IRAQ. ART FROM ANCIENT MESOPOTAMIA TO ISLAM

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IRAQ L’ARTE DALL’ANTICA MESOPOTAMIA ALL’ISLAM


GIOVANNI CURATOLA, JEAN-DANIEL FOREST, NATHALIE GALLOIS, CARLO LIPPOLIS, ROBERTA VENCO RICCIARDI

IRAQ L’ARTE DALL’ANTICA MESOPOTAMIA ALL’ISLAM Introduzione di DONNY GEORGE Direttore Generale delle Antichità dell’Iraq A cura di GIOVANNI CURATOLA


Indice

Introduzione Donny George p. 7

© 2021Editoriale Jaca Book Srl, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana Settembre 2006

I testi di Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois sono stati tradotti dall’originale francese da Ida Bonali Si ringrazia il Nucleo del Patrimonio Artistico dei Carabinieri per aver messo a disposizione alcuni materiali fotografici relativi ai siti archeologici della provicia del Dhi Qar

L’arte mesopotamica: architettura e arti plastiche dalle origini alla fine del III millennio Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois p. 13 L’arte mesopotamica: architettura e arti plastiche dall’inizio del III millennio alla caduta di Babilonia Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois p. 65 L’Ellenismo in Mesopotamia Carlo Lippolis p. 97 Parti e Sasanidi Roberta Venco Ricciardi p. 115

Copertina e grafica Jaca Book / Alessandra Prina Stampa e legatura Tipolitografia Pagani Srl Passirano (BS) giugno 2021

Il periodo islamico Giovanni Curatola p. 149 I siti dell’arte mesopotamica e irachena p. 209

ISBN 978-88-16-60652-4 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146Milano; tel. 02 48561520 - 342 5084046 libreria@jacabook.it; ebook: www.jacabook.org Seguici su

Note e Bibliografia p. 273 Indice dei luoghi e dei monumenti p. 277

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Introduzione

NOTA TECNICA I riferimenti tra parentesi quadre all'interno del testo, nella forma [fig. XX], rinviano alle immagini a colori di oggetti e monumenti disposti lungo il testo; quelli con un nome di luogo e un numero [Assur 4], rinviano alle immagini in bianco e nero della sezione “I siti dell’arte mesopotamica e irachena”, alle pagine 209-272.

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Tracciare un profilo dell’arte espressa dalla civiltà mesopotamica, la cultura sviluppatasi nella “Terra fra i due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate, è un’impresa allo stesso tempo ardua e necessaria. Ardua perché un’intera biblioteca è stata dedicata all’argomento sin dai primi scavi archeologici ottocenteschi, rivelando al mondo quella che non a caso è stata definita la culla della civiltà stessa, la sua organizzazione statuale, economica, politica e i riflessi che tutto questo ha avuto nell’espressione artistica delle nostre genti. Necessaria, invece, perché i più recenti ritrovamenti archeologici, le nuove scoperte, l’approfondimento delle conoscenze nel settore necessitano di continue puntualizzazioni e precisazioni che contribuiscono a gettare nuova luce su un insieme che rapidamente evolve, rendendo più dettagliato e comprensibile il quadro complessivo. E questo è tanto più vero quando si esaminano le successive stratificazioni culturali avvenute in Mesopotamia, tenendo conto della continuità di insediamento verificatasi nel corso dei millenni in questa terra. L’approccio necessario è dunque non solo multidisciplinare, ma anche aperto all’analisi dei fenomeni storici e artistici che hanno caratterizzato gli insediamenti, col tentativo di sintetizzare in un tracciato lineare dettato dalla prospettiva storica quanto in realtà non è avvenuto secondo un preciso disegno. Dunque competenze diversificate per abbracciare con uno sguardo unitario l’immenso patrimonio archeologico e artistico dell’odierno Iraq. Ciò avviene in un momento particolare, di estrema fragilità (per usare un eufemismo) della nazione in quanto tale, una fase in cui la sua identità (tutte le identità, al plurale, che hanno concorso a definire questa antica civiltà) è messa in discussione da fattori esterni, a tutti ben noti. L’immagine stessa dell’Iraq è legata oggi più che mai anche al suo passato e non solo alla ricchezza delle sue risorse petrolifere. Negli ultimi drammatici anni le vicende del Museo Nazionale dell’Iraq, gloriosa struttura all’avanguardia nella conservazione, conoscenza, studio e divulgazione dell’eredità del passato (che si concretizza in un patrimonio immenso che conta più di mezzo milione di reperti, fra i quali non pochi sono capolavori artistici assoluti e irripetibili), è stato portato all’attenzione del mondo per vicende dolorose che hanno inferto una grave ferita a tutto il popolo iracheno. La reazione interna e internazionale è stata coerente col principio che tale ferita e scempio non fosse stata inferta solamente a gente lontana, ma che questa intollerabile offesa andasse a colpire l’intera umanità in una delle sue espressioni più alte. L’aiuto e il supporto fornito allo State Board of Antiquities and Heritage e al Museo – sua diretta emanazione – giunto da più parti e in varie forme, e la crescente preoccupazione nei riguardi di queste istituzioni, che con sensibilità e attenzione hanno fornito tutte le autorità politiche avvicendatesi alla guida del Paese, non possono che

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essere viste con commosso favore e costituire uno stimolo per un pronto riscatto e una riabilitazione del Museo come principale custode della memoria storica di tutti, non solo del popolo iracheno. Questo volume, articolato in tre sezioni principali, va dunque nella direzione desiderata, e per me costituisce motivo di soddisfazione contribuire alla sua realizzazione con queste pagine di introduzione. Dicevo di tre linee principali: quella dell’antichità che possiamo definire “classica” della Mesopotamia regale con i grandi e celebrati imperi, seguita dalla straordinaria epoca dell’Ellenismo preludio all’età partica e sasanide, per finire con quella stagione islamica, in genere un po’ sottaciuta e trascurata che è però fondamentale per la formazione della cultura e civiltà musulmana quale la conosciamo oggi. In una parola, il ruolo centrale di centro elaboratore e diffusore della cultura che ha avuto nei millenni l’Iraq ne esce con uno spaccato a tutto tondo certamente rafforzato. A Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois è stato affidato il non facile compito di sintetizzare in poche pagine l’evolversi nella complessità della grande storia mesopotamica in un arco di tempo vastissimo. La periodizzazione è opportuna ma pur sempre difficile e relativa: la prima parte va dalle origini alla fine del III millennio, mentre la parte seconda tratta la fase dall’inizio del secondo millennio fino alla caduta di Babilonia. L’importanza dell’ambiente geografico, i fiumi, le opere di canalizzazione sono il background su cui si stagliano le vicende storiche a partire dalla longevità della cultura di Ubaid (V millennio) con le sue straordinarie ceramiche. Uruk/Warka con i grandi agglomerati urbani è una città stato (una cultura statuale già ben strutturata) guidata da un monarca e che attraversa tre fasi di sviluppo. Le architetture sono molto importanti, e a queste Forest dedica lo spazio opportuno, ma non sono necessariamente legate a una funzionalità religiosa; in qualche caso si tratta di ambienti polifunzionali: palazzo, tempio, abitazione, luogo di rappresentanza. Le arti applicate di questo periodo si intuiscono opulente. La cosiddetta “Dama di Warka” – recentemente restaurata dai tecnici del laboratorio di restauro riscontrandovi tracce di policromia – è uno dei capolavori dell’arte. Anche i sigilli a cilindro incisi con alti o bassi rilievi costituiscono un corpus notevole e “realismo allegorico” è una buona definizione che si affianca a una preziosa analisi iconografica sui temi della potenza, della forza e della regalità. L’interpretazione dei materiali avviene alla luce delle conoscenze relative alle produzioni neolitiche: l’una illumina l’altra. Del periodo dinastico arcaico si discutono i siti più clamorosi finora svelati, come Eridu, Kish, Tell Agrab, ma anche Mari, e si può parlare di una civiltà sumerico-accadica che viene correttamente posta in relazione, anche sul versante iconografico, con quella di Uruk di cui può considerarsi erede. Al ruolo del sovrano è riservata una puntuale analisi, e il potere accadico è tracciato con chiarezza anche nelle sue linee espansive. A Lagash e al sovrano Gudea sono dedicate alcune righe, trattandosi di una tappa obbligata grazie agli scavi condotti a Tello/Girsu. L’Autore insiste particolarmente, e fa bene, sul periodo noto come Ur III, probabilmente l’apogeo della cultura sumera. Non vengono trascurati accenni alla struttura centralizzata dell’impero e all’epopea letteraria di Gilgamesh, importantissima fonte di conoscenze. Giustamente la seconda parte di questa analisi sposta l’attenzione verso nord, considerando i legami anche esterni e tratta i regni amorriti (semiti) e la regione di Diyala e il regno di Mari, con appropriati commenti sulle architetture e le principali opere artistiche. Hammurabi, fondatore della I dinastia di Babilonia (inizi del XVIII secolo), celebre per il suo “codice”, dovrà affrontare i potentati stranieri come quello ittita. Le conseguenze di ciò sono argomentate con chiarezza. I regni kassiti (che non adoperano il sumero e nemmeno sono Semiti, dominando la scena fra il XVI e il XII secolo per poi essere rimpiazzati dagli Elamiti) sono visti in chiave di continuità/discontinuità con la

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civiltà babilonese. La ziggurat da Aqar Quf è ottimamente contestualizzata. All’epoca kassita sono da ascrivere i primi kudurru (come quello di Meli-Shipak), cippi con testi amministrativi con decorazioni simboliche di estremo interesse anche per il ruolo che giocano in rappresentazioni cultuali e iconografiche anche molto più tarde. Il periodo medio assiro e la città di Assur fungono da introduzione alla più complessa trattazione relativa all’impero neo-assiro che all’incirca nel X secolo diviene il potere predominante in Mesopotamia. Sintetizzare un periodo storico così vasto e ricco di accadimenti, e con scavi così importanti (Assur, Nimrud, Ninive, Khorsabad, per citarne solo alcuni) non è facile, ma gli autori ci offrono una buona panoramica ottimamente documentata anche dalle immagini. Interessanti, infine, i collegamenti con i potentati regionali limitrofi e le città stato quali Ebla e Mari. “L’Ellenismo in Mesopotamia” è il titolo del saggio di Carlo Lippolis, che con lucidità affronta il ruolo della dinastia Seleucide, erede del grande progetto politico di Alessandro. Interessanti sono le considerazioni relative ai contatti precedenti l’avvento del Macedone (VIII-VII secolo) e la produzione artistica “orientalizzante”, molto più diffusa di quanto non si creda comunemente. L’attenzione è concentrata sulle tre località nelle quali gli scavi archeologici hanno riscontrato una fase ellenistica: Babilonia, Seleucia e Uruk. Alessandro a Babilonia fece sua la residenza di Nabucodonosor II nel segno di una continuità, anche formale, con Neobabilonesi e Achemenidi. La tipologia architettonica originale, limitatamente alla Mesopotamia, è il teatro, mentre l’impianto urbanistico rimane di fatto immutato. Lo spostamento della capitale a Seleucia (e quindi dall’Eufrate al Tigri), allo sbocco del canale regale, in una posizione geografica più centrale, farà della città un luogo di transito quasi obbligato. Le rovine di Seleucia coprono un’area impressionante (quasi 600 ettari) e si stima che questa metropoli al momento della sua massima fioritura ospitasse fino a 600.000 abitanti. L’urbanistica, con isole quadrate, è di stampo ellenistico, pur con ampie concessioni a stili autoctoni. Questo assunto relativo a un approccio “misto” è confermato dall’archivio di Tell ‘Umar con 25.000 bullae: l’iconografia è soprattutto ellenistica, ma con motivi babilonesi e influssi iranici. Uruk si discosta un po’ dagli esempi sopracitati – per esempio nella produzione di figurine di terracotta – e si conferma città di importanza capitale mantenendo le sue peculiarità. Sono ricordati anche altri centri che hanno vissuto una fase seleucide, come Borsippa, Ur, Nippur, e viene posto il problema dei collegamenti con altri centri non propriamente mesopotamici, quale Dura Europos, centri che comunque hanno interagito con questa civiltà. Roberta Venco Ricciardi è la studiosa che si è occupata del periodo partico e sasanide. Si tratta di un capitolo molto importante, spesso trascurato, e qui ben messo in evidenza in un saggio di spessore informativo, preciso e puntuale. Si articola in due sezioni, la prima relativa al potere partico e la seconda a quello sasanide. Si prende l’avvio da Seleucia ove si riscontra continuità di insediamento con progressivo affermarsi della tipologia costruttiva partica (corte con ivan) a scapito di quella greca con colonnato antistante. La fondazione di Vologesia, non ancora individuata, così come la città di Ctesifonte, ci suggeriscono quanto ancora resti da fare sul terreno e limitano i dati archeologici del primo periodo alla città di Nisa (in Asia Centrale), e dunque risultano piuttosto scarsi. Interventi partici sono tuttavia segnalati a Uruk e Assur. Nel primo caso si osserva una certa continuità (filo conduttore e ricorrente nell’intero volume) fino alla costruzione, in posizione decentrata, del tempio di Gareus (111 d.C.), con una originale sintesi di elementi babilonesi, ellenistici e partici. Tra il primo e il secondo secolo si assiste alla diffusione dell’ivan, struttura architettonica di possibile origine iranica con esempi a Nippur, Seleucia, Abu Qubur e Assur. Quest’ultimo centro, già antica capitale dell’impero assiro, è particolarmente interessante quale testimonianza del sincretismo artistico dei Parti. L’analisi delle strutture architettoniche conferma tale

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evidenza. Ma è a Hatra – dove la professoressa Venco ha lavorato per molti anni nella missione archeologica italiana – che giustamente è riservato lo spazio più grande in questa prima parte del saggio. La vicenda storica e artistica della città di Hatra fortificata con imponenti mura, necessariamente ricostruita a grandi linee, è tuttavia di notevole acutezza e permette al lettore di ben comprendere il ruolo di questo insediamento, e dell’imponente complesso religioso meta di pellegrinaggi, e delle sue strutture, alcune delle quali erano miracolosamente intatte ancora all’inizio del secolo scorso e scavate da più missioni irachene a partire dagli anni ’50. Ovviamente le decorazioni architettoniche, ricchissime, e la statuaria hanno il rilievo che meritano. L’Autrice sottolinea anche il debito, tecnico e artistico, verso il mondo occidentale, così enfatizzando l’originalità dell’esperienza culturale partica. I collegamenti con Dura Europos, dove sono sopravvissuti importanti nuclei pittorici, integrano le conoscenze legate a Hatra che eccelse, invece, nella produzione scultorea, fotograficamente ben riprodotta. Col periodo sasanide si tornò a un grande impero centralizzato e la nuova organizzazione ebbe l’effetto di un progressivo abbandono delle rotte commerciali precedenti, affrettando e anche determinando il declino di centri quali Dura Europos, Assur, Hatra. Ancora una volta prevale una certa continuità sostanziale, seppure mascherata dall’orgogliosa rivendicazione dell’origine iranica della dinastia con un’attenzione ideologica all’impero achemenide. Il ruolo di mediatore di questo regno sasanide nei confronti da una parte dell’Occidente e dall’altra del mondo orientale (leggasi India e Cina), ne uscì molto rafforzato e la Mesopotamia tornò a essere snodo centrale dei traffici commerciali lungo gli itinerari della “Via della Seta”. La gloria sasanide in Iraq è legata al nome di Ctesifonte, secondo le fonti due distinte realtà sulle opposte sponde del Tigri, e solo in piccola parte indagate da campagne archeologiche, e al sito di Taq-i Kisra – l’ivan parte del palazzo voluto da Cosroe I Anushirvan (581-579) – che con i suoi trenta metri di altezza e quasi altrettanti di larghezza è indubbiamente una delle meraviglie architettoniche dell’antichità. Le condizioni di stabilità di questa struttura sono al centro delle preoccupazioni dello State Board of Antiquities and Heritage. Tale monumento è descritto da Roberta Venco con particolare attenzione ai partiti decorativi e in specifico all’uso massiccio dello stucco, che non costituisce una novità assoluta in quanto materiale, ma il cui impiego in rapporto all’architettura (e i nuclei di vere e proprie sculture) ne fanno un grande protagonista ampiamente sfruttato nella seguente stagione islamica. Particolarmente opportuno appare l’accenno finale alle minoranze (soprattutto cristiani, nestoriani e siriaci, ma anche ebrei, mandei e manichei) il cui apporto alla complessa civiltà mesopotamica non è mai da sottovalutare. Giovanni Curatola, che è anche il curatore generale di quest’opera, ha sintetizzato, nell’ultima parte del volume, la fase islamica. Il saggio contiene una breve premessa storica, indispensabile per inquadrare le vicende artistiche. Nell’architettura del periodo Omayyade si guarda alle differenze fra territorio siriano – proiettato verso il Mediterraneo – e iracheno, dove si assiste allo sviluppo di una architettura autoctona che tiene conto, ovviamente, del passato, ma ha anche necessità di inventarsi un presente e un futuro. Qui risalta l’importanza di un centro quale Basra e di Kufa con il suo Dar al-Imara. Tappa importante è la fondazione della città circolare di Baghdad (1° agosto 762) lungo le sponde del Tigri. Le evidenze archeologiche sono piuttosto scarse, ma anche attraverso l’uso delle fonti letterarie se ne ha un’immagine abbastanza realistica. Il complesso di Ukhaydir, ai margini di una zona oggi desertica a un’ottantina di chilometri da Kufa, della seconda metà dell’VIII secolo, occupa un posto di rilievo nell’architettura del tardo periodo omayyade di cui mantiene molti caratteri stilistici, e la discussione relativa alle sue imponenti strutture è assolutamente doverosa. A Samarra, capitale dell’impero abbaside fra l’836 e l’889 (ma forse tale data è da considerarsi meramente indicativa dell’arrestarsi del processo di sviluppo, dal momento che

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l’occupazione andò ben oltre quegli anni), è dedicata la parte principale e centrale del saggio di Curatola. Samarra viene esaminata con attenzione e il suo ruolo fondamentale nell’elaborazione di un autonomo linguaggio artistico musulmano è sottolineato con forza, pur senza nulla togliere agli apporti esterni e alla complessità propria di ogni grande fase storica di costruzione artistica. La descrizione di alcune delle più importanti strutture architettoniche di Samarra (palazzi e moschee monumentali) è completata da una disamina degli stucchi e della ceramica rinvenuti negli scavi. È una parte importante del testo che aiuta a comprendere come mai Samarra sia considerata dagli studiosi di archeologia e storia dell’arte musulmana un luogo cruciale, fonte di ispirazione di un linguaggio artistico pienamente islamico in grado di condizionare e influenzare molte realizzazioni artistiche posteriori, e non solamente in Mesopotamia. Benché importantissima, comunque Samarra non esaurisce affatto la ricchezza di monumenti e opere islamiche in Iraq. Dunque risulta opportuno il paragrafo “Monumenti iracheni dell’XIXIV secolo”, con ampio spazio concesso alle architetture di Baghdad che Curatola mostra di conoscere particolarmente bene. Interessanti sono le considerazioni relative a quei mausolei (Zumurrud Khatun e ’Omar al-Suhrawardi) con copertura piramidale conica sfaccettata a muqarnas e gli esempi non solo iracheni di architetture stilisticamente correlate. I paragrafi conclusivi sono dedicati alle cosiddette “arti minori” che nel caso islamico è una definizione del tutto fuorviante. Qui si esaminano opere lignee – due cenotafi e un minbar (pulpito) ospitati nelle sale del Museo Nazionale dell’Iraq –, e alcune opere di metallo di una delle più importanti e longeve manifatture islamiche: quella di Mosul. I manoscritti e le miniature, ricchi di capolavori, chiudono il volume e ci proiettano in un mondo carico di colori e forti suggestioni simboliche. L’arte islamica, con le sue numerose sfaccettature, è quindi una realtà importante di un percorso artistico che dura svariati millenni. In conclusione si tratta di un volume ricco di suggestioni, supportate anche da un adeguato apparato illustrativo, nel quale a fronte del dipanarsi senza sosta di un itinerario artistico straordinario – spesso segnato dalla continuità come già abbiamo avuto modo di segnalare – si cerca di mantenere un equilibrio di sintesi che permetta al lettore di seguire lo sviluppo di una delle più eccezionali avventure intellettuali e artistiche della civiltà umana. Dr. Donny George Direttore Generale delle Antichità dell’Iraq, 2006

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L’arte mesopotamica: architettura e arti plastiche dalle origini alla fine del III millennio Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois

La Mesopotamia, più precisamente la pianura alluvionale del Tigri e dell’Eufrate (la parte meridionale dell’attuale Iraq) è stata un grande focolaio di civiltà. In quanto tale ha prodotto nel corso di circa 3000 anni opere eccezionali, sia di architettura, sia di arti plastiche. C’è tuttavia un elemento improprio quando si parla di arte mesopotamica. Le immense costruzioni prestigiose che evidenziavano la grandezza delle élites e delle istituzioni dovevano senza dubbio attirare l’attenzione e impressionare il visitatore con la loro sontuosità, ma non è certo che il criterio di valutazione fosse quello estetico. Quando i sovrani costruttori evocano i loro lavori (in particolare le fondazioni religiose), è per sottolineare l’entità dei loro investimenti, ricordando, per esempio, la quantità di legname e di metalli preziosi importati con grande spesa. Ugualmente le rappresentazioni figurative (a tutto tondo, bassorilievo, glittico o pittura), soprattutto quando facevano parte di scene composite, non erano destinate in special modo al piacere della vista, non fosse altro per il fatto che numerose opere (situate, per esempio, nei templi) non erano accessibili al pubblico. Servivano ad altri scopi, come vedremo, e la dimensione estetica sarebbe piuttosto da ricercare in ciò che chiamiamo oggi arti applicate o decorative. Se cambiamo prospettiva e adottiamo il punto di vista dell’uomo moderno, l’ambiguità persiste. Poiché l’architettura mesopotamica era essenzialmente in mattoni crudi, spesso non ne rimane altro che qualche base e solo delle ricostruzioni permetterebbero di apprezzarne le misure nella loro interezza. Per quanto riguarda le rappresentazioni figurative, sia che facciano parte della decorazione architettonica, sia in quanto elementi mobili, ci sorprendono soprattutto per la loro antichità e per la loro appartenenza ad un universo culturale molto diverso dal nostro. D’altro canto, essendo l’Iraq chiuso da più di quindici anni, nessuna scoperta recente è venuta a rinnovare le nostre conoscenze. Nel campo degli elementi mobili non mancano i pezzi eccezionali, ma la maggior parte di essi sono giustamente celebri e sono stati presentati più volte. Interesse del nostro contributo è dunque situare nuovamente queste antiche vestigia nel loro contesto e soprattutto forse chiarirne il significato. Molto spesso infatti le rappresentazioni figurative sono codificate, utilizzano cioè in modo convenzionale e largamente arbitrario elementi in apparenza realistici per veicolare un messaggio. La loro interpretazione è di conseguenza estremamente delicata e, a dire il vero, non ha mai fornito una sintesi soddisfacente. La Mesopotamia, come è intesa dagli archeologi, comprende tutte le regioni attraversate dal Tigri e dall’Eufrate a valle delle montagne anatoliche: è un largo nastro da nord a sud-est (largo 200/250 km per circa 1200 km) che si estende dalla Siria setten-

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Mesopotamia Mesopotamia settentrionale meridionale

‘UBAID

Invasione degli Amorriti

4000 2000

URUK ANTICO

REGNO REGNI DI ISIN DELL’ALTA E DI LARSA MESOPOTAMIA Zimrilim (1775-1761) a Mari

3500

URUK MEDIO

1500

Adad-Nirari I (1307-1275) Tukulti-Ninurta I (1244-1208) Tiglat-Phalasar I (1114-1076)

URUK RECENTE

1000 DINASTICO ARCAICO I DINASTICO ARCAICO II DINASTICO ARCAICO III REGNO DI AKKAD

2000

IMPERO MEDIOASSIRO

REGNO CASSITA

II

DINASTIA

REGNO DI UR III

Ur-Nanshe Eannatum a Lagash Sargon Manishtushu Naram-Sin Ur Ba’u, Gudea, Ur Ningirsu a Lagash Ur-Nammu Shulgi

Adad-Nirari II (911-891) Tukulti-Ninurta II (890-884) Assurnasirpal II (883-859) Salmanassar III (858-824) Adad-Nirari III (810-783) Tiglat-Phalasar III (744-727) Sargon II (721-705) Sennacherib (704-681) Asarhaddon (680-669) Assurbanipal (668-630/627)

Invasioni aramaiche

IMPERO NEO-ASSIRO IMPERO NEO-BABILONESE

500 IMPERO ACHEMENIDE

Nabopolassar (626-605) Nabucodonosor II (604-562) Nabonide (556-539) Ciro (539-530)

ALESSANDRO E I SELEUCIDI

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IMPERO PARTICO

trionale fino al golfo Persico, fra le montagne dello Zagros e il deserto siro-arabico. La regione presenta quindi condizioni naturali molto diverse, determinate dalla latitudine, dai rilievi, dalla natura del suolo e, soprattutto, dalla pluviometria. Effettivamente le piogge diminuiscono man mano che ci si allontana dalle montagne, di modo che partendo dalla regione pedemontana la steppa umida lascia progressivamente posto a una steppa secca e poi al deserto. Nella Mesopotamia settentrionale la pluviometria è stata determinante prima dell’introduzione delle pompe, perché i fiumi sono troppo incassati nella pianura sedimentaria per poter irrigare mediante gravità e, a grandi linee, la linea isoieta di 250 mm separava gli agricoltori sedentari dai pastori nomadi, dato che è almeno questa la quantità d’acqua annuale necessaria per far crescere i cereali. Nella pianura alluvionale del Sud iracheno, la situazione è completamente differente. Si è ben al di qua dei 250 mm di acqua annui, ma è possibile irrigare perché il Tigri e l’Eufrate, in mancanza di pendio, tendono a depositare il sedimento che trasportano e ad elevare il loro letto invece che scavarlo. La regione oggi è un vasto deserto triste, grigio e polveroso, ma in passato era percorsa da canali che ne permettevano la messa a coltura. In generale si attribuisce la desertificazione alla risalita della falda freatica e quindi dei sali, a un cattivo sfruttamento dei terreni e in particolare alla mancanza di drenaggio, ma indubbiamente occorre considerare anche delle ragioni storiche. La rete di irrigazione che permetteva lo sfruttamento della pianura, sviluppata nel corso del tempo, adattata ai bisogni di una popolazione costantemente in espansione, necessitava di una regolare manutenzione che veniva garantita dallo stato. L’abbandono di questi

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Kara-Indash Kurigalzu (1332-1308) Meli-Shipak (1186-1172)

DI ISIN

3000

2500

IMPERO PALEO-BABIL.

Nur-Adad (1865-1850) a Larsa Sin-Kashid verso il 1850 a Uruk Hammurabi (1792-1750) a Babilonia

1. Cronologia dell’antica Mesopotamia.

2. La Mesopotamia antica e le regioni occidentali verso il Mediterraneo. Le città attuali sono indicate con un cerchio bianco, in nero i siti archeologici.

lavori di mantenimento, in caso di guerra o di potere vacante, poteva avere effetti irrimediabili, dato che era impossibile rimettere in funzione in qualche anno una rete per la cui costruzione erano stati necessari millenni. La Mesopotamia ha conosciuto periodi di disordini che non hanno mancato di lasciare conseguenze. Come che sia, è in questa pianura alluvionale, in un primo tempo ostile, che si situa il focolaio della civiltà mesopotamica, proprio perché i suoi abitanti hanno dovuto organizzarsi per fronteggiare le difficoltà dell’ambiente. Quando la sedentarietà, l’agricoltura e l’allevamento hanno finito di imporsi spontaneamente nel Levante e nelle zone pedemontane del Tauro e dello Zagros, come avviene a partire dall’VIII millennio, il nuovo stile di vita si diffonde progressivamente presso i cacciatori-raccoglitori delle regioni circostanti, che abitano in territori meno favorevoli come la Mesopotamia del sud. In questa zona tuttavia i siti più antichi sono sepolti sotto metri di alluvioni e allagati nella falda freatica di modo che i primi abitanti della pianura alluvionale ci appaiono solo a metà del VII millennio, con la cultura detta di ‘Ubaid (dal nome di un sito nei dintorni di Ur), immediatamente riconoscibile per la sua ceramica chiara decorata con motivi non figurativi e più spesso geometrici. Essa dura quasi 2500 anni evolvendosi in una sempre maggiore complessità, fino a formare strutture politiche che possono essere identificate come chefferies, a partire da almeno la seconda metà del V millennio. Con il tempo le comunità obeidiane si ampliano e sono costrette a darsi strumenti politici, sociali e ideologici per gestire gruppi umani più ampi; questo le porta a sviluppare una gerarchia sempre più rigida.

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Il cambiamento subisce un’accelerazione con la cultura detta di Uruk, che deve il suo nome al sito che la Genesi chiama Erech e che ancora oggi è detto Warka. La cultura di Uruk succede a quelle di ‘Ubaid senza soluzione di continuità e l’adozione di un nuovo termine è dovuta solo alla sparizione della ceramica dipinta e al progressivo impiego di nuove forme. La cultura di Uruk copre grosso modo tutto il IV millennio e, a causa della sua durata, viene suddivisa in tre fasi (antica, media e recente) che ci sono note in modo diverso. La popolazione continua ad aumentare e tende a concentrarsi in alcuni grandi agglomerati – come Ur, Eridu, Uruk, Larsa, Bad-tibira, Lagash, Umma, Zabalam, Shuruppak, Adab, Nippur o Kish – che si suddividono la pianura alluvionale, controllando un territorio più o meno esteso. Queste città-stato, come vengono chiamate, sono gestite da una potente élite guidata da una sorta di re. Si tratta dell’epoca d’oro della civiltà mesopotamica: al più tardi durante l’Uruk Recente, l’architettura raggiunge vertici elevati, l’arte fiorisce con l’apparizione di scene figurative che esaltano la funzione reale e viene inventata la scrittura. Riservata allora esclusivamente all’ambito economico, da principio è solo un aiuto mnemonico; permette tuttavia di riconoscere che i suoi inventori parlano il sumerico, una lingua agglutinante senza un parallelo noto. L’epoca seguente, ugualmente suddivisa convenzionalmente in tre fasi (I, II e III), in ragione della sua durata (dal 2900 al 2300 circa) è detta del Dinastico Arcaico, perché il campo di applicazione della scrittura si allarga e ci fornisce per la prima volta nomi di sovrani. I testi ci indicano anche che i Sumeri confinano con una popolazione che parla una lingua semitica (l’accadico), apparentemente insediata nella parte settentrionale della pianura alluvionale. A partire dal Dinastico Arcaico II i due elementi della popolazione condividono peraltro la medesima cultura materiale e si deve parlare di cultura sumero-accadica. Le città-stato si strutturano un poco di più, ma il loro dinamismo rende antagonisti i loro interessi e sfocia in un clima di guerra endemica, fino a quando il blocco della situazione porta a considerare soluzioni più radicali sviluppando mire egemoniche. Più di una città-stato tenta a turno di imporre la sua legge sull’insieme della pianura alluvionale, ma è un semita proveniente dalla regione di Kish, Sargon, che verso il 2300 vi riesce creando così il primo stato unificato e imponendo la propria lingua. La sua dinastia si mantiene per quasi un secolo, ma lo stato si disaggrega progressivamente e finisce per sparire per l’effetto combinato di rivolte interne e di interventi esterni.

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3. Tavoletta con scrittura pittografica (5,2 × 7,8 cm). Mesopotamia meridionale, fine del IV millennio. Museo del Louvre, Parigi. Nella pagina seguente: 4. Cono con iscrizioni di Urukagina (h. 37 cm, diam. 15 cm; terracotta). Da Tello (Girsu), Dinastico Arcaico III, XXIV secolo. Museo del Louvre, Parigi. Il sovrano ricorda provvedimenti presi per ridurre le tasse e porre fine agli abusi.

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intorno al 2000 a.C. Uno di essi, Hammurabi, fonda la I Dinastia di Babilonia all’inizio del XVIII secolo, ma una volta di più il regno diviene progressivamente fragile, finché un raid ittita gli arreca il colpo di grazia all’inizio del XVI secolo. Nuovi stranieri, i Cassiti, venuti forse dallo Zagros e la cui lingua non è in ogni caso né sumerica né semitica, subentrano dal XVI secolo alla metà del XII. Qualunque siano state l’origine e la lingua dei nuovi padroni, costoro conservano i valori correnti prima di loro e assimilano totalmente la cultura mesopotamica. La dinastia cassita sparisce a sua volta sotto i colpi degli Elamiti arrivati dalla Susiana ed è sostituita da una “II Dinastia di Isin” (un’altra città mesopotamica del Sud) fino alla fine del millennio, quando arriva dalla Siria una nuova ondata di migranti, questa volta quella degli Aramei. In seguito ad una crisi generale, il centro del potere abbandona per la prima volta la pianura alluvionale e si trasferisce nel Nord del paese, in Assiria, con quello che viene chiamato l’impero neo-assiro (934-610). Infatti il focolaio del sud mesopotamico suscita presto degli emuli e conduce alla comparsa ai suoi margini di formazioni secondarie destinate, sviluppandosi, a divenire concorrenti. Per esempio, a partire dal III millennio, sul modello delle grandi città meridionali vengono fondate in Siria delle città-stato (come Mari o Ebla) che ricercano ugualmente il dominio sulla regione. Regni di varia configurazione si succedono al nord e al sud, ma gli interessi geopolitici si ampliano e concernono protagonisti sempre più potenti. I conflitti si estendono a zone sempre più lontane, divengono internazionali fino a interessare l’Anatolia ittita, l’Egitto, poi i Medi iraniani. È in questo contesto allargato che, nel XIV e nel XIII secolo, si sviluppa un potente regno medio-assiro che porterà, dopo l’intermezzo aramaico, all’impero neo-assiro. Dopo la caduta di Ninive nel 612, il potere passa nuovamente a sud con l’impero neo-babilonese (609-539), fino quando un’entità ancora più grande vede la luce: l’impero persiano, che troverà a suo tempo in quello romano uno sfidante alla sua altezza.

L’Uruk

Le città-stato recuperano più o meno velocemente la loro indipendenza, al punto da poter parlare di rinascita sumerica. La città-stato di Lagash e il suo principe Gudea ci sono particolarmente noti grazie agli scavi di Tello. Tuttavia l’idea egemonica si è imposta nelle loro menti. Tutti aspirano a riprodurre a proprio profitto lo stato unificato di Sargon e questa volta è un sumero a riuscirci, Ur-Nammu, instaurando per un secolo (2100-2000 circa) quella che viene chiamata la Terza Dinastia di Ur (o Ur III), uno stato burocratico che registra tutto per iscritto. È l’ultima formazione politica ad utilizzare il sumerico. Il seguito della storia mesopotamica, con una serie di alti e bassi e di capovolgimenti di situazione è solo una variazione sul medesimo tema, fino a quando appaiono delle formazioni che superano la sola Mesopotamia, tuttavia troppo ambiziose per durare a lungo. A più riprese lo stato unificato si frammenta, poi si riforma, perché al di là dei soprassalti della storia persiste questo ideale, anche per quanti accedono al potere arrivando dall’esterno. In effetti diversi gruppi compaiono per un certo tempo sulla scena politica, a cominciare dagli Amorriti, dei semiti provenienti dalle pianure siriane

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5. Tavoletta con iscrizioni, III Dinastia di Ur. Museo del Louvre, Parigi.

Per tutto il IV millennio, la società continua a gerarchizzarsi per permettere all’apparato politico-amministrativo di gestire un corpo sociale in pieno sviluppo. Le élites ereditarie che tengono le redini del potere sono al centro di un’immensa rete centripeta, che fa confluire i risultati delle prestazioni di lavoro e dipende fondamentalmente dalla loro capacità statutaria di mobilitare una manodopera che produce secondo il modo comunitario. Questa riserva di energia, proporzionale all’ampiezza della popolazione, permette loro di avviare lavori di interesse pubblico (di irrigazione, per esempio), di far costruire edifici sontuosi, di organizzare spedizioni lontane, di ottenere prodotti artigianali ed eccedenze agricole che a loro volta servono a soddisfare i loro bisogni, a mantenere i loro dipendenti e quanti hanno obblighi nei loro confronti, a fare scambi e, in generale, ad assumere tutti gli oneri che pesano su di loro a titolo sia pubblico che privato (essendo le due sfere ampiamente confuse). La necessità di controllare tutte queste attività porta all’invenzione della scrittura durante l’Uruk Recente. In particolare, le esigenze delle élites hanno una valenza qualitativa da cui derivano gli aspetti più spettacolari della cultura urukiana. Nel campo dell’architettura, tutte le categorie professionali, come si direbbe oggi, vengono mobilitate per costruire edifici di prestigio che testimoniano un’inventività senza pari. Sul sito eponimo (Uruk) una missione tedesca ha avuto la fortuna di scoprire il cuore politico-religioso della città alla fine del IV millennio (Uruk Recente) e di individuare tutta una serie di costruzioni eccezionali. Alcune fra di esse sono un’eredità dell’‘Ubaid, durante il quale fanno la loro apparizione almeno a partire dall’inizio del V millennio. È il caso

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del “Tempio Bianco”, costruito su quello che si usa chiamare la “ziggurat di Anu” [fig. 7, 8 e 9]. Non si tratta in realtà di una ziggurat ma di una terrazza allargata e sopraelevata progressivamente mentre veniva ricostruito l’edificio sopra di essa. Il riferimento ad Anu (il dio più importante del pantheon mesopotamico), desunto da testi più recenti di 4000 anni, è ugualmente sbagliato. Infine, gli edifici che si succedono sulla sommità della terrazza non sono templi ma sale di consiglio dove i notabili si riunivano per gestire le questioni della comunità. Il piano è tripartito con una grande sala di riunione al centro e degli annessi da una parte e dall’altra. Numerose aperture facilitano l’accesso e l’illuminazione, caratteristica, questa, incompatibile con la funzione originariamente proposta, nella misura in cui è noto che in Mesopotamia, come altrove, i templi sono luoghi inaccessibili al pubblico. Qui, come nel vicino sito di Eridu, la sala di consiglio è stata ricostruita sul medesimo posto per parecchi secoli e questo indica la permanenza della funzione che ospitava. L’edificio era senza dubbio visibile da tutte le parti e la sua sopraelevazione ne esprimeva fisicamente la

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6. “Steingebäude”, Uruk, fine del IV millennio.

7. Rovine del “Tempio Bianco” posto sulla “ziggurat di Anu”, Uruk, fine del IV millennio.

preminenza. Con le sue facciate a nicchie e rientranze ricoperte da intonaco bianco (da cui il suo nome) era un simbolo di autorità e di civiltà che manifestava agli occhi di tutti la potenza e il successo della città. Ogni agglomerato di una certa importanza possedeva sicuramente un edificio di questo tipo e molti sono stati portati alla luce. Quello di Uqayr, un po’ più recente, si distingue per le sue pitture murali, purtroppo molto frammentarie [Tell Uqayr 1 e 2]. Gli edifici più spettacolari di Uruk si trovano più distanti dalla “ziggurat di Anu”, in un settore chiamato, in questo caso con più ragione, l’Eanna, cioè qualcosa come il “Palazzo celeste” [Uruk 5]. Qui, diversi insiemi architettonici si succedono lungo il tempo. Vi si ritrovano dei piani tripartiti ma in questo caso estremamente ampliati: il “Tempio C” misura quasi 1200 mq, mentre il “Tempio D” raggiunge circa i 4500 mq, cioè circa l’80% della superficie di Notre-Dame a Parigi. In alcuni casi il grande atrio centrale si allarga a una delle estremità in una specie di transetto e un corpo della

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re attorniato da tutta una corte, dove si svolgono immense feste e cerimonie religiose. Quest’ultima dimensione ci porta ad evocare alcune costruzioni particolari.

costruzione trasversale, ugualmente tripartito, si unisce a volte all’edificio principale (“Tempio C”). Allo stesso tempo vengono introdotte delle novità, con grandi sale rettangolari disegnate al suolo da pile indipendenti, con piante labirintiche, o ancora un vasto edificio quadrato comprendente quattro corpi attorno a una corte. La maggior parte di questi edifici sono costruiti con mattoni crudi, in particolare piccoli mattoni a sezione quadrata (detti riemchen) facili da mettere in opera. Vengono tuttavia sperimentate anche tecniche di costruzione inedite: blocchi di calcare, estratti non lontano, sono a volte impiegati come fondamenta, mentre il gesso, presente in diversi affioramenti nella regione, permetteva di fare degli intonaci colati in forma oppure serviva a modellare mattoni o grandi blocchi. Inoltre, almeno le costruzioni più grandi avevano bisogno per essere ricoperte di enormi quantità di legname e l’ampiezza delle luci implica l’utilizzo di legni importati (del cedro in particolare). La stessa ricerca di soluzioni nuove è riscontrabile nelle facciate. Se si trova ancora la vecchia decorazione a rientranze ereditata dall’‘Ubaid, lo scavo di nicchie può divenire molto più complicato e nuove soluzioni vengono inventate, ricorrendo a coni pieni [Uruk 4, 12-13] le cui teste colorate sono disposte in modo da formare motivi geometrici, oppure coni cavi [Uruk 14] che creano un gioco di ombra e di luce. Questo rivestimento decorativo poteva essere assicurato al corpo principale con graffe di terracotta [Uruk 11 e 15]. Come indica il nome dato da coloro che hanno eseguito gli scavi, la maggior parte di questi edifici sono stati presi per templi, ma anche qui la loro grande apertura sull’esterno e le dimensioni spesso smisurate della sala principale invitano a rinunciare definitivamente a questa interpretazione. Costituiscono piuttosto nell’insieme una specie di palazzo, con zone religiose, zone di ricevimento e zone di abitazione, ma un palazzo in cui i diversi elementi funzionali non sono ancora integrati. Occorre immaginare qui il

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8. Rovine del “Riemchengebäude”, Uruk, fine del IV millennio.

La Pfeilerhalle [Uruk 5] è costituita da dodici pilastri in muratura rivestiti da coni che disegnano motivi rossi e neri su fondo bianco [Uruk 12]. Questa decorazione è organizzata in tre serie indipendenti, l’esterno, l’interno e gli accessi. È stato suggerito che la decorazione interna evocasse il cammino annuale del sole, con equinozi e solstizi. La lunghezza variabile del giorno sarebbe indicata dalle proporzioni dei colori, il rosso corrisponderebbe al giorno, il nero alla notte. Effettivamente da un estremo all’altro della sala, il rosso progredisce regolarmente a scapito del nero, i due lati lunghi si corrispondono, i due corti si oppongono. Attraverso questo gioco di colori, l’edificio potrebbe bene rendere omaggio alla meccanica celeste, perché questa era allora concepita come l’espressione più evidente della volontà divina. Due piante a labirinto attirano l’attenzione: il Riemchengebäude [fig. 8; Uruk 7], costruito con piccoli mattoni crudi a qualche distanza dall’Eanna, e lo Steingebäude [fig. 7; Uruk 8], costruito con pietra calcarea e grandi blocchi di gesso ai piedi della “ziggurat di Anu”. Sono le fondamenta interrate di costruzioni che si sviluppavano verso l’alto e che certamente erano templi. È curioso notare che gli archeologi hanno creduto di riconoscere dei templi nella maggior parte dei grandi edifici che portavano alla luce, salvo esattamente questi due. Il piano comprende, secondo i casi, due o tre quadrilateri incastrati. Il quadrilatero interno sosteneva il santuario propriamente detto, monocellulare e molto stretto; sul quadrilatero seguente si ergevano solo dei piloni o delle colonne che formavano una galleria coperta. Gli altri muri delimitavano una spianata davanti o attorno all’edificio. Si tratta sicuramente dei due templi noti più antichi della Mesopotamia e la comparsa di queste due costruzioni di nuovo genere non è dovuta al caso. È effettivamente difficile far vivere insieme diverse decine di migliaia di persone e soprattutto giustificare un ordine divenuto molto piramidale. Per rinforzare la coesione sociale si ricorre a un’istanza superiore che fa da riferimento indiscutibile e la divinità viene posta in mezzo agli uomini in una costruzione che rende manifesta la sua presenza. La questione è discussa, ma si può pensare che essa sia stata materializzata in una statua dato che, come vedremo, non si esita a rappresentarla. Ritroviamo la stessa inventività nelle arti applicate (benché quello che è giunto fino a noi ci dia sicuramente solo una piccola idea di ciò di cui erano capaci gli artigiani dell’epoca) e soprattutto nelle arti plastiche, che fanno la loro comparsa nell’Uruk Recente. Per millenni la ceramica obeidiana era stata decorata solo con motivi geometrici. Tutt’al più si trovavano delle statuette in terracotta, antropomorfe o teriomorfe che servivano a qualche culto domestico e, oltre a queste, rari amuleti incisi. Tutto cambia alla fine del IV millennio, nell’Uruk Recente quando fa la sua apparizione tutta una serie di oggetti nei quali si utilizza l’immagine con rappresentazioni figurative spesso integrate in composizioni complesse. Un pezzo eccezionale, noto come “Dama di Uruk” [fig. 9], potrebbe essere il vestigio di una statua divina composita. Si tratta di una maschera femminile scolpita nel marmo quasi a grandezza naturale. L’acconciatura originariamente aggiunta è scomparsa come pure l’incrostazione delle sopracciglia e gli occhi, che dovevano essere di conchiglia e lapislazzuli o pietra nera; il viso tuttavia è di un realismo tanto più sorprendente quanto nulla annuncia una tale padronanza della materia. Il lato posteriore è piatto e provvisto di fori che indicano che il pezzo era fissato a un supporto. Se si tratta di una statua, come pensiamo, il corpo poteva essere di legno e bitume placcato in metallo come suggerito da alcuni testi più recenti.

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Tuttavia la maggioranza degli oggetti di arte plastica serve a legittimare la funzione regale. Si tratta soprattutto di sigilli cilindrici incisi, ma anche oggetti decorati ad alto o basso rilievo ed alcuni pezzi a tutto tondo. Vi è condensata tutta l’ideologia reale che si esprime mediante motivi figurativi spesso allegorici, nonostante la raffigurazione realistica. L’immagine è sovente criptata e presenta grandissime difficoltà di interpretazione che ci sarebbe stato impossibile esprimere senza l’analisi preliminare di un repertorio decorativo molto più antico. Infatti tempo addietro sono stati portati alla luce a Çatal Hüyük, un sito anatolico dell’inizio del VII millennio, pitture e rilievi murali sufficientemente ben conservati e sufficientemente numerosi per poterne dedurre il significato. Le convenzioni adottate allora si sono diffuse in tutto l’Oriente antico e sono durate per millenni, al punto che gli artisti di Uruk – e molti altri dopo di loro – le ricordano ancora.

9. Dama di Uruk (21,5 × 16 cm; marmo), Uruk, verso il 3000. Museo Nazionale di Baghdad.

Occorre presentare preliminarmente gli elementi principali di questo repertorio iconografico, tanto inatteso è il loro significato. Tutti gli animali con corna (sia che si tratti di bovidi, di capridi o eventualmente anche di cervidi) rappresentano gli uomini, o meglio la società. Anche nello scorpione, le due zampe anteriori, più sviluppate, sono assimilate a delle corna, ma esso è strettamente legato alla morte e simbolizza piuttosto la società passata. Questa diversità mostra che il simbolo è fondamentalmente legato al corno, adottato per le sue connotazioni di vitalità e di potenza. Del resto è la ragione per la quale gli dèi antropomorfi della Mesopotamia sono normalmente rappresentati con una tiara a corna, simbolo della loro onnipotenza. Le belve (particolarmente il leone in Mesopotamia) sono l’incarnazione del potere distruttore della divinità e, nello stesso tempo, il simbolo delle forze ostili. Tuttavia queste forze possono essere utilizzate di proposito quando sono state canalizzate ed è quello che fa del leone una figura apotropaica corrente utilizzata in particolare come guardiano delle porte. Il re stesso, in quanto braccio armato della divinità sulla terra, può diventare un leone per i suoi nemici. Senza dubbio è la ragione per la quale il leone si imporrà progressivamente come simbolo della regalità. Anche il rapace è originariamente simbolo di morte, ma questa valenza tende a banalizzarsi, lasciando al leone l’essenziale del campo semantico corrispondente. Il rapace fa ormai solo allusione alla divinità in generale ed è tale la sua svalutazione che può essere sostituito in questa funzione da qualsiasi altro volatile. Nella glittica l’uccello è frequentemente rappresentato nel campo decorativo, conferendo così garanzia divina all’azione illustrata dalla scena in cui compare. Il rapace è tuttavia spesso sostituito nella sua funzione iniziale da un uccello acquatico nell’atto di inghiottire un pesce, simbolo insieme della persona defunta e dell’embrione che nascerà. Rappresentazioni di questo genere occupano un posto d’onore particolarmente all’inizio del III millennio, sulla Scarlet Ware del Dinastico Arcaico I. Peraltro la belva e il rapace possono combinarsi per dare vita a una figura composita, l’aquila leontocefala (Anzu). I miti sottolineano spesso il suo aspetto nefasto, ma può semplicemente incarnare, come il leone, la potenza devastatrice della divinità posta al servizio della buona causa. L’aquila leontocefala personifica allora le saette divine, ma il mostro molto spesso rappresenta niente di più che la divinità. Così appare spesso nelle composizioni araldiche, associato a due animali cornuti (eventualmente a due leoni) disposti simmetricamente a ricordare che il potere divino si basa sulla padronanza della dualità. La sua natura ibrida (al contrario dell’uccello normale), spesso legata a una rappresentazione frontale, indica semplicemente che si ha a che fare con un’entità soprannaturale. Anche altri concetti derivano direttamente dal patrimonio neolitico. È questo il caso dell’Albero della Vita, un classico della storia delle religioni, rappresentato spesso, a partire dalla fine del IV millennio, nell’iconografia mesopotamica e sovente citato in seguito nei testi. Infatti qualsiasi vegetale permette di farvi allusione: alberi di tutte le

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specie, prima di tutto, ma anche rami, fiori o spighe. Occorrerà attendere il secondo millennio perché la sua rappresentazione trovi una forma più o meno canonica, con un albero stilizzato in modo particolare. Prima di tutto l’albero allude al legame di sangue che unisce fra loro le generazioni umane lungo il tempo. Da questo punto di vista può essere paragonato ai nostri alberi genealogici, ma a differenza di questi che riportano le precise relazioni di qualche individuo particolare, quest’altro, più astratto, si estende all’insieme dell’umanità, passata e presente, unendone gli ultimi rappresentanti al loro genitore mitico, come una sorta di cordone ombelicale (il concetto secondo cui la divinità è la sorgente della società può essere tradotto con l’immagine del pastore e del gregge, simbolo della matrice divina, da cui emergono animali cornuti che rappresentano la società). Tuttavia, se si pensa che il principio della creazione è continuamente all’opera nel processo di riproduzione, che la divinità è la sorgente permanente della vita e non solo la sua origine, si può immaginare che la linfa dell’albero sia l’essenza divina che l’alimenta. I suoi rami, i suoi polloni, i suoi fiori o i suoi frutti, testimoni della sua vitalità creatrice, possiedono virtù miracolose che si possono acquisire tagliandoli o consumandoli. I frammenti strappati all’Albero della Vita o gli oggetti intagliati nel suo legno sono messi in relazione in modo particolare con la nozione generale di potere. Difatti, la divinità possiede tutti i poteri e disporre di un elemento proveniente dall’albero che essa alimenta permette di ottenerne una parte, come si può dedurre da una narrazione legata a Gilgamesh. È a questo concetto che sono legati lo scettro reale, il bastone del maresciallo, il pastorale del vescovo, il vincastro del pastore, l’anello dello stregone e del mago. Tuttavia, secondo l’idea che il potere proviene dalla congiunzione di due elementi, il simbolo tratto dall’Albero, lineare e maschile, viene normalmente associato a un simbolo circolare femminile: il bastone è cerchiato o si prolunga in un elemento circolare, mentre la mazza, simbolo del potere in Mesopotamia, unisce la linearità del manico alla rotondità della mazza propriamente detta. Menzioneremo infine il concetto della Montagna cosmica, ugualmente familiare agli storici delle religioni, spesso illustrato e ricordato nei testi con il termine di kur. È al contempo il centro e la sorgente del mondo, da sempre e per l’eternità; di conseguenza è là che cresce l’Albero della Vita. Quando tornano a presentarsi le rappresentazioni figurate, si può constatare che il re è molto spesso raffigurato con tratti facili da riconoscere: è barbuto, la sua capigliatura è raccolta a chignon sotto una fascia che richiama forse un tessuto arrotolato, è vestito di una specie di lunga veste, trattenuta in vita da una cintura o da un pezzo di stoffa similare. Una statuetta in calcare, di cui ci è pervenuto solo il busto, lo rappresenta con i gomiti accostati al corpo e mani sul petto, in un atteggiamento che ricorda i più recenti oranti [fig. 10]. Ma il personaggio che possiede questi attributi distintivi si ritrova soprattutto nelle composizioni complesse e la natura delle scene nelle quali interviene non lascia alcun dubbio sulla sua funzione. Che corrisponda o meno all’EN (signore) di cui parlano i testi, tutti sono concordi nel riconoscervi il re. Fin dall’inizio i caratteri della funzione regale sono perfettamente determinati e tutta l’ideologia corrispondente è condensata nell’iconografia che viene allora alla luce con diversi temi, alcuni dei quali resteranno in vigore per secoli, anzi per millenni. Tuttavia questa ideologia si esprime mediante motivi figurativi che, malgrado il loro aspetto familiare, sono spesso allegorie, ancora una volta, quasi impossibili da capire se il repertorio neolitico non ci avesse messo sulla buona strada. Buona parte della nostra documentazione si basa sui sigilli cilindrici, oggetti che, appoggiati sull’argilla fresca, lasciavano la loro impronta e servivano in qualche modo da firma, indicando che un responsabile aveva supervisionato l’una o l’altra operazione di gestione. Un celebre sigillo cilindrico di Berlino [fig. 12a] mostra il re che nutre delle

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10. Statuetta regale (h. 18 cm; calcare), Uruk, verso il 3000. Museo Nazionale di Baghdad.

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pecore con frasche. Normalmente si interpreta con il re-sacerdote che nutre il gregge sacro di Inanna, perché la scena è associata a delle aste inanellate ritenute simbolo della dea. Di fatto, la bestia con le corna rappresenta la società, in conformità alla tradizione derivata dal Neolitico; ciò significa che il re nutre il suo popolo. Quanto alle frasche, si riferiscono al concetto dell’Albero della Vita, considerato qui per la sua linfa, cioè come ricettacolo dell’essenza divina dalle virtù eminentemente benefiche. La scena indica dunque che la regalità nutre la società di essenza divina; a seconda che si consideri un effetto fisico o morale, può significare che essa la fa prosperare o che le fa assimilare le leggi divine che sono di per se stesse una garanzia di prosperità. Le aste a banderuole innalzate alle porte dei templi, come pure i vasi che fanno parte dell’arredo cultuale, testimoniano della presenza della divinità e donano in qualche modo la garanzia divina alla scena, legittimando così l’azione reale. La forma araldica data alla composizione contribuisce a tradurre il valore astratto del messaggio e suggerisce che il personaggio centrale designa non tanto il re quanto la regalità in generale. Ma spesso la scena è meno elaborata e l’Albero della Vita è ridotto a un fiore, una spiga o un ramo teso al gregge [fig. 12b]. L’elemento vegetale può essere sostituito da un liquido e il modo di rappresentarlo (un vaso con acqua zampillante) è sufficiente a indicare il carattere soprannaturale. È un’altra immagine dell’essenza divina sorgente di vita che, in quanto più astratta, invita a privilegiare l’interpretazione morale del messaggio. Purtroppo la scena [fig. 12c] è anche poco leggibile e sembra non essere stata tagliata come dovuto (il personaggio, probabilmente il re, avrebbe dovuto comparire dietro agli animali che conduce). Queste scene nelle quali il re nutre o, anche, abbevera il suo gregge rientrano nel tema del buon pastore che, quindi, trova la sua espressione figurata fin dalla fine del IV millennio. La capacità del re di portare al suo popolo i benefici divini (che si tratti di prosperità o di precetti morali) è dovuta alla sua relazione privilegiata con la divinità. Un sigillo cilindrico [fig. 12d] esprime questo concetto mediante la giustapposizione di due scene ridotte all’essenziale: a sinistra due ovini sovrapposti mangiano dei vegetali che assomigliano a spighe; a destra il re si avvicina al tempio portando una pelle di leone (segno del fatto che ha trionfato su forze ostili), seguito da un assistente che porta un elemento ornamentale (cintura o collana). Si tratta di doni offerti alla divinità e poiché la regalità la onora, la società ha accesso all’Albero della Vita. Il famoso vaso di Uruk (che doveva far parte dell’arredamento di un tempio, se ci basiamo sul fatto che vasi di questo genere sono spesso rappresentati in quel contesto) ci trasmette il medesimo messaggio con più enfasi [fig. 11]. Nel registro superiore il tempio è visto dall’interno, con tutto il suo arredamento caratteristico e la divinità è presente, acconciata con il bicorno per accogliere il re che le rende visita, accompagnato da portatori la cui fila continua nel registro inferiore. I due ultimi registri, rispettivamente degli ovini e degli elementi vegetali, indicano le conseguenze dell’intervento reale: grazie al re che colma di doni la divinità, la società (animali cornuti) può approfittare dei benefici divini simbolizzati dall’elemento vegetale. La relazione del re con la divinità implica dei doni, ma forse implica altro. Effettivamente i testi più recenti ci parlano di una cerimonia chiamata matrimonio sacro, dove il re incontra la dea Inanna/Ishtar per riattualizzare annualmente l’alleanza fra gli dèi e gli uomini che determina la prosperità nell’anno seguente. Ci si può domandare se la scena non si riferisca già implicitamente a tale cerimonia, perché si nota che la divinità alla quale è associato il re (sul vaso di Uruk ma anche su diversi sigilli cilindrici) è sempre una dea riconoscibile per il suo bicorno e per la sua lunga treccia. Da questo punto di vista i doni portati a quest’ultima ricordano molto quelli destinati a una fidanzata, come, per esempio, sono descritti dal mito di Enlil e Ninlil. Infine l’alleanza degli

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11. Vaso di Uruk (h. 1,05 m; calcare), Uruk, verso il 3000. Museo Nazionale di Baghdad. Nella doppia pagina seguente: 12. Sigilli cilindrici dell’epoca di Uruk, verso il 3000. a. Sigillo cilindrico e calco (h. 5,4 cm, diam. 4,5 cm; marmo, l’ariete in rame). Vorderasiatisches Museum, Berlino; b. Sigillo cilindrico e calco (h. 6,3 cm, diam. 3,7 cm; marmo). Yale Babylonian Collection, New Haven; c. Calco di un sigillo cilindrico di Kish; d. Sigillo cilindrico e calco (h. 3,5 cm, diam. 2,9 cm; marmo), Yale Babylonian Collection, New Haven; e, f, g. Calchi di sigilli di Uruk; h, i, j. Calchi di sigilli di Uruk e di Susa.

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dèi con gli uomini, concepita in Mesopotamia come un’alleanza matrimoniale è, per lo meno dall’epoca di Ur III, un pezzo forte dell’ideologia regale ed è fortemente dubbio che quest’alleanza, per la sua importanza, non sia stata considerata fin dall’Uruk se si pensa che l’ideologia regale veicolata dalla nascente iconografia testimonia un’approfondita riflessione. Parecchie rappresentazioni mostrano il re nel tempio [fig. 12e-g], di fronte a una dea e con in mano una spiga. L’interpretazione corrente evoca un rituale di fertilità o le primizie del raccolto offerte alla divinità. Quindi il tema del re che nutre indica senza il minimo dubbio che la spiga, immagine dell’Albero della Vita, è ciò che il re ha ricevuto dalla divinità e che si appresta a donare al suo popolo per la sua prosperità. Se si pensa che l’Albero della Vita, grazie alla sua linfa, è anche la sorgente di tutti i poteri, appare chiaro che questa capacità, offerta al re, di attirare sugli uomini i benefici del cielo, non è niente di diverso dal potere conferitogli dalla divinità. Alcune scene associano il re alla condanna a morte di personaggi nudi e legati oppure lo mostrano mentre decima i suoi avversari [fig. 12h-j]. Se si pensa al modo in cui evolverà l’iconografia mesopotamica, abbiamo qui senza dubbio il prototipo delle scene di vittoria che fioriranno in seguito. Il re appare allora come il guardiano dell’ordine, colui che fa rispettare fra gli uomini l’ordine voluto dagli dèi. Queste scene sono relativamente realistiche e possono essere lette a prima vista ma, secondo la consuetudine mesopotamica di evocare nozioni generali mediante casi particolari, sarebbe piuttosto necessario capire che “la regalità trionfa sull’avversità”. Lo stesso concetto può essere evocato in modo più astratto, come nella famosa Stele della caccia di Uruk, dove il re prende parte a una caccia al leone [fig. 14]. Di fatto egli si scaglia contro le forze deleterie, contro le forze del caos simbolizzate dall’animale. Nella misura in cui il leone è un’allegoria che nasconde un concetto, è qui più facile comprendere che la figura reale

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13. Vaso scolpito (h. 12,7 cm; calcare), di provenienza sconosciuta, verso il 3000. British Museum, Londra. Sotto destra: 14. Rilievo della Stele della caccia (h. 80 cm, l. 57 cm; basalto), Uruk (Eanna), fine del IV millennio. Museo Nazionale di Baghdad.

15. Vaso scolpito (h. 15 cm; calcare), Tell Agrab, verso il 3000. Oriental Institute, Chicago.

rappresenta di fatto la regalità. Del resto è ciò che spiega il suo doppione con l’utilizzo di armi diverse: tutti i mezzi sono buoni per combattere le forze del male. Molto curiosamente il medesimo personaggio rappresentato come signore delle belve riappare nella medesima epoca in Egitto sul manico del coltello di Gebel el-Arak, evidenziando così che le due civiltà entrano a quell’epoca in contatto. Infatti gli Egiziani risalivano la costa levantina, probabilmente in barca, mentre gli uomini di Uruk si installavano nella Siria settentrionale, sia gli uni che gli altri per meglio procurarsi le materie prime che mancavano loro: il cedro del Libano, l’ossidiana e i metalli d’Anatolia. Senza dubbio il contatto è avvenuto nel Levante settentrionale senza che se ne possano precisare modalità e ampiezza. Se fino a questo momento il re era perfettamente caratterizzato (barba, chignon, turbante, lunga veste), il medesimo discorso può essere totalmente codificato e richiamarsi solo ad allegorie. È il caso, per esempio, di una scena dove un eroe nudo controlla i leoni che attaccano dei tori [fig. 17]. L’associazione della belva e dell’animale cornuto suggerisce le forze del male che minacciano la società e nella misura in cui la Stele della caccia indica che le forze del male sono combattute dal re, si deduce che il personaggio raffigurato frontalmente simbolizza la regalità. Infatti l’utilizzo della frontalità è uno dei modi per indicare che l’immagine rinvia a un concetto. La scena vuol dunque dire che “la regalità protegge la società dalle forze del male”. Si tratta della medesima idea raffigurata sulla Stele della caccia, ma questa volta si precisa che è la società a beneficiare dell’intervento regale. In quest’ottica la lotta contro il male può essere intesa ugualmente su un piano fisico e morale e in quest’ultimo caso ciò può voler dire che il re riconduce i suoi sudditi sul retto cammino, evidentemente quello voluto dagli dèi. Il medesimo discorso può essere riportato a formulazioni parziali su vasi in pietra scolpita [figg. 13 e 15]: a seconda che l’eroe nudo sia associato solo a leoni o anche a tori, egli

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domina le forze del male o protegge il suo popolo (nel caso specifico con la garanzia della divinità presente sotto forma di uccello). Poiché onora la divinità (sicuramente in tutte le accezioni del termine), il re ottiene da essa il potere e di conseguenza può far regnare sulla terra l’ordine voluto dagli dèi. Facendo regnare sulla terra prosperità, fecondità, fertilità, sicurezza e giustizia, la regalità appare provvidenziale. Sintetica e concisa, l’immagine mette in scena i principali protagonisti della rappresentazione sociale, la divinità, il re e la società per sottolineare in modo particolare la natura e l’origine della funzione regale. L’iconografia serve quindi a sostenere l’ideologia del momento, a tradurre dei concetti superiori che si ritiene necessario ricordare e difendere. Non si tratta, però, propriamente di pubblicità e neppure di propaganda, perché l’immagine si rivolge solo a un pubblico molto ristretto. Si tratta piuttosto di un manifesto: riproduce le cose, ne sostiene la realtà relativa o meglio, inscrive e rende perenni nella materia concetti che, anche se sempre presenti, non sono propriamente visibili.

Il Dinastico Arcaico Dal punto di vista tecnico l’architettura di questo periodo presenta alcune particolarità. Da una parte l’uso della pietra diventa molto raro e quello del gesso (colato o modellato) tende a sparire a favore del mattone cotto. Quest’ultimo, data la scarsità di combustibile, viene riservato agli elementi architettonici più esposti, basamenti e pavimenti (soprattutto a cielo aperto). D’altra parte i mattoni diventano spesso piano-convessi e allora sono disposti in file oblique opposte (secondo una disposizione detta, per questa

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16. Veduta aerea di Eridu. La ziggurat della fine del III millennio è ancora visibile ma il sito è celebre soprattutto per gli scavi dei livelli più antichi, del VI e V millennio.

17. Frammento di vaso (?) scolpito, Tell Agrab, verso il 3000. Museo Nazionale di Baghdad. 18. Kish, una grande città del Dinastico Arcaico, occupata precocemente da una popolazione con una dominante semitica.

ragione, spina di pesce) fra pile costruite in modo ordinario. Questa tecnica particolare, destinata a risparmiare tempo, ricorda il modo in cui eleviamo muri con blocchi di calcestruzzo all’interno di un’armatura di cemento. Sono stati scavati alcuni palazzi del Dinastico Arcaico a Eridu, Kish, Tell Agrab, ma anche a Mari sul corso centrale dell’Eufrate, dove esercita la sua influenza la civiltà sumero-accadica. Si tratta ormai di unità integrate che riuniscono tutti gli aspetti funzionali necessari. Non si può affermare che siano residenze reali dato che non vi è stato trovato alcun testo. Questi edifici molto vasti, con numerose stanze intorno alle corti interne, con un piano di cui è difficile ricostruire la configurazione, sono tutti in qualche modo diversi e hanno fornito pochissimo materiale. Per tutte queste ragioni ed anche perché la maggior parte di essi non è ancora stata completamente scavata, la loro analisi è estremamente delicata. Il più completo è quello di Eridu [E. 2] e sorprende immediatamente che vi siano due insiemi praticamente identici giustapposti senza che se ne possa trovare una ragione. Sappiamo che in alcuni regni africani, il re e la regina o la regina madre avevano ognuno il proprio palazzo. Forse qui vi è qualcosa di analogo. È certo quanto meno che il complesso dell’entrata, che distribuisce percorsi e accessi, si trova ad est e la zona di rappresentanza, caratterizzata da due grandi stanze, è dietro di esso, disposta intorno a una grande corte. Un lungo corridoio periferico non è tanto destinato al passaggio, ma piuttosto a procurare delle aperture nel muro interno per portare luce alle stanze adiacenti. Il Palazzo A di Kish [K. 3], a sud-est di Baghdad, è troppo frammentario per giustificare un lungo commento. Nel corpo sud dell’edificio, apparentemente più antico, l’attenzione è attratta da un vasto portico preceduto da un colonnato, perché si tratta di qualcosa di eccezionale in Mesopotamia. Nel corpo nord dell’edificio, di cui

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19. Ariete che si erge sull’Albero della Vita (oro, argento, rame, conchiglia, calcare rosso e bitume; h. 42,6 cm), Ur, cimitero reale (PG 1237), Dinastico Arcaico III, verso il 2600-2300. University of Pennsylvania Museum, Filadelfia. 20. Pannello di Anzu, con raffigurazione dei due cervi (2,40 × 1,10 cm; rame), Tell el-‘Ubaid, Dinastico Arcaico III, verso il 2600-2300. British Museum, Londra. 21-22. Colonne incrostate del tempio di Ninhursag (h. 115 e 173 cm; conchiglia, calcare rosa, scisto nero e bitume), Tell el-‘Ubaid, Dinastico Arcaico III, verso il 2600-2300. British Museum, Londra e University of Pennsylvania Museum, Filadelfia.

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probabilmente conosciamo solo una metà, si può notare un’entrata monumentale preceduta da una bella scala e, come a Eridu, da un lungo corridoio periferico. È certo che non sono visibili né le zone di abitazione, né le sale di ricevimento, che si trovavano nelle zone inesplorate, o al piano superiore. Il carattere labirintico dei camminamenti mostra che si tratta solo di spazi destinati a funzioni marginali, in particolare a magazzini. Un’altra costruzione eccezionale è stata parzialmente scavata nel medesimo sito, il Palazzo P [Kish 2]. L’entrata, con due vestiboli successivi, si apre su una corte interna che serve i diversi corpi dell’edificio. Si può riconoscere la cucina a est, apparentemente con i relativi magazzini. A sud-ovest un blocco con due grandi stanze a squadra fa pensare immediatamente alle abitazioni dell’epoca. Tutti questi elementi costituiscono solo un quartiere secondario del palazzo. L’essenziale doveva trovarsi più lontano a nord-ovest, dove sono disposti due altri blocchi isolati da lunghi corridoi. A sud-ovest una sala più grande attira l’attenzione, ma sarebbe bello sapere cosa vi era intorno. Sul sito di Tell Agrab, nella regione della Diyala, a nord-est di Baghdad, è stato scavato un altro importante edificio. Vi si vede normalmente un tempio dedicato a Shara, ma potrebbe anche trattarsi di un palazzo. Non ne resta molto, ma a ovest di una grande corte interna si trova una sala immensa che assomiglia molto a una sala del trono. In fondo è collocato un alto podio sul quale doveva sedere qualcuno di molto importante, poiché si è creduto opportuno mettere dei limiti per impedirne l’accesso. Se questo podio avesse ospitato una statua divina, i limiti sarebbero stati inutili perché il pubblico non aveva accesso al santuario. Un’altra stanza notevole, parzialmente conservata è posta in perpendicolare a sud-est, secondo una disposizione che ricorda Eridu. Nell’angolo sud un insieme di stanze disposte intorno a una corte fa pensare a delle abitazioni. All’angolo ovest, stanze con sedili suggerirebbero piuttosto che si tratti di locali amministrativi. Dell’epoca conosciamo anche qualche grande tempio, a Khafaja sulla Diyala [Khaf. 2-4], e più a sud a el-Hibba (Lagash) e a Tell el-‘Ubaid. Se il primo resta anonimo, quello di el-Hibba è descritto come l’Ibgal di Inanna, e quello di Tell

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el-‘Ubaid come la “casa di Ninhursag” (Inanna e Ninhursag erano grandi dee). In ambedue i casi questa identificazione è dovuta ai depositi di fondazione, cioè a elementi che possono essere associati alla costruzione senza dubbio alcuno. Questi edifici di misura considerevole sono tutti costruiti sul medesimo modello, radicalmente originale, con una potente cinta ovale che ospita una corte interna, alcune stanze periferiche e un’alta terrazza al centro sulla quale si trovava un edificio che in nessun caso si è conservato. Tuttavia una serie di costruzioni successive, scavate alla fine del XIX secolo a Tello (l’antica Girsu) [Tello 2], corrispondono al tempio del dio poliade (Ningirsu) e ci danno certamente un’idea di ciò che vi era sulle altre terrazze. Il santuario è una costruzione modesta con due stanze attigue (in tutto una sessantina di metri quadri) a una galleria periferica fondata almeno in parte su un colonnato. La ricostruzione di un edificio di questo genere sulla terrazza sopraelevata di Tell el-‘Ubaid [T. el-‘Ubaid 2], è particolarmente interessante perché permette di ricostituire un in-

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23. Frammento di vaso scolpito (25,1 × 18,6 cm; basalto), provenienza sconosciuta, Dinastico Arcaico III, verso il 2600-2300. Vorderasiatisches Museum, Berlino. 24. Placca perforata (17,4 × 16 cm; calcare), Tello (Girsu), Dinastico Arcaico III, verso il 2600-2300. Museo del Louvre, Parigi.

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sieme decorativo [ibid. 1]. Su questo sito, infatti, il santuario superiore è stato a un certo punto demolito in vista di una successiva ricostruzione. In questa occasione tutto quello che poteva essere ricuperato (travi, colonne, elementi decorativi) è stato accuratamente smontato e depositato ai piedi della terrazza e, per qualche ragione sconosciuta, ci è pervenuto. Colonne decorate con conchiglie e pietre colorate [figg. 21 e 22] sostenevano la galleria periferica. L’entrata separata di ciascuna delle due stanze era custodita da leoni a tutto tondo, fatti di fogli di rame su un’anima di legno e bitume. Sulla facciata alcuni tori a tutto tondo, costruiti con la medesima tecnica, pascolavano in un campo di fiori artificiali, secondo uno schema ben noto in iconografia. Al di sotto dell’entrata, un pannello ad altorilievo [fig. 20] rappresentava l’aquila leontocefala fra due cervi. Diverse teste di animali di metallo o di pietra, peraltro note, potevano, secondo le loro dimensioni, ornare ugualmente costruzioni eccezionali o elementi mobili. Nella cultura sumerica (o meglio sumero-accadica) delle prime dinastie, in quanto erede di quella di Uruk, non sorprende ritrovare un’ampia parte del medesimo programma iconografico. L’immagine del re che dispensa cibo non ha una discendenza diretta, ma gli animali cornuti che brucano l’Albero della Vita continuano ad essere presenti (per esempio, con gli arieti di Ur conservati a Filadelfia e al British Museum, fig. 19). Il re riappare invece abbeverando il suo gregge. A partire dal Dinastico Arcaico I, alcune scene mostrano un personaggio che abbevera un animale con le corna, parzialmente inserito in un edificio: malgrado l’assenza di caratteri distintivi può solo essere il re che fa assimilare al suo popolo l’essenza divina. L’edificio è l’immagine della matrice e ricorda che la società è stata creata dalla divinità; la scena peraltro è garantita dalla presenza divina, segnalata sia da un uccello normale, sia dall’aquila con le due ali spie-

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25. Umma, una delle grandi città del Dinastico Arcaico, rivale di Lagash. Sotto: 26. Rilievo e ricostruzione delle due facce della Stele degli avvoltoi (1,80 × 1,30 m; calcare), Tello (Girsu),

Dinastico Arcaico III, 2600-2300. Museo del Louvre, Parigi. 27. Umm el-Aqarib, dove sono state scavate vestigia del Dinastico Arcaico.

gate. A partire dal Dinastico Arcaico, l’immagine del buon pastore è messa in concorrenza con quella del “giardiniere”, che utilizza un’altra metafora. Il tema è spesso illustrato su piastre perforate dalla valenza commemorativa, caratteristiche dell’epoca e che dovevano essere fissate sui muri di edifici, probabilmente di templi. Una di esse [fig. 24] mostra una divinità femminile seduta, testa e busto frontali e gamba di profilo, secondo le convenzioni che si ritrovano su frammenti di un vaso in pietra [fig. 23]. Davanti alla divinità un personaggio maschile nudo innaffia l’Albero della Vita. Può essere solo il re, sia perché solo lui può stare così vicino alla divinità, sia perché altre scene più recenti sono più esplicite. Scaglie sovrapposte alludono alla montagna cosmica, cioè al mondo degli dèi e di conseguenza situano la scena in un tempio. La scena sembra voler significare che il re fa prosperare il suo popolo nelle norme stabilite dagli dèi. Un’altra piastra perforata, proveniente da Ur, riprende il medesimo tema su due registri, davanti una divinità seduta e dietro la porta di un tempio. Nel registro inferiore, un personaggio femminile attira l’attenzione con la sua rappresentazione frontale normalmente riservata alle divinità. Potrebbe trattarsi di una grande sacerdotessa. Il tema più apprezzato e anche il più duraturo resta però quello del re garante dell’ordine, spesso ritratto in modo concreto nella misura in cui la guerra è divenuta un’attività corrente. La Stele degli avvoltoi (al Louvre, fig. 26) che apparentemente era conservata nel tempio di Ningirsu, già ricordato, era stata commissionata da Eannatum per commemorare la vittoria della città-stato di Lagash sulla sua vicina Umma. La faccia detta storica mette in primo piano la figura reale con la veste a ciuffi lanosi caratteristica dell’epoca (il kaunakès), immediatamente riconoscibile per la statura più alta. Malgrado questa convenzione, l’assenza di prospettiva e la disposizione a registri sovrapposti, la

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28-29. Le due facce maggiori dello “Stendardo di Ur” (47 × 20,3 cm; conchiglia, lapislazzuli, calcare rosso e bitume), Ur, cimitero reale (PG 779), Dinastico Arcaico III, 2600-2300. British Museum, Londra. 30. Placca perforata di Ur Nanshe (47 × 40 cm; calcare), Tello (Girsu), Dinastico Arcaico III, 2600-2300. Museo del Louvre, Parigi.

scena non manca di realismo, per esempio nella rappresentazione di combattenti e di carri. Tuttavia i soldati nemici appaiono solo in modo stereotipato, sotto forma di corpi spogliati, calpestati dall’esercito avversario, ammucchiati o abbandonati ai rapaci. Si tratta quindi in realtà di scene di vittoria che esaltano soprattutto il ruolo della persona regale, rappresentata diverse volte. D’altronde assumendo la sua funzione di capo in guerra e garantendo la sicurezza del suo popolo, il re non fa che restaurare un ordine momentaneamente minacciato e, più precisamente, un ordine ritenuto conformarsi alla volontà divina. Quando, sotto la guida infallibile del proprio re, la città-stato trionfa sull’avversario e sulle avversità, la guerra assume la funzione rituale di rigenerazione. L’immagine del re vittorioso appare in tal modo come un’allegoria che rimanda al tema del re, garante dell’ordine del mondo e che si riferisce al carattere sacro del potere regale. Sull’altra faccia, il grande dio di Lagash, Ningirsu, ha preso nella sua rete gli umani derisori che hanno osato attaccare la sua città e li annienta con la sua mazza. Ha in mano l’aquila leontocefala, immagine della sua onnipotenza, se si vuole simbolo delle sue saette. Significa che la vittoria è prima di tutto della divinità, il re è solo il suo braccio armato. Si può dire la stessa cosa del celebre “Stendardo di Ur” (proveniente da una delle tombe “reali” di Ur, figg. 28 e 29), una specie di cassone in legno decorato di piastre incrostate di conchiglie, secondo una tecnica molto diffusa all’epoca e che ritroviamo fino alla Siria settentrionale. Da una parte è rappresentata una scena di vittoria molto simile a quella della Stele degli avvoltoi, dove il re ieratico domina con la sua alta statura una fila di nemici vinti, mentre i carri da guerra sembrano percorrere il terreno schiacciando i corpi denudati dei nemici morti; dall’altra una scena di banchetto corrisponde sicuramente alla cerimonia che celebra il ritorno della pace considerata come una sorta di età d’oro. Il re è seduto, brinda con i suoi notabili accompagnato dalla musica mentre converge verso di lui una fila di portatori di bottino. Il medesimo tema si trova, ma in forma abbreviata, sulle piastre perforate già menzionate. Lo spazio, molto più limitato, è spesso suddiviso in tre registri che rappresentano rispettivamente un banchetto, una sfilata di portatori di offerte e un carro, unico elemento rimasto evocante la guerra.

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Nelle doppie pagine seguenti: 32-33. Due statuette provenienti da Mari, Dinastico Arcaico III, 2600-2300: Ebih-il (h. 52,5 cm; alabastro e conchiglia e lapislazzuli per gli occhi), dal tempio di Ishtar. Museo del Louvre, Parigi; statuetta femminile (h. 36 cm; alabastro gessoso), dal tempio di Ninni Zaza. Museo Nazionale di Damasco.

In questa doppia pagina: Calchi di sigilli cilindrici di Ur, Dinastico Arcaico I, inizio del III millennio. In basso: 31. Sigillo cilindrico di Ishma Ilum (lapislazzulo) e calco. Dinastico Arcaico III, 2600-2300. Museo del Louvre, Parigi. b-h.

34-35. Due statuette dal “Tempio di Abu” di Tell Asmar (Eshnunna), Dinastico Arcaico II, verso il 2700: statuetta maschile (h. 72 cm; alabastro gessoso); statuetta femminile (h. 59 cm; gesso). Entrambe sono conservate al Museo Nazionale di Baghdad. 36. Diversi oggetti ritrovati nel Cimitero reale di Ur, Dinastico Arcaico III, 2600-2300 e conservati nell’University of Pennsylvania Museum, Filadelfia. a. Acconciatura della regina Puabi costituita da un pettine (h. 36 cm; oro, lapislazzuli e cornalina), anelli (diam. 2,7 cm; oro), una corona (oro, lapislazzuli e cornalina), un nastro d’oro e degli orecchini(diam. 11 cm; oro), PG 800. b. Orecchini d’oro (diam. 7,5 cm), PG 800. c. Collana (l. 40 cm; oro, lapislazzuli e cornalina), PG 800. d. Testa di toro e pannello frontale intarsiato della “grande lira” (testa del toro h. 35,6; oro, argento, lapislazzuli, conchiglia, bitume e legno), PG 789. e. Testa di leone (h. 11 cm; argento, lapislazzuli e conchiglia), PG 800. f. Bicchiere (h. 15,2 cm; elettro), PG 800. g. Vaso a forma di uovo di struzzo (h. 14,6 cm; oro, lapislazzuli, calcare rosso, conchiglia e bitume), PG 779.

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Come sulla Stele di Uruk, il tema del re garante dell’ordine universale continuerà ad esprimersi per quasi 2000 anni mediante scene di combattimento contro leoni dal carattere allegorico. A partire dall’inizio del III millennio, nel Dinastico Arcaico I, i sigilli cilindrici assumono un aspetto più banale come la loro iconografia, l’immagine diviene più stereotipata e meno esplicita. Ma all’inizio del Dinastico Arcaico alcune scene [fig. 31b-h] indicano ancora che la regalità protegge la società dal male, sebbene il personaggio in azione non presenti più alcun carattere distintivo. Spesso un uccello, che rappresenta la divinità, aggiunge la sua garanzia alla scena, significa che il re agisce in conformità alla volontà divina, o adempie la missione che gli è stata affidata. Le medesime scene, nel Dinastico Arcaico II e III, hanno un immenso successo, ma il personaggio è generalmente meglio individualizzato, con una fluente capigliatura che testimonia della sua vitalità e della sua forza e spesso (come sul cilindro di Ishma Ilum al Louvre, fig. 31a) con la rappresentazione frontale del viso che indica l’allegoria. Questo eroe nudo, o Gilgamesh, come viene chiamato, rappresenta la regalità. Tali rappresentazioni molto frequenti hanno valore profilattico e mostrano che l’ideologia reale è perfettamente integrata. Spesso viene omessa la bestia con le corna, come sulla Stele della caccia e la scena evidenzia solo la regalità che combatte o sottomette le forze del male. A margine di queste rappresentazioni più diffuse, appare occasionalmente anche l’immagine del re costruttore [fig. 30], a partire dal Dinastico Arcaico, mediante la rappresentazione della cesta che serve per trasportare il materiale. Si tratta infatti di fondazioni religiose che testimoniano a un tempo la pietà del re e il suo rapporto privilegiato con la divinità. Il tema che durerà nel tempo viene illustrato su piastre perforate commemorative, come quella di Ur Nanshe di Tello, al Louvre. Il Dinastico Arcaico vede inoltre lo svilupparsi di un’arte statuaria di piccole dimensioni (le opere superano raramente i cinquanta centimetri), senza relazione con l’ideologia reale, che rappresenta uomini e donne con le mani giunte vestiti nella maggior parte dei casi del kaunakès. Nel Dinastico Arcaico II la maggior parte di queste opere intagliate nella pietra tenera, sono molto schematiche, il modellato del viso è assai rudimentale, le spalle e i gomiti angolosi, con una veste rigida a forma di cono. Alcune attirano l’attenzione per gli occhi smisurati che danno al viso un’espressione estatica [figg. 34 e 35]. In seguito il modellato diviene più morbido e più realistico e predominano pezzi con pose più variate, dei quali gli esempi più belli sono forse quelli scoperti a Mari sul medio Eufrate [figg. 32 e 33]. In generale si concorda che queste statuette erano poste nei templi per pregare ininterrottamente e attirarsi così le buone grazie degli dèi, ma l’idea deve senz’altro essere sfumata. Parecchie centinaia di statuette di questo genere sono state scoperte nella parte settentrionale della pianura alluvionale, vicino alla Diyala (in particolare a Khafaja e Tell Asmar). Molte provengono da edifici che sono stati interpretati come templi, ma che sono piuttosto sale per udienze dove personaggi di stirpe reale dirimevano le controversie che potevano sorgere fra la popolazione. Alcuni dei querelanti, forse in seguito al buon risultato ottenuto, lasciavano un oggetto che in un modo o nell’altro li rappresentava: una statuetta con la loro effigie o, in mancanza di questa, la loro mazza da guerra. Quest’oggetto, allo stesso tempo simbolo di potere e arma concreta di difesa (come è usato ancora dagli Arabi dell’Iraq meridionale), si prestava a rappresentare metaforicamente la personalità di colui che la portava. Se gli edifici non erano templi si può immaginare che le decisioni che vi venivano prese si riferissero a valori intangibili, che i giudizi che venivano espressi godessero dell’assenso e della garanzia degli dèi. Può quindi essere che i visitatori soddisfatti dedicassero a queste entità superiori un oggetto a testimonianza della loro gratitudine. Oltre alle rappresentazioni figurative, il Dinastico Arcaico ci ha lasciato numerosi oggetti spettacolari. In particolare, le tombe del “Cimitero reale di Ur” contenevano un

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37. Testa attribuita a Naram-Sin (h. 36,6 cm; bronzo), epoca accadica, verso il 2250 a.C., da Ninive. Museo Nazionale di Baghdad.

corredo dal lusso inaudito, nel quale si utilizzavano ampiamente oro, argento e rame, lapislazzuli, cornalina e agata [fig. 36].

Il regno di Akkad Se non conosciamo affatto la grande architettura accadica, non essendo stata identificata la capitale dello stato, possediamo invece una serie di grandi opere d’arte, provenienti per la maggior parte da Susa dove erano state portate come bottino di guerra dall’elamita Shutruk Nahunte nel XII secolo. Queste stele e queste statue, che eviden-

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38. Frammento di stele della vittoria (h. 34 cm; calcare bianco), epoca accadica, verso il 23002250, da Tello (Girsu). Museo del Louvre, Parigi. 39. Stele di NaramSin (h. 2 m; calcare arenoso), epoca accadica, verso il 2250, da Susa. Museo del Louvre, Parigi.

ziano un’arte al servizio del potere, erano distribuite nelle principali città del regno per ricordare la grandezza del sovrano. Diverse stele di vittoria accadiche in diorite importate dal paese di Magan (l’attuale sultanato di Oman) riprendono il discorso stereotipato dell’epoca precedente, con i medesimi clichés (il nemico nudo atterrato, squartato dagli avvoltoi o preso nella rete di qualche divinità, fig. 38). Tuttavia le file di nemici vinti ne costituiscono la maggior parte e ricordano che le spedizioni guerresche (soprattutto quelle condotte fuori dalla pianura alluvionale) avevano per scopo non solo di riportare bottino, ma anche schiavi. Una stele in calcare arenoso, attribuita a Naram-Sin, è molto più originale [fig. 39]. Mentre la Stele degli avvoltoi era molto statica, quella di Naram-Sin colpisce per il suo dinamismo. Calpestando i nemici smembrati, il re, alla testa dei suoi uomini, si lancia all’assalto di una montagna con un impeto incontenibile. Salendo sulla montagna, Naram-Sin riproduce sulla sua stele la posizione che, su numerosi sigilli dell’epoca, è attribuita al dio solare in trionfo. La scena è quindi prima di tutto una sorta di epifania, ricalcata su quella del dio e il parallelo indica che la vittoria reale ha una dimensione metafisica. Di fatto la montagna rappresentata è una rielaborazione della Montagna cosmica. Ponendo il re sulla sua som-

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Nella doppia pagina seguente: 40. Sigilli cilindrici di epoca accadica: a. Sigillo cilindrico di Ibnisharri (serpentino) e calco, epoca accadica, verso il 2200. Museo del Louvre, Parigi. b. Sigillo cilindrico (h. 2,8 cm, diam. 1,6 cm; diaspro rosso) e calco, epoca accadica, verso il 2200. Metropolitan Museum, New York. c. Sigillo cilindrico (serpentino verde-nero) e calco, epoca accadica, verso il 2200. Pierpont Morgan Library, New York. d. Sigillo cilindrico (h. 3,6 cm, diam. 2,3 cm; calcedonio) e calco, epoca accadica, verso il 2200. British Museum, Londra. e. Calco di sigillo cilindrico (h. 3,9 cm) epoca accadica. Museo del Louvre, Parigi. f. Calco del sigillo cilindrico con la raffigurazione di re Gudea (h. 2,7 cm), Tello (Girsu), “Seconda dinastia di Lagash”, verso il 2150. Museo del Louvre, Parigi. g. Sigillo cilindrico di Hashamer (h. 5,3 cm, diam. 3 cm; nefrite) e calco. Ur III, regno di Ur-Nammu. British Museum, Londra.

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41-42. Due statuette di Gudea, appartenenti alla “Seconda dinastia di Lagash”, da Tello (Girsu), verso il 2150. In quella a sinistra il sovrano regge un vaso dal quale zampilla l’acqua. H. 62 cm; calcite, quella di sinistra; h. 1,07 m; diorite, quella di destra. Museo del Louvre, Parigi. 43. Statuetta femminile (h. 17 cm; steatite), “Seconda dinastia di Lagash”, Tello (Girsu), 2150 ca. Museo del Louvre, Parigi.

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mità, quindi al centro del mondo, l’immagine esprime qui, con più forza che mai, il ruolo determinante del re nel processo di rigenerazione. Questa elaborazione del discorso iconografico deve senza dubbio essere messa in parallelo con la modifica del titolo che fa del sovrano il “re delle quattro regioni” (quindi del mondo intero) e che gli fa associare il suo nome al determinativo divino (il segno che fino a quel momento caratterizzava gli dèi). Secondo l’uso precedente, le scene rappresentano la regalità che combatte e domina le forze del male, come è il caso del sigillo cilindrico del British Museum, magnificamente inciso, dove un eroe nudo riccioluto, un ginocchio appoggiato a terra, afferra un leone con le braccia o anche di un sigillo di New York, dove un eroe nudo protegge un animale cornuto e un toro androcefalo affronta un leone [fig. 40d, c]. Riappare anche il tema del re che abbevera il suo gregge, come sul celebre sigillo di Ibnisharri del Louvre [fig. 40a], con un vaso da cui zampilla acqua molto simile a quello dell’Uruk Recente, qui tenuto da un eroe nudo ricciuto che rappresenta la regalità. Il medesimo eroe nudo appare a volte, in piedi o con un ginocchio a terra, tenendo una di quelle aste inanellate poste da una parte e dall’altra delle porte dei templi [fig. 40b]. Si deve interpretare sicuramente che la regalità, in quanto intermediaria fra i due mondi, è l’istanza che dischiude agli uomini l’accesso ai benefici divini.

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L’arte aulica si manifesta peraltro, e per la prima volta, con statue in piedi o sedute, più o meno di grandezza naturale, purtroppo per la maggior parte frammentarie. Il tradizionale kaunakès lascia il posto a lunghe vesti a frange e il modello anatomico è molto più realistico. Come le stele, queste statue erano fatte in serie e inviate nelle diverse parti del regno come propaganda reale. Una testa di rame di estrema finezza, detta “testa di Ninive” a causa della sua provenienza, apparteneva forse anch’essa a una statua reale [fig. 37]. La glittica dell’epoca si distingue sia per la qualità dell’incisione, sia per la predilezione per i soggetti mitologici. Nella misura in cui l’unificazione accadica ha comportato la sintesi dei pantheon locali, che in parte coincideva, è sicuramente in quest’epoca che si pensa di dotare ogni divinità di attributi e pose che la distinguono. Ea (l’equivalente accadico di Enki) è associato a un banco di pesci, Shamash (il dio solare, Utu in sumerico, fig. 40e), i cui raggi formano l’aura luminosa, tiene in mano la chiave che gli permette ogni mattina di zampillare trionfalmente dalla montagna (rappresentata con scaglie sovrapposte), Ishtar (Inanna in sumerico), raffigurata frontalmente, occasionalmente alata, alza un ginocchio in segno di vittoria per ricordare il suo aspetto guerriero, mentre le sue spalle sono contornate da armi.

Lo stato di Lagash Quando il regno accadico scompare, le città-stato recuperano la loro indipendenza. Gli scavi francesi condotti a Tello (l’antica Girsu, una delle tre città dello stato di Lagash), a partire dalla fine del XIX secolo, non sono riusciti a scoprire vestigia architettoniche

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44-45. Veduta aerea e facciata nord-orientale della ziggurat di Ur, epoca di Ur III, XXI secolo.

46. Figurina di fondazione di UrNammu (h. 33,5 cm; bronzo), epoca di Ur III, XXI secolo. Pierpont Morgan Library, New York. Nella doppia pagina seguente: 47. Ziggurat d’Uruk, Ur III, fine del III millennio.

sostanziali, ma hanno prodotto tutta una serie di statue per la maggior parte in diorite, modellate accuratamente come all’epoca di Akkad. Rappresentano grandi personaggi dell’epoca, qualche volta femminili [fig. 43], per la maggior parte maschili e soprattutto i principali re che si succedettero al potere, Ur Ba’u, Gudea e Ur Ningirsu. Solo Gudea ha lasciato una ventina di statue che lo rappresentano, seduto o in piedi, le mani giunte [figg. 41 e 42]. Erano distribuite nei principali templi della città a testimonianza della sua pietà e per attirarsi i favori divini. La pietà del sovrano, destinata senza dubbio a manifestare il ritorno ai veri valori dopo l’egemonia accadica, si esprime anche con numerose fondazioni religiose, come viene ricordato da una delle sue statue chiamata “l’architetto con pianta”, poiché la pianta del tempio di Ningirsu è riprodotta sulle sue ginocchia. Il tema del re costruttore riappare ora in forma più banale, con figurine di fondazione in bronzo sepolte sotto un edificio nei punti strategici, in particolare angoli e porte. Come Ur-Nanshe, Gudea è rappresentato con una cesta. Un’altra statua mostra il sovrano con un vaso con acque zampillanti per illustrare il tema già noto del re che porta l’abbondanza. Il liquido soprannaturale popolato di pesci che simbolizzano gli embrioni della vita, si riferisce al concetto di apsû, l’Oceano primordiale di cui è padrone il grande dio Enki/Ea. Questa relazione privilegiata con il grande dio creatore appare anche sul sigillo del sovrano [fig. 40f] dove il suo dio personale lo presenta al padrone delle acque primordiali, mentre una dea, chiamata Lama, intercede in suo favore. È una delle più antiche attestazioni di quelle scene di presentazione che in seguito costituiranno l’essenziale del repertorio della glittica. Il grande dio seduto (sia che si tratti effettivamente di Enki/Ea, sia che il dio poliade Ningirsu adotti qui gli attributi di quest’ultimo, come è stato suggerito) è contornato da vasi con acqua zampillante

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dalla quale in un caso emerge l’Albero della Vita. Ricordandosi che, in una delle sue statue, è Gudea stesso a tenere il vaso, si può comprendere che qui il dio si appresta a consegnarglielo e che quindi abbiamo davanti una sorta di scena di intronizzazione. La stessa scena ha un preciso parallelo su una grande stele in calcare di Berlino, purtroppo molto frammentaria.

La III Dinastia di Ur Alla fine del millennio si ricostituisce uno stato unificato ma, mentre lo stato accadico era fondato sulla minaccia di guerra, quello di Ur III si basa su un’amministrazione invadente. Riprendendo l’idea di uno stato centralizzato i sovrani di questa dinastia cercano la legittimazione della loro impresa egemonica in uno sforzo letterario senza precedenti (è allora che fanno la loro apparizione i primi poemi riguardanti Gilgamesh, un re mitico scelto per rappresentare la regalità), in nuove forme architettoniche e in un’arte aulica all’altezza delle loro ambizioni. In effetti i re di Ur si distinguono per la loro attività architettonica molto intensa. Si devono a loro, specialmente a Ur-Nammu, le prime ziggurat, queste enormi masse di mattoni a più piani che dominano ancora numerosi siti mesopotamici. Quella di Ur [figg. 44 e 45; Ur 3-6], consacrata al dio Luna Nanna, è la meglio conservata e più nota grazie agli scavi di Sir L. Woolley e parzialmente restaurata. È un massiccio pieno in mattoni crudi, con rivestimento di mattoni cotti. La sua base è di 62,50 × 43 m. Il piano inferiore, che con una leggera scarpa raggiunge gli 11 m di altezza, era sormontato da uno o due altri piani più stretti, in cima ai quali si trovava probabilmente un tempio. Una scala perpendicolare alla facciata e altre due addossate a questa convergono a mezza altezza del secondo piano, su un pianerottolo da cui forse partivano scale divergenti che permettevano di raggiungere la sommità. La ziggurat è l’immagine della montagna cosmica dove cominciano e finiscono tutte le cose, come le piramidi egiziane, ma mentre queste sono legate alla morte (benché i faraoni che vi sono sepolti siano destinati a una sorta di risurrezione), gli edifici mesopotamici sono alla sorgente della vita. In ogni caso la ziggurat faceva parte di un vasto complesso cultuale [Ur 2]. A Ur essa è associata a una corte sopraelevata alla quale si accedeva direttamente dall’esterno attraverso una porta monumentale (la Edublalmah) che serviva anche da tribunale e da deposito di archivio. Questa corte comunicava anche a nord-est con un’altra, più piccola (chiamata “corte di Nanna”) che, con un’entrata ben più maestosa, doveva far parte del camminamento principale. Le due corti, ugualmente circondate da una serie di stanze, si trovavano in un recinto comune a squadra. Lo spazio situato a sud della più piccola era occupato da una costruzione (Enunmah) la cui pianta fa pensare a dei magazzini, ma che forse aveva una pianta con funzioni differenti. A sud della ziggurat, una costruzione indipendente di 79 × 76,50 m (il Giparu) ospitava da una parte il santuario di Ningal, paredro di Nanna e dall’altra la residenza della sacerdotessa addetta ad essa. Il tempio propriamente detto è degno di attenzione in quanto vi appare per la prima volta una soluzione che sarà ripresa continuamente in seguito e che consiste nell’associare una corte interna a due stanze bislunghe parallele, delle quali la prima è l’anticella e la seconda, con una nicchia assiale, la cella. Una soluzione molto simile si trova nei palazzi dell’epoca e non a caso. Se si concepisce il tempio come la dimora della divinità, si deve concludere che la divinità ha bisogni paragonabili a quelli dei grandi di questa terra e che l’edificio nel quale non solo abita, ma viene vestita, ornata e nutrita deve rendere onore al suo ospite prestigioso. Sta di fatto che ancora più a sud (senza dubbio al di fuori del recinto sacro, malgrado la restituzione proposta da chi ha condotto gli scavi), una costruzione quadrata

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A fronte, in alto: 48. Ricostruzione della stele di Ur-Nammu e frammento (105 × 71,8 cm; calcare), Ur, epoca di Ur III, XXI secolo. University of Pennsylvania Museum, Filadelfia. In basso: 49. Stele di Shamash (67 x 62 cm; calcare), Susa, epoca di Ur III, XXI secolo. Museo del Louvre, Parigi.

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di 55 m di lato, attribuibile a Ur Nammu, è probabilmente un palazzo, anche se alcuni mattoni inscritti fanno piuttosto pensare a un tempio (l’Ehursag, nella misura in cui HUR.SAG allude alla Montagna cosmica). È interessante perché costituisce la prima attestazione di un complesso palaziale di ricevimento che associa, come nel tempio che abbiamo appena ricordato, una corte più o meno quadrata con due stanze bislunghe parallele che, in un contesto profano, divengono un’anticamera e una sala del trono. L’attività architettonica dei re di Ur è ugualmente attestata da numerose figurine di fondazione in rame ritrovate a Ur, Nippur, Tello, Uruk e Susa che mostrano Ur Nammu e il suo successore Shulgi che portano ceste [fig. 46]. È evocata anche sulla stele di Ur Nammu di cui sono stati raccolti i frammenti sparsi vicino alla ziggurat di Ur [fig. 48]. Su uno dei cinque registri della facciata più leggibile, il re, in piedi dietro a un dio seduto, porta sulla spalla gli utensili del costruttore: un’ascia, una cesta e un aratro smontato (per scavare la terra destinata ai mattoni). Il dio, da parte sua, pare assistere alla costruzione di un edificio davanti e al di sotto di lui. Si riconoscono degli operai con ceste, alcuni dei quali salgono su scale appoggiate al muro di mattoni. Su un altro registro, il re innaffia l’Albero della Vita in due scene rigorosamente simmetriche davanti a due divinità che potrebbero essere i signori del luogo, Nanna e il suo paredro. Il dio porta i simboli del potere, ma il cerchio, normalmente associato al bastone, qui è sostituito da una corda arrotolata. Quest’anomalia potrebbe essere spiegata con il fatto che la stele è legata a una fondazione religiosa: cerchio e bastone assumerebbero in questo caso la forma della corda di un agrimensore e di una canna unità di misura, come se il dio stesso avesse disegnato la pianta del suo tempio. A partire dall’epoca di Ur III, effettivamente, le insegne del potere divino prendono spesso la forma di un cerchio e di un bastone (rispettivamente maschile e femminile), come, per esempio, si può vedere sulla stele detta di Shamash, sicuramente contemporanea [fig. 49]. La glittica dell’epoca, di bella fattura, evidenzia essenzialmente scene di presentazione simili a quelle del sigillo cilindrico di Gudea [fig. 40g].

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L’arte mesopotamica: architettura e arti plastiche dall’inizio del III millennio alla caduta di Babilonia Jean-Daniel Forest e Nathalie Gallois

I regni amorrei Sebbene la caduta del regno di Ur III indichi la fine della preponderanza sumerica, gli invasori amorrei che si stabiliscono in Mesopotamia ne assumono l’eredità. Nella pianura alluvionale il regno di Isin esercita un ruolo preminente per un certo tempo prima di essere detronizzato da quello di Larsa. In parallelo altri regni si sviluppano nella regione della Diyala (Eshunna) e nella Mesopotamia del nord (come quello di Mari sul medio Eufrate o quello di Ekallâtum sul medio Tigri) fino a quando Hammurabi ricostituisce a proprio profitto l’unità territoriale intorno ad un agglomerato che esce in quel momento dall’ombra, Babilonia. Da allora si parla di Babilonia per indicare la pianura alluvionale. I sovrani amorrei, come i re di Ur, furono grandi costruttori. Se la Babilonia di Hammurabi ci è totalmente sconosciuta perché affondata nella nappa freatica sotto la città neo-babilonese, diversi edifici amorrei sono stati scavati in altri siti. Si tratta di alcuni dei loro palazzi, come quello di Nur-Adad (1865-1850) a Larsa [L. 1] o quello di Sin-Kashid (1850 circa) a Uruk [U. 6], dove si ritrova il complesso per il ricevimento apparso nell’epoca precedente con la differenza che l’anticamera questa volta è separata dalla sala del trono da una serie di piccole stanze. Dando le spalle al muro della sala del trono questa soluzione permette di evitare un muro mediano molto largo. Ma il palazzo meglio conosciuto è quello di Mari, grazie all’abbondanza del materiale raccolto e grazie, soprattutto, a circa 20.000 tavolette che sono state scoperte in loco. Costruito alla fine del III millennio, ingrandito e rimaneggiato nel tempo, l’edificio che ci è pervenuto è quello di Zimrilim (1775-1761) [Mari 1 e 2]. Conservato in alcuni punti fino a cinque metri di altezza, si estendeva su circa 2,5 ettari e comprendeva più di 300 sale, corridoi e corti solo al piano terreno. L’entrata era a nord, attraverso una piccola corte ben sorvegliata, unita per il lato est agli alloggi dell’intendente che controllava l’accesso all’edificio. Al di là, una grande corte (131) permetteva la circolazione in ogni direzione. A sud di questa, una grande stanza simile nell’aspetto a un ivan (aperta sulla corte per tutto un lato), di fronte all’entrata, attira l’attenzione. Vi si vede una cappella consacrata a Ishtar, ma si tratta più probabilmente di una sala dove il re teneva udienza, a giudicare, fra l’altro, dalle pitture frammentarie che vi sono raccolte (fra cui una scena dove il re innaffia l’Albero della Vita). A sud-est della corte un particolare camminamento conduceva a un quartiere autonomo che, pare, ospitasse il santuario del palazzo. A ovest della corte, un corridoio a gomito portava a una seconda corte (106), chiamata “corte della

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palma” poiché vi era sistemato un albero artificiale. Questa dava accesso a sud a due immense sale parallele allungate, secondo un progetto ereditato dai re di Ur. La prima era un’anticamera al centro della quale una statua di una divinità femminile con vaso zampillante fungeva da fontana. La seconda era la sala del trono, larga 11,25 m e lunga 25 m. Il re stava a ovest su un podio sormontato da un baldacchino, di faccia a una sorta di tribuna dove erano installate le effigi dei suoi antenati. È qui che si tenevano i grandi ricevimenti come è indicato dall’immediata prossimità, a ovest, delle cucine dove sono stati ritrovati forni e numerosi stampi per dolci. Il resto del pianterreno ospitava gli alloggi del personale, locali amministrativi, archivi e una quantità di magazzini. A sud in particolare, tutta una zona di depositi era accessibile direttamente dall’esterno con entrate secondarie, destinate a garantire l’approvvigionamento del palazzo. Gli appartamenti reali erano confinati al primo piano: quelli del re sopra ai magazzini che si trovavano a est della sala del trono, quelli delle regine a nord-ovest del palazzo. Sale da bagno con vasche e gabinetti collegati a condotte e a pozzi perdenti, garantivano a questi appartamenti tutte le comodità. Il palazzo era anche decorato con numerose pitture murali, con colori minerali applicati a tempera sull’intonaco bianco. La maggior parte erano molto frammentarie, soprattutto quelle cadute dal primo piano (gli appartamenti reali erano particolarmente decorati), ma un pannello dipinto lungo 2,50 m e alto 1,75 fu ritrovato al suo posto sul muro sud della corte 106, proprio a destra del passaggio che portava alla sala del trono [Mari 3]. All’interno di un recinto rettangolare, in cui si viene introdotti da due dee protettrici (le dee lama ereditate dall’epoca di Ur III), due coppie di alberi disposti simmetricamente alludono all’Albero della Vita e ispirano l’idea di un meraviglioso giardino. All’esterno vi sono due palme e due coppie di piccole figure umane si arrampicano sul tronco come per accingersi a coglierne i datteri. Si tratta dell’immagine dell’umanità

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50. Veduta aerea di Larsa, una grande città del secondo millennio. Si riconoscono il palazzo di Nur-Adad, la ziggurat e l’E.Babbar, il tempio di Shamash.

51. Veduta aerea di Abbas el-Kurdi, un piccolo sito nelle vicinanze di Larsa, che dà un’idea del paesaggio attuale.

che, con fatica, si sforza di raccogliere i benefici divini, secondo una metafora che si è conservata a lungo sotto forma dell’albero della cuccagna. Un uccello, simbolo della divinità, prende il volo dai loro rami. I due altri alberi sono coperti da fiori meravigliosi. Al centro del giardino, sorvegliato da tre coppie di mostri ibridi, si erge il santuario rappresentato in pianta sotto forma di due rettangoli sovrapposti. Nell’anticella sottostante vi sono due dee con vasi zampillanti, segno di abbondanza. Nella cella superiore, il re viene introdotto da due dee lama a una Ishtar guerriera, in presenza di un dio secondario. Secondo uno schema comune la dea è in piedi, armata, con una lunga veste sciancrata che le permette di muoversi liberamente, un piede appoggiato su un leone. Tende verso il re il cerchio e il bastone invitandolo certamente a ricevere le insegne della sua onnipotenza. È questa la scena che è valsa al pannello decorativo il nome di “pittura dell’investitura”. Infatti, anche se molte rappresentazioni anteriori mostravano già molto chiaramente che il re aveva la garanzia divina, qui è evidentissimo che la regalità è un dono divino. Il tema, del resto, è ben noto in forma letteraria a partire dalla III Dinastia di Ur: in un poema chiamato Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi, per esempio, la dea Inanna (equivalente sumerico di Ishtar) dona all’eroe dei frammenti dell’Albero della Vita nei quali si possano intagliare due oggetti, rispettivamente lineare e circolare, che simbolizzano i suoi pieni poteri. Al di sotto di questo pannello un lungo fregio dipinto è presente solo per frammenti, fra i quali il più importante è noto con il nome di “ordinatore del sacrificio” [fig. 52]. Un personaggio sovradimensionato, probabilmente il re, guida un corteo che, su due registri, comprende i dignitari e i tori per il sacrificio. L’architettura religiosa, come all’epoca di Ur, può riprendere principi similari, come è testimoniato da un vasto complesso cultuale (circa 100 × 67 m) costruito da un principe di Eshnunna verso il 1850 a Neribtum (Tell Ischali), una città sulle rive della Diyala

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[Neribtum 1-2]. Nella parte ovest che ospita il santuario di Ishtar Kititum una porta d’entrata monumentale dà accesso a una grande corte rettangolare al fondo della quale due successive sale bislunghe costituiscono l’anticella e la cella, come nel più antico giparu di Ur. L’E.Babbar di Larsa [L. 4], cioè il grande tempio dedicato al dio solare Shamash, invece, è totalmente differente. Si tratta di un immenso complesso, probabilmente costruito nel XVIII secolo da Hammurabi, che si estende su più di 300 metri di lunghezza. Comprende due poli: a nord-est una piccola ziggurat associata a una corte in una cerchia rettangolare e il santuario propriamente detto a sud-ovest. Fra i due si stendevano due grandi corti successive, attorniate da stanze dalle funzioni incerte (ospitavano forse gli scribi e altre categorie professionali necessarie al funzionamento del tempio) che, probabilmente, erano associate lateralmente a corti secondarie. Un camminamento assiale, attraverso tre porte monumentali, consentiva di passare dalla ziggurat al santuario, mediante una scalinata maestosa che permetteva di superare un forte dislivello. Non è stato possibile raggiungere il santuario del XVIII secolo (quello scavato risale solo all’epoca neo-babilonese), ma sappiamo che era molto sopraelevato, forse costruito sulle rovine di un’antica ziggurat di Ur III. Nella seconda corte le facciate erano decorate da doppie nicchie e da pannelli a forma di semicolonne tortili (i tori erano intagliati nel

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52. Pittura detta “dell’ordinatore del sacrificio”, nel palazzo di Zimrilim a Mari, XVIII secolo. Museo del Louvre, Parigi. A fronte: 53-54. Codice di Hammurabi (h. 2,25 m; basalto nero), XVIII secolo. Pare che la stele, scoperta a Susa, sia stata eretta a Sippar. Museo del Louvre, Parigi.

Nella doppia pagina seguente: 55. L’adorante di Larsa (19,5 × 14,8 cm; bronzo, oro e argento), Larsa, inizio del II millennio. Museo del Louvre, Parigi. 56. Testa regale (h. 15 cm; diorite), XIX-XVIII secolo, ritrovata a Susa ma originaria della Mesopotamia. Museo del Louvre, Parigi.

mattone crudo e soprattutto nell’intonaco) [Larsa 2 e 3], secondo uno stile attestato ugualmente a Ur e nella Mesopotamia settentrionale, a Tell el-Rimah (l’antica Karanâ) e a Tell Leilan (l’antica Shubat-Enlil) [Sh.-E. 1]. Fra gli oggetti, il “Codice di Hammurabi” è forse l’opera più famosa di quest’epoca [figg. 53 e 54]. È una stele in basalto nero lucido, trasportato a Susa dal re elamita Shutruk Nahunte nel XII secolo. Ne esistevano diversi esemplari, diffusi nelle grandi città del regno, ma questo è l’unico ad esserci pervenuto intatto. Piuttosto che un codice propriamente detto, il testo di 3500 righe è una raccolta di sentenze a cui bisognava ispirarsi. Al vertice della stele, un rilievo ricorda che le decisioni del re erano giuste perché erano ispirate da Shamash stesso, il dio della giustizia, per la ragione che nulla gli sfugge. Hammurabi, con una lunga veste e sul capo un berretto dal bordo largo (secondo una tradizione che risale a Gudea), sta in piedi, una mano alzata in segno di saluto o rispetto, davanti a una divinità in trono al di sopra della Montagna cosmica (a scaglie), la cui identità è suggerita dai raggi emanati dalle sue spalle. Il dio tiene in mano le insegne della sua onnipotenza, il cerchio e il bastone che il re deve sicuramente ricevere (come nella pittura di Mari) per esercitare senza fallire il suo ruolo di giudice supremo.

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Una piccola testa in diorite, attribuita per molto tempo allo stesso sovrano, benché senza prove, si distingue per un certo sforzo di realismo [fig. 56]. Con un copricapo a bordo largo, il personaggio barbato sembra essere segnato dall’età e la sua espressione un po’ disillusa è ben lontana dalla serenità ostentata da Gudea. Diversi sovrani amorrei, come il principe di Eshnunna o Puzur Ishtar di Mari [fig. 57], ci hanno lasciato statue in diorite, alcune a grandezza naturale, nella tradizione di quelle di Gudea. Il re è in piedi o seduto in posizione ieratica, con le mani giunte. Una statuetta in bronzo rappresenta un personaggio inginocchiato, un braccio sul petto, l’altro alzato davanti a lui [fig. 55]. Sullo zoccolo, che comprende sul davanti una piccola vasca, vi è un bassorilievo con un ariete sdraiato e un personaggio inginocchiato di fronte a una divinità (?) seduta. La figurina, con il viso e le mani ricoperte da foglia d’oro è un ex-voto, come indicato da qualche riga di testo, dedicato da un abitante di Larsa al dio Amurru per la vita del suo sovrano Hammurabi. La glittica dell’epoca è caratterizzata dalla spiccata preferenza per una pietra grigia, dall’aspetto metallico, l’ematite. L’incisione è di un’estrema finezza, ma l’iconografia ereditata dall’epoca neo-sumerica è molto ripetitiva, con scene di presentazione dove un fedele (spesso identificato da un’iscrizione) viene condotto da una dea lama al cospetto di una divinità.

Il regno cassita Quando, con un raid senza futuro, il re ittita Mursili I conquista Babilonia nel 1595 mettendo così fine alla dinastia di Hammurabi, arriva il turno dei Cassiti. Queste popolazioni, originarie forse dello Zagros, organizzate sicuramente su modello tribale, erano già presenti nella regione e servivano occasionalmente come mercenari o agricoltori. Quando si presenta l’occasione, invadono il paese ma adottano la lingua accadica, si acculturano e perpetuano la civiltà babilonese sul piano sia politico, sia religioso, sia intellettuale. I primi secoli della loro dominazione sono abbastanza oscuri ma sembra che l’unità non venga restaurata prima del XV secolo: come gli Amorrei, avevano dapprima creato un mosaico di piccoli regni. I Cassiti riprendono per conto loro la politica tradizionale di mantenimento e di costruzione di santuari. A Uruk, un tempio dedicato a Ishtar sembra essere opera di un re cassita chiamato Kara-Indash, alla fine del XV secolo. La sua facciata presentava una decorazione in mattoni cotti modanati, molto originale, che alternava nicchie con dee e dèi barbati con in mano vasi zampillanti [fig. 59]. Troveremo una decorazione di questo genere a Susa nel XII secolo sulla facciata di un tempio dinastico elamita, con la differenza che i mattoni modanati saranno invetriati (verdi o gialli). Nel corso del XIV secolo, un altro re cassita, Kurigalzu fonda una nuova capitale alla quale dà il suo nome, Dûr Kurigalzu (oggi Aqar Quf, a una trentina di chilometri a ovest di Baghdad). Vi costruisce una ziggurat in mattoni crudi rivestiti da mattoni cotti [fig. 58]. L’edificio, che sussiste ancora oggi con un’altezza di 57 metri, raggiungeva forse i 70 ed era associato a tre templi dedicati a Enlil, Ninlil e Ninurta. Alla distanza di 700 metri, è stato parzialmentre scavato un palazzo immenso (almeno 9 ettari) [Aqar Quf 2]. Le stanze erano distribuite intorno a corti multiple, secondo lo stile corrente, ma per la loro disposizione molto particolare non si conoscono paralleli. Allo stesso tempo i costruttori sembrano aver largamente utilizzato la volta e sono state scoperte pitture murali.

58. Aqar Quf (Dûr Kurigalzu), vestigia restaurate della ziggurat del XV secolo.

57. Statua di Puzur Ishtar di Mari (h. 1,75 m; diorite), inizio del II millennio, ritrovata a Babilonia. La testa si trova al Vorderasiatisches Museum di Berlino, il corpo al Museo di Istanbul.

pietre miliari dalla cima arrotondata le cui iscrizioni, quando esistono, indicano attribuzioni di terre e qualche volta esenzioni da tasse. Invece di segnare i terreni in questione, venivano poste nei templi per commemorare l’operazione, evitando così che venisse rimessa in causa. La maggior parte di queste pietre miliari hanno una decorazione a bassorilievo che ricorda una serie di dèi sotto forma di simboli (molti dei quali non erano ancora conosciuti), forse per approfittare al massimo dello spazio disponibile. La lista degli dèi varia ed è plausibile chiedersi se essa non si riferisca agli dèi presenti in cielo (sotto forma di costellazioni) al momento della transazione. Il kudurru di MeliShipak (inizio del XII secolo, fig. 60) presenta, per esempio, i tre simboli astrali di Sin (la luna), Shamash (il sole) e Ishtar (Venere), poi le tre più importanti divinità del pantheon con le due tiare di Anu e di Enlil e una testa di ariete su un capricorno che rappresenta Ea, mentre il simbolo a forma di omega più a destra potrebbe alludere a Ninhursag o Nintu. Nel registro inferiore sono riprodotti Ninurta (la tripla arma su un leone alato), Zababa (l’asta con la testa di rapace), Harba (l’uccello), Nergal (l’asta con la testa di leone) e una divinità non identificata. Questo tipo di oggetti sopravviverà ai Cassiti, a partire dalla Seconda Dinastia di Isin (1154-1027) fino al VII secolo [fig. 61].

Fra gli oggetti, l’epoca cassita vede la nascita di pezzi originali, i kudurru. In accadico il termine si riferisce al concetto di frontiera e di pietra miliare. In effetti sono

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59. Uruk. Facciata in mattoni cotti stampati di un tempio dedicato a Ishtar da Kara-Indash, XV secolo. La ricostruzione si trova al Vorderasiatisches Museum di Berlino.

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Il regno medio-assiro La dinastia cassita si estingue nel 1155, quando l’elamita Shutruk-Nahunte prende Babilonia e saccheggia il paese. Fino alla fine del millennio le succede una seconda dinastia d’Isin, fra gli altri con Nabucodonosor I. Ma, a partire dal XIV secolo, una nuova potenza si sviluppa sul medio Tigri con il regno medio-assiro, intorno alla città di Assur (eponimo del dio locale). Adad-Nirari I (1307-1275) vi fece costruire un palazzo che è stato scavato solo parzialmente. Un tempio dedicato a Ishtar [Assur 2] risale a Tukulti-Ninurta I (12441208). Un vestibolo allungato conduce a una sala parallela più vasta al fondo della quale si trova la cella sopraelevata, accessibile da una larga scala assiale. In uno degli annessi del tempio è stato ritrovato un altare cubico in alabastro, una specie di trono con braccioli laterali, sul quale doveva essere posto un emblema divino [fig. 62]. Sul lato anteriore di questo zoccolo è raffigurato in bassorilievo un altare identico, ma associato questa volta a un emblema che assomiglia alla tavoletta e allo stiletto di Nabû (tuttavia l’iscrizione al di sotto nomina un altro dio, Nusku, incaricato di intercedere in favore di TukultiNinurta presso i grandi dèi Assur ed Enlil). Davanti all’altare il re è rappresentato in due

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60. Kudurru del sovrano cassita Meli-Shipak (h. 65 cm; calcare nero), inizio del XII secolo, ritrovato a Susa ma originario della Mesopotamia. Museo del Louvre, Parigi. 61. Kudurru di Marduk-apla-iddina II (721-710), un re caldeo salito al trono di Babilonia (h. 45 cm; marmo nero), provenienza sconosciuta. Vorderasiatisches Museum, Berlino.

62. Altare cubico (h. 60 cm, l. 57 cm; alabastro) di Tukulti-Ninurta I (1244-1208) ad Assur. Vorderasiatisches Museum, Berlino.

posizioni successive, in piedi poi inginocchiato, come in un cartone animato. In ambedue le posizioni porta la medesima veste a frange, tiene nella mano sinistra la mazza d’arme che simbolizza il suo potere e alza la mano destra con l’indice in parte teso che potrebbe indicare uno schiocco delle dita per richiamare l’attenzione della divinità. A Tiglat-Phalazar I risale un tempio doppio dedicato ad Anu e ad Adad. Una vasta corte recintata dà accesso a due santuari gemelli, ciascuno associato a una piccola ziggurat laterale. In ambedue il vestibolo è perpendicolare alla grande sala in fondo alla quale si trova la cella più stretta. Un sigillo cilindrico molto bello, del XIII secolo, riprende un vecchio tema regale, con un eroe inginocchiato che cinge con le braccia un leone.

L’impero neo-assiro A partire dall’XI secolo la minaccia aramaica si fa più pressante e tutta la Mesopotamia sprofonda ben presto nel caos. Nella prima metà del IX secolo, la Babilonia si riorganizza poco a poco, ma è l’Assiria che, a partire dal X secolo e per la prima volta,

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diviene la potenza dominante: in qualche secolo si costruirà un immenso impero. La sua espansione inizia alla fine del X secolo con Adad-Nirari II e prosegue nel IX secolo con Tukulti-Ninurta II, Assurnasirpal II e Salmanassar III a spese dei principati aramaici che si erano insediati nell’alta Mesopotamia. Dopo una flessione dovuta a diversi sconvolgimenti interni, è Tiglat-Phalazar III (745-727) a fondare il vero e proprio impero assiro che si estende dalla pianura iraniana al Mediterraneo e controlla, almeno a tempi alterni, la Babilonia. Sargon II, Sennacherib, Assarhaddon e Assurbanipal lo guideranno in successione. Solo alla fine del VII secolo la potenza assira sparirà con la caduta di Assur nel 614 e quella di Ninive nel 612 sotto i colpi combinati dei Neo-Babilonesi e dei Medi.

63. Veduta del sito archeologico di Assur e, sul fondo, la ziggurat.

Come quelli delle epoche precedenti, i palazzi neo-assiri si sviluppano intorno a delle corti interne, tuttavia presentano caratteristiche proprie. Associano infatti due settori principali: uno è il babânu, il cui nome fa riferimento alla porta e corrisponde quindi alla zona pubblica, l’altro è il bîtanu, il cui nome si collega alla casa e costituisce di conseguenza una zona più privata. La sala del trono, situata alla giunzione di questi due settori, è una vasta sala bislunga (quella di Assurnasirpal II a Nimrud raggiunge i 47 x 10 m) aperta direttamente sulla grande corte adiacente al babânu con tre aperture laterali, delle quali la principale è assiale e le altre a destra e sinistra. Il trono si trova a un’estremità della stanza, solitamente a sinistra entrando, su un podio di pietra. È generalmente preceduto da un’area lastricata dove due binari permettevano di muovere un braciere su ruote. L’estremità opposta è associata normalmente a una scala che porta al piano superiore dove sono confinati gli appartamenti reali. La medesima organizzazione dello spazio si ritrova nelle grandi residenze private, ma la pianta dei palazzi è smisuratamente ampliata e arricchita da numerosi annessi. Parecchi palazzi reali sono stati scavati in varia misura. Ogni sovrano teneva a farsi costruire un edificio per la sua propria gloria, più vasto e più suntuoso di quello dei suoi predecessori (quello di Sargon II a Dûr Sharrukîn e poi quello di Sennacherib a Ninive erano del resto qualificati come “palazzi senza pari”). Non si esitava neppure, se era il caso, a cambiare capitale: già Assurnasirpal II aveva abbandonato Assur per Kalhu (Nimrud), un insediamento situato a quel tempo sulla riva del Tigri fra Ninive e Assur, fondato da Tukulti-Ninurta I nel XIII secolo per ospitare i Babilonesi deportati. Sargon II giunse a creare dal nulla una nuova capitale che portava il suo nome (Dûr Sharrukîn/Khorsabad) a una quindicina di chilometri a nord di Ninive, come anche Tukulti-Ninurta I in passato aveva costruito una nuova città con il suo nome (Kar Tukulti-Ninurta) vicino ad Assur. In ambedue i casi le città furono abbandonate alla morte (violenta) del loro fondatore. Sennacherib, infine, si stabilì a Ninive che sarebbe rimasta fino alla fine la capitale dell’impero. Uno dei palazzi meglio esplorati (fin dal 1842) è quello di Sargon II a Dûr Sharrukîn [Khorsabad 2 e 4], una città nuova costruita in appena una decina di anni da prigionieri di guerra e popolazioni deportate. La cerchia delle mura, quasi quadrata (circa 1700 m ogni lato), è interrotta da sette porte monumentali, con due costruzioni che la scavalcano, un arsenale a sud e il palazzo di Sargon a nord-ovest. In quest’ultimo settore una cerchia interna pressappoco rettangolare (300 × 650 m) delimita quella che viene chiamata la Cittadella. Qui si trovano i palazzi di quattro alti dignitari (fra i quali un fratello del re) e un tempio dedicato a Nabû [Khorsabad 3], costruito su una terrazza indipendente. Su una terrazza fortificata alla sommità della cittadella il palazzo di Sargon II domina la città da un’altezza di una dozzina di metri con una superficie di circa 10 ettari. Una tripla entrata monumentale preceduta da una larga rampa inclinata conduce direttamente in un’immensa anticorte (quasi un ettaro), dove dovevano sicu-

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ramente fermarsi i carri. A sud-est si trovano le dipendenze distribuite intorno alle corti interne che ospitano cucine, dispense e vasti depositi. A sud-ovest vi è l’area cultuale, collegata al tempio di Nabû da un ponte di pietra. Qui si ergono tre templi (consacrati a Sin, Shamash e Ningal). La loro pianta, come quella del tempio di Nabû, è un’eredità dell’epoca medio-assira e la si ritrova in diversi altri siti come Assur e Nimrud [Assur 3, Nimrud 4]. Sono dominati da una piccola ziggurat quadrata (43 m di lato), quattro piani della quale sussistevano ancora all’epoca dei primi scavi. Il palazzo propriamente detto si sviluppa più a nord, il babânu a nord-est, il bîtanu a nord-ovest. Sull’angolo nord dell’anticorte (XV) una porta monumentale conduce appunto alla corte d’onore (VIII), una vasta spianata rettangolare di quasi 7000 metri quadri. La sala del trono (45 x 10 m) è al centro del suo lato sud-ovest con le tre porte di rigore. Dietro a questa, una sala parallela della stessa lunghezza ma più stretta porta al bîtanu: una corte quasi quadrata (più di 1000 metri quadri) si apre per tre lati su coppie di stanze allungate parallele che corrispondono sicuramente ad appartamenti di rappresentanza. Il resto del bîtanu, compreso fra questa zona e la grande anticorte, ospita tre residenze, fra le quali la più piccola è di quasi 700 metri quadri. Una di esse, a nord-est, assomiglia molto a una piccola sala del trono. Ma la parte principale delle abitazioni doveva svilupparsi sopra, su uno o, forse, due piani. Il resto della spianata, a nord-ovest, presenta due spazi ineguali aperti sulla campagna, probabilmente dei giardini. Sono separati da un corpo di fabbrica dalle stanze allungate (tre parallele e due trasversali), sicuramente altre stanze di rappresentanza. Una di esse, a nord-est, assomiglia molto a una piccola sala del trono, tranne che il podio principale è associato a un secondo zoccolo. A ovest, un edificio isolato, chiuso da un portico a colonne di tipo siriaco, potrebbe rappresentare un padiglione da giardino. Un tale gigantismo può essere certamente spiegato con l’ambizione illimitata del sovrano, ma anche con il fatto che il palazzo deve ospitare un numero elevato di persone e comporta aspetti funzionali molto vari. Il re, il cui minimo movimento viene gestito come uno spettacolo, è attorniato da una vera corte organizzata con puntigliosa etichetta. Attorno a lui si affollano nobili, dignitari e generali dell’impero, alti funzionari del palazzo. Tra di essi numerosi sono eunuchi, non solo per evitare le tentazioni offerte dal vasto contingente femminile, ma anche perché, privati di una discendenza, non potessero fondare famiglie potenti. Dal lato femminile si trovano la regina madre, le spose reali e le concubine cedute per suggellare un trattato o prese ai vinti e i loro seguiti. Ci sono anche bambini, compresi quelli dati in ostaggio da principi stranieri, perché, allevati nella tradizione assira, potrebbero rendersi utili in futuro. Viene poi tutta una serie di scribi e gente capace di tradurre tutte le lingue dell’impero, astrologi, aruspici, esorcisti e medici che vegliano sulla salute del re e determinano il giorno in cui può essere compiuta ogni sua azione. Si aggiungono poi le guardie del corpo, i musici e i cantori, tutto il personale di servizio (domestici, cuochi, artigiani, e altri ancora). Per il suo palazzo di Ninive, Assurbanipal arriva alla somma di 13.000 servitori. Oltre alle stanze necessarie alle funzioni più importanti (culto, ricevimento, abitazione), il palazzo accumula prodotti provenienti da tutto l’impero e abbisogna quindi di ogni tipo di spazio: locali amministrativi, stanze dove sistemare gli archivi e le biblioteche; locali funzionali, come le cucine e le dispense, i laboratori degli artigiani, le scuderie... A questa dismisura architettonica corrisponde un’orgia ornamentale. Le mura di questi palazzi erano coperte di sculture, pitture e pannelli di mattoni invetriati, a volte anche di rivestimenti e piastre metalliche e senza dubbio di tendaggi e tappeti. Certo, ad arrivare fino a noi sono state soprattutto le sculture in un alabastro gessoso chiamato “marmo di Mosul”. Alcune rivestono carattere magico, altre esaltano la grandezza del sovrano. Della prima categoria fanno parte, di capitale importanza, quegli enormi tori alati androcefali che, posti in coppia ai margini dei principali passaggi, sono incaricati

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64. Ricostruzione moderna delle mura della città di Ninive.

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di allontanare le forze maligne [figg. 65 e 66; Khorsabad 6]. Il corpo è scolpito in altorilievo, la testa a tutto tondo. Alcuni hanno cinque zampe, secondo un procedimento già utilizzato dagli Ittiti, per essere visti sia di faccia che di profilo. I blocchi, estratti nella regione dell’alto Tigri e sbozzati sul posto, venivano trasportati fino al fiume su tondelli di legno, caricati su zattere e quindi portati in loco e finiti. La loro fabbricazione era ritenuta sufficientemente eccezionale da essere illustrata (nel palazzo sud-ovest di Sennacherib a Ninive). Molti sono monoliti, qualcuno fra i più grandi (fino a 6 m) è

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65. Toro androcefalo, Ninive. 66. Scorcio di un portale parzialmente ricostruito del palazzo di Assurnasirpal a Nimrud, IX secolo.

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costituito da più blocchi uniti fra loro. Fanno la loro comparsa a partire dal IX secolo a Kalhu nel palazzo di Assurnasirpal II e fino al VI secolo. Se ne sono contate una trentina di coppie a Dûr Sharrukin, alle porte della città e del palazzo di Sargon II. Sugli accessi strategici erano associati in facciata a due paia di tori androcefali alati, un po’ più piccoli, rappresentati con il corpo di profilo e la testa di fronte. Questi tori secondari schiena contro schiena, erano in qualche caso (all’entrata del palazzo o all’entrata centrale della sala del trono) separati da un eroe della medesima grandezza (quasi 5 m), mentre soffoca con un braccio un minuscolo leone, variante ipertrofizzata di un tema risalente a un lontano passato [fig. 68]. A queste bestie mostruose si aggiungono geni alati (ditteri o tetratteri, fig. 67) con testa umana o a volte di rapace, incaricati di attirare le forze positive. Tengono difatti in una mano una situla e nell’altra un oggetto conico simile a una pigna con la quale aspergono chiunque giunga alla loro portata (per esempio, nei passaggi). Ma, come avviene sui pannelli dietro al trono di Assurnasirpal II a Nimrud, essi compaiono anche in scene composite: due volte dietro al re, ugualmente sdoppiato da una parte e dall’altra dell’Albero della Vita sormontato da un disco alato (che rappresenta il grande dio Assur o il dio solare Shamash, fig. 69). Si ritrova qui un vecchio tema, con la differenza che il re accenna in questo caso il caratteristico segno di rispetto, mentre sono i geni alati ad aspergere l’Albero, come si dedurrebbe dal fatto che solo questi ultimi gli possono essere associati. Sempre a Nimrud, sale intere sono così decorate. Ad eccezione di alcuni podi con rappresentazioni figurate, la decorazione dei palazzi neo-assiri consiste essenzialmente di ortostati. Sono larghe lastre poste una accanto

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67-68. Due rilievi del palazzo di Sargon II a Khorsabad, fine dell’VIII secolo: genio alato (h. 3,05 m; gesso) ed eroe domatore del leone (h. 4,70 m; gesso). Museo del Louvre, Parigi.

69. Pannello a rilievo (h. 1,78 m; gesso) ritrovato sul fondo della sala del trono nel palazzo di Assurnasirpal II a Nimrud, IX secolo. British Museum, Londra.

all’altra alla base dei muri e coperte da bassorilievi che un tempo dovevano essere dipinti o per lo meno ravvivati da colori. Questo tipo di decorazione, ereditato da una lunga tradizione siriana e ittita, viene adottato nel IX secolo in Assiria da Assurnasirpal II per il suo palazzo di Nimrud. Le scene sono allora associate a un testo stereotipato in modo che l’immagine fornisca dei particolari che non sono contenuti nello scritto. Ma in seguito il testo si avvicina all’immagine fino a divenire leggenda. Le scene conservate, che spesso si possono svolgere su diversi registri sovrapposti per parecchi metri di altezza (fino a 3,70 m nella sala del trono di Nimrud), sono essenzialmente dedicate alla gloria regale. Per questa ragione appaiono nei luoghi meglio esposti: corti, sala del trono e sale di ricevimento. Se alcune ricordano la dimensione religiosa del sovrano (il suo rapporto privilegiato con gli dèi, il suo rispetto per l’Albero della Vita – sicuramente concepito in questo caso come espressione composita della divinità), mentre altre ricordano la sua attività di costruttore (la fabbricazione dei grandi tori androcefali, il trasporto dei grandi massi di pietra o di legno), la maggior parte lo mostra in qualità di signore assoluto degli uomini e della natura selvaggia. Per quanto riguarda gli uomini, sono rappresentate infinite schiere di dignitari: un rilievo di Khorsabad mostra il re in piedi, riconoscibile per la sua alta tiara troncoconica e per il suntuoso abito ornato di rosette [fig. 70]. Accoglie un alto dignitario tenendo con una mano un lungo bastone e l’altra mano posata sull’elsa della spada. Vi sono anche file di servitori e di portatori di tributi (alcuni hanno fra le mani un modellino merlato che simbolizza la loro città, fig. 71) che convergono verso il sovrano. Tutta questa gente è agli ordini del re, oppure sono popoli sottomessi. Gli altri sono nemici

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schiacciati dall’esercito assiro o prigionieri aggiogati. Il messaggio è chiaro: bisogna scegliere fra l’ordine e il caos, sottomettersi o perire. La natura comprende scene di caccia con gli animali più diversi (uccelli, gazzelle, tori, equidi, lepri), ma soprattutto leoni. La caccia al leone è appannaggio del re ed è un’attività ritualizzata, destinata a dimostrare che il sovrano è capace, come richiesto dalla sua carica, di contenere le forze del male. Ritroviamo qui i grandi temi adottati fin dall’origine dall’iconografia mesopotamica, ma enormemente sviluppati. Lo Stendardo di Ur o le grandi stele di vittoria del III millennio andavano già al di là del simbolo e potevano anche far riferimento a una particolare vittoria (per esempio, quella di Lagash su Umma). Ma l’enormità di superficie offerta dagli ortostati (valutata in circa due chilometri lineari nel palazzo di Sargon II a Khorsabad) permette di raccontare le operazioni nei minimi dettagli, esattamente come gli annali che si stanno sviluppando allora ne raccontano per iscritto la storicità. Si vedono i soldati assiri prendere d’assalto città (per esempio, quella di Lakish in Giudea) con l’aiuto di scale e di macchine da guerra, o attraversare fiumi su otri gonfiati; oppure si vede il sovrano assistere all’arrivo dei deportati, la sorte inflitta a coloro che hanno osato sfidare l’autorità imperiale. A Nimrud una composizione mostra una campagna condotta da Assurnasirpal sull’Eufrate e l’assedio della città di Anat su un’isola. Alcuni arcieri assiri tirano dalla riva su nuotatori vestiti che tentano di scappare o di raggiungere la fortezza, rappresentata in secondo piano. Nel palazzo che Sennacherib ha rinnovato a Ninive, Assurbanipal descrive la sua campagna di Elam. Dopo aver conquistato la vittoria, come è mostrato dai cadaveri dei nemici trasportati dal fiume Ulai, un generale assiro costringe gli Elamiti a prosternarsi davanti al nuovo re che egli tiene per mano. Le campagne descritte sono reali, le vittorie attribuibili a un regno preciso e questo contribuisce a spiegare perché a un sovrano assiro ripugni insediarsi nei locali dei suoi predecessori. Dato che la guerra è una questione fra uomini, le donne ne sono escluse e, in generale, non hanno posto in un’arte destinata a glorificare la potenza del sovrano e a suscitare la paura del suo sdegno. Tuttavia esiste una notevole eccezione in un bassorilievo di Assurbanipal a Ninive [fig. 72]. In un parco di pini e palme, il re e la regina stanno sotto

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70-71. Pannelli in alabastro gessoso (detto “marmo di Mosul”) del palazzo di Sargon II a Khorsabad, fine dell’VIII secolo. A sinistra il re accoglie un dignitario (h. 3,30 m); a destra la processione dei tributari medi (h. 1,52 m). Museo del Louvre, Parigi.

72. Bassorilievo del banchetto sotto una pergola (h. 58,5 cm; alabastro gessoso o “marmo di Mosul”) ritrovato nel palazzo di Assurbanipal, detto “Palazzo nord” a Ninive, verso il 650. British Museum, Londra.

una pergola, lui su un letto, lei su un trono, ambedue con una coppa in mano. Bevono e ascoltano musica, dei servitori fanno loro vento e, dal fatto che il re ha abbandonato il suo arco, la sua faretra e la sua spada su un tavolo vicino a lui, si può dedurre che si stia rilassando dopo una faticosa partita di caccia. Tuttavia questa atmosfera bucolica è turbata da una testa tagliata appesa a un ramo. È quella di un piccolo re elamita, la cui sconfitta è illustrata in un altro palazzo di Ninive. Assistiamo quindi alla festa che celebra una vittoria, paragonabile a quelle del III millennio, benché meno stereotipata. Ritroviamo questa medesima esuberanza narrativa nelle rappresentazioni della caccia, con animali, specie i leoni, di un realismo impressionante. Fino ad ora la caccia si limitava a presentare il confronto dell’uomo con l’animale. Tutt’al più si poteva trovare su qualche cilindro accadico l’abbozzo di un paesaggio. Ora invece la caccia può svilupparsi quasi senza limiti e, per esempio, nel palazzo (nord) di Assurbanipal le è dedicata una sala intera. Ne vengono illustrate minuziosamente tutte le tappe. Comincia con i preparativi, con servitori che riuniscono e verificano il materiale, mentre altri controllano l’attacco del carro sul quale è già salito il re. Più lontano una collina alberata è presa d’assalto dalla gente che vuole assistere allo spettacolo. È separata dal terreno di caccia da due file di uomini armati di archi e picche che formano una siepe di scudi e sono incaricati di formare una barriera contro gli animali. La caccia non si svolge in piena campagna ma in un’area sgombrata attrezzata in modo da permettere le evoluzioni del carro reale. Il re, che peraltro può essere a piedi o a cavallo, armato di una picca o della spada, qui caccia dal carro e con l’arco. Attorno a lui dei cavalieri e altre persone accompagnate da molossi sono pronti ad intervenire anche se i rischi sono minimi. Viene mostrato infatti che i leoni sono fatti uscire dalle gabbie dove erano rinchiusi e ci si domanda se non siano stati ben nutriti per attenuare la loro aggressività e addirittura se non siano semiaddomesticati. Sulla scia del carro reale le bestie sono rappresentate ferite, agonizzanti o morte in tutte le posizioni [figg. 74 e 75]. Più lontano dei servitori si danno da fare a gruppi sulle loro carcasse. La cerimonia si conclude con una libagione sui corpi ammucchiati. Se pensiamo che il re caccia gli animali come combatte i suoi nemici, che ne riporta giovani esemplari così come giovani principi stranieri, che si circonda di leoni addomesticati così come riceve i suoi vassalli sottomessi, appare chiaro che la caccia e la guerra sono solo due aspetti intercambiabili di una stessa ideologia, quella del dominio universale.

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Tutti questi rilievi brulicano di particolari minuziosamente scolpiti e rappresentano una miniera di informazioni sui costumi, le pettinature, gli ornamenti, gli oggetti lavorati (rivestimenti di avorio, simili a quelli scoperti a Nimrud e altrove, sono descritti con la più grande precisione) e gli oggetti di lusso che circondavano il re, oppure le armi dei combattenti, i componenti dei carri, le bardature dei cavalli [fig. 73]. I Neo-Assiri decoravano anche i loro soffitti e le loro pareti (sia al di sopra degli ortostati, sia al posto di questi) con pitture. A Khorsabad, per esempio, il Palazzo K (sotto al palazzo di Sargon III) era decorato in questo modo ed è stato possibile ricostituire una delle pitture che raggiungeva quasi i 10 m di altezza [Khors. 7]. Al di sotto di tre fregi sovrapposti (tori e geni alati inginocchiati in rosette), il re e un alto dignitario stanno in piedi davanti a un grande dio che tiene il cerchio e il bastone. Anche un palazzo di provincia (Til Barsip, nella Siria settentrionale) era esclusivamente decorato con pitture (blu, rosso e nero su fondo bianco) che risalgono all’VIII e al VII secolo. Le conosciamo per la maggior parte attraverso i rilievi che sono stati eseguiti in loco. Comprendevano

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73. Carro da guerra assiro. Bassorilievo (35 × 46 cm; alabastro), Ninive, seconda metà dell’VIII secolo. Vorderasiatisches Museum, Berlino.

74. Leonessa ferita. Bassorilievo (1,60 × 1,20 m; gesso) del palazzo di Assurbanipal a Ninive, verso il 650. British Museum, Londra.

fregi decorativi (molto simili a quelli del Palazzo K di Khorsabad), scene di caccia e scene di udienze reali con sfilate di personaggi, ma anche tori alati e geni incaricati di vegliare sugli accessi. Su uno dei pannelli alcuni scribi compilano la lista del bottino riportato da qualche vittoria davanti al re seduto, con un leone ai suoi piedi. Si sono ugualmente conservate tracce di pannelli di mattoni smaltati. Dall’arsenale di Salmanassar a Kalhu (Nimrud) proviene una composizione di più di 4 m di altezza che mostra due tori affrontati, da una parte e dall’altra di un Albero della Vita [Nimrud 2]. A Khorsabad, ugualmente, i templi annessi al palazzo di Sargon II erano decorati con mattoni smaltati. Nel vano delle porte era raffigurato il re, mentre da una parte e dall’altra della facciata erano rappresentati in successione un leone, un toro, un’aquila, un fico e una carriola; vicino, delle palme finte di cui ci è in parte rimasto il rivestimento in metallo e statue di dèi con vaso zampillante. Alcune stanze dei palazzi potevano anche avere un rivestimento in legno (c’erano particolari essenze ricercate per il loro colore e il loro odore) o anche in metallo, compreso l’oro e l’argento, secondo quanto affermato da alcuni sovrani nei loro racconti

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di costruzione. Il metallo poteva anche rivestire travi, colonne e porte, come mostrano alcune vestigia pervenuteci. Le più famose sono quelle di un tempio costruito a Balawat (non lontano da Nimrud, fig. 76) da Salmanassar III. I due battenti di cedro (1,40 m di larghezza per 7 m di altezza circa) erano ornati da otto bande orizzontali di bronzo, alte una trentina di centimetri, decorate a sbalzo, che rappresentavano campagne militari. I sovrani assiri ci hanno lasciato molti altri documenti. L’obelisco nero di Salmanassar III mostra, in una serie di registri sovrapposti, diversi animali esotici mandati da un faraone al re assiro [fig. 77]. È celebre soprattutto per la rappresentazione di un re d’Israele, Jehu, prosternato ai piedi del sovrano. Alcune steli, senza dubbio poste nei templi, raffigurano il re in piedi, una mano alzata, l’indice disteso. Un’altra mostra Assarhaddon che tiene al guinzaglio, attraverso un anello inserito nel labbro, dei principi vinti. Diverse steli di Assurbanipal riprendono il tema del re costruttore che porta le ceste. Alcuni sovrani assiri (Assurnasirpal II, Salmanassar III) ci hanno lasciato delle statue (più piccole rispetto alla grandezza naturale) con la loro effigie che li rappresenta rigidi e austeri: una di queste scolpita in un materiale molto raro, la magnesite, è stata ritrovata a Nimrud nel tempio di Ishtar.

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75. Scena di caccia. Bassorilievo (h. 0,97 m; alabastro) di Assurnasirpal II a Nimrud, prima metà del IX secolo. Vorderasiatisches Museum, Berlino.

76. Particolare delle bande bronzee (ognuna 0,27 × 1,40 m) della porta del palazzo di Salmanassar III a Balawat, IX secolo. British Museum, Londra. 77. Obelisco nero di Salmanassar III (h. 2 m; alabastro nero), datato 829. British Museum, Londra.

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A fronte: 78. Ricostruzione dell’Etemenanki, la ziggurat di Babilonia, o torre di Babele, 600 circa. Modello del Vorderasiatisches Museum, Berlino. Nella doppia pagina seguente: 79-81. Ricostruzione della porta di Ishtar, a Babilonia, decorata con rilievi di mattoni smaltati e, a sinistra, particolare di due rilievi con un leone e un animale mitico, inizio del VI secolo. Vorderasiatisches Museum, Berlino, per la ricostruzione e Musei di Istanbul e di Baghdad per i particolari.

I Neo-Babilonesi Nabopolassar, fondatore di una nuova dinastia, sale al trono di Babilonia nel 629. Ben presto riesce ad affrancarsi dalla tutela assira e a recuperare una parte essenziale dell’impero. Suo figlio Nabucodonosor II prosegue la sua opera ed è lui che conquista e saccheggia Gerusalemme (nel 597 e poi ancora nel 587) garantendosi così l’influenza sulla costa mediterranea. Dopo un periodo di disordini dinastici, Nabonide prende a sua volta il potere ma alla fine deve cedere davanti a Ciro II, re dei Persiani, che conquista Babilonia nel 539. A quel punto, integrata nell’impero achemenide, la Mesopotamia perde definitivamente la sua indipendenza. L’impero offre una manodopera quasi illimitata ai sovrani neo-babilonesi che possono, in poco meno di un secolo, intraprendere immensi lavori architettonici: dappertutto restaurano i santuari tradizionali e soprattutto ricostruiscono Babilonia (distrutta nel 689 da Sennacherib, poi nel 648 da Assurbanipal) facendone la città sfarzosa citata dalla Bibbia e descritta da Erodoto e Ctesia e in seguito da Diodoro Siculo e Strabone [Bab. 1 e 2]. La città propriamente detta disegna un vasto rettangolo di circa 450 ettari, a cavallo dell’Eufrate che un ponte di 123 metri permette di attraversare. Sulla riva sinistra (a est)

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una cinta tripla (larga complessivamente 30 m) delimitata da un largo fossato disegna con il fiume un ampio triangolo che porta la superficie della città a quasi 1000 ettari, ma non sappiamo in quale misura questa superficie fosse costruita. Il cuore della città è protetto ancora da una seconda cerchia. Sulla riva sinistra, meglio esplorata, la cinta muraria è doppia e affiancata da un largo fossato. È attraversata da otto porte denominate ognuna con il nome di una divinità. La meglio conservata è la porta di Ishtar, a nord, una costruzione di 28 metri di larghezza e 48 di profondità [Bab. 7 e 10]. È costituita da due elementi successivi (corrispondenti a due bastioni contigui), provvisti ognuno di due torri più alte. Nella sua fase finale, ricostruita oggi a Berlino, la facciata è coperta da mattoni smaltati blu sui quali spiccano in rilievo alternati draghi cornuti e tori bianchi e gialli, contornati da fregi a rosette. Sono i simboli di Marduk (il dio tutelare della città, promosso al primo posto del pantheon da Hammurabi) e di Adad (dio della tempesta). La porta è attraversata da una grande strada in direzione nord-sud, chiamata “processionale” perché vi venivano trasportate le statue di Marduk e della sua corte divina fino a un tempio fuori dalle mura per le grandi cerimonie che celebravano il Nuovo Anno [Bab. 8 e 9]. Prima di arrivare alla porta, la strada processionale è affiancata da alte mura (fra cui quelle del “Palazzo nord” a ovest) ricoperte da mattoni invetriati: dei leoni (simbolo di Ishtar) in rilievo si stagliano in bianco e giallo sul fondo blu [fig. 79]. All’interno della città, la strada processionale costeggia prima il “Palazzo sud”, costruito in mattoni cotti da Nabopolassar e ingrandito dai suoi successori [Bab. 14, 15 e 17]; si estende in direzione del fiume lungo i bastioni in forma di grande trapezio (320 × 190 m nella sua dimensione maggiore) all’interno del quale diverse costruzioni dalle molteplici funzioni erano divise in cinque settori da una parte e dall’altra di altrettante corti. La sala del trono si apre con tre porte sulla corte centrale, la più grande (circa 3300 metri quadri). La stanza è immensa: 52 m di lunghezza per 17 di larghezza (quasi 900 metri quadri). La facciata sulla corte ha una decorazione di mattoni smaltati con leoni che camminano, Alberi della Vita e fregi con palmette e rosette [Bab. 16]. Nell’angolo nord-est del palazzo, un possente edificio presenta lunghe stanze a volta giustapposte da una parte e dall’altra di un corridoio centrale. Qui da tempo i ricercatori hanno situato i famosi Giardini pensili [Bab. 18]. Tuttavia si tratta solo di magazzini, come è dimostrato dalle anfore e dagli archivi amministrativi che vi sono stati trovati. Ci si domanda oggi se gli autori antichi non abbiano confuso Babilonia e Ninive, dove effettivamente si conosce l’esistenza di giardini sulla base dei testi di Sennacherib e dei rilievi di Assurbanipal. La strada processionale tocca una serie di templi. Uscendo dalla porta di Ishtar, di fronte al Palazzo sud si innalza il tempio di Ninmah, costruito da Assurbanipal sul modello babilonese [Bab. 7, 8 e 13]. È un edificio dall’aspetto di fortezza, di 53 × 35 m circa, costruito attorno a una corte centrale che dà su due stanze parallele bislunghe, l’anticella e la cella. Più a sud sono stati individuati altri templi (quelli di Ishtar d’Akkad [Bab. 11 e 12] e di Nabû-sha-harê) e oltre quelli di Gula e di Ninurta. Ma, prima di raggiungere questi due ultimi templi, a 900 m circa dalla porta di Ishtar, la strada processionale si biforca verso ovest in direzione del ponte sull’Eufrate, per attraversare il temenos sacro [Bab. 3]. A sud si innalza il tempio di Marduk, l’Esagila (la casa dalla sommità elevata), a nord, la ziggurat, l’Etemenanki (la casa del fondamento del cielo e della terra [Bab. 6]). Il tempio è stato solo parzialmente scavato a causa dell’enorme massa di sterro alta più di 20 metri. I ricercatori hanno fatto un grande sondaggio al centro e da qui hanno scavato delle gallerie. L’edificio, costruito in mattoni cotti, si alzava ancora di 10 metri. La sua pianta, quasi quadrata (85 × 79 m circa), aperta su ognuna delle facciate, era organizzata come di consueto intorno a una corte centrale

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che dava accesso all’anticella e poi alla cella. Altri corpi di fabbrica non hanno potuto essere portati alla luce. La famosa Torre di Babele [fig. 78; Bab. 4] era dall’altra parte della strada processionale, a nord, all’interno di una cinta di 400 metri di lato. Oggi ne resta solo l’impronta sul terreno. Era stata costruita nel XVIII secolo in mattoni crudi, poi ingrandita a più riprese. Quella di Nabucodonosor II può essere ricostituita grazie a una tavoletta (chiamata “dell’Esagila”) che la descrive. Era rivestita di mattoni cotti, inscritta in un quadrato di 90 m di lato e si innalzava su sette livelli. Il primo livello, di 33 m, era accessibile attraverso due scale simmetriche appoggiate alla facciata sud. Una scala trasversale portava direttamente al secondo piano, alto fra i 17 e i 18 metri. I tre piani seguenti, meno alti, conducevano a un tempio che costituiva l’ultimo livello. I testi suggeriscono che questo edificio superiore fosse coperto da mattoni smaltati blu. Mentre sono state scoperte numerose vestigia architettoniche, pochi monumenti figurativi ci sono invece pervenuti e conosciamo solo qualche stele di Nabonide che mostra il re in piedi con un lungo bastone in mano. Dopo la conquista della città da parte di Ciro II, la Babilonia divenne una satrapia persiana governata da Serse. Questi costruì a Babilonia un palazzo decorato di mattoni smaltati con una grande sala a colonne di tradizione iraniana. Nel 331 Alessandro trionfò definitivamente su Dario III nella battaglia di Gaugamela ed entrò vincitore a Babilonia nel 330 dove morì sette anni più tardi, prima di aver ricostruito la ziggurat come avrebbe voluto. Il suo corpo pare sia stato esposto nella sala del trono di Nabucodonosor. La penetrazione dell’Ellenismo, iniziata in epoca persiana, si accentuò sotto la dominazione dei Seleucidi, i successori di Alessandro. Dall’Occidente affluirono idee, tecniche e mode nuove e il greco divenne la lingua ufficiale. Fu la fine della cultura cuneiforme.

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L’Ellenismo in Mesopotamia Carlo Lippolis

Il progetto di Alessandro Magno «Ormai non sono lontano dai confini estremi della terra, oltre i quali ho stabilito di scoprire un’altra natura, un altro mondo. […] No, non mi fermerò e, dovunque combatterò, mi figurerò di essere nel teatro del mondo. Renderò noti luoghi sconosciuti, aprirò a tutti i popoli terre che la natura aveva per tanto tempo tenuto in disparte». Così parlò Alessandro Magno ai suoi soldati durante la campagna indiana1. Le gesta di Alessandro Magno, che tra il 336 e il 323 a.C. portarono alla formazione di un enorme quanto effimero impero esteso dalla Grecia all’India, hanno lasciato fin dall’Antichità un’impronta indelebile nella storia e nella cultura dei popoli orientali ed occidentali. La sua marcia in Oriente aprì la strada a complessi processi di interazione culturale che si attuarono anche attraverso una politica di “colonizzazione e urbanizzazione” delle regioni conquistate. Le recenti ricerche in campo storico, archeologico ed epigrafico, ormai fortemente consapevoli della preesistenza nelle aree conquistate dal Macedone di culture complesse se non millenarie, hanno posto in evidenza il quadro estremamente ricco e variegato dell’incontro tra il mondo occidentale e quello orientale. Pertanto si è da tempo spostata l’attenzione proprio sui complessi processi interculturali che nacquero dal contatto tra le diverse civiltà, evidenziando quanto sia inesatto il parlare in maniera univoca dell’opera civilizzatrice della cultura greca. Uno dei punti che la storiografia ha discusso più a lungo è la forte dicotomia alla base dell’atteggiamento di Alessandro verso le culture orientali. Ambiguità che deriva da un lato dall’interesse per le culture indigene e per il sogno di un impero ecumenico realizzato attraverso la fusione dei popoli: «… operava per avvicinare il modo di vivere persiano a quello macedone, ritenendo che avrebbe reso saldo il suo potere… con la concordia e la fusione dei due popoli, ottenuta mediante la benevolenza piuttosto che con la forza»2. Dall’altro lato c’era l’impronta della sua formazione greca (si ricordi che Aristotele fu suo precettore) portata a identificare il non-Greco con il “barbaro”: «I nuovi sudditi di Alessandro Magno non sarebbero stati civilizzati se non fossero stati sconfitti…»3. Ma al di là dei motivi culturali è chiara fin da subito in Alessandro la consapevolezza politica dell’impossibilità di governare un così vasto ed eterogeneo impero prescindendo dall’elemento orientale. La fondazione (o “ellenizzazione”) di città, l’insediamento sul territorio di guarnigioni e maestranze greco-macedoni, l’applicazione di istituzioni e forme di governo tipicamente greche anche nelle regioni più remote, i matrimoni misti4, il rispetto per le tradizioni indigene nei territori orientali, sono tutti

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aspetti di una coerente e multifocale visione di un nuovo ordine politico ed ideologico universale. Non è questa la sede per discutere del sogno ecumenico di Alessandro; tuttavia, se è vero che la brevità dell’impresa del Macedone e l’avversione di alcuni suoi successori alla politica di apertura verso gli orientali autorizzano a un giudizio cauto nell’ammettere, a livello storico e politico, un reale interesse per la fusione dei popoli, occorre invece riconoscere l’esistenza di un “ecumenismo culturale” forse più tangibile e capace di avvicinare le più lontane province del mondo conosciuto a quelle del bacino del Mediterraneo. Su questo piano culturale ed artistico la scienza archeologica riconosce oggi un Ellenismo orientale, adattato di volta in volta alle tradizioni indigene locali e con caratteri differenti da quello mediterraneo.

La presenza dei Greci in Mesopotamia Nel processo di diffusione ed affermazione di questo variegato processo culturale (che sia in Oriente che in Occidente avrà esiti fondamentali ancora fino al Medioevo) giocano un ruolo determinante i Seleucidi, la dinastia di sangue misto macedone-iranico che eredita le province orientali conquistate da Alessandro. Tra i paesi di un immenso impero esteso dal Mediterraneo alle pendici dello Hindukush è la Mesopotamia che assume un ruolo primario di centro della nuova unità ecumenica dell’Ellenismo orientale in quanto paese di millenarie tradizioni e cuore originario del regno seleucide. La terra tra i due fiumi fu per millenni sede di organismi statali complessi e stabili fino a diventare, in epoca neo-assira e neo-babilonese, una regione centrale con l’allargamento degli orizzonti internazionali in campo culturale, politico ed economico. Le prime attestazioni di Greci nelle fonti mesopotamiche risalgono all’VIII secolo a.C.: alcuni testi redatti dalle cancellerie dei sovrani neo-assiri menzionano dapprima contatti militari con Greci della Ionia e di Cipro e più tardi riportano notizie di tributi ed individui greci introdotti in Mesopotamia. Le fonti neobabilonesi li menzionano come controparte di scambi commerciali o tra i deportati stranieri. È noto però che l’interazione tra la cultura greca e quella orientale risale ancora più indietro nel tempo. Dopo i prodromi dei periodi minoico e miceneo, la formazione di un’arte greca autonoma e coerente ha inizio con l’età geometrica quando è evidente l’influenza di motivi e temi iconografici orientali in arte e in architettura. Essi diverranno determinanti nella produzione “orientalizzante” (VIII-VII secolo), contribuendo alla rielaborazione artistica e concettuale del periodo dedalico e confluendo nella produzione ceramica proto-corinzia e corinzia, quale evidenza di un intimo contatto culturale tra Mediterraneo e Vicino Oriente. Tuttavia, a partire dal VI secolo questa irradiazione di grandi temi artistici dalla Mesopotamia al bacino del Mediterraneo inverte la rotta: i reggenti e le aristocrazie orientali entrano in stretto contatto con la cultura greca ed elaborano un nuovo stile di corte. Le colonie elleniche dell’Asia Minore e la maggiore presenza greca in Mesopotamia e Iran cominciano a esercitare una tendenza inversa: l’influenza della cultura e della tecnica greche sulla tradizione orientale. L’età achemenide costituisce un momento fondamentale per la circolazione dell’elemento greco nelle regioni orientali. Proprio gli Achemenidi, sebbene avversari storici dei Greci dopo le guerre persiane, giocano un ruolo chiave promuovendo scambi e contatti fra artisti e maestranze: Dario I fa arrivare pietra e lapicidi dalla Ionia e dalla Lidia per le sue regge di Susa e Persepoli, mentre le applicazioni della carpenteria ionica vengono introdotte a Babilonia, scelta dai nuovi signori della Mesopotamia come una delle residenze reali. L’influsso greco, ovviamente, non si limita ai progressi della tecnica o alla lavorazione di materiali da costruzione, ma investe anche le arti minori come nel caso eloquente della glittica e della numismatica5.

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82. La Mesopotamia in età ellenistica, partica e sasanide.

Proprio in quanto teatro storico dell’incontro tra Oriente ed Occidente, la Mesopotamia mantiene dunque la sua centralità economica, storica, culturale anche dopo il crollo dei grandi imperi orientali. La parte meridionale del paese, inesauribile granaio all’interno dei confini achemenidi, diviene il crocevia delle principali rotte commerciali che collegano il Mediterraneo al golfo Persico e, dunque, al subcontinente indiano: un’eredità che dopo Alessandro passa ai Seleucidi, padroni di un immenso regno unificato politicamente, ma contraddistinto da eterogeneità e spinte autonomiste. Il panorama archeologico che offre la regione mesopotamica è altamente significativo, sebbene si debba constatare che non possediamo una messe particolarmente ricca di dati: i motivi sono molteplici e in parte dipendono dal contesto fisico e geografico della Mesopotamia (utilizzo di materiali da costruzione deperibili quali il mattone crudo), in parte sono conseguenza di una diffusa considerazione del mondo mesopotamico ellenistico quale area periferica che ha talora limitato le stesse ricerche archeologiche. Eppure scavi sistematici attraverso i livelli seleucidi di importanti centri cittadini sono stati effettuati a Babilonia, Seleucia e Uruk e sebbene siano dati riferiti solo ad una porzione di un più ampio contesto culturale e geografico (la parte meridionale dell’intera regione mesopotamica) sono in grado di restituirci un quadro piuttosto dettagliato della presenza greca nella terra tra i due fiumi.

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Tre centri cittadini Babilonia Dopo la vittoria sui Persiani a Gaugamela (331 a.C.), che apre ai Macedoni le porte della Mesopotamia, Alessandro entra trionfalmente in Babilonia proponendosi come il nuovo sovrano conquistatore, erede legittimo della tradizione babilonese. Nella città il Macedone resta soltanto un mese per poi ripartire alla volta della Battriana e dell’India, non prima di avervi stanziato civili greci e una guarnigione. A Babilonia il Macedone ritornerà nel 323, poco prima di abbandonare definitivamente il suo sogno di conquista per la prematura morte che lo coglierà non ancora trentatreenne. Babilonia fu l’ultima residenza di Alessandro e la prima del suo generale e successore: con Seleuco la Mesopotamia meridionale rivendica la sua posizione centrale in campo economico e culturale sia per il suo prestigio storico, sia per l’appoggio garantito dalla comunità babilonese alla causa di Seleuco nella lotta contro il rivale Antigono. È noto che Alessandro non fondò una nuova capitale in Mesopotamia: scelse come sua residenza Babilonia che forse lo affascinava per il suo grandioso impianto cittadino (risalente alla pianificazione neobabilonese) proprio di una capitale imperiale [Bab. 2].

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83. Terracotta proveniente da Babilonia, con la raffigurazione di Europa sul toro, possibile pezzo di importazione. Doppio stampo, 19 × 16 cm. British Museum, Londra.

84. Frammenti del fregio decorativo in stucco dalla scena del teatro greco di Babilonia, scavi della prima metà del secolo XX (da F. Wetzel et al., t. 22a).

In esso erano attuati quei principi urbanistici di zonizzazione ed organizzazione del tessuto urbano che già la scienza ionica aveva assorbito e rielaborato con Ippodamo di Mileto e che, in età ellenistica, saranno messi in opera da Dinocrate con la fondazione di Alessandria d’Egitto. Le fonti classiche ricordano che Alessandro diede il via ad opere di ricostruzione dopo le distruzioni e l’abbandono dei principali complessi in età achemenide6. Sebbene alcune delle notizie riportate dagli autori classici abbiano trovato riscontro nelle ricerche sul terreno, non sempre quanto tramandato concorda con i dati oggettivi prodotti dagli scavi. Gli interventi edilizi attestati nelle fonti per gli anni 327-325 (mentre Alessandro marcia verso l’Indo) all’interno dell’Esagila, ad esempio, sembrano essere stati lavori di ordinaria manutenzione. Opere di una certa entità furono invece avviate dal Macedone all’interno del recinto della ziqqurat e riguardarono la rimozione dei detriti degli antichi edifici in rovina. I materiali prelevati furono trasportati nel settore nord-est della città fino a formare quella collina artificiale (Homera), alla quale verrà poi addossata la cavea del teatro greco. È altresì noto dalle fonti che Alessandro elesse a propria residenza il celebre palazzo di Nabucodonosor II, sede prima dei sovrani neo-babilonesi e poi di quelli achemenidi: un’evidente scelta di propaganda politica tesa ad affermare e legittimare il proprio potere all’insegna della continuità delle antiche tradizioni orientali. All’interno del pa-

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lazzo d’estate gli scavi hanno riportato alla luce un livello ellenistico caratterizzato dalla presenza di elementi tipicamente greci: frammenti di antefisse e di tegole di terracotta dimostrano che in almeno una delle corti interne del palazzo venne inserito un peristilio, e anche i resti della decorazione pittorica a motivi geometrici delle facciate dei cortili parlano in termini squisitamente occidentali. La datazione di questi interventi edilizi non è chiara, ma secondo i risultati degli scavi essi potrebbero verosimilmente risalire non ad Alessandro, ma ai suoi successori. È infatti sotto i Seleucidi che i dati archeologici fissano una serie di lavori edilizi di grande portata, peraltro confermata dai testi cuneiformi. Il rispetto dei nuovi reggenti per i templi tradizionali di Babilonia corrisponde evidentemente a una precisa scelta politica volta al consolidamento dei legami tra gli interessi della dinastia e quelli dell’aristocrazia locale. Agli anni successivi le lotte tra Seleuco e Antigono (dopo il 312/11) si data la ripresa di consistenti opere edilizie nei due complessi del principale santuario cittadino di Marduk: il tempio basso dell’Esagila e il recinto della ziqqurat (Etemenanki), da millenni centro della vita religiosa babilonese. L’impianto generale dei complessi rimane inalterato e ogni nuovo intervento viene intrapreso all’insegna della continuità delle forme tradizionali dell’architettura babilonese. Lo si percepisce nelle facciate esterne degli edifici che conservano la tipica alternanza di aggetti e rientranze, un carattere tradizionale dell’architettura mesopotamica. È pur vero, però, che a fianco del mantenimento e della continuazione di forme religiose, amministrative e culturali della tradizione e a dispetto della quasi totale assenza di un’evidenza archeologica per forme di culto greche, nella città si incontrano altre istituzioni puramente elleniche. La presenza di una comunità greco-macedone a Babilonia è rispecchiata dalla comparsa di tipologie innovative e puramente occidentali all’interno del tessuto urbano. In particolare, il teatro [Bab. 19 e 20] conferma la presenza di istituzioni culturali tipicamente greche all’interno della società. Si tratta di un’istituzione centrale per una comunità greca il cui utilizzo non si limita al solo periodo seleucide, ma scende fino agli ultimi anni di vita della città7. Il teatro viene eretto addossandone la cavea a quella collina artificiale creata dai detriti rimossi dagli edifici in rovina nei complessi centrali della città. L’edificio è in mattoni crudi di argilla, materiale da sempre utilizzato in una regione povera di materie prime quali il legno e la pietra. Le colonne, lo stilobate, le basi e gli elementi della decorazione architettonica, che seguono modelli greci, sono invece in gesso misto a pietre. La fronte della scena del teatro viene decorata da fregi in stucco con motivi a meandro, a girali di vite, a can corrente di pura tradizione ellenistica [fig. 84]. Lungo i bordi dell’orchestra si ergono statue su basi in mattoni. Immediatamente a sud del teatro si apriva un’ampia corte a peristilio la cui interpretazione quale ginnasio o agorà è ancora oggi discussa. Dal punto di vista urbanistico Babilonia mantiene l’impianto originario: essa non è una nuova fondazione e pertanto gli interventi di età seleucide si inseriscono in spazi urbani già definiti. Anche nel caso del Merkes, il quartiere cittadino di abitazioni private, sebbene i livelli seleucidi siano caratterizzati da una ripresa delle attività edilizie, non si osserva una nuova pianificazione dell’agglomerato. Le cellule di abitazione continuano ad addossarsi secondo quel tipico principio agglutinante della tradizione babilonese e caratteristico dei quartieri residenziali delle città antico orientali. Restano immutati anche i principali caratteri planimetrici della pianta delle abitazioni, organizzate attorno a cortili centrali e con lati esterni articolati in una successione di indentature; l’unico nuovo apporto della tradizione occidentale che sensibilmente varia lo schema planimetrico delle abitazioni è l’inserimento di un peristilio o di un portico nel cortile centrale.

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Selucia al Tigri 85. Veduta degli scavi italiani di Tell ‘Umar, Seleucia al Tigri.

Babilonia, tuttavia, è destinata a perdere presto il suo primato all’interno dello scacchiere mesopotamico a vantaggio di una nuova fondazione. Alla fine del IV secolo, infatti, Seleuco I trasferisce la capitale del nuovo regno verso nord e sul corso non più dell’Eufrate, ma del Tigri in una regione più centrale rispetto alle principali vie di comunicazione della rete internazionale di scambio: Seleucia al Tigri [Sel. 1 e 2] diviene allora non solo il crocevia delle rotte commerciali del tempo, ma la vera metropoli dell’Asia ellenizzata8. La nuova capitale, che le stesse fonti indicano con l’appellativo di città reale9, è esemplare di quella politica di “colonizzazione” ed interazione perseguita dai successori di Alessandro che si inserisce nel filone della tradizione mesopotamica del re-costruttore. In quanto nuova fondazione, inoltre, a Seleucia si mettono in pratica quei principi urbanistici attuati per la prima volta ad Alessandria d’Egitto, pur adattandoli ad un contesto orientale. L’importanza della nuova fondazione è riflessa fin dalla scelta del sito: la città fu fondata allo sbocco del Canale Reale che da secoli collegava l’Eufrate al Tigri, punto strategico ove sorgeva l’antica Opis. Secondo Plinio, la forma della città ricordava quella di un’aquila e la popolazione, al suo tempo, raggiungeva i 600.000 abitanti facendo di Seleucia una delle più grandi metropoli del mondo classico.

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La cifra tracciata dallo storico è attendibile se si pensa all’enorme vastità dell’area delle rovine (oltre 550 ettari) i cui esatti limiti non sono noti, dal momento che il tracciato esterno delle mura oggi non è più riconoscibile sul terreno. Dell’antica Opis la nuova fondazione non mantiene nulla: la divisione regolare dello spazio urbano in isolati (di 73 × 145 m: i più grandi del mondo ellenistico) con strade ad angolo retto è una concezione tipicamente ellenistica. Tuttavia lo schema comunemente detto ippodameo dell’urbanistica funzionale greca si affianca a peculiarità dettate dall’ambiente fisico e culturale in cui si colloca Seleucia: la scala della nuova metropoli ricalca quella delle monumentali realizzazioni mesopotamiche, ma anche la presenza di un asse longitudinale di attraversamento costituito da un canale d’acqua con banchine transitabili riprende un’antica tradizione orientale nota da grandi centri della Mesopotamia storica (ad esempio, la stessa Babilonia). La suddivisione funzionale degli spazi urbani colloca a nord del canale gli edifici ed i quartieri ufficiali e i centri della vita pubblica, mentre nel settore meridionale della città le abitazioni e le aree commerciali delimitate da un ampio asse viario. Ampie porzioni della città sono state indagate da missioni archeologiche americane ed italiane che hanno consentito di definire l’assetto urbanistico, la cultura architettonica e quella artistica della metropoli, sebbene i settori finora indagati10 costituiscano una percentuale ancora minima rispetto all’enorme estensione della città. L’architettura religiosa del centro è poco conosciuta. L’unico complesso per il quale si può supporre un’effettiva destinazione sacrale è un piccolo edificio al limite settentrionale della città, i cui livelli seleucidi sono solo parzialmente noti: il ritrovamento di un’iscrizione in greco che nomina i sacerdoti dei sovrani della città potrebbe indicare una destinazione dell’edificio quale heroon, ovvero un tempio dedicato al culto seleucide dei sovrani divinizzati11. Le ricerche più recenti si sono concentrate ai due limiti opposti della città, lungo la strada meridionale e nel settore di Tell ‘Umar, al limite settentrionale. Sulla strada sud, in epoca seleucide, si affacciavano edifici residenziali con fronti continue rifinite in cotto e cortili interni talora arricchiti da un portico a colonne tra pilastri. L’introduzione del portico nell’architettura domestica è un evidente apporto greco che risale al periodo ellenistico e che la successiva età partica eredita sostituendolo progressivamente con l’ivan coperto a volta12. Il settore meridionale della città è noto soprattutto nelle sue fasi partiche, dal momento che i livelli seleucidi sono stati raggiunti solo in isolate circostanze. Gli interventi edilizi di età tarda, però, sembrano aver rispettato l’originario

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86-88. Alcune sigillature provenienti dagli Archivi di Seleucia. La glittica del centro sul Tigri evidenzia una grande varietà di temi e stili di esecuzione; tra gli esempi di maggiore livello tecnico spiccano i ritratti. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad e Museo Civico d’Arte Antica e Palazzo Madama, Torino (in alto a destra). Pagina a fronte: 89. Figura femminile panneggiata in calcare, marmo e stucco, da Seleucia, I-II secolo d.C., 56 × 20 cm. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad. 90. Maschera con kalathos, canestro di vimini e attributo di abbondanza sul capo di divinità e ministri del culto, poi divenuto diffuso motivo ornamentale. Terracotta da Seleucia, stampo unico, 30,5 × 12 cm. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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tracciato del tessuto urbano, pur apportando sensibili modifiche agli edifici e agli spazi urbani delle fasi seleucidi: la serie di “piazze” emerse dagli scavi lungo la strada sud, ad esempio, non facevano parte del progetto originario e l’intero quartiere cambiò di destinazione assumendo, in periodo partico, funzioni commerciali. Nel complesso settentrionale di Tell ‘Umar [Seleucia 3], invece, sono da riconoscere i resti dell’antico teatro di Seleucia: i muri della cavea e le sostruzioni del complesso seleucide conobbero alterne fasi edilizie, fino ad essere definitivamente inglobati in una struttura fortificata di tarda età sasanide, probabilmente una torre di avvistamento. Immediatamente a sud si apriva una grande piazza (agorà), delimitata sul suo lato nord-occidentale da un edificio in crudo costituito da una serie allineata di piccoli ambienti, comunicanti e con pianta analoga. L’edificio, in mattoni crudi per i muri e legno di palma per le coperture piane, venne distrutto da un violento incendio attorno al 129 a.C. Gli scavi del complesso hanno riportato alla luce circa 25.000 sigillature in argilla (bullae, figg. 86-88) conservatesi proprio perché cotte dal fuoco che arse l’edificio. Proprio le sigillature hanno permesso l’identificazione della sede degli archivi cittadini dove, a partire dall’ultimo quarto del III secolo a.C., erano sigillati e conservati documenti in papiro e pergamena, in gran parte relativi al commercio di sale. Lo studio delle impronte sulle bullae ha evidenziato una grande varietà nel repertorio della glittica di Seleucia ed una forte connessione tra le culture della Mesopotamia seleucide: su di esse preval-

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91. Statuetta femminile in alabastro e bitume, simile a quelle ritrovate negli strati più recenti di Babilonia, periodo ellenistico-partico. Provenienza incerta, Vorderasiatisches Museum, Berlino. 92-93. Torso maschile nudo (12,1 × 4,6 cm) e recumbente seminuda (8,6 × 11,4 cm), terrecotte da Seleucia. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

94. Recumbente nuda in marmo, periodo partico. Provenienza incerta, Vorderasiatisches Museum, Berlino.

gono uno stile e un’iconografica ellenistica, ma giocano un ruolo significativo anche motivi tradizionali babilonesi e, su scala minore, influenze iraniche. Se le impronte di sigilli concernono esclusivamente il periodo seleucide, un’altra produzione continua per tutta la storia del centro sul Tigri: quella delle figurine di terracotta, prodotte in grande quantità da botteghe locali [figg. 90, 92, 93]. I caratteri della coroplastica di Seleucia sono in linea con quelli di un altro importante corpus di figurine di terracotta rinvenuto a Babilonia. I tipi rappresentati sono prevalentemente di origine greca, ma in quanto espressione della religiosità degli strati più umili della popolazione costituiscono spesso il mezzo espressivo di un sentimento tipicamente locale. Sia a Seleucia sia a Babilonia lo stile delle raffigurazioni va dal naturalistico al fortemente stilizzato e i soggetti prevedono tipi e tecniche di esecuzione occidentali a fianco di motivi di antica origine mesopotamica. Accade così che nei due centri si distinguano un gruppo mesopotamico (tra cui spiccano la figura femminile nuda stante con le braccia lungo i fianchi o al petto, ma anche cavalieri e animali), un gruppo con iconografie occidentali (soldati, figure femminili e divine, maschere, pinakes e placche figurate…) ed infine esemplari con tratti più marcatamente iranici, soprattutto nelle vesti. Le terrecotte, che cronologicamente appartengono in prevalenza all’orizzonte culturale partico, costituiscono dunque un evidente esempio della coesistenza di differenti tradizioni culturali in reciproca simbiosi.

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Uruk 95. Statua di Eracle in riposo da Seleucia. Ritrovata nel corso di operazioni fortuite di scavi, la statua (85 × 27 cm; bronzo) ripropone il noto schema lisippeo dell’Eracle Farnese, seppure variato: un motivo che avrà larga diffusione anche nelle figurine di terracotta del centro sul Tigri, I secolo a.C.-II d.C. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad. 96. Corona a foglie d’oro proveniente da una delle sepolture seleucidi a tumulo di Frehat en-Nufeji, poco fuori le mura di Uruk. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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Le contemporanee terrecotte di Uruk, il terzo grande centro della Mesopotamia meridionale di età seleucide, mostrano invece una situazione culturale differente. Sebbene le componenti fondamentali siano le stesse, la produzione urukena si distingue per un maggior peso della componente orientale ed i motivi e le tecniche della tradizione mesopotamica ricorrono più spesso rispetto a quei caratteri che potremmo definire tipicamente occidentali. Questa componente mesopotamica più marcata si ritrova anche in altre produzioni (come la glittica) e in architettura, a dimostrazione che il centro offre un panorama culturale leggermente diverso. Uruk è la città millenaria che diede il nome ad un intero periodo (detto protourbano) cruciale per la storia della civiltà. Ancora al termine del suo sviluppo essa conserva la sua importanza storica, culturale ed economica come attesta la monumentalità degli edifici riportati alla luce. Con la conquista macedone, infatti, la città torna ad essere un centro religioso tra i più importanti della Mesopotamia: lo confermano Strabone e Plinio che, in epoca seleucide e partica, collocano all’interno delle mura cittadine la sede di una delle maggiori scuole caldee di astrologia. Questa rifioritura culturale e architettonica ha un carattere però fortemente conservativo: per tutta l’età seleucide l’architettura religiosa e le pratiche cultuali di questo centro continuano secondo i modelli babilonesi seppure con l’introduzione di elementi innovativi. È significativo che un utilizzo diffuso dei nuovi apporti occidentali nell’organizzazione planimetrica, nella decorazione e nelle tecniche costruttive degli edifici si registri solo in epoca tarda13. Tra

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i centri della Mesopotamia meridionale forse Uruk è quello che più ci trasmette l’intento programmatico dei successori di Alessandro nel perseguire una linea di condotta all’insegna della continuità e del rispetto della tradizione locale. Oltre al grandioso impianto del Bit Akitu, l’edificio fuori le mura per la celebrazione della tradizionale festa del Nuovo Anno, i sovrani seleucidi patrocinano la ricostruzione dei due maggiori santuari cittadini: l’Irigal e il Bit Resh. A tali ricostruzioni prendono parte i due notabili Anu-uballit, i quali adottano un antroponimo greco (Kephalon e Nikarchos) e lo affiancano al nome originario babilonese, a conferma della loro vicinanza all’ambiente ellenico. L’Irigal viene ricostruito rispettando la tradizionale organizzazione planimetrica babilonese con cortile centrale e muro di recinzione. Il complesso ospitava la dimora di Ishtar, dea della guerra e della fecondità, che fin dal IV millennio era stata venerata nell’Eanna, uno dei più prestigiosi santuari dell’antica Mesopotamia: esso è ancora in uso come testimoniano la ricostruzione del recinto e la trasformazione, sembra, dell’alta terrazza in vera e propria ziggurat a gradoni. In epoca seleucide all’interno di questi santuari cittadini intercorrono significativi cambiamenti nelle pratiche di culto. I dettagli ci sfuggono, ma è chiaro che il culto di Ishtar passa all’Irigal, mentre l’altro monumentale complesso sacro, il Bit Resh, rimpiazza per importanza l’antico Eanna. E proprio il Bit Resh costituisce l’intervento più monumentale nella città: il complesso viene interamente ricostruito in mattoni crudi (con un largo uso del mattone cotto nelle rifiniture) secondo schemi cari alla tradizione architettonica locale. Esso è la casa della coppia divina AnuAntum, delimitata da un monumentale recinto esterno di 210 × 162 m che includeva il tempio principale e una serie di altre strutture connesse al culto e all’amministrazione. I vari settori del complesso erano planimetricamente organizzati attorno a un cortile, secondo uno schema tipico dell’architettura mesopotamica. Altrettanto tradizionali sono la decorazione esterna delle facciate e dei cortili con l’alternanza di nicchie e aggetti, la decorazione del portale di ingresso a mattoni smaltati raffiguranti animali al passo e motivi astrali, l’organizzazione planimetrica dei due templi con cortile antistante e successione assiale di antecella e cella larghe. La tradizione cultuale di Uruk, nelle pratiche come nelle forme architettoniche, non sembra dunque profondamente toccata dalle idee religiose greche e, in effetti, non si hanno testimonianze dirette di un culto estraneo alla tradizione se si esclude un testo cuneiforme che ricorda le offerte alla tavola dei sovrani: un passo che potrebbe essere riferito a forme di un culto dinastico, introdotto proprio in età seleucide. Eppure, a fianco di questi pur evidenti caratteri tradizionali, si percepisce costantemente la presenza della componente greca. È il caso del ritrovamento, all’interno del Bit Resh, di numerosi testi seleucidi e di un ingente numero di sigillature di documenti (bullae) con l’indicazione del dipartimento fiscale preposto per la tassa sul sale, che farebbe pensare alla presenza di archivi cittadini. Saremmo dunque di fronte ad una situazione amministrativa analoga a quella di Seleucia e che attesta la presenza di un’istituzione greca (quella appunto degli archivi) all’interno dell’edificio religioso più importante della città. E però, anche nelle bullae, si riconosce a Uruk un insistere più marcato su motivi (e persino tecniche di esecuzione) tratti dalla tradizione preseleucide, sebbene esse siano prodotto delle medesime pratiche amministrative note a Seleucia e Babilonia. Anche in ambito funerario le pratiche di sepoltura urbane non si discostano dalle tipologie tradizionali dell’area e del tempo (sepolture in fossa, alla cappuccina o a sarcofago). Tuttavia, poco fuori le mura di Uruk verso nord, si erge un gruppo di tumuli funerari, solo in parte indagati e delimitati da un muro circolare in mattoni crudi attorno alla camera sepolcrale interna. Il tumulo è una tipologia funeraria estranea alla tradizione mesopotamica, ma ben nota a quella greco-macedone: si può pertanto supporre che tali dispositivi appartenessero a importanti personaggi macedoni e il ricco corredo che proviene dal loro interno (tra cui due corone di foglie d’oro di età seleucide, fig. 96) è a favore di questa lettura.

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Altri centri di epoca seleucide 97. Tempio delle divinità orientali a Dura Europos.

Oltre ai tre grandi siti considerati, livelli seleucidi sono emersi in altri importanti centri storici: purtroppo accade spesso che le nostre conoscenze si limitino a notizie riportate dalle fonti e abbiano avuto solo parziali riscontri sul terreno. Nel sud del paese, a Borsippa, i testi cuneiformi ricordano la ricostruzione dell’Ezida di Nabû ad opera di Antioco I, mentre a Ur si registrano lavori di manutenzione nei maggiori complessi sacri. Ritrovamenti di cretule di sigillatura di età seleucide provengono anche da Ur e da Nippur. Qui, le ricerche archeologiche hanno individuato livelli ellenistici all’interno del cosiddetto “palazzo”: esso conserva l’impianto mesopotamico tradizionale cui però si aggiunge un peristilio con colonne in cotto di ordine dorico. Come si è visto per Babilonia e Seleucia, che sorgevano lungo le principali rotte commerciali del tempo, altre città fiorirono in relazione ai traffici tra Oriente e Occidente. La politica dei sovrani seleucidi, infatti, fu particolarmente attenta al rafforzamento delle rotte commerciali terrestri, fluviali e marittime tra il Mediterraneo e il golfo Persico (e dunque l’India, l’Asia Centrale, l’Estremo Oriente). Tappe sulla via che attraverso l’Eufrate collegava il Mediterraneo e la Siria al golfo Persico e dunque all’Estremo Oriente

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erano Dura Europos, Spasinou Charax, Ikaros. Spasinou Charax, secondo quanto riportano le fonti antiche (assai esigui sono i dati archeologici in nostro possesso), doveva essere uno dei centri principali della regione affacciata sul Golfo: la sua importanza commerciale crebbe in età seleucide e partica, costituendo il terminale di terra delle carovane provenienti da Palmira. L’isola di Ikaros-Failaka nel Golfo era uno scalo altrettanto importante sulla rotta verso l’India, in funzione almeno fin dal II millennio. All’interno del recinto fortificato eretto in età ellenistica gli scavi hanno riportato alla luce due templi in stile greco. In particolare, il cosiddetto “Tempio A” ben rappresenta, nonostante le dimensioni contenute, l’applicazione di un linguaggio architettonico aperto a influenze e tradizioni culturali differenti, sia nella tecnica costruttiva, sia nella decorazione: l’edificio, eseguito in una tecnica mista che utilizza blocchi di calcare e argilla cruda, prevede una cella quadrata preceduta da un portico in antis con colonne ioniche. I capitelli, le cornici e gli acroteri hanno un disegno tipicamente greco, mentre le alte basi circolari delle colonne decorate con motivi vegetali riportano all’architettura achemenide. Si deve parlare di nuova fondazione seleucide, invece, per Dura Europos (circa 300 a.C.) sull’attuale corso dell’Eufrate siriano (dunque ai margini della nostra ricerca), voluta da Seleuco I come centro strategico a controllo di una regione economicamente di primo piano lungo le principali rotte commerciali tra il Mediterraneo, il golfo Persico e l’Altopiano iranico. L’impianto di questo centro cosmopolita e punto d’incontro delle tradizioni mediterranee ed orientali è tipicamente ippodameo − basato su tre assi longitudinali, la cui intersezione veniva a formare isolati rettangolari di forma allungata −, sebbene le successive ricostruzioni di età partica abbiano profondamente alterato l’originario aspetto del tessuto urbano. L’area venne suddivisa in isolati regolari (di 35 × 70 m), ciascuno con otto case. Una cittadella, a nord-est, ospitava i centri del potere, mentre la metà meridionale del sito era riservata agli edifici pubblici. Per l’impianto originario, oltre alla linea di mura turrite e al settore dell’agorà (occupata in periodo partico da botteghe ed edifici residenziali), possediamo alcuni interessanti dati sui presunti livelli seleucidi dei due templi di Artemide e di Zeus Megistos. Il primo complesso consta di un tempio con naiskos circondato da un colonnato di ordine dorico e preceduto da due altari, incluso all’interno di un ampio recinto porticato con vestiboli e ambienti ausiliari. Il secondo tempio, dedicato a Zeus Megistos, esprime chiaramente l’interazione tra elementi greci e forme della tradizione mesopotamica; se la ricostruzione proposta dagli scavatori è esatta, la tripartizione interna della cella, la pianta grosso modo quadrata, la presenza di un altare all’esterno del tempio e di un recinto sono elementi non greci, a differenza della forma e delle proporzioni delle colonne doriche del propylon d’ingresso. La presenza di forme religiose greco-macedoni è altresì testimoniata da un testo di II secolo d.C. che ricorda il culto dinastico di Seleuco I all’interno della città. Al tempo di Senofonte (401 a.C.) il tell di Nimrud è disabitato, ma sappiamo che proprio nei suoi dintorni avvenne la battaglia campale di Alessandro Magno contro Dario III (331 a.C.). Fin dalle esplorazioni di Layard nel XIX secolo sono emerse dalla celebre capitale assira (Kalhu) sepolture contenenti sarcofagi in terracotta e corredi con recipienti in vetro, grani di collana in agata, ametista e cornalina, ornamenti in rame ed argento. Dalla metà del secolo scorso, gli scavi sull’acropoli nel settore dell’Ezida e del cosiddetto “Palazzo Bruciato” hanno rivelato la presenza di modeste abitazioni spesso raccolte in piccoli agglomerati. Le strutture insediative di III-II secolo differiscono da qualsiasi altro contemporaneo villaggio della regione: le case hanno solitamente una pianta irregolare composta da due a quattro ambienti attorno ad un cortile dove era collocato il forno per il pane. I materiali provenienti dai livelli ellenistici attestano la sopravvivenza di tratti tradizionali mesopotamici ora affiancati ai nuovi motivi e a quelle mode portate dai Greci; tra i reperti venuti alla luce si contano soprattutto monete, forme ceramiche di importazione,

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98. Scudo con scene dipinte dell’Iliuperside – il poema frammentario sulla presa di Ilio (Troia) – da Dura Europos. Acquarello su carta di Herbert J. Gute, Yale University Art Gallery.

terrecotte a stampo. Sulla base dei tipi ceramici e di altri materiali databili sembra che il villaggio di Nimrud sia stato abbandonato dopo la metà del II secolo a.C., probabilmente a seguito della conquista dei Parti. L’antica Kalhu perdette d’importanza dopo la distruzione del potere politico assiro; gli stessi materiali di epoca ellenistica, sebbene in alcuni casi di importazione, non implicano una fitta rete di scambi attraverso la pianura nord mesopotamica. Diverso è il caso di Ninive, altra capitale assira ricordata dalla Bibbia, che in epoca ellenistica mostra una maggiore continuità con i periodi precedenti quale centro vitale della regione. Qui i livelli ellenistici sono meglio attestati, a dispetto di un’esplorazione archeologica comunque parziale. Dopo l’abbandono della città assira seguito alla violenta distruzione dei Medi e Babilonesi nel 612 a.C., si assiste ad una significativa ripresa delle attività edilizie proprio a partire dall’epoca seleucide. Un’iscrizione dal tempio di Nabû (peraltro forse restaurato già prima del periodo seleucide) sembra riferita a forme organizzative civiche greche. Più incerta è la presenza di un tempio, la cui tipologia planimetrica deriverebbe da prototipi assiri, dedicato a una divinità greca: la statua di Hermes che si pensa possa provenire dal tempio, costituisce per la verità un’opera piuttosto provinciale e forse va datata al successivo periodo partico. Il tempio, non ancora individuato sul terreno, così come l’insediamento di età ellenistica sorgevano probabilmente nel settore ai piedi della cittadella di Kuyunjik. La simbiosi di elementi culturali di diversa origine costituisce dunque un aspetto fondamentale di quel variegato mosaico di storia, popoli e religioni che è l’impero seleucide:

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in esso la componente greco-macedone si affida a un largo coinvolgimento dei diversi fattori etnici in campo amministrativo, politico e culturale, che concorrono alla gestione del sistema di governo e alle forme di vita sociale. Il quadro di interrelazioni e scambi offerto dalle città della Mesopotamia seleucide è pertanto analogo, sebbene differenziato a seconda dei singoli contesti locali. La ricerca archeologica è ancora lontana dall’averne chiarito i caratteri specifici e la ricostruzione del complesso quadro culturale è per ora affidata soprattutto ai tre grandi centri della Mesopotamia meridionale: essi riflettono modalità diverse di convivenza tra il nuovo apporto greco e le antiche tradizioni mesopotamiche. Babilonia, città di raccordo fra il mondo mediterraneo e l’Oriente con il suo antico prestigio e le sue millenarie tradizioni, costituisce un esempio originale dove i templi e i santuari continuano la loro vita anche dopo la conquista macedone, a fianco di una presenza greca duratura ed evidente dai testi e dalle testimonianze archeologiche: non a caso si è parlato di due Babilonie, una greca e l’altra babilonese e di due comunità in costante simbiosi. La presenza di due mondi culturali distinti ma in continuo dialogo tra loro è una realtà anche a Uruk: qui è indubbia una più forte coloritura locale, meno aperta ad accogliere l’esperienza greca, e la continuazione delle pratiche tradizionali trova espressione nella ricostruzione di interi complessi secondo i canoni preseleucidi: è però anche evidente il riflesso di forme amministrative, istituzionali, culturali greche come nel caso dei doppi nomi, degli archivi, della biblioteca, delle pratiche funerarie. È possibile che a Uruk non ci fosse una colonia greca così forte come a Seleucia (e forse a Babilonia), il cui contesto è più chiaro in quanto nuova fondazione reale. Questa è fortemente debitrice all’influsso ellenistico nelle istituzioni, nell’architettura, nella glittica, nella coroplastica e nella numismatica; ogni realizzazione a Seleucia è profondamente pervasa da un carattere greco che mai rinnega però l’ambiente e le tradizioni culturali mesopotamiche. La Babilonia (nel senso lato del termine, a indicare l’intera Mesopotamia centro-meridionale) gioca dunque un ruolo di primo piano nelle complesse vicende storico-culturali dell’Ellenismo in Oriente. I recenti studi sulla regalità, sulle pratiche amministrative e sui fenomeni socio-culturali dell’impero dei Seleucidi evidenziano sempre più l’osmosi di diverse componenti culturali (mesopotamica, iranica, greca) e sottolineano una indiscussa continuità con le precedenti età, neo-babilonese ed achemenide. Quella che è stata definita come una “Babilonizzazione” della politica dei sovrani seleucidi è una linea di condotta ed un atteggiamento culturale che riconosce, come già avevano fatto i predecessori Achemenidi, l’importanza di una tradizione millenaria e consolidata come quella mesopotamica. Se la produzione artigianale può essere caratterizzata da una maggiore varietà di tendenze artistiche, l’architettura vede prevalentemente il rivivere di forme tradizionali; al tempo stesso, il rispetto per i culti locali e la promozione di rituali all’insegna della tradizione (e il re ne è destinatario, officiante e spettatore) trova il suo corrispettivo terreno nella continuazione di forme e pratiche amministrative del passato; addirittura la titolatura reale e l’immagine del sovrano non esitano a far uso di antiche diciture e iconografie. L’adozione di queste forme, il patrocinio della cultura tradizionale, le strette relazioni con le classi dirigenti locali costituiscono gli strumenti attraverso i quali i Seleucidi legittimano e consolidano il proprio potere e il proprio prestigio. La varietà e talora l’ambiguità dei casi, certo più complessa di quanto non si sia potuto qui illustrare, è testimone dell’ampiezza del fenomeno della diffusione dell’Ellenismo in Oriente. L’irradiazione della cultura ellenistica, che al di là della terra tra i due fiumi pervase l’Asia centrale e parte del subcontinente indiano, non seguì un unico canovaccio, ma si adattò di volta in volta alle condizioni locali: essa non fu imposizione della cultura del vincitore, ma piuttosto continua suggestione ed adattamento di forme e idee in grado di rielaborare, rinnovare e far rivivere espressioni antiche di culture anche diverse fra loro.

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Parti e Sasanidi Roberta Venco Ricciardi

IL PERIODO PARTICO La conquista del potere alla metà del III secolo a.C. nella provincia seleucide della Parthia da parte di Arsace, fondatore della dinastia che rimase a capo dell’impero partico per quasi cinquecento anni, avvenne, dopo la rivolta del satrapo locale Andragora, approfittando della debolezza del regno seleucide e della decomposizione del suo potere in Iran e in Asia centrale. A questa ben presto seguì la conquista della fiorente regione dell’Ircania, ponendo così le basi della potenza arsacide. Nonostante i ripetuti tentativi dei sovrani seleucidi di riprendere il potere in Iran e in Asia centrale, i Parti conquistarono progressivamente le regioni dell’altopiano iranico. Nel 141 a.C., sotto la guida di Mitridate I, anche la Mesopotamia, con Seleucia e Babilonia, cadde in mano arsacide ed entrò nell’orbita partica. Il potere arsacide fu in realtà consolidato nella regione da Mitridate II (124/3-88/7 a.C.), con ulteriori estensioni territoriali verso la Siria. Il regno seleucide fu limitato allora alla Siria occidentale, dove ben presto dovette confrontarsi con l’espansione dei Romani. È in questo periodo che i rapporti con la dinastia Han della Cina divennero via via più frequenti e diedero corpo all’organizzazione di un commercio tra l’Estremo Oriente e l’Occidente, attraverso la via della seta, di cui i Parti e in seguito i Sasanidi mantennero la lucrosa posizione di intermediari. La Mesopotamia che era non solo la più fertile regione dello stato partico, ma anche il crocevia naturale di tale commercio, appare in questo periodo particolarmente prospera, con la fondazione di numerosi e grandi insediamenti, nonostante la zona fosse, specialmente durante il II secolo d.C., frequente teatro di guerre con i Romani e di lotte interne. Per la conoscenza di queste vicende, data la mancanza quasi assoluta di fonti scritte partiche, sono di fondamentale importanza quelle archeologiche e numismatiche.

Seleucia al Tigri, Ctesifonte, Vologesia Seleucia, che era collocata al centro della Mesopotamia, dove il Tigri e l’Eufrate si avvicinano maggiormente – posizione privilegiata dove si sono avvicendate tutte le grandi capitali fino ad arrivare alla Baghdad islamica – mantenne e accrebbe la sua importanza durante l’età partica: secondo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), Seleucia aveva una popolazione di 600.000 abitanti e rivaleggiava con le grandi metropoli dell’epoca, Roma e Alessandria. La città mantenne anche sotto il potere partico

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una certa autonomia amministrativa e il privilegio, concesso dai sovrani arsacidi, di battere moneta d’argento e di bronzo con i tipi della città. La grande abbondanza di esemplari, anche di piccoli nominali, ritrovati in tutto il mondo partico, è indice dell’importanza della zecca di Seleucia e di una vivace vita commerciale non solo a circolazione locale. Le indagini archeologiche, benché molto ristrette rispetto all’estensione della metropoli (600 ha), non indicano una progressiva diminuzione di popolamento durante il periodo partico: non sembrano avere avuto un’influenza determinante né lo spostamento del corso del fiume verso est tra il I e il II secolo d.C., che determinò l’abbandono del porto sul Tigri, né la conquista romana da parte di Avidio Cassio nel 165 d.C. Solo nel primo quarto del III secolo la città verrà a poco a poco abbandonata e sostituita da una nuova città fondata da Ardashir, primo sovrano della dinastia persiana dei Sasanidi. La città rimase legata in modo particolare alla cultura ellenistica soprattutto nell’arte figurativa e nella decorazione architettonica. Nell’edilizia domestica si può seguire una progressiva evoluzione dalla casa di tradizione greca, con portico antistante, che si affacciava sul cortile a quella tipicamente partica ad ivan, in cui questo ambiente, con la scomparsa delle colonne, si apriva completamente sull’area aperta della corte. I dati sull’edilizia domestica provengono in gran parte da un isolato (70 × 140 m), scavato negli anni ’30 da una missione americana, in cui però non furono raggiunti gli strati seleucidi, e furono messi in luce solo i livelli partici dal I secolo a.C. fino al III secolo d.C. Nello strato più tardo l’isolato cambiò la sua connotazione di complesso di case di dimensioni sostanzialmente analoghe, e due terzi dell’intera area vennero occupati da un grande complesso unitario, il c.d. “palazzo”. È impossibile valutare se questo cambiamento, rilevato in un solo isolato, riflettesse una trasformazione sociale della città, poiché le ricerche sul sito sono troppo scarse e non offrono dati comparativi. I sovrani arsacidi, secondo le fonti classiche, rispettarono la grande e ricca metropoli, ponendo il campo militare al di fuori di questa, dalla parte opposta del fiume, sul sito di un villaggio, Ctesifonte, che si sviluppò progressivamente fino a diventare la capitale dell’impero partico nel I secolo d.C. Poiché la città non è ancora stata localizzata, possiamo fare riferimento unicamente alle scarne informazioni provenienti da fonti scritte. È forse possibile che sia da identificare con la “città antica” degli autori arabi posteriori, dove si ergeva un “palazzo bianco”, che fu smantellato nel primo periodo islamico al fine di recuperarne i materiali per la costruzione della nuova capitale Baghdad. Probabilmente per contrastare l’importanza economica di Seleucia, venne fondata da Vologese I, nella seconda metà del I secolo d.C., una città chiamata Vologesia, come emporio commerciale in cui arrivavano le carovane di Palmira, città carovaniera nel deserto siriano, porta d’Occidente del grande commercio internazionale tra l’Oriente e il Mediterraneo. Come Ctesifonte, anche Vologesia non è stata individuata sul terreno, cosicché non abbiamo testimonianze materiali per le città propriamente partiche nel cuore dell’impero. Se escludiamo Nisa, la prima capitale partica del II secolo a.C., in Asia centrale nessuna delle grandi capitali (Ecbatana in Iran, Ctesifonte in Mesopotamia) è stata indagata: mancano quindi testimonianze dell’arte ufficiale arsacide oltre a quella delle monete, documenti più di carattere politico che artistico. Da queste si possono trarre solo indizi di carattere generale sull’iconografia e su uno sviluppo stilistico da un’arte più naturalistica a una più stilizzata con caratteri orientali. La nostra conoscenza della cultura partica è invece affidata alle documentazioni provenienti dai siti periferici, particolarmente fiorenti in un’organizzazione statale poco

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99. Il tempio di Gareus a Uruk (inizio del II secolo d.C.) visto da sud-est.

centralizzata quale era quella dell’impero partico. Le province, mantenendo peculiarità proprie, conferirono alla cultura del periodo un carattere molto sfaccettato, pur all’interno di un quadro generale contraddistinto da un connubio originale di forti tradizioni locali e di elementi ellenistici.

L’architettura in epoca partica La Mesopotamia meridionale: Uruk e Nippur Negli antichi centri mesopotamici, in generale, i caratteri architettonici di origine occidentale in epoca partica sono più evidenti di quanto non appaiano nel periodo precedente. Esemplare è il caso di Uruk, in cui in età seleucide l’architettura non si discosta da quella tradizionale, testimoniata dai grandi santuari al centro della città, che sembrano rimanere in uso ancora nel primo periodo partico, come è indicato da una tavoletta in cuneiforme datata al 108 a.C. Solo duecento anni dopo, venne costruito in un’area decentrata, ad opera di un gruppo probabilmente allogeno, il tempio di Gareus (datato da un’iscrizione in greco al 111 d.C., fig. 99), che mostra una commistione di elementi diversi, tipica della cultura partica. L’antica pianta babilonese, a cella larga con nicchia al fondo per l’effigie divina, in asse con l’entrata, è unita a una veste di tipo occidentale con semicolonne all’esterno, che inquadravano nicchie coperte ad arco. Un fregio con animale fantastico sugli stipiti appartiene alla tradizione orientale e trova riscontro in altri siti partici, come Seleucia e Hatra, nella Mesopotamia settentrionale.

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Accanto a tale sincretismo, che fonde elementi tradizionali e occidentali, e contraddistingue l’architettura “partica” in Mesopotamia, nei primi secoli d.C., compare una nuova tipologia architettonica, forse di origine iranica, l’ivan, un ambiente rettangolare completamente aperto su un lato breve, che si affaccia su una corte. Ampiamente diffuso in tutto il mondo partico nell’architettura religiosa e civile, l’ivan è utilizzato universalmente anche nei periodi seguenti, giungendo fino all’architettura del Novecento, dalla Siria e Mesopotamia settentrionale fino all’Iran e oltre. Nei complessi di maggior respiro l’ivan è circondato da un corridoio che funge da contrafforte alla sua copertura e che si rivela in facciata con due aperture minori a fianco di quella maggiore. Nel centro-sud della Mesopotamia l’ivan è utilizzato sia a livello monumentale, come a Nippur, sia in residenze di varie dimensioni come a Seleucia e ad Abu Qubur, in date non molto distanti, tra la seconda metà del I secolo d.C. e il primo trentennio del II secolo. A Nippur sui resti dell’antica ziggurat di Enlil fu eretta una fortificazione, nel cui interno venne costruito nella sua ultima fase un imponente edificio con quattro ivan, scarsamente conservati, databili probabilmente verso il 120 d.C., che, affrontati a schema cruciforme, si affacciavano intorno a un ampio cortile, come nel meglio conservato palazzo di Assur nella Mesopotamia settentrionale. Nulla rimane della decorazione della facciata, ma la profondità delle fondazioni in mattone cotto sembra indicare che una fronte monumentale fosse prevista, in modo analogo agli ivan dello stesso palazzo di Assur.

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100. Palazzo partico di Assur, particolare della struttura modanata in mattoni cotti di uno stipite dell’ivan nel quartiere residenziale di nord-est.

La Mesopotamia settentrionale: Assur e Hatra 101. Ricostruzione della facciata dell’ivan ovest del palazzo partico di Assur. Vorderasiatisches Museum, Berlino.

Assur, l’antica capitale assira, che si erge a strapiombo sul Tigri, dopo un lungo periodo con scarsissime testimonianze, presenta in età partica una nuova fioritura, con un’occupazione diffusa su gran parte della città antica e con la costruzione di un palazzo nella parte meridionale della città e di templi in quella settentrionale. In questi edifici il sincretismo architettonico e cultuale è particolarmente evidente e dà luogo, nel vario fondersi dei caratteri tradizionali, occidentali e iranici, a soluzioni diverse. Due templi ben testimoniano tale commistione e sintesi di elementi diversi, di cui però ci sfuggono le ragioni rituali delle scelte e il loro reale significato cultuale. Nel Tempio A la cui pianta a cella larga, di stretta derivazione babilonese, testimonia una forte sopravvivenza del substrato culturale mesopotamico, era probabilmente venerato Eracle, o una sua interpretazione locale. Al contrario, il tempio costruito in età partica sopra l’antico tempio del dio Assur, che mantenne probabilmente, come appare dalle iscrizioni, il culto tradizionale ad Assur e Scherua, è un edificio di carattere nuovo e del tutto originale. Presenta, nella sua ultima fase, l’accostarsi di tre ivan di dimensioni analoghe, con un’unica facciata scandita da semicolonne, che trova confronto con gli edifici templari di Hatra che ospitavano però culti di tutt’altra origine. Il tempio che meglio testimonia il sincretismo architettonico del periodo è il cosiddetto “Periptero”, in cui cella e antecella sono ambienti “larghi”, di tradizione babilonese, mentre quello antistante si configura come ivan per l’ampiezza dell’entrata; un peristilio di ovvia origine ellenistica si svolge su tre lati, ma non in facciata. La facciata tripartita – grande arco affiancato da due aperture di piccole dimensioni

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che corrispondono al deambulatorio colonnato – viene ricostruita in elevato in modo analogo a quella, conservata, del palazzo. I templi sembrano essere concentrati nella parte settentrionale della città, accanto all’antica ziggurat, il palazzo venne eretto invece nella parte meridionale della città in un’area urbana che, in base a quanto portato finora alla luce, doveva avere funzione abitativa. Il palazzo è un documento di straordinaria importanza in quanto non solo presenta chiaramente in pianta, come il tempio periptero, le diverse tradizioni e le novità dell’architettura partica, ma è anche l’unico edificio civile di età partica di cui è stato possibile ricostruire la decorazione della facciata di un ivan [fig. 101; Assur 4]. Esso si sviluppava, conformemente alla più tipica tradizione orientale, intorno ad un cortile quadrangolare su cui si affacciavano quattro grandi ivan, affrontati secondo uno schema cruciforme ancora usato fino ai giorni nostri. La pianta è notevolmente irregolare, non solo nella forma del cortile, ma anche nelle dimensioni degli ivan e negli ambienti connessi che non seguono uno schema univoco; il corridoio che circonda l’ivan, soluzione adottata probabilmente per ragioni statiche, sembra invece essere una caratteristica quasi generale. L’entrata al palazzo, a est, viene monumentalizzata dall’aggiunta di un grande peristilio, di chiara derivazione occidentale, come tipologia planimetrica generale, ma completamente stravolto rispetto alla sua funzione originaria: nelle case greche il cortile porticato era il centro dell’abitazione attorno a cui si articolavano gli ambienti, mentre qui funge da passaggio tra l’interno e l’esterno dell’edificio. Questo libero uso di tipologie occidentali, il carattere composito, la mescolanza continua e creativa di elementi attinti da ambiti culturali diversi, propri dell’architettura partica, sono testimoniati chiaramente anche dalla decorazione in stucco della facciata dell’ivan occidentale, ricostruita meticolosamente dai resti crollati nel cortile. La facciata dell’ivan era completamente ricoperta da una ricca decorazione in stucco che si articolava in tre ordini di sottili e alte semicolonne e nicchie di varie dimensioni. I registri erano divisi da alte trabeazioni decorate con motivi geometrici o vegetali stilizzati, vivacemente colorati. I particolari, come i capitelli, indicano una mescolanza di elementi di diversa origine, liberamente interpretati in senso decorativo, ma è la concezione complessiva di questa facciata che bene evidenzia il carattere della cultura partica. Si tratta di una facciata cieca, puramente ornamentale, in quanto ai diversi registri ai lati dell’arcone dell’ivan non corrispondevano probabilmente dei piani superiori dell’edificio, come invece sarà nei grandi templi di Hatra. L’articolazione in diversi registri fa riferimento a tipologie occidentali, ma la disposizione serrata delle sottili colonnine e la loro proporzione anomala, rimandano alla definizione luministica delle pareti degli edifici antico-mesopotamici a pilastri e nicchie riprofilate. La definizione di luce ed ombra della facciata è ottenuta attraverso elementi di tradizione ellenistica che equilibrano il grande scuro dell’arcone dell’ivan, accentuando la bidimensionalità dell’insieme. Hatra La frontalità della facciata è ampiamente testimoniata anche nella ricca città di Hatra, principale centro della Jazira, regione cuscinetto tra l’impero partico e quello romano e quindi di fondamentale importanza strategica. Hatra è posta a una cinquantina di chilometri a nord-ovest di Assur ed era in collegamento con questa, come testimoniano i ritrovamenti numismatici. Si ipotizza che Assur e Hatra abbiano anche condiviso le stesse vicende belliche. L’imperatore Traiano nel 116 e Settimio Severo nel 198 assediarono

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102. Veduta d’insieme della parte occidentale del temenos di Hatra, con il muro divisorio nord-sud.

Nella doppia pagina seguente: 103. La facciata del tempio di Maran, nel temenos centrale di Hatra. Non ci sono iscrizioni che datino la costruzione; si suppone che sia il tempio più antico del temenos per le sue forme occidentali e per alcuni caratteri della muratura.

invano Hatra, come riportano le fonti classiche e, secondo l’ipotesi di Andrae, conquistarono invece la meno potente città di Assur. Hatra fu conquistata solo dal grande re sasanide Shapur nel 240/1 e da allora sostanzialmente abbandonata. Probabilmente Assur ebbe fine nello stesso periodo, con la conquista sasanide della Mesopotamia settentrionale nella prima metà del III secolo. Hatra, circondata da una steppa semidesertica, verde solo nei mesi primaverili e non favorevole ad assedi prolungati, era difesa non solo dalla sua posizione naturale, ma soprattutto da imponenti mura in mattone crudo su alto basamento in pietra, rafforzate da numerose torri. Lo straordinario stato di conservazione di tutta la città ha permesso una chiara visione complessiva delle sue fortificazioni, le cui fasi sembrano ben riflettere le vicende storiche riportate dalle fonti classiche. Un circuito murario più antico di una città probabilmente quadrangolare è stato attribuito al periodo precedente all’assedio di Traiano, quando la città fu definita da Dione Cassio “piccola e infelice”. Probabilmente in seguito a questa esperienza e ampliando quell’impegno edilizio che era già maestosamente iniziato con la costruzione dei grandi templi nel Temenos centrale e di quelli minori all’interno dell’abitato, venne costruita, poco prima della metà del II secolo d.C., con la stessa tecnica di quella più antica, una nuova poderosa cinta molto più ampia, di forma subcircolare, con un diametro

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di circa due chilometri, che comprendeva all’interno zone non ancora costruite, fonti d’acqua e gli edifici funerari in pietra, eretti in precedenza al di fuori dell’area urbana. Le torri quadrate erano cave e munite di feritoie. L’opera di difesa era completata all’esterno da un fossato largo e profondo, che era superato, in corrispondenza delle quattro porte urbiche, da un piccolo ponte custodito. In seguito agli assedi di Settimio Severo e ai danni subiti, le mura furono rinforzate da bastioni e torrioni massicci in pietra. Rampe verso l’interno della città permettevano di accedere e di posizionare le macchine da guerra, come la balista trovata presso la porta settentrionale, al sommo dei torrioni. L’area urbana del sito è stata indagata solo in minima parte e si presenta oggi come una sconfinata serie di colline e avvallamenti che nascondono edifici, strade, piazze non ancora portati alla luce, ma ben evidenti sul terreno e sulle foto aeree [Hatra 2]. Tali condizioni permisero al grande archeologo Walter Andrae, che all’epoca era direttore della Missione Archeologica tedesca nella vicina Assur, lo studio e la pubblicazione del sito all’inizio del Novecento, anche in mancanza di uno scavo. In particolare il grande santuario in pietra al centro della città si era conservato in modo straordinario e fu già oggetto di ammirata descrizione da parte dei viaggiatori e degli archeologi dell’Ottocento [Hatra 3 e 4]. Principale centro religioso di Hatra, esso rappresentava l’essenza stessa della città e la ragione del suo nome, come testimoniano le iscrizioni aramaiche sulle monete (Hatra di Shamash, il Recinto del Sole) e la menzione di Dione Cassio che individuava nella protezione della grande divinità solare una delle principali ragioni della forza della città e del mancato successo dell’imperatore Traiano.

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104. Vista da sud del tempio di Maran con doppia peristasi di colonne.

105. Veduta d’insieme da sud-est del complesso dei Grandi Ivan che si erge nella sezione occidentale del temenos centrale di Hatra (inizio del II secolo d.C.). Ben visibile è il secondo piano sopra gli ivan minori, in eccezionale stato di conservazione.

Questo grande santuario metropolitano doveva essere il luogo di pellegrinaggio dei popoli arabi prima dell’Islam e racchiudeva i grandi templi, già identificati da Andrae come palazzo e messi in completa luce e restaurati dal Dipartimento Iracheno di Antichità a cominciare dagli anni ’50. Fin dal periodo più antico il centro del sito, attorno al quale probabilmente lo stanziamento venne a formarsi, doveva essere costituito da un’area sacra, che solo nel primo trentennio del II secolo d.C. assunse l’aspetto e le dimensioni attuali di 435 × 320 m [Hatra 5]. A giudicare da testimonianze epigrafiche, da indagini archeologiche e osservazioni dirette sulle strutture, emerge infatti che l’attuale complesso sacro dovette essere l’esito di numerose imprese edilizie realizzate nell’arco di poco più di cent’anni, soprattutto durante il II secolo d.C. e che l’attuale santuario sostituiva strutture ed edifici più antichi obliterati. Nel II secolo Hatra, politicamente una sorta di alleato del Gran Re arsacide e culturalmente parte di una koinè partica siro-mesopotamica, conosce un periodo di grande ricchezza che si manifesta in modo particolare nella prima metà del secolo con un grandioso programma edilizio monumentale, ben attestato cronologicamente da numerose iscrizioni. In tale periodo a capo della città era un Signore (in aramaico Marya) che nella seconda metà del secolo assunse il titolo di Re e in particolare di Re degli Arabi. È probabile che durante il periodo di maggiore fioritura della città, la zecca di Hatra abbia cominciato a battere moneta, con tipi derivati da zecche occidentali. Le fonti classiche confermano tale quadro: alla fine del secolo, nella descrizione degli assedi di Settimio Severo fatta da Dione Cassio, il santuario del Sole era considerato un tempio di favolosa ricchezza.

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Le tre grandi porte dell’entrata principale erano rivolte verso oriente, come la maggior parte degli edifici sacri della città, e immettevano in un vasto spazio pressoché vuoto, probabilmente destinato ad accogliere i numerosi pellegrini che vi affluivano. Il perimetro era corredato da ambienti che si affacciavano verso l’interno del recinto, riparati da tratti non continui di portici. Al fondo di quest’area s’innalzava il tempio dedicato a Maran (Nostro Signore), dalle forme architettoniche tipicamente occidentali [fig. 103]. Nella sua fase finale appariva con una doppia peristasi e un alto epistilio con modanature occidentali accostate liberamente e cornice terminale con grifi, esseri fantastici, scorpioni e occhi del diavolo, motivi di funzione apotropaica che erano ampiamente diffusi fino al Mediterraneo. Il forte chiaroscuro del peristilio esterno si accostava al cromatismo interno della peristasi dato dagli stucchi colorati, dai mosaici, dalle candide statue di marmo importate dall’Occidente, dalle lastre di marmo a tarsie colorate, spesso figurate, nel soffitto. Ai due lati di questo tempio, forse il più antico di tutto il complesso, due porte monumentali con scalinate immettevano nella parte occidentale del temenos. Questa zona era due metri più alta della corte orientale ed era probabilmente il risultato della regolarizzazione generale di un’area che obliterava strutture preesistenti. Qui si ergeva uno straordinario gruppo di templi, caratterizzati, per la maggior parte, da tre ivan, uno maggiore affiancato da due minori, che si aprivano in facciata con arconi decorati, di diverse dimensioni. L’altezza delle grandi volte degli ivan maggiori era compensata dalla costruzione di un secondo piano, generalmente ben conservato, sugli ivan minori.

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106. Veduta parziale, da est, della facciata del complesso templare dei Grandi Ivan di Hatra: il grande ivan settentrionale con i due ivan minori ai lati (all’estrema destra nell’immagine precedente).

107. Particolare della decorazione dell’arco di entrata all’ivan minore a sud del grande ivan settentrionale.

L’insieme più maestoso è rappresentato dal complesso dei Grandi Ivan, costruito a partire dall’inizio del II secolo d.C.: rivolto ad oriente, presenta una facciata di 115 m di lunghezza, dove si aprono le grandi entrate ad arco di otto ivan di diverse dimensioni [figg. 105 e 106]. Il ritmo del susseguirsi dei grandi scuri degli arconi era interrotto da un muro trasversale coevo, probabilmente di funzione cultuale. Analogamente agli altri templi del temenos, il complesso dei Grandi Ivan era sopraelevato rispetto alla superficie pavimentata e una grande scalinata accentuava l’importanza della facciata, caratterizzata da un fastosa decorazione, mentre la parete posteriore e quelle laterali erano definite da lesene e grossi pilastri angolari. Alte semicolonne inquadravano le entrate degli ivan che presentavano archivolti fittamente decorati ad altorilievo da figure intere, busti umani, elementi cultuali. Mensole a varia altezza, spesso a testa umana, dovevano sostenere le statue dei maggiorenti della città. Rilievi con esseri fantastici erano scolpiti sui piedritti degli archi, davanti ai quali si ergevano forse ulteriori statue. Allo stesso schema planimetrico e decorativo si adeguava, ma con dimensioni gigantesche, il tempio di Allat che concluse, nella seconda metà del II secolo, la grande stagione edilizia del santuario. Quest’ultimo rompeva la divisione tra le due parti del temenos sporgendo per 2/3 all’interno della zona orientale e compensando la differenza di quota con una più alta e imponente scalinata. Ricostruito finora molto parzialmente, esso conserva a terra gran parte della decorazione della facciata. A giudicare dagli elementi conservati, l’apparato decorativo,

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organizzato in almeno tre registri, doveva essere basato su un gioco di colonne di varie dimensioni, archi e nicchie coperte a semicalotta, decorate a conchiglia. La fronte, che probabilmente raggiungeva un’altezza di trenta metri, aveva, come di consueto, l’apertura dell’ivan centrale a tutta altezza, e ivan laterali, di minori dimensioni, con vani superiori, con la funzione di contrafforte della grande volta centrale. Analogamente ai Grandi Ivan, sui conci degli archivolti erano rappresentati divinità e sovrani. Rilievi con raffigurazioni di cammelli, attributo della dea araba Allat [fig. 111], e animali fantastici decoravano la facciata, davanti a cui si ergevano statue della classe elevata della società. Particolarmente vivace era la decorazione interna dell’ivan meridionale, probabilmente in origine collocata all’imposta della volta, con busti di musici e di cantanti che accoglievano l’arrivo della dea Allat, rappresentata a dorso di cammello in un grande rilievo al centro del corteo. A differenza degli edifici cultuali e civili di Assur, e dell’abitato e delle stesse mura di Hatra, il cui principale materiale di costruzione era il mattone crudo su zoccoli in pietra, il grande santuario di Hatra fu costruito completamente in pietra da taglio con nucleo murario in pietrisco e malta di gesso. Tale tecnica, estranea all’ambiente mesopotamico, e di influenza occidentale, ben si accorda con i nomi aramaici, caratteristici

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108. Busto di giovane e testa di cavallo. Particolare della decorazione dell’arco di entrata all’ivan minore a nord del grande ivan settentrionale.

109. Busto di personaggio maschile con tiara. Particolare della decorazione dell’arco di entrata all’ivan minore a nord del grande ivan settentrionale.

dell’alta Mesopotamia, degli architetti-scultori menzionati nelle iscrizioni e con la possibile origine siriana delle maestranze, come sembrano indicare i marchi degli scalpellini. Nel periodo più antico (forse nel I secolo d.C.), le forme architettoniche apparivano improntate allo stile occidentale, come si vede in due dei templi considerati più antichi – il tempio a peristilio di Maran e quello prostilo in antis di Shahiru [fig. 104], entrambi rialzati su podio di tipo ellenistico-romano. A partire dall’inizio del II secolo, con la costruzione dei Grandi Ivan, diventò predominante nel santuario centrale l’elemento architettonico più tipico della cultura partica, l’ivan all’interno di una fronte tripartita. Anche nei templi a ivan comunque compaiono caratteri occidentali di ambiente romanizzato. Essi si manifestano non solo nel modello dell’arco trionfale romano, sottolineato dalla presenza di due vittorie alate e nell’adozione del capitello composito, ma soprattutto nell’uso degli ordini classici. Le modanature, formalmente occidentali, vengono però estrapolate dalla loro logica sequenza dell’architettura greca e utilizzate come singoli elementi, riuniti secondo un gusto puramente decorativo e del tutto originale, che è tipicamente partico. Analogamente, nella preminenza della facciata in cui si apre l’ivan si manifesta quella visione frontale, anch’essa tipicamente partica, che si

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A differenza di Assur, Hatra è per lo più conosciuta per la sua edilizia cultuale: gli edifici civili, se si eccettuano le fortificazioni, sono stati molto meno indagati. È stato messo molto parzialmente in luce un unico palazzo, di grandi dimensioni e costruito presso la porta urbica settentrionale, nella zona inglobata nell’area cittadina dopo l’ampliamento del 140 d.C. [fig. 110; Hatra 9 e 10]. È attualmente impossibile conoscere la sua destinazione originaria, ma è probabile che, almeno negli ultimi anni di vita della città, esso fosse stato occupato da quella guarnigione romana, che è testimoniata da iscrizioni dedicatorie in latino nei templi minori cittadini. Il palazzo, come tutta l’architettura residenziale, non solo a Hatra, ma in tutta la Mesopotamia partica, si sviluppava, in modo conforme alla più antica tradizione orientale, intorno ad un cortile quadrangolare, su cui si apriva – novità introdotta dall’architettura partica – almeno un ivan, generalmente inteso come stanza di rappresentanza, o di soggiorno in senso lato.

L’urbanistica: Seleucia, Dura Europos, Hatra Non molto si conosce sull’urbanistica partica: generalmente la città manteneva a grandi linee l’impianto generale precedente e non apportava novità sostanziali. A Seleucia, da quanto si può osservare dal terreno e dalla fotografia aerea, l’impianto ippodameo fu mantenuto fino alla fine della città, in accordo con il carattere ellenistico della sua cultura che rimase anche in età partica molto più forte che altrove. Le indagini sono troppo esigue in confronto alle dimensioni della città, per poterne valutare i mutamenti di forma e di funzione, se non in aree limitate, difficilmente estendibili al complesso della città.

esplicita più chiaramente nell’arte figurativa. Gli elementi occidentali – semicolonne, capitelli, modanature – costituiscono solo una decorazione superficiale che, pur facendo parte integrante dell’architettura partica, non incidono profondamente nella sostanza. Sembra comunque che gli edifici di Hatra all’interno del grande santuario abbiano una coloritura maggiormente occidentale di quanto appaia in altri siti, come Assur, che pure facevano parte della stessa koinè siro-mesopotamica. L’area templare non era limitata al grande santuario centrale, ma all’interno dell’abitato furono costruiti in periodo coevo numerosi templi di minori dimensioni, ma ricchissimi di reperti, di cui quattordici sono stati finora messi in luce. Se negli edifici del grande santuario la nuova struttura partica a ivan ha un’applicazione quasi esclusiva, lo schema architettonico di questi templi è quello mesopotamico, con una mescolanza di tradizione babilonese e assira. Lo spazio di culto consisteva infatti in un ambiente largo, che si concludeva in asse, e a quota più elevata, con una larga nicchia o, più frequentemente, con una cella profonda, che doveva ospitare l’altare e l’effigie divina. Costruiti tra le case di abitazione, solo a volte isolati all’interno di un proprio temenos, i templi, a giudicare dalle iscrizioni, erano di competenza delle tribù arabe che popolavano la città. In accordo con il carattere architettonico, erano qui venerate divinità di antica tradizione, come Nabû, Nergal, Nannai, Atargatis. Queste non erano oggetto di culto nel grande santuario centrale, consacrato principalmente alla Triade: il Nostro Signore (identificato con Shamash, il Dio Sole), la Nostra Signora e il Figlio del Nostro Signore e della Nostra Signora. Al contrario, nei templi minori erano venerate anche le divinità del grande santuario centrale.

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110. Veduta panoramica da nord dell’Edificio A di Hatra, grande abitazione signorile, a cui si accedeva dalla strada nord-sud, visibile a destra. Sul cortile centrale si apriva l’ivan principale della casa (a sinistra, in secondo piano, nella fotografia). A destra, in primo piano, l’area delle attività domestiche, con un cortile antistante (parzialmente scavato). In lontananza, il temenos con i grandi templi.

Anche a Dura Europos, la città costruita in posizione strategica sulla riva destra dell’Eufrate in periodo seleucide, ma sviluppatasi grandemente durante il periodo e l’occupazione partica, lo schema urbanistico regolare, di tradizione ippodamea, venne mantenuto. L’orientalizzazione della città si è individuata principalmente nella trasformazione, alla fine del II secolo a.C. (quando il potere politico della città passa in mano partica), dell’agorà ellenistica al centro della città in un “bazar” di tipo orientale. L’area perse allora la sua regolarità di impianto e venne coperta fittamente da una molteplicità di edifici con funzioni diverse e strade e porticati di varie dimensioni. Nell’architettura degli edifici cultuali l’apporto orientale si ravvisa nella ripresa e nello sviluppo dell’antica pianta templare babilonese all’interno di un recinto ricco di ambienti, mentre non compare la novità partica dell’ivan, come se l’Eufrate fosse stato confine tra due aree architettoniche diverse. Per contro, a Hatra, città fondata e sviluppatasi probabilmente secondo esigenze delle tribù arabe locali, il tessuto urbano non aveva uno schema regolare, né ippodameo, né radiale. Le strade principali, larghe e ben chiare, raramente erano rettilinee. L’unica che è stata oggetto di almeno parziali indagini archeologiche conduce dal santuario centrale alla porta urbica settentrionale. Essa mostra un carattere tipicamente orientale nella molteplicità funzionale, come un attuale suk arabo, con edifici a due piani e ripide scalette di accesso, marciapiedi su cui si aprono negozi, edifici religiosi e domestici di dimensioni e importanza diverse, a volte ravvivati da facciate dipinte.

L’arte figurativa in età partica Come negli altri campi della cultura partica, ancora più chiaramente nell’arte figurativa, e nella coroplastica della Mesopotamia centro-meridionale in particolare, i caratteri

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ellenistici, introdotti nel periodo seleucide, rimasero vivi e vitali pure durante il periodo seguente, anche se appaiono permeati da un gusto orientale nella rappresentazione. Accanto ai numerosi tipi, propriamente ellenistici, sia religiosi che laici, venivano prodotti tipi di tradizione mesopotamica e, in minor misura, iranica, per soddisfare le esigenze delle varie componenti della popolazione. La produzione dei diversi siti si presenta molto varia, sia dal punto di vista iconografico, sia da quello qualitativo: le figurine di Seleucia mostrano infatti una varietà di tipi e una qualità artistica che non trovano eguali nelle altre botteghe mesopotamiche, caratterizzate da una produzione decisamente più grossolana e maggiormente legata all’antica produzione locale.

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111. Una cammella che allatta. Particolare decorativo dello stipite dell’arco di entrata all’ivan meridionale del tempio di Allat, nel temenos centrale di Hatra. Il cammello era l’animale attributo della dea araba Allat.

112. Bassorilievo sulla parete di fondo, in alto, dell’ivan meridionale del tempio di Allat. Rappresenta due personaggi maschili, probabilmente il re Sanatruq I, costruttore del tempio, con il figlio Abd Samya, erede al trono. Seconda metà del II secolo d.C.

L’arte figurativa più caratteristica del periodo partico è rappresentata non tanto dalle figurine in terracotta (e, più raramente, in pietra) della Mesopotamia centro-meridionale, in cui l’aspetto ellenistico continua in maniera preponderante, ma da quella delle regioni più occidentali, in particolare con le produzioni di Hatra e Dura Europos; a Hatra è presente il maggior corpus scultoreo in pietra di epoca partica, mentre a Dura Europos si è preservata, per ragioni accidentali e in prevalenza negli edifici di culto, una straordinaria documentazione di grandi pitture murali. Le documentazioni di questi siti, caratterizzate da una medesima impostazione stilistica, offrono un’ampia e variegata testimonianza dell’arte figurativa nei primi secoli dopo Cristo. Questa probabilmente dipendeva da interpretazioni locali di un’arte, a noi non pervenuta, elaborata alla corte di Ctesifonte

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(Schlumberger), che si rifletteva, con caratteristiche sostanzialmente analoghe a quelle dei siti occidentali, anche in altre parti dell’impero, come nei rilievi rupestri dell’Elimaide, nell’Iran sud-occidentale. È possibile che la rappresentazione sostanzialmente anti-naturalistica, che caratterizza queste produzioni provinciali, sia da mettere in connessione con la progressiva perdita di importanza dell’Ellenismo e con il fenomeno del “neo-iranismo” (Wolski), di cui un elemento sintomatico è l’apparire, dal I secolo d.C., di lettere aramaiche sulle monete, mentre le scritte in greco divengono quasi incomprensibili. La scultura hatrena A differenza della coroplastica centro-mesopotamica, la componente occidentale compare solo marginalmente nella scultura di Hatra, che, come l’architettura, sembra appartenere per la maggior parte al periodo tardo partico (II-III secolo d.C., Hatra 11-15).

113. Statua di sacerdote che tiene in mano il recipiente dell’incenso. 114. Statua acefala di divinità con barba di stile assiro, con uniforme militare ellenistico-romana (Assurbel o Apollo di Hierapolis?). Ai piedi la Tyche (dea tutelare della città) e due aquile. Hatra, Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

115. Testa barbuta, forse appartenente a una statua di sacerdote. L’espressione intensa del viso è insolita nella scultura hatrena. Hatra, Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad. 116. Statua di Sanatruq I o II (seconda metà del II secolo-prima metà del III secolo d.C.). Il diadema, con un’aquila ad ali spiegate, è acconciatura regale. Hatra, Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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Nel temenos e nei templi erano posti rilievi con le effigi delle divinità, e, spesso contro una parete, innumerevoli statue che rappresentavano divinità e devoti: sovrani, sacerdoti, cavalieri, maggiorenti della città, molte volte a dimensioni naturali. Una grande quantità di esemplari è molto spesso di fattura piuttosto mediocre e appare essere una produzione stereotipata, quasi fosse fabbricata in serie. Questi documenti sono caratterizzati da tratti stilistici comuni, sostanzialmente anti-naturalistici, che Rostovtzev aveva analizzato nella produzione figurativa di Dura Europos e aveva individuato come caratteristiche distintive della “cultura partica”. Le figure sono ieratiche, per lo più rappresentate in una rigida frontalità, con un trattamento essenzialmente disegnativo; la scena non viene costruita all’interno di uno spazio oggettivo, secondo le regole dell’arte ellenistica, ma i personaggi sono disposti paratatticamente su un unico piano, senza alcun approfondimento dello spazio. Le figure non mostrano alcun rapporto tra loro, ma il loro sguardo è rivolto allo spettatore, che viene invitato a ricomporre i fattori della scena per poterla interpretare.

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politica romana, è testimone di questa stessa koinè culturale siro-mesopotamica, che si estendeva ben oltre i confini politici. L’arte figurativa di Dura Europos, come quelle di Hatra e di Palmira, è parte significativa di questa corrente della cultura partica, caratteristica dell’area mesopotamica settentrionale, che si manifesta chiaramente anche in quei documenti, come le pitture della Sinagoga e del Mitreo, che sono stati realizzati quando la città era da tempo sotto il dominio romano. A Dura la pittura parietale probabilmente godeva di un favore particolare, ma le sue straordinarie testimonianze (per lo più di periodo romano, ma di cultura tipicamente partica, fig. 117) debbono la loro conservazione a una circostanza del tutto specifica, strettamente legata alle vicende storiche della città. In previsione del pericolo di una conquista sasanide da parte di Shapur I (che in effetti avvenne), fu costruito, in più fasi, un ampio e possente terrapieno che inglobò non solo le mura urbiche occidentali, ma anche gli edifici costruiti a ridosso di queste o lungo la via delle mura. Sono state così conservate le pitture parietali del Tempio degli Dèi Palmireni, del Mitreo, della Casa Cristiana e della Sinagoga, fornendo una ricchissima ed eccezionale documentazione non solo dell’arte pittorica, che generalmente ha difficoltà di conservazione, ma anche della multiforme società di una città al confine tra mondi e influenze diversi nel III secolo d.C.

La scena è tipicamente orientale, caratterizzata in questo caso dalla rappresentazione frontale, che suggerisce un legame con la componente magico-religiosa della figura. È la rappresentazione del permanere, non della realtà momentanea. I personaggi non sono delineati come individui con particolari fisionomici, ma sono tipi ideali chiaramente identificabili nel loro rango sociale dai particolari dell’acconciatura e dell’abbigliamento, minutamente descritti e sottolineati dal colore e dalla foglia d’oro. Nella scultura di Hatra, come a Palmira, d’altra parte, la rappresentazione veristica dei dettagli non è esente da un compiacimento per l’invenzione ornamentale sempre più ricca e per l’abilità nel realizzarla. In tale minuzia della descrizione si esplicano spesso le maggiori qualità dello scultore, anche se a volte cadono in un freddo formalismo decorativo. All’impressione di lusso e di ricchezza contribuiscono non solo la rappresentazione dei gioielli, di opulenta fantasiosa bellezza, di cui possediamo alcuni esemplari, in oro e pietre, ma anche quella degli abiti maschili di foggia partica (tunica, ampi pantaloni e alte cinture, fig. 116), decorati spesso con piastrine, forse metalliche, applicate, che sembrano corrispondere a delle brattee d’oro, pur di forma diversa, appartenenti ad una ricca tomba da Ninive datata II secolo d.C. Queste concezioni artistiche sono ben rappresentate anche nella scultura di Palmira, la città araba carovaniera nel deserto siriano, che pur essendo nell’orbita culturale e

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Anche a Hatra la pittura sembra essere stata piuttosto diffusa, ma le testimonianze conservate sono scarse. Gli esempi più significativi sono alcune grandi rappresentazioni di caccia a cavallo al cinghiale o alla gazzella o al cervo, rese per lo più a contorno, con felicità e vivacità di disegno, che decoravano a tutt’altezza un grande ambiente residenziale. I cavalieri, abbigliati semplicemente, alla moda partica, con ampi pantaloni e corta tunica, sono rappresentati, come di consueto, con il busto frontale e le gambe di profilo. È probabile che le due figure di cinghiali di fronte al cavaliere, armato di lancia, raffigurino in realtà un unico animale, colpito dalla lancia del cavaliere e morto, secondo una convenzione caratteristica delle scene di caccia sasanidi, che rappresenta la causa e l’effetto dell’azione in un’unica scena. 117. Il sacrificio dell’incenso. Pittura murale dal tempio degli dèi palmireni a Dura Europos che rappresenta, a fianco dei sacerdoti, Conone e la sua famiglia (I o II secolo d.C.). Museo di Damasco.

Il motivo della caccia, generalmente a cavallo, è ampiamente diffuso in tutto il mondo medio-orientale dall’Asia centrale al Mediterraneo anche nei periodi posteriori: nel centro della Mesopotamia, alla metà del IV secolo lo storico romano Ammiano Marcellino descrisse, ammirato, un castello di “stile romano” decorato con scene di caccia. Il soggetto è testimoniato anche a livello regale, in un fregio in stucco di grandi dimensioni, miseramente conservato, che doveva ricoprire le pareti esterne del grande edificio a sud del Taq-i Kisra.

IL PERIODO SASANIDE (224-636) I Parti, indeboliti da gravi problemi interni e dalle continue lotte con i Romani che, durante tutto il II secolo, conquistarono più volte la Mesopotamia e la capitale Ctesifonte (Traiano, Avidio Cassio, i Severi), vennero vinti definitivamente e sostituiti nel comando dell’immenso territorio dalla dinastia iraniana dei Sasanidi. Ardashir, primo sovrano sasanide, dopo aver sconfitto il re arsacide Artabano nel 224 d.C. si impossessò ben presto di tutto il territorio partico. Shapur, suo figlio e suo immediato successore, continuando le scorrerie in Siria che già il padre aveva iniziato,

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non solo conquistò la ricca citta di Antiochia, già capitale seleucide, deportandone gli abitanti, ma vinse nell’arco di circa quindici anni ben tre imperatori romani. La risonanza degli avvenimenti fu grandissima e venne perpetuata nella lunga iscrizione trilingue della Ka’ba-i Zardusht e nelle rapppresentazioni simboliche dei rilievi rupestri fatti scolpire dal sovrano nel Fars, terra di origine della dinastia. Alla fine del periodo sasanide, Cosroe II (591-628) portò l’impero al massimo della sua espansione e della sua ricchezza conquistando Damasco, Gerusalemme, Alessandria, e giungendo alle porte di Costantinopoli, estendendo quindi le frontiere dell’impero sasanide quasi fino a quelli che erano stati i confini del grande impero achemenide.

Organizzazione statale e posizione politico-culturale A differenza del periodo partico, con i Sasanidi si assiste a un forte accentramento sia del potere a livello statale, sia della religione. I sigilli indicano chiaramente che la nuova organizzazione burocratica del territorio comparve fin dalla fondazione dell’impero, con Ardashir I. Dalla seconda metà del III secolo, il Mazdeismo diventò religione di stato e si può seguire dalle iscrizioni rupestri e dai sigilli un progressivo aumento di potere da parte del clero zoroastriano. Dal IV secolo si rafforza la nuova organizzazione burocratica, ulteriormente perfezionata e incrementata dall’opera di Kavad I (499-531) e di Cosroe I con la riforma dell’esercito e del sistema di tassazione delle terre nel VI secolo Nella progressiva centralizzazione, d’altra parte, scomparvero gran parte dei centri cultuali tradizionali e delle città indipendenti. Il governo delle singole province venne ricondotto all’interno della corte o sotto il suo stretto controllo, il potere era delegato per lo più ai membri della famiglia reale. L’efficiente burocrazia, che era alla base della potenza sasanide e la suddivisione del territorio possono essere ricostruite, almeno in parte, attraverso la documentazione dei sigilli e delle bullae che suggellavano i documenti ufficiali. Il commercio dalla Mesopotamia verso l’Occidente mutò probabilmente itinerari e organizzazione: i vecchi nodi stradali caddero in disuso, città come Dura Europos, Assur, Hatra non avevano più ragione di esistere come tappe commerciali verso l’Occidente. La zona di Nisibi, nell’alta Mesopotamia, acquistò importanza come centro ufficiale di comunicazioni e scambi commerciali, e i nomadi arabi di confine furono messi sotto controllo, secondo accordi a livello statale tra l’impero bizantino e quello sasanide. Nonostante le indubbie e sostanziali trasformazioni nell’organizzazione centralizzata dello stato, che comprendeva anche le manifestazioni artistiche, ora al servizio essenzialmente del sovrano, l’età sasanide appare per molti versi una continuazione e uno sviluppo di quella partica. In effetti la novità del corso politico e ideologico fu accentuata da parte sasanide da una propaganda altamente negativa nei riguardi degli Arsacidi. Veniva affermata nel contempo la loro diretta discendenza dal grande impero achemenide, ribadita con un ritorno alla raffigurazione di profilo del re e della sua corte nell’arte ufficiale di propaganda, quale si manifestava nei grandi rilievi rupestri del Fars. Il periodo partico, rappresentato come una rottura della gloriosa tradizione iranica, era ufficialmente ignorato. In realtà i Sasanidi, pur nella nuova organizzazione statale, furono gli eredi, politicamente e culturalmente, dei loro immediati predecessori.

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118. Il Taq-i Kisra, il grandioso ivan del palazzo attribuito al sovrano sasanide Cosroe I (531-579), nei pressi di Ctesifonte.

La nuova dinastia si trovò sostanzialmente nella stessa posizione politica sia con il mondo occidentale (prima l’impero romano, poi quello bizantino), sia con quello orientale. Il suo ruolo di intermediario nel grande commercio internazionale tra il mondo occidentale e l’India e la Cina venne ulteriormente rafforzato.

I dati archeologici La Mesopotamia rimase il cuore economico e politico dell’impero e furono arricchite come non mai le sue capacità agricole con costruzioni intensive di canali. Le prospezioni archeologiche di superficie indicano un aumento straordinario dei siti, pur continuando, nelle linee generali, il quadro territoriale precedente. L’area centrale, tradizionalmente ricca dal punto di vista agricolo, con orti e viti con cui si produceva un vino particolarmente rinomato, mantenne anche un’importanza

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cruciale come nodo fondamentale nel commercio internazionale (la Via della Seta), a cui giungevano le merci che, attraverso diversi itinerari, provenivano dall’Estremo Oriente, per proseguire verso l’Occidente. La capitale partica Ctesifonte rimase sede reale, mentre Seleucia fu abbandonata. Nella zona vennero fondati nuovi stanziamenti, che coprivano ininterrottamente il territorio, come è ben testimoniato dalla prospezione archeologica di superficie, ma solo parzialmente oggetto di indagine archeologica approfondita. L’individuazione dei singoli agglomerati è basata quasi esclusivamente sull’interpretazione delle fonti classiche, siriache, ebraiche, arabe, che peraltro sono molto confuse e contraddittorie al riguardo. Inoltre, a partire dalla conquista araba (636), le fonti denominano tutta la zona come al-Madain (le città), indicando complessivamente gli stanziamenti su entrambe le sponde del Tigri. Emergono per importanza due città, sulle sponde opposte del Tigri e unite da ponti, che, secondo la descrizione di Gregorio Nazianzeno (IV secolo d.C.), apparivano come un unico agglomerato: sulla riva orientale la Ctesifonte sasanide, attualmente non più visibile sul terreno, dove Ardashir e i suoi successori continuavano ad essere incoronati e, sulla riva opposta del fiume, Veh-Ardashir, la città fondata dal primo sovrano sasanide, Ardashir I (224-241), vicino a quella che era stata la grande metropoli di Seleucia, ormai abbandonata. Secondo le fonti, entrambe le città, fino alla fine del periodo sasanide, erano munite di poderose fortificazioni, tanto che prima in Ctesifonte e, in seguito, in Veh-Ardashir, si rifugiò Cosroe II Parwiz (591-628) per sfuggire all’imperatore bizantino Eraclio (628), che aveva già conquistato la reggia di Dastadjerd con le sue favolose ricchezze. La grande città di fondazione reale, Veh-Ardashir, con possenti mura circolari e torri a ferro di cavallo in mattone crudo, era a capo di un ampio distretto che giungeva fino all’Eufrate. Già identificata con Ctesifonte dalla missione tedesca nel 1928-1929, è stata indagata solo in minima parte. Al suo interno, in una zona decentrata vicino alle mura meridionali, è stata messa in luce una piccola parte dello stanziamento originario, che visse in quest’area almeno fino alla metà del V secolo. Due grandi isolati irregolari, delimitati da strade e vicoli di diversa ampiezza, avevano funzione molteplice, artigianale, commerciale e abitativa con botteghe a schiera, accanto ad abitazioni che mostrano tipologie tradizionali, a cortile centrale e ad altre più tipicamente partico-sasanide a ivan con cortile antistante. La città continuò ad essere occupata almeno fino al periodo tardo-sasanide e, secondo le fonti, fu sede importante di comunità e istituzioni ebraiche, cristiane e zoroastriane. Lungo la sponda orientale del Tigri, nei pressi della capitale Ctesifonte, si erge ancora oggi quello straordinario documento architettonico che è il Taq-i Kisra, l’arco di Cosroe, unica testimonianza rimasta in piedi del palazzo di Cosroe I Anushirvan (531579). Si tratta di un grandioso ivan, la sala delle udienze, in mattoni cotti (altezza 30 m, larghezza 25,65 m, lunghezza 48,8 m), coperto con volta parabolica e fiancheggiato da un’alta facciata. Il resto del palazzo, di grandi dimensioni, ma scavato parzialmente, è ricostruibile solo a livello di pianta, poiché fu spogliato dei mattoni cotti fin dal primo periodo islamico; solo il corridoio addossato longitudinalmente alla facciata sud mantiene parte della copertura a volta. La parte settentrionale della fronte, oggi in parte ricostruita, crollò nel 1888 per un’esondazione del Tigri, ma la documentazione della facciata completa si è conservata, in quanto pochi anni prima era stata fotografata e descritta da Dieulafoy [Ctes. 2]. In origine questa struttura era fronteggiata, al di là di un grande spazio aperto, da un altro ivan, che pur messo in luce molto parzialmente, testimonia a livello monumen-

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119. Particolare della facciata in mattoni cotti del Taq-i Kisra.

tale, con la tipologia architettonica degli ivan affrontati, la continuità con il periodo precedente. Schemi analoghi, ampiamente utilizzati anche nelle grandi residenze coeve (VI secolo) della stessa zona, si manterranno e svilupperanno ulteriormente nel periodo islamico. Della decorazione interna sono conservati solo scarsi frammenti di lastre di marmo e di mosaici, ma le fonti arabe tramandano che la grande aula, ora completamente spoglia, era sontuosamente decorata alle pareti da tendaggi, tappeti e grandi mosaici figurativi, probabilmente opera di artisti bizantini: tra altri soggetti, era rappresentato l’assedio di Antiochia con il sovrano sasanide Cosroe a cavallo. Sul pavimento era disteso un grande tappeto di seta, chiamato “la primavera di Cosroe”, che rappresentava un giardino ricco d’acqua, di piante e di fiori, ottenuti con fili d’oro e d’argento e pietre preziose. La fronte, probabilmente ricoperta originariamente in stucco, era costituita da nicchie cieche e semicolonne di diverse dimensioni suddivise da alte trabeazioni, elementi occidentali utilizzati, come nel periodo partico, non in senso strutturale, ma luministico e decorativo. L’archivolto, ora crollato, era sottolineato da un motivo ad archetti, che

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forse doveva essere completato da una bassa modanatura in stucco. La struttura si ergeva indipendente, assottigliandosi progressivamente verso l’alto, senza alcun vano ai livelli superiori. La facciata nel suo complesso è superficialmente simile alla tipologia partica, quale compare nel palazzo di Assur, ma le due entrate minori in realtà non corrispondono all’apertura dei corridoi perpendicolari alla facciata, che circondano l’ivan come avviene nel periodo precedente (Hatra, Assur, Abu Qubur, Nippur), bensì sono solo dei passaggi di comunicazione con un corridoio parallelo alla facciata stessa [Ctes. 4]. Tale fronte-scenario, che deriva tipologicamente dall’architettura partica, risulta essere il “complemento” della nuova frontalità regale sasanide. Questa è ben rappresentata nella descrizione fatta dalle fonti arabe del giorno annuale delle udienze: il sovrano, al sollevarsi dei pesanti tendaggi, appariva in maestà alla vista dei cortigiani e dei sudditi, assiso sul trono, al fondo della grande sala, epifania della regalità in tutta la sua meravigliosa sontuosità. La grandiosità dell’aspetto del re, che doveva incutere rispetto e timore, rimase nella tradizione islamica come la manifestazione della regalità per eccellenza. Tabari (IX-X secolo) descrive il sovrano in maestà con la pesante ed elaboratissima corona, in realtà appesa al soffitto, abbigliato con sontuose vesti di seta, della cui magnificenza si può avere un’idea dai rilievi reali sasanidi della grande grotta di Taq-i Bustan in Iran, in cui sono rappresentati minutamente i tessuti indossati dal sovrano e dalla sua corte. I diversi motivi che compaiono nell’abbigliamento dei vari personaggi erano probabilmente legati al cerimoniale di corte. La fama dei tessuti sasanidi era grandissima e la loro produzione ebbe una straordinaria influenza ed espansione sia verso Occidente che verso Oriente. È possibile che tali materiali preziosi e di grande bellezza, legati così strettamente al sovrano e allo sfarzo della sua corte, siano stati uno dei veicoli privilegiati di trasmissione dei simboli legati alla regalità sasanide, che saranno applicati anche all’iconografia religiosa o regale posteriore.

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120. Placca di stucco con protome d’ariete tra due ali, con un nastro per collare. Dal “palazzo n. 1” di Kish. The Field Museum of Natural History, Chicago. 121. Placca di stucco con raffigurazione di un monogramma in scrittura pahlavi, al di sopra di due ali e racchiuso da una corona di perle. L’interpretazione del monogramma è discussa, forse rappresenta una formula di buon augurio. Dalla regione di Ctesifonte, VI secolo. Museum für Islamische Kunst, Berlino.

122. Nove placche in stucco di una decorazione parietale. Il motivo decorativo di base è costituito da gruppi di tre ghiande collegati da tralci ondulati che si intersecano. L’insieme delle placche mostra il movimento della decorazione, che si ripete senza fine. Dalla regione di Ctesifonte, VI secolo. Museum für Islamische Kunst, Berlino.

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123-126. Diversi motivi decorativi in stucco dalla regione di Ctesifonte, VI secolo: due placche con rosette costituite da melograni; frammento di decorazione dell’arco di entrata di un ivan; placca con la rappresentazione di una gallina faraona; fregio a decorazione vegetale e geometrica. Museum für Islamische Kunst, Berlino e The Metropolitan Museum of Art, New York (il terzo). 127-128. Due “coppe magiche” trovate al di sotto della soglia di un’abitazione a Baruda (VehArdashir), fine VI-inizio VII secolo d.C. Le iscrizioni, solitamente in aramaico giudaico-babilonese, a spirale dal centro verso il bordo della coppa, avevano funzione apotropaica contro spiriti maligni e ogni possibile minaccia al benessere del cliente. Nella coppa a destra è raffigurato un demone con le braccia aperte, circondato da linee ondulate che simulano la scrittura. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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Numerosi frammenti di seta e di lana, che testimoniano la ricchezza e la varietà delle produzioni tessili sasanidi, per la maggior parte si sono conservati nei tesori delle cattedrali occidentali.

La decorazione parietale in stucco L’esuberante decorazione parietale in stucco, testimoniata dai ritrovamenti negli edifici dell’area di Ctesifonte (VI secolo; figg. 121-126; Ctes. 5) e di Kish, presso Babilonia (V-fine VI secolo, fig. 120) sembra forse costituire una manifestazione parallela, e in tono minore, di quel gusto per il rivestimento delle pareti che si evince dalle descrizioni della grande aula del Taq-i Kisra e che doveva far parte integrante dell’espressione architettonica. Gli stucchi mostrano una sostanziale omogeneità nei motivi iconografici e nel loro utilizzo: oltre a decorare simbolicamente alcuni elementi architettonici, come l’archivolto, essi si estendevano sulle volte e le pareti, con formelle, fatte a stampo, di varie forme, spesso giustapposte, con rappresentazioni umane, animali, vegetali, simboliche. La grande maggioranza della produzione sasanide in stucco appare strettamente connessa con la decorazione architettonica, e in questo senso e per alcuni motivi, di originaria ispirazione greco-romana, sembra riallacciarsi alla produzione di età partica. In realtà la decorazione in stucco nel periodo precedente si differenzia da quella sasanide non solo per la maggior parte del repertorio iconografico e per la mancanza, nel periodo precedente, di vere e proprie sculture, ma soprattutto per la sua funzione in relazione all’architettura. Lo stucco di età partica metteva in evidenza gli elementi strutturali, mentre nel periodo sasanide tendeva a coprire, non a sottolineare, le forme architettoniche con una decorazione, sontuosa e simbolica, simile ad un disegno tessuto, preannunciando il carattere dello stucco nel periodo islamico. Accanto a un fine ornamentale, che appare evidente nei rapporti degli stucchi con l’architettura (archivolto, suddivisione e copertura delle pareti e delle volte) e nella ripetizione e nell’intrecciarsi dei motivi, il repertorio decorativo doveva avere un valore simbolico. I motivi rappresentati sono parti di un linguaggio, di cui si intuisce il significato apotropaico generale, il carattere religioso, a volte regale, ma che è in realtà difficile da interpretare compiutamente. Il colore che rifiniva gli stucchi, per quanto è conservato, non sembra fosse di tipo naturalistico, ma piuttosto astratto, basato su contrasti di colori piatti. La produzione in stucco di figure ad altorilievo – veri e propri documenti di scultura – in Mesopotamia è invece conservata spesso in modo frammentario: una rappresentazione di una grande scena di caccia a cavallo, di cui rimangono scarsi frammenti, decorava l’“Edificio Meridionale”, a sud del Taq-i Kisra, mentre busti di sovrani e di personaggi femminili erano posti nei cortili dei due grandi edifici residenziali di Kish, che probabilmente costituivano un unico complesso palaziale. La tipologia del busto maschile in stucco, che non è testimoniata negli edifici dell’area di Ctesifonte nel VI secolo, è ben rappresentata invece sull’altopiano iranico nel III-IV secolo (Qaleh-i Yezdegerd, Hajiabad). La maggior parte di questi motivi sembra legata, come di consueto nell’arte sasanide, alla sfera simbolica, religiosa e regale, ma difficilmente è ricostruibile il significato complessivo dell’apparato figurativo e a volte pare che i soggetti fossero anche legati alla funzione dell’edificio, in particolare a Kish, dove la preminenza di rappresentazioni femminili in stucco nel “palazzo n. 1” (SP 1) ha fatto supporre che l’edificio fosse l’appartamento delle donne.

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I sondaggi archeologici hanno qui messo in luce un complesso, forse palaziale, in mattone crudo, che includeva almeno tre edifici: oltre ad una costruzione con una sorta di piscina (SP 3) e al “palazzo n. 1” già nominato, un altro grande complesso, il “palazzo n. 2”, contraddistinto da un’aula tripartita da colonne e da un cortile con semicolonne e nicchie riprofilate (SP 2), che viene interpretato come la zona ufficiale, di competenza del re o del signore, per la presenza nel cortile di busti regali in stucco.

I cristiani in Mesopotamia Come si è visto, la documentazione architettonica sasanide in Mesopotamia, a differenza del periodo precedente, non solo è molto più scarsa e meno variegata di quelle in Iran, ma si riferisce quasi unicamente a edifici di carattere civile. Il tempio, fondamentale “pilastro” dell’architettura precedente, non ha lasciato grandi testimonianze, se si escludono le chiese, mentre in Iran sono numerosi i santuari del fuoco conservati, ponendoci l’interrogativo su quale fosse la diffusione reale della religione zoroastriana sul territorio mesopotamico. La situazione era probabilmente diversa nella capitale e nelle città più importanti dove era presente una significativa popolazione iranica: le fonti riportano in particolare che un ricchissimo tempio del fuoco esisteva a Veh-Ardashir. La Mesopotamia era contraddistinta in questo periodo da popolazioni e da minoranze religiose eterogenee, di cui danno testimonianza non solo le fonti ebraiche e quelle siriache cristiane, ma anche il ritrovamento di edifici cultuali cristiani, reperti archeologici come le “coppe magiche”, e le iconografie dei sigilli. Specialmente nell’ultimo secolo del potere sasanide sembra che vi sia stato un grande incremento della popolazione cristiana, favorito anche da interventi politici (espulsioni, deportazioni) sia dall’impero sasanide, sia da quello bizantino. Le “coppe magiche” [figg. 127-128], ciotole di ceramica comune, ricoperte all’interno da fitte iscrizioni dipinte a spirale di soggetto magico-apotropaico, sono un tipo di oggetto di grande interesse per comprendere il carattere della religiosità di questo periodo e danno indirettamente notizia sulle comunità religiose presenti in Mesopotamia. Esse sono una testimonianza di quel sentimento per l’immanenza degli spiriti maligni e delle conseguenti pratiche magiche, che, dal substrato babilonese, permeava a livello popolare tutte le comunità religiose, ebrei, mandei, cristiani e manichei. Ampiamente diffuse nell’area centro-meridionale, ma presenti sporadicamente anche in quella settentrionale, esse sono datate generalmente all’ultimo periodo sasanide. Le testimonianze architettoniche cristiane, chiese e monasteri, anch’esse appartenenti generalmente al periodo tardo-sasanide, si concentravano in particolare nella Mesopotamia settentrionale e in quella meridionale, dove le comunità cristiane sopravvissero anche dopo la caduta della dinastia sasanide, almeno fino al periodo proto-islamico. Nella zona centrale, nella città di Veh-Ardashir, che, secondo le fonti, comprendeva una numerosa comunità ebraica e una cristiana nestoriana, solo una chiesa, di piccole dimensioni, Qasr Bint al-Qadi, è stata identificata [Ctes. 6a, 6b], sebbene le fonti riportino che qui erano situate la sede del Catholikos di Seleucia, una grande quantità di chiese minori, di sinagoghe e la scuola talmudica. Tale chiesa, attribuita al VI secolo, è un piccolo edificio rettangolare in mattoni cotti, a unica navata, coperta a volta, con pilastri quadrati, leggermente scostati dalle pareti e uniti ad esse da stretti archetti. Tre ambienti rettangolari sul lato breve orientale costituivano la zona principale dedicata al culto. Gli accessi sono situati sui lati lunghi.

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Nella città araba di Hira, nella Mesopotamia meridionale, due altre chiese, attribuite al periodo tardo-sasanide, presentano caratteri del tutto analoghi, che trovano abbondanti termini di confronto nell’ampia documentazione di architettura ecclesiastica del Nord della Mesopotamia anche nei secoli seguenti: aula rettangolare con pilastri, presbiterio rettangolare tripartito, accessi situati sui lati lunghi [Ctes. 6c]. Anche le poche case di Hira messe in luce, appartenenti in realtà al primo periodo islamico, hanno conservato numerose testimonianze della popolazione cristiana che le abitava. La città, situata su un “lago” originato dal corso dell’Eufrate, secondo le fonti, era al centro di una zona fertilissima ed era un porto fluviale sull’Eufrate di cruciale importanza, a cui giungevano le merci provenienti dall’Estremo Oriente trasportate da navi lungo il Golfo e l’Eufrate. Anche questa zona, come quella centro-mesopotamica, è particolarmente ricca di stanziamenti, purtroppo poco indagati, che sembrano coprire l’intero territorio; due delle grandi e ricche necropoli presenti nella zona appaiono essere solo molto parzialmente cristiane e testimoniano occupazioni tra il periodo partico e quello proto-islamico. Stato cuscinetto tra il mondo sasanide e quello arabo del grande deserto dell’Hijaz, fin dal III secolo, Hira, sotto la dinastia araba dei Lakhmidi, era di fondamentale importanza politica, proteggendo i confini meridionali dell’impero sasanide verso il deserto e controllando la zona per garantire il passaggio delle carovane dall’Arabia e dallo Yemen. La perdita di indipendenza di Hira, inglobata nell’impero sasanide all’inizio del VII secolo, espose l’impero persiano all’attacco diretto dei beduini dell’Arabia e divenne una delle cause della drammaticamente rapida caduta dell’impero sasanide a opera degli Arabi dell’Hijaz. In un tempo brevissimo, dopo la battaglia di Qadisiyya, presso la stessa Hira (636), e la conquista di Ctesifonte, il grande impero sasanide si disintegrò e gli Arabi musulmani in pochi anni conquistarono tutto il suo territorio. Il nuovo potere, pur imponendosi dal punto di vista politico e religioso, in realtà ereditò dai suoi predecessori non solo l’organizzazione burocratica, il tipo di monete, le tipologie architettoniche e la loro decorazione in stucco, le simbologie della regalità, ma ne assimilò la cultura in senso lato, nei suoi contenuti e nelle sue forme, adattandoli alle proprie esigenze, di modo che la cultura sasanide passerà, come un continuum, con progressive modificazioni, a quella araba che sarà uno straordinario veicolo di diffusione sia verso Occidente che verso Oriente. La vitalità culturale dei vinti, la fama dei loro sovrani, che continueranno a vivere nelle storie e nei poemi arabi e persiani, fecero sì che forme e iconografie, caratteristiche della cultura e della simbologia sasanide, fossero a lungo utilizzate e riconoscibili in periodi e aree molto diversi.

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Il periodo islamico Giovanni Curatola

La storia dell’architettura islamica in Iraq è complessa quant’altre mai. Un breve sguardo all’ambiente che si trovavano ad affrontare i nuovi conquistatori arabi e anche alla loro ideologia al momento dell’invasione di territori vetusti di storia, più che premessa è esigenza indispensabile, ove si voglia tentare di comprendere la dinamica di trasformazione della società nella terra che è stata culla della civiltà. Nelle pagine che ci precedono appaiono con evidenza quegli elementi che hanno reso peculiare e unica la vicenda artistica mesopotamica, una regola a cui non sfugge anche l’esperienza islamica che si presenta, da subito, come coerente con questa tendenza e, almeno in questo, niente affatto eccezionale. Territorio fertile e ricco, la Mesopotamia conferma la sua importanza sin dalla prima presenza islamica. Se guardiamo all’Islam politico, dobbiamo da una parte necessariamente sottolineare come in questa regione avvengano fatti cruciali per il futuro della fede e dall’altra osservare come la conquista sia avvenuta quale frutto di una spinta militare fortissima (sempre nell’ottica della razzia), priva di un autentico collante ideologico che verrà costruito in seguito. Costruzione alla quale la natura del paese non sarà affatto estranea. La prima “moschea” che vedrà i musulmani pregare Allah in Iraq è probabilmente stato lo stupefacente complesso di Ctesifonte1. E ciò, va da sé, non è privo di significati.

Le vicende politiche della Mesopotamia in età omayyade Qualche puntualizzazione relativa a quale Islam ci troviamo a descrivere è dunque utile per proseguire con qualche costrutto il nostro discorso. La morte del profeta Maometto nel 632 d.C. non lascia un sistema organico perfettamente strutturato ed autosufficiente. I primi califfi (Khalifa in arabo significa “sostituto”, con l’accezione di “vicario del messaggero di Dio”), nell’ordine Abu Bakr al-Siddiq (632-634), ‘Omar b. al-Khattab (634-644), ‘Uthman b. ‘Affan (644-656) e ‘Ali b. Abu Talib (656-661), dovettero organizzare quello che diverrà poi, con un’opera durata molti anni, il fondamento dello Stato Islamico. Abu Bakr fu soprattutto impegnato a sconfiggere una serie di ribellioni fomentate da sedicenti profeti i quali, approfittando del comprensibile sbandamento successivo alla scomparsa di Maometto, tentarono di acquistare autonomia, favoriti dalle mai sopite rivalità di clan che tanta parte hanno sempre giocato nella storia araba. Ma il suo ruolo fu di troppo breve durata. Ben più profonda è stata l’opera di ‘Omar, non a caso da molti studiosi considerato il vero fondatore dello Stato Musulmano,

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uomo deciso e guida capace. Oltre a una ferrea organizzazione militare che lo portò a sconfiggere sia i Romano/Bizantini sia i Persiani, egli fu abile a ottenere l’appoggio dei maggiorenti arabi di più stretta osservanza (i cosiddetti “compagni del profeta”), a tenere sotto costante controllo i comandanti delle tribù e delle truppe e a marginalizzare la figura di ‘Ali. Molte istituzioni islamiche – poi perfezionate legislativamente nei periodi successivi – furono da lui concepite e avviate; la regolamentazione relativa ai soggetti non musulmani (assai significativa è l’istituzione della dhimma in particolare per ebrei, cristiani e zoroastriani con il pagamento della jizya = testatico, comunità rese riconoscibili anche da segni coloristici distintivi: giallo, blu e rosso); il censimento dei militari degni di ricompensa e la fondazione di importanti guarnigioni; l’istituzione del giudice islamico e una serie di ordinanze di diritto civile e penale, ma anche la regolamentazione del pellegrinaggio, del ramadan, e le pene relative all’ubriachezza e all’adulterio. È Omar che usa il termine “califfo” sostituendo il precedente amir al mu’minin (“Comandante dei Credenti”) nel 640. ‘Omar fondò la città di Basra (635), lo stesso anno della capitolazione di Damasco, e nel 638 prese Gerusalemme (e fu fondata Kufa), mentre due anni dopo invase l’Egitto prendendo Alessandria e fondando Fustat da cui poi si sarebbe sviluppata Cairo. Con i Persiani sasanidi gli scontri furono ripetuti e due date segnano altrettante sconfitte per gli Iranici: il 637 quando nella zona di Hira2 (già capitale del regno Lakhmida), ovvero di Kufa (a sud-est dell’attuale Najaf) fu sconfitto il re Yazdagird III aprendo la via di Ctesifonte/Seleucia, e il 640 con la battaglia di Nihavand che spalancò agli eserciti arabi la via per la conquista degli altopiani persiani. Un fatto su cui conviene fissare l’attenzione è la circostanza per la quale ancora in questa fase non esista una versione scritta del Corano “ufficialmente” riconosciuta. Cioè quello che è il fondamento di tutta l’architettura statuale islamica al momento della più straordinaria espansione non è ancora codificato! È al terzo califfo “ben guidato”, ‘Uthman, che si attribuisce la compilazione “ufficiale” del Corano nell’anno 650, ben diciotto anni dopo la scomparsa del Profeta. Avvenimento tutt’altro che indolore per il giovane mondo musulmano e che suscitò reazioni negative molto consistenti, soprattutto per l’ovvia decisione di far distruggere le copie provinciali del testo non canoniche (ovvero più o meno apocrife). È il momento in cui si stabilisce la superiorità della versione scritta rispetto a quella orale profetica, e in qualche modo si sancisce la fine dell’epoca eroica dei compagni della prima ora di Muhammad. ‘Uthman è comunque una figura chiave; della stirpe dei Banu Umayya, aderì all’Islam prima dell’Egira e fu imparentato col Profeta avendone sposato due figlie, prima Ruqayya e dopo la scomparsa di questa, Umm Kulthum. Fu scelto come califfo dai sei più vecchi e fedeli sostenitori del Profeta che, attraverso veti incrociati, si erano in pratica autoesclusi dalla possibilità di ricoprire l’incarico. Il governo di ‘Uthman fu da subito contrastato per un’accentuata tendenza nepotistica del califfo che nominò membri della sua famiglia (e del suo clan tribale) governatori delle province di Siria ed Egitto. Anche il bottino delle imprese belliche non fu interamente diviso fra le truppe, essendone una parte assegnata ai governatori e ai familiari in un sistema proto-feudale. Il montante scontento, soprattutto nella provincia irachena e in particolare a Kufa, si estese all’Egitto e sfociò in un’aperta ribellione nel 655; ben presto ‘Uthman si trovò isolato, privo dell’appoggio di ‘Ali e degli altri Compagni del Profeta, ma anche attaccato da ‘A‘isha ancora potente vedova di Maometto, e dal di lei fratello Muhammad b. Abu Bakr, finendo per essere assassinato. Gli successe come califfo ‘Ali, e si potrebbe dire “finalmente” se si considera che una fazione a lui favorevole si era già espressa al momento della morte del Profeta, e che se il suo ruolo di “consigliere” fu importante con Abu Bakr ma assai meno con ‘Omar, nei confronti di ‘Uthman, suo predecessore, vi fu aperta ostilità politica. Questa fu sostenuta anche dall’accusa di “stravolgimento riformista” religioso (bid’a), che per gli alidi trova ulteriore fondamento nello scarsis-

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simo peso che viene riservato al loro capo carismatico nel Corano, con l’imputazione più o meno palese di aver “manipolato le carte”. ‘Ali non ottenne un consenso unanime anche perché non prese le distanze dagli esecutori materiali dell’uccisione di ‘Uthman, di modo che il governatore di Siria e cugino del defunto califfo, Mu‘awiya, rifiutò l’obbedienza. Anche ‘A‘isha (forse memore di antichi dissapori personali, se vogliamo dar credito ad una lettura in chiave di pettegolezzo popolare) si schierò contro ‘Ali, appoggiata da due dei Compagni del Profeta (Talha b. ‘Ubayd Allah e Zubayr b. al‘Awwam), ma fu sconfitta nella famosa Battaglia del Cammello (656) nei pressi di Basra e fu rimandata a Medina e non intervenne più nelle vicende politiche islamiche fino alla morte (678). Tutto questo non fu abbastanza per Mu‘awiya che continuò a rifiutare obbedienza ad ‘Ali. La vicenda segnala, senza dubbio, un latente contrasto fra le forze siriane e quelle irachene, e se vogliamo esplicitare ulteriormente, anche fra un’influenza bizantina versus una persiana. Lo scontro fra i due potenti personaggi fu anche militare e non si giunse ad una mediazione, per quanto tentata, ognuno rimanendo saldamente padrone nei propri territori fino al 661 quando il kharijita3 Ibn Muljam uccise ‘Ali a Kufa dove il califfo fu sepolto in quella che diverrà la città santa di Najaf. Una coda, ma molto importante, a questi accadimenti fu la vicenda politica e umana di Husayn (626-680), figlio di ‘Ali e di Fatima, dunque nipote del Profeta, che alla morte di Mu‘awiya – primo califfo della dinastia Omayyade – coerentemente con il sentire sciita4 rifiutò fedeltà e obbedienza al figlio e successore Yazid I, finendo per essere sconfitto e ucciso in condizioni drammatiche nella cittadina di Karbala. Husayn fu il terzo Imam5 sciita – il fratello maggiore Hasan (624-669) era stato convinto da Mu‘awiya a rinunciare al califfato – e con la sua morte la frattura fra le due principali correnti islamiche è definitivamente sancita e, con questa, anche il distacco fra Siria e Iraq.

L’architettura nel periodo omayyade Abbiamo accennato alle differenze fra Siria e Iraq sul piano politico. Su quello più strettamente artistico ciò che risulta evidente dai dati storici a nostra disposizione è che mentre in Siria – sulle sponde mediterranee – i nuovi signori musulmani si adattarono alla conquista o acquisizione dei vecchi centri (Damasco, ma anche Gerusalemme), in Iraq si procedette alla costruzione di nuovi centri, come appunto Basra (nel 635, ma ricostruita trent’anni dopo) e anche Kufa. Questo è particolarmente interessante perché se in alcuni casi (Damasco è il più clamoroso) furono probabilmente riadattati a moschea edifici preesistenti (o in via subordinata si ispirarono a edifici di culto di fede diversa), in altri si dovette “inventare” un edificio funzionalmente utilizzabile come moschea. Ma cos’è una moschea, anzi, se non soprattutto, cos’è una moschea nel VII secolo? In niente ci aiuta il Corano, se non con indicazioni labili e non traducibili in univoco orientamento architettonico, e scarse sono le indicazioni di Muhammad, che non si cura affatto di una simile questione. I dati archeologici iracheni risultano dunque preziosi, in particolare per quel che riguarda Basra e Kufa. Il primitivo schema della moschea è molto semplice: si tratta di un quadrato o rettangolo (e in quest’ultimo caso vi è forse un’influenza siriana, dove le basiliche cristiane venivano utilizzate dai musulmani cambiando, per ragioni geografiche di qibla6, gli assi, con prevalenza di quello trasversale), con una parte coperta che costituiva il nucleo principale dell’edificio. Il nuovo potere islamico ha bisogno di quella che oggi si chiama “visibilità” e un grande edificio polifunzionale, planimetricamente semplicissimo, una sorta di “foro”, è quanto di più utile per lo scopo. La moschea è luogo pubblico deputato agli avvenimenti della vita politica e sociale della comunità, e una struttura di ampie dimensioni

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era in grado di dare lustro alla città che la ospitava e ad eclissare i particolarismi tribali (anche a livello di strutture, evidentemente) sempre in primo piano nelle irrequiete province irachene. È probabilmente con questo in mente che Ziyad b. Abihi, governatore dell’Iraq nel 665, fece ampliare la moschea di Basra, allargandola e dotandola di una copertura ipostila lignea della sala di preghiera. Creswell7 si appoggia all’autorità di Baladhuri (IX secolo) per sostenere che Ziyad fece costruire il Palazzo del Governo (Dar al-Imara) sul fianco nord-est della qibla, significativa rivendicazione della sovrapposizione fra potere religioso e politico. Va da sé che in una regione come quella mesopotamica abbastanza povera di pietra e legno (a differenza dell’Occidente mediterraneo) il materiale principe sia stato il mattone (crudo e cotto) e che si sia fatto ampio uso di materiale di riporto: nel caso di Kufa (638) per ottenere l’ombra (in arabo zill, da cui zulla, tettoia, porticato) si riutilizzarono strutture in pietra da Hira. Le coperture, ipostile, erano situate molto in alto e non vi sono dubbi che il modello architettonico fosse quello persiano – tipo apadana, con rocchi di colonna lisci o scanalati sormontati da capitelli forse con protomi animali8 – pur se la disposizione in pianta con ampio cortile (sahn) e porticato (riwaq) viene adottata da subito, divenendo modello classico dello schema costruttivo anche orientale9, ma anche in Occidente se pensiamo alla grande moschea di Harran, attribuibile al tardo periodo omayyade. Particolarmente interessante è la planimetria del Dar al-Imara di Kufa [K. 6] come lo conosciamo attraverso gli scavi che vi sono stati condotti10. Si tratta di un

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129. Kufa, foto storica del cortile della moschea. La città è stata una delle più importanti tra quelle fondate dagli Arabi in Iraq. Fu fedele ad ‘Ali e capitale abbaside fino alla fondazione di Baghdad.

130. Kufa, foto storica con veduta della moschea dall’esterno. ‘Ali fu ucciso da un oppositore kharijita all’uscita da questa moschea. Qui, nel 749, venne solennemente nominato califfo Abu’l‘Abbas, primo sovrano dell’omonima dinastia.

edificio importante – fra i primi costruiti ex novo dal potere islamico – con funzione sia residenziale che amministrativa. Il nucleo antico, perché l’edificio fu utilizzato con cambiamenti fino all’epoca mongola (XIII secolo), costruito in mattoni crudi e cotti, si sviluppava entro un doppio recinto fortificato (con classiche torri di rafforzamento semicircolari) e intorno a un cortile centrale. La tipologia è completata da ampi ivan (struttura aperta su un lato, quello della corte, e generalmente voltato a botte; l’esempio più clamoroso è l’ivan di Ctesifonte, genialmente autoportante) e da bayt (unità abitative di piccoli ambienti che si affacciano su una piccola corte interna), in un complesso che è coerente con le tipologie palatine omayyadi occidentali (i due Qasr al Hayr, ma anche Mshatta...), e con alloggi funzionali ad abitazione non lungi da spazi più propriamente cerimoniali. La decorazione è prevalentemente in stucco, probabilmente policromo. Sebbene questo materiale sia ampiamente attestato sia nei periodi seleucide, partico e sasanide, con l’avvento dell’Islam e con l’intensa attività costruttiva che caratterizzerà questa prima fase del potere musulmano, lo stucco diverrà un complemento decorativo peculiare e di larghissimo impiego, soprattutto in Mesopotamia e nella contigua Persia. Gli scavi archeologici condotti a Wasit11 nella moschea fondata dal governatore dell’Iraq Hajjaj b. Yusuf nel 703/4 confermano la semplice struttura delle moschee antiche, con cortile centrale entro un recinto quadrato di circa cento metri di lato e un fronte qibli segnato da cinque ordini di diciotto colonne. Di più difficile lettura risultano le tracce del Dar al-Imara. Il materiale costruttivo è sempre il mattone cotto, ma le colonne risultano essere di spoglio da monumenti precedenti di epoca sasanide.

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Il passaggio al governo abbaside e la fondazione di Baghdad Storicamente la dinastia Omayyade, segnata da lotte intestine e minata dalle aspirazioni di indipendenza delle sempre instabili province orientali (che vedevano il potere come un’imposizione siriana che si allontanava da una concezione di sovranità condivisa e più “democratica” a favore di una dinastia regale e sostanzialmente tirannica nell’accezione greca, anche se paradossalmente prodotta dall’aristocrazia araba beduina), ebbe breve durata e la famiglia fu distrutta: Marwan II fu inseguito e ucciso in Alto Egitto, vittima egli stesso della ribellione contro la designazione a califfo di Ibrahim dopo la scomparsa di Yazid III nel 744. Unico sopravvissuto fu ‘Abd al-Rahman I (nato nel 731, regnò fra il 756-788) che dopo una rocambolesca fuga verso Occidente fondò l’emirato omayyade di Spagna con capitale a Cordova. Gli Omayyadi espansero il regno musulmano a Occidente con la conquista e la conversione delle tribù berbere e ad Oriente con l’acquisizione di gruppi turchi, due fattori risultati successivamente decisivi per l’affermazione della fede islamica. Anche una politica fiscale tendente a far pesare meno la distanza fra Arabi e “clienti” non Arabi (ferme restando le differenze relative ai dhimmi), sebbene talvolta esasperata nella riscossione delle tasse che indebolì l’Oriente islamico, pur con risvolti successivi largamente positivi, contribuì al momento ad affossare il dominio dei Banu Umayya.

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131. Wasit fu un importante centro militare nel primo periodo islamico e capitale regionale durante l’intera fase omayyade. Foto storica degli scavi con uno dei grandi portali di accesso alla città. A fronte: 132. Mihrab in marmo, proveniente probabilmente dalla prima moschea di al-Mansur a Baghdad. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.


Un’analisi dettagliata degli avvenimenti della prima metà dell’ottavo secolo esula dagli scopi di questo lavoro, ma per certo l’asse del potere politico musulmano si sposterà ad Oriente con la nomina a califfo, avvenuta a Kufa nel 749, di Abu‘l-‘Abbas al-Saffah, il primo degli Abbasidi. Il successore, Abu Ja ‘far ‘Abd Allah al-Mansur (754775), fu un uomo di genio che fece del califfato un potere forte, stabile e centralizzato. A lui dobbiamo il 1° agosto 762 la fondazione di Baghdad, forse la città che meglio di ogni altra – soprattutto durante il lungo regno di Harun al-Rashid (786-809) – incarna la realtà dello sviluppo in ogni settore della fiorente civiltà musulmana. Il sito prescelto, lungo le anse del corso del Tigri e grosso modo al centro dell’attuale Iraq, era simbolico anche della funzione di Medinat al-Salam (“Città della Pace”), ovvero di cittadella ideale che doveva assumere. Coerentemente con questo presupposto ideologico e simbolico Baghdad fu costruita seguendo uno schema circolare. Purtroppo niente sopravvive della originaria struttura della città, e le descrizioni letterarie, abbastanza dettagliate e circostanziate, sono le fonti principali su cui basarsi12. La città era costituita da un doppio anello circolare tagliato da quattro porte rivolte nella direzione dei più importanti centri musulmani – Bab al-Kufa, Bab al-Sham (Damasco), Bab al-Khorasan e Bab al-Basra – e con i quartieri residenziali disposti a raggio. Oltre il grande anello costruito in quartieri si apriva uno spazio vuoto, probabilmente una sorta di parco, al cui centro sorgeva la moschea congregazionale, il palazzo califfale, e cioè il centro del potere religioso e amministrativo rigidamente separato (si accedeva a queste strutture esclusivamente dalle quattro porte che potevano essere chiuse, facendo sì che i quartieri risultassero separati e/o isolati) sia dalle zone residenziali, sia dalla zona commerciale e da quella militare. Il materiale costruttivo era il mattone crudo, tipico dell’Iraq, e stando alle descrizioni di Ya‘qubi13 il muro di cinta della città era alto 35 cubiti, con le torri di rinforzo che raggiungevano i 40 (ossia una altezza di poco superiore ai 20 metri). Creswell14 offre una buona ricostruzione della città e ne enfatizza la particolarità costruttiva. La pianta prescelta, quella circolare, ha una sua attestazione antica in Oriente: dalla Ecbatana achemenide («munita di cerchi concentrici di mura dei diversi colori, a imitazione terrena e politico-militare dei cieli«)15 alle sasanidi Takht-i Sulayman e Firuzabad, fino a Hatra (partica), gli esempi – e va ammesso che questi sono soprattutto iranici – non mancano, a testimonianza di un’accresciuta influenza orientale, in cui anche la conversione all’Islam di tribù turche d’Asia centrale portò nuova linfa [Bagh. 1-4]. S’è detto che della Baghdad di al-Mansur e di Harun al-Rashid si parla solo in termini di descrizione letteraria; tuttavia una persistente tradizione vuole che il bellissimo mihrab in marmo al Museo Nazionale dell’Iraq a Baghdad, già nella moschea al-Khashiki16, provenga dalla prima moschea di al-Mansur. Comunque sia, si tratta di un’opera decisamente importante che merita una descrizione [fig. 132]. Il mihrab17 è tratto da un monolite in marmo (in parte restaurato sul lato destro) a forma di nicchia. Due colonnine tortili sostengono capitelli floreali con foglie d’acanto stilizzate sormontati da un’arcata decorata con un motivo anch’esso di piccoli archetti (in quanto corrisponde alle scanalature di una lunetta a conchiglia) con un pregevole disegno floreale. In alto, sopra questa cornice, si osserva la parte frammentaria di una decorazione continua di pigne stilizzate e motivi di palmetta legati da tralci. L’interno della nicchia presenta in alto la lunetta a conchiglia e nella parte inferiore una fascia decorata con tralci vegetali che danno origine a una coppa con un bouquet floreale e una sorta di cornucopia sormontata da una specie di cipresso stilizzato. Ancora sopra un “fiocco” segna il punto focale della lunetta a conchiglia. Indubbiamente si tratta di un mihrab (la prima attestazione di questa struttura a forma di nicchia è del 707/9, quando

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133. L’imponente recinto fortificato esterno del palazzo di Ukhaydir. Nella doppia pagina seguente: 134. L’interno del palazzo di Ukhaydir visto dalla prima cinta di mura: un secondo recinto, anch’esso fortificato, racchiude gli edifici.

al-Walid restaurò la moschea di Medina), e, stilisticamente, è ancora pienamente omayyade. Infatti, se lo si confronta con le decorazioni di Mshatta18 oggi a Berlino, si constata qualcosa di più di un’analogia stilistica. È ancora un’arte classica, tardo-antica, che permea il sentire artistico: più siriana che irachena, tanto da far pensare a una possibile importazione del mihrab oggi a Baghdad.

Il palazzo di Ukhaydir Il palazzo di Ukhaydir19, costruito a circa 80 km da Kufa, risale, probabilmente, secondo il logico ragionamento del Creswell20 al 778, quindi ben oltre l’epoca omayyade. Si tratta di un sito isolato, ancora oggi di straordinaria imponenza. È un doppio recinto fortificato di 170 m di lato circa, con all’interno un recinto più piccolo (116 × 82 metri), anch’esso con mura rinforzate. L’esterno, in pietra così come l’interno, è impressionante anche perché sorge per così dire nel nulla del deserto: altri scavi potrebbero però fornire qualche sorpresa. Agli angoli vi sono quattro alte torri circolari (per tre quarti) e il medesimo schema è replicato anche nelle porte poste al centro di ciascun lato. In realtà la cortina circolare si interrompe al centro lasciando

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135-136. Particolare delle mura con bastioni del palazzo di Ukhaydir e, qui sopra, l’elegante porta di accesso all’interno del secondo recinto.

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libero lo spazio di un arco sormontato a sua volta da una finestra arcuata ribassata e da un’altra, superiore, a tutto sesto. Una struttura di notevole eleganza. Ai fianchi delle porte, su ciascun lato, contrafforti semicircolari si alternano a doppie arcate cieche rientranti. Il recinto minore interno, adibito a palazzo, ha una pianta molto interessante [Ukh. 2]. L’unico accesso è seguito da un vestibolo con volta a botte con sulla destra un ambiente con corte (la moschea, con un’unica navata sul muro qibli con mihrab ret-

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Ukhaydir è ancora legata nella sua planimetria alla tarda architettura omayyade, il cui esempio forse più eclatante a noi noto è Mshatta. Analogie importanti sono la moschea nei pressi dell’ingresso, il grande cortile d’onore centrale, i bayt. Diversa appare invece la soluzione – nel caso iracheno più articolata e meglio disposta – della sala di ricevimento, sempre introdotta da un ivan, ma priva della parte absidale triconca che invece appare nell’edificio giordano. Non si riscontra un’accentuata influenza persiana (l’ivan non è motivo sufficientemente connotato essendo da tempo elemento comune di una vasta area geografica) e, secondo la nostra opinione, con questo straordinario palazzo ci troviamo a commentare l’evoluzione logica di uno schema già classico attestato ampiamente nell’architettura della prima dinastia islamica. Ukhaydir fu fatta costruire da ‘Isa b. Musa, nipote del primo califfo abbaside.

Samarra La Baghdad circolare di al-Mansur non era particolarmente funzionale, soprattutto relativamente alle possibilità di espansione. Inoltre con l’avvento degli Abbasidi aumentò enormemente l’importanza dell’elemento etnico turco, che abbastanza rapidamente venne a costituire il nucleo principale dell’esercito. Una conseguenza pressoché immediata – data la compattezza di questi gruppi militari e la loro recente islamizzazione – fu l’accresciuta litigiosità fra i reparti e la popolazione civile. La situazione non facilmente gestibile suggerì di spostare altrove il grosso del nucleo militare e costruire una nuova capitale. A un centinaio di chilometri da Baghdad, a nord, sempre sulle sponde orientali del Tigri fu fondata nell’836 Samarra (surra man r’a: “è deliziato chi [la] vede”) dal comandante turco Ashnas, su mandato del califfo al-Mu‘tasim Billah. Samarra rimase capitale dell’impero abbaside fino all’889 quando fu abbandonata (seppure qualche vestigia e presenza sia da far risalire fino al XII/XIII secolo) dal califfo al-Mu‘tamid ‘Ala Allah che riportò la capitale a Baghdad. Samarra fu edificata sulla riva destra, cioè orientale, del Tigri e raggiunse nei pochi anni della sua costruzione un’estensione da nord a sud di circa una trentina di chilometri, per un’ampiezza che varia dai due ai cinque, con le sue rovine che coprono, oggi, una superficie pari a quasi una sessantina di chilometri quadrati: un’estensione immensa, forse il più grande “campo” di rovine archeologiche del mondo [Sam. 2]. I monumenti

tangolare) e sulla sinistra una zona residenziale, forse riservata a una guarnigione. Attraversando il vestibolo si perviene a un corridoio voltato che circonda tutta l’area centrale e da cui si accede alla parte residenziale composta da quattro bayt (termine di origine semitica e letteralmente: tenda, stanza, casa, appartamento. Potrebbe essere all’origine del nostro baita?), identici fra loro ma non comunicanti, ciascuno che si affaccia su un cortile, e quindi a una grande corte centrale (larga 27 × 32 metri). Questa è circondata da una serie di arcate cieche, e conduce a un ivan, forse incorniciato da una struttura rettangolare (una sorta di pishtaq, ovvero frontespizio, popolarissima struttura molto diffusa nella successiva architettura islamica persiana), il quale precede una sala quadrata che a sua volta dà accesso alla parte cerimoniale del palazzo con vari eleganti ambienti adibiti sia a udienze private che pubbliche.

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137. Veduta dell’interno del palazzo di Ukhaydir. Le soluzioni architettoniche utilizzate (con reminiscenze persiane orientali) sono di notevole qualità.

Samarra è fondamentale nella storia dell’arte islamica per molteplici ragioni. Fu costruita e vissuta in un arco di tempo estremamente limitato, appena una sessantina di anni o tutt’al più un centinaio, e in un’epoca di grandi fermenti e trasformazioni. È una grande città con rovine estese che sono state parzialmente scavate dagli archeologi con grandi campagne già dall’inizio del secolo scorso21. Dunque la città, molto più di Baghdad, può ben dirsi fondamentale nella elaborazione di uno stile prettamente islamico che, pur mantenendo intatte le radici classiche tardo antiche, se ne emancipa per creare le basi di un linguaggio tutto particolare. Adesso, in parte, nasce l’arte islamica, originale creazione di una cultura ormai affermata e pronta a sbocciare anche nelle forme artistiche in modo autonomo. Al-Mu‘tasim si fece costruire un immenso palazzo nell’836, sfruttando abili artigiani fatti giungere sul luogo dai quattro angoli dell’impero. Il Jawsaq al-Khaqani, questo il nome del complesso, è più propriamente il primo Dar al-Khilafa di Samarra, e sorge sulle rive del Tigri le cui acque alimentano canaletti e fontane; copre un’area di circa 150 ettari22!. La planimetria di un simile spazio è necessariamente complessa [Sam. 18];

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la Bab al-‘Amma costituisce l’ingresso meglio conservato del palazzo ed è un alto portale a tre ivan con quello mediano più grande e impostato su due pilastri. I due ivan laterali sono più piccoli e l’ambiente dietro l’arco è coperto da due semicupole introdotte da sguinci, una soluzione già adottata in epoca sasanide. Al di là della Bab al-‘Amma vi è il giardino occidentale a cui si perveniva da una monumentale scalinata oggi scomparsa e da lì passava una delle arterie principali di Samarra da nord a sud (Shari’ al-Azam). Il portale monumentale è seguito, all’interno, da una serie di cinque ambienti trasversali e da un disimpegno più piccolo che conduce a un cortile con un bacino. A nord degli ambienti trasversali si trova una struttura circolare (probabilmente un altro bacino per l’acqua, sebbene più ampio), mentre a sud le strutture non sono state chiaramente identificate. Sul cortile, a sud, si affaccia un bagno e a nord vi è un altro bacino collegato da un kanat 23 a quello della corte. È comunque lungo l’asse mediano, segnalato dalla Bab al-‘Amma, verso est che si individua una struttura importante costituita da una sala quadrata su cui si aprono, a croce, quattro ambienti, ciascuno tripartito da file di pilastri; la stanza ad est immette in una sala trasversale che si affaccia sulla grande spianata aperta orientale. A nord e sud del “quadrivio” sono due cortili; quello nord con i suoi ambienti non è stato scavato, mentre a sud Herzfeld ha identificato gli ambienti come un harem; da qui proviene una grande vasca in granito egiziano rosso (nota come “coppa del Faraone”) portata a Baghdad prima nel Khan al-Mirjan e poi nel cosiddetto “Palazzo Abbaside” al centro della cui corte si trova ancora oggi [fig. 162]. La spiegazione di questi ambienti come harem è la logica conseguenza delle decorazioni – soprattutto dipinte – trovate dagli archeologi tedeschi in queste stanze: si tratta di opere coerenti con quanto conosciamo dell’arte omayyade come nel palazzo di Khirbat al-Mafjar a Gerico24 e a Qusayr ‘Amra25. La grande corte centrale misura 300 × 186 metri ed era circondata da un muro in mattoni crudi con nicchie cieche e decorazioni in stucco. La parte a sud del blocco di

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138. Veduta d’insieme della Grande Moschea di al-Mutawakkil a Samarra. 139. Vista dal minareto della Grande Moschea di Samarra; la cinta muraria racchiude una superficie imponente, nella quale si individuano la corte, il porticato ai lati, la sala colonnata della moschea e, sul fondo, il mihrab.

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accesso e della grande spianata, sebbene sia stata parzialmente scavata, ha rivelato una serie di strutture la cui lettura è tutt’altro che agevole: se ne deduce che il complesso palatino ha subito diverse modifiche – almeno tre – e i mancati allineamenti dei muri inducono a pensare che in questi spazi fossero sistemate varie aree adibite ad alloggiamenti e servizi. Diversa la situazione a nord. Accanto alla parte nord del palazzo e lungo tutto il lato della prima corte sorge uno spazio quadrato, anch’esso dotato di corte e con una struttura circolare, identificato come un grande serdab (termine persiano che letteralmente significa “acqua fredda”, ovvero un ambiente sotterraneo adatto a essere usato durante i mesi dell’insopportabile canicola estiva); gli scavi iracheni fra il 1987 e il 199026 hanno dimostrato che il bacino centrale (65 metri di diametro) era alimentato da due canali, e i precedenti interventi di Herzfeld hanno messo in luce ambienti con mura molto spesse per proteggere dal calore e depositi di materiali diversi (fra cui ceramiche a lustro e porcellana cinese). A testimonianza della complessità di queste architetture a est del serdab sorge una struttura chiamata da Herzfeld “Rotundabau” o “Rundsaal”: un padiglione rotondo centrale cupolato preceduto da un ambiente trasversale che affaccia su una corte, mentre una struttura con doppie sale trasversali impegna il lato opposto. Ancora a nord degli edifici or ora descritti vi è un altro palazzo circondato da un muro di cinta con contrafforti semicircolari (11 metri di diametro) che misura 460 × 330 metri circa. All’interno vi sono varie costruzioni in genere disposte attorno a corti di discrete proporzioni; molti muri erano costruiti in mattoni cotti che sono stati rimossi. La funzione palatina è abbastanza evidente anche se gli edifici hanno subito parecchie vicissitudini e manomissioni che non facilitano il compito di identificarne con sicurezza gli usi che, tuttavia, sembrano prevalentemente abitativi. A ovest di questo grande recinto, e sempre a nord rispetto all’asse mediano principale (est-ovest) ci sono una serie di edifici modulari (sempre con piccola corte), che con ogni evidenza sono gli alloggiamenti della guarnigione: tale supposizione è suffragata dalla presenza di tre piccole moschee, probabilmente ciascuna assegnata a un differente gruppo etnico. Tornando all’asse principale, oltre la grande spianata dei cortili troviamo un piccolo serdab27 ai lati del quale troviamo tre lunghe gallerie (106 × 11 metri) per ciascun lato, indubbiamente intese come scuderie per i cavalli impiegati nel limitrofo campo da polo. Ai lati delle stalle vi sono due ampi cortili. Non perfettamente in asse con il piccolo serdab sorge il campo per il gioco del polo (il maydan o piazza; 525 × 66 metri) che sul lato ovest ospita gli spalti per il pubblico (28 × 45 metri), che poteva osservare la piazza o, sul lato opposto, il punto di partenza della pista per la corsa dei cavalli o altri sport equestri28. Le fonti letterarie e le ricognizioni archeologiche sono spesso in sintonia fra loro e documentano una concezione urbanistica e architettonica grandiose, al limite della megalomania. Questa sensazione di proporzioni eccezionali è confermata dalla costruzione della Grande Moschea voluta dal califfo al-Mutawakkil ‘Ala Allah nell’847. La figura di al-Mutawakkil è particolarmente importante sul piano teologico e dottrinario, distaccandosi dalla fino allora prevalente corrente di pensiero mu‘tazilita, in particolare rifiutando la dottrina della mihna29, richiamando dall’esilio di Tarso Ahmad b. Hanbal (780-855), il fondatore della scuola giuridica hanbalita30, e segnando una tappa fondamentale nell’elaborazione del sunnismo. Ma il nome di al-Mutawakkil è per noi legato alla costruzione di una fra le più grandi moschee musulmane di sempre, i cui imponenti resti ancora oggi stupiscono il visitatore [Sam. 7-11]. La cinta muraria, in mattoni cotti, è segnata da bastioni semicircolari: misura 240 × 160 metri circa (con una proporzione valutabile in un rapporto di 3:2, un modulo che è molto popolare in tutta l’urbanistica samarrena), ovvero per un’impressionante superficie di 38.000 metri quadri [fig. 139].

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140-141. Particolari della decorazione di una finestrella (sopra) e di un portale (sotto) della Grande Moschea.

142-143. Il minareto della moschea di Samarra in un’immagine storica e in una fotografia recente. Si nota in particolare che già negli anni ’30 del secolo scorso erano in corso i restauri della sommità del minareto, forse in origine coronato da strutture lignee.

Oltre ai bastioni la cinta era caratterizzata dall’apertura di sedici porte di accesso. Soltanto il muro perimetrale si è conservato, mentre l’interno è completamente spoglio, anche se gli scavi archeologici ne hanno rivelato appieno la morfologia: la grande corte centrale era circondata su tre lati da un porticato con triplice ordine, mentre la sala della preghiera era scompartita in venticinque navate (larghe poco più di quattro metri), ciascuna con nove ordini di sostegni. Questi ultimi erano complessivamente 464. Ognuno di essi aveva base quadrata (con stucco dipinto a imitazione del marmo) con colonne incassate e capitelli a forma di clessidra su cui poggiava direttamente la copertura lignea. Non sono state trovate impostazioni di archi o cupole a conferma della struttura ipostila. Il mihrab era di forma rettangolare, presumibilmente decorato con mosaico dorato in pasta vitrea, come si evince dai ritrovamenti in situ. Ancora due elementi sono da segnalare in questa moschea: l’enorme ziyada su tre lati (si tratta di uno spazio vuoto delimitato da un muro di cinta che serviva da compensazione per evitare che i rumori della città potessero interferire con la necessaria quiete della preghiera) e il caratteristico minareto. Questo (manaret al-malwiya: malwiya significa “spirale”) è uno dei simboli più noti del mondo musulmano. È in mattoni cotti: su una base quadrata di 33 metri di lato, ciascuno con nove nicchie, è costituito da una rampa elicoidale in senso antiorario che compie cinque rotazioni complete, resa più ripida man mano che si sale di modo che i piani ottenuti siano tutti della stessa altezza. Alla sommità (99 cubiti, pari a cinquanta metri) sorgeva un padiglione di legno sorretto da otto colonne. La malwiya si ispira liberamente alle zig-

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gurat babilonesi e a suo modo marca in modo esemplare una straordinaria continuità architettonica [figg. 142-143]. Al califfo al-Mutawakkil si attribuisce anche nell’859/60, dopo una visita a Damasco compiuta l’anno precedente, la costruzione di un’altra moschea, quella di Abu Dulaf, nel quartiere di Ja‘fariyya a nord della Grande Moschea, insediamento voluto come nuova città indipendente. È qui che nell’861 (11 dicembre) al-Mutawakkil venne assassinato, con la successione al califfato di al-Muntasir, di brevissima durata (appena un anno), ma sufficiente per abbandonare Ja‘fariya e tornare a Samarra. Lo schema della moschea di Abu Dulaf è identico a quello della precedente moschea, con un recinto fortificato in mattoni crudi di 213 × 135 metri e un cortile di 115 × 130 metri [Sam. 12-16]. Il riwaq o porticato corre sui tre lati con un triplo ordine su ciascun lato, mentre la sala della preghiera, anche questa volta ipostila, è composta da diciassette navate perpendicolari alla qibla in cinque ordini di arcate ripetute; un doppio ordine trasversale che poggia sugli ultimi pilastri a T (come pure sul lato opposto che introduce la facciata della sala della preghiera), diversi dai precedenti che sono quadrati, marca l’ambito del mihrab a forma di nicchia. La navata centrale in corrispondenza del mihrab è più ampia delle altre e il doppio spazio trasversale di fronte alla nicchia, introducono la pianta a T come a Kairouan31 ma anche al Cairo32. La moschea ha una ziyada e un minareto elicoidale, più piccolo di quello precedente, poiché compie solo tre rotazioni complete antiorarie per un’altezza di poco più di 16 metri [fig. 145]. Curiosamente, ma non troppo se pensiamo ai materiali costruttivi – mattone crudo all’esterno e cotto all’interno –, di Abu Dulaf è praticamente scomparso il muro perimetrale (salvo alcune porte, delle quindici originali, riquadrate da stipiti in cotto), mentre sono ben conservati gli interni [fig. 144]. Molto interessante è un edificio scavato negli anni ’40 del secolo scorso e posto immediatamente a ridosso

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144. Una navata della moschea di Abu Dulaf a Samarra con le eleganti finestrelle cieche che alleggeriscono la massa muraria dell’edificio. 145. Il minareto della moschea di Abu Dulaf; sebbene restaurato e di minori proporzioni, l’impostazione elicoidale di questo minareto è la medesima di quello della grande moschea.

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del mihrab della moschea. Misura 42,7 × 34,7 metri per lato e si dispone attorno a due cortili; sul primo affacciano quattro ivan e ambienti di disimpegno (da uno di questi si accedeva alla moschea, probabilmente entro una maqsura). L’altro appare un bayt. La funzione di questo edificio sembra essere quella di piccolo appartamento o luogo di riposo e meditazione per il califfo oppure per l’Imam della moschea. Naturalmente una città così importante ed estesa come Samarra ospita numerosi altri monumenti degni di attenzione in questo contesto. A partire dal grande canale di irrigazione (il Nahrawan) voluto dal re sasanide Cosroe Anushirvan, destinato a convogliare le acque in direzione di Ctesifonte. In effetti quello dell’approvvigionamento idrico, pur in presenza del Tigri, è sempre stato uno dei punti deboli della città: Alistair Northedge sostiene che i pozzi di oggi che pure raggiungono i venti metri di profondità non producono più di un paio di barili d’acqua al giorno33. Dunque, tra i siti che bisogna almeno citare vi è il grande “compound” ottagonale di Husn al-Qadisiyya in cui ogni lato varia fra i 612 e i 623 metri, con un portale al centro di ogni muro. Con ogni evidenza le strutture, in mattoni di crudo, non furono completate

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146. Veduta d’insieme dell’imponente palazzo di al-Ashiq, sulle rive del Tigri. Il restauro/rifacimento permette di osservare la straordinaria mole di molti dei palazzi costruiti a Samarra.

(nemmeno la moschea centrale che ha un sahn di 104 × 156 metri, esattamente le stesse proporzioni di Abu Dulaf...), e le fonti suggeriscono che potrebbe trattarsi del palazzo/ città voluto da Harun al-Rashid (il più celebre califfo abbaside, reso tale e immortale oltre che leggendario dai racconti delle Mille e una Notte: nato nel 766 regnò fra il 786-809), prima di trasferirsi a Raqqa nella Siria settentrionale. Al-Istabulat è un recinto rettangolare fortificato (come di consueto) di 1721 × 575 metri: all’interno vi è un’estesa griglia di spazi abitativi, tutti con stanze su due lati che danno su un cortile, e la funzione precipua non è ancora stata accertata. Si potrebbe trattare del palazzo di al-‘Arus, secondo l’opinione di Herzfeld34, e cioè uno dei tanti – si calcola, secondo le fonti, che potrebbero essere stati elevati da un minimo di 7 a 20 – voluti dai califfi, oppure che si trattasse di una sorta di accampamento militare in grado di alloggiare una guarnigione di oltre quarantamila soldati. Balkuwara (6 chilometri a sud-est dell’attuale Samarra) è un palazzo sulle sponde orientali del Tigri, fatto costruire dal califfo al-Mutawakkil nell’849 per il secondo dei suoi figli nella linea di successione, al-Mu‘tazz, circostanza confermata da un’iscrizione ritrovata da Herzfeld e che recita: “al-amir al-Mu‘tazz al-Mu’minin”. Il recinto è presso-

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ché quadrato e misura 1165 × 1171 metri, con il palazzo vero e proprio che si estende fra i 464 e i 575 metri lungo un asse trasversale [Sam. 17]. La disposizione, da nord-est a nord-ovest, presenta uno schema in qualche modo simile al Jawsaq al-Khaqani, con due ampi giardini quadripartiti, un cortile interno che porta a una sala tripartita da cui si accede a un ambiente cruciforme (sala di ricevimento e udienze) per poi proseguire verso un’altra struttura tripartita che si apre su un giardino posto direttamente sul fiume. Come di consueto a questo asse ben individuato si affiancano, a nord e a sud, ambienti destinati ad alloggiamento (sempre con corte interna), hammam, e altre strutture fra cui una moschea palatina costituita unicamente dalla sala di preghiera. La Qubbat al-Sulabiyya si trova a un chilometro e mezzo a sud del Qasr al-‘Ashik35 ed è un edificio a pianta ottagonale con cupola, di estremo interesse architettonico sommariamente scavato da Herzfeld e restaurato negli anni ’70 dal Dipartimento delle Antichità iracheno. Fondamentalmente si tratta di un doppio ottagono con ognuno dei lati esterni aperto da un passaggio che conduce a un deambulatorio, e l’ottagono più piccolo centrale con quattro lati chiusi (ma all’interno ospitano nicchie) e quattro interrotti da passaggi. Gli scavi condotti sotto il livello pavimentale hanno portato alla luce i resti di due sepolture, e anche se non vi è concordia fra gli studiosi circa l’identità dei personaggi, la tesi di Herzfeld poi confermata da Creswell che si tratti della tomba/ mausoleo del califfo al-Muntasir costruita nell’862/3 non può essere scartata. La tipologia architettonica, completata probabilmente da una spianata ottagonale alla quale

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147-148. Due immagini storiche degli scavi di Samarra. Si tratta di un’area di abitazioni, nelle quali si possono vedere alcuni dei celebri pannelli in stucco nella loro collocazione originaria.

si accedeva attraverso quattro rampe, ricorda molto la Qubbat al-Sahra (Cupola della Roccia) di Gerusalemme, e costituisce il primo esempio a noi noto di sepoltura monumentale islamica. Infatti la tradizione precedente, a cui si atterrà lo stesso Maometto, non prevedeva affatto alcuna enfasi venerativa delle spoglie mortali dei musulmani, norma che a poco a poco verrà abbandonata sino alla costruzione di enormi mausolei. Gli stucchi L’area archeologica di Samarra, s’è detto, è un immenso campo di rovine; in un tentativo, ancora in corso, di catalogazione delle strutture A. Northedge segnala un complesso di 6314 edifici, fra i quali 2252 blocchi di abitazioni36, un’estensione enorme che è facile pensare possa dare lavoro a molte generazioni future di archeologi. Samarra, naturalmente, è stata ed è una miniera importante per ciò che riguarda la decorazione, non solo architettonica. I materiali costruttivi impiegati, mattoni crudi in terra o cotti, come abbiamo più volte ricordato, si adattavano perfettamente all’utilizzo su larga scala dello stucco quale elemento decorativo principale. Con stucco si intende un materiale con alta percentuale di gesso che poteva essere facilmente modellato, soprattutto in pannelli, con l’ausilio di stampi in legno o terracotta, e montato come zoccolatura in moltissimi ambienti; molto probabilmente il materiale era policromo anche se si sono perse le tracce della pittura.

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Herzfeld37 classifica tre stili principali che intende anche come sviluppo progressivo, sebbene numerose analisi dimostrino come soprattutto i primi due, che Creswell definirà A e B38, siano certamente coevi, dal momento che coesistono in singoli edifici. I motivi sono un’astrazione di forme vegetali e floreali (palmette, foglie di vite, grappoli o pigne), inseriti in una disposizione a schema geometrico. Questo permetteva una straordinaria duttilità di impiego. Le origini dei disegni indubbiamente affondano le radici nel repertorio classico tardo antico già attestato in precedenza durante il periodo omayyade39, come nel mihrab in pietra discusso in precedenza, ma con una tendenza alla scomposizione delle forme tutt’affatto nuova, pienamente realizzata nel cosiddetto “terzo stile” o “bevelled style”, in cui il taglio si fa obliquo e sfuggente dando un’inedita corposità ai pannelli40, un accorgimento che sarà usato come citazione anche in contesti diversi, come a Ibn Tulun al Cairo41. Samarra, dunque, oltre che per i suoi edifici monumentali e per le campagne di scavo che l’hanno avuta protagonista, si impone alla nostra attenzione quale luogo privilegiato dell’elaborazione di un rinnovato e pienamente autonomo linguaggio artistico musulmano, ormai del tutto autonomo dalle fonti. È con gli Abbasidi e in Mesopotamia, infatti, che l’arte islamica dopo un periodo di apprendistato si esprime con personalità propria: i fermenti iniziali, le radici equamente divise fra mondo occidentale (mediterraneo e classicamente siriano) e terre d’Oriente (eredità sasanide persiana e lo stesso Iraq), giungono al punto di esprimersi, su quelle basi mai rinnegate, secondo un concetto artistico formale proprio, da cui le successive elaborazioni concettuali faranno fatica ad affrancarsi. Lo si osserva anche nella pittura monumentale, sebbene questa sia per certi versi improntata a un più accentuato conservatorismo. Come s’è accennato nel Dar al-Khilafa (o Jawsaq al-Khaqani) di Samarra, alcuni ambienti furono identificati

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149-150. Due esempi di stucchi di Samarra, conservati al Museo Nazionale dell’Iraq a Baghdad. A sinistra un pannello in stucco del cosiddetto “primo stile”, a destra un pannello del terzo stile.

come harem, soprattutto in relazione alle pitture murali che ornavano la parte superiore delle pareti; fra queste l’immagine più celebre e riprodotta è quella di due danzatrici con lunghe trecce e vesti dagli ampi panneggi, disposte in posizione speculare, ciascuna con la gamba sinistra sollevata mentre con la mano destra reggono una coppa (le braccia delle donne si incrociano) in cui versano del vino (?) da una bottiglia col collo lungo e il corpo globulare42. Si tratta di un’immagine tipica delle scene di divertimento di corte – appunto danze, cacce, libagioni e il sovrano ritratto in trono –, segno evidente che il linguaggio di rappresentazione del potere ha fatto breccia alla corte abbaside, priva di un suo cerimoniale che deriverà da quello dei più strutturati imperi sconfitti. La ceramica Fra i ritrovamenti di Samarra almeno un cenno è dovuto alla produzione ceramica. A lungo, nel secolo scorso, in seguito ai report della missione tedesca del 1911-191343 e ai dati archeologici ivi commentati, si è sostenuto che l’abbandono della città sia stato definitivo già nell’883 (in realtà una più accurata ricostruzione porta l’avvenimento più avanti di qualche anno, all’892; un articolo del numismatico G. Miles44 sposta la datazione al 953, in epoca Buyide, ma la circostanza è ancora controversa), e dunque che il materiale ivi reperito fosse da datare a quel relativamente breve lasso di tempo in cui la città fu capitale del califfato. In realtà le cose non stanno così, dal momento che alcune tipologie ceramiche (come l’ampio gruppo delle graffite) risalgono indubbiamente al XII-XIII secolo. Altre circostanze sono poi importanti nel valutare l’insieme dei ritrovamenti a Samarra: la dispersione degli esemplari raccolti dai tedeschi in vari musei (a Londra, Parigi, Istanbul, Berlino...), il fatto che solo della metà dei pezzi discussi da Sarre si conosca il contesto archeologico di provenienza (e altri, di sicuro, furono

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acquistati sul mercato a Samarra stessa, ma anche a Baghdad e perfino a Parigi), la selezione operata sugli esemplari ritenuti più rappresentativi o semplicemente più belli, circostanza resa evidente dalla massa di frammenti di ceramica cosiddetta “comune” attestata negli scavi posteriori45, creando un quadro complesso quanto significativo. Fra i ritrovamenti più importanti si segnalano quelli del Qasr al-Ashiq (occupato dall’878-883: ceramica bianca sottile a “guscio d’uovo”, comune (cioè non invetriata) con decorazione a stampo, blu cobalto su bianco, blu e verde su bianco, lustri monocromi e policromi, oltre a importazioni estremo orientali) e del Dar al-Khilafa (lucerne a stampo, decorazione a stampo non invetriata, blu cobalto su bianco, blu e verde su bianco, decorazione a lustro metallico su fondo blu, mattonelle in lustro monocromo e policromo, ceramica non invetriata dipinta). Dal cosiddetto harem e dagli altri ambienti del complesso palatino (tutti costruiti fra l’836 e abbandonati nell’892-903; qui, in particolare, sono stati notevoli i ritrovamenti di ceramica estremo orientale, sia di porcellana

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151-153. Tre esempi di ceramica di tipo samarreno. Si tratta di piatti in terracotta con invetriatura bianca opaca e, dall’alto: decorazione in blu cobalto e verde rame, Victoria & Albert Museum, Londra; decorazione in cobalto con la raffigurazione di un pesce con due ramoscelli di erbe acquatiche, Ashmolean

Museum, Oxford; decorazione in verde rame con iscrizione in lettere cufiche, Museum of Fine Arts, Boston. 154. Coppa proveniente da Samarra, in terracotta con invetriatura bianca opaca, e raffigurazione di un grande volatile stilizzato. Museum für Islamische Kunst, Berlino.

che di gres), provengono molti reperti e così dalle poche abitazioni scavate, mentre nel palazzo di Balkuwara (costruito fra l’854-859 e quasi subito abbandonato) e nelle moschee i ritrovamenti sono stati davvero scarsi, com’era del resto logico attendersi. Fra le tipologie più caratteristiche è quella decorata a stampo e dipinta a lustro, come un piatto di Berlino46 proveniente da Babilonia. Il fondo è di un delicato color crema ravvivato da tocchi di verde; nella tecnica si riprende la tradizione romana prima e poi bizantina della “terra sigillata”, ma la decorazione, nel caso in oggetto, presenta un intreccio geometrico non incompatibile con influssi cinesi (si vedano, per esempio, alcuni specchi bronzei di età Tang), e in linea di continuità con la produzione sasanide persiana. Un’altra tipologia di notevole impatto è quella di forme aperte con decorazione in verde ramina o blu cobalto (più raramente i due colori sono impiegati assieme) su un fondo bianco opaco. Pur essendovi compresi motivi naturalistici (fiori, palmette, pesci), gli esemplari più comuni, e belli, sono quelli ornati da semplici epigrafie cufiche

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come l’esemplare di Boston47, con uno splendido “cufico a spina di rosa” [fig. 153]. Ma la gloria della ceramica di Samarra è legata alla produzione in lustro metallico, un’antica tecnica già impiegata nell’Egitto faraonico (su vetro) e reinventata dagli artigiani musulmani che la applicarono anche a mattonelle di decorazione parietale. Una coppa da Samarra ora a Berlino48 presenta un grande volatile stilizzato (forse un’aquila o un pavone) che divide il campo in quattro settori [fig. 154]. Al centro il corpo dell’animale è un cerchio al cui interno vi è un disegno floreale (oppure un altro uccello stilizzato?) e a tale nucleo centrale si affiancano due ali, che in realtà altro non sono che semipalmette, e sotto ancora un disegno floreale, mentre in alto l’uccello tiene col becco un pendaglio (una possibile citazione bizantina o sasanide) e sul retro vi è una cresta la quale è un motivo di semipalmette. I quattro settori sono campiti alternatamente con una griglia di rombetti puntinati e spiraline. Un animale araldico, l’aquila, se di questa si tratta, ma eseguita con uno stile fresco e fantasioso, allusivo e vivace, perfetta sintesi dell’espressione artistica di Samarra, una delle più grandi città mai costruite dai musulmani. Le circostanze dell’abbandono di Samarra, benché ampiamente documentate dalle fonti storiche, restano abbastanza problematiche e probabilmente sono da attribuire a una serie di concause politiche, strategiche ed economiche, in questo contando anche la crescente difficoltà di approvvigionamento idrico per una città policentrica la cui espansione fu a dir poco tumultuosa. Dunque, con il califfo al-Mu‘tadid nell’892 (oppure con al-Muktafi nel 903) la corte musulmana fece il suo rientro a Baghdad, nuovamente capitale. Ma la situazione politica non fu più la stessa. A nord del paese, nella regione di Mosul, il controllo fu assunto da una dinastia locale, quella degli Uqaylidi

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155. Nel paesaggio di Baghdad si alza, a sinistra, la cupola del mausoleo duetrecentesco di ‘Omar al-Suhrawardi. 156. Particolare della cupola del mausoleo di ‘Omar al-Suhrawardi a Baghdad. 157. Veduta d’insieme del duecentesco mausoleo di Hasan al-Basri a Basra. 158. L’esterno dell’Imam Dur a Samarra, dell’XI secolo, distrutto nel 2014 dagli attacchi dello Stato Islamico.

(990-1096) – in origine un clan beduino proveniente dall’Arabia centrale e poi sparsosi in diverse regioni – i quali diffusero il loro potere anche sull’Iraq centrale, a Tikrit, ma furono sconfitti dai Selgiuchidi. Questa fu una dinastia turca di ascendenza centrasiatica che sostituì i Buyidi quali “protettori” dei califfi abbasidi; questi ultimi rimasero nominalmente al potere fino al 1258, seppure per lunghi periodi con autonomia molto limitata. L’unità politica del mondo musulmano, se mai vi è stata, è già terminata. Il regno selgiuchide in Iraq ebbe inizio quando nel 1055 Tughril Beg occupò Baghdad e terminò nel 1194, quando il potere tornò ai califfi abbasidi spazzati però via dall’invasione mongola. Al nord, nella regione di Mosul e fino ad Aleppo, il potere era appannaggio di una piccola ma potente dinastia di atabeg49, gli Zanghidi, che dominarono quelle regioni fra il 1127 e il 1222. Il dominio ilkhanide, ovvero mongolo, dell’Iraq durò fino al 1328, quando si impose la dinastia Jala‘iride (fino al 1411)50.

Monumenti iracheni dell’XI-XIV secolo Purtroppo poco o niente ci resta dei monumenti musulmani costruiti intorno al Mille in Iraq. Ciò è dovuto a un rallentamento dell’attività costruttiva imputabile a molteplici fattori, sia politici, sia economici. Uno dei più antichi e interessanti monumenti di Baghdad è il mausoleo di Zumurrud Khatun, madre del califfo al-Nasir (Abu’l-‘Abbas Ahmad al-Nasir li-Din Allah, nato nel 1158, regnò fra il 1180 e il 1225), opera datata entro gli anni di regno di questo sovrano illuminato che riprese in mano le redini del potere, riportando prestigio al califfato abbaside dopo il predominio selgiuchide, fra

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l’altro instaurando buoni rapporti con gli Ayyubidi d’Egitto, gli Imam Zayditi dello Yemen e lo stesso Qatada b. Idris sciita e sharif (titolo in genere applicato ai discendenti del Profeta – analogo a sayyid – ma poi divenuto specifico dei governanti di Mecca e di alcune case regnanti come quella del Marocco) di Mecca. Il monumento [figg. 159 e 160]51 è fra i più famosi di Baghdad e popolarmente conosciuto come Sittah Zubaydah e ritenuto la tomba della moglie di Harun al-Rashid, il califfo più noto al mondo per i racconti delle Mille e una Notte. Dal punto di vista architettonico si tratta di un edificio a pianta ottagonale, quindi pienamente in linea con la funzione svolta (considerando l’antichissima tipologia dei martyria), sormontato da una cupola conica a “pan di zucchero” determinata da una serie di elementi a stalattite noti in architettura come muqarnas. La sagoma è caratteristica e inconfondibile e probabilmente è d’origine irachena l’invenzione di tale soluzione. Tra gli altri esempi ricordiamo l’Imam Dur a Samarra [fig. 159; Sam. 19]52, che risale al 1085 ed è la tomba di Sharaf al-Dawla Muslim, emiro Uqaylide. La pianta è quadrata con quattro contrafforti semicircolari angolari; la copertura a muqarnas – la più antica che si conosca – è composta di soli cinque ordini sormontati da una cupoletta e non si integra perfettamente quanto a proporzioni al “cubo” sottostante. Sempre a Baghdad un edificio con copertura simile (ma doppio scafo interno) è il mausoleo di ‘Omar al-

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159. L’interno della cupola del mausoleo di Zumurrud Khatun a Baghdad, decorato a muqarnas. 160. Veduta d’insieme del mausoleo di Zumurrud Khatun, un edificio di pianta ottagonale, sormontato da una cupola a muqarnas.

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161. La colonnina tortile in mattoni nell’angolo esterno del cosiddetto “Palazzo Abbaside” di Baghdad, insieme al gioco di mattoni del muro sul lato sinistro, testimonia la cura con cui nel Duecento venivano costruite tali strutture.

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162. La corte centrale del cosiddetto “Palazzo Abbaside” (probabilmente una madrasa o scuola coranica) di Baghdad, sulla quale si affacciano le celle e, a sinistra, l’ivan.

Suhrawardi [figg. 155 e 156; Bagh. 6-13]53, un mistico, giureconsulto e Imam di scuola shafiita che morì nel 1224, quindi grosso modo alla stessa epoca del mausoleo precedente, anche se un’iscrizione rivela che il luogo in oggetto fu fatto “restaurare” nel 1334 da Muhammad ibn al-Rashid. Il panorama delle coperture a muqarnas in Iraq comprende anche il mausoleo dell’Imam al-Hasan al-Basri a Basra (prima metà del XIII secolo, fig. 157) e un analogo monumento a Dhu’l-Kifl54, piccolo centro a metà strada fra Hilla e Najaf, tradizionalmente luogo di sepoltura del profeta Ezechiele e centro di pellegrinaggio soprattutto ebraico, ma anche musulmano. Dhu’l-Kifl si segnala per una diversa struttura fra interno ed esterno oltre che per un bellissimo minareto cilindrico (alto 24 metri) la cui decorazione in mattoni a faccia vista è un unicum nel pur ricco repertorio islamico in materia. La datazione più probabile, su base storica, è al 1316 durante il regno del mongolo Oljaitu. In Iran una simile tipologia la ricordiamo a Susa per la cosiddetta “Tomba di Daniele” (e il fatto che la medesima tipologia sia usata per un altro profeta biblico è in ogni caso interessante), e in Siria a Damasco nell’ospedale al-Nuri, entrambi databili al XIII-XIV secolo.

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A parte un paio di minareti storicamente importanti, ma dal punto di vista artistico non troppo significativi, e “restaurati” al limite del completo rifacimento55, fra i monumenti più interessanti e conservati a Baghdad, seppure non indenne da ricostruzioni, è il cosiddetto “Palazzo Abbaside”, databile intorno al 1230 [figg. 161-164; Bagh. 19-22]. Le funzioni di questo edificio non sono chiare. La planimetria, ricostruita anche in virtù degli scavi e dei lavori di rifacimento eseguiti in varie fasi56 dalla Direzione Generale delle Antichità, non hanno portato a un’univoca interpretazione. Su una corte centrale, che ospita la vasca in porfido portata da Samarra, si apre, a est, un ivan con un doppio

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163. Particolare di due strutture a muqarnas del cosiddetto “Palazzo Abbaside”.

164. La fuga di decorazioni di arabeschi scolpite nelle muqarnas del cosiddetto “Palazzo Abbaside” simboleggia bene la ricchezza e raffinatezza decorativa delle architetture califfali.

livello di ambienti ai lati, mentre a ovest, ma non in asse, vi è il portale di accesso che si affacciava su un giardino posto sulle sponde del Tigri; il portale è caratterizzato da una struttura di schermo e protezione da occhi indiscreti tipica delle grandi costruzioni private di Baghdad (ma non solo: anche in Cina i palazzi avevano protezioni similari!) che ha nome mabayn. Lateralmente si trova un grande ambiente che gli scavi hanno chiarito non essere un ivan. A nord e sud una fila di sette celle si affacciano sulla corte; quelle meridionali hanno sul retro uno stretto corridoio che immette in una serie di grandi ambienti non sempre comunicanti fra loro.

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165. Portale esterno di accesso della madrasa al-Mustansiriyya a Baghdad. 166. La corte della madrasa alMustansiriyya. Si vedono le celle degli studenti, disposte su due livelli, e tre dei quattro ivan che si affacciano su di essa.

Se la datazione al tardo periodo abbaside non è stata messa in discussione, anche in virtù degli elementi architettonici e decorativi, due sono le ipotesi principali relative all’uso dell’edificio. Secondo due dei principali studiosi iracheni57, si tratterebbe del Dar al-Musannah del califfo al-Nasir, mentre N. Ma‘ruf ritiene che si tratti di una madrasa e più precisamente la Shirabiyya58. Quest’ultima ipotesi ci pare più appropriata e la questione del solo ivan presente e progettato (a differenza della di poco più tarda madrasa Mustansiriyya), è probabilmente spiegabile col fatto che non necessariamente vi dovevano aver sede gli insegnamenti delle quattro scuole giuridiche canoniche, e che in ogni caso non era detto che queste dovessero avere un ivan a testa. La parte più antica e meglio conservata dell’edificio è l’ivan con le sue decorazioni in mattoni e stucco, libera evoluzione della classicità di Samarra filtrata attraverso l’esperienza selgiuchide e in certa misura persiana. La galleria voltata a muqarnas che circonda la corte su tre lati è giustamente famosa e l’immagine del lato dell’ivan con la scansione ritmata delle nicchie decorate con preziosi giochi di arabeschi è immancabile e sintetizza bene la raffinatezza dell’arte islamica irachena. La madrasa al-Mustansiriyya (1233)59 sorge in area centralissima lungo le sponde orientali del Tigri in una zona un tempo occupata dal palazzo califfale, ed essendo ben conservata (anche grazie ai massicci interventi di restauro a partire dal 1936), è da annoverarsi fra i più significativi monumenti islamici ancora esistenti nella millenaria capitale irachena [figg. 165-170]. La pianta è quella classica delle strutture di questo tipo: quattro ivan assiali affacciati su una corte a due livelli di celle per gli studenti, oltre a una sala di preghiera, cucine e servizi. All’esterno, nella facciata che guarda il fiume,

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corre una bella fascia iscritta in caratteri corsivi, sormontata da un elegante gioco di mattoni sporgenti che creano intrecci geometrico-epigrafici. Sul lato opposto vi è l’alto portale di accesso, segnato da dieci linee di iscrizione naskhi (corsivo) su un minuto fondo floreale arabescato, mentre le colonne di cordonatura, gli intradossi e i soprarchi mostrano una splendida e complessa serie di motivi geometrici in terracotta sagomata (sempre con campiture floreali) in un tripudio di triangoli e stelle poligonali. Dei quattro ivan quello nord serviva da passaggio e quello sud da sala di preghiera, e dunque l’uso dell’edificio per le quattro scuole non doveva necessariamente essere legato al numero degli ivan. La struttura è piuttosto grande (105 metri di lunghezza per 50 di larghezza) e anche gli interni sono decorati con una profusione di elementi geometrici. Il minareto di Suq al-Ghazl (al-Khulafa, fig. 171)60 è l’unico elemento superstite di un’antica moschea e oggi sorge a fianco di una moschea moderna e semisoffocato dall’espansione della città con un’arteria trafficatissima e un altrettanto affollato mercato. Esso, posto sotto l’attuale piano di calpestio, ha una base dodecagonale con quattro livelli di muqarnas, da cui si origina il fusto cilindrico (con motivi di meandro geometrico), sormontato da cinque ordini di muqarnas. La datazione generalmente accettata è al tardo XIII secolo, dunque in epoca mongola.

167. L’accesso all’ivan dalla corte ha una monumentalità sottolineata dalla molteplicità dei piani decorati. 168. Particolare della facciata dell’accesso all’ivan dalla corte. Pagine seguenti: 169. Decorazione del soffitto con volta a botte di uno degli ivan della al-Mustansiriyya. 170. Tutte le variazioni geometriche possibili con la combinazione di poligoni paiono venire esplorate dagli artigiani islamici.

Di poco più tardi, e infatti già Jala‘iridi, sono la madrasa al-Mirjan (1357) e il vicino khan (caravanserraglio, 1359)61. Buona parte della madrasa è stata distrutta dopo la seconda guerra mondiale per allargare la via Rashid, con la conseguenza che dell’impianto originale rimangono solo il portale monumentale di accesso e il

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minareto [fig. 172; Bagh. 14-18]. Alcuni frammenti decorativi degli interni furono asportati e ricomposti nelle sale islamiche del Museo Nazionale Iracheno a Baghdad, ma la perdita è stata enorme. Il portale si dispone su un doppio registro con un arco acuto per l’ingresso e una finestra lobata al piano superiore, entrambi incorniciati da cordonature e giochi geometrici, esattamente come nella Mustansiriyya; purtroppo nei lavori di ristrutturazione anche alcune iscrizioni sono state alterate con parole saltate, altre deformate o invertite. La decorazione consiste in pregevolissimi intrecci geometrici (hazarbaf) ottenuti con mattoni cotti e altri elementi sempre in cotto opportunamente giustapposti. Il caravanserraglio, ugualmente in mattone, dista poco dalla madrasa della quale costituisce un waqf (ossia un legato), ed attualmente è stato trasformato in un ristorante [fig. 173]. È un ambiente rettangolare (31,5 × 45 metri) su due piani (il secondo, attualmente, poco più di un ballatoio), che si segnala per l’originale soluzione delle coperture consistenti in otto grandi arconi traversi posti a intervalli regolari (la parte centrale ha una profondità maggiore), fra i quali si aprono ampie finestre. L’esito, unico nel mondo musulmano a quel che ci risulta, è di serena maestosità. Sebbene più tardo come datazione il complesso di al-Kazhimiyya – luogo di sepoltura degli Imam Musa al-Kazhim (745-799) e Muhammad Jawad, particolarmente venerato dagli sciiti62 – è uno dei santuari ancora oggi più frequentati [figg. 174-175]. Entro un grande recinto quadrato di circa 130 metri per lato, che all’interno ospita un alto numero di cellette, il santuario vero e proprio è costituito da due edifici integrati

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171. Il minareto di Suq al-Ghazl a Baghdad. 172. Il portale munumentale di accesso e il minareto della madrasa al-Mirjan a Baghdad. 173. Interno del Khan al-Mirjan: piano superiore del caravanserraglio con copertura ad arconi.

Nella pagina seguente: 174. Facciata con talar (porticato) in stile persiano del santuario all’interno della moschea al-Kazhimiyya a Baghdad. 175. Particolare di un pannello con iscrizione geometrica di uno dei portali del santuario della moschea.

dei quali quello più avanzato presenta tre facciate con grandi porticati sorretti da colonne (alla persiana), quattro minareti e due cupole dorate. Sebbene la disposizione attuale sia chiaramente più antica, ovvero risalente al periodo della dominazione safavide, gli ambienti con decorazione a specchietti e le mattonelle (fra le quali prevalgono splendidi toni rosati e verdi e gialli affatto inusuali) sono di scuola persiana della fine dell’Ottocento, esattamente come quelle dei santuari di Karbala e Najaf [cfr. i relativi siti]. La panoramica relativa alle architetture islamiche in Iraq non può prescindere da qualche cenno alla situazione dei territori settentrionali e in particolar modo a Mosul, uno dei più importanti centri politici, e artistici, iracheni, abitato in prevalenza da popolazioni di lingua curda. A Mosul e nel nord del paese molti edifici sono stati costruiti in pietra e non in mattone, avvicinando così, culturalmente, quest’area alla limitrofa Anatolia dove una lunga tradizione cristiana di lavorazione lapidea63 sarà alla base anche delle opere di età selgiuchide. La moschea Nur al-Din a Mosul fu costruita in epoca zanghide fra il 1170 e il 1172, probabilmente con modifiche da un edificio preesistente voluto da Say al-Din Ghazi I nel 1148. Purtroppo anche questa moschea è stata distrutta e ne rimangono alcuni elementi – come il bellissimo mihrab in stucco; un’opera da far risalire alla committenza di Badr al-Din Lu‘lu (1233-1259), potente signore della regione, molto attivo come mecenate in numerosi settori –, rimontati a Baghdad nelle sale islamiche

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del Museo Nazionale [fig. 179; Mosul 5-8]. In situ, a Mosul, resta il minareto in mattoni della moschea, un fusto cilindrico a base cubica gravemente compromesso nella sua statica, attualmente con una forte inclinazione che ne fa una sorte di Torre di Pisa mediorientale. La tomba dell’Imam Yahya ibn al-Qasim è databile al 1229; su base quadrata (con una serie di contrafforti esterni aggiunti) ha una cupola ad ombrello che richiama le più o meno coeve Turbe anatoliche, anche se in questo caso la decorazione è molto meno esuberante [fig. 177]. L’uso della pietra è confermato da numerose strutture staccate da edifici importanti ora ospitate a Baghdad; in particolare due lastre monolitiche in pietra grigia di mihrab coeve e simili, provenienti rispettivamente dal mausoleo dell’Imam ‘Abd al-Rahman e dalla moschea di al-Juwaishi64, meritano una descrizione dettagliata [figg. 180 e 181]. L’impianto, s’è detto, è il medesimo: due semicolonnette incassate con capitello sostengono un arco lobato con al centro una decorazione di arabeschi che viene ripresa anche negli spazi laterali dell’arco. In alto corre una fascia iscritta in cufico. Sono invece diverse le parti centrali. Nel primo caso abbiamo un’iscrizione in cufico come cornice (basmala e inizio di sura CXII) e una decorazione molto originale: la metà esatta di un disegno che replica la forma del mihrab (cioè, in questo caso, metà di un arco lobato), con campiture geometriche. L’altro pannello, invece, consiste in una fascia ornamentale

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176. La cupola dorata del mausoleo sciita di Hassan al-Askari a Samarra. Nelle due pagine seguenti: 177. Particolare della decorazione a mattonelle della tomba dell’Imam Yahya ibn al-Qasim a Mosul. 178. Il minareto in mattoni della moschea di Nur al-Din a Mosul.

di palmette su tre lati sovrastata da un motivo a campitura geometrica e al centro un piano inclinato, chiaramente rappresentante una porta rimasta socchiusa (un’allusione al fatto che Dio non chiude mai all’uomo la possibilità di entrare nelle Sue grazie). Indubbiamente i due esemplari – del medesimo materiale e con originalità in entrambi i casi – sono usciti da un’unica bottega. Un portale, quello del mausoleo dell’Imam Bahir, sempre a Mosul (XIII secolo)65, documenta l’altissimo livello qualitativo raggiunto. La cornice esterna contiene il noto versetto del Trono (Corano, II 255), mentre sui due piedritti sono pannelli lobati e cordonati (con decorazione geometrica) e la parte terminale della cordonatura desinente in teste d’aquila (o fenice?). In alto, sopra l’architrave (che è composta da un’alternanza di pannelli a clessidra col nome di Dio ed elementi arabescati), una serie di nicchiette con volte a muqarnas incorniciate da una cordonatura desinente in teste di draghi i cui corpi serpentiformi (appunto la cordonatura) si intrecciano a formare un nodo. Splendido. Forse in origine era una fontana o un padiglione una grande nicchia in pietra da Mosul o da Sinjar66 e adesso a Baghdad, caratterizzata da una serie di pannelli lobati in cui, oltre ai consueti motivi arabescati, non è difficile scorgere personaggi stanti armati di arco o sciabola, una decorazione di fatto incompatibile con una struttura pubblica con funzione anche religiosa.

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La lavorazione del legno e dei metalli Fra gli arredi più interessanti, vogliamo ricordare due cenotafi lignei: il più antico è quello dell’Imam Musa al-Kazhim e fatto costruire dal califfo Abu Ja‘far al-Mustansir (I) Billah (1226-1242)67; di forma quasi quadrata con imponenti pannelli caratterizzati da bande epigrafiche in un poderoso cufico (ad aste intrecciate e desinenza foliata) incorniciati da una fascia di arabeschi. Una cornicetta di arabeschi marca anche il coperchio superiore lungo lo spessore [fig. 182]. L’altro cenotafio68 proviene dalla moschea al-‘Aquliyya e probabilmente è di poco posteriore come datazione. Di classica forma a parallelepipedo ha pannelli iscritti in cufico su un fondo floreale spiraliforme di grande ariosità. Una cornice liscia è poi contornata da girali di spirali. Sul coperchio, nell’altezza del legno e a metà di ciascuno dei quattro lati, si trova una iscrizione corsiva, sempre su uno sfondo di girali di palmette [fig. 183]. Il minbar (pulpito) ligneo della moschea congregazionale di Al-‘Amadiyya (a nord-ovest di Mosul)69 è datato da una delle iscrizioni cufiche all’anno 1153, e si compone di pannelli decorati con motivi ad arabesco (l’origine samarrena dei disegni sembra incontrovertibile) intervallati – secondo un disegno geometrico – da pannelli piani. Borchie metalliche e chiodi (in parte originali) fissano e fanno da cerniera ai vari elementi lignei.

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179. Mihrab proveniente dalla moschea di Nur al-Din a Mosul. 180. Mihrab dal mausoleo dell’Imam ‘Abd al-Rahman a Mosul. 181. Mihrab dalla moschea di al-Juwaishi a Mosul, con al centro una porta socchiusa. Le tre opere sono conservate al Museo Nazionale dell’Iraq a Baghdad.

182. Cenotafio ligneo dell’Imam Musa al-Kazhim, prima metà del XIII secolo. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

Mosul è stata un centro importantissimo in età medievale, appunto nel XIII secolo, per l’arte toreutica; è qui, probabilmente per la prima volta in Medio Oriente, che si usa la tornitura dei metalli, un’innovazione che permetterà una realizzazione più rapida in grado di soddisfare le crescenti richieste del mercato. Sono circa una ventina gli artisti che si firmano con la nisba (provenienza: per esempio, Da Vinci è la nisba di Leonardo) di mausili, e le loro opere, tutte di qualità straordinaria, sono sparse nei principali musei del mondo. Il materiale impiegato è l’ottone (più raramente leghe di bronzo), fuso o battuto a lamina e poi inciso e incrostato con argento. La cosiddetta brocca Blacas del British Museum di Londra70 è stata eseguita a Mosul nell’aprile 1232 per Badr al-Din Lu‘lu da un artista che si firma Shuja’ ibn Man‘a al-Mausili, ed è un superbo esemplare di metallo, ben rappresentativo della capacità artistica delle botteghe dell’epoca. La superficie è divisa in bande orizzontali nelle quali si alternano fasce epigrafiche, bande con medaglioni figurati, cartigli e sfondi con originali e molto decorativi motivi geometrici. L’equilibrio della composizione è pressoché perfetto e l’intera superficie per quanto dominata da un senso di horror vacui non appare affatto appesantita [fig. 185]. Al Museo Nazionale del Bargello a Firenze si conserva un altro notevole pezzo della metallistica irachena; si tratta del vaso in ottone (o una lega di bronzo?) incrostato in argento, firmato da ‘Ali ibn Hamud an-Naqqash al-Mausili e datato 1258-1259 [fig.

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184]71. Reca anche un’altra iscrizione molto interessante perché ci svela il nome del committente, tal Haqta o Qista ibn Rudhara che potrebbe essere un Costantino figlio di Teodora, ovvero un possibile cristiano. Il vaso ha un alto collo, corpo globulare e ampio piede svasato: nei medaglioni – su un bellissimo sfondo di intreccio a T (un’estensione del disegno a svastica) di concezione modernissima e già impiegato nella brocca summenzionata – sono personaggi stanti, scene di banchetto, cacce col falcone, tutte di grande spessore artistico. Il repertorio nelle forme sembra seguire una tradizione tardo-antica (per tramite bizantino), mentre la tecnica dell’incrostazione o agemina (dal termine ’ajam, indicante, in arabo, degli stranieri, solitamente persiani), rimanda all’Oriente persiano ed era piuttosto vario comprendendo anche scene di vita quotidiana. L’arrivo dei mongoli nel 1244 e il sacco della città di Mosul nel 1261 saranno probabilmente fatali per le botteghe dei metallisti; la loro influenza, tuttavia, si estenderà alle regioni limitrofe (Siria, Egitto, ma anche Iran e Anatolia), e la nisba di mausili sarà garanzia di un prodotto di alta qualità. I personaggi incisi sui metalli, talvolta quasi naturalistici, suggeriscono un qualche contatto con l’arte della miniatura, anch’essa molto diffusa in età medievale.

183. Cenotafio ligneo proveniente dalla moschea al-‘Aquliyya di Baghdad. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad. A fronte, sopra: 184. Vaso incrostato in argento di ‘Ali ibn Hamud al-Mausili, datato 1258-59. Museo Nazionale del Bargello, Firenze. Sotto: 185. Brocca Blacas, di Shuja’ ibn Man‘a al-Mausili, datata 1232 ed eseguita per Badr al-Din Lu‘lu. British Museum, Londra.

I manoscritti e le miniature Laboratori in cui si esercitavano le arti collegate alla produzione di manoscritti furono sicuramente molto attivi in particolare nei due centri più importanti: Baghdad e

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Mosul. La capitale abbaside fu protagonista di una fioritura culturale senza pari e non è esagerato sostenere che questa fu di gran lunga l’epoca d’oro della civiltà islamica. Abdallah ibn al-Muqaffa‘ (morto nel 757) tradusse dal Pahlavi (medio persiano) in arabo le antiche favole indiane del Panchatantra (o “Storie di Bidpai”) col titolo di Kalilah wa Dimnah, un testo destinato ad avere larghissima fortuna letteraria e artistica72. Ad Abu ‘Uthman ‘Amr bin Bahr al-Jahiz (776-869), nativo di Basra e nipote

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186-187. Due pagine del manoscritto, conservato alla Biblioteca Ambrosiana, Milano, del “Libro degli Animali”

di al-Jahiz: l’eunuco che cattura gli uccelli e lo struzzo che cova. Ms Arabo D 140 inf., ff. 63v e 10r.

di uno schiavo di colore, dobbiamo una notevole serie di opere fra le quali spiccano il famosissimo Kitab al-Hayawan (“Libro degli Animali”; se ne vedano due illustrazioni, nel manoscritto della Biblioteca Ambrosiana di Milano), il Kitab al-Bayan wa at-Thabyin (“Libro dell’Esposizione e del Commento”) e il Kitab al-Bukhala (“Libro dell’Avarizia”), un fine trattato di psicologia comportamentale nel quale è citato, ad esempio, anche lo scienziato al-Kindi. Un aneddoto vuole che lo studioso sia morto,

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a 93 anni, seppellito dalla caduta dei libri del suo studio, un modo appropriato di concludere un’esistenza dedicata allo studio e alla scrittura. Il Kitab al-Aghani (“Libro dei Canti”) di Abu al-Faraj al-Isfahani (scomparso nel 967) è un’antologia in XXIV volumi ricca di informazioni di tutti i tipi (comprese quelle su poeti e musicisti della corte di Harun al-Rashid), scritto in una lingua raffinata. Un personaggio di grandissimo rilievo della Baghdad del X secolo fu Abu ‘Ali Muhammad ibn Muqlah (morto nel 940), vizir (ovvero primo ministro) di ben tre califfi abbasidi (al-Muqtadir 903-932; al-Qahir 932-934; al-Radi 934-940), e straordinario calligrafo che rivoluzionò l’arte della scrittura legando indelebilmente il suo nome a una riforma grafica ancora oggi alla base delle regole di proporzione dei segni73. Basando l’insieme di tutto l’alfabeto arabo sull’unità di misura del tratto diagonale fatto col calamo, egli eseguì un rombo, che, moltiplicato per 5 o per 7, dava l’altezza standard della prima lettera, la alif, per poi fare di questo elemento il diametro di un cerchio: tutte le lettere dell’alfabeto saranno unite da questi parametri e legate fra loro da proporzioni e distanze fisse scandite dall’unità di base, il piccolo rombo. Così la scrittura araba, ancorandosi a regole geometriche e matematiche, assunse un ritmo e una scansione equilibrata che la contraddistinguono come particolarmente elegante. Nel dire della Baghdad abbaside non si può non accennare al ruolo del califfo ‘Abdallah al-Ma’mun (813-833), patrono della corrente filosofica mu‘tazilita e dottissimo commentatore della scuola giuridica Hanafita: a lui si deve la costruzione del Bayt al-Hikma, non solo una straordinaria biblioteca, ma anche attivissimo centro di traduzione in arabo di testi dal Greco e dal Siriaco oltre che dal Sanscrito o dal Pahlavi (medio persiano). Qui si formò una classe intellettuale di prim’ordine e da qui le opere classiche – tradotte ma anche commentate – si diffusero e furono alla base delle conoscenze medievali europee. I tre figli del maestro Musa bin Shakir (Muhammad, Ahmad e al-Hasan) ereditarono le eccezionali doti del padre e furono eccellenti studiosi di geometria e astronomia, meccanica e ancora geometria; furono acerrimi rivali di Abu Yusuf Ya‘kub al-Kindi (801-873), grandissimo scienziato e medico di corte, famoso anche per l’enunciazione ai suoi allievi delle sei doti necessarie a divenire filosofi: «Una mente superiore, passione ininterrotta, grande pazienza, animo privo di preoccupazioni, un maestro competente e tanto, tanto tempo»74. Tutte condizioni, a suo dire, irrinunciabili e il solo venir meno di una di queste pregiudicherebbe l’esito finale. I tre fratelli Musa misero in cattiva luce al-Kindi presso il califfo e approfittarono della situazione per appropriarsi della Biblioteca dello scienziato; in seguito al-Mutawakkil volle un canale ad al-Ja‘fariyya (come s’è detto nei pressi di Samarra) e i tre subappaltarono l’opera all’astronomo e matematico Ahmad bin Muhammad bin Katir al-Farghani, costruttore del “Nilometro” del Cairo e autore del Kitab fi Jawani ‘ilm an-nujum (“Libro delle Nozioni Elementari Attorno alla Scienza degli Astri”; se ne veda una bella illustrazione nel codice datato 1310, Ms. Or. 95, f. 29r, della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, fig. 188). Al-Farghani non fu all’altezza del compito e venne rimpiazzato nel lavoro da un ingegnere di nome Sanad ibn ‘Ali, che portò a compimento l’opera ma pretese, per trarre i tre dagli impicci col califfo, la restituzione dei volumi ad al-Kindi! Musa bin Shakir fu maestro del sabeo Abu al-Hasan Thabit bin Qurrah al-Sabi’ al-Harrani, originario di Harran (Mesopotamia settentrionale), a cui si deve la trasmissione alla corte degli Abbasidi di Baghdad degli approfonditi studi astronomici di un gruppo di sapienti fortemente influenzati dal Neoplatonismo ed Ermetismo greco, tradizione appresa dalla conquista di Alessandro e gelosamente conservata: i Sabei sono nominati nel Corano (II, 62) fra coloro che «[...] avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere né li coglierà tristezza».

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Nella doppia pagina precedente: 188. “Libro delle Nozioni Elementari Attorno alla Scienza degli Astri”, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze. Ms. Or. 95, f. 29r. 189. “Ginepro e sabina”, dal manoscritto del “De Materia Medica” di Dioscoride presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. Ms. 2954, f. 39r.

190. Frontespizio del manoscritto del “Libro degli Antidoti” dello Pseudo-Galeno, conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Arabe 2964, f. 37.

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I siti dell’arte mesopotamica e irachena

In medicina ricorderemo Abu Zayd Hunayn bin Ishaq al-‘Ibadi (809-873), figlio di un farmacista cristiano di una tribù originaria di Hira, traduttore delle opere di Galeno (con un metodo moderno consistente nel raccogliere più esemplari di un medesimo manoscritto e, confrontandoli fra loro nelle varianti, stabilire una lettura univoca e coerente), ed egli stesso autore di trattati di oftalmologia e del al-Masa’if fi at-Tibb (“Introduzione all’arte della Guarigione”), testo base per gli esami di medicina in epoca medievale. Anche uno dei più celebri medici dell’antichità, Abu Bakr Muhammad bin Zakariya al-Razi (865-925), prima di svolgere la sua attività a Rayy (in Persia, antica città poco a sud dell’attuale Tehran), completò il suo curriculum di studi a Baghdad. La scuola di Baghdad, ovviamente, è stata molto attiva anche nel campo miniaturistico, sebbene poche siano le opere che ci restano in relazione a quanto verosimilmente prodotto. Al-Nadim, libraio del X secolo, redige un catalogo delle opere in suo possesso, tra cui un Kitab Suwar al-Kawakib at-Thabita (“Trattato sulle stelle fisse”), di cui conosciamo un codice miniato datato (1009)75, che non è escluso possa essere stato prodotto in Iraq. Del De Materia Medica di Dioscoride, conosciamo un manoscritto datato al 1244 della Biblioteca Universitaria di Bologna76 con ben 475 immagini di notevole qualità (si veda il fol. 39r: “Ginepro e sabina”, fig. 189). Della stessa opera – De Materia Medica – è splendido il doppio frontespizio conservato a Istanbul77, in cui l’influsso artistico bizantino è pienamente riscontrabile sia nella disposizione generale delle figure, sia in alcuni particolari quali i panneggi delle vesti. S’è detto che un altro polo di particolare vivacità è stata la regione di Mosul nell’Iraq settentrionale in epoca Zanghide. Una personalità notevole fu quella di Badi‘ az-Zaman Isma‘il al-Razzaz al-Jazari (XII-XIII secolo), proveniente e attivo in un’area, la Jazira, oggi divisa fra Anatolia (la zona dove nascono il Tigri e l’Eufrate), Siria e Iraq settentrionale, autore di un celebre trattato, il Kitab fi Ma‘rifat al-Hiyal al-Handasiyyah (“Libro della Conoscenza dei Congegni Meccanici”), di cui ci restano quindici manoscritti a testimonianza dell’interesse musulmano anche per questa branca specialistica del sapere scientifico. Due bellissime illustrazioni di questo testo sono nella Collezione di B. Berenson a villa “I Tatti” a Settignano (Iraq, XIII secolo)78. A Mosul (1199) è da attribuire anche il frontespizio del Kitab al-Diryaq (“Libro degli Antidoti”, dello pseudo Galeno, fig. 190), conservato a Parigi79, con un sovrano assiso in trono a gambe incrociate che regge un crescente lunare entro un tondo costituito dal nodo centrale formato dai corpi di due draghi (o serpenti?) affrontati e intrecciati: potrebbe essere una raffigurazione dell’Atabeg Badr al-Din Lu‘lu. In ogni modo, anche in questo caso, è riscontrabile una certa ascendenza bizantina. Fra i testi illustrati una straordinaria fortuna è da attribuire all’opera di Abu Muhammad al-Kasim bin ‘Ali al-Hariri al-Basri (1054-1122), le Maqamat (“Adunanze”), una serie di racconti picareschi con protagonista il vanesio e abile bricconcello Abu Zayd al-Sarugi, talora vittima di raggiri, talaltra autore di irresistibili burle: un testo godibilissimo anche per l’inesausta vena umoristica e capacità linguistica che eccelle nei giochi di parole azzardati. Celeberrimi sono i manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi80 e dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo81, quest’ultimo già parte della collezione del diplomatico francese J.L. Rousseau (1780-1831). Le pitture in oggetto sono vivacissime e così piene di particolari da risultare una affascinante testimonianza della vita quotidiana nel “favoloso” Iraq del XIII secolo.

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In questa sezione i siti sono disposti in ordine alfabetico, secondo il nome ricorrente con maggior frequenza. Per facilitare la ricerca, nel caso in cui al nome antico se ne sia sovrapposto uno moderno, nella lista sottostante sono indicati entrambi i nomi, con quello antico in corsivo. Aqar Quf (Dûr Kurigalzu) Assur Babilonia Baghdad Ctesifonte Dûr Kurigalzu v. Aqar Quf Dûr Sharrukîn v. Khorsabad Eridu (Tell Abu Shahrein) Girsu v. Tello

Hatra Ishan Bahriyat v. Isin Isin/Ishan Bahriyat Kalhu v. Nimrud Karbala Khafaja Khorsabad (Dûr Sharrukîn) Kish Kufa

Larsa (Tell Senkereh) Mari (Tell Hariri) Mosul Najaf Neribtum (Tell Ischali) Nimrud (Kalhu) Ninive Nippur Obeid v. Tell ‘Ubaid

Samarra Seleucia Shubat-Enlil (Tell Leilan) Tell Abu Shahrein v. Eridu Tell Hariri v. Mari Tell Ischali v. Neribtum Tell Leilan v. Shubat-Enlil Tell Muqqayar v. Ur Tell Senkereh v. Larsa

Tell ‘Ubaid (Obeid) Tell Uqayr Tello (Girsu) Ukhaydir Ur (Tell Muqayar) Uruk (Warka) Warka v. Uruk Wasit

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AQAR QUF/DÛR KURIGALZU

ASSUR

Dinitu

Ayyuritu

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1. Veduta aerea del sito. 2. Pianta del palazzo di Kurigalzu.

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Cortile nord-or.

Sala dei Pilastri

Ivan nord-or.

Ivan settentr.

Ivan occ.

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Peristilio

Ivan or.

60 3

1. Veduta aerea del sito. 2

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4

Ivan mer.

Muro in mattoni piccoli Muro in mattoni grandi

2. Pianta del tempio di Ishtar di Tukulti-Ninurta I (1244-1208).

3. Pianta del tempio di Nabû e di Ishtar (fine del VII secolo). 4. Pianta del palazzo partico.

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BABILONIA

BABILONIA

1. Veduta aerea del sito. Tutte le illustrazioni che seguono corrispondono a vestigia neobabilonesi (626-539).

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Cortile centrale

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Cortile

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Ci

1000

am

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ar

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es

te

5. Ricostruzione della veduta aerea dell’area urbana e della torre di Babele.

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5

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mura

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6. Pianta dell’Esagila, il tempio di Marduk.

Cinta ria in

2

9

4

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l’an Eufrate (nel

tchità)

7. Veduta aerea della porta di Ishtar, con a destra i “giardini pensili” e a sinistra il tempio di Ninmah restaurato.

7 5

8

2

7

4. Due ricostruzioni dell’Etemenanki, la ziggurat di Babilonia (torre di Babele).

nt

6

50

Atrio

3. Piantina dell’area prossima all’antico corso dell’Eufrate, dove si ergevano l’Esagil (il tempio di Marduk) e l’Etemenanki (la ziggurat).

3

5

4

2. Pianta della città. 1. Palazzo d’estate; 2. Bastione occidentale; 3. Palazzo nord; 4. Palazzo sud; 5. Strada processionale; 6. Porta di Ishtar; 7. Ziggurat detta “torre di Babele” o Etemenanki; 8. Tempio di Marduk o Esagil; 9. Tempio di Ninmah.

8. Il tempio di Ninmah restaurato, presso la via processionale.

3

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BABILONIA

BABILONIA

9

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Fontana

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13. Pianta del tempio di Ninmah.

10. Ricostruzione dell’alzato della porta di Ishtar.

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12. Tempio di Ishtar d’Akkad restaurato.

9. La via processionale presso la porta di Ishtar.

11. Pianta del tempio di Ishtar d’Akkad.

0

Ki

su

Ki

su

Cortile

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14. Pianta del “Palazzo sud”, costruito da Nabopolassar e ampliato dai suoi successori.

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BABILONIA

BABILONIA

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17. Ingresso a una delle corti del “Palazzo sud”. 18. Ricostruzione fatta da Koldewey dei “giardini pensili”. In realtà è accertato che si trattava di magazzini.

15. Il “Palazzo sud”. 16. Ricostruzione della facciata della sala del trono del “Palazzo sud”, con la sua decorazione di mattoni smaltati.

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19. Veduta degli scavi del teatro ellenistico nella prima metà del ’900. 20

0

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20. Schema planimetrico del teatro.

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BAGHDAD

BAGHDAD Khadimiyyah

Bab al-Wastani Shaikh Omar Suhrawardi Palazzo Abbasside

1-4. La pianta circolare di una città come la Baghdad di alMansur del 762 (4) ha importanti precedenti in Asia. Si vedano le immagini aeree delle sasanidi Firuzabad (1) e Takht-i Sulayman (2) in Iran e della partica Hatra in Iraq.

al-Qamariyya

al-Khaidar

al-Kushla

Suk al-Ghazil

Madrasa al-Marjani e Khan al-Marjani Madrasa al-Mustansiriyya al-Qaffafin

al-Ghailani

5. La pianta schematica della moderna Baghdad chiarisce come i principali monumenti antichi siano concentrati in un’area abbastanza ristretta.

Zumurrud Khatun Museo Nazionale dell’Iraq

i

r Tig

5

1

Qui e nella pagina seguente: 6-13. Il complesso funerario di Omar al-Suhrawardi è imperniato sul mausoleo con la copertura a muqarnas a “pan di zucchero”. La pianta (9) evidenzia i successivi interventi, come la tarda ma piacevole facciata esterna (10) e il fronte interno con il relativo portale iscritto (13).

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BAGHDAD

BAGHDAD

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14-18. La madrasa al-Mirjan a Baghdad è stata in parte distrutta a metà del ’900 per allargare una centralissima arteria stradale moderna. Le foto di archivio documentano gli interventi e la disposizione (18) delle decorazioni in situ, prima di essere ricollocate nel Museo Nazionale.

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BAGHDAD

BAGHDAD

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Qui e a fronte: 19-22. Il duecentesco cosiddetto “Palazzo Abbaside”, probabilmente una madrasa, è forse uno dei più celebri monumenti di Baghdad. Oltre alla corte e alla pianta si osservano la ottima qualità della decorazione di un semplice soprarco e il corridoio che separa due sezioni dell’edificio.

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23-28. Della cinta muraria della Baghdad medievale purtroppo non rimane molto, se non la Porta Mediana (Bab al-Wastani) ancora in discrete condizioni; disgraziatamente la Porta del Talismano (qui in una foto d’archivio, 26) fu distrutta accidentalmente da un’esplosione essendo stata trasformata in un deposito di munizioni.

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BAGHDAD

BAGHDAD

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29-33. La madrasa al-Mustansiriyya (1233) è stata molto restaurata, ma nel suo stato attuale permette una buona lettura di un importante edificio medievale musulmano. La pianta dei due livelli evidenzia la razionalità dell’impianto. Grande cura anche nella decorazione, con il muro esterno verso il fiume (31/32) dominato da una bella iscrizione e i particolari del portale iscritto di ingresso.

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A fronte: 34-40. La moschea al-Kazhimiyya è uno dei principali luoghi di pellegrinaggio sciita in Iraq, essendovi seppelliti i “due Kazhim”, rispettivamente settimo e nono Imam degli sciiti duodecimani. Luogo di immensa venerazione, fu distrutto più volte (con particolare ferocia dai Mongoli nel 1258). Le attuali strutture – valutabili anche attraverso preziose immagini d’archivio – evidenziano il gusto architettonico persiano ottocentesco, dal momento che furono i principi di quel Paese a finanziarne la ricostruzione.

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CTESIFONTE

CTESIFONTE

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1. Veduta aerea del sito: a oriente del Tigri l’area di Ctesifonte, a occidente quella di Veh-Ardashir. 1 e 4. Resti di mura;

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2. Scavo tedesco della chiesa di Qasr Bint al-Qadi; 3. Scavi italiani; 5. Verso il Taq-i Kisra e l’edificio sud.

2. L’ivan e la facciata del palazzo sasanide, Taq-i Kisra, prima del crollo parziale del 1888.

3. La facciata del Taq-i Kisra dopo il restauro.

4. Pianta dell’ivan e dello scavo del Taq-i Kisra.

5. Ricostruzione dell’ivan di un edificio della zona di Ctesifonte con decorazione a stucco.

6 a e b. Livello superiore e livello inferiore della chiesa Qasr Bint al-Qadi.

7. Confronto con la pianta di un altro edificio ecclesiastico a Hira (sito XI).

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ERIDU/TELL ABU SHAHREIN

HATRA

1

1

1. Veduta aerea del sito. 2. Pianta del palazzo del Dinastico Arcaico, prima metà del III millennio.

1. Veduta aerea del sito.

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2. Foto aerea da nord (1930). Il temenos con i grandi templi e il muro divisorio nordsud; intorno, la città: i monticoli corrispondono alle costruzioni, mentre le aree infossate evidenziano le zone aperte (strade, piazze, cortili).

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HATRA

HATRA

Nella pagina seguente: 9. Zona a nord del grande temenos: l’“edificio A” e la strada nord-sud che congiunge il temenos centrale con la porta urbica settentrionale. Da sud. 10. Il cortile centrale e l’ivan principale dell’“edificio A”, da ovest. A sinistra dell’ivan, l’altare per il culto domestico.

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3. Il temenos prima degli scavi, da est. Al centro il complesso dei Grandi Ivan. 4. Il complesso dei Grandi Ivan, all’inizio degli scavi, visto da est. A sinistra, il grande ivan meridionale, a destra, quello settentrionale, ancora ingombro di macerie.

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5. Pianta del temenos.

12. Statua maschile non identificata, probabilmente di nobile, dall’antecella di un tempio minore all’interno dell’abitato. La mano destra è alzata in segno di venerazione, la mano sinistra tiene un rotolo. La tunica e i pantaloni sono riccamente decorati da due file di girali di vite. Museo di Mosul.

Nella pagina a fronte: 6. L’interno del piccolo ivan meridionale del complesso dei Grandi Ivan, durante lo scavo, visto da sud-est. La porta grande dà accesso alla stanza retrostante, quella più piccola, a sinistra, alla scala che sale al piano superiore. 7. L’antecella di uno dei templi minori all’interno dell’abitato, durante lo scavo. L’operaio a destra sta in piedi nell’entrata alla cella di culto.

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8. L’archivolto ricomposto sormontava l’entrata alla cella di un tempio minore all’interno dell’abitato di Hatra. È decorato da busti di personaggi maschili, tra cui si riconoscono Eracle e un sovrano, che rendono omaggio al dio aquila e a uno stendardo. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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tempio di Allat

tempio di Shahiru tempio di Shamash

grandi ivan

13. Rilievo con busto del dio Sole/ Maran, primo dio della Triade, con nimbo radiato, che emerge dalle nuvole o dalle montagne. Sulle spalle, due fibulae con l’aquila ad ali spiegate, attributo del dio. Da un tempio minore all’interno dell’abitato. Museo di Mosul. 14. Rilievo con il busto del dio Barmarein (= figlio dei nostri due signori) con nimbo radiato e crescente lunare. Le piccole corna, sporgenti dal diadema, sono un attributo divino. Dal temenos centrale di Hatra. Museo di Mosul.

ivan gemelli

tempio di Maran

tempio di Samya

tempio della Triade

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11. Rilievo cultuale da un tempio minore all’interno dell’abitato. Al centro, la dea Allat rappresentata come la dea greca Athena. Ai lati, due personaggi femminili (divinità minori o assistenti, devote della dea). Davanti al basamento che sorregge le figure, un leone di profilo. Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

15. La principessa Dushprai, figlia del re Sanatruq II, dall’antecella di un tempio minore all’interno dell’abitato. Indossa un abito riccamente decorato nella parte superiore e sontuosi gioielli. Sull’alta acconciatura, coperta dal mantello, la figura del dio Sole. L’iscrizione sul basamento menziona la genealogia della principessa e la data (238 d.C.). Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad.

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ISIN/ISHAN BAHRIYAT

HATRA

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1. Veduta aerea del sito. 2. Pianta del tempio di Gula nel suo stato finale, nell’epoca cassita (terzo quarto del II millennio).

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KARBALA

KHAFAJA

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1. Veduta aerea del sito. 2-4. Pianta, ricostruzione e veduta aerea del Tempio ovale, Dinastico Arcaico II-III. Verso il 2700-2400.

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1-5. È il luogo dove avvenne il martirio di Husayn, figlio di ‘Ali e nipote di Maometto, nonché il luogo della sepoltura del suo corpo. Città sacra per gli sciiti, è stata oggetto di enormi distruzioni, compresa quella del wahabita sceicco Sa‘ud nel 1801. Durante il mese di muharram (il quinto del calendario islamico) il decimo giorno (‘Ashura) è quello che ricorda l’avvenuto martirio e la città è meta di pellegrinaggio. Le immagini sono dell’archivio storico. 4

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KHORSABAD/DÛR SHARRUKÎN

KHORSABAD/DÛR SHARRUKÎN

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1. Veduta aerea. 2. La cittadella con, a nordovest, il palazzo di Sargon II (fine dell’VIII secolo).

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3. Ricostruzione della facciata del tempio di Nabû.

6. Tori androcefali in situ su una porta della cittadella.

4. Ricostruzione della veduta a volo d’uccello della cittadella.

7. Acquerello di una pittura del “Palazzo K”.

5. La scoperta di un toro androcefalo e di un genio alato.

8. Imbragatura e spostamento di un toro androcefalo.

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KUFA

KISH

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2

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1-9. Importantissima località irachena fondata nel 638. Fu il centro della rivolta contro il califfo Othman e fu con ‘Ali anche durante la celebre battaglia del cammello. Qui fu ucciso ‘Ali. A questa città è legato il nome del più elegante e monumentale stile epigrafico dell’Islam. Le foto d’archivio documentano gli scavi del secolo scorso condotti da archeologi iracheni in varie riprese del “palazzo del governo”. Situato in prossimità della moschea, fu una struttura fondamentale per i successivi sviluppi planimetrici civili musulmani.

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1. Veduta del sito archeologico. 2. Pianta del “Palazzo P”, Dinastico Arcaico III, metà del III millennio. 3. Pianta del “Palazzo A”, Dinastico Arcaico II/III (metà del III millennio). 3

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KUFA

LARSA/TELL SENKEREH 0

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1. Pianta del palazzo di Nur-Adad, prima metà del XIX secolo. 2 e 3. Due vedute della corte dell’E.Babbar (il tempio di Shamash) con la sua decorazione di semicolonne tortili intagliate.

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3

4. Pianta dell’E.Babbar con la sua ziggurat a nord-est, i due atri al centro e il santuario a sud-ovest. L’insieme risale al XVIII secolo ma gli scavi del santuario hanno raggiunto il livello neo-babilonese.

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MARI/TELL HARIRI

MOSUL

1

0

20

2 1

1. Veduta aerea del “Palazzo di Zimrilim”, XVIII secolo. 2. Pianta del “Palazzo di Zimrilim”. 3. Rilievo della pittura detta “dell’investitura” nel “Palazzo di Zimrilim”, XVIII secolo. 2

3

3

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1-3. Tre vedute storiche del celebre minareto della moschea di Nur al-Din (1170-1172), monumento simbolo della città che fu importantissimo centro artistico medievale.

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MOSUL

MOSUL

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11

12

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Qui e a fronte: 4-12. La moschea di Nur al-Din, prima della sua distruzione e che lo straordinario mihrab in stucco (5/6) fosse staccato e ricostruito a Baghdad (7/8) presso il Museo Nazionale. Stessa sorte per una finestrella (9), anch’essa rimontata a Baghdad. Nella vecchia immagine del minbar, ovvero pulpito ligneo (XIII secolo, 10 e 12) colpisce la scimitarra posta sui gradini della struttura.

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MOSUL

NAJAF

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1

13

2 16

13-16. Molti importanti monumenti di Mosul sono stati distrutti e sono documentati solo attraverso le foto storiche. Eccezionale la figurazione in stucco di San Giorgio. La zona della Jazira è sempre stata un centro cristiano di primissimo piano. A fronte: 1-4. Najaf è il principale centro teologico sciita dell’Iraq e del mondo. Najaf è stata un focolaio di opposizione al governo turco Ottomano; si è opposta prima al mandato britannico e poi a re Faysal I e a Saddam Husseyn. Qui, non lontano da Kufa, sarebbe stato sepolto ‘Ali. La tomba è stata ovviamente ricostruita più volte e il suo aspetto attuale – nelle foto d’archivio – risulta di gusto orientale iranico.

14

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NERIBTUM/TELL ISCHALI - NIMRUD/KALHU

0

NIMRUD/KALHU

20

Tessuto urbano

1

1-2. Pianta e ricostruzione del tempio di Ishtar-Kititum, verso il 1850.

2. Rilievo di un pannello di mattoni smaltati ritrovato nel “Forte Salmanassar” (h. 4,07 m), IX secolo. Museo Nazionale di Baghdad.

2

3. Veduta aerea di Nimrud, settore orientale. 2

4. Pianta del tempio di Nabû, secolo.

VIII

1. Veduta aerea di Nimrud, settore occidentale.

4

0

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30

3

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NINIVE

NINIVE - NIPPUR

1. Veduta aerea di Quyundjik, uno dei tell dell’antica Ninive. 2. Pianta del tell di Quyundjik, con il palazzo di Sennacherib (A), il tempio di Ishtar (B), il tempio di Nabû (C) e il palazzo di Assurbanipal (D).

1

3

3. Veduta aerea di Nabi Yunus, un altro dei tell dell’antica Ninive.

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0

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1. Veduta aerea del sito di Nippur. 0

600 2

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1

2. Pianta dell’Ekur, il tempio di Enlil con la sua ziggurat, III Dinastia di Ur, XXI secolo.

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SAMARRA

SAMARRA

1-3. Samarra fu fondata dagli Abbasidi nell’836 e rimase capitale dell’impero fino all’889, anno in cui venne gradualmente abbandonata. La pianta del sito che si sviluppa sulle sponde orientali del Tigri (principalmente; qualche resto infatti è anche al di là del fiume) e due vedute aeree mostrano la vastità dell’area archeologica. Circa 60 chilometri quadrati di rovine. A fronte: 4-6. In alto una recentissima veduta satellitare della grande moschea di al-Mutawakkil. Due immagini d’epoca mostrano le rovine della città abbaside e lo sviluppo del villaggio moderno.

al-Ja’fari

akk

utaw

al-M

Abu Dulaf

1

a

iliyy

Huwasilat Ashnas

al-‘Ashiq Qubbat al-Sulaibiyya

Palazzo del califfo 4

Moschea

Balkuwara

al-Musharrahat Qadisiyya 0

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SAMARRA

SAMARRA

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100

0

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12-16. Abu Dulaf è una “replica” della moschea precedente. Con il recinto fortificato di 213 × 135 metri e un cortile di 115 × 130 metri, costituisce un esempio di come la moschea congregazionale fosse concepita per accogliere tutta la umma, la comunità dei fedeli.

7-11. La grande moschea di al-Mutawakkil, iniziata nell’847, con la sua enorme estensione e il famoso minareto elicoidale è il monumento simbolo dell’Islam iracheno.

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SAMARRA

SAMARRA

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22-28. Una città tanto estesa e costruita celermente necessitava di decorazioni eseguite in tempi stretti. Lo stucco, materiale di pronto impiego, di facile uso e non costoso, eseguito in stampi e dipinto in policromia è il protagonista principale dell’arte decorativa di Samarra. Le foto d’archivio documentano i pannelli negli edifici residenziali. 19

17-21. Planimetria del “Jawsaq al-Khaqani” (18) il primo (836) palazzo del Califfo sulle sponde del Tigri, che si estende per un’area di circa 150 ettari. Più modesto è il palazzo di Balkuwara (849) con un recinto quadrato di 1165 × 1171 metri (17). Il mausoleo dell’Imam al-Dur nei pressi di Samarra risale al 1085 ed è uno dei più antichi monumenti funebri islamici (19).

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SELEUCIA

SELEUCIA

1. Immagine satellitare dell’area archeologica di Seleucia. 2. Impianto urbanistico della città ellenistica di Seleucia al Tigri. Sono individuati: 1. Tell ‘Umar, 2. archivi, 3. tempio A, 4. canale centrale, 5. isolato di abitazioni, 6. strada meridionale, 7. canale reale.

4. Immagine satellitare Spot V della regione di Seleucia (in alto al centro, l’area in bianco corrisponde grosso modo alle rovine; il fiume Tigri, anticamente prossimo alla città, ha cambiato corso nel tempo come appare evidente dalla grande ansa in basso a destra, che corrisponde all’antico alveo).

3. Schema planimetrico della Piazza degli Archivi e di Tell ‘Umar.

5 e 6. Due vedute dello scavo della Piazza degli Archivi da sud-ovest, campagna del Centro Scavi di Torino, 1971.

1

4

Tigri Tell Omar 2

1

3 4 5

Archivi

6 7

0

750 2 5

Struttura sasanide Riempimento sasanide

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3

Periodo partico Periodo seleucide e protopartico

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SHUBAT - ENLIL/TELL LEILAN - TELL ‘UBAID

TELL UQAYR - TELLO/GIRSU

1

0

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1-2. Pianta e ricostruzione del “Tempio dipinto”, verso il 3000.

1. Il tempio, con le facciate decorate con semicolonne tortili intagliate a spirale, XIX-XVIII secolo.

1

1. Ricostruzione della facciata del tempio di Ninhursag, Dinastico Arcaico III, 2600-2300.

2

2. Pianta del tempio di Ninhursag con il recinto ovale e la terrazza sopraelevata. 3. Veduta aerea del sito.

2

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1

5

1. Veduta aerea del sito. 2 0

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40

3

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2. Pianta del tempio di Ningirsu, inizio del Dinastico Arcaico III, 2600-2500.

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UKHAYDIR

4

1-3. Palazzo e avamposto fortificato della seconda metà dell’VIII secolo; questa struttura è ancora oggi di notevole impatto visivo. A fronte: 4-6. Le mura fortificate con torrioni semicilindrici sono state in parte restaurate, ma l’impressione di forza e solidità che trasmettono è immutata.

1 5

Corte d’onore

Moschea

2

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UKHAYDIR

UKHAYDIR

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Qui e a fronte: 7-15. I camminamenti sulle mura raccontano di una struttura militare, mentre le arcate cieche documentano un’attenzione particolare alla forma da parte degli architetti. La soluzione angolare con elaborate trombe di raccordo e archi traversi (?) mostra una notevole sapienza tecnica, in linea con la migliore tradizione costruttiva sasanide.

14 13

11

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15

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UR/TELL MUQAYYAR

UR/TELL MUQAYYAR

4

1. Veduta aerea del sito.

4. Ricostruzione della ziggurat.

2. Pianta del recinto sacro consacrato a Nanna, il dio della luna, con la ziggurat (1), il Giparu di Nin.gal, residenza della gran sacerdotessa (2), l’Edublalmah o casa delle tavolette (3), l’Enunmah (4), l’Ehursag (5) e i mausolei reali (6). III Dinastia di Ur, XXI secolo.

5 e 6. Vedute della ziggurat prima del restauro.

3. Pianta della ziggurat.

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1 4 3

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URUK/WARKA

URUK/WARKA

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1-3. Vedute aeree del sito. L’ultima mostra lo “Steingebäude” e la “ziggurat di Anu”. Alcuni dettagli della figura 2: 1. Il Bit Resh e il suo tempio consacrato ad Anu e Antum (1a), epoca seleucidepartica; 2. La ziggurat di Anu, circa 3000 a.C.; 4. L’Irigal, grande tempio di epoca seleucide-partica; 7. L’Eanna, insieme palaziale della fine del IV millennio, ai piedi della ziggurat (7a) della fine del III millennio; 10. Il tempio di Gareus, di epoca partica. 4. Vestigia architettoniche con decorazione a mosaico di coni.

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5

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5. Pianta dell’Eanna, una sorta di palazzo nel quale era collocato il tempio decorato a mosaico di coni. Sono individuati lo Steingebäude (1), l’Edificio quadrato (2), il Tempio C (3), il Grande atrio (4), il Tempio D (5), l’atrio porticato o Pfeilerhalle (6), i “Bagni” (7) e la Grande corte (8). Epoca di Uruk, fine del IV millennio.

3

6. Pianta del palazzo di Sin-Kashid, XIX secolo. 7. Pianta del Riemchengebäude, epoca di Uruk, fine del IV millennio.

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8. Pianta dello Steingebäude e della terrazza sopraelevata detta “ziggurat di Anu”, sulla sommità della quale si sono succeduti diversi edifici, tra i quali il “Tempio bianco”. Epoca di Uruk, fine del IV millennio.

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WASIT

URUK/WARKA

9

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9 e 10. Ricostruzione del “Tempio bianco” e del “Tempio del livello E”, due degli edifici che si sono succeduti sulla “ziggurat di Anu”. Epoca di Uruk, fine del IV millennio. 11. Tecnica di esecuzione della decorazione sul “Tempio a mosaico di coni”: grappe in terracotta permettevano il fissaggio alla muratura dei coni decorativi. Epoca di Uruk, fine del IV millennio.

11

12. Pannello con mosaico a coni pieni all’interno dello “Pfeilerhalle”. 13. Vestigia della decorazione del “Tempio a mosaico di coni”, epoca di Uruk, fine del IV millennio. 1

14. Coni cavi, usati per decorare la terrazza detta “ziggurat di Anu”, epoca di Uruk, fine del IV millennio.

2

15. Tempio a mosaico di coni: blocco di muratura con le grappe in terracotta (spezzate) che sostenevano il rivestimento decorativo. Epoca di Uruk, fine del IV millennio. 12

13

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3

Qui e nella pagina seguente: 1-10. Wasit fu un’importante città del primo periodo islamico, essendo localizzata a una distanza equivalente fra Bassora e Kufa. Subì diverse vicende (compresa la deviazione del corso del Tigri) anche storico-politiche. Nonostante la sua importanza, la città non è stata scavata a eccezione di questo portale monumentale, probabilmente parte della madrasa al-Sharabiyya (metà del XIII secolo), localmente conosciuto come al-Manar o Manarate Wasit, a causa dei due grandi minareti che fiancheggiano l’arco.

271


WASIT

Note e Bibliografia L’ARTE MESOPOTAMICA

6

5

7

8

10

9

272

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Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, IX 6. 20-22. 2 Plutarco, Vite Parallele, 47. 5. 3 Plutarco, Sulla fortuna o virtù di Alessandro Magno, 1. 5. 4 Nel 324 a.C. si celebrano a Susa le celebri nozze ecumeniche: Alessandro si unisce a Rossane e più tardi sposa altre due nobili donne persiane. «Ricevute le spose, ciascuno condusse via la propria e Alessandro assegnò a tutte la dote. Quindi ordinò che si registrassero i nomi di tutti i Macedoni che avevano sposato donne asiatiche; risultarono più di diecimila e a questi Alessandro diede regali nuziali« (Arriano, Storia di Alessandro, VII, 4. 8). 5 È noto, ad esempio, il significativo ruolo che giocano i motivi greci sulle impressioni degli archivi di Persepoli. 6 È quanto ci dicono Strabone (Geografia, XVI. I. 5) e Arriano, (ibid., III.16.4; VII.17.14). In realtà ci sono cospicue testimonianze archeologiche di interventi achemenidi nel settore palatino: riparazioni, rinforzi

e l’erezione del cosiddetto “Persian building” nel settore occidentale del “Palazzo sud” confermano pertanto l’importanza di Babilonia anche in epoca achemenide. 7 L’ultimo intervento edilizio datato risale all’avanzato II secolo d.C. e testimonia quanto questa istituzione fosse ancora vitale all’interno della società babilonese (e dunque quale fosse il peso della comunità greca) in epoca partica tarda. 8 È di Pausania (Hellàdos Perièghesis, I.16.3) la notizia che parte della popolazione di Babilonia sarebbe stata trasferita a Seleucia; secondo Plinio (Storia Naturale, VI. 30. 121), la fondazione di Seleucia avrebbe avuto il proposito di ridurre l’importanza di Babilonia, mentre Strabone (ibid., 16.1.5) definisce deserta (’εˊρημος) la maggior parte della città dopo la fondazione di Seleucia. 9 Al yarruti (città reale) nei documenti in cuneiforme e τοˋ βασιλειˊον (residenza reale) in quelli in greco. 10 Dal 1927 al 1937 si sono succedute le spedizioni dell’Università del Michigan. Dal 1963 al 1989 le ricerche sono state intraprese dal Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. 11 L’interpretazione sacrale dei due edifici scavati dalle missioni americane e indicati come Tempio A e Tempio B non è soddisfacente; più di recente per il Tempio A è stata suggerita una lettura come ginnasio (Invernizzi 1994). 12 È quanto emerge dagli scavi americani di un intero isolato di abitazioni al centro della città: i livelli delle strutture vanno dal periodo seleucide (un solo livello poco noto) al II secolo d.C. (tre livelli partici). 13 In periodo partico avanzato, il tempio di Gareus (II secolo d.C.) è un evidente esempio dell’adozione di forme occidentali per la decorazione di un edificio il cui impianto conserva però ancora stretti legami con la tradizione orientale. Bibliografia La bibliografia su Alessandro Magno e l’Ellenismo è ovviamente molto ampia; forniamo pertanto una ristretta selezione

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IL PERIODO ISLAMICO

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Susah; Jawad 1958. Creswell 1966: 187. 14 Creswell 1966: 184-205. 15 Scarcia 2004: 22. 16 Strika; Khalil 1987: 49-50. 17 Baghdad, Museo Nazionale. 18 Khunel 1933. 19 Bell 1914. 20 Creswell 1966: 226-229. 21 Herzfeld 1911-20; Northedge 2006. 22 Northedge 1993: 143-170. 23 Gobolot 1979. 24 Hamilton; Grabar 1959. 25 Musil 1907; Grabar 1954; Almagro 1975. 26 Northedge 1993: 148. 27 Sempre nell’ambito delle straordinarie estensioni di Samarra; la struttura misura, infatti, 60 x 54 metri. 28 Questa pista non è l’unica di Samarra, essendone state individuate altre due, la più originale delle quali è un circuito a quadrifoglio ancora ben visibile dall’alto minareto della Grande Moschea. Questo percorso che parte dal Palazzo si divarica come una V ai cui vertici vi è una variante a S per poi avere due lunghi (2200 metri) tratti paralleli prima della grande curva estrema. La larghezza del sentiero tracciato per la pista era di 80 metri e lunghezza totale di 10.420 metri; Northedge 1990, pp. 31-56. 29 La mihna (“inquisizione”) propugna l’idea del Corano come creato, con la conseguenza di un ruolo attivo del califfo nella diffusione dell’Islam, mentre il suo abbandono ha per conseguenza il rimettere l’elaborazione teologica agli ‘ulama, i dotti o studiosi dei fatti religiosi. 30 Una delle quattro scuole canoniche islamiche, le altre essendo la hanafita (fondata da Abu Hanifa al-Nu‘man, 699-767), la malikita (seguaci di Malik b. Anas, 710796), la shafi‘ita (si ispira all’opera di Abu ‘Abd Allah Muhammad al-Shafi‘i, 767820). 31 Marcais 1954. 32 Esempio molto evidente in al-Hakim (990-1003); Behrens-Abouseif 1989, pp. 63-65. 33 Northedge 1991: 74-93, n. 8. 34 Herzfeld 1948: 133. 35 Si tratta di un importante sito sulla riva sinistra del Tigri, caratterizzato da un palazzo costruito alla sommità di una collina. Gli scavi – condotti da archeologi iracheni negli anni ’70 e agli inizi degli ’80 [Hamid 1974, pp. 183-194] – hanno evidenziato varie fasi di occupazione, molto più longeve rispetto alle ipotesi iniziali che datavano la costruzione all’878/82 e 13

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Reuther 1933; Basmachi 1964. Rice 1934: 51-73. 3 Quella dei Kharijiti (al-Khawariji) può considerarsi la prima setta nata nel mondo musulmano. I suoi membri rifiutarono sia una scelta sia una mediazione e si “separarono” dopo la battaglia di Siffin (657) fra ‘Ali e Mu‘awiyya, di fatto favorendo quest’ultimo. Ebbero un ruolo importante anche nell’ascesa della dinastia Abbaside e spesso furono protagonisti di rivolte che portarono alla conquista, sempre temporanea, di intere regioni. Dal punto di vista dottrinario furono assai intransigenti e si posero diverse questioni relative alla legittimità del califfato. Sul periodo storico si veda: Cahen 1969. Un ottimo manuale di islamistica è Pareja 1951. 4 Il termine Scia (Shi‘a) letteralmente significa “partito”, sottinteso “di ‘Ali” (shi‘at ‘Ali) e ha origine dalla pretesa successione a Maometto del suo cugino e genero, appunto ‘Ali. Successivamente gli Sciiti si sono divisi in numerosi gruppi fra cui gli Imamiti (Sciiti duodecimani) e gli Ismailiti (Sciiti settimini) sono i più noti. Per una panoramica anche dottrinaria: Scarcia Amoretti 1994. 5 Imam nell’Islam ha una doppia accezione. Imam è colui che guida la comunità nella preghiera (salat). Per gli Sciiti vi è il concetto della manifestazione del divino nell’uomo, appunto attraverso l’Imam voluto da Dio quale portatore di essenza divina e leader della salvazione. Con l’occultamento del dodicesimo Imam, Muhammad al-Mahdi (avvenuto a Samarra nell’874) si sviluppò anche la dottrina del Mahdi, “colui che è giusto e ben guidato”, la cui attesa ha aspetti medianici. 6 Qibla è in arabo la direzione della Ka‘ba alla Mecca, verso cui devono rivolgersi i musulmani durante la preghiera che altrimenti viene invalidata. 7 Creswell 1966: 21-23. 8 “A Qasvin la prima moschea del Venerdì, costruita da Muhammad, figlio di Hajjaj (morto nel 760), era nota come la ‘moschea del Toro’. Il che fa ancora una volta supporre l’esistenza di antiche colonne persiane, e perfino l’eventuale adattamento di un’apadana”; Creswell 1966, p. 18. 9 Per esempio, nella Moschea del Venerdì di Isfahan nel periodo Abbaside: Curatola 2004, p. 140. 10 Mustafa 1963: 36-65. 11 Safar 1945. 2

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il suo abbandono pochi anni dopo, con ritrovamenti che si spingono fino all’epoca ottomana. 36 Northedge 1991: n. 3. 37 Herzfeld 1923. 38 Creswell 1966: 319-321. 39 Hamilton; Grabar 1959. 40 Herzfeld 1923; Ettinghausen 1952: 7283; Hamid 1966: 83-99. 41 Behrens-Abouseif 1989: 51-57, in particolare 56-57. 42 Fontana 2002: 28, tav. V. 43 Sarre 1925. 44 Miles 1954: 187-191. 45 Si veda: DGA 1940; della complessità della situazione è testimonianza il recente Falkner. 46 Già Museum für Islamische Kunst, n. Bab. 2969. 47 Museum of Fine Arts, n. 35.858. 48 Già Museum für Islamische Kunst, n. Sam. 1102. 49 Atabeg letteralmente significa “padre del principe” ed è usato col senso di “tutore”, “governatore”; questi infatti in origine erano attendenti dei principi Selgiuchidi che si resero rapidamente autonomi fondando un governo ereditario a tutti gli effetti dinastico. 50 Le successive fasi storiche videro il predominio delle dinastie delle confederazioni tribali turcmene dei Qara Qoyunlu (“Quelli del Montone Nero”) 1411-1468 e degli Aq Qoyunlu (“Quelli del Montone Bianco”) fino al 1508. Dopo questa fase si alterneranno il dominio dei persiani Safavidi e dei turchi Ottomani, con diverse fortune: Shah ‘Abbas il Grande regnerà anche su Baghdad fra il 1622-1638, poi il potere sarà esercitato in varie forme dagli Ottomani fino al 1917. Sulla storia, anche recente, dell’Iraq si veda: Carretto, Corm, Crespi, Forest, Forest, Ries 2003. 51 Strika; Khalil 1987: 18-22. 52 Herzfeld 1942: 11. 53 Strika; Khalil 1987: 51-53. 54 Hadithi 1972: 121-127; Janabi 1982: 96-105. 55 Minareto della moschea al-Khaffafin, ante 1202 [Janabi 1982, pp. 61-65]; minareto della moschea Qumriyya, 1228 [Janabi 1982, pp. 65-68]. 56 DGA 1935; Herzfeld 1942: 27-29; DGA 1943. 57 Sarkis 1930: 563-571; Jawad 1945: 61104. 58 Ma‘ruf 1961: 23-30. 59 Janabi 1982: 73-76. 60 Janabi 1982: 91-96. 61 Janabi 1982: 113-140, 140-146.

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Strika; Khalil 1987: 3-13. Curatola 1986: 15-26. 64 Janabi 1982: 249-250. 65 Janabi 1982: 251. 66 Janabi 1982: 251-254. 67 Baghdad, Museo Nazionale, inv. n. A623. 68 Baghdad, Museo Nazionale. 69 Baghdad, Museo Nazionale, inv. n. A7209. 70 Inv. n. OA 1866.12-29.61. Cfr. Ward 1993, p. 80, figg. 59-60. 71 Curatola 2002: 121. 72 Grube 1991. 73 Safadi 1978: 17. 74 Martin 1983: 68-69. 75 Oxford, Bodleian Library, ms. Marsh 144; Wellesz 1959. 76 Ms. arabo 2954. 77 Bib. Topkapi Sarayi, ms. Ahmet III, 2127, fols. 2r-1v, Mosul 1228; Fontana 1998, p. 48, figg. 8-9. 78 Curatola 1993: 34. 79 Bibliothèque Nationale, ms. arabe 2964, p. 37; Fares 1953. 80 Ms. arabe 6094. 81 Inv. C-23. 63

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Indice dei luoghi e dei monumenti Abbas el-Kurdi, 67 Abu Qubur, 10, 118, 141 Adab, 16 Akkad, 51, 58 Aleppo, 179 Alessandria d’Egitto, 101, 103, 116, 137, 150 Altopiano iranico, 112, 115, 146 Anat, 86 Anatolia, 19, 33, 200, 208 Antiochia, 137, 140 Aqar Quf / Dûr Kurigalzu, 209, 210 Ziggurat 9, 72, 73, 210 Arabia, 147, 179 Asia, 103, 218 A. centrale, 111, 114, 115, 116 A. minore, 98 Assiria, 19, 78, 85 Assur, 9, 10, 76, 77, 78, 80, 118, 119,

120, 121, 124, 128, 129, 130, 138, 141, 209, 211 Palazzo partico, 118, 120, 211 Ivan ovest, 119 Tempio A, 119 Tempio di Anu ed Adad, 77 Tempio di Ishtar, 77, 211 Tempio di Nabû e Ishtar, 211 Tempio partico, 119 Tempio ‘Periptero’, 120 Ziggurat, 78 Babilonia, 9, 18, 65, 72, 76, 91, 92, 93, 96, 99, 100, 102, 104, 106, 110, 113, 114, 115, 142, 177, 209, 212-217 Giardini pensili, 93, 217 Palazzo sud (di Nabucodonosor II), 93, 101, 215, 216, 217 Sala del trono, 93, 96 Porta di Ishtar, 92, 93, 213, 214

Quartiere Merkes, 102 Regione di, 78, 114 Teatro greco, 101, 102, 217 Tempio di Gula, 93 Tempio di Ishtar d’Akkad, 93, 214, 215 Tempio di Marduk / Esagila, 93, 101, 102, 212, 213 Tempio di Nabû-shaharê, 93 Tempio di Ninmah, 93, 213, 215 Tempio di Ninurta, 93 Ziggurat / Etemenanki / Torre di Babele, 92, 93, 96, 101, 102, 212, 213 Badtibira, 16 Baghdad, 10, 11, 35, 37, 72, 115, 116, 152, 154, 156, 163, 176, 178, 179, 183, 184, 194, 195, 202, 206, 208, 209, 218-225 Bab al-Wastani, 222 Bayt al-Hikma, 206

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Madrasa al-Mirjan, 188, 192, 221 Madrasa al-Mustansiriyya, 187, 188, 192, 224 Mausoleo di ‘Omar al-Suhrawardi, 11, 178, 180, 219 Mausoleo di Zumurrud Khatun, 11, 179, 180 Minareto di Suq al-Ghazl / al-Khulafa, 188, 192 Moschea di al-‘Aquliyya, 198, 199 Moschea Kazhimiyya, 192, 193, 224 Moschea di al-Mansur, 154 Mihrab, 156 Khan al-Mirjan, 166, 188, 192 Palazzo Abbaside, 166, 182, 183, 184, 185, 222 Porta del Talismano, 222 Balawat, 90 Palazzo di Salmanassar III, 90, 249 Tempio, 90 Basra, 11, 150, 151 Mausoleo di Hassan al-Basri, 178, 183 Moschea, 152 Palazzo del Governo / Dar al-Imara, 152 Battriana, 100 Borsippa, 9, 110 Ezida di Nabû, 110 Cairo, 150, 170 Moschea di Ibn Tulun, 174 Nilometro, 206 Canale Reale, fiume artificiale, 103 Çatal Hüyük, 24 Cina, 10, 115, 184 Cipro, 98 Cordova, 154 Costantinopoli, 137 Ctesifonte, 10, 115, 116, 133, 137, 139, 140, 142, 143, 144, 147, 153, 209, 226, 227 Palazzo bianco, 116 Moschea, 149 Taq-i Kisra (Palazzo di Cosroe I), 10, 137, 139, 140, 141, 144, 146, 226, 227 Damasco, 137, 150, 151 Ospedale al-Nuri, 183 Dastadjerd, 140 Dhu’l-Kifl, 183 Diyala, fiume e regione, 8, 37, 50, 65, 68 Dûr Kurigalzu, v. Aqar Quf Dûr Sharrukîn, v. Khorsabad Dura Europos, 9, 10, 111, 112, 113, 131, 132, 133, 134, 136, 138 Pitture del Mitreo, 136, 137 Pitture del Tempio degli Dèi Palmireni, 137 Pitture della Casa Cristiana, 137 Pitture della Sinagoga, 136, 137 Tempio di Artemide, 112 Tempio di Zeus Megistos, 112

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Ebla, 9, 19 Ecbatana, 116, 156 Egitto, 19, 33, 150, 154, 178, 180, 200 Ekallâtum, 65 Elam, 87 Elimaide, 133 Erech, v. Uruk Eridu (Tell Abu Shahrein), 8, 16, 20, 34, 35, 37, 209, 228 Palazzo del Dinastico Arcaico, 228 Ziggurat, 34 Eshnunna, v. Tell Asmar Estremo oriente, 111, 115, 139, 147 Fars, 137, 138 Firuzabad, 156, 218 Fustat, 150 Gaugamela, 96, 100 Gebel el-Arak, 33 Gerico, 166 Gerusalemme, 91, 137, 150, 151 Qubbat al-Sahra (Cupola della Roccia), 172 Girsu, v. Tello Grecia, 97 Hajiabad, 146 Harran, 153, 206 Hatra, 10, 118, 119, 120, 121, 124, 125, 126, 128, 129, 130, 131, 132, 134, 135, 136, 137, 138, 141, 156, 209, 218, 229-232 Temenos, 121, 124, 125, 126, 130, 229, 230, 231 Grandi Ivan, 125, 126, 127, 128, 129, 230 Tempio di Allat, 127, 128, 132, 133 Tempio di Maran, 121, 124, 126, 129 Tempio di Shahiru, 124, 129 Tempio della Triade, 130 Edificio A, 130 el-Hibba, v. Lagash Hijaz, 147 Hilla, 183 Hindukush, monti, 98 Hira, 147, 150, 152, 207, 227 Ikaros-Failaka, 111 Tempio A, 111 Ilio (Troia), 113 India, 10, 97, 100, 110, 111 Indo, fiume, 101 Ionia, 98, 99 Iran, 115, 118, 133, 142, 146, 183, 200, 218 Ircania, 115 Isin / Ishan Bahriyat, 65, 209, 233 Dinastia, 19 Tempio di Gula, 233 Israele, 90 Jazira, 121, 208, 246 Ka’ba-i Zardusht, 137

Kairouan, 170 Kalhu, v. Nimrud Kar Tukulti-Ninurta, 78 Karana, v. Tell el-Rimah Karbala, 151, 193, 209, 234 Khafaja, 37, 50, 209, 235 Khirbat al-Mafjar, 166 Khorsabad / Dûr Sharrukîn, 9, 78, 86, 209, 236, 237 Cittadella, 80 Palazzo K, 89, 237 Palazzo reale di Sargon II, 78, 80, 84, 86, 236 Tempio di Nabû, 80, 237 Templi di Sin, Shamash e Ningal, 80, 90 Kish, 8, 16, 28, 34, 35, 142, 209, 238 Palazzo A, 35, 238 Palazzo P, 35, 238 Palazzo n.1, 142, 146 Palazzo n.2, 146 Kufa, 150, 151, 156, 157, 209, 239-240, 246 Dar al-Imara, 11, 153, 239 Moschea, 152, 153, 239 Kuyunjik, 113 Lagash / el-Hibba, 8, 16, 37, 40, 41, 43, 52, 57, 58, 86, 241 Larsa / Tell Senkereh, 16, 65, 66, 67, 69, 72, 209 E.Babbar / Tempio di Shamash, 66, 68, 241 Palazzo di Nur-Adad, 65, 66, 241 Ziggurat, 66, 241 Levante, 15, 33 Libano, 33 Lidia, 99 al-Madain, 140 Magan, 51 Mari / Tell Hariri, 8, 9, 19, 34, 44, 50, 65, 67, 72, 209, 242 Palazzo di Zimrilim, 65, 68, 242 Tempio di Ishtar, 44 Tempio di Ninni Zaza, 44 Marocco, 180 Mecca, 180 Medina, 151 Medio Oriente, 199 Mediterraneo, 10, 78, 98, 99, 110, 111, 112, 114, 116 Mosul, 84, 86, 179, 193, 194, 195, 199, 200, 202, 208, 209, 243-246 Chiesa di S. Giorgio, 246 Mausoleo dell’Imam ‘Abd al-Rahman, 194, 198 Mausoleo dell’Imam Bahir, 195 Moschea di al-‘Amadiyya, 198 Moschea di al-Juwaishi, 194, 198 Moschea di Nur al-Din, 194, 195, 198, 243, 244

Tomba dell’Imam Yahya ibn al-Qasim, 194, 195 Mshatta, 153, 163 Nahrawan, canale d’irrigazione, 171 Najaf, 150, 151, 183, 193, 209, 246, 247 Tomba di ‘Ali, 246 Neribtum v. Tell Ischali Nihavand, 150 Nimrud / Kalhu, 9, 78, 80, 85, 86, 89, 90, 112, 209, 248, 249 Palazzo di Assurnasirpal II, 82, 84, 85 Sala del trono, 78, 85 Tempio di Ishtar, 91 Tempio di Nabû, 249 Ningirsu Tempio, 58 Ninive, 9, 19, 51, 78, 80, 82, 87, 88, 93, 112, 136, 209, 250, 251 Palazzo di Assurbanipal, 80, 87, 89 Palazzo di Sennacherib, 78, 84, 250 Tell di Nabi Yunus, 251 Tell di Quyundjik, 250 Tempio di Nabû, 112 Nippur, 9, 10, 16, 62, 110, 117, 141, 209, 251 Palazzo, 110 Ziggurat di Enlil, 118, 251 Nisa, 9, 116 Nisibi, 138 Obeid / Tell el-‘Ubaid, 8, 15, 16, 19, 22, 36, 37, 38, 260 Occidente, 98, 99, 110, 115, 138, 139, 142, 149, 152, 153, 154 Oman, 51 Opis, v. Seleucia Oriente, 97, 98, 99, 110, 114, 116, 142, 149, 154, 156, 175, 200 Palmira, 111, 116, 135, 136 Parigi, 176 Parthia, 115 Persepoli, 99 Persia, 153, 208 Persico, golfo 14, 99, 110, 111, 112, 147 Qadisiyya, 147 Qaleh-i Yezdegerd, 146 Qasr al-Hayr, 153 Qusayr ‘Amra, 166 Raqqa, 171 Rayy, 208 Roma, 116 Samarra, 11, 163, 164, 168, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 180, 184, 187, 206, 209, 252-257 Balkuwara, 172, 177, 256 Grande Moschea di al-Mutawakkil, 164, 167, 252, 254 Minareto, 167, 168 Mihrab, 167 Ziyada, 167

Harem, 166, 175, 177 Jawsaq al-Khaqani / Dar al-Khilafa, 164, 172, 175, 176, 256 Bab al-‘Amma, 164 Maydan, 166 Moschea di Abu Dulaf, 168, 170, 171, 255 Minareto, 168 Husn al-Qadisiyya, 171 Imam Dur, 178 al-Istabulat / Palazzo di al-‘Arus, 172 Mausoleo di Hassan al-Askari, 195 Palazzo di al-Ashiq, 170, 172, 176 Quartiere di Ja‘fariyya, 168, 206 Quartiere residenziale, 172, 173 Qubbat al-Sulabiyya, 172 Rundsaal, 166 Serdab, 166 Scherua, 120 Seleucia / Opis, 9, 10, 99, 102, 103, 105, 106, 109, 110, 114, 115, 116, 118, 131, 132, 139, 140, 147, 209, 258-259 Archivi, 104, 105, 258, 259 Palazzo partico, 116 Tell ‘Umar, 9, 103, 104, 105, 258 Teatro, 105 Tempio, 104 Shubat-Enlil, v. Tell Leilan Shuruppak, 16 Sinjar, 195 Sippar, 69 Siria, 14, 19, 33, 43, 89, 111, 115, 118, 137, 150, 151, 171, 183, 200, 208 Spagna, 154 Spasinou Charax, 111 Susa, 28, 51, 52, 62, 69, 72, 76, 99 Tomba di Daniele, 183 Susiana, 19 Takht-i Sulayman, 156, 218 Taq-i Bustan, 142 Tauro, montagne, 15 Tehran, 208 Tell Agrab, 8, 34, 35, 37 Tell Asmar / Eshnunna, 44, 50 Tell Baruda, 145 Tell Ischali / Neribtum, 68, 209, 248 Complesso cultuale, 68 Santuario di Ishtar Kititum, 68, 248 Tell Leilan / Shubat-Enlil, 69, 260 Tempio di Ninhursag, 260 Tell el-Rimah / Karana, 69 Tell ‘Ubaid, v. Obeid Tell ‘Umar, v. Seleucia Tell Uqayr, 20, 209, 261 Tello / Girsu, 8, 16, 37, 38, 42, 50, 52, 58, 62, 209, 261 Tempio di Ningirsu, 261 Tikrit, 179 Til Barsip Palazzo, 89

Ukhaydir, 11, 157, 161, 162, 163, 209, 262-265 Ulai, fiume, 87 Umm al-Aqarib, 41 Umma, 16, 40, 41, 86 Ur / Tell Muqayyar, 9, 15, 16, 18, 36, 40, 42, 43, 44, 59, 62, 86, 110, 209, 266-267 Cimitero reale, 45, 50 Corte di Nanna, 62 Edublalmah / Porta monumentale, 62, 266 Enunmah, 62, 266 Giparu Santuario di Ningal, 62, 266 Tempio Ehursag, 62, 266 Ziggurat di Ur-Nammu, 58, 62, 64, 266, 267 Uruk / Erech / Warka, 8, 9, 10, 15, 16, 19, 20, 21, 22,23, 24, 26, 28, 32, 33, 43, 62, 99, 107, 109, 110, 113, 114, 117, 209, 268-270 Bit Akitu, 109 Eanna / “Palazzo celeste”, 21, 32, 109, 269 Frehat en-Nufeji, 109 Palazzo di Sin-Kashid, 65 Pfeilerhalle, 22 Riemchengebäude, 22, 23, 269 Steingebäude, 21, 23 Tempio Bianco, 19, 20, 270 Tempio C, 21 Tempio D, 21 Tempio di Bit Resh, 109, 110 Tempio di Gareus, 9, 117 Tempio di Irigal, 109 Tempio di Ishtar, 72, 73 Ziggurat di Anu, 19, 20, 21, 23, 59, 269, 270 Veh-Ardashir, 140, 145 Tempio del fuoco, 146 Qasr Bint al-Qadi, chiesa, 147, 226, 227 Vologesia, 9, 115, 116 Warka, v. Uruk Wasit, 153, 209, 271, 272 Madrasa al-Sharabiyya, 271 Moschea, 154 Palazzo del Governatore / Dar alImara, 154 Yemen, 147, 180 Zabalam, 16 Zagros, monti, 14, 15, 18, 72

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Crediti fotografici Colore Akg-images/Gerard Degeorge: 118; Alistair Northedge, Parigi: 139, 140, 141, 144, 145, 146; Angelo Stabin, Milano: 79; Archivio Centro Scavi, Torino: 85, 86-88, 89, 90, 92, 93, 95, 110; Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze, su concessione del Ministero dei Beni Culturali: 188; Biblioteca Universitaria, Bologna, su concessione: 189; Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlino 12a, 59, 62, 73, 75, 78, 81, 94, 122; Carabinieri, Nucleo del Patrimonio Artistico: 16, 25, 27, 44, 50, 51; Corbis-©Michael S. Yamashita: 45; Foto Ciol, Casarsa: 133, 135, 136, 137; Giovanni Curatola, Venezia: 132, 149, 150, 155, 156, 159, 161, 164, 166, 171, 172, 174, 175, 180, 181, 182, 183; Archivio Giovanni Curatola, con la collaborazione del Museo Nazionale dell’Iraq, Baghdad: 113, 114, 129, 130, 131, 142, 147, 148; Isber Melhem, Beirut: 117; Jaca Book/Sartec: 9, 10, 11, 17, 32, 33, 58, 143, 162, 163, 165, 168, 169, 176, 178; Jean-Daniel Forest, Parigi: 6, 8; Max Mandel, Milano: 7, 18, 34, 35, 47, 63, 64, 65, 66, 103, 106, 107, 111, 112, 119, 134, 167, 170, 173; Missione Archeologica Francese a Dura, Archivio P. Leriche: 97; Nicolò Orsi Battaglini, Firenze: 184; RMN: 24; RMN-Arnaudet, J. Scho: 60; RMNJean-Gilles Berizzi: 67; RMN-P. Bernard: 30; RMN-Chuzeville: 52, 68; RMN-C. Jean: 31a; RMN-Ch. Larrieu 56; RMN-H. Lewandowski: 39, 53, 54, 70, 71; RMN-©Franck Raux: 40a, 55; Roberta Venco Ricciardi, Torino: 99, 100, 102, 104, 105, 108, 109, 127, 128; Scala, Firenze: 14, 37, 138; Scala, Firenze, ©The Iraqi Museum: 80, 96, 115, 116; The British Museum: 20, 28, 29, 69, 72, 76, 185; Werner Forman Archives/Scala, Firenze: 77; Yale Babylonian Collection, New Haven: 12b, 12d; Yale University Art Gallery: 98; Yasser Tabaa: 157, 158, 160, 177, 179; Wetzel F., Schmidt E., Mallwitz A., Das Babylon der Spätzeit, Wissenschaftliche Veröffentlichung der Deutschen Orient-Gesellschaft, 62, VIII, Berlino 1957, t. 22a: 84 Bianco e nero Le foto d’epoca di scavi, siti e monumenti fanno parte dell’Archivio Giovanni Curatola, con la collaborazione del Museo Nazionale dell’Iraq di Baghdad, con l’eccezione di: pp. 229, 2; 230, 4; 231, 7 messe a disposizione da Roberta Venco Ricciardi; p. 260, 1; 267, 5 e 6 messe a disposizione da Jean-Daniel Forest. Inoltre si sono utilizzate le seguenti immagini: Archivio del Centro Scavi di Torino: p. 259, 5 e 6; Giovanni Curatola: p. 219, 6-8; 220, 10-13; 222, 19, 21-23; 223, 24, 25, 27, 28; 224, 29, 31-33; 225, 37-39; Max Mandel, Milano: p. 226, 3; 238, 1; Roberta Venco Ricciardi, Torino: p. 226, 4; 232, 9 e 10; 232, 15; Suire: p. 217, 17. Piante, rilievi e ricostruzioni sono state messe a disposizione dai diversi autori La pianta di p. 217, 20 è un’elaborazione dell’arch. C. Fossati. Le carte delle pagine 15, 99 e 209 sono state realizzate dalla Linotipia Jo.type, Pero (Milano)


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