supporre un’azione coordinata10. Nelle regioni più occidentali della Galizia, nel nuovo regno del Portogallo e nel cuore del regno di León, le comunità erano direttamente collegate a Clairvaux e
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1. Meira, Santa María, ala nord. 2. Valbuena, Santa María, facciata occidentale. Nelle due pagine seguenti: 3. Carrizo, Santa María, abside. 4. Fitero, Santa María, abside orientale.
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presto organizzarono le proprie case figlie11. La Espina fondò Sandoval (1167) e Valdeiglesias (1177). In Portogallo, Alcobaça era la casa madre di sette comunità, Tarouca ne fondò o riformò altre quattro e, nella prima parte del XIII secolo, le case galiziane riformarono alcuni monasteri locali, incluso San Clodio, Monfero e Xunqueira de Espadañedo. Tale attività continuò a intermittenza per tutto il tardo Medioevo. Sobrado si spinse oltre la Galizia e fondò Benavides (1176) nel León e Valdediós (1200) nelle vicine Asturie. Nel León, Carracedo, con la sua congregazione di case religiose, si distingueva per la sua diretta affiliazione a Cîteaux (1200 circa)12. In Castiglia, Navarra e Aragona, predominarono le case figlie di Morimond. L’Escale-Dieu era la casa madre di Fitero, Sacramenia, Veruela, La Oliva e altri monasteri. Valbuena e Huerta erano affiliate a Berdoues, e Matallana, Ovila e Rueda erano affiliate ad altre case figlie di Morimond. Valbuena, a sua volta, fondò Rioseco, Bonaval e Palazuelos. In Catalogna, Santes Creus e Poblet vennero istituite rispettivamente da Grandselve e Fontfroide, nella fa-
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miglia di Clairvaux, e ambedue le case catalane fondarono numerose comunità. Fra le regioni più favorevoli si contavano i territori di confine fra Castiglia, Aragona e Navarra. Qui, Huerta, Fitero, Veruela e La Oliva trovarono il patrocinio di monarchi in competizione e i monasteri rappresentavano la sede di negoziati, contratti matrimoniali e trattati di pace13. Il primo monastero femminile con consuetudini cisterciensi venne fondato a Tulebras in Navarra nel 115714. La Castiglia, il León e il Portogallo erano terreno fertile per i monasteri femminili15. Molti erano finanziati da famiglie nobili che sostenevano anche case maschili16. La contessa vedova Fronilde Fernández, per esempio, nel 1175 pose il monastero femminile di Ferreira de Pantón sotto la tutela di Meira e distribuì donazioni a diverse comunità maschili in tutta la Galizia17. Molti conventi venivano fondati da vedove e sarebbero stati governati per decenni da membri delle loro famiglie. La contessa Estefania Ramírez e suo marito, il conte Ponce de Minerva, fondarono il monastero di Sandoval nel 1167; nel 1176, un anno dopo la morte del
marito, ella istituì il convento maschile di Benavides e, alcuni mesi più tardi, fondò ed entrò nel monastero femminile di Carrizo. Sua figlia, María Ponce, le succedette come badessa18. Ella era stata sposata con il conte Rodrigo Álvarez, figlio del fondatore di Meira e fondatore dell’Ordine di Mountjoy, uno dei molti ordini militari della penisola iberica ad adottare gli usi cisterciensi19. La cugina di Rodrigo, la contessa vedova Aldonza, entrò nel monastero femminile di Cañas, in Castiglia, che aveva fondato insieme al marito, il conte o nipoti Lope Díaz de Haro. Più tardi, cinque delle sue figlie o nipoti diressero Cañas, San Andrés de Arroyo, Vileña o Otero de las Dueñas20. Questo importante movimento femminile destò l’attenzione della Corona, del Papato e degli ecclesiastici locali. Dopo la visita legatizia del cardinale Hyacinth nel 1173, assemblee di chierici attestarono l’assoggettamento di Ferreira de Pantón a Meira e la fondazione di Carrizo21. Nel 1175 l’arcivescovo di Toledo accolse la petizione di re Alfonso VIII di Castiglia e della regina Leonor, figlia di Eleonora di Aquitania, di approvare le consuetudini cister-
ciensi del monastero femminile di San Clemente di Toledo22. Nel 1187 la coppia reale fondò Las Huelgas23. Il loro monastero femminile fu investito di autorità su altri, le cui badesse si riunivano qui per i Capitoli annuali. Nel 1199 divenne “filiazione speciale” di Cîteaux e pantheon reale. Le prerogative delle monache e i loro impegni mondani causarono frizioni con i prelati locali e con Clairvaux stessa24. Le donne appartenenti alla famiglia reale godevano di speciali privilegi a Las Huelgas e la ricchezza e il prestigio delle monache erano in larga misura dovuti al tradizionale infantazgo del León, che concedeva alle principesse reali (infantas) l’autorità su importanti proprietà monastiche25. In Portogallo, le principesse Teresa, Sancha e Mafalda, figlie del re Sancho I, erano le patrone dei monasteri femminili di Lorvão, Celas e Arouca26. Gli edifici cisterciensi della penisola iberica riflettono gli ideali dell’Ordine e ne esplicitano il ruolo di collegamento fra penisola iberica e cristianità latina. I Cisterciensi non solo importavano specifici tipi architettonici, ma dif-
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Sopra: 5. Gradefes, Santa María la Real, abside orientale.
A fronte: 6. Gradefes, Santa María la Real, deambulatorio.
Nelle due pagine seguenti: 7. Gradefes, Santa María la Real, deambulatorio, capitelli. 8. Las Huelgas, Santa María la Real, coro, chiave di volta. 9. Sandoval, Santa María, transetto nord, chiave di volta.
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fondevano diverse caratteristiche strutturali e decorative, dall’arco a sesto acuto e dalle volte a costoloni ai rosoni, alle modanature ornamentali e ai dentelli. Non si trattava di una semplice evoluzione o di una sequenza di stili, ma del predominio di tendenze diverse: l’uso di piante comunemente utilizzate negli edifici cisterciensi, come la cosiddetta pianta bernardina, l’estetica austera, l’appropriazione selettiva di soluzioni locali, la predilezione per i deambulatori e le cappelle radiali e l’introduzione di elementi gotici27. Gli edifici cisterciensi contrastavano nettamente con l’architettura romanica contemporanea. Ne è un buon esempio la chiesa di Meira (fig. 1)28. Il conte Álvaro Rodríguez di Sarria e la contessa Sancha Fernández fondarono il monastero galiziano fra il 1151 e il 1154; il coro, i transetti e le campate orientali della navata furono costruiti nell’ultimo terzo del XII secolo, mentre la navata venne completata e dotata di volta in una seconda fase, nel primo quarto del XIII secolo. La chiesa presenta un’abside semicircolare affiancata da due cappelle rettangolari a testata rettilinea su ciascun lato del transetto, una crociera con volta costolonata, una navata su due livelli con volta a botte a sesto acuto in cui si aprono le finestre del cleristorio, navatelle con volte a crociera e un rosone che domina la facciata occidentale. Molti elementi erano nuovi per la Galizia, ma il fatto più importante è che le linee austere, i capitelli lisci, gli archi privi di modanatura esprimevano una nuova sensibilità estetica e spirituale. Questo sobrio linguaggio architettonico si propagò nelle chiese cisterciensi della penisola iberica: dagli spazi spogli
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delle semplici pareti senza modanature ai pilastri e archi massicci di Huerta, Valbuena o Santes Creus, alla rigorosa esclusione persino di capitelli lisci a Oia e Armenteira, all’insistenza sull’estrema purezza della forma architettonica negli archi multipli dei portali fortemente strombati come a Valbuena (fig. 2) e La Oliva. Questi tratti ideali vennero realizzati in una grande varietà di disegni. Definendoli “varianti” si rischia di trascurare la loro finezza e la loro originalità29. La chiesa galiziana di Oia, per esempio, presenta un inusuale capocroce a salienti, con le cappelle esterne più basse di quelle interne, mentre volte a botte trasversali coprono le navate laterali, come a Fontenay. Nella modesta chiesa di Armenteira, le cappelle di differente altezza e molto vicine l’una all’altra, e le contigue campate, creano un movimento ritmico di ascesa alla campata d’incontro, differenziandosi decisamente dalle chiese galiziane a tre absidi con pianta analoga30. Nella costruzione delle chiese cisterciensi si introdussero caratteri locali nelle forme importate. A Meira, Huerta e La Oliva, l’abside semicircolare, comune nelle chiese romaniche della penisola iberica, è affiancata da cappelle rettangolari racchiuse dal muro perimetrale. A Sacramenia le cappelle del transetto sono rettangolari all’esterno ma semicircolari all’interno. Cappelle semicircolari affiancano l’abside semicircolare a Valbuena, ma la leggera curva delle loro pareti interrompe appena l’andamento lineare della testata delle absidiole esterne. In Galizia l’arcata del coro e dei transetti di Melón richiama i contrafforti ad arco di Compostela. Più singolare è l’appropriazione di forme dall’arte islamica, come i costoloni a nastro della volta della
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10. La Oliva, Santa María la Real, cappella settentrionale del coro, capitelli degli archi del presbiterio.
12. Las Huelgas, Santa María la Real, cappella del transetto sud, capitello dell’arco del presbiterio.
11. San Andrés de Arroyo, cappella meridionale, capitelli degli archi del presbiterio.
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13. Las Huelgas, Santa María la Real, parete nord del coro. 14. Las Huelgas, Santa María la Real, il primo chiostro (Las Claustrillas).
Nelle due pagine seguenti: 15. Huerta, Santa María, refettorio. 16. Las Huelgas, Santa María la Real, sala del capitolo. 17. Alcobaça, navata centrale.
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crociera e l’arco a cuspide del portale di Armenteira, la decorazione di mattoni e le arcate a Santa María de la Vega e nel monastero femminile di La Lugareja, e la decorazione a stucco delle cappelle funerarie di Las Huelgas31. In molte chiese cisterciensi, un notevole repertorio di marchi di lapicidi, che appaiono anche negli edifici del circondario, suggerisce l’ampio ricorso a una manovalanza locale32. Ciò nondimeno, la loro conformità alle norme che regolavano le decorazioni cisterciensi documenta l’accurata supervisione dei progetti33. Gli artigiani locali imparavano e diffondevano a loro volta nuovi elementi, fra i quali motivi come le modanature a zig-zag che venivano usate sobriamente nelle abbazie stesse. A volte si descrive la scultura figurativa nelle chiese cisterciensi della penisola come un compromesso con le pratiche locali e un rilassamento degli ideali monastici34. Di fatto queste sculture rimasero un’eccezione per tutto il XIII secolo. Normalmente vengono inserite con misura (fig. 8) o limitate a soggetti sacri isolati (fig. 9) in evidente contrasto con le abbondanti raffigurazioni stravaganti e le prolisse narrazioni bibliche in altri monasteri iberici35. Nel primo chiostro di Las Huelgas (Las Claustrillas, fig. 14), i capitelli foliati e
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gli straordinari motivi architettonici sui pilastri sembrano una risposta polemica all’esuberante chiostro romanico del vicino Silos36. Analogamente la proliferazione di soggetti sacri e profani nei dintorni del monastero femminile di San Andrés de Arroyo sottolinea, per contrasto, le severe linee guida qui adottate (fig. 11)37. Gli squisiti particolari e la virtuosità tecnica delle sculture foliate in alcune chiese cisterciensi (fig. 10) sono forse più degni di nota dell’occasionale intrusione dell’arte figurativa. Negli edifici cisterciensi gli scultori hanno elevato lavori abituali come il capitello a crochet (fig. 12) a eloquente meditazione della forma astratta. L’arte figurativa, usata tuttavia in modo assennato, era più importante nei monasteri femminili cisterciensi. Le loro chiese ospitavano statue e splendidi oggetti come il cofanetto di legno dipinto del XIII secolo di Carrizo con gli apostoli e scene di vita di Gesù38. Maschere e grottesche decorano i capitelli a Gradefes (fig. 7), mentre l’abside riccamente scolpito di Ferreira de Pantón schiera un bestiario moralizzato, compresi gli uccelli, la cui popolarità nelle comunità femminili è dimostrata dai manoscritti miniati dei monasteri portoghesi39. L’abside di Pantón precede il suo
18. Cañas, Santa María la Real, capitolo, tomba della badessa Urraca Díaz de Haro, particolare. 19. La Oliva, Santa María la Real, facciata ovest, fregi del mensolone.
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21. Valbuena, Santa María, chiostro, XIII-XVI secolo.
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assoggettamento a Meira, ma l’infondata supposizione che le chiese delle monache venissero normalmente erette prima della loro affiliazione ne ha influenzato lo studio. Esse sono state ingiustamente marginalizzate come progetti relativamente modesti, determinati da risorse limitate, bloccati nelle tradizioni locali e poco fedeli alle norme cisterciensi40. Occorre fare delle distinzioni: il coro di Gradefes (figg. 5 e 6), l’abside a conci di Carrizo (fig. 3) dove le pietre da costruzione scarseggiavano, la cupola in mattoni di La Lugareja e la raffinata scultura di San Andrés de Arroyo (fig. 11) non mostrano né mancanza di mezzi né ingenuità41. Le difficoltà che causarono una riduzione di progetti verso la metà del XIII secolo riguardano più specificatamente la crescente subordinazione dei monasteri femminili al Capitolo generale42. La chiesa di Gradefes, iniziata nel 1177, si distingue fra i monasteri femminili cisterciensi per il suo deambulatorio e le cappelle radiali (figg. 5 e 6). Fino alla metà del XII secolo, in Castiglia León solo la cattedrale di Santiago aveva un coro di questa fatta43. La nuova scelta di questo disegno da parte dei Cisterciensi nella penisola iberica fu probabilmente ispirata da Clairvaux III, ma questo modello fu seguito strettamente solo ad Alcobaça dove le cappelle sono racchiuse da una parete semicircolare44. A Moreruela, Fitero (fig. 4), Veruela e Poblet, variazioni minime permettono di cogliere come i costruttori affrontarono i problemi delle volte e dell’illuminazione, nonché la strutturazione di campate e supporti. In Galizia, Melón e Oseira sono state considerate imitazioni di Santiago45, tuttavia i caratteri pro-
Nelle due pagine seguenti: 20. Huerta, Santa María, chiostro gotico (XIII secolo) con piano superiore (XVI secolo).
fondamente stranieri della chiesa di Melón contraddicono la pura influenza. Citando il santuario dell’Apostolo, i progettisti cisterciensi esprimevano la loro interpretazione del coro di Clairvaux III come cornice adatta alla commemorazione di san Bernardo, rivendicando l’eredità dell’antichità cristiana46. A Gradefes si oscura l’originalità della chiesa facendola derivare dal coro di Moreruela, completamente diverso. Di fatto, i costoloni e le colonnine binate dei pilastri collegano vagamente questa realizzazione decisamente originale a Santo Domingo de la Calzada e agli edifici della Navarra, sede del monastero madre di Tulebras. Questi cori mettono in luce la funzione dei Cisterciensi nella penisola iberica, come nel resto dell’Europa, di “missionari” dello stile gotico, che introdussero le volte a costoloni, gli archi a sesto acuto e le proporzioni slanciate47. A volte le loro innovazioni superavano le capacità delle maestranze locali. Per esempio a Melón, le finestre sono aperte nella volta a mezza botte del deambulatorio affievolendo la luce che avrebbero dovuto introdurre. Evidentemente i costruttori abbandonarono le volte a costoloni che il disegno del coro, i suoi archi a sesto acuto e le sue proporzioni allungate richiedevano. Altrove le volte a costoloni sembrano malamente adattate alle mensole, a causa forse di mutamenti nei progetti, di una incompleta comprensione del nuovo sistema di volte o per l’approccio non convenzionale alla loro articolazione. Alcuni artisti trovarono l’opportunità di indulgere nelle pure forme architettoniche che nutrivano la spiritualità cisterciense (fig. 16). La chiesa del monastero femminile di
Las Huelgas (fig. 13), iniziata negli anni 1190, fu il primo caso di adattamento completo dell’architettura gotica al senso estetico cisterciense nella penisola iberica48. Numerosi elementi riflettono l’architettura dell’Ile-de-France: l’abside poligonale a contrafforti con due ordini di archi a sesto acuto, le delicate colonnine e le volte profondamente tramate del coro luminoso e i capitelli a crochet finemente lavorati, le mensole, le chiavi di volta e i dentelli (figg. 12 e 9). Le eleganti chiese di Villamayor de los Montes e di Cañas mostrano che le monache furono all’avanguardia dell’architettura gotica per tutto il XIII secolo49. Fra le case maschili, Alcobaça evidenzia clamorosamente l’adesione all’architettura gotica (fig. 17)50. Fondata nel 1153, la chiesa, in base a una moderna iscrizione, venne iniziata nel 1178 e dedicata nel 1252. Le date e la sequenza delle fasi sono ancora oggetto di controversia. Manuel Luis Real attribuisce al tardo XII secolo il coro, i transetti e le campate orientali della slanciata navata, ispirata a Clairvaux III51. Le parti superiori del coro e il transetto, le campate occidentali della navata e le alte navatelle fanno parte di una seconda fase di costruzione sotto re Alfonso II (1211-1223), che fece di Alcobaça un luogo di sepoltura reale. La produzione della raccolta di consuetudines nel 1231 potrebbe indicare il completamento della maggior parte della chiesa52. Il pantheon fu frequentemente rielaborato, in particolare con le ragguardevoli sculture delle tombe di Pedro I e di Doña Inés de Castro nell’anno 136053. Dopo che l’indipendenza portoghese fu ristabilita nel 1640, il monastero venne ingrandito con diversi annes-
si e arricchito con immagini celebrative dei suoi legami con la corona, inserendo i Cisterciensi nelle leggende relative alle origini portoghesi54. Anche le case cisterciensi di altri regni iberici ospitarono tombe reali55. I re aragonesi, Alfonso II (1162-1196) e Jaime I (1213-1276) vennero sepolti nel monastero catalano di Poblet, mentre Santes Creus è il luogo di sepoltura di Pedro III (1276-1285) e Jaime II (1291-1327)56. Pedro IV (1336-1387) realizzò un pantheon dinastico a Poblet, che con il tempo divenne la sua tomba e quella delle tre mogli e di diversi re e regine suoi successori nel tardo XIV e XV secolo. Le cappelle funerarie furono fra le prime costruzioni a Las Huelgas. Nella chiesa gotica, la sontuosa tomba doppia di re Alfonso VIII e della regina Leonor inaugurò un pantheon con le tombe di diversi figli e altri membri della famiglia reale castigliana. Il monumento è probabilmente il risultato del rifacimento del cimitero reale e del pantheon abbaziale negli anni 1320 e 1330, in preparazione all’incoronazione di re Alfonso XI57. Anche la nobiltà si rivolse quindi ai Cisterciensi per la cura dei morti. Per esempio, la famiglia Finojosa aveva il suo luogo di sepoltura a Silos all’inizio del XII secolo58. Martín de Finojosa divenne abate di Huerta nel 1167 e il monastero divenne il cimitero della famiglia. Altri monasteri accolsero le tombe dei loro fondatori e il funerale del conte Bermudo Álvarez, maggiordomo di re Ferdinando II, si svolse a Meira, nella fondazione dei suoi genitori, nel 118759. A Gradefes e a San Andrés de Arroyo, le prime tombe di badesse hanno restituito bellissimi sudari e capi di vestiario60. A Cañas, sulla tomba (fig.
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18) della badessa Urraca Díaz de Haro, i solenni chierici e gli accompagnatori dolenti sono un capolavoro della scultura funeraria medievale iberica61. Un’iscrizione a Huerta attribuisce alla famiglia Finojosa lo spazioso refettorio a volte costolonate (fig. 15), uno degli edifici abbaziali più imponenti della penisola iberica62. Huerta ha conservato anche la sua cucina medievale e la domus conversorum. Fra altri annessi medievali degni di nota possiamo annoverare la cucina a Sobrado, il dormitorio a Santes Creus, la stanza comune dei monaci a Moreruela e Valbuena, e l’armarium a La Espina63. Le abbazie con cimiteri reali conservano chiostri e annessi particolarmente sontuosi. Ad Alcobaça, un’iscrizione data il
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chiostro gotico, finanziato da donazioni reali, al 1308-11, e il chiostro superiore in stile Manuelino venne aggiunto all’inizio del XVI secolo. Vi è conservata una magnifica fontana e i suoi annessi medievali ospitano un grande dormitorio dell’inizio del XIII secolo. Dietro alle mura trecentesche che lo delimitano, Poblet conserva dei chiostri medievali, un’elegante fontana con baldacchino a volte costolonate, un austero refettorio con volte a botte del tardo XII secolo, una sala del capitolo con un delicato baldacchino con grandi volte a costoloni appoggiate a slanciati pilastri ottagonali, la cucina, il dormitorio e lo scriptorium con volta costolonata64. A Las Huelgas è straordinaria la sala capitolare con pilastri circolari avvolti da fasci di co-
lonnine en-delit (fig. 16). Le sue dimensioni e la sua eleganza raffinata si addicevano bene alla sua funzione di luogo di incontro delle badesse della congregazione, che stimolò tentativi in altri monasteri femminili come San Andrés de Arroyo. Qui, un’alta volta suddivisa in otto parti da costoloni chiude lo spazio continuo della sala capitolare: i costoloni si innalzano da mensole e da basse colonnine binate ad angolo e oculi si aprono nella membratura. Molti monasteri maschili hanno conservato le sale capitolari medievali: quelle di Sacramenia, Veruela e La Oliva riproducono il disegno caratteristico della loro casa madre, L’Escale-Dieu. Molti monasteri o annessi furono costruiti nel tardo Me-
dioevo. Progetti degni di nota di quel periodo rendono meno semplice la cronistoria della decadenza cisterciense, anche se si allontanano dalle regole originarie65. Nel primo XIV secolo il cornicione della facciata occidentale di La Oliva (fig. 19), i mensoloni e le metope mescolano scene sacre come l’Annunciazione e la Crocefissione, simboli moraleggianti come la Ruota della Fortuna, raffigurazioni di vita secolare e monastica e altre immagini grottesche. Raffigurazioni dell’“uomo verde” e altre figure grottesche popolano i capitelli del chiostro di Santes Creus del XIV secolo66. A Sandoval, il portale occidentale corona la campagna finale di costruzione, indetta dall’abate Pedro de la Vega nel 1462. Figure di monaci decorano i capitelli delle
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colonne slanciate e la lunetta presenta un monaco inginocchiato davanti a Cristo crocifisso e la Vergine incoronata con il Bambino. Eduardo Carrero Santamaría lo ha identificato come san Bernardo in meditazione dinnanzi a visioni o raffigurazioni che sottolineano la centralità dell’umanità di Cristo nella spiritualità cisterciense67. Altri progetti del tardo XV secolo, come quelli negli annessi di Oseira anticiparono il revival di vasta portata che ne avrebbe accompagnato l’affiliazione alla Congregazione di Castiglia da poco formata68. Altrove, sontuose cappelle funerarie, come quella della famiglia Vega a La Espina, si inserirono nelle chiese monastiche69. Le riforme che portarono alla creazione della Congregazione di Castiglia ebbero inizio nel 1427, con la fondazione di Montesion da parte di Fray Martín de Varga, e proseguirono con la riforma di Valbuena nel 1430 e con
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l’affiliazione di altre abbazie in tutto il regno fra il XV e il XVI secolo. Nel corso del XVI secolo altre riforme portarono alla creazione della Congregazione di Aragona e Navarra e, in Portogallo, di quella di Alcobaça. Queste congregazioni promossero una rinascita spirituale, intellettuale e artistica, caratterizzata da un vasto programma di ricostruzione di chiese, chiostri e annessi e di trasformazione della loro topografia medievale. Tipiche trasformazioni includevano l’aggiunta ai chiostri di un piano superiore, di cui Huerta è un magnifico esempio (fig. 20), l’elevazione di cori sopra la campata occidentale delle chiese e l’aggiunta di chiostri per i novizi e gli ospiti. Proprio mentre queste costruzioni cancellavano parti del passato medievale, alcuni cronisti monastici hanno reinterpretato quell’eredità legandola a narrazioni di un’epoca eroica, poi di decadenza e di riforma, che avrebbe gettato una lunga ombra sugli studi moderni.
ARCHITETTURA CISTERCIENSE IN GRAN BRETAGNA E IRLANDA David M. Robinson
Trent’anni dopo la fondazione di Cîteaux i Cisterciensi attraversarono per la prima volta la Manica. Nel 1128 un gruppo di monaci proveniente dall’Aumône, figlia di Cîteaux, giunse a Waverley nel Surrey, dove il vescovo di Winchester aveva messo a disposizione un sito. Tre anni dopo l’Aumône inviò monaci nel Galles, a Tintern nella valle del Wye. Di queste due fondazioni iniziali fu Waverley ad ottenere il maggior successo, divenendo la capofila di un’estesa famiglia di abbazie disseminate nell’Inghilterra del sud. La fonte principale per l’espansione dell’Ordine in Gran Bretagna e Irlanda è però costituita dalla Clairvaux di san Bernardo, avviata nel 1132 con la fondazione di Rievaulx e Fountains nello Yorkshire. Nell’arco di vent’anni queste due grandi abbazie colonizzarono la maggior parte dell’Inghilterra settentrionale e orientale, mentre Rievaulx avviò l’insediamento in Scozia. Intanto, all’inizio degli anni quaranta, san Bernardo aveva inviato monaci a Mellifont in Irlanda e a Margam e Whitland in Galles, guidando l’espansione della famiglia di Clairvaux in entrambi i territori. In tutto si contano circa 62 fondazioni cisterciensi in Inghilterra, 13 nel Galles, 11 in Scozia, 35 in Irlanda e una sull’isola di Man. Questi numeri comprendono anche all’incirca 16 case indipendenti della congregazione di Savigny, assorbita nell’ordine cisterciense nel 1147. Tutte queste abbazie vennero soppresse nel XVI secolo, con la conseguente distruzione della maggior parte delle chiese e degli edifici monastici. Anche così permane comunque una notevole eredità architettonica. In alcuni siti restano edifici ancora in piedi, e in molti casi le costruzioni sono tra le meglio conservate d’Europa. Ovviamente gli studi tendono a enfatizzare i resti più significativi, in particolare le straordinarie rovine delle abbazie dell’Ordine nello
Yorkshire. Ma c’è il rischio che ciò vada a discapito di una più piena comprensione dell’insieme dell’architettura cisterciense in Gran Bretagna e Irlanda. Notevoli lacune restano poi nelle conoscenze, solo in parte colmate dai ritrovamenti archeologici. Rivolgendosi ai primi edifici cisterciensi in Britannia, le fonti documentarie attribuiscono particolare rilievo alle strutture lignee provvisorie. In particolare cronache di diverse abbazie della famiglia di Fountains riferiscono di conversi inviati nei nuovi siti per erigere edifici «secondo la nostra abitudine», o «in accordo con la forma dell’Ordine». Il resoconto più completo è nella cronaca dell’abbazia di Meaux nello Yorkshire, dalla quale si apprende ad esempio di un edificio in legno a due piani occupato dalla prima comunità. Il dormitorio dei monaci era al piano terra e la cappella in quello superiore. Ritrovamenti archeologici hanno significativamente confermato l’esistenza di un analogo edificio nell’abbazia di Sawley, filiazione di Fountains, nel Lancashire. Scavato al di sotto delle più tarde latrine dei monaci, è uno dei cinque edifici provvisori in legno rinvenuti nel sito, tutti databili al 1150-90 circa. L’archeologia ha inoltre offerto testimonianze in Britannia di molti edifici cisterciensi di pietra anche più antichi. Sono stati scoperti resti di almeno tre chiese, con tracce di edifici monastici originari, che seguono tutte quella che è stata talvolta definita pianta cisterciense “primitiva”. Considerato che la loro costruzione è stata probabilmente iniziata negli anni trenta del XII secolo, esse rivestono un crescente significato a livello europeo. Nel contesto britannico, soprattutto le chiese consentono di scrutare in modo significativo nelle forme architettoniche dei Cisterciensi delle origini, quasi un decennio prima della comparsa su queste coste della pianta borgognona “matura” (“bernardina”).
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1. Rielvaulx Abbey (Yorkshire), veduta aerea. La chiesa fu iniziata alla fine degli anni Quaranta del XII secolo, mentre il presbiterio (sul fondo) è stato ricostruito negli anni Venti del XIII secolo. Gli edifici monastici a sud (sulla sinistra) datano al XII secolo.
2. Margam Abbey (Galles), facciata esterna, 1147-80 ca.
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Due di queste chiese sono state scavate all’inizio del XX secolo, a Waverley e a Tintern. La terza è stata scoperta a Fountains alla fine degli anni settanta e una quarta individuata grazie all’indagine geofisica al di sotto del più tardo chiostro di Rievaulx. Si trattava di semplici edifici con presbiterio poco profondo a terminazione rettilinea e navata priva di collaterali. I bracci dei chiostri a questi collegati appaiono ugualmente semplici e di proporzioni piuttosto ridotte, seguendo forse misure standard. La disposizione dei bracci induce a pensare che la progettazione delle prime sedi cisterciensi in Britannia si sia conformata a un modello standardizzato. La sala capitolare, ad esempio, era tutta compresa nella larghezza del braccio orientale, e il refettorio dei monaci era disposto in senso est-ovest, seguendo una consuetudine monastica standard. Purtroppo, nonostante l’importanza di questi edifici a livello europeo, molti particolari restano congetturali e soggetti a fraintendimenti. Solo grazie ad accurate e mirate ricerche archeologiche si può sperare di sviluppare ulterior-
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mente le conoscenze. È importante inoltre tener presente che diversi aspetti della disposizione di queste prime abbazie hanno continuato a caratterizzare i siti cisterciensi di Gran Bretagna e Irlanda. Chiese a navata unica, ad esempio, vennero iniziate alla fine degli anni novanta del XII secolo nell’abbazia di Rushen sull’isola di Man e a Grey in Irlanda del Nord. Vi sono poi molti esempi d’inizio XIII secolo in Scozia, in particolare a Culross e Saddell. Ugualmente, non subirono spostamenti refettori disposti in senso est-ovest iscritti nella larghezza del braccio sud (o nord). In Inghilterra questa collocazione è conservata a Robertsbridge e Sibton, mentre in Irlanda restano esempi a Boyle e a Dunbrody. Intanto, dalla metà degli anni quaranta del XII secolo le comunità di monaci bianchi in Britannia si erano progressivamente familiarizzate con la pianta “bernardina”. L’esatta sequenza dell’emergere di questo schema ben riconoscibile resta motivo di vivace dibattito, ma Clairvaux ne fu certamente il luogo di origine, con il prototipo iniziato quasi cer-
tamente prima della metà degli anni trenta del XII secolo. Come attesta la sua rapida diffusione, la pianta potrebbe essere stata introdotta a Rievaulx (fig. 1) prima del 1140. Venne poi trasferita a Melrose, filiazione di Rievaulx, in Scozia, e in una decina di anni tutte le filiazioni di prima generazione di Clairvaux in Gran Bretagna e Irlanda avevano iniziato chiese secondo lo stesso progetto. A Rievaulx una seconda chiesa venne costruita con questo schema dall’abate Aelredo (1147-67), mentre le comunità di Fountains e Boxley in Inghilterra, Margam (fig. 2) e Whitland in Galles e Mellifont in Irlanda adottarono tutte lo stesso modello per le loro chiese intorno agli anni cinquanta del XII secolo. La planimetria in effetti si diffuse subito nelle abbazie cisterciensi delle Isole Britanniche, sia che fossero filiazioni di Clairvaux, Cîteaux o Savigny. Un precoce esempio della famiglia di Cîteaux è stato approfonditamente scavato a Bordesley nel Worcestershire, mentre a Buildwas, figlia di Savigny, nello Shropshire, si conserva ancora gran parte della chiesa. È anche vero che la popolarità dello
schema, e la sua adeguatezza alle esigenze di alcune comunità, proseguì nel XIII secolo, come testimoniato a Cleeve nel Somerset, Valle Crucis in Galles e Graiguenamanagh e Hore in Irlanda. Tutto considerato, sono certi almeno 40 esempi tra le 122 abbazie britanniche e irlandesi, e il numero era certamente molto maggiore. Il vocabolario essenziale della chiesa “matura” (“bernardina”) è ben noto. In Gran Bretagna e Irlanda il presbiterio è nella maggior parte dei casi piccolo e a terminazione rettilinea, il transetto di due o tre campate con cappelle orientali quadrate e lunghe navate con collaterali, formate in genere da cinque a nove campate. Vi sono naturalmente eccezioni di dettaglio, che però raramente si allontanano dai princípi distributivi generali. D’altra parte se si osserva l’alzato delle chiese di Britannia e Irlanda, emergono, proprio come in Francia, centro propulsore dell’Ordine, maggiori differenze. Alcune di queste sembrano riflettere scelte regionali, altre rappresentano sviluppi nel corso del tempo. Due delle più antiche chiese del gruppo, quelle di Margam
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3. Fountains Abbey (Yorkshire), arconi della navata maggiore, particolare, 1160-70 ca.
5. Byland Abbey (Yorkshire), interno della chiesa, fine del XII secolo.
4. Buildwas Abbey (Shropshire), campata d’incrocio e navata maggiore verso ovest, 1150-80 ca.
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e Rievaulx, sono caratterizzate dalla forte austerità che costituisce il marchio dell’iniziale approccio dell’Ordine all’estetica architettonica. Le navate si sviluppano su due piani con semplici pilastri quadrati, senza articolazione verticale della campata. Si sono proposti argomenti stringenti per suggerire che il corpo orientale seguisse lo “stile di Fontenay”, cioè con presbiterio, e a volte transetto, a tetto ribassato rispetto alla navata. Una simile soluzione sembra essere stata adottata nelle filiazioni di Mellifont a Baltinglass e a Boyle in Irlanda. Tutto però si trasforma rapidamente, e le forme dei pilastri costituiscono un indicatore di come gli stili architettonici locali vengano assorbiti in alzati più evoluti. I forti pilastri a tamburo della navata di Fountains (fig. 3), degli anni sessanta del XII secolo, ad esempio, o quelli più piccoli e di poco più tardi di Buildwas (fig. 4), affondano le radici nella tradizione romanica inglese. È interessante notare che il progetto di entrambe le chiese venne modificato durante la costruzione con l’introduzione di una crociera regolare per
sostenere la soprastante torre di pietra. In realtà, dalla metà del XII secolo le torri divennero particolarmente popolari tra i Cisterciensi di Britannia e Irlanda, determinando un notevole mutamento nell’alzato esterno delle chiese. La chiesa dell’abbazia di Kirkstall nello Yorkshire venne costruita intorno al 1152-78 e potrebbe essere stata probabilmente la prima ad avere una torre già prevista nel progetto originale. Anche i pilastri a fascio dell’estremità occidentale della navata indicano che erano prossimi altri significativi mutamenti, quelli prodotti dall’arrivo e dal successivo impatto della prima architettura gotica. Recenti ricerche mostrano come sia errato ritenere che i Cisterciensi inglesi siano stati i “missionari del gotico”, in quanto responsabili dell’introduzione del nuovo stile, ma difficilmente il loro ruolo nella sua precoce e vasta diffusione può essere messo in dubbio. Nel nord dell’Inghilterra, intorno agli anni sessanta del XII secolo, i monaci di Furness in Cumbria avevano prontamente accolto elementi gotici nella costruzione della nuova
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chiesa. Entro vent’anni altri esempi compiuti di questo stile si ebbero a Kirkstead nel Lincolnshire, Roche nello Yorkshire e Dundrennan in Scozia. Il piano terra, ormai consolidato nello schema “bernardino”, continuò a prevalere, ma tutte le nuove chiese del Nord avevano ora alzati a tre livelli. I loro costruttori attinsero a piene mani dalle novità offerte dal repertorio architettonico gotico impiegando pilastri a fascio, articolazione verticale delle campate e facendo un uso sempre maggiore e sistematico dell’arco acuto e delle volte costolonate in pietra. Sul confine col Galles, dal 1170 circa, precoci elementi gotici compaiono nella ricostruzione dell’abbazia di Dore nell’Herefordshire. Nello stesso Galles, la chiesa di Strata Florida nell’estremo sud-ovest, rappresentò un importante sviluppo prima del 1200, e all’inizio del XIII secolo i Cisterciensi furono responsabili di alcuni tra i primi progetti gotici in Irlanda, comprese le loro chiese di Grey, Inch, Dunbrody e Graiguenamanagh. In quel tempo, tuttavia, la pianta “bernardina” di cinquan-
t’anni prima appariva sempre più superata. La trasformazione della grande chiesa di Clairvaux, insieme ai nuovi corpi orientali di Cîteaux e Pontigny, aprirono la strada ad analoghi sviluppi altrove. In Inghilterra l’incisivo mutamento fu presagito dalla grande nuova chiesa dell’abbazia di Byland nello Yorkshire (fig. 5). La costruzione non costituiva solo l’avanguardia dell’architettura gotica del Nord, ma si poneva come uno dei più ambiziosi esempi di chiesa cisterciense del XII secolo in Europa. Iniziata nei primi anni settanta con una navata di undici campate ed alzato a tre livelli, presentava un presbiterio rettangolare ripartito in navate. La navata lungo il fronte orientale della chiesa offriva spazio per ulteriori cappelle, come per molti versi a Cîteaux. Aumentando la velocità del mutamento, numerose comunità di monaci bianchi di Gran Bretagna e Irlanda iniziarono a ricostruire le chiese su larga scala. In molti casi i nuovi interventi si concentrarono solo sul presbiterio, ma non di rado si sostituì l’intera costruzione. In alcuni casi si trattò
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6. Netley Abbey (Hampshire), presbiterio, metà del XIII secolo.
8. Fountains Abbey (Yorkshire), sala del Capitolo, interno, 1160-70 ca.
7. Dore Abbey (Herefordshire), presbiterio, particolare, 1186-1220 ca.
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di una necessità pratica, come nell’abbazia di Stanley nel Wiltshire, dove la chiesa del XII secolo venne distrutta da un incendio nel 1212. In ogni caso il programma di ricostruzione consentiva alla comunità di adattare la chiesa ai mutati ideali liturgici, indipendentemente dalle opportunità offerte dall’ampliamento. Uno stretto parallelismo con l’assetto del presbiterio di Byland si individua alla fine del XII secolo a Dore (fig. 7), unica filiazione britannica di Morimond. Poco sopravvive della chiesa di Waverley, ricostruita nel 1203-78 circa, ma pare che il modello sia stato ripreso qui. Altri siti adottano il medesimo impianto, come Meaux, ricostruita nel 120753 circa, e l’abbazia reale di Hailes nel Gloucestershire, iniziata a costruire nei tardi anni quaranta. Tuttavia c’era un’alternativa britannica più popolare allo schema di presbiterio ripartito in navate, raramente riscontrabile nel continente europeo. La sua prima comparsa in contesto cisterciense potrebbe essere stata nell’abbazia di Jervaulx nello Yorkshire, intorno al 1190-1200. In questo
caso, sebbene il profilo esterno fosse sempre rettangolare, la terminazione orientale dell’edificio si concludeva con una testata piana a tutta altezza. Spesso definito “cliff” east end, è il modello usato nel nuovo superbo presbiterio a sette campate, di proporzioni simili a una cattedrale, costruito a Rievaulx negli anni venti del XIII secolo. Nel sud dell’Inghilterra ne sopravvive un altro esempio a Netley (fig. 6) nell’Hampshire, costruito nel 1241-55 circa. L’impianto di molte chiese cisterciensi in Britannia costruite in quest’epoca non può essere assegnato né all’una né all’altra di queste due vaste categorie. Nella nuova fondazione di re Giovanni a Beaulieu nell’Hampshire, ad esempio, il presbiterio d’inizio XIII secolo adotta una pianta a emiciclo con cappelle radiali, schema probabilmente modellato su Bonport in Normandia. Ancora meno diffuso era il presbiterio iniziato a Fountains nel 1209. La nuova costruzione si apriva all’estremità orientale in un ampio, notevole transetto a nove campate, conosciuto come Cappella dei Nove Altari, completata negli anni trenta del XIII secolo.
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In questo momento gli edifici monastici cisterciensi di Gran Bretagna e Irlanda avevano visto un notevole sviluppo. Per tutta la seconda metà del XII secolo la progettazione si era conformata ai modelli stabiliti nella terra d’origine dell’Ordine, in Borgogna. Nuove e più ampie strutture erano state costruite verso est per ospitare le comunità monastiche in espansione, esempi significativi delle quali sopravvivono a Cleeve nel Devon, Furness, Kirkstall, Rievaulx e Roche. A Waverley la struttura era stata ampliata in diverse fasi, ma eccezionalmente non era mai cresciuta oltre l’unico piano. L’edificio più importante del blocco orientale era costituito dalla sala capitolare. Come nel continente, gli esempi britannici e irlandesi presentano invariabilmente volte in pietra a costoloni, con articolazione interna a campate, formate da singoli sottili pilastri centrali. In contrasto con gran parte d’Europa, vi era una decisa preferenza per un orientamento est-ovest, con l’edificio che spesso si proiettava oltre il corpo di fabbrica vero e proprio. Il modello
era stato fissato a Rievaulx negli anni cinquanta del XII secolo con un inconsueto edificio autonomo, con l’estremità orientale absidata. L’enorme sala capitolare costruita a Fountains (fig. 8) negli anni sessanta si avvicinava di più al modello britannico, di cui una versione più piccola di XII secolo si è conservata a Buildwas, e significativi esempi d’inizio XIII secolo sono a Dundrennan, Furness e Tintern. A Cleeve, Dublino e altri siti irlandesi le sale erano voltate ad arcata unica. Tra le più sorprendenti sale capitolari cisterciensi britanniche sono quelle di Dore e Margam, costruite secondo un raro impianto poligonale nel 1205-25 circa. La planimetria del refettorio in Gran Bretagna e Irlanda venne gradualmente trasformata nel penultimo quarto del XII secolo, sempre seguendo i mutamenti avvenuti in Borgogna. Nel 1250 circa, in molti siti il refettorio ebbe forma rettangolare, col calidarium a oriente e la cucina a occidente. Lo splendido refettorio a due piani di Rievaulx è una ricostruzione degli anni ottanta del XII secolo, con il sotterraneo ricavato sfruttando un dislivello del terreno. A
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9. Fountains Abbey, ala ovest (“west range”), 1170-80 ca.
10. Dublino (Irlanda), St. Mary’s Abbey, sala del Capitolo, inizi XIII secolo. 11. Tintern Abbey (Galles), facciata occidentale, fine XIII secolo.
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Beaulieu, Hailes e Tintern vi sono interessanti testimonianze del XIII secolo della disposizione standard del piano terra. Tutti questi edifici presentavano coperture lignee, generalmente preferite in Britannia. Anche a Fountains (fig. 9), dove il nuovo refettorio degli anni settanta del XII secolo era strutturato in due navate, il corridoio centrale con quattro colonne sosteneva un tetto ligneo. Di norma il corpo di fabbrica occidentale delle abbazie cisterciensi britanniche e irlandesi ospitava l’alloggio per i conversi. Sorprendentemente la struttura di Rievaulx, d’inizio XII secolo, non venne mai ampliata, fatto difficilmente spiegabile considerata la grande comunità testimoniata dai documenti. La sua filiazione a Melrose, ad esempio, presentava un corpo occidentale molto più sviluppato. Allo stesso tempo a Byland il blocco occidentale era stata una delle prime costruzioni, del 1155-65 circa. Presenta anche un esempio dello stretto passaggio spesso utilizzato per separare l’edificio dei conversi dal chiostro. In questo caso tuttavia si trova un’interessante sequenza di 35 nicchie lungo una delle pareti, usate presumibilmente come
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sedili per i conversi. Sempre in Britannia vi è un altro importante blocco occidentale a Neath in Galles, ma nulla può essere neppure lontanamente confrontato con quello gigantesco costruito a Fountains negli anni settanta del XII secolo. Volgendoci infine al tardo Medioevo, è ancora troppo facile sottovalutare il significato delle realizzazioni architettoniche cisterciensi in Gran Bretagna e Irlanda. È importante anzitutto notare la costruzione di un crescente numero di nuove chiese abbaziali. In Galles, ad esempio, le comunità di Tintern (fig. 11) e di Neath eressero nuovi edifici tra il 1270 e il 1320 circa, entrambi con presbiteri rettangolari e alta testata piana secondo il modello “cliff” east end. Un altro esempio di questo tipo fu costruito, dal 1296, a Whalley nel Lancashire. Intanto nel 1272-73 vi erano state nuove fondazioni cisterciensi a Sweetheart in Scozia e a Hore in Irlanda. In entrambi i casi lo schema delle chiese era basato sulla planimetria tradizionale del XII secolo. Al contrario, le chiese delle tarde fondazioni reali di Vale Royal nel Cheshire (1274) e di St. Mary Graces a Londra (1350) era-
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Melrose I Borders, Scozia (dopo il 1140 ca.)
Margan
I
Neath Port Talbot, Galles (1147-80 ca.)
Mellifont Louth, Irlanda (1142-57 ca.)
Rievaulx I
Whitland
Shropshire, Inghilterra (1150-80 ca.)
Carmarthenshire, Galles (dopo il 1151 ca.)
Boxley
Boyle
Strata Florida
Kent, Inghilterra (dopo il 1152 ca.)
Roscommon, Irlanda (1161-1220)
Ceredigion, Galles (dopo il 1165)
Roche
Dundrennan
Cleeve
Yorkshire, Inghilterra (1170-80 ca.)
Dumfries e Galloway, Scozia (1170-85 ca.)
Somerset, Inghilterra (dopo il 1200 ca.)
Graiguenamanagh
Denbighshire, Galles (dopo il 1201)
Kilkenny, Irlanda (1204-40 ca.)
13. Planimetrie di chiese cisterciensi inglesi e irlandesi che seguono lo schema bernardino.
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Dore
Yorkshire, Inghilterra (dopo il 1170 ca.)
Herefordshire, Inghilterra (1186-1220 ca.)
Jervaulx
Waverley
Yorkshire, Inghilterra (1190-1200 ca.)
Surrey, Inghilterra (1203-78 ca.)
Beaulieu
Fountains
Hampshire, Inghilterra (1204-46 ca.)
Yorkshire, Inghilterra (1210-40 ca. e successivi)
Rievaulx II
Margam II
Yorkshire, Inghilterra (1220-40 ca.)
Neath Port Talbot, Galles (1220-50 ca.)
Netley
Tintern
Hampshire, Inghilterra (1241-55 ca.)
Monmouthshire, Galles (1269-1301 ca.)
Neath
Melrose II
Neath Port Talbot, Galles (1280-1330 ca.)
Borders, Scozia (dopo il 1389 ca.)
Yorkshire, Inghilterra (1147-67 ca.)
Buildwas
Valle Crucis
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Byland
0
30m
0
100 ft
0
30m
0
100 ft
14. Planimetrie di chiese cisterciensi inglesi tarde.
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15. Cleeve Abbey (Somerset), refettorio, interno fine del XV secolo. 16. Fountains Abbey (Yorkshire), torre dell’abate Huby, inizi del XVI secolo.
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no tutt’altro che tradizionali. Per offrire un quadro più preciso sarebbe utile avere un’idea più chiara nel dettaglio della sontuosa casa di Warden nel Bedfordshire, dove la chiesa venne ricostruita nel 1323-66 circa. Dopo questa, una delle ultime grandi realizzazioni britanniche fu Melrose, dove la chiesa venne ricostruita a partire dal tardo XIV secolo seguendo un programma costruttivo particolarmente protratto, ricco di sculture e finestre traforate, alcune delle quali ispirate a modelli continentali. In Irlanda gli ultimi importanti interventi su una chiesa si ebbero a Holy Cross, dal 1431 circa. I mutamenti negli edifici claustrali cisterciensi in Britannia e Irlanda nel tardo Medioevo sono stati spesso la risposta alla riduzione della comunità e all’evoluzione della vita monastica cisterciense. A parte ciò, le arcate dei chiostri sono state spesso oggetto di programmi di ricostruzione; un bell’esempio è offerto dall’elaborato disegno della decorazione delle arcate di Forde. La tendenza più notevole è forse però la crescente elaborazione architettonica delle re-
sidenze degli abati. A Fountains e Rievaulx, ad esempio, nuovi elaborati alloggi vennero realizzati sopra l’originaria infermeria. Altrove, in seguito alla scomparsa dei conversi, l’abate spesso si trasferì al primo piano del blocco occidentale, come a Hailes, Rufford nel Nottinghamshire, Sawley e Stoneleigh nel Warwickshire. Nessuno di questi edifici si è conservato intatto, ma a Forde restano tracce evidenti delle comodità godute dagli ultimi abati cisterciensi in Gran Bretagna. Si può supporre che il refettorio ricostruito di Cleeve (fig. 15), risalente al tardo XV secolo, possa essere occasionalmente servito come residenza dell’abate. Una delle ultime principali opere architettoniche cisterciensi in Inghilterra è la torre campanaria (fig. 16) costruita a Fountains dall’abate Marmaduke Huby (1495-1526). Da un lato indica Huby come uomo devoto, dedito alla riforma monastica; allo stesso tempo rappresenta un simbolo del potere e dell’influenza del singolo, un qualcosa di inimmaginabile per le pionieristiche comunità di monaci bianchi nella Britannia degli anni trenta del XII secolo.
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I CISTERCIENSI E LA LORO ARCHITETTURA NELLA REGIONE DEL MAR BALTICO Christine Kratzke
L’abate cisterciense Konrad von Eberbach († 1221) ha scritto, a proposito dell’espansione dei Cisterciensi nelle regioni nordiche e nordorientali dell’Europa, che essi si insediarono nelle terre sconosciute e barbariche della Danimarca e della Svezia, descritte come isole estreme, alla fine del mondo. La diffusione e l’insediamento dell’Ordine nelle regioni rivierasche nordiche e nord-orientali dell’Europa, tutt’attorno al mar Baltico, ebbero uno svolgimento emozionante e movimentato e vengono variamente valutati dalla storiografia. Anche la storia dell’arte si è occupata dell’architettura dei Monaci Grigi nelle regioni settentrionali della Germania, della Polonia (Pomerania orientale e occidentale) e degli stati baltici, e nella Scandinavia; tuttavia l’interesse si è concentrato soprattutto sui monasteri maschili mentre quelli femminili sono stati trascurati, come spesso avviene. La rete delle fondazioni medievali delle case figlie dell’Ordine è relativamente fitta in Danimarca, Germania e Polonia, mentre in Svezia, Norvegia e negli stati baltici sono state realizzate solo singole fondazioni. Determinanti per la filiazione di monasteri cisterciensi maschili sono state le abbazie originarie di Clairvaux e Morimond; la prima ha infatti dato il maggiore apporto con circa due terzi delle fondazioni figlie. Solo il monastero di Herrevad venne fondato direttamente dall’abbazia madre di Cîteaux. Le linee di filiazione Clairvaux-Esrum in Danimarca, Clairvaux-Alvastra e Clairvaux-Nydala in Svezia, MorimondKamp in Germania, Polonia e nel Baltico e ClairvauxFountains in Norvegia assicuravano il collegamento con la casa madre in Francia, dove si tenevano gli annuali Capitoli generali. Nel Medioevo, nella regione del Baltico esistevano appena
40 monasteri cisterciensi maschili, ma la maggior parte di essi oggi non sono conservati in forma di complessi architettonici; spesso si tratta solo di rovine più o meno pittoresche. Negli stati baltici vi sono i monasteri di Daugavgriva (Dünamünde), Kärkna (Falkenau), Padis (Padise); in Danimarca le abbazie di Esrum, Holme, Knardrup, Løgum, Øm, Sorø, Tvis, Vitskøl; nella Germania settentrionale Dargun, Althof/Doberan, Hiddensee, Hilda/Eldena, Hude, Lehnin, Mariensee/Chorin, Neuenkamp, Stolpe, Reinfeld, Ryd (Guldholm); in Norvegia i monasteri di Hovedøya, Lyse e Munkeby (Tautra); nella Polonia settentrionale le abbazie di Bierzwnick (Marienwalde), Bukowo Morskie (Buków), Kolbacz (Kolbatz), Koronow (Krone an der Brahe), Mironice (Himmelstätt), Oliwa (Oliva) e Pelplin, come pure in Svezia i monasteri di Ås, Alvastra, Gudsberga, Herrevad, Nydala, Roma (Gutualia) e Varnhem. Tutti questi monasteri furono fondati nel periodo che va dagli anni 1140 alla seconda metà del XV secolo, con un acme nel XII e XIII secolo. Nel Medioevo e nei secoli seguenti, in mancanza di grandi giacimenti di pietra naturale, il cotto, con il suo vivace color rosso, quasi lucido, era il principale materiale di costruzione che ha lasciato la sua impronta nella regione del mar Baltico. Di conseguenza anche le chiese dei monasteri nel XII e XIII secolo venivano costruite principalmente con questo materiale e solo sporadicamente con pietre squadrate, determinando le tipiche forme romaniche e gotiche in cotto. Nel XIII secolo nelle abbazie vennero intraprese spesso grandi opere di ristrutturazione, mentre nel XIV secolo si possono registrare solo pochi lavori di trasformazione e nuove costruzioni. Le varie chiese abbaziali nell’area del mar Baltico possono essere suddivise in due gruppi principali in base alle loro piante, mentre l’analisi degli al-
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zati e della struttura delle volte richiede la suddivisione in altri sottogruppi.
mente l’aspetto dello spazio interno della chiesa, pur edificata rispettando rigidamente o ampliando la pianta del tipo Fontenay. Ne sono esempi le chiese abbaziali di Vitskøl II (1200 circa), Sorø (fig. 1b) nello Sjælland (Zelanda) (I costruzione antecedente il 1247 e II costruzione dopo il 1247), e Øm (I costruzione dal 1225 fino al 1250 circa), nonché Herrevad nella Skåne (Scania, 1200 circa). Probabilmente anche i primi edifici delle chiese abbaziali di Doberan e Dargun nel Meclenburgo e Eldena nella Pomerania occidentale sono stati costruiti nella prima metà del XIII secolo secondo questo schema.
Edifici che si collegano al modello base cisterciense (gruppo A) e
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1. Diversi tipi di piante di abbazie cisterciensi nella regione del Baltico meridionale. a. Alvastra (da Hoffmann); b. Sorø (da Hoffmann); c. Løgum; d. Doberan (da Schlie); e. Varnhem (da Endenheim/Rosell); f. Eldena; g. Lyse (da Lunde); h. Kärkna/Falkenau (da Tuulse). A fronte: 2. Eldena, chiesa abbaziale, veduta da sudovest. 3. Oliwa, chiesa abbaziale, veduta degli archi della navata laterale da nordest.
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Chiese abbaziali del tipo Fontenay (gruppo A1) I monasteri cisterciensi di Alvastra (fig. 1a) nell’Oestergötland svedese e di Nydala nello Småland svedese recepiscono il severo schema di Fontenay dell’epoca intorno al 1135 (chiamato anche tipo Clairvaux I o pianta bernardina), con il corpo absidale principale a testata piana e i bracci del transetto con almeno due cappelle laterali tutte orientate. Le loro chiese sono relativamente fedeli a questo schema anche nella struttura della pianta e dell’alzato come pure nella formazione della volta. Questo vale anche per la chiesa del monastero di Roma (fondato nel 1164) nel Gotland e per il primo edificio ecclesiale del monastero di Vitskøl nello Jylland (Jütland). Questo tipo di pianta predominava nella regione del Baltico nel XII e XIII secolo. Chiese abbaziali del tipo Fontenay con alzato modificato e/o struttura evoluta della volta (gruppo A2) Le novità introdotte nella struttura dell’alzato e nella formazione della volta intervennero però a modificare ampia-
Le chiese abbaziali della linea di filiazione ClairvauxEsrum sulla riva sud del mar Baltico, quindi Dargun con la sua casa figlia Bukowo Morskie (Buków), nonché Eldena, Kolbacz e Oliwa, meritano particolare attenzione per il significativo trasferimento della forma architettonica originaria dalla Danimarca. La coincidenza formale di diverse parti architettoniche, la loro ricezione e il trasferimento delle forme all’interno dell’Ordine sono particolarmente evidenti se si comparano il duomo di Roskilde del 1230 circa, le chiese abbaziali di Sorø, Oliwa, Kolbacz e Dargun nonché Vitskøl e Eldena (fig. 1b, 1f). Sono qui rilevabili diversi elementi architettonici comparabili a livello della forma, come: semicolonne con capitelli trapezoidali e anelli in rilievo sul fusto nonché semicolonne accoppiate (figg. 3, 4 e 5), basi dei pilastri secondo il modello della ba-
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se attica (fig. 5) con foglie angolari, strombatura degli archi, motivi a graffito sulle superfici in cotto, decorazione a lisca di pesce (opus spicatum) nel rivestimento in cotto, decorazioni ad archetti semplici e archetti intrecciati, mattonelle del pavimento e fregi con motivi ornamentali e figurativi. È anche possibile riscontrare un precoce influsso dell’architettura delle regioni danesi della Zelanda e dello Jutland nelle prime costruzioni in cotto sull’isola di Rügen, realizzate sotto Jaromar, il primo principe cristiano dei Rani lì residenti, dopo la conquista dell’isola da parte dei Danesi nel 1168. Fra questi, il monastero femminile cisterciense di Bergen fondato nel 1193 sull’isola di Rügen (figg. 4 e 5), la cui chiesa venne costruita fra il 1180 e il 1220.
la seconda costruzione della chiesa abbaziale di Vitskøl (Vitskøl II) fa parte in senso lato di questo gruppo, solo che il corpo orientale a testata rettilinea del tipo Fontenay è stato ampliato mediante un deambulatorio con piccole absidi semicircolari sui lati del coro.
Chiese abbaziali con cori rettangolari (gruppo A3) Nella regione del mar Baltico troviamo anche chiese con cori rettangolari e numerose cappelle del tipo Cîteaux II/Morimond II. Tra le chiese cisterciensi della Germania settentrionale questo tipo si riscontra per la prima volta nella pianta della chiesa abbaziale di Hude presso Brema, risalente al 1235 circa. Lo si ritrova in seguito anche nelle chiese abbaziali di Løgum (fig. 1c), Mariensee sull’isola Pehlitzwerder del lago di Parstein, Neuenkamp a Franzburg, Hiddensee, Pelplin (fig. 6) e Koronow. Anche
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Chiesa abbaziale del tipo Clairvaux II/Pontigny II con deambulatorio e cappelle radiali (gruppo A4) La chiesa abbaziale di Varnhem (fig. 1e) nel Västergötland svedese (Varnhem II) rappresenta un’eccezione fra le costruzioni qui considerate, dato che la sua pianta segue il modello di Clairvaux II, il cui nuovo coro fu consacrato all’incirca nel 1180. Venne così realizzata una basilica a tre navate con transetto e deambulatorio con cappelle radiali, il cui coro si avvicina molto, nella pianta e nell’alzato, a quello della chiesa abbaziale francese di Pontigny. Originariamente, fra il 1170 e il 1200, a Varnhem si era costruito secondo lo schema di Fontenay ma, dopo un incendio, nel 1134 si era proceduto alla nuova costruzione del coro e nel 1266 alla copertura a volta del corpo longitudinale e del transetto. È altresì notevole l’influenza della Vestfalia, trasmessa soprattutto dalla chiesa cisterciense di Marienfeld, dal duomo di Münster e da quello di Osnabrück, come è evidenziato dalle corrispondenze per esempio nelle mensole, nelle volte e nei costoloni.
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Costruzioni collegate solo in parte o per nulla al modello cisterciense (gruppo B) Chiese con tipica pianta di cattedrali e alzati corrispondenti; chiese abbaziali con impianti di cattedrali gotiche (gruppo B1) Nella regione baltica possiamo citare tra i migliori esempi di chiese cisterciensi che si rifanno all’impianto delle cattedrali gotiche quelle di Doberan (fig. 8) e Dargun (fig. 7). Il corpo longitudinale della chiesa monastica di Dargun, della prima metà del XIII secolo, segue ancora il sistema alternato della basilica precedente (Dargun II), che aveva originariamente una terminazione rettilinea del tipo di Fontenay, ma – come il modello di Doberan I – presentava un alzato modificato a doppia partizione. Il coro e il transetto del XV secolo seguono invece una pianta (Dargun III) che trova la sua origine nelle cattedrali gotiche francesi. Il coro è chiuso da un poligono a 3/6* e i due bracci del transetto da due cappelle laterali a terminazione rettilinea; inoltre – molto importante – il deambulatorio e le cappelle si uniscono nella pianta e nella volta in uno spazio unitario tripartito. * Con questa frazione si indica al numeratore il numero dei lati dell’abside poligonale a al denominatore il numero dei lati del poligono ideale a cui quest’abside appartiene. In questo caso l’abside è costituita dai tre lati di un esagono.
Il passaggio all’impianto tipico della cattedrale gotica avvenne con la chiesa di Sankt Marien nella città anseatica di Lubecca. Da questa, la struttura passò alla seconda chiesa abbaziale di Doberan (Doberan II) e a numerose chiese di grandi città della riva sud e dell’entroterra del mar Baltico, come per esempio il duomo di Schwerin, Sankt Marien a Rostock e Sankt Nikolai a Wismar. La chiesa del monastero di Doberan divenne così il modello determinante della costruzione, nuova e retrospettiva, del coro e del transetto tardogotici di Dargun. Chiese monastiche con cori poligonali semplici (gruppo B2) Le piante delle chiese monastiche di Kolbacz nella Pomerania occidentale e di Chorin nella marca del Brandeburgo presentano cori poligonali semplici. La chiesa abbaziale di Chorin con pianta basilicale a tre navate aveva un corpo absidale poligonale a 7/12 senza cappelle annesse, dell’epoca fra il 1273 e il 1280/85, mentre la facciata cieca occidentale venne ricostruita subito dopo (fra il 1285 e il 1305), sontuosa e imponente. Analogamente il corpo longitudinale tardo romanico-primo gotico della chiesa basilicale di Kolbacz (Kolbacz I) risalente al 1210-1230, che presentava un coro del tipo Fontenay, venne trasformato all’inizio del XIV secolo con forme gotiche. Fu costruito un coro a doppia campata con un semplice poligono a 5/8
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Nelle due pagine precedenti: 4. Bergen sull’isola di Rügen, chiesa abbaziale, gli archi del transetto. 5. Bergen sull’isola di Rügen, chiesa abbaziale, un pilastro della navata. 6. Pelplin, chiesa abbaziale, veduta da nord-est.
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7. Dargun, chiesa abbaziale, veduta da nord-est. 8. Doberan, chiesa abbaziale, coro, veduta da sud-est.
(Kolbacz II); la medesima cosa avvenne nella chiesa conventuale di Eldena (fig. 1f) dove venne realizzata un’abside poligonale a 5/8. Ma anche qui fu costruita a occidente una facciata cieca con un grande rosone e un portale riccamente decorato. Questa chiesa abbaziale è stata probabilmente il modello per quella del monastero di Bierzwnick (Marienwalde) dove, fra il 1330 e il 1350 circa, fu realizzata un’abside poligonale a 7/12. Per la ristrutturazione della chiesa di Oliwa venne invece scelta un’abside poligonale a tre lati, ancora più semplice. Chiese abbaziali con altre strutture della pianta e dell’alzato (gruppo B3) Già nella seconda metà del XII secolo vennero realizzate altre piante che possiamo definire molto semplici e lineari, come per esempio il corpo orientale a forma di coro rettangolare, il capocoro con abside semicircolare o il coro multiplo (Staffelchor) del tipo Cluny II. Il monastero di Lyse (fig. 1g) in Norvegia ha una chiesa romanica a una navata della seconda metà del XII secolo, il cui transetto di dimensioni ridotte non aveva alcun accesso diretto alla crociera. È molto interessante notare che questa pianta corrispondeva a quella della prima chiesa dell’abbazia Waverley in Inghilterra. Analogamente a Lyse, il monastero cisterciense di Munkeby in Norvegia (trasferito nel 1207 a Tautra), in assoluto il più settentrionale, possedeva una chiesa molto semplice, come era anche la chiesa conventuale di Holme, che presenta una pianta con capocoro rettangolare e due bracci di transetto separati da pareti dal corpo longitudinale. Gruppo speciale I monasteri fondati nel XIII e XIV secolo nei paesi baltici – Kärkna (fig. 1h), vicino a Tartu (Dorpat) e Daugavgriva vicino a Riga in Lettonia, che dopo il 1305/10 venne spostato a Padise nei pressi di Tallin (Reval) in Estonia – costituiscono un gruppo di edifici straordinari per la regione baltica. Queste abbazie oggi sono rovine, ma a Padise vi è ancora una parte di costruzione relativamente grande con un muro originale del XIII e XIV secolo. In questi casi si tratta di architetture fortificate che hanno subìto un cambiamento di destinazione incorporando una chiesa abbaziale, secondo lo schema degli edifici fortificati degli ordini cavallereschi del tipo detto della casa conven-
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tuale o del castellum, per i quali funsero da modello le cappelle dei castelli dell’Ordine Teutonico. L’aggiunta di cripte a Padise e a Falkenau è atipica rispetto alle chiese cisterciensi mentre dettagli architettonici come le mensole di Padise potrebbero aver trovato il loro modello in corrispondenti strutture cisterciensi.
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Conclusione La regione del mar Baltico presenta una varietà eterogenea di piante nelle chiese dei monasteri maschili cisterciensi, con diversi impianti di pianta, alzato e sezione, nonché varie realizzazioni nei dettagli. Inizialmente predominava la pianta del tipo Fontenay, con la quale ci si rifaceva alle tradizioni dell’Ordine che rimandano alla Francia. Venivano però utilizzati anche tipi di pianta per lo più correnti negli edifici ecclesiastici secolari. Soprattutto nel XIV secolo se ne può trovare il motivo nel forte influsso della cattedrale gotica. Tuttavia nella realizzazione dell’alzato, come per esempio la struttura dei pilastri e il trattamento delle pareti e dei dettagli, si può chiaramente individuare l’influenza delle tradizioni proprie dell’Ordine e di quelle locali. Se nell’architettura delle chiese abbaziali della regione del mar Baltico vi sono numerose analogie e influenze reciproche, è possibile riscontrare altrettante differenze e particolarità all’interno dei singoli gruppi architettonici. Non si può, in altri termini, constatare un’accentuata preferenza per un progetto ipoteticamente tipico dei Cisterciensi. È verificabile una grande varietà di adeguamenti negli impianti sia della pianta che dell’alzato e delle volte, nonché dei particolari architettonici; tuttavia l’architettura delle chiese conventuali che pure, in un certo senso, tende alla monumentalità, resta legata a una certa semplicità e al rigore “cisterciensi”. In questo contesto può inoltre esser presa in considerazione la progettazione, in parte anche formalmente e strutturalmente retrospettiva, di edifici ecclesiastici consapevolmente orientati alla tradizione. Non si è tuttavia mai voluto chiaramente il rigoroso trapianto di un progetto supposto vincolante ma per ogni luogo vennero trovate e realizzate soluzioni proprie di progettazione e costruzione, una scelta che, in questa regione dove predomina il mattone, rispecchia anche le svariate possibilità di utilizzo di questo surrogato della pietra. L’uniformità, l’omogeneità e l’unità erano l’importante legame interno che univa le case dell’Ordine, ma questo non ebbe come obbligata conseguenza l’uniformità in architettura.
Agli albori del XII secolo il cristianesimo si era affermato nel territorio del Regno d’Ungheria e l’organizzazione ecclesiastica si era consolidata in tutto il Paese. Grazie ad essa vennero costruite sempre più numerose chiese di villaggio e create molte parrocchie. Solo allora – da cento a centocinquant’ anni circa dopo la fondazione dello stato ungherese – le ricche risorse naturali del Paese e il continuo aumento della popolazione trasformarono velocemente aree in precedenza scarsamente popolate in insediamenti più densi. Tale processo può essere meglio valutato sulla base tanto della massiccia immigrazione dall’Occidente, in cerca di possibilità di sussistenza, di hospites che parlavano tedesco o lingue neolatine, che dei mutamenti nell’organizzazione delle estese proprietà reali. Dagli ampi domini personali del re che includevano anche regioni collinose e boschive del Paese vennero create contee forestali. Le residenze reali esistenti, spesso provviste di chiese o cappelle, vennero in misura sempre maggiore concesse dai re della casa di Árpád a ordini monastici per la fondazione di monasteri. Ciò significa – come viene spesso comprovato dalle ricerche archeologiche – che questi monasteri non nacquero dal nulla, anche nelle aree scarsamente abitate. Nell’Ungheria medievale, regione di confine del cristianesimo occidentale, che comprendeva anche le odierne Slovacchia e Transilvania, l’ordine cisterciense si radicò profondamente verso la metà del XII secolo. Re Géza II (11411162) che ebbe un ruolo fondamentale nell’ampio insediamento di hospites nella Transilvania meridionale, fondò nel 1142 a Cikádor (Bátaszék), nella parte occidentale del Paese, il primo monastero in Ungheria (fig. 1). I primi monaci che vi giunsero provenivano dal monastero fondato a Heiligenkreuz, nel vicino margraviato d’Austria, non molto tempo prima (1133).
Contrariamente ad altre regioni al confine orientale dell’Europa di rito latino, in Ungheria per decenni il primo monastero cisterciense non fu seguito da altre fondazioni analoghe. La ragione potrebbe essere dovuta al persistente deterioramento delle relazioni fra Ungheria e Germania a partire dal 1145. Un cambiamento a questo proposito può essere collegato alla persona di re Béla III (1172-1196) che, nel 1179, fondò il monastero di Egres (l’odierna Igrix, Romania) nei pressi del fiume Murex, dove invitò monaci da Pontigny, uno dei primi quattro monasteri dell’Ordine. Dietro a questo mutamento di direzione e di livello di rapporti dobbiamo senza dubbio ricercare una ragione dinastica: attraverso Anne de Châtillon, la sua prima moglie, re Béla III, era in contatto diretto con il monastero di Pontigny, e fra le sedici abbazie da esso fondate, solo quella di Egres si trova fuori dal territorio francese. Particolare interessante è che già nel XII secolo Egres riceveva libri da Pontigny. Oltre a Egres, re Béla III fondò altri tre monasteri cisterciensi, dove ugualmente invitò monaci dalla Francia. Tutti provenivano dal ramo di Clairvaux: i primi gruppi, di almeno dodici monaci ognuno, vennero mandati rispettivamente da Clairvaux a Zirc nel 1182, da Trois Fontaines a Szentgotthárd nel 1184 e da Acey a Pilis pure nel 1184. Gli stretti rapporti che vennero mantenuti con la Francia dopo questi primi passi possono essere attribuiti alla seconda moglie di Béla III, della dinastia dei Capetingi, Margherita figlia di re Luigi VII di Francia. La fondazione di questi monasteri reali avveniva dopo una profonda preparazione diplomatica. Grazie a un’autorizzazione emanata nel 1183 da Béla III su richiesta di Pietro, abate di Cîteaux, possiamo conoscere meglio in che cosa consistesse tale lavoro. Essa garantiva agli attuali e futuri monasteri cisterciensi in
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1. Bátaszék (Cikádor), resti delle fondamenta della prima abbazia cisterciense in Ungheria (1142), scavi di Ilona Valter.
2. Veduta dell’ex abbazia cisterciense di Bélapátfalva nel suo contesto territoriale.
Ungheria esattamente gli stessi diritti di cui godeva l’Ordine in Francia. In una carta del 1211 del re Andrea II vennero concessi al monastero di Toplica (odierna Topusko, Croazia) i privilegi dei monasteri cisterciensi in Ungheria facendo riferimento a quelli di Egres e Pilis. Le successive fondazioni monastiche durante il regno di Béla III ebbero luogo dopo il 1184: nel 1191, per ordine del re, alcuni monaci si spostarono da Pilis al monastero di Pásztó, già appartenuto ai Benedettini, e con il suo permesso Dominicus, bano (governatore) di Croazia, invece di compiere un pellegrinaggio in Terra Santa fondò il monastero di Borsmonostor (Mons Sanctae Mariae, odierno Klostermarienberg, Austria). Nel 1197, poco dopo la morte di Béla III, alcuni monaci cisterciensi giunsero a Borsmonostor dalla vicina Heiligenkreuz, casa-figlia di Morimond. Borsmonostor fu il primo monastero cisterciense in Ungheria di fondazione non reale, e il fondatore lo designò come luogo della propria sepoltura. Una sorprendente caratteristica della grande ripresa di fondazioni verificatasi durante il regno di Béla III è che nella maggioranza di questi monasteri non affluirono monaci provenienti dai vicini territori austriaci, né da quelli relativamente prossimi della Germania, ma direttamente dalla Francia. A questo può aver contribuito l’influenza di chie-
rici ungheresi che studiavano in Francia, così come pure i legami dinastici e la qualità delle relazioni fra Ungheria e Germania che divennero tese sotto Federico I (Barbarossa). Questo stato di cose continuò durante il regno del figlio di Béla III, re Emeric (1196-1204) e di re Andrea II (1205-1235), tanto è vero che Andrea II chiamò monaci da Clairvaux per Toplica e il principe Béla (futuro re Béla IV) popolò l’abbazia di Pétervárad (Belae Fons, odierna Petrovaradin, Serbia) con monaci di Trois Fontaines. L’esempio reale fu seguito anche dai fondatori privati. I legami personali influenzavano notevolmente le relazioni con la Francia e la maggioranza delle fondazioni non derivava da filiazioni di Morimond, che pure era in prima linea per gli insediamenti nell’Europa centrale e orientale (quattro monasteri), ma dal ramo di Clairvaux (undici monasteri) e in parte minore dal ramo di Pontigny (tre monasteri). Questi diciotto monasteri erano maschili, ma sono altrettanto noti quattro monasteri cisterciensi femminili: Brassó (Kronstadt, odierna Braxov, Romania), Ivanics (odierna Kloytar-Ivani0, Croazia), Pozsony (Pressburg, odierna Bratislava, Slovacchia) e Veszprémvölgy (Vallis Vesprimiensis, vicino a Veszprém). La grande ondata di fondazioni monastiche al tempo di Béla III fu seguita dal 1232 al 1240 da un’altra ondata minore che portò alla fondazione di sei nuovi monasteri
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3. Zirc, lastra commemorativa della fondazione dell’altare di re Emeric (1196-1204).
(Bélháromkút/Tres Fontes de Bel, Gotó/Honesta Vallis, Pétervárad, Pornó, Pozsony e Veszprémvölgy). Fra questi Pétervárad fu l’ultimo monastero cisterciense di fondazione reale. In questa ondata ebbe sicuramente un grande ruolo il monaco cisterciense Iacobus de Pecoraria, abate di Trois Fontaines, che fu legato pontificio in Ungheria fra il 1232 e il 1234 su mandato di papa Gregorio IX. Dopo l’invasione dei Tatari del 1241-1242 che lasciò l’Ungheria in rovine, nel Paese furono costruite solo cinque abbazie cisterciensi ma nessuna di particolare rilievo. La parte avuta da una fondazione reale e la sequenza della costruzione di un monastero possono essere studiate con particolare chiarezza nel caso dell’abbazia di Pilis, che è stata relativamente ben esaminata a livello archeologico. A Pilis, gli scavi archeologici e le recenti ricerche geofisiche hanno chiaramente evidenziato i resti di una chiesa precedente – XI-XII secolo – e di un edificio rettangolare in pietra che ha potuto essere identificato come una residenza reale. Fu in questo luogo che re Béla III fondò il monastero cisterciense nel 1184. È degno di nota il fatto che la nuova opera di costruzione non iniziò con una chiesa per i monaci (pare che per un certo periodo usassero la vecchia chiesa palatina), ma con i vari spazi indicati come indispensabili dalla regola dell’Ordine (cappella, dormitorio, refettorio, foresteria, portineria). La parte più antica (l’ala orientale del quadrum, l’edificio quadrato del monastero che venne costruito più tardi) comprendeva una cappella, una sala capitolare, vicino a questa una stanza per i monaci che poteva essere riscaldata e una scala che portava al dormitorio al piano superiore. I pavimenti di queste prime stanze erano originariamente di mattoni decorati con cerchi intrecciati, incisi con l’aiuto di compassi. Si conoscono degli eccellenti paralleli nei pavimenti di monasteri francesi del XII secolo (Cîteaux, Fontenay, Morimond, Le Thoronet). Dopo l’erezione dell’ala orientale del monastero, venne 3
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costruita una nuova chiesa a tre navate, un transetto e il presbiterio con abside rettilinea. Il nuovo edificio fu innalzato sui resti dell’antica chiesa che era stata demolita e su un enorme terrapieno tagliato nel fianco della collina. Secondo i risultati della ricerca archeologica e di storia dell’arte vennero costruiti per primi il presbiterio e il transetto, mentre le tre navate a volta vennero aggiunte in seguito. La lunghezza complessiva della chiesa, che con la sua grandiosa pianta assomiglia a quella del monastero di Acey (Locus Accintus, Borgogna) che popolò con i propri monaci il monastero di Pilis, era di 57 metri. Nel monastero di Zirc, fondato all’incirca nella stessa epoca di Pilis (1182), la costruzione della chiesa, avvenuta in fasi successive da est a ovest, può addirittura essere documentata. A Zirc le fondamenta dell’altare vennero poste al tempo di re Emeric, mentre il corpo della chiesa, di cui sopravvivono come testimonianza un’unica colonna e sparsi frammenti di pietra incisa, venne eretto un po’ più tardi, nel primo quarto del XIII secolo (Zirc, figg. 3-4). Precedenti ricerche storiche avevano supposto che i re della casa di Árpád, che avevano promosso la costruzione del monastero di Pilis con le loro donazioni, l’avessero destinato a essere il luogo di sepoltura della loro dinastia. Tuttavia questo programma, se pur esistito, non venne realizzato completamente. L’unica sepoltura reale conosciuta è quella di Gertrude di Merano, la prima moglie di re Andrea II, assassinata nel 1213, su cui venne innalzata una tomba con una ricca decorazione scultorea negli anni 1220. Sappiamo da fonti scritte che i monaci di Pilis si aspettavano che anche Andrea II venisse sepolto lì. Tuttavia il re, insieme alla sua seconda moglie, Yolanda de Courtenay, scelse come luogo del loro definitivo riposo il monastero cisterciense di Egres. A Pilis, la costruzione delle altre ali del monastero, dell’edicola della fontana e del chiostro le cui arcate si aprono su un cortile (giardino del monastero), avvenne all’incirca alla stessa epoca della costruzione della chiesa, ma, come risulta dalla separazione dei muri di fondazione, in alcune fasi
4. Zirc, pilastro della navata utilizzato come base di statua, unico resto della chiesa abbaziale medievale.
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successive. L’opera venne completata con la copertura a volta delle gallerie del chiostro, che originariamente, prima dell’invasione tatara dell’Ungheria, avevano una copertura piatta. Nell’edicola ottagonale con copertura a volta che si apre sul chiostro, dalla fontana decorata di marmo rosso un getto d’acqua si riversava nella vasca sottostante e riforniva di acqua per bere e lavarsi le mani. Scavi archeologici hanno portato alla luce la condotta di alimentazione di tale getto d’acqua, che consisteva originariamente in un canale scavato in andesite e coperto da lastre di pietra, in cui un condotto di piombo portava l’acqua dalla vicina fonte carsica fino alla fontana per poi convogliarla, per mezzo dell’installazione di uno scarico, all’estremità orientale della costruzione, al portale e poi nel ruscello. In seguito, nel tardo Medioevo, la condotta di piombo, che si era nel frattempo spezzata, venne sostituita da una serie di tubi di ceramica inseriti l’uno nell’altro. Nei luoghi dove, secondo le indicazioni, l’ala orientale del
monastero, indispensabile per i monaci, fu costruita per prima (come a Pásztó) e l’intervento sulla chiesa più antica preesistente sul sito ebbe luogo solo in seguito, il processo di costruzione evidenzia tratti simili a Pilis. Lo mostrano i casi in cui gli scavi sono stati estesi dietro alla chiesa fino alle abitazioni destinate ai monaci. Il ricordo dell’esistenza di chiese precedenti la costruzione cisterciense è rimasto conservato nel nome dell’insediamento, nel nome del santo patrono (Szentgotthárd) non caratteristico dei monasteri cisterciensi, oppure in una fonte documentaria che riferisce di un precedente monastero benedettino (come a Pásztó, Pornóapáti) incorporato solo successivamente dai Cisterciensi. Questo particolare sistema per edificare i monasteri può anche fornire la risposta a problemi a lungo discussi nel quadro della ricerca sul campo. Tali questioni riguardano normalmente la differenza a volte significativa fra la data di fondazione del monastero, che solitamente è conosciuta con esattezza, e la datazione degli edifici rimasti e altre ve-
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5. Kertz (Candela, Transilvania/Romania), rovine del monastero cisterciense medievale. Facciata occidentale e torre.
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6. Kertz (Candela, Transilvania/Romania), rovine del monastero medievale cisterciense. Coro e ala est del quadrum.
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7 e 8. Bélapátfalva (Tres Fontes de Bel), ex-chiesa abbaziale cisterciense, veduta da sud e facciata occidentale.
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stigia. Un esempio classico a questo riguardo è il monastero di Kerc (Kerz/Candela, odierna Cârwa, Romania), fondato da Andrea II nel 1202 circa, al margine del territorio abitato dai Sassoni transilvani, da lui in particolare sostenuti. L’unica chiesa monastica cisterciense della Transilvania esistente ancora oggi, imponente seppur in rovina, aveva una struttura cruciforme a tre navate che terminavano in un presbiterio poligonale a volta con contrafforti (figg. 5-6). Una ricerca storica precedente aveva datato questa costruzione a prima del 1240, ma la successiva indagine archeologica ha provato che la chiesa oggi esistente era stata preceduta da un primo edificio absidato e che la costruzione della chiesa gotica è avvenuta solo nella seconda metà del XIII secolo. Possiamo dire la stessa cosa per il monastero cisterciense di Pétervárad, nella regione di Sirmium, la cui pianta evidenzia un’analoga soluzione. Qui, sulla proprietà confiscata al comes Péter (l’assassino della regina Gertrude), re Andrea II e il figlio di Gertrude, il principe Béla (futuro re Béla IV) avevano eretto un monastero cisterciense. Il monastero precedente, fondato nel 1234, era stato probabilmente costruito sotto la collina del castello di Pétervárad, in un luogo noto come “fonte di Béla” (Belae Fons). Il monastero era stato trasferito dal re
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sulla collina dopo l’invasione dei Tatari del 1241, da cui si evince che la chiesa qui eretta – distrutta successivamente ma indicata sulle carte del XVII secolo – può esser stata realizzata solo nella seconda metà del XIII secolo e sicuramente prima del 1344. Una questione fondamentale nello studio dei monasteri cisterciensi è quella relativa ai cantieri che li hanno costruiti. Sebbene non vi sia alcun dubbio che i Cisterciensi avessero i propri maestri costruttori, studi recenti in Ungheria riguardano proprio il ruolo decisivo delle maestranze nella scelta dei tipi e delle forme costruttive e, allo stesso tempo, attribuiscono loro legami che avrebbero dilatato il quadro dell’architettura dell’Ordine. Nel caso del monastero di Pilis, che è stato il più studiato e di cui si sono conservati migliaia di frammenti di pietra incisa, è evidente che non si tratta di costruttori cisterciensi indipendenti, ma di costruttori formatisi in Francia, legati ai progetti edilizi dei monarchi della casa di Árpád a Esztergom e Óbuda. Questi stessi maestri costruttori lavorarono certamente su incarico della corte a Pilis allo stesso modo con cui lavorarono alla seconda cattedrale di Kalocsa, il cui arcivescovo, Bertoldo di Merano (1207-1218) era fratello della regina
Gertrude. L’attività di questo gruppo legato alla corte reale era caratterizzata da una notevole abilità nella costruzione e nella scultura architettonica e anche dal frequente uso di marmo rosso in sostituzione del porfido, per sottolineare la regalità. Questo marmo rosso veniva fornito al monastero di Pilis da una cava, in un primo tempo reale e poi arcivescovile, situata a una distanza di trenta/quaranta chilometri. Nel caso di Kerc (un’analoga fondazione reale), vicino alla città di Hermannstadt (odierna Sibiu, Romania), è possibile seguire le tracce di questi maestri costruttori che collaborarono prima di tutto all’edificazione di molte chiese parrocchiali nella regione del Burzenland, nel sud-est della Transilvania (per esempio Tartlau/Prejmer nei dintorni di Kronstadt/Braxov, Romania), dopo che Béla IV aveva ceduto questi insediamenti all’ordine cisterciense nel 1240. Secondo un decreto reale, in questo luogo chiese, cappelle e altari potevano essere costruiti e i cimiteri consacrati solo con il permesso dell’ordine cisterciense. In generale il legame fra l’architettura dei singoli monasteri cisterciensi e quella dei vicini centri reali o ecclesiastici era determinante quanto all’origine dei loro costruttori. Possiamo osservare lo stesso riguardo alle case cisterciensi fondate da vescovi o da magnati laici. Per esempio il monaste-
ro di Bélapátfalva (Tres Fontes de Bel), fondato nel 1232 da Cletus, vescovo di Eger, evidenzia dei nessi con i progetti di costruzione del vescovo stesso a Eger (figg. 7-8). Lo stile di Bélapátfalva, indubbiamente un po’ superato a paragone di quello di Pilis, può probabilmente essere messo in relazione con un gruppo di artigiani attivo a Eger identificabile solo con difficoltà. Il monastero di Szepes (Sancta Maria de Scepusio, odierna Ytiavnik, Slovacchia), fondato nel 1223 da Dyonisius, capo tesoriere (camerarius regis) di Andrea II e comes di Szepes, evidenzia dei nessi con i monasteri cisterciensi nel sud della Polonia (Sulejów, Koprzywnica). Infatti il primo gruppo di monaci arrivati a popolare il monastero di Szepes proveniva da questa regione, dal monastero di Camina (Wa˛ chock), una casa-figlia di Morimond. I legami con la Francia, inizialmente molto intensi, si indebolirono gradualmente a partire dalla seconda metà del XIII secolo. Ciò può essere essenzialmente attribuito alla grande distanza geografica. Per questa ragione, gli abati di Ungheria erano obbligati a partecipare al Capitolo generale a Cîteaux non annualmente, ma ogni tre anni, e ogni cinque anni nel caso dell’abate del monastero di Kerc in Transilvania, la casa più distante in assoluto.
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Analogamente i capi dell’abbazia madre francese visitavano le case-figlie di Ungheria sempre più raramente e il loro compito veniva sempre più frequentemente espletato dall’abate di Heiligenkreuz o di Rein in Austria, quando non ne veniva incaricato un abate ungherese, per lo più l’abate di Pilis, quello che aveva maggior influenza. Il trasferimento del titolo di abbazia madre a un altro monastero più vicino era evidentemente un atto legale registrato per iscritto, ma solo occasionalmente questi dati sono giunti a noi, come nel caso di Szentgotthárd, dove nel 1448 lo status del monastero come casa-madre fu trasferito all’abbazia di Rein. L’apogeo raggiunto dall’ordine cisterciense fra il 1118 e il 1280 fu seguito dal declino nel XIV secolo. Visitando i monasteri ungheresi nel 1356-7 su richiesta del re di Ungheria, Siegfried von Waldstein, abate di Rein, fece tristi scoperte. Sembra però che l’intervento della monarchia nei
monasteri di fondazione reale abbia portato presto dei risultati, almeno nel caso del monastero di Pilis, dove negli anni 1360 iniziarono importanti lavori di costruzione (una nuova parete divisoria fra navata e coro, un pontile con una ricca decorazione scultorea) mentre il suo abate intraprese importanti missioni diplomatiche. L’irreparabile declino dei monasteri iniziò nel XV secolo e l’avanzata turca seguita alla disfatta ungherese nella battaglia di Mohács nel 1526 nonché le lotte intestine che dilaniavano il Paese, misero fine a tutti i monasteri medievali. La distruzione fu tale che nel XVIII secolo, dopo la cacciata dei Turchi, anche solo identificare i luoghi di alcuni monasteri (come quello di Pilis) presentava grande difficoltà. Solo casi eccezionali, per esempio Zirc, dove una nuova chiesa e un nuovo monastero sono stati costruiti sulle rovine medievali, sono divenuti ancora una volta dimora di monaci cisterciensi.
LE MONACHE CISTERCIENSI E L’ARTE NEL MEDIOEVO Elizabeth Freeman
«L’osservanza delle monache dell’ordine cisterciense si è moltiplicata come le stelle del cielo ed è cresciuta in modo straordinario. Il Signore le benedice e le invita: “Crescete e moltiplicatevi, e riempite i cieli”». All’inizio del XIII secolo, quando Jacques de Vitry scrisse queste parole, il numero dei monasteri femminili cisterciensi stava aumentando vertiginosamente. Il XII secolo era stato un periodo di crescita organica e informale: al seguito della prima fondazione femminile a Tart negli anni 1120, donne e patrocinatori si erano ispirati alla riforma cisterciense e avevano fondato nuovi monasteri seguendo le modalità cisterciensi oppure avevano trasformato da benedettine in cisterciensi le consuetudini delle case già esistenti. Spesso queste iniziative locali avevano superato la capacità dell’amministrazione cisterciense di registrarle. Ciononostante, all’inizio del XIII secolo il grande numero di monasteri femminili cisterciensi era evidente. Nel 1200 c’erano circa cento monasteri femminili in Francia, mentre la prima metà del XIII secolo registrava un’esplosione di centocinquanta monasteri femminili in Germania e una forte crescita nei Paesi Bassi, per non parlare dell’espansione in altre regioni. Al tempo in cui scriveva Jacques de Vitry, non c’erano monasteri femminili solo in Occidente ma anche in Terra Santa. Alcuni monasteri femminili erano incorporati formalmente, vale a dire che il Capitolo generale cisterciense aveva registrato la loro entrata nell’Ordine. Altri monasteri femminili, in particolare in territori lontani dall’Europa continentale occidentale, cuore dell’ordine cisterciense, non ebbero mai lo status di ufficialità, anche se sembra che non abbiano risentito minimamente di questa mancanza. Gli studiosi moderni hanno identificato 530 monasteri femminili nell’Europa medie-
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vale, ma potrebbero essere stati più di 700. Il tema arte e monache è molto ampio. Gli oggetti artistici possono fare la loro apparizione sotto diverse forme e in luoghi diversi: oggetti inerenti la Messa e la liturgia, oggetti per la meditazione personale, oggetti presenti nel refettorio e nel chiostro, reliquiari, sculture, dipinti, architettura, miniature di manoscritti, pastorali delle badesse, sigilli, terrecotte, spille, piastrelle, arazzi, ricami, mobilio, oggetti devozionali, crocifissi, vetrate, abiti – l’elenco può proseguire. Ma l’arte non è solo un oggetto fisico che può essere toccato. Come vedremo, la cultura artistica delle monache medievali coinvolge tutti i sensi, compresi quelli più spirituali che fisici. Esse non sempre creavano la propria arte, gran parte della loro attività artistica avveniva attraverso l’uso e l’apprezzamento di oggetti artistici prodotti da altri. Sotto questo aspetto le monache cisterciensi non erano diverse dalle altre religiose, ma non è chiara la misura in cui si può identificare una loro arte specifica. Possiamo facilmente notare che il mondo artistico di una monaca cisterciense medievale non era probabilmente molto diverso da quello di una monaca benedettina e non è quindi sorprendente che le case monastiche femminili fossero in grado di cambiare la loro affiliazione con una certa regolarità. Le statue, i dipinti e altri oggetti artistici potevano chiaramente aiutare le monache nel cammino verso la loro “patria celeste” (RB 73,8). Molto spesso leggiamo come una monaca pregasse davanti a un crocifisso o a un oggetto devozionale e come ella potesse così giungere a comunicare con Cristo. Non era l’oggetto solo a creare questa relazione, anche l’interazione della religiosa con esso poteva sicuramente rendere la relazione più facile. A volte il rapporto era molto fisico – toccare, abbracciare e baciare una statua
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(fig. 1) – ma l’atto fisico non era lo scopo, lo scopo era creare empatia con Cristo e raggiungere una più profonda relazione con Lui. Vedere era importante. I monasteri erano ricchi di statue e altri oggetti collocati per essere visti e si veniva incoraggiati a guardarli proprio perché erano la via per trovare accesso al divino. È possibile che l’enfasi sulla vista fosse la conseguenza delle barriere architettoniche, e quindi visuali, di cui facevano esperienza le monache medievali (le barriere in chiesa, le grate alle finestrelle che separavano le monache dal loro confessore, come stabilito dal Capitolo generale), ma la questione non è del tutto evidente. Il mondo artistico si estendeva oltre i sensi fisici fino ai sensi spirituali. La contemplazione, le meditazioni e le preghiere erano aspetti importanti della vita devozionale delle monache, che per queste attività utilizzavano spesso oggetti concreti – dipinti, statue – quali aiuti alla loro crescita spirituale. Si potrebbe evocare l’ammonizione di Bernardo di Clairvaux contro le opere d’arte che legano al mondo e distraggono dal cammino monastico. Per le monache gli oggetti materiali non erano distrazioni, essi potevano aiutare ad avvicinarsi di più a Dio. E, come tutte le monache sapevano, la prima frase della Regola di san Benedetto ricorda che il primo scopo della vita monastica è ritornare a Dio. La Regola di san Benedetto prosegue facendo notare che Cristo è presente nel monastero e il suo amore ci indica la via della vita (RB, Prol. 18-20). Tutti i tipi di oggetti d’arte hanno al centro Cristo (figg. 1, 4, 5, 6, 10). Molti (sicuramente la maggior parte) di questi oggetti medievali non si sono conservati. Nel XIII secolo Beatrice (vissuta nell’abbazia belga di Nazareth e in altre abbazie cisterciensi) portava legata al suo braccio una pergamena su cui era dipinta una croce per fare memoria del suo coinvolgimento con la Crocifissione e la Passione. Una scultura del XVI secolo raffigurante l’amplexus è ancora conservata nel coro del monastero femminile di Oberschönenfeld in Baviera (fig. 1). Le braccia di Cristo si staccano dalla croce per raggiungere quelle alzate di Bernardo. Questo attaccamento fisico a Cristo è esattamente ciò che le monache cisterciensi come quelle di Helfta in Sassonia annotano, leggono e sentono nei propri testi e nelle autobiografie riguardanti le loro visioni. Le raffigurazioni dell’amplexus, normalmente limitate ai monasteri cisterciensi e solitamente a quelli dell’area linguistica tedesca, erano presenti anche nelle case maschili; questa immagine non era riservata alle monache. Ma dobbiamo precisare anche il significato dell’arte e non solo la sua forma. Se consideriamo altri oggetti d’arte cri-
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1. Cristo e Bernardo di Clairvaux, scultura in calcare dell’amplexus, inizio del XVI secolo. Monastero femminile di Oberschönenfeld, Germania.
2. Visione di san Bernardo e una monaca, Renania, XV secolo. Colonia, Schnütgen Museum.
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A fronte: 3. Coro di Wienhausen, Germania, veduta verso oriente. Dipinti delle pareti e del soffitto (1330 circa), effigie di Cristo (tardo XIII secolo), sepolcro (XV secolo), candelieri (primo quarto del XV secolo).
stocentrici presenti nei monasteri (le monache cisterciensi tedesche erano attratte dall’immagine di Cristo inchiodato alla croce dalle virtù) risulta chiaro che le monache cisterciensi desideravano ardentemente vedere, toccare e sentire oggetti fisici legati a Cristo. È eloquente che la più antica immagine conosciuta dell’amplexus provenga da un monastero femminile cisterciense, Wonnental nel Breisgau. Le immagini viste e toccate a livello “realmente” materiale e le immagini viste e sentite durante la preghiera e la contemplazione, tutto collabora a creare il coinvolgimento con la Passione e l’umanità di Cristo. Un altro polo in cui si sviluppava l’empatia con Cristo dei Cisterciensi – sia monaci che monache – era la loro passione per il Cantico dei Cantici. Nella chiesa monastica dell’abbazia di Chelmno, in Polonia, un affresco del XIV secolo presenta immagini dello sponsus e della sponsa del Cantico dei Cantici inframmezzate da scene della vita di Cristo, in particolare della sua Passione. Dipinti sulle pareti del coro superiore e quindi visibili solo dalle monache e non dai laici che utilizzavano la parte anteriore della chiesa, gli affreschi inducevano le monache cisterciensi a ricordare ogni giorno e ogni momento la promessa fatta loro da Cristo, lo sposo, e da Cristo, il vincitore della morte. Il primo ciclo di affreschi incoraggiava le monache a evocare il Cantico dei Cantici e il suo messaggio, mentre il secondo ciclo le induceva a rendersi conto delle sofferenze di Cristo uomo. Due messaggi collegati – il Cantico dei Cantici e la Passione – miravano entrambi a suscitare l’empatia con Cristo. Il monastero cisterciense più famoso per la sua arte è sicuramente quello di Wienhausen in Bassa Sassonia. Oggi esso contiene molte opere artistiche risalenti al Medioevo: pitture murali, vetrate, mobili, ricami, statue e straordinari oggetti devozionali; è eccezionale per la quantità e la conservazione di oggetti medievali, ma in che misura era eccezionale nel Medioevo? Forse per il suo livello, ma non per il genere. Il coro delle monache (fig. 3), costruito e affrescato nel 1330 circa, è posizionato al secondo piano, secondo la tendenza dell’area di lingua tedesca. È completamente dipinto: il soffitto presenta scene della vita e della Passione di Cristo, nonché ritratti dei fondatori del monastero; le pareti presentano scene dell’Antico Testamento e vite di santi. Entrando in questo spazio, si era (e si è) completamente avvolti dal messaggio di Cristo, che le monache residenti hanno visto e sul quale si sono soffermate quotidianamente. Questo era lo spazio della comunità, che ne era responsabile. Alla fine del XV secolo tre monache restaurarono gli
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Nelle due pagine seguenti: 4. Tavola di meditazione, 1230-1340 circa, vetro e legno di quercia (la più antica pittura su vetro tedesca conservata). Monastero femminile di Heilig Kreuz, Germania. Il Cristo crocifisso è circondato da quattro immagini di crocifissione. La spada che ferisce il cuore di Maria si riferisce a Luca 2,35: «E anche a te una spada trafiggerà l’anima».
5. Fermaglio per mantella in ottone, seconda metà del XVI secolo, monastero femminile di Haddington, Scozia. National Museum of Scotland. 6. Il Bambino Gesù sul letto con cuscino, prima metà del XV secolo. Monastero femminile di Marches-les-Dames, Belgio. Questo famoso Christkindl fu realizzato all’epoca in cui l’ordine femminile dava inizio a una fase di riforma monastica. L’arte veniva usata a volte per appoggiare la riforma, altre per resistervi.
affreschi del coro. Poco dopo il 1500 la comunità decise di restaurare un altro edificio, la cappella di Sant’Anna. È interessante notare che vendettero prodotti artigianali per raccogliere fondi per i restauri – le monache intrapresero un progetto artistico per ricavarne il denaro per un altro progetto artistico, il che dimostra l’importanza dell’arte nella loro comunità. Oltre agli spazi comuni e agli oggetti accessibili a tutti i membri della comunità, i monasteri femminili contenevano oggetti privati usati per la meditazione personale. Negli anni ’50 del secolo scorso a Wienhausen venne scoperto un deposito di reliquie e di immagini devozionali (Andachtsbilder) conservato sotto le assi del pavimento del coro delle monache. Questa affascinante collezione conteneva disegni a colori raffiguranti monache con in mano il rosario e inginocchiate davanti a vescovi. Si trattava di immagini devozionali personali delle religiose, che erano probabilmente importanti come le reliquie insieme alle quali erano conservate. Altri piccoli oggetti devozionali (devotionalia) erano altrettanto rilevanti per l’arte e per la spiritualità delle monache cisterciensi. Mentre teoricamente le proprietà personali erano bandite, le singole monache molto probabilmente trattavano questi oggetti come strumenti per la meditazione personale. Abbiamo stupendi esempi provenienti dalle regioni di lingua tedesca, compreso di nuovo Wienhausen. Le monache di Heilig Kreuz a Rostock possedevano una piccola immagine su vetro del Santo Volto (vera icon) e una statuetta di Gesù Bambino con abiti di stoffa e la corona. Avevano anche una tavola di meditazione (fig. 4) sulla quale era raffigurata la scena della Crocifissione circondata da allegorie e prefigurazioni. Questo è per eccellenza un oggetto artistico destinato a condurre la persona cristiana verso l’empatia con il Cristo crocifisso. Le immagini devozionali conservatesi provengono per la maggior parte dai territori di lingua tedesca, ma non sempre. Una statuetta d’argento di Gesù Bambino (Christkindl), sdraiato su un lettino pure d’argento, proviene dal monastero femminile di lingua francese di Marches-lesDames in Belgio (fig. 6). Il Christkindl non era solo un fenomeno cisterciense – anche le monache domenicane e francescane ne possedevano – ma pare essere stato un fenomeno femminile; come molti degli oggetti d’arte delle monache, il Christkindl superava i confini fra fisico e spirituale. Conosciamo questi oggetti non solo grazie ai pochi esemplari fisicamente rimasti ma anche grazie ai resoconti di esperienze femminili di contemplazione che spesso vi
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fanno riferimento. L’arte svolgeva un ruolo importante nella sfera fisicamente tangibile e in quella della contemplazione interiore, spingendo in ambedue i casi le monache all’empatia con l’umanità di Cristo. Wienhausen, con il suo coro delle monache sopraelevato tipicamente tedesco, induce a pensare a uno stile architettonico specifico per i monasteri femminili. Molto inchiostro è stato versato su questo argomento, ma è sufficiente dire che non c’è uno stile architettonico uniforme per i monasteri femminili, né in teoria né in pratica. Le forme architettoniche variano; tuttavia, sebbene l’importante analisi architettonica di Dimier (L’architecture des églises de moniales cisterciennes) sia stata in parte superata, resta valida la vecchia ipotesi che l’architettura cisterciense presenti più varietà nelle case femminili che in quelle maschili. Prevalevano le tendenze locali e influenze chiave provenivano dai patrocinatori locali e dal fatto che le chiese dei monasteri femminili avessero o meno il doppio ruolo anche di chiese parrocchiali, come avveniva in Germania.
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Inoltre, molti monasteri femminili cisterciensi erano stati fondati come case di altri ordini e quindi le loro prime forme architettoniche potevano attingere tanto, diciamo, dalle tradizioni benedettine quanto dallo stile cisterciense. La penisola iberica evidenzia una varietà architettonica caratteristica. In Portogallo non c’erano meno di cinque stili architettonici per le chiese dei monasteri femminili. In Castiglia e León, i monasteri femminili poveri erano obbligati a impiegare qualsiasi costruttore e mano d’opera fossero disponibili e il risultato è visibile nelle influenze islamiche o mudéjar degli stalli del coro, dei soffitti, delle costruzioni in mattoni e degli archi delle porte e così via. La maggior parte delle nostre conoscenze sull’architettura dei monasteri femminili si riferiscono alle chiese, sebbene alcuni esempi dei Paesi Bassi suggeriscano il medesimo modello di varietà e di predominio di tendenze locali anche negli altri edifici. Se, seguendo Bernardo e il Capitolo generale cisterciense, accettiamo che l’arte nel monastero abbia la chiara funzione di facilitare in ogni particolare lo scopo monastico della
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ricerca di Dio, allora l’arte può essere trovata dappertutto. L’oggetto più mondano e quotidiano e l’“opera d’arte” più gloriosa servono entrambi alla medesima funzione di incoraggiare le singole persone e le comunità ad andare verso Dio. In senso mondano ogni mantella ha bisogno di un fermaglio ma nel monastero femminile di Haddington in Scozia, nel XVI secolo, un banale fermaglio per mantella fu trasformato in opera d’arte (fig. 5). Inciso con immagini della Crocifissione e della Vergine con il Bambino, questo fermaglio di ottone potrebbe essere stato portato da una delle diciotto monache ivi residenti negli anni 1560, oppure dal sacerdote o confessore della comunità. Un fermaglio senza alcuna immagine incisa può sempre chiudere una mantella; ma un’incisione ricorda a chi lo porta e a chiunque guardi il possessore che la Crocifissione e la Vergine con il Bambino vengono tenuti in considerazione dalla comunità di Haddington. Come stabilisce la Regola benedettina, sono davvero monaci coloro che vivono del lavoro delle proprie mani (RB 48,8). Nel caso delle monache era comune il lavoro di cu-
cito, che aveva una funzione pratica e nello stesso tempo permetteva alle religiose di praticare la Regola benedettina del lavoro manuale. A Wienhausen il medesimo deposito che ospitava gli Andachtsbilder conservava anche telai, ditali e occhiali. Questi oggetti, che permettevano alle monache di dedicarsi all’opus manuum, erano chiaramente considerati importanti come le opere d’arte realizzate con questo stesso lavoro manuale. Il ricamo dello Speculum humanae salvationis eseguito a Wienhausen offre una raffigurazione per immagini della salvezza dell’umanità, mentre i ricami delle vite di sant’Anna e di sant’Elisabetta proponevano santi insegnamenti. Qui le stesse monache di Wienhausen erano le insegnanti. Anche i tessuti con soggetti mondani erano popolari – i tre ricami di Tristano eseguiti a Wienhausen sono giustamente famosi. I ricami non rimanevano sempre nei monasteri femminili, le monache cisterciensi inglesi di Wintney eseguivano e vendevano paramenti ecclesiastici e quelle di Wienhausen vendevano i ricami per raccogliere fondi per rimettersi in piedi dopo la pestilenza.
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Le opere d’arte possono anche darci informazioni sulle relazioni fra i singoli monasteri femminili e il più vasto ordine cisterciense. Le raccolte di Exempla, gli statuti del Capitolo generale e le cronache di fondazione trasmettono l’impressione che l’ordine cisterciense nel Medioevo fosse maschile in modo opprimente. Questa non è solo un’impressione moderna: i monasteri femminili inglesi medievali combatterono per decenni perché le loro comunità venissero accettate come parte dell’ordo cisterciensis, fallirono però completamente nel tentativo di convincere l’abate di Cîteaux. Tuttavia se i documenti legali e le petizioni non aiutavano, il materiale visivo era un altro modo perché le monache cisterciensi guadagnassero un posto nella storia dell’Ordine. Nel monastero femminile di Heiligkreuztal in Germania un dipinto murale dell’inizio del XIV secolo ritrae Bernardo che porge una vanga e un’asta di misura a una monaca inginocchiata. Il suo messaggio è che questo monastero femminile cisterciense avesse una diretta relazione con Bernardo, l’esistenza di Heiligkreuztal era autorizzata da Bernardo stesso. Un antifonario del XIII secolo proveniente dal monastero femminile portoghese di Arouca porta un’immagine di Bernardo in funzione di maestro (fig. 8). Gli antifonari erano preziosi manoscritti comuni, usati quotidianamente da tutta la comunità per
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secoli e l’immagine di Bernardo ricordava continuamente alle monache di Arouca il loro legame con il grande Santo cisterciense. Ugualmente, un antifonario del monastero femminile di Seligenthal in Baviera della fine del XIII o inizio del XIV secolo non solo porta un’immagine di Bernardo ma riporta anche un’immagine della monaca che aveva copiato il manoscritto e che Bernardo ringrazia (fig. 7). Le monache medievali di Seligenthal mettevano evidentemente in risalto il loro legame con Bernardo – un affresco murale del monastero, della fine del XV secolo, raffigura insieme Benedetto e Bernardo e fra loro una monaca cisterciense inginocchiata sulla scala dell’umiltà. Di conseguenza l’arte sentita e apprezzata dalle monache cisterciensi fornisce un punto di vista sulla storia istituzionale diverso dagli statuti e dalle fonti giuridiche, che spesso hanno ignorato i monasteri femminili cisterciensi. Questa situazione perdurò oltre il Medioevo. Nel XVII secolo le monache del monastero di La Paix-Dieu in Belgio possedevano il dipinto di un albero genealogico delle sante donne cisterciensi (fig. 10). Le genealogie delle case cisterciensi, comuni fin dal XII secolo, includevano normalmente solo le case maschili. A La Paix-Dieu veniva esibita una genealogia alternativa. La nuova genealogia metteva in evidenza la parte femminile dell’Ordine e mostrava che es-
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Nelle due pagine precedenti: 7. Antifonario, tardo XIII o inizio XIV secolo, monastero femminile di Seligenthal. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, MS CIm 23046, fol. 144r (particolare). Il testo che circonda la monaca recita: «Alla fine del mio lavoro, chiedo la mia ricompensa. Il nome di colei che mi ha scritto è Adelaide»; quello intorno a san Bernardo: «San Bernardo, il nostro Signore Gesù Cristo sarà la tua ricompensa». La produzione di opere d’arte nei monasteri femminili era un mezzo per stabilire un rapporto con Cristo (Cristo è la vostra ricompensa).
8. Antifonario, prima metà del XIII secolo, monastero femminile di Arouca, Portogallo. Arouca, Museu de Arte Sacra, MS D, fol. 66v (particolare). Bernardo di Clairvaux è raffigurato con il dito alzato nel gesto del maestro. Il testo fa parte dalla liturgia della festa di san Bernardo.
9. Tovaglia d’altare ricamata (antependium di Wichmannsburg), ultimo terzo del XV secolo, eseguita dalla comunità di Medingen. Monastero femminile di Medingen, Germania. Cristo è circondato dai profeti e dai discepoli, ai piedi l’hortus conclusus. San Bernardo (con il pastorale ricurvo mentre cita il suo Sermone 61 sul Cantico dei Cantici) è alla sinistra di Cristo, sopra Simone e sotto Paolo. Una monaca sta salendo la scala verso Cristo – un altro esempio di come l’opera d’arte rifletta ad un tempo la pratica e la faciliti dando modo alle monache di stabilire un legame individuale con Cristo.
10. Le Sante monache di Cîteaux, dipinto, 1635, monastero femminile belga di La Paix-Dieu. Attualmente a Kerniel, monastero di Mariënlof, Belgio. La fondatrice è Ombelina, sorella di san Bernardo, seduta alla base dell’albero. Non tutte le donne raffigurate sono cisterciensi – la benedettina Ildegarda di Bingen è la seconda da destra e Ombelina era priora dell’abbazia benedettina di Jully – ma chiaramente le monache di La Paix vedevano tutte queste sante donne come loro antenate spirituali. L’immagine di questa santa genealogia cisterciense riflette una storia al femminile, con Ombelina che rappresenta la versione femminile di Bernardo.
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so annoverava delle sante donne che servivano da modelli per la vita quotidiana. Infine, le religiose cisterciensi utilizzavano le loro opere d’arte per affermare la loro ortodossia nel periodo della riforma monastica. Alla fine del XV secolo la comunità di Wienhausen fu riformata e le fu specificatamente ordinato di seguire le consuetudini cisterciensi. In quello stesso periodo il coro di Wienhausen venne ristrutturato con nuove opere d’arte. In altre parole, la creazione e l’uso di un’arte nuova era un modo per la comunità per ri-formare se stessa. La tovaglia d’altare (fig. 9) e molti manoscritti miniati di Medingen vennero realizzati durante questo medesimo periodo di riforma quattrocentesca, che toccò la vicina Wienhausen, mentre negli anni attorno al 1500 le monache di Flines, vicino a Douai, commissionarono dei dipinti che sottolineavano i loro usi riformati. Prima di concludere è necessario trattare il tema geografico. Il Medioevo vide monache cisterciensi dalla Spagna alla Scandinavia, all’Europa Orientale e alla Terra Santa. Gli stili artistici e i significati naturalmente si differenziavano nelle diverse aree; sicuramente non vi era un modello artistico cisterciense uniforme. I monasteri femminili cisterciensi in Spagna (per esempio Las Huelgas) e in Portogallo (per esempio Arouca) erano sempre strettamente legati alla monarchia, con il risultato di ottenere patronato e ricchezza. Gli stili architettonici in questi due paesi devono più all’influenza regia che a qualsiasi influenza cisterciense. I monasteri femminili cisterciensi in Inghilterra erano solitamente piccoli e con un legame piuttosto tenue con l’Ordine principale; si sono conservati pochi esempi delle loro culture artistiche, anche se l’abbazia di Tarrant è un’eccezione sotto tutti gli aspetti. Dipinti murali dell’Annunciazione, della vita di santa Margaret, dei Tre Vivi e dei Tre Morti, sono tutte tematiche conservatesi a Tarrant. Questi dipinti non sono nella chiesa abbaziale di Tarrant, ma in una cappella condivisa con la parrocchia locale. Non è una coincidenza che i soggetti dei dipinti fossero popolari in ambito sia laico sia monastico; l’arte era adattata alle esigenze del pubblico. La Germania e il mondo di lingua tedesca offrono gli esempi artistici di maggior rilievo e non solo perché vi si trovava nel Medioevo il maggior numero di monasteri femminili. Qui i monasteri femminili eccellevano nell’arte; la sontuosa corona del XIV secolo del reliquiario di santa Paolina, conservata nel monastero femminile di Marienstern in Sassonia, ne è un mera-
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viglioso esempio e, allo stesso tempo, solo una delle numerose corone di quell’abbazia. Il ricco scenario artistico tedesco non era limitato ai Cisterciensi; i monasteri femminili tedeschi di tutti gli ordini avevano scribi e miniatori femminili, grazie alla riforma di Hirsau, dell’XI secolo, e alla conseguente collaborazione fra monasteri maschili e femminili. Oltre a ciò i monasteri femminili in Germania appartenevano a un contesto dove veniva già incoraggiato lo studio delle religiose. Qui molte monache cisterciensi producevano e miniavano i loro manoscritti, come i libri di preghiere miniati realizzati dalle monache di Medingen nei primi decenni del 1500, o i manoscritti liturgici del XIII secolo di Seligenthal, o il Codex Gisle, un graduale del 1300 circa, di Rulle vicino a Osnabrück. Analogamente le reti di produzione artistica in Germania tendevano a superare i confini degli ordini religiosi portando a somiglianze nelle forme e nelle funzioni artistiche dei differenti ordini monastici. Se avessi scritto questo testo vent’anni fa, avrei accolto due tesi attuali in quegli anni: la prima che i Cisterciensi medievali disapprovavano l’arte e la seconda che i Cisterciensi medievali non accoglievano volentieri le donne nel loro ordine. Oggi sappiamo che i monaci cisterciensi interagirono con le monache fin dai primi decenni del XII secolo e riconosciamo la ricchezza dell’arte nei monasteri femminili cisterciensi. Dobbiamo studiare ancora molto prima di poter rispondere alla domanda se esistesse un’“arte delle monache cisterciensi”. L’identificazione con Cristo e con la sua Passione era comune a molte comunità religiose femminili al di là dell’ordine cisterciense; alcune fra le tendenze artistiche dei monasteri femminili cisterciensi tedeschi possono essere considerate una caratteristica della cultura delle religiose tedesche più che una cultura delle monache cisterciensi e, evidentemente, devono essere considerate le differenze regionali e cronologiche. Dall’altra parte possiamo delineare un comune tema letterario e artistico fra i monasteri cisterciensi dipendenti dalla medesima abbazia visitatrice, come i monasteri femminili dipendenti dall’abbazia maschile di Salem in Germania; qui i legami di responsabilità giuridica e pastorale aiutavano a diffondere testi e arte, così che sembrerebbe possibile individuare una particolare “scuola di Salem” riguardo alla loro cultura materiale. Tutto questo induce a pensare che la ricerca sulle monache cisterciensi e la loro arte continuerà a svilupparsi nel futuro.
ORNAMENTA ECCLESIAE CISTERCIENSES. L’ARTE ORNAMENTALE DEI MONASTERI CISTERCIENSI NEL MEDIOEVO Christine Kratzke
Il corredo delle chiese occidentali è numeroso ed eterogeneo: i vasi liturgici consacrati e benedetti (vasa sacra per l’Eucarestia e vasa non sacra), i paramenti (tovaglie e vesti), gli oggetti di devozione, i mobili, gli strumenti musicali e le luci, tutti hanno una precisa funzione nel cerimoniale, nella liturgia e nei riti della chiesa e sono al tempo stesso testimonianza di epoche diverse. Il corredo della chiesa (Ornamenta Ecclesiae) corrisponde a un’esigenza visiva ed esperienziale. Vi sono oggetti per l’altare, per l’Eucarestia e gli altri sacramenti, per i grandi cicli liturgici e per le festività importanti (Avvento e Quaresima), per la consacrazione della chiesa e dell’altare, poi per la cosiddetta Porta Santa, per l’abluzione e l’aspersione, l’incensazione, oltre che per le donazioni e le collette; vi sono anche oggetti destinati a conservare componenti di arredo, per i funerali, le processioni, i pellegrini, per la devozione, per l’illuminazione e per la presentazione delle insegne ecclesiali. Di questi oggetti, gran parte dei quali è presente anche nelle case dell’ordine cisterciense, vogliamo fornire una rassegna. Trattando dell’uso delle immagini presso i Cisterciensi, è necessario sottolineare che il postulato della loro supposta “ostilità per le immagini” deve essere considerato sotto un più vasto profilo storico. L’affermazione riguardo all’assenza bernardina di immagini e di decorazioni nelle chiese abbaziali, che si suppone abbia subíto un mutamento solo nel XV secolo, oggi non può più essere sostenuta. Un’importante base per comprendere gli oggetti di origine cisterciense consiste negli scritti normativi dell’Ordine, innanzitutto il Corpus consuetudinum cisterciensium (Liber usum), cioè il Libro delle Consuetudini, nonché gli Ecclesiastica Officia, il Libro degli Usi dei Monaci Grigi, sulla vita quotidiana nei monasteri, nel quale vengono dettagliatamente stabilite le singole azioni da espletare nel corso del-
l’anno liturgico. In generale le parole d’ordine – anche per quanto riguardava l’arte figurativa – erano semplicità (simplicitas), uniformità (uniformitas) ed evitare il superfluo (superfluitas) o cose che potessero provocare curiosità (curiositas). Il che è riassumibile, insieme ad altre indicazioni, nel concetto di Forma Ordinis, non meglio definito nelle fonti. Oltre a ciò le disposizioni del Capitolo generale che si teneva annualmente a Cîteaux (Capitula, Instituta, Statuta), messe per iscritto dal 1122, permettono – con le loro esortazioni e proibizioni – di avere un quadro generale del concetto di immagine nell’Ordine. Sono particolarmente indicativi i capitoli 25 e 26. Il primo dispone, per l’arredo degli oratori, che le tovaglie dell’altare e le vesti dei ministri non siano di seta (esclusi la stola e il manipolo); le casule devono essere monocolori e tutti gli “arredi”, quindi tutte le decorazioni del monastero, vasi e oggetti, non devono essere d’oro o d’argento né avere pietre preziose, escluso il calice e la fistula per la comunione, che devono però essere argentati o dorati e non d’oro puro. Lo stesso vale per la fattura dei libri. Il capitolo 26 dispone che le opere figurative (sculture e dipinti) non debbano essere ammesse, mentre sono permesse croci lignee dipinte. Queste ultime disposizioni vengono ulteriormente ampliate nella forma allargata dei Capitula della prima metà del XII secolo, la Prima Collectio, nel ventesimo capitolo della quale il divieto delle immagini viene esteso anche ai laboratori dell’Ordine con la motivazione che le immagini sono nocive alla meditazione e alla disciplina religiosa. Infine, nello Statuto LXXX viene anche stabilito che le finestre devono essere bianche, senza croci né immagini. Gli statuti del Capitolo generale sottolineano così l’esigenza che la Forma Ordinis venga idealmente rispettata.
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Nel XII secolo è ancora chiaramente riconoscibile la limitazione all’essenziale nell’arredo sacro e in architettura, ma non nelle prime miniature sotto l’abate Stefano Harding (1059-1134 ca). A partire dall’inizio del XIII secolo negli Statuti del Capitolo generale vengono emanati ordini e proibizioni riguardanti l’eliminazione di opere figurative e indicazioni riguardo alla proprietà di oggetti di metallo prezioso, alle vetrate dipinte e ai pavimenti decorati, in sostanza riguardo alle decorazioni non opportune. Tuttavia, già dalla fine del XII secolo venne ampliato l’arredo liturgico del presbiterio e all’incirca alla metà del XIII secolo nelle chiese dell’Ordine erano presenti anche opere figurative. Oltre ai testi dell’Ordine sopracitati, validi sul piano generale, erano particolarmente importanti gli scritti di Bernardo di Clairvaux (1090-1153), determinanti nel contesto dell’uso delle immagini e riguardo alla venerazione di Maria, che si esprimeva nella presenza di numerose Madonne. Nel ventottesimo capitolo della sua Apologia ad Guillelmum Abbatem, «De picturis et sculpturis, auro et argento in monasteriis», degli anni fra il 1121 e il 1126, indirizzata all’abate benedettino Guglielmo di Saint-Thierry (1075-1148), egli prese decisamente posizione contro la debordante decorazione delle chiese del clero temporale. Pensava che l’oro, gli ornamenti e le immagini nelle chiese avrebbero solo indotto ad ammirare la bellezza invece di venerare il sacro. Le affermazioni dell’abate cisterciense, basate su considerazioni di teologia morale e condivise da alcuni suoi contemporanei, si opponevano alla tradizionale concezione che le immagini servissero allo scopo di onorare Dio, come è esposto negli scritti dell’abate Sugero di Saint-Denis (1081-1151), in particolare nel De administratione nonché in quelli del cisterciense Bertrand de Pontigny († 1240). Anche il cisterciense Cesario di Heisterbach (1180 ca.-dopo il 1240) descriveva per i suoi confratelli un rapporto con le immagini diverso da quello richiesto da Bernardo, e idee contrarie esponeva pure il cisterciense Adam of Dore (seconda metà del XII secolo) nella sua opera Pictor in carmine. Un’importante opera riformatrice, che ebbe più tardi influenza sull’Ordine, fu anche la bolla Benedictina di papa Benedetto XII del 1335, nella quale il capo della chiesa di Roma si dichiarava contrario a ogni lusso nell’abbigliamento e negli oggetti. Circa sessant’anni dopo l’opera apologetica di Bernardo l’atteggiamento dell’Ordine iniziò lentamente a cambiare un po’ dappertutto. A partire dal 1185 in base a uno statuto vennero permesse una croce sull’altare per le messe festive e delle reliquie sull’altare maggiore; nel 1237 gli Statuti permisero anche candele e candelabri e nel 1256,
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nelle feste grandi, l’altare poteva venir ricoperto da tovaglie di seta. Nel 1289 e nel 1316 gli Statuti riportano per l’ultima volta l’indicazione di eliminare le novità superflue e particolari curiosità da edifici, campanili, pavimenti, finestre, tavole, sculture, dipinti, le figure – esclusa quella di Cristo – sui vasi liturgici, croci, campane, luci e ornamenti che non corrispondono alla dignità dell’Ordine. Intorno al 1300, quindi circa centocinquant’anni dopo la morte di Bernardo, l’arte figurativa fa il suo ingresso nelle case cisterciensi maschili e femminili. Riguardo alla consistenza dell’arredo nelle case dei Monaci e delle Monache Grigi, occorre gettare un breve sguardo al numero delle case dell’Ordine e alla loro storia. La rete di filiazioni che dalla casa madre di Cîteaux e dalle sue case primarie – La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond – si era estesa in tutta l’Europa nel corso del Medioevo, in cui bisogna includere anche le case delle monache incorporate nell’Ordine, aveva una trama più o meno fitta secondo il paese e la regione. Di molte abbazie oggi sono rimaste solo rovine e, di conseguenza, anche gli oggetti di molte centinaia di monasteri cisterciensi dei singoli paesi si sono conservati in quantità variabili. Numerosi oggetti sono andati persi anche a causa della secolarizzazione o sono passati in collezioni reali o statali provocando la loro decontestualizzazione a causa del distacco dal loro ambiente originario, determinato dalle vicende storiche. Questo ha causato perdite particolarmente grandi in Francia come in Inghilterra, mentre nei paesi di lingua tedesca si è conservato un numero di oggetti e opere d’arte nettamente maggiore. Occorre anche osservare che si è conservata solo una parte molto piccola della decorazione figurativa realizzata nelle pitture murali, in conseguenza anche delle misure storicizzanti di restauro e di ripristino della situazione originaria nel XIX e inizio XX secolo. Sebbene il patrimonio di opere figurative bi- e tridimensionali delle abbazie cisterciensi maschili e femminili che si è conservato sia ragguardevole, fino ad oggi nella letteratura esso è stato oggetto di sporadiche attenzioni, di modo che non è ancora disponibile un’opera complessiva sul tema e nessun catalogo. Costituisce un’eccezione il patrimonio dell’abbazia di Doberan, riformata nel 1552, nella cui chiesa si è conservato l’arredo non completo ma in quantità decisamente ampia, risalente in gran parte al XIV secolo. Ciò è dovuto fra l’altro al fatto che la chiesa fungeva da luogo di sepoltura dinastica della casa del Meclenburgo e il convento, fin dall’inizio del XV secolo, è stato destinatario di consistenti donazioni commemorative. In base alle
1. Doberan, chiesa abbaziale, mensola.
fonti scritte del XVII e XVIII secolo riguardo l’arredo medievale oggi parzialmente perduto è ad esempio possibile la ricostruzione dell’altare maggiore e di quello della croce, nonché di 15 altari secondari che erano probabilmente decorati con ancone e sculture. In senso lato possiamo annoverare fra le decorazioni degli edifici ecclesiali anche quelle architettoniche, le pitture murali, le finestre, nonché i mosaici e le mattonelle. Fra le decorazioni architettoniche predominano capitelli e smussi lavorati semplicemente, ma in alcuni luoghi sono stati usati dettagli decorativi sontuosi, come ad esempio i capitelli figurativi delle abbazie di Santes Creus e di Kolbacz/Kolbatz (figg. 6 e 7) e quelli floreali del monastero di Doberan (fig. 1), che si differenziano nettamente dai semplici capitelli o smussi geometrici o a motivi vegetali. In ambito cisterciense è inoltre molto raro trovare sculture all’esterno. Sul portale della chiesa abbaziale di Porta Coeli di Předklásteří di Tišnov/Tischnowitz del 1240 è raffigurato Cristo in mandorla circondato dai fondatori e sulla facciata occidentale della chiesa monastica di Pforta troviamo un gruppo di Crocifissione della fine del XIII secolo, di livello difficilmente eguagliabile. È sontuosa anche la decorazione del portale occidentale della chiesa monastica di Pelplin (figg. 2 e 3), sul quale è stato realizzato nel primo terzo del XV secolo un notevole programma figurativo in terracotta. In diversi monasteri dei Monaci Grigi si possono ancora trovare pitture murali medievali, ma sono veramente rari programmi interamente conservati, come per esempio quello della chiesa cisterciense femminile di Wienhausen. Si sono invece conservate singole raffigurazioni come l’affresco ben noto dell’inizio del XV secolo nel coro del monastero di Bebenhausen, che presenta un’immagine del fondatore con Maria sulla falce di luna e il campanile da lui fatto edificare, e l’immagine del fondatore nel coro di Maulbronn. Possiamo ammirare altre belle raffigurazioni di fondatori sulle vetrate del monastero di Doberan e dell’abbazia di Wettingen. Ma i Cisterciensi prediligevano in particolare le semplici finestre a grisaille colorate con motivi ornamentali e vegetali, come per sempio le vetrate delle abbazie di Fontenay, Santes Creus, Altenberg, Neukloster e Doberan, di cui sono rimasti solo pochi esempi. Tuttavia in alcune abbazie vennero realizzati dei veri cicli figurativi secondo tutta la scala cromatica, come nei monasteri maschili di Altenburg, Wettingen, Heiligkreuztal, Herkenrode e in quello femminile di Wienhausen. La predilezione per i motivi ornamentali si evidenzia anche nella lavorazione dei pavimenti di molte abbazie ci-
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sterciensi. L’Ordine disponeva di una tradizione propria nell’allestimento artistico e diversificato di spazi nelle chiese e nelle clausure con piastrelle. Questi mosaici di mattonelle o piastrelle erano per lo più composti da piccole mattonelle lisce di diversi colori o da piastrelle decorate e/o in rilievo prodotte con diverse tecniche, come viene mostrato anche nel Taccuino del famoso costruttore Villard de Honnecourt (1230-1235 ca). In diversi luoghi è ancora possibile rintracciare queste pavimentazioni, come per esempio nell’abbazia madre di Cîteaux, nell’abbazia figlia di Pontigny o nelle abbazie di Les Dunes e Villers. Sono particolarmente famosi i mosaici della fine del XII e XIII secolo in Inghilterra e nel Galles, come per esempio i pavimenti nelle abbazie di Fountains, Rievaulx, Byland e Buildwas, nonché di Mellifont in Irlanda. Ma anche in Germania, verso la fine del XII secolo, fanno la loro apparizione negli edifici dei Monaci Bianchi le prime piastrelle, che si diffondono fino a tutto il XV secolo e a volte anche nel XVI, come per esempio a Eberbach, Altenberg, Buch, Bebenhausen e Altzella. Anche nei monasteri cisterciensi della Germania settentrionale e nordorientale furono realizzate piastrelle di terracotta, cosa che non può meravigliare se si considera che il laterizio era il materiale da costruzione predominante nella regione, come per esempio a Dargun, Chorin, Eldena, Zinna, Doberan, Hude, Ihlow e Neuenkamp. In ogni chiesa e cappella dell’Ordine – come naturalmente in tutte le altre chiese consacrate – era presente un altare con stipiti e mensa, cinque croci di consacrazione e deposito delle reliquie. Su di esso veniva celebrata la santa messa e, come abbiamo visto, dalla fine del XII secolo, venne permesso di decorarlo. Ogni monastero possedeva i vasa sacra consacrati necessari per l’Eucarestia. Ne è esempio paradigmatico il cosiddetto calice degli Ascanidi. Si tratta di un grande calice degli anni intorno al 1266/67, con la relativa patena del 1280/90 circa, proveniente dalla chiesa abbaziale di Chorin (appartenente dal 1642 alla chiesa di Sankt Nikolai a Berlino). Su di esso sono raffigurati il fondatore, il margravio Johann II († 1281) e la sua sposa Hedwig von (Mecklenburg) Werle († 1287), ambedue sepolti nell’abbazia di Chorin. In relazione con l’Eucarestia occorre considerare la conservazione e la presentazione dell’ostia consacrata. Nel 1215 il concetto di transustanziazione, cioè la trasformazione fisica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo durante la celebrazione, era stato dichiarato dogma dal IV Concilio Lateranense, con l’immediata conseguenza che da quel momento in poi la sacra species doveva essere
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conservata sotto chiave. La transustanziazione avveniva nella pisside che poi, a sua volta, veniva deposta in un tabernacolo provvisto di serratura posto in una nicchia della parete o appeso, oppure in un’edicola eucaristica appoggiata o sospesa. Ne è precoce esempio cisterciense la torre eucaristica di fattura relativamente semplice del XIII secolo dell’abbazia di Sénanque. In alternativa vi è anche la torre tabernacolo risalente al 1368/70 di Doberan, caratterizzata da elementi microarchitettonici e circondata da un corteo di figure. La croce è uno dei più importanti simboli cristiani ed è presente nelle chiese come croce trionfale, d’altare oppure processionale. Sono tipiche dell’Ordine le croci trionfali dipinte sui due lati, che potevano essere viste sia dai monaci sia dai conversi nelle parti della chiesa ad essi riservate. Ne troviamo diversi esempi della seconda metà del XIII secolo e oltre, come quelle delle abbazie di Loccum, Pforta, Sorø e Kaisheim. Possiamo trovare anche croci trionfali a tutto tondo del XV e XVI secolo, come per esempio quelle delle abbazie di Chorin, Haina, Heilsbronn, Altenberg, Fürstenfeld e Hude. Possiamo citare come esempio molto precoce il crocifisso con pietre preziose di Zwettl, proveniente da Bisanzio e portato nell’abbazia intorno al 1180. In questo contesto ricordiamo che nel 1237 e nel 1257 viene richiamato che nell’Ordine erano permessi solo i crocifissi di legno dipinto e non quelli d’oro, d’argento o di notevole grandezza. Gli abati e le badesse nei monasteri cisterciensi possedevano quale segno del loro ufficio e della loro dignità, come peraltro nelle chiese secolari o in altri Ordini, un bastone abbaziale. Notevoli esempi della decorazione di questo segno di autorità e di dignità sono l’estremità ricurva argentata a forma di testa di drago del pastorale di san Roberto di Molesmes (1028-1111 ca.) proveniente dall’Italia meridionale e risalente al 1100 circa (Musée des Beaux-Arts di Digione) e la Crosse de saint Bernard d’avorio dell’abbazia di Bellefontaine. Il riccio del bastone dell’abate Sebastian Lutz (Clairvaux) del 1550 circa, dal monastero di Bebenhausen (Colonia, Schnütgen-Museum, fig. 5), ci introduce nel particolare mondo figurativo dei Cisterciensi. Vi è rappresentato il cosiddetto amplesso, un motivo figurativo tipico cisterciense, in cui Gesù crocifisso si china dalla croce verso Bernardo. L’elemento narrativo di questo motivo è basato sulla Vita S. Bernhardi ed è riscontrabile a partire dalla metà del XIV secolo in numerosi manoscritti medievali e dell’inizio dell’età moderna nonché nelle prime opere a stampa. Vi si aggiungono poche sculture o rilievi tridimensionali, come
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Nella pagina precedente: 2. Pelplin, chiesa abbaziale, portale settentrionale, particolare con raffigurazione di personaggi. 3. Pelplin, chiesa abbaziale, portale settentrionale.
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per esempio l’analoga rappresentazione su uno dei registri della pala d’altare del 1496 del monastero cisterciense di Esrum (Museo Nazionale di Copenaghen) o il bell’esempio di rilievo in arenaria del monastero femminile di Himmelkron del 1518. Oltre a questi, nella bottega di Gregor Erhart (1465/70-1540) fu realizzata un’altra scultura raffigurante l’amplesso dell’epoca intorno al 1500 per il monastero femminile di Oberschönenfeld, nonché un gruppo ligneo del 1520/30 che si trova nella cappella della grangia del monastero di Rein a Graz. Infine a Heilsbronn si trovava una statua di san Bernardo proveniente da un analogo gruppo del 1500 circa (Norimberga, Landeskirchliches Archiv). Nel contesto della storia dell’Ordine non può stupire la raffigurazione di Bernardo, così come quella di san Benedetto da Norcia, sulla cui regola si basa quella dei Cisterciensi. Di conseguenza si trovano per esempio singole raffigurazioni dei due santi sugli scranni del coro dell’abbazia di Doberan e in un’ancona intagliata tardogotica del monastero di Lehnin conservata nel duomo di Brandeburgo. Nel Medioevo in numerosi monasteri vi erano statue singole di Bernardo, come per esempio la statua di arenaria a Bar-sur-Aube (Bibliothèque Municipale). Ma anche altre personalità dell’Ordine vengono raffigurate, soprattutto sotto forma di monumenti funebri, come quello di Stefano di Obazine, al quale nel monastero locale è stato eretto un monumento in forma di sarcofago. Occasionalmente sono stati raffigurati anche semplici monaci dell’Ordine, come si può vedere per esempio nella decorazione di capitelli a Kolbacz/Kolbatz (Museo Nazionale di Szczecin/Stettino, figg. 6 e 7), sui pilastri delle chiese monastiche di Kilcooly e Jerpoint o sullo scranno a tre posti del monastero di Amelungsborn o sui monumenti funebri. Fra le opere figurative risaltano specialmente le numerose effigi di Maria (figg. 8-11), una presenza motivata dalla particolare venerazione dell’Ordine, tanto che Maria compare anche sul loro sigillo. L’esempio paradigmatico è la “Vergine di Fontenay” del XIII secolo, ma anche in numerose altre abbazie si trovano Madonne di grande formato, come nell’abbazia femminile di Pontaux-Dames e nelle abbazie di Walkenried e di Maulbronn. In quest’ultimo luogo è accompagnata da un affresco che raffigura un coro di angeli. Vi sono però anche Madonne di piccolo formato, come quella in avorio del monastero di Zwettl dell’epoca intorno al 1320, che mostra influenze francesi. Un esemplare raro è quello della Madonna del monastero femminile di Frauenroth realizzato in cartapesta intorno al 1500.
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4. Doberan, chiesa abbaziale, stalli del coro, particolare con Benedetto e Bernardo. 5. Pastorale dell’abate Sebastian Lutz, dall’abbazia di Bebenhausen. Colonia, Schnütgen Museum.
6 e 7. Due capitelli dalla chiesa abbaziale di Kolbacz/Kolbatz. Szczecin, Museum Narodowe.
9. Anna Metterza (Sant’Anna con Maria e Gesù Bambino), monastero femminile cisterciense di Börstel. 10. Rilievo in terracotta con la Madonna e un monaco, abbazia di Dargun.
8. Madonna con Gesù Bambino, abbazia di Amelungsborn.
11. Pietà, monastero femminile di Wienhausen.
Era prediletta anche l’immagine della Madonna con la corona di raggi, come per esempio quella della scultura di metà XIV secolo inserita nel retablo barocco dell’altare maggiore della chiesa dell’abbazia di Fürstenfeld o come la Madonna dell’Apocalisse della teca dell’altare maggiore della chiesa monastica di Doberan, del 1330. Un motivo tipicamente cisterciense che si ritrova anche su diversi sigilli è la Madonna in piedi con una lunga veste che presenta Gesù Bambino, il Verbo, come per esempio la Madonna lignea del monastero di Merci-Dieu. Dobbiamo inoltre citare la categoria delle immagini miracolose boeme dell’epoca fra il 1350 e il 1400, come quelle che troviamo nelle abbazie cisterciensi di Zbráslav/Königsaal, Vyšší Brod/Hohenfurt e Zlatá Koruna/Goldenkron. Un altro motivo mariano è quello della Madonna che protegge sotto il suo manto, di cui un bell’esempio è quello dell’abbazia di Flines (Douai, Musée de la Chartreuse). Come in altre chiese, anche in quelle dei Cisterciensi troviamo raffigurazioni della Pietà, per esempio quella del 1370 di Lubia˛>/Leubus (Museo Nazionale di Varsavia), la Pietà di Marienstein o quelle dei monasteri femminili di Sonnefeld e di Schmerlenbach. Oltre alle raffigurazioni singole e ai gruppi, nelle chiese cisterciensi si sono conservate o sono documentate anche diverse pale d’altare (ancone e retabli), soprattutto del XIV e XV secolo, come è il caso dell’abbazia di Altenberg, sul cui altare maggiore esisteva una grande pala con ostensione di reliquie. Altri esempi rappresentativi sono l’antico
retablo dell’altare maggiore del monastero cisterciense di Loccum, dell’epoca intorno al 1280, nel quale venivano conservati il tesoro della chiesa e i reliquiari; il retablo dell’altare maggiore di Doberan, degli anni intorno al 1300 (con teca centrale, due sportelli, alte torri a traforo e una predella più recente con sportelli); la pala dell’altare maggiore di Marienstatt, del 1350 circa, e il retablo dell’altare maggiore di Vyyyí Brod/Hohenfurt, pure del 1350 circa (Galleria Nazionale di Praga). A Hude e a Maulbronn troviamo alcuni rilievi dell’infanzia e della passione di Cristo del 1320 e del 1370 e nell’abbazia di Salem vi era un rilievo con la raffigurazione della Pentecoste, degli anni intorno al 1320 (Landesmuseum di Karlsruhe). Oltre ai temi delle pale d’altare per così dire “classici”, il retablo di un altare laterale con la teca del Corpus Christi del 1300 circa nella chiesa monastica di Doberan presenta una particolare raffigurazione della Crocifissione, quella di Cristo crocifisso dalle virtù – Misericordia, Oboedientia, Veritas, Caritas, Justitia, Pax e Perseverantia. Il “retablo delle virtù e della crocifissione”, che deve essere considerato un motivo figurativo particolare nell’Ordine, fa riferimento alle prediche pasquali di Bernardo di Clairvaux in cui spiega come le virtù di Cristo ornino le quattro estremità della croce come pietre preziose, esprimendo l’umiltà, la pazienza, l’amore e l’ubbidienza di Cristo. Questo soggetto è riprodotto anche su una vetrata del monastero cisterciense femminile di Wienhausen. Sempre da Doberan proviene un retablo di altare laterale
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12 e 13. Santo Sepolcro in legno dipinto, monastero femminile di Magerau/Maigrauge.
con la raffigurazione molto rara del cosiddetto mulino eucaristico, dell’epoca intorno al 1410/20 (“retablo del mulino o di Martino”). Il quadro centrale mostra i dodici apostoli che tengono in movimento un mulino per il grano, nel quale gli evangelisti (raffigurati con teste di animali) versano la parola di Dio che viene raccolta in forma di cartiglio in un calice da quattro padri della Chiesa circondati da fedeli. La scena allegorica è completata dalla raffigurazione di Maria come donna dell’Apocalisse e dell’imperatore Augusto con la Sibilla tiburtina vaticinante. Una rara particolarità all’interno dell’Ordine è rappresentata dai Santi Sepolcri, che erano soprattutto importanti per la liturgia pasquale nei riti della Depositio crucis e della Elevatio crucis. Per esempio nel monastero femminile cisterciense di Heiligengrabe nel Brandeburgo, nella cappella del Santo Sangue e del Santo Sepolcro vi è una cella incassata nel pavimento. Il più antico Santo Sepolcro di formato ridotto in un monastero dell’Ordine, costruito in legno, risale al 1330 circa e si trova nel monastero femminile di La Maigrauge in Svizzera (figg. 12 e 13). Un altro sepolcro pasquale di legno si trova nel monastero femminile di Wienhausen: la figura di Cristo è datata all’ultimo terzo del XIII secolo ma la tomba è stata consacrata nel 1448. Si può fare un paragone con le due casse lignee nell’abbazia di Doberan che facevano parte un tempo dei monumenti funebri del principe Albrecht III, della sua sposa Richardis e della regina Margherita (Margaretha) di Danimarca. Parlare di monumenti funebri nelle case dell’Ordine può sembrare a prima vista inconsueto, poiché originariamente la sepoltura nei monasteri cisterciensi era riservata agli appartenenti all’Ordine, ma nel Medioevo le loro tombe nei cimiteri del monastero non avevano nome e non erano contraddistinte da alcun monumento. Potevano venire sepolti i servi e i famigli, oltre ai membri delle loro famiglie e a un ristretto numero di laici, cioè regine e re, arcivescovi e vescovi, fondatori e fondatrici oltre ai loro discendenti e alcuni benefattori scelti delle singole abbazie. Negli Ecclesiastica Officia (capitoli da 50 a 52, da 94 a 98 e 101) sono dettagliatamente elencate tutte le azioni connesse al cerimoniale di sepoltura per gli appartenenti all’Ordine e per gli ospiti del monastero. Su un retablo d’altare di Jörg Breu il Vecchio del 1495/1505 nel monastero cisterciense di Zwettl sono illustrati tutti i riti connessi alla sepoltura di san Bernardo, che compaiono anche in un’illustrazione miniata del codice Concordiae Caritatis di Ulrich von Lilienfeld, risalente al 1351/58 e conservato nella Stiftsbibliothek di Lilienfeld (cod. 151, fol. 110).
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Negli Statuti dell’Ordine sono contenute inoltre le regole per i monumenti funebri permessi nelle case dell’Ordine, eretti a scopo commemorativo o di rappresentanza dinastica. Le pietre tombali dovevano essere piatte e inserite nel terreno in modo da poter essere scavalcate senza problemi o pericoli (figg. 16 e 17). Un’eccezione ufficiale era costituita dalla sistemazione e dalla realizzazione dei monumenti della casa regnante francese nell’abbazia di Royaumont, che evidentemente potevano mantenere il loro splendore ed erano esclusi dall’antica umiltà e semplicità dell’Ordine. Tuttavia nel corso dei secoli vennero eretti nelle abbazie numerosi monumenti funebri di persone altolocate e di dignitari ecclesiastici che sia per genere che per ricca decorazione non avevano nulla da invidiare a quelli nelle chiese del clero secolare. Particolarmente splendidi e appartenenti al genere della microarchitettura sono quelli della casa regnante spagnola nell’abbazia di Santes Creus (fig. 19). I monumenti funebri di monaci e monache e dei donatori laici erano al confronto decisamente più semplici. Come mostrano gli esempi di numerose abbazie, si trattava di pietre tombali decorate semplicemente che, grazie al loro numero, possono essere ben studiate nel monastero femminile di Heilige Kreuz di Rostock (fig. 18). Nella chiesa monastica di Doberan si possono inoltre ammirare le sculture funebri, relativamente rare per le loro grandi dimensioni, dei principi della dinastia del Meclenburgo, dell’inizio del XVI secolo. In alcune abbazie cisterciensi era in uso un’altra forma di tomba, che consisteva nell’indicazione della sepoltura mediante il posizionamento di mattonelle di terracotta. Un esempio paradigmatico è costituito da diverse sepolture nella cappella di Althof (figg. 14 e 15), dell’abbazia di Doberan e nella chiesa monastica della stessa abbazia, nel cui coro alcune sepolture dei principi defunti della casa reale del Meclenburgo sono contraddistinte da mattonelle di terracotta del XIV secolo, decorate e posizionate in modo da formare motivi diversi. Nella maggior parte dei casi il disegno era ottenuto con frammenti musivi lucidi e variopinti in cui erano inserite mattonelle incrostate e stemmi di terracotta. Sono note analoghe mattonelle nel monastero cisterciense di Hovedøya in Norvegia. In poche abbazie sono stati realizzati degli ossari, come a Doberan nel XIII secolo (fig. 20) o nel monastero di Hardehausen nel XIV. Si tratta di piccole costruzioni con uno spazio a livello del suolo per le ossa e una cappelletta sovrastante con l’altare per le messe funebri. È curioso l’allestimento dell’ossario nella cappella di Tutti i Santi del monastero di Sedlec/Sedletz che nel XIX secolo, sulla base
14 e 15. Althof/Alt Doberan, chiesa abbaziale, restituzione grafica di due mattonelle di terracotta segni di sepoltura. Da Hall/Kratzke 2005.
17. Dargun, chiesa abbaziale, lastra tombale con l’immagine dell’abate Johann di Rostock († 1336). 18. Rostock, abbazia di Heilig-Kreuz, lastra tombale con tre monache. Da Hall/Kratzke 2005.
16. Dargun, chiesa abbaziale, lastra tombale con l’immagine dell’abate di Attendorne († 1367) e di Herman di Riga (†1369).
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19. Santes Creus, chiesa abbaziale, tombe della casa regnante spagnola.
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20. Abbazia di Doberan, ossario.
dell’ossario medievale, è stato tutto nuovamente decorato in stile neobarocco con numerosissimi teschi e ossa. I resti mortali sono stati utilizzati come materiale per candelabri, ghirlande e altri addobbi.
LA VITA LITURGICA COME ARTE: OGGETTI LITURGICI CISTERCIENSI Emma Cazabonne
La grande varietà di pezzi di arredo risalenti all’alto e al tardo Medioevo, che qui sono stati presentati solo in parte, testimonia che nell’Ordine, nel corso dei secoli l’atteggiamento verso le immagini aveva subito un mutamento. Fino alla metà del XIII secolo, riguardo all’arte figurativa, si era rimasti legati a una grande semplicità, con eccezione dei primi libri miniati sotto l’abate Stefano Harding. Dalla metà del XIII secolo si registrò un grande cambiamento e da quel momento in poi nelle chiese si poté trovare una grande varietà di opere d’arte che non erano qualitativamente e in parte neppure quantitativamente inferiori a quelle delle chiese secolari. Anche il Reiner Musterbuch (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, cod. 507) prodotto nell’omonima abbazia, è un’ulteriore testimonianza del lavoro artigianale e artistico sul mezzo figurativo in architettura e nelle opere d’arte. Purtuttavia il rispetto della Forma Ordinis rimaneva un persistente e ricorrente postulato del Capitolo generale. San Benedetto da Norcia, sulla cui Regola si basava quella dei Cisterciensi, e con lui i diversi santi dell’Ordine, primo fra tutti san Bernardo, erano un soggetto figurativo prediletto presso i Cisterciensi. Anche la venerazione di Maria era espressa in numerose opere d’arte. L’Ordine determinava inequivocabilmente la scelta dei motivi, come si evidenzia nelle raffigurazioni tipiche dei Cisterciensi quali l’amplesso e Cristo crocifisso dalle virtù. In alcuni monasteri venivano raffigurati anche la storia dell’Ordine e gli episodi di fondazione. Possiamo citare ancora paradigmaticamente l’immagine commemorativa del monastero di Marienstatt (Landesmuseum Bonn) che era stata dipinta su pergamena e in tempi antichi incollata su una tavola di legno. Raffigura la fondazione del monastero di Marienstatt e venne probabilmente commissionata in occasione della consacrazione della chiesa monastica nel 1324 quale “documento di fondazione” visivo. Se dalla fondazione dell’Ordine nel 1098, per circa centocinquant’anni dopo la morte di Bernardo di Clairvaux, per l’uso delle immagini nei monasteri erano state determinanti le severe consuetudini dell’Ordine, che possono essere riassunte dal concetto Forma Ordinis, grazie alle opere d’arte che fanno la loro crescente comparsa a partire dal
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XIII secolo si evidenzia come l’Ordine si andasse adattando
alle novità dei tempi. Nel Medioevo, nei monasteri cisterciensi maschili e femminili le decorazioni architettoniche, i pavimenti, le vetrate a grisaille, nonché le croci trionfali dipinte su entrambi i lati e la contenuta decorazione esterna delle chiese con sculture erano adeguati a una misura relativamente modesta, ma molte delle opere bi- e tridimensionali all’interno della chiesa, come i retabli e le sculture, rispecchiano il gusto dell’epoca, piuttosto che richiamare la postulata semplicità dell’Ordine.
Le disposizioni normative forniscono un buon punto di partenza per identificare le caratteristiche degli oggetti liturgici usati dai Cisterciensi. Dato che l’Opus Dei costituisce il cuore della vita monastica, gli oggetti liturgici hanno ovviamente richiesto attenzione fin dall’inizio ed esigono di essere riconsiderati lungo i secoli. Per conformarsi ai propri princìpi di riforma, i monaci volevano una liturgia caratterizzata da povertà e semplicità, come viene richiamato nel capitolo 17 dell’Exordium Parvum. Si batterono per la coerenza fra il loro stile di vita e la sua espressione artistica ma, già alla fine del XII secolo, i monasteri, divenuti più ricchi, iniziarono ad allontanarsi anche nell’arte dallo stile disadorno originario. Gli Statuti del Capitolo generale rimproveravano spesso agli abati di non seguire la semplicità dell’Ordine nelle questioni liturgiche e le reprimende si erano intensificate dopo il 1160, prova del graduale accumulo di ricchezza. Dalla prima metà del XIII secolo in avanti, gli Statuti annuali cercarono solo di limitare il dispendio e l’ostentazione. Nel XVII e XVIII secolo, poi, anche l’ordine cisterciense non si sottrasse al gusto per il gigantismo comune all’epoca. L’attuale Costituzione 27 dell’ordine dei Cisterciensi della Stretta Osservanza sottolinea la semplicità nelle celebrazioni liturgiche. Il capitolo 17 dell’Exordium Parvum menziona come prima cosa la croce. Papa Innocenzo II, durante la sua visita a Clairvaux nel 1131, fu pieno di gioia nel vedere un crocifisso di legno come unico ornamento della chiesa abbaziale. Ciononostante, questo oggetto era probabilmente molto bello. Nel suo Dialogus Miraculorum (1219-23 ca.), Cesario di Heisterbach racconta di un monaco «così devoto al suo Ordine che, rifiutando ogni ricompensa se non la pura spesa, dipingeva crocefissi di meravigliosa bellezza
sopra diversi altari in molti dei nostri monasteri». In contrasto con questa iniziale semplicità, una grande croce in argento dorato è elencata nell’inventario stilato nel 1396 per l’abbazia di Meaux, nello Yorkshire. L’abate di Tintern, nel Galles, temendo che il monastero potesse essere distrutto, inviò nel 1413 un suo servo per mettere al sicuro una croce d’argento dorato; l’oggetto doveva avere grande valore per suscitare tale disposizione. Nel 1524, l’abate di Graiguenamanagh, in Irlanda, dotò il suo monastero di «una croce d’argento, dorata e ornata di gemme» e altri monasteri irlandesi possedevano a quell’epoca croci simili. Nel 1526, quando il vescovo Langland visitò la Thame Abbey in Inghilterra vide anche una croce d’altare aurea gemmata e altre croci d’argento con pietre preziose. Nella prima metà del XIII secolo l’artigiano che creò il pastorale trovato a Chaâlis usò solo rame dorato, ma la sua arte si rivela nella complessità della scena dell’Annunciazione raffigurata nel riccio come pure nei particolari floreali che la circondano (fig. 2). A Maulbronn fu trovata una squisita croce processionale che potrebbe essere fatta risalire al 1150: Cristo crocifisso è di bronzo e la croce è di rame dorato, la sua ricchezza consiste nel disegno elaborato. Possiamo anche individuarvi delle cavità che contenevano pietre dure. Fra il 1450 e il 1500 molti monasteri cisterciensi irlandesi possedevano croci processionali in bronzo dorato decorate con motivi floreali. Oggetti di metallo prodotti a un costo minore potevano ottenere effetti sontuosi grazie alla lavorazione raffinata; tuttavia inizialmente ci dovettero essere grandi tensioni riguardo all’arte dei metalli. Il grado di restrizione dei Cisterciensi colpisce veramente molto, se si considerano le pressioni e le tentazioni di indulgere a oggetti elaborati
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A fronte: 1. Alcobaça, armadio reliquiario.
Nelle pagine seguenti: 2. Pastorale con Annunciazione di Adam de Chambly, bottega limosina, secondo quarto del XIII secolo. Abbazia Reale di Chaâlis, Museo Jacquemart-André. 3. Reliquiario di san Sebastiano, da Kaisheim (Augusta, Germania), 1497. Londra, Victoria & Albert Museum. 4. Obazine, armarium, 1176 circa.
provenienti, per esempio, da prodighe donazioni di benefattori generosi o anche da famiglie agiate di novizi. Un altro oggetto legato alla croce è il pastorale; quello fuso in lega di rame trovato a Warden culmina in una testa di animale e presenta elementi floreali. Prodotto nel XII secolo, è una buona testimonianza dell’atteggiamento dei Cisterciensi dell’epoca nei confronti dell’arte: con la semplicità del suo materiale aderisce alle originarie esigenze cisterciensi di austerità, mentre il suo stile presenta un’eccellente qualità nel disegno, proveniente da Saint Albans, la prima abbazia inglese nella produzione di raffinati oggetti di metallo. Il capitolo 17 dell’Exordium Parvum elenca poi i tipi di illuminazione. Era permesso dapprima solo un candeliere di ferro; più tardi ne vennero concessi tre e poi fino a cinque per l’intera chiesa. La scelta è in stridente contrasto con l’eccessiva illuminazione di Cluny, per esempio, con la sua corona di cinquecento candele per Natale e Pasqua e con «certi alberi fabbricati in bronzo massiccio, lavorati mirabilmente e splendenti meno per le lumiere sovrastanti che per le proprie gemme», annota Bernardo di Clairvaux nella sua Apologia a proposito di alcune case monastiche fuori dall’ordine cisterciense. Non tutte le case cisterciensi poterono sfuggire alla critica; alcuni candelieri in argento dorato vennero trovati a Fountains e nella Thame Abbey nel XVI secolo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi questo oggetto liturgico rimase ridotto all’essenziale poiché i Cisterciensi consideravano la luce artificiale superflua e immotivatamente costosa, e preferivano sfruttare pienamente la luce naturale. D’altronde, eccetto le Vigilie, tutti i servizi divini venivano effettuati alla luce del giorno. I turiboli dovevano essere di ferro o rame, non certo di metallo prezioso. Alcuni turiboli d’argento vennero trovati a Meaux e anche a Thame, con le relative navicelle per l’incenso. Fountains aveva anch’essa una navicella d’argento dorato. I paramenti e le tovaglie d’altare non dovevano essere di seta o con fili d’oro, ma semplici, di un solo colore e senza decorazioni sofisticate. Con la moltiplicazione delle fondazioni arrivavano molti doni, per esempio costose casule di seta e tovaglie colorate per l’altare; nel XIII secolo questi oggetti erano permessi solo se venivano offerti. Alla fine del XIV secolo, agli abati era permesso portare le insegne episcopali, come la mitra; in questo caso la seta era autorizzata senza restrizioni e largamente utilizzata. Non sorprende che l’inventario del 1396 a Meaux elenchi una magnifica serie di paramenti e di tovaglie per l’altare. Ai gior-
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ni nostri molte case sembrano essere tornate alla semplicità originale, sono infatti ammessi, come nel passato, il lino e la lana. Per i vasi liturgici, come i calici, le patene e le fistulae, a stretto contatto con elementi divini, vi era la prescrizione che fossero d’argento o d’argento dorato, ma non d’oro. Ben presto tuttavia le eccezioni divennero frequenti a causa di benefattori che offrivano calici d’oro. Già nel 1157, per esempio, Mellifont ne ricevette uno dalla moglie di Tighernan O’Rourke. Tre calici d’argento dorato con decorazioni a smalto erano elencati a Thame nel 1526. Il semplice calice di legno trovato nell’abbazia di Pforta resta un enigma; potrebbe essere stato fabbricato per essere deposto nella tomba di un abate o di un monaco di quell’abbazia. Anche attenendosi alle regole poterono essere realizzate alcune magnifiche opere d’arte, come è testimoniato dal calice d’argento eseguito da M. Arnaud di Grenoble e offerto a Cîteaux nel XVIII secolo. Nei monasteri si trovavano anche oggetti semplici, come le sobrie ampolle di peltro di Clairvaux, intorno al 1750. L’Exordium Parvum stabilisce che i contenitori per il vino e l’acqua non abbiano alcuna decorazione. In passato, il Santo Sacramento, riservato probabilmente ai malati, veniva conservato in una pisside sospesa sopra l’altare maggiore. La forma dei contenitori subì un’evoluzione: nel XVIII secolo in forma di pastorale a Cîteaux, una colomba d’argento a Orval, una colomba d’argento dorato con ali in smalto e diamanti per occhi a Tamié e un’immagine della Vergine Maria alla Trappe e a Boquen. Il tabernacolo, nella sua accezione moderna, veniva già usato nel XVII secolo; Morimond ne possedeva uno dorato all’inizio del XVIII secolo. Le reliquie erano i grandi tesori delle chiese medievali; avevano un enorme valore spirituale ed economico poiché richiamavano molti pellegrini a venerarle. Non è sorprendente che i reliquiari siano fra i più impressionanti e creativi esempi conservatisi di arte metallurgica medievale, e i Cisterciensi a questo riguardo non si sono sempre attenuti alla semplicità desiderata. A Meaux nel 1396 si trovavano parecchi reliquiari, fra i quali un’urna di cristallo con diverse reliquie. L’abbazia della Holy Cross aveva uno speciale scrigno per la reliquia della Vera Croce, un cofanetto d’argento che racchiudeva una croce di legno a due braccia alla quale era attaccata la reliquia stessa. Il Victoria & Albert Museum possiede un reliquiario di san Sebastiano datato al 1497 e commissionato dall’abate
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George Kastner di Kaisheim, un monastero cisterciense presso Augusta. È d’argento colato, parzialmente dorato, martellato e cesellato, ornato con vetri, perle, zaffiri e rubini. Le reliquie sono contenute nella base del reliquiario, che presenta un’elaborata decorazione con pinnacoli e figure in stile gotico, mentre la statua del corpo agonizzante di san Sebastiano costituisce la parte alta del reliquiario. Si tratta di un potente documento dell’oreficeria europea del XV secolo e dimostra che i Cisterciensi non esitavano a commissionare superbe opere d’arte a scopi liturgici (fig. 3). L’esempio più famoso di prodigalità nei reliquiari è probabilmente quello ancora visibile nella sacrestia di Alcobaça, in Portogallo. Il gigantesco reliquiario ottagonale, eretto nel XVII secolo sotto l’abate Constantino Sampaio, è interamente ricoperto di legno dorato e contiene busti e statue di legno e di terracotta policroma (fig. 1). Il Sepulchrum Domini si situa fra la categoria dei reliquiari e quella dell’arredo della chiesa. Consiste in un cofano mobile di legno dedicato al Santo Sepolcro, che viene usato per la liturgia pasquale. In Inghilterra questi cofani erano
poco più che piedistalli, sormontati o meno da un baldacchino. Sul continente europeo erano intagliati con raffigurazioni del Cristo morto nella tomba. Questi cofani mobili sono quasi esclusivamente una prerogativa dei monasteri cisterciensi (La Maigrauge e Baar in Svizzera; Lichtenthal, Wienhausen e Diesdorf in Germania), in un’epoca in cui il Sepulchrum Domini in Germania stava gradualmente assumendo la forma di monumento di pietra. La ragione potrebbe essere che i Cisterciensi stavano ancora tentando di evitare di erigere monumenti ornamentali nella chiesa e questa piccola cassa di legno poteva facilmente essere riposta dopo l’uso. Quella della Maigrauge è solitamente considerata la più antica (13301340); si tratta di un sarcofago oblungo con un coperchio a forma di tetto a due falde, che contiene una statua di Cristo morto in grandezza naturale, circondato all’interno e all’esterno da raffigurazioni dipinte: le tre sante donne al sepolcro, Maria consolata da Giovanni, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Altre scene sono visibili sulle due facce del coperchio. Alcuni esemplari più barocchi sono pre-
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LE VETRATE CISTERCIENSI Eric Ramírez-Weaver
senti in monasteri cisterciensi tedeschi: a Neuzelle, nel 1752, il Santo Sepolcro consisteva di cinque grandi scenari dipinti con quinte e ben 129 figure mobili. A volte il Sepulchrum Domini veniva associato al tabernacolo, in quanto la riserva di ostie consacrate dopo la Messa era considerata il sepolcro di Cristo. Una torre eucaristica di questo tipo, datata all’inizio del XIII secolo, è visibile a Sénanque: una struttura di legno in forma di edificio ottagonale sormontata da una lanterna a punta. Vale la pena di citare qui un paio di pezzi di arredamento ecclesiale ben conservati. L’armarium di quercia di Obazine sembra essere uno dei più antichi esemplari di tutto il mondo cristiano. Realizzato probabilmente intorno al 1176 presenta pochi motivi lignei: sui lati doppi archi ciechi e colonnine, cardini con cinghie sul fronte e segni di grandi chiodi per tenere ferme le bande di metallo. Tracce di pittura rossa sulla cornice e possibili zone dorate, come quella della serratura, mostrano che l’artista ha cercato di valorizzare questo pezzo di arredamento liturgico altrimenti semplice (fig. 4). Un altro pezzo che desta curiosità è il leggio di quercia trovato nell’abbazia di Isenhagen. Potrebbe essere stato originariamente un sedile a forma di trono, donato nel 1247 dalla fondatrice, Agnese, nuora del duca Enrico il
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Leone. Nel corso del XIII secolo, venne modificato per servire da leggio e da armarium per i libri liturgici, innanzitutto con l’aggiunta di pannelli laterali di frassino. Dopo la Seconda Guerra mondiale, i Cisterciensi sembrarono dare preferenza alla sobrietà, forse per il desiderio di abbracciare i loro valori originali o anche per seguire inconsciamente il gusto artistico minimalista contemporaneo. Per esempio, fra il 1998 e il 2004, i monasteri di Sept Fons, la Trappe (Francia) e Novy Dvůr (Repubblica Ceca) hanno commissionato oggetti liturgici a Goudji, il famoso orefice e argentiere, noto a livello mondiale. Queste opere d’arte – croci, calici, tabernacoli, reliquiari, candelieri, leggii e così via – sono certamente semplici secondo gli standard moderni, anche se probabilmente non a buon mercato secondo quelli dei primi padri cisterciensi. I Cisterciensi sanno riconoscere il valore delle opere d’arte ma fin dalle origini considerano i dettagli superflui distrazioni prive di significato, che non hanno posto nei loro “laboratori” di preghiera, e li ritengono uno spreco di denaro. La loro arte incarna lo spirito della semplicità ed è animata da una scelta morale piuttosto che estetica. In realtà la tensione a realizzare questa scelta morale ha prodotto gli oggetti liturgici più belli.
Dal 1859 le suore del Saint-Coeur de Marie hanno preso possesso dello storico monastero cisterciense di Obazine, fondato nel 1135 nel sudovest della Francia da Étienne de Corrèze. Nel 1791 il monastero aveva ceduto sotto la pressione fiscale e la secolarizzazione, e in epoca moderna Obazine conobbe diversi usi, fra cui un orfanotrofio per la cura di bambini, tra i quali anche colei che sarebbe diventata una rivoluzionaria stilista, Gabrielle Bonheur “Coco” Chanel. Le vetrate di Obazine esibivano, prima al di sopra dei monaci e poi al di sopra di tutti i successivi residenti, carnose palmette (simili a quelle della fig. 4) che disegnavano intrecci circolari composti, noti come “intrecci a nastro”, che permeavano lo spazio ecclesiale con un rimando sottile ma ardente all’associazione spirituale fra parola (logos) e luce nell’insegnamento di san Bernardo. Nel suo sermone Delle sette ragioni per le quali l’anima anela alla parola, Bernardo enfatizza la funzione metaforica della luce nel processo biblico della redenzione: «Infatti il Verbo è luce: “La tua parola – infine – che nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai piccoli”. […] Non piccolo profitto ha fatto la tua anima, la cui volontà è stata mutata, la cui ragione illuminata, per volere e conoscere il bene. Con la prima ha ricevuto la vita, con la seconda la vista: infatti volendo il male era morta, e ignorando il bene era cieca»1. Le vetrate di Obazine proiettano nello spazio sacro della chiesa il loro disegno, ottenuto con reticoli di piombo (chiamati listelli) contro il vetro chiaro (o bianco). Questa tecnica che utilizza vetro privo di decorazione (blankglazing) venne usata per lo più nelle prime vetrate cisterciensi francesi, mentre esempi più tardi sia in Francia sia in altri
Paesi comportavano la pittura del vetro. Ambedue i tipi vengono classificati come finestre cisterciensi a grisaille. Durante il periodo medievale, la luce che passava attraverso i vetri a grisaille disegnava forme luminose sui cuori dei monaci raccolti nei loro monasteri, quali evanescenti inviti alla meditazione. La storia delle vetrate cisterciensi richiede qualcosa di più di un semplice apprezzamento da antiquario per monumenti magistrali dell’arte vetraria medievale. Un attento studio dei diversi scopi artistici e delle continuità ideologiche dei programmi delle vetrate cisterciensi rivela che le finestre qui esaminate, dal XII al XXI secolo, hanno sempre rappresentato componenti integrali di spazi monastici organizzati e consacrati alla crescita spirituale dei loro utenti. Helen Zakin ha dimostrato che le finestre di Obazine sono emblematiche delle vetrate che si trovavano precedentemente in quasi tutte le case cisterciensi francesi. Sono state collegate alle vetrate a grisaille undici fra le prime fondazioni, sebbene solo di sei siano rimasti frammenti della vetratura originale: Obazine (1175 circa), Noirlac (1185 circa), La Bénisson-Dieu (1200 circa), Bonlieu (1200 circa), Pontigny (1210 circa), La Chalade (tardo XIII secolo). I sistemi di classificazione per tipi suddividono le vetrate a grisaille nella varietà con decorazioni vegetali, come le finestre di Bonlieu (fig. 4), e in quella a stili geometrici con intrecci, come nelle finestre di Obazine (fig. 1). Tradizionalmente le discussioni sulla grisaille cisterciense tendono a sottovalutare l’importanza dei primi programmi di vetrate a causa di tre errori metodologici. Primo, è stato spesso affermato che le vetrate a grisaille comportavano un processo produttivo meno costoso, preferito dall’Ordine ascetico. Al contrario, Meredith Lillich ha dimostrato che la componente leggermente rosata del
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manganese, chiamato “sapone dei vetrai”, veniva probabilmente aggiunta alla lucentezza verdastra, data dal ferro delle prime vetrate, per renderle chiare. L’introduzione di manganese era costosa, tuttavia gli incaricati dei monasteri cisterciensi ordinavano esplicitamente e intenzionalmente ai maestri vetrai di fare questa particolare aggiunta, esponendosi a costi maggiori, perché i monaci cisterciensi avevano una preferenza estetica per il vetro chiaro. In secondo luogo, Christopher Norton e David Park – nell’introduzione della loro importante antologia, Cistercian Art and Architecture in the British Isles – hanno dimostrato che le citazioni di san Bernardo, come quella posta all’inizio di questo contributo, sono “pericolose” in quanto conferiscono ai sermoni un significato ideologico ed estetico che prescinde dalla debita considerazione della scarsità di reperti archeologici risalenti al XII secolo2. È vero che le affermazioni in storia dell’arte a proposito della grisaille devono essere avvalorate da dati archeologici, ma non sarebbe serio ignorare il ruolo che i simboli, gli emblemi e le narrazioni contenuti in queste vetrate hanno avuto nella cura della pratica devozionale monastica dei Cisterciensi. Terzo, la resistenza dei Cisterciensi al divieto in arte delle
immagini e dei colori stabilito dal Capitolo generale è stata sottovalutata, almeno per il primissimo periodo della produzione di vetrate. Alcune date discrepanti nella legislazione cisterciense hanno contribuito a confondere le cronologie, sebbene ormai vi sia accordo sul fatto che nel 1149-50 uno statuto del Capitolo generale dichiarava che «le vetrate devono essere bianche e senza croci né immagini»3. Appena più tardi, nel 1159, questa disposizione venne chiarita: «le finestre di vari colori realizzate prima della proibizione devono essere rimosse entro tre anni»4. Piuttosto che seguire queste severe indicazioni, i maestri vetrai di La Bénisson-Dieu realizzarono una vetrata dagli intricati intrecci geometrici che presentava una rete intrecciata di nodi cruciformi che inquadravano zone circolari, abbellite da frammenti di vetro color rubino, come gocce sospese di sacro sangue. Altri esempi delle più antiche vetrate cisterciensi in Germania e in Spagna devono essere considerati accanto alle vetrate francesi: Eberbach (tardo XII secolo), Santes Creus (Tarragona, 1220 circa), Mecklenburg (1230-40 circa), Marienstatt (1230-40 circa), Namedy (prima del 1250), Haina (metà del XIII secolo). A Santes Creus (fig. 5) croci e
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Nelle pagine precedenti: 1. Obazine, vetrata a grisaille.
5. Santes Creus, parete orientale della campata del transetto TN II, 1220 circa. Barcellona, Institut d’Estudis Catalans.
6. Reiner Musterbuch, 1213 circa. Vienna, Ă–sterreichische Nationalbibliothek, cod. 507, f. 11 recto.
In queste due pagine: 8. La malattia di san Bernardo, Sankt Aspern, Colonia, 1525 circa.
7. Heiligenkreuz, vetrata.
9. San Bernardo esorta i fedeli a entrare a Clairvaux solo se ispirati dallo spirito, Altenberg, 1517 circa. The Metropolitan Museum of Art (donazione Stanley Mortimer).
2 e 3. Pontigny, due pannelli a grisaille. 4. Bonlieu, vetrata.
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quadrati si intrecciano creando grandi motivi circolari che simboleggiano l’unità e la redenzione, evidentemente in contrasto con i semplici disegni preferiti dal Capitolo generale. Le vetrate di Santes Creus mettono in rilievo la natura internazionale dell’espansione cisterciense durante il XII e il XIII secolo e suggeriscono la possibile partecipazione di maestri vetrai itineranti. I creatori di vetrate al servizio delle fondazioni cisterciensi potrebbero aver usufruito di motivi come quelli presenti nel Reiner Musterbuch (1213 circa), dell’abbazia cisterciense di Rein vicino a Graz, Austria (fig. 6) che forniva esempi di motivi cruciformi e vegetali, nonché di simboli come figure quadrangolari e nodi di Salomone, che potevano essere inseriti in disegni di vetrate più complessi. I maestri vetrai itineranti – e, col tempo, i pittori di vetri – potrebbero aver lavorato a fianco di normali fratelli laici in alcuni monasteri cisterciensi dove fiorivano botteghe per la produzione di vetrate. Queste botteghe sono state confermate storicamente in fondazioni tedesche leggermente più tarde come Haina (XIII secolo) e Hude (1250-1300). Infatti, all’inizio del XIV secolo, un fratello laico ha firmato il suo lavoro a Haina presentandosi come Lupuldus frater. Nel 1284 il monastero di Vale Royal in Inghilterra fabbricava ugualmente vetri e c’è la documentazione di un’attività continuativa di produzione vetraria fino al 1357. Dal XIII al XV secolo si registra un’ulteriore resistenza alle precedenti proscrizioni delle figure e dei colori nelle vetrate cisterciensi. Invece di un rilassamento della disciplina monastica, le nuove forme elaborate in grisaille vegetali e i ritratti dei benefattori in siti come Doberan testimoniano della flessibilità delle vetrate cisterciensi, che rimasero notevoli esempi di devozione e di pietà e di incoraggiamento alla riflessione fino al periodo tardo-gotico. Entrambe queste tendenze sono presenti in una finestra a sesto acuto (1275 circa), dove l’immagine della benefattrice di Doberan, la regina Margherita di Danimarca (morta nel 1282), abbigliata con il mantello, l’abito e il collo di pelliccia alla moda, esalta la rappresentazione di motivi vegetali nella vetrata a grisaille. L’uso della pittura a grisaille perpetuava il ricorso, tradizionale tra i Cisterciensi, alle variazioni di tono nelle vetrate che presentano forme vegetali intersecate o inquadrate da reticoli geometrici, ad Heiligenkreuz (prima
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del 1250, fig. 7) e Altenberg (dopo il 1250). Nel 1396 ad Altenberg nel programma della vetrata occidentale fu inserito un ritratto a grisaille di san Bernardo sotto a un baldacchino colorato. Si possono trovare opere figurative anche a Neukloster (1240-50) e Dobrilugh (1250 circa), nel chiostro di Wettingen (1280), a Haina (1300), nel chiostro di Wienhausen (1300 circa), a Kappel (1310), Heiligkreuztal (prima del 1312) e Amelungsborn (1330-40). Circa un secolo più tardi, il chiostro cisterciense tedesco di Altenberg presentava un ciclo di circa settanta pannelli della vita di san Bernardo (fig. 9) con raffigurazioni a grisaille (1505-20). In una scena, Bernardo ricorda ai suoi seguaci che solo la purezza di spirito permetterà loro l’accesso a Clairvaux attraverso il portale rinascimentale con arco e pilastri. Un’altra serie riguarda il monastero ad esso legato di Sankt Aspern (1525-30) a Colonia (fig. 8). Le monache di Rathausen (1592-1623) accolsero nel loro chiostro un grande ciclo narrativo su vetrata di sessantasette scene della vita di Cristo. Dalle orfane di Obazine ai monaci di Altenberg l’immutabile invito di Bernardo a entrare spiritualmente nei sacri spazi cisterciensi viene perfezionato dall’esperienza trascendente del loro programma di vetrate. Questo vale anche per le moderne vetrate di Jean Pierre Raynaud a Noirlac (1977), per le quarantasette diverse finestre disegnate da Jean Ricardon per Acey (1991-94) e per le vetrate di Louis-René Petit a Sénanque (1994-2001). A Noirlac, il moderno lavoro di piombatura di Raynaud tramuta la luce che passa attraverso il vetro chiaro in una calda coperta che avvolge lo spettatore, come le prime vetrate cisterciensi di Obazine o di Bonlieu. Le finestre di Ricardon ad Acey originano dalla sua fiducia nelle potenzialità pittoriche della grisaille e delle variazioni tonali, in sostanza le modalità stilistiche delle vetrate cisterciensi medievali. Il passo di san Bernardo citato all’inizio di questo contributo enfatizza l’importanza della luce nel monastero cisterciense quale metafora della chiarezza e della saggezza. Ad Acey, le proiezioni calligrafiche rese possibili dalle finestre a grisaille continuano a riflettere le loro invocazioni come segni palpabili sui monaci ivi residenti, facendo risorgere in forma postmoderna le tradizioni artistiche di quasi novecento anni del loro Ordine.
L’ARTE MONASTICA DELLA LECTIO DIVINA Michael Casey
Come prescritto nella Regola di san Benedetto, la vita del monaco si svolgeva sotto la guida del Vangelo. Ciò significava vivere in un’atmosfera permeata dalla lettura delle Scritture, eseguita pubblicamente in chiesa, nel refettorio e prima di Compieta, in privato negli intervalli lungo la giornata e segretamente nell’esercizio di meditazione – la ripetizione a bassa voce di testi a memoria come mezzo per mantenere la concentrazione. Oltre alla sequenza quotidiana degli uffici liturgici e al lavoro necessario per il proprio mantenimento, il tratto più caratteristico della vita di un monaco in Occidente, così come si era sviluppata dai tempi di san Benedetto, era la pratica della lettura meditata della Bibbia e di altri libri che servivano da complemento alle Scritture. La lettura occupava diverse ore della giornata del monaco ed erano quindi necessari un abbondante materiale di lettura e un ambiente che la favorisse, oltre a una cultura che formasse i nuovi arrivati e sostenesse tutti nella loro vita di devozione alla pratica della lectio divina. Anche le monache leggevano ma abbiamo meno dettagli sulla loro pratica. Alcune scrittrici come Beatrice di Nazareth e Gertrude di Helfta fanno intendere che esse praticavano la lettura ampiamente e in profondità. Con il tempo si svilupparono una tradizione e una tecnica di lettura. Gli elementi della pratica divenuta nota come lectio divina non furono dedotti da princìpi teorici ma furono acquisiti dall’esperienza. Vi era una forte interazione fra la lettura e l’ambiente comune in cui si svolgeva la giornata monastica. La pianta dei monasteri e il modo in cui le attività erano distribuite lungo la giornata influenzavano il modo di leggere dei monaci. Con il tempo avveniva anche l’inverso: venivano costruiti i monasteri e stabiliti gli orari
in modo da offrire le condizioni migliori per le diverse attività legate alla lectio divina. Detto questo possiamo iniziare a comprendere questo esercizio spirituale esaminando i dettagli pratici della vita quotidiana. La Regola di san Benedetto (RB) è la nostra fonte principale. Oltre a questa è possibile dedurre informazioni sulla vita pratica del Medioevo dalle Consuetudini, i libri che regolavano nel dettaglio la vita quotidiana. Certamente la legge e la vita non coincidono sempre, ma queste codificazioni delle pratiche abituali ci forniscono un’idea generale di ciò che ci si aspettava dai monaci e di come questo venisse realizzato. Il primo libro di Consuetudini cisterciensi, intitolato Ecclesiastica Officia (EO), si era probabilmente formato già dal 1130, subì in seguito grandi revisioni negli anni 1150 e 1170 e fu poi completato dagli Statuti del Capitolo generale. Questo testo, insieme alla Regola, ci fornisce le prime indicazioni di come i monaci cisterciensi nel Medioevo si dedicassero alla lectio divina. Quando parliamo di lectio divina nel Medioevo ci riferiamo alla lettura personale delle Scritture fatta insieme agli altri membri della comunità. Era un esercizio comunitario per il quale i monaci si radunavano in momenti precisi e in luoghi particolari. Provvedendo alle diverse attività dei monaci durante il giorno, Benedetto dà la prima priorità alla liturgia, l’«opera di Dio» che non deve mai essere messa al secondo posto. Essa occupa fra le sei e le sette ore al giorno, secondo la stagione. Lo stesso tempo deve essere dedicato al lavoro pratico. A parte il tempo per le necessità naturali, le due o tre ore restanti devono essere dedicate alla lectio divina. Tale lettura non era semplicemente un’attività innocua per colmare i momenti in cui non si verificava nient’altro. Sebbene la sua durata fosse più breve del tempo dedicato al lavoro, Benedetto si preoccupava che alla
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1. Aiguebelle, armarium del XIII secolo. 2. Aiguebelle, chiostro della collatio.
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lettura fossero dedicate le ore migliori della giornata, suddivise in diverse sessioni in modo che quelle con minore concentrazione non potessero portare alla distrazione. Nel XII secolo l’horarium dei Cisterciensi riservava il tempo disponibile per la lettura alle prime ore del mattino, dopo l’Ufficio notturno delle Vigilie (EO 71,1). Nella giornata questo era il momento più lungo riservato alla lettura: ve ne erano altri, più tardi nella mattinata in estate e verso sera in inverno. Tutti insieme rappresentano circa la decima parte di un giorno. In occasione delle grandi feste i monaci erano ricompensati con più tempo libero per questo esercizio. Ogni dieci anni il monaco normale poteva aver passato leggendo l’equivalente di un anno intero. La lectio divina non era innanzi tutto fonte di gratificazione immediata: il suo impatto è cumulativo. Ogni testo letto doveva richiamarne altri, immagazzinati nella memoria, e produrre un’armonia. Nella mente serena la Bibbia scritta interagiva naturalmente con la Bibbia orale e con l’ascolto della liturgia, grazie alle continue spiegazioni e ai commenti patristici e dell’abate. Con l’uso questa pratica diveniva sempre più preziosa. Queste solide quantità di tempo fornivano il fondamento della lectio divina: dedicarsi lungo tutta la vita alle Scritture. Dato che i momenti di lettura erano simultanei per tutti i monaci, ognuno con il proprio libro (EO 1,5), il numero dei libri (o fascicoli) doveva essere uguale o maggiore del numero dei monaci della comunità. All’inizio, quando i libri erano relativamente pochi, venivano riposti nell’armarium vicino alla porta della chiesa, all’estremità del chiostro riservata alla lettura. In alcuni casi questo crebbe fino a diventare una piccola stanza e, in seguito, quando le raccolte aumentarono, i libri venivano riposti un po’ dappertutto nel monastero fino alla comparsa di biblioteche appositamente costruite. I libri venivano presi dal deposito all’inizio della sessione e riportati alla fine, dato che l’armadio o la stanza erano chiusi a chiave. La proprietà del libro era proibita, i monaci erano tenuti a cedere quello che stavano leggendo se un fratello ne aveva bisogno (EO 71, 1112). Non senza motivo era proibito portare i libri fuori, al lavoro (EO 75, 26). I monaci erano incoraggiati a leggere i libri per intero, disciplinatamente dall’inizio alla fine, come suggeriva san Benedetto (RB 48, 15). I libri erano ingombranti e non esistevano leggii su cui appoggiarli. A quel tempo le Scritture non avevano capitoli o suddivisioni in versetti, non tutti i codici erano scritti chiaramente e la loro lettura doveva diventare progressivamente difficoltosa negli ultimi decenni di vita, quando la vista si abbassava. Quando era necessa-
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rio, la luce veniva fornita nella sala capitolare che sembra fosse preferita come luogo alternativo per la lettura, specialmente in inverno. Tutti questi fattori rendevano improbabile la lettura rapida. I monaci leggevano adagio, probabilmente ripetendo le parole una dopo l’altra con pause frequenti, meditando i punti difficili che incontravano nel testo. I monaci medievali praticarono ben presto l’arte della lettura silenziosa. Nelle gallerie riservate alla lettura e nei momenti ad essa destinati regnava il silenzio: non si doveva discutere né dovevano essere poste domande su ciò che si stava leggendo. Inevitabilmente alcuni monaci erano inclini a sonnecchiare ed era quindi prescritto che i cappucci venissero portati in modo che si potesse vedere se il proprietario dormiva (EO 71,8). Durante la Quaresima, secondo la Regola, venivano incaricati dei circatores per mantenere la disciplina durante il tempo della lettura, se l’abate lo giudicava necessario (EO 15, 6; cfr. RB 48, 17-20). Quando il quadrato monastico era a sud della chiesa, la galleria riservata alla lettura correva normalmente lungo il
muro meridionale di essa. I monaci uscivano dalla chiesa e si recavano lungo il chiostro a oriente nella sala capitolare, nell’auditorium dove venivano assegnati i lavori e alle scale diurne che portavano al necessarium, quindi nella stanza riscaldata e poi nel refettorio per i pasti. La galleria riservata alla lettura era più calda quando il sole era basso in inverno e protetta durante l’estate. Tuttavia vi era la possibilità di leggere nella sala capitolare, probabilmente quando il chiostro era umido o rumoroso. Il lato del chiostro esposto a sud conservava un’atmosfera di profonda quiete dato che era esente dal movimento delle ali conventuali (orientale e settentrionale) e delle aree di lavoro del monastero (occidentali). Era un posto dove i monaci potevano restare seduti tranquilli, oppure pregare o leggere, indossando comodamente ciabatte da notte invece degli zoccoli da lavoro (EO 71, 20). La sua vicinanza alla chiesa significava che una parte della sacralità dello spazio liturgico si riversava su di esso (EO 71, 5). La lettura, la meditazione e la preghiera erano così strettamente collegate
che si fondevano l’una nell’altra ed erano considerate intercambiabili (EO 71, 3). Durante il tempo dedicato alla lettura i monaci potevano leggere, meditare o pregare. Lectio, meditatio e oratio erano gli elementi costitutivi dell’arte della lettura sacra che creava il clima interiore da cui poteva emergere la contemplatio. La tranquillità, la lentezza e la consuetudine della lettura significavano che si trattava di un esercizio compiuto con agio, ben diverso da un impeto urgente ad afferrare il significato e proseguire. Il monaco leggeva la pagina davanti a sé, non una ma diverse volte, assaporando le parole e permettendo loro di risuonare nel suo intimo. Si fermava per permettere al significato di rivelarsi leggendo fra le righe. La preghiera sgorgava con naturalezza: per l’aiuto a comprendere il testo e i suoi livelli di significato, per la forza di mettere in pratica ciò che veniva letto, per il dono dell’amore per Dio così svelato. Per coloro che avevano talento letterario scrivere o dettare erano spesso simili alla meditazione, una confluenza libera di testi e temi scritti riuniti al
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3. Bibbia di Stefano Harding, inizio della Genesi, Cîteaux 1109. Dijon, Bibliothèque Municipale, ms. 12, f. 3v. 4. Salterio di Roberto de Molesmes, Cîteaux, ultimo terzo dell’XI secolo. Dijon, Bibliothèque Municipale, ms. 30, f. 10v.
Nelle due pagine seguenti: 5. Iniziale S delle Lettere di sant’Agostino. Auxerre, Bibliothèque Municipale, ms. 17, f. 1. 6. Iniziale C della Bibbia monocroma di Cîteaux. Dijon, Bibliothèque Municipale, ms. 67, frammento.
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servizio della “vita buona” e della devozione. Per i Cisterciensi del XII secolo, così attenti all’importanza dell’esperienza, la lectio divina era il mezzo con cui alla parola rivelata di Dio veniva dato accesso alle differenti dimensioni della vita del monaco – per approfondire la sua comprensione della fede cristiana, per intensificare la sua coscienza nell’esame del suo comportamento quotidiano, per riaccendere il suo intimo desiderio di unione con Dio nella preghiera. La lettura dei monaci era chiamata “divina” perché a parte i sacri testi non vi era molto altro che occupasse la loro attenzione. La Bibbia era il libro principale del monaco, spesso letto in preparazione e in continuazione del testo proclamato nella liturgia. San Benedetto aveva delle riserve sul valore delle parti narrative della Bibbia quando la mente era stanca dopo un giorno di lavoro (RB 42, 4) poiché queste richiedevano un maggior esercizio mentale per arrivare al punto dove i cuori si infiammano, ma era persuaso che ogni pagina delle Scritture fosse la guida pratica alla “vita buona”. Egli raccomanda anche le opere di autori ortodossi ecclesiastici e monastici, dove è possibile trovare qualcosa di utile se non in ogni pagina almeno in ogni
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libro (RB 73, 3-4). Nei loro scritti possiamo percepire che gli autori cisterciensi avevano familiarità con il canone patristico occidentale (in particolare le opere di Agostino e di Gregorio), specialmente i commenti alle Scritture. È interessante notare che all’inizio del XII secolo, il primo libro ad essere copiato nello scriptorium del nuovo monastero di Cîteaux, una volta terminati i testi liturgici e la Bibbia, fu un volume di Gregorio Magno, i Moralia in Job. Nel secolo successivo, lo Speculum Novitii conteneva istruzioni dettagliate sui titoli utili per i novizi, inclusi alcuni dei predecessori cisterciensi dell’autore. Fra i monaci meno versati in letteratura erano popolari le opere con pii aneddoti e le raccolte agiografiche. I tempi cambiavano. Nell’ultima parte del XII secolo gli abati mettevano perfino in guardia i loro monaci dalla tendenza a trasformare la lettura sacra in un esercizio intellettuale e durante il XIII secolo cambiò il clima prevalente della Chiesa europea, iniziò ad imporsi la dialettica scolastica a spese della teologia patristica tradizionale e si affermarono nuovi modelli di vita religiosa. Tale cambiamento esterno influenzò anche il modo con cui i monaci si avvicinavano
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alle loro letture. Nel 1245 a Parigi Stephen of Lexington, successore di Bernardo a Clairvaux, fondò il Collegio di San Bernardo che servì da centro intellettuale per tutto l’Ordine fino alla sua soppressione nel 1791 e spinse la lettura monastica nella prevalente direzione dello studio. Nel frattempo la popolazione dei monasteri era diminuita a causa di disordini ecclesiali e civili, carestie e pestilenze, in particolare la peste. Venne trascurato il concetto di tempo libero monastico e le attività si moltiplicarono. Aumentò la disponibilità di materiale di lettura con l’invenzione della stampa e con la maggiore facilità nell’acquisizione di libri. La perdita di concentrazione associata a tutti questi cambiamenti sfuggì al controllo a causa del sistema commendatario che nominava in molti monasteri abati non monastici. Anche le riforme del XVII secolo fallirono nel tentativo di reinserire la lettura monastica nell’equilibrio stabilito dalla Regola Benedettina. Venne variamente sostituita dallo stu-
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dio, dalla “lettura spirituale” e dalla saltuaria meditazione, spesso concepita e praticata in modo individualistico.
LE MINIATURE CISTERCIENSI Joaquín Yarza Luaces
Nel XX secolo la rivalutazione più attenta della vita monastica medievale ha portato alla riscoperta della lectio divina, specialmente nei monasteri e fra le persone interessate alla spiritualità monastica. Occorre precisare, tuttavia, che la lectio divina non era stata concepita originariamente come un metodo o una tecnica speciale. Era semplicemente il modo inconsapevole con cui i monaci leggevano quando seguivano la vita benedettina e contemplativa. La pratica della lectio divina era parte integrante della vita quotidiana del monaco medievale e serviva da contrappunto alla liturgia e alle attività mondane. I suoi effetti particolari erano frutto della sua durata prolungata e della sua regolarità, del suo carattere comunitario e del fatto che veniva praticata per tutta una vita.
Generalmente, quando si parla di arte cisterciense l’attenzione pare incentrarsi sull’architettura, qualunque sia la portata delle differenze che presenta rispetto allo stile romanico maturo. Si lasciano da parte la scultura e le arti suntuarie e si dedica soltanto un breve capitolo, con particolare riguardo alla Francia, a commentare l’illustrazione dei manoscritti provenienti da Cîteaux e realizzati nella prima metà del XII secolo. È peraltro evidente l’importanza, la qualità e la singolarità iconografica di questo considerevole gruppo di codici, che in apparenza mostrano sufficienti somiglianze, tali da permetterne un’analisi circoscritta. Ciononostante non pare corretto tralasciare i numerosi manoscritti in uso nei monasteri dell’ordine riformato, ivi copiati o commissionati ad altri scriptoria monastici, nei quali predominano le grandi iniziali riccamente ornate e però scarsamente figurative, realizzati fino a poco dopo il 1200 in buona parte d’Europa. Da quel momento diventa palese la somiglianza tra i codici prodotti da un qualsiasi monastero e quelli dell’Ordine. Di conseguenza, ci riferiremo dapprima a quelli che formano il primo insieme proveniente soprattutto da Cîteaux, soffermandoci poi più brevemente sull’abbondante produzione di tanti cenobi europei (Francia, Italia, Spagna o regni cristiani ispanici, Portogallo, ecc.), per terminare con qualche riferimento alla fase più tarda. Già dal XIX secolo la Bibbia di Stefano Harding, l’abate inglese al quale dobbiamo riferirci, richiamò l’attenzione degli studiosi, ma i primi due lavori di raccolta si devono a Charles Oursel nel 1923 e 1926, soprattutto a questa seconda data1. In una certa misura si fecero conoscere al grande pubblico in due grandi esposizioni che ebbero luogo a Digione e a Parigi2, e portarono ad includerne importanti esempi nell’ambito della miniatura francese. Da allo-
ra si riserva loro un capitolo negli studi generali successivi, come quelli che gli dedicano Jean Porcher o François Avril. Specifici, sotto il profilo formale, sono quelli monografici di Angiola Maria Romanini3 e Neil Stratford. Qualche anno dopo vedono la luce due lavori di somma importanza. Il primo è quello di Jean-Baptiste Auberger, che si occupa della storia e del pensiero cisterciense dei primi tempi, prestando molta attenzione ai codici della prima metà del XII secolo, non solo di Cîteaux ma anche di Clairvaux, Pontigny e altri monasteri4. Il secondo, più minuzioso, completo, erudito e curato sotto il profilo codicologico, è opera di Yolanta Zaluska5. Con un lungo lavoro l’autrice ha studiato e realizzato la catalogazione della Biblioteca Municipale di Digione, dove, come abbiamo detto, si conserva la maggior parte dei manoscritti di Cîteaux. Ha contato sulla collaborazione di Marie-Françoise Damongeot, France Saulnier e Guy Lanoe6. Visto che è impossibile in così breve spazio riferire tutta la bibliografia dedicata al tema, basti indicare che continua ad essere numerosa e, a tratti, suggestiva e irrisolta. La miniatura di Cîteaux del XII secolo è stata individuata secondo tre grandi gruppi, forse utilizzando il termine «stile» con troppa generosità. Va ricordato che non disponiamo di codici anteriori al tempo dell’abbaziato di Stefano Harding (1109-1134). Vi sono notizie della loro esistenza ed è molto probabile che fossero esemplari semplici, non di lusso. Sin dall’inizio fu vivo il desiderio di elaborare un gruppo omogeneo di manoscritti liturgici propri, rivedendo quelli allora in uso. La prima notizia importante e sicura si riferisce alla Bibbia di Stefano Harding (1109). Figura capitale dell’ordine, non ultimo riguardo anche al lavoro dello scriptorium, Stefano nacque in
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Inghilterra (1066) prima dell’invasione normanna in una famiglia imparentata al detronizzato re Harold. Intraprese a Sherborne la carriera ecclesiastica benedettina, che lo portò in Scozia e in Francia. Si recò pellegrino a Roma e al ritorno entrò a Solesmes. Fu priore a Cîteaux, diventandone dal 1109 il terzo abate. Nel 1113 entrò come novizio nel suo monastero Bernardo di Clairvaux. Stefano Harding occupò l’incarico di abate per quasi venticinque anni, rinunciando nel 1133 e morendo l’anno seguente. Mise un’attenzione speciale nel redigere una versione fedele della Bibbia, cominciando da ciò che gli era possibile conseguire con i propri mezzi, consultando poi gli ebrei riguardo a determinate varianti. Lo indicò in un monitum o avvertenza che incluse nel primo volume della Bibbia, dove si presenta come abate del Novum Monasterium, come fu chiamata in origine Cîteaux. Oggi l’opera è composta da quattro volumi, ma in origine erano solamente due. Nel secondo volume attuale (Dijon, B.M., ms. 14) si dispiega la figurazione che lo ha reso famoso. Il suo stile lineare di notevole finitura permette al disegno di campeg-
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giare sopra al colore delicato. Quando si è trattato di indagare la provenienza dello stile, si è arrivati a concludere che deve molto all’Inghilterra donde proveniva Stefano Harding; qualche studioso si è spinto a proporre l’abate stesso come autore, la qual cosa potrebbe non essere uno sproposito, sebbene non poggi su alcun argomento solido. Il folio 13, dedicato alla vita di Davide, è suddiviso in una quindicina di scene, disposte nel modo che sarà proprio delle Bibbie istoriate, sebbene accompagnate da testi correlati. Nel registro superiore il ciclo narrativo inizia con un giovane Davide che sconfigge il leone che assalta le sue greggi. Immediatamente dopo si trova la scena della sua unzione come futuro re da parte di Samuele, alla presenza di una moltitudine. Infine, l’episodio dello scontro con il gigante Golia, diviso in due scene: la lotta e la morte del filisteo. Ritroviamo la stessa disposizione nella tradizione iconografica iberica (Bibbia del 960 e del 1162, San Isidoro de León). Nel secondo registro, leggendo da sinistra a destra, Davide intrattiene durante un accesso di malinconia del re Saul, il quale tuttavia si ritorce contro di lui
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Nelle due pagine precedenti: 1. Davide e Golia, dal ciclo di Davide della Bibbia di Stefano Harding. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 14, f. 13.
Nelle due pagine seguenti: 3. Cristo e i Dodici profeti minori, dal Commento di Gerolamo al libro di Daniele. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 132, f. 2.
2. Davide in trono con i suoi musici, dal ciclo di Davide della Bibbia di Stefano Harding. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 14, f. 13v.
minacciandolo con una lancia. Davide si reca poi a casa del sacerdote Abimelec, e così altre storie fino a chiudere con la morte di Assalonne, il figlio ribelle. Come colophon, una solenne immagine del re Davide si contrappone al ciclo narrativo (f. 13v). Si tratta del re musico, dotato di un’arpa, incoronato e seduto in trono. È nel centro di una fortezza della quale occuperebbe il cortile. È molto comune nel romanico vederlo rappresentato come musicante e accompagnato dai collaboratori, ma dai secoli carolingi lo troviamo anche presente quale presunto autore dei Salmi. In generale sono soliti reggere qualche strumento a corda pizzicata, ma nella Bibbia di Stefano Harding mostrano un interessante instrumentarium. Quando presenti, non tutti i cicli raggiungono tale sviluppo. Si pensi, per esempio, all’inizio del Libro di Tobia (f. 165v), con due sole scene che occupano un piccolo spazio del folio che illustrano. Sorprende la libertà con la quale si muovono certi personaggi, come Assuero nel Libro di Ester (f. 122v), seduto su uno scranno, recante i segni del potere, che fa giustizia brandendo la spada e ruota il corpo di 90° mentre dirige lo sguardo al momento della esecuzione di Aman. In questo senso è impossibile dimenticare Nabucodonosor all’inizio del Libro di Daniele (f. 64), in attonita contemplazione dei tre giovani ebrei nella fornace assistiti da Jahvè. Non è una figura generica, anzi è ben caratterizzata, di notevole statura e di grande robustezza, che si evince dal profilo di un volto ben in carne. Un colophon situato nel primo volume della Bibbia la datava al 1109 e indicava che a quel tempo era abate Stefano Harding. Un altro colophon opera dello stesso amanuense affermava che nel 1111 si concludeva uno dei codici che hanno acquistato maggior fama tra tutti quelli che si sono conservati, i Moralia in Job di Gregorio Magno (Dijon, B.M., mss. 168-173). Da una parte, si sa con certezza che si tratta di uno dei libri più popolari tra tutti quelli dell’alto Medioevo, un commento prolisso, versetto per versetto, del Libro di Giobbe, redatto da papa Gregorio e dedicato al vescovo ispanico san Leandro di Siviglia, che conobbe a Costantinopoli. Probabilmente è per eccellenza il testo consultato con maggior frequenza negli ambienti monastici. Nonostante le opportunità offerte sia dal testo biblico sia dal commentario, è generalmente privo di illustrazioni oppure l’illustrazione non segue i suggerimenti dei testi. In ogni caso, senza dimenticare che si apre con la lettera che Gregorio scrive a Leandro, agli inizi si trova la dedica, così come accade nel codice di Cîteaux (Dijon, B.M., ms. 168, f. 5). Ma questo esemplare è di una ricchezza e di una originalità degne di nota. È risaputo che in epoca romanica gli inci-
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4. Daniele nella fossa dei leoni con Abacuc che gli porta il cibo, dal Commento di Gerolamo al libro di Daniele. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 132, f. 2v.
pit dei capitoli di certi manoscritti di lusso sono adornati per farli risaltare con iniziali ornamentali, in cui si moltiplicano le decorazioni vegetali, geometriche o con forme animali e umane. L’artista cisterciense non rinuncia a queste possibilità. Così ci imbattiamo nell’eccellente composizione a fronte del folio di dedica. È la R di «Reverentissimo et sanctissimo fratri Leandro». Un impavido cavaliere armato di spada e di uno scudo oblungo è appoggiato sulla schiena di un piccolo individuo e affronta un drago gigantesco il cui corpo e le ali si curvano a formare il ductus della lettera. Anche il piccolo individuo menzionato conficca una lancia, all’apparire di un altro mostro di stazza minore, collaborando alla formazione della lettera. Suggerisce il soldato cristiano (miles Christi) che affronta il diavolo, il male, l’Islam, ecc. Si è parlato del contenuto moralizzante di alcune immagini, come quelle di Dijon, B.M., ms. 169, f. 5, dove perfino quattro saltimbanchi e giullari musicanti, affrontati, separati, armati di spade, coltelli, ma anche di strumenti musicali, compongono una bella e grottesca S7. Si sono cercate spiegazioni coerenti a questo animato mondo di forme nelle quali brilla la violenza, la ricerca di una immagine di vita quotidiana, e tutto attraverso un universo formale molto originale. Or non è molto, è stata offerta un’interpretazione complessiva e dettagliata, il cui significato si comprende se seguiamo l’indice dell’opera in questione: lussuria tradizionale, semplice simbolismo, vocabolario visivo di violenza e vita quotidiana. Le scene rappresentate non sono ornamentali, ma cariche di significato, riflesso di scritti cisterciensi o di autori come san Gregorio Magno8. Alcune di queste iniziali sono giustamente famose, come la grande I che attraversa il folio verticalmente, prefazione del libro XXI (Dijon, B.M., ms. 173, f. 41; si veda l’immagine a p. XXX). Un uomo armato di ascia è intento a tagliare i rami di un albero e continua il suo lavoro nella zona superiore. Alla base, un monaco tonsurato si accanisce contro il tronco con l’apparente intenzione di abbatterlo. Un’attenta lettura del libro di Gregorio Magno non giustifica né offre alcuna pista per una spiegazione di ciò che si presenta agli occhi del lettore, che per comodità considera di assistere a una scena di vita quotidiana. Rudolph suppone che non sia così, il che lo conduce a una prolissa digressione in cui cerca di scoprire un significato nascosto usando lo stesso testo di Gregorio con alcuni argomenti che a mio giudizio non convincono9. Questo non vuol dire che non esista una spiegazione allegorica o simbolica, come si è potuto vedere in altre occasioni. Per esempio, focalizziamo l’attenzione su un esem-
pio lontano e difficilmente collegabile con questo. Mi riferisco alla palma dei giusti così come è intesa nell’illustrazione dei Beatus spagnoli. Sappiamo che Beato di Liébana nel suo Commento all’Apocalisse fa ricorso a diversi autori che cita con frequenza per chiarire il contenuto di alcune frasi, e uno di quelli a cui ricorre con più assiduità è precisamente Gregorio Magno. Così, in Apocalisse 7,11ss. si menzionano i 144.000 eletti che recano palme nelle mani. Questo fa sì che l’abate di Liébana cerchi un testo esplicativo nei Moralia in Job e che vi si riferisca nel campo figurativo. Lo vediamo in un esemplare illustre della famiglia II, il Beato di Ferdinando e Sancha (f. 160). Una palma di composizione simmetrica con tronco verticale ai cui lati si distinguono gli eletti o i giusti di cui parla il testo. È normale che in molti altri esempi si ripeta questo schema, in quanto membri di quella famiglia. Ma nel Beato di Girona la situazione cambia profondamente (f. 147v). Una grande palma occupa tutto il folio e su di essa cerca di salire un uomo nudo armato di una piccola ascia che appoggia la sua gamba destra su una corda tenuta tesa da un altro personaggio seminudo che si trova sul lato opposto. Un’iscrizione pare voler mettere le cose in chiaro: «his omo copiens crapulare palme», si legge accanto al primo che vuole mangiare dalla palma, mentre per il secondo: «et his alter jubamine porrigit per fune», vuole aiutarlo mantenendo tesa la fune10. Più avanti in altri manoscritti riappare la palma con i suoi personaggi, come nel Beato di San Pedro de Cardeña11. Una volta di più abbiamo l’impressione di trovarci davanti a una scena di vita comune, come nel codice cisterciense, quand’anche dietro all’immagine si ripeta il testo di san Gregorio, sebbene continuiamo a manifestare una certa perplessità davanti a ciò che ci si offre. Nondimeno, accanto al significato, si è ricercata l’origine della forma e si suggerisce che il miniaturista abbia guardato all’illustrazione di un Calendario e Innario (British Library, ms. Cotton Julius A.VI, f. 5v) dove ci imbattiamo in una scena di genere in cui l’albero dei Moralia si compone a partire da vari alberi di bassa statura e grosso tronco. L’idea è suggestiva12. Lo stile disinvolto, libero, dotato di humour, di tratto scorrevole, dalla linea espressiva e in qualche modo realista, sparisce, cedendo il passo al secondo stile, solenne, monumentale, in parte contemporaneo al precedente e che abbonda di importanti manoscritti, per i quali, tuttavia, non disponiamo di date. È questo uno dei punti al quale si è dedicato più tempo. Non può essere oggetto di dibattito in questa sede, dove è sufficiente supporre che probabil-
mente non sopravanza il primo terzo del XII secolo. Sebbene il numero dei codici sia andato aumentando con nuove analisi, si menzionano solamente quelli già accertati dagli studi di Oursel, tutti presso la Biblioteca Municipale di Digione: 132, 129, 641, 180 e 141, anche se riteniamo che qui sia impossibile riferirci a tutti. Cominciamo da un esemplare che contiene uno dopo l’altro i Commenti di san Gerolamo al Libro di Daniele, ai Profeti Minori e all’Ecclesiaste (Dijon, B.M., ms. 132). È stato copiato da vari amanuensi13 e contiene, affrontate, due delle miniature più eccezionali del romanico europeo. Troviamo dapprima un Cristo in Maestà in mandorla ellittica seduto sopra l’arcobaleno con il Libro dell’Apocalisse nella sinistra, mentre con l’altra mano benedice (f. 2). Lo circondano i 12 profeti minori che Gerolamo commenta, con libri, rotoli o filatteri in cui si leggono i loro nomi. Nei drappeggi si ripete il disegno spigoloso delle pieghe caratteristico di questo maestro. Sono figure di notevole gravità, leggermente tarchiate e con visi barbati piuttosto omogenei. Di ancor maggior eccellenza è il Daniele nella fossa dei leoni, incorniciato esternamente da una greca che disegna meandri, interrotti per lasciar spazio a nicchie dove si collocano uccelli, alla maniera degli affreschi romanici europei e molto frequenti nel romanico lombardo o catalano. Daniele non si trova nella fossa con le fiere, ma siede in trono, nimbato, e traccia con le mani un gesto liturgico. Lo circondano su entrambi i lati tre leoni, mentre il settimo permette che appoggi i piedi sul suo dorso. A destra in alto, appare Abacuc con il cibo e le bevande, sostenuto per i capelli dall’angelo. Si è proposto di considerare queste immagini un’aggiunta posteriore, sebbene sempre entro i limiti cronologici segnalati. Si potrebbe dire che nella figura del grande profeta esiste un preannuncio di ciò che poi sarà l’arte bizantina di epoca comnena. Precedentemente e come prologo, Gerolamo offre le sue opere a Marcella e Principia (Dijon, B.M., ms. 132, f. 1). È la terza scena nel manoscritto. Poi, alcune iniziali. Si tratta di un topos, ma in un certo modo di segno contrario: l’autore offre solitamente l’opera al committente. Ora, il più importante è la persona seduta, l’autore, Gerolamo; di fronte stanno le sante donne. Sappiamo l’importanza che ebbero per lui alcune donne cristiane, tra le quali Marcella, destinataria di numerose lettere. Fu lei che introdusse il monachesimo a Roma, riuscì a salvare la sua comunità dalla distruzione e generò spiritualmente Principia. Fu una figura centrale nella Roma cristiana dell’epoca e sopravvisse qualche mese al sacco di Roma ad opera del visigoto Alarico. Sembra che la sua discepola avesse chie-
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5. Albero di Jesse e Vergine col bambino; Isaia. Dal Commento di Gerolamo a Isaia. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 129, ff. 4v-5.
sto a Gerolamo (ma potrebbe essere stato solo un artificio retorico) di parlarle della maestra morta e lui le inviò una lettera-epitaffio. Queste sono dunque le due donne che lo attorniano. Forse una delle più interessanti e conosciute miniature di questo gruppo si trova nel Commento di Gerolamo a Isaia (Dijon, B.M., ms. 129), con due grandi composizioni o meglio una soltanto. Infatti, la parte destra del f. 4v è occupata dall’Albero di Jesse e la parte sinistra dalla figura di Isaia. Si è elogiata fino all’esagerazione la figura monumentale della Vergine stante che sostiene con il braccio sinistro il Bambino che volge la testa verso di lei in un gesto di tenerezza più adatto a un tipo iconografico bizantino che alle Vergini romaniche occidentali. Si tratta in questo caso, come in quello che commenteremo in seguito, di una delle rappresentazioni più antiche dell’Albero di Jesse, presente nell’arte dalla fine dell’XI secolo, che tuttavia acquisterà in Francia estrema popolarità nel XII secolo. Invece delle sette colombe in riferimento allo Spirito Santo, se ne distingue una sola sopra l’aureola di Maria. Il padre di Davide è reclinato, mentre dal suo corpo germoglia il tronco; la sua figura e i tessuti che la coprono sono definiti solo con linee di uno o al massimo due colori, essendo, tanto qui come nella monumentale Vergine, un po’ esagerata la moltiplicazione delle pieghe spigolose del drappeggio. Isaia è una figura in movimento, contrariamente alla solenne ieraticità propria del secondo atelier di Cîteaux. Diversamente da altri manoscritti, sembra che questo sia stato copiato da un solo amanuense (Zaluska). Un’altra opera importante, e che doveva esserlo ancor di più quando era conservata completa, è il Leggendario di Cîteaux (Dijon, B.M., mss. 641, 642 e 643). Oggi è costituito da due volumi e frammenti di un terzo, mentre in origine dovevano essere quattro o cinque. Forse, di ciò che si è conservato, l’esemplare più interessante dal punto di vista della miniatura è il 641. Come altri leggendari, è ordinato secondo l’anno liturgico, con riferimento al periodo tra l’8 agosto e l’11 settembre, che comprende la memoria di 58 santi e due feste mariane (Assunzione e Natività). Tuttavia, solo 14 santi e la Natività della Vergine sono illustrati. L’immagine del santo non sempre si integra nella lettera capitale. Per esempio, sant’Agapito (f. 21v) è in piedi e porta la corona di martire, mentre calpesta un piccolo drago, riparato da una grande T. San Gerolamo siede sull’asta orizzontale di una H, recando un libro (f. 66). Ma non mancano quelli che si integrano nelle iniziali, come Mamante (f. 20v) che schiaccia un diavolo o Bartolomeo (f. 24v).
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Certamente il maggiore interesse è suscitato dalla Natività (f. 40v) che precede un sermone di Fulberto di Chartres per l’8 settembre, che, tuttavia, non presenta un’immagine dell’ Albero di Jesse differente da quello cui ci siamo riferiti poc’anzi. Se prima si distingueva una Vergine della tenerezza (Eleousa), ora è una Vergine del latte. Di nuovo si ripete il brusco collegamento di Maria a Jesse. Ma sui quattro lati si dispiegano altrettante scene dell’Antico Testamento che annunciano tipologicamente la Verginità di Maria che si compirà nel Nuovo: Daniele nella fossa dei leoni, i Tre ebrei nella fornace (ambedue poco frequenti con questo significato), Mosè e il roveto ardente e Gedeone e il tosone. È risaputo che l’ascesa di san Bernardo alle più alte cariche dell’ordine comportò un orientamento verso la nudità e l’austerità in tutto ciò che ha a che vedere con la produzione dei manoscritti, fino alla miniatura. E in una fase ormai avanzata si tiene in conto della conseguenza, sull’ornato dei codici, del capitolo LXXXII degli Instituta Generalis Capituli apud Cistercium, dove si afferma: «Litterae unius coloris fiant et non depictae». Gli studiosi hanno interpretato in modi differenti questo testo, se debba considerarsi riferito strettamente alle iniziali o a un ambito più ampio. La discussione ha introdotto il concetto di «stile monocromo», suddiviso a sua volta in tre fasi che vanno dal 1140 al 1180. Durante questi anni a Cîteaux mai si raggiunge la brillantezza e la qualità della miniatura dei due periodi precedenti. In altri luoghi, intanto, l’evoluzione non coincideva con quanto si è visto a Cîteaux. Così a Pontigny si copiavano codici con iniziali assai suntuose, monumentali e ornamentali sino all’eccesso, come la D che fa parte delle Enarrationes in Psalmos di sant’Agostino, del secondo quarto del 14 XII secolo (Clamezy, Mus. Mun.) . Queste opere, a volte veri monumenti dell’arte ornamentale, si distribuiscono in tutta l’Europa occidentale, oltre il 1180 e finanche il 1200. Di alcune pare possibile accertare la produzione nei monasteri dove ancora sono custodite o da cui si ha notizia che provengano. Sarebbe per esempio il caso di certi codici di Casamari, come un Messale che si data agli inizi del XIII secolo (Missale monasticum gallicanum, Roma, Biblioteca Angelica, ms. lat. 1439, T.8.11, f. 229)15, con una doppia lettera maiuscola, T ed E del Te igitur. Ma, anche per i codici dei quali si sa che anticamente appartenevano a una determinata comunità monastica, non si conosce se e in quali circostanze vennero acquisiti da altri luoghi. Per esempio, risulta che vari codici oggi a Tarragona provenissero dal monastero cisterciense di San-
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Nelle due pagine seguenti: 8. Iniziale con scena della Natività, dal Martirologio cisterciense. Burgos, Real Monasterio de las Huelgas, ms. 1, f. 8v.
6. Albero di Jesse. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 641, f. 40v.
9. Iniziale di un Antifonario cisterciense. Burgos, Real Monasterio de las Huelgas, ms. 10, f. 1v.
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7. Iniziale con doppia maiuscola TE, da un Messale dell’inizio del XII secolo. Roma, Biblioteca Angelica, ms. lat. 1439, f. 100. 6
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tes Creus e per qualcun altro, come il Messale cisterciense della Biblioteca Pública di Tarragona (ms. 89), lo si può soltanto supporre. Con maggiore sicurezza possiamo affermarlo di un manoscritto delle Lettere di san Paolo con glosse, adornato da eccellenti iniziali della seconda metà del XII secolo16. Di assai maggiore importanza, da pochi anni conosciamo alcuni esemplari eccellenti, talvolta eccezionali, che giacevano nascosti nella biblioteca del monastero cisterciense femminile di Las Huelgas, vicino a Burgos, la fondazione regia più potente tra quelle femminili dei regni di Castiglia e León. Tra altri importanti manoscritti, come un Lezionario della seconda metà del XII secolo e frammenti di una cosiddetta Bibbia Antica, possiede due codici particolarmente degni di nota, un Martirologio e un Antifonario17. La fondazione è tarda rispetto a quanto si è visto finora e i due manoscritti menzionati per ultimi si datano attorno al 1200. Soprattutto, fino ad oggi non esiste alcun documento che informi che furono realizzati nel monastero e permetta di documentare l’esistenza di un proprio scriptorium, sebbene sia più probabile la loro acquisizione esterna. Non disponiamo di alcun’altra opera che si possa equiparare al Martirologio. Diremmo che l’esemplare più prossimo è inglese, pur non escludendo somiglianze con la produzione della Francia settentrionale. Una delle iniziali più spettacolari è una I maiuscola (f. 8v) che attraversa il folio in verticale in relazione ai testi della nascita di Gesù. Si tratta dell’unico caso in cui, in mezzo alla profusione di ornamentazione, animata da figurine di draghi dalla testa umana, leoni e altre bestie, si lascia spazio a un rombo che ospita una Natività e dove forse è più visibile l’influsso inglese. L’Antifonario è un libro di grandi dimensioni (mm 415 x 275) che presenta somiglianze stilistiche e formali con il precedente ed è ritenuto essere un «Antifonario cisterciense». Un’analisi più dettagliata e attenta porta alla conclusione che tra i due esistono sufficienti differenze, tra cui una qualità leggermente minore. Si tratta, ritengo, di un codice ispanico che le monache dovettero acquisire mentre il monastero in costruzione cominciava a organizzarsi. La più impressionante tra le lettere capitali è un’imponente A con la quale si apre il manoscritto (f. 1v), nella quale si sviluppano impeccabilmente cerchi all’apparenza simmetrici, draghi tortuosi e il motivo octopus più frequente nei codici inglesi. Molte altre iniziali, meno grandi, non le sono da meno per originalità e perfezione (f. 107), non mancando a volte la presenza di una testa umana di profilo, dai tratti vigorosi. Contemporanea a questi codici era la produzione porto-
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Nelle due pagine precedenti: 10. Iniziale TE dal Messale di Alcobaça. Lisbona, Biblioteca Nazionale, ms. alc 249, f. 125v. 11. Epifania, dal Sacramentario cisterciense di Fitero. Pamplona, Archivo General de Navarra (Camara de Comptos), codices K6, f. 7.
ghese di Alcobaça, gigantesco monastero di fondazione piuttosto tardiva. Se per un certo tempo la produzione di manoscritti miniati uscì specialmente dal monastero di Santa Cruz di Coimbra, già alla fine del XII secolo e poi nei primi decenni del XIII, man mano che avanzava la costruzione di Alcobaça, pare che si organizzasse uno scriptorium che si mantenne attivo per un certo numero di anni e che sicuramente fu il più importante del Portogallo. I codici prodotti includono i libri usuali, come Messali, Bibbie, ecc., nei quali le iniziali dal disegno complesso e dalle dimensioni enormi sono le protagoniste principali. Si giudichi dalla T del Te igitur del Messale (Lisbona, Biblioteca Nacional, Alc., ms. 249, f. 125). Allo stesso tempo, la comparazione stilistica e formale con i codici menzionati di Las Huelgas di Burgos indica una parentela che oltrepassa il proprium dell’epoca18. Uno dei problemi che solleva lo studio della miniatura cisterciense è la mancanza di dati. Un altro importante monastero cisterciense della Penisola Iberica è quello di Santa María de Huerta (Soria), che fu eletto dall’arcivescovo di Toledo, Rodrigo Ximénez de Rada, a luogo di sepoltura privilegiato. Alcuni dei suoi libri lasciati nel monastero vi
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sono rimasti e in altri che non sono più conservati in esso compare una frase che ne attesta la provenienza. Sono manoscritti con iniziali a motivi zoomorfi e ornamentali, che in alcuni casi rinviano a San Pedro de Cardeña (Burgos) come luogo della loro realizzazione. Il monastero non era cisterciense ma il suo scriptorium lavorava per i Cisterciensi: come denominare questi codici (Vidas de Santos, f. 96, Soria, Bib. Púb. de Soria)? Conviene per lo meno situare il momento finale della produzione di codici che ordinariamente si considerano cisterciensi, quando iniziano a scomparire le grandi iniziali e ritorna la figura. Ne incontriamo un esempio in un Sacramentario di Fitero (Navarra), il primo convento della Penisola Iberica. Il manoscritto dev’essere posteriore al 1191, perché a quella data si stabilisce nell’Ordine la festa di san Malachia, che qui compare; forse è posteriore al 1200. È quasi sicuro che dall’origine fu cisterciense, perché nella miniatura di presentazione (f. 1v) davanti a Cristo si inginocchia un monaco cisterciense con la testa incappucciata. Per altro verso, nell’apertura di diversi capitoli l’iniziale cede il posto a una scena della vita di Gesù, come nella Natività qui raffigurata (f. 7)19.
DAL DEPOSITO ALLO STUDIO: ORIGINI E SVILUPPO DELLE BIBLIOTECHE CISTERCIENSI David N. Bell
Dalla fondazione dell’ordine cisterciense nel 1098 e per i primi due terzi del XII secolo, la maggior parte delle biblioteche cisterciensi era decisamente modesta. Il numero minimo dei libri era decretato dai primi statuti e comprendeva, oltre al Libro degli Usi (Liber usuum) e la Regola di san Benedetto, solo i volumi liturgici necessari per l’opus Dei, che dovevano essere conservati fra la chiesa del monastero e la sala capitolare. Tuttavia, poiché il capitolo 48 della Regola di san Benedetto prescrive che ogni monaco o monaca debba ricevere un libro della biblioteca comune all’inizio della Quaresima, studiarlo attentamente durante tutto un anno e restituirlo all’inizio della Quaresima seguente, ne possiamo dedurre che ogni abbazia fedele a questa Regola doveva avere almeno tanti libri quanti erano i religiosi. A quell’epoca, se escludiamo le case più grandi, non era raro trovare una biblioteca che contenesse da sessanta a ottanta libri e ne è un buon esempio la raccolta della piccola abbazia inglese di Flaxley, costituita secondo la tradizione: il suo elenco di libri registra all’inizio del XIII secolo settantatre titoli in ottanta volumi1. Gli armaria (gli armadi dei libri) che ospitavano queste raccolte erano semplici e senza decorazioni. Le loro dimensioni andavano da una nicchia di un paio di metri quadrati (fig. 1) fino a un arco incassato – come quello di Kirkstall (fig. 2) – pari a due volte l’altezza di una persona di grande statura. L’interno di questi armadi era foderato di legno, aveva ripiani di legno e porte con una serratura sicura. A quell’epoca, e per diversi decenni seguenti, gli armadi per i libri non erano altro che spazi per riporre qualcosa che a quel tempo aveva un grande valore. In termini moderni possedere una dozzina di volumi può essere paragonato a possedere una dozzina di automobili. Certo non tutte Mercedes, ma fino all’inizio del XVI secolo – circa cinquan-
t’anni dopo l’invenzione della stampa in Occidente – i libri non furono mai a buon prezzo. In seguito, verso la fine del XII secolo, le raccolte cominciarono a espandersi notevolmente, innanzi tutto grazie alle donazioni, ma anche come risultato del lavoro di copiatura negli scriptoria monastici. Ne conseguì la necessità di sistemare una raccolta in espansione e i libri migrarono dallo spazio limitato dell’armarium del chiostro all’adiacente sacrestia. Nella maggioranza dei casi la sacrestia veniva suddivisa in due stanze, una per la vestizione dei sacerdoti e l’altra per conservare i libri al sicuro. Quest’ultima stanza si apriva verso il chiostro, la prima verso la chiesa. Anche questa soluzione, però, era a volte inadeguata e divenne necessario trovare spazio per i libri in altri luoghi. A volte venivano riposti sotto alla scala notturna (Neath, nel Galles meridionale, ne è un buon esempio, fig. 3), ma anche questa non era una soluzione del tutto soddisfacente; in altri casi la raccolta di libri migrò nella parte della sala capitolare adiacente alla sacrestia. Fra le abbazie inglesi adottarono questa soluzione Calder, Fountain, Furness (fig. 6) e Hailes. In pochi casi, proprio raramente, i monaci preferirono costruire una stanza per i libri separata e indipendente – possiamo vederne degli esempi a Kirkstall (forse), Cleeve, Le Thoronet (fig. 4) e in alcune abbazie tedesche e scandinave – ma non era comune. A Valle Crucis, in Galles, è possibile vedere un’interessante transizione dall’armadio nel chiostro a una stanza separata: un’elegante apertura a traforo nel chiostro orientale, datata all’inizio del XV secolo, conduce in un piccolo spazio con mensole di pietra su cui erano poste le casse contenenti i preziosi volumi (fig. 5). Tutti questi spazi, tuttavia, erano dei depositi e non erano destinati allo studio, non possono quindi essere assimilati alle attuali biblioteche.
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1. Poblet, Catalogna, Spagna, armarium a parete restaurato con due porte di legno, catenacci e serratura. 2. Kirkstall, West Yorkshire, Inghilterra, il grande armarium del XII secolo nella parte orientale del chiostro. La porta di accesso alla chiesa si trova sulla sinistra.
A fronte: 4. Le Thoronet, Var, Francia, entrata della stanza per i libri con volta a botte del XII secolo nella parte orientale del chiostro. L’ampia entrata è divisa in due da un pilastro. 5. Valle Crucis, Denbighshire, Inghilterra, facciata traforata della nicchia/stanza per i libri della fine del XIV o, più probabilmente, inizio del XV secolo, nella parte orientale del chiostro.
3. Neath, Galles meridionale, Inghilterra, il deposito dei libri sotto la scala notturna che conduce dal transetto della chiesa al dormitorio. 1
Durante il XIII secolo gli scriptoria monastici erano ancora attivi e le donazioni aumentarono ulteriormente. È in questo periodo che entra in gioco un altro fattore con profondi effetti sul patrimonio librario di alcune, anche se non di tutte, le abbazie cisterciensi: la fondazione del Collège Saint-Bernard a Parigi nel 1245 e, negli anni seguenti, di altri collegi cisterciensi. È vero che il Capitolo generale non era affatto desideroso di fondare questi collegi, ma se si trattava di stare al passo con altri ordini – specialmente quelli Mendicanti – i Cisterciensi non avevano scelta. La fondazione del collegio parigino era solo una componente della rivoluzione intellettuale che avvenne nella seconda metà del XIII secolo, e l’impatto dei nuovi collegi cisterciensi può essere osservato chiaramente nelle dimensioni e nel contenuto della biblioteca di Clairvaux e, in misura minore, nelle raccolte del tardo XIII secolo di altre case di Cisterciensi in Europa. L’esplosione di entusiasmo del XIII secolo fu poi seguita da un periodo di stagnazione che durò in generale da un secolo a un secolo e mezzo: un periodo più breve per le case più coinvolte negli studi universitari; più lungo per quelle poco coinvolte. Che prove ne abbiamo? Lasciando da parte una certa quantità di testimonianze scritte che parlano di biblioteche trascurate e di libri inutilizzati, l’esame di cataloghi di biblioteche del XIV e XV secolo in Francia, Inghilterra e Germania evidenzia che le raccolte si arrestarono attorno al 1300. Questo non significa che dopo questa data non vennero aggiunti libri, ma che i loro autori appartenevano a un periodo precedente. Nel XIV e XV secolo gli autori sono rari e un catalogo del XV secolo non elenca opere di quel secolo. Inoltre un esame statistico di tutti i manoscritti conservati provenienti dalle biblioteche cisterciensi di Francia e Gran Bretagna rivela che la grande maggioranza di questi manoscritti – circa l’80% – risale al XII o XIII secolo. In altre parole, sebbene durante il XIV e il XV secolo continuasse l’attività legata ai libri, si trattava di un’attività molto ridotta. Questa stagnazione, tuttavia, era generale ed era chiaramente influenzata dai gravi eventi dell’epoca. Fu un periodo di guerre, agitazioni, carestie, epidemie, pestilenze e mutamento climatico e i monasteri non vivevano e non vivono in un mondo sotto vuoto. In seguito, nella seconda metà del XV secolo assistiamo a una seconda rinascita intellettuale che possiamo collegare a diversi fattori, non ultimo la notevole riduzione di prezzo dei libri e il significativo aumento dell’alfabetizzazione, in particolar modo fra i laici. L’interazione fra i vari fattori è complessa, ma la rinascita è evidente e il Capitolo generale
6. Furness, Cambria, Inghilterra, veduta della parte orientale del chiostro del XII secolo e della sala del capitolo (i tre archi sulla sinistra). La raccolta di libri si allargò oltre la sacrestia alla parte settentrionale e probabilmente a quella meridionale della sala del capitolo: il primo e il terzo dei cinque portali ad arco, che divennero poi piccole stanze quadrate con volta a botte.
Nelle due pagine seguenti: 7. Cîteaux, Côte-d’Or, Francia, esterno della nuova biblioteca a due piani, completata nel 1509. Fu iniziata dall’abate Jean de Cirey (1476-1501) e completata dal suo nipote e successore, Jacques de Pontaillier (1501-1516). 8. Tilburg (Koningshoeven), Brabante settentrionale, Olanda, interno dell’antico refettorio trasformato in biblioteca nel 1999. L’abbazia fu costruita negli anni 1890 e la nuova chiesa consacrata nel 1894. 4
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cisterciense rispose al nuovo risveglio con richieste di maggiore e migliore attività di studio nelle case dell’Ordine. Gli effetti di tali richieste sono soprattutto evidenti a Clairvaux, ma le dimensioni delle raccolte aumentarono dappertutto: cinquecento libri a Zwettl nel 1451; mille a Lehnin nel 1450, duemila a Himmerod nel 1453; milleduecento a Cîteaux e così via. Naturalmente non c’erano gli spazi dove sistemare i volumi – la vecchia soluzione sacrestia/stanza per i libri si era da tempo rivelata inadeguata – e le testimonianze nel XV secolo di alcuni monasteri in Inghilterra, Germania, Italia e Francia evidenziano raccolte di libri sparpagliate per tutta l’abbazia. A Cîteaux nel 1472 i libri si potevano trovare in non meno di diciassette posti diversi. Tale situazione era evidentemente insoddisfacente e la prova più appariscente di questa seconda rinascita intellettuale fu la costruzione di nuove biblioteche che, per di più, non erano solamente uno spazio dove depositare libri, ma anche un luogo di studio. Fra la fine del XIV e la fine del XV secolo, nuove biblioteche, a volte splendide, vengono costruite un po’ dappertutto. Le cattedrali monastiche e secolari detengono il primato – Durham, Hereford, Lincoln, Salisbury, Worcester, York e altre ancora nella sola Inghilterra – ma fra i Cisterciensi vengono costruite nuove biblioteche oppure le raccolte vengono trasferite in edifici
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più grandi, per esempio a Admont, Bronnbach, Kamp e Marienfeld. Le dimensioni di molte collezioni che, come abbiamo visto, stavano aumentando velocemente a partire dalla metà del XV secolo, subirono un’accelerazione con l’introduzione della stampa, un fattore a cui dobbiamo ora dedicare la nostra attenzione. L’impatto della rivoluzione della stampa sul mondo cisterciense fu sconvolgente e sicuramente in molti luoghi, anche se non in tutti, scatenò una terza rinascita intellettuale. Ma – e questo “ma” è molto importante – la rivoluzione della stampa non fu sconvolgente con l’immediatezza che si è spesso supposta. La stampa con caratteri mobili fu introdotta in Europa alla metà del XV secolo, ma ci volle un certo tempo – di fatto alcune decine di anni – perché il suo impatto divenisse effettivo. Perché? Prima di tutto a causa del conservatorismo innato, in particolare il conservatorismo di un ordine monastico conservatore (i manoscritti erano sempre molto apprezzati) e, secondariamente, il costo; fino a circa il 1470-80 i libri stampati restavano molto costosi e non tanto più a buon mercato dei manoscritti, che dal 1400 erano andati diminuendo di prezzo. Fu necessario un certo periodo di tempo perché la rivoluzione della stampa divenisse realmente tale, ma una volta
che il piccolo rivolo divenne un torrente, questo si fece impetuoso e irrefrenabile. Un attento esame di diverse fonti rivela che dall’introduzione della stampa fin verso il 1510, un’abbazia mediamente facoltosa – non una delle grandi case come Clairvaux – potrebbe aver acquistato fra quattro e sei libri stampati all’anno, ma dopo il 1510 circa il ritmo delle acquisizioni di libri si impenna bruscamente, specialmente da parte delle abbazie più dotate di mezzi2. Alla fine del XV secolo, sia Cîteaux che Clairvaux dovettero edificare nuove biblioteche per sistemare i libri. A Clairvaux, fra il 1495 e il 1503, fu costruita una nuova e splendida biblioteca, mentre a Cîteaux la nuova biblioteca venne completata appena qualche anno più tardi, nel 1509 (fig. 7). La stessa cosa avvenne ad Altenberg, Altzella, Doberan, Eberbach, Kaisheim, Maulbronn, Salem, Sankt Urban, Schöntal, Waldsassen e Wettingen. I libri collezionati in questo periodo, tuttavia, sembrano essere nel complesso di genere abbastanza tradizionale. In una certa misura è l’effetto del carattere tradizionalista di molti dei primi stampatori: essi producevano ciò che potevano vendere e, oltre ai classici e alle scienze, molta stampa del XV e dell’inizio del XVI secolo guardava al passato piuttosto che al presente. L’esame dei cataloghi di libri contemporanei e dei libri stampati conservatisi rivela una generale riluttanza a collezionare materiale innovativo. È
probabile che ci fossero eccezioni, ma una rapida occhiata all’elenco dei libri di Les Écharlis, compilato nel 1789, evidenzia una raccolta in grado di fornire a un monaco del XVIII secolo una valida base per la sua educazione e la sua spiritualità; era sicuramente aggiornata ma i contenuti erano soprattutto religiosi, con solido materiale per la lectio divina3. In breve, sebbene i Cisterciensi non fossero più veloci dei monaci di altri Ordini ad accorgersi degli effetti della produzione stampata, sicuramente non erano più lenti e dalla metà del XVI secolo molte biblioteche cisterciensi erano diventate vaste miniere di materiale stampato. La splendida biblioteca barocca di Zwettl, costruita sotto l’abate Melchior Zaunagg fra il 1730 e il 1732, o la gigantesca e maestosa biblioteca neoclassica di Vaucelles, costruita nel 1760 dall’abate Jacques-Cristophe Ruffin per alloggiare la sua collezione di oltre quarantamila libri e manoscritti attentamente selezionati, potevano essere diverse sulla scala delle dimensioni rispetto a quelle dei loro confratelli minori, ma non erano diverse per il genere. Una cosa è certa, tuttavia, che i Cisterciensi, allora come adesso, cercavano di esercitare un controllo sulla natura e sulla qualità dei libri delle loro raccolte. Chiaramente questo non era sempre possibile, cionondimeno un attento esame degli statuti del Capitolo generale dal XII secolo al
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1787 rivela una lodevole attenzione per le tradizioni dell’Ordine e un profondo interesse per l’integrità della sua vita religiosa4. La medesima cosa vale oggi. Molte abbazie cisterciensi contemporanee in Europa e nelle Americhe hanno grandi collezioni di libri attentamente scelti, utili sia per studio sia per la lectio divina e, come nei secoli passati, è a volte difficile riuscire a sistemarli. Sono state costruite nuove biblioteche o, in alcuni casi, gli spazi necessari sono stati ricavati da edifici esistenti. Per esempio l’antico refettorio della gigantesca abbazia ottocentesca di Tilburg, nei Paesi Bassi, fu trasformato nel 1999 in una nuova stupenda biblioteca (fig. 8) e a Mepkin, negli Stati
Uniti, è stata inaugurata nel 2001 la Clare Booth Luce Library con uffici, box per la consultazione, una stanza di archivio, un centro congressi, il controllo geotermico della temperatura e la più aggiornata tecnologia informatica. La tradizione cisterciense è una tradizione viva e creativa che si adatta al mutare dei tempi e delle circostanze conservando però – o sforzandosi di conservare – quell’essenziale integrità spirituale che per molti secoli è stata oggetto di cura del Capitolo generale. Poche cose possono esemplificare questa tradizione in evoluzione meglio di quanto faccia il progressivo passaggio dall’armarium del chiostro alla biblioteca moderna.
I SIGILLI CISTERCIENSI MEDIEVALI David H. Williams
In epoca medievale nessuna transazione d’affari, nessun altro atto o lettera di una qualche importanza avevano valore se non erano autenticati dall’impressione del sigillo particolare che ne distingueva l’autore. L’unica eccezione si verificava dove era predominante l’uso dei segni notarili, in particolare nei paesi dell’Europa meridionale. L’importanza attribuita ai sigilli non era minore nell’ambito d’affari dell’Ordine cisterciense e dei singoli monasteri, anche se la moderazione cisterciense faceva sì che il disegno e la dimensione dei sigilli fossero modesti rispetto a quelli di alcune case benedettine. Questa semplicità non diminuì l’importanza che il Capitolo generale attribuiva ai sigilli delle sue abbazie e diversi statuti di successivi Capitoli generali davano istruzioni per il loro disegno e la loro custodia, provvedevano alla loro eventuale distruzione e citavano esempi di furto, di possesso illegale o di abuso.
Occasionalmente – come a Clairvaux (1144 circa), Newminster (1140) e Rievaulx (1191) – la parola sigillum, all’inizio dell’iscrizione, fu sostituita dalla parola signum, per sottolineare la funzione del sigillo come segno o garanzia di autenticità. L’emblema della mano con il pastorale non era riservato ai sigilli; lo si poteva trovare anche in araldica, come sullo stemma dell’abate cisterciense di Lubia̧> in Polonia dove appare sullo scudo dipinto su una delle pareti della stanza del Principe. È visibile anche su alcune pietre tombali di abati, come quella dell’abate di Boyle in Irlanda, nel XIII secolo, e sulla tomba dell’abate Johann Billerbeck di Dargun in Germania, che morì nel 1349. Quantunque l’emblema con braccio e pastorale sembri essere per lo più una caratteristica dell’iconografia cisterciense, compare in altri sigilli ecclesiastici, come su quello della corte del vescovo di Strasburgo (dal 1249) e su un sigillo d’affari (sigillo ad causas) dei canonici premostratensi di Aubecour.
Sigilli abbaziali con braccio e pastorale Sigilli raffiguranti un abate assiso Nel XII secolo molte abbazie cisterciensi utilizzavano un sigillo proprio dell’abate invece che uno comune. Molti di questi erano di forma ogivale e rappresentavano un avambraccio ricoperto dalla tonaca con la mano che stringe un pastorale da abate (fig. 1). L’estremità ricurva del bastone era il più delle volte rivolta verso il portatore, ma alcune volte dalla parte opposta. La ragione non è chiara, ma l’emblema sicuramente sottolineava il ruolo primario dell’abate, pastorale e giudiziario, in quel monastero. Le dimensioni sono varie ma si aggirano in media attorno ai 38 mm di altezza e 25 mm di larghezza. In questo tipo di sigilli quelli circolari sono relativamente rari, ma gli esempi conosciuti hanno una dimensione media di 32 mm (fig. 2).
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Rappresentare un abate assiso serviva a enfatizzarne l’autorità; circa una dozzina di sigilli di questo tipo è ancora esistente. Molti provengono da monasteri tedeschi ed erano in uso nella prima parte del XIII secolo – come quelli di Altenberg (1211), Eberbach (raffigurante l’abate Teobaldo con la tonaca, † 1220/21), e Marienfeld (1219). È caratteristica l’immagine di un abate con un libro (con molte probabilità la Regola di san Benedetto) nella mano sinistra e il pastorale stretto in quella destra. Un sigillo di questo genere veniva utilizzato anche dall’abate di Morimond e vi sono esempi successivi, come quello proveniente da Bredelar in Germania (usato dall’abate Widukind nel 1255), da Hau-
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1. Sigillo abbaziale, abbazia di Reinfeld, Germania (1240). Cera grigio chiaro, 45 x 29 mm. + SIGILLV’ ABBIS DE RINE : VELDE. 2. Sigillo abbaziale, abbazia di L’Aumône, Francia (1225). Impronta, 32 mm. + SIGILLVM ABBATIS ELEMO..NE
teseille in Francia (1267, che raffigura l’abate tonacato; fig. 3), e un sigillo finemente intagliato usato nel 1310 dall’abate Uldrich di Hauterive in Svizzera. Un altro abate seduto con la tonaca (o mantello) è raffigurato sul sigillo usato nel 1221 dall’abate Bernold di Sti/na/Sittich in Slovenia. Negli archivi della cattedrale di Durham in Inghilterra è conservato un sigillo della metà del XII secolo che rappresenta l’abate di Rievaulx seduto mentre ascolta la confessione di un penitente. Alla fine del XIII secolo l’abate Giovanni II di Cîteaux, che difese papa Bonifacio VII nella sua controversia con Filippo il Bello di Francia, era stato specificatamente autorizzato dal pontefice a rappresentarsi sul suo sigillo in posizione assisa. Si ritiene che Bonifacio abbia detto: «Mi hai difeso stando con me e siederai con me». Molto prima, san Bernardo si era accontentato della matrice di Clairvaux “con braccio e pastorale”, ma questo era facile da contraffare e nel 1151 fece incidere un nuovo sigillo a causa di «molte lettere false sotto il nostro falso sigillo»1. Per molto tempo si è ritenuto che questo nuovo sigillo mostrasse il santo assiso, ma la sua autenticità è stata recentemente messa in dubbio2.
I sigilli raffiguranti un abate stante a mezzo busto L’ultima parte del XII secolo e i primi anni del XIII sono caratterizzati da alcuni sigilli incisi con la figura di un abate stante a mezzo busto. Solitamente porta la tonaca e, di nuovo, tiene il pastorale con la destra e un libro con la sinistra. Esempi di questo tipo di sigillo vanno dal 1153 (abate Girard de Longpont, Francia) al 1224 (abate Raoul de Hautecombe, Alta Savoia). Non meno di tre degli esempi conosciuti provengono da Longpont (1213 e 1223), un altro esempio precoce è di Bonneval (1183) e infine si sono conservate due varianti provenienti da Margam (Galles). In uno dei sigilli di Margam sono disposte cinque sferette in quincunx sopra la spalla sinistra dell’abate (fig. 5); ritroviamo un motivo analogo su un sigillo di Froidmont (Francia), ma il suo significato è sconosciuto. Questi sigilli hanno forma ogivale con 39 mm di altezza e 26 mm di larghezza.
Uniformazione Nel 1200 il Capitolo generale, rilevata «una certa discordanza nei sigilli dell’Ordine», prescrisse un notevole grado di uniformità (che venne in seguito abbastanza osservata).
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Gli abati partecipanti al Capitolo ebbero l’ordine di uniformarsi ai disegni dei sigilli previsti dallo statuto a partire dalla Pasqua del 1201; gli abati assenti dovevano adeguarsi nei quaranta giorni successivi al ricevimento della comunicazione. Le nuove regole prevedevano che da quel momento un sigillo cisterciense dovesse portare semplicemente l’effigie dell’abate da solo con in mano il pastorale, oppure continuare ad avere solamente il braccio con il pastorale. Ogni monastero doveva usare solo il sigillo dell’abate e questo non doveva portare alcun’altra divisa; similmente veniva proibito che il nome personale dell’abate apparisse nell’iscrizione. Qualsiasi frode veniva evitata dall’obbligo, del 1237, che nessun abate sigillasse lettere senza averle lette e neppure apponesse il sigillo su una pergamena vuota – l’equivalente oggi di firmare un assegno in bianco. Un abate di Pontrond (Francia) si rese colpevole del primo illecito nel 1223; un abate di Loccum (Germania) del secondo nel 1249.
3. Sigillo abbaziale, abbazia di Hauteseille, Francia (1267). Cera grigio scuro, 43 x 29 mm. ..IGILL AB/TIS ALTESILVE
5. Sigillo abbaziale, abbazia di Margam, Galles (c. 1170). Cera verde, 42 x 27 mm. + SIGILLVM DE ABBATIS DE MARGAN.
4. Sigillo abbaziale, abbazia di Wettingen, Svizzera (1262). Stucco bianco, 42 x 26 mm. + S’ABBATIS MARISSTELLA.
6. Controsigillo, abbazia di Byszewa, Polonia (1288). Cera verde, 32 mm. + CONTRO SIGILLV BISSOVIE.
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Sigilli con un abate stante a figura intera Questo disegno era già in uso a Fountains e a Kirkstall nel 1196 e, in seguito alle istruzioni del Capitolo generale, divenne presto la scelta più popolare. Il motivo del braccio con il pastorale venne sostituito a Neath e a Warden nel 1208, mentre Waverley “cambiò” il suo sigillo nel 1221. A metà del XIII secolo i sigilli con “braccio e pastorale” erano per lo più retaggio del passato, anche se questo motivo rimase in uso a Tintern fino al 1253, a Dore fino al 1263 e a Hardehausen fino a tutto il 1313. Questi sigilli abbaziali avevano generalmente forma ogivale e già all’inizio del XIII secolo avevano dimensioni similari di circa 40 mm di altezza e 27 mm di larghezza. Alla fine del secolo i nuovi sigilli incisi erano più grandi e raggiungevano i 55 mm di altezza a La Bénisson-Dieu e a Kirkstall. In questi sigilli l’abate era raffigurato per lo più con i paramenti eucaristici, anche se in quelli più antichi appariva con la tonaca. Normalmente reggeva un libro nella mano sinistra e il bastone pastorale con la destra (fig. 4), ma occasionalmente teneva il bastone con la sinistra per poter impartire la benedizione con la destra. Sebbene lo statuto del 1200 dicesse che “nient’altro” doveva essere raffigurato su questi sigilli abbaziali, dall’ultima parte del XIII secolo questa regola venne ignorata. Il sigillo dell’abbazia di Stratford Langthorne (Middlesex) aveva un biancospino (thorn) alludendo al nome del monastero. Il sigillo dell’abbazia di Buckland (Devon) portava il nome della sua fondatrice.
I controsigilli con “braccio e pastorale” Nel 1257 la codificazione degli statuti dell’Ordine permetteva a ogni abate di avere due sigilli. Il tipo con l’effigie doveva essere usato per le transazioni d’affari più importanti, l’altro per affari minori e per la corrispondenza. Il motivo del “braccio con pastorale” non decorava più il sigillo maggiore dell’abate, ma doveva costituire il disegno per il sigillo minore che, da quel momento, doveva portare la scritta contrasigillum (fig. 6). Conosciamo esempi di questi sigilli provenienti dalle abbazie di Morimond nel 1258, da Clairvaux nel 1260 e da Chaâlis nel 1261. Il ritorno dell’immagi-
ne del “braccio con pastorale” comportò che l’abbazia di Biddlesden nel Buckinghamshire avesse per anni quattro matrici per questo tipo di incisione, due per i sigilli più grandi e due per i suoi controsigilli. L’iscrizione richiesta veniva rispettata nella maggior parte dei casi, ma c’erano eccezioni nella legenda: S’MINUS (“sigillo minore”) appare a Melrose e S’SECRETUM (“sigillo privato”) a Newminster. Questi controsigilli erano per lo più circolari, con un diametro medio di 25 mm. Pochi avevano forma ogivale con in media 33 mm di altezza e 23 mm di larghezza. Il campo di molti di questi sigilli presenta immagini – anche solo falce di luna e stelle – il cui significato è molto raramente no-
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7. Controsigillo, abbazia di Alcobaça, Portogallo (1318). Cera rossa, 26 mm. + CONTRA SIGILLVM ALCOBACIE. 8. Sigillo comune, abbazia di Eberbach, Germania (c. 1340). Cera marrone chiaro, 50 mm. + SIGILLVM CONVENTVS DE EBERBACh.
to. Occasionalmente possono indicare la discendenza da una casa-madre. Fra i motivi interessanti di tali sigilli si possono annoverare le iniziali di san Bernardo sul sigillo di Clairvaux e una croce e il fiordaliso sul sigillo dell’abbazia di Chaâlis, a ricordo della sua fondazione da parte di Luigi VII in memoria di Carlo il Buono, conte delle Fiandre. Il sigillo dell’abbazia costiera di Ter Duinen (Fiandre) raffigurava un pesce, poiché essa aveva ereditato un’attività di pesca a Nieuwpoort; ugualmente il monastero portoghese di Alcobaça – dai suoi interessi nella pesca si sviluppò la città di Pederneira (fig. 7).
Sigilli comuni Nel 1307 lo statuto di Carlisle ordinò che «deve esserci un sigillo comune per le case religiose» in Inghilterra e Galles. Questo significava che un abate non poteva più impegnare il suo monastero usando solamente il proprio sigillo, che era abituato a portare con sé; d’ora in avanti altri erano coinvolti nelle decisioni e nell’apposizione del sigillo. Il nuovo sigillo fu inciso a Croxden nel 1313 in deliberato accordo con l’ordine reale quando l’abbaziato era vacante. Buckland ebbe un sigillo comune nel 1310, Rievaulx nel 1315. Questi primi sigilli comuni erano generalmente di forma ogivale e spesso il motivo inciso continuava a essere l’effigie dell’abate. L’uso del sigillo comune fu sostenuto dalla Costituzione per l’Ordine di Benedetto XII nel 1335 che intimava che ogni abbazia cisterciense avesse il proprio sigillo “speciale”. Doveva essere «di rame arrotondato e inciso con l’immagine della Santa Vergine, in onore della quale venivano fondati tutti i monasteri dell’Ordine». Questi sigilli, del diametro di circa 42 mm entrarono presto in uso. Sui nuovi sigilli solitamente l’effigie mostrava la Madonna seduta con il Bambino. Due sigilli di Sorø (Danimarca) – come pure quelli di Eberbach (Germania, fig. 8) e di Mogila (Polonia) – raffigurano la Vergine con un virgulto fiorito nella mano destra e un uccello posato su di esso. Nel campo del sigillo poteva trovarsi un abate supplice, come ad Aberconwy, o un monaco in preghiera come in quello di Boxley; o motivi araldici come in quelli di Cwmhir e Margam in Galles. In alcuni sigilli era raffigurata un’allusione – come i ponti nei sigilli di Pontigny e Robertsbridge (fig. 9), la testa di un verro sul sigillo di Swineshead, e le candele su quello di Cîrţa (Romania), dato che il suo nome ufficiale latino era B.M.V. de Candelis. La Costituzione del 1335 disponeva che quando si trattava
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di transazioni importanti, che richiedevano l’accordo dell’abate e della comunità, sull’atto dovevano essere apposti ambedue i sigilli, quello comune della casa e quello dell’abate. A volte ciò avveniva imprimendo il sigillo abbaziale sul rovescio del sigillo comune. Oltre a ciò – dato che il sigillo comune poteva rimanere in uso per secoli – per evitare truffe il nome dell’abate doveva essere inscritto da allora in poi sul suo sigillo. In questo modo sarebbe stato più facile distinguere “da parte di chi e quando” un atto era stato sottoscritto. Il Capitolo generale del 1350 ordinò che i sigilli abbaziali venissero distrutti quando il loro possessore terminava il suo ufficio o moriva, per evitare qualsiasi abuso. Lo statuto di Carlisle (1307) stabiliva che il sigillo comune venisse affidato «non all’abate, ma al priore e a quattro monaci degni e fosse posto in stretta custodia sotto il sigillo privato dell’abate». La Costituzione papale del 1335 e il Capitolo generale del 1336 modificarono queste istruzioni e stabilirono che vi fossero quattro chiavi per quattro diverse serrature della cassa che conteneva il sigillo; una doveva essere tenuta dall’abate, una dall’economo, una dal priore e la quarta da un altro monaco. Dato che i sigilli comuni rimanevano in uso per secoli (come a Julita, Svezia dal 1349 al 1506), essi potevano usurarsi talmente – come quello di Cymer in Galles – da produrre solo una immagine indistinta.
9. Sigillo comune, abbazia di Robertsbridge, Inghilterra (1539). Impronta, 60 mm. HEC PRESENS CELLA DOMUS EST DE MATRE PVELLA.
11. Sigillo comune, Kreuzkloster, Rostock, Germania. Cera marrone, 55 mm. SIGILL’ SCI MONIALIUM SCI CRVCIS I ROSTOK.
10. Sigillo comune, monastero femminile di Gnadenthal, Germania (1305). Cera rossa, 35 x 25 mm. + S’ABB’ISSE.. CO’VENTVS VALLIS GRA..
12. Sigillo dei Definitori dell’Ordine (? XIV secolo). Gomma di silicone blu, 41 mm. S’ DEFINITORV CAPLI GENER/ALI CIST’ ORDIS.
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I sigilli dei monasteri cisterciensi femminili I sigilli in uso nei monasteri femminili dell’Ordine comprendevano tutti i tre maggiori tipi noti nei monasteri maschili: braccio e pastorale, come a Ebersegg (Svizzera); la badessa assisa, come ad Arouca (Portogallo) e la badessa in piedi, come a Gnadenthal (Germania). Di quarantotto sigilli pubblicati dei monasteri femminili cisterciensi della Renania, dieci presentavano la badessa seduta e trentuno la figura in piedi (fig. 10). Vi era una varietà molto più ampia di immagini di quelle visibili sui sigilli dei monasteri maschili. Due singolari esempi tedeschi presentano allusioni – quello di Rostock ritraeva una Crocifissione, dato che il monastero femminile era dedicato alla Santa Croce (fig. 11), e quello di Paradies rappresentava Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, inizialmente il loro Paradiso. Tutti i monasteri femminili cisterciensi venivano fondati – o venivano posti – sotto l’autorità di un’abbazia maschile dell’Ordine. Gli abati di queste ultime erano tenuti non solo a fare una visita formale (personalmente o per delega) alle monache di cui avevano responsabilità, ma anche ad ag-
giungere il loro sigillo a tutte le transazioni più importanti che esse concludevano, dato che chiaramente il loro sigillo da solo non era ritenuto sufficiente. Nel 1271, il sigillo dell’abate di Aulne in Belgio (“il nostro visitatore”), era stato aggiunto a un contratto concluso dal convento di Val-StGeorges3. Nel 1284, quando alle case religiose del Galles vennero riconosciuti i danni di guerra da Edoardo I, in assenza del sigillo del loro visitatore (l’abate di Strata Florida) sulla ricevuta per il denaro riscosso dal monastero femminile di Llanllŷr4, vennero apposti i sigilli degli abati di Strata Marcella e Valle Crucis.
I sigilli del Capitolo generale Nonostante sia stato precedentemente ritenuto che fino al 1318 agli atti redatti dal Capitolo generale venisse apposto il sigillo dell’abate di Cîteaux5, vi sono due riferimenti del 6 XII secolo – uno (1191) negli statuti pubblicati dell’Ordine
e un altro (1258) in una raccolta di carte relative all’abbazia di Doberan (Germania) – al «sigillo del Capitolo generale»7. Non si conoscono le loro impronte e certamente, a partire dal 1318, il Capitolo aveva il suo sigillo prescritto con l’immagine dell’abate di Cîteaux assiso, mentre dal 1318 al 1390 i “Definitori” (comitato esecutivo del Capitolo generale) usavano il controsigillo dell’abate di Cîteaux. In seguito i Definitori ebbero il loro sigillo proprio che li ritraeva (erano tutti abati) raccolti sotto il manto protettivo della Patrona dell’Ordine, la Santa Vergine Maria (fig. 12). L’abate di Cîteaux era quello più vicino a lei, inginocchiato o in piedi e il solo a portare la mitra. Successivamente altre due matrici vennero utilizzate dai Definitori; in quella più antica gli abati sono in ginocchio, nell’altra sono in parte in piedi. Troviamo immagini analoghe sul sigillo comune dell’abbazia di Esrum, Danimarca, in uso fra il 1374 e il 1536, dove alcuni monaci erano al posto dei Definitori, e su due dipinti del XV secolo (ora al Museo di Douai) provenienti dal-
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l’abbazia di Clairmarais in Francia e dal monastero femminile di Flines (Olanda).
Conclusione Numerosi tipi di sigilli cisterciensi presentavano caratteristiche di semplicità e uniformità come richiesto dall’Ordine durante il Medioevo, ma con il passare dei secoli i sigilli abbaziali si svilupparono e arrivarono a presentare una maggiore varietà di motivi, araldici e altri. I sigilli conventuali comuni, d’altra parte, rimanevano invariati per secoli e una matrice dell’inizio del XIV secolo era spesso ancora in uso alla metà del XVI. Lo studio dei sigilli cisterciensi medievali si basa in grande misura sulle impronte conservate-
si nella cera su carte e documenti. Queste hanno permesso la realizzazione negli ultimi due secoli di numerosi cataloghi di sigilli in diverse parti dell’Europa. Le matrici dei sigilli cisterciensi medievali e di epoche più recenti compaiono occasionalmente in mercati antiquari o in sale d’asta, accrescendo la nostra conoscenza dei sigilli cisterciensi dato che spesso presentano impronte sconosciute. Occasionalmente scavi e metal-detector portano alla luce sigilli cisterciensi, come nel Galles dove il sigillo di un abate medievale della Neath Abbey venne trovato sulla spiaggia non lontano dalla Margam Abbey, e la matrice del sigillo di una badessa di Llanllŷr venne trovata nel terreno del vicino Talsarn. Lo studio dei sigilli cisterciensi è accademico ma anche appassionante, ogni scoperta contribuisce per noi alla comprensione della loro evoluzione.
LA RIFORMA CISTERCIENSE DEL CANTO LITURGICO Claire Maître
Il canto liturgico del XII secolo è quasi interamente il canto piano, il cui ritmo segue quello del testo latino di cui costituisce l’ornamento. Le sue prime melodie risalgono all’alba del cristianesimo; secondo la leggenda, sarebbero state ricevute dallo Spirito Santo tramite papa Gregorio, grazie alla mediazione di una colomba. Tuttavia il loro numero non ha cessato di aumentare nel corso dei secoli e, come qualsiasi produzione umana, ha subìto un’evoluzione. All’inizio del XII secolo, i riformatori cisterciensi si dolgono nel constatare la coesistenza di molteplici tradizioni nelle diverse regioni della cristianità. Ai loro occhi la diversità poteva solo esser segno di degenerazione e la loro generale ambizione di ritorno alle fonti si manifestò anche in campo musicale. I monaci riformatori hanno in un primo tempo ricercato una tradizione rimasta intatta dalle origini, ma non avendola trovata, hanno rifiutato in toto tutte le testimonianze e hanno deciso di stabilire a priori la teoria del canto “puro”, per poi correggere successivamente tutti i canti seguendo regole stabilite da loro stessi. Elaborare una teoria a priori è un fenomeno raro: più di sovente quest’ultima è la codificazione a posteriori di una pratica. In campo musicale esiste forse un solo altro esempio, quello di Schönberg che, nel XX secolo, stabilirà i princípi del sistema seriale prima di comporre opere che vi si sottomettono. Per i Cisterciensi, la prima ricerca del canto autentico è stata effettuata a Metz, città che godeva di grande prestigio per la sua antichità, che si supponeva risalisse a san Gregorio. Le liturgie medievali sono sempre state diverse; i principi carolingi avevano già tentato di unificarle a vantaggio della liturgia romana e in questa prospettiva a Metz era stata attribuita l’importante funzione di diffondere que-
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st’ultima nelle diverse diocesi della Gallia. La sua chiesa ne ha tratto un prestigio che perdura ancora nel XII secolo. Due monaci di Cîteaux vi sono inviati, verso il 1109, a copiare i libri di canto che, dopo il loro ritorno, sono adottati per qualche tempo. Questa prima riforma avviene sotto la guida di Stefano Harding, riformatore anche in altri ambiti liturgici. Una volta introdotto questo canto a Cîteaux, l’abate parve non dispiacersi delle “impurità” che infastidivano alcuni monaci; per lui la tradizione era una garanzia della sua autenticità. L’uomo non ha per forza in se stesso la capacità di comprendere i comandamenti divini e quando si trova davanti a un’apparente difficoltà, la cosa migliore è fare affidamento all’autorità della tradizione, e quella di Metz era degna di stima. Ma fra i monaci altri erano stati delusi da questo repertorio, come fa notare Bernardo di Clairvaux senza mezzi termini: «In molti passaggi del vecchio antifonario abbiamo scoperto un testo così rilassato e dissoluto che, deturpato da tanti errori o da frottole apocrife, provocava fastidio e disgusto in quanti lo leggevano, mentre i novizi, istruiti nella disciplina ecclesiastica, prendevano in antipatia tanto il testo che le melodie dell’antifonario, ne disprezzavano lo studio e partecipavano alle lodi di Dio solo con trascuratezza e sopore»1. Queste critiche mostrano che i Cisterciensi avevano una concezione a priori della natura di un canto puro da qualsiasi corruzione e che questa concezione non era stata individuata nel canto di Metz. In realtà quest’ultimo era degno di stima proprio perché risaliva al periodo carolingio, quindi seguiva regole di composizione anteriori a quelle del XII secolo, che i Cisterciensi conoscevano e, per mancanza di prospettiva storica, giudicavano capaci di fornire un canto puro. Paradossalmente era l’antichità del canto di
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Nella pagina seguente: 7. Un angelo curvo su un libro e un monaco steso ai suoi piedi, particolare da Gregorio Magno, Moralia in Iob, 1111. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 170, f. 6v.
Metz a non soddisfarli; lo si può verificare leggendo il loro trattato per la buona composizione delle melodie, creato in un secondo momento. Esso raccomanda regole che sono quelle del XII secolo, ma che certo non esistevano nell’VIII, quando veniva elaborato il canto di Metz. Quest’ultimo repertorio era in realtà vicino alle origini, quelle cercate dai riformatori, che tuttavia, con la loro ricerca preconcetta del canto “puro”, non avevano riconosciuto il valore delle sue melodie! Non avendo logicamente trovato a Metz dei canti scritti nel linguaggio musicale del XII secolo, hanno concluso che questo stesso venerabile repertorio fosse corrotto e di conseguenza hanno scritto un trattato di musica2 per stabilire le regole di composizione del canto, impegnandosi in una riforma teorica globale. A differenza di Stefano Harding, per il quale era presuntuoso opporsi alla tradizione, i riformatori di questa seconda generazione, dovendo scegliere fra tradizione e ragione, hanno preso il partito di quest’ultima. Hanno giudicato possibile, ricorrendo alle loro sole capacità, individuare i princípi del linguaggio musicale puro delle origini. Nello spazio di una generazione, il conflitto tra autorità e ragione è stato risolto in modo diverso. L’evoluzione è profonda, testimonia di una progressiva individualizzazione dell’essere umano che dimostra una nuova capacità di arrivare alla verità con il solo aiuto della sua ragione. La seconda riforma del canto liturgico si svolge sotto l’autorità dell’abate di Clairvaux. Alcuni elementi storici permettono di datarla negli anni 1142-1147. L’abbazia di Obazine viene fondata nel 1142 nella diocesi di Limoges e segue gli usi cisterciensi ma chiede l’integrazione completa nell’Ordine solo nel 1147; nel frattempo deve cambiare i suoi libri dei canti, ciò che avviene fra le due date. Bernardo, del quale non abbiamo motivo di pensare che avesse particolari competenze musicali, ricorre a confratelli competenti. Questi confermano che le chiese differiscono fra loro e che è impossibile ritrovare il canto autentico: «Poiché tutte o quasi tutte le chiese divergono nei loro usi, quale fra di loro, vi domando, si glorificherà di essere la figlia della gallina bianca e, attribuendo alla sua tradizione il privilegio dell’autorità di Gregorio, convincerà le altre di stupidità o di testardaggine?… Quando due chiese hanno delle divergenze, è facile che sia l’una sia l’altra si trovino in errore, ma è impossibile che né l’una né l’altra siano in errore. Perché la verità non si oppone mai alla verità, ma l’errore quasi sempre all’errore»3. Sfortunatamente questa premessa è sbagliata nel caso del canto medievale, perché fin dalle origini esso è molteplice; nelle diverse comunità si sono sviluppate tradizioni che, pur senza divergere in mo-
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do assoluto, non sono sovrapponibili le une alle altre. La ricerca cisterciense dell’archetipo del canto cristiano era destinata al fallimento.
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Nelle pagine precedenti: 1. Note e miniatura con la Natività, da un Antifonario del XII secolo. Charleville-Mézières, Bibliothèque municipale, ms. 227, f. 1v. 2. Iniziale con due monaci che cantano, particolare di una Biblia, 1230-1240 circa. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 4, f. 188v. 3 e 4. Indice del volume e prefazi della Messa dell’Exemplar cisterciense, 1183-1188?. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 114, ff. 1v e 134r.
A fronte e sopra: 5. Cane musicante, margine del foglio di una Biblia, 1230-1240 circa. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 4, f. 361r. 6. Grande iniziale con Davide e il leone, Davide che suona l’arpa e altri musici, da Agostino, Enarrationes in psalmos, XII secolo. Dijon, Bibliothèque municipale, ms. 147, f. 2r.
Quali sono i princípi di questa teoria musicale? Nel Medioevo il canto religioso appartiene all’ambito della liturgia piuttosto che a quello di arti come la pittura, la scultura o l’architettura. Negli Statuti dell’Ordine emessi nel 1134 vi sono prescrizioni che limitano l’uso dell’oro, dell’argento, delle pietre preziose e che proibiscono le sculture e i dipinti, i colori nelle vetrate, ma solo lo Statuto 73 riguarda il canto: «Agli uomini si addice cantare con voce virile e non imitare la lascivia degli istrioni, cantando in modo effeminato, con voci acute o, come si dice popolarmente, in falsetto. Perciò stabiliamo che si conservi una giusta moderazione nel canto per manifestare la sua serietà e conservare la devozione»4. Si pone l’accento sulla funzione di preghiera, resa difficile da voci caricaturali, dato che il godimento estetico non è lo scopo dell’audizione. Il ruolo del canto liturgico è approfondire e arricchire il senso del testo presentato; fornisce un commento, una glossa che raggiunge la mente umana non con l’intellezione, ma con la sensibilità: come dice san Bernardo: (cantus) sensum litterae non evacuet sed fecundet5. L’audizione è un mezzo per arrivare alla contemplazione divina, l’auditore non deve lasciarsi distrarre da capricci sonori e seguire ornamenti melodici illusori che lo allontaneranno dalla meditazione sul testo. La mente non deve essere distolta, sviata, nel canto come nell’architettura: basta absidiole e melismi, basta muri dipinti e decorazioni. Il procedimento è parallelo, ma con dei limiti: la chiesa è un luogo con dei condizionamenti, quelli dei materiali e della geometria; il canto ha solo quelli del suo testo, ascoltato e meditato: il riferimento al sacro è più immediato e la funzione liturgica più totalmente svelata. La relazione fra architettura e musica, ambedue arti dei numeri e ambedue protagoniste nella celebrazione monastica, è sicura, ma «se la chiesa è il luogo dell’azione liturgica, il canto è liturgia»6. Infine, la riforma cisterciense non si limita alle proibizioni ma, innanzitutto, afferma il principio di non contraddizione di un canto con se stesso, il rispetto delle caratteristiche di uno e un solo modo musicale fra quelli in uso nel XII secolo, conosciuti dai Cisterciensi ma ignorati dai compositori più antichi. Un principio che ritroviamo nelle condanne degli ibridi e dei mostri emesse da Bernardo nella sua Apologia ad Willelmum, poiché una contraddizione interna è ai suoi occhi una grave perversione. Se un canto appartiene contemporaneamente a due modi differenti, esce
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LE GRANGE CISTERCIENSI David H. Williams
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dall’ordine naturale e si ammanta di un errore morale perché produce un ibrido che non esiste in natura: «È il principio di non contraddizione, di coerenza con un sistema approvato dalla ragione a sottendere tutta la seconda riforma del canto, voluta da san Bernardo. La condanna dell’irrazionale si trova quindi all’incrocio delle arti visive con la musica. Perché l’assoluta necessità di conformità alla ragione? Perché il mondo è ordinato dalla ragione divina e il disordine è un errore morale… Questo canto è ordinato, non può essere diverso nella sua essenza. La sua multiplicitas è segno che è stato oscurato dall’errore degli uomini, bisogna riportarlo alla sua unitas originale. La sua perfezione viene dall’ordine voluto da Dio, essa è di natura intellegibi-
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le e per l’uomo è possibile ritrovarla grazie all’esercizio della sua ragione, mettendone in evidenza i princípi eterni»7. Tra la prima riforma voluta da Cîteaux, volta a ritrovare la tradizione più autentica, e la seconda riforma avviata da Clairvaux qualche decennio più tardi, quest’ultima saldamente fondata sulla percezione di un ordine intellettuale, che l’uomo competente può trovare grazie all’esercizio delle sue facoltà, esiste un seducente equilibrio. Ma l’essenza della riforma cisterciense del canto piano, qualunque ne siano le modalità, consiste nella volontà di una pratica autentica grazie al ritorno alle origini e all’abbandono delle forme sensibili, multiple e fallaci, opposte all’unità delle verità intellegibili, le sole che guidano alla preghiera.
I Cisterciensi mettevano a frutto i loro terreni impiantandovi fattorie, note come “grange” o “corti”, dove vivevano e lavoravano i conversi – benché normalmente non monaci –, insieme a lavoratori salariati. Le grange erano note come cwrt o mynachty in Galles, uithof in Olanda, hof in Germania, dvůr in Boemia e ladegård in Danimarca. Le grange maggiori erano dei monasteri in miniatura – con mura, portale, foresteria, cappella, stanza riscaldata, refettorio e dormitorio. Alcune abbazie (come Grand-Pré, nella provincia di Namur, Belgio) erano state originariamente una grangia della loro casa madre, ma anche un’abbazia che non fosse in grado di mantenere una comunità di dimensioni sufficienti poteva essere ridotta allo stato di grangia (come San Vicente, nelle Asturie, Spagna). Alcune grange comprendevano precedenti eremitaggi. Le località delle grange Le grange di un’abbazia potevano sorgere in località topograficamente molto varie, permettendo ad alcune di praticare colture specializzate e riducendo al minimo gli elementi di rischio – se una grangia poteva essere afflitta da cattivo tempo o malattie, un’altra poteva esserne esente. Alcune grange erano situate su isole di estuario – come sulle terre di Ter Doest in Zelanda – o in località elevate – come la grangia Graule di Obazine a 1200 m di altitudine. Nelle aree molto popolate dell’Europa Occidentale, a causa della difficoltà di reperire terreno disponibile, molte grange si trovavano ai margini dei territori parrocchiali e parecchie erano situate in aree caratterizzate da fitti boschi. Non poche abbazie (come Altenberg) avevano la loro grangia “forestale” o “boschiva”, mentre l’antica grangia di
Klȯ˙sterli, dell’abbazia di Lucelle, sorgeva a cavallo del confine fra Francia e Svizzera. Affinché i conversi potessero tornare facilmente al monastero per le domeniche e le feste maggiori, in un primo tempo era disposto che le grange non potessero essere distanti più di una giornata di cammino, che significava a 1520 chilometri. Tale disposizione era difficile da osservare – in particolare quando vi era necessità di terreni posti a distanze maggiori. Delle quindici grange possedute dall’abbazia di Øm, in Danimarca, dieci erano entro i sedici chilometri, mentre una (Radmos) era distante 90 chilometri e serviva per il rifornimento di calcare. Le prime prescrizioni dell’Ordine richiedevano che le grange di abbazie diverse fossero distanti le une dalle altre almeno due leghe borgognone, calcolate fra gli 8 e gli 11 chilometri e mezzo, con la specifica intenzione di ridurre le non rare frizioni fra conversi di grange vicine. Le grange potevano comprendere interi villaggi già esistenti e questo provocava il trasferimento della loro popolazione. Il fatto che si verificasse lo spostamento della popolazione dai terreni ceduti ai monaci bianchi venne messo in evidenza dal vescovo di Naumburg nel 1204, quando difese i diritti degli abitanti olandesi e tedeschi del villaggio di Flemmingen, recentemente acquisito da Pforta, e dal vescovo di Glasgow, che nel 1222 disapprovò l’espulsione dei fittavoli da parte dei monaci di Holm Cultram per «creare le loro grange». Infine, nove villaggi vennero cancellati per far spazio alle grange di Plasy. La popolazione trasferita poteva essere insediata altrove (Byland), o poteva acquistare la libertà (dai benefattori di Lubia˛>). Alcuni contadini espropriati pare siano divenuti conversi (Margam).
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1. Grangia Monknash dell’abbazia di Neath (Galles meridionale).
Il numero e le dimensioni delle grange Le abbazie fondate all’inizio del XII secolo crearono rapidamente fino a cinque o sei grange e continuarono ad aumentarle, oppure a espandere quelle esistenti fino alla fine del XIII secolo. Fontfroide aveva cinque o sei grange nel 1162, ma alla fine del XIII secolo ne possedeva almeno ventiquattro. A quell’epoca molte abbazie avevano tante grange quante riuscivano a gestirne. Dai documenti si possono evincere le date di costruzione delle grange. Una donazione a Bonport nel 1190 documenta che l’abbazia stava «costruendo la grangia» di Ardouval. Una bolla papale del 1234 a favore di Sulejów menziona la grangia di Le˛ czno «costruita dai monaci». Il numero delle grange di un’abbazia variava molto. In Boemia, Plasy e Sedlec avevano ambedue più di venti grange, ma Osek ne aveva solo dieci. Le due Borgogne insieme potevano vantare oltre 200 grange e vigne cisterciensi. Nelle regioni in cui c’erano relativamente poche grange (come in alcune parti dell’Europa Orientale), questa scarsità era più che compensata da altre forme di proprietà terriera. Le grange destinate primariamente all’aratura erano solitamente più piccole di quelle destinate per lo più all’allevamento. Dunes aveva 25 grange comprendenti 10.000 ettari (25.000 acri) di terra, con una media per ogni grangia di 400 ettari (1000 acri). La grangia Nanhywnan di Aberconwy consisteva di circa 4.850 ettari (12.000 acri) ma per la maggior parte montagnosi. Le dimensioni medie delle
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2. Abbazia di Buków (Polonia), il terrapieno e il fossato che segnano il confine della proprietà.
grange di alcuni monasteri erano molto minori, come le fattorie di Bebenhausen (190 ettari/470 acri). Di solito le grange più vaste e compatte nascevano da proprietà relativamente piccole che venivano consolidate dall’abbazia escludendo eventuali terzi interessati con l’acquisto della loro quota o scambiando altri terreni con i loro, oppure venivano estese con l’aggiunta di appezzamenti adiacenti. Ciò era stato reso possibile dal permesso del Capitolo (1190) di abbandonare terreni distanti o inutili. La grangia Luagnasco di Staffarda, da un originale beneficio di 120 giornate nel 1138, portò la sua proprietà a circa 1300 giornate nel 1300. Oia (Galizia, Spagna), per completare la sua proprietà, ricevette 62 donazioni fra il 1270 e il 1305, ma effettuò anche 273 acquisizioni o scambi. Quando singole persone vantavano ancora diritti su fondi che i terreni della grangia iniziavano a circondare e accerchiare, anch’esse venivano escluse tramite acquisto. La cronaca di Meaux del 1300 circa annota che i suoi monaci, fondendo «le loro colture» nella Arnold Grange, furono in grado di «mantenerle più facilmente». I monaci bianchi erano convinti che il consolidamento e l’estensione, che liberavano la loro proprietà da rivendicazioni esterne, fossero economicamente vantaggiosi. Le recinzioni delle grange I confini delle prime grange venivano spesso segnati da un fosso lungo tutto il perimetro, con un terrapieno formato
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dalla terra scavata. Questo fosso rappresentava anche una semplice forma di protezione contro animali vaganti. Anche la realizzazione di queste semplici recinzioni che delimitavano la proprietà può essere rintracciata nei documenti scritti. Doberan (nel 1313) ricevette una donazione per aiutare a mantenere «il fossato attorno al suo terreno di Gawetzowe». In Galles il recinto interno della grangia Mynachty di Cwmhir aveva un fossato largo almeno quattro metri. Il fossato attorno al perimetro faceva sì che l’accesso alla grangia prendesse la forma di strada rialzata o di ponte. Nelle grange più grandi potevano esserci una corte interna e una esterna, ambedue circondate da un terrapieno. Questo grande doppio recinto è visibile nella grangia Sutton di Fountains o presso la grangia Burton di Garendon. Il grande terrapieno che circonda la grangia Monknash di Neath racchiude diversi altri recinti nel miglio quadrato formato dalla recinzione principale. Nel tempo le abbazie potevano
sostituire il terrapieno di alcune grange con mura di pietra per maggiore sicurezza e protezione. La grangia Valera di Chiaravalle di Milano era racchiusa da un fossato nel 1236 e dalle mura nel 1255. L’esistenza del muro di cinta rendeva necessario un portale di entrata che poteva essere di varie forme. La grangia North di Sibton aveva (nel 1325) un «cancello settentrionale» e un «cancello meridionale». Alcuni portali di grange erano poco più di una semplice entrata con un’attigua cella per il portiere, ma quelle di Staffarda a Pomerolo (1228) e di Luagnasco (1245) erano così strutturate che vi si potevano svolgere transazioni d’affari. La grangia Commelles (di Chaâlis) aveva un grande portale di pietra con due aperture, una per i carri e una per i pedoni. Le opere caritatevoli presso il portale (come in un monastero) erano sostenute da benefattori che donavano annualmente trenta carichi di torba a Furness «per scaldare i poveri che si trattenevano presso il portale della grangia Winterburn».
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3. Grangia di Beauvais dell’abbazia di Pontigny (Francia). 4. Granaio della grangia Vaulerent di Chaâlis.
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Gli edifici conventuali Gli edifici siti nella parte più interna della grangia potevano andare da una sistemazione poco più che rudimentale per i conversi fino a un complesso di strutture domestiche e funzionali, sebbene i camini fossero inizialmente proibiti. Nel 1237 la grangia Fornace di Morimondo di Milano (Italia) aveva il suo refettorio, due dormitori (uno destinato ai bovari), una cucina, due magazzini (per fieno e paglia), nonché costruzioni per i buoi, le mucche, le galline e i maiali e un edificio per la produzione di formaggi. Nel 1307, la grangia Causton di Pipewell (Inghilterra) aveva un chiostro, dormitori per monaci e conversi, refettorio e cappella, con camere separate per l’abate e il birraio. Nel 1488, la grangia Tuchom di Oliwa (Polonia) includeva «refettorio, camera dell’abate, granaio, stalla e una casa dei pescatori». Non tutte le prime grange avevano dormitori appositamen-
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te costruiti. Uno statuto del Capitolo generale del 1202 disponeva che i conversi residenti nelle grange non dovevano dormire con gli stallieri nelle stalle ma in un luogo diverso. È possibile che questa disposizione stimolasse la costruzione di dormitori nelle grange. Si possono vedere ancora dei dormitori medievali nella grangia Fraville di Clairvaux e nella grangia Prouilly di Orval. Il refettorio di Plasy nella sua grangia di Kázňov (Boemia) è stato annotato nel 1346 come «stanza di pietra». Un’aggiunta necessaria al refettorio fu la cucina della grangia. Nel 1266 la cucina della grangia Causton di Pipewell cuoceva nei suoi due grandi forni il pane sufficiente per nove grange del monastero. L’ospitalità nelle grange La distribuzione di elemosine ai poveri presso il portale e l’offerta di ospitalità ai viaggiatori – specialmente quanti
appartenevano all’Ordine, un tratto caratteristico che rendeva rinomate le abbazie cisterciensi – erano appannaggio delle loro grange. Gli Statuti tennero ben presto conto della presenza di una foresteria per ospiti e di un addetto agli ospiti – quest’ultimo aveva il permesso di parlare con loro e con i servitori della grangia. L’abate Richard di Louth Park (1227-46) costruì in tutte le sue grange «dormitori e sale da pranzo per gli ospiti». Doberan (1313) riceveva diversi ospiti, anche nobili e cavalieri, nella sua grangia Gawetzowe. Sei grange di Tamié erano luoghi di sosta sulla strada per Roma. Quando principi e vescovi pernottavano alla grangia, il loro esercito o il seguito episcopale ne mettevano alla prova l’ospitalità. Le grange erano il luogo dove potevano venire trattati gli affari dell’Ordine – come gli incontri per codificare gli statuti e/o decidere i sussidi – o risolvere problemi interni, per esempio le dispute sui pascoli. Non meno di quindici
abati furono convocati nel 1190 per incontrarsi a Chailley, una grangia di Pontigny; se i loro affari si fossero protratti, per risparmiare un indebito sovraccarico sulle risorse di quella grangia, essi dovevano trasferirsi a «Cerelegio», una grangia di Vauluisant. Molti affari monastici locali potevano essere conclusi nelle grange, come gli atti redatti nel 1340 nella grangia Bradley di Fountains. Visitatori frequenti delle grange erano gli abati e i monaci dell’Ordine in viaggio che, mentre soggiornavano, erano usi celebrare l’ufficio liturgico della Beata Madre di Dio. Lo Statuto del 1187 permetteva a un abate di «mangiare in un luogo conveniente, nel refettorio o altrimenti secondo i suoi desideri». Nel 1488, a Tuchom, una grangia sulle rive del lago a Oliwa (vicino a Gdansk, Polonia), fu riservata una stanza appositamente per loro. Gli abati in visita non erano sempre ben accolti nelle grange di altri monasteri: vi furono incidenti per un’accoglienza «meno che rispetto-
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sa» o per trattamento «inumano», inclusi quelli alle grange di Fontaine-Jean (1196) e Pilis (1222). Un abate spagnolo che aveva fatto sosta alla grangia di Bonnevaux nel 1236 fu fatto oggetto di un lancio di pietre. Alle donne era proibito entrare nella “corte” di una grangia se non per ordine dell’abate e anche in quel caso nessuno doveva parlare da solo con una donna. Eccezioni o situazioni inevitabili che il Capitolo cercava di controllare comprendevano quante si recavano alle grange per mungere le mucche, per mietere il grano, per cardare la lana o cuocere il pane. Ancora nel 1288 e nel 1297 il Capitolo Generale reiterava che le donne non dovevano «entrare, vivere o passare la notte» nelle grange.
grangia Calcot di Kingswood (su una pietra l’edificio originale è datato al 1300), e di quello della grangia Stanlaw di Whalley (realizzato in blocchi di arenaria con il tetto di travicelli di quercia uniti con pioli pure di quercia). Nella grangia Kázňov di Plasy (1346) il granaio era costruito sopra «una cantina di pietra». Simili cantine si trovano sotto gli edifici principali di tre delle grange di Chaâlis dove veniva immagazzinato il vino o altri alimenti venivano conservati al fresco. La grangia Coronate di Morimondo di Milano (1237) aveva due cantine, una per conservare il vino e l’altra per il formaggio. In climi più freddi, nelle grange Causton e Braybrooke di Pipewell, a questa necessità dei residenti serviva la «stanza adibita a burrificio» posta a livello terra. Il legname era il materiale maggiormente usato nella costruzione degli edifici delle grange e molti monasteri ricevevano donazioni di legname da proprietari di foreste per contribuire alla costruzione e alla manutenzione di esse. Meaux nel 1240 circa aveva utilizzato «quercia inalterabile» per i suoi edifici agricoli. Gli edifici di legno, soprattutto quelli che potevano contenere fieno seccato e grano, erano esposti al rischio del fuoco sia accidentale che deliberato. La grangia Accrington di Kirkstall venne incendiata da gente del luogo nel 1190 e tre conversi uccisi. Una
Gli edifici agricoli In una grangia l’edificio costruito più solidamente era normalmente il granaio, spesso situato un po’ lontano dalle abitazioni per ridurre il rischio di incendio. I granai più lunghi risultano dai documenti essere quelli della grangia Beaulieu di St. Leonard (Inghilterra, sette campate in 74 m per 20 m) e quello della grangia Vaulerent di Chaâlis solo leggermente più piccolo. Ambedue sono strutture del XIII secolo, e ne conosciamo importanti resti, come pure del granaio della
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candela «sistemata imprudentemente» aveva causato la distruzione in un incendio del granaio di Coupar (Scozia) nel 1215. Fra i molti altri edifici comunemente presenti in una grangia cisterciense vi erano: il riparo per le pecore, come l’ovile nelle grange di Sibton; la latteria: i secchi erano fra gli attrezzi presenti in numerosi ovili delle grange di Beaulieu nel 1270; la stalla: registrata nella grangia Tuchom di Oliwa (1488); la piccionaia, ancora presente nelle grange di Neath. Nella grangia Merthyr-gerain di Tintern (1387) vi erano il giardino, il porcile, la vaccheria vecchia e nuova, il pollaio, la stalla, il granaio e il mulino. Nella grangia North di Sibton (1325) un grande edificio conteneva le stanze per gli aratori, i carpentieri, gli addetti alla copertura dei tetti con paglia, gli addetti ai cani. La grangia di casa La grangia principale di un monastero era normalmente quella più vicina al monastero stesso, a volte l’ala occidentale ne era parte integrante. Alcune fattorie “di casa” erano descritte nella documentazione contemporanea come «corte del monastero» (come a Stams, 1333), la «grangia prossima al monastero» (St. Benoît en Woëvre, 1182), o
«la grangia entro la cinta» (Écharlis, 1219). A Sibton veniva chiamata la «grangia della porta» perché era vicina al portale dell’abbazia. La grangia di casa comprendeva il granaio principale del monastero. Uno dei più bei monumenti cisterciensi in Europa è il granaio di Ter Doest, fra l’altro è l’unico edificio rimasto dell’abbazia. Costruito in mattoni attorno al 1250, ha il suo interno suddiviso in tre navate da due file di pilastri di quercia su una base di mattoni e di pietra di Tournai. Il grande granaio di Doberan, illuminato da finestre in stile gotico, fu costruito dall’abate Conrad III (128390). Il granaio «dell’elefante» di Loccum, datato circa al 1300, è lungo più di cinquanta metri. Il «granaio nuovo» di Walkenried (1323) aveva al suo interno una cappella dedicata a sant’Antonio. Il granaio era il territorio del converso o del monaco nominato “custode del granaio”; un termine che è stato a volte confuso con “fattore” (vedi sotto). I monaci nominati “ricevitori del grano” a Savigny nel 1230 erano tenuti a misurare diligentemente il grano e registrarlo alla presenza di coloro che l’avevano portato, in modo «che venisse esclusa la possibilità di furto e non ci fossero disaccordi fra chi consegnava e chi riceveva». Il custode del granaio di Beaulieu (Inghilterra) nel 1240 ricevette quasi 2.000 quar-
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Nelle due pagine precedenti: 5. Granaio della grangia Vaulerent, interno. 6. Piccionaia di Vaulerent. 7. Abbazia di Kolbacz, Polonia nord-occidentale, il granaio tardomedievale.
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Sopra e a fronte: 8. Abbazia di Ter Doest (Belgio), il granaio della grangia di casa. 9. Ter Doest, interno del granaio della grangia.
10. Grangia di Gaussan dell’abbazia di Fontfroide (Francia), veduta aerea.
ter di farina (destinata per la maggior parte al forno), e oltre 1300 quarter di avena, molti dei quali destinati al foraggio dei cavalli1. Le grange fortificate La frequente insicurezza delle campagne dell’Europa medievale a causa delle guerre e delle agitazioni, e il valore del materiale contenuto in molte grange cisterciensi giustificavano le misure difensive che dovevano essere a volte adottate. In Spagna, almeno cinque delle grange di Poblet erano state precedentemente torri di difesa o piccoli castelli che erano divenuti obsoleti quando la linea del fronte della Reconquista si era spostata in avanti verso Valencia. La “torre” della sua grangia Milmande, del XII secolo, eretta in posizione dominante, venne ulteriormente rafforzata e fortificata durante l’abbaziato di Ponç de Copons (131648), con il risultato finale di una bella portineria a volta. Fontfroide trasformò la sua grangia Fontcalvy (vicina al Mediterraneo) in una piccola fortezza con otto alte torri quadrate, per difendersi dai saccheggi provenienti da terra e dal mare. Tra il 1270 e il 1276 vennero aggiunte delle mura a quattro delle grange di Villers in Brabante. L’edificio principale della grangia Kázňov (Kaznejov) di Plasy venne fortificato nel 1346. Con l’inizio della Guerra dei Cent’anni, nel 1366, la grangia Biac di Bonneval venne fortificata e fu stipulato un accordo di mutuo aiuto con il signore locale affinché fosse sorvegliata «giorno e notte». Le misure difensive potevano comprendere la presenza nelle grange di servi armati (per esempio con archi e frecce), come fecero Fontenay nel 1233 e Margam nel 1246. Nell’intento di aiutare, il commissario della Corte di Valréas fece issare – sopra il dormitorio della grangia Fraysinnet di Aiguebelle – la bandiera pontificia a bande rosse e bianche in segno di protezione. Le cappelle delle grange Nelle grange la presenza di un oratorio dove i conversi potessero recitare il loro ufficio era una necessità che veniva regolata in alcuni dettagli ma, dato che essi dovevano far ritorno al loro monastero alla domenica e in occasione delle grandi feste, non era una “cappella” eucaristica. Il Capitolo generale, alla fine del XII secolo e oltre, tentò ripetutamente di impedire che nelle grange venisse celebrata la Messa, ma alla fine perse la battaglia. Nel 1180 dispose che nelle grange non venisse costruito nessun nuovo al-
tare; quelli già esistenti e non consacrati dal vescovo diocesano non dovevano venire distrutti, ma in quelle cappelle la Messa non doveva più essere celebrata. Nonostante questa ingiunzione, scritta nella codificazione degli Statuti del 1202, Quarr, nel 1190 circa, aveva una cappella nella sua grangia Forwood e Furness, nel 1199 circa, aveva una cappella nella grangia Hawkshead dove veniva celebrata la Messa. Questi non erano probabilmente esempi isolati, per cui il Capitolo adottò misure più severe. Nel 1204 ordinò che venissero distrutti tutti gli altari delle grange. La Messa poteva venire celebrata in una grangia solo con un’autorizzazione speciale del Capitolo generale. Questo statuto venne modificato l’anno seguente, forse a causa delle proteste da parte di benefattori e vescovi; gli altari che erano stati consacrati potevano rimanere, ma su di essi non doveva essere celebrata la Messa. Dieci anni dopo, le regole vennero allentate per quelle grange che avevano precedentemente incluso chiese con cimiteri, dove la Messa poteva essere celebrata due volte alla settimana. Non dovevano venire edificate nuove cappelle e nel 1228 il Capitolo prescriveva: «per le cappelle delle grange rimangono le vecchie disposizioni». Ma i tempi cambiavano. Nel 1221, St. Benoît-en-Woëvre aveva una cappella nella sua grangia Bouzonville dove veniva cantata la Messa di domenica e nei giorni festivi. Lo stesso Capitolo generale diede il permesso per la Messa nelle cappelle delle grange dove sussistevano circostanze attenuanti – come nelle grange di Dunes e Ter Doest (1236), collocate su un’isola – a causa della loro inaccessibilità e dei pericoli che il mare rappresentava per i viaggiatori. Nella grangia Eppinghoven di Altenberg, nel 1236, coloro che vivevano nei confini della grangia potevano comunicarsi nella sua cappella, ad eccezione di Natale, Pasqua e Pentecoste, quando dovevano recarsi nella chiesa parrocchiale. Nel 1255 e poi ancora nel 1257, Alessandro IV diede il permesso generale di dire la Messa nelle grange «lontane dalla chiesa parrocchiale», ma solo per coloro che vi risiedevano; gli estranei che desideravano ricevere i sacramenti dovevano chiedere il permesso al vescovo diocesano. (Questa misura salvaguardava il clero della parrocchia locale dalla perdita delle oblazioni finanziarie che altrimenti avrebbe subíto). Alessandro IV nel 1261 diede anche un permesso speciale per le cappelle sulle proprietà di Velehrad, sebbene in realtà semplicemente «regolarizzasse uno stato di fatto esistente». Anche dopo la (limitata) concessione papale del 1255, non tutte le grange avevano una cappella. In Galles, Margam 10
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11. Cappella della grangia Klösterli dell’abbazia di Lucelle (Francia), sul confine con la Svizzera.
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aveva tredici cappelle (incluse quelle di due siti ecclesiastici preesistenti); Tintern e Llantarnam avevano sette cappelle ognuno, ma due è il numero massimo noto di tutte le altre case gallesi. Jerpoint aveva nove cappelle nelle grange (una per ogni sua grangia). A Maiorca, la grangia Esporles di La Real possedeva, nel 1356, un calice d’argento, una tovaglia d’altare, i paramenti e un messale, il breviario e il Salterio. L’Ordine vietava il suono di campane nelle sue grange, salvo una campanella nel refettorio per chiamare i conversi ai pasti. Anche le sepolture nelle grange venivano scoraggiate. La prima e la seconda codificazione di Statuti (1202/1237) disponeva che nelle grange non ci fossero cimiteri e che nessuno doveva esservi sepolto, a meno che esistesse un diritto di sepoltura precedente. Di fatto divenne una pratica comune. In Galles è molto evidente che la tradizione permetteva le sepolture nelle grange, a causa del ritrovamento di ossa umane e dei nomi dei campi. Per quanto riguarda i viventi, la posizione sia dell’Ordine sia dei vescovi era che le cappelle delle grange erano destinate ai conversi e, forse, ai servi, non agli estranei, anche se si supponeva che i lavoratori laici ricevessero i sacramenti nella cappella della grangia solo se vivevano lontano da una chiesa parrocchiale. In questo caso il prelato o
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il vescovo diocesano permettevano delle eccezioni. Dato che Cwmhir si trovava «in un distretto montano, lontano dalle chiese parrocchiali», ricevette nel 1232 il permesso di amministrare i sacramenti ai suoi servi. Cambron (1262), Plasy (1280) e Doberan ricevettero l’autorizzazione di impartire assistenza spirituale ai lavoratori delle loro grange, se questo non avesse portato pregiudizio al clero locale. Le cappelle delle grange, se erano consacrate, ricevevano una dedicazione formale. Fra i santi patroni vi erano: san Bernardo (nella grangia Bergharen di Altenkamp, 1315 circa), santa Caterina (nella grangia Fraysinnet di Aiguebelle, 1310), san Giovanni (nella grangia di casa di Stams), san Lorenzo (nella grangia Champigny di Clairvaux), le sante Candida e Radegonda (in una grangia di Flaxley), santa Gertrude (in una grangia di Aulne) e san Maurizio (in una grangia di Saint Benoît en Woëvre, registrata nel 1221). Pontigny aveva due grange vicine, una dedicata a santa Procaria (una delle monache italiane che avevano riportato il corpo di san Germano a Auxerre dopo la sua morte, alla metà del V secolo), l’altra a santa Radegonda. Un’altra grangia di Pontigny, Le Beugnon, aveva una cappella (con un altare) dedicata a san Dionigi, mentre la grangia Crecy aveva una cappella dedicata a san Lorenzo.
Il grangiario o maestro della grangia
La forza lavoro
I conversi stavano sotto il controllo spirituale del monaco incaricato come loro “maestro”, ma lo svolgimento delle attività giornaliere di una grangia era nelle mani del converso nominato “grangiario” o “maestro della grangia”, che nella sua attività era soggetto al cellerario del monastero. Altri termini utilizzati erano “rettore”, nelle grange di Zbraslav (1343), e “custode”, per esempio nella grangia Abramowice di Szczyrzyc (1318). I monaci non avevano il permesso di ricoprire incarichi nelle grange, ma quando, dalla metà del XIII secolo, il numero dei conversi iniziò a diminuire, se le grange dovevano venire amministrate direttamente dall’abbazia non vi erano molte alternative a che i monaci a volte ne assumessero il controllo – come per esempio in una grangia di Chiaravalle Milanese intorno al 1288. Beaulieu (1270) e Hailes (1300) avevano monaci guardiani che controllavano le loro remote terre in Cornovaglia. Grangiari laici stipendiati erano rari, sebbene nel 1270 alcuni amministratori controllassero l’economia di tre delle grange di Beaulieu, compreso il suo castello di Faringdon. È possibile che tali grangiari laici ricevessero un salario e dei benefit, questi ultimi sotto forma di utili di una parte del terreno. Alla carica di grangiario spettava il «mezzo acro del grangiario» e altri appezzamenti nella grangia North di Sibton (1325). Tuttavia i conversi (o i monaci) controllavano la maggior parte delle grange alla fine del XIII secolo e oltre. Il grangiario poteva parlare con i suoi conversi se necessario, ed anche con i famigli e con gli eventuali ospiti. I suoi privilegi erano limitati, per esempio non gli era consentito usare il cavallo quando doveva andare all’abbazia, ma doveva andare a piedi come gli altri conversi. Oltre alla generale sorveglianza della loro grangia e al loro obbligo di sottoporre regolari conti, i grangiari potevano concludere affari riguardo alla proprietà, potevano partecipare alla risoluzione di contese relative alla fattoria e ricevere le rendite dovute al monastero. Il grangiario di Biac di Bonneval trattò l’accordo per la fortificazione di quella fattoria. I grangiari, come i cellerari, dovevano venire scelti non solo per la loro abilità negli affari, ma forse anche per il loro carattere energico, capace di «portare a termine le cose». Il loro poteva essere un compito difficile. Un grangiario di Fountains (a Kayton, 1270) venne ferito durante una contesa sui pascoli e un grangiario di Baltinglass (a Rosnalvan, 1299) venne assalito con un’accetta mentre tentava di salvare il bestiame dai predatori.
Nelle grange i conversi costituivano il nucleo della forza lavoro, ma non potevano gestire tutto da soli. Il numero complessivo dei conversi in un monastero poteva sembrare grande, ma quando veniva distribuito in diverse grange, e in particolare in un’età di ridotta meccanizzazione, la forza lavoro a disposizione diveniva in qualche modo insufficiente. Era necessario un aiuto e sulle terre di Beaulieu (1270) la forza lavoro secolare permanente sopravanzò il numero dei monaci e dei conversi di circa 180 a 140. I monaci potevano andare ad aiutare nelle grange, in particolare nel periodo della mietitura, e forse anche della semina, della fienagione e della tosatura. Essi non potevano passare la notte alla grangia, a meno che fosse molto lontana dalla loro abbazia. Vi è documentazione di monaci di Cwmhir che, nel 1231, mietevano il grano nelle loro lontane grange sul fiume Wye. Nelle grange i conversi erano tenuti a osservare il silenzio nel dormitorio, nel refettorio e nella stanza riscaldata e «nei limiti fissati». Quando possibile, tornavano all’abbazia per pregare alla domenica e nelle festività – rientrando (a piedi e in silenzio) il giorno successivo – e quando era il loro turno per il salasso. Il loro regime era meno severo di quello del monastero, poiché d’estate si alzavano all’alba e in inverno dopo aver dormito per tre quarti della notte. Eccetto che nei tempi di digiuno, con il permesso dell’abate prendevano ogni mattina la prima colazione (mixt), consistente in mezza pagnotta e acqua, e (presumibilmente durante il giorno) un’altra libbra di pane e «tanto pane nero quanto era necessario». I conversi residenti in permanenza nelle grange di Beaulieu in Inghilterra nel 1270 avevano diritto a otto pagnotte alla settimana, eccetto che in Avvento e in Quaresima (quando ne ricevevano sette), per un totale di 400 pagnotte a persona ogni anno. Avevano anche diritto a mezzo gallone di «birra allungata», quindi ognuno riceveva 183 galloni all’anno. Ogni persona riceveva ogni settimana anche mezza libbra di burro da metà maggio a metà agosto, e altre otto libbre durante l’anno per preparare la minestra. Veniva consumato molto pesce e ai lavoratori laici delle grange era permesso di mangiare carne. Nella seconda metà del XII secolo e in seguito, il consumo di bevande alcoliche provocò dei problemi con i conversi, non dei meno importanti in Galles. Oltre al divieto generale nato di conseguenza, il Capitolo generale emise regolamenti speciali per le grange. Il vino, in particolare, venne vietato nel 1185, ma era già una bevanda abituale in alcune
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12. Clos de Vaugeot per la produzione del vino, creato in origine dall’abbazia di Cîteaux.
regioni (probabilmente in quelle più calde). Il Capitolo del 1202 si rese conto di non poter fare molto, ma cercò di limitarlo a queste aree. «Sappiamo – si lamentavano gli abati – che in alcuni paesi usano il vino e la birra nelle grange e non è possibile revocare tale permesso», ma in tutti gli altri luoghi la proibizione «doveva essere osservata in modo irrevocabile per sempre». Per quanto riguarda il lavoro salariato, in una sola grangia di Kingswood (Hasledene, nel 1255) vi erano sette aratori, cinque uomini che guidavano i buoi, tre che conducevano i cavalli, due carrettieri, due mietitori, uno stalliere, un cuoco e un aiuto cuoco, un mandriano, un porcaro nonché dei garzoni di stalla. Nella grangia Merthyr-gerain di Tintern (quando era gestita da laici nel 1387) la trebbiatura veniva eseguita a volte da donne e per i lavoratori in generale cibo e acqua venivano distribuiti sul posto di lavoro «per timore che si spostassero dal campo per andare nel proprio». I servi, ereditati o donati, potevano far parte della forza lavoro e, nel XIII secolo in Spagna, includevano i Mori vinti. Nelle grange di Beaulieu e di Merthyr-gerain di Tintern nel 1387 vennero assunti lavoratori stagionali in estate – 124 uomini in un sol giorno per zappare i terreni coltivati a grano. I Cisterciensi dell’Italia settentrionale utilizzavano lavoro straordinario per la raccolta dell’uva, nonché per mietere il grano e fare il fieno. Un atto del Comune di Piacenza (nel 1243) sanzionava in particolare le grange di Chiaravalle della Colomba e di Quartazzola dove uomini di altri distretti potevano liberamente andare a lavorare. L’economia agricola È possibile che alcune grange cisterciensi si dedicassero a uno o all’altro tipo di coltura, ma nelle condizioni esistenti nel Medioevo l’economia mista era indispensabile sia per la grangia, che in questo modo poteva essere autonoma, sia per il bene del monastero. Un tipico esempio ci viene dalla grangia Retschen di Zwettl, alla metà del XIV secolo, dalla quale ci si aspettava che mandasse al monastero 4.000 formaggi, 12 forme di burro, 2.000 velli, 70 misure di segale, 80 di avena, 10 di orzo, 15 di papavero e 3 di ravizzone. Con il variare delle condizioni di rilievo, di suolo e di clima, alcune grange, specialmente quelle più lontane dal monastero, tendevano a specializzarsi; Chaâlis aveva tre gruppi di grange: quelle sull’altipiano della Piccardia che producevano grano per la vendita, quelle nella foresta di Senlis con attività di pastorizia e forestali nonché di colti-
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vazione e le sue vigne vicino ai fiumi Marna, Senna e Oise. All’interno dell’economia di pastorizia potevano esserci delle differenziazioni: si contava sulle grange più basse, con clima più mite, per la fornitura di una maggior quantità di formaggio rispetto a quelle situate più in alto, con clima più freddo che erano determinanti per la fornitura della lana. Poiché gran parte dei possedimenti “della casa” di Furness erano montuosi e umidi, l’abbazia faceva grande affidamento sull’importazione di grano dall’Irlanda. Altri monasteri che disponevano di molti terreni montuosi erano alla ricerca di grange in aree più a bassa quota e con terreno migliore. Queste erano letteralmente le loro «ceste di pane», come erano in realtà le grange di Sedlec e Hradiyte nella valle dell’Elba, e quelle costiere di Strata Florida vicino a Cardigan Bay – Morfa Mawr e Morfa Bycham – con il loro clima mite, una lunga stagione di maturazione, terreno argilloso e fertile e basse colline. Le diverse coltivazioni sugli arativi si suddividevano fra le grange di Fontmorigny: Andres produceva più che altro frumento e orzo, Jouet, orzo e segale; Givry, segale e Raymond, avena. Il miglior quadro dell’economia di una grangia ci viene fornito dai suoi rendiconti, quando si sono conservati. È un’immagine limitata dato che si riferisce a un anno in particolare, poiché, a meno che sia disponibile una serie di rendiconti (e questo è raro), si possono fare pochi confronti fra l’economia di una grangia in un particolare anno e quella dell’anno precedente o seguente. A Zwettl i grangiari (come altri incaricati) prestavano all’inizio del loro incarico un breve giuramento che includeva la promessa di fare fedeli rendiconti (delle entrate e delle uscite). A Savigny (1230), i grangiari dovevano presentare all’abate e al cellerario un rendiconto di tutto quanto competeva al loro incarico, almeno quattro volte l’anno. I rendiconti della grangia Merthyr-gerain di Tintern (1387-89) ci ricordano che la manutenzione delle macchine agricole necessitava «della riparazione degli aratri di ferro e della lubrificazione di carri e aratri». Le comunicazioni Il movimento di carri e animali da una grangia all’altra o per raggiungere la strada principale, imponeva ai Cisterciensi la frequente necessità di creare strade – a volte lastricate a volte no. Fra il 1180 e il 1250 Warden ricevette diverse donazioni di terre per creare accessi alle sue proprietà, in particolare per una strada larga 30 piedi (9 m) dalla grangia Myddelhoo fino al terreno vicino a Stirt. Il
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cavapietre di Ozleworth fu pagato da Kingswood (124041) per un lavoro di diverse settimane per la manutenzione delle strade del monastero. Una strada degna di nota era la Salter’s Road, costruita dal monastero di Newbattle e che conduceva da qui fino alla costa scozzese per facilitare l’esportazione di carbone. Le strade dei monasteri erano acciottolate o lastricate. Una strada lastricata arrivava alla portineria di Kirkstall da sud. Un sentiero acciottolato portava da Duiske alle sue peschiere di Castle Ford. Anche Tintern aveva una Stony Way (così denominata nel 1451) che portava dalla portineria al suo fondo di Porthcaseg: era acciottolata per la maggior parte e saliva a circa cinquecento piedi. Altre strade rimanevano invece non lastricate – le green ways, come nei terreni di Sibton. Alcune delle “vie verdi” che attraversano i Pennini in Inghilterra erano originariamente vie monastiche per il movimento delle loro pecore, come Mastiles Lane che unisce la grangia Kilnsey di Fountains a Malham Moor. Le basi delle antiche croci di pietra, utilizzate come cippi, sono tuttora presenti lungo la strada. Tali
croci esistevano anche sulla Abbot’s Way che portava da Dartmoor a Buckfast. Quando un percorso attraversava un terreno paludoso, era necessario costruire una strada rialzata. Nei Fens inglesi, nel XIII secolo si ritenne Reversby colpevole di non aver provveduto al mantenimento della «strada rialzata di North Dyke», per la cui manutenzione il fondatore aveva donato la sua proprietà. In conseguenza «diverse persone annegavano ogni anno» e, in un’occasione, quando due uomini stavano trasportando una salma per la sepoltura, questa cadde nelle acque a North Dyke. Fra i ponti cisterciensi medievali, vi era quello de la Guillotière sul Rodano a Lione, ricostruito in legno da Hautecombe (1308-1314) dopo che l’aveva ricevuto in amministrazione dall’arcivescovo locale. Hautecombe trasmise la responsabilità del ponte all’abbazia di Chassagne che vi collocò due religiosi e tre servi per mantenere il vicino ospizio per i viaggiatori. Il ponte resistette fino al 1957. In Britannia, fra i ponti cisterciensi vi è il Long Bridge a Coggeshall (Essex) che risale al 1220 e di cui si dice che
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«sia il più antico ponte in mattoni dell’Inghilterra». Il ponte di Reversby con cinque arcate di pietra sul North Dyke portava scolpita un’effigie di Cristo in croce e aveva vicino una cappella. In Francia la donazione di diritti di pascolo a Auberive nel 1200 spinse i suoi monaci a costruire un ponte sul fiume Aujon per trasportare i greggi avanti e indietro dalla grangia Pelongerot. Un ponte costruito da Fontmorigny prima del 1209 venne distrutto da un irato laico perché non era stato messo al corrente dalla sua defunta madre prima che desse il suo consenso. Attorno al 1230 Meaux si accordò con i signori locali per costruire due nuovi ponti sul Forth-dyke recentemente scavato; dovevano ambedue essere costruiti in modo che piccole barche senza prua alta potessero passarvi sotto. Nel 1270, Beaulieu acquistò della pietra calcare per ricavarne calce per la costruzione di un ponte a Sowley nello Hampshire, ma riparò con legname un ponte a Colbury. La manutenzione dei ponti era una questione dibattuta quando la popolazione locale abituata ad usarli si sentiva danneggiata. Nella controversia del 1315, Stratford fu dichiarato responsabile della riparazione dei ponti e della strada rialzata fra Stratford-atte-Bow e Ham Stratford. In Europa Orientale, il compito di mantenere i ponti ricadeva spesso sulle corporazioni e i loro responsabili e membri. Molti monasteri ottennero l’esenzione da questo carico, fra questi La˛d (1181) e Dargun (1266). Nelle zone paludose, la costruzione di dighe e canali navigabili era un’abitudine a Meaux e a Sawtry. Ter Doest (1196, 1271) costruì alcuni canali nelle Fiandre per provvedere al trasporto delle sue merci. La sua esperienza in questo campo era tale che uno dei suoi monaci, il suo “Moer-
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meester”, nel 1361 venne incaricato di controllare i lavori del nuovo canale civile che collegava il villaggio di LeLys al canale Bruges-Gand. Quando dei grandi fiumi interferivano con i loro commerci e i loro spostamenti, i monasteri potevano ricorrere a traghetti. Tintern aveva un traghettatore che conduceva a remi alcune barche dal monastero fino ai suoi terreni a est del fiume Wye. Le monache di Les Isles, che sorgeva sul fiume Yonne, in Borgogna, usavano una specie di taxi fluviale quando dovevano raggiungere Auxerre, poiché non esistevano strade. Meaux poteva attraversare gratuitamente il fiume Humber e aveva una casa a Hedon per coloro che aspettavano di poter andare e venire dalla grangia Saltagh. Conclusione La grangia cisterciense fu un’istituzione agricola senza uguali, creata allo scopo non solo di disporre di una fattoria efficiente e rifornire adeguatamente di cibo le comunità monastiche, ma anche di dare ai fratelli laici dell’Ordine un’ampia opportunità di realizzare la propria vocazione. Quando, a metà del XIV secolo, il numero di questi conversi si ridusse fino a essere quasi inesistente, le grange furono vieppiù gestite secondo gli stessi criteri usati per i beni appartenenti al dominio signorile e affidate ad affittuari. La posizione di converso grangiario si sviluppò in quella di fattore laico. La grangia cisterciense ha lasciato il suo marchio sul paesaggio dell’Europa moderna in molteplici modi: sui toponimi, sulle grandi tenute agricole compatte come sui resti architettonici di granai medievali, di piccionaie, di terrapieni e di cappelle.
LA GRANGIA MAGGIORE DI FOSSANOVA Igino Vona
Bernardo, intrepido araldo dell’ideale cisterciense quale ritorno alla puritas della Regola, oltre ad un’accelerazione della riforma monastica, aveva portato nell’ambito del movimento il formarsi di un preciso senso estetico, fatto di razionalità, sobrietà e robustezza, senza forzature, senza elementi stravaganti; un senso estetico che fosse lo specchio della rinnovata spiritualità e che abbracciasse ogni componente della vita claustrale, ivi inclusi l’edilizia, l’arredamento, la miniatura, il canto liturgico, il vestiario. I monaci si conformarono a questi criteri dove le circostanze lo esigevano e consentivano, soprattutto nelle regioni nord-occidentali d’Europa. Essi impostarono le loro unità produttive – grange – sia sul piano organizzativo che su quello edilizio, in maniera razionale e pratica. Ne risultò un sistematico funzionalismo sotteso ad ogni opera ed un procedere secondo progettazione modulare nella realizzazione delle strutture di supporto. I cantieri delle grange create ex novo furono altrettante cellule di sperimentazione di tecniche e forme correlate alla costruzione dei grandi complessi abbaziali dell’Ordine, consegnati al patrimonio culturale dell’umanità1. Dove però le condizioni ambientali non favorivano la messa in atto delle loro idealità, i monaci bianchi furono indotti a trovare soluzioni di accomodamento. Ciò appunto avvenne quando, a seguito dei viaggi di Bernardo in Italia nel quarto decennio del secolo XII, essi cominciarono a fondare monasteri nel Mezzogiorno italiano, regione con caratteristiche assai particolari. Si trattava di inserirsi in un’area in continuo fermento politico e religioso. Il territorio, latino, era amministrato a turno da principi provenienti dal nord (Normanni, Svevi, D’Angiò); la Chiesa di Roma era lacerata da ricorrenti scismi e in antagonismo più a sud con la Chiesa di Bisanzio; il monachesimo benedettino si era
esteso capillarmente ovunque, ma mostrava evidenti segni di logorio; anche la Chiesa greca, monaci inclusi, era in grave crisi. Bisognava ritagliarsi lo spazio vitale in queste condizioni. Fu relativamente facile effettuare insediamenti monastici, in quanto da ogni parte si attendeva una scossa alla generale immobilità feudale, e molte comunità auspicavano esse stesse un rinnovamento spirituale e amministrativo. Non altrettanto agevole fu organizzare le unità aziendali, essendo il territorio per lo più presidiato da minuti centri ad economia chiusa, impostati sul secolare sistema curtense. Secondo una prassi ben consolidata nella società feudale e nell’ordine benedettino – è noto come alcune abbazie (Montecassino, San Vincenzo al Volturno, Montevergine, Cava dei Tirreni) dominavano la scena monastica nel Mezzogiorno – il territorio, eccezion fatta per il demanio, era tutto ripartito in cellae ed ecclesiae propriae o parrocchiali, intese tanto le une che le altre come nuclei notevoli di beni terrieri e di rendite, a volte fonti di profitti e strumenti di azione sociale, oltre che centri di vita religiosa2. Nella sola diocesi di Sora – per fare un esempio – si contavano in quell’epoca non meno di 30 piccoli cenobi benedettini dipendenti da Montecassino, San Vincenzo al Volturno e San Domenico3, e un numero ben più alto di chiese e cappelle. I Cisterciensi si adeguarono alla situazione e, con gli ambienti abbaziali, rilevarono anche i patrimoni fondiari, evidentemente con l’intenzione di riordinare il tutto. Afferma al riguardo Rinaldo Comba, noto studioso del settore “lavoro” dei Cisterciensi, sulla base degli spunti raccolti nel corso di un sondaggio sulle “scelte economiche dei monaci bianchi nel regno di Sicilia fra XII e XIII secolo” (1991): nell’Italia centro-meridionale, «gran parte dei monasteri cistercensi era dotata di […] patrimoni per lo più organiz-
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1. Chiesa di Sant’Angelo in Monte Corneto. Cella benedettina appartenente a Casamari, dai Cistercensi utilizzata come grangia.
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zati secondo modelli tradizionalmente lontani dallo spirito che, secondo gli Statuta del Capitolo generale, avrebbe dovuto caratterizzarne la struttura. Ciò avvenne probabilmente per l’influenza delle tre grandi abbazie laziali (Casamari, Sant’Anastasio alle Tre Fontane, Fossanova), non create “in ordine”, la cui struttura patrimoniale anteriore fu conservata»4. A causa di una frammentaria documentazione, non è possibile – e nemmeno necessario in questa sede – ricostruire di ciascuna abbazia il processo di formazione del patrimonio economico, ma alcuni esempi basteranno a confermare la tesi del Comba. La comunità proveniente da Clairvaux che, verso la metà del secolo XII, sostituì quella benedettina in Casamari, ereditò diciassette chiese e appezzamenti sparsi (fig. 1); dai pontefici Eugenio III, Lucio III e Innocenzo III ottenne altre cinque chiese, di cui quattro celle benedettine abbandonate dai monaci; dal papa Onorio III le fu aggregato il monastero di San Domenico di Sora con tutti i possessi: ben ventinove chiese, di cui alcune celle, oltre a un gran numero di mulini, case, fondi e cinque peschiere5. Analogo percorso ebbe Sant’Anastasio alle Tre Fontane in Roma, antico monastero passato per più mani, dai Greci ai Cluniacensi, prima di essere consegnato da Innocenzo II a san Bernardo (1136) con tutti i suoi possessi, risalenti ai tempi di papa Leone III e di Carlo Magno6. Quanto a Fossanova, gli sforzi recentemente compiuti da Elisa Parziale con l’opera L’abbazia cistercense di Fossanova hanno portato ad una conclusione del tutto simile7. E per la costituzione della dote delle case-figlie, Fossanova si attenne al medesimo criterio: Marmosolio (fond. 1154) iniziò la sua vita cisterciense con la donazione in blocco, da parte del cardinale di Ostia e Velletri Ugo, del monastero stesso (Mons S. Mariae de Marmosole), di una capella S. Romani, e di un secondo monastero (S. Eleuterii, la cui comunità era sorda ad ogni richiamo), con tutte le loro pertinenze, terre colte e incolte, foreste, corsi d’acqua, vigne, oliveti8; Ferraria (fond. 1171) ebbe, attraverso concessioni da parte del primo benefattore Riccardo conte de Sangro e di altri signori, possessi sparsi in tutto il territorio antistante i monti del Matese fino al mare, dei quali tuttavia la parte più consistente era rappresentata da chiese e castelli (Santa Maria del Matese, il castello di Sant’Angelo di Raviscanina, San Gregorio di Montepedaculo, Santo Spirito sul ponte al Volturno, Santa Maria di Piedimonte, Santa Patenara, San Tiferno, Santa Maria de Ortulis, Torrepalazzo)9. L’abbazia calabrese della Sambucina (già Santa Maria Requisita) iniziò la formazione del suo patrimonio fondiario con alcune chiese e una lunga serie di tenimenta, alcuni
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dei quali intitolati a santi, e andò incrementando il numero delle sue chiese fin verso la fine del secolo XII. Il privilegio di protezione apostolica rilasciato da Celestino III il 21 dicembre 1196 ne dà l’elenco completo riferendo i nomi di undici chiese (Sant’Angelo de Frigillo, Santa Maria de Archelao, San Nicola de Pineto, Santa Maria de Cardeplano, Sant’Elia, San Nicola de Muchone, Santa Maria di Ponticelli, San Nicola de Oscata, San Demetrio, San Giovanni de Monticellis, Santa Rosalia)10. Una di queste, Sant’Angelo de Frigillo, già monastero calabro-greco, dall’abate Luca Campano fu eretta in abbazia (1202) dipendente dalla Sambucina ricevendo come beni dotali d’avvio le due seguenti chiese della serie indicata e una terza, Santo Stefano de Vergari11. Il Sagittario in Basilicata, monastero benedettino fondato intorno alla metà del secolo XII, al momento del passaggio ai Cisterciensi (ca. 1200), era titolare di ben 13 chiese e di altri beni12. Anche le grange di Casanova de-
gli Abruzzi erano in gran parte chiese (o altri edifici) adattate a strutture di lavoro13. Nel Mezzogiorno dunque, come nell’Italia settentrionale, il progetto cisterciense di rinascita fu accolto dal monachesimo e dal mondo secolare con entusiasmo. Circa 80 monasteri, di cui alcuni ortodossi, si aggregarono al nuovo ordine. Ravvivate, le abbazie ebbero rapido e rigoglioso sviluppo, con benefici riflessi sulla Chiesa e sulla società civile. Dopo questa panoramica necessariamente scarna, sembra di poter dire che le condizioni ambientali dell’area in esame non permisero l’attuazione integrale dei dettami bernardini. I monaci, assegnatari di unità produttive già impostate secondo canoni differenti dai loro, si adattarono alle circostanze scendendo a una sorta di compromesso con le nuove realtà. Da una parte, si industriarono a recuperare le esistenti strutture a sostegno del lavoro (mulini, fulloni, peschiere, locali adiacenti a chiese o castelli o casali per lo stoccaggio dei prodotti e per il ricovero di animali e arnesi), in vista di miglioramenti per renderle più efficienti, vale a dire sostanzialmente tettoie aggiuntive e torrette o casolari sparsi per la campagna; talvolta, ma in casi davvero particolari e rari, costruirono nuove grange, come ad esempio Santa Maria tra Monti conosciuta nel luogo come il Conventuccio, realizzata da Casanova degli Abruzzi a Campo Imperatore, ai piedi del Gran Sasso (m 1700 s.l.m.), che era per ovvi motivi un vero e proprio monastero di piccole dimensioni. La generale mitezza del clima di queste regioni, inoltre, non imponeva la realizzazione di strutture particolarmente robuste, in grado di resistere a fenomeni atmosferici estremi. A tal proposito vale la pena ricordare che i Cisterciensi, di fronte a un’impresa, si comportavano in maniera pratica con la soluzione più conveniente in quel contesto. Dall’altra parte, introdussero il loro peculiare sistema di gestione dei possessi, cioè la conduzione diretta delle terre con l’impiego dei conversi coadiuvati secondo necessità da salariati abitanti nei borghi sorti attorno alle chiese o ai castelli, come pure il compattamento e l’ampliamento dei fondi mediante acquisti, permute e donazioni. Un fatto riguardante Casamari ci dà un’idea del nuovo corso. A seguito della donazione da parte di Eugenio III di un’importante area agricolo-pastorale nei pressi di Castro dei Volsci, diciassette massari, nei giorni 26 e 27 marzo del 1157, con atto notarile rinunciarono in favore dell’abbazia alla conduzione dei loro appezzamenti, in conformità alla disposizione del pontefice14. Presumibilmente, i monaci intendevano riunirli in fondi
compatti e coltivarli essi stessi. È da notare che i possessi, chiamati con i nomi propri all’atto dell’acquisizione, in documenti posteriori (bolle pontificie, diplomi imperiali, strumenti notarili) a partire dalla fine del secolo XII, venivano indicati indifferentemente con il termine generico di “grange” o con i propri nomi. «Stupisce molto l’assenza di sopravvivenze archeologiche riferibili a strutture di produzione appositamente realizzate dai Cisterciensi per la gestione di tali attività. […] Le fonti attestano un’interessante consuetudine dei Cisterciensi insediati in Marittima, ovvero il recupero di edifici preesistenti non solo nel caso dei luoghi di culto affiliati ma anche per le attività di lavoro. Si pensi al Palatium della Grangia de Laureto, qui identificato con i resti di età romana di Castel Valentino. […] Anche i numerosi mulini di cui è documentato il possesso nel XII secolo erano già esistenti, come pure i casali situati nell’area di Ninfa, Norma e Bassiano»15. Queste parole, riportate dal recente studio su Fossanova, rispecchiano una situazione generale nell’Italia meridionale. Il fatto va imputato a tre principali cause: le lotte politiche e gli antagonismi religiosi, la crisi di vocazioni allo stato di converso, gli agenti atmosferici. Dopo la morte di Federico II (1250), il passaggio dei poteri dagli Svevi agli Angioini non aveva riportato nelle nostre terre quella tranquillità che si sperava. Le campagne militari di Carlo I d’Angiò, seguite a quelle di Manfredi, portarono morte, saccheggio e distruzione. Le truppe di Carlo non ebbero riguardi né per persone né per strutture. Il papa Clemente IV, che aveva accolto il re francese in Italia, amareggiato per la sua crudeltà, lo definì «nec visibilis, nec adibilis, nec affabilis, nec amabilis». I signorotti, pronti a cogliere ogni occasione per rafforzare i loro domini nei confronti dei rivali, profittavano della prolungata atmosfera di turbolenza per piombare con avide mani anche sui beni delle istituzioni ecclesiastiche: atteggiamento che divenne più spavaldo nei decenni dell’esilio del papa ad Avignone. La riduzione del numero dei conversi, originata dalle mutate condizioni dei tempi e della società già sul finire del secolo XII, fu aggravata nella prima metà del secolo successivo dall’offerta, da parte dei nuovi Ordini dei Francescani e dei Domenicani, di una vita spiritualmente più gratificante di quella cisterciense. Le strutture di produzione, abbandonate o cadute in mani estranee agli interessi cisterciensi, andarono inesorabilmente in rovina. I danni maggiori furono causati dai violenti terremoti che funestarono regolarmente l’intera regione. I sismi danneggiavano sia le abbazie che le strutture minori, ma se le prime e i luoghi di
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culto venivano riparati per la loro importanza artistica o per esigenze sociali16, non così avveniva per le grange, il cui uso era ormai obsoleto. Delle aziende realizzate nei secoli XII-XIV, dunque, rimangono pochi segni apprezzabili dal punto di vista architettonico. Non tutto fortunatamente è andato perduto. Sono sopravvissute, pur profondamente modificate, parti di grange domestiche di alcune abbazie, come Casamari e Fossanova, che testimoniano anche nel meridione italiano uno stretto legame dal punto di vista stilistico fra locali per il lavoro e complessi abbaziali. L’unica grangia su cui è stato realizzato uno studio di rilievo è quella di Fossanova. Con competenza, lucidità e passione ammirevoli, G.M. De Rossi ne ha tracciato una convincente ricostruzione, grafica e testuale, che è opportuno riproporre17. La grangia, di forma rettangolare, è situata trasversalmente al prospetto occidentale del monastero, in modo da delimitare un cortile di circa metri 140 x 80. Segue la morfologia del suolo, in leggera pendenza da nord a sud. Oggi tutto il piano è notevolmente rialzato: la zona meridionale per gli straripamenti del fiume Amaseno e quella settentrionale per i reiterati accumuli di materiale terroso volti ad arginare le acque della “Fiumetta”, canale artificiale scavato agli inizi del secolo scorso per attivare una piccola centrale elettrica. Ne sono risultati un andamento gibboso dello spazio antistante la chiesa con affossamento della facciata e l’interramento dei restanti edifici per alcuni metri. De Rossi ha seguito i dati emersi dagli scavi e sondaggi effettuati nel corso dei restauri compiuti nell’ultimo quarto di secolo, ed ha ricomposto un insieme organico, sgombrando l’area da aggiunte posticce e restituendo a ciascuna struttura la sua presumibile funzione originaria. Tale ricostruzione è senza dubbio – come qualcuno ha sottolineato18 – innovativa da più di un punto di vista, ma non ardita, e ha anzi uno sviluppo logico fondato su tre dati: l’antica topografia del territorio di Fossanova tramandata da vecchie piante, le prescrizioni della Regola benedettina riguardo agli ospiti e agli infermi, la morfologia del sito abbaziale. Fossanova, come in genere le abbazie cisterciensi, sorgeva su un piano inclinato alla cui base, il lato meridionale, scorreva acqua abbondante per gli usi domestici e per il funzionamento delle officine. Queste ultime, dunque, come pure le latrine, lo xenodochium e la foresteria, dovevano essere impiantate su questo lato. Tenendo conto che la strada romana di servizio Pipernum-Tarracina (spostata nei primi decenni dell’800 per volere di papa Benedetto XIII [17241730] sulle colline a Oriente, in quanto «giacente prima alle rive dell’Amaseno nel piano, era frequentemente esposta
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2. Pianta del 1637 relativa al territorio di Fossanova, 1. Percorso originario dell’Amaseno; 2. Percorso moderno (dal 1727 circa) dell’Amaseno; 3. Immissione del canale artificiale dell’Amaseno a Fossanova; 4. Uscita dello stesso canale da Fossanova; 5. Via pedemontana (secondo G.M. De Rossi).
3. Proposta ricostruttiva del complesso abbaziale di Fossanova nel secolo XIII. 1. Chiesa; 2. Cimitero dei monaci; 3. Chiostro, a: fontana, b: torre idraulica; 4. Sala capitolare; 5. Auditorio del priore; 6. Calefattorio; 7. Sala comune dei monaci; 8. Sala comune dei novizi. Piano al di sopra dei nn. 4, 5, 8: Dormitorio dei monaci; 9. Latrine del dormitorio dei monaci; 10. Chiostrino; 11. Infermeria dei monaci; 12. Latrine dell’infermeria dei monaci; 13. Orto delle erbe medicali; 14. Scriptoria; 15. Refettorio dei monaci; 16. Cucina; 17. Magazzini dei conversi; 18. Refettorio dei conversi. Piano al di sopra dei nn. 17 e 18: Dormitorio dei conversi; 19. Ingresso dell’infermeria dei conversi; 20. Infermeria dei conversi; 21. Orto delle erbe medicali; 22. Ingresso principale al monastero; 23. Foresteria; 24. Infermeria dei pellegrini; 25. Cappella dell’ospizio; 26. Ospizio; 27. Strutture di produzione; 28. Grangia; 29. Ingresso secondario al monastero; 30. Stalle e strutture agricole; 31. Strutture agricole di supporto, magazzini; 32. Canale artificiale proveniente dall’Amaseno; 33. Probabile area destinata all’itticoltura (secondo G.M. De Rossi).
a restar sott’acqua») allora costeggiava da vicino sul medesimo lato il sito abbaziale, anche l’ingresso principale doveva essere fra le suddette strutture (fig. 2). La Regola, inoltre, prevedeva che l’ospite venisse “accolto come Cristo stesso” e che se ne occupasse il superiore di persona. Ecco quindi giustificata la presenza della cella hospitum in prossimità della porta19. La morfologia del luogo, in ultimo, suggeriva di porre le altre strutture della grangia (granaio, fienile, stalle, cella vinaria e cella olearia) più in alto e distanziate, al sicuro in caso di incendi o alluvioni. La lettura di quel che tramanda la storia di quanto resta delle strutture di servizio della grande abbazia laziale è ad un tempo realistica e suggestiva. Necessita di conferme attraverso ulteriori approfondimenti, come lo stesso De Rossi auspica. Ma qualunque sia l’originario assetto urbanistico della grangia, nell’osservare i locali superstiti, noi non possiamo che ammirare e sottolinearne la stretta connessione architettonica con il resto dell’abbazia e con altri complessi monastici dell’Ordine. Sul canale artificiale derivato dal fiume Amaseno nel punto denominato Maraone, ove era una chiusa con mulino, sorgevano in successione lo xenodochium (infermeria dei monaci ove fu ospitato san Tommaso d’Aquino che ivi morì nel 1274), l’infermeria dei conversi (oggi adibita a sede di attività artistico-culturali), la cella hospitum, la porta principale e l’officina (il pistrinum secondo la Regola). Verticalmente al canale, sul lato occidentale, sorgeva il magazzino generale. Chiudeva il rettangolo, sul lato nord, l’ampia stalla (fig. 3). Le strutture di servizio allineate sul lato meridionale sono tutte impostate su un medesimo disegno architettonico, che viene ripetuto più volte con differenze pressoché irrilevanti: vano unico con tettoia a travatura spoglia, sorretta da robusti archi ogivali, poggianti su coni capovolti, saldati alle pareti. Lo spazio è scandito dagli archi soprastanti, che si susseguono con precisione matematica. Lo schema, adottato nella chiesa, si propaga agli altri locali, cioè l’infermeria dei monaci, il refettorio, l’infermeria dei conversi, la cella hospitum e l’officina. Unica è anche la sensazione che colpisce il visitatore. Il suo occhio corre libero in ogni direzione, senza incontrare ostacoli, e il suo animo si sente appagato da un misto di stupore, gioia, piacere estetico, originato dall’insieme di ampiezza, luminosità e armonia che regna in ogni parte (fig. 5). L’infermeria dei conversi si distingue per la sua maggiore ampiezza volumetrica, per la più intensa luce che la inonda attraverso due ordini di finestre strombate su ogni lato, per la semplice e geniale soluzione dell’economia dello spazio
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4. Il refettorio dei monaci, attualmente destinato a cappella. 5. Il corpo longitudinale della chiesa.
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6. L’infermeria dei conversi allo stato attuale. Sotto: 7. Proposta ricostruttiva del settore di produzione. 1. Piano inferiore con i macchinari idraulici; 2. Canale artificiale proveniente dall’Amaseno; 3. Canale deviatore; 4. Ambiente per le attività produttive; 5. Cappella dell’ospizio e dei pellegrini (secondo G.M. De Rossi).
Nella pagina seguente: 8. L’edificio dei magazzini allo stato attuale. 9. L’edificio della stalla allo stato attuale.
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con la creazione in basso di nicchie-comodino (fig. 6); ma tutte le altre strutture menzionate esercitano un fascino straordinario. Il disegno su descritto non è esclusivo di Fossanova, poiché lo si incontra anche nella chiesa di Fontenay, più antica di vari decenni dell’abbazia laziale, come pure nei dormitori dei monaci delle due abbazie spagnole di Poblet e di Santes Creus; ma a Fossanova esso diventa una costante, e ciò non fa che accrescere la generale suggestività del complesso (fig. 4). La foresteria (o quello che resta del complesso di edifici riservati agli ospiti, che altri chiamano grangia, magazzino, scuderia) presenta sostanzialmente i caratteri già descritti, con alcune varianti che le conferiscono una propria fisionomia. È un imponente parallelepipedo a due piani. Il piano terra che, secondo De Rossi, fungeva da ingresso principale all’abbazia, è oggi molto ribassato con tozzi pilastri e ospita un ristorante. Il piano superiore, il locale degli ospiti (oggi sede del Museo Archeologico), è anch’esso un vano unico strutturato in maniera affine a quella dell’infermeria, la cui stabilità è tuttavia assicurata non per mezzo di contrafforti bensì da una più marcata pesantezza delle masse murarie. Il ridotto numero di aperture sui lati e la creazione di due ampie finestre sulla parete di fondo creano particolari contrasti di luci ed ombre. A seguire, sul medesimo asse, leggermente spostato verso nord per motivi pratici, resta lo scheletro dell’officina. A
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giudicare dalla superstite parte in muratura e dagli arconi ancora in piedi, doveva trattarsi di un locale ampio, non inferiore alla foresteria appena descritta. Fu costruito «ex novo […], addossato alla cappella dell’ospizio, sfruttando in ciò una situazione ambientale favorevole: la cappella, vecchia costruzione benedettina, era ad un solo piano e si prestava a far passare al di sotto il canale artificiale che poteva così acquistare velocità e forza prima di cadere nella struttura adibita alla produzione». Come testimoniano «le appendici superiori dei larghi e robusti pilastri che fungevano da contrafforti e che affiorano lungo la parete meridionale dell’edificio», la struttura era costruita su due piani. In quello superiore, i conversi, e all’occorrenza i monaci, si dedicavano ai servizi legati alle necessità dell’abbazia. Nel piano inferiore funzionavano, con l’ausilio delle ruote idrauliche, i vari meccanismi adatti alla lavorazione dei metalli e dei prodotti agro-pastorali. La disposizione degli archi testimonia un’impostazione architettonica del piano superiore identica a quella dei locali esaminati (fig. 7). Di grande interesse a proposito di questa struttura è il sistema idraulico adottato per l’adduzione dell’acqua alle macchine. Esso presenta non uno ma due canali, uno di servizio e l’altro, per così dire, di scorta. Come spiega il De Rossi, «l’uno, sottopassando l’estremità sud del vecchio edificio benedettino (la cappella), proseguiva cadendo nel piano inferiore del complesso destinato alla produzione;
l’altro, deviando verso sud, fiancheggiava lo stesso complesso. È evidente che quest’ultimo braccio doveva servire come canale deviatore, nel momento in cui, per riparazioni, pulizie o quant’altro, si doveva interrompere il flusso d’acqua». L’impianto di manovra era più ad est, in prossimità della foresteria20. Degli altri locali che componevano la grangia domestica di Fossanova sono sopravvissuti, in condizioni tali però da renderne problematica l’identificazione nella forma originaria, il magazzino generale e la stalla. Il primo è situato nel settore nord-occidentale del recinto. È oggi un edificio a due piani, con scalinata esterna sulla parete orientale per accedere al piano superiore, ma presumiamo che fosse originariamente un unico spazioso capannone, adatto a custodire le varie derrate del monastero (fig. 8). Il secondo ha subìto modificazioni ancor più importanti sia all’interno che all’esterno a partire dal XV secolo. Scelto come dimora degli abati commendatari, esso passò per fasi da uno a due e a tre piani. Con il primo drastico intervento della divisione in due piani (sec. XV), venne effettuata anche l’aggiunta di un porticato lungo tutto il prospetto meridionale per ospitare la scalinata di accesso al piano superiore, con la conseguente occlusione delle feritoie che si affacciavano sul cortile. L’estremità orientale è stata sottoposta a sopraelevazioni fino alla metà del secolo XX, raggiungendo l’aspetto che viene ancora conservato21 (fig. 9).
Il turista che si reca a visitare Fossanova trova oggi una situazione ben più complessa di quella di qualche secolo fa. In effetti, oltre alle modifiche apportate agli edifici monastici e allo spostamento dell’ingresso principale nell’angolo nord-occidentale dell’ambiente abbaziale, numerose altre strutture sono sorte sul sito, mescolandosi con questi ultimi, come la monumentale fontana e la cosiddetta “spina” al centro del cortile della grangia, nonché le basse “botteghe” che legano sul lato occidentale il magazzino alla struttura di produzione. Si tratta di aggiunte operate a partire dall’inizio dell’800 quando, su disposizione di papa Pio VI, prese il via il processo di recupero del cenobio pontino caduto in abbandono; recupero che andò avanti per molti decenni, spesso per mano di persone disattente al rispetto dell’integrità stilistica del cenobio stesso. Con la mente il visitatore deve sgombrare l’area da questi elementi avventizi e concentrare gli occhi su quelli che costituivano l’abbazia nella sua purezza. Scoprirà che il quadrato riservato ai monaci e la sua grangia parlano un medesimo linguaggio architettonico e sono legati fra loro da una medesima progettazione modulare. In questi ultimi anni, nei riguardi di Fossanova c’è stato da parte di più enti un risveglio di sensibilità, che punta a riscoprirla, «capirla e rispettarla perché possa continuare a trasmettere il suo meraviglioso messaggio artistico e spirituale»22.
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I CISTERCIENSI E L’ACQUA. IL MODELLO DELLE ABBAZIE FRANCESI E SPAGNOLE Javier Pérez-Embid
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Una descrizione anonima dell’abbazia di Clairvaux, risalente al XII secolo, testimoniava l’utilità della corrente del fiume Aube per il monastero. Tale considerazione, pragmatica e mistica, si spiega col fatto che la scelta di una vita autarchica aveva obbligato i Cisterciensi a stabilirsi in zone boschive ben irrigate perché una sola fonte che placasse la sete dei monaci non bastava alle loro necessità. Occorreva canalizzare le correnti d’acqua per far girare le ruote dei mulini e mettere in azione i mantici dei martinetti, per facilitare l’igiene e rifornire i vivai di pesci che poi arricchivano la mensa. L’importanza delle risorse idriche era tale che la maggior parte degli spostamenti documentati nel primo periodo dell’ordine di Cîteaux era dettata da queste esigenze. Le diverse soluzioni, imposte dalla maggiore o minore presenza dell’acqua, hanno permesso di classificare le abbazie – per ora quelle francesi – mettendole in rapporto con questo elemento. Nelle abbazie situate su terrazze alluvionali, insistenti su un corso d’acqua di una certa portata, un incile derivava l’acqua dal fiume al monastero. Il fatto stesso di situare il monastero sulla terrazza lo poneva al riparo dalle piene. Il caso di Pontigny è esemplare: l’abbazia è situata su una terrazza, a sud del Serein, il cui capriccioso corso è soggetto d’inverno alle piene, d’estate alle secche. Una diga, la chiusa di Boy, permetteva di convogliare l’acqua sino all’abbazia, tramite un canale di 2,5 km che attraversava due pendii con ponti-acquedotto. L’acquedotto, oltre che passare dall’abbazia, azionava tre mulini, riforniva un vivaio di pesci e riportava l’acqua nell’alveo del Serein, 500 metri più in basso. Lo stesso sistema si osserva a Longuay (HauteMarne), dove i monaci, insediati su una terrazza sovrastante l’Aube, deviarono il fiume 4 km a monte dell’abbazia. Anche a Clairvaux una diga, costruita oltre Ville-sous-la
Ferté, sottraeva l’acqua all’Aube per canalizzarla fino al monastero bernardino, situato 2,8 km più a valle. Secondo la citata descriptio, l’abbondanza d’acqua ottenuta permetteva il funzionamento delle ruote del mulino e di altri impianti del complesso monastico – il mulino, il calderone per la brasserie, la gualchiera, la conceria, la cucina, il bagno e le latrine – prima di riconfluire nell’Aube, 200 m più in basso. Lo stesso modello idraulico si trova a La Charité, situata su una terrazza de La Romaine, affluente della Saona, dove l’acqua è deviata 1 km a monte del monastero. Un secondo tipo di abbazie è costituito da quelle insediate in una valle, dove il terreno pianeggiante rende più facile la costruzione di edifici, anche se l’umidità obbligava a una previa bonifica del terreno. A questo tipo di costruzioni appartengono le abbazie di Vauluisant (Yonne), Fontenay (Côte-d’Or), Auberive (Haute-Marne) e Trois-Fontaines (Marne). Un terzo tipo, meno comune, è quello delle abbazie alimentate da sorgenti, come i monasteri di Bonnefontaine (Ardenne) e Hautefontaine (Marne), nella Champagne. Hautefontaine è distante alcune centinaia di metri dalla Marna, che scorre a nord dell’abbazia a un dislivello di 18 m, cosa che impedisce di attingere l’acqua direttamente dal corso principale. I monaci furono costretti a raccoglierla da una sorgente sopra l’abbazia, che dà vita a un torrente che scorre verso sud. Bonnefontaine è situata sul pendio di uno sperone che domina due valli nelle quali si sono formati alcuni stagni. Quello che rifornisce l’abbazia, però, si trova sull’altipiano. Anche il monastero di Sittichenbach, in Sassonia-Anhalt, presenta queste caratteristiche: due cunicoli raccolgono infatti l’acqua di filtrazione, con la quale viene alimentato uno stagno e azionato un mulino. Più complesso il caso dell’abbazia di Cîteaux. Quando
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1. Il vivaio di pesci e il mulino di Pontigny. 2. L’abbazia di Blandecques con i suoi mulini verso il 1460, disegno colorato su carta. Saint Omer, Bibliothèque Municipale, ms. 1489.
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Roberto di Molesmes e i suoi dieci compagni nel 1098 decisero di stabilirsi a La-Petite-Forgeotte, nei pressi del torrente Coindon, non trovarono acqua a sufficienza e furono costretti a spostarsi 2,5 km più a valle alla confluenza del Coindon con la Vouge. Nel 1206, i monaci aprirono un canale dalla Vouge, 4 km a ovest del monastero. Ma nel 1212 il canale era già diventato insufficiente e i monaci deviarono il Sansfond da Saulon-la-Chapelle, 10 km a nord dell’abbazia. I monaci costruirono anche un ponte-acquedotto, il ponte degli Arvaux, per ovviare al dislivello di 5 m dovuto al corso della Varaude. Solo nel 1221 il canale del Sansfond raggiunse il monastero, con un dislivello, all’altezza del muro abbaziale, di 9 m rispetto alla Vouge. All’acqua, ormai incanalata e giunta entro la cinta monastica, venivano assegnati compiti diversi. Le diverse esigenze (igieniche, di acqua potabile, di produzione di energia) definirono un preciso circuito idraulico all’interno del monastero. Di questi circuiti, il primo che sia stato studiato è quello di Fontenay. Nella diga che divide la valle, deviando il torrente verso sud, vennero costruiti due canali per far
affluire l’acqua in un collettore che attraversava l’abbazia da est a ovest, passando sotto la sala dei monaci e l’edificio dei conversi. Le latrine, probabilmente, si trovavano sotto questo sbocco. Due canalizzazioni secondarie, più piccole, portavano al collettore centrale l’acqua usata nei vari edifici, in particolare quella della fontana del chiostro, quella piovana e quelle di infiltrazione, che avevano la funzione di prosciugare e drenare. A sud dell’abbazia, anche il canale che azionava le ruote della fucina serviva da collettore, e in esso convergevano altri due condotti che raccoglievano l’acqua del cortile del chiostro. Lo stesso sistema si trova nelle abbazie di Trois-Fontaines, Cîteaux, Morimond e Auberive. Nella prima l’acqua veniva raccolta in un grande deposito e un collettore coperto la trasportava sotto la sala dei conversi, la cucina, il refettorio e la sala capitolare. Altre canalizzazioni, ora in disuso, facevano confluire in questo condotto le acque delle latrine e quelle piovane. Quanto all’acqua potabile – per bere, cucinare, per le abluzioni rituali –, proveniva dalla fontana del chiostro. A Fontenay, un condotto nella parte inferiore della diga che sbarra la Combe-Saint-Bernard riforniva un piccolo canale
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3. Un canale per l’adduzione dell’acqua a Obazine.
a cielo aperto dal quale una presa attingeva l’acqua portandola, per mezzo di una canalizzazione di terracotta, sotto la chiesa e il chiostro, fino alla fontana del braccio meridionale. Il dislivello permetteva all’acqua di cadere fino alla pila. Altra acqua proveniva da una sorgente, scoperta a sud della valle, chiamata Fontaine-Ferrée. I condotti di terracotta trovati nel territorio di Trois-Fontaines servivano per convogliarne l’acqua alla fontana del chiostro. È possibile, come a Maubuisson in Val d’Oise, o a Christchurch a Canterbury, che quest’ultima distribuisse l’acqua nelle varie parti dell’abbazia attraverso canali di piombo, terracotta o legno. Alla fine, si può dire che le tecniche usate dai Cisterciensi non sono molto diverse da quelle usate dagli altri ordini religiosi dell’epoca. Ciò che distingue i monaci bianchi è la presenza, all’interno del perimetro abbaziale, di edifici industriali capaci di utilizzare energia idraulica. La navata allungata di questi fabbricati ospitava numerose sale – una più alta delle altre – comunicanti fra loro, e l’acqua, scorrendo lungo uno dei muri, metteva in moto le ruote. Erano mulini per macinare il grano o per lavorare il ferro. I mulini sono lo strumento principale per utilizzare l’energia idraulica e i Cisterciensi non mancarono di adottarlo nel corso del XII e del XIII secolo. La maggior parte dei mulini veniva costruita direttamente sul letto di piccoli corsi d’acqua, un espediente che permetteva una facile gestione, ma i Cisterciensi preferivano costruirli su deviazioni, anche piccole, dei corsi d’acqua. Spesso i mulini venivano costruiti dentro gli stessi canali che rifornivano l’abbazia, come a Pontigny. Un’altra modalità, riscontrata nella Champagne e nella Franca Contea, è quella di costruire i mulini vicino a uno stagno. In questi casi la caduta dell’acqua faceva muovere le ruote dal di sotto (per esempio a Cîteaux, Maizières, La Bussière, Acey) o dal di sopra (come a Pontigny). Si sa che lo scopo principale dei mulini era quello di produrre farina, anche se sono meno noti i dettagli del meccanismo e la produttività reale. Ma la follatura delle stoffe e la macinatura delle sostanze tintorie è ben documentata nell’abbazia di Vauluisant e, in genere, durante il XIII secolo, in tutte quelle della Borgogna e della Champagne. Gli studi di P. Benoît su Fontenay hanno dimostrato in che modo i mulini venissero utilizzati per le fucine: un canale scorreva all’interno di un vasto edificio permettendo di azionare varie ruote sfruttando una pendenza di 2,6 m. Le ruote mettevano in movimento il martello che lavorava il ferro proveniente dalle miniere vicine all’abbazia. Per quanto i documenti dimostrino la presenza di molte fornaci nelle abbazie dell’Est della Francia, in pochi casi si può affer-
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4. Il sistema idraulico di Reigny.
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mare con certezza che fossero azionate dalla forza motrice dell’acqua, come indicherebbe la presenza di scorie intorno ai mulini. L’acqua veniva infine usata per la piscicoltura, dal momento che i Cisterciensi seguivano una dieta alimentare nella quale la carne era vietata. Gli stagni, disposti topograficamente sopra il livello dell’abbazia, servivano sia per arginare la piena dei fiumi (salvando il monastero dalle inondazioni), sia per assicurare il rifornimento durante i periodi di siccità, ma anche per la piscicoltura di quelle specie che venivano poi servite nei refettori. Sotto questo aspetto Cîteaux è un esempio. Possedeva 23 stagni, tutti creati fra il XII e il XIV secolo; molti venivano riforniti da piccoli corsi
d’acqua e, secondo testi del XIV secolo, ognuno aveva una destinazione: la riproduzione avveniva nello stagno di La Saule, carpe, saraghi e lucci venivano fatti crescere in quello di Millot e, quando raggiungevano una taglia sufficientemente grande, venivano immessi nel lago più grande, sopra l’abbazia; lì venivano pescati. In un mercato a 20 km veniva venduto il pesce non utilizzato dalla comunità. Nella Penisola Iberica il rapporto dei Cisterciensi con l’acqua fu sempre contrassegnato dalla penuria, più che dall’abbondanza. Alla vecchia catalogazione delle abbazie spagnole, redatta con criteri topografici da M. Cocheril nel 1964, se ne potrebbe sostituire un’altra basata sulla loro
maggiore o minore prossimità ai corsi d’acqua: a) quelle situate sulle sponde dei grandi fiumi – il Miño-Sil, il Duero e l’Ebro – o dei loro affluenti dal corso regolare (Palazuelos, Valbuena, Piedra o Rueda); b) quelle situate su sponde o argini di un fiume meno ricco (La Espina, Bujedo de Juarros, Iranzu, Poblet...); c) quelle che ebbero la necessità di attingere acqua supplementare anche da sorgenti, data la loro relativa lontananza dai corsi d’acqua (esempio tipico: Carracedo). Ma la storia rurale, che ha così ben documentato gli usi agricoli dell’acqua – la costruzione e la gestione di mulini, il ricorso (spesso ad essi associato) alla pesca, lo sviluppo (più sistematico in Aragona) dell’irrigazione –, non è stata
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5. L’iscrizione ACQUE DUCTUS posta su una parete della chiesa di Alcobaça per indicare l’ubicazione delle condutture sotterranee.
molto sostenuta dalla ricerca archeologica. La semplice prospezione permette di intuire l’enorme sforzo fatto dai Cisterciensi per rintracciare risorse idriche all’interno della Spagna arida e per sfruttare i dislivelli del terreno per imbrigliare l’acqua. La topografia e la toponomastica indicano la grande portata delle prese d’acqua che dovettero realizzare sul Tago e sui suoi affluenti i monasteri di Ovila, Monsalud e Valdeiglesias. Quest’ultimo caso è emblematico riguardo alle dispute fra i Cisterciensi e i contadini per il rifornimento dell’acqua. Gli eremiti che abitavano nella valle di San Martín de Valdeiglesias, a ovest del monte Gredos, verso la metà del XII secolo – insieme a un gruppo di monaci di origine francese – furono costretti a trasferirsi alcuni chilometri più in alto, sulla riva dell’Alberche. Il ragguardevole dislivello del loro insediamento rispetto al fiume dovette esigere che la comunità, già nel XII secolo, realizzasse un invaso di tale capacità da dare al luogo il nome di San Juan Bautista. La valorizzazione che ne seguì, grazie ai mulini, generò tuttavia nei due secoli successivi cespiti di rendita che avrebbero dato origine a continue dispute con il vicino villaggio di Pelayos. Nel 1165 sotto la protezione del re Alfonso VIII una comunità si stabilì a Monsalud, più prossima alle sorgenti del Tago, sulle alture alla sua confluenza con il Guadiela – allora confine con i musulmani di Cuenca. La toponomastica sembra far riferimento a un iniziale approvvigionamento da qualcuna delle sorgenti della zona, dato che la situazio-
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ne bellica impediva l’utilizzo dei fiumi che scorrevano al di sotto della quota del monastero. Quindici anni più tardi, con la sicurezza conseguente alla conquista della città, alcuni monaci provenienti da Boulbonne si stabilirono a Murel (l’odierna Carrascosa), nell’alto Tago. Utilizzarono un ponte romano a quattro luci per vari usi idraulici (chiusa, mulini e piscicoltura), sistema che replicarono anche alcune anse più a valle, a Ovila, dove si trasferirono nel 1181 per edificare l’abbazia. Vari anni più tardi, questo ramo del fiume sarà loro concesso dal re come confine fluviale. L’attuale costruzione della centrale nucleare di Trillo nelle immediate vicinanze testimonia dell’eccezionale interesse idrico dell’area. In questi tre casi, l’archeologia dovrà fare i conti con la distruzione dei resti medievali dovuta alla realizzazione nel XX secolo, nei pressi dei monasteri, di prese d’acqua e invasi che figurano tra quelli con la maggiore capacità della Penisola Iberica. Più che i problemi di approvvigionamento, l’archeologia ha rivelato nel monastero di Huerta, sulla medesima sponda del Jalón (affluente dell’Ebro), il sistema di distribuzione e di smaltimento. Qui i Cisterciensi si trasferirono nel 1162 dal loro originario insediamento a Cántabos, dove erano rimasti per vent’anni. Stabiliti su una fertile terrazza fluviale molto incassata – la Orta –, era di primaria importanza difendersi dalle improvvise piene dovute a tormente e rovesci ed evitare l’inondazione. Così, tutta la cinta monastica era ed è circondata da un grande
6. Condutture di scolo in pietra a Reigny.
condotto, il cui scopo fondamentale è il controllo del livello freatico. La rete di distribuzione individuata nel chiostro e nel nartece era formata da tubazioni ceramiche incastrate l’una nell’altra, e lo smaltimento delle acque residue avveniva attraverso cassoni in pietra con coperchio, rinvenuti in cucina, nel chiostro e nei granai. Il trasferimento di una comunità in un sito più favorevole dal punto di vista idraulico si può constatare nel monastero di Rueda a valle dell’Ebro, dove nel 1202 si traferirono i Cisterciensi che dal 1166 erano insediati a La Juncería, sulle sponde del Gállego. Del monastero che costruirono, la cui chiesa fu consacrata nel 1238, rimangono i resti della noria, gli acquedotti, la cisterna del chiostro e alcuni canali di pietra. La noria, una ruota di 16 m di diametro, che dà il nome al monastero, innalzava l’acqua del fiume per portarla alla comunità. L’impianto era completato da una presa d’acqua costruita dai monaci, da cui partiva un canale nel quale le pale di legno della noria prendevano l’acqua per trasferirla all’acquedotto che, a sua volta, riforniva le varie dipendenze monastiche. Di quella ruota, ora restaurata, erano rimasti solo i pilastri di sostegno in pietra squadrata. Collegato a questa struttura – come in altri impianti simili che si trovano nei dintorni (evidentemente posteriori) – c’era un mulino per la farina azionato dalla forza dell’acqua generata dalle pale di legno. L’acquedotto (restaurato nel 2003), in blocchi di pietra tagliati a mano che poggiano su archi ogivali, sostiene un canale che entrava negli edifici
del monastero. In qualche tratto a cielo aperto, altrove sotterranea, l’acqua giungeva sino alla foresteria, scorreva intorno alla chiesa, entrava nel calefactorium o sala di lavoro, raggiungeva il lavabo. Qui riempiva la fontana del chiostro, l’unico luogo dove i monaci potevano disporre di acqua pulita. Poi, il canale dell’acquedotto si sdoppiava per raccogliere le acque di scarico e delle latrine. Nella Penisola Iberica occidentale, il primo monastero del quale è stata studiata la rete idrica è quello portoghese di Alcobaça. Dapprima il monastero si riforniva direttamente da un pozzo o da una fonte all’interno delle mura, sinché la sua insufficienza obbligò i monaci a costruire una canalizzazione per attingere l’acqua da una sorgente situata a 3,5 km, a Chiqueda de Cima. Per le molte attività che richiedevano una maggiore quantità di acqua – scarico delle latrine, irrigazione, fucine, mulini – fu deviato il flusso dell’Alcoa attraverso un canale parallelo al fiume, che costeggia a est l’edificio medievale. Poiché il livello del fiume nelle adiacenze del monastero è più basso, la deviazione dovette essere realizzata 1,5 km a monte; a tal fine fu eretta una diga di grandi blocchi di pietra sull’Alcoa. Nel corso dei secoli XIV e XV sono documentati l’apertura da parte dei monaci di tutta una serie di canali per l’irrigazione dei campi, nonché lavori di bonifica dei corsi d’acqua e la costruzione degli argini della vicina laguna di Pederneira. In Spagna le prime informazioni sulla rete interna di distribuzione ci sono giunte con gli scavi del cenobio leonese di
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Carracedo, nel 1989. Questi scavi riportarono alla luce la rete di rifornimento medievale, anteriore a quella del XVI secolo, della quale si riuscì a ricostruire il tracciato generale. Probabilmente prima della riforma del monastero da parte di Cîteaux nel 1203, i monaci avevano profittato del potenziale idrico sotterraneo dei terreni alluvionali su cui si erano stabiliti. A questo scopo sistemarono una sorgente naturale o una fonte situata sopra il livello del monastero, su El Teso – che pare fosse loro sufficiente –, e la ricoprirono con una costruzione (8 x 6 m), per evitare le infiltrazioni di impurità e difenderla dagli smottamenti. Dalla sorgente l’acqua veniva trasportata a cielo aperto, lungo un percorso di 288 m, fino al muro esterno della sala capitolare. Lo si può definire un “canale su muro”, tagliato in blocchi di granito (100 x 50 x 30 cm), che veniva coperto con lastre di ardesia e nel cui tratto finale si aprivano due fori ovali e un “tombino con sifone” (84 x 84 x 26 cm), in granito, che serviva per evitare l’eccessiva pressione dell’acqua. Attraverso tubazioni ceramiche, l’acqua arrivava in altri luoghi del monastero, per esempio al lavabo situato di fronte alla porta del refettorio, in un vano incorniciato da una modanatura lineare: si tratta di una pozza rettangolare (90 x 70 x 20 cm) realizzata con ciottoli arrotondati e lastre di ardesia e disposta sopra la cloaca, alla quale l’acqua giungeva per infiltrazione. Anche il sistema di smaltimento si otteneva per mezzo di tubi ceramici, mediante un collettore generale che riceveva acqua dalla fontana al centro del chiostro e da altre ramificazioni minori, si dirigeva alla cucina e usciva, a sud, verso i terreni coltivati. Quesi tubi erano canalizzati entro gallerie scavate nel suolo, coperte in ardesia ad arco depresso; il tratto della galleria sud era coperto con volta a botte a tutto sesto. Senza allontanarci dalla Spagna umida, nel 1994, prima di iniziare il restauro del monastero di Valdediós, nelle Asturie, fu allestito uno scavo che riportò alla luce le fondamenta del lavabo e una parte delle latrine del XVII secolo.
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Ma lo scavo più importante di un monastero circiestense è stato fatto nell’ultimo decennio più a sud, a Moreruela, in terra di Zamora, già nella Spagna arida, dove è venuto alla luce un sistema idraulico simile a quello di Carracedo. Questo scavo ha permesso di scoprire aspetti importanti del sistema di smaltimento, anche se della rete di distribuzione non ci è giunto molto e del condotto di rifornimento è rimasto solo il solco. Il cenobio era situato su un terreno alluvionale relativamente poco stabile e circondato da sorgenti, una delle quali fu adattata a fonte, a sud-est del “chiostro della foresteria”. Ma la presa d’acqua principale fu collocata sul torrente La Laguna, che con approssimata direzione est-ovest circonda il monastero per poi sfociare sulla sponda sinistra dell’Esla, a circa 1,8 km a nord-ovest. Le acque di questo ruscello vennero imbrigliate in un canale che serviva sia per il rifornimento di acqua pulita sia per lo smaltimento degli scarichi della cucina e delle latrine. Dentro al monastero questo canale corre dalla sala capitolare fino alla chiesa – attraversandola da sud a nord – poi, verso ovest, si dirige alla cucina. Non sappiamo se confluisse nel collettore principale o se prima rifornisse la fucina, nell’ala nord del chiostro della foresteria. Le due reti di smaltimento, quella che serviva il chiostro principale e gli edifici annessi, e quella del chiosto della foresteria (entrambe in uso fino al 1835), confluivano nel collettore principale, che corre da est a ovest nella parte settentrionale dell’abbazia, per poi attraversare il muro di pietra che delimita a ovest lo spazio claustrale e sfociare in un piccolo alveo artificiale lungo circa 70 m che riversava l’acqua nel torrente La Laguna. Ricapitolando, possiamo dire che l’archeologia dovrà scoprire ancora molto sui sistemi idraulici che i Cisterciensi adottarono nei loro 76 monasteri iberici. E questo, senza contare le comunità femminili, nelle quali il fabbisogno di acqua era circoscritto all’uso domestico, più che a quello agricolo o industriale.
LA SIDERURGIA CISTERCIENSE Denis Cailleaux
I monaci del primo Medioevo erano interessati al ferro solo per i diritti o le tasse che potevano prelevare sulla sua produzione e la sua trasformazione. Le “decime” che percepivano sulle fucine e sulle botteghe degli artigiani procuravano loro i lingotti di metallo, i vomeri per l’aratro e gli attrezzi necessari alle loro attività. I monaci bianchi di Cîteaux fecero un’altra scelta, producendo essi stessi il ferro per i loro attrezzi o quello necessario per la costruzione dei loro edifici. Con l’utilizzo dei nuovi strumenti che permettevano di meccanizzare una parte del lavoro razionalizzando la produzione del metallo, i Cisterciensi fabbricavano molto più ferro di quello di cui avevano bisogno. A partire dal XII secolo erano in grado di vendere una parte della loro produzione e, due secoli più tardi, quando l’abbazia de La Charité fece riconoscere i diritti che le spettavano nella foresta di Bellesvevre, era assodato da tempo che i monaci potevano «fare ferro nella loro fonderia de La Charité per i loro usi, per l’uso nelle loro grange, per venderlo, per donarlo, per la loro buona volontà e il loro profitto…». I Cisterciensi si interessarono alla produzione del ferro fin dai primi anni della storia dell’Ordine e le abbazie più antiche, come Pontigny e Vauluisant, si dedicarono all’estrazione del minerale prima della metà del XII secolo. Nella seconda metà del XII secolo e in quello successivo furono imitate da numerose abbazie cisterciensi in Borgogna, Champagne, Franca Contea, Berry, Normandia, Bretagna e Lorena. Le comunità dell’Ordine insediate in Germania, in Belgio o in Inghilterra, quando si trovavano in un ambiente naturale favorevole, intrapresero anch’esse questa produzione. All’inizio del XIII secolo, in diverse regioni, i Cisterciensi erano diventati specialisti della metallurgia del ferro e alcuni grandi signori, come il vescovo di Langres o il duca di Borgogna, si associarono a loro per aprire nuove
fucine e sfruttarle. Tuttavia, questo periodo fu anche quello delle prime difficoltà perché alcune comunità di villaggio e alcune associazioni di mastri ferrai contestavano ai monaci il diritto di sfruttare le miniere e commercializzare i prodotti delle loro fucine. Anche i discendenti dei benefattori aristocratici che avevano donato le terre, spesso abbandonate, che i Cisterciensi avevano reso profittevoli sfruttandone le risorse minerarie, aprirono contenziosi con i monaci per ricuperare una parte del profitto. In Francia, la crisi della metà del XIV secolo diede un duro colpo all’economia cisterciense e l’attività siderurgica cessò in numerose abbazie. In altri luoghi, la crisi di reclutamento di conversi, le difficoltà economiche o l’insicurezza conseguenti a inquiete situazioni militari o politiche portarono, in momenti diversi secondo i Paesi, al declino delle fucine cisterciensi. Per produrre il metallo di cui avevano bisogno, i Cisterciensi dovevano innanzitutto disporre di giacimenti di minerale e di legna da ardere in notevoli quantità. Per questo ottennero dai loro benefattori la donazione in piena proprietà di foreste e di terre ricche di “miniere di ferro” o anche soltanto la concessione dei diritti d’uso su territori dove potevano estrarre il minerale e scaldare le loro fornaci. I cartulari di una quindicina di abbazie, per lo più localizzate nella Borgogna settentrionale e nella Champagne meridionale, riferiscono di simili donazioni o, a volte, di acquisti. Per esempio, a partire dal 1143, Pontigny poteva estrarre del minerale di ferro dalla foresta di Othe, prossima al monastero. Alcune abbazie, come Clairvaux, si assicurarono proprietà lontane per sviluppare la loro siderurgia. Nel 1157, l’abbazia di san Bernardo entrò in possesso di una fucina – e dei diritti d’uso necessari per rifornirla di minerale e di legna – situata a Wassy, in Champagne, a una cinquan-
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1. Fontenay. Ricostruzione della ruota a pale del mulino da ferro sul canale esterno della fucina. Realizzata secondo modelli medievali, la ruota muove un albero munito di camme che aziona il martello. 2. Fontenay. Martello e incudine del mulino da ferro ricostruito nel 2007 nella fucina.
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3. Fontenay. La sala dei camini della fucina. Due camini servivano per riscaldare il metallo prima di posizionarlo sotto al martinetto per produrre lingotti di ferro o utensili. A fronte: 4. Fontenay. Facciata dell’edificio della fucina, sul lato dell’abbazia. Nella pagina seguente: 5. Fontenay. La grande sala della fucina offriva un vasto spazio di lavoro dove potevano essere depositati i prodotti finiti, le riserve di metallo e il combustibile per i focolari della stanza vicina.
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tina di chilometri dal monastero. A partire dal 1168, Clairvaux sviluppò ancor più le sue attività siderurgiche grazie a un’altra fucina realizzata nella foresta de La Chaume, nella parte meridionale dell’attuale dipartimento della Haute-Marne. In questa stessa foresta i Cisterciensi di Longuay possedevano già una fucina e quelli di Auberive ne disponevano di un’altra a partire dal 1169. I monaci bianchi hanno spesso sfruttato giacimenti superficiali, come a Wassy o nella foresta di Othe, dove il minerale era facilmente accessibile. I minatori vuotavano delle fosse, di cui resta traccia nei documenti, o scavavano pozzi poco profondi. L’inventario degli attrezzi dei minatori che lavoravano per l’abbazia di Cherlieu nel 1349 mostra che l’equipaggiamento era semplice: pale, picconi, forche… Nella grangia di Pontigny, nel villaggio di Sévy, i lavoratori possedevano delle corde per scendere nei pozzi della miniera. Nel 1316 furono tagliate dai contadini in rivolta che volevano ostacolare il lavoro minerario dei monaci. Nel 1980 la scoperta di una miniera di ferro sotterranea sul sito delle “Munières”, nei boschi sovrastanti l’abbazia di
Fontenay, in Borgogna, ha permesso di comprendere meglio lo sfruttamento del ferro da parte dei monaci. Gli archeologi hanno potuto stabilire la natura del giacimento e la composizione del minerale, ma anche le condizioni di lavoro nella miniera. Il minerale estratto dalle Munières a Fontenay, dalla foresta di Othe o dai boschi de La Chaume veniva trasportato a poca distanza per essere ridotto in bassi fuochi costruiti in prossimità delle cataste di carbone di legna che fornivano il combustibile necessario all’operazione. Con il procedimento per riduzione diretta usato fino al XIV secolo, il minerale di ferro veniva posto in strati alternati con il carbone di legna in un forno di argilla, sormontato da un camino e munito di ugelli. Per mezzo di mantici azionati a mano o con i piedi il forno veniva ventilato. Quando si raggiungeva la temperatura di fusione, verso i 1300° C, il metallo andava a formare una massa pastosa e spugnosa, chiamata “blumo”, che si depositava sul fondo del focolare. Quando si perforava il forno, i residui della fusione (comprendenti minerale, carbone di legna, frammenti del-
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RAFFIGURAZIONI DI CISTERCIENSI E DI SAN BERNARDO NELL’ARTE MEDIEVALE James France
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le pareti del forno…) defluivano sull’area di riscaldamento, formando dei cordoni di “scorie” che si possono trovare in grande quantità sugli antichi siti siderurgici. I mastri ferrai, che erano conversi o operai salariati, portavano poi alla fucina della vicina grangia o dell’abbazia i “blumi” di ferro per lavorarli a caldo. Il blumo era una massa di metallo mescolato a diverse scorie e residui che era necessario riscaldare e battere per spurgarlo dagli elementi indesiderati e dare così al ferro la coesione necessaria per la fabbricazione di oggetti. I Cisterciensi furono i primi a “meccanizzare” questo stadio del lavoro siderurgico utilizzando dei “mulini da ferro” chiamati anche “martinetti”. Questo strumento era composto da una ruota (fig. 1) che azionava un albero a camme che sollevava un pesante martello (fig. 2). Liberato dalla camma, questo ricadeva per effetto del suo peso e batteva il blumo, riscaldato in un camino vicino (fig. 3) e posizionato sotto di esso. Nel 2007, nell’abbazia di Fontenay in Borgogna, è stato ricostruito un martinetto medievale sulla base delle informazioni archeologiche e di antichi trattati tecnici. I martinetti venivano usati in alcune abbazie cisterciensi a partire dalla seconda metà del XII se-
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colo. Clairvaux aveva probabilmente a disposizione tale macchina già nel 1135, quando era abate san Bernardo. In Inghilterra, gli scavi nell’abbazia di Bordesley hanno portato alla luce le strutture di legno di un mulino idraulico della fine del XII secolo che azionava un martinetto di quel genere. In Borgogna, a Fontenay, a Fontaine-Jean, a La Bussière, a Morimond e in altre abbazie francesi e nel resto dell’Europa, come Villers in Brabante, edifici costruiti alla fine del XII secolo o nei primi decenni del secolo successivo erano sicuramente destinati ad accogliere i macchinari di questi “mulini da ferro”. I Cisterciensi modificarono notevolmente le pratiche tradizionali di lavorazione del ferro. In qualche decennio, nella seconda metà del XII secolo, passarono dall’artigianato all’industria, producendo quantità considerevoli, migliorando la qualità e creando dei circuiti di distribuzione. Utilizzando nuovi attrezzi, trasformarono anche lo spazio di lavoro, costruendo edifici concepiti appositamente per una produzione siderurgica di massa. L’edificio della “fucina” dell’abbazia di Fontenay (figg. 4-5) in Borgogna è l’unico conservatosi nel suo stato medievale, ma costruzioni simili sono esistite in numerose altre abbazie.
Una copia riccamente miniata dei Moralia in Job di san Gregorio fu eseguita a Cîteaux nel 1111 circa, solo tredici anni dopo la fondazione dell’abbazia. Da tempo è stato riconosciuto il valore artistico delle miniature dei Moralia; l’eminente storico dell’arte Arthur Kingsley Porter le ha definite «uno dei principali tesori dell’Europa». È degno di nota che le miniature sembrano essere state opera di un unico artista, forse – è possibile ma non provato – dell’abate stesso, Stefano Harding. Si è addirittura avanzata l’ipotesi che questi possa essere il monaco prostrato ai piedi dell’angelo che forma la coda della iniziale Q(uamvis) (fig. 1). La parte centrale della lettera iniziale è ingegnosamente formata dal corpo dell’angelo a sinistra e da un’ala a destra. Oltre al loro valore artistico, queste miniature sono una ricca miniera di informazioni sulle condizioni spirituali e materiali dei primi anni di Cîteaux. Illustrano il primo fra tutti i libri cisterciensi conservatisi, il cui possesso era requisito essenziale per tutte le comunità monastiche. Precedono anche le fonti architettoniche, archeologiche e letterarie cisterciensi; l’Exordium Parvum e l’Exordium Cistercii sono stati infatti scritti più di un decennio dopo. Le prime fonti esterne all’Ordine furono Guglielmo di Malmesbury, che ha scritto nella seconda decade del XII secolo, e Orderico Vitale, circa dieci anni dopo. La Vita prima, più tardi, minimizzerà l’importanza di Cîteaux per sottolineare il ruolo di Bernardo nella successiva espansione dell’Ordine. I libri dei Moralia presentano immagini di monaci e di novizi al lavoro e scene di lotte umane, animali e di mostri. Una delle scene di violenza che coinvolge degli ibridi è di particolare interesse poiché uno dei combattenti ha la tonsura e rappresenta quindi un monaco (fig. 2). La parte superiore curva dell’iniziale P che apre il libro 23 è formata da un grande drago rosso che azzanna un centauro; la sua
parte superiore umana è un monaco che si difende tenendo per la gola il drago e brandendo la spada con la quale sta per ucciderlo. La scena rappresenta una violenta lotta fra le forze del male e la condizione ibrida dell’uomo caduto. Il monaco-artista ha attinto dalla sua esperienza ambientando nel chiostro lo scontro tra la persona del monaco imperfetto e il diavolo, un tema familiare sia alla letteratura degli Exempla sia all’iconografia cisterciense. Si possono trovare analoghe immagini di lotta spirituale anche sotto forma di sculture, per esempio nel chiostro trecentesco di Villelongue nel Sud della Francia. Al centro di un capitello vi è la testa di un leone che afferra con la bocca le code di due grifoni alati, uno dei quali ha le sembianze di un monaco con il cappuccio tirato sulla testa (fig. 3). Le scene di vita quotidiana dei Moralia sono forse fra le immagini cisterciensi più note. Offrono una visione unica della vita a Cîteaux negli anni della formazione e rivelano alcuni tratti caratteristici del movimento di riforma cisterciense. Mostrano la varietà di occupazioni dei monaci sottolineando l’importanza data al lavoro manuale considerato un mezzo di sussistenza e, insieme, la via per la salvezza. Non è una coincidenza che tre delle scene di lavoro mostrino dei monaci che stanno abbattendo alberi. Sebbene spesso sia stato detto che erano costruiti nel “deserto”, i monasteri cisterciensi sorgevano per lo più ai margini di territori già insediati e non in aree totalmente incolte. Secondo Orderico Vitale «essi avevano costruito i monasteri con le loro mani in solitari luoghi boscosi» e la necessità di disboscare è ampiamente illustrata da queste immagini. Due scene erano inserite in altrettante iniziali Q, dove la coda è formata da tronchi di alberi abbattuti. La terza è forse la più famosa di tutte le immagini cisterciensi. La grande iniziale I è formata da un albero ai piedi del quale vi
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1. Iniziale del Libro 11, Moralia in Job. Dijon, Bibliothèque municipale, MS 170, f. 6v. 2. Iniziale del Libro 23, Moralia in Job. Dijon, Bibliothèque municipale, MS 173, f. 56r. 3. Scultura dell’ibrido di un monaco nel chiostro di Villelongue (Francia).
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A fronte: 4. Iniziale del Libro 21, Moralia in Job. Dijon, Bibliothèque municipale, MS 173, f. 41r.
Nelle due pagine seguenti: 5. Iniziale dei Gradi dell’umiltà e della superbia. Douai, Bibliothèque municipale 372, f. 100r. 6. San Bernardo in un Messale datato al 1175-6. Zwettl, Siftsbibliothek, MS 194, f. 3r.
è un monaco con un abito consunto simile a quelli portati dai monaci nelle altre scene (fig. 4). Mentre egli sta colpendo il tronco con la sua ascia, il lavoro più leggero ma più pericoloso di taglio dei rami è eseguito da un giovane elegantemente vestito in cima all’albero. Il suo abbigliamento suggerisce che sia un giovane nobile, mettendo così in evidenza l’origine aristocratica della maggioranza dei primi monaci. Potrebbe quindi essere uno dei primi novizi; il loro abito distintivo fu infatti introdotto più tardi, nel XII secolo. Forse rappresenta l’orgoglio, l’orgoglio prima di una caduta, che sta per essere infranto grazie all’umiltà del monaco con il suo abito a brandelli. La superiorità del monaco sul più giovane rivela un senso dell’umorismo che l’artista esprime anche nelle altre scene. Nessuna delle illustrazioni dei Moralia riproduce i fratelli laici. Non sappiamo quando venne introdotta nella vita cisterciense l’istituzione dei fratelli laici, sebbene l’Exordium Parvum – scritto un decennio dopo che furono dipinte le miniature – riveli che questo avvenne solo dopo che i monaci si resero conto di non essere in grado di portare a termine da soli tutto il lavoro. La questione è se l’assenza di immagini dei fratelli laici significa che essi vennero introdotti dopo il 1111. Alcune delle testimonianze contenute in queste immagini non sono disponibili in nessun’altra fonte; esse in parte confermano i dati forniti dal materiale letterario e archeologico, in parte contraddicono ciò che si pensava in precedenza. Per esempio la qualità artistica del lavoro ci dice che Cîteaux non era sull’orlo del collasso prima dell’arrivo di Bernardo, come suggerisce la sua biografia; al contrario, dimostra un certo grado di benessere materiale. Il monaco ritratto nell’iniziale Q(uamvis), prostrato davanti all’angelo, è chiaramente rivestito della tonaca bianca da cui i Cisterciensi ricevettero il loro nome di “monaci bianchi” a differenza dei Benedettini “neri”. Questa dovrebbe essere la più antica dimostrazione dell’adozione dell’abito bianco da parte dei Cisterciensi, precedente alla prima testimonianza letteraria in una lettera di Pietro il Venerabile a Bernardo scritta nei primi anni 1120. L’esuberanza che caratterizzava le prime miniature di Cîteaux ebbe vita breve. Sotto l’influenza di Bernardo i simboli astratti sostituirono le rappresentazioni figurative come aiuto alla contemplazione. La celebre diatriba di Bernardo esposta nella sua Apologia è stata vista tradizionalmente in funzione delle sculture del chiostro cluniacense, ma potrebbe essersi riferita anche alle miniature di
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Cîteaux. In base ad essa, ambedue i tipi di decorazione erano inappropriati per i monaci a causa della loro stravaganza e della distrazione che causavano. Secondo Bernardo l’immaginario visivo era in contrasto con una spiritualità caratterizzata dalla semplicità e dalla meditazione. Da allora modelli geometrici e intrecci furono usati per ornare le modeste iniziali dei loro manoscritti, così come i mensoloni, i capitelli e le vetrate a grisaille delle loro chiese divennero caratteristici dell’immaginario cisterciense. Quando uno dei discepoli di Bernardo, Raynard de Bar, successe a Stefano Harding come abate di Cîteaux, la politica di moderazione di Bernardo si estese anche a questo monastero e a tutto l’Ordine. D’ora in poi le iniziali dei manoscritti dovevano essere di un solo colore, prive di raffigurazioni pittoriche, e le vetrate dovevano essere chiare. Per alcuni decenni i manoscritti cisterciensi furono contraddistinti dalla sobrietà e dalla mancanza di decorazione, secondo quello che Zaluska ha descritto come «stile monocromo». Di conseguenza, la prima immagine conosciuta di Bernardo – e l’unica miniatura di manoscritto creata durante la sua vita – non è né cisterciense né francese. Come opportuno, il Santo è ritratto nella iniziale R di un manoscritto del suo primo trattato, I gradi dell’umiltà e della superbia, realizzato nel 1119 e copiato nell’abbazia benedettina di Saint Augustine a Canterbury prima del 1135. Due note immagini di Bernardo nascono nel periodo fra la sua morte nel 1153 e la sua canonizzazione nel 1174. Ambedue provengono dall’abbazia benedettina francese di Anchin, che fornisce un’ulteriore prova dell’ampia diffusione degli scritti di Bernardo al di fuori dell’ordine cisterciense. Una di esse si trova nella più antica raccolta delle sue opere realizzata intorno al 1165, poco più di un decennio dopo la sua morte (fig. 5). Vi è compresa anche un’altra copia dei Gradi dell’umiltà e della superbia, che inizia con la grande iniziale I che rappresenta la scala di Giacobbe, un fragile legame su cui gli angeli di Dio salgono e scendono e che ricorda che la fede è un impegno rischioso. Conforme al nucleo centrale dell’insegnamento di Benedetto – espresso nel Prologo della sua Regola – definisce il monastero una «scuola che insegni a servire il Signore» e il paradiso è la ricompensa del lungo apprendistato di umiltà. Ai piedi, Giacobbe è raffigurato mentre si sveglia dal sonno; sul cartiglio si legge: «Certo, il Signore è in questo luogo» (Gn 28,16). In cima c’è Cristo, la meta da raggiungere; ai lati le figure a mezzo busto di Benedetto, a sinistra, vestito di marrone che scrive la sua Regola e Bernardo in bianco sulla destra con il pastorale e il suo trattato. Questa è forse la più eccezionale fra le immagini medievali di
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7. San Bernardo fondatore, statua in arenaria alta 80 cm. Bar-sur-Aube, Bibliothèque municipale.
Bernardo. È stupenda dal punto di vista artistico e rappresenta la più alta qualità di teologia pittorica. L’altra immagine precedente la sua canonizzazione segna l’inizio di un’altra opera di Bernardo, la lettera che egli scrisse a Aelredo di Rievaulx che si apre con lo stesso tema dell’umiltà. Il santo è raffigurato con il pastorale e un cartiglio con il testo della lettera. Il suo sguardo è rivolto in basso, verso la figura seduta nella parte inferiore del folio opposto, un giovane con un lungo cartiglio, identificato per mezzo della scritta sottostante come Ailredus mo(nachus). Segue il suo trattato, Lo specchio della carità. Una delle poche immagini conservatesi del XII secolo che illustra le opere di Bernardo è contenuta in un manoscritto proveniente dall’abbazia benedettina tedesca di Liesborn. È datata al 1180 e costituisce un’ulteriore prova della rapida diffusione dei suoi scritti al di fuori dell’Ordine. Bernardo è raffigurato all’interno dell’iniziale V del Primo Sermone sul Cantico dei Cantici. Sei monaci fissano la figura sovrastante, identificata grazie all’iscrizione Bernhardus abbas, con un cartiglio recante la scritta, «Obbedite ai vostri capi» (Eb 13,17). All’incirca nella medesima epoca dei ritratti di Bernardo nelle fonti benedettine, i Cisterciensi iniziarono ad abbandonare lo «stile monocromo» che aveva predominato nei loro scriptoria. I primi esempi conosciuti di attenuazione della precedente insistenza sulla semplicità provengono da abbazie lontane dalle terre borgognone, culla dell’Ordine: da Zwettl e Heiligenkreuz in Austria e da Sti/na in Slovenia. La prima immagine cisterciense conosciuta di Bernardo origina dall’abbazia austriaca di Zwettl ed è datata al 117576, subito dopo la sua canonizzazione (fig. 6). Abbigliato con i paramenti eucaristici, il Santo è raffigurato in piedi, con il calice nella mano sinistra, all’interno dell’iniziale T (e igitur) – l’inizio del Canone della Messa – quale celebrante davanti all’altare. Con il capo inclinato, il viso allungato e il grande cranio, la barba e i baffi cascanti, mostra una forte somiglianza alla descrizione che ne viene fatta nella Vita prima. Le disposizioni che limitavano l’espressione artistica non erano riservate alle miniature dei manoscritti e alle vetrate ma, durante l’abbaziato di Raynard de Bar, venivano applicate anche alle arti plastiche e alla pittura: «Proibiamo nelle nostre chiese e in ogni altro luogo del monastero le sculture e le pitture, perché se l’attenzione viene da esse catturata, vengono spesso trascurati il profitto della meditazione e la disciplina della serietà monastica». Come per i manoscritti, alla lunga divenne impossibile im-
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porre la legge che proibiva la decorazione delle chiese cisterciensi. E tuttavia venne fatto un tentativo nel 1240 quando il Capitolo generale ordinò che venissero tolte «tutte le tavole dipinte a colori» o che venissero scialbate. La prima statua nota di Bernardo, datata circa al 1280, è una scultura posta all’esterno della cattedrale di Friburgo che commemora la visita del santo alla città nel 1146. Un’altra statua antica, che si trova nella chiesa cisterciense di Amelungsborn, è datata circa al 1350, scolpita in arenaria rossa e posta sopra lo stallo del celebrante. Tuttavia la più nota in assoluto è la piccola statua del tardo XIV secolo che decorava probabilmente la tomba di Bernardo a Clairvaux (fig. 7). Nella mano sinistra egli ha il modello di una chiesa che lo indica come fondatore, anzitutto e soprattutto di Clairvaux, ma iniziatore in seguito di un numero di monasteri così grande come nessun altro prima o dopo di lui.
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L’uso di pale d’altare o retabli apparve verso la metà del XIII secolo e i primi esemplari consistevano in un ritratto del santo a figura intera circondato da scene della sua vita. La prima pala d’altare che mostra san Bernardo appartiene a questo tipo. Dipinta nel 1290, era stata eseguita per la cappella dei Templari di Palma di Maiorca (fig. 8). Le due raffigurazioni inferiori sono episodi della vita di Bernardo. La fonte di queste narrazioni – e della maggior parte dei cicli più elaborati, come la pala d’altare di Zwettl, l’affresco nella cappella di Owen nel Württemberg e le vetrate del chiostro di Altenberg, le più ricche e dettagliate in assoluto – era la Vita prima o materiale tratto da questa e incluso nella Legenda Aurea, redatta nel 1265 circa dal domenicano Jacopo da Varagine. Grazie al lungo capitolo ivi dedicato a Bernardo, la conoscenza del Santo si diffuse in tutta Europa. Il pannello superiore a destra della pala di Palma non mostra una scena della vita di Bernardo, ma un “ritratto dell’autore” simile a molti altri presenti nelle miniature dei manoscritti e comparabile alle più toccanti immagini del ciclo di affreschi di Owen nel Württemberg. Il Santo è ritratto seduto mentre scrive in un paesaggio con due alberi, di stile impressionistico. L’ambientazione rurale in un paesaggio roccioso e montagnoso vuole rendere visualmente due temi: la metafora della grotta, comune fra i primi autori monastici e associata a san Benedetto, e la predilezione di Bernardo per la meditazione nei campi e nei boschi. Le scene di Bernardo operatore di miracoli e mistico incline alle visioni dominano l’iconografia tardomedievale. Quattro temi principali emergono in diversi periodi e diverse regioni e la loro popolarità era così diffusa che divennero noti come «raffigurazioni con attributi» o temi nei quali Ber-
nardo poteva essere facilmente riconosciuto dai principali attributi costituiti dall’abito, dal pastorale e dall’aureola come monaco, abate e santo. Il più antico è il cosiddetto Amplexus, dove Cristo stacca le sue braccia dalla croce per abbracciare Bernardo. È basato su un racconto sorto quando il Santo era in vita ma che non venne raffigurato fino alla prima metà del XIV secolo in un Graduale dell’abbazia femminile cisterciense di Wonnental. Un’altra raffigurazione con attributi è la visione di Maria da parte di Bernardo, la Doctrina, nota tuttavia solo in Italia; la terza mostra Bernardo con il diavolo alla catena, un’immagine spesso utilizzata per illustrare i cosiddetti versi magici di Bernardo, popolari nei Libri d’Ore tardomedievali. Ma l’immagine più popolare in assoluto era quella di Maria che offre a Bernardo il latte dal suo seno scoperto, nota come Lactatio. La più antica conosciuta è quella nel retablo di Palma (fig. 8, in alto a sinistra) che precede la prima versione scritta in una raccolta francese di Exempla. Più di ogni altra immagine tipologica di Bernardo, questa raffigurazione servì a promuovere la devozione al santo e rappresenta un archetipo medievale: la trasmissione della fede spirituale per mezzo di un intimo atto fisico. La sua popolarità aumentò con l’intensificazione nel tardo Medioevo del culto della Vergine e spiega l’enorme numero di immagini di Bernardo, sproporzionate rispetto a quelle di altri santi. In seguito all’invenzione della stampa, le xilografie venivano frequentemente usate per decorare i frontespizi di libri, incluse le opere di Bernardo o quelle allora attribuite a lui. Fra queste vi è una bella Lactatio in un libro dello pseudoBernardo stampato ad Anversa nel 1491 (fig. 9). Una Vergine incoronata seduta su un trono rialzato sotto a un baldacchino spreme il suo seno scoperto e un fiotto di latte viene spruzzato verso Bernardo inginocchiato davanti a lei. Su una banderuola sono iscritte le parole: Monstra te esse matrem, l’iscrizione tradizionale sulle immagini della Lactatio, prese dal quarto versetto di Ave maris stella, a indicare che Bernardo ebbe la visione mentre stava recitando questo inno. All’incirca nel medesimo periodo in cui la miniatura cisterciense divenne indistinguibile da quella di altri scriptoria e botteghe laiche, la decorazione delle loro chiese adottò il genere prevalente nelle arti plastiche, nella pittura e nelle vetrate. Le raffigurazioni di san Bernardo nelle statue, nei retabli, negli affreschi e nelle vetrate avrebbero a tempo debito preso l’aspetto della cosiddetta Vera Effigies, il cui prototipo era un busto del XVI secolo originariamente nel refettorio di Clairvaux. Bernardo è raffigurato con il viso allungato, un grande cranio, la carnagione pallida, capelli e
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8. Pala d’altare della chiesa dei Templari, Palma, Majorca. Palma, Museu de Mallorca. Nella pagina seguente: 9. Xilografia della Lactatio, Anversa. L’Aja, Koninklijke Bibliotheek, MS 1084 D 5.
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barba quasi bianchi e l’espressione meditabonda, come è descritto nella Vita prima. Tuttavia, dopo la fine del Medioevo, l’evoluzione della Vera Effigies è stata collegata a opere precedenti, incluso un reliquario a busto del XIV secolo. Sebbene non sia possibile stabilire un nesso fra la Vera Effigies e la prima iconografia bernardina, un certo numero di ritratti evidenziano una sorprendente somiglianza, fra questi l’iniziale miniata di Zwettl (fig. 6).
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Sebbene Bernardo non sia un “santo popolare” – nel senso che il suo culto non è nato dalla devozione popolare in seguito sanzionata dalla Chiesa ufficiale –, egli è tuttavia uno dei santi più rappresentati nell’arte medievale. La sua grande notorietà, dovuta in parte alla popolarità dei racconti della Legenda Aurea e in parte alla diffusione delle sue opere, è sfociata in una profusione di ritratti che lo hanno avvicinato a un pubblico sempre più ampio.
COMMENDE E CONGREGAZIONI CISTERCIENSI Mario Sensi
Nella bolla di canonizzazione di san Domenico di Guzmán – Fons sapientiae, 3 luglio 12341 – per illustrare la nuova primavera che la Chiesa stava vivendo, il pontefice Gregorio IX (1227-1241) utilizza l’ultima delle otto visioni che il profeta Zaccaria ebbe a metà febbraio del 519 a.C., al tempo della deportazione degli Ebrei a Babilonia, sotto il re Dario. Il profeta – che si serve di elementi di origine mitologica, riletti però in prospettiva monoteista – annuncia nuovi tempi servendosi di visioni. Nell’ultima, alzando gli occhi al cielo, il profeta Zaccaria «vide quattro carri uscire in mezzo a due montagne e le montagne erano di bronzo. Il primo carro aveva cavalli bai, il secondo cavalli neri, il terzo cavalli bianchi e il quarto cavalli pezzati» (Zc 6,1). Stando agli esegeti, i cavalli stanno a indicare gli angeli ispettori del mondo, cavalcati da altrettanti conduttori che si dirigono ai quattro punti cardinali, per dare il lieto annuncio. Da parte sua, papa Gregorio IX – la cui idea di fondo è che Gesù Cristo mai abbandona la sua Chiesa, ma rinnova sapientemente l’esercito combattente attraverso i secoli –, associa i primi tre carri a eventi e personaggi che avevano, fino ad allora, segnato la storia della Chiesa. Il primo carro, trainato da cavalli rossi, simboleggiava gli apostoli e i martiri che, per Cristo, hanno versato il loro sangue; il secondo, trainato da cavalli neri, indicava l’età caratterizzata da Benedetto da Norcia e, da ultimo, dai Cluniacensi, i monaci “neri” per eccellenza. Dopo queste due prime fasi, a rinnovare l’esercito del Signore era giunto un terzo carro, tirato da cavalli bianchi, a raffigurare l’epoca rappresentata dai Cisterciensi – ma anche dai Florensi, fondati da Gioacchino da Fiore, che ugualmente indossavano abito bianco –, i quali avevano trovato in Bernardo di Clairvaux il loro personaggio emblematico. Gregorio IX, tuttavia, intuiva già una nuova fase all’orizzonte: ecco in-
fatti apparire nell’ora undecima il quarto carro, tirato da cavalli varios et robustos, cioè i Frati Minori e i Predicatori, simultaneamente lanciati in battaglia sotto la guida dei loro eletti condottieri. Quando il pontefice firmava questa bolla, i Cisterciensi avevano appena iniziato la parabola discendente di una stagione prospera, cui succederà, a partire dal secolo successivo, la stagione delle commende e, quindi, delle congregazioni.
La Carta caritatis Il Concilio di Calcedonia del 451 (can. 4) aveva sottoposto i monaci alla vigilanza del vescovo diocesano, mentre ogni abbazia aveva proprie regole – miste ed eclettiche – e consuetudini, che ogni abate poteva modificare2. A partire da Gregorio Magno († 604), acquistò notorietà la Regola che san Benedetto da Norcia (480-547 ca.) aveva scritto nel 534 – prima redazione – per la sua abbazia di Montecassino3. Questa regola, che aveva posto le sue radici in Italia, registrò una notevole espansione in tutta Europa nei secoli VII e VIII finché, il 10 luglio 817, fu promulgato, grazie all’azione di Benedetto di Aniane, il Capitulare Monasticon che impose a tutti i monasteri dell’impero carolingio l’osservanza della Regola benedettina; tuttavia, fino all’XI secolo, nelle varie abbazie benedettine continuò a sopravvivere una pluralità di usus e consuetudines, dando origine, almeno sul piano concreto dell’esistenza quotidiana, a notevoli differenze tra le varie abbazie4. Una prima riforma si ebbe con Cluny – monastero fondato nel 910 dall’abate Bernone, con l’appoggio del duca Guglielmo d’Aquitania e direttamente collegato con la Chiesa di Roma – e consistette nel trasformare il monaste-
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ro in una cittadella di preghiera, riducendo il lavoro ad alcune attività simboliche e consacrando la maggior parte del tempo alla preghiera liturgica e alla lettura meditata della Scrittura5. Il bisogno di un ritorno alla Regola di san Benedetto, distorta dalle osservanze che si rifacevano alle consuetudini, diede origine ai Cisterciensi, un movimento rigoristico, sorto nel 1098 in Francia, in funzione antagonistica e polemica nei confronti dell’ordo cluniacensis, da cui si erano distaccati con il proposito di ritornare all’originale purezza della Regola di san Benedetto, deformata dalle consuetudini. L’iniziatore fu il monaco riformatore Roberto di Molesmes che si ispirò agli ideali di povertà e di fuga dalla vita secolare e fu animato dallo spirito d’uno stretto ritorno all’ideale evangelico, sul modello della Chiesa primitiva. A differenza dei Cluniacensi, che edificavano grandiosamente, ornavano riccamente i sacri edifici, celebravano con fasto i riti, profondevano oro, argento e gemme, i Cisterciensi miravano a concentrarsi su un’evangelica imitazione di Cristo, per cui abolirono i costumi monastici “incompatibili” con la Regola di san Benedetto, perseguendo così la semplicità nei paramenti, negli arredi liturgici e negli stessi edifici monastici; fu, in particolare, sotto Stefano di Harding, terzo abate (1109-1133) e zelatore della povertà, che si provvide a eliminare ogni lusso e superfluità dal culto e dalla Chiesa. Questo abate, per regolare le relazioni di cinque nuove fondazioni sorte nel giro di pochi mesi (La Ferté-sur-Grosne, 1113; Pontigny, 1114; Clairvaux, 1115; Morimond, 1115) con l’abbazia-madre di Cîteaux, scrisse intorno al 1118-9 la Carta caritatis et unanimitatis la quale fu approvata ufficialmente, nella sua prima stesura, da papa Callisto II (23.12.1119)6. La Carta di carità stabilì, innanzitutto, che l’ordine cisterciense doveva essere una federazione di abbazie; ma dispose anche che queste fossero uguali tra loro e reciprocamente vincolate dallo stesso amor di Dio e dalla stessa Regola. Nella fattispecie, ogni abbazia dipendeva da una delle cinque proto-abbazie; mentre la linea delle abbazie-figlie si estese in tutta Europa, con la precisazione che, fra le abbazie-madri, la più prolifica fu Clairvaux le cui figlie si estesero dal Portogallo all’Ungheria, dalla Svezia all’Italia meridionale; mentre la linea della filiazione di Morimond andava dalla Spagna alle regioni del Baltico. Con i Cisterciensi si ha così, per la prima volta, una precisa organizzazione costituzionale di tutto l’Ordine, in una vera e propria famiglia monastica; una struttura ben definita, con un centro – un abate dal quale derivano le altre abbazie-figlie –, capitoli generali, visite canoniche. Il legame che
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univa le fondazioni tra loro – appunto la novitas rilevante, introdotta dai Cisterciensi – ebbe l’appellativo di caritas, intesa come legge di Dio che doveva regolare i rapporti tra gli uomini sul modello della Trinità. I Cisterciensi sono, pertanto, il primo vero ordine monastico nella Chiesa; per questo non presero il nome di Ordine di san Benedetto, di cui seguivano la Regola, ma di Cîteaux, avendo spiritualità e consuetudini proprie7. Grazie al Capitolo generale – riunione annuale degli abati dell’Ordine – che permetteva, da una parte, una costante revisione statutaria varata collegialmente e, dall’altra, un’osservanza uniforme della Regola e delle consuetudini, i Cisterciensi costituiscono la famiglia monastica più eminente del secolo XII8. In forza della Carta caritatis, in seno all’ordine cisterciense ci fu unità di prassi: nelle usanze e nella liturgia – dal canto ai libri liturgici –, con inevitabili risvolti nelle varie espressioni artistiche9. Rifacendosi all’ascetismo orientale, i Cisterciensi proponevano un rigoroso ascetismo, fatto di solitudine, silenzio, digiuno, umiltà, spogliazione, rinuncia alla bellezza, rifiuto del piacevole delle cose: insomma, la tendenziale annichilazione di tutte le opere della vita. Loro ideali: la povertà, il lavoro manuale, l’umiltà intellettuale, la separazione dal mondo; per questo, di preferenza, si insediarono «nei “deserti” – vallate paludose o radure boscose lontane dai centri abitati, rifiutando ogni ministero parrocchiale»10. Da parte sua, san Bernardo vedeva nel lusso degli edifici sacri un effetto dell’avarizia, per cui punta il dito verso quella Chiesa che «riveste d’oro le sue pietre e abbandona nudi i suoi figli. Col denaro che dovrebbe spendersi per gli indigenti si dà piacere agli occhi dei ricchi!»11. Allo stesso tempo stigmatizza, come stravaganza, le sculture che ornano le chiese e i chiostri cluniacensi: «cosa fa nei chiostri, dove i frati stanno leggendo l’Officio, quella ridicola mostruosità, quella specie di strana formosità deforme e deformità formosa? Che cosa vi stanno a fare le immonde scimmie? O i feroci leoni? O i mostruosi centauri? O i semiuomini? O le maculate tigri? O i soldati nella pugna? O i cacciatori con le tube? Si possono vedere molti corpi sotto un’unica testa e viceversa molte teste sopra un unico corpo. Da una parte si scorge un quadrupede con coda di serpente; dall’altra un pesce con testa di quadrupede. Lì una bestia ha l’aspetto del cavallo e trascina posteriormente una mezza capra, qui un animale cornuto ha il posteriore di cavallo. Insomma, appare dappertutto una così grande e così strana varietà di forme eterogenee, che si prova più gusto a leggere i marmi che i codici e a occupare l’intera giornata ammirando a una a una queste immagini che meditando la legge di Dio. O Signore se non ci vergo-
gniamo di queste bamboccierie, perché almeno non ci rincresce delle spese?»12. Le chiese abbaziali dei Cisterciensi – che non erano aperte al popolo –, vennero così erette all’insegna della semplicità; l’architettura cisterciense mirò a edificare costruzioni semplici, chiese e chiostri scarsamente ornati, per conservare un ambiente caratterizzato da una nudità povera; mentre l’organizzazione economica dei Cisterciensi in grange, erette nei poderi lontani dall’abbazia e per lo più in prossimità di corsi d’acqua, fu una delle meraviglie del secolo XII. Ai tempi di Innocenzo III (1198-1216), oltre ai Cisterciensi anche altre congregazioni monastiche – in particolare i Premostratensi, e alcune congregazioni canonicali – avevano trovato nel Capitolo generale un organo di disciplina interna e di unità che funzionava bene. Da qui il tentativo, nel 1203, di introdurre il Capitolo generale anche presso i monasteri di regola benedettina, che dipendevano direttamente dalla Sede apostolica13. Nelle intenzioni del pontefice questi capitoli avrebbero dovuto trasformare detti monasteri esenti in una specie di congregazione regionale o nazionale, unita dal vincolo del Capitolo annuale e controllata dai visitatori mandati dal Capitolo stesso. Con la costituzione 12 del Lateranense IV (1215)14, il progetto fu ripreso, disponendo l’istituzione e l’obbligo di un Capitolo generale, ogni tre anni, di tutti i monasteri di una provincia o di un intero regno. A questo capitolo che ora viene esteso a tutti i monasteri e priorati che non possedessero nelle loro istituzioni interne un simile organismo di riforma e di unione, si propone un preciso modello da seguire, il Capitolo generale dei Cisterciensi, presso i quali il Capitolo costituiva un organo di vigilanza sui singoli monasteri. Mentre una norma transitoria disponeva che questi dovevano essere presieduti da due abati cisterciensi del luogo, cui dovevano aggiungersi due abati di altro ordine, scelti tra coloro che partecipavano al Capitolo15. Intento di Innocenzo III era che i monasteri, che seguivano la Regola di san Benedetto, trovassero nel Capitolo generale e nella collegata visita di riforma degli strumenti che divenissero loro organi propri. Ma questo Capitolo, delineato dal concilio e imposto dal di fuori, rischiava di divenire un’assemblea eterogenea che poteva anche assumere un carattere nazionale e politico. A sua volta l’istituto dei visitatori – che dovevano essere nominati in occasione del Capitolo e vice nostra, cioè come delegati di questa costituzione, e dovevano compiere una visita canonica a tutti i monasteri del territorio compreso nel Capitolo, anche a quelli femminili –, si fondava essenzialmente sulla collabo-
razione dei vescovi. I visitatori non avevano infatti il potere di deporre il superiore e neppure dovevano denunciare a Roma quando fossero stati ostacolati nella loro azione da parte dei superiori monastici, ma dovevano riferire all’ordinario diocesano, il quale avrebbe proceduto, con la propria autorità, alla deposizione richiesta. Alla fine del secolo XIII, gli ordini monastici tradizionali conobbero una fase di indebolimento. L’esenzione dalla giurisdizione ordinaria, che era stata inizialmente un bene, nel tardo Medioevo aveva iniziato a dar origine a grandi inconvenienti e fu uno degli ostacoli maggiori per un’efficace riforma. Qualche decennio più tardi la crisi investì anche gli ordini mendicanti. Tra le cause che ne avevano favorito la decadenza vanno ricordate la peste nera e le distruzioni, a motivo di guerre e di altre calamità, eventi che resero difficile la liturgia corale e la vita comunitaria. Con la carenza dello spirito religioso fece ben presto il paio l’infedeltà al voto di povertà e non meno pernicioso fu l’istituto della commenda, snaturato dalla cupidigia a privatizzare o individualizzare i beni comuni delle case religiose. L’abolizione della clausura favorì poi il vagabondaggio con o senza dispense papali. Mentre lo spirito mondano rese principesca la vita degli abati, alcuni dei quali si inserirono nella politica, nell’affarismo e nelle speculazioni commerciali, fino all’usura. Contro questo spirito di secolarizzazione reagirono i pontefici, gli stessi religiosi e i laici. D’obbligo ricordare l’azione di Benedetto XII il quale, nel 1335, emanò la bolla Fulgens sicut stella con la quale ingiunse ai superiori dell’Ordine di Cîteaux – peraltro il meno colpito dalla sclerosi – di rimettere in vigore le norme fondamentali della loro Regola (austerità e vita cenobitica), chiedendo di integrare di più i monaci nella società del tempo, nella convinzione che i monaci avrebbero potuto rendere alla Chiesa ancora grandi servizi16. Lo stesso pontefice, quindi, riprendendo l’idea di Innocenzo III, con la bolla Summi magistri del 20 giugno 1336 – detta bolla Benedettina –, divise tutti i monasteri benedettini in 36 province – di cui 10 in Italia – e impose ai Benedettini Neri il Capitolo generale, prescritto ogni tre anni dal IV Concilio lateranense, per vigilare sull’osservanza della disciplina monastica e per prestarsi reciproco aiuto, senza tuttavia sortire effetti durevoli, a motivo della peste prima, del grande scisma poi17. Solo nel secolo XV questa idea, perseguita da Innocenzo III e da Benedetto XII, sarà fatta propria dalla base. Con il movimento di riforma di questo secolo nasceranno così le moderne congregazioni benedettine e cisterciensi. Nel mirino dei riformatori v’era la commenda18, ritenuta tra le cause
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della decadenza monastica, insieme alla parcellizzazione dei redditi dei monasteri – divisi in “mensa abbaziale” e “mensa conventuale” – e allo stesso abbaziato a vita, ancorché conforme alla Regola, ma viziato dalle ambizioni familiari, politiche e personali che finivano per rendere le elezioni solo formalmente libere19. Altrettanto nefasto era stato l’uso, invalso presso i pontefici del periodo avignonese, di riservarsi la nomina o la conferma dei nuovi abati, dietro il pagamento dei redditi della prima annata a favore della Camera Apostolica, tasse che, di fatto, ricadevano sulla comunità monastica. Nonostante l’incremento della proprietà fondiaria, dovuta al continuo flusso delle donazioni, nella prima metà del secolo XIV la crisi economica investì un po’ tutti i monasteri, ricchi di terre, ma non di denaro: le cause vanno ricercate nel gravame fiscale, imposto dai comuni e dalle signorie su terre divenute all’epoca economicamente poco producenti, perché date in affitto per mancanza di braccia, o perché devastate dalle continue guerre e dai saccheggi. Sono queste le cause che favorirono la pratica della commenda, nata come beneficio ecclesiastico e per compensare la fedeltà di un amministratore, il quale veniva così messo alla guida dei più importanti monasteri. I primi a concedere le più ricche commende ai propri parenti o fedeli collaboratori furono i pontefici; ma non furono da meno i principi laici. Da qui la decadenza materiale e – di pari passo – quella spirituale dei monasteri20. Ma non mancarono eccezioni. Valga l’esempio del card. Francesco Carbone († 1405), cisterciense che, divenuto vescovo di Sabina, riformò l’abbazia di Farfa, di cui era commendatario21. Di diversa portata, per la storia dei Cisterciensi in Italia, è il ruolo svolto da Domenico Capranica il quale, approfittando del soggiorno alla corte pontificia, si occupò della riforma dei monasteri a lui affidata, in modo particolare di quello di San Salvatore a Settimo, che aveva ricevuto in commenda nel 1436, divenuto punto di partenza per la congregazione cisterciense in Italia22. Non meno significative le eccezioni, con risvolti nella storia dell’arte. Non tutti i commendatari, infatti, si limitarono a trarre dal patrimonio monastico i maggiori benefici economici possibili, lasciando andare in rovina i complessi monastici, ma alcuni, vuoi per compensare alienazioni di possessi monastici compiute dalla loro famiglia – è il caso del card. Giordano Orsini, commendatore di Farfa 23–, vuoi per celebrare la propria persona – penso agli importanti lavori fatti dai cardinali titolari di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, meta di pellegrinaggi24– commissionarono opere, o restauri, con esisti importanti non solo per la storia dell’arte, ma anche per quella della pietà25.
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Osservanze e congregazioni La reazione alla crisi in atto prende il nome di “osservanza” tra i mendicanti; di “congregazione” tra i monaci, dove tuttavia compare anche il fenomeno delle osservanze. Fu un moto che riguardò un po’ tutti gli ordini e le congregazioni religiose, riconducendo monaci, frati e monache alla vita comune, dentro la clausura e all’osservanza letterale della Regola, segnata dalla povertà, specie presso i Mendicanti, e dall’ascesi afflittiva, animata dall’amore alla croce e da motivi penitenziali26. Papato, episcopato e concili ebbero grandissima parte nella promozione e nel sostegno dei vari movimenti di riforma. Il ruolo della curia papale fu quello di venire in aiuto alle affermazioni di alcuni ben determinati gruppi, mentre intento dei due concili riformisti del secolo XV fu la reformatio in capite et in membris; in effetti, a Costanza si creò il clima favorevole per l’attuazione di una riforma dei religiosi, ma non si andò oltre i due decreti Haec sancta e Frequens, unica vittoria riportata dal partito conciliarista27. Più tardi le osservanze, rinnovatrici di ideali e prassi ascetico-devota, trovarono un appoggio in personalità al di fuori degli ordini: dai vescovi – che si muovevano nello spirito delle idee riformatrici dei concili –, ai laici, in particolare i signori temporali che indirizzavano il loro desiderio di cambiamento non solo verso un singolo ordine o uno specifico convento, «bensì verso il rinnovamento dell’intera Chiesa»28. Re, principi, magistrati comunali o di signori, chiedevano, organizzavano o almeno appoggiavano, se non proprio la riforma di un ordine, quella delle case religiose situate nel territorio della propria competenza. Vi partecipò anche il popolo: sia con l’appoggio economico e morale, sia frequentando le loro chiese, sia fornendo vocazioni, spesso frutto della predicazione popolare. Come acutamente ha fatto osservare Umberto Jedin – lo storico moderno del Concilio di Trento –, le prime, ma autentiche, avvisaglie della riforma cattolica vanno individuate nelle osservanze dei Mendicanti e dei vecchi ordini monastici; fece da battistrada l’esperienza eremitica degli Zoccolanti di Foligno, appoggiata dai Trinci, signori di Foligno29. Dopo i Frati Minori, anche gli altri ordini mendicanti furono toccati dal problema della “riforma” e tutte le riforme iniziano con il richiamo all’ideale di perfezione proprio del loro ordine30. In questa “autoriforma” furono coinvolti anche i vecchi ordini monastici, a cominciare dai Benedettini Neri: si pensi alla riforma di Kastl (Baviera), con proprie consuetudini codificate nel 1378; alla Congregazione di San Benito di Valladolid (1389/90), con una
centralizzazione sul modello dell’ordo cluniacensis31. I Benedettini Neri, così come i Frati Minori, avevano beneficiato della volontà di riforma del Concilio di Basilea, ma il loro decollo, in Italia, fu dovuto all’azione di un grande abate riformatore, Ludovico Barbo (1382-1443), protagonista della congregazione monastica detta inizialmente di Santa Giustina, poi cassinese32. Questi reggeva, in qualità di commendatore, il priorato agostiniano di San Giorgio in Alga a Venezia quando, nel 1403, dopo una crisi di rinnovamento religioso, offrì la chiesa, con annesso monastero, a un gruppo di ecclesiastici che faceva vita comune a San Nicolò del Lido. Facevano parte di questo gruppo: Lorenzo Giustiniani, poi patriarca di Venezia; Antonio Correr, poi cardinale, e il cugino Gabriele Condulmer, anch’esso divenuto cardinale e poi papa col nome di Eugenio IV. I due cugini erano poi nipoti di Angelo Correr che, nel 1406, diveniva papa col nome di Gregorio XII. Nel 1408 il Barbo ebbe dal Correr, dietro proposta del Condulmer e con l’approvazione di Gregorio XII, l’offerta di abate residenziale di Santa Giustina in Padova, abbazia che il Barbo aveva avuto in commenda. Dopo di che, il Barbo, da Gregorio XII, ebbe l’importante concessione che gli abati di Santa Giustina, una volta eletti dalla comunità, dovevano senz’altro ritenersi confermati, impedendo così la ripresa della commenda. Ricevuta la benedizione abbaziale nel 1409, nel giro di circa dieci anni fu delineata la struttura della nuova istituzione monastica: ebbe così inizio una Congregazione de Unitate, la Congregazione monastica di Santa Giustina; quindi, a partire dal 1432, detta Congregazione de Observantia, di cui lo stesso Barbo narrò le vicende nel De initiis Congregationis S. Iustinae de Padua, storia terminata nel 1440. Detta Congregazione di Santa Giustina intendeva conseguire il ripristino della vita monacale autentica benedettina; a tal fine puntò sulla vita di interiorità e di devozione del monaco: ovunque fu riportata in auge la stretta clausura, proibendo persino la formazione culturale al di fuori del cenobio; mentre, sul modello dei Frati Minori, fu introdotta la povertà che andava dall’abitazione, al vitto, al vestito; e infine fu inibita la cura parrocchiale, la confessione e la direzione spirituale delle monache33. È questa la temperie in cui sorgono le congregazioni cisterciensi. Le cause, oltre in quelle comuni agli ordini monastici – dalle commende alle trasgressioni della Regola –, vanno ricercate nel fatto che, con la comparsa degli stati nazionali – sempre in lotta fra di loro – e l’istituzione degli abati commendatari, si interruppero le linee di comunicazione e di controllo esercitato dalle abbazie-madri sulle abbazie-fi-
glie. Venuti meno i legami tradizionali dovuti alla legge della filiazione, la base del principio di accorpamento divenne il territorio e da qui la ricerca dell’appoggio del potere secolare34. Sono queste le ragioni per cui, agli inizi del Quattrocento, fu escogitato un nuovo sistema di visite regolari che, in deroga alla Carta di Carità, mai ufficialmente revocata, introdusse la formazione di province e di congregazioni. Le prime sorsero per volontà e sotto il controllo del Capitolo generale; le altre ebbero carattere regionale o nazionale e sorsero in contrasto, o comunque senza il concorso di detto Capitolo35. La prima congregazione è quella di Castiglia, iniziata da Martín de Vargas († 1446) – un monaco geronimita che si era fatto cisterciense nell’abbazia di Las Piedras – cui Martino V nel 1425 diede la facoltà di fondare due eremi pro regulari [...] observantia in eis tenenda36, e così, due anni dopo, sorgeva l’abbazia di Montesion, vicino a Toledo; mentre da Eugenio IV Martín de Vargas ebbe l’autorizzazione a introdurre la stessa osservanza in monasteri già esistenti37. Come il Barbo, anche Martin de Vargas combatté la commenda, proponendo però un superiorato temporaneo: il che, da una parte, avrebbe eliminato l’abbaziato vitalizio; dall’altra, avrebbe garantito, nonostante l’inefficienza del superiore, la stabilità della riforma. Si trattava di un’innovazione non prevista dalla Regola di san Benedetto, mentre la formazione di congregazioni non rientrava nell’ordinamento giuridico cisterciense, per cui il Capitolo generale (1445) scomunicò e condannò al carcere il Vargas e la sua riforma fu osteggiata per oltre sessanta anni (1430-1493); ma grazie all’appoggio dei pontefici – fatta eccezione per Niccolò V, che la soppresse nel 1450 – la congregazione aveva incorporato e riformato tutti i monasteri di Castiglia, León e Galizia38. A capo della congregazione v’era il Riformatore generale, o Supremo riformatore: fino al 1513 durato in carica per un quinquennio; quindi, fino al 1759, per un triennio; finché la carica divenne quadriennale. Dal Capitolo generale – cui avevano diritto gli abati e i procuratori designati da ciascuna comunità – veniva eletto il definitorio (4 abati e 4 procuratori), venivano scelti i due visitatori generali, quattro consiglieri e infine il Riformatore generale, il quale tra i suoi compiti aveva quello di preparare insieme ai definitori la lista dei candidati fra i quali le singole comunità sceglievano il proprio abate triennale39. Indubbiamente, rispetto agli ideali di Cîteaux, espressi nella Carta di Carità, si trattò di un impoverimento, poiché questa congregazione – come, del resto, le altre a seguire –, introdusse l’accorpamento su base territoriale, distruggen-
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1. San Bernardo alle Terme, Roma, costruita nel 1589 e affidata ai monaci francesi dell’ordine cisterciense, i cosiddetti Foglianti. Incisione di Giuseppe Vasi, 1753. Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano.
2. Santa Susanna, Roma, sede dal 1587 di una comunità femminile cisterciense, ivi insediata nel contesto del generale impegno a rinnovare la vita religiosa della città. Incisione di Giuseppe Vasi, 1753. Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano.
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do così il sistema originario delle affiliazioni, che consisteva nel controllo che l’abbazia-madre esercitava sulla abbazia-figlia cui, appunto, aveva dato vita; ma, sotto altro aspetto, evitò la sclerosi dell’Ordine, dandogli una nuova vitalità, con cambiamenti, a livello di costituzioni, non solo giustificati, ma «efficaci e persino popolari»40.
Province, congregazioni e riforme cisterciensi in Italia In Italia sorsero diverse congregazioni cisterciensi: la più antica è quella che Andrea di Paolo fondò, nel 1328, a Gualdo Tadino, con Regola benedettina e costituzioni cisterciensi41. Ma questa congregazione, intitolata al Corpo di Cristo, non aveva legami con il Capitolo generale dell’Ordine, così come la Congregazione dei Florensi42. L’attenzione è per le congregazioni che presero la decisione di venir meno all’impegno della Carta caritatis: uno strappo che, a sua volta, diede origine a nuove lacerazioni. La “riforma” di monasteri italiani legati a Cîteaux ebbe inizio tra il 1430 e il 1440, a San Salvatore a Settimo, presso
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Firenze, grazie all’azione concertata di Eugenio IV, del cardinal commendatario Domenico Capranica e di Timoteo di Giannino, monaco di questa badia fiorentina; la congregazione, sorta in funzione della regularis observantia, era composta dallo stesso monastero di San Salvatore e da quello di San Bartolo di Ferrara, e loro dipendenze; la relativa approvazione si ebbe con Sisto IV, nel 148143. Mentre gli inizi della Congregazione lombarda risalgono al tempo in cui visitatori provinciali, eletti dal Capitolo dell’ordine cisterciense del 1433 – i quali si muovevano tra gli insediamenti di un’unica provincia e non più per linea di filiazione –, promossero la riforma di alcuni monasteri della Lombardia, sottoposti alla loro visita44. Dalla fusione di queste due congregazioni – una toscana e l’altra lombarda – sorse la Congregatio regularis observantiae S. Bernardi, o di Lombardia, la quale non si deve a monaci o a ecclesiastici, ma a un principe, Ludovico Sforza detto il Moro, duca di Milano (1496-1500) che, come si apprende dalla narratio della bolla Plantatus in agro Dominico, richiese a tal fine la fusione di queste due congregazioni cisterciensi, con l’avallo dalle petizioni dei superiori delle
due congregazioni e dei rispettivi cardinali protettori45. Era accaduto che, nel 1465, l’abbazia di Chiaravalle di Milano – dal 1354 divenuta beneficio di collazione pontificia – da Paolo II era stata data in commenda ad Ascanio Sforza, appena decenne, ultimo degli otto figli di Francesco Sforza. Questi, con l’occasione, vi introdusse la riforma dei Cisterciensi, promossa nell’abbazia di San Salvatore a Settimo, presso Firenze46. Nel frattempo però gli Sforza, nel 1477, erano riusciti a imporre a Chiaravalle una nuova riforma, ottenendo per il commendatario Ascanio la maggioranza dei beni abbaziali; quindi, nel 1489, ottennero che Innocenzo VIII vi istituisse la Congregatio S. Bernardi monasterii Claraevallis47. Ludovico il Moro, che inizialmente aveva ostacolato l’espansione della riforma di Badia a Settimo in Lombardia, ne facilitò poi l’aggregazione con il monastero di Chiaravalle Milanese, dando così origine alla Congregazione di San Bernardo la quale fu approvata da Innocenzo VIII, con la bolla Planctus in agro Dominico48. Questa Congregazione di San Bernardo in Italia – la quale aveva adottato un assetto giuridico simile a quello della Congregazione di Santa Giustina, già modello per la Con-
gregazione cisterciense di Castiglia, con la creazione di un proprio autonomo organismo di governo, mobilità dei monaci e temporaneità dei superiori, scelti annualmente dal Capitolo, anziché eletti a vita dai rispettivi monasteri; il che tuttavia contrastava con Cîteaux, che reclamava un solo Capitolo generale, l’osservanza della legge della filiazione e la piena uniformità negli usi di vita: tali la perpetuità e immobilità degli abati49 – fu soppressa, dopo neppure quattro anni, dallo stesso pontefice che, su pressione di Cîteaux, ne revocò la bolla50. Sennonché, dieci anni dopo, Giulio II, ripristinò detta congregazione, dandole nuove norme per regolare i rapporti fra le due province51. Ci furono rapporti tesi con il Capitolo generale e lo stesso don Jean Loysier, abate di Cîteaux (1540-1559), di passaggio a Milano per recarsi al Concilio di Trento, giunto a Sant’Ambrogio, il 2 aprile 1545 si vide rifiutato l’ingresso in monastero, col pretesto che non constet della sua asserta qualità e autorità; anche il priore di Chiaravalle gli negò la visita; di tutta risposta l’abate generale comminò loro la scomunica52. La congregazione ottenne, poco dopo, l’assoluzione pontificia e lo strappo fu ricu-
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3. Frontespizio del Messale cisterciense del 1751 di Dom François Trouvé (17481797), ultimo abate generale dell’ordine prima della Rivoluzione francese.
cito con Louis de Baissey, nuovo abate di Cîteaux che, nel 1563, a Roma, diede il via libera agli accordi stipulati nel 1513 tra le due parti, accordi ratificati dal Capitolo generale di Cîteaux nel maggio del 156553. Mentre fu Gregorio XIII con la bolla Romanus Pontifex a promuovere la riforma istituzionale della congregazione, disponendo tra l’altro che, dal 1580, il Capitolo generale si doveva tenere ogni tre anni; la dignità abbaziale divenne vitalizia, restò invece temporanea la direzione dei singoli monasteri e fu mantenuta la prassi della visita annuale dei singoli monasteri54. Composta da 45 monasteri – con a capo Chiaravalle (Milano) – e divisa in due province – lombarda e toscana – detta Congregazione di San Bernardo in Italia si diede nuove costituzioni che Urbano VIII approvò definitivamente nel 164155. Nel frattempo, nell’Italia centro-meridionale, erano sorte altre due congregazioni cisterciensi, quella calabro-lucana e quella romana. La congregazione formata da monaci florensi e cisterciensi dell’Italia meridionale, e approvata da san Pio V nel 1590, fu presentata al definitorio dell’ordine cisterciense del 6.9.1605, presieduto da Nicola II Boucherat il quale riconobbe questa congregazione particolare, sottomessa all’Ordine con il titolo di Congregazione cisterciense calabro-lucana. La partecipazione di due delegati ai capitoli generali e il pagamento delle tasse avrebbero garantito la sottomissione all’Ordine; ma, allo stesso tempo, la congregazione godeva di una certa autonomia, grazie all’istituzione del Capitolo provinciale, presieduto dal presidente della congregazione; sono forse queste le ragioni per cui l’approvazione pontificia si ebbe solo con Urbano VIII (bolla Sacrosancti apostolatus ministerio del 12.4.1633). Di questa congregazione, estintasi naturalmente nel secolo XVIII, facevano parte sei monasteri in Calabria e uno in Basilicata56. Gli inizi della Congregazione cisterciense romana risalgono – come quelli della Congregazione lombarda – a un Capitolo dell’Ordine, quello tenutosi nel 1613, in occasione del quale Edmondo Tiraqueau, procuratore dell’Ordine, propose, per un migliore andamento dei monasteri italiani, non ancora congregati, di dar vita a una nuova congregazione che si sarebbe dovuta chiamare romana, in quanto la maggior parte dei monasteri si trovava nello Stato Pontificio e solo alcuni nel Regno. La proposta però non ebbe seguito; mentre, di fatto, fu Gregorio XV a erigere, con lettera Sacrosancti apostolatus ministerio (6.4.1623), detta Congregazione romana alla quale aderirono nove abbazie, fra cui Casamari (in diocesi di Veroli)57. Le relative costituzioni furono approvate solo il 2.10.1643. Ma
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4. Incisione del Messale di Dom Trouvé per la Domenica della Resurrezione. 5. Controfrontespizio e frontespizio dell’opera Cérémonial pour les vêtures des religieuses de l’Abbaye de ND de Tart, Sébastien Zamet, Dijon, Ressayre 1705.
stante il relativo numero dei monaci – in tutta la congregazione non raggiungevano il numero di quaranta – Alessandro VII, il 5.3.1660, su richiesta dell’abate Durelli, preside della congregazione, e dell’Ughelli, procuratore della Provincia toscana, ridusse la Congregazione romana a semplice provincia, unendola – con unione estintiva – alla Provincia toscana della Congregazione di San Bernardo in Italia58. Questa unione, tuttavia, incontrò numerose difficoltà per cui, il 12.2.1762, Clemente XII, con lettera Sacrosancti apostolatus ministerii, tornò a separare le due province59. Di lì a poco Pietro Leopoldo, duca della Toscana, soppresse tutti i monasteri della Toscana; mentre qualche anno appresso, con la rivoluzione francese, vennero soppressi anche i monasteri della Lombardia. Nella congregazione rimase soltanto la Provincia romana, cui furono uniti tutti i monasteri del ducato di Parma e dello Stato Pontificio e, dal 1802, anche i monasteri dei Foglianti ancora esistenti in Italia60. Notevole il contributo religioso e socio-economico dato dalla Congregazione cisterciense di San Bernardo in questi due secoli. Specie nel secolo XVIII la congregazione aveva raggiunto il massimo della propria vitalità, lasciando una notevole impronta in vari settori, in particolare nel campo delle arti; a titolo di esempio cito la profonda trasformazione settecentesca di Santa Croce in Gerusalemme, voluta da Benedetto XIV, tra il 1741 e il 174461.
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Le riforme I Foglianti avevano preso l’avvio, nel 1577, con JeanBaptiste de la Barrière che, nel monastero cisterciense di Feuillant, presso Tolosa – da cui il nome lat. Fulientes e it. Foglianti –, aveva introdotto, oltre alla stretta osservanza della Regola di san Benedetto, anche una riforma liturgica, l’esercizio assiduo delle virtù, la pratica di molte austerità e il silenzio perpetuo, interrotto solo dalla predicazione. Fu una riforma, all’interno dell’Ordine, incoraggiata da Gregorio XIII (1.5.1581), e infine approvata da Sisto V con il breve Religiosos viros (5.5.1586); quindi, lo stesso pontefice, l’anno successivo, autorizzò i Foglianti a introdurre la riforma sia in Francia che fuori Francia, nei monasteri maschili e in quelli femminili che desiderassero seguire la riforma del Barrière62. La riforma si era sufficientemente estesa quando i Foglianti chiesero l’esenzione dalla giurisdizione del Capitolo generale dei Cisterciensi e dagli ordinari dei luoghi; il che fu concesso da Clemente VII, con breve Pastoralis nostri muneris ratio (4.9.1592)63. L’appro-
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6. Il monastero e la chiesa di Sant’Anna di Digione, dove si trasferirono nel 1623 le monache cisterciensi di Tart, nel quadro del rinnovamento della vita religiosa dell’abbazia. 7. Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, Roma, la nuova facciata conseguente al restauro settecentesco.
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8. Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, Roma, la navata centrale rinnovata e il nuovo ciborio.
vazione degli Statuti, fatta da Clemente VIII (Ex debito pastoralis officii divini, dell’8.11.1595), favorì l’espansione di questa diramazione dei Cisterciensi che Urbano VIII (Ad uberes et suaves fructus, del 22.5.1630) separò in due congregazioni nazionali, la Congregazione di Francia (Congregatio Gallica beatae Mariae Fuliensis) e la Congregazione italiana (Congregatio Italica monachorum reformatorum sancti Bernardi, Ocist); quest’ultima, a sua volta, fu divisa in due province, pedemontano-sabauda e romana64. I relativi monaci della Congregazione di San Bernardo, che comprendeva tutti i monasteri d’Italia, ad eccezione di quelli del Piemonte, furono chiamati Bernardoni; costoro si differenziavano dai Foglianti francesi nella rielaborazione delle costituzioni, negli usi monastici e nelle cerimonie liturgiche. Ambedue le congregazioni ebbero una notevole importanza per la vita monastica dei secoli XVII e XVIII. La lezione di austerità data dai Foglianti cisterciensi incoraggiò Ottavio Arnolfini, abate commendatario di La Charmoye, a ricondurre la sua abbazia al fervore primitivo dei riformati o della stretta osservanza; lo seguì Dionigi Largentier, abate di Clairvaux. Il Capitolo generale del 1618, presieduto da Nicola II Boucherat, abate di Cîteaux, pur lodando le osservanze della nuova riforma, manifestò la propria preoccupazione sulla divisione che la diversità delle osservanze avrebbe potuto suscitare nella comunità. Qualche anno dopo, i “riformati” riuscirono a guadagnare una dozzina di monasteri per cui, nel 1623, in un’assemblea presieduta dal cardinal de la Rochefoucauld, ottennero il permesso di organizzarsi in congregazione codificando così le loro osservanze. Il che suscitò un’aspra reazione da parte dei monaci dell’osservanza comune, finché Alessandro VII, con la costituzione In suprema (19.4.1666), riconobbe ufficialmente la stretta osservanza che all’epoca comprendeva circa 40 monasteri, sottomettendola però all’abate di Cîteaux (stretta osservanza di Cîteaux)65. V’erano appena nove monaci cisterciensi, i quali non vivevano più secondo il loro stato, quando Armand-Jean Le Bouthillier de Rancé (1626-1700), figlioccio di Richelieu, già abate secolare di Nostra Signora della Trappa, dopo aver fatto, nel 1664, la professione, si ritirò in quella che era stata la sua commenda, divenendone abate regolare. Ottenute le debite facoltà dalle autorità dell’Ordine di Cîteaux, rimise in vigore il digiuno della Quaresima, secondo le prescrizioni di san Benedetto, soppresse vino e pesce dal vitto comune, ristabilì la pratica del lavoro manuale e instaurò l’osservanza rigorosa del silenzio: si trattò di una riforma che sorpassava, in austerità e penitenza, quanto disposto dalla Regola di san Benedetto. Questa ri-
forma fu approvata definitivamente dalla Santa Sede con due brevi (2.8.1677; 23.5.1678); mentre La Trappa restò sottomessa a Cîteaux, ma con regolamenti particolari66. Nonostante il fascino esercitato da questa abbazia, finché visse l’abate de Rancé († 1700), non partirono monaci per fondare o riformare abbazie cisterciensi; nel 1704, però, l’abate Giacomo de la Cour, secondo successore dell’abate de Rancé, per venire incontro al desiderio di Cosimo III dei Medici, granduca di Toscana (1670-1723), inviò alcuni monaci a Buonsollazzo, abbazia della Congregazione cisterciense italiana di San Bernardo, posta alle pendici del Monte Senario, dove il vescovo di Firenze, sin dal 1321, aveva introdotto Cisterciensi provenienti dalla badia di San Salvatore a Settimo67. I trappisti vi fecero l’ingresso nell’aprile del 1705, guidati da Malachia Garneyrin68. Perché questo trasferimento fosse meno indolore ci fu un accordo: l’abate presidente della Provincia toscana della Congregazione di San Bernardo in Italia conservava il diritto di visita e presiedeva il Capitolo per l’elezione degli abati i quali, inoltre, secondo l’usanza dei Cisterciensi italiani, non erano a vita, a differenza di quanto prescritto a La Trappa. Questa famiglia della stretta osservanza o della Trappa, vi rimase fino alla soppressione del 1778; dopo di che, a seguito della restaurazione, vi tornarono i Cisterciensi della comune osservanza. Da parte sua, Clemente XI (1700-1721), già abate commendatario di Casamari – abbazia in provincia di Frosinone, della Congregazione cisterciense romana –, dopo aver cacciato i monaci della Congregazione di San Bernardo, vi introdusse, il 7.4.1717, una colonia di monaci cisterciensi riformati, o trappisti, provenienti da Buonsollazzo69. Questa abbazia di Casamari seguì per due secoli la «stretta osservanza» della Trappa, con clausura severa, grande austerità, scarsa attenzione alla formazione culturale. Dopo la soppressione napoleonica, Casamari, nel 1814, riprese la sua vita in modo autonomo, conservando le consuetudini della Trappa; quindi, a seguito dell’annessione del monastero di San Domenico di Sora, con relativo santuario, avvenuta nel 1834, divenne casa madre della Congregazione cisterciense di Casamari, della stretta osservanza; mentre Pio IX, introducendo nel 1864 questi monaci a Valvisciolo (Sermoneta, Latina), volle che costoro si inserissero pure nella cura animarum; infine, per volontà della Santa Sede, nel 1931, i monaci di Casamari diedero inizio all’opera del monachesimo cattolico in Etiopia70. Nel frattempo, nel 1929, v’era stata l’unione della Congregazione di Casamari alle altre congregazioni cisterciensi71. 8
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A loro volta, nel 1820, i monasteri dell’antica Congregazione di San Bernardo in Italia, dove nel 1802 erano state riunite le varie province italiane – romana, lombarda, fuliense, toscana e calabra –, in ossequio alle disposizioni date dalla Sacra Congregazione della Riforma – istituita nel 1814 da Pio VII, subito dopo il suo ritorno a Roma, allo scopo di restaurare gli ordini religiosi dispersi durante l’occupazione napoleonica –, celebrarono il loro primo Capitolo generale del nuovo corso nel 1820, a Roma, a San Bernardo alle Terme e, nel 1831, Gregorio XVI (18311846) approvò le relative costituzioni72. Questi, all’epoca, i monasteri superstiti della Congregazione di San Bernardo: Hautecombe (Savoia), San Bernardo alle Terme (Roma), Santa Maria in Castagnola (Chiaravalle, Sinigallia), Santa Maria di Cortemilia (Alba), San Giovanni e Bernardo (Perugia), San Lorenzo in Doliolo (San Severino Marche), Santa Maria della Consolata (Torino), Santa Maria delle Grazie (Foce, Amelia), Santa Maria di Mondovì (Mondovì), Santa Maria Val di Ponte (Perugia), Santa Maria in Vepribus (Fermo), Santa Maria di Montrivello (Piemonte), Santa Maria di Roccamadore (Messina), Santa Croce in Gerusalemme (Roma)73. Da allora, il ruolo preminente della Provincia lombarda venne in parte ridimensionato a vantaggio di Santa Croce in Gerusalemme dove prese dimora il presidente generale della congregazione. Questo monastero, tenuto dai Certosini fino al 1561 – quando Pio IV li trasferì a Santa Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano –, passò ai Cisterciensi della Nazione lombarda che, dal 1512, risiedevano a San Saba, sull’Aventino. Con il trasferimento di questi monaci, Santa Croce in Gerusalemme entrò a far parte della Provincia lombarda la quale, il 5 marzo 1660, da Alessandro VII, con bolla Pastoralis officii, fu unita a quella toscana. Ma il 12 febbraio 1772, Clemente XIII, con breve Sacrosancti apostolatus ministerii, separò i monasteri dell’ex Congregazione romana, costituendoli come terza provincia, conservando le costituzioni della Congregazione di San Bernardo in Italia74. I primi interventi edilizi sulla Basilica Sessoriana, durante la gestione cisterciense, furono mirati a valorizzare le pre-
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ziosissime reliquie custodite dalla basilica: nel 1570, il card. Francesco Pacheco costruì ex novo la cappella delle reliquie; mentre, nel 1590, il card. Alberto, arciduca d’Austria, fece ornare di stucchi e affrescare dal Pomarancio (Niccolò Circignani) la cappella di Sant’Elena. Nel frattempo, Sisto V (1585-1590) aveva scelto questa basilica come terminale, nel triangolo delle basiliche legate alla figura del Salvatore75. Queste premesse siglavano il felice connubio del santuario delle reliquie della Passione con l’Ordine che, grazie a san Bernardo, si era imposto per la sua peculiare devozione alla santa umanità di Cristo. Il monastero dal 1807 al 1818 rimase privo di un superiore per il fatto che dal governo invasore francese era stato convertito in ricovero di mendicità per settecento donne povere. Con la restaurazione, Santa Croce divenne sede abituale del preside generale della Congregazione di San Bernardo in Italia e, dal 1950, dell’abate preside. Due anni dopo partivano, sempre da Santa Croce, monaci per riaprire Santa Maria di Chiaravalle (Milano); come ebbe a scrivere il card. A.I. Schuster, nella lettera inviata per l’occasione, «sul vecchio ceppo – l’abbazia di Chiaravalle fondata da san Bernardo il 22 giugno 1135 – innestiamo un piccolo virgulto trapiantato dall’abbazia romana di Santa Croce in Gerusalemme. È poca cosa; ma chi solo dà incremento alla pianta non è né Paolo, né Apollo, ma Dio Onnipotente»76. Ancora da Santa Croce, ma ai nostri giorni, sono partiti monaci per impiantare un monastero a Guadalajara in Messico (2006) e per riaprire la vecchia abbazia di Neuw Dala (Svezia) fondata da Clairvaux (1184) e soppressa nel 1584 dal re di Danimarca. Per cui, la Congregazione di San Bernardo attualmente annovera, oltre Santa Croce in Gerusalemme con la fisionomia giuridica sui iuris, e il priorato semplice di San Salvatore del Monte Amiata (Siena): l’abbazia di Chiaravalle, ugualmente sui iuris; inoltre, i priorati semplici di San Bernardo alle Terme (Roma), Santa Maria dei Lumi a San Severino Marche (Macerata), Chiaravalle di Fiastra (Macerata), Santa Maria in Tiglieto (Genova), San José do Rio Pardo (San Paolo del Brasile), abbazia sui iuris con la Residenza, a San Paolo con il priorato semplice a Chiada (Cile)77.
L’ARTE CISTERCIENSE NEL XVII E XVIII SECOLO NELLE REGIONI DI LINGUA TEDESCA Markus Thome
A differenza di quanto accade per l’arte cisterciense medievale, lo studio dell’arte del XVII e XVIII secolo è solo nella sua fase iniziale1. Il motivo va soprattutto ricercato nel fatto che i Cisterciensi, come fecero in generale gli ordini mendicanti, non hanno elaborato in questo periodo dei concetti artistici normativi che facciano riconoscere una cosciente tensione alla uniformitas2. Mentre il sistema commendatario limitava lo spazio di azione di molte abbazie in Francia e in Italia, dopo la fine della guerra dei Trent’anni una variegata produzione artistica cisterciense con caratteristiche regionali si sviluppava soprattutto nelle regioni cattoliche dei territori di lingua tedesca. In questo contesto troviamo esempi che inducono a ritenere l’arte barocca dei Cisterciensi solo una reazione al profondo mutamento della religiosità seguito alla Riforma. La sfida era quella di presentare i singoli monasteri come parte del generale rinnovamento della Chiesa cattolica e al tempo stesso comunicare la tradizione e la spiritualità cisterciensi. Se le mutate prefigurazioni dell’aldilà e il bisogno più accentuato di immagini avevano già portato fin dal ’300 a un maggior uso di raffigurazioni all’interno dell’Ordine, dopo il Tridentino i Cisterciensi impiegarono nell’allestimento delle nuove chiese mezzi visivi notevolmente diversi3. Tuttavia sarebbe errato interpretare questo solo come un segno dell’allontanamento dagli ideali originali. Frequentemente tali misure erano direttamente connesse alle aspirazioni riformatrici delle province o congregazioni che si andavano costituendo. In questo senso gli accordi che avevano per scopo lo stretto rispetto delle regole dell’Ordine, come gli Statuti di Fürstenfeld del 1595, rinunciarono a disposizioni limitative riguardo all’allesti-
mento delle chiese4. Al loro posto venne stabilito un importante compito del responsabile del monastero: provvedere a una degna dimora del Signore5. Fu questa, per esempio, la linea di azione dell’abate di Wettingen, Peter Schmid (1594-1633); non solo egli rinnovò il deambulatorio e il tramezzo per attuare la necessaria separazione del coro dei monaci, ma fece eseguire anche un ciclo di grandi stucchi e bassorilievi che circondava tutto lo spazio della chiesa medievale (fig. 13A)6. I singoli elementi artistici avevano per modello la decorazione della chiesa dei Gesuiti di Sankt. Michael di Monaco ma la concezione del contenuto rivela un’evidente impronta cisterciense. Nel presbiterio viene posta al centro la particolare devozione dei Cisterciensi a Maria: la raffigurazione della Visitazione, dell’Adorazione dei pastori e del miracolo di Pentecoste viene completata da un rilievo con la visione della lactatio di Bernardo di Clairvaux che illustra programmaticamente le intenzioni del committente (fig. 1). Dietro al santo inginocchiato è raffigurato, nello stesso atteggiamento e in identiche dimensioni, l’abate Peter Schmid. Nell’atteggiamento di fondatore, regge il modello della chiesa, saluta Maria con il nome del suo monastero, “Maris stella”, ponendo in questo modo i suoi sforzi per il rinnovamento dell’edificio ecclesiastico in diretta sequela dei più importanti santi dell’Ordine. Totalmente nello spirito del Concilio di Trento, che assegnava alle immagini una grande importanza nella trasmissione della fede, viene raffigurato lo stretto rapporto di Bernardo con Maria ed emblematicamente riconosciuta la sua particolare funzione nell’opera salvifica. Riferendosi alla spiritualità dell’Ordine vengono coscientemente scelti temi corrispondenti alla contemporanea tensione a sottolineare i contenuti della fede cattolica. La posizione icono-
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1. Gian Antonio e Pietro Castelli, Maria appare a Bernardo di Clairvaux e all’abate Peter Schmid inginocchiato alle sue spalle, rilievo in stucco, 1607/08. Wettingen, chiesa abbaziale, muro settentrionale del presbiterio.
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2. Waldsassen, chiesa abbaziale, veduta della navata centrale verso oriente.
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3. Giovanni Santini-Aichel, progetto della completa ricostruzione del monastero di Plasy/Plass, 1730 circa. Monastero cisterciense femminile di Sankt. Marienstern. 4. Johann Zick, le opere e i meriti di san Bernardo di Clairvaux, affresco sul soffitto della navata centrale della chiesa abbaziale di Raitenhaslach, 1738/39.
clasta di Bernardo poteva in questo caso perdere di importanza di fronte alla necessità di differenziarsi rispetto alle nuove dottrine. Se questa consapevolezza a Wettingen resta orientata al rafforzamento interno della comunità, dopo il 1648 i Cisterciensi si porranno sempre più al servizio della diffusione della devozione cattolica. Compiti come la pastorale e la trasmissione della fede richiedevano non solo una particolare formazione dei monaci, ma anche un’apertura almeno parziale delle loro chiese7. Di questa nuova coscienza sono particolari testimonianze la fondazione di nuovi monasteri cisterciensi e il ripopolamento di altri in zone ricattolicizzate o di confine, dove sorsero le prime nuove costruzioni e si realizzarono radicali trasformazioni di antichi monasteri. Diedero l’avvio Neuzelle (dal 1654), l’abbazia cisterciense femminile di Niederschönenfeld (dal 1659) nonché le nuove fondazioni maschili di Schlierbach e Waldsassen, realizzate con il sostegno dei sovrani8. Le loro chiese, iniziate negli anni 1680, seguono il tipo della sala a paraste, favorito dai Gesuiti, che servì da modello anche per numerosi edifici nuovi o trasformati, come per esempio Fürstenfeld, Aldersbach, Fürstenzell, Willhering o Krzeszów (fig. 13B, D, F)9. Invece di limitarsi ad attingere alla tradizione architettonica propria dell’Ordine, i Cisterciensi ripresero modelli di edifici ecclesiali cattolici tipici dell’epoca. I grandi spazi ad aula fiancheggiati da cappelle, adeguati a una numerosa presenza di laici, denotano sul piano architettonico la nuova importanza attribuita alla cura d’anime. Almeno parzialmente potevano servire per i servizi divini parrocchiali10.
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Generalmente, cancelli in ferro provvisti di tende garantivano una chiara separazione degli spazi. In particolare i Cisterciensi attribuivano importanza al passaggio che da oriente portava agli stalli del coro passando davanti ai gradini dell’altare maggiore11. Questo rendeva necessario l’allungamento dello spazio del coro o la collocazione tradizionale degli stalli nella campata orientale del corpo longitudinale, o della crociera. Con un secondo transetto fra gli stalli del coro e il presbiterio, la pianta della nuova costruzione di Sankt Urban (Franz Beer, 1711-1717) evidenzia una struttura perfettamente funzionale (fig. 13C)12. Un’analoga strutturazione degli spazi con diversi assi trasversali caratterizza il progetto di Giovanni SantiniAichel per Plasy e la trasformazione della chiesa abbaziale medievale di Stams (fig. 13E, fig. 3). Solo pochi nuovi edifici del XVIII secolo, come Villers-Bettnach e Himmerod, seguirono coscientemente le piante precedenti13. Facciate importanti, in parte con doppie torri, conferivano esteriormente alle costruzioni una funzione rappresentativa, rendendole chiaramente visibili in concorrenza con le chiese di altri ordini o vescovili. Vi si aggiungeva normalmente una ricca decorazione interna con stucchi e affreschi. Come base per il progetto della nuova chiesa di Waldsassen (1685-1704) i costruttori di origine boema Georg e Christoph Dientzenhofer presero l’alzata delle pareti della chiesa dei Gesuiti di Sant’Ignazio a Praga Nové Město (fig. 2)14. L’accostamento di affreschi (Johann Jakob Steinfels) e di stucchi (Giovanni Battista Carlone) di pari preziosità assicura una dovizia di splendore all’al-
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tezza degli edifici della regione allora più pretenziosi, come il duomo di Passau15. Come in tutti i nuovi edifici barocchi dell’Ordine si percepiscono elementi specificatamente cisterciensi solo nell’iconografia degli altari e nei dipinti di pareti e soffitti. Per esempio nel presbiterio di Wettingen occupa una posizione centrale il principale componente della spiritualità cisterciense, lo stretto rapporto con la Madre di Dio, di cui la tradizione dell’Ordine offre numerose testimonianze. Un resoconto di Cesario di Heisterbach risalente al 1220 circa costituisce l’ispirazione per il trionfo con i Cisterciensi protetti dal manto di Maria nella cupola del transetto di Waldsassen16. Nei pennacchi tradizionalmente riservati ai Padri della Chiesa o agli Evangelisti sono ritratti Roberto di Molesmes, Alberico, Stefano Harding e Heinrich di Heisterbach che ricevono dalla Vergine doni simbolici come l’abito bianco dell’Ordine, l’anello e il pastorale dell’abate17. Oltre a queste raffigurazioni specifiche i temi mariani godono in generale di grande popolarità. Gli altari principali presentano spesso l’Assunzione di Maria in conformità al patrocinio delle chiese cisterciensi.
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L’ampia attività dell’Ordine e la sua lunga storia venivano attualizzati tramite i cicli dei santi cisterciensi i cui fondamenti erano forniti da diversi testi agiografici del XVII secolo. Oltre alle numerose serie di medaglioni (Ebrach, Schlierbach, Waldsassen) vennero realizzati esaurienti cicli raffigurativi (Baumgartenberg)18. Solo a partire dal XVIII secolo si può constatare una maggiore insistenza su Bernardo di Clairvaux che si prestava a una chiara identificazione in quanto santo più importante che aveva dato una precisa impronta all’Ordine. Negli affreschi del soffitto del corpo longitudinale di Fürstenfeld, datati al 1731, Cosmas Damian Asam ha raffigurato cinque scene centrali della Vita di Bernardo che in una sorta di tipologia vengono abbinate nel medesimo riquadro a scene della vita di Gesù. Il Santo appare qui come modello ideale della Imitatio Christi da lui stesso raccomandata quale mezzo per ottenere salvezza19. Per mostrare Bernardo in tutta la sua importanza a livello di politica ecclesiale, ma anche nel suo importante ruolo pastorale di intermediario della salvezza, a Raitenhaslach venne scelta una combinazione di numerose scene della sua vita (fig. 4).
Nelle due pagine precedenti: 5. Georg Wilhelm Josef Neunhertz, la fondazione del monastero di Krzeszów/Grüssau, affresco sul soffitto della cupola meridionale del mausoleo dei duchi di Schweidnitz-Jauer, annesso alla chiesa abbaziale, 1740 circa.
7. Zwettl, chiesa abbaziale, veduta della navata verso oriente. 8. Lilienfeld, chiesa abbaziale, veduta della navata verso oriente.
6. Sedlec/Sedletz, chiesa abbaziale, veduta della navata verso oriente.
L’abate Robert Pendtner fece porre al centro della volta del corpo longitudinale la mistica unione di Bernardo con Cristo e Maria, dando però contemporaneamente un posto rilevante ai suoi meriti nella lotta contro lo scisma e nella chiamata alla crociata. I miracoli e la sua vita di monaco completavano l’immagine del Santo20. Naturalmente questi temi non erano isolati, ma parte di un esteso programma iconografico. Allo scopo di coordinare la trasmissione della fede e la propaganda per l’Ordine, i Cisterciensi imitarono l’esempio di altri ordini, come i Domenicani e i Gesuiti21. Ciò vale anche per il riferimento alla storia del singolo monastero e alla memoria dei fondatori, ambedue temi cari soprattutto alle tradizionali comunità monastiche. Questi aspetti costituiscono tuttavia una notevole costante nei programmi decorativi cisterciensi, che spaziano da stemmi e iscrizioni sulla nuova sistemazione di antiche lapidi e singole rappresentazioni figurative fino a dettagliati dipinti della storia della fondazione. A Stams fra il 1681 e il 1684 venne realizzato sul lato occidentale del corpo longitudinale un nuovo dispendioso monumento sepolcrale per i membri della casata del Tirolo22. A Krzeszów, a oriente della chiesa abbaziale edificata fra il 1728 e il 1735, venne aggiunto un mausoleo riservato ai fondatori. Qui trovarono sistemazione sia le tombe medievali come pure le sepolture più recenti dei duchi di Schweidnitz-Jauer. Gli affreschi della cupola illustrano la storia della fondazione del monastero: a sud la consegna ai Cisterciensi nel 1289 e gli abati che, dopo i tempi difficili del XV e XVI secolo, avevano provveduto all’acquisto di importanti possedimenti e al restauro degli edifici (fig. 5)23. Le iscrizioni citano gli avvenimenti riferendosi all’alleanza stretta da Dio con il suo popolo come storia salvifica e all’eterna memoria per i fondatori. Analogamente anche altrove le raffigurazioni storiche dovevano rafforzare l’autocoscienza della comunità come pure mostrare azioni coronate da successo nel corso dei secoli. Al tempo stesso opportune sottolineature mettevano in evidenza esigenze giuridiche e politiche24. Oltre alla visualizzazione della storia per immagini, con evidenti opere di conservazione e di rinnovamento degli edifici ecclesiali medievali, i Cisterciensi perseguivano anche un’altra strategia di consapevole messa in scena della tradizione. Degna di nota è la ricostruzione della chiesa abbaziale di Sedlec (1700-1709) parzialmente distrutta nel 1421 dagli Hussiti, che è possibile interpretare come segno di un riuscito rinnovamento della tradizione cattolica della Boemia (fig. 6). Le nuove volte della navata centrale, i cui costoloni intrecciati ricordano la sala di Ladislao del castel-
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lo di Praga, sottolineano l’appartenenza al canone di uno stile gotico nazionale e suffragano un giudizio già diffuso nel XVII secolo. Il vasto programma di dipinti e affreschi mostra che non si trattava innanzitutto di un ritorno alla simplicitas ricercata dai padri dell’Ordine25. Non è questo l’unico caso in cui la qualità architettonica aveva avuto un ruolo fondamentale nella decisione di conservare gli edifici ecclesiali più antichi. A Zwettl i resti del corpo longitudinale romanico, nonostante l’evidente valore quale fonte storica, dovettero cedere il posto quando nel 1722 si allungò la chiesa gotica con forme stilisticamente corrispondenti (fig. 7)26. Contemporaneamente vennero aggiunti allo spazio sacro una imponente facciata barocca a una torre e nuovi altari. Tenuto conto di questo completamento storicizzante, l’e-
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dificio gotico contrasta con queste parti come vettore di significato volutamente esposto allo sguardo. Una medesima impressione deriva da Kaisheim, Lubia˛> o Lilienfeld dove il rifacimento barocco della chiesa è ancora una volta limitato agli arredi liturgici (fig. 8). L’architettura doveva chiaramente fungere da testimonianza della tradizione storica del luogo, a cui contemporaneamente si dedicavano numerosi storici dell’Ordine. Oltre allo studio delle fonti scritte, fu una maggiore coscienza storica a portare a un interesse quasi “archeologico” per le antiche costruzioni monastiche e influenzare chiaramente la modalità dei rifacimenti cisterciensi delle chiese27. Non è parimenti da escludere che siano state prese a modello le abbazie primarie le cui chiese, nonostante il rifacimento degli edifici conventuali, non vennero quasi mo-
dificate architettonicamente fino alla fine del XVIII secolo28. Di regola tale renovatio conservativa restò limitata alla chiesa o ad altre parti importanti dell’impianto monastico, come la sala del capitolo e il chiostro. Nelle immediate vicinanze sorsero nuovi edifici conventuali e residenze degli abati simili a castelli. Queste nuove sontuose realizzazioni non rispecchiano solo il trionfo della Chiesa cattolica, ma anche l’accresciuta autostima degli abati che governavano proprietà e servi come signori terrieri o persino come signori locali dipendenti direttamente dall’impero29. Per esprimere la posizione sociale e l’aspirazione al potere politico, i progetti delle costruzioni si ispiravano alle vicine residenze di principi, vescovi o di altri abati. Il progetto di Santini-Aichel per Plasy, almeno parzialmente realizzato a partire dal 1711, evidenzia un complesso dalla struttura
strettamente geometrica con lunghe ali articolate in padiglioni, con giardini e cortili commisurati alle facciate (fig. 3). Una conseguenza della storia costruttiva è l’insolitamente chiara separazione fra il monastero coerente con la chiesa e la più antica residenza dell’abate30. Come si può vedere dalla struttura di Salem e di Ebrach, questa parte di edifici era normalmente piuttosto lussuosa. Portali sontuosi, scalinate e grandi sale costituivano la cornice per ricevimenti e festeggiamenti (fig. 9). Delle sale riccamente decorate faceva solitamente parte anche la biblioteca31. I programmi decorativi sono anche qui messi variamente in relazione con la storia dell’Ordine e del monastero. I ritratti dei signori e dei papi nella sala imperiale di Salem sono altrettante indicazioni concrete dei diritti e dei privilegi del monastero imperiale, mentre a Ebrach la lotta contro i
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Nelle due pagine precedenti: 9. Ebrach, la scala barocca monumentale.
Sopra e a fronte: 11. Birnau, chiesa di pellegrinaggio, l’interno.
10. La parete occidentale della sala bernardina del monastero di Stams con scene del ciclo di san Bernardo: la conversione di Guglielmo d’Aquitania (al centro in alto) e il miracolo del pane (a destra), di Franz Michael Huber e Anton Zoller, 1722.
12. Gottfried Bernhard Göz, l’abate Anselmo II di Salem e la chiesa di pellegrinaggio di Birnau, 1749. Ex monastero cisterciense di Salem, in possesso di Sua Altezza Reale il margravio di Baden. Nella pagina seguente: 13. Piante delle chiese monastiche di Wettingen (A), Waldsassen (B), St. Urban (C), Fürstenfeld (D), Stams (E) e Krzeszów/Grüssau (F). 12
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miscredenti viene messa più generalmente in relazione con i Cisterciensi32. Al contrario, gli affreschi del salone delle feste di Stams sono interamente dedicati a san Bernardo (fig. 10). Nella raffigurazione viene particolarmente sottolineata la sua attività di politica ecclesiastica riguardo alle crociate e alla vittoria sullo scisma, alludendo in questo modo anche all’importante ruolo storico dell’Ordine nella difesa della vera fede33. Anche il programma degli affreschi del soffitto nella sala della biblioteca del monastero di Waldsassen ricerca un analogo riferimento alla Controriforma, ponendo tuttavia un più forte accento sugli scritti di Bernardo e sulla sua spiritualità34. Iniziatori del vasto programma di costruzione e di decorazione erano soprattutto gli abati che, nel XVII e XVIII secolo, definivano in modo sempre nuovo le esigenze di prestigio dei loro monasteri. Non mancavano tuttavia i dissapori con il monastero. L’abate di Salem, Anselmo II Schwab (1746-1778), famoso per la carrozza con tiro a sei con la quale viaggiava, venne addirittura deposto temporaneamente nel 176135. Nel dipinto giovanile di Gottfried Berhard Göz si fece ritrarre come committente del santuario di Birnau (fig. 12). Con il trasferimento e la nuova costruzione (Peter Thumb, 1746-1750) i Cisterciensi non si erano solo assicurati il controllo di questa meta di pellegrinaggio incorporata nel tardo Medioevo al monastero, ma ave-
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vano anche provveduto a una nuova sontuosa sistemazione del quadro miracoloso (fig. 11)36. Qui viene messo immediatamente in luce il collegamento fra il ruolo dell’abate quale promotore della venerazione di Maria e la rappresentazione del proprio rango, intesi come compiti di pari importanza del suo ufficio37. Dopo Birnau sorsero, sotto il patronato dei Cisterciensi, altre importanti chiese di pellegrinaggio con la cappella di Waldsassen (Georg Dientzenhofer, 1682-1689) e il santuario dei Quattordici Santi dipendente da Langheim (Balthasar Neumann, 1742-1772)38. Proprio questi edifici, il cui assetto non permette di riconoscere nessuna forma specifica che riconduca all’Ordine, chiariscono l’aspirazione a un ruolo attivo nel rafforzamento delle tradizionali forme di pietà cattolica39. Esattamente come l’assunzione di compiti pastorali, la diffusione della recita del Rosario o la fondazione di confraternite religiose, anche la sontuosità barocca delle costruzioni cisterciensi deve essere intesa come reazione ai nuovi compiti relativi alla riforma cattolica. Il chiaro distacco dai modelli artistici del Protestantesimo era importante esattamente come l’uso di mezzi figurativi. Il richiamo alle tradizioni dell’Ordine e alla specifica spiritualità dei Cisterciensi restò limitato a riferimenti storici nella forma di rappresentazioni figurative o di voluto mantenimento di elementi architettonici medievali, nonché all’iconografia dei dipinti dell’altare, delle pareti e del soffitto.
L’abbazia di Heiligenkreuz, nel Wienerwald, deve la sua importanza già nel Medioevo a diverse ragioni, tra le quali non ultime furono le sue strette relazioni con i sovrani austriaci, fondatori del monastero, che frequentemente lo elessero a loro luogo di sepoltura1. Resta incerto se i monaci chiamati da Morimond nel 1133 portarono con sé idee concrete di architettura cisterciense e se progettarono una chiesa sul modello borgognone; è appurata solamente l’esistenza di una costruzione precedente2. Nella sua attuale struttura, il corpo longitudinale romanico sorse dopo il 1150, esprimendo una diversa concezione architettonica (fig. 1). La sua costruzione si svolse in tre tappe fino alla consacrazione nel 11873. Come basilica a pilastri a volte concatenate, la chiesa segue il tipo di costruzione diffuso soprattutto nella Renania superiore e adottato anche da Eberbach e da altri luoghi cisterciensi4. L’articolazione dell’esterno, i capitelli e la volta a costoloni a nastro nella navata centrale evidenziano uno stretto nesso con il corpo orientale del duomo di Worms e altre costruzioni da esso derivate. Nella decorazione è possibile rilevare concordanze con Maulbronn5. Nel XII secolo le cronache riportano come mecenate della costruzione il duca Heinrich II Jasomirgott, i cui contatti con la Renania superiore portarono chiaramente alla trasmissione di un linguaggio architettonico nuovo per la regione. Insieme alla contemporanea chiesa di Nostra Signora degli Scoti (Schottenkirche) di Vienna, la costruzione cisterciense stabilì nuovi parametri nell’architettura regia, senza rinunciare esplicitamente alle caratteristiche specifiche dell’Ordine6. Nella navata longitudinale, il fronte liscio dei pilastri delle arcate unitamente al tipico disegno a spiovente delle volte creano l’effetto di pareti dalle superfici estremamente pia-
ne e il contrasto con le cornici riccamente intagliate rafforza l’impressione di una voluta simplicitas. L’asimmetria della facciata occidentale indica chiaramente che fu l’utilizzo a determinare la struttura della costruzione. Il portale sud, spostato sulla parete della navata laterale, serviva da ingresso per i conversi. Probabilmente un passaggio coperto metteva in comunicazione con l’ala riservata ai laici, arretrata rispetto alla facciata della chiesa7. Gli edifici conventuali, restaurati fra il 1220 e il 1250, rispettavano l’usuale schema dei monasteri cisterciensi. La preziosa architettura del chiostro seguiva il modello proprio dell’Ordine; i capitelli a crochet, gli intagli pronunciati e la diversa colorazione dei pilastri e delle paraste ricordano la prima architettura gotica in Borgogna (fig. 3). Diversamente che a Zwettl e a Lilienfeld, le chiavi di volta di grande pregio nell’ala nord, eretta per prima, possono persino rimandare a maestranze istruite in loco8. Nonostante la ricchezza della decorazione e l’impiego di marmo rosso simile a quello usato negli edifici di Leopoldo 9 VI, non si tratta di architettura di corte . Solo il trasferimento fa apparire particolarmente sontuose queste forme, sviluppate in Borgogna10. Originariamente solo l’ala nord, utilizzata per le letture e la lavanda dei piedi, nonché l’ala sud erano protette contro le intemperie da lastre ornamentali a grisaille11. Il padiglione della fontana, la cappella dell’infermeria e il coro ad aula consacrato nel 1295 evidenziano una rielaborazione dello stile rayonnant tipico dell’epoca, nel quale l’utilizzo dello smusso denota esemplarmente le tradizioni cisterciensi. Il presbiterio, collegato al transetto da tre navatelle di uguale larghezza (fig. 2), trasforma il deambulatorio rettangolare progettato un secolo prima a Cîteaux e a Morimond in un nuovo spazio ad aula rispondente a nuo-
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Nelle due pagine precedenti: 1. La navata centrale della chiesa abbaziale di Heiligenkreuz.
Sotto: 3. L’ala occidentale del chiostro di Heiligenkreuz, con sullo sfondo il gruppo scultoreo della Lavanda dei piedi, opera di Giovanni Giuliani, 1705.
2. Il presbiterio gotico e l’altare maggiore, opera di Dominik Avanzo, 1887.
ve esigenze estetiche e funzionali12. Contrariamente alla supposizione che si tratti di un’architettura programmatica degli Asburgo, i nuovi edifici si situano nel contesto della decisione già precedentemente presa dai monaci di organizzare il proprio monastero come luogo tradizionale di sepolture dinastiche13. Ne sono chiara espressione soprattutto il nuovo allestimento delle tombe dei Babenberg nella sala del capitolo e le raffigurazioni dei membri della famiglia dei fondatori nelle vetrate della fontana14. Come a Salem o a Zbraslav, con il coro ad aula si realizzarono un’architettura estremamente ambiziosa e una soluzione spaziale basata su uno stile genuinamente cisterciense con il quale l’Ordine reagì anche alla crescente concorrenza degli ordini mendicanti15.
ARMAND-JEAN DE RANCÉ E I TRAPPISTI Marie-Gérard Dubois †
I nuovi locali costruiti a partire dal 1634 per il monastero, per l’abate e gli ospiti, vennero raggruppati attorno alle ali più antiche, conservate nonostante avessero subìto parecchie distruzioni. La sala del capitolo, il refettorio estivo, la nuova sacrestia e la biblioteca vennero riccamente decorati con rilievi e affreschi, con ampie e varie citazioni dei santi dell’Ordine e della storia del monastero. In confronto la chiesa, ricostruita nel 1683 dopo l’assedio turco, evidenzia solo una dotazione di buona qualità con grandi altari barocchi16. Oltre a Johann Michael Rottmayr e Martino Altomonte, fu attivo soprattutto, su incarico degli abati Marian Schirmer (1693-1705) e Gerhard Weichselberger (17051728) lo scultore Giovanni Giuliani che, nel 1711, si unì alla comunità monacale come famiglio17. I gruppi scultorei della Lavanda dei piedi nel chiostro e gli stalli del coro nel corpo longitudinale, nonché la colonna dedicata alla Trinità, realizzata nel 1739 nella corte dell’abbazia, sono ancora oggi testimonianza del restauro barocco del monastero nel contesto della Riforma cattolica. In contrasto con gli edifici e la decorazione di stile barocco, l’evidente conservazione dell’architettura medievale racconta la lunga tradizione cisterciense del luogo. 3
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Secondo maschio di una famiglia di otto figli ben inserita alla corte di Versailles, figlioccio di Richelieu da cui ricevette il nome di battesimo, Armand-Jean de Rancé ebbe un’educazione degna del suo rango. Probabilmente suo malgrado dovette seguire la carriera ecclesiastica dopo la prematura morte del fratello maggiore, affinché i benefici di questi potessero rimanere in famiglia. Eccolo dunque insediato a 11 anni, nel 1637, canonico di Parigi e, un anno più tardi, abate commendatario di cinque abbazie e priorati, fra i quali la Trappe, nella regione normanna del Perche. Diplomatosi maître-ès-arts a 18 anni, nel 1643, proseguì gli studi di teologia con insegnanti privati, senza tuttavia condurre una vita da recluso, tutt’altro. Strinse diverse amicizie fra le quali parecchie nell’alto clero. Egli stesso, grazie alle sue doti intellettuali e all’influenza di uno dei suoi zii, arcivescovo di Tours, poteva sperare di accedere alla dignità episcopale. Non aveva forse conseguito la laurea alla Sorbona, primo del suo corso davanti a Bossuet? Venne invece coinvolto in sommovimenti politici. Intimo amico di Gondi, futuro cardinale di Retz, subì il contraccolpo della sua caduta in disgrazia dopo la Fronda e nel 1657 Mazarino si oppose alla sua nomina a coadiutore dello zio a Tours, che l’aveva ordinato prete nel gennaio del 1651 e poi arcidiacono nella sua diocesi. La sua carriera fu spezzata, ma non la sua vita fastosa e mondana, costellata da belle cavalcate e partite di caccia. I salotti parigini gli erano familiari, in particolare quello della duchessa di Montbazon. La proprietà di campagna dei Montbazon in Turenna confinava con quella del padre di Rancé e le due famiglie si frequentavano fin dal 1137. Una forte amicizia univa Rancé alla duchessa, maggiore di lui di quattordici anni. Da qui a fare congetture su un legame colpevole c’era solo un passo che alcuni superarono senza
batter ciglio1 anche se niente li autorizzava, benché, più tardi, Rancé si sia accusato di «aver violato diverse volte i voti del suo battesimo» (lettera del 27 maggio 1664). Pur essendo frivolo e conducendo una vita da abate di corte più che di sacerdote preoccupato dei suoi doveri, Rancé non si disinteressava affatto delle questioni della Chiesa. Delegato della provincia di Tours all’Assemblea del clero apertasi nell’ottobre 1655, egli prese parte ai dibattiti e, nel settembre 1656, firmò la Formula di condanna del giansenismo, malgrado le sue simpatie per questa corrente alla quale non aderì mai. Nel giugno 1656, succedette a suo zio e fu nominato elemosiniere di Gaston di Orléans, zio di Luigi XIV. Questa vita poteva forse appagarlo? Secondo la testimonianza del duca di Saint-Simon che la raccolse dalla bocca dello stesso Rancé2, la grazia divina lavorava in lui segretamente. Era «già toccato e combattuto fra Dio e il mondo, meditando da qualche tempo di ritirarsi», quando la duchessa di Montbazon contrasse il morbillo e morì in pochi giorni, il 26 aprile 1657, a 44 anni, Rancé la assistette e la preparò a una buona morte. Ma questo rapido decesso lo sconvolse e gli fece cogliere la vanità della vita mondana senza preoccupazione per l’eternità che poteva sopravvenire improvvisamente. «Le riflessioni che questa morte così rapida provocarono nel suo cuore e nella sua mente – racconta Saint-Simon – perfezionarono la sua determinazione e quando, poco dopo, si ritirò nella sua casa di Véretz, in Turenna, questo segnò l’inizio della sua separazione dal mondo». La morte di Gaston d’Orléans, nel 1660, confermò la sua decisione. «Dio non mancò di intervenire nei miei pensieri – scriverà più tardi – e dato che ne avevo sempre conservato la fede e il sentimento, non dubitavo di trovarlo nel bisogno che avevo di lui e speravo an-
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Qui e a fronte: 1. Il monastero della Trappe ai tempi di Rancé. Disegno tratto dagli Archivi della Trappe.
Nelle pagine seguenti: 3-6. Scene di vita dei Trappisti, illustrazioni popolari pubblicate a Parigi nel XVIII secolo. Archivi della Trappe.
2. Hyacinthe Rigaud, Ritratto dell’abate de Rancé. Carpentras, Musée Duplessis.
che che riempisse nel mio cuore quel grande vuoto provocato dal divorzio che volevo frammettere fra me e le creature. Mi ritirai in campagna, il cuore pieno di sconvolgimento e di confusione, senza sapere cosa sarebbe avvenuto di me» (lettera del 22 novembre 1686). Consultò molte persone, lesse libri di spiritualità, si esaminò sulle proprie responsabilità di abate commendatario, mai assunte. Poco per volta si delineò un orientamento. Volle spogliarsi dei suoi beni e delle sue dignità, con grande sorpresa dei suoi amici che persino lo ostacolarono. Per conformarsi al diritto e alla morale, cercò di conservare un solo beneficio in commenda, affidando gli altri a persone preoccupate del bene spirituale delle comunità. Infine, dopo aver risolto problemi e aver tergiversato, decise di consacrarsi alla ripresa spirituale della comunità della Trappe, lasciata fino a quel momento abbandonata e che si trovava in uno stato deplorevole sia materiale che spirituale.
Abate della Trappe I monaci erano rimasti solo in sei e si dedicavano come po-
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tevano a occupazioni e distrazioni. La clausura non esisteva più, l’Ufficio divino non veniva più celebrato. La chiesa era in completa rovina come il resto del monastero; nei chiostri pioveva. Quando Rancé, nel 1662, annunciò la sua intenzione di introdurre la riforma della Stretta Osservanza allora in vigore in alcuni monasteri, i monaci volevano quasi ucciderlo. Finalmente venne trovato un accordo: erano liberi di andarsene con una piccola pensione; altri venuti da fuori li avrebbero sostituiti. La vita regolare riprese con monaci venuti da Perseigne, un’abbazia riformata vicina ad Alençon, mentre il commendatario faceva restaurare gli edifici e vegliava sul buon sviluppo della comunità. Rancé, tuttavia, era travagliato nel suo intimo: l’esempio dei monaci lo stimolava, ma poteva restare a guardarli come dal di fuori? Domandò consiglio e, infine, dopo diversi mesi di riflessione, il 17 aprile 1663, prese la decisione di diventare lui stesso monaco, idea che due anni prima aveva respinto con spavento. «Vedo che la vita che sto intraprendendo è superiore alle mie forze e che non vi è nulla in comune fra la vita che ho condotto finora e quella in cui mi impegno, ma so che niente supera la potenza di Dio e che Lui può compiere in me l’opera che la sua misericor-
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dia ha iniziato» (lettera del 30 maggio 1663). Il 10 maggio 1663, Rancé ottenne da Luigi XIV di passare alla “regolarità”, a condizione che l’abbazia ritornasse in commenda alla sua morte, cosa che peraltro non avvenne. Fece un anno di noviziato a Perseigne, ottenne le bolle papali il 19 giugno 1664, pronunciò i voti il 26 giugno e ricevette la benedizione abbaziale il 13 luglio a Sées. L’indomani giungeva alla Trappe per assumere personalmente il suo nuovo incarico. Rancé aspirava solo alla solitudine e al silenzio. Ma un mese più tardi gli abati della Riforma lo inviarono a Roma per perorare la causa della Stretta Osservanza. Vi trascorse due anni, ma senza risultato; le mezze misure della Santa Sede espresse nella Bolla In suprema del 1666 non gli piacquero. I suoi interventi presso il re non ebbero successo e alla fine decise di intraprendere la sua Riforma personale, senza preoccuparsi di ciò che avveniva nell’Ordine, ma senza rompere con esso.
chero, marmellata o dolci. Il consumo di latte, formaggio e burro era regolamentato; il pane era quello nero dei contadini della regione. Vennero riprese le veglie notturne e il lavoro manuale tre ore al giorno. Il silenzio era molto stretto: si poteva parlare solo con il superiore, ma l’abate organizzava a volte degli incontri comunitari in cui ognuno esponeva la sua idea su un tema particolare. Tale regime, sopportabile per uomini in buona salute, diveniva penoso quando sopravveniva la malattia. Certo, il regime alimentare era addolcito in infermeria, ma bisognava trovarsi in condizioni quasi disperate per esservi ammessi e lo spirito di penitenza restava, per esempio nella posizione (su una sedia invece che a letto, durante il giorno). Inoltre, la mancanza di anestetici comportava sofferenza, quando per esempio bisognava incidere ascessi purulenti, ma i monaci accettavano tutto con una buona padronanza di sé. La tubercolosi era frequente in quel periodo e non si sapeva come dar sollievo ai malati. Rancé temeva che si prendessero cattive abitudini dando troppo peso ai propri malanni. L’abate doveva sicuramente avere carità verso i malati, ma nello stesso tempo doveva prendersi cura del loro progresso spirituale. Diversi malati si facevano un punto d’onore, per mortificazione, di rifiutare il sollievo che si voleva dar loro. A dire il vero l’ascesi non era l’aspetto principale per Rancé. Ciò che conta agli occhi di Dio, diceva, è la penitenza interiore, che è spirito di umiliazione, sentimento del pro-
L’osservanza della Trappe Rancé volle che si osservasse il più precisamente possibile la Regola benedettina, nello spirito dei Padri del deserto, tenendo conto tuttavia della salute dei monaci, ma lasciando da parte le attenuazioni che l’autorità della Chiesa aveva legittimato. Il regime alimentare non comprendeva né carne né pesce né uova né condimenti troppo forti né zuc-
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prio peccato, rinuncia al mondo per il male che contiene, rinuncia al possesso, ubbidienza. Anche la penitenza interiore non ha altra giustificazione e fine che l’amore di Dio: «È con il cuore che si serve Dio, gli si ubbidisce, lo si adora; e qualsiasi cosa gli si doni, se non gli si dona il cuore non gli si dona nulla che possa piacergli»3. Non si può peraltro negare che Rancé, segnato dalla teologia e dalla spiritualità del suo tempo, abbia avuto un sentimento eccessivo della decadenza dell’uomo e della vacuità del mondo presente; come molti della sua epoca, credeva che Dio potesse perdonare solo una volta soddisfatta la sua giustizia con un giusto castigo, quello subìto da Gesù Cristo sulla croce, al quale l’uomo deve partecipare nel suo piccolo ma in modo totale. Le prove subite pazientemente o abbracciate volontariamente sono l’occasione per soddisfare la Giustizia divina. Tuttavia Rancé – lo si percepisce nelle sue Relations de la mort de quelques religieux – non voleva che si sprofondasse in un pentimento vicino alla disperazione dimentico della misericordia del Signore: alla Trappe si moriva nella gioia e nella fiducia!
La crescita della comunità Malgrado l’austerità della vita alla Trappe, addirittura a causa di essa, la comunità si accrebbe rapidamente. In tre anni contava già una trentina di religiosi e la sua crescita continuò fino a raggiungere 90 religiosi al momento delle
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dimissioni di Rancé nel 1695. Il 39% delle 134 persone di cui ricevette la professione erano già religiosi o preti diocesani. Molti avevano esercitato cariche importanti come priori o maestri dei novizi. Ciò diede vita a una comunità di religiosi di valore. L’aspettativa di vita alla Trappe non era, però, lunga: otto anni in media per i monaci di coro dopo la loro professione e diciotto anni per i conversi (forse erano più robusti o meno confinati, quindi meno soggetti al contagio delle malattie infettive). I 36 anni che Rancé visse alla Trappe sono prodigiosi! Ciò che, però, distinse la comunità della Trappe fu la sua coesione che venne citata a più riprese da testimoni, anche da quelli prevenuti contro Rancé. Tale coesione era in massima parte dovuta al carisma dell’abate, che si dedicava pienamente alla Trappe e trascorreva la maggior parte del suo tempo libero ricevendo i suoi monaci, di cui era il confessore. Nel 1694, quando si montò un intrigo contro la Trappe, i monaci promisero di conservare le pratiche del monastero «fra le quali… quell’amicizia pura e sincera, quella sottomissione cordiale gli uni verso gli altri, quella tenerezza, quella pronta ubbidienza, quell’abbandono senza riserve nelle mani di colui che era stato dato loro dalla provvidenza e dalla bontà di Dio come Padre e guida…»4. Un’architettura monastica? Rancé ha contribuito alla crescita del patrimonio architettonico della regione? Come ogni altro abate, ha dovuto
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7. Un morente riceve il viatico. Il disegno risale ai tempi di Rancé e mostra la riserva eucaristica alla Trappe, appesa alla mano destra della Vergine. 8. Particolare della struttura in ferro battuto a cui è sospesa la colomba della riserva eucaristica nella chiesa dell’abbazia di Valloires (Piccardia).
mantenere in buono stato il suo monastero e aggiungere delle costruzioni. Ma non ebbe, come altri, un programma di creazione artistica. Il suo ideale glielo impediva. A un vescovo che voleva erigere una fondazione nella sua diocesi, Rancé scrisse che gli edifici dovevano «non solo essere modesti e molto semplici, ma addirittura poveri». Dio non ha mai benedetto i monaci «che, invece di accontentarsi di trascorrere la loro vita in catapecchie e in capanne, hanno voluto costruirsi dei palazzi» (lettera del 7 giugno 1671). Povero non significa brutto e sporco. La sua opera fu giudicata degna di nota, cosa che, peraltro, ci permette di conoscerla un poco, malgrado le distruzioni della Rivoluzione francese. Nel 1671 fu pubblicata da Félibien des Avaux, una description de l’abbaye de la Trappe, ristampata nel 1689. Più importanti furono le rilevazioni, eseguite da un geometra, della pianta precisa del piano terreno, nonché delle facciate dei quattro lati, con una descrizione degli interni5. All’arrivo dei primi monaci da Perseigne, nel 1662, fu necessario far fronte alle cose più urgenti: evitare che piovesse negli edifici, rendere la chiesa abitabile, rimettere le vetrate, pavimentarla… Il dormitorio, aperto alle intemperie, fu restaurato creando celle con grandi finestre. Il resto della casa subì il medesimo destino: come sarà scritto in un rapporto ulteriore redatto dal Capitolo generale, l’abate ha trasformato, «con zelo e diligenza, l’antica Babilonia in una nuova Gerusalemme». In chiesa venne ripreso l’antico uso di sospendere il Santo Sacramento invece che riporlo nel tabernacolo. Tuttavia, al posto della tradizionale colomba (esistente ancora a Valloires), il Santo Sacramento, sormontato da un padiglione, venne appeso alla mano destra di una Vergine, «creata da una mano così buona da essere degna dell’antichità», che sosteneva il Bambino Gesù con la sinistra. L’idea dell’insieme ci viene fornita da un disegno di Félibien des Avaux. La crescita della comunità comportò degli ampliamenti. Nel 1671 il refettorio venne allungato e al piano superiore furono costruite ventiquattro nuove celle. Rancé non si era ancora reso conto che san Benedetto prevedeva un dormitorio comune, ma quando dovette approntare un nuovo dormitorio per i conversi, nel 1685-86, lo progettò senza celle. I monaci, durante i primi tempi, si dedicavano alla lettura nelle celle; nel 1675, infine, le aperture del chiostro ricevettero delle vetrate e si poté fare qui la lectio; a quel punto le celle servirono solo per il sonno. Il numero degli stalli in chiesa dovette essere aumentato
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nel 1686 imponendo la soppressione di una cappella dedicata a Giovanni Climaco fra i cori dei monaci e dei conversi. Considerata la grande devozione dell’abate verso questo santo, la soppressione venne compensata aggiungendo a quelle che si trovavano dietro all’abside due cappelle, una in onore di Giovanni Climaco e l’altra di Maria Egiziaca. Tutto è sistemato con gusto, sebbene senza ornamenti mondani, anche nella parte riservata agli ospiti. Le loro camere – verrà riportato da un visitatore – uniscono pulizia, precisione e semplicità: «non vi si vedono tappezzerie, ma muri nudi intonacati e imbiancati in modo così ammirevole che la neve non può essere più bianca». Nel 1674, un po’ discosto dalla corte di entrata dove vennero sistemati gli edifici agricoli, l’abate fece costruire un alloggio per il commendatario che, pensava, gli sarebbe succeduto. Questa costruzione, l’abbaziale di Rancé, è l’unica rimasta dell’epoca, sebbene in condizioni molto deteriorate. Al tempo di Rancé era annessa alla foresteria, in particolare per le dame dell’alta società che venivano a visitare la Trappe e il suo abate.
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Tutti questi lavori derivavano da una politica di mantenimento e di adattamento dei locali. Ma Rancé non distruggeva per ricostruire più in grande, secondo i canoni della moda, come molti abati fecero a partire dal XVII secolo e più ancora nel XVIII. Valloires ne è un bell’esempio che si è conservato. Egli procedette al contrario, poiché nel 1688 sostituì la cuspide del campanile molto affilata, che trovava troppo pretenziosa, con un bulbo più ridotto (come si vede nel disegno del 1708). Arte letteraria Se la storia dei monumenti del Perche non ha risentito della sua impronta, Rancé ha invece arricchito la letteratura francese. Dietro le insistenze di Bossuet, nel 1683 pubblicò presso Muguet le sue istruzioni per i monaci sotto forma di domande e risposte: De la sainteté et des devoirs de la vie monastique. Quest’opera capitale suscitò polemiche, Rancé andava troppo controcorrente rispetto alle concezioni dell’epoca; attirò la replica di coloro che si sentirono presi di mira, in particolare sulla questione dello studio dei monaci6 o su quella delle loro relazioni familiari e dovette
pubblicare degli Éclaircissements de quelques difficultés que l’on a formées sur le livre de la sainteté… come pure una Réponse au Traité des études monastiques di Mabillon; tradusse le Istruzioni di san Doroteo di Gaza e la Regola di san Benedetto con commento. Gli sono attribuite altre opere di pietà, in particolare delle meditazioni sulle letture liturgiche. Dal punto di vista letterario bisogna però sottolineare soprattutto la sua corrispondenza. Sebbene ritirato dal mondo e deciso a vivere in solitudine, Rancé restò in contatto, suo malgrado, con molti di quanti aveva frequentato in passato. Numerosi venivano a trovarlo alla Trappe. Si sono conservate circa 2500 lettere, probabilmente circa un decimo della sua corrispondenza. Ci rivelano un uomo pieno di discrezione e di buon senso e la loro lettura viene a correggere l’impressione che può essere fornita dal tono polemico degli scritti destinati al dibattito di idee. Vi si rintracciano le fasi principali dell’evoluzione spirituale dell’autore e i segni della sua fedeltà nell’amicizia. Sono anche un monumento letterario, sebbene Rancé non scrivesse per essere pubblicato. Si leggono con piacere i suoi lunghi periodi, con diverse proposizioni subordinate che rispettano la concordanza dei tempi, con il frequente uso del congiuntivo imperfetto secondo la consuetudine del tempo. È stato detto che fu lo scrittore migliore della sua epoca. È meritato questo elogio? In ogni caso, come i suoi padri nella vita monastica, san Bernardo e compagni, bisogna riconoscere che ha abbandonato tutto, facendosi monaco, eccetto l’arte della buona scrittura7! Sopravvivenza e continuità dell’opera di Rancé La scomparsa di Rancé non mutò l’osservanza e il fervore della comunità della Trappe. Essa conobbe certamente difficoltà interne e rovesci economici, tuttavia il reclutamento non si allentò per tutto il XVIII secolo e la comunità si mantenne intorno al centinaio di unità, cosa eccezionale nel mondo monastico precedente la Rivoluzione (la media era di otto religiosi per casa!). Lo spirito infuso da Rancé continuò ad animare i monaci che ebbero il privilegio di non ricadere sotto la commenda, mentre la decadenza infieriva anche nelle case della Stretta Osservanza. Esattamente come nell’Europa centrale, la Francia fu segnata dalle idee del secolo dei Lumi che si manifestarono persino in grandiose ricostruzioni di concezione classica, a volte barocca, come a Valloires. Si pensi soltanto alle imponenti facciate di Cîteaux e di Clairvaux! Ma la Trappe non cedette a queste sirene.
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Divenuta celebre sotto Rancé, la sua abbazia lo rimase fino alla Rivoluzione. Lo possiamo constatare grazie alla diffusione di immagini popolari che rappresentano la vita dei suoi monaci, una serie di diciotto soggetti, continuamente riprodotte. La Trappe divenne anche soggetto di romanzi, di racconti o di altre opere letterarie, come pure polarizzò su di sé gli attacchi di coloro che si definivano i benpensanti dell’epoca. Le è dedicata una voce nell’Encyclopédie di Diderot del 1765 e non sfuggì ai sarcasmi dei philosophes, compreso Voltaire8. Quando la tempesta della Rivoluzione francese si abbatté,
la Trappe, grazie al suo vigore spirituale, fu in grado di garantire la propria parziale sopravvivenza all’estero. Nel maggio 1791 un gruppo di ventidue monaci prese la strada dell’esilio con la ferma intenzione non solo di proseguire la vita regolare, ma anche di approfondire la riforma iniziata da Rancé. Forse non ebbero la “discrezione” di questi ma si deve anche al loro coraggio e alle loro testimonianze se la vita trappista riprese forma in Francia dal 1815 e conobbe un grande sviluppo dappertutto nel mondo. Non è forse dai frutti che si riconosce il vigore dell’albero e delle sue radici?
LA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITÀ NELL’ARCHITETTURA CISTERCIENSE DEL XIX SECOLO Thomas Coomans
L’architettura cisterciense del XIX secolo è un tema pressoché inedito. Tale constatazione può in ogni caso essere valida per la maggior parte dell’architettura monastica e conventuale del XIX secolo che, malgrado la notevole quantità di edifici costruiti nel contesto della rinascita religiosa, resta un parente povero della storiografia e della conservazione. Il presente contributo vuole quindi essere più un saggio che una sintesi compiuta e si limita alle abbazie maschili che ci sono state accessibili. Mette in evidenza un certo numero di paradossi inerenti l’architettura cisterciense nel XIX secolo e i suoi mutamenti nel XX1, che traggono origine dalla ricerca di identità di un ordine monastico antico dopo la tempesta della Rivoluzione francese. In modo analogo alla Famiglia benedettina ugualmente divisa in diverse congregazioni distinte, la Famiglia cisterciense si è avviata su strade diverse in un mondo in profonda mutazione, spesso e volentieri ostile alla Chiesa e al monachesimo2. Parallelamente allo sforzo spirituale, a volte intriso del romanticismo circostante, profuso dalle comunità cisterciensi e trappiste per far rivivere la loro secolare tradizione monastica, sia su siti di antiche abbazie, sia in siti nuovi, le rovine di abbazie distrutte divennero progressivamente oggetto di tutela conservativa grazie alla presa di coscienza storica e archeologica da parte della società. Alla fine del XIX secolo questo portò alla definizione della nozione di “architettura cisterciense”. Elaborata da archeologi e medievisti e non da monaci, tale nozione influenzò la ricerca di un’identità architettonica dei Cisterciensi nel XX secolo spaziando da un neoromanico a carattere archeologico fino a un’estetica spoglia e moderna, nello spirito delle riforme liturgiche del Vaticano II. Intrappolata fra queste diverse correnti, l’architettura ereditata dal XIX secolo non è stata sempre compresa nel suo giusto valore3.
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All’indomani della tormenta: rotture, sopravvivenza e rinascita Come altri ordini religiosi, i Cisterciensi della monarchia austroungarica e dei Paesi Bassi avevano resistito agli assalti del Giuseppinismo che, fra il 1780 e il 1790, aveva voluto razionalizzare le strutture ecclesiastiche sopprimendo gli ordini contemplativi, considerati inutili per la società. In Francia la Rivoluzione pianificò, a partire dal 1790, la soppressione di tutti gli ordini religiosi, la vendita dei loro beni e la distruzione della maggior parte dei loro edifici. Oltre la Francia, questa ondata si estese ai Paesi Bassi meridionali e all’Italia, poi alla maggior parte dei paesi cattolici europei, completando in qualche modo le distruzioni di abbazie avvenute nel XVI secolo nelle regioni diventate protestanti (Inghilterra, Olanda, Scandinavia, Germania del Nord). Come la maggior parte delle abbazie in ambiente rurale, quelle dei Cisterciensi servirono da cave di materiali, gli alloggi abbaziali divennero residenze di campagna e gli edifici agricoli fattorie. La presenza di acqua favorì la nascita di imprese industriali. Infine, alcune abbazie furono trasformate in caserme o in prigioni. Oltre allo scempio patrimoniale e culturale su larga scala, era la tradizione monastica stessa ad apparire irrimediabilmente spezzata. Il monachesimo cisterciense riuscì tuttavia a sopravvivere grazie al dinamismo di alcuni gruppi di monaci e di monache, fra i quali il più famoso fu probabilmente Augustin de Lestrange4. Partito dalla Trappe in Normandia, fondò fra il 1790 e il 1800 alcune comunità, in particolare a La Valsainte, Westmalle e Darfeld, poi proseguì il suo esilio fino in Russia e arrivò persino negli Stati Uniti nel 1813. Sotto la sua influenza, appena le condizioni politiche lo permisero, furono aperte delle abbazie trappiste in Francia, in Bel-
L’ARCHITETTURA DEL XIX SECOLO
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1. La chiesa dell’abbazia della Trappe in Normandia, costruita nel 1887-1895.
gio, in Spagna e in Inghilterra5. In altre parti dell’Europa altre comunità cisterciensi si ricostituirono rapidamente con forme diverse, in particolare in Italia e in AustriaUngheria, provocando la suddivisione dell’Ordine in congregazioni. Tali tensioni sfociarono nel 1892 nella creazione dell’ordine dei Cisterciensi riformati o della Stretta Osservanza, chiamati comunemente Trappisti6. Nella società secolarizzata, le comunità dovevano confrontarsi con nuovi problemi. Nel XIX secolo, sotto altri regimi anticlericali avvennero nuove soppressioni e chiusure di abbazie7. Tra i monaci la rinascita religiosa si verificò fin dalla prima metà del XIX secolo, mentre tra le monache fu più modesta in quel periodo a causa dell’attrazione esercitata sulle vocazioni da altri istituti religiosi di recente fondazione8. Infine, la questione del patrimonio immobiliare confiscato era di tale complessità giuridica che l’eventuale restituzione di antiche abbazie era praticamente inimmaginabile. D’altronde, il Concordato del 1801 interinava implicitamente la confisca. La perdita delle grandi proprietà e dei privilegi d’Ancien Régime obbligava i monaci a vivere del loro lavoro manuale, agricolo e industriale. Mentre alcuni Cisterciensi austriaci e tedeschi realizzarono scuole accanto alle loro grandi abbazie barocche, i Trappisti francesi svilupparono in sommo grado la povertà e l’ascetismo affascinando in questo modo più di uno spirito romantico, come per esempio Chateaubriand9. Nella sua opera sui Trappisti pubblicata nel 1855, Clément Tallon scrive: «Eccoli allora questi Trappisti, disapprovati e rifiutati dal mondo, questi religiosi di cui spesso si parla solo con disprezzo, li vedete tuttavia dedicarsi ai lavori più faticosi per il bene dell’umanità, sopportando grandissime fatiche con quella pazienza e quella perseveranza che solo la religione può ispirare ai suoi veri figli. In Europa essi dissodano le brughiere abbandonate, prosciugano le paludi insalubri e, malgrado il sarcasmo degli ignoranti, diffondono i migliori metodi agricoli».
La continuità della tradizione nei siti perduti e riconquistati Una comunità che ritornava su un sito monastico antico aveva un profondo significato di continuità che venne quindi privilegiato. È opportuno distinguere i vari scenari che spiegano la diversità architettonica delle abbazie nel XIX secolo. Solo una quindicina di abbazie (fra le quali Rein, Zwettl, Heiligenkreuz, Neukloster, Lilienfeld,
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Wilhering, Schlierbach, Vyyyí Brod, Zirc, Osek, Mogila, Szczyrzyc) non venne sottoposta a espulsioni e spoliazioni. In Italia, alcune abbazie poterono ricuperare i loro edifici in seguito al Concordato e nel 1820 formarono la Congregazione italiana di San Bernardo. In Francia siti antichi furono acquistati all’indomani della caduta dell’Impero nel 1815 (la Trappe, Melleray, Aiguebelle). Spesso sussistevano edifici antichi (Hautecombe 1826, San Domenico 1833, Sept-Fons 1845, Sénanque 1854, Fontfroide 1858, Mariawald 1860, Tamié 1861, Waldsassen 1863, Marienstatt 1888), in altri luoghi era necessario ricostruire sulle rovine (Valdieu 1844, La Grâce-Dieu 1844, Bonnecombe 1876, Rochefort 1887). In alcuni casi i Cisterciensi riscattarono e ristrutturarono gli edifici del vecchio monastero di un altro ordine (Port-du-Salut 1815, Mont des Cats 1826, Bornem 1836, Mehrerau 1854, Lérins 1869, San Isidoro 1891, Santa Maria dei Lumi 1901). Una comunità arrivò a trasformare un antico castello (Mariënkroon 1904). Si verificò anche che abbazie cisterciensi occupate da un altro ordine religioso fossero ricuperate (Acey 1860, Tre Fontane 1868, Cîteaux 1898). In tutte queste abbazie coesistono edifici di epoche diverse, alcuni dei quali risalgono a volte al XII e XIII secolo, oppure si tratta di una chiesa barocca o di un’ala classica del XVIII secolo, completate da aggiunte del XIX secolo. Per esempio l’immagine di “palinsesto architettonico”, utilizzata a proposito di Aiguebelle, può essere applicata a numerose abbazie11. Il risultato spesso composito dimostra che la questione dello stile architettonico era secondaria rispetto a quella della continuità della tradizione monastica su un sito sacro. Tuttavia, in alcuni casi, come alla Grande Trappe, l’associazione identitaria fra monachesimo e architettura medievale è notevole (fig. 1).
Nuove fondazioni, condizioni estreme e costruzioni pionieristiche Le nuove fondazioni su siti vergini costituiscono un altro gruppo di abbazie del XIX secolo: in Francia (Bricquebec 1824, Timadeuc 1841, Notre-Dame des Neiges 1852, Le Désert 1852, Les Dombes 1863), in Belgio (Westmalle 1794-1814, Saint-Sixte 1831, Achel 1846, Chimay-Scourmont 1850), in Inghilterra (Mount Sankt Bernard 1835), in Irlanda (Mount Melleray 1832, Roscrea 1878) e nei Paesi Bassi (Koningshoeven 1881, Echt 1883, Diepenveen 1883, Tegelen 1884, Zundert 1900). Queste abbazie presentano una maggiore unità architettonica.
Sotto e a fronte: 2. I primi edifici dell’abbazia trappista di Mistassini nel Québec nel 1893: un’architettura da pionieri, come nel Medioevo. Archivio dell’Abbazia di Notre-Dame di Mistassini. 3. L’abbazia delle Dombes è stata fondata nel 1863 come colonia agricola e centro di evangelizzazione.
Nel XIX secolo i Cisterciensi iniziano a sciamare fuori dall’Europa: in Canada (Petit-Clairvaux 1825, Sainte-Justine 1862, Oka 1881, Les Prairies 1892, Mistassini 1892, Le Calvaire 1902), in Algeria (Staouëli 1843), negli Stati Uniti (Gethsemani 1848, New Melleray 1849, Our Lady of the Valley 1900), in Cina (Consolation 1883), in Palestina (Latroun 1890), nel Congo belga (Bamania 1895) e in Giappone (Phare 1896). Se i primi contatti con la terra americana avevano principalmente come scopo la sicurezza lontano dalla tormenta dell’Europa, la presa di coscienza della partecipazione delle comunità contemplative allo sforzo missionario si sviluppò effettivamente solo nel XX secolo. Oltre alla questione del luogo, era essenziale quella architettonica poiché doveva permettere lo svolgimento della vita secondo la Regola e contribuire a restaurare la tradizione monastica. Ancora più del suo eventuale passato storico, l’architettura esprimeva l’identità di ogni abbazia, il suo stato spirituale e materiale, in breve il suo progetto di futuro nella società moderna. Tuttavia gli inizi erano spesso molto faticosi. Nel suo libro En route (1895), Joris-Karl Huysmans fa descrivere da un abate trappista le condizioni di vita e gli edifici della sua abbazia: «Quando prendemmo possesso di questi edifici eravamo così poveri che tutto ci mancava, dal pane alle scarpe; ma non eravamo preoccupati dell’avvenire perché nella storia monastica non vi è alcun esempio in cui la Provvidenza non sia venuta in soccorso alle abbazie che avevano fiducia in essa. Poco a poco abbiamo tratto dalla terra il nostro becchime; abbiamo imparato i mestieri utili, ora fabbrichiamo i nostri abiti e le nostre scarpe; mietiamo
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Nelle due pagine seguenti: 4. Nella chiesa delle Dombes il tramezzo separa il coro dei monaci dal coro dei conversi. Collezione CERCCIS, abbazia di Cîteaux, 1900 circa. 5. L’abbazia di Hautecombe, restaurata dai Savoia, comprende una chiesa riccamente decorata in stile neogotico troubadour. Collezione CERCCIS, abbazia di Cîteaux, 1900 circa.
il nostro grano e cuociamo il nostro pane, la nostra esistenza materiale è quindi garantita, ma le tasse ci annientano; per questa ragione abbiamo fondato questa fabbrica (di cioccolato) il cui bilancio migliora di anno in anno. Fra un anno o due il fabbricato che ci ospita, e che non abbiamo potuto far riparare per mancanza di denaro, crollerà; ma se Dio permetterà che anime generose ci vengano in aiuto, forse saremo in grado di edificare un monastero ed è quello che tutti noi desideriamo»12. È straordinario constatare le similitudini materiali di alcune delle nuove fondazioni con quelle dei Cisterciensi del XII e XIII secolo: la scelta difficile dell’ubicazione su terre sconosciute, la preparazione del luogo e delle prime costruzioni in legno da parte dei conversi, le condizioni ascetiche di vita delle prime comunità, le malattie, lo scoraggiamento, i tentativi abortiti e le traslazioni, gli incendi, i dissodamenti e i precari inizi di un’agricoltura di sussistenza. Probabilmente lo spirito eroico e romantico dei Trappisti trovava in queste condizioni estreme l’ideale assoluto di san Bernardo. Grazie alla reputazione di cui godevano per il loro lavoro agricolo in grado di valorizzare le terre più desolate e le paludi, i Trappisti vennero a volte chiamati dalle autorità diocesane, persino da quelle civili, per far fruttare regioni sfavorevoli o per creare colonie agricole. Tali operazioni garantivano loro allo stesso tempo la proprietà di terra coltivabile e la costituzione di vasti possedimenti rurali in un mondo molto più densamente popolato che nel Medioevo. Staouëli, vicino ad Algeri, e le Dombes a nord di Lione ricevettero l’appoggio di Napoleone III; Mistassini, vicino al lago di Saint-Jean nel Québec, Scourmont e Westmalle in Belgio sono altri ottimi esempi.
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La primissima architettura, destinata a scomparire in caso di fallimento della fondazione o a essere sostituita da edifici in muratura in caso di successo, si è conservata in alcune foto (fig. 2). Gli edifici sono in legno, a volte a due piani, posizionati in ordine sparso per evitare gli incendi e paiono disposti in modo tale che allungandoli si riunirebbero a formare delle ali attorno a una corte. Solo un piccolo campanile distingue la chiesa dagli altri edifici. Più lontano la fattoria e i laboratori costituiscono un altro polo. Tale architettura non può fare a meno di ricordare i primissimi edifici delle fondazioni medievali, raramente descritti nelle cronache13. Si è ben lontani dalla Gerusalemme celeste e dai grandi chiostri gotici, barocchi o classici. A questo riguardo il caso dell’abbazia delle Dombes, fondata su richiesta delle autorità diocesane per evangelizzare con l’esempio e per prosciugare le paludi, è abbastanza eccezionale14. Quando il gruppo dei quarantaquattro Trappisti mandati da Aiguebelle arrivò sul posto nel 1863, scoprì che era stata costruita un’abbazia per accoglierli (fig. 3). Progettati, su richiesta del vescovo del luogo, dall’architetto lionese Pierre Bossan, autore della basilica di Fourvière, gli edifici in mattoni presentano uno stile neomedie-
vale originale, in particolare la chiesa con la sua navata ad aula, il gioco di volte a costoloni e volte a botte e le sue inconsuete colonne ottagonali (fig. 4).
Alcuni chiostri romanici e gotici Tuttavia, come dice bene Huysmans, l’immagine dei grandi chiostri medievali era ben presente ai monaci del XIX secolo: «L’abate tacque di nuovo, poi, dopo una pausa, disse piano, quasi a se stesso: “Non si può negare che un convento che non ha l’aspetto di un chiostro sia un ostacolo alle vocazioni; il postulante, come vuole la natura, ha bisogno di formarsi in un ambiente che gli piaccia, di darsi coraggio in una chiesa che lo abbracci, in una cappella un po’ oscura e, per ottenere questo risultato, è necessario lo stile romanico o quello gotico”»15. Appena i mezzi lo permettevano, veniva intrapresa la costruzione di grandi edifici secondo un preciso programma, in funzione della dimensione di comunità che, a volte, contavano diverse centinaia di membri. In generale la chiesa, che maggiormente mobilitava lo sforzo finanziario e la ge-
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nerosità dei donatori, sorgeva per ultima. Effettivamente, nel contesto di rinascita religiosa, le abbazie beneficiarono della generosità di donatori, in particolare di antiche famiglie della nobiltà che, avendo anch’esse perso i loro privilegi, incoraggiavano il rinnovamento degli antichi ordini monastici, in particolare dei Benedettini e, nella società moderna, laica e industriale, si aggrappavano alla loro identità cattolica e politica. Ai loro occhi, gli stili gotico e romanico erano quelli dell’età d’oro della fede. Le loro motivazioni erano però molto diverse, come dimostrano i seguenti esempi. L’abbazia di Hautecombe, necropoli storica della casa di Savoia, ridotta in rovina all’epoca della Rivoluzione, fu riscattata nel 1824 da re Carlo Felice di Savoia, restaurata e ripopolata di Cisterciensi16. Il restauro fu affidato all’architetto piemontese Ernesto Melano che fece della chiesa un capolavoro neogotico romantico in stile “troubadour”, riccamente decorata con ornamenti scolpiti e dipinti, monumenti e statue (fig. 5). In Inghilterra, John, conte di Shrewsbury, finanziò la costruzione dell’abbazia di Mount Sankt Bernard e ne affidò il progetto all’architetto Augustus Welby Northmore Pugin nel 1839 (fig. 6). Questi, fra
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il 1839 e il 1844, realizzò un’abbazia neogotica conforme alla teoria esposta nel suo The True Principles of Pointed or Christian Architecture (1841)17. Il suo stile neogotico archeologico inglese avrebbe ispirato una quantità di chiese in Belgio, in Canada, negli Stati Uniti e fino in Australia. Fra i Trappisti, l’abbazia di New Melleray negli Stati Uniti, dell’architetto John Mullany (1867-1875), quella di Roscrea in Irlanda (1879-1881) e la chiesa di Mount Melleray in Irlanda (1933-1938) fanno parte di questa corrente. Nel 1850, in un periodo di profonda crisi sociale ed economica, il principe di Chimay contribuì all’insediamento dei Trappisti a Scourmont offrendo loro terre e denaro a condizione che fondassero insieme una fattoriascuola modello per i bambini abbandonati partecipando alla valorizzazione della regione e a un’opera sociale. Ma ben presto i monaci abbandonarono questo progetto, incompatibile con la loro vocazione, e si concentrarono sulla costruzione della loro abbazia e della sua chiesa neogotica (1860-1864) (fig. 7). Altrove le costruzioni beneficiavano della carità di donatori meno illustri e adottavano altri stili, sempre di ispirazione medievale, ma collegandosi per forme e materiali allo
“stile regionale” adatto al luogo. La chiesa cisterciense incontestabilmente più importante del XIX secolo è quella della Grande Trappe. La ricostruzione quasi integrale dell’abbazia fra il 1887 e il 1895 doveva esprimere la posizione di capofila della Trappe e l’ampio influsso dell’eredità di Rancé e di Lestrange. Creata dall’architetto Alfred Tessier, la chiesa, in pietra bianca del paese, è un capolavoro del neogotico razionalista francese. La torre di facciata, l’altezza della navata, il sistema di volte, di ogive e di archi rampanti, i rosoni del transetto, il coro a deambulatorio e le cappelle radiali ricollegano la chiesa della Trappe all’architettura gotica fra il XII e il XIII secolo. Le gallerie del chiostro, la sala capitolare, il refettorio nonché la portineria sono costruiti nel medesimo stile18 (figg. 1 e 8). Alla fine del XIX secolo, le abbazie trappiste belghe, veri e propri vivai di vocazioni che sciamavano fino in America e in Africa, erano divenute troppo piccole. Per esempio Saint-Sixte a Westvleteren si dotò di una nuova chiesa nel 1879; l’abbazia di Achel incaricò l’architetto Peter Cuypers, l’innovatore del neogotico cattolico nei Paesi Bassi, di progettare la nuova chiesa abbaziale (1885-1886) (figg. 10 e 11) e l’architetto Caspar Franssen disegnò il pro-
getto della grande abbazia di Westmalle (1885-1908) (fig. 12). I Trappisti belgi fondarono non meno di quattro abbazie nei Paesi Bassi fra il 1881 e il 1884. Gli edifici definitivi, nello stile gotico in mattoni caratteristico del rinnovamento cattolico olandese, furono eretti poco tempo dopo la fondazione da architetti di nome, in particolare l’abbazia di Tegelen da Caspar Franssen (1888), l’abbazia di Sion a Diepenveen da Gerhardus te Riele (1890) e l’abbazia di Koningshoeven a Tielburg da Guibert de Beer (18911894). Quest’ultima è la più monumentale ed è composta da due grandi chiostri da una parte e dall’altra della chiesa, la cui facciata di tipo “cattedrale”, con due torri e un grande rosone, esprime il successo del progetto trappista (fig. 13). Infatti alla sua consacrazione erano presenti tutti gli abati dell’Ordine riuniti in capitolo generale (1894). Il caso di Cîteaux e delle sue inusitate soluzioni architettoniche è significativo19. L’abbazia rientrò nel grembo della Famiglia cisterciense nel 1898 e fu immediatamente posta a capo dell’ordine cisterciense della Stretta Osservanza. Dell’antica Cîteaux restavano tuttavia solo tre edifici in mezzo ad altri costruiti dai successivi occupanti. Il recupero di Cîteaux avvenne troppo tardi per realizzare un gran-
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Nelle pagine precedenti: 6. Il disegno di A.W.N. Pugin dal titolo “Couvent des Trappistes” si riferisce all’abbazia di Mount Sankt Bernard, che egli costruì fra il 1839 e il 1844. KU Leuven, KADOC. 7. L’abbazia di Notre-Dame di Scourmont è razionalmente organizzata attorno alle corti riservate alle diverse attività. Archivio dell’abbazia, 1870 circa. 8. Con le sue due navate a volte ogivali, il refettorio dell’abbazia della Trappe riproduce un tipico refettorio medievale. 9. Fiction medievale o realtà romantica: la sala capitolare dell’abbazia della Trappe. Archivio dell’abbazia, 1900 circa.
10. Coro dei monaci e presbiterio della chiesa dell’abbazia di Achel in Belgio, progetto di Petrus Cuypers. 11. La chiesa dell’abbazia di Achel è stata costruita nella tradizione monastica dell’architettura in mattoni. Sopra e a fronte: 12. Il razionalismo architettonico dell’abbazia di Westmalle in Belgio: la pianta quadrata degli edifici monastici è inserita in un quadrato più grande costituito dagli edifici agricoli e industriali. KU Leuven, KADOC, 1900 circa. 13. La chiesa dell’abbazia di Koningshoeven nei Paesi Bassi presenta la facciata di una cattedrale, con il rosone e le due torri.
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14. Il cemento armato è stato ampiamente utilizzato per la costruzione dell’abbazia di Viaceli in Spagna prima del 1914. Archivio dell’Abbazia di Notre-Dame de Scourmont. 15. Il birrificio dell’abbazia di Koningshoeven presenta la sintesi di un torrione medievale, di un portico monastico gotico e di una fabbrica dell’era industriale.
de progetto architettonico identitario come alla Trappe. Con i mezzi a disposizione e in un crescente contesto anticlericale fu necessario operare delle scelte e adattare ciò che vi era di più significativo. Il cemento e il cemento armato, materiali molto più economici, vennero ben presto utilizzati nelle strutture dei nuovi edifici. Per esempio, la Trappa di Viaceli in Spagna, fondata nel 1903, venne costruita in meno di sei anni. Tuttavia il suo stile resta quello neogotico e la sua chiesa monumentale possiede una torre ottagonale sulla crociera (cimborrio), nella tradizione delle grandi abbaziali medievali spagnole (fig. 14).
Una questione di ordine e di programma più che di stile Il carattere composito delle abbazie cisterciensi e la diversità degli stili che le caratterizzano nel XIX secolo contrastano con l’architettura cisterciense medievale. Tuttavia la nozione di “architettura cisterciense” si è sviluppata solo nel corso del XIX secolo, grazie alla penna di architetti e di archeologi che scoprirono, studiarono e restaurarono le grandi abbazie in rovina. Le riflessioni di Pugin (1841) sull’abbazia trappista riguardavano sia il programma sia lo stile20. Albert Lenoir (1856) e Edmund Sharpe (1875) in Francia e in Inghilterra21, seguiti da Eugène Viollet-le-Duc, Camille
Enlart, William St. John Hope e Georg Dehio, esaminarono la dimensione internazionale dell’architettura cisterciense medievale in una prospettiva nazionalista, sottolineando ora la diffusione dell’arte francese in Europa, ora la resistenza locale a tale diffusione. Abbiamo visto che nel XIX secolo i monaci cercavano innanzi tutto di far rivivere la loro tradizione, preferibilmente su siti antichi, ma che le considerazioni di coerenza e di identità stilistiche fra abbazie non erano fra le loro priorità. Del resto la Famiglia cisterciense era profondamente divisa e in cerca di identità. Se si giudica in base all’architettura stessa, i due caratteri determinanti furono l’ordine e la sobrietà estetica, che in alcuni casi confina con l’assenza di stile, nel XIX secolo forma suprema dell’ascetismo in architettura. L’ordine è quello dell’organizzazione dello spazio rispetto a un programma, in funzione di un severo ritiro dal mondo esterno e della precisa organizzazione del tempo per comunità che, in alcuni casi, superavano le duecento unità fra monaci e conversi22. A eccezione di Cîteaux, tutte le abbazie del XIX secolo possiedono un chiostro circondato da gallerie, intorno al quale sono disposte la chiesa e corpi di fabbrica che comprendono in particolare la sala del capitolo, il refettorio, i dormitori, il noviziato, la biblioteca, lo scriptorium, la cucina, l’infermeria ecc. In alcuni casi la sala del capitolo e i refettori sono esplicitamente riferiti a mo-
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Sotto e a fronte: 16. Monaci moderni e produzione industriale: i laboratori della fabbrica di cioccolato dell’abbazia di Aiguebelle a Donzère. ARCISS, 1900 circa.
Nella pagina seguente: 18. La facciata neogotica della chiesa abbaziale di Scourmont è definitivamente nascosta da una facciata in stile romanico.
17. Monumentalismo e stile romanico borgognone: la nuova identità dei monaci trappisti belgi di Orval negli anni 1930.
delli medievali, come a Mount St. Bernard a Koningshoeven o alla Trappe (figg. 8 e 9). Le grandi abbazie si dotano di corridoi e scale che favoriscono una circolazione razionale. Oltre agli edifici monastici, la foresteria, la fattoria, i laboratori e gli edifici industriali (birreria, caseificio, fabbrica di cioccolato, distilleria) si trovano all’interno del recinto a cui dà accesso la portineria. Nell’era industriale le officine trappiste ricorrevano alle più moderne tecnologie della loro epoca (figg. 15 e 16). La chiesa è chiaramente l’edificio principale e il più sacro dell’abbazia; il monaco vi passa gran parte della sua giornata, per gli Uffici e la Messa. Essa è sempre fiancheggiata dal chiostro, ma, nella composizione generale, la sua posizione varia, sia al centro di un grande fronte principale – dispositivo ereditato dal XVIII secolo, come a Sept-Fons – sia laterale, con una facciata libera, sia integrata nel quadrato claustrale e priva di facciata principale – come a Désert o a Westmalle (fig. 12). La liturgia monastica richiede una pianta della chiesa generalmente provvista di transetto, con l’altare maggiore nel presbiterio, gli stalli della comunità – monaci e conversi ben distinti – nella navata e le cappelle per le Messe private inserite sui bracci del transetto o disposte a raggiera attorno all’abside senza deambulatorio. Contrariamente alle chiese cisterciensi del Medioevo, la maggior parte di quelle del XIX secolo ha una
torre, a volte persino sulla facciata. A Aiguebelle, un campanile neoromanico in pietra venne aggiunto alla chiesa del XII secolo. Con la sua alta cuspide in pietra, la torre della Trappe è la più sensazionale, tuttavia non esprime alcun riferimento storico cisterciense23.
Mutamenti di un’architettura poco apprezzata Dopo la Prima Guerra mondiale, i due ordini cisterciensi entrarono nel XX secolo che avrebbe visto la Chiesa evolversi dai grandi movimenti del periodo fra le due guerre all’aggiornamento degli anni 1950-1960, poi all’invecchiamento in Occidente e infine allo spostamento del proprio centro di gravità verso altri continenti. Le questioni riguardanti l’architettura religiosa e l’arte sacra non furono prive d’importanza nel dibattito attorno alla modernità nella Chiesa, anche nel mondo monastico (per esempio il benedettino Dom Paul Bellot) e toccarono infine anche i Cisterciensi riguardo alla liturgia e all’identità loro proprie. Il dibattito si svolse diversamente nelle grandi abbazie cisterciensi austriache e bavaresi, dotate di tesori ricchi di oggetti preziosi. La ricostruzione delle abbazie del Mont des Cats, di Oelenberg e di Igny, distrutte durante la Prima Guerra
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EMBLEMI DI UN’ETÀ DI VIOLENZA: L’ARTE DI THOMAS MERTON Paul M. Pearson
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mondiale, avvenne sotto il segno del prolungamento dell’architettura del XIX secolo. A Westmalle, la sostituzione della cuspide neogotica con un campanile italiano segnò l’inizio di un cambiamento, che si impose con il grandioso cantiere dell’abbazia di Orval (1929-1948) in stile romanico monumentale e cisterciense dell’architetto Henri Vaes (fig. 17) e con i progetti dello stesso architetto per Cîteaux (1937)24. L’abbazia di Mount Sankt Bernard di Pugin venne trasformata, la chiesa venne ingrandita e la torre modificata (1934-1939). Ma il rifiuto dell’architettura storicista del XIX secolo si affermò progressivamente solo dopo la Seconda Guerra mondiale, nel contesto delle riforme liturgiche originate dal Concilio Vaticano II, più facilmente nelle abbazie americane e di altri continenti che in Europa. A Scourmont, su consiglio di padre Anselme Dimier, specialista di architettura romanica cisterciense, davanti alla facciata neogotica venne applicata nel 1949 una facciata in pietra nello stile di quella di Fontenay (fig. 18). La più affermata identità architettonica cisterciense si baserebbe, nel migliore dei casi, sull’affascinante incontro fra la volontà di radicale semplicità e il modernismo più spoglio. Le nuove chiese di Sept-Fons (1955), di Westmalle (1964) e di Westvleteren (1968) ne sono grandiosi esempi. Altrove furono soprattutto gli interni delle chiese del XIX secolo ad essere modernizzati, imbiancandoli, spostando l’altare, adattando l’arredo e l’illuminazione. L’arredo e la decorazione del XIX secolo, nonché la liturgia in latino, furono le
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vittime di questo ritorno alla sobrietà visto come ricerca dell’autenticità dei valori estetici dei padri fondatori medievali. Più recentemente, in contesto post-moderno, il ritorno a una liturgia conservatrice ha spinto alcune comunità a ridare alla chiesa la dimensione storica di cui l’aveva privata la generazione precedente; la trasformazione interna della chiesa neogotica di Rochefort in vera e propria finzione romanica (1993) è particolarmente eloquente25. Il completo “rimodellamento” delle chiese di New Melleray e di Cîteaux (1998) è espressione di una ricerca estetica decisamente più interessante26. Nell’attuale contesto di invecchiamento delle comunità e di incertezza sul futuro di numerose abbazie, i complessi costruiti nel XIX secolo sono sicuramente i più minacciati27. In America, diverse comunità hanno abbandonato i loro siti del XIX secolo e hanno costruito altrove nuove abbazie (Spencer, Mistassini, Oka) provocando la vendita o una nuova destinazione degli edifici antichi. Sempre più frequentemente si verificano chiusure di abbazie, nuove destinazioni o acquisti da parte di altre comunità religiose (Les Dombes, Hautecombe, Valdieu, Tegelen). Parallelamente è stato riconosciuto dalla società il valore monumentale di alcuni complessi del XIX secolo. Per esempio alcuni complessi protetti in quanto monumenti storici come la Trappe, Koningshoeven e Achel beneficiano di un sostegno scientifico in caso di progetti di nuova destinazione o di restauro28.
Thomas Merton ereditò sicuramente la sua visione artistica del mondo dai genitori, Owen e Ruth. Ruth, americana, si occupava di decorazione e design di interni, Owen era un pittore neozelandese con al suo attivo già numerose esposizioni (fig. 1). Nella sua Montagna dalle sette balze Merton scrive di aver imparato da suo padre che «l’arte era contemplazione e interessava l’attività delle più alte facoltà umane»1. Leggendo Arte e scolastica di Jacques Maritain, mentre stava lavorando alla sua tesi su William Blake alla Columbia University negli anni Trenta del secolo scorso, Merton trovò una teoria dell’arte che confermava il punto di vista ereditato dal padre: credere che «l’arte è l’abilità di vedere non semplicemente ciò che appare ai sensi ma il fulgore intimo dell’Essere»2, la coscienza del paradiso, del logos, del verbo creatore. Questa comprensione dell’arte è evidente in molti degli autori da cui Merton era attratto – William Blake, Boris Pasternak, Louis Zukofsky e Edwin Muir – ed è espressa nel concetto di «vista interiore» rilkiano e nello «sguardo interiore» di Gerard Manley Hopkins. Le prime immagini di Thomas Merton a noi note sono i disegni che egli eseguì per illustrare storie che scriveva quando era studente, nel 1929. Più tardi, alla Oakham School, i suoi disegni furono pubblicati nel giornale della scuola. Quando era studente alla Columbia University (1935-1939) Merton si interessò molto alla rivista umoristica del campus, The Columbia Jester, e quasi tutti i numeri contengono le sue vignette e altre illustrazioni. Fino a tutto il 1938 Merton avrebbe descritto ufficialmente la sua occupazione come «vignettista e writer». Con la sua conversione al cattolicesimo nel novembre 1938, Merton rinunciò a disegnare vignette, nudi e altre immagini “secolari”. Durante l’anno passato a insegnare alla Saint Bonaventure University egli si dedicò invece a
immagini vistosamente ed esplicitamente religiose. Dopo l’ingresso nell’abbazia del Gethsemani nel dicembre 1941, i suoi primi anni monastici sono invece contraddistinti da immagini religiose forti ma semplici. Le sue opere di questo periodo erano tradizionali immagini di santi, profeti, monaci, angeli e della crocifissione (fig. 2). Oltre a queste opere vi era un minor numero di nature morte e di studi paesaggistici. Negli ultimi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta vi è un brusco cambiamento nei disegni di Merton, così come mutò il suo rapporto con il mondo quando si avventurò verso altre fedi, in particolare per la sua attrazione verso il buddismo Zen. Scoprì anche un nuovo mezzo di espressione artistica nella fotografia. Thomas Merton scrisse raramente dei suoi tentativi artistici. La maggior parte delle informazioni che abbiamo devono essere spigolate dai suoi diari personali e dalla sua voluminosa corrispondenza. In un’annotazione del suo diario personale nell’ottobre 1960, dopo essersi posto interrogativi sulla sua personale posizione nel monastero rispetto al mondo, scrive di aver bisogno di concentrarsi sulla scrittura poetica e sul «fare un lavoro creativo» e registra un marcato mutamento nello stile dei suoi disegni dicendo: «Questa settimana ho fatto dei tentativi di arte dall’aspetto astratto»3. In un’annotazione di poco successiva Merton riferisce di «aver passato un certo tempo dedicandosi al disegno astratto». Alcuni di questi disegni che Merton avrebbe cominciato a chiamare «calligrafie» erano semirealistici, ma la maggioranza era del tutto astratta. Da questo momento in avanti Merton non avrebbe mai più disegnato le immagini esplicitamente religiose che avevano predominato nella sua produzione artistica dell’abbazia del Gethsemani (fig. 3).
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L’unica volta in cui Merton scrisse abbastanza lungamente sulle sue calligrafie fu nell’autunno 1964 mentre stava preparando un’esposizione dei suoi disegni che si sarebbe tenuta presso il Catherine Spalding College di Louisville. L’esposizione di ventisei calligrafie fu inaugurata nel novembre 1964 e andò poi in diverse città fra le quali New Orleans, Atlanta, Milwaukee, Saint Louis, Santa Barbara e Washington (fig. 4). I dipinti erano in vendita e il denaro ricavato doveva servire per una borsa di studio a Spalding destinata a uno studente afroamericano. Le vendite non andavano bene e Merton scriveva all’amico John Howard Griffin: «A Milwaukee, dove il prezzo era di centocinquanta dollari, non ne è stato venduto nessuno. Ora siamo scesi a cento. Se aspetti che veniam fuori da quella di Santa Barbara, Cal., in settembre, costeranno dieci centesimi l’uno, con una mazzetta di buoni sconto per giunta»4. Di conseguenza il monastero finanziò la borsa di studio. Merton riforniva periodicamente l’esposizione quando venivano vendute delle opere. Quelle restanti vennero prese in custodia da Rosemary Radford Reuther che, dopo la morte di Merton, le mise all’asta per raccogliere denaro per
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il Daniel and Phil Berrigan Defense Fund. Il saggio scritto da Merton per accompagnare questa mostra venne successivamente pubblicato come Firme: note sui disegni dell’autore nel suo libro Raids on the Unspeakable. Contiene la sola riflessione approfondita sui disegni e le calligrafie astratte che aveva creato negli anni Sessanta. È essenziale leggerlo per capire cosa Merton stava tentando di fare con i suoi disegni in quel periodo. Egli inizia dicendo che lo spettatore non deve guardare i disegni come «opere d’arte» e neppure cercare in essi «tracce d’ironia» o «una cosciente polemica contro l’arte». Lo spettatore viene incoraggiato a non giudicarli e a non considerarsi giudicato da loro. Merton scrive poi riguardo al modo con cui intendeva i disegni: «Queste astrazioni – qualcuno potrebbe chiamarle graffiti piuttosto che calligrafie – sono semplici segni e cifre di energia, atti di movimento destinati a essere propizi. Il loro “significato” non deve essere ricercato a livello di convenzione o di concetti». E più avanti: «In un mondo ingombro e programmato da un’infinità di
segni pratici e cifre consequenziali riferite ad affari, leggi, governo e guerra, chi traccia segni non descrittivi come questi è cosciente di una speciale vocazione a essere illogico, fuori dalla sequenza e a rimanere decisamente alieno al programma… sono fuori da qualsiasi processo di produzione, marketing, consumo e distruzione»5. Merton aggiunge poi maliziosamente che «ciò non vuole assolutamente dire che non possano essere comprati». Merton fece un’esperienza analoga con la sua poesia. Iniziò a sentire che il linguaggio era diventato così abusato, così sovrautilizzato, soprattutto nel mondo della comunicazione e della pubblicità, da divenire virtualmente privo di significato. Per compensare questa situazione Merton cominciò a utilizzare allora l’antipoesia come forma di espressione. È possibile che le calligrafie e i disegni di Merton di quel periodo siano antiartistici, come l’antipoesia, perché cercano di esprimere una forma d’arte che abbia senso di fronte alla pubblicità e ai media e di fronte all’esperienza umana del lato oscuro, dell’ombra, così evidente nelle immagini di quel periodo di guerra fredda, di bomba atomica, di violenza razziale e con la guerra nel
Vietnam, un’era caratterizzata, secondo Merton, dalla sua «potenza distruttiva» (fig. 5). Su questo sfondo scrive: «L’artista ha perfettamente ragione, forse persino il dovere, di protestare quanto efficacemente e apertamente può contro il presente stato di alienazione in un mondo che pare essere senza significato»6. Poi aggiunge: «Un’arte religiosa valida nel nostro tempo sarà quindi un’espressione creativa di tendenze distruttive»7. Merton toccò esplicitamente questo tema per la prima volta mentre stava lavorando al suo libro Arte e culto e in un capitolo aggiunto successivamente nel suo libro Disputed Questions scrisse i seguenti brani che racchiudono il suo pensiero maturo sull’arte religiosa: «In un periodo di campi di concentramento e di bombe atomiche, la sincerità artistica e religiosa escluderà certamente qualsiasi “affettazione” o il sentimentalismo superficiale. La bellezza per noi non può essere un semplice richiamo a piaceri convenzionali dell’immaginazione e dei sensi, e non può neppure essere trovata nel freddo perfezionismo accademico. L’arte del nostro tempo, compresa
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Nelle due pagine precedenti: 1. Owen Merton, Casa sotto la neve, acquerello, Flushing, New York 1920. The Thomas Merton Center, Bellarmine University, Louisville KY. 2. Thomas Merton, San Giovanni della Croce, disegno, 1952. The Thomas Merton Center, Louisville.
Sopra e a fronte: 3. Thomas Merton, Senza titolo, anni 1960, n. 0340. The Thomas Merton Center, Louisville. 4. Thomas Merton, Danzatore II. Questa calligrafia portava il numero 12 nell’esposizione dei lavori di Merton nel 1960. Collezione privata, Texas. 4
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5. Thomas Merton, Senza titolo, anni 1960, n. 0581. The Thomas Merton Center, Louisville. 6. Thomas Merton, Senza titolo, anni 1960, n. 0361. The Thomas Merton Center, Louisville. 5
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l’arte sacra, sarà necessariamente caratterizzata da una certa povertà, severità e rudezza che corrispondono alle realtà violente di un’epoca crudele. L’arte sacra non può essere crudele ma deve saper avere compassione per le vittime della crudeltà: non si possono offrire lecca-lecca a un uomo che muore di fame in un campo di sterminio totalitario. Neppure gli si offrirà il messaggio di un inadeguato e pietoso ottimismo. La nostra speranza cristiana è la più pura delle luci che brillano nell’oscurità, ma brilla nell’oscurità ed è necessario entrare nell’oscurità per vederla brillare»8. Secondo Merton la notte oscura dell’anima di san Giovanni della Croce, l’esperienza dei mistici apofatici, non era più retaggio di una minoranza spirituale. Gli orrori del ventesimo secolo e la degradazione della vita umana rendevano manifesta l’oscurità dentro ognuno di noi e Merton, con la sua antipoesia, i suoi scritti sulla guerra e la violenza e con la sua opera d’arte di quel periodo, cercava di affrontare l’oscurità e incoraggiare gli altri a fare lo stesso.
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In conclusione, l’arte di Thomas Merton corre parallela al suo viaggio spirituale, dalle vignette della Columbia, i suoi nudi e altre immagini mondane alle immagini devozionali forti e semplici nel primo fervore della sua conversione e della sua vocazione monastica fino alle sue sperimentazioni con la calligrafia, i graffiti e la fotografia Zen negli anni Sessanta. La sua arte negli ultimi anni della sua vita esprime il suo maturo rapporto con Dio, il mondo e se stesso (fig. 6). I disegni della maturità di Merton, come la sua antipoesia e le fotografie Zen, fungono da punto di domanda, ci chiedono di fermarci e di riflettere su ciò che abbiamo visto e udito. Ci invitano a sottrarci alla droga dei media, alle tecnochiacchiere e alla pseudocomunità, per trovare l’intimo fulgore dell’essere, quella coscienza del paradiso dentro ognuno di noi, l’immagine di Dio nella quale siamo stati creati. Ci chiamano a uscire da noi, come ha scritto Merton in Raids on the Unspeakable, per «essere umani in questo tempo che è il più inumano di tutti; per custodire l’immagine umana poiché essa è immagine di Dio»9.
L’ARCHITETTURA CISTERCIENSE NEL XX SECOLO Maria Antonietta Crippa
Premessa La fioritura cisterciense, fenomeno di transizione stilistica dal romanico al gotico oltre che esito maturo di riforma monastica, può essere ritenuta sintesi creativa, tra le più potenti, dell’aspirazione alla fedeltà alle origini che ha attraversato di continuo e con vari accenti il contesto occidentale cristiano. La sua arte e la sua architettura, infatti, disegnano «un tratto di strada dove emerge in modo creativo, con la vita originante, la forma valida. Insuperabile. Le origini sono anche le forme originarie»1. La formula è del teologo Hans Urs von Balthasar, messa a fuoco per individuare l’idea di riforma di Romano Guardini. In essa la riforma è intesa non come ripresa di dati sorgivi ancora informi, ma come scoperta ex novo dell’originario, dell’essenziale, recuperato in una sintesi, non ripetitiva di modi preesistenti, tra vita e forma, sintesi che può essere ritenuta chiave di volta della grandezza cisterciense tra XII e XIII secolo, evidente ancora oggi sotto il profilo architettonico e artistico. Tale fioritura, avverte da parte sua lo storico dell’arte Barral i Altet, è «fenomeno molto raro nel Medioevo, poiché pochi ordini religiosi hanno modelli artistici che sono loro propri»2. A san Bernardo, in particolare, viene universalmente riconosciuto il merito di aver tracciato un solco di princìpi nel quale maturarono regole progettuali e figurative che trascrivevano, in costruzione potente e geometricamente regolata oltre che in essenzialità di decoro, il nuovo ideale. Il fenomeno sorse, più ancora che dalla reazione all’arte cluniacense, dalla consapevole selezione di modalità costruttive e di immagini per il culto, la devozione, l’ornato architettonico, poiché: «questo ordine ha creato un model-
lo architettonico che, in piena epoca romanica, trascrive nella pietra una specifica ideologia, un modello che presto scivola verso forme che annunciano il gotico, come la volta costolonata, perfettamente adeguata alla leggerezza delle strutture cisterciensi [...]. Nella stessa maniera il rifiuto delle immagini che caratterizza le costruzioni cisterciensi non si traduce in arcaismi. Il repertorio vegetale si adatta infatti molto rapidamente allo stile del tempo, e poi alla delicatezza dei modelli gotici»3. La riforma cisterciense, nel giro di poche generazioni, divenne generatrice di luoghi di vita monastica i cui dati più innovativi erano motivati dalla volontà di ritorno alle origini benedettine inscritte nella Regola. Ciò accadde non secondo una linea filologico-archeologica, ma in coerenza con una inventio esperienziale, fondata filologicamente ma insieme aperta anche a nuovi acquisti costruttivi e figurativi. In sintesi, il nocciolo centrale della novità non fu né il fattore culturale né la sua componente artistico-architettonica, bensì la sintesi fortemente vitale di una sperimentata continuità del valore della Regola benedettina. Si trattò dunque, in primo luogo, di continuità di una forma di vita, di ciò che in essa si riteneva essenziale, specifico, forma di vita che implicava anche una revisione di modi e condizioni del lavoro e della dimensione economica. L’architettura e l’arte cisterciensi medievali, infatti, devono essere colte in un quadro interpretativo che travalica le componenti edilizie e figurative per innestarsi in importanti modifiche agricole e tecnologiche, pertanto in un processo economico che ha dato luogo a paesaggi radicalmente ridisegnati, come quello delle marcite lombarde in particolare nelle zone circostanti le abbazie milanesi di Chiaravalle e di Morimondo. In essi il rispetto della natura, l’ordine razionale delle colture e l’efficienza produttiva si sono
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coniugati in strutture agricole esemplari e di lunga durata. Il recupero creativo delle origini da parte dei Cisterciensi medievali, un vero paradosso, pare a tutt’oggi insuperato negli esiti; non si è ripetuto in particolare nel contesto cisterciense successivo, né nel percorso di riforma avviato nel XIV-XV secolo, dal quale è sorto il movimento della Stretta Osservanza o della Trappa; né a seguito del riordino unificante dell’ordine nell’anno 1892; né pare esserci ora, benché il messaggio spirituale ed estetico messo in moto da Stefano Harding e portato a radicale compiutezza da Bernardo di Clairvaux, insieme a quanto ci è pervenuto dell’architettura e dell’arte cisterciense, abbiano costituito, in più casi, fondamento per opzioni di essenzialità, funzionalità, economicità e minimalismo contemporanei, oltretutto non solo per l’architettura monastica cisterciense, come si vedrà più avanti.
Architettura cisterciense, architettura razionale del XX secolo: incandescenza di un contatto Negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento ha luogo, in Francia ma con echi internazionali, la messa a fuoco di una stringente correlazione di intenzionalità figurative tra architettura cisterciense e architettura contemporanea. Quest’ultima, in grande sviluppo dopo la seconda guerra mondiale, proponeva una sperimentazione a tutto campo di stampo razionalista, secondo un funzionalismo decisamente innestato nel progetto illuminista e connesso a innovazioni tecnologiche in continua evoluzione, in una internazionalità linguistica ed espressiva che, presso i migliori architetti, non fu mai priva di qualità artistica e di ancoraggio ai diversi contesti storico-geografici. Occorreva allora rendere vivibili ai moltissimi nuovi immigrati le città, cresciute esponenzialmente in un brevissimo arco di tempo, per offrire a tutti un habitat degno della condizione umana, e applicare con la maggiore razionalità possibile la diffusione capillare delle innovazioni tecnologiche perché tutti potessero godere dei vantaggi che esse offrivano. In quella breve stagione di grandi entusiasmi, accanto al problema di una stretta connessione tra progetto del singolo edificio e città, esplose anche quello dell’architettura e dell’arte dette sacre, degli edifici costruiti per ospitare riti e liturgia cristiana. In Francia, nazione nella quale l’architettura cisterciense medievale era già da tempo sistematicamente indagata, si pensi a Dimier4, scattò un tentativo di «fusione» tra quel passato e il presente, potremmo dire
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con Gadamer5, vale a dire tra l’opzione funzionalista, sulla quale si fondava il razionalismo architettonico moderno che aveva coinvolto anche l’edificio ecclesiastico, e l’essenzialità cisterciense. Fu un tentativo favorito dal travaglio, tutto contemporaneo, relativo al senso del sacro che le più recenti costruzioni a destinazione liturgica e devozionale intendevano esprimere. I Benedettini del monastero della comunità denominata La Pierre-qui-vire, in Borgogna, avevano attivato in quegli anni una vasta catalogazione e documentazione dell’architettura cisterciense medievale6. Dom Angelico Surchamp e padre M.-A. Dimier, in due volumi sull’arte cisterciense7 pubblicati in prima edizione nel 1962 dalla casa editrice con sede nel monastero borgognone, hanno messo in luce ed esaltato una corrispondenza tra le due esperienze storiche a loro parere di lampante evidenza, problematizzando al contempo l’ascetismo medievale e quello contemporaneo. Per Surchamp l’arte cisterciense è portatrice di un ideale universale, è stile d’ordine ricco di varianti oltre che esito di «una delle più rigorose ricerche di perfezione». Arte aperta a «fughe prospettiche che anticipano un ideale dei secoli successivi»8, con l’apporto di Bernardo essa diventa presagio in nuce di tempi sopravvenienti, quelli di Francesco d’Assisi e di madonna Povertà, quelli di un delicato equilibrio, purtroppo di breve durata, tra austerità e affettività monastiche, tra essenzialità di forme artistiche e architettoniche e attenzione al loro riverbero psicologico. «La meravigliosa avventura dell’arte cisterciense», ha affermato Surchamp, «pone con acutezza l’irritante e irrisolvibile problema dell’ampiezza della rinuncia nell’arte cristiana: e, in questo modo, quello dell’umanesimo cristiano». Era questione del tutto nuova, poiché l’arte era stata, fino a quel momento, «una specie di linguaggio, un gesto, la cui autonoma realtà, rispetto alle realtà celesti di cui pretendeva di essere segno e che poteva aiutare a raggiungere, non sussisteva [...]. I Cisterciensi, soprattutto san Bernardo, si pongono, da questo punto di vista, in contrasto con un dato tradizionale, poiché viene espressa, sembra per la prima volta, la questione dell’estetica in quanto tale con l’attivazione dell’ascesi nel campo dell’arte [...]. Questione terribile, in quanto propriamente irresolubile. Se occorreva essere effettivamente logici, sarebbe stato indispensabile rinunciare all’arte stessa [...]. Niente è più difficile che raggiungere, in questo campo, un vero equilibrio!»9. Bernardo dunque, secondo Surchamp, comprese che l’estetica «stava per diventare uno dei pericoli del mondo moderno»10, avvertì l’insorgere di una nuova mentalità disponibile alla gioia dei sensi, percepì un’inedita divarica-
zione tra due percorsi artistici: uno, umanista e rinascimentale, propositivo di un’arte in sé profana e però disponibile a una qualificazione religiosa in relazione alla propria destinazione; l’altro, antiumanista in senso rinascimentale, caratterizzato dall’abbandono di tutto ciò che «il vero discepolo di Cristo crocifisso deve sacrificare al suo Maestro». Si può pertanto affermare che Bernardo chiude definitivamente «la tradizione romanica nella quale è profondamente ancorato dalle proprie radici. Inaugura la mentalità moderna. Il suo messaggio ci è tanto più accessibile in quanto, condividendo noi le due tendenze, ci è molto vicino». Lo studioso benedettino, pur avvertendo in sé il dilemma bernardino, prendeva però le distanze dal principio che ne era causa; concludeva infatti le proprie riflessioni affermando: «Vi sono molte dimore nella casa del Padre. La storia della Chiesa non ha cessato di testimoniare questa verità, affermata da Cristo nell’ultima cena. È permesso ritenere che, fra tutte le dimore, quella di Cîteaux non sia che una delle meno meravigliose»11. Da parte sua il padre Dimier, nello stesso volume, dopo aver esplorato le ragioni profonde della spogliazione dell’architettura cisterciense coincidenti sostanzialmente con una scelta di radicale povertà, segnalava che tali ragioni furono proprie di molti altri riformatori coevi ai primi Cisterciensi e a san Bernardo: da Étienne de Grandmont a Bruno della Chartreuse, a Gérard d’Afflighen, a Pierre di Fontgombault, Bernard di Tiron e persino ad Abelardo. Esse si inscrivevano nel quadro di un orientamento che avrebbero di lì a poco seguito gli ordini mendicanti e che sarebbe stato ulteriormente accentuato dal Carmelo riformato. Anche la riforma protestante entrò nel dinamismo promosso da questo movimento ascetico. D’altro canto, i Cisterciensi di area tedesca e austriaca avrebbero abbandonato del tutto, tra Seicento e Settecento, l’austerità originaria. Infine, segnalava Dimier, l’arte contemporanea è ritornata a un’ascetica semplicità, anche in contesti ecclesiastici. Senza entrare nel merito delle ragioni dei moti di questo pendolo storico, ricordava che papa Pio XII nel 1958 aveva invocato la necessità di un senso della misura nella selezione delle immagini, grazie al quale ad esempio non si doveva respingere quelle dei santi in nome di un «freddo iconoclasmo»12. Per Dimier come anche per il celebre storico dell’arte Emile Mâle, ambedue affascinati dagli splendori dell’arte cluniacense, l’ascetismo bernardino esige grande e rara ricchezza interiore ed è comunque proponibile solo all’interno di un’esperienza monastica13. È importante registrare che sia Dimier sia Surchamp si avvertivano coinvolti personalmente, come uomini moderni,
nella problematica ascetica cisterciense e ne traevano valutazioni pertinenti sia al presente che al passato: nelle loro scelte di gusto confluivano fattori diversi, che registravano come disagevole, eppure in qualche modo attuale, l’essenzialità ascetica dei Cisterciensi, quasi che la potente forma originaria della loro vita e delle loro opere costituisse un pungolo, irritante perché produttore di complessa problematicità ma anche suggestivo, a scavare nel senso dell’umanesimo moderno, in profonda crisi di dissoluzione a metà Novecento. Negli stessi anni, in un altro filone pubblicistico francese si celebrava con forte accentuazione emotiva l’architettura cisterciense, privilegiando le trois sœurs provençales di Sénanque, Silvacane e Le Thoronet, delle quali l’ultima era ritenuta vertice della sperimentazione medievale, capolavoro di elegante essenzialità. Queste pubblicazioni, benché non abbiano sviluppato un fenomeno analogo al mito delle cattedrali gotiche, tema romantico per eccellenza, riuscirono tuttavia a esprimere un’adesione simpatetica all’arte cisterciense, che consentì di passare dalla storia dell’arte al romanzo e alla celebrazione poetica. Ne sono testimonianza eccellente sia il romanzo quasi autobiografico dell’architetto Fernand Pouillon, Les Pierres sauvages14, che racconta il tormento di un monaco costruttore cisterciense nella direzione del cantiere del proprio monastero, sia il volume del 1956 di François Cali, La Plus grande aventure du monde. L’architecture mistique de Cîteaux15, presso la casa editrice Arthaud, una sintesi di testi – di Le Corbusier, del domenicano francese padre Pie-Raymond Régamey, di Cali – attorno all’architettura di Le Thoronet, intrecciata con salmi e riflessioni di Padri della Chiesa, mistici medievali e santi, strutturata sul ritmo del salterio delle ore della preghiera monastica. Nella prefazione, Le Corbusier esprime ammirazione per l’architettura del monastero fotografato da Hervé: «Le immagini di questo libro sono testimoni della verità. Ogni componente costruttiva è valore creativo d’architettura. Architettura in quanto affollarsi incessante di gesti positivi. L’insieme, così come il dettaglio, è unità. La pietra qui è amica dell’uomo; la sua purezza, assicurata dalla struttura, implica piani dalla pelle ruvida; è durezza che afferma: pietra, non marmo; pietra è parola molto più bella. La disposizione delle pietre valorizza anche il pezzo minimo uscito dalla cava: per economia e abilità, il disegno risulta vario e dunque sempre nuovo. [...] Luce e ombra sono gli altisonanti portavoce di questa architettura di verità, di calma e di forza. Non è lecito aggiungervi nulla. Nel tempo del béton brut, sia benedetto, benvenuto e salutato, nel cammi-
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1. L’interno della chiesa di Cîteaux dopo il restauro del 1971.
no, questo meraviglioso incontro»16. Il celebre architetto era stato introdotto all’inizio degli anni Cinquanta alla conoscenza dell’architettura cisterciense, di Le Thoronet in particolare, dal padre domenicano Marie-Alain Couturier17, che gli aveva commissionato prima la cappella di Ronchamp e poi il convento di La Tourette. Couturier è morto solo da due anni quando Le Corbusier, ancora impegnato nel cantiere del convento, scrive questo brano, riconoscendo identità di forza, di autenticità e di essenzialità tra pietra e cemento armato. Le Thoronet è, per lui costruttore, «meraviglioso incontro» nel cammino di ricerca di forme nuove. Padre Régamey, invece, esprime crudamente il proprio disaccordo di storico dell’arte con l’interpretazione di Cali, disaccordo, egli dice, anche di credente, in ragione dell’eccesso di sensibilità umana dello scrittore, del tutto ignara delle certezze sovrannaturali. Ritiene però il testo molto importante, perché testimone del risveglio, in chi ha liquidato l’eredità cristiana, di uno stupore inevitabile a chi con sincerità si paragona con i segni cristiani e pertanto stimolo potente di nuove ricerche. Cogliendo nelle pietre tracce parlanti della vita dei monaci, Cali, infatti, ne riconosce il valore di strumento di liturgia, ne ammira la bellezza esito di lavoro artigianale ben fatto, riconosce che «l’architettura cisterciense è certezza del mondo nell’immaginazione del suo Dio», espressione di rara forza paragonabile solo all’arte greca. Per passare dalle immagini all’immaginazione sacra, dagli idoli ai simboli, dai miti ai misteri o dalle figure ai numeri, i monaci hanno dovuto attraversare un’esperienza dolorosa, di disciplina dell’anarchia mistica e liturgica, sotto la Regola di san Benedetto, ritrovando la propria somiglianza con Dio e la propria proporzione con il creato. Questa architettura è per lui segno della grande arte del vivere che l’ha prodotta, della grande arte d’amare che l’ha immaginata, arte che ha richiesto vita frugale sostenuta solo «dallo stretto necessario». Poter descrivere il manifestarsi della presenza di Dio in quel luogo è, per lui, la più grande avventura del mondo, che lo porta, fuori dalla storicità, nel contesto della cavalleria medievale e della leggenda del Santo Graal. Questa stessa avventura non gli è consentita dall’architettura moderna, che est plus l’affaire d’entrepreneurs en Dieu que d’ouvriers de Dieu, de magiciens des idées que d’aventuriers des choses, ragioni per le quali le opere sacre moderne provocano un disagio che è cattiva coscienza. In esse: «Dio è troppo evidentemente un truc per non metterne in crisi l’onestà, per non far oscuramente avvertire che, se esse giocano a credere in Dio, è però Dio ora che non crede a loro.
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Ne consegue che nella vita estetica emerge la più sorprendente invenzione psicologica di Marx: la cattiva coscienza»18. La ricerca di una bellezza fine a se stessa, di una dimensione estetica indifferente ai valori essenziali della vita, non consente ad architetti e artisti di sperimentare l’epifania del sacro nelle proprie opere; del resto, afferma Cali, i primi Cisterciensi rifiutarono il culto della bellezza; essa allora venne quasi per caso, come grazia. Il «materialismo» marxista di Cali gli consente di comprendere che, alterata dall’immaginario devozionale ottocentesco alla Saint-Sulpice e da un puritanesimo che diffida della concreta obiettività della realtà, l’immaginazione dell’uomo contemporaneo si è indebolita, si è spaventata, è divenuta mostruosa. Ha confuso purezza con immaterialità e ha dimenticato il mistero del desiderio e dell’amore che, invece, i primi Cisterciensi vissero fino in fondo. Cali marxista, questo non comprese Régamey, si trovava coinvolto in un autentico incontro con l’evento cristiano inscritto nelle pietre, decifrato da lui attraverso una strumentazione emozionale storicamente non sempre pertinente, ma in termini sostanzialmente lucidi nei fattori fondamentali. Dal punto di vista letterario la chiave interpretativa del suo testo è quella romantica, ma in un senso pienamente nobile, che invita a un ripensamento della condizione contemporanea. In questa «fusione» tra passato e presente, in questo contatto incandescente nell’esperienza di Cali, è la contemporaneità a subire lo scacco, mentre l’arte cisterciense di Le Thoronet assurge a modello di riferimento esemplare.
L’architettura cisterciense tra XIX e XX secolo In generale, la letteratura monastica attuale, compresa quella cisterciense, si sofferma a celebrare, anche in grandi inquadramenti antologici, il patrimonio edilizio e d’arte ereditato dal passato, ma non è altrettanto attenta a quello attuale, costruito nel XX secolo per ospitare le proprie comunità. È un fatto che non può non sconcertare, fatto che molto probabilmente risulta strettamente collegato alla denuncia di Cali, qui sopra riportata. Le narrazioni delle vicende cisterciensi da me consultate sono avare di informazioni sui monasteri costruiti tra XIX e XX secolo19. Non resta molto, d’altro canto, del prezioso patrimonio medievale, poiché la Rivoluzione francese e successive confische lo hanno depauperato e ridotto a rudere. Le chiese, in particolare, per vandalismo, vennero normalmente rase al suolo. In qualche caso ricchi americani hanno smontato chio-
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stri benedettini e cisterciensi europei e li hanno ricostruiti nei loro musei. Nel XIX e nel XX secolo, inoltre, la vita dei due rami dell’ordine cisterciense, quello della Stretta Osservanza o dei Trappisti e quello della Comune Osservanza, che raccoglie diverse famiglie ognuna con propri statuti, è stata tumultuosa, caratterizzata da cambiamenti radicali, soprattutto negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II. Nei monasteri trappisti femminili e maschili maturò, negli anni Trenta del Novecento, un risveglio di interesse per la storia e la teologia dei Padri cisterciensi che consentì, grazie anche all’azione di forti personalità, una decisa presa di distanza dall’identificazione della contemplazione con l’esercizio penitenziale, a favore di una più ricca vita fraterna, di un’attenzione più viva alla vita liturgica e al monastero di cui si perseguì una maggiore semplicità e più modeste dimensioni. Già fin dall’inizio del Novecento i Trappisti avevano messo in moto uno straordinario movimento di espansione geografica che ha ormai raggiunto tutti i continenti. Dalla metà del secolo, inoltre, le comunità americane sono cresciute
d’importanza, per merito soprattutto dell’influsso esercitato da Thomas Merton (1915-1968), la cui autobiografia, intitolata La montagna delle sette balze e pubblicata nel 1948, fu potente calamita che attrasse centinaia di giovani, molti dei quali non resistettero a lungo, tuttavia, al regime di vita monastico. Personalità dotata di straordinaria sensibilità estetica e di grande cultura, Merton ha segnalato nei suoi scritti, sia pure solo per cenni, lo scarto tra l’ideale medievale cisterciense e le realizzazioni a lui coeve, o di poco precedenti. Riteneva che: «La purezza del gusto in un monastero non è solamente questione di tirocinio artistico. Deriva da qualcosa di molto più alto. La purezza del cuore [...]. Non sempre i monaci sono artisti [...]. Ma il valore delle cose che essi creano sarà sempre radicato nello spirito più profondamente di quanto si può pretendere che lo sia una “virtù dell’intelletto pratico”: l’arte del monaco è il frutto di un albero le cui radici sono la carità, la povertà, la preghiera»20. Ne consegue, ed è fondamentale, che il monaco non deve mai essere un esteta, qualcuno che coltiva l’arte per l’arte, ma un artifex, un artigiano, un uomo al lavoro, e che
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2. L’edificio dell’infermeria del monastero trappista di Mount St. Mary’s, Massachussets, USA.
4. Il monastero trappista di Nuestra Señora de Coromoto, la sala capitolare.
3. Il monastero trappista di Nuestra Señora de Coromoto, Humocaro, stato di Lara, Venezuela, l’ala delle monache e quella delle novizie.
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condizione ideale per la vita monastica è che siano gli stessi monaci a costruire i propri monasteri. Alla produzione del XII e XIII secolo riconosce «energia, semplicità e purezza», «ingegnosità nell’equilibrare i blocchi di pietra a mezz’aria», capacità di offrire, nelle chiese illuminate da poche finestre senza vetri colorati e ben strutturate nell’equilibrio delle masse, «un’impressione di pace e di riposo», un invito «alla contemplazione in una atmosfera di semplicità e di povertà», poiché: «La dottrina dell’umiltà di san Benedetto, la base del suo insegnamento, era scritta nelle pietre di queste chiese. [...] Il fondersi dell’ascetismo cisterciense con l’intelligenza franca, della spiritualità pura con la genialità tecnica, portò a una rivoluzione nell’architettura, quando i monaci bianchi trovarono che, mediante un’accorta combinazione di pesi, di spinte, di archi, lo spessore delle mura e di conseguenza la spesa potevano essere ridotti della metà. [...] In ambienti come questi, la purificata liturgia dei Cisterciensi acquistò un effetto straordinario. [...] Ora che l’occhio non si perdeva più in una folla di officianti, in un mare di vesti in movimento, mente e cuore potevano concentrarsi sull’unico fat-
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to realmente importante»21. Per lui l’ascetismo cisterciense non è «un sistema di pratiche arbitrarie e irritanti [...] gare di resistenza e di flagellazione sistematica. [...] La penitenza dei Cisterciensi è essenzialmente la penitenza comune a tutta la razza umana», più precisamente è penitenza di chi ritrova e vive la povertà di Cristo «senza la quale la contemplazione non può avere sviluppo vitale», poiché «la povertà non è soltanto una privazione negativa; essa ha anche una funzione positiva: è aiutare gli altri nella carità», è apertura all’amicizia e all’umiltà che suscita uno spiritus lenitatis, «una tenerezza nata da una esperienza sofferta, una tenerezza che si allarga fino ad abbracciare tutti gli altri uomini». L’atmosfera spirituale in cui vivono i monaci cisterciensi, più alta e rarefatta di quella vissuta da tutti gli uomini, ha uno scopo preciso: «I migliori storici», conclude Merton, «sono d’accordo nel riconoscere che la nota realmente più caratteristica della vocazione cisterciense è che essa intende la Regola di san Benedetto soprattutto come preparazione alla vita mistica e cerca di raggiungere la contemplazione per via puramente cenobitica»22. La vita monastica cisterciense
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è, dunque, un ideale pienamente attuale ma di non facile comprensione. «È noto», ricorda Merton, «che, ai nostri giorni, la vita cisterciense ha suscitato numerose vocazioni in America, ma si può dire senza esagerazione che non tutti coloro i quali hanno scelto questa vita sapevano esattamente quello che cercavano e che parecchi non l’hanno trovato»23. Numerose sono le fondazioni maschili e femminili americane da lui ricordate: dall’abbazia, dove egli ha vissuto, di Gethsemani nel Kentucky a quella di Nostra Signora della Valle, dapprima nel Rhode Island, poi, in seguito alla distruzione causata da un incendio, a Spencer nel Massachusetts; all’abbazia di Nostra Signora di Guadalupe, fondata nel New Mexico nel 1947 e trasferita nel 1955 nell’Oregon; alle fondazioni in South Carolina, in un grande territorio donato da Henry R. Luce e Clare Booth Luce; a molte altre in California, nello Iowa, in Georgia, nello Utah, nel Missouri, nel Colorado, in Virginia. Monasteri di trappiste importanti sono quelli di Wrentham nel Massachusetts e di Redwoods in California. Nessuna delle moderne architetture cisterciensi ricordate ha meritato un
elogio da parte sua; ne ha anzi criticato l’inutile vastità e il mesto carattere, spoglio e poco luminoso24. Scomparso negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, Merton non ha potuto conoscere la ricca fioritura di piccole comunità e il profondo rinnovamento che le regge, maturati negli ultimi decenni del secolo. Nessuno per ora si è preoccupato di raccoglierne una documentazione che ne consenta qualche valutazione. Dai casi italiani, di Vitorchiano e di Valserena, ad altri sparsi nel mondo visitabili sui siti internet, le scelte architettoniche sembrano per lo più di estrema semplicità, prossima ai caratteri elementari dell’architettura rurale. In qualche caso il progettista riprende temi e simboli delle tradizioni locali come ad Humocaro, in Venezuela, nel monastero trappista femminile fondato dalla comunità italiana di Vitorchano, le cui forme riecheggiano quelle delle chiese coloniali dei borghi vicini, evocative del valore dei luoghi sacri ponti di collegamento tra cielo e terra (progetto di Bernardo Moncada Cárdenas, 1988-1993). È inoltre possibile cogliere una decisa propensione, evidente soprattutto nelle realizzazioni della seconda metà del XX secolo, per i linguaggi
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architettonici contemporanei, coniugata, nella stragrande maggioranza dei casi, con la costante conferma dello schema tipologico classico di monastero dotato di due poli funzionali, chiostro e foresteria, riferiti ambedue al polo centrale della chiesa. Talvolta, nei monasteri più piccoli, la foresteria occupa soltanto l’area di accesso al monastero. La scelta moderna è di più immediata evidenza nel caso di erezione di complessi completamente nuovi, lo è meno per edifici antichi, che i Cisterciensi hanno rioccupato dopo le molte drammatiche vicende vissute dai membri dell’ordine dalla fine del Settecento in poi, benché molte fotografie restituiscano luoghi di grande imponenza modificati in forme molto semplificate e austere. Le immagini suggeriscono inoltre una forte circolazione di idee, correlate a comuni princìpi di vita ma anche indicative di opzioni che mediano culture locali e orientamenti generali dell’ordine stesso; del resto la fondazione di un monastero avviene normalmente tramite emigrazione di alcuni membri da un altro, con contatti sorprendenti tra continenti. Spesso, nella storia di un monastero, vengono individuate fasi costruttive corrispondenti a un primo momento, con caratteri di
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fondazione, coincidente con la realizzazione di edifici provvisori, seguita da costruzioni più durevoli. Infine, esistono profonde differenze tra gli assetti insediativi dei Cisterciensi della Comune Osservanza, non vincolati alla clausura e spesso coinvolti in attività di tipo culturale e formativo, e quelli della Stretta Osservanza o Trappisti, che si insediano in luoghi distanti dai centri abitati e spesso danno vita a comunità non troppo grandi. In molti casi i monaci sono tornati nelle antiche abbazie, adeguandole, dove è possibile con nuove costruzioni, come a Cîteaux, oggi nuovamente Casa Madre della Famiglia cisterciense e sede di una comunità della Stretta Osservanza, che vi ha recentemente realizzato una nuova chiesa.
Due diverse opzioni cisterciensi Due recentissime fondazioni monastiche europee possono essere ritenute casi esemplari dell’intreccio di questioni, di vita, liturgia e architettura, alle quali intendono oggi rispondere le comunità cisterciensi. Sono: il monastero cistercien-
se Dominus Tecum di Pra’d Mill presso Bagnolo, in provincia di Cuneo, realizzato tra 1989 e 2005, e quello trappista di Nostra Signora di Novy Dvůr in Boemia, nella Repubblica Ceca, costruito tra il 2002 e il 2007. Il primo è sorto per sollecitazione della comunità ecclesiale piemontese nei confronti dell’abbazia cisterciense di Sant’Onorato dell’isola di Lérins nella baia di Cannes, uno dei luoghi europei di più antica presenza monastica, e grazie alla donazione di un vasto terreno della famiglia Oreglia d’Isola25, in una valle silenziosa del cuneese inserita nella catena del Monviso. La valle ha un suggestivo carattere selvaggio: è attraversata dal torrente Infernotto che ne incide il fondo, disegnandovi balze d’acqua improvvise e pozze, ed è nota per le numerose cave di pietra e per i grandi blocchi, affioranti dal terreno lungo i pendii, trasportati o scivolati dall’alto. Qui, da sempre, si costruiscono semplici case in pietra sbozzata, a vista sia all’esterno che all’interno, con tetti definiti da essenziali orditure in legno di castagno e coperti da lose, lastre piatte in pietra di varie dimensioni. Il preesistente insediamento di Pra’d Mill, situato su un pendio
collinare tra 850 e 900 metri sul livello del mare, era composto da due nuclei: in basso un castello settecentesco nobiliare dotato di torri difensive, con cappella autonoma dedicata all’Annunciazione, anch’essa settecentesca, e vicina baita; in alto, un borgo circondato da prati e da boschi di castagni e costituito da case di uno o due piani, abbandonate, con un fronte aperto verso sud per catturare quanto più sole possibile e l’opposto addossato alla montagna. Le costruzioni, come la maggior parte dei borghi di questo tipo, sono allineate a schiera su una strada poderale antica, che corre lungo le isoipse del terreno, e accolgono sia modestissime abitazioni in forma di piccole cellule abitative che stalle e fienili. Il nuovo insediamento monastico si incardina in un territorio, quello cuneese, ricco di storia cisterciense a partire dalla fondazione del monastero di Staffarda nel XII secolo, oggi nel comune di Revello (Cuneo), il cui primo nucleo fu costruito in terreni donati dal marchese Manfredo di Saluzzo a monaci provenienti da La Ferté, una delle case madri dell’ordine. Il monastero fu uno dei tramiti più importanti per la diffusione dei Cisterciensi nella penisola ita-
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Nelle due pagine precedenti: 5. Veduta generale del monastero di Pra’d Mill, Cuneo. 6. Scorcio del chiostro del monastero di Pra’d Mill, Cuneo. A fronte e sopra: 7 e 8. Il presbiterio e l’aula della chiesa del monastero di Pra’d Mill.
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9. Il monastero trappista di Nostra Signora di Nový Dvůr, Boemia, l’ala barocca settecentesca.
10. Parte della nuova edificazione del monastero trappista di Nový Dvůr: due lati del chiostro e, in evidenza, la chiesa.
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liana. Il territorio ad esso circostante è tuttora costellato dai resti di antiche grange e disegnato dalle strade poderali e dalle canalizzazioni dell’acqua realizzate dai monaci; ha ospitato inoltre, sulla bastionata del monte Bracco, la Certosa di Montebracco, dove, per un breve periodo dopo l’abbandono da parte dei Certosini, si stabilì una comunità trappista; infine, nei pressi di Carmagnola si alzano i resti dell’abbazia cisterciense di Carmagnola, rimodellata in forme settecentesche. I monaci provenienti da Lérins optarono subito per un monastero che facesse proprie qualità e sapienza costruttiva del luogo. Occuparono provvisoriamente il castello, rapidamente restaurato; nella baita vicina allocarono la foresteria, utilizzarono la cappella isolata nel prato. Qui avrebbero, in un primo tempo, voluto le nuove costruzioni monastiche. Al progetto lavorarono l’architetto Maurizio Momo26, con la collaborazione del collega Franco Brugo e la consulenza del noto professore e architetto Aimaro Oreglia d’Isola, celebre per la costante e intelligente attenzione all’architettura sacra e monastica insieme a Roberto Gabetti. Il primo progetto, disteso sul prato e articolato su un lungo chiostro rettangolare allungato per la clausura, non parve adeguato ai monaci, che optarono per un insediamento collocato più in alto, in corrispondenza del borgo di
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baite, coinvolte nel monastero. Tramite sapiente rimaneggiamento vennero ricavate: la clausura, la foresteria, la chiesa, distribuite su tre piani sfalsati e collegati tra loro tramite percorsi porticati orizzontali, trasversalmente connessi con raccordi, talvolta con scale. Le due fondamentali e classiche zone funzionali, la clausura composta da volumi attorno a due chiostri – quello della preghiera e quello di servizio con l’affaccio di cucina, laboratori, centrale termica, refettorio e, al piano superiore, biblioteca – e la foresteria, anch’essa su due piani, risultavano autonome, servite da percorsi e affacci diversificati, oltre che ricalcati sulle strade preesistenti e convergenti verso il polo centrale della chiesa. Quest’ultima, poco emergente all’esterno sia perché non molto alta e con basso campanile sia perché molto simile, nei materiali, agli altri edifici prevalentemente in pietra grezza, è stata concepita ad aula unica, dilatata in corrispondenza del coro dei monaci, simmetricamente allungato tra presbiterio e spazio per i fedeli, in modo da fare spazio a una cappella per l’adorazione eucaristica. Una specie di matroneo schermato, per monaci e ospiti anziani o infermi, ricavato nel sottotetto, affaccia sull’interno della chiesa, dove lo spazio maggiore è destinato all’aula dei fedeli. La voluta compenetrazione tra interno ed esterno è rimarcata dall’insistente uti-
lizzo della pietra nuda in blocchi poco lavorati, la stessa di ambone e altare. Quest’ultimo è immerso nella luce spiovente dal sovrastante lucernario. Per non disturbare la liturgia quotidiana l’ingresso alla chiesa più utilizzato non è posto in posizione centrale, ma su un fianco. Una nuda, grande croce all’esterno della chiesa e un’altra al suo interno sono gli unici forti segni cristiani visibili. Il monastero risulta nell’insieme un armonioso e poco appariscente ampliamento dell’insediamento preesistente, nella conservazione accurata delle parti antiche, nella ripresa delle tecnologie costruttive contadine messe a punto negli edifici nuovi, nel disegno complessivo rispettoso della conformazione del suolo e dei caratteri ambientali. Un’identica cura è stata riservata al contesto circostante di boschi, radure e prati, che hanno ricevuto un globale riassetto, con riattivazione dei canali irrigui, delle chiuse, delle antiche sorgive, dei sentieri, tuttora in corso. Segnala una sentita consapevolezza di continuità tra passato e presente, una sensibilità per l’identità del luogo capace di innestare la vita monastica nell’abitato rurale senza soluzioni di continuità, una voluta presa di distanza da opzioni estetiche forti a favore di un senso dell’abitare che si distingue da quello civile, il più povero oltretutto, solo sul piano tipologico-funzionale.
Carattere molto diverso ha il monastero trappista di Nový Dvůr nella foresta boema, progettato dall’architetto inglese John Pawson, realizzato in collaborazione con la comunità monastica coinvolta in una vera esperienza di autocostruzione, il primo monastero cattolico nei Paesi da poco sottratti al giogo sovietico, regime che aveva soppresso tutti i monasteri e posto fuori legge gli ordini religiosi. Nel 1999 maturò nell’antica abbazia francese di Sept-Fonts, a seguito della richiesta di due giovani cechi di essere accolti in comunità, il proposito di inviare in Boemia quaranta monaci. Raccolti i fondi per l’acquisto di un terreno anche con l’aiuto di altre comunità monastiche, l’abbazia di SeptFonts poté acquistare un vasto terreno agricolo isolato, di cento ettari, in Boemia, a pochi chilometri dal confine con la Germania, occupato solo dai resti di un complesso barocco del 1760, forse opera di Killian Dientzenhofer (1689-1751), affiancato da fabbricati agricoli organizzati attorno a una vasta aia. Affidò l’incarico del progetto a un architetto noto per la sua scelta estetica minimalista; Pawson disse alla posa della prima pietra della chiesa, nel 2002: «Questo monastero rappresenta un’occasione unica nella mia carriera. [...] Oggi noi posiamo questa stessa pietra nelle fondamenta dell’edificio che, più degli altri, incarna la vera vita di
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11. Nostra Signora di Nový Dvůr, particolare dell’ingresso. 12. Un’ala del chiostro. 13. La chiesa.
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14. Nostra Signora di Novy Dvůr, il refettorio. 15. L’esterno del monastero di Tautra, in Norvegia, rivestito di ardesia policroma.
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Novy Dvůr: la sua chiesa. Quando ci siamo ritrovati l’anno passato, il lavoro era concentrato sul restauro dell’edificio nobile. Oggi vediamo che comincia a prendere forma l’architettura moderna. [...] Per un architetto, questi sono momenti di forte impatto emotivo. Quando ho ricevuto questa commessa da parte dei monaci, sapevo ciò che volevo ottenere a Novy Dvůr: ritrovare l’ideale architettonico cisterciense del XII secolo di san Bernardo, con il suo senso del ruolo importante della luce, delle proporzioni corrette, della semplicità, delle altezze sobrie e dei dettagli. Ero convinto che la forma perfetta di un’espressione contemporanea potesse balzare fuori da una comprensione rigorosa dell’essenza di questa antica idea. È possibile che certi elementi del linguaggio di Novy Dvůr siano nuovi, ma esiste un’estetica sottostante di grande continuità. Il chiostro, per esempio, [chiuso tra vetrate continue nel lato esterno e con pavimento su piano inclinato] non ha precedenti nella storia dell’architettura cisterciense ma, ne sono sicuro, è fedele al suo antenato del XII secolo. [...] L’as-
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sociazione del vecchio con il nuovo ha certamente reso il progetto più difficoltoso, rompendo quell’unità architettonica che è normale per un monastero. [...] L’estetica generale di Novy Dvůr è stata messa a fuoco in un periodo breve ma intenso; sono occorsi molti mesi per definire i dettagli per raggiungere la sintesi tra poesia e funzionalità. Lo scopo è l’armonia completa tra il monastero e la comunità che lo abita, caratteristica architettonica che si esprime in un’assenza di aggiunte o di pezzi collegati artificialmente ed è ben più che qualità estetica. Si tratta piuttosto di eliminare i motivi di distrazione, sia quelli visibili che quelli funzionali, per permettere ai monaci di perseguire lo scopo di concentrarsi in Dio. Per raggiungere questo ideale, è stata necessaria molta collaborazione tra la mia équipe di Londra, quella del signor Soukup, qui in Boemia e i monaci stessi. Tutti noi abbiamo in comune un’estrema passione per i dettagli. Le Corbusier, che ha costruito il convento di La Tourette, ha scritto: “Un uomo che cerca l’armonia, possiede già il senso del sacro”. Nel corso degli
anni di lavoro per il monastero di Novy Dvůr, ho potuto rendermi conto della veridicità delle sue parole. Sono profondamente riconoscente ai monaci per avermi offerto un’occasione tanto unica. Sono fiero di aver potuto svolgere un ruolo nella realizzazione del loro sogno»27. Il monastero di Nostra Signora di Novy Dvůr sorge ora bianchissimo nel bosco, unitario nella sua volumetria elementare, poiché il lato del chiostro barocco si distingue molto poco dagli altri tre; il possente volume esterno della chiesa emerge, ma senza differenziarsi dal resto nei caratteri formali. La concezione modulare ad quadratum di matrice cisterciense unifica anche spazialmente l’insieme, nodo geometrico di vera sintesi, in chiave di estetica minimalista, tra matrice storica cisterciense e sua attuale interpretazione. Ancor più, esso si propone come figura consapevole di voluta continuità estetica tra passato e presente. Il chiostro, coperto da volte a botte e chiuso da grande vetrata, è del tutto privo di colonne che ne ritmino la spazio e lo arricchiscano narrativamente; non è inoltre disposto su
un unico piano: risulta in questo modo un grande vano luminoso e unitario e una promenade con leggere pendenze; chi la percorre ha la percezione di un netto stacco posto in essere tra interno ed esterno, che tuttavia godono anche di una reciproca compenetrazione visiva. In essa vengono esaltati, oltre che la presenza dei monaci che si staccano dal biancore dei piani costruttivi, il movimento degli steli d’erba nel prato, delle pozze d’acqua, del cielo, di una natura dunque ricondotta ai suoi elementi fondamentali e lasciata al di là della parete in cristallo, membrana che isola una interiorità comunitaria. La chiesa è un rettangolo molto allungato e molto alto coperto da volte a botte, nel quale i movimenti dei fedeli in visita e dei monaci risultano nettamente distinti. Il coro monastico è in posizione centrale, tra area presbiteriale, invasa dalla luce spiovente dall’alto, e spazio dei fedeli. L’area presbiteriale, a sua volta, è preceduta, nel vano dell’abside semicircolare, da una larga scalinata, salendo la quale i monaci vengono costantemente attratti dalla stele che ospita
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la custodia eucaristica e sostiene la figura della Vergine, di molto modeste dimensioni. Ovunque l’elemento mobile dominante è la luce, modulata con discrezione lungo le pareti ove si trovano monaci e fedeli, altisonante in corrispondenza del semplice altare: è luce, inoltre, indiretta, spiovente dall’alto in camere apposite ricavate nei muri laterali a doppio spessore e aperte, tramite tagli rettangolari, nel muro interno. Essa invade un grande vuoto bianco la cui consistenza volumetrica è del tutto prevalente sulle immagini – la croce, l’anta della custodia eucaristica, la statua della Vergine –, che acquistano valore di punti di riferimento più che di figurazioni. Il rinnovamento dell’intenzionalità bernardina, intessuta di ricerca di qualità di luce e proporzioni, viene espresso con rigore intellettuale per quanto riguarda sia la spazialità che le immagini. Non casualmente il complesso ha ricevuto, nel 2008, il primo Premio Internazionale di Architettura sacra, alla sua quarta edizione, promosso dalla Fondazione «Frate Sole», fondata a Pavia da padre Costantino Ruggeri28: costruito tra il 2000 e il 2005, il monastero lancia una provocazione intensa, drammaticamente rappresentata dal minimalismo segnico figurato, all’immaginario contemporaneo, lascian-
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do al solo spazio, vibrante di luce e regolato da proporzioni armoniche, il rimando alla sacralità della vita monastica e, di conseguenza, del luogo. Il richiamo di Pawson al convento di La Tourette, se ne manifesta la matrice di riferimento – l’esperienza lecorbusieriana in dialogo con la vita monastica dei Domenicani negli anni Sessanta del Novecento, anch’essi attenti all’architettura cisterciense come già ho detto –, segnala tuttavia anche uno scarto di sensibilità, intervenuto nel corso di circa cinquant’anni, oltre che ovviamente un ben diverso sentire tra i due architetti, Pawson e Le Corbusier, più cerebrale il primo, più colorato ed emozionale il secondo. Le differenze tra i monasteri di Pra’d Mill e di Novy Dvůr, inoltre, ambedue ancorati ma in modi diversi all’eredità cisterciense e in particolare alle intenzionalità, morali ed estetiche, di san Bernardo di Clairvaux, riguardano sostanzialmente, io credo, il modo di concepire la formatività del processo artistico e architettonico: caratterizzato da un’intellettualità fortemente emotiva e aderente al contesto il primo, più astrattamente concettuale il secondo. Ambedue comunque risultano esito di processi compositivi e formali altamente selettivi nei confronti dell’eredità storica, so-
prattutto rispetto alle immagini, due modalità di adesione sine glossa a un lascito esigente e tuttora provocatorio. Allo stesso Concorso Internazionale di Architettura sacra del 2008 ottenne il secondo premio ex aequo il monastero trappista femminile di Tautra, vincitore anche di un Premio Internazionale di Architetture in pietra, alla sua decima edizione. Anche in questo caso, a seguito di stretta collaborazione tra gli architetti incaricati del progetto, Jan Olav Jensen e Borro Skodvin, e nove monache, è stato realizzato, a partire dal 1999, un complesso di grande qualità e dalle forme essenziali, oltre che rigorosamente rispondente alle esigenze funzionali e liturgiche, rivestito all’interno in legno e all’esterno in ardesia norvegese policroma, che richiama la massa muraria dell’antico monastero cisterciense dell’isola. Sette monache venivano dalla Mississippi Abbey a Dubuque nello Iowa (USA), le altre due erano di origine norvegese: l’una veniva dal monastero di Wrentham (USA), l’altra da quello di Laval in Francia29. Anche in questo caso ci si è appellati alla sobrietà cisterciense, ma in forme più sciolte, meno concettualmente determinate rispetto a quanto è accaduto in Boemia. Nel monastero di Tautra sembra che l’assunto più consolidato del-
l’architettura contemporanea – la sua prevalente razionalità semplificante, efficacemente coniugata con un uso altamente tecnologico e fortemente espressivo dei materiali – risulti rispondente a una essenzialità di vita e di forme estetiche propriamente cisterciensi. Merita infine di essere segnalato un altro monastero trappista femminile in terra boema, tuttora in costruzione su progetto di un architetto italiano, Marco Annoni30, organizzato attorno a due chiostri e con chiesa a croce latina, con caratteri formali e utilizzo di materiali che richiamano l’architettura rurale locale, analogo dunque a quello piemontese di Pra’d Mill. Il breve profilo dei quattro casi qui proposti, semplici ma di sicura qualità architettonica, mira a far emergere quanto sia ancora aperta e suscettibile di nuove interpretazioni la riflessione estetico-esistenziale dei primi Cisterciensi e di san Bernardo ancorata nel ritorno all’essenziale della Regola di san Benedetto. In occasione di un convegno milanese sul grande santo cisterciense31, avevo proposto una interpretazione del suo ascetismo figurativo che si fondava sia sulla celebre Apologia del 1135 che sui successivi Sermones super Cantica
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Nelle due pagine precedenti: 16. Il monastero trappista di Nostra Signora della Moldava / Nayí Paní nad Vltavou, veduta generale. 17. Il monastero trappista di Nostra Signora della Moldava, a sinistra l’ingresso del monastero e al centro l’ingresso della chiesa attraverso la cappella degli ospiti.
Canticorum, di circa dieci anni dopo, nei quali egli inclinava decisamente, per l’architettura, verso la scelta di una bellezza razionale, caratterizzata da ordine e armonia di proporzioni, e, per le immagini, verso una spiritualis effigies nella quale fissare lo sguardo. È proprio dell’immagine non solo svelare ma anche nascondere, indicare dunque un moto di ricerca del vero che la oltrepassi. In un’immagine, quella di Cristo, Bernardo aveva fissato lo sguardo e voleva che i suoi monaci lo fissassero: è l’immagine che svela e insieme nasconde il Padre. L’orientamento del grande cisterciense non può essere superficialmente definito un astratto razionalismo ante litteram perché la ricerca di una spiritualis effigies lo spinse a porre la questione della percezione del bello e delle sue relazioni con le teorie della conoscenza, dunque della comprensione umana del senso della realtà, che per il monaco cisterciense trovava un vertice nella contemplazione del mistero di Dio fatto uomo, pertanto nella consapevolezza del mistero di Dio visibile/invisibile, vissuta nel contesto monastico. Forse Bernardo fu preso, nella contemplazione divina, in quella relazione misteriosa tra visione e sua non traducibilità in concetti ben analizzata nel trentatreesimo canto del Paradiso da Dante: il poeta è qui folgorato dalla visione della Trinità, cui Bernardo stesso, per il tramite della Vergine, lo ha introdotto; vede un’immagine che non può descrivere né disegnare. E tuttavia egli può dire che coglie l’unità del tutto; gli pare di cogliere l’unità e la trinità di
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Dio, gli pare di cogliere se stesso a immagine e somiglianza di quella sacra effigie. Ma l’alta fantasia non ha la forza di tradurre né in immagine né in concetto la folgorazione ricevuta; tuttavia Dante, nella contemplazione, è definitivamente coinvolto nel movimento di vita di quel Dio che è «l’Amor che muove il sole e l’altre stelle». Forse è qui, nell’esperienza mistica che i Cisterciensi richiamano di continuo fino ai nostri giorni come loro specifico compito, esperienza che coinvolge sensibilmente nella vita divina e tende dunque a portare oltre il sensibile, cui Dante dà figurazione esemplare, il movimento di ascesa tentato da Bernardo dalla imago naturalis a quella spiritualis. Alla dinamica della presenza/assenza propria dell’immagine, dinamica della presenza divina in mezzo agli uomini, di Cristo dunque, si volgeva l’abate cisterciense; egli comprendeva che tutte le cose significano, ma che per coglierle nel loro significato occorre anche trascenderle. La tensione a questo cammino di unione mistica con Dio, oltre le realtà create, lo metteva in opposizione a una loro autonoma dimensione estetica e all’immagine estetica del mondo tesa nell’affermazione della propria autonomia, di cui già avvertiva qualche traccia nel proprio mondo monastico e che avrebbe preso forza già nel secolo successivo al suo. È dunque ben diversa la sua ricerca di una bellezza razionale dal razionalismo dell’architettura del XX secolo e dai suoi fondamenti empirici e antropologici; è diversa ma tuttavia non del tutto indifferente all’ansia di sacro, camuffata, dell’uomo razionalista del XX secolo.
ANTICHE FABBRICHE CISTERCIENSI NEGLI STATI UNITI Terryl N. Kinder
Che cosa succede a un’abbazia e ai suoi terreni quando i monaci non vi abitano più? Grazie alla solidità dei materiali di costruzione, gli edifici monastici non più utilizzati come tali sono stati destinati a usi industriali, agricoli e civili, oppure – come è testimonato da molti villaggi dei dintorni – sono stati sfruttati come cave di pietre. Occasionalmente, però, le abbazie hanno compiuto lunghi viaggi dal loro luogo originale. Nei primi anni del XX secolo, parti di monasteri cisterciensi medievali francesi e spagnoli sono state vendute e trasportate negli Stati Uniti. The Cloisters, una sezione del Metropolitan Museum of Art di New York, è stato creato da John D. Rockefeller per raccogliere edifici e oggetti medievali. In posizione isolata nel Fort Tryon Park, all’estremità settentrionale dell’isola di Manhattan, la sua installazione aveva lo scopo di rievocare un monastero medievale1. La sala del capitolo dell’abbazia di Pontaut nella Francia sudoccidentale è stata un importante apporto a questa collezione medievale. L’abbazia di Pontaut fu fondata nel 1115 da Geraud de Sales e divenne cisterciense quando entrò a far parte della filiazione di Pontigny come casa figlia dell’abbazia di Jouy vicino a Parigi. Da allora Pontaut acquisì molte terre e gli edifici monastici vennero costruiti probabilmente nella seconda metà del XII secolo. L’abbazia venne saccheggiata e in parte bruciata dalle truppe ugonotte nel 1569, subì l’operato di abati commendatari, ma continuò a ospitare una comunità monastica fino a quando venne sciolta nel 1791. L’abbazia fu acquistata da una famiglia francese e rimase in suo possesso fino agli anni 1930. Nel 1932 il mercante francese Paul Gouvert acquistò la sala del capitolo – allora utilizzata come stalla – e la ricostruì vicino a Parigi, per venderla poi al Metropolitan Museum nel 19352. La sala del capitolo (fig. 1) è di forma rettangolare con tre
campate in larghezza e due in profondità, un ingresso centrale con un arco a tutto sesto e aperture laterali. Misura 12,80 per 10 metri3 e – come gli altri edifici del luogo, compresa la chiesa – è stata costruita con arenaria e mattoni. Le volte costolonate partono da due colonne centrali monolitiche e si appoggiano su colonnine singole o triple, incassate lungo le pareti. I capitelli presentano una varietà di motivi: vegetali, intrecci, spirali, uccelli (figg. 2, 3 e 4). Alcuni abachi sono lisci, in altri sono scolpite stelle, punte o motivi a scacchiera, questi ultimi usati anche per la decorazione della cornice delle tre finestre della parete orientale (fig. 5). Le pareti orientale e meridionale sono di pietra, mentre la parte inferiore di quella settentrionale (a sinistra) sotto ai capitelli, come pure le colonnine lavorate, sono di mattoni. Nel 1931 un arco di marmo e arenaria di un monastero, che si diceva provenisse dall’abbazia di Pontaut, venne acquistato anch’esso dal mercante parigino Paul Gouvert per il Museum of Art di Toledo (Ohio)4. Gouvert sosteneva di averlo trovato nel muro di un edificio fra le rovine dell’abbazia di Pontaut; in realtà l’aveva staccato e ricostruito nel suo giardino prima di spedirlo a Toledo. Recentemente, tuttavia, l’origine cisterciense di questo arco è stata a ragione messa in dubbio5. I capitelli, scolpiti con motivi assolutamente secolari, sono stati datati in base al loro stile al 1400 circa; né la data né l’iconografia appartengono plausibilmente alla storia di Pontaut. Sembra più probabile che l’arco provenga da qualche altro edificio nel sudovest della Francia e che Gouvert l’abbia collegato a Pontaut per renderlo più interessante. Un’arcata tardomedievale proveniente dall’abbazia di Bonnefont è stata integrata nell’affascinante giardino medieva-
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1. La sala capitolare di Pontaut ricostruita al Cloisters Museum di New York.
A fronte: 2. Capitello con tre uccelli, da Pontaut. 3. Capitello con abaco decorato a stella, da Pontaut.
4. Capitelli decorati con pigne e abaco a scacchiera, da Pontaut.
Nelle due pagine seguenti: 6. Il chiostro di Bonnefont ricostruito al Cloisters Museum di New York.
5. Decorazione a scacchiera della cornice di una finestra, da Pontaut.
7. Un’ala del chiostro di Sacramenia, ricostruito presso la parrocchia di San Bernardo di Clairvaux a Miami Beach, Florida.
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le dei Cloisters (fig. 6). Bonnefont venne fondata da Morimond nel 1136 in Francia sudoccidentale (Haute-Garonne), nella diocesi Comminges (oggi Tolosa), fu ampliata nel XIII secolo e ricostruita nel XIV e XV. L’abbazia venne acquistata nel 1791 da tre francesi e smantellata poco dopo; i chiostri sparirono fra il 1807 e il 1813. Oggi rimane poco in questo luogo oltre all’entrata, l’edificio dei fratelli laici e una fontana ricostruita, sebbene si possano trovare portali, colonne e altri elementi architettonici inseriti o accanto a numerose case, chiese e parchi della regione. La complicata storia postrivoluzionaria di Bonnefont si riflette nella sua acquisizione da parte dei Cloisters. Ventuno capitelli doppi scolpiti, poggianti su colonnine binate con base unica, datati al tardo XIII o primo XIV secolo, costituiscono un lato del giardino del chiostro di Bonnefont. Alcuni furono acquistati dal collezionista George Grey Barnard nel 19086 e venduti nel 1925 al Metropolitan Museum; altri furono donati da J.P. Morgan nel 1916 o
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acquistati da Joseph Brummer nel 19447. La galleria ricostruita si apre su un giardino monastico con spalliere di alberi da frutta e piante usate nel Medioevo per scopi medici, alimentari, magici, per tinture e altri usi domestici. Nel 1925 il mercante d’arte Arthur Byne – un americano espatriato che viveva a Madrid dove gestiva un profittevole commercio vendendo a collezionisti opere d’arte e di architettura – scrisse a Julia Morgan, l’architetto di William Randolph Hearst. Byne sosteneva di aver trovato «probabilmente l’unico chiostro e l’unica sala capitolare disponibile oggi in Europa» che potevano venire comprati per circa 35.000 dollari8. L’ex-abbazia cisterciense di Sacramenia a Segovia iniziò così il suo tortuoso viaggio dalla Spagna alla Florida. Ma la Florida non era la meta che intendeva Hearst: la sua intenzione era di incorporare questi edifici nel suo palazzo residenziale a San Simeon in California. Sul sito dell’abbazia di Sacramenia esisteva una chiesa nel
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912 e un’abbazia nel 937, ma nel 1141 Alfonso VII, re di León e Castiglia (1126-1157) offrì il terreno all’abate di L’Escale-Dieu nel sud della Francia per fondarvi un’abbazia cisterciense. Il nuovo abate e la comunità giunsero nel 1142 e vi stabilirono la quinta abbazia cisterciense di Spagna, la prima in Castiglia. La vita monastica proseguì fino al 1835 quando il governo spagnolo rilevò Sacramenia e la vendette a un privato. Novant’anni più tardi, quando Byne ne trattava l’acquisto, alcuni edifici erano caduti in rovina ma il chiostro era stato murato per immagazzinarvi il grano. Byne fotografò gli edifici, disegnò diverse piante e stese le istruzioni di ricostruzione prima che le quattro gallerie del chiostro, la sala capitolare, il refettorio e altri elementi venissero imballati in 10.751 casse di legno e spediti in California. La chiesa non entrò a far parte della vendita e rimase sul posto9. La spedizione non raggiunse mai la sua destinazione. In Spagna si erano recentemente manifestati casi di afta epizootica e le casse, poste in quarantena a New York, furono aperte, la paglia di imbottitura bruciata e le pietre nuova-
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mente incassate. Con le gravi difficoltà che Hearst dovette affrontare negli anni 1930, esse rimasero tuttavia in un magazzino di New York fino alla sua morte nel 1951. L’anno seguente, due operatori immobiliari acquistarono le pietre e le spedirono in Florida per essere ricostituite come attrazione turistica. Tuttavia, aprendo le casse, i costruttori scoprirono che le pietre erano state spostate durante il nuovo imballaggio rendendo inutili le istruzioni di ricostruzione di Byne. Ripresero allora una descrizione di Sacramenia pubblicata nel 1944 sulla base di note e fotografie fatte prima che l’abbazia fosse smantellata10, ma invece dei tre previsti, il lavoro si prolungò per diciannove mesi. I fondi si esaurirono prima che tutte le pietre fossero riutilizzate e quelle rimanenti vennero ammucchiate alla rinfusa dietro all’abbazia ricostruita. L’“antico monastero spagnolo” non destò molto interesse come attrattiva turistica, venne acquistato dalla Chiesa Episcopale nel 1965 e ora funge da chiesa parrocchiale dedicata a San Bernardo di Clairvaux a Miami Beach in Florida. Un portale gotico segnala l’entrata al chiostro quadrato11,
costituito da sette campate sui lati nord, ovest e sud, mentre otto campate più piccole formano la galleria orientale. Due delle arcate del chiostro datano al XIII secolo e le altre due furono ricostruite durante il Rinascimento; le volte costolonate di tutte le quattro gallerie risalgono al XV secolo (fig. 7). L’entrata nella sala capitolare avviene attraverso un arco a tutto sesto affiancato da aperture binate su entrambi i lati. Si protende isolata dal centro della galleria orientale (i locali laterali, in rovina, non vennero acquistati) ed è coperta da una volta costolonata sostenuta da quattro colonne12. Il refettorio del XIII secolo presenta cinque campate ed è coperto da una volta a botte ogivale con nervature trasversali. Fu ricostruito nella sua posizione originale all’estremità occidentale della galleria sud, aggettato ad angolo retto rispetto al chiostro, come spesso avveniva nelle abbazie cisterciensi. Oggi viene usato come chiesa parrocchiale. Così ricostruito, il complesso corrisponde fedelmente al modello originale ed è stato inserito nel Registro Nazionale dei Siti Storici nel 1972.
Nel 1980 François Bucher – che aveva trovato delle pietre medievali coperte da muschio che fuoriuscivano dal terreno umido dietro all’abbazia ricostruita – fece degli scavi e trovò dei conci rastremati che egli datò al 1380, credendo che provenissero dalla cucina dell’abbazia. Vennero ricostituiti a formare un arco a tutto sesto sulla parete di entrata del Fine Arts Museum della Florida State University a Tallahassee13. Nel 1930, con le pietre ancora sequestrate a New York, William Randolph Hearst si era nuovamente rivolto a Arthur Byne. La residenza estiva della famiglia era stata distrutta dal fuoco e Hearst desiderava rimpiazzarla con un “castello”, inviò quindi messaggi a Byne chiedendogli di trovare tesori architettonici spagnoli per le stanze principali14. Byne scoprì presto che il direttore della Banca di Spagna voleva vendere l’ex-monastero di Santa Maria de Ovila. Situata nella Nuova Castiglia (Guadalajara), Ovila era stata fondata intorno al 1175 da re Alfonso VIII (1158-1214)
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lungo il confine del territorio che aveva recentemente riconquistato dai Mori. I monaci arrivarono da Boulbonne (Haute-Garonne), abbazia dipendente da Morimond; nel XII secolo venne costruita una chiesa, rimodernata nel XVI. L’abbazia venne secolarizzata nel 1835 e i nuovi proprietari vendettero le tegole del tetto e tutte le altre parti mobili. Nel dicembre 1930 Byne trovò Ovila in condizioni precarie: fra le volte crescevano cespugli e alberi e un muro massiccio era prossimo al crollo. Byne suggerì di acquistare le parti “utilizzabili” del monastero e Hearst acconsentì. Nell’aprile del 1931 si svolse il processo di «dilapidazione», come lo chiamò Byne («uso la parola nel suo significato latino»15), che lavorò con urgenza per fare uscire le pietre dal paese durante la confusione causata dal recente cambio di governo16. L’acquisto finale comprendeva un refettorio a quattro campate, la sala del capitolo, la chiesa con il suo portale. Le pietre vennero numerate, incassate e trasportate a San Francisco per nave in undici spedizioni, con precise istru-
zioni per riassemblarle stilate dal meticoloso Byne. La chiesa era inizialmente destinata a costituire una sala di ricevimento dove Hearst avrebbe salutato i suoi ospiti prima di pranzo (un primo schizzo mostrava un grande pianoforte all’estremità orientale dell’unica navata, con salotti nell’abside e nella crociera), ma le sue dimensioni (oltre 150 piedi di lunghezza e 50 di altezza) costituivano un problema. Hearst alla fine decise che la chiesa avrebbe potuto ospitare la piscina con un trampolino all’estremità occidentale della navata di tre arcate. La cappella a nord sarebbe stata lo spogliatoio per le signore con una “spiaggia” di sabbia per bagni di sole attorno all’abside poligonale. Ma Hearst non ebbe più successo con Ovila di quanto ne aveva avuto con Sacramenia; nel 1933 gli effetti della Depressione avevano compromesso in tal modo le sue sostanze che la costruzione non poteva più aver luogo. Le pietre, sempre in un magazzino di San Francisco, vennero messe in vendita. Rimaste invendute, nel 1941 Hearst le donò al de Young Museum di San Francisco con l’intesa che il mu10
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Nelle due pagine precedenti: 8. Il portale cinquecentesco della chiesa dell’abbazia di Ovila, ricostruito all’University of San Francisco.
Sotto: 11. Lavori in corso per la ricostruzione della sala capitolare di Ovila a New Clairvaux di Vina
9. La facciata della sala capitolare di Ovila ricostruita presso l’abbazia di New Clairvaux di Vina, California. 10. Veduta esterna dell’edificio della sala capitolare di Ovila a New Clairvaux di Vina.
seo avrebbe ricostruito il monastero nel Golden Gate Park, in modo simile a come era stato creato il Cloisters Museum a Manhattan. La direzione era entusiasta e vennero elaborati i progetti, ma sopravvenne la Seconda Guerra mondiale e dopo la sua conclusione i fondi raccolti non furono sufficienti. Il progetto non venne mai realizzato. Allo stesso tempo le casse di pietre depositate nel Golden Gate Park subirono cinque incendi. Gli ultimi due, nel 1959, ebbero effetti catastrofici. Le alte temperature, seguite dall’acqua usata per estinguere il fuoco, ebbero come conseguenza delle grosse scheggiature. In seguito esse furono oggetto di gesti vandalici, portate via e usate come ornamento in giardini, per segnare i confini dei posti nei parcheggi o per costruire muri di contenimento o basi per fontane. Per queste pietre la situazione era disperata, ma nel 1964/65 la de Young Museum Society raccolse 40.000 dollari per erigere il portale del XVI secolo che una volta stava all’entrata della chiesa del monastero e, depositato in un magazzino, era rimasto indenne dagli incendi. Il portale ricostruito divenne la principale decorazione della sala centrale di esposizione del museo, rinominata Hearst Court. Alla fine del 2000 il de Young Museum venne chiuso e fu iniziata la costruzione del nuovo edificio nel Golden Gate
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Park. Nel 2001 il portale venne trasferito nella vicina University of San Francisco dove è stato recentemente ricostruito. Con il nuovo posizionamento il portale funge da entrata alla Kalmonowitz Hall e fa da sfondo all’anfiteatro all’aperto degli studenti (fig. 8). Intanto le pietre rimaste giacevano ancora nel Golden Gate Park. Nel 1980 fu inventariato il 50-60% delle pietre della sala capitolare, le più belle della partita. Si riaccese la speranza che la sala capitolare potesse essere alla fine ricostruita nel de Young Museum17, ma ancora una volta il progetto venne abbandonato. All’inizio degli anni 1990, grazie all’intervento di un amico dell’abbazia cisterciense di New Clairvaux di Vina, California, il direttore del de Young Museum acconsentì a cedere le pietre ai monaci per ricostruire la loro abbazia a circa 155 miglia (250 km) a nord di San Francisco. Vennero donati fondi sufficienti per erigere la facciata della sala capitolare (figg. 9 e 10) e la raccolta di altri fondi è in corso per continuare la ricostruzione18 (fig. 11). Una volta terminata, una sala capitolare del XII secolo proveniente dalla Spagna servirà ancora una volta al suo scopo originale in una moderna abbazia cisterciense in California19, un giusto tributo a un ordine monastico che già nel XII secolo superava i confini nazionali.
OUR LADY OF JOY. UNA COMUNITÀ CISTERCIENSE IN ESTREMO ORIENTE Anastasius Li e M. Theophane Young
La prima abbazia cisterciense in Asia fu fondata nel 1883 a nord-ovest di Pechino, appena fuori dalla Grande Muraglia a Yangjiaping (provincia di Hebei) nella Cina nordorientale, sotto la responsabilità dell’abbazia francese di Sept-Fons. La prima comunità era formata da monaci provenienti da Tamié (pure in Francia) e il nome di Our Lady of Consolation venne suggerito dall’amico san Giovanni Bosco al fondatore, Dom Ephrem Seignol (1883-1886), già priore di Tamié e poi primo superiore. Tutte le altre abbazie trappiste in Estremo Oriente, arrivate ora al numero di undici, possono far risalire la loro origine alla Consolation Abbey. La sua casa figlia, Our Lady of Joy (chiamata in origine Liesse), fu fondata nel 1928 a Zhengdinfu, poco a sud di Pechino. Le prime due comunità giapponesi furono create su iniziativa del primo abate della Consolation1, Dom Marie-Bernard Favre (1891-1900), che acquistò il terreno in Giappone settentrionale e convinse due comunità francesi a intraprendere qui delle fondazioni. Tobetsu venne fondata nel 1896 da monaci di Bricquebec e Tenshien nel 1898 da monache di Ubexy. Da queste due abbazie derivarono poi altri cinque monasteri in Giappone e uno in Corea. Le forme architettoniche adottate dalla Consolation Abbey vennero seguite dalla maggior parte degli altri monasteri trappisti in Estremo Oriente: una grande chiesa in stile europeo con edifici circostanti in cui si fondono a volte stili architettonici locali (fig. 1). Si può osservare il medesimo modello nella maggior parte dei complessi parrocchiali della regione, in quanto all’epoca in cui i missionari europei iniziarono a portare la fede cristiana oltremare non veniva prestata molta attenzione all’inculturazione. La prima grande spinta in questo senso – da parte dei Gesuiti in Cina nel XVII secolo – venne stroncata sul nascere e non si
manifestò nuovamente se non qualche centinaio di anni dopo. Nel 1939 la risoluzione di Pio XII decise la cosiddetta controversia della “venerazione degli antenati” a favore della cultura cinese e, negli anni 1960, venne l’incoraggiamento all’inculturazione da parte del Vaticano II. Da allora, in tutta la regione – in verità in tutta la Chiesa – si riservò maggiore attenzione alle espressioni locali nella venerazione, nell’arte e nell’architettura cristiane. Per esempio, la casa figlia di Lady of Joy, il monastero della Mother of God, fondata nel 1986 a Shuili, Taiwan, è stata edificata in stile architettonico essenzialmente cinese. Sebbene all’interno della chiesa il coro sia costruito nello stile tradizionale europeo, le gronde dei tetti di tegole rosse sono incurvate verso l’alto al modo cinese e i locali di abitazione usano il bambù e le canne nello stile dei giardini cinesi. Ambedue i monasteri, Consolation (a Yangjiaping) e Our Lady of Joy (Liesse) hanno molto sofferto nei tardi anni 1940 sotto il nuovo governo cinese. Il monastero della Consolation venne bruciato fino alle fondamenta da una scorreria di soldati governativi durante la “marcia della morte” dei monaci, nella quale trentatre dei settantasette monaci vennero martirizzati; due dei sessanta membri della comunità di Liesse subirono la stessa sorte, sebbene alcuni degli edifici siano rimasti in piedi (una parte viene ora usata come seminario, l’altra come centro di assistenza sociale). Molti monaci sopravvissuti di ambedue le comunità si riunirono a Pechino dove i Benedettini diedero loro della terra. Avviarono una fattoria che gestirono per sette anni fino a quando, nel 1954, il governo se ne impadronì mandando i monaci rimasti in campi di lavoro, dove alcuni morirono, altri languirono per venticinque anni e più, fino a quando vennero rilasciati. L’abbazia della Consolation
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1. Una fotografia della Consolation Abbey prima delle distruzioni patite alla fine degli anni ’40 del secolo scorso.
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2. La chiesa di Our Lady of Joy. 3. Il cortile dell’ambulatorio.
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continua oggi a esistere con un ridottissimo numero di sopravvissuti e alcuni giovani che hanno iniziato silenziosamente la vita cisterciense, senza una vera e propria casa. Nel frattempo la storia di Our Lady of Joy (Liesse) prese un’altra svolta. Nel 1941 i monaci elessero un superiore cisterciense cinese, il primo in assoluto, Dom Paulinus Lee. Nel 1947, per sfuggire alle continue minacce dei militari, Dom Paulinus Lee guidò la maggior parte dei monaci, per terra, mare e aria, fino a un rifugio nella provincia di Sichuan, nell’estremo sud-ovest della Cina, dove il vescovo aveva costruito alcuni semplici edifici nella speranza di attirare dei Trappisti per una fondazione nella sua diocesi. Due anni più tardi, tuttavia, vedendo che i militari si facevano sempre più vicini, Dom Paulinus espatriò in cerca di una casa più sicura, forse stabile, per la sua comunità andando a Hong Kong, a Taiwan, negli USA e in Canada. Alla fine di quello stesso anno dieci monaci sacerdoti della comunità lo raggiunsero in Nordamerica, dove rimasero per quattro anni nella Prairies Abbey (Manitoba, Canada) e nella Trinity Abbey (Utah, USA) prima di tornare a riunirsi ai loro confratelli. Nel 1950 altri dieci monaci riuscirono a lasciare Pechino per Hong Kong, dove iniziarono a costruire un nuovo monastero su un terreno desolato sull’isola di Lantao, offerto dal governo inglese. È questo monastero – costruito su una collina in vista del Mar della Cina meridionale, al centro di una valle resa lussureggiante dal faticoso lavoro di piantagione dei monaci, da cui si vede da lontano la città – che oggi si è trasformato nell’abbazia di Our Lady of Joy o di Lantao come viene chiamato familiarmente all’interno dell’Ordine. Il primo edificio stabile del monastero di Lantao – la sua chiesa – venne consacrato nel 1955. Quando l’abate generale chiese a Dom Paulinus perché era stata costruita pri-
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ma la chiesa invece delle abitazioni dei monaci, secondo l’uso, ricevette una risposta maturata negli oltre venticinque anni di attesa: da quando Liesse era stata fondata, la comunità non aveva mai avuto un vera e propria chiesa, solo una stanza rettangolare adattata a chiesa all’interno di un edificio adibito a diversi usi. I monaci – che si accontentavano di vivere nelle loro stanze provvisorie – votarono all’unanimità per la costruzione di una vera chiesa ed è questo quello che fecero. Si tratta di una struttura semplice, condizionata dall’esiguità dei fondi disponibili, provenienti per la maggior parte da amici della comunità. Le basse arcate all’interno furono costruite in granito locale cavato dagli stessi monaci (fig. 2). I sette pilastri che sostengono gli archi diaframmatici sotto al tetto alludono ai sette pilastri della Saggezza del Libro dei Proverbi (9,1). Sebbene non intenzionalmente voluta (piuttosto per motivi economici) la struttura del coro è precorritrice del futuro, ed è formata da quaranta stalli lignei intagliati semplicemente, destinati sia ai conversi sia ai loro fratelli chierici. Negli anni seguenti vennero aggiunti due edifici rettangolari per locali di residenza stabili, ognuno a due piani e collegato alla chiesa da un passaggio. Nel 2007 una nuova infermeria della comunità ha completato gli edifici monastici. La forma esterna richiama quella della chiesa ma contiene una serie di elementi cinesi (fig. 3). Come nelle case tradizionali cinesi, una corte centrale è circondata dalle abitazioni e diversi oggetti contribuiscono a creare un ambiente cinese. La piccola cappella all’estremità del chiostro contiene un classico altare cinese con inginocchiatoi, stuoie, cuscini e semplici sedie sul fondo; l’altare, un paravento e il tabernacolo hanno decorazioni in legno di rosa, le pareti e il pavimento sono in materiali leggeri. Tutto questo fa sentire a casa i seguaci di Cristo nati, cresciuti ed educati nella cultura cinese.
L’ABBAZIA DI NOSTRA SIGNORA DI REDWOODS* Christina Lean~o
Nei tardi anni ’50 un dotato artista nonché scenografo di Hollywood, Bob Usher, viveva in una remota valle di un’area disabitata della California settentrionale nota come Lost Coast. Dopo essersi convertito al cattolicesimo, un giorno che si trovava in una foresta di sequoie sentì una voce che gli diceva: «Dai questa terra a Dio». Nel 1960 l’Abate Generale dell’Ordine cisterciense della Stretta Osservanza, a Roma, ricevette una lettera dall’abate del monastero di New Clairvaux di Vina, in California, riguardante una donazione di terreno da parte di Usher. Contemporaneamente giunse all’Abate Generale un’altra lettera da una comunità femminile cisterciense di Brecht in Belgio, Nostra Signora di Nazareth. A causa delle agitazioni politiche in Congo Belga, le monache stavano rinunciando al loro progetto originale di fondare un monastero in quel paese. L’Abate Generale contattò le monache e suggerì loro di accettare l’offerta di Bob Usher, quindi di procedere alla nuova fondazione non nel Congo Belga ma in California. Questo segnò l’inizio della storia dell’abbazia di Nostra Signora di Redwoods ossia delle Sequoie. Nell’autunno del 1962 il primo gruppo di quattro suore, guidato dalla badessa fondatrice, madre Myriam Dardenne, salpò dal Belgio verso gli Stati Uniti. Dopo aver percorso verso nord le duecento miglia che separano San Francisco dal piccolo villaggio chiamato Whitethorn, raggiunsero una valle dove la strada asfaltata diveniva una pista in terra battuta. Era Halloween e l’inizio del nuovo monastero fu celebrato il giorno seguente, primo novembre, festa di Ognissanti. Come molte abbazie cisterciensi medievali, la nuova fondazione si trovava in una zona disabitata, in una valle accanto a un fiume. Abituate ai vasti orizzonti e alle piccole foreste del loro paese natio, per lo più pianeggiante, le
nuove arrivate vennero accolte dalle maestose e mosse foreste di antiche sequoie e abeti, alcuni vecchi di quasi duemila anni. A tratti la foresta si apriva in grandi radure dove animali selvatici, come cervi, puma e volpi, pascolavano e cacciavano; i salmoni nuotavano nelle acque chiare dei fiumi che attraversavano la proprietà. Fin dall’inizio questo paesaggio naturale avrebbe svolto un ruolo importante nella vita della comunità. Fr. Roger de Ganck, uno studioso dell’abbazia di Westmalle in Belgio, ebbe l’incarico di cappellano e precedette il gruppo iniziale di monache dando loro il benvenuto insieme a parecchi monaci di New Clairvaux, che costruirono un monastero provvisorio. Altri edifici “indigeni”, disegnati e costruiti da Bob Usher e Bruno Groth – un altro artista che viveva in quella regione – vennero utilizzati per le necessità monastiche. La prima cappella fu approntata in una piccola capanna di legno di sequoia che era stata la biblioteca di Usher. L’ufficio divino veniva celebrato con le suore sedute le une di fronte alle altre su semplici panche di legno. Nel 1963 giunsero otto nuove monache da Nazareth e la comunità festeggiò la sua fondazione ufficiale il 15 agosto 1963, nella festa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria. Nel 1964 le prime americane bussarono alla porta chiedendo di entrare. Presto diversi ospiti trovarono la strada per il monastero e – nello spirito della Regola di san Benedetto – vennero accolti calorosamente. Nel 1964 le prime strutture permanenti furono due case per gli ospiti, costruite in legno e blocchi di cemento e disposte nella prima radura all’ingresso del fondo. La comunità iniziò a programmare la costruzione del monastero principale nel 1966, quando la Chiesa cattolica stava vivendo profondi mutamenti con il Concilio Vati-
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Nelle due pagine precedenti: 1. Abbazia di Redwoods, Whitethorn, California, veduta del complesso monastico (1967 e 1975) 2. Un lato del chiostro con l’ala delle anziane sulla destra (2008). 3. L’interno della chiesa, verso oriente. 4. Cristo, opera di Jamini Roy, dono di Thomas Merton.
cano II, che apriva possibilità di rinnovamento della vita religiosa e proponeva una maggiore apertura verso le altre tradizioni religiose, in una maggior consapevolezza dei “segni dei tempi”. Queste tendenze emergenti, accanto agli elementi cisterciensi di semplicità e bellezza, e unite all’ambiente naturale circostante, influenzarono il progetto architettonico del monastero. Lo studio di architettura Trump & Sable di Eureka, California, elaborò il progetto per il monastero e la chiesa che vennero completati nel 1967-68. A differenza della maggior parte dei monasteri cisterciensi, Redwoods non seguiva la pianta monastica tradizionale. Tale scelta era per lo più dettata dalle costrizioni finanziarie, ma i fondatori ritenevano anche che la posizione isolata – così come la naturale clausura rappresentata dalla valle e dalla foresta – garantissero l’isolamento normalmente offerto dal monastero tradizionale. Gli edifici sono aperti e permettono fluidità di spazi e funzioni. La chiesa ha il tetto piatto ed è costruita con blocchi di cemento rinforzati da travi di ferro e include la foresta circostante mediante la parete di vetro dietro all’altare. Entrando nella chiesa si è avvolti da un vasto spazio creato dall’alto soffitto e dalle grandi finestre. Queste sono state suggerite da Bob Usher, consapevole che le piogge invernali e la foresta circostante avrebbero prodotto un senso di grigiore e di isolamento. Una fila di finestre è stata creata fra le pareti e il soffitto e il loro supplemento di luce permette di creare delicati toni cangianti di ombra e luminosità lungo le pareti secondo l’ora del giorno e la stagione. Con il suo spazio semplice e disadorno, aperto sul magnifico paesaggio della foresta, la chiesa conserva lo spirito cisterciense assorbendo contemporaneamente una sensibilità orientale. L’altare e il tabernacolo sono gli unici arredi fissi. Le sem-
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plici panche di legno sono mobili e permettono diverse sistemazioni secondo le necessità e le funzioni. La decorazione è volutamente limitata. Una statua in ceramica di Nostra Signora delle Sequoie è stata portata dal Belgio da Padre Roger. Un dipinto intitolato Cristo della famosa artista indiana Jamini Roy era stato acquistato da Thomas Merton durante i suoi viaggi in India per farne un dono a sorpresa all’abbazia dei Redwoods. Dopo la sua morte improvvisa nel 1968 venne consegnato da uno dei suoi amici – una sorpresa ancora più commovente date le circostanze. Le casette di legno per l’alloggio delle monache sono state costruite nel 1976 con materiale riciclato. Progettate anch’esse da Usher, continuano la sua tradizione di piccoli e intimi edifici di carattere indigeno e sono state sistemate lungo un arco a sudovest degli edifici comuni, poche altre nella foresta retrostante. Il convento venne ampliato nel 1983 per creare un vestibolo dove depositare stivali e ombrelli, un’utile aggiunta in una zona dove possono cadere fino a oltre 250 cm di pioggia all’anno. Nel 2008 è stata aggiunta un’ala delle anziane, per creare camere destinate alle monache più avanti negli anni. I primi Cisterciensi che fondarono i loro monasteri in luoghi isolati sono stati chiamati “lovers of the place”, innamorati del luogo, secondo il titolo del libro dell’abate Francis Kline. Vivere in questa regione isolata di antiche foreste di sequoie (il monastero possiede circa 300 acri) contribuisce profondamente allo spirito della comunità e le monache hanno grandemente sostenuto gli sforzi locali per proteggere la foresta e reintrodurre il salmone autoctono. Il loro impegno ecologico è stato inserito nel piano generale di attività, istituito per celebrare il loro 50° anniversario e per garantire che la loro vita monastica contemplativa continuerà a manifestarsi e fiorire.
IL MARIAKLOSTER DI TAUTRA: L’ARTE DEL RITORNO Sheryl Frances Chen
Si racconta che due siano le pecularità di Tautra, un’isola del fiordo di Trondheim, nella Norvegia centrale: le anatre marine e i Cisterciensi. Come gli uccelli migratori bianchi e neri che ritornano nella loro riserva di Tautra per la stagione della nidificazione, anche i Cisterciensi, dopo un’assenza di 462 anni, sono tornati nella stessa isola dove fondarono un monastero – chiamato anche Sancta Maria in tuta insula – nel 12071. Nel febbraio 1999 i quaranta residenti stabili dell’isola hanno dato il benvenuto a sette monache inviate dall’abbazia di Our Lady of the Mississippi di Dubuque, Iowa (USA) con la stessa naturalezza con cui aspettano ogni anno il ritorno delle anatre marine. Un abate del nostro tempo ha detto che il ritorno alla Regola di san Benedetto, al paradiso, all’immagine perduta, al Vangelo caratterizza il particolare processo di rinnovamento dell’ordine dei Cisterciensi. Ritornare fisicamente in un luogo segnato da 330 anni di vita monastica è sentito come particolarmente attinente allo spirito cisterciense. Il motivo principale per cui l’abbazia del Mississippi si sentì chiamata da Dio a riportare la vita cisterciense in questo avamposto nordico (65° 35’), meraviglioso dal punto di vista naturalistico tanto da sembrare un ritorno all’Eden idillico, è che in precedenza vi avevano abitato dei monaci. Prima dell’inizio del nuovo millennio, quando la comunità dell’abbazia del Mississippi si rese conto di aver monache in numero sufficiente per dare vita a un nuovo monastero, esse vennero invitate da diocesi dell’Australia, della Tunisia e della Norvegia. Solo quest’ultimo Paese aveva un nesso storico con l’Ordine. Sebbene il comune di Frosta offrisse il migliore terreno e la comunità fosse in procinto di acquistare una proprietà sulla terraferma, sembrò requisito essenziale che il nuovo monastero sorgesse in prossimità dell’antico e l’accordo non si poté concludere fino a
quando non si resero disponibili su Tautra stessa tre piccole fattorie dove le monache avrebbero potuto vivere durante i primi anni. Grazie a un agricoltore vicino disposto a vendere un campo adiacente di 8 dekar (8.000 metri quadrati), adatto per la costruzione del monastero permanente, il luogo venne acquistato e il secondo Mariakloster di Tautra fu fondato da cinque monache americane e due norvegesi. La tradizionale pianta medievale cisterciense dispone la chiesa, la sala capitolare e il refettorio come lati di un quadrato che fiancheggiano il chiostro attorno a un grande prato; Tautra ha conservato questa disposizione tradizionale con il roseto all’entrata principale e il chiostro che porta dalla chiesa alla sala capitolare e al refettorio. Sono invece atipici nel nuovo monastero altri sei giardini interni che hanno la funzione pratica di interrompere la grande costruzione rettangolare – imposta dalla forma allungata del piccolo appezzamento – e di fungere da finestre per far entrare la luce del sole e della luna e per illuminare l’edificio. Quando qui vivevano solo in sette, le monache temevano di sentirsi perse e isolate in un edificio così grande, ma scoprirono che avere così tante aperture interne permetteva loro di vedersi vicendevolmente anche se si trovavano alle opposte estremità dell’edificio, e di sentirsi in contatto e godere della lieta visione dei fiori e del tempo sempre mutevole, pur restando al suo interno. La proprietà confina con altre case vicine su ambedue i lati ed è delimitata sul davanti dalla sola strada di Tautra e da una fila di alberi, dal fiordo sul lato posteriore. Il grande giardino anteriore protegge il monastero dal traffico. Tautra è visitato da migliaia di turisti ogni anno e i giardini interni offrono alle monache uno spazio privato all’aperto, dove possono leggere e meditare indisturbate dai curiosi. La Chiesa di
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1. Veduta aerea del nuovo monastero di Tautra. 2. Il tradizionale roseto; le monache provenienti dalla chiesa si avviano al pasto di mezzogiorno passando attraverso questo giardino. 3. Interno della chiesa.
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stato in Norvegia è quella luterana e la maggior parte dei norvegesi non sono consapevoli che la vita cisterciense rappresentata dalle rovine di Tautra continua ancora oggi. Nessuna delle monache aveva mai vissuto prima così vicino all’acqua. Esse non sono mai stanche del mare sempre mutevole come della sua voce e amano anche la vista delle montagne sull’altro lato del fiordo. Per questa ragione hanno disposto la chiesa in modo da avere questa visuale direttamente dietro all’altare anche se questa scelta ha imposto di orientarla verso nord-ovest invece che verso est. Analogamente hanno deciso di cambiare la tradizione cisterciense di sedere in due file nel refettorio (come nel coro), approntando nel refettorio un’unica lunga tavola in modo che tutte le monache possano godere della vista. Le finestre con grandi vetrate offrono il film di ventiquattro ore di vita nel fiordo mentre prendono la prima colazione e la cena da sole e in silenzio o quando condividono il pasto di mezzogiorno mentre una monaca legge un libro di spiritualità. Per affermare il legame con la terra e rispettare l’ambiente le monache hanno scelto di riscaldare il monastero con l’energia geotermica. Il calore viene raccolto in sette pozzi, scavati nel terreno a 250 metri di profondità ed è utilizzato, attraverso uno scambiatore, per riscaldare l’acqua dome-
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stica. Una rete di tubi nel pavimento di cemento distribuisce l’acqua calda in tutto l’edificio. La chiesa è la costruzione più importante in un monastero, dove le monache passano circa tre ore al giorno cantando la liturgia delle Ore in norvegese e celebrando l’Eucarestia quotidiana mentre altre due ore sono dedicate alla preghiera silenziosa. Secondo la tradizione cisterciense della semplicità, nell’architettura il continuo avvicendarsi di luce e ombra che filtra attraverso le grate di legno è l’unica “decorazione” della chiesa, simile al continuo gioco di luce sulle colonne di pietra della chiesa monastica di Pontigny. L’architetto Jan Olav Jensen (Jensen & Skodvin Arkitektkontor, Oslo) ha fatto proprio il legame che i Cisterciensi – e i Norvegesi – sentono fra la creazione e l’adorazione del Creatore rendendo il tetto e la parete dietro all’altare trasparenti alla natura. Pregare nella chiesa è come stare su una nave o addirittura sott’acqua, con la superficie che scintilla al di sopra. Il tempo atmosferico diventa parte della preghiera: la pioggia che batte sul tetto di vetro, il vento che fa vibrare le pareti di ardesia, la neve che avvolge il giardino sempreverde. Gli equinozi di primavera e d’autunno rappresentano un guadagno/perdita di sei minuti e mezzo di luce solare al giorno.
L’oscurità favorisce la riflessione interiore e alimenta il pensiero contemplativo, colui che prega sente il tempo rallentare e ha l’impressione di venire sommerso dal profondo silenzio di questi climi nordici. A questa latitudine il ritorno alla Regola implica necessariamente alcuni mutamenti negli orari. Il disegno degli stalli del coro ricorda la curva della prua della nave vichinga di Oseberg, ben nota ai Norvegesi. Le venti panche per gli ospiti offrono posto per 80 visitatori o per i viaggiatori di due pullman e l’affluenza è spesso questa alla preghiera dell’ora media durante la stagione estiva. Dopo il trasferimento nel nuovo monastero nell’estate 2006, la comunità ha aperto le porte con gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile il ritorno dei Cisterciensi. In dieci giorni più di 7.000 persone hanno preso parte alla visita guidata dell’edificio appena terminato; molti di loro sono stati invasi da timore reverenziale entrando nella chiesa e sono rimasti seduti silenziosi per qualche tempo nel clima mistico creato dall’interazione fra gli elementi naturali e quelli creati dalla mano dell’uomo. I Cisterciensi hanno tradizionalmente tratto la loro sussistenza dall’agricoltura. Il nostro Ordine, tuttavia, come del resto tutti nel mondo, ha incontrato difficoltà a soprav-
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vivere basandosi sulla coltivazione agricola e per molti monasteri è risultato necessario ricorrere ad attività artigianali e aggiornarsi sul rapido sviluppo tecnologico. Oltre a ciò, dopo il picco di vocazioni successivo alla Seconda Guerra mondiale, il nostro Ordine, come il resto della Chiesa, ha dovuto lottare contro il loro declino e l’aumento dell’età media: le comunità più piccole si sono ritrovate con meno forze per i lavori pesanti. Quando Tautra venne rifondata, l’età media delle fondatrici era di 55 anni, mentre quando venne fondata l’abbazia di Mississippi, nel 1964, l’età media era di 28. Mentre l’abbazia di Mississippi continua a gestire una piccola fattoria in aggiunta alla sua principale fonte di guadagno, la preparazione di dolci, le fondatrici di Tautra erano ben consapevoli che un’economia basata sull’agricoltura era fuori questione. Una delle monache aveva sperimentato, come hobby, la preparazione di saponi vegetali e ben presto fu chiaro che questa attività aveva le maggiori possibilità di diventare fonte di sussistenza per la comunità. È stata un’enorme sfida trovare i fornitori di oli essenziali e di base2, acquistare l’attrezzatura, disegnare le confezioni e stamparle, iniziare a fare le spedizioni e a fatturare ai clienti – tutto questo in una lingua nuova. I saponi e le creme vegetali di Tautra si sono
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4. Le monache non si stancano mai di godere della vista del fiordo e hanno cambiato la tradizionale posizione dei posti nel refettorio in modo che tutte possano godere del nutrimento della bellezza oltre che di quello fisico.
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creati una buona reputazione per la loro alta qualità e in cinque anni le monache sono state in grado di coprire le loro spese di mantenimento3. La struttura portante dell’edificio è costituita da travi di abete laminato. Per alcuni spazi particolari le monache hanno scelto legno proveniente da Tautra: betulla nella chiesa e nel chiostro, ciliegio nella sala capitolare, acero nello scriptorium. Avrebbero voluto usare pietra norvegese per la costruzione, ma il costo era proibitivo. Sarebbe stato meno dispendioso far arrivare la pietra dalla Cina o dall’India che acquistarla dalla cava di Leksvik dall’altra parte del fiordo. Per fortuna l’architetto riuscì a ottenere un’offerta tale che rese possibile coprire l’esterno del monastero con sottili lamine di ardesia (Ottaskifer). Venne chiesto alla cava di aggiungere una piccola percentuale di pietra con un’alta concentrazione di ossido di ferro e queste lamine color arancio conferiscono al monastero il suo aspetto inusuale e singolare. Le monache furono in un primo momento sorprese dalle tonalità discordanti della pietra ma sono arrivate ad amarle e addirittura a considerarle un’allegoria della comunità: personalità diverse e forti che vivono una accanto all’altra, realizzando in qualche modo un insieme armonico.
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Il fatto che il Mariakloster di Tautra sia divenuto la maggiore attrazione turistica del Nord Trøndelag fornisce ad un tempo l’opportunità di testimoniare il valore della vita monastica in un paese post-cristiano e assume un ruolo importante in un quadro ecumenico. Costituisce inoltre una sfida a preservare il ritmo e l’equilibrio essenziali della vita monastica di fronte alle continue pressioni ad uscire dal monastero, a parlare della vita cisterciense, accedere ai mezzi di comunicazione e impegnarsi sempre di più nel dialogo con la cultura che lo circonda. Le monache di Tautra non sono le sole Cisterciensi a praticare l’arte del ritorno. I legami fisici, spirituali, emotivi, psicologici e teologici con i monaci medievali sono così forti che per la seconda volta in una decina di anni i Cisterciensi sono tornati in un luogo della Norvegia centrale – nel 2009 alcuni monaci sono tornati a Munkeby, un’ora d’auto a nord di Tautra. L’opportunità di riprendere l’eredità cisterciense nella moderna società norvegese fa nascere nuova vita non solo nel Nord Trøndelag ma anche nelle case-madri. In Norvegia, nella prima decade del XXI secolo, l’arte del ritorno è quindi anche arte della rigenerazione, della costruzione sul passato, vivendo con una speranza carica di attesa e con una fiducia nel futuro piena d’amore.
NOTE E BIBLIOGRAFIE LE ORIGINI CISTERCIENSI 1
A proposito del numero dei monaci che composero quel gruppo, le fonti antiche forniscono indicazioni diverse: secondo l’Exordium Cistercii I, 7 sarebbero stati ventuno più Roberto; secondo Guglielmo di Malmesbury diciotto più Roberto (cfr. Gesta Regum Anglorum, l. IV, § 335,2, in W. of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum. The History of the English Kings, ed. R.A.B. Mynors, R.M. Thomson, M. Winterbottom, vol. I, Oxford Medieval Texts, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 580-581); secondo Orderico Vitale dodici più Roberto (cfr. O. Vitale, Historia ecclesiastica, l. VIII, c. 26, in The Ecclesiastical History of Orderic Vitalis, ed. M. Chibnall, vol. IV, Oxford Medieval Texts, Clarendon Press, Oxford 1973, pp. 322-323); secondo la Vita beati Roberti primi abbatis Molismensis et Cisterciensis, cc. 10-12, ventidue più Roberto, oltre a quattro monaci provenienti da Molesmes che avrebbero iniziato prima l’esperienza monastica a Cîteaux (cfr. K. Spahr, Das Leben des hl. Robert von Molesme. Eine Quelle zur Vorgeschichte von Cîteaux, Paulusdrukkerei, Freiburg i. d. Schweiz 1944, pp. 15-16). 2 Cfr. E. Mikkers, Robert de Molesmes, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XIII, Beauchesne, Paris 1988, coll. 736-737. 3 Cfr. J. Marilier, Le vocable «Novum Monasterium» dans les premiers documents cisterciens, «Cistercienser Chronik» 57 (1950), pp. 81-84; J. Marilier, Chartes et documents concernant l’abbaye de Cîteaux (1098-1182), Bibliotheca Cisterciensis 1, Editiones cistercienses, Roma 1961, pp. 23-26. 4 William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum. The History of the English Kings, ed. R.A.B. Mynors, R.M. Thomson, M. Winterbottom, voll. I-II, Oxford Medieval Texts, Clarendon Press, Oxford 1998. 5 Il consenso fu concesso nell’aprile 1119, cfr.: Exordium parvum VI; P. Jaffé, Regesta Pontificum Romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, vol. I, Veit et Comp., Lipsiae 18852, pp. 700-701; n. 5793 (4336); e anche Exordium parvum V, VII-VIII; Exordium Cistercii II, 3. 6 Cfr. C. Stercal, Stefano Harding. Elementi biografici e testi, Fonti cisterciensi 1, Jaca Book, Milano 2001 (tr. americana: Id., Stephen Harding. A Biographical Sketch and Texts, tr. di M.F. Krieg, «Cistercian Studies» 226, Cistercian Publications, Liturgical Press, Kalamazoo-Collegeville 2008). 7 Cfr. L. Veyssière, Les relations entre Étienne Harding, Bernard de Clairvaux et l’abbaye de Molesmes, «Analecta Cisterciensia» 53 (1997), p. 56; G.M. Colombás, Guillermo de Malmesbury y los orígenes cistercienses, «Cistercium» 44 (1992), p. 492. 8 GRA, l. IV, § 334,3, vol. II, p. 578. 9 GRA, l. IV, § 334,3-5, vol. II, pp. 578-580. 10 Dialogorum Gregorii Papae libri quatuor de miraculis patrum italicorum, l. II, 8,8, in G. le Grand, Dialogues, vol. II, ed. A. de Vogüé, P. Antin, Sources Chrétiennes 260, Du Cerf, Paris 1979, p. 166. 11 Cfr. Le origini cisterciensi. Documenti, ed. C. Stercal, M. Fioroni, Fonti cisterciensi 2, Jaca Book, Milano 2004, pp. 62-66. 12 Exordium parvum II, 3, in ibi., pp. 72-75. 13 Cfr. anche Exordium parvum XII, 5; XIII, 4. 14 Secondo Orderico Vitale rimasero a Cîteaux venticinque monaci (cfr. O. Vitale, Historia ecclesiastica, l. VIII, c. 26, in The Ecclesiastical History of Orderic Vitalis, ed. M. Chibnall, vol. IV, Oxford Medieval Texts, Clarendon Press, Oxford 1973, pp. 324-325); secondo Guglielmo di Malmesbury ne rimasero solo otto (cfr. GRA, l. IV, § 337,1, in William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum. The History of the English Kings, ed. R.A.B. Mynors, R.M. Thomson, M. Winterbottom, vol. I, Oxford Medieval Texts, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 582-583); secondo l’autore della Vita Roberti primi abbatis Molismensis et Cisterciensis, 13 rimasero tutti, ad eccezione di Roberto e altri due (cfr. K. Spahr, Das Leben des hl. Robert von Molesme. Eine Quelle zur Vorgeschichte von Cîteaux, Paulusdruckerei, Freiburg i. d. Schweiz 1944, p. 17). 15 Cfr. Exordium Cistercii II, 8; Exordium parvum XVI, 4; XVII, 10. 16 Cfr. il monitum della “Bibbia di Santo Stefano”, in C. Stercal, Stefano Harding. Elementi biografici e testi, Fonti cisterciensi 1, Jaca Book, Milano 2001, pp. 36-49. 17 Cfr. la Lettera sull’uso degli inni, in ibi., pp. 51-61. 18 Cfr. Bernardo di Clairvaux, Prologus in antiphonarium quod cistercienses canunt ecclesiae, in Id., Tractatus et opuscula, ed. J. Leclercq, H.M. Rochais, S. Bernardi opera III, Editiones cistercienses, Romae 1963, pp. 515-516. 19 Cfr. Instituta VIII; Capitula XX; Exordium parvum XV, 10. Per le notizie fondamentali sui conversi cfr.: O. Ducourneau, De l’institution et des Us des convers dans l’Ordre de Cîteaux (XIIe-XIIIe s.), in Saint Bernard et son temps. Recueil des mémoires et communications présentés au Congrès de Dijon en 1927, vol. II, Au siège de l’Académie, Dijon 1929, pp. 139-201; J.S. Donnelly, The Decline of the Medieval Cistercian Laybrotherhood, Fordham University Studies, History Series 3, Fordham University Press, New York 1949; K. Hallinger, Woher kommen die Laienbrüder?, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 12 (1956), pp. 1-104; E. Mikkers, L’ideal religieux des frères convers dans l’Ordre de Cîteaux aux 12e et 13e siècles, «COCR» 24 (1962), pp. 113-139; J.-B. Auberger, L’unanimité cistercienne primitive: mythe ou réalité?, «Cîteaux:
Studia et Documenta» 3 (1986), Administration de Cîteaux Commentarii Cistercienses, Editions Sine Parvulos VBVB, Achel, pp. 63-65, 148, 442-446. Le consuetudini e le norme che regolavano la vita dei conversi si formarono poco per volta, cosicché la loro codificazione definitiva può essere collocata non molto tempo prima del 1151, cfr. Cistercian Lay Brothers. Twelfth-century Usages with related Texts, ed. C. Waddell, «Studia et Documenta, Cîteaux: Commentarii cistercienses» X (2000) Brecht. 20 Cfr. J.-B. Van Damme, La “Summa Cartae Caritatis”, source de constitutions canoniales, «Cîteaux» 23 (1972), pp. 5-54; P. Zakar, Carta Caritatis, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, ed. G. Pelliccia, G. Rocca, vol. II, Paoline, Roma 1975, coll. 612-613. 21 Cfr. Concilio Lateranense IV, Constitutio XII: De communibus capitulis monachorum, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., ed. G. Alberigo, G.L. Rossetti, P.-P. Joannou, C. Leopardi, P. Prodi, EDB, Bologna 1991, pp. 240-241. 22 Cfr. R.A. Donkin, The growth and distribution of the Cistercian Order in medieval Europe, «Studia Monastica» 9 (1967), p. 277. 23 Cfr. Exordium Cistercii II, 9; Exordium parvum XVII, 11. Sino al 1961 era opinione comune che l’anno dell’ingresso di questo folto gruppo, guidato da Bernardo, fosse il 1112; gli studi di A.H. Bredero hanno dimostrato, però, con evidenza che la data va spostata al 1113 (cfr. A.H. Bredero, Etudes sur la «Vita prima» de Saint Bernard, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 17 (1961), pp. 6162); per una conferma di quest’ultima data cfr. F. Gastaldelli, I primi vent’anni di San Bernardo, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 43 (1987), pp. 116-121. 24 Una prima presentazione della storia dell’Ordine cisterciense e, in particolare, di alcune delle grandi figure della sua storia, si trova in E. Mikkers, Robert de Molesmes, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XIII, Beauchesne, Paris 1988, coll. 736-814. 25 Guglielmo di Malmesbury fu, secondo Richard Southern, «uno degli ammiratori più devoti di Anselmo» (R.W. Southern, Anselmo d’Aosta. Ritratto su sfondo, Jaca Book, Milano 1998, p. 423) e «un entusiasta estimatore» delle sue opere (ibi., p. 495). Negli anni tra il 1120 e il 1123 ebbe occasione di lavorare negli archivi di Canterbury, dove raccolse una grande quantità di corrispondenza anselmiana e dove, tra l’altro, redasse di proprio pugno la maggior parte del codice M delle lettere di Anselmo (cfr. ibi., pp. 495-497). Ebbe, così, occasione di conoscere da vicino e di apprezzare il pensiero dell’arcivescovo di Canterbury. Cfr. C. Stercal, Educare e maturare la fede nell’intelligenza: «intellectum esse medium intelligo», in Anselmo d’Aosta educatore europeo. Convegno di studi, Saint-Vincent 7-8 maggio 2002, a cura di I. Biffi, C. Marabelli, S.M. Malaspina, Biblioteca di Cultura Medievale, Di fronte e attraverso 624, Jaca Book, Milano 2003, pp. 76-78. 26 Cfr. il manoscritto Ljubljana, Narodna in univerzitetna knjižnica, Biblioteca nazionale e universitaria, ms. 31, ff. 8v-12v; e gli studi: J. Turk, Prvotna Charta caritatis, Objavil Josip Turk, Académie des Sciences et Arts de Laybach, Ljubljana 1942; Id., Charta caritatis prior, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 1 (1945), pp. 11-61 (in estratto: Roma 1945); Id., Cistercii statuta antiquissima, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 4 (1948), pp. 1159 (in estratto: Roma 1949); C. Noschitzka, Codex manuscriptus 31 Bibliothecae Universitatis Labacensis, «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 6 (1950), pp. 1-124. 27 Cfr. Le origini cisterciensi. Documenti, ed. C. Stercal, M. Fioroni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 113-116. 28 Carta caritatis prior, prologo, 3, in ibi., p. 119. 29 Cfr. Instituta generalis capituli apud Cistercium, in ibi., pp. 160-251. 30 Carta caritatis prior, I, 2-4, in ibi., pp. 120-123. BERNARDO DI CLAIRVAUX E L’ESPERIENZA DEL MISTERO 1
Exordium Cistercii I, 8; cfr. Le origini cisterciensi. Documenti, a cura di C. Stercal e M. Fioroni, Jaca Book, Milano 2004, p. 25. 2 Cfr. C. Stercal, Stefano Harding. Elementi biografici e testi, Jaca Book, Milano 2001. 3 Ibi., p. 28. 4 J. Leclercq, Bernard de Clairvaux: un saint pour notre temps?, Documents Episcopat, «Bulletin du Secrétariat de la Conférence des évêques de France» 10 (Juin 1990), p. 29. 5 Ibi., p. 33. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibi., p. 36. 9 Ibidem. 10 Id., Introduzione generale a Opere di San Bernardo – I Trattati, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, p. XIII. 11 Ep., 250, 4. 12 J. Leclercq, St Bernard et l’esprit cistercien, Seuil, Paris 1966, p. 43. 13 Ibi., p. 29. 14 Ibi., p. 15. 15 Id., Bernard de Clairvaux…, cit., p. 46. 16 Cfr. ibi., pp. 63-73; e Id., Esperienza spirituale e teologia, Jaca Book, Milano 1990, pp. 139-154.
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Id., Bernard de Clairvaux…, cit., p. 79. Ibi., p. 82. Ibi., p. 83. 20 Ibi., pp. 89-90. 21 Ricordiamo anzitutto i sermoni, a proposito dei quali va detto che non riflettono una predicazione orale: a cominciare da quelli In lode della Vergine madre o sull’annunciazione (Super missus est), vibranti di poesia e di calda pietà mariana, d’altronde fondata rigorosamente sopra il dogma. Per arrivare ai «grandi sermoni liturgici», sui misteri di Cristo, della Vergine e dei santi, ricorrenti nell’anno sacro, che ritma e plasma il corso della vita del monastero: sermoni «di una grande ricchezza dottrinale», «una somma di teologia dogmatica», e particolarmente di cristologia (J. Leclercq, Bernard de Clairvaux, cit., pp. 4647); ai sermoni del capolavoro in assoluto, a Commento al Cantico dei Cantici, che resterà interrotto, e dov’è la sintesi o la “somma” della sua «teologia mistica», che scaturisce e si forma dal mistero sponsale che congiunge Cristo con la sua Chiesa e diviene esperienza di ogni anima; e ai Sermoni vari, o alle Sentenze e Parabole. E, ancora, nascono i trattati: I gradi dell’umiltà e della superbia: «il suo primo capolavoro» (J. Leclercq, Introduzione generale…, cit., p. XIII); La grazia e il libero arbitrio; Il dovere di amare Dio; Per i cavalieri del Tempio. Elogio della nuova cavalleria; Il precetto e la dispensa; e, ultimo, il De consideratione. E accanto a questi: l’Apologia, un dibattito in riferimento a Cluny e agli stessi Cisterciensi, come abbiamo visto; e alcune lettere che sono, a loro volta, dei trattati, come quella Sulla condotta e sui doveri dei vescovi (Ep., 42), o quella Contro gli errori di Abelardo (Ep., 190); o sermoni che, a loro volta, equivalgono a trattati, come quello Sulla conversione. 22 Sulla teologia monastica vedi: I. Biffi, Cristo desiderio del monaco, Jaca Book, Milano 1998, pp. 15-23 e un po’ tutto il volume. 23 J. Leclercq, Introduzione generale, cit., p. XXXVII. 24 Id., Bernard de Clairvaux…, cit., p. 64. 25 I. Biffi, La più sublime ed interiore filosofia di san Bernardo: “Sapere Gesù”, in I. Biffi, L. Dal Prà, C. Marabelli, C. Stercal, H.-M. Uhl, Bernardo di Clairvaux. Epifania di Dio e parabola dell’uomo, Atti del convegno “San Bernardo di Clairvaux”, promosso dall’Abbazia di Santa Croce in Gerusalemme, Roma, ottobre 2006, Jaca Book, Milano 2007. 26 Quid hac conformitate iucundius? (Super Cantica, 83,3). 27 Quaerit anima Verbum […], quo reformetur ad sapientiam, cui conformetur ad decorem (Super Cantica, 85,1). 28 Appareat, Domine, bonitas, cui possit homo, qui ad imaginem tuam creatus est, conformari (In Nat., 1,2). 29 In nativitate Beatae Mariae, 11. 30 Haec mea sublimior, interior philosophia, scire Iesum (Super Cantica, 43,4). 31 J. Leclercq, Bernard de Clairvaux, cit., p. 111. 32 Christus […] amor noster est (De sacramento altaris, I). 33 Sapidus nobis debet esse amor Christi (In ascensione Domini de raptu Helye), Sermones inediti B. Aelredi Abbatis Rievallensis, ed. C.H. Talbot, Apud Curiam Generalem Sacri Ordinis Cisterciensis, Romae 1952, p. 102). 34 In Christo […] est […] plenitudo (In annuntiatione dominica de septem donis et septem virtutibus, ibi., p. 79). 35 Tota dulcedo terrae humanitas Christi (De septemplici voce Spiritus Sancti in Pentecosten, ibi., p. 113). 36 «In principio, inquit, erat Verbum. Iam scatet fons, sed interim tantum in semetipso. Denique et Verbum erat apud Deum, lucem profecto habitans inaccessibilem, et dicebat Dominus ab initio: Ego cogito cogitationes pacis et non afflictionis […]. Incomprehensibilis erat et inaccessibilis, invisibilis et inexcogitabilis omnino. Nunc vero comprehendi voluit, videri voluit, voluit cogitari, […] iacens in praesepio, in virginali gremio cubans, in monte praedicans, in oratione pernoctans, aut in cruce pendens, in morte pallens, liber inter mortuos et in inferno imperans, seu etiam tertia die resurgens et Apostolis loca clavorum victoriae signa demonstrans, novissime coram eis caeli secreta conscendens. Quid horum non vere, non pie, non sancte cogitatur? Quidquid horum cogito, Deum cogito, et per omnia ipse est Deus meus. Haec ergo meditari dixi sapientiam, et prudentiam iudicavi eructare memoriam suavitatis» (In nativitate Beatae Mariae, 10-11). 37 Super Cantica, 43,4. 18 19
UNA SUBLIME ALLEANZA SIGILLATA DALLA MANO DI DIO. TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA ESTETICA 1
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Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, Commento al Cantico dei Cantici 91. Ibi., 95. Ibi., 14. Cfr. J. Leclercq, Le cloître est-il un paradis?, in Message des moines à notre temps, Paris 1958, pp. 141-150; Id., La vita perfetta, Milano 1961, pp. 161-170. Bernardo di Clairvaux, Sulla conversione 12,24. Ibi., 13,25. Id., Serm. de aquaeductu, per la Natività di Maria 3. Id., Apologia 12, 29. Id., Serm. per la Vigilia di Natale 4, 1. Cfr. Statuta del 1134, 27. Cfr. Exordium Parvum 17.
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Bernardo di Clairvaux, Apologia 12. Sugero di Saint-Denis, De consecratione ecclesiae sancti Dionysii. 14 Exordium Parvum 17. 15 Cfr. G. Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, Torino 1982, p. 91. 16 Cfr. Ecclesiastica Officia 15,54 e Capitula 26. 17 Bernardo di Clairvaux, Serm. sul Cantico 49,3. 18 Cfr. A. Louf, Fue san Bernardo un iconoclasta?, in Actas. Congreso Internacional sobre San Bernardo e o Cister en Galicia e Portugal, 17-20 outobro 1991, Ourense 1992, vol. 2, soprattutto le pp. 1011-1014; A. Montanari, “Sabbatum delicatum”. La recherche de Dieu dans le “désert” cistercien, «Collectanea Cisterciensia» 69 (2007), pp. 67-81. 19 Bernardo di Clairvaux, Serm. sul Cantico 20,6. 20 Guglielmo di Saint-Thierry, Preghiere meditative 10,7. 21 Ibi., 10,9. 22 Ibidem. 23 Exordium Parvum 15; cfr. Col 3,9-10; Ef 4,22-24. 24 É. Gilson, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 1932; Id., La Théologie mystique de saint Bernard, Paris 1934. 25 Cfr. Bernardo di Clahrvaux, Serm. per il Natale del Signore 2,1. 26 Ibi., 2,3. 27 Id., Serm. per la Vigilia di Natale 2,3. 28 Id., La grazia e il libero arbitrio 10,32. 29 Id., Serm. per la Dedicazione 1; Cfr. Sulla conversione 14,27-28, dove Bernardo traccia la parabola di questo allontanamento; in essa si può leggere, come in filigrana, la parabola del figlio prodigo. 30 Id., Serm. sul Cantico 83,1. 31 Cfr. J. Leclercq, I monaci e l’amore nella Francia del XII sdcolo, Roma 1984, p. 27. 32 Bernardo di Clairvaux, Serm. Diversi 29,2-3. 33 Id., Serm. per l’Ascensione 6,12. 34 Id., Serm. sul Cantico 20,8. 35 Cfr. J. Leclercq, I monaci e l’amore…, cit., 90; C.A. Montanari, “Per figuras amatorias”. L’Expositio super Cantica canticorum di Guglielmo di Saint-Thierry: esegesi e teologia, Roma 2006, pp. 85-186. 36 Bernardo di Clairvaux, Serm. sul Cantico 84,5. 37 Ibidem. 13
«FORMOSITÀ DEFORME» O «DEFORMITÀ FORMOSA». L’ESTETICA DELLA CROCE COME ETICA MISTICA DELLA BELLEZZA IN BERNARDO DI CLAIRVAUX 1
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Per visioni d’insieme e bibliografie recenti sull’arte e architettura medievali cisterciensi nelle diverse regioni della penisola iberica: Bango Torviso 1998a; Martínez Buenaga 1998; Rodrigues e Valle Pérez 1998; D’Emilio 2007a; Martínez Álava 2007, pp. 65-177; Cavero Domínguez 2007; Valle Pérez 2008; Oliver 2008; García Flores 2010. 2 Per una visione d’insieme: Rucquoi 2000. Fra gli studi storici importanti: Álvarez Palenzuela 1978; Portela Silva 1981; Pérez-Embid Wamba 1986a; Fuguet Sans, Plaza Arqué 1998; Marques 1998. 3 Manrique 1642-1659. 4 Cocheril 1964; Valle Pérez 1991b. Per Oseira: Portela Silva 1981, pp. 49-52; Valle Pérez 1982, 1: pp. 95-97; Romaní 1989, pp. 11-20; e che difendono le posizioni tradizionali: Yáñez Neira 1983. Per Moreruela: Cocheril 1966; Alfonso Antón 1986, pp. 65-73; Bango Torviso 1988, pp. 62-66; Larrer Izquierdo 2008; e che difendono le posizioni tradizionali: Granja Alonso 1998. 5 Tumbos de Sobrado, 2: pp. 27-28, 30-32, docc. 11, 13; Valle Pérez 1991b; Pallares Méndez e Portela Silva 1992, pp. 56-68. 6 Per Fitero: Melero 2004, contra Valle Pérez 2006; case portoghesi: Marques 1998. 7 B. Claraevallenis, Epistola LXXV, Patrologia Latina, vol. 182, col. 189A-C; Letters of St. Bernard, pp. 108-109, lettera 78. 8 Cfr. gli studi generali citati sopra: note 1, 2, 4 e Álvarez Palenzuela, Recuero Astray 1984. 9 Cocheril 1964, pp. 282-87; Rucquoi 2000, pp. 489-94. 10 Valle Pérez 1998a, p. 36. 11 Portela Silva 1981; Marques 1998; Rodrigues, Valle Pérez 1998; Yáñez Neira 2000; Coelho Dias et al. 1999; Pérez Rodríguez 2006. 12 D’Emilio 2005, p. 204. 13 Ibi., pp. 199-200. 14 Per Tulebras: García Colombas 1987. 15 Sui monasteri femminili in Castiglia-León: Pérez-Embid Wamba 1986b; Id. 1989; Cavero Domínguez 1999; Coelho 2006; Baury 2012. 16 Sul mecenatismo della nobiltà: Martínez Sopena 2003; Alonso Álvarez 2007b; Torres Sevilla-Quiñones de León 2005 2008. 17 D’Emilio 2004, pp. 314-15. 18 Per la documentazione su Carrizo: Casado Lobato 1983. 19 Gli ordini militari della penisola iberica e i Cisterciensi: O’Callaghan 1959, 1960; Villegas Díaz 2005; Rodrigo Álvarez e l’Ordine di Montjoy: Forey 1971; Canal Sánchez-Pagín 1983. 20 La contessa Aldonza e le sue figlie: Canal Sánchez-Pagín 1989; Id. 1995, pp. 11-16, 19-25; Baury 2012, pp. 53-56, 290. 21 Documento di fondazione di Carrizo: Colección diplomática... de Carrizo, 1: 42-44, doc. 38 (Casado Lobato
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1983); fotografato in Cavero Domínguez 2007, pp. 9495. San Clemente di Toledo: Vizuete Mendoza 1993; Sánchez Domingo 2006. 23 Per la storia di Las Huelgas: D’Emilio 2005; Walker 2005; Baury 2012, pp. 137-150. 24 D’Emilio 2005, p. 209; Suárez González 2006, pp. 612614; Baury 2012, pp. 161-172. 25 Donne della famiglia reale a Las Huelgas: Gayoso 2000; Infantazgo: Henriet 2000; Walker 2005; Martín 2008. 26 Monasteri femminili portoghesi e donne della famiglia reale: Cocheril 1976; Marques 1999; Teixeira 2000; Marques 2001; Rêpas 2005. 27 Per un’idea contraria sulle tappe di sviluppo: Valle Pérez 1998a. 28 Valle 1982, 1: pp. 151-186, 2: pp. 109-51; D’Emilio 2004, pp. 318-25. 29 Per questa classificazione: Muñoz Parraga 1998. 30 Valle Pérez 1994, 24. 31 Armenteira: Valle 1983; Las Huelgas: Sánchez Ameijeiras 1998a; P. Fernández, Ruiz Souza 2007; Ruiz Souza 2007. 32 Sono stati particolarmente ben studiati in Aragona: Jiménez Zorzo et al. 1986; Martínez Buenaga 1998. 33 D’Emilio 2004. 34 Bango Torviso 1998b. 35 Boto Varela 2000; Patton 2004. 36 Hernando Garrido 2003; D’Emilio 2005, 267; per un’in terpretazione dei rilievi dei pilastri: Walker 2007. 37 Su San Andrés de Arroyo e la scultura dei dintorni: Her nando Garrido 1995, 2002. 38 Il cofanetto di legno di Carrizo: Bango Torviso 1998a, p. 442. Altri lussuosi oggetti d’arte: Martín Ansón 2008. 39 Sánchez Ameijeiras 1998b, pp. 99-104; Moure Pena 2005; D’Emilio 2007b. 40 Muñoz Parraga 1998, pp. 112, 116. 41 Sull’architettura dei monasteri femminili nella penisola iberica: Casas Castells 2006; Carrizo e Gradefes: Fernández González et al. 1988, pp. 61-85; Valle Pérez 1991a; San Andrés de Arroyo: Gutiérrez Pajares 1993; Hernando Garrido 2002. 42 Sul cambiamento di situazione per le monache nell’ordine cisterciense: Berman 1999; Baury 2001; Baury 2012, pp. 115-189. 43 Sulle chiese cisterciensi iberiche con deambulatori: Bango Torviso 1988, pp. 88-97; Valle Pérez 1994, pp. 24-33; Bango Torviso 2000, pp. 85-103. 44 Untermann 2001, pp.427-32. 45 Valle Pérez 1998b, pp. 10-13. 46 D’Emilio 2004. 47 Per esempio, Wilson 1986. 48 Per studi recenti sull’architettura di Las Huelgas: Karge 1999; Sobrino González 2001; D’Emilio 2005; Valle Pérez 2005; Palomo Fernández, Ruiz Souza 2007; Abella Villar 2008; Alonso Álvarez 2009. 49 Villamayor de los Montes: Cardero Losada 1994; Casas Castells 1998; Cañas: Alonso Álvarez 2004. 50 Per una bibliografia recente su Alcobaça: D’Emilio 2007a, pp. 310-13. 51 Real 1998, pp. 93. 52 Maines 2006, p. 11. 53 Moralejo 1991. 54 D’Emilio 2007a, pp. 320-23. 55 Sulle sepolture in generale: Bango Torviso 1992; García Flores 2005; Blattmacher 2005. 56 Per Santes Creus: Rosenman 1984; Serrano Coll 2006; Blattmacher 2008. 57 Sánchez Ameijeiras 2005; per altre opinioni sui cimiteri reali: Gómez Bárcena 2005; Palomo Fernández, Ruiz Souza 2007; Alonso Álvarez 2007a, pp. 31-34. 58 Boto Varela 2003, pp. 135-38. 59 D’Emilio 2004, pp. 313-14. 60 Per gli indumenti: Fernández González 1998; Vestiduras ricas 2005. 61 Ruiz Maldonado 1996; Baury 2011. 62 D’Emilio 2005, pp. 271, 275. 63 Per gli annessi dei monasteri di León e Castiglia: Bango Torviso 1998a, pp. 157-284. 64 Per i monasteri catalani: Martínez de Aguirre 2003. 65 Español Bertrán 2008. 66 Hörsch 2004, pp. 261-68. 67 Carrero Santamaría 2002. 68 Per Oseira: Vila Jato 1998, p. 203. 69 Capilla de los Vega: Ruiz Souza e García Flores 1999. 22
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DAL DEPOSITO ALLO STUDIO: ORIGINI E SVILUPPO DELLE BIBLIOTECHE CISTERCIENSI
L’ARTE MONASTICA DELLA LECTIO DIVINA Regola di San Benedetto, capp. 48, 49, 73. Ecclesiastica Officia 71, Come devono comportarsi i fratelli durante la lettura, in D. Choisselet, P. Vernet ed., Les Ecclesiastica Officia cisterciens du XIIème siècle reiningue, La Documentation Cistercienne, Reiningue 1989, pp. 210213. Guigo II il Certosino, The Ladder of Monks and Twelve Meditations, Cistercian Publications, Kalamazoo 1981. D.N. Bell, What Nuns Read: Books & Libraries in Medieval English Nunneries, Cistercian Publications, Kalamazoo 1995. E. Bianchi, Praying the Word: An Introduction to Lectio Divina, Cistercian Publications, Kalamazoo 1998. M. Casey, Sacred Reading: The Ancient Art of Lectio Divina, Triumph Books, Liguori 1996. M. Casey, The Book of Experience: The Western Monastic Art of Lectio Divina, «Eye of the Spirit» 2 (2008), La Trobe University, pp. 5-32, ried. «Tjurunga» 18 (2011), pp. 3558. G.M. Colombás, La lectura de Dios: Approximación a la lectio divina, Editiones Monte Casino, Zamora 1980. C. Dupont, Praying the Word of God, SLG Press, Fairacres 1999.
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I SIGILLI CISTERCIENSI MEDIEVALI Una versione ampliata di questo capitolo e la descrizione di numerosi sigilli si trovano nell’articolo dell’autore in «Archaeologia Cambrensis» 154 (2005), Cardiff, Wales 2007, pp. 153-178. 1
LE MINIATURE CISTERCIENSI 1
Ch. Oursel, Les manuscrites à miniatures de la Bibliothèque de Dijon, «Bulletin de la Société française de reproductions des manuscrites à peintures» 1923, Paris; Id., La Miniature du XIIe siècle à l’abbaye de Cîteaux, d’après les manuscrites de la bibliothèque de Dijon, Dijon 1926. Bisogna tener presente che la maggior parte dei manoscritti cisterciensi si conserva nella Biblioteca Municipale di Digione. Oursel continuò a pubblicare diversi studi sul periodo, sebbene di altalenante valore, nelle cui pagine riecheggiavano i suoi primi studi; Ch. Oursel, Miniatures cisterciennes 1109-1134, Mâcon 1960. 2 Saint Bernard et l’art des cisterciens, Palais des Etats, Dijon 1953; Les manuscrits à peintures en France du VIIe au e XII siècle, a cura di J. Porcher, Bibliothèque Nationale, Paris 1954. 3 A.M. Romanini, Il “Maestro dei Moralia” e le origini di Cîteaux, «Storia dell’Arte» XXXIV (1978), pp. 221-245; N. Stratford, A romanesque marble altar-frontal in Beaune and some Cîteaux manuscripts, in The Vanishing Past. Studies of medieval art, liturgy and metrology presented to Christopher Hohler, Oxford 1981, pp. 223-239. 4 J.-B. Auberger, L’unanimité cistercienne primitive: mythe ou réalité?, Studia et Documenta, vol. III, Achel 1986. 5 Y. Załuska, L’Enluminure et le Scriptorium de Cîteaux au e XII siècle, Studia et Documenta, vol. IV, Cîteaux 1989. 6 Id., Manuscrits enluminés de Dijon, Paris 1991. 7 Id., L’Enluminure..., cit., p. 79, che cita J. Leclercq, “Joculator et saltator”: saint Bernard et l’image du jongleur dans les manuscrits, in Translatio Studii. Manuscript and library studies honoring Oliver L. Kapsner, a cura di J.G. Plante, Collegeville Minnesota 1973, pp. 124-148. 8 C. Rudolph, Violence and Daily Life. Reading, art, and polemics in the Cîteaux “Moralia in Job”, Princeton 1997. 9 Id., Violence and Daily Life, cit., pp. 65ss. 10 Seguo la trascrizione di J. Williams, The Illustrated Beatus. A Corpus of the illustrations of the Commentary on the Apocalypse, vol. II, London 1994, p. 59. 11 J. Yarza Luaces, Beato de Liébana. Manuscritos ilumina-
Cfr. D.N. Bell, The Libraries of the Cistercians, Gilbertines and Premonstratensians, London 1992, pp. 15-26. Id., The Library of Cîteaux in the Fifteenth Century: Primus inter Pares or Unus inter Multos?, «Cîteaux – Commentarii cistercienses» 50 (1999), pp. 128-131. Id., Reading Revolutionary Catalogues: The Case of Les Écharlis, in Truth as Gift. Studies in Medieval Cistercian History in Honor of John R. Sommerfeldt, a cura di M. Dutton et al., Kalamazoo 2004, pp. 237-263. Id., A Treasure-House for Monks? The Cistercian General Chapter and the Power of the Book from the Twelfth Century to 1787, «Cîteaux, Commentarii cistercienses» 58 (2007), pp. 95-122.
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Deville, Note sur le Sceau de Saint Bernard, «Bulletin de la Soc. Libre d’Emulation de Rouen» I trimestre (1838), illustrazione in fronte a p. 4; W.S. Walford, A. Way, Examples of Medieval Seals, «Archaeological Jnl.» XIV (1857), pp. 48-52. E. Rousseau, Les Sceaux des Cinq Premières Maisons de l’Ordre de Cîteaux, Positions des Thèses, École Nationale des Chartes, Paris 1996, p. 261. Chartes et Documents du Val-Saint-Georges Achel Abbey, ed. É. Brouette, Belgium 1971, pp. 190-91. Littere Wallie, ed. J.G. Edwards, Cardiff 1940, pp. 89, 132-33. Preb. Clark-Maxwell, Some Letters of Confraternity, «Archaeologia» 75, Pl. V, Nos. 3-4. Waddell 2002, p. 217, 1191/10. Diplomatarium Doberanense, Monumenta Inedita, III, ed. E.J. de Westphalen, Leipzig 1743, col. 1505.
BL:
British Library; NLW: National Library of Wales; The National Archives, England.
TNA:
W. de Gray Birch, Catalogue of Seals in the British Museum, I, IV, London 1887-1895. C.T. Clay, Seals of the Religious Houses of Yorkshire, «Archaeologia» 78, 1928. Deville, Note sur le Sceau de Saint Bernard, «Bulletin de la Soc. Libre d’Emulation de Rouen» I trimestre (1838). M. Douët D’Arcq, Collection des Sceaux de l’Empire, III, Paris 1868. R.H. Ellis, Catalogue of Seals in the Public Record Office: Monastic Seals, I, London 1986. W. Ewald, E. Meyer-Wurmbach, Rheinische Siegel, IV, Bonn 1933/41-1972/75; VI, Düsseldorf 1989. M. de Framond, Sceaux rouergats du Moyen Age, Aveyron 1982. S. Hallberg, Rune Norberg och Oloph Odenius Ambetsigill i det Medeltida Sverige, «Kyrkohistorisk årsskrift» 65 (1965). F.L. Hervay, Repertorium Historicum Ordinis Cistercienses in Hungaria, Roma 1965. T.A. Heslop, Cistercian Seals, in C. Norton e D. Park, a cura di, Cistercian Art and Architecture in the British Isles, Cambridge 1986. Les Codifications Cisterciennes de 1237 et de 1257, a cura
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di B. Lucet, Paris 1977. H. Petersen, Danske Gejstlige Sigiller fra, Middelalderen, Copenhagen 1886. L. Reissenberger, Die Kerzer Abtei, Sibiu-Hermannstadt 1894. E. Rousseau, Les Sceaux des cinq premières maisons de l’Ordre de Cîteaux, Positions des Thèses, École Nationale des Chartes, Paris 1996. Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis, a cura di J.M. Canivez, Louvain 1933-1941. C. Waddell, OCSO, Twelfth-Century Statutes from the Cistercian General Chapter, «Studia et Documenta, Cîteaux, commentarii cistercienses» XII (2002), Brecht. LA RIFORMA CISTERCIENSE DEL CANTO LITURGICO 1
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Epistola S. Bernardi, De revisione cantus Cisterciensis et Tractatus scriptus ab autore incerto Cisterciense, Cantum quem Cisterciensis ordinis ecclesiae cantare, ed. F.J. Guentner Corpus Scriptorum de Musica 24, American Institute of Musicology, Rome 1974, p. 25. Questo trattato è conservato oggi in un unico manoscritto, una copia scorretta del XIII secolo, a Parigi nella biblioteca di Sainte-Geneviève, segnatura 2284, fol. 84109v. Regule de arte musica, pubblicato in Cl. Maître, La réforme cistercienne du plain-chant, «Cîteaux: Studia et Documenta» VI (1995), Brecht, p. 213. Instituta generalis capituli apud “Cistercium”, in Le origini cisterciensi. Documenti, a cura di C. Stercal e M. Fioroni, Jaca Book, Milano 2004. Sancti Bernardi Opera, vol. VIII/2, Epistolae, a cura di J. Leclercq e H. Rochais, Roma 1977, lettera 398, p. 378. Cl. Maître, La réforme cistercienne du plain-chant, cit., p. 59. Ibi., p. 60. LE GRANGE CISTERCIENSI
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Misura di peso inglese; 1 quarter = circa 12,7 chilogrammi.
Fonti primarie: Cistercian Lay Brothers, Twelfth-century usages with related texts, a cura di C. Waddell, in «Cîteaux – Commentarii cistercienses», Brecht 2000. Narrative and Legislative Texts from Early Cîteaux, ed. C. Waddell, in «Cîteaux, commentarii cistercienses», Brecht 1999. Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis, a cura di J.-M. Canivez, Lovanio 1933-41. Twelfth-Century Statutes from the Cistercian General Chapter, a cura di C. Waddell, in «Cîteaux, commentarii cistercienses», Brecht 2002. Fonti secondarie: Non sono citate le opere relative a singoli monasteri né gli articoli che fanno parte di un volume qui elencato sull’economia cisterciense e sulla storia del paesaggio. Ulteriori riferimenti possono essere trovati nelle opere di D.H. Williams citate sotto: C.H. Berman, Medieval Agriculture, the Southern French Countryside, and the Early Cistercians, in Transactions of the American Philosophical Society, 76, part 5, Philadelphia1986. K. Charvátová, Manorial Farms of Cistercian Abbeys in Medieval Bohemia, in J. Strzelcyk, a cura di, Historia i Kultura Cystersów w Dawnej Polsce, Poznan 1987. M. David-Roy, Les granges monastiques, in «Archéologia» 58 (1973). A. Dimier, Granges, celliers et bâtiments d’exploitation cisterciens, in «Archéologia» 65 (dicembre 1973). R.A. Donkin, The Cistercians, Pontifical Institute, Toronto 1978. J.S. Donnelly, Changes in Grange Economy, in «Traditio» 10 (1954). L’économie cistercienne, a cura di E. Higounet, Auch 1983. L’espace cistercien, a cura di L. Pressouyre, T.N. Kinder, Paris 1994. L.J. McCrank, The Frontier of the Spanish Reconquest, in «Analecta Cisterciensia» XXIX (1973), 1-part 2. C. Platt, The Monastic Grange in Medieval England, London 1969. M. Toepfer, Die Konversen der Zisterzienser, Berlin 1983. D.H. Williams, Atlas of Cistercian Lands in Wales, Cardiff 1990. Id., The Cistercians in the Middle Ages, Leominster 1998. Id., The Cistercians as Road Makers, in «Tarmac Papers» 2 (1998), Wolverhampton. Id., Cistercian Bridges, in «Tarmac Papers» 3 (1999), Wolverhampton. Id., The Welsh Cistercians, Leominster 2001. Id., Cistercian Grange Chapels, in Perspective for an Architecture of Solitude, a cura di T.N. Kinder, Brepols, Turnhout e Cîteaux, «Commentarii cistercienses» 2004. LA GRANGIA MAGGIORE DI FOSSANOVA 1
Per un’analisi chiara del legame architettonico fra grange e abbazie, vedi M. Righetti Tosti-Croce, Architettura e economia: «strutture di produzione cistercensi», in «Arte Medievale» 1 (1983); Id., Architettura per il lavoro.
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Dal caso cistercense a un caso cistercense: Chiaravalle di Fiastra, Roma 1993; Id., Strumenti di produzione, in Enciclopedia dell’arte medievale. Cistercensi, pp. 852-871. 2 Cfr. P. Toubert, Les Structures du Latium Médiéval, le Latium méridional et la Sabine du IX à la fin du XII siècle, Roma 1973, p. 885. 3 Cfr. D. Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo secc. VIII-XV, Sora 1986. 4 R. Comba, Le scelte economiche dei monaci bianchi nel Regno di Sicilia XII-XIII secolo: un modello cistercense?, in I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale. Atti del Convegno internazionale di studio in occasione del IX centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux Martano-LatianoLecce, 5-27 febbraio 1991, a cura di H. Houben e B. Vetere, Galatina 1994, p. 164. 5 Cfr. I. Vona, Pastorizia e transumanza di Casamari nei secoli XII-XIV, in «Rivista Cistercense» 18 (2001), pp. 3958. 6 Cfr. B.G. Bedini, Le abbazie cistercensi d’Italia sec. XIIXIV, V rist., Casamari 1987, pp. 30-32. 7 Cfr. E. Parziale, L’abbazia cistercense di Fossanova, Roma 2007, pp. 37-56; 169-172. 8 Cfr. F. Mastrojanni, Precisazioni sulle tre abbazie cistercensi di Marmosolio, Valvisciolo Sermonetana e Valvisciolo Carpinetana, in «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» 15 (1959), pp. 252-253. 9 Cfr. E. Cuozzo, I Cistercensi nella Campania medievale, in I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale…, cit., p. 276. 10 A. Pratesi, Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’archivio Aldobrandini, Città del Vaticano 1958, doc. 49, pp. 116-120. 11 Ibi., doc. 69, pp. 175-179; G. Caridi, Ricerche sul monastero di S. Angelo de Frigillo in Calabria e il suo territorio 1278-1359, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale» 72 (1981), pp. 348-349; P. De Leo, L’insediamento dei Cistercensi nel «Regnum Siciliae»: I primi monasteri cistercensi calabresi, in I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale…, cit., pp. 332-333. 12 Cfr. P. Dalena, I Cistercensi nella Basilicata medievale, in I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale…, cit., pp. 296297. 13 Cfr. R. Giannangeli, L’abbazia cistercense di Santa Maria di Casanova, L’Aquila 1984, p. 179. 14 Cfr. I. Vona, Storia e documenti dell’abbazia di Casamari 1152-1254, Casamari 2007, p. 25. 15 Cfr. E. Parziale, L’abbazia cistercense di Fossanova, cit., pp. 171-172. 16 Ad esempio, la chiesa di San Vincenzo di Morrea, ex-cella benedettina dipendente da Casamari, distrutta dal terremoto che nel 1915 rase al suolo città e villaggi del Fucino e della Val Roveto, fu ricostruita nel 1920. Cfr. D. Antonelli, Abbazie, prepositure, cit., pp. 325ss. Il mastio di Sant’Angelo di Ravecanina, appartenente a Ferraria, fu restaurato negli anni 1965 e seguenti. Cfr. D. Caiazza, Il Segreto di San Pietro Celestino, Piedimonte Matese 2005, pp. 117ss. Il monastero di S. Spirito d’Ocre, grangia di Casanova degli Abruzzi, è stato restaurato recentemente. 17 G.M. De Rossi, La riscoperta di Fossanova, Priverno 2002, pp. 112-130. 18 Cfr. C. Ciammaruconi, Nuovi contributi alla «riscoperta» di Fossanova, in «Rivista Cistercense» 20 (2003), pp. 3566. 19 G.M. De Rossi, La riscoperta di Fossanova, cit., pp. 7-9. 20 Ibi., pp. 120-123. 21 Ibi., pp. 124-130. 22 Cfr. ibi., pp. 131-141. I CISTERCIENSI E L’ACQUA. IL MODELLO DELLE ABBAZIE FRANCESI E SPAGNOLE La ricerca archeologica sui sistemi idraulici dei Cisterciensi in Francia è stata sistematizzata da K. Berthier e J. Rouillard, Nouvelles recherches sur l’hydraulique cistercienne en Bourgogne, Champagne et Franche-Comté, Archéologie Mèdiévale, t. 28, 1998, pp. 120-147; cfr. anche K. Berthier, L’hydraulique de l’abbaye de Cîteaux au XIIIème siècle Côte d’Or, France, in P. Benoit, L. Pressouyre (a cura di), L’Hydraulique monastique, Actes du colloque de Royaumont, Grâne 1996. Infine J. Pérez-Embid, Los cistercienses y el agua. El ejemplo de la abadias francesas y españolas, in Homenaje al Profesor Antonio Caro Bellido, I-II, a cura di J. Abellán Pérez, C. Lazarich González, V. Castañeda Fernández, Universidad de Cádiz, 2011, I, pp. 305-314; J. López López, La hidráulica cisterciense en la Corona de Aragón. Arquitectura y sostenibilidad, Universidad de Alicante, 2012. Per una visione generale dell’insediamento cisterciense in Spagna: J. Pérez-Embid, Le modèle domaniale cistercien dans la Péninsule ibérique, in L’Espace cistercien, a cura di L. Pressouyre, Paris 1994, pp. 115-153. Notizie sull’archeologia nelle abbazie spagnole si troveranno anche in Moreruela, un monasterio en la historia del Císter, a cura di H. Larrén Izquierdo, Valladolid 2008 soprattutto i testi di F. Miguel Hernández. LA SIDERURGIA CISTERCIENSE Moines et métallurgie dans la France médiévale, raccolta di studi a cura di P. Benoit, D. Cailleaux, A.E.D.E.H., Paris 1991. P. Benoit, L’industrie cistercienne XIIe-première moitié du XIVe siècle, in Monachisme et technologie dans la société
médiévale du Xe au XIIIe siècle, Cluny 1994, pp. 51-108. P. Benoit, K. Berthier, L’innovation dans l’exploitation de l’énergie hydraulique d’après le cas des monastères cisterciens de Bourgogne, Champagne et Franche-Comté, in L’Innovation technique au Moyen Age, Errance, Paris 1998, pp. 58-65. D. Cailleaux, La salle du moulin à la forge de l’abbaye de Fontenay, in L’Hydraulique monastique, CREAPHIS, Grâne 1996, pp. 401-411. Id., Comment les cisterciens inventent l’usine, in Les Bâtisseurs du Sacré. Les monastères et le Mont-Saint-Michel, Collection Les Cahiers de Science & Vie, 2, ottobre 2008, pp. 70-76. C. Verna, Les mines et les forges des cisterciens en Champagne méridionale et en Bourgogne du Nord. XIIe-XVe siècle, A.E.D.E.H., Vulcain, Paris 1995. RAFFIGURAZIONI DI CISTERCIENSI E DI SAN BERNARDO NELL’ARTE MEDIEVALE A.H. Bredero, Bernard of Clairvaux – Between Cult and History, Edinburgh 1996. J. France, The Cistercians in Medieval Art, KalamazooStroud 1998. Id., Medieval Images of Saint Bernard of Clairvaux, Kalamazoo 2007, with CD-ROM. Id., Separate but Equal: Cistercian Lay Brothers 1120-1350, Collegeville 2012. C. Rudolph, The Things of Greater Importance, Philadelphia 1990. Vita prima Bernardi, in Migne, Patrologia Latina, vol. 185, pp. 225-368. C. Waddell, Narrative and Legislative Texts fromn Early Cîteaux, «Studia et Documenta, Cîteaux, commentarii cistercienses» 9 (1999), Brecht. Y. Zaluska, L’enluminure et le scriptorium de Cîteaux au XIIe siècle, «Studia et Documenta, Cîteaux, commentarii cistercienses» 4 (1989), Brecht. COMMENDE E CONGREGAZIONI CISTERCIENSI 1
Acta Canonizationis s. Dominici, Monumenta Historica sancti patris nostri Dominici, 16, ed. A. Walz, Roma 1935, pp. 188-194. 2 Conciliorum oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, a cura di G. Alberigo, G.L. Dossetti, P.P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, ed. bilingue, Bologna 1991, p. 89. 3 Su san Benedetto, di cui Gregorio Magno ha narrato la vita, e sulla Regola, scritta per Montecassino, A. de Vogüé, J. Hourlier, F. Renner, Regula Benedicti, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII (1983), 1555-1566; inoltre Gregorio Magno, Vita di san Benedetto e la Regola, introduzione a cura di A. Stendardi, Biblioteca Grandi Autori, 3, Roma 1995; G. Turbessi, Regole monastiche antiche, Roma 1990, pp. 397-473 e passim. 4 G. Picasso, I benedettini, in Regulae, consuetudines, statuta. Studi sulle fonti normative degli ordini religiosi nei secoli centrali del Medioevo, a cura di C. Andenna, G. Melville, Atti del I e II seminario internazionale di studio del Centro italo-tedesco di storia comparata degli ordini religiosi, Bari-Noci-Lecce, 26-27 ottobre 2002; Castiglione delle Stiviere, 23-24 maggio 2003; Münster 2005. 5 Per un quadro di sintesi sulla spiritualità cluniacense, A. Vauchez, La spiritualità dell’occidente medievale, secoli VIII-XII, Milano 1978, pp. 40-46; per la storia di Cluny e del suo movimento, M. Pacaut, Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 97-148. 6 Le origini cisterciensi, Documenti, a cura di C. Stercal e M. Fioroni, Biblioteca di cultura medievale diretta da I. Biffi e C. Marabelli, sez. Cisterciense, Fonti Cisterciensi, 2, Milano 1997; inoltre, J. Bouton, J.B. Van Damme, Les plus anciens textes de Cîteaux. Sources, textes et notes historiques, «Cîteaux: Studia et Documenta» 2 (1974), Achel. 7 Anche Cluny praticò la visita ai monasteri affiliati, ma senza che ciò fosse stato codificato e comunque non in maniera sistematica, come lo fecero i Cisterciensi, cfr. J. Leclercq, Cluniacensi, in DIP, II, coll. 1198-1200. 8 Scrive Roberto di Torigny che «una grande quantità di uomini accorse a Cîteaux, tanto che da lì sorsero quasi 500 abbazie, dall’anno 1098 all’anno 1152. E per questa causa gli abati e anche i vescovi che sono assunti nell’ordine si riuniscono nel Capitolo generale, dove si raccolgono ogni anno alla metà di settembre, affinché le negligenze che non si possono evitare del tutto in tanti e tali conventi vengano corrette», Roberti de Monte, Tractatus de immutatione ordinis monachorum, in PL, 202, col. 1311 BC. 9 «oportunum nobis videtur, et hoc etiam volumus, ut mores et cantum et omnes libros ad horas diurnas et nocturnas et ad missas necessarios, secundum formam morum et librorum novi monasteriii possideant, quatinus in actibus nostris nulla sit discordia, sed una caritate, una regula, similibusque vivamus moribus», Carta caritatis 1, cap. III, vv. 61-65, dove «novi monasterii» sta per Cîteaux. Per un commento, P. Zapar, Carta Caritatis, in DIP, II, 81975, coll. 609-613. 10 A. Vauchez, La spiritualità…, cit., pp. 112-117. 11 San Bernardo, Apologia ad Guillelmum abbatem, XII, 28, cfr. l’edizione curata da R. Amerio, in Opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, I, Trattati, Milano 1984, p. 211. Scritta prima del 1125, su istanza di Guglielmo abate di Saint-Thierry e di Ogerio, canonico regolare di Mont-Saint-Eloi, l’Apologia all’abate Guglielmo di Saint-
Thierry riflette l’incresciosa disputa agitatasi tra Cluniacensi e Cisterciensi. San Bernardo, Apologia, XII, 29; R. Amerio, Apologia, cit., p. 213. 13 Su questa iniziativa papale ben poco sappiamo, oltre quanto è riferito nell’epistolario papale. L’unico Capitolo di cui è rimasta notizia è quello di Perugia. Ma, come risulta dal Registro Vaticano – testo non integralmente riportato dal Migne – i capitoli furono convocati oltre che a Perugia anche a Piacenza e in altre parti d’Italia, della Francia e d’Inghilterra, cfr. Berliere, Innocent III et la réorganisation des monastéres bénedectins, «Revue bénédictine» XX-XXII (1920); M. Maccarrone, Studi su Innocenzo III, «Italia sacra» 17 (1972), Padova, pp. 226246. 14 In singulis regnis, in Conciliorum oecumenicorum Decreta, ed. G. Alberigo, G.L. Rossetti, P.-P. Joannou, C. Leopardi, P. Prodi, EDB, Bologna 1991, pp. 240-241. Questa costituzione fu inserita nelle Decretali Gregoriane (III, 35,7). 15 M. Maccarrone, Studi su Innocenzo III…, cit., pp. 246262. 16 La costituzione Fulgens sicut stella 12.VII.1335, già progettata da Giovanni XXII, ma ritardata per l’intervento di Jacques de Thérines, abate di Chaâlis, è stata edita in J. Paris, H. Sejalon, Monasticon Cisterciense seu antiquiores Ordinis Cisterciensis Constitutiones, Soilesmis 1892, pp. 473-495; inoltre, Jos. Canivez, Statuta Capitulorum gen. Cistercensium, III, Louvain 1935, pp. 410-435. Sulla bolla, J.B. Mahn, Le pape Benoît XII et les Cisterciens (Bibliothéque de l’École des Hautes Etudes. Sciences historiques et philologiques, 295), Paris 1949. Per il ruolo svolto da questo pontefice presso i Frati Minori, Cl. Schmitt, Un pape réformateur et un défenseur de l’unité de l’Eglise, Benoît XII et l’Ordre des frères Mineurs 13341342, Quaracchi, Firenze 1959. 17 La costituzione Summi magistri si trova in A. Tomassetti, Bullarium diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum Pontificum, Taurinensis editio, IV, Torino 1859, pp. 348-387. Lo stesso Benedetto XII, in ottemperanza alle disposizioni date dallo stesso Concilio Lateranense, ordinò una riforma generale dei canonici regolari agostiniani con bolla Ad decorem Ecclesiae Sponsae Dei 15.5.1339, ibi., pp. 424-459. 18 Per la storia del termine, che significa: «provvisione di un beneficio regolare accordato a un secolare chierico o laico con la dispensa dall’obbligo di condurre vita regolare», G. Picasso, Commeda, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, II, Roma 1975, coll. 1246-1250. Per la commenda monastica, adottata per sanare nei monasteri quei mali ritenuti diversamente insanabili, ma che in realtà finì per aggravare la situazione, G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medioevo, Complementi alla Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, Milano 1983, pp. 297-328. 19 M. Fois, I movimenti religiosi dell’osservanza nel ’400: i benedettini, in Riforma della Chiesa, cultura e spiritualità nel Quattrocento veneto, Atti del Convegno per il VI centenario della nascita di Ludovico Barbo 1382-1443, Padova, Venezia, Treviso 19-24 settembre 1982, Cesena 1984, pp. 225-262; ibi., pp. 226s., Italia Benedettina 6. 20 E. Delaruelle, E.R. La Bande, P. Ourliac, La Chiesa al tempo del Grande Scisma e della crisi conciliare, Storia della Chiesa, diretta da A. Fliche, V. Martin, XIV, 3, Torino 1971, pp. 1298-1305; 1325-1332. 21 A. Esch, Sub voce, in Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, pp. 691-692. 22 A.A. Strnad, Sub voce, in Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, p. 150. 23 I. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921, pp. 347-355; G. Penco, Storia del monachesimo…, cit., p. 299. 24 Molti interventi sulla basilica sessoriana patrocinati dai cardinali titolari avvennero a ridosso delle scadenze giubilari, cfr. R. Besozzi, La storia della basilica di Santa Croce in Gerusalemme dedicata alla santità di n.s. papa Benedetto XIV, Roma 1750, p. 29ss., 72ss.; S. Ortolani, Santa Croce in Gerusalemme, Roma 1997, pp. 22-32. 25 Il pensiero va alla scoperta del “titulus”, avvenuta a seguito dell’ordine dato dal cardinal Pietro Gonzales de Mendoza, arcivescovo di Toledo, di rimbiancare le pareti, lo stesso cardinale che rifece i soffitti a cassettoni con rose dorate e le armi sue e del re di Spagna. Il primo febbraio 1492, allorché alcuni operai, costruita l’impalcatura, raggiunsero la sommità dell’arco trionfale, vi rinvennero la preziosa reliquia, posta entro una scatola di piombo, sigillata dal card. Gerardo Caccianemici, poi Lucio II 1144-1145, ma obliterata dal tempo della caduta dell’antistante iscrizione in lettere musive; cfr. S. Ortolani, Santa Croce in Gerusalemme…, cit., pp. 22-23; B. Bedini, Le reliquie della passione del Signore, Roma 1997, pp. 49-55. 26 Sul tema, M. Fois, L’«osservanza» come espressione della “Ecclesia semper renovanda”, in Problemi di Storia della Chiesa nei secoli XV/XVII, Napoli 1979, pp. 13-107, 83. 27 Conciliorum oecumenicorum Decreta, 9 ottobre 1417, pp. 438-39. 28 Fa notare Kaspar Elm come l’idea che «la riforma degli ordini sia stata principalmente un’autoriforma corrisponde solo a una parte della realtà. Le spinte più forti al rinnovamento vennero piuttosto dall’esterno», cfr. K. Elm, Alla sequela di Francesco d’Assisi. Contributi di storia francescana, Santa Maria degli Angeli-Assisi 2004; in particolare il Capitolo, Riforme e osservanze nei secoli XIV-XV, pp. 331-344. 29 U. Jedin, Storia del Concilio di Trento, I, Brescia 1973, p. 12
160. Si tratta di un movimento di riforma la cui gestazione risale agli ultimi anni della cattività avignonese e i cui primi difficili passi si muovono nel contesto del grande scisma di Occidente 1378-1417. Erano frati devoti guidati da fra Paoluccio, frate converso del convento di Foligno e cugino del signore della città il quale, tra il 1367 e il 1368, dai superiori ottenne il permesso di ritirarsi a San Bartolomeo di Brogliano, per osservare la Regola e il Testamento di san Francesco ad litteram et sine glossa, rinunciando, specie in materia di povertà, ai privilegi pontifici che invece erano ammessi dai frati della “Comunità”. Assertori dell’unità dell’Ordine e zelatori tanto di Francesco d’Assisi quanto della Chiesa, questi frati, quasi tutti laici, il 28 luglio 1373, ottennero un primo riconoscimento da papa Gregorio XI, senza tuttavia una sanzione esplicita. Sul riformatore mi permetto di rimandare al mio Dal movimento eremitico alla regolare osservanza francescana, l’opera di fra Paoluccio Trinci, Assisi 1992. 30 Così tra i Domenicani della Congregazione lombarda 1393 di cui capifila furono Raimondo da Capua e Giovanni Dominici; così tra gli Agostiniani, nell’eremo di Lecceto 1397; mentre la riforma dei Servi inizia con la decisione presa, nel 1404, dal Capitolo generale di inviare Antonio da Siena a restaurare il convento di Monte Senario. Ancora più tarda la riforma mantovana dei Carmelitani, iniziata negli anni 1412/13. Su queste riforme, cfr. il Dizionario degli Istituti di Perfezione, ad voces. 31 M. Fois, I movimenti religiosi dell’osservanza nel ’400…, cit., p. 260s. 32 G.B.F. Trolese, Ricerche sui primordi della riforma di Ludovico Barbo, in Riforma della Chiesa: cultura e spiritualità nel Quattrocento veneto, Italia benedettina 6, cit., pp. 109-133. 33 Si vedano i citati Atti, Riforma della Chiesa, cultura e spiritualità nel Quattrocento veneto, Italia Benedettina 6. Non meno importante, al fine di individuare i legami di questa osservanza con le altre coeve, sono la diffusione dell’Imitazione di Cristo tra i monaci di Santa Giustina e la Forma orationis et meditationis congregationis monachorum S. Iustinae, scritta tra il 1440 e il 1441, dove si rende obbligatoria la pratica quotidiana dell’orazione mentale: le fonti di questo scritto sono in prevalenza francescane ed è citato espressamente l’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, la guida carismatica degli spirituali toscani, cfr. G. Picasso, L’«Imitazione di Cristo» e l’ambiente di S. Giustina, ibi., pp. 263-276; inoltre, I. Tassi, Ludovico Barbo 1381-1443, Uomini e dottrine, 1, Roma 1952, pp. 143-152. 34 M. Fois, Osservanza. Congregazioni di osservanza, in DIP, VI, 1980, coll. 1036-1037. 35 L.I. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà, con appendice di G. Viti, I cistercensi in Italia; L. Dal Prà, Abbazie cistercensi in Italia, repertorio, Certosa di Pavia 1989, p. 157. 36 Pia supplicum vota 24.X.1425, ed. in C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia Ordinis Cistertiensis item Congregationum monasticarum et Militarium quae Cistertiense institutum observant, Antverpiae 1630, pp. 245252. 37 G. Gibert, Congregazione cistercense di Castiglia, in DIP, II, pp. 640-644; L.I. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà, cit., p. 160ss. 38 Ben quarantacinque i monasteri spagnoli che avevano aderito alla riforma, di cui però solo quattro erano di fondazione propria. Mentre al movimento avevano aderito otto monasteri di donne, cfr. L.J. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà…, cit., p. 161; G. Gibert, Castiglia, Congregazione Cistercense di, in DIP, II, 1975; coll. 640-644. 39 Cfr. M. Fois, L’«osservanza» come espressione della “Ecclesia semper renovanda”, cit., p. 58s. 40 L.I. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà…, cit., p. 161. 41 La congregazione – il cui stemma è costituito da due angeli che sorreggono in adorazione un calice sormontato da un’ostia e le cui finalità erano la celebrazione della festa del Corpus Domini e sua ottava con solenni processioni eucaristiche –, fu approvata nel 1377 da Gregorio XI raggiungendo un massimo di dodici monasteri tra Umbria e Marche, con il ramo femminile personalmente ho studiato il monastero di Santa Maria di Betlem; ma già nel secolo successivo l’istituto era in crisi, per cui fu unito alla congregazione di Monte Oliveto, cfr. P. Lugano, Della congregazione Benedettina cistercense del SS.mo Corpo di Cristo, in «Rivista storica benedettina» I (1906), pp. 79-89; P. Paschini, Note sul culto eucaristico nella vita religiosa italiana nel primo Rinascimento, in «Divinitas» 2 (1962), pp. 340-379; ibi., pp. 344-346; M. Sensi, Cistercensi in Umbria, in San Bernardo e i cistercensi in Umbria, Atti del Convegno organizzato dall’Associazione Nazionale “Ven. Maria Cristina” di Terni, TerniS. Pietro in Valle-Ferentillo 29-30 settembre 1990, a cura di G. Viti, Firenze 1995, pp. 51-74; ibi., 69-73; Id., Santa Maria di Betlem a Foligno, monastero di contemplative agostiniane, Foligno 1981. 42 Fondati nel 1189 da Gioacchino a San Giovanni in Fiore, con regola e organizzazione economica che ripetevano quella dei Cisterciensi, furono approvati da Celestino II il 25.8.1196. La loro diffusione fu dovuta alla protezione dei papi Onorio III, Gregorio IX e Alessandro IV, nonché di Federico II. La congregazione diffusa nell’Italia meridionale e nel Lazio, fino a raggiungere il numero di sessanta monasteri e quelli femminili di quattro, entrò in crisi sotto la dominazione angioina; un numero notevole di monasteri scomparve nel secolo XIV, mentre nel 1570, i Florensi superstiti si unirono con i Cisterciensi dando vita alla Congregazione cisterciense calabro-lucana; F. Caraffa, Florensi, in DIP, IV, 1977, coll. 79-82; P. De Leo, Certosini e cistercensi nel Regno di Sicilia, Soneria Man-
nelli 1993; Id., I florensi, in Regulae, consuetudines, statuta. Studi sulle fonti normative degli ordini religiosi nei secoli centrali del Medioevo, a cura di C. Andenna, G. Melville, pp. 311-330. 43 L’approvazione avvenne con bolla Cathedram praeminentiae 28.VI.1481, cfr. Storia e arte dell’abbazia cistercense di S. Salvatore a Settimo, a Scandicci, a cura di G. Viti, Certosa di Firenze 1995; inoltre G. Viti, Contributo per la storia di Badia a Settimo con appunti e note d’archivio per il Settecento, in «Rivista Cistercense» 6 (1989), n. 3, pp. 315-336; V. Cattana, Storia della Congregazione di San Bernardo in Italia, Milano 1997, p. 8s.; S. Paciolla, L’antico jus proprium della congregatio Sancti Bernardi in Italia, Roma 1999, p. 143ss. 44 P. Zakar, Congregazione cistercense di San Bernardo in Italia, in DIP, II, 1975, coll. 1536-1538; inoltre J.M. Canivez, Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis ab anno 1116 ad annum 1768, Louvain 1933-1941, III, p. 396. 45 «quare pro parte dilecti filii nobilis viri Ludovici Mariae Sfortiae, Ducis Mediolani, qui praedecessorum suorum vestigiis inhaerendo, non solum monachos dicti ordinis, sed etiam quoscumque alios religiosos regularis observantiae in visceribus suae charitatis amplectitur, ut etiam in tantis temporum perturbationibus, circa ipsorum religiosorum incrementa intentus, multa bona temporalia eis conferre non desistat; necnon abbatum, praelatorum, conventuum et monasteriorum Tusciae et Lombardiae Provinciarum praedictarum, seu maioris partis eorum, nobis fuit humiliter supplicatum, ut ex singulis dictis provinciis Tusciae et Lombardiae, unam Congregationem dumtaxat, sancti Bernardi in Italia nuncupandam, constituere et deputare, ac alia infrascripta statuere et ordinare, et alias pro eiusdem Congregationis Italiae, et in illa regularis observantiae disciplinae manutentione opportune providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur, qui religionis augumentum, ex commisso nobis pastoralis officii debito, intentis desideramus affectibus, huiusmodi supplicationibus inclinati, dilectis filiis nostris Francisco S. Eustachii et Ascanio Mariae sancti Viti in Marcello Martyrum, Sacrae Romanae Ecclesiae Vicecancellario, diaconis Cardinalibus, Tusciae et Lombardiae Provinciarum huiusmodi respective protectoribus, etiam apud nos super hoc instantibus, auctoritate apostolica perpetuo valitura et hac nostra irrefragabili constitutione easdem Tusciae et Lombardiae Provinciarum congregationes invicem perpetuo unimus, annectimus et incorporamus et ex illis invicem sic unitis unam congregationem abbatum, praelatorum et monachorum monasteriorum dicti ordinis, in Tusciae et Lombardiae provinciis existentium S. Bernardi in Italia creamus, facimus, sancimus, constituimus et deputamus [...] Et quod capitulum dictae congregationis, singulis annis in loco et tempore statutis, celebretur et quod tantum accedere debeant visitatores et singuli praelati monasteriorum seu locorum, cum sotio cuiuslibet monasterii electo a maiori parte conventus cuiuslibet monasterii dictae congregationis», C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia…, cit., pp. 393-396; ibi., p. 394. Per una corretta intelligenza del testo giova precisare che il termine praelati sta per superiori locali. 46 A. Tagliabue, Gli abati di Chiaravalle nel Medioevo 11351465, in AA.VV., Chiaravalle…, cit., pp. 50-91; ibi., pp. 77, 84ss. Cfr. inoltre M. Pellegrini, Ascanio Maria Sforza, la creazione di un cardinale “di Famiglia”, in G. Chittolini, Gli Sforza, la Chiesa lombarda, la corte di Roma. Strutture e pratiche beneficiarie nel ducato di Milano 14501535, «Europa mediterranea. Quaderni» 4 (1989), Napoli, pp. 215-289. 47 M. Pellegrini, Chiaravalle fra Quattrocento e Cinquecento: l’introduzione della commenda e la genesi della congregazione osservante di San Bernardo, in AA.VV., Chiaravalle. Arte e storia di un’abbazia cistercense, Milano 1992, pp. 92-120; ibi., pp. 94ss., 111ss.; M. Tagliabue, M. Bascapé, Cronologia storica dell’abbazia, ibi., pp. 14-16; ibi., p. 14. 48 La bolla, datata 23.XII.1497, è stata edita da C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia..., cit., pp. 393396; cfr. inoltre A. Tomassetti, Bullarium … romanorum pontificum…, cit., III, pp. 240-242. Sulle ragioni politiche di questo appoggio, cfr. M. Pellegrini, Chiaravalle, p. 111s. Ascanio Maria Sforza che, oltre alla commenda di Chiaravalle 1465-1505, deteneva, dal 1489, anche quella di Sant’Ambrogio, stimolato dalla madre Bianca Maria e consigliato dal gesuato Antonio Bettini, volle che nella nuova Congregazione entrasse a far parte anche quest’ultimo monastero; V. Cattana, L’introduzione dei cistercensi a Sant’Ambrogio 1497, in Il monastero di Sant’Ambrogio nel Medioevo. Convegno di studi nel XII centenario 784-1984, 6 novembre 1984, Milano 1988, pp. 234-259, in particolare 245ss. 49 M. Bascapé, La “perpetuità delli abbati”. Chiaravalle milanese e la riforma della Congregazione cistercense di San Bernardo in Italia tra XVI e XVII secolo, in AA.VV., Chiaravalle…, cit., pp. 139-177; ibi., pp.139-140. 50 Apostolicae Sedis 27.XI.1501, S. Paciolla, L’antico jus proprium della congregatio…, cit., pp. 367-370; inoltre, L.I. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà, cit., p. 162. 51 Ex paterne caritatis officio, 24.III.1511, in C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia…, cit., pp. 396-399; A. Tomassetti, Bullarium … romanorum pontificum…, cit., III, pp. 496-499; inoltre V. Cattana, Per la storia della Provincia lombarda della Congregazione cistercense di San Bernardo in Italia, in «Cîteaux» 32 (1981), pp. 138-153; ibi., pp. 129-130; M. Pellegrini, Chiaravalle…, cit., 114s. 52 M. Bascapé, La “perpetuità delli abbati”…, cit., p. 139.
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M. Pellegrini, Chiaravalle, cit., p. 115ss.; inoltre M. Bascapé, La “perpetuità delli abbati”…, cit., p. 153s. M. Bascapé, La “perpetuità delli abbati”…, cit., p. 158ss.; inoltre M. Fois, L’«Osservanza»…, p. 61. 55 La prima bolla di approvazione delle costituzioni è la In sede Principis apostolorum 21.3.1631; seguì la Alias a Nobis 25.1.1634; mentre l’approvazione in forma specifica si ebbe con la Sacrosanctum apostolatus officium 15.1.1641, cfr. P. Zakar, Congregazione cistercense di San Bernardo…, cit., coll. 1537. La Congregazione di San Bernardo, nata ufficialmente nel 1497, contava nel 1566, nella sola Provincia Lombarda, dodici monasteri con 160 monaci e 34 conversi; mentre nei decenni successivi si consociarono altri 15 monasteri; V. Cattana, Storia della Congregazione di San Bernardo..., cit., 16s. 56 G. Viti, Congregazione cistercense calabro-lucana, in DIP, II, 1975, col. 1523. 57 Id., Congregazione cistercense romana, in DIP, II, 1975, col. 1533-1534. 58 V. Cattana, Congregazione di San Bernardo…, cit., p. 31s. 59 Ibi., col. 1534. 60 Per queste abbazie si rimanda al puntuale elenco di L. Dal Prà, Abbazie cistercensi in Italia, repertorio, in L.I. Lekai, I cistercensi, ideali e realtà, cit., pp. 574-578. 61 D’obbligo il rimando a C. Varagnoli, Santa Croce in Gerusalemme. La basilica restaurata e l’architettura del Settecento romano, presentazione di P. Fancelli, Roma 1955. 62 C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia…, cit., pp. 415-418; G. Viti, Foglianti, in DIP, IV, 1977, coll. 9394. 63 C. Henriquez, Regula, Constitutiones et Privilegia…, cit., pp. 418-421. 64 Ibi., pp. 420-421. 65 J. O’Dea, Cistercensi riformati, in DIP, II, 1975, coll. 11011106; ibi., coll. 1101s. 66 Nostra Signora della Trappe, fondata nel 1122 dal Conte di Perche, nella foresta di Mortagne Francia e, nel 1147, unita all’Ordine di Cîteaux, nella filiazione di Clairvaux, fu data in commenda nel secolo XVI, seguì un certo rilassamento, ma l’abbazia fu riformata da uno dei suoi abati commendatari, Armand-Jean Le Bouthillier de Rancé; A. Dimier, La Trappe, in DIP, V, 1978, coll. 498-499. L’opera principale del Rancé, De la sainteté et des devoirs de la vie monastique, 2 voll., Parigi 1683, in cui venivano criticati gli abusi generalizzati nelle istituzioni monastiche del suo tempo, diede origine a un’importante controversia per la quale vedi la sintesi di F. Vandenbroucke, Rancé, Armand-Jean, in DIP, VII, 1983, coll. 12051208. 67 Giacomo abate di Buonsollazzo, Breve ragguaglio delle costituzioni delle badie della Trappa di Buonsollazzo e di Casamari, Firenze 1718; G. Viti, Buonsollazzo, in DIP, I, 1974, coll. 1677-1678; J. O’Dea, Cistercensi riformati…, cit., coll. 1102s. 68 Giacomo abate di Buonsollazzo, Breve ragguaglio delle costituzioni delle badie della Trappa di Buonsollazzo e di Casamari, Firenze 1718; A. Dimier, La Trappe, in DIP, V 1978, coll. 498-499. 69 G. Viti, Casamari, Congregazione cistercense di, in DIP, II, 1975, coll. 620-621. 70 Ibi., p. 621. 71 Il Capitolo generale speciale della Congregazione di Casamari, in «Notizie Cistercensi» 4 (1971), fasc. 3-4, pp. 115-122. 72 Monasterium S. Crucis in Jerusalem, Constitutiones Congregationis Cisterciensis sancti Bernardi in Italia 15251990, a cura di D.X. Adrés Guttiérrez, Roma 1998, pp. 721-732. 73 V. Cattana, Congregazione di San Bernardo…, cit., p. 40. 74 Ibi., p. 31s. Tra il 1784-1785 la congregazione registrava i seguenti monasteri: Sant’Ambrogio Maggiore, Chiaravalle, Chiaravalle della Colomba, San Pietro di Pavia, San Martino di Parma, Voghera, Santa Croce in Gerusalemme, Cava di Cremona, ibi., p. 34s. Inoltre, S.M. Fioraso, L.M. Zacchetto, I cistercensi a Santa Croce, in La Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Quando l’antico è futuro, a cura di A.M. Affani, Viterbo 2003, pp. 43-52; ibi., p. 47. 75 Notevoli le influenze che, nel corso dei secoli, i Cisterciensi hanno lasciato nel complesso monastico di Santa Croce in Gerusalemme sia nell’arte, come nella liturgia e nella spiritualità. Per un quadro di sintesi, S.M. Fioraso, L.M. Zacchetto, I cistercensi a Santa Croce, cit., pp. 5052. 76 G. Picasso, Il governo dei monaci a Chiaravalle, in Chiaravalle…, cit., pp. 214-218, ibi., p. 216. 77 Ordinis Cisterciensis Directorium Officii divini, Poblet 1991. 54
L’ARTE CISTERCIENSE NEL XVII E XVIII SECOLO NELLE REGIONI DI LINGUA TEDESCA 1
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Per esempio: Krausen 1980; Leutheußer 1993; Klemm 1997; Abadias Cistercienses 2000. Cfr. le indicazioni delle carenze degli studi in Eberl 2008, pp. 4-48. Sugli ordini mendicanti cfr. Oppeker 2008. Laabs 2000; Wipfler 2003; Parello 2004. Scherg 1997; Nehlsen, Wollenberg 1998; Eberl 2002, pp. 408-421; Scherg 2002. Lobedanz 1998, pp. 768, 772-773. Hoegger 1998, pp. 77-82. Ast 1977, p. 7; Machilek 1998, pp. 128-133; Schneider 1998, pp. 179-183. Cfr. anche la diversa valutazione in Rose 1983a, pp. 333-335; Grüger 1983, pp. 343-346, e
424
Pressouyre 1990, pp. 18-19. Klemm 1997, pp. 46-47; Badstübner 1998, pp. 340-356; Schütz 1988, p. 54; Schütz 2009; Kunz 2011. 9 Schütz 1988, pp. 54-64; Lorenz 1999, pp. 244-246 e pp. 279-280; Korth 2004, pp. 250-262. 10 Ast 1977, pp. 9-10; Schrott 2004, pp. 374-376. 11 A Ebrach e Heiligenkreuz la posizione venne in seguito cambiata, a Wilhering venne corretto il progetto. Cfr. Klemm 1997, pp. 41-42; Thome 2007, p. 34; Weinberger 1992, p. 38. 12 Grunder 1994, pp. 117-132. 13 Untermann 2001, pp. 596-597. 14 Korth 2004, pp. 250-282. 15 Klemm 1997, pp. 121-123; Schütz 2009, pp. 486-492. 16 Leutheußer-Holz 1994, pp. 220-224. 17 Klemm 1997, p. 102. 18 Ibi., pp. 33-40, 67-78, 156-163, 192. 19 Pfister, Altmann 1988, pp. 91-103; Leutheußer 1993, pp. 394-395; Leutheuper-Holz 2006, pp. 222-225; Simon 2012, pp. 135-152. 20 Leutheußer 1993, pp. 402-406; Böhm 2003, pp. 156-171. 21 Klemm 1997, pp. 127-132 22 Ammann 1990, pp. 28-33. 23 Rose 1983, pp. 103-105; 118-120; Harasimowicz 1995, pp. 61-63; Brzezicki p.es. 2005, p. 500. 24 Brümmer 1994, pp. 122-226; Klemm 1997, pp. 137-144. 25 Engelberg 2005, pp. 145-148; Vácha 2008, pp. 387-403; Horyna 2009, pp. 467-474. 26 Ibi., pp. 139-141; Schemper-Sparholz 2009. 27 Kaczmarek, Witkowski 1990, pp. 308-309; Molecz 2003, pp. 341-384; Schemper-Sparholz 2009, pp. 310-311. 28 Questo il parere di Engelberg 2005, pp. 141, 552-553; al contrario Schemper-Sparholz 2009, p. 306. Sull’attività edilizia delle abbazie primarie: Evans 1981, p. 63-70; Oursel 1982. 29 Reden-Dohna 1980, pp. 285-288; Wüst 2012. 30 Young 1994, pp. 27-41. 31 Lehmann 1996; Garberson 1998. 32 Knapp 2004, pp. 364-372, 404-405; Knapp 2011, pp. 325-326; Wiemer 1992, pp. 47-50. 33 Ammann 1990, pp. 14-16. 34 Baumgartl 1989, pp. 15-28; Garberson 1998, pp. 123124. 35 Knapp 2004, pp. 439-477. 36 Id. 1989; Kremer 2000; Brand 2012. 37 Cfr. per esempio i ritratti dell’abate Benedikt Knittel von Schöntal 1650-1732, Brümmer 1994, pp. 82-87. 38 Krausen 1956, pp. 115-129; Schüller 2011; Ruderich 2000. 39 Wischermann 2000, pp. 178-192. 8
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Marianowi Kutznerowi, Fundacje Tumult, Torun 1999, pp. 197-220. Seeger 1997: U. Seeger, Zisterzienser und Gotikrezeption. Die Bautätigkeit des Babenbergers Leopold VI. in Lilienfeld und Klosterneuburg, Kunstwissenschaftliche Studien 69, Deutscher Kunstverlag, München, Berlin 1997. Thome 2006: M. Thome, Material und Farbigkeit in der Zisterzienserarchitektur. Zur Verwendung von Rotmarmor in den Kreuzgängen der Abteien Heiligenkreuz und Lilienfeld, in «Österreichische Zeitschrift für Kunst und Denkmalpflege» 60 (2006), pp. 341-348. Id. 2007: Id., Kirche und Klosteranlage der Zisterzienserabtei Heiligenkreuz. Die Bauteile des 12. und 13. Jahrhunderts, Studien zur internationalen Architektur und Kunstgeschichte 52, Imhof, Petersberg 2007. Id. 2008: M. Thome, Die gerade geschlossene Halle als Kirchenraum bei Bettelorden und Zisterziensern im ausgehenden 13. und beginnenden 14. Jahrhundert, in Bettelorden in Mitteleuropa. Geschichte, Kunst, Spiritualität, Beiträge zur Kirchengeschichte Niederösterreichs 15, a cura di H. Specht e R. Andraschek-Holzer, Diözesanarchiv, St. Pölten 2008, pp. 406-432. Untermann 2001: M. Untermann, Forma Ordinis. Die mittelalterliche Baukunst der Zisterzienser, Kunstwissenschaftliche Studien 89, Deutscher Kunstverlag, München, Berlin 2001. Wagner-Rieger 1982: R. Wagner-Rieger, Die Habsburger und die Zisterzienserarchitektur, in Die Zisterzienser. Ordensleben zwischen Ideal und Wirklichkeit, vol. suppl. Schriften des Rheinischen Museumsamtes 18, a cura di K. Elm, Rheinland-Verlag, Köln 1982, pp. 195-211. Watzl 1983: Flucht und Zuflucht. Das Tagebuch des Priesters Balthasar Kleinschroth aus dem Türkenjahr 1683, a cura di H. Watzl, Forschungen zur Landeskunde von Niederösterreich 8, II ed., Hermann Böhlaus Nachfolger, Graz, Köln 1983. Id. 1987: Id., “…in loco, qui nunc ad sanctam crucem vocatur…”. Quellen und Abhandlungen zur Geschichte des Stiftes Heiligenkreuz, Heiligenkreuzer Verlag, Heiligenkreuz 1987. ARMAND-JEAN DE RANCÉ E I TRAPPISTI 1
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Il primo fu Daniel de Larroque in un pamphlet del 1685, circa trent’anni dopo i fatti. Chateaubriand rese popolari le sue dichiarazioni nel secondo volume della sua Vie de Rancé. Avvertito delle interpretazioni di Larroque, Rancé giudicò che non valeva la pena di prestarvi attenzione, cfr. la lettera del 21 gennaio 1686. Scrive alla nipote il 7 ottobre 1686: «Non dovete farvi scrupolo di leggere le critiche che mi sono state rivolte; sebbene i fatti che esse contengono siano falsi e riferiscano molte malignità, non hanno mancato di essermi utili… Persino coloro che non mi amano ne sono rimasti scandalizzati». Mémoires, edizione del tricentenario, Paris-Genève 1976, Tomo III, pp. 293-294. Regola di san Benedetto. Riportato da dom Le Nain nella sua vita di Rancé, ed. del 1719, vol. I, p. 341. L’insieme, arricchito da otto incisioni, fu pubblicato a Parigi nel 1708, con il titolo Description du plan en relief de l’abbaye de la Trappe présenté au Roy, par le frère Pacome, religieux solitaire. Lo scontro con i mauristi, riguardo all’edizione dei testi patristici, è rimasto famoso. La loro vocazione e quella dei trappisti, ambedue legittime, erano troppo divergenti, ma sappiamo che Rancé e dom Mabillon si riconciliarono e in seguito si manifestarono molta stima. Edizione completa della corrispondenza in 4 volumi, a cura di A.J. Krailsheimer, Cerf-Cîteaux, 1993. Cfr. Correspondance, Éd. de la Pléiade, 1983, pp. 1014, 1023. Sulla letteratura suscitata dalla Trappe nel XVIII secolo, cfr. L.D.B., Histoire civile, religieuse et littéraire de l’abbaye de la Trappe, Paris 1824, cap. XII, pp. 259-282.
D.N. Bell, Understanding Rancé. The Spirituality of the Abbot of La Trappe in Context. Cistercian Publications, Kalamazoo 2005; tr. it. Capire Rancé. La spiritualità dell’abate di La Trappe sullo sfondo del suo tempo, Jaca Book, Milano 2011. A.J. Krailsheimer, Armand-Jean de Rancé, Abbot of La Trappe. His Influence in the Cloister and the World. Clarendon Press, Oxford 1974; tr. fr. Armand-Jean de Rancé, abbé de la Trappe 1626-1700, Les Éditions du Cerf, Paris 2000. Id., Rancé and the Trappist Legacy, Cistercian Publications, Kalamazoo 1985. LA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITÀ NELL’ARCHITETTURA CISTERCIENSE DEL XIX SECOLO
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Ci è molto gradito ringraziare i seguenti studiosi: Prof. Terryl Kinder, Prof. Jan De Maeyer, Dom François de Place, Dom Marie-Gérard Dubois, Sig. Jean-Luc Grasset, Prof. Jean-Michel Leniaud, Prof. Luc Noppen, Dom Bernardus Peeters, Dom Jacques Pineault, Prof. Malcolm Thurlby, Dr. Dominique Vanwijnsberghe, et Dom Armand Veilleux. L’euristica di questo contributo ha dovuto in gran parte accontentarsi delle informazioni presenti nelle guide e sui siti internet di abbazie il cui scopo non è evidentemente la storia architettonica dei luoghi: http://www.ocso.org, http://www.ocist.de, http://www.citeaux.net/familia.htm. Ultimo accesso Gennaio 2013. Introduzioni storiche generali: M. Pacaut, Les moines
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blancs. Histoire de l’ordre de Cîteaux, Fayard, Paris 1993, pp. 341-363; M. Cocheril, Les Cisterciens, in G. Le Bras, Les ordres religieux. La vie et l’art, 1, Flammarion, Paris 1979, pp. 339-561; J.-F. Holthof, Cîteaux, e e XII -XX siècle, continuité et actualité, in Saint Bernard et le monde cistercien, a cura di L. Pressouyre, T.N. Kinder, CNMFS & Sand, Paris 1990, pp. 177-197. Sugli istituti religiosi nel XIX secolo: Religious Institutes in Western Europe in the 19th and 20th Centuries: Historiography, Research and Legal Position, a cura di J. De Maeyer, S. Leplae, J. Schmiedl, Kadoc Studies on Religion, Culture and Society, 2, Leuven University Press, Louvain 2004. 3 Il XIX secolo è escluso anche da A. Dimier, Recueil de plans d’églises cisterciennes. Supplément, Commission d’histoire de l’ordre de Cîteaux, 6, Grignan-Paris 1967. Stato della questione storiografica: T. Coomans, Cistercian architecture or architecture of the Cistercians?, in Cambridge Companion to the Cistercian Order, a cura di M. Birkedal Bruun, Cambridge University Press, Cambridge 2013, pp. 151-169. 4 Dom Augustin de Lestrange 1754-1827 fondò nel 1791 un monastero a Valsainte Svizzera perpetuando la riforma dell’abate de Rancé. I suoi famosi Réglements de la Valsainte hanno come scopo il ritorno agli usi primitivi dell’ordine di Cîteaux. A.-H. Laffay, Dom Augustin de Lestrange et l’avenir du monachisme 1754-1827, Histoire religieuse de la France, 12, Editions du Cerf, Paris 1998. 5 Vedere in particolare: Réformes et continuité dans l’ordre de Cîteaux. De l’étroite observance à la stricte observance. Actes du Colloque Journées d’Histoire Monastique, SaintMihiel 2-3 octobre 1992, Textes et documents, «Cîteaux, commentarii cistercienses» 6 (1995), Brecht. 6 B. Delpal, Le silence des moines. Les Trappistes au XIXe siècle: France, Algérie, Syrie, L’histoire dans l’actualité, Beauchesne, Paris 1998. 7 In Polonia 1819, in Spagna e in Portogallo 1835, in Svizzera 1848, in Germania 1875 e in Francia 1880, 19031905. 8 De Maeyer, Leplae, Schmiedl (a cura di), Religious Institutes in Western Europe…, cit.; F.-R. de Chateaubriand, Vie de Rancé, Delloye, Paris 1844. 9 F.-R. de Chateaubriand, Vie de Rancé, cit. 10 C. Tallon, Notices topographiques et historiques sur les monastères de l’ordre de La Trappe en France, en Algérie, en Belgique, dans le Royaume-Uni de la Grande-Bretagne et d’Irlande et en Amérique, Paris 1885, capitolo 32. 11 Y. Bottineau-Fuchs, Un palimpseste bâti: l’abbaye NotreDame d’Aiguebelle, in Mémoires de patrimoines, a cura di J.-P. Vallat, L’Harmattan, Paris 2008, pp. 27-51. 12 J.-K. Huysmans, En Route, Tresse et Stock, Paris 1895, II parte, capitolo 8. L’abbazia di cui parla Huysmans è quella di Igny. 13 In particolare a Clairvaux (Francia), Meaux (Inghilterra) e Villers-en-Brabant (Belgio). Cfr. T. Coomans, L’abbaye de Villers-en-Brabant. Construction, configuration et signification d’une abbaye cistercienne gothique, «Studia et Documenta» 11 (2000), Bruxelles-Brecht, pp. 59-63. 14 H. Laffay, La fondation d’un monastère trappiste sous le Second Empire: Notre-Dame des Dombes 1859-1870, «Cîteaux, commentarii cistercienses» 41 (1990), pp. 135-158; 468-482 pianta dell’abbazia, p. 470. 15 J.-K. Huysmans, En route, Tresse et Stock, Paris 1895, II parte, capitolo 8. 16 E. Castelnuovo, Hautecombe: un paradigma del “gothique troubadour”, in Jappelli e il suo tempo, a cura di L. Mazzi, Padova 1982, pp. 121-136; E. Dellapiana, Da Hautecombe a Chambéry. Alla ricerca di un medioevo sabaudo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino 1998, pp. 163-174. 17 V. Young, A.W.N. Pugin’s Mount Saint Bernard Abbey: The International Character of England’s NineteenthCentury Monastic Revival, Nineteenth-Century Art Worldwide, 1, 2002; rivista on line: http://www.19thcartworldwide.org/spring_02/articles/youn.shtml. L’abbazia trappista di Notre-Dame de Consolation à Yangjiaping, a un centinaio di chilometri da Pechino (provincia di Hebei), fu la prima abbazia cisterciense fondata in Cina. Una grande chiesa gotica fu costruita tra il 1904 e il 1906 in uno stile simile a quello di Pugin. Vedi: T. Coomans & W. Luo, « Exporting Flemish Gothic Architecture to China: Meaning and Context of the Churches of Shebiya (Inner Mongolia) and Xuanhua (Hebei) built by Missionary-Architect Alphonse De Moerloose in 1903-1906 », Relicta. Heritage Research in Flanders, 9, 2012, pp. 219-262. 18 Histoire populaire illustrée de l’abbaye de Maison-Dieu, N.-D. de la Grande-Trappe, par un religieux de ce monastère, Librairie H. Oudin, Paris-Poitiers 1895, pp. 160171. 19 É. Pallot, La restauration de l’abbaye de Cîteaux, in Pour une histoire monumentale de l’abbaye de Cîteaux 10981998, a cura di M. Plouvier, A. Saint-Denis, «Studia et Documenta» 8 (1998), Vitreux-Dijon, pp. 332-373. 20 Cfr. nota 17. 21 A. Lenoir, Architecture monastique, Collection de documents inédits sur l’histoire de France, III serie, Archéologie, vol. 2, Paris 1856, pp. 45-47; E. Sharpe, The Architecture of the Cistercians, Illustrated Papers on Church Architecture, 2 voll., London 1875. 22 Nel 1851, Aiguebelle raggiungeva 250 religiosi. Per i numeri delle popolazioni delle abbazie cfr. B. Delpal, Le silence des moines, cit. T. Coomans, « Granges domestiques, basses-cours et fermes abbatiales : évolution typologique et architecturale en Belgique », Cîteaux. Commentarii cistercienses, 64,
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2013, pp. 155-185 (in particolare pp. 179-183). Si tratta di una cuspide come ne vennero costruite in quantità all’epoca dall’architetto Tessier e da altri architetti neogotici. 24 Orval 1926-1948: entre restauration et résurrection, a cura di C. Soetens, Arca, Louvain-la-Neuve 2001. 25 Les Cisterciens en Namurois, XIIIe-XXe siècle, a cura di J. Toussaint, Monographies du Musée des Arts anciens du Namurois, 15, Namur 1998, pp. 96-101. 26 D. Ouaillarbourou, M. Plouvier, P. Vernet, Une nouvelle église pour les moines de Cîteaux - 1998, in Pour une histoire monumentale de l’abbaye de Cîteaux 1098 – 1998, a cura di M.P.A. Saint-Denis, «Studia et Documenta» 8 (1998), Vitreux-Dijon, pp. 362-373. 27 Punto della situazione negli atti del colloquio Des couvents en héritage – Religious Houses: a Legacy, Montréal-Québec, 6-10 ottobre 2009, pubblicazione prevista nel 2014. T.N. Kinder, « What Makes a Site Sacred ? Transforming ‘Place’ to ‘Sacred Place’ », in: T. Coomans, H. De Dijn, J. De Maeyer, R. Heynickx & B. Verschaffel (eds.), Loci Sacri. Understanding Sacred Places (Kadoc Studies on Religion, Culture and Society, 9), Leuven University Press, 2012, pp. 194-207 (196-200). 28 V. Debonne, E. Van Regenmortel, A. Bergmans, T. Coomans, Van Heilig-Kluisklooster tot Sint-Bernardusabdij in Bornem. Een bouwhistorisch onderzoek met het oog op herbestemming, «Relicta. Heritage Research in Flanders» 4 (2009), pp. 257-288. 23
EMBLEMI DI UN’ETÀ DI VIOLENZA: L’ARTE DI THOMAS MERTON 1
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T. Merton, The Seven Storey Mountain, Sheldon Press, London 1975, p. 203; tr. it. La Montagna dalle sette balze, Garzanti, Milano 1966, p. 243. W.H. Shannon, C.M. Bochen, P.F. O’Connell, The Thomas Merton Encyclopaedia, Orbis Books, Maryknoll, New York 2002, p. 9. T. Merton, Turning Toward the World: The Pivotal Years, Harper Collins, San Francisco 1996, pp. 59-60. Id., The Road to Joy: The Letters of Thomas Merton to New and Old Friends, Farrar, Straus, Giroux, New York 1989, p. 133. Id., Raids on the Unspeakable, New Directions, New York 1966, p. 180. Id., Theology of Creativity, «American Benedictine Review» 11 (sett-dic 1960), pp. 197-198. Ibi., p. 205. Id., Disputed Questions, Farrar, Straus and Cudahy, New York 1960, p. 164. Id., Raids of the Unspeakable, cit., pp. 5-6. L’ARCHITETTURA CISTERCIENSE NEL XX SECOLO
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H.U. von Balthasar, L’inizio, Jaca Book, Milano 1970, pp. 17, 37. 2 X. Barral i Altet, Contro l’arte romanica? Saggi su un passato reinventato, Jaca Book, Milano 2009, p. 183 3 Ibi., p. 186. 4 A. Dimier, Recueil de plans d’églises cisterciennes, Abbaye N-D. D’Aiguebelle, Paris 1949; Id., Recueil de plans d’églises cisterciennes supplément, Abbaye N-D. D’Aiguebelle, Paris 1967; Id., L’art cistercien hors de France, La Pierre-qui-Vire 1971. Inoltre: Les fondations de St. Bernard en Italie, in «Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis» XIII (1957), pp. 17-32. 5 H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, introduzione di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 633-5. 6 Nel 1951, i monaci benedettini dell’abbazia francese di Pierre-Qui-Vire, in Borgogna, diedero inizio alle Éditions Zodiaque, che dapprima pubblicarono riviste, poi raccolte di libri sull’arte romanica e gotica in Europa, di grande fortuna editoriale, riprese parzialmente anche in altre edizioni nazionali, come quella italiana dell’editoriale Jaca Book. 7 A. Surchamp, A. Dimier, L’art cistercien. France, 2 voll., Zodiaque, La Pierre-qui-vire, Yonne 1962, 1974. 8 A. Surchamp, L’esprit de l’art cistercien, in L’art cistercien. France, cit., p. 16. 9 Ibi., pp. 19-20. 10 Ibi., p. 22. 11 Ibi., p.23. 12 A. Dimier, L’art cistercien, in L’art cistercien. France, cit., p. 37. 13 Ibi., p. 37. 14 F. Pouillon, Les pierres sauvages, Seuil-Paris 1964 e 2008, ed. it. Il canto delle pietre, Lindau, Torino 2007. Il libro, nella forma di diario immaginario dell’architetto monaco cisterciense costruttore di Le Thoronet, in Provenza nel sec. XII, è occasione autobiografica per riflettere sulle debolezze umane e sulle contraddizioni personali, oltre che per segnalare appassionate riflessioni sul rapporto tra necessità e bellezza, tra ordine della natura e ordine umano in architettura. Dello stesso autore: Memoires d’un architecte, Seuil, Paris 1968. Architetto dall’attività febbrile anche per grandi opere pubbliche in Francia, Algeria e Iran, scrittore, editore di libri d’arte, professore universitario, autore con il suo atelier di rilievi sia della città di Aix-en-Provece da lui molto amata, sia dei monasteri cisterciensi di Sénanque, Silvacane, Le Thoronet, Pouillon 1912-86, ha avuto vita avventurosa. Attentissimo alle componenti tecnologiche dell’architettu-
ra e alla gestione economica dei progetti, imprigionato e radiato dall’ordine francese degli architetti per non aver rispettato la legge e per dichiarazioni false, scrisse negli anni della prigionia Les pierres sauvages. Nel 1982 la Biennale di Venezia rese omaggio al suo lavoro sull’architettura nei paesi islamici, insieme a quello di Hassan Fathy, Louis Kahn, Le Corbusier. Nel 1984 il presidente Mitterand lo elevò al grado di ufficiale della Legion d’onore. È attiva un’associazione a lui dedicata: http://www.fernandpouillon.com. Su di lui: B.F. Dubor, Fernand Pouillon, Electa Moniteur, Milano Paris 1986, ed. it. Fernand Pouillon. Architetto delle 200 colonne, Electa, Milano 1987. 15 F. Cali, La plus grande aventure du monde. L’architecture mistique de Cîteaux, Arthaud 1956. Il volume, scritto a Le Thoronet tra l’agosto 1952 e il giugno 1954, presenta lo svolgersi di una giornata di vita monastica come avventura che «descrive Dio», evocato dalla liturgia delle ore, da testi dei Padri della Chiesa e dalle fotografie, realizzate dal celebre Hervé, fotografo personale di Le Corbusier dal 1949 al 1965, vicino anche ad altri artisti e architetti di primo piano come Matisse, Prouvé, Aalto, Niemeyer. In premessa Le Corbusier rivolge la propria attenzione alle immagini, mentre il domenicano Pie Raymond Régamey segnala un forte disaccordo con il testo di Cali. Presso Arthaud Cali ha pubblicato altri volumi. L’ordre grecque, del 1958, ha la stessa impostazione dell’opera su Le Thoronet. Sull’architettura gotica e cisterciense meritano di essere segnalati: Essai sur l’architecture gothique, 1963; L’ordre cistercien, 1972; L’ordre cistercien. D’après les trois soeurs provençales: Sénanque, Silvacane, Le Thoronet, 1973. 16 Le Corbusier, Préface, in F. Cali, La plus grande aventure du monde, cit.; è stato padre Couturier ad inviare il famoso architetto svizzero a visitare il monastero di Le Thoronet, perché vi vedeva «l’essenza stessa di quel che deve essere un monastero a qualsiasi epoca lo si costruisca» lettera di M.-A. Couturier a Le Corbusier, 28 luglio 1953 e «un monastero allo stato puro», lettera di M.-A. Couturier a Le Corbusier, 4 agosto 1953. Cfr. V. Casoli, Santa Maria de La Tourette e il “Convento radioso”, in Le Corbusier. Il programma liturgico, a cura di G. e G. Gresleri, Compositori, Bologna 2001, pp. 122-47. 17 Per père Marie-Alain Couturier 1897-1954 e la sua attività nel campo dell’arte sacra, cfr.: M.A. Crippa, Romano Guardini i Marie-Alain Couturier. Los orìgenes de la arquitectura y del arte para la liturgia catòlica en el siglo XX, in Arquitecturas de lo sagrato, a cura di E.F. Cobian, netbiblio, La Coruna 2009, pp. 178-205. 18 F. Cali, La plus grande aventure du monde, cit.; il libro non ha numerazioni di pagina. 19 Qualche cenno, ma molto sintetico, si trova in: L. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, con appendice di G.Viti, I Cistercensi in Italia, e L. Dal Pra, Abbazie Cistercensi in Italia. Repertorio, Certosa di Pavia, 1989, pp. 338-9. Un elenco abbastanza dettagliato dei monasteri cisterciensi americani costruiti nel XIX e nel XX secolo si trova in T. Merton, Le acque di Siloe, Garzanti, Milano 1962, pp. 137-275. 20 T. Merton, Vita nel silenzio, cit., p. 49. 21 Id., Le acque di Siloe, cit., pp. 43-4. 22 Ibi., p. 55 23 Id., Vita nel silenzio, cit., p. 136. 24 Tuttavia id., in Le acque di Siloe, cit., dichiara anche, a proposito dell’abbazia di Gethsemani, di preferire una povertà priva di valenze estetiche alla «bruttezza ornata e pretenziosa», alla «volgarità», che rendevano «opprimente quasi tutta l’architettura di quel periodo», p. 170. 25 Le vicende sono narrate in: N. Possenti Ghiglia, Leletta d’Isola. La portinaia del buon Dio, Ancora, Milano 2009. 26 L’arch. Maurizio Momo è autore del progetto del monastero cisterciense Dominus tecum a partire dal 1989, con consulenza iniziale dell’arch. Aimaro d’Isola, realizzato integrando un antico aggregato rurale di montagna. L’opera è pubblicata in: M. Momo, Il progetto del monastero “Dominus Tecum”, in «Aión, Rivista internazionale di Architettura» 2 (2003), Firenze; A. De Rossi, Architettura alpina moderna in Piemonte e valle d’Aosta, Torino 2005; M. Momo, Il monastero di Pra d’ Mill, in Turismo nelle Alpi. Temi per un progetto sostenibile nei luoghi dell’abbandono, Torino 2006; M. Momo, Sulle pendici del Monviso: il rifugio Vallanta e il monastero di Pra’d Mill, il “rifugio dello spirito”, in Fondazione Courmayeur, Architettura moderna Alpina: i rifugi, Atti del Convegno Aosta 22 ottobre 2005, Quart 2006; è segnalata inoltre in «Chiesa oggi» 73 (2005). Esiste anche un testo: Dominus Tecum, a cura del monastero, Genova 2008. 27 www.euroamerican.cc/novusvur/ 28 Premio Internazionale di Architettura sacra, a cura di A. Vaccai, IV, Skira, Milano 2008. 29 Notizie più dettagliate del monastero di Tautra sono nello scritto di S.F. Chen, OCSO, Il Mariakloster di Tautra: l’arte del ritorno, in questo stesso volume. 30 Il monastero di Nostra Signora sulla Moldava a Poli any, località Nahrouby, in provincia di Benešov a 50-60 km da Praga, è in corso di costruzione. Da contatti diretti con l’architetto, progettista e direttore dei lavori Marco Annoni, si apprende che la comunità trappista femminile ha richiesto un’architettura semplice, non contrassegnata da forte impronta intellettuale come quella di Novy Dvur. Il complesso è costituito da due chiostri e dalla chiesa. Sul chiostro principale, cuore del sistema, si affacciano al primo piano le celle monastiche; il secondo più piccolo e di fianco alla chiesa, ospita i laboratori; un
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campanile fa da perno tra i due. La chiesa è a croce latina con capriate in legno lamellare e tetto a capanna, sul fondo dell’abside si aprono le tre finestrelle tipiche della tradizione cisterciense. La costruzione, al centro di una vasta area libera, è in cotto a vista con ampi inserti in pietra d’Assisi sia all’esterno che all’interno della chiesa; la forma delle arcate del portico di accesso alla chiesa e dei chiostri è ripresa da quelle dell’architettura rurale locale. M.A. Crippa, L’immagine artistica in San Bernardo, in San Bernardo e l’Italia, a cura di P. Zerbi, Atti del convegno di studi, Milano 24-26 maggio 1990, Scriptorium claravallense, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 217-26. ANTICHE FABBRICHE CISTERCIENSI NEGLI STATI UNITI
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Sulla sua creazione cfr. H.E. Dickson, The Origin of the Cloisters, «Art Quarterly» XXVIII/4 (1965), pp. 253-274. Oltre alla guida recentemente pubblicata da P. Barnet e N. Wu, The Cloisters. Medieval Art and Architecture, New Haven CT 2006, pp. 9-19, vedere il sito www.metmuseum.org/works_of_art/the_cloisters. 2 Barnet, Wu, The Cloisters..., cit., pp. 49-51. 3 Secondo i documenti di archivio le dimensioni esterne sono 42 x 33 piedi. 4 Toledo Museum of Art Masterworks, Toledo, Ohio 2009, pp. 104-105. M. Ohl Godwin, Mediaeval Cloister Arcades from St.-Pons and Pontaut, «The Art Bulletin» 15 (1933), pp. 174-189. 5 D. Gillerman, Nine Capitals from a Cloister Gallery, Gothic Sculpture in America, II. The Museums of the Midwest, Turnhout 2001, pp. 383-388. 6 Barnet, Wu, The Cloisters..., cit., annotazioni di archivio. 7 Ibi., pp. 84-85. 8 J.E. Sowell, Sacramenia in Spain and Florida: A Preliminary Assessment, Studies in Cistercian Art and Architecture, I, a cura di M.P. Lillich, Kalamazoo 1982, pp. 7177 (p. 71) e ill. 1-10 (alla fine del volume). 9 La chiesa rimasta in loco è stata studiata da J.C. Valle Pérez, El trazado y construcción de los monasterios cistercienses castellano-leoneses: Consideraciones a propósito de las campañas de la iglesia de Sacramenia, Seminario, Alfonso VIII y su época, Il Curso de Cultura Medieval, Aguilar de Campoo, 1-6 octubre 1990, Madrid 1992, pp. 217-234. Una pianta degli edifici del monastero si trova a p. 228. 10 L. Torres Balbás, El Monasterio Bernardo de Sacramenia (Segovia), Archivo español de arte, 17 (lug/ag 1944), pp. 197-225. 11 Breve descrizione in W. Cahn, Romanesque Sculpture in American Collections, XIV: The South, «Gesta» 14 (1975), pp. 63-77 (75-77). 12 Ci si aspetterebbe di trovare un locale quadrato di 3 x 3, ma le arcate sul lato dell’entrata sono solo la metà delle arcate in larghezza, come si può vedere anche nella casa
fondatrice, L’Escale-Dieu. F. Bucher, A Rib from Sacramenia at Florida State University, Studies in Cistercian Art and Architecture, II, a cura di M.P. Lillich, Kalamazoo 1984, pp. 249-255 e ill. 1-13 (alla fine del volume). 14 M. Burke, Santa Maria de Ovila: Its History in the Twentieth Century in Spain and California, Studies in Cistercian Art and Architecture, I, a cura di M.P. Lillich, Kalamazoo 1982, pp. 78-87 e ill. 1-2 (alla fine del volume). La descrizione delle pietre è ripresa ampiamente da questo articolo. 15 Ibid., p. 79 e nota 6, dove è citata una lettera di A. Byne all’ingegnere consulente, del 20 aprile 1931. 16 Dato che Hearst non aveva intenzione di ricostruire il monastero come tale, Byne non disegnò una pianta del complesso. L’unica pianta conosciuta è stata disegnata da un medico spagnolo la cui famiglia proveniva da un villaggio una volta appartenuto a Ovila e che aveva tentato di interessare il governo alla conservazione del monastero. Dato che i suoi tentativi rimasero infruttuosi, per conservare la memoria di Ovila il dottore disegnò una pianta che venne pubblicata nella sua monografia sull’abbazia: F. Layna Serrano, El monasterio de Ovila, Madrid 1932 (pianta a p. 35). 17 M. Burke, Reconstructing the Chapter House of Santa Maria de Ovila: The First Steps, Studies in Cistercian Art and Architecture, II, a cura di M.P. Lillich, Kalamazoo 1984, pp. 241-248 e ill. 1-7 (alla fine del volume). 18 www.sacredstones.org 19 Oltre all’uso liturgico la sua progettazione permetterà di utilizzare la sala capitolare come sala di ricevimento, che sarà aperta al pubblico. 13
OUR LADY OF JOY. UNA COMUNITÀ CISTERCIENSE IN ESTREMO ORIENTE 1
Consolation venne elevata al rango di abbazia nel 1891. Dom Favre può dunque essere chiamato a ragione il suo primo abate, sebbene il superiore all’epoca della sua fondazione fosse dom Seignol.
Inglese e cinese Questi sono i due testi più completi sulla storia dei monasteri di Consolation e di Joy fino agli ultimi anni ’70, ambedue con un grande numero di fotografie: Stanislaus Jen, OCSO, Te Martyrum Candidatus, Laudat Exercitus, The Centenary of the Foundation of Our Lady of Consolation, Yangkiaping, the Proto-Abbey of the Cistercian Order in China and the Far East, 1883-1983, Our Lady of Joy, Hong Kong 1978. Id., History of Our Lady of Joy Liesse, for its Golden Jubilee of Foundation, Catholic Truth Society, Hong Kong 1978. Francese A. Hubrecht, CM, Une Trappe en Chine, Imprimerie des Lazaristes, Peking 1933.
A. Limagne, Les Trappistes en Chine, Librairie Générale Catholique, Paris 1911. J. Pasqualini, R. Chelminski, Prisonnier de Mao. 7 ans dans un camp de travail, Gallimard, Paris 1975. Italiano Monaci nella tormenta: la Passio dei monaci di Yan-KiaPing et di Liesse testimoni della fede nella Cina di Mao-TzeTung, a cura di P. Beltrame Quattrocchi, «Cîteaux: Commentarii cistercienses», Brecht 1991. Inglese B. Ruo-Wang, J. Pasqualini, R. Chelminski, Prisoner of Mao, Coward, McCann & Geoghegan, New York 1973, anche Penguin Books, Harmondsworth, Eng./New York 1976, c1973. Fr. M. Raymond, OCSO, Trappists, the Reds, and You, Gethsemani Abbey, Trappist, Kentucky 1949. P.J. Scanlan, Stars in the Sky, Trappist Publications, Hong Kong 1987. Th.M. Moreau, Blood of the Martyrs: Trappist Monks in Communist China. Veritas Est Libertas, Los Angeles 2012. Cinese [Trappist of Joy], Xidu Xian Shi = A Simple History of the Cistercian Order, Our Lady of Joy, Hong Kong 1963 è la traduzione cinese dell’originale inglese – di un Trappista del Gethsemani [A. Wulf], A Compendium of the History of the Cistercian Order, OCSO, Milwaukee 1944 – con l’aggiunta di tre capitoli su Consolation e Joy. L’ABBAZIA DI NOSTRA SIGNORA DI REDWOODS *
Le informazioni contenute in questo capitolo sono state ricavate dall’archivio dell’abbazia di Redwoods.
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Le fonti usuali sono Chr. C.A. Lange, De norske klostres historie i middelalderen, rev. ed., Christiania 1856; J. France, The Cistercians in Scandinavia, «Cistercian Studies» 131, Cistercian, Kalamazoo, MI 1992; e Øystein Ekroll, Munkeby – Tautra: Cisterciensermunkenes klosterruiner i Trøndelag, Fortidsminneforeningen, Trondheim 2003. Non è ancora stata scritta una storia definitiva del monastero di Tautra. Sancta Maria in tuta insula è stato normalmente tradotto “Santa Maria dell’isola protetta”. Fedeli alla tradizione cisterciense di essere all’avanguardia della tecnologia della loro epoca, utilizzarono ampiamente Internet per riuscirci. L’ingresso nel nuovo monastero nel 2006 fece effettivamente raddoppiare le spese di mantenimento, ma già nel 2007 le vendite dei prodotti di Tautra ne hanno coperto l’82% e nel 2008 si è raggiunto l’86%.
IL MARIAKLOSTER DI TAUTRA: L’ARTE DEL RITORNO
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INDICE DEI NOMI DI PERSONE, ORDINI MONASTICI, LUOGHI E FONDAZIONI Abbazie e monasteri sono indicizzati sotto il nome del luogo. Il numero in corsivo si riferisce alle pagine delle didascalie.
Abacuc, 227; 227 Abbeytown, Holm Cultram, 259 Abelardo Pietro, 18, 377 Aberconwy, 248; grangia Nanhywnan, 260 Abimelec, sogg. iconografico, 226 Acey, v. Vitreux Achard, architetto, 75 Achel, 350, 357, 366; 360 Acqui, 79 Adam de Chambly, 202 Adam of Dore, 188 Adamo di Perseigne, 14 Adelaide, sogg. iconografico, 184 Adelardo, monaco, 103 Admont, 242 Adriano I, 105 Aelredo di Rievaulx, 14, 20, 76, 147, 304 Agapito, santo, 231 Agnese di Isenhagen, 206 Agostino d’Ippona, 32, 221, 231; 219 Aiguebelle, v. Montjoyer Aix-en-Provence, Cattedrale del Salvatore, 71 Alarico, 231 Alba, Santa Maria di Cortemilia, 322 Alberico di Cîteaux, 11, 328 Alberto l’Orso, 112 Alberto, arciduca d’Austria, 322 Albrecht III, principe, 196 Alcobaça, 36, 125, 128, 140-142, 203, 291, 238, 248; 68, 137, 202, 238, 248, 290 Aldersbach, 326 Aldonza (Ruiz), 129 Alençon, 342 Alessandro III, 18, 101 Alessandro IV, 268 Alessandro VII, 316, 320, 322 Alfonso II, 141 Alfonso VII, 125, 398 Alfonso VIII di Castiglia, 129, 141, 290, 400 Alfonso XI, 141 Alighieri Dante, 394 Alseno, Fiorenzuola d’Adda, Chiaravalle della Colomba, 79, 103 / grangia, 272 Altenberg, v. Odenthal Altenkamp, grangia Bergharen, 270 Altheim bei Riedlingen, Heiligkreuztal, 182, 189 Althof/Alt Doberan, 157, 196; 198-200 Altomonte M., 340 Altzella, 112, 120, 124, 190, 243 Álvarez B., 141 Álvarez R., 129 Alvastra (Oestergötland svedese), 157159; 158 Aman, 226 Amedeo di Losanna, 14 Amelungsborn, v. Negenborn Anastasio di Persia, santo, 105 Anchin, 300 Andrea di Paolo, 314 Andrea II re, 166, 168, 172, 173 Angioini, 277 Anna, santa, sogg. iconografico, 181; 194 Annoni M., 393 Ansedonia, 105 Anselmo d’Aosta, 14 Anselmo II Schwab, abate di Salem, 334 Antonio, santo, 265 Anversa, 305; 306 Aquas Salvias, v. Roma, San Paolo alle Tre Fontane, 105 Arcis-le-Ponsart, Igny, 364 Ardouval, 260 Arduino, vescovo di Piacenza, 103 Argoules, Valloires, 346-348; 347 Armenteira, 132, 138 Arnaldo da Brescia, 18 Arnaud di Grenoble, 202 Arnolfini O., abate commendatario di La Charmoye, 320 Arouca, 129, 182, 186, 248; 184 Arpád, dinastia, 165, 172, 168 Arrabal, Oia, 132, 260 Artaud de Preuilly, 125
428
Arvaux, ponte degli, 287 Ås, 157 Asam C.D., 328 Asburgo, dinastia, 340 Ascanidi, dinastia, 112, 190 Asnière-sur-Oise, Royaumont, 72, 196 Assalonne, sogg. iconografico, 226 Assuero, sogg. iconografico, 226 Atlanta, 368 Attendorne, 198 Aubecour, 245 Aubel, Valdieu, 350, 366 Aubepierre-sur-Aube, Longuay (HauteMarne), 72, 285, 295 Auberger J.-B., 223 Auberive, 274, 285, 287, 295 / grangia Pelongerot, 274 Aubert M., 75 Augusta, 202 Augusto, imperatore, 196 Aulne, v. Gozée Auxerre, 270, 274; 219 Avanzo D.; 340 Avril F., 223 Baar, 203 Babenberg, dinastia, 116, 340 Babilonia, 309 Bad Bevensen, Medingen, 186; 184 Bad Doberan, 112, 114-116, 118, 159, 161, 188-190, 192, 194, 196, 214, 243, 249, 261, 263, 265, 270; 113, 158, 162, 189, 192 / Doberan II, 161 / grangia Gawetzowe, 261, 263 Bad Kösen, Pforta, 115, 119, 189-190, 259 Baden, sua altezza reale il Malgravio di, 334 Bagnolo, Dominus Tecum di Pra’d Mill, 383, 393-393; 385 Baldovino di Ford, 14, 20 Bamania, Congo Belga, 352 Barbarossa, Federico I, 101, 109, 166 Barbiero A., 108 Barbo L., 313 Barclay Lloyd J., 105 Bardstown, Our Lady of Gethsemani, 352, 367-368, 381 Barnard G.G., 396 Barral i Altet X., 35, 375 Barrow in Furness, Furness, 148, 151, 239, 261, 272 / grangia Hawkshead, 268 / grangia Winterburn, 261; 240 Bar-sur-Aube (Bibliothèque Municipale), 192; 304 Bartolomeo, santo, sogg. iconografico, 231 Basilea, concilio di, 313 Baumgartenberg, 328 Beatrice di Nazareth, 176, 215 Beaulieu, 150, 153, 265, 268, 271, 274 / grange, 271-272 Bebenhausen, 112, 114, 119-120, 124, 190, 260; 112, 122, 192 Beer F., 326 Béla III, 165-166, 168 Béla IV, 166, 172, 173 Belae Fons, 166, 177 Bélapátfalva, v. Heves Bélháromkút/Tres Fontes de Bel, 168 Bell D.N., 71, 239 Bellefontaine, 190 Bellevaux, v. Cirey Bellot Dom P., 364 Benavides, 128-129 Benedettini, 300, 356, 376, 403 / Benedettini Neri, 311-313 Benedetto da Norcia, 9, 11-12, 35, 176, sogg. iconografico 182, 192, 200, 215-216, 221, 239, 245, 300, 305, 310-311, 313, 316, 320, 346-347, 378, 380, 393, 407, 411, 347; sogg. iconografico 192 Benedetto di Aniane, 309 Benedetto XII, 188, 248, 311 Benedetto XIII, 278 Benedetto XIV, 316 Bénisson-Dieu, la, 211
Benkö E., 165 Bennonus de Ozeno, 101 Benoît P., 288 Benon, La Grâce-Dieu, 350 Berdoues, 128 Bergen/Rügen, 160; 162 Berge (Niedersachsen), Börstel, 194 Berlino, Sankt Nikolai, 190 / Staatsbibliothek, 18, 32 Bernard di Tiron, 377 Bernardo di Chiaravalle (de Clairvaux), 9, 14, 17-19, 22, 24-26, 28, 30-31, 34-36, 68, 70-71, 75-76, 78-79, 103-105, 109, 112, 125, 140, 144145, 176, 180, 182, 188, 192, 194, 196, 200, 202, 207, 211, 214, 222, 224, 231, 246, 248, 251, 257-258, 270, 275-276, 296-297, 300, 304305, 308-309, 311, 323, 326, 328, 347, 352, 375-376, 390, 392-394; sogg. iconografico: 18; 26; 32; 176, 182, 184, 192, 213, 300, 304, 324, 326, 334 Bernardoni, monaci della congregazione di san Bernardo, 320 Bernold di Sti na (Sittich), 246 Bernone di Cluny, 309 Bertoldo di Merano, 172 Bertrand de Pontigny, 188 Bertuzzi G., mons, 104 Biddlesden, 247 Bierzwnick/Marienwalde, 157, 164 Biffi I., 17 Billerbeck J. di Dargun, 245 Binstead, Quarr, 268 / grangia Forwood, 268 Birnau, v. Uhldingen-Mühlhofen Bisaccia, San Nicola de Oscata, 276 Bisanzio, 190, 275 Blake W., 367 Blandecques, 287 Bonheur G., “Coco” Chanel, 207 Bonifacio VII, 246 Bonlieu, v. Bonlieu-sur-Roubion Bonlieu-sur-Roubion, Bonlieu, 207; 212 Bonmont, v. Nyon Bonn, Landesmuseum, 200 Bonnecombe, v. Comps-la-Grand-Ville Bonnefont, v. Proupiary Bonnemazon, L’Escale Dieu, 128, 143, 398 Bonneval, Biac, 246, 271 / grangia Biac, 268 Bonnevaux, v. Lieudieu Bonport, v. Pont-de-l’Arche Boquen, v. Plénée-Jugon Bordesley, v. Redditch Bormonostor, v. Klostermarienberg Bornem, 350 Börstel, v. Berge Bossan P., 353 Bossuet J.-B., 341, 347 Bouillac, Grandselve, 73, 128 Boulbonne, v. Mazères Boxley, 147; 154 Boy, chiusa di, 285 Boyle, 146, 148; 154 Brandeburgo, marca, 112, 192 Brassó (Kronstadt, odierna Brasov), 166, Bratislava, Pozsony (Pressburg), 166, 168 Braunschweig, Riddagshausen, 116; 116 Brecht, 407 Bredelar, v. Marsberg Bregenz, Wettingen-Mehrerau, 350 Bréhan, Timadeuc, 350 Bremhill, Stanley, 150 Bricquebec, 350, 403 Bronnbach, v. Wertheim Brucher G., 341 Brummer J., 396 Bruno della Chartreuse, 377 Buch, v. Leisnig, Klosterbuch Buchet F., 399 Buchfast, v. Buchfastleigh Buchfastleigh, Buchfast, 273 Buckland, v. Milton Combe Budwies, Hohenfurt, 119 Buildwas, 147-148, 151, 190; 154 Bujedo de Juarros, v. Santa Cruz de
Juarros, Buków, Bukowo Morskie, 157, 159; 261 Buonsollazzo, v. Vaglia-Bivigliano Burkardroth, Frauenroth, 194 Burgos, Real Monastero de las Huelgas, 233; 233 Burghausen, Raitenhaslach, 328; 326 Burton P.-A., 31 Burzenland, 173 Byland, 149-150, 153, 190, 259; 155 Byne A., 396, 398-400 Byszewa, 247 Cabezon, Palazuelos, 128, 289 Cabuabbas, v. Sindia Cadouin, 24 Cailleaux D., 72, 293 Calcedonia, concilio di, 309 Calder, 239 Cali F., 377-378 Callisto II, 14, 310 Cambrai, 76 Cambron, v. Cambron Casteau Cambron Casteau, 270 Campano L., 276 Cañas, Santa María la Real, 129, 141142; 141 Candida, 270 Cannes, Lérins, 350, 386 / Sant’Onorato dell’isola, 383 Cántabos, v. Santa Maria de Huerta Canterbury, Christchurch, 288 / Saint Augustine, 300 Cappoquin, Mount Melleray, 350, 356 Capranica D., 312, 314 Carbone F., 312 Carcastillo, La Oliva, Santa María la Real, 125, 128, 132, 143; 134, 141 Carlisle, 248 Carlo Felice di Savoia, 356 Carlo I d’Angiò, 277 Carlo I di Fiandra, il Buono, 248 Carlo Magno, 105, 276; 108 Carlone G.B., 326 Carmagnola, Santa Maria di Casanova, 79, 386 Carmelo riformato, 377 Carpentras, 342 / Musée Duplessis, 342 Carracedo, v. León Carrero Santamaría E., 144 Carrizo, 129, 138, 140 / Santa María, 126 Casamari (Veroli), 70, 79, 231, 276-278, 316, 320 / Sant’Angelo in Monte Corneto, 276 Casanova degli Abruzzi, 277 Casey M., 215 Cashel, Hore, 147, 153 Casorate, 101 Cassanelli R., 75, 79, 101 Cassiano G., 118 Castelli G.A., 324 Castelli P., 324 Castle Ford, 273 Castrillo del Val (Burgos), San Pedro della Cardeña, 227, 238 Castro dei Volsci, 277 Castromonte, La Espina, 125, 128, 142, 144, 289 Cava dei Tirreni, 275 Cazabonne E., 201 Celas, v. Coimbra Celestino III, 276 Certosini, 322, 386 Cesario di Heisterbach, 188 Chaâlis, 247, 248, 272; 202 / grangia Commelles, 72, 261 / grangia Vaulerent, 264 Chailley, 263 Chard Junction, Forde, 156 Charleville-Mézières, 256 / Bibliothèque Municipale, 260 Charmoille, Lucelle, 259 / grangia Klösterli, 271 Chassagne, 273 Chateaubriand F.-R. de, 350 Châtillon-sur-Seine, Saint-Vorles, 78 Chelmno, 178 Chen S.F. O.C.S.O., 411 Chenoise, Jouy, 395 Cherlieu, v. Montigny-lès-Cherlieu
Chiada, 322 Chiaravalle della Colomba, v. Alseno Chiaravalle, Sinigallia, Santa Maria in Castagnola, 322 Chiaromonte, Santa Maria del Sagittario, 276 Chimay, 350, 356 Chiqueda de Cima, 291 Chorin, 112, 114, 161, 190; 112, 124/Mariensee, 157 Cikádor (Bátaszék), 165; 166 Cindeford, Flaxley, 239 / grangia, 270 Cirey-sur-Vezouze, Hauteseille, 246; 247 Cîrta, 248 Cisterciensi/Ordine cisterciense/Ordine, Monaci bianchi, 9-15, 26, 35-36, 71, 74, 76, 101, 105-106, 109, 112, 114, 116, 125, 129, 140-141, 145, 147-149, 157, 159, 164-165, 169, 172, 178, 182, 186-187, 189-190, 192, 194, 196, 200-203, 206, 207, 211, 214, 216, 221-222, 238, 240, 242-243, 246-251, 256-257, 259, 263, 270, 272, 274-277, 279, 285, 288-293, 295-297, 300, 304, 309312, 315-316, 320, 323, 326, 328, 330, 332-333, 336-337, 340, 344, 349-350, 352, 356-357, 364, 376378, 380-382, 386, 393-394, 406, 410-414 / Congregazione calabrolucana, 316 – C. di Casamari, 320 / C. di Castiglia, 315 / C. della Comune Osservanza, 379, 382 / C. della Nazione lombarda, 322 / C. della Stretta Osservanza (Trappisti), 105, 314, 316, 320, 341-342, 344, 347, 350, 352-353, 356-357, 376, 379, 382, 406-407; sogg. iconografico, 342, 364 / C. di Alcobaça, 144 / C. di Aragona e Navarra, 144 / C. di Castiglia, 144, 313 / C. di Francia (Congregatio Gallica beatae Mariae Fuliensis), 320 / C. di San Bernardo, (Congregatio Italica Monachorum reformatorum sancti Bernardi), 315-316, 320, 322 / C. romana, 316, 320, 322 / Congregazione lombarda (Congregatio regularis observantiae S. Bernardi), 316; Congregatio S. Bernardi monasterii Claraevallis, 315 Cisterna di Latina, Marmosolio, 276 / S. Eleuterii, 276 / S. Mariae de Marmosole, 276 / S. Romani, cappella, 276 Cîteaux, 9, 11, 14, 17-18, 25, 28, 35, 68, 70, 76, 79, 101, 116, 128-129, 145, 147, 149, 157, 168, 173, 182, 187188, 190, 202, 221, 223-224, 226, 231, 242-243, 249-251, 258, 285, 287-288, 292-293, 297, 300, 310316, 320, 337, 348, 350, 357, 362, 366, 377, 382; 184, 219, 240, 272, 378 / Cîteaux II, 160 / Vaugeot, 72; 71, 272 Città del Messico, Nostra Signora di Guadalupe, 381 Clairmarais, 250 Clairvaux (Clara-vallis), 14, 17, 31, 68, 70-71, 72, 75-76, 78-79, 101, 105, 109, 116, 146-147, 149, 157, 159, 165-166, 188, 202, 214, 222-223, 240, 243, 245-247, 256, 258, 276, 285, 293, 295-296, 305, 310, 322, 348; 12, 212 / Clairvaux II, 78, 160 / Clairvaux III, 70, 125, 128-129, 140-141 / grangia Champigny, 270 / grangia Fraville, 262 / Alvastra, 157 Coimbra, Celas, 129 Congregazione di San Benito di Valladolid, 313 Congregazione di Santa Giustina, poi cassinese, 313, 315 Clamezy, 231 Cleeve, v. Washford Clemente IV, 277 Clemente VII, 320 Clemente VIII, 320 Clemente XI, 320 Clemente XII, 316 Clemente XIII, 322 Cluniacensi, 35, 276, 309-310 Cluny, 18, 202, 309 / Cluny II, 164 Cocheril M., 289 Coggeshall, 273 Coimbra, Santa Cruz, 238 Colbury, 274 Colonia, Sankt Aspern, 214; 176, 212 / Schnütgen Museum, 190; 192 Collon, Mellifont, 145, 147-148, 190; 154 Comba R., 275-276 Combe-Saint-Bernard, 287 Comminges (Tolosa), 396 Comps-la-Grand-Ville, Bonnecombe, 350
Condulmer G., poi Eugenio IV, 313 Conrad III, 265 Conrad R., 31 Coomans T., 349 Corcoles, Monsalud, 290 Correr A., poi papa Gregorio XII, 313 Cosimo III dei Medici, 320 Costantinopoli, 226 Costanza, 312 Couilly-Pont-aux-Dames, Pont-aux-Dames, 192 Coupar, 265 Courgenay, Vauluisant, 72, 288, 293 / grangia Cerelegio, 263 Couturier M.-A., 378 Coxyde, Les Dunes, Ter Duinen, 190, 248, 260 / grangia, 268 Crippa M.A., 375 Cross Four Ways, Rushen, 146 Croxden, 248 Cuenca, 290 Culross, 146 Cuypers P., 357 Cwmhir, v. Llandrinddod Wells Cymer, v. Dolgellau Cirey, Bellevaux, 109 D’Angiò, dinastia, 275 D’Emilio J., 125 Dammarie-lès-Lys, 274 Damongeot M.-F., 223 Danesi, popolo, 160 Daniel and Phil Berrigan Defense Fund, 368 Daniele, sogg. iconografico, 226, 227; 227 Dardenne madre M., 407 Darfeld, 349 Dargun (Meclenburgo), 157, 159, 161, 190, 274; 194, 198, 162 / Dargun II, 161 / Dargun III, 161 Dario re, 309 Dartmoor, 273 Daugavgriva (Dünamünde), v. Riga Davide, 224, 231; sogg. iconografico: 226, 257 De Baissey L., abate di Cîteaux, 316 De Baux B., 71 De Beer G., 357 De Castro Doña Inés, 141 De Châtillon A., 165 De Cirey J., 240 De Corrèze É., 207 De Courtenay Y., 168 De Finojosa M., abate di Huerta, 141 De Ganck Fr. R., 407, 410 De Honnecourt V., 76, 79, 190 De la Barrière J.-B., 316 De la Cour G., 320 De la Rochefoucauld, 320 De la Vega P., 143 De Lestrange A., 349 De Longpont G., 246 De Minerva P., 128 De Rancé A.-J., 320, 341, 344-348, 357; 342, 347 De Rossi G.M., 278-279, 282; 278-279, 283 De Sales G., 395 De Varga M., 144 De Vitry J., 175 Definitori, comitato esecutivo del Capitolo generale, 249; 249 Dehio G., 362 Della Porta G., 105 Della Stella I., 14 Des Avaux F., 346 Di Hauterive U., 246 Díaz de Haro L., 129 Díaz de Haro U., 142 Diderot D., 348 Dientzenhofer C., 326 Dientzenhofer G., 326, 336 Dientzenhofer K., 386 Diepenveen, 350 / Sion, 357 Diesdorf, 203 Digione/Dijon, 35, 190, 223, 226-227, 231; 219, 233, 256-257, 299-300 / Bibliothèque Mucipale, 219, 226227, 233, 260, 261, 300 / Sant’Anna, 318 / Musée des Beaux- Arts, 190 Dimier M.A., 75, 180, 366, 376-377 Dionigi, santo, 270 Diou, Sept-Fons, 206, 350, 364, 366, 386, 403 Doberan, v. Bad Doberan Doberlug-Kirchhain, Dobrilugh, 214 Dobrilugh, v. Doberlug-Kirchhain Dolbeau-Mistassini, 350, 352, 366 Dolgellau, Cymer, 248 Domenicani, 277, 330, 392 / Predicatori 309 Domenico di Guzmán, 309 Dominicus, bano di Croazia, 166 Dore, 149-151, 246; 155
Doroteo di Gaza, santo, 347 Douai, 250; 300 / Musée de la Chartreuse, 194 / Bibliothèque Municipale, 300 Downpatrick, Inch, 149 Dublino, 151 Dubois dom M.G., 341 Dubuque, Our Lady of the Mississippi, 393, 411, 413 Duby G., 70-71 Ducato di Parma, 316 Duchi d’Austria, 112 Duiske, v. Graiguenamanagh Dunbrody, 146, 149 Dundrennan, 149, 151 Durelli, abate, 316 Durham, 242, 246 Dyonisius, camerarius regis di Andrea II e conte di Szepes, 173 Eberbach, v. Eltville am Rhein Ebersegg, 248 Ebikon, Rathausen, 214 Ebrach, 109, 116, 328, 333; 334 Écharlis, 265 Echt, 350 Edinburgh, National Museum of Scotland, 179 Edoardo I, 249 Eger (Bélapátfalva), 173 Egres, v. Igris Eisleben, Helfta, 176 Elba, isola, 112 Eldena (Hilda), 124, 157, 159, 164, 190; 158 Eleonora di Aquitania, 129 Égligny, Preuilly (Prulliacum), 14 Elisabetta, santa, sogg. iconografico, 181 Eltville am Rhein, Eberbach, 70, 72, 75, 109, 112, 114-116, 120, 124, 190, 211, 243, 245, 248, 337; 67, 112, 116, 122-123, 248 Emeric re, 166, 168; 168 Endenheim, 158 Enlart C., 362 Enrico il Leone, 206 Entrammes, Port-du-Salut, 350 Erhart G., 192 Esrum, 157, 192, 250 Ester, libro di, 226 Esztergom, 172 Étienne de Grandmont, 377 Eugenio III papa, 18, 109, 276-277 Eugenio IV, 313-314 Eydoux H.-P., 75 Falkenau, 164 Falleri, Santa Maria, 79 Farfa, 105, 312 Faringdon, 271 Favre Dom M.-B., abate della Consolation, 403 Federico II, 104, 109, 277 Feldhaus H., 340 Ferdinando I, 227 Ferdinando II, 142 Fermo, Santa Maria in Vepribus, 322 Fernández F., 128 Fernández S., 132 Ferrara, San Bartolo, 314 Ferraria, v. Pietravairano Ferreira de Pantón, 128-129, 138 Feuillant/Tolosa, 316 Filippo il Bello di Francia, 246 Finojosa, famiglia, 141-142 Fìtero, 125, 128, 140, 238; 238 / Santa María, 126 Flaran, v. Valence-sur-Baïse Flaxley, v. Cindeford Flemmingen, 259 Flines, v. Flines-lès-Râches Flines-lès-Râches, Flines, 186, 194, 250 Florensi, 309, 314 Foce, Amelia, Santa Maria delle Grazie, 322 Foglianti, 316, 320; 314 Fontaine-Jean, v. Saint-Maurice-surAveyron Fontcalvy, v. Ouveillan Fontenay, 70, 72, 75, 78, 104, 116, 132, 148, 159-161, 164, 168, 189, 192, 268, 282, 285, 287-288, 295-296, 366; 36, 38, 67, 71, 294 Fontevivo, 104 Fontfroide, v. Narbonne Fontmorigny, v. Menetou-Couture Forde, v. Chard Junction Forges, Scourmont, 350, 352, 356, 366 / Notre-Dame, 360, 364 Fossanova, v. Priverno Fountains, v. Ripon Fourvière, 353 Fraccaro de Longhi L., 102 France J., 297 Francescani, 277 / Frati Minori 105, 309, 312-313 / Monaci Grigi, 157, 188-
189 Francesco d’Assisi, 376 Francisco de Ribalta, 26 Franssen C., 357 Franzburg, Neuenkamp, 109, 157, 160, 190 Frauenroth, v. Burkardroth Freeman E., 175 Fresnoy-en-Bassigny, Morimond (Morimundus), 14, 17, 68, 70, 72, 79, 101, 109, 116, 125, 128, 150, 157, 166, 168, 188, 202, 245, 247-287, 296, 310, 337, 396, 400 / Morimond II, 160 Fribourg/Friburgo, La Maigrauge, 203, 305 Froideville, Montheron, 109 Froidmont, v. Hermes Frosta, Tautra, 164, 393; 391 / Mariakloster, Sancta Maria in tuta insula, 411-414 Fulberto di Chartres, 231 Furness, v. Barrow in Furness Fürstenfeld, 190, 194, 323, 326, 328; 334 Fürstenzell, 326 Gabetti R., 386 Gaedsdonk (Niederrhein), 18 Garendon, v. Loughborough Garneyrin Malachia, 320 Gaston d’Orléans, 341 Gda sk, Oliwa (Oliva), 157, 159, 164, 263; 158 / Grangia Tuchom, 262263, 265 Gedeone, (sogg. iconografico) 231 Genova, Sant’Andrea di Sestri, 79 / Santa Maria in Tiglieto, 322 Georgenthal, v. Ohrdruf Gérard d’Afflighen, 377 Gerevich L.; 166 Germano, santo, 270 Gerolamo, santo, 227, 231; 227, 231 Gertrude di Helfta, 215 Gertrude di Merano, 168, 172-173 Gerusalemme, 346 Gesù Cristo, 19-20, 24, 28, 34, 138; 184, sogg. iconografico 233, 238; 190 – Bambino, sogg. iconografico, 178; 18, 179, 194, 194 Gesuiti, 323, 326, 330, 403 Gessertshausen, Oberschönenfeld, 176, 192; 176 Géza II, 165 Giacobbe, 300 Giacomo da Abbiategrasso, 102 Gilberto di Hoyland, 14, 30 Gilson É., 26, 31 Gioacchino da Fiore, 309 Giobbe, libro di, 226 Giovanni Bosco, santo, 403 Giovanni Climaco, sogg. iconografico, 346 Giovanni della Croce, santo, 374 Giovanni di Ford, 14, 30 Giovanni II di Cîteaux, 246 Giovanni Battista, sogg. iconografico, 203 Giovanni d’Inghilterra, re, 150 Giovanni, vescovo di Piacenza, 104 Girona, 227 Giuliani G., 340; 340 Giulio II, 315 Giuseppe d’Arimatea, sogg. iconografico, 203 Giustiniani L., poi patriarca di Venezia, 313 Glasgow, 259 Gnadenthal, v. Hünfelden Godewaersvelde, Mont des Cats, 350, 364 Goffredo di Auxerre, 30 Golia, sogg. iconografico, 224; 226 Gonario II di Torres, 79 Gondi di Retz, 341 Gordes, Sénanque, 70-71, 190, 206, 350, 377; 29, 38 Gossolengo, Quartazzola, grangia, 272 Gotland, 159 Gotó/Honesta Vallis, v. Nova Gradisca Goudji, 206 Gouvert P., 395 Göz G.B., 334 Gozée, Aulne, 249 / grangia, 270 Gradefes, 138, 140, 142 / Santa María la Real, 130 Graiguenamanagh, Duiske, 147, 149, 273; 154 Grand-Pré, 259 Grandselve, v. Bouillac Grange A., 260 Greci, 276 Gregorio I Magno, 221, 226-227, 251, 256, 297, 309; 257 Gregorio IX, 168, 309 Gregorio XII, 313 Gregorio XIII, 316
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Gregorio XV, 316 Gregorio XVI, 322 Grey, 146, 149 Griffin J.H., 368 Groth B., 407 Großlittgen, Himmerod (Salmtal/Eifel), 75, 109, 192, 242, 326 Grüssau, 326 Guadalajara (Messico), 322 Guadalajara, (Nuova Castiglia), Santa María de Ovila, 128, 290, 399-400; 402 / Bonaval, 128 Gualdo Tadino, 314 Guardini R., 375 Guerrico d’Igny, 14 Guglielmo d’Aquitania, 309; 334 Guglielmo di Malmesbury, 11-12, 14, 297 Guglielmo di Saint-Thierry, abate di Clairvaux, 14, 17, 21, 26, 30, 76, 188 Gudbserga, v. Husby Haddington, 181; 179 Hahn H., 75 Hailes, 150, 153, 156, 239, 271 Haina, 115, 119, 124, 190, 211, 214 Hall J., 198 Ham Stratford, 274 Hankensbüttel, Isenhagen, 206 Hardehausen, v. Warburg Harding S., 11-12, 15, 17, 68, 188, 200, 223-224, 226, 251, 256, 297, 300, 310, 328, 376; 219, 226 Harold re, 224 Harsenwinkel, Marienfeld, 160, 242, 245 Hasledene, grangia di Kingswood, 272 Hautcrêt, 109 Hautecombe, v. Saint-Pierre-de-Curtille Haute-Garonne, dipartimento, 396 Haute-Marne, dipartimento, 295 Hauterive, v. Posieux Hauteseille, v. Cirey-sur-Vezouze Hearst W.R., 396, 398-400 Hedon, 274 Heiligengrabe, 196 Heiligenkreuz, 109, 112, 114-116, 118120, 165-166, 174, 214, 304, 337, 350; 198, 212, 340 Heilig-Kreuz, v. Rostock Heiligkreuztal, v. Altheim bei Riedlingen Heilsbronn, 124, 190, 192 Heimbach, Mariawald, 350 Heinrich II Jasomirgott, 337 Heinz Esser K., 75 Heisterback, v. Königswinter Helfta, v. Eisleben Helsingborg, Herrevad (Skåne), 157, 159 Hereford, 242 Herkenrode, v. Kuringen Herman di Riga, 198 Hermannstadt (odierna Sibiu), 173 Hermes, Froidmont, 246 Herrenalb, 32 Herrevad, v. Helsingborg Hervé, 377 Heves, Bélapátfalva (Tres Fontes de Bel) di Cletus, 173; 172 Hiddensee, 157, 160 Hilda, v. Eldena Himmelstätt, Mironice, 157 Himmerod, v. Großlittgen Hirsau, 186 Hoffmann P., 158 Hohenfurt, v. Budwies Holm Cultram, v. Abbeytown Holme, 157, 164 Holy Cross, v. Beverley-Meaux Hong Kong, 406 Hope W. St. John, 362 Hopkins G.M., 367 Hore, v. Cashel Hovedøya, v. Oslo Hradišt , v. Münchengrätz Huber F.M., 334 Huby M., 156 Hude, 157, 160, 190, 194, 214 Huerta, v. Santa María de Huerta Hünfelden, Gnadenthal, 248; 249 Husby, Gudsberga, 157 Hussiti, 330 Huysmans J.K., 352-353 Hyacinth, cardinale, 129 Iacobus de Pecoraria, abate di TroisFontaines, 168 Igny, v. Arcis-le-Ponsart Igris-Egres, 165-166, 168 Ihlow, 190 Ildegarda di Bingen, santa, 184 Inch, v. Downpatrick Ingrannes, La Cour-Dieu (Curia Dei), 14 Innocenzo II, 18, 79, 105, 276
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Innocenzo III, 104, 276, 311 Innocenzo VIII, 315 Iranzu, 289 Isaia, 231 Isenhagen, v. Hankensbüttel Ivanics, v. Klostar-Ivani Jacopo da Varagine, 305 Jaime I, 141 Jaime II, 141 Jaromar, 160 Jedin U., 312 Jehay, La Paix Dieu, 182; 184 Jensen J.O. (Jensen & Skodvin Arkitektkontor), 393, 412 Jerpoint, v. Thomastown Jervaulx, v. Middleham Johann II, 190 Johann, abate di Rostock, 198 John, conte di Shrewsbury, 356 Jörg Breu il Vecchio, 196 Jouy, v. Chenoise Julita, 248 Jully, 184 Jüterbog, Zinna, 112, 190 Kaisheim, 115-116, 190, 243, 332; 202 Kalocsa, 172 Kamiyunokawa Hakodate, Tenshien, 403 Kamp, 109, 120, 157, 242 Kappel am Albis, 109, 114-115 Kärkna/ Falkenau, v. Tartu Karlsruhe, Landesmuseum, 194 Kastl, 312 Kastner G. di Kaisheim, 202 Káz ov, grangia, 262 Kenzingen, Wonnental, 178, 305 Kerc (Kertz/Candela, odierna Cârwa), 172-173; 170-171 Kerniel, Mariënlof, 184 Kilcooly, 192 Kinder T.N., 10, 395 Kingsley Porter A., 297 Kingswood, 273 / grangia Calcot, 264 Kirkstall, 148, 151, 239, 246, 273; 240 / grangia Accrington, 265 Kirkstead, 149 Kline F., 410 Klostar-Ivani , Ivanics, 166 Klostermarienberg, Borsmonostor (Mons Sanctae Mariae), 166 Knardrup, 157 Kołbacz/Kolbatz, 157, 159, 161, 189, 192; 194, 266 / Kołbacz II, 164 Königswinter, Heisterbach, 116 Koningshoeven (Tielburg), 350, 357, 366 Körner, Volkenroda, 109 Koronow / Krone an der Brahe, 157, 160 Kraków, Mogiła, 248, 350 Kratzke C., 187; 198 Krzeszów/Grüssau, 330; 330; 334 Kuringen, Herkenrode, 189 Kutna Hora, Sedlec/Sedletz, 196, 260, 272, 330; 330 L’Aja, Koninklijke Bibliotheek, 306 L’Aumône, v. La Colombe L’Escale Dieu, v. Bonnemazon La Bénisson-Dieu, 207, 246 La Bussière, 72, 288, 296 La Chalade, 207 La Charité, v. Neuvelle-lès-la-Charité La Chaume, 295 La Colombe, L’Aumône, 145; 246 La Cour-Dieu, v. Ingrannes La Espina, v. Castromonte La Ferté, v. Saint-Ambreuil La Ferté-sur-Grosne, 310 La Grâce-Dieu, v. Benon La Juncería, 291 La Lugareja, 138, 140 La Maigrauge, Magerau, v. Fribourg La Meilleraye-de-Bretagne, Melleray, 350 La Oliva, Santa María la Real, v. Carcastillo La Paix Dieu, v. Jehay La Pierre-qui-vire, 376 La Real, grangia Esporles, 270 La Roque-d’Anthéron, Silvacane, 71, 377; 38, 67 La Romaine, 285 La Saule, 289 La Tourette, 378, 390, 392 La Trappe, v. Soligny-la-Trappe La Valsainte, 349 La˛d, 274 Ladislao, 330 Lafões, v. Sao Pedro do Sul Lambert E., 75 Landshut, Seligenthal, 182, 186; 184 Langres, 101, 293 Langheim, v. Lichtenfels
Lanoe G., 223 Lantao, Our Lady of Joy, 406 La-Petite-Forgeotte, 287 Largentier D., abate di Clairvaux, 320 Las Huelgas, 138, 125, 129, 141, 143, 186 / Santa María la Real, 130-135, 137 Las Piedras, 313 Latroun, 352 Laval, 393 Le Beugnon, 270 Le Calvaire, v. Rogersville Le Courbusier, Jeanneret-Gris C.-E., 75, 377-378, 390, 392 Le Désert, 350, 364 Le Dombes, v. Le Plantay Le Louroux-Béconnais, Pontrond, 246 Le Lys, v. Dammarie-lès-Lys Le Plantay, Le Dombes, 350, 352-353, 366; 352 Le Thoronet, 71, 74, 168, 239, 377-378; 38, 67, 240 Leandro di Siviglia, 226 Leaño M.C., 407 Leclercq J., 17-19 Le˛ czno, 260 Lee Dom Paulinus, 406 Lehnin, 112, 157, 242 Leisnig, Klosterbuch, Buch, 190 Lenoir A., 362 León, Carracedo, 128, 289, 292 / San Isidoro 224, 350 Leone III, 276 Leonor di Castiglia, 129, 141 Leopoldo VI, 337 Lérins, v. Cannes Les Dunes, v. Coxyde Les Écharlis, v. Villefranche Les Isles, Yonne, 274 Les Prairies, v. Manitoba Lestrange, 357 Leuven, 360 Levanger, Munkeby, 157, 164, 414 Li A., 403 Libanorio A., 101 Lichtenfels, Langheim, Santuario dei Quattordici Santi, 336 Lichtenthal, 203 Liébana, 227 Liesborn, 304 Liesse, 403 Lieudieu, Bonnevaux (Bona-vallis), 14 / grangia, 264 Lilienfeld, 109, 112, 114, 116, 119, 332, 337, 350; 330 / Stiftsbibliothec, 196 Lillich M., 207 Limoges, 256 Lincoln, 242 Lione, 12, 273, 352 Lisbona, 238 / Biblioteca Nacional, 238; 238 Lissewege, Ter Doest, 259, 265, 274; 266 / grangia, 268 Llandrinddod Wells, Cwmhir, 248, 270271 / grangia Mynachty, 261 Llangollen, Valle Crucis 147, 239, 249; 154, 240 Llanllŷr, 249-250 Llantarnam, 270 Loccum, 115, 124, 190, 194, 246, 265 Løgum, 157, 160; 158 Londra, 390 / St. Mary Graces, 153 / Victoria & Albert Museum, 202; 202 Longpont, 246 Longuay, v. Aubepierre-sur-Aube Lorean, ducato, 109 Lorenzo, santo, 270 Lorvão, 129 Louf Dom, 31 Loughborough, Garendon, grangia Burton, 261 Louisville KY, 370 / Bellarmine University, Thomas Merton Center, 370, 373 / Catherine Spalding College, 368 Loysier J., abate di Cîteaux, 315 Luaces J.Y., 223 Luagnasco, 261 Lubecca, Sankt Marien, 161 Lubi/Leubus, 194, 245, 259, 332 Luca evangelista, 179 Luce C.B., 381 Luce H.R., 381 Lucedio, v. Trino Lucelle, v. Charmoille Lucio III, 276 Ludovico il Moro, 315 Luigi VII di Francia, 165, 248 Luigi XIV, 341, 344 Lunde, 158 Lussemburgo, dinastia, 112 Lutz S., 190; 192 Lützel, 109 Luzzi, Sambucina (già Santa Maria Re-
quisita), 276 / Sant’Angelo del Frigillo, 276 / Santa Maria de Archelao, 276 / San Nicola de Pineto, 276 / Santa Maria de Cardeplano, 276 / Sant’Elia, 276 / San Nicola de Mucone, 276 / Santa Maria di Ponticelli, 276 / San Nicola de Oscata, 276 / San Demetrio, 276 / San Giovanni de Monticellis, 276 / Santa Rosalia, 276 / Santo Stefano de Vergari, 276 Lysekloster, 157, 164; 158 Mabillon, 347 Macerata, Chiaravalle di Fiastra, 322 / Santa Maria dei Lumi a San Severino Marche, 322 Madrid, 396; 26 / Museo del Prado, 26 Mafalda, figlia di Sancho I, 129 Magerau/Maigrauge, 196 Maginfredus de Ozeno, 101 Magonza, 75 Maintenay di Valloires, 72 Maître C., 251 Maizières, v. Saint-Loup-de-la-Salle Malachia, santo, 238 Mâle E., 377 Malham Moor, 273 Maltby, Roche, 149, 151 Mamante, 231 Manfredi, 277 Manfredo di Saluzzo, 386 Manhattan, Cloisters Museum, 402 Manitoba, Prairies Abbey, 350, 406 Manrique A., 125 Mant, Pontaut, 395; 396-397 Marcella, 227 Marches-les-Dames, 179 Margam, 145, 147, 151, 246, 248, 250, 259, 268, 270; 147, 154-155, 247 Margaret, santa, 186 Margherita di Danimarca, regina, 196, 214 Margherita, figlia di Luigi VII di Francia, 165 Maria Egiziaca, sogg. iconografico, 346 Maria Vergine, 24, 31, 188, 200, 336, 407 – sogg. iconografico: 189, 192, 194, 196, 202-203, 231, 249, 305, 323, 328, 330; 18, 179, 231, 324 Mariawald, v. Heimbach Marienfeld, v. Harsenwinkel Mariënkrooon, 350 Marienstatt, v. Streithausen Marienstein, 194 Marienstern, v. Panschwitz-Kuckau Maritain J., 367 Jouet, 272 / grangia Raymond, 272 Marmosolio, v. Cisterna di Latina Marne, Bonnefontaine, 285 / Trois-Fontaines, 165-166, 168, 285, 287-288 Marsberg, Bredelar, 245 Marsiglia, San Vittore, 71 Martín de Vargas, 313 Martino V, 313 Marx K., 378 Mastiles Lane, 273 Matallana, v. Montealegre Maubuisson, v. Saint-Ouen-l’Aumône Mauchenheim, Paradies, 248 Maulbronn, 114-116, 120, 124, 189, 192, 194, 243, 337; 123 Maur Cocheril P.M., 125 Maurizio, santo, 270 Mazarino, 341 Mazères, Boulbonne, 290, 400 Meaux, 145, 150, 202, 260, 264, 274 / grangia Saltagh, 274 / Holy Cross, 156, 202 Meclenburgo, Mecklenburg, 188, 196, 211 Medingen, v. Bad Bevensen Mehrerau, v. Bregenz Meira, 128-129, 132, 140, 142 / Santa María, 126 Melano E., 356 Melleray, v. La Meilleraye-de-Bretagne Mellifont, v. Collon Melón, 132, 140 Melrose, 147, 153, 156, 247; 154-155 Mendicanti, ordini, 312 Menetou-Couture, Fontmorigny, 274 / grangia Andres, 272 / grangia Givry, 272 / grangia Jouet 272 Mepkin, Clare Booth Luce Library, 244 Merci-Dieu, 194 Merton O., 370 Merton T., 367-369, 379-381, 410; 373, 410 Messina, Santa Maria di Roccamadore, 322 Metz, 12, 251, 256 Meymac, 72 Miami Beach, San Bernardo di Clairvaux, 398; 397
Michaelstein, 109, 119, 124 Middleham, Jervaulx, 150; 155 Milano, 12 / Chiaravalle Milanese, 70, 79, 101, 315-316, 322, 375 / grangia Valera di Chiaravalle, 261, 271 / Ospedale Maggiore, 101 / Sant’Ambrogio, 101, 315 Millot, 289 Milmande, grangia, 268 Milton Combe, Buckland, 247-248 Milwaukee, 368 Mistassini, v. Dolbeau-Mistassini Mitsuishi, Phare, 352 Mogiła, v. Kraków Mohács, 174 Molesmes, 12 Momo M., 386 Monaci Bianchi, v. Cisterciensi Monaci Grigi, v. Francescani Monaco, Sankt Michael, 323 Moncada Cárdenas B., 381 Mondovì, Santa Maria, 322 Monfero, 128 Monsalud, v. Corcoles Mont des Cats, v. Godewaersvelde Montanari A., 21 Montbazon, 341 Montealegre, Matallana, 128 Montebracco, Certosa della Trappa, 386 Montecassino, 275, 309 Montesion, 144, 313 Montevergine, 275 Montheron, v. Froideville Montigny-lès-Cherlieu, Cherlieu, 109, 295 Montjoyer, Aiguebelle, 72, 350, 353, 364; 216, 364 / grangia Fraysinnet, 268, 270 Montrivello, Santa Maria, 322 Moravia, margraviato, 109 Moreruela (Zamora), 125, 140, 142, 292 Morgan J.P., 396 Morimond, v. Fresnoy-en-Bassigny Morimondo, 101, 375 / grangia, 262, 264 Morpeth, Newminster, 245, 247 Mortimer S., 212 Mosè, sogg. iconografico, 231 Mount Melleray, v. Cappoquin Mount Sankt Bernard (Koningshoeven), 350, 356, 362, 366; 360-362 Mountjoy, 129 Muguet, 347 Muir E., 367 Mullany J., 356 Münchengrätz, Hradišt, grangia, 272 Munières, (Fontenay), 295 Munkeby, v. Levanger Münster, 160 Murel (Carrascosa), 290 Nabucodonosor, 226 Namedy, 211 Napoleone III, 352 Narbonne, Fontfroide, 128, 260, 268, 350; 38, 268 / grangia Gaussan, 268 Naumburg, 259 Nazareth, abbazia, 176 Neath, 153, 239, 246, 265; 155 / grangia Monknash, 261; 240, 260 Negenborn, Amelungsborn, 109, 112, 192, 214, 305; 194 Netley, 150; 155 Neuberg, 120 Neuenkamp, v. Franzburg Neufchâtel-en-Saosnois, Perseigne, 342, 344, 346 Neukloster, 189, 214, 350 Neumann B., 336 Neunhertz G.W.J., 330 Neuvelle-lès-la-Charité, La Charité, 285, 293 Neuw Dala, 322 Neuzelle, 203, 326 Neveklov, Nostra Signora della Moldava/ Naší Paní nad Vltavou, 394 New Melleray, 352, 356, 366 New Orleans, 368 New York, 398; 370 / Cloisters Museum, 395; 396-397 / Columbia University, 367 / Metropolitan Museum, 395-396 / St. Bonaventure University, 367 Newbattle, 273 Newminster, v. Morpeth Niccolò V, 313 Nicodemo, sogg. iconografico, 203 Nicola II Boucherat, 316, 320 Niederschönenfeld, 326 Nieuwpoort, 248 Noirlac, v. Saint-Amand-Montrond Norimberga, 192 Normanni, 275 Norton C., 211 Nostra Signora della Moldava/ Naší Pa-
ní nad Vltavou, v. Neveklov Nostra Signora di Guadalupe, v. Città del Messico Nostra Signora di Nazareth, comunità, 407 Nostra Signora di Novy Dvůr, v. Toužim Nostra Signora di Redwoods, v. Whitethorn Notre-Dame des Neiges, 350 Nova Gradisca, Gotó/Honesta Vallis, 168 Nydala (Småland), 157, 159 Nyon, Bonmont, 109, 112, 116; 116 O’Rourke T., 202 Oakham, Oakham School, 367 Obazine, (Bas-Limousin), 72, 207, 214, 256; 202, 212, 288 / grangia Graule, 259 Oberschönenfeld, v. Gessertshausen Óbuda, 172 Odenthal, Altenberg, 109, 115-116, 118, 189-190, 194, 214, 243, 245, 259, 305; 120, 212 / grangia Eppinghoven, 268 Oelenberg, v. Reiningue Ohrdruf, Georgenthal, 116 Oia, v. Arrabal Oka, 350, 366 Øm, 157, 159, 259 Ombelina di Mariënlof, 184 Onorio III, 276 Orderico Vitale, 297 Ordine cisterciense, v. Cisterciensi Ordine Teutonico, 164 Oreglia d’Isola A., 386 Oreglia d’Isola, famiglia, 383 Orsini G. di Farfa, 312 Orval, 366; 364 / grangia Prouilly, 262 Oseberg, 413 Oseira, 125, 140, 144 Osek/Ossegg, 120, 260, 350 Oslo, 412 / Hovedøya, 157, 196 Osnabrück, 160 Ostia, 276 Otero de las Dueñas 129 Othe, 295, 295 Ottone di Frisinga, 14, 109 Ottone I, 112 Our Lady of Joy, v. Zhengdinfu Oursel C., 223, 227 Ouveillan, Fontcalvi, grangia, 268 Ovidio Nasone, Publio, 28 Ovila, v. Guadalajara Ozleworth, 273 Pacheco F., 322 Padis (Padise)/Tallin, 157, 164 Padova, Santa Giustina, 313 Paganelli P.B., papa Eugenio III, 105 Palatium della Grangia de Laureto, Castel Valentino, 277 Palazuelos, v. Cabezon Pallavicino O., 103 Palma di Maiorca, cappella dei Templari, 305; 306 / Museo de Mallorca, 306 Pamplona, Archivio general de Navarra, 238 Panschwitz-Kuckau, Marienstern, 186 Paolina, santa, 186 Paolo II, 315 Paolo di Tarso, santo, 31-32, 105, 233; 184 Paradies, v. Mauchenheim Parigi, 222-223, 395; 342 / Collège Saint-Bernard, 222, 240 / Museo Jacquemart-André, 202 / Bibliothéque Nationale, 79 Park D., 211 Parziale E., 276 Passau, 328 Pasternak B., 367 Pásztó, 166, 169 Pavia, 392 Pawson J., 386, 392 Pearson O., 367 Pearson P.M., 367 Pearson R., 367 Peasenhall, Sibton, 146, 265, 273 / grangia North, 261, 265, 271 Pechino, Grande Muraglia, 403 Pederneira, 248, 291 Pedro I, 141 Pedro III, 141 Pedro IV, 141 Pehlitzwerder, Mariensee, 160 Pelayos, 290 Pelplin, 157, 160, 189; 162 Pendtner R., 330 Perche, 347 Pérez-Embid J., 72, 285 Perseigne, v. Neufchâtel-en-Saosnois Perugia, San Giovanni e Bernardo, 322 / Santa Maria Val di Ponte, 322 Péter, comes, 172
Pétervárad (Belae Fons, odierna Petrovaradin), 166, 168, 172 Petit-Clairvaux (Canada), 350 Pforta, v. Bad Kösen Phare, v. Mitsuishi Piacenza, 103, 272 Piedra, 289 Pierre di Fontgombault, 377 Pietravairano, Ferraria, 276 / Sant’Angelo di Raviscavina, 276 / Santa Maria del Matese, 276 / San Gregorio di Montepedaculo, 276 / Santo Spirito sul ponte al Volturno, 276 / Santa Maria di Piedimonte, 276 / Santa Patenara, 276 / San Tiferno, 276 / Santa Maria de Ortulis, 276 / Torrepalazzo, 276 Pietro il Venerabile, 300 Pietro Leopoldo, duca della Toscana, 316 Pietro, abate di Cîteaux, 165 Pilis/Pilisszentkereszt, 165, 166, 168, 172-174, 264 Pio IV, 322 Pio IX, 105, 320 Pio V, 316 Pio VI, 283 Pio VII, 322 Pio XII, 377, 403 Pipernum, 278 Pipewell, grangia Braybrooke, 264 / grangia Causton, 262, 264 Plancherne, Tamié, 202, 350, 403 / grangia, 263 Plasy/Plass, 259-260, 262, 270, 326, 333 / grangia Káz ov (Kaznejov), 264, 268 / St. Marienstern, 326; 326 Plénée-Jugon, Boquen, 202 Poblet, 73, 125, 128, 140-142, 268, 282, 289; 24, 240 / Santa Maria, 68 Pomarancio (Niccolò Circignani), 322 Pomerania, ducato, 109 Pomerolo, 261 Ponç de Copons, 268 Ponce Maria, figlia di Ponce de Minerva, 129 Pontaut, v. Mant Pont-aux-Dames, v. Couilly-Pont-auxDames Pont-de-l’Arche, Bonport, 150, 260 Pontigny (Pontiniacum), 14, 17, 68, 70, 72, 79, 116, 149, 160, 165-166, 188, 190, 207, 223, 231, 248, 263, 270, 285, 288, 293, 295, 310, 395, 412; 38, 212, 287 / Pontigny II, 160 / Crecy, grangia, 270 Pontrhydfendigaid, Strata Florida, 149, 249; 154 / grangia Morfa Bycham, 272 / grangia Morfa Mawr, 272 Pontrond, v. Le Louroux-Béconnais Porcher J., 223 Pornóapáti, Pornó, 168-169 Porro G., 101 Port-du-Salut, Entrammes Porter A.K., 101 Posieux, Hauterive, 109, 114, 116 Pouillon F., 377 Pozsony, v. Bratislava Pra’d Mill, v. Bagnolo Praga Nové M sto, Sant’Ignazio, 326 Praga, castello, 330-332 Predicatori, ordine, v. Domenicani Předklásteří Tisnov/Tischnowitz, PortaCoeli di Předklásteří, 189 Premislidi, 112 Premostratensi, congregazione monastica, 311 Preuilly (Prulliacum), v. Égligny Pribislav, duca, 112 Principia, sogg. iconografico, 227 Priverno, Fossanova, 70, 72, 79, 276278, 282-283; 278-279 / grangia maggiore, 275 / Procaria, santa, 270 Proupiary, Bonnefont, 396; 24, 397 Provincia lombarda, 322 Provincia romana, 316 Provincia toscana, 316 Pseudo-Bernardo, 305 Puccinelli A., 101 Pugin A.W.N., 362, 366; 360 Puricelli G.P., 101 Quarr, v. Binstead Quartazzola, v. Gossolengo Radegonda, santa, 270 Radmos, 259 Rainardo di Bar, abate di Cîteaux, 14 Raitenhaslach, v. Burghausen Ramirez-Weaver E., 72, 128, 207 Rani, popolo, 160 Ranun Vitskøl, 157, 159-160 Raoul de Hautecombe, 246 Rathausen, v. Ebikon Raynard de Bar, 300, 304
Raynaud J.P., 214; 60 Real M.L., 141 Redditch, Bordesley, 147 Redwoods, v. Whitethorn Régamey P.-R., 377, 378 Regno del Portogallo, 125 Regno di Boemia, 109 Regno di Castiglia León, 125, 128-129, 140 Regno di Francia, 109 Regno di Ungheria, 165 Regno Ungheria e di Polonia, 109 Reigny, v. Vermenton Rein/Graz, 78, 109, 174, 192, 214, 350 Reinfeld, 157; 246 Reiningue, Oelenberg, 364 Reuther R.R., 368 Revello, 383 / Staffarda, 79, 261, 383 / grangia Luagnasco, 260 Reversby, 273-274 Ricardon J., 214 Riccardo conte de Sangro, 276 Richard di Louth Park, 263 Richardis, 196 Richelieu, cardinale, 320, 341 Riddagshausen, v. Braunschweig Rievaulx, 70, 145-148, 150-151, 153, 156, 190, 245-246, 248; 154-155 Riga, Daugavgriva (Dünamünde), 157, 164 Rigaud H., 342 Rioseco, 128 Ripoll, 73 Ripon, Fountains, 71-72, 145, 147-148, 150-151, 153, 156-157, 190, 202, 239, 246, 261, 271; 67, 71 / grangia Bradley, 263 / grangia Kilnsey, 273 Roberto di Molesmes, 11-12, 17, 35, 190, 287, 310, 328; 219 Robertsbridge, 146, 248; 249 Robinson D.M., 145 Rocamadour, 72 Roche, v. Malby Rochefort, 350, 366 Rockefeller J.D., 395 Rodríguez di Sarria Á., 132 Rogersville, Le Calvaire, 352 Roma, 18, 157, 224, 275, 311, 344 / Biblioteca Angelica, 231; 233 / Sant’Anastasio alle Tre Fontane, 276 / San Bernardo alle Terme, 322; 314 / San Paolo alle Tre Fontane, Roma, 105, 350; 108 / San Paolo fuori le Mura, 105 / San Saba, 322 / Santa Croce in Gerusalemme, 312, 316, 322; 318-320 – cappella di Sant’Elena, 322 / Santa Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano, 322 / Santa Maria Scala Coeli, 105; 108 / Santa Susanna, 314 / Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, 70, 79, 105; 108 Romanini A.M., 75-76, 223 Roscrea, 350, 356 Rosell I.; 158 Roskilde, 159 Rosnalvan, Baltinglass, 271 Rostock, 248 / Heilig-Kreuz, 178, 196; 179, 249 / Sankt Marien, 161 Rottmayr J.M., 340 Roy J., 410 Royaumont, v. Asnière-sur-Oise Rudolph C., 226 Rueda, 128, 289 Rüffer J., 109 Ruffin J.-C., 243 Rufford, 156 Rügen, isola, 160 Ruggeri C., 392 Rulle/Osnabrück, 186 Rushen, v. Cross Four Ways Ryd (Guldholm), 157 S. Eleuterii, v. Cisterna di Latina, Marmosolio S. Mariae de Marmosole, v. Cisterna di Latina, Marmosolio S. Romani, cappella, v. Cisterna di Latina, Marmosolio Sabina, 312 Sacra Congregazione della Riforma, 322 Sacramenia (Segovia), 125, 128, 132, 143, 398, 400; 397 Sacro Romano Impero, 109 Saddell, 14 Saint Albans, 202 Saint-Amand-Montrond, Noirlac, 70, 207, 214; 60, 67 Saint-Ambreuil, La Ferté (Firmitas), 14, 17, 68, 70, 79, 188, 386 Saint Benoît en Woëvre, 265, 268 / grangia Bouzonville, grangia, 268, 270 Saint Coeur de Marie, congregazione, 207 Saint-Denis, 24, 36
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Saint Leonard, grangia Beaulieu, 264 Saint Louis, 368 Saint-Loup-de-la-Salle, Maizières, 288 Saint Omer, Bibliothèque Municipale, 287 Saint-Simon, duca di, 341 Saint-Sulpice, 378 Sainte-Justine (Canada), 350 Salem, 116, 186, 194, 243, 333, 340 Salisbury, 242 Salomone, 28 Saint-Maurice-sur-Aveyron, FontaineJean, grangia, 264, 296 Saint-Ouen-l’Aumône, Maubuisson, 72, 288 Saint-Pierre-de-Curtille, Hautecombe, Altacomba, 72, 273, 322, 350, 356, 366; 352 / grangia, 71 Sambucina, v. Luzzi Sampaio C., 203 Samuele, sogg. iconografico, 224 San Andrés de Arroyo, 129, 134, 138, 140, 142-143 San Clodio, Galizia, 128 San Demetrio, v. Luzzi, Sambucina San Domenico, v. Sora San Francisco, 400, 407 / De Young Museum, 402 – De Young Museum Society, 402 / University of San Francisco, 402 San Giovanni de Monticellis, v. Luzzi, Sambucina San Gregorio di Montepedaculo, v. Pietravairano, Ferraria San Martín de Valdeiglesias, San Juan Bautista, 290 San Martino nel Cimino, 79 San Nicola de Muchone, v. Luzzi, Sambucina San Nicola de Oscata, v. Luzzi, Sambucina San Nicola de Pineto, v. Luzzi, Sambucina San Paolo del Brasile, San José do Rio Pardo, 322 San Nicolò del Lido, v. Venezia San Pedro della Cardeña, v. Castrillo del Val (Burgos) San Severino Marche, San Lorenzo in Doliolo, 322 / Santa Maria dei Lumi, 350 San Simeon, 396 San Tiferno, v. Pietravairano, Ferraria San Vicente (Asturie), 259 San Vincenzo al Volturno, 275 Sancha, figlia di Sancho I, 129, 227 Sancho I, 129 Sandoval, 128, 143 / Santa María, 130 Sankt Urban, 109, 243 Sant’Angelo di Raviscavina, v. Pietravairano, Ferraria Sant’Angelo de Frigillo, v. Luzzi, Sambucina Sant’Elia, v. Luzzi, Sambucina Santa Barbara, 368 Santa Cruz de Juarros, Bujedo de Juarros, 289 Santa Maria de Archelao, v. Luzzi, Sambucina Santa Maria de Cardeplano, v. Luzzi, Sambucina Santa María de la Vega, 138 Santa María de Huerta, 125, 128, 132, 141-142, 144, 238, 290; 137, 141 / Cántabos, 290 Santa Maria de Ortulis, v. Pietravairano, Ferraria Santa Maria dei Lumi, v. San Severino Marche Santa Maria del Matese, v. Pietravairano, Ferraria Santa Maria del Sagittario, v. Chiaromonte Santa Maria della Colomba, v. Alseno, Chiaravalle Santa Maria di Piedimonte, v. Pietravairano, Ferraria Santa Maria di Ponticelli, v. Luzzi, Sambucina Santa Maria tra Monti, Il Conventuccio, 277 Santa Patenara, v. Pietravairano, Ferraria Santa Rosalia, v. Luzzi, Sambucina Santes Creus, 125, 128, 132, 141-143, 189, 196, 211, 214, 233, 282; 198, 212 Santiago de Compostela, 132, 140 Santini-Aichel G., 326, 333; 326 Santo Domingo de la Calzada, 140 Santo Spirito sul ponte al Volturno, v. Pietravairano, Ferraria Santo Stefano de Vergari, v. Sambucina Sao Pedro do Sul, Lafões, 125 Saul, re, 224 Saulnier F., 223
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Saulon-la-Chapelle, 287 Savigny, v. Savigny-le-Vieux Savigny-le-Vieux, 145, 147, 265, 272 Sawley, 156 Sawtry, 274 Schirmer M., 340 Schlie, 158 Schlierbach, 326, 328, 350 Schmerlenbach, 194 Schmid P., 323, 324 Schönau, 112, 119, 124 Schönberg A., 251 Schöntal, 243 Schuster A.I., 322 Schütz B., 67 Schweidnitz-Jauer, duchi di, 330; 330 Schwerin, 161 Scourmont, v. Forges Sebastiano, santo, 202; 202 Sedlec/Sedeltz, v. Kutna Hora Sées, 344 Seignol Dom E., 403 Seligenthal, v. Landshut Sénanque, v. Gordes Senlis, 272 Sensi M., 309 Sept-Fons, v. Diou Sermoneta, Valvisciolo, 320 Settimo, San Salvatore, 312, 314, 315, 320 Sévy, 295 Sforza Ascanio, 315 Sforza Francesco, 315 Sforza Ludovico detto il Moro, 314 Sforza, dinastia, 315 Sharpe E., 362 Sherborne, 224 Shuili, Taiwan, Mother of God, 403 Sibton, v. Peasenhall Siena, San Salvatore del Monte Amiata, 322 Silvacane, v. La Roque-d’Anthéron Silvanès, 102 Simone, sogg. iconografico, 184 Sindia, Cabuabbas, 79 Sisto IV, 314 Sisto V, 316, 322 Sittichenbach, 285 Skodvin B., 393 Slavi, popolo, 112 Slesia, ducato, 109 Sobrado dos Monxes, 125, 128, 142 Solesmes, 224 Soligny-la-Trappe, La Trappe/Grand Trappe, 202, 206, 320, 341-342, 344-345, 347-348, 350, 357, 362, 366; 342, 347, 350, 360 Sankt Marienstern, v. Plasy Sankt Urban, 326; 334 Staffarda, v. Revello (Cuneo) Sonnefeld, 194 Sora, San Domenico, 275-276, 320, 350 Sorø / Sjaelland, 157, 159, 190, 248; 158 Soukup, 390 Sowley, 274 Spencer, 366 / Nostra Signora della Valle, Our Lady of the Valley, 352, 381 Stams, 265, 326, 330 / grangia, 270; 334 Stanley, v. Bremhill Staouëli, 352 Stato Pontificio, 316 Staufer, stirpe, 109 Stefano di Obazine, 192 Steinfels J.J., 326 Stephen of Lexington, 222 Sti na, 304 Stirt, grangia Myddelhoo, 272 Stolpe, 157 Stoneleigh, 156 Strasburgo, 245 Strata Florida, v. Pontrhydfendigaid Strata Marcella, v. Welshpool Stratford Langthorne (Middlesex), 246 Stratford N., 223, 274 Stratford-atte-Bow, 274 Streithausen, Marienstatt, 116, 194, 200, 211, 350 Studio Trump & sable di Eureka, 410 Sugero di Saint-Denis, 24, 36, 188 Sulejów/Koprzywnica, 173, 260 Surchamp Dom Angelico, 376-377 Svevi, 275, 277 Sweetheart, 153 Swineshead, 248 Szczecin/Stettino, 192 / Museo Nazionale, 192; 194 Szczyrzyc, 350 / grangia Abramowice, 271 Szentgotthárd, 165, 169, 174 Szepes (Sancta Maria de Scepusio, odierna Ytiavnik), 173 Taiwan, 406 Tallahassee, Fine Arts Museum, Florida State University, 399 Talsarn, 250
Tamié, v. Plancherne Tarouca, 125, 128 Tarracina, 278 Tarragona, 233 / Biblioteca Pública, 233 Tarrant, 186 Tart, 175 / Notre-Dame de Tart, 316 Tartlau/Prejmer (Kronstadt/Brasov), 173 Tartu, Kärkna/ Falkenau, 157, 164; 158 Tatari, 168, 172 Tautra, v. Frosta Te Riele G., 357 Tegelen, 350, 357, 366 Tenshien, v. Kamiyunokawa Hakodate Teobaldo, abate, 245 Ter Doest, v. Lissewege Ter Duinen, v. Coxyde Teresa, figlia di Sancho I, 129 Tessier A., 357 Thame Abbey, 202 Thomastown, Jerpoint, 192, 270 Thome M., 323, 337 Thumb P., 336 Tiglieto (Campo Ligure), 79 Tilburg (Koningshoeven), 244; 240 Timadeuc, v. Bréhan Timoteo di Giannino, 314 Tintern, 145-146, 151, 153, 246, 270, 273-274; 155 / grangia Merthyr-gerain, 265, 272 / Porthcaseg, 273 Tiraqueau E., 316 Tobetsu, 403 Toledo, 129, 238 / Museum of Art, 395 / San Clemente, 129 Tommaso d’Aquino, 279 Toplica (odierna Topusko), 166 Torino, Santa Maria della Consolata, 322 Torrepalazzo, v. Pietravairano, Ferraria Toubert H., 78 Tournai, 265 Tours, 341 Toužim, Nostra Signora di Novy Dvür, 206, 383, 387, 390, 392; 386-388, 391 Trento, concilio di, 312, 315, 323 Trillo, 290 Trinci, signori di Foligno, 312 Trino, Lucedio, 79 Trois-Fontaines, v. Marne Trondheim, 411 Trouvé Dom F., 316 Troyes, Bibliothèque Municipale, 12 Tubinga, conti palatini, 112 Tulebras (Navarra), 128, 140 Turchi, 174 Tuulse A., 158 Tvis, 157 Ubexy, 403 Ughelli F., 103, 316 Ugo di Lione, 12 Ugo, cardinale di Ostia e Velletri, 276 Uhldingen-Mühlhofen, Birnau, 336; 334 Urbano II, 11 Urbano VIII, 316, 320 Usher B., 407, 410 Utah, Trinity Abbey, 406 Vaes H., 366 Vaglia-Bivigliano, Buonsollazzo, 320 Valbuena, 125, 128, 132, 142, 144, 289 / Santa María, 126, 141 Valdediós, 128, 292 Valdeiglesias, 128 Valdieu, v. Aubel Vale Royal, v. Whitegate Valence-sur-Baïse, Flaran, 38, 60 Valencia, 268 Valle Crucis, v. Llangollen Vallores, Argoules Valréas, 268 Valserena, 381 Val-St.-Georges, 249 Valter I., 166 Valvisciolo, v. Sermoneta Varnhem/Västergötland, 157, 160; 158 / Varnhem II, 160 Vasi G.; 108, 314 Vaucelles, 243 Vaulerent, 266 Vauluisant, v. Courgenay Vega, famiglia, 144 Velehrad, 268 Venceslao II di Boemia, 114 Vendi, popolo, 109 Venezia, priorato di San Giorgio in Alga, 313 / San Nicolò del Lido, 313 Vera de Moncayo, Veruela (Aragona), 125, 128, 140, 143 Véretz, 341 Vermenton, Reigny, 289, 291 Versailles, 341 Veruela, v. Vera de Moncayo Veszprém, Veszprémvölgly (Vallis Vesprimiensis), 166, 168 Viaceli, Trappa, 362; 362
Vienna, Nostra Signora degli Scoti (Schottenkirche), 337 / Osterreichische Nationalbibliothek, 78, 200; 212 Vileña, 129 Villamayor de los Montes, 141 Villefranche, Les Écharlis, 243 Villelongue, 297; 299 Villers-Bettnach, 190, 268, 296, 326 / Villers-la-Ville, 72 Ville-sous-la Ferté, 285 Vina, New Clairvaux, 402, 407; 402 Viollet-le-Duc E., 362 Vitorchiano, 381 Vitreux, Acey, (Locus Accintus), 165, 168, 214, 288, 350 Vitskøl, v. Ranun Volkenroda, v. Körner Voltaire, Arouet F.-M., 348 Von (Mecklenburg) Werle H., 190 Von Balthasar H.U., 375 Von Eberbach K., 157 Von Heisterbach C., 328 Von Heisterbach H., 328 Von Lilienfeld U., 196 Von Schwerin B., 112 Von Waldstein S., abate di Rein, 174 Vona I., 72, 275 Vyšší Brod/Hohenfurt, 119, 194, 350 Waldsassen, 243, 326, 328, 336, 350; 325, 334 Walkenried, 109, 119-120, 192, 265; 120 Warburg, Hardehausen, 109, 196, 246 Warden, 156, 202, 246, 272 Washford, Cleeve, 147, 151, 156, 239 Washington, 368 Wassy, 293 Waverley, 145-146, 150-151, 164, 246; 155 Wa˛ chock, Camina, 173 Weichselberger G., 340 Weiler-Bettnach, 109 Welby Northmore Pugin A., 356 Welshpool, Strata Marcella, 249 Wertheim, Bronnbach, 119, 242 Westmalle, 349-350, 352, 357, 364, 366, 407; 360 Westvleteren, 366 / Saint-Sixte, 350, 357 Wettin, dinastia, 112 Wettingen, 189, 214, 243, 323-326, 328; 247, 324, 334 Whalley, 153 / grangia Stanlaw, 264 Whitegate, Vale Royal, 153, 214 Whitethorn, Nostra Signora dei Redwoods (delle Sequoie), 381, 407, 410; 410 Whitland, 145, 147; 154 Wichmannsburg, 184 Widukind, 246 Wienhausen, 178, 180-182, 186, 189, 194, 196, 203, 214; 178, 194 / Cappella di Sant’Anna, 178 Wilhering, 350, 326 Williams D.H., 72, 245, 259 Winchester, 145 Wintney, 181 Wismar, Sankt Nikolai, 161 Wonnental, v. Kenzingen Worcester, 242 Worms, 109, 337 Wrentham, 381, 393 Württemberg, 305 / cappella di Owen, 305 Ximénez de Rada R., 238 Xunqueira de Espadañedo, 128 Yangjiaping, Our Lady of Consolation, 352, 403; 404 Yonne, Vauluisant, 285 York, 242 Young M.T., 403 Zaccaria, profeta, 309 Zakin H., 207 Załuska Y., 223, 231, 300 Zamet S., 316 Zaunagg M., abate, 243 Zbraslav/Königsaal, 112, 194, 340 / grangia, 271 Zenone, santo, 105 Zhengdinfu (Pechino), Our Lady of Joy (Liesse), 403, 406; 405 Zick J., 326 Zinna, v. Jüterbog Zirc, 165, 168, 174, 350; 168-169 Zlatá Koruna/Goldenkron, 119, 194 Zoccolanti di Foligno, 312 Zoller A., 334 Zukofsky L., 367 Zundert, 350 Zwettl, 109, 114, 116, 118-120, 190, 192, 196, 242-243, 304-305, 308, 332, 337, 350; 300, 330 / grangia Retschen, 272 / Siftsbibliothek, 300