Ronchamp
Maria Antonietta CRippa/FranÇoise caussé
L e
C o r b u s i e r
Ronchamp La cappella di Notre-Dame du Haut
indice InternatiInternational Copyright © 2014 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Per tutte le opere di Le Corbusier riprodotte in questo volume © Fondation Le Corbusier, by SIAE 2014 © FLC e Association de Notre Dame du Haut, by SIAE 2014
Prima edizione italiana settembre 2014
La traduzione dal francese del testo di Françoise Caussé è di Alberto Bacchetta Redazione Elisabetta Gioanola Copertina e grafica Break Point/Jaca Book
Selezione delle immagini Pixel Studio, Milano Stampa e confezione Gráficas Estella S.L., Navarra, Spagna luglio 2014
ISBN 978-88-16-60502-2 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a: Editoriale Jaca Book SpA – Servizio Lettori Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02-48.56.15.20, fax 02-48.19.33.61 e-mail: libreria@jacabook.it; internet: www.jacabook.it
9 Profilo della lettura storico-critica Maria Antonietta Crippa 17 Il progetto, la genesi, i committenti Françoise Caussé 41 La ricerca paziente Maria Antonietta Crippa 61 Spazio, forme, colori nella luce Maria Antonietta Crippa 201 Ronchamp crocevia della modernità Maria Antonietta Crippa 215 Ronchamp e il sacro oggi Maria Antonietta Crippa 227 Apparati Note Bibliografia orientativa Indice dei nomi e dei luoghi
A fronte: La punta alta della cappella orientata verso Gerusalemme nel vivace contrasto tra sottile spessore murario e plastico modellato dello scuro cemento armato a vista della copertura.
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Profilo della lettura storico-critica
Terminale della cappella maggiore a periscopio, sovrastato dalla croce.
Il progetto di Le Corbusier per il sito di Ronchamp con la celebre cappella è stato, a metà del xx secolo, causa di grande e generale sconcerto sia rispetto alla poetica del suo autore, ritenuto fino a quel momento protagonista di un razionalismo cartesiano per molti aspetti autoritario, sia per la sua immagine complessiva nella quale la critica, d’arte e d’architettura, non ritrovò le tradizionali coordinate spaziali e figurative di luogo, a destinazione devozionale e liturgica, denominato sacro. Le Corbusier, che ne identificò l’interno come ronde-bosse en creux, vale a dire modellato scultoreo a tutto tondo ottenuto per scavo, non diede mai le ragioni di un esito che si nutriva della lunga accumulazione di esperienze storiche, soprattutto di matrice mediterranea; di quotidiano esercizio artistico ‘segreto’, nella pratica di pittura ma anche di scultura; di una matura sintesi che preannunciava le suggestive invenzioni simboliche, come la mano aperta, la torre d’ombre, i palazzi pubblici di Chandigarh. Segnalò però subito lo stretto rapporto con la committenza, che lo stimolò a fondo, con coloro che lo invitarono e lo convinsero ad affrontare un compito al quale dapprima si era opposto perché non conosceva il mondo, di valori e di fede, cui avrebbe dovuto far spazio nel proprio progetto. Oggi come allora, tuttavia, critici e storici trascurano identificazione e ruolo svolto dai committenti1, oltre che i termini della vitalità, liturgica e devozionale, che essi ambivano a promuovere sulla collina di Ronchamp, luogo di antichi culti pagani dapprima e cristiani poi, perché parte essenziale della propria identità e cultura. Sede di cappella dedicata alla Natività della Vergine Maria nel iv secolo, poi parrocchiale per il borgo omonimo e per altri piccoli insediamenti a valle, in seguito alla costruzione nel xviii secolo di una nuova chiesa parrocchiale con la stessa dedicazione, essa, più volte rifatta, divenne infine meta di pellegrinaggio localmente molto sentito, col nome di Chapelle Notre-Dame du Haut. Ridotta, come tutto il patrimonio ecclesiastico francese, a bene nazionale al tempo della rivoluzione, nel 1799 venne acquistata dalla parrocchia di Ronchamp con il terreno di pertinenza e mantenuta nella destinazione ormai millenaria, ma come bene privato. Quando essa venne colpita da incendio nel 1913 e da bombardamenti angloamericani nel 1944, si impose la necessità di optare tra il recupero dell’esistente ottocentesco o la realizzazione di una nuova costruzione. I membri della Commissione per l’arte sacra della Diocesi di Besançon dalla quale Ronchamp dipendeva formalmente si orientarono per la seconda soluzione e proposero, come progettista, Le Corbusier. A lui si rivolsero perché lo ritenevano l’architetto di maggior valore del momento, l’unico in grado di essere artista in senso pieno. La scelta ne manifestò la sintonia con le preoccupazioni dei padri domenicani Marie-Alain Couturier e Pie-Raymond Régamey, allora direttori della celebre e vivace rivista L’Art Sacré, impegnata a coinvolgere concretamente, nell’orizzonte dell’arte moderna, i contesti istituzionali cattolici per spezzarvi la spirale di tradizionalismo e di povertà di bellezza imperanti. La costante sottovalutazione del dato di fatto, di enorme rilievo, di una committenza motivata non solo sul piano della coerenza dei programmi liturgici e devozionali, ma anche su quello dell’aspirazione a realizzare un’opera d’arte autentica, non ha reso finora piena giustizia né all’intelligenza profetica delle personalità coinvolte né al genio e all’autenticità umana di Le Corbusier, il quale, deceduto nel 1965, ormai dunque da mezzo secolo – era nato nel 1887 –, resta una delle figure emblematiche più ricche e complesse, per questo ancora da esplorare, del nostro tempo. Si è pertanto consolidata, nel tempo, un’interpretazione esclusivamente volta a identi9
Vetro trasparente con scritta a mano.
ficare le ragioni dell’invenzione di una chiesa cattolica da parte di un genio, agnostico e di formazione calvinista, che sconvolgeva, in modi avvertiti da molti senza ritorno, orientamenti quasi bimillenari. Il progetto fu ammirato, detestato, temuto, senza riserve in ogni caso. Le sue forme apparvero a molti fini a se stesse, solo estetiche ed emozionali, persino del tutto gratuite, per alcuni prive di un ben identificato senso dell’esistenza e del destino degli uomini, proprio del suo progettista, abilissimo giocoliere, per altri cariche di una sacralità senza res specifica. Orientamenti di rottura con tradizioni consolidate erano emersi, in progetti di chiese cattoliche e protestanti, già negli anni tra le due guerre mondiali, ma secondo modalità ove era prevalente una estrema semplificazione e spogliazione di ornamenti, non in una cappella, concepita per celebrazioni anche all’aperto, dal carattere plastico, portatore di un forte impatto psichico, come nel progetto corbusiano. Dopo le fiammate iniziali di un dibattito infuocato, anche per il rapido sopravvenire delle imponenti realizzazioni di Chandigarh che confermavano il metodo progettuale attuato dall’architetto a Ronchamp, critici e storici si trovarono a dover affrontare la comprensione della sorprendente stagione matura del maestro, per molti inaspettata. Sembrava infatti che Le Corbusier, allontanandosi dalle battaglie che lo avevano occupato a lungo per l’affermazione di grandi insediamenti umani di nuova concezione, volgesse ora la propria ricerca a fare di ogni sua architettura opera d’arte integrale e luogo di sintesi delle arti, senza altre sostanziali preoccupazioni che quella di produrre potenti forme simboliche, nelle quali compattare e trasfigurare, in modi diversi di volta in volta: aspirazioni di giustizia; poetiche metamorfosi di forme naturali, assunte come objets trouvés o colte nei paesaggi, i più vari del mondo da lui visitato; memorie di componenti architettoniche folgoranti, accumulate nei propri viaggi di formazione giovanile o della maturità. Tutto nel suo progetto diventava fusione di prestiti diversi, sintesi trasfigurante e quasi alchemica, commovente per la sua bellezza ma criptica; in poche parole, grandiosa ma incomprensibile, soprattutto inattuale nella dura stagione della ricostruzione postbellica sfociata nella complicata fase della guerra fredda. L’ossessione corbusiana di tutta una vita, per l’armonia dell’habitat a ogni scala, aveva fatto gridare a Francastel: «Nel mondo sognato da Le Corbusier, gioia e proprietà (proprété, non propriété) saranno obbligato10
rie – senza parlare del resto. Ma Le Corbusier si rende conto che anche a Buchenwald si entrava al suono di violini?»2. Ambiguità di comportamento e sbandamenti ideologici dell’architetto, soprattutto negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, sono stati studiati in modo approfondito3. Ancora da comprendere a fondo è invece se il percorso di ricerca dell’ultima fase in opere d’arte aperte a significati religiosi e a rappresentare un’universale solidarietà umana, nell’aspirazione alla pace e alla riconciliazione tra uomo e natura, abbia contenuto in sé un cosciente primato del simbolico – anche questa, del resto, era stata un’ossessione del giovane Janneret4 –, segno di una speranza, incerta e baluginante, ma comunque attiva. Solo gradualmente negli ultimi decenni, in un processo interpretativo tuttora aperto, si sono messi in evidenza i tratti pensosi di una coscienza, insieme primordiale e colta, quella di Le Corbusier e, al contempo, quella dell’uomo tout court di cui si fece interprete, che scopriva il dramma al quale era esposta l’esistenza degli uomini sulla terra, nell’arco teso per ognuno tra vita e morte, e sondava la possibilità di esprimerlo attraverso l’arte. In Ronchamp tale dramma centrato sul senso religioso contemporaneamente esplorato nella raccolta di litografie denominata Poème de l’angle droit, di cui si parla qui più avanti, ebbe la possibilità di una straordinaria contiguità con il dramma di Gesù Cristo, come il disegno di Le Corbusier della processione preceduta dalla croce portata a spalle, nello spazio antistante la cappella di Ronchamp, mette in evidenza5. Due sono stati i temi cristiani incontrati ed esplicitamente accolti, persino amati dall’architetto in questo progetto: la croce di Cristo, detta ‘il testimone’, e la maternità della Vergine Maria, celebrata nelle invocazioni scritte sulle vetrate del mur lumière a sud e in quello a nord, nella parete stellata sul fondo del presbiterio, nella sinuosità delle forme della cappella. Rigoroso è l’ordinamento liturgico interno, rispondente ai criteri dell’aggiornamento già allora in corso. In una delle ultime interviste rilasciate, alla domanda sul senso di Ronchamp, Le Corbusier rispose: «Non sono affatto un pagano. Ronchamp è la risposta al desiderio che talvolta si ha di uscire fuori da sé e cercare il contatto con lo sconosciuto»6. Non è mia intenzione attribuire a Le Corbusier esperienze religiose non documentate in modo sufficiente, tuttavia le sue parole segnalano un’attenzione vera per l’ignoto, «che è la regione della fede»7. Ai contenuti di questa fede egli si è rivolto con atteggiamento che testimonia non solo rispetto ma anche ricerca di profonda comprensione, e pertanto disponibilità al servizio, da architetto ovviamente. L’intenzione storiografica delle autrici di questo libro è quella di rintracciare, dopo i molti e preziosi studi prodotti fino a tempi recentissimi su Ronchamp e su Le Corbusier, il nocciolo originario o senso primigenio del progetto di questo sito – collina, cappella e case, per i pellegrini e per il cappellano, fusi in un unitario sistema architettonico, artistico e paesaggistico – che ha rinnovato e consolidato l’antica vocazione del luogo come meta di pellegrinaggio mariano, nell’attivo concorso del talento, d’artista e d’architetto, di Le Corbusier con le aspirazioni di un gruppo di cattolici francesi, laici e religiosi. La sfida è stimolante. Essa non può non riguardare anche, da una parte, la comprensione dell’avventura francese per l’arte sacra, di cui Ronchamp è episodio eminente con carattere di querelle tuttora aperta, dall’altra, i significati propri degli edifici a destinazione cultuale o, secondo una dizione largamente utilizzata in ambito cattolico, liturgica. 11
A questo riguardo debbono essere subito esposte alcune precisazioni. L’enorme produzione di edifici di questo tipo, lungo tutto il xx secolo, trascurata fino a tempi recentissimi dalla storiografia che ancora li esamina in termini piuttosto generali, se non generici, non può essere qui neppure sinteticamente richiamata. È però indispensabile mettere a fuoco un dato culturale. Costruzione rilevante in molti contesti occidentali, luogo destinato all’esercizio del culto e di devozioni condivise, emergenza che segnala la certezza dei credenti in una costante presenza di Dio nel tempo e nello spazio della vita quotidiana, attraverso la Chiesa istituzione e popolo, l’edificio chiesa è tema d’architettura nel quale si inscrive l’identificazione di contesto cristiano, in chiave comunitaria, della sacralità dell’esistenza umana e del mondo, inteso come terra abitata e cosmo. Con l’insorgere della civiltà cristiana, essa non è più stata separata dalla città abitata, né magicamente distinta dagli altri luoghi di vita quotidiana, al modo ad esempio delle antiche acropoli greche; al contrario, è divenuta presto centro degli abitati oltre che punto di ordinamento del territorio, nella forma di cattedrali, chiese parrocchiali, santuari collocati in posizioni alte, luoghi di pellegrinaggio, cappelle, romitori, chiese monastiche e conventuali, stazioni conclusive di percorsi devozionali, come sacri monti o vie crucis. La sua costruzione segnò la scomparsa della precristiana sacralità materiale, del tempio e della statua rappresentante la divinità, dunque dei poteri magici attribuiti alla materia; portò in primo piano – nella conformazione basilicale o centrica, in tutte le varianti di pianta e alzato elaborate in quasi due millenni di storia – la capacità umana di esprimere il mistero dell’esistenza in immagini, forme e luoghi, che rimandano al cielo invisibile di Dio eccedente la loro materialità concreta. L’edificio ecclesiale divenne persino imago della Gerusalemme celeste di cui parla il libro dell’Apocalisse, secondo un’analogia non figurativa in senso proprio ma con funzione di tramite di significati salvifici. L’immaginazione simbolica dei progettisti, per quasi duemila anni, si è esercitata di continuo, con sorprendente fioritura di invenzioni formali, sul patrimonio di spazialità, forme e sistemi costruttivi delineati nei primi secoli cristiani tramite, è importante ricordarlo, adattamento di spazialità, forme e sistemi costruttivi preesistenti, non cristiani. In Ronchamp, non solo ha assunto carattere esplosivo la totale presa di distanza dalla conformazione tradizionale delle chiese cristiane. È venuta alla luce anche un’immagine di luogo unica e inedita nella conformazione e tuttavia collegata alla vasta costellazione dei santuari cristiani: non propriamente dunque un nuovo tipo di chiesa disponibile a iterazioni, ma un ‘centro’ nuovo e al contempo antico, capace di ospitare e favorire, in un orizzonte di bellezza coinvolta coi significati del messaggio cristiano, atti di culto e di devozione collettiva e insieme di meditazione individuale.
Gioco di luci, colori, spessori di muri e segni sui vetri all’interno della parete nord a intonaco viola.
L’evidenza di questa centralità – nell’unità di contesto paesistico, spazi di culto e d’accoglienza – resta tuttora evento che suscita interesse, come segnalano i molti tentativi di interpretazione fino ad oggi: qualcosa di singolare e insieme universale si imprime nella memoria e scuote, quasi fosse una nuova ‘parola’, l’immaginario di chi raggiunge questo luogo. Come scrisse Gaston Bachelard negli stessi anni in cui essa venne realizzata: «L’immagine, nella sua semplicità, non ha bisogno di un sapere, essa è la ricchezza di una coscienza ingenua, nella sua espressione è linguaggio giovane. Il poeta, nella novità delle sue immagini, è sempre origine di linguaggio»8. Il filosofo francese pose al centro della propria ricerca le «immagini dello spazio felice» 12
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catturate dalla coscienza e non lasciate «alla misura e alla riflessione del geometra»9. Scoprì, inoltre, nell’esercizio produttivo della prima, la cooperazione delle «due funzioni dello psichismo umano: funzione del reale e funzione dell’irreale»10, vale a dire l’ancoraggio dell’immaginazione nel passato, produttore di ricordi, e la tensione al loro superamento in direzione del futuro. Concluse dunque che l’immaginario è attivo là dove vi è, col bagaglio di memorie, l’aspirazione alla felicità nella speranza del domani. A questo riguardo, deve essere esplorata ancora più a fondo, io ritengo, la fecondità del legame di Le Corbusier con l’architettura antica e con quella popolare, di grandi monumenti e di case comuni, da lui conosciuta direttamente in un impatto che seppe elaborare, in un processo di de-costruzione e ri-composizione, ‘parole’ disponibili per la creazione di una propria sintassi11. Ronchamp – è il secondo livello interpretativo offerto in questo libro – è luogo carico di immagini generate da «una coscienza ingenua» in «linguaggio giovane». L’affermazione può sembrare paradossale a chi conosce Le Corbusier e la complessità della sua produzione. Già nel 1957-58, tuttavia, il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar, tra i massimi del secolo che ci sta alle spalle per profondità di cultura e fedeltà alla propria appartenenza, riconobbe la felicità del suo spazio e la paradossale ingenuità della sua espressione. Scrisse: «Ronchamp: perché è diventata un segno così importante per noi? segno al quale ci si oppone o con il quale si è gioiosamente concordi in un accordo più forte e diffuso dell’opposizione; in cui molti, che su altri punti sono divisi, si trovano uniti, per le vie più diverse, nell’assenso a quest’opera. Da dove viene tanta gioia e speranza in Ronchamp? I due termini definiscono il centro dell’evento. Da dove viene la fiducia: che qui è stata realizzata un’opera che, come pietra gettata in uno stagno, non smette di creare cerchi? L’edificio sta tra noi, in primo luogo, come un’opera spirituale – spirito significa qui anzi tutto spirito umano, ingenium che non si realizza mai senza techne perfettamente dominata – ma, per fortuna, sfocia come in un miracolo, che lo eleva al di sopra delle proprie possibilità con le quali, come immagine della divina sapienza, ora può solo giocare. Esistono altri edifici che, nella moderna tecnica costruttiva, manifestano una leggerezza oscillante – ponti, cavalcavia, case – di cui non si avverte il peso; ma qui, anche se vi è capacità tecnica, non è questo che si avverte, qui è presente invece il gioco del singolo spirito libero, liberato dalla forza della sua fantasia creatrice, gioco che solleva anche noi, caricati del peso di ciò che incombe, nel regno della libertà essenziale. Il fatto che Ronchamp sia una chiesa, dunque un edificio con nessi di scopo fin nei dettagli, non ha impedito al costruttore di danzare, perché appartiene alla sua professione di danzare tra le catene – e quali catene! – e di dare agli interessi più realistici una forma che sfocia nella gratuità senza scopo. Se qui gli scopi raggiungono un ambito nel quale l’interesse umano tace, perché sussunto negli invisibili interessi di un Tuttaltro che l’uomo può toccare e abitare solo rinunciando ai propri scopi, se questo spazio serve alla liturgia in tutto il suo svolgimento, allora questa costruzione, che fa luce sull’ingegno umano, non finirà per incontrare un altro spirito, lo Spirito Santo, che alleggia in congiunture astrali, che non si possono prolungare e tanto meno chiamare in vita solo con la mera trasmissione di forme sacrali? Ronchamp è una di tali congiunture; essa solleva anche l’incertezza che oggi si abbatte, come un temporale, su ogni realizzazione umana; una volta tanto la elimina, come lampo nel cielo, libero al di sopra degli strati nuvolosi. Si caratterizza per una spinta e un gioco 14
Particolare della vetrata distrutta da vandali nel 2014, con firma e data incise da Le Corbusier. La nuvola, insieme a una grande luna dal volto umano sopra la prima, era stata disegnata dall’architetto a Chandigarh.
verso l’alto; chi si fa avanti per cercare di fare qualcosa di meglio? Si caratterizza anche per una nota soggettiva che rende più difficile la libera formazione della tradizione, mi verrebbe da dire: grazie a Dio! Tuttavia l’essenziale è salvato: la semplicità dello spirito. Già ora cominciano, più o meno apertamente, a copiarla, ma ogni copista si coprirà di ridicolo perché, ancora una volta, quel che è qui decisivo è lo spirito che, in fondo, era già da sempre lo Spirito sovrano della tradizione. […] Ronchamp resta l’opera di un singolo e della sua libera équipe, […] non possiamo spaventarci se egli si comporta da enfant terrible nello spazio santo. I bambini mettono mano a molte cose e parecchie cadono nel nulla, ma alla fine è loro il regno dei cieli»12. L’eccezionale convergenza di volontà d’arte e spiritualità, nei suoi protagonisti, fa di questo luogo un punto di riferimento privilegiato per cogliere concretamente l’evidenza di quel fenomeno che antropologi del sacro, da Mircea Eliade a Julien Ries, hanno chiamato ierofania13. Essi l’hanno intesa come persuasiva evidenza di un significato esistenziale, specifico per ogni cultura e al tempo stesso attestazione dell’unità spirituale dell’umanità, condizione per l’emergenza dei simboli, segni di concreta e contingente mediazione del sacro. Si può a ragione ritenere che l’avventura, che a Ronchamp è maturata, sia tanto più importante in quanto produttrice di una ierofania a noi contemporanea. Questa sua peculiarità ha imprescindibile fondamento nell’autenticità del dialogo tra Le Corbusier e i vari protagonisti di una committenza d’eccezione, alveo nel quale il progetto ha preso corpo, in libertà e secondo un profondo rispetto per la religiosità popolare di contesto cattolico. 15
Il progetto, la genesi, i committenti
La cappella costruita da Le Corbusier sulla collina di Ronchamp non avrebbe mai visto la luce senza la riflessione sull’arte religiosa moderna sviluppatasi in Francia nella prima metà del xx secolo. Notre-Dame du Haut deve la sua nascita al concorso eccezionale di un insieme di fattori che risalgono molto indietro nel secolo, un po’ alla maniera di un fiore che sboccia sulla cima dello stelo di una pianta le cui radici hanno trovato un terreno favorevole alla propria crescita.
Copertina del numero de L’Art Sacré dedicato alla Commissione di arte sacra della diocesi di Besançon.
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Premessa La civiltà industriale che si sviluppa nel xix secolo genera in Europa un duraturo confronto tra l’idea di «Tradizione» delle chiese e della loro decorazione e l’aspirazione alla «modernità». In Francia i rapporti tra i cattolici e la Repubblica sono molto conflittuali; il contrasto culmina nel 1905 con la legge di separazione tra Chiesa e Stato1. La Chiesa è in crisi profonda e allo stesso tempo manifesta un’estrema vitalità, perché le direttive pontificali2 le consentono rapporti dialogici con la società secolare. L’influsso di alcuni grandi intellettuali si fa sentire, una serie di conversioni celebri testimonia una rinnovata spiritualità3, mentre la Grande Guerra unisce gli uomini nella «fratellanza delle trincee»; la crisi politica, economica e sociale che segue farà passare in secondo piano le dispute religiose. Il papato e la Francia ristabiliscono nel 1921 le loro relazioni diplomatiche; nel 1924 Pio xi approva un progetto di associazioni diocesane, che permette di uscire dall’impasse prodotta dalle leggi del 1905. La crisi modernista che si sviluppa in Francia lascia il suo segno sui travagli dell’arte religiosa degli anni Cinquanta del xx secolo: il rinnovamento delle «scienze sacre» travolge la teologia medievale. Pio x condanna il modernismo nel 1907. I sacerdoti devono prestare un giuramento antimodernista; vengono istituiti consigli di vigilanza all’interno dei seminari, mentre alcune correnti integraliste diffondono uno spirito di sospetto e di delazione che getterà un’ombra su un’intera élite. Gli ultimi anni del xix secolo erano stati segnati dal dilagare di un’arte ecclesiastica assoggettata ai nuovi mezzi offerti dall’industrializzazione: l’arte scadente di «SaintSulpice» veicolava una devozione facile e edulcorata che piaceva a un clero privo di formazione artistica. Alcuni scrittori e artisti, come Huysmans, Claudel, Denis, Desvallières, sono convinti che l’arte rifletta la spiritualità e che, di conseguenza, un’arte di scarso valore danneggi la spiritualità che essa intende esprimere: l’arte di Chiesa deve essere «vera», vale a dire espressione della propria epoca. Queste idee si concretizzano dopo la guerra con la formazione di gruppi di artisti e di artigiani cristiani4 che intendono creare un’arte «moderna» per la Chiesa. I più noti sono gli «Ateliers d’Art sacré», fondati da Denis e Desvallières nel 1919. Le esposizioni internazionali del 1925 e del 1931 conferiscono loro una certa visibilità; per incrementarla Joseph Pichard attiva la rivista L’Art Sacré nel luglio del 1935. Alla fine del 1936, la rivista in difficoltà è acquisita dalle Éditions du Cerf, e Marie-Alain Couturier e Pie-Raymond Régamey o.p. ne assumono la direzione. Il progetto primitivo viene modificato: si punta ora a sensibilizzare il clero sull’importanza dell’arte religiosa nel culto, a formarne gusto e capacità di giudizio. L’Art Sacré diviene rivista d’arte e di spiritualità di altissimo livello; purtroppo però l’ambiente autoreferenziale degli artisti cristiani non produce grandi opere. Sin da prima della guerra matura dunque la presa di coscienza destinata ad affermarsi dopo il conflitto: l’arte religiosa deve guardare ai creatori di arte profana. Inoltre, matura la convinzione dell’impossibilità di far rivivere un’arte «sacra» in una 17
società desacralizzata. In campo architettonico, le chiese costruite in Francia nella prima metà del xx secolo, ad eccezione di quella di Notre-Dame du Raincy in Seine Saint-Denis costruita, nel 19235, si mantengono sulla stessa linea degli edifici eclettici del secolo precedente6. Couturier e Régamey o.p., direttori de L’Art Sacré Pierre (Marie-Alain) Couturier (1897-1954) è uno dei migliori artisti degli «Ateliers d’Art sacré», dove entra sin dal 1919. Divenuto religioso nel 1925, ordinato nel 1930, la sua formazione domenicana viene pianificata per consentirgli di continuare a dipingere. Incaricato di occuparsi della decorazione delle chiese, egli codirige L’Art Sacré con Régamey. Parte nel 1939 per il Nord-America (Canada e Stati Uniti). Tornato a Parigi nel settembre 1945, diventa celebre per le prese di posizione in merito alla necessità che la Chiesa si rivolga ai grandi maestri; accompagna gli interventi di Léger, Matisse e Bazaine nelle chiese. Torna nuovamente a codirigere L’Art Sacré con Régamey dopo la guerra. Molto amico di Le Corbusier, interviene in suo favore per la costruzione del convento de La Tourette a l’Arbresle. «Nessun artista di quest’epoca poteva avere la sua autorità davanti al problema posto dall’arte religiosa, nessun sacerdote poteva sentire a tal punto le necessità dell’arte contemporanea: nessuno, non avendo conosciuto, da un lato, la sua esperienza monastica e non possedendo, dall’altro, i suoi doni e un tale amore del mestiere, poteva stabilire questo legame con l’Arte viva»7. I suoi scritti sono pubblicati da Régamey8. Raymond (Pie) Régamey (1900-1996), nato in una famiglia attiva nei campi delle lettere e delle arti, diventa storico dell’arte. Luterano, si converte al cattolicesimo nel 1926 ed entra nel 1928 nell’Ordine domenicano. Ordinato nel 1934, la sua produzione scritta, assai considerevole, si divide tra l’arte religiosa e la teologia spirituale. Codirige L’Art Sacré con Couturier a partire dal 1937. Nel 1945 riattiva la rivista chiusa durante la guerra; viene anche nominato nel Conseil des Musées. Di vastissima cultura, si è interessato in particolare di architettura religiosa, soprattutto di quella di area svizzera e tedesca. Couturier e Régamey hanno entrambi lo stesso elevato concetto della propria missione9. Amici sin dai tempi della formazione domenicana, conducono insieme una riflessione che non avrà termine che alla morte di Couturier nel 1954. L’Art Sacré è la loro opera comune la cui unità di fondo è percepibile nonostante le diversità d’accento: essa è, grazie a Régamey, uno strumento di formazione, Couturier invece vi opera al fine di risvegliare la sensibilità estetica. Per ambedue la qualità artistica è strettamente legata alla qualità spirituale e le forme d’arte sono «segni certi dell’autentico stato di una morale o di una spiritualità»10. L’arte religiosa deve trasmettere lo Spirito evangelico di cui le Beatitudini sono la pietra di paragone, per questo la sua autenticità artistica deve risultare indiscutibile. Da ciò, la loro incessante ricerca delle «possibilità religiose» degli artisti, anche non credenti, e l’appello ai «Maestri», gli unici capaci di creare, grazie al loro genio, opere di elevata spiritualità, in mancanza di arte «sacra». La loro riflessione non si allontana mai da questa base comune, l’insistenza sull’«amicizia» che deve stringersi tra artisti, sacerdoti e fedeli. Le chiese di Assy, di Vence e di Audincourt, che presentano con entusiasmo, provocano una querelle sull’arte sacra le cui motivazioni vengono descritte da Régamey nel libro Art sacré au xxe siècle? (1952): coloro che non colgono i valori artistici non possono riconoscere i valori religiosi che essi portano con sé. L’ostilità, «evidente negli ambienti 18
Marie-Alain Couturier o.p., intorno al 1950. Pie-Raymond Régamey o.p., negli anni ’50. François Mathey, negli anni ’50.
animati dal cardinale Celso Costantini a Roma», scoppia nel 1954 col favore dei «sommovimenti della crisi relativa ai preti-operai». In febbraio, «il Generale dell’Ordine venne a Parigi per notificare l’obbligo di allontanare da Parigi i P. Chenu, Congar, Féret e Boisselot… et Couturier»11; Couturier è appena morto, Régamey viene allontanato dalla rivista, alla cui direzione arrivano Maurice Cocagnac e Jean Capellades o.p., che vi lavoreranno con spirito analogo. La Commissione d’arte sacra (cdas) della diocesi di Besançon La legge del 1905 rende i comuni proprietari delle chiese. Il finanziamento delle associazioni diocesane istituite nel 1924 per provvedere alle spese e al sostentamento del culto viene rigorosamente definito. La situazione rimane molto grave per gli edifici, della cui conservazione si occupano soprattutto le Commissioni d’arte sacra allora fondate dalle associazioni diocesane (le cdas). Esse rimangono poco attive fino alla guerra. Nel 1942, le associazioni diocesane vengono dotate12 di nuove possibilità di finanziamento e possono prevedere di dare impulso ai lavori. Dopo la guerra, le cdas cominciano realmente a funzionare, pur avendo solo ruolo consultivo e competenza artistica assai scarsa. Per alcuni anni, quella della diocesi13 di Besançon avrebbe però fatto eccezione. L’8 settembre 1945, tramite ordinanza, Monsignor Dubourg, suo arcivescovo, riorganizza la precedente Commissione e la dota di nuovi statuti «per garantire l’esecuzione delle disposizioni canoniche e per rispondere al desiderio che gli ha espresso l’amministrazione delle Belle Arti rappresentata da M. François Mathey»14. L’articolo 5 sancisce che la Commissione debba essere consultata «per la costruzione di nuove chiese o cappelle, per ogni restauro importante degli antichi edifici religiosi, per qualunque acquisto o donazione di oggetti mobili: statue, quadri, vetrate, organi». Tre anni dopo, l’arcivescovo rende obbligatorio il proprio parere. È François Mathey a gestirne la riorganizzazione in un nuovo raggruppamento, presieduto dall’arcivescovo, comprendente dodici membri15, di cui sei laici – parità per allora molto innovativa. Fra i membri di diritto figurano l’ispettore e gli architetti dei Monumenti storici; Mathey propone la nomina degli altri membri16 e la funzione di segretario a Ledeur, che gode della fiducia dell’arcivescovo17. Mathey e Ledeur sono i personaggi centrali della Commissione18, cui è garantito il sostegno di Béjot, Cornillot, Ferry e Garneret; diviene così possibile immaginare progetti ambiziosi19. 19
Il coinvolgimento della gerarchia ecclesiastica Il reverendo Ferry afferma giustamente che l’onere del passaggio all’arte religiosa contemporanea è stato «assunto dall’autorità religiosa»20: la Commissione sarebbe rimasta inattiva senza l’appoggio dell’arcivescovo e del suo coadiutore, perché i Vicari generali21, membri del Consiglio episcopale, non erano affatto favorevoli. Maurice Dubourg (1878-1954), entrato in seminario dopo una solida formazione da giurista, è ordinato nel 1909, diviene vescovo di Marsiglia nel 1929, arcivescovo di Besançon nel 1937. Vuole che il suo clero sia «solidamente formato, pio, dinamico e materialmente garantito del necessario»22 e insiste sul «necessario spirito di apertura e sulla collaborazione da stabilire ai differenti livelli della Chiesa»23. La sua lettera del 1950 su «Le esigenze del mondo moderno»24 è un programma: la pastorale deve essere lucida, aperta al mondo; bisogna non rifiutare a priori qualunque novità, osservare con attenzione prima di giudicare, fornire ai laici gli strumenti per testimoniare la loro fede, lavorare in gruppo. Monsignor Dubourg è sensibile alle espressioni d’arte e fa affidamento sulla Commissione. Nell’importante lettera che scrive nel 1952 per L’Art Sacré, in piena querelle, dà testimonianza della serietà della stessa e dello spirito che la anima. Egli ha assistito a tutti i dibattiti e ha approvato i progetti adottati dalla maggioranza «al termine di importanti discussioni». Non fa proprie tutte le conclusioni: «una cosa è autorizzare l’esecuzione di un lavoro, altra è approvarlo come opera perfetta [...]. Se avessi creduto che il ruolo di presidente [...] fosse quello di far valere le proprie preferenze personali, non avrei avuto l’idea di creare questo organismo, [...] avrei tagliato nel vivo [...] senza l’opinione di chicchessia. Questa non mi è mai parsa essere la mia missione. In un’epoca in cui l’arte si cerca, occorre [...] avere il coraggio di esaminare con un occhio favorevole certe novità, e non temere di fare delle esperienze, dovessero pure sembrare un poco temerarie». Se l’interesse che hanno suscitato le opere compiute ha avuto come contropartita alcune polemiche talvolta piuttosto vivaci, ci si deve comunque rallegrare del fatto che uno sforzo sia stato «tentato e realizzato per tradurre in un linguaggio artistico accessibile ai nostri contemporanei l’eterno messaggio di Cristo»25. Monsignor Dubourg ha resistito alle pressioni e si è guadagnato l’ostilità di Roma difendendo con la propria autorità opere controverse. Merita ampiamente l’apprezzamento di François Mathey: «un uomo intelligente, in tutti i sensi». Georges Béjot (1896-1987) è Vicario generale e direttore delle Opere quando Monsignor Dubourg nel 1947 lo richiede come coadiutore. Il loro rapporto è eccellente. Questo ex ingegnere uscito dalla Centrale26, influenzato dal reverendo Flory27, sostiene con energia la Commissione. Il suo aiuto sarà determinante a Ronchamp dopo la morte di Monsigor Dubourg nel 1954. Non gli verrà mai data una diocesi. È emersa qualche divergenza d’opinione in merito alle ragioni di questo evidente allontanamento, dovuta principalmente, secondo Mathey, al ruolo svolto a Ronchamp28. 20
Mons. Maurice Dubourg. In L’Est Républicain, febbraio 1954.
I factotum: François Mathey e Lucien Ledeur Il destino della cappella è strettamente legato a quello di François Mathey (19181993), la cui notevole discrezione è stata costante nel corso di questa avventura29. Tra la Commissione d’arte sacra, il borgo di Ronchamp e gli ambienti parigini, egli svolge un ruolo-cerniera di primo piano. È figlio di Paul Mathey, medico della miniera. «Il comportamento di questo padre che egli ammira, modesto e saggio, timoroso delle contingenze mondane, lo segna in una maniera definitiva. Provinciale è, provinciale resterà fino alla fine»30. Egli completa la «Khâgne» al Liceo Louis-le-Grand a Parigi, la lascia per iscriversi all’École du Louvre e seguire dei corsi all’École des Hautes Etudes. André Parrot, professore all’École du Louvre, intende mandarlo all’École Biblique di Gerusalemme nel 1939, ma scoppia la guerra e François è mobilitato. Tornato a Parigi nell’ottobre 1940, sposa nel 1942 Suzanne Poulleau, figlia del direttore delle miniere Houillères di Ronchamp. Parrot lo raccomanda a René Perchet, direttore dell’École d’Architecture, che gli propone un posto da ispettore ai Monumenti storici. Il suo compito è impegnativo (19 dipartimenti nelle due zone, «dalle Ardenne fino a Nizza»), la regione di cui principalmente si occupa è la Franca Contea. A Parigi, si tiene al corrente della vita artistica. D’altro canto, i Mathey sono entrati in relazione con Pauline Peugniez31 e la famiglia Hébert-Stevens apre a François «parecchie strade»32. Quando, nel 1945, Cerf riprende le proprie pubblicazioni, Mathey dirige la collezione «Nefs et clochers» e Régamey gli richiede alcuni articoli per L’Art Sacré. Mathey è pure in contatto con taluni ambienti innovatori d’arte religiosa, con la vita artistica parigina e con il retroterra di Besançon. La cdas gli permette di dare impulso a certi progetti. Egli ha spesso espresso sgomento per l’atteggiamento «passatista» vigente nell’ambito dei Monumenti storici. Incaricato delle chiese «classificate come patrimonio e più specificamente degli oggetti», l’indifferenza dei curati nei loro confronti lo rattrista. Egli concepisce il proprio ruolo in maniera del tutto personale: «incaricato della salvaguardia, del restauro e della valorizzazione del patrimonio, chiamò gli artisti alla creazione»33. M.-L. Cornillot testimonia della sua azione tanto decisiva quanto discreta. Non fa parola del suo reale influsso in ragione del ruolo, attento anche alle reticenze dei sacerdoti nei confronti del rappresentante dello Stato: Lucien, che «è della casa», sarà il suo interprete34. Giovane, entusiasta, François vuol «rendere servizio e testimoniare» e, per questo, si rende invisibile. Diventa nel 195335 conservatore-capo del Musée des Arts décoratifs a Parigi. Fino al 1986, vi organizza quasi trecento mostre, presenta alcuni pittori contemporanei e valorizza i mestieri d’arte. Muore il 3 gennaio 1993. I suoi funerali vengono celebrati a Notre-Dame du Haut e il cappellano René Bolle-Reddat, suo amico, saluta «lo scopritore, l’intuitivo, l’uomo di libertà, il grande servitore dell’arte sacra». Diversa e complementare è la storia di Lucien Ledeur (1911-1975), amico d’infanzia di François. Gli anni degli studi sono turbati dalla tubercolosi ed è il dottor Paul Mathey a curarlo, evitandogli il sanatorio36. Ordinato nel 1937, Lucien è mandato come cappellano aggiunto al preventorio dei Salins di Bregille (Besançon). Nell’ottobre 1940, giunge a Parigi, dove segue studi di filosofia all’Institut Catholique e alla Sorbonne; durante il suo secondo anno parigino, François è suo mentore per l’arte moderna, in merito alla quale egli non ha ricevuto alcuna preparazione. M.-L. Cornillot sottolinea questo debito: Mathey è il grande iniziatore di Ledeur, «[egli] gli indica gli artisti in grado […] più tardi di rispondere alla domanda della nostra Commissione d’arte 21
sacra»37. Lucien è brillante; gli viene affidata nel 1942 – all’età di trentuno anni – la direzione del piccolo seminario della Maîtrise, a Besançon. È colto, è un filosofo che ha «gusto per tutto ciò che è pittura, disegno, architettura»38, un teologo assai vicino alla spiritualità domenicana39, un uomo di pace, che si prende il tempo per riflettere e che ha eccellenti rapporti con i suoi allievi, da lui iniziati all’arte. Ma vi è il timore che dia la priorità all’arte sacra a scapito della conduzione del piccolo seminario; egli rimane quindi discreto circa le sue attività nella cdas, ma il suo collegio è aperto agli artisti che egli fa lavorare nelle chiese della diocesi: Manessier e sua moglie, Janik Rozo, Le Moal, ecc. saranno accolti spesso alla tavola dei professori. Ledeur «ci sa fare» con il clero. Egli è convinto che il ruolo del sacerdote non sia quello di sostituirsi agli artisti e il suo modo di procedere è quello di un pastore40. Jean Le Moal è sensibile alla sua competenza: Ledeur sa scegliere gli artisti adatti al lavoro previsto, il che è raro41. La sua discrezione si accompagna a un certo gusto per il segreto e per il lavoro solitario. Ferry ha sofferto per questo tratto caratteriale: «egli era estremamente gentile, ma […] di un silenzio spaventoso»42. Ledeur non attribuisce grande valore alla determinazione dei ruoli, rimane in silenzio anche quando si ascrive ad altri la sua opera43. Conservatore delle Antichità ed Oggetti d’arte per il Doubs nel 1962, membro della Commissione nazionale di Pastorale liturgica nel 1965, egli rappresenta a partire dal 1969 l’Episcopato di Francia nella Commissione superiore dei Monumenti storici. Muore accidentalmente, di ritorno con Ferry da un sopralluogo in alcune piccole chiese di villaggio. Due anni più tardi, il reverendo Louis Ladey, segretario della cdas di Digione, inaugurerà una mostra d’arte sacra in omaggio al suo lavoro. La preziosa collaborazione tra Marie-Lucie Cornillot e Marcel Ferry Lucie-Marie-Louise (Marie-Lucie) Cornillot (1905-2003), parigina, diventa Bibliotecaria aggiunta44 a Besançon; sostituisce durante la guerra il suo capo mobilitato, salva le collezioni e diviene a quarantuno anni Conservatore dei Musei catalogati di Besançon, prima donna ad occupare in Francia questo ruolo: lei stessa racconta con senso dell’umorismo che la sua designazione alla Commissione dovette traumatizzare non pochi ecclesiastici che vedevano «una donna nell’Ordo». Molto discreta, riduce al minimo l’impatto della propria azione; si concede un ruolo «di osservazione e di beneplacito» all’interno della Commissione ma, in realtà, la sua garanzia è decisiva per il progetto delle vetrate di Manessier nella chiesa dei Bréseux. Régamey sottolinea la complementarietà del suo ruolo nella diocesi con quello di Mathey, ambedue alti funzionari dello Stato e Ledeur insiste, nel 1952, sull’«immenso vantaggio» di annoverarla fra i membri della cdas45. Nelle esposizioni da lei organizzate, si mostra innovatrice46 perché la provincia s’interessa poco all’arte contemporanea. Tiene corsi di storia dell’arte a ogni genere di pubblico e fa parte di numerose Società scientifiche. Accompagna spesso Ledeur, cui è molto legata, nelle sue visite alle chiese e mantiene un contatto ininterrotto con P. Régamey fino alla morte di quest’ultimo. Étienne Ledeur dice di lei: «è un pozzo di scienza, di sensibilità», e Régamey: «è stata il grande conservatore dei Musei di Besançon, ha svolto un grandissimo ruolo, anche in rapporto a tutto ciò che si è potuto fare». La sua morte nel 2003 è passata completamente inosservata. Marcel Ferry (1914-1992) è uno dei liceali influenzati dal reverendo Flory47, cagneux48 a Lione, egli termina l’École Normale Supérieure della rue d’Ulm nel 1932. È chiamato dalla jec, fondata tre anni prima; porta avanti i suoi studi, cade malato e abbandona 22
Marie-Lucie Cornillot (a destra), fotografia scattata a Parigi, 1957. Abate Marcel Ferry (a sinistra) durante una visita alle chiese, anni ’80.
nel 1934 prima di aver conseguito la licence; a seguito di questa rottura, decide di diventare sacerdote. S’interessa all’arte antica49 e diviene nel 1952 conservatore degli oggetti nel catalogo del patrimonio per l’Alta Saona. Giunge alla cdas con il titolo di cappellano universitario diocesano, incaricato della «Parrocchia universitaria» (pu)50, che stringerà legami privilegiati con la cappella di Ronchamp51. Contrariamente a Ledeur, Ferry è poco «clericale». Dopo la morte di Ledeur, assume il gravoso incarico di segretario, fino alla morte. Jean-François Mathey testimonia della sua buona conoscenza dell’ambito artistico. «Fu lui a far restaurare la statua di Notre-Dame du Haut ai laboratori di Échenoz-la-Méline. Si è occupato concretamente del mobilio liturgico della cappella (tabernacolo, croce d’altare, candelieri)»52. Gli si è debitori della raccolta dei documenti relativi alla cdas. Il suo articolo del 1989 in Vitrea, «Vitraux modernes en Franche-Comté», è stato scritto «per la memoria di Lucien Ledeur e la buona fama di François Mathey, la cui modestia ha avuto per effetto di far completamente dimenticare la loro attività». Il sostegno di Joseph Quinnez e di Jean Garneret Questi due membri della cdas non sono intervenuti in modo diretto nei progetti innovatori, ma ne sono stati garanti tramite il loro voto, e l’importanza dei loro lavori è servita da garanzia a Monsignor Dubourg. Joseph Quinnez, nell’intervallo tra le due guerre, si dedica a ricerche sul passato artistico della Franca Contea, pubblica supplementi al Dictionnaire des artistes et ouvriers d’art de la Franche-Comté del reverendo Paul Brune (Parigi 1912). Divenuto canonico nel 1941, esplora sistematicamente gli archivi dipartimentali e il fondo della Biblioteca municipale e si dedica al lavoro d’inventario: «Parecchi diplomati dell’École du Louvre gli devono molto»53. È il conservatore degli oggetti inseriti nel catalogo patrimoniale per il Doubs. Jean Garneret (1907-2002) è un sacerdote colto, anch’egli influenzato dal reverendo Flory. Il suo archivio analitico «suscita l’ammirazione degli ispettori dei Musées de France che gli conferiscono l’incarico di costituire le collezioni etnografiche del Musée Comtois nel Palais Gravelle di Besançon»54. Curato del villaggio di Lantenne, con i soli proventi delle proprie pitture su vetro acquista e restaura l’abbazia di Corcelles e v’installa un Museo delle tradizioni popolari «con alcuni lasciti di amici e grazie al concorso dei contadini vicini. Se si aggiunge a queste fatiche d’Ercole la presentazione annuale di un Almanacco Barbizier, ci si può fare un’opinione sull’attività abbastanza 23
Abate Maurice Morel, 1953.
eccezionale di questo curato di campagna, colto, artista, costruttore e conservatore di musei e uno dei migliori studiosi di folklore di Francia»55. Gli appoggi esterni Ai legami esistenti tra la diocesi e Parigi per mezzo di Mathey, bisogna aggiungere quello stabilito da un attore importante del rinnovamento dell’arte sacra in Francia, il reverendo Maurice Morel (1908-1991)56. Originario di Ornans, la sua famiglia si stabilisce a Besançon; Maurice viene precocemente segnato dalla duplice scoperta della sua vocazione di sacerdote e di pittore. Si reca a Parigi nel 1929 per seguire gli studi al seminario dell’Oratoire, in quattro anni «divisi tra la teologia e il mondo della pittura». Si lega a Max Jacob che gli apre gli ambienti del cubismo e del surrealismo. Ordinato nel 1934, abbandona l’Oratoire; il P. René d’Ouince s.j., direttore della rivista Études, lo assume come redattore57. Privo di ministero, Morel si definisce «prete-operaio che s’è messo a vivere del [suo] lavoro di pittore» con l’autorizzazione dei superiori58. «Unica tonaca ammessa fra i pittori», intreccia con Rouault un’amicizia privilegiata e contribuisce decisamente a ottenergli accoglienza all’interno della Chiesa59. Dopo la guerra, Morel vive delle sue conferenze; fa conoscere Picasso60 e Léger al grande pubblico e dipinge con accanimento61. Decorato nel 1968 da André Malraux per il prestigio culturale del proprio lavoro, partecipa all’apertura di una sezione d’arte moderna nella Pinacoteca vaticana. Quando nel 1973 Paolo vi vi apre il Museo d’Arte religiosa moderna, ringrazia Maurice Morel a nome della Chiesa. Si è talvolta messa a confronto la sua attività con quella di Couturier nella promozione di un’arte religiosa moderna. Morel, che conosceva L’Art Sacré sin dalla fondazione, intratteneva eccellenti relazioni con i suoi direttori, con la cui attività non entrava in concorrenza. Isabelle Rouault insiste sull’interesse del fatto che «artisti tanto differenti come Matisse, Rouault, Picasso abbiano avuto relazioni d’amicizia con un sacerdote della Chiesa cattolica, sin da prima della Seconda Guerra mondiale». Jean Bazaine descrive in modo appropriato i loro rispettivi ruoli: Morel non ha sviluppato alcuna strategia per introdurre i grandi artisti nella Chiesa62, si è limitato a dare consigli a 24
chi glieli chiedeva. In occasione della querelle, egli è al fianco dei domenicani e viene parimenti chiamato in causa63. Bernard Dorival ricorda una trasmissione radiofonica in compagnia del reverendo Morel verso il 1952: «ci si era ripartiti i ruoli e il reverendo Morel mi ha detto: ‘incaricatevi di collocare questo Cristo nella prospettiva espressionista del Cristo di Grünewald’, ecc.»64. Morel si reca regolarmente a Besançon e rafforza Ledeur nel suo impegno. Egli è uno dei principali referenti della cdas. Questo ruolo è poco noto e probabilmente Ferry ha «ispirato» il panegirico pubblicato alla sua morte: «Il reverendo M. Morel [...] ha giocato un ruolo influente nell’arte contemporanea, così come nell’arte sacra nella Franca Contea. [...] Fu lui a spingere Manessier a realizzare le vetrate dei Bréseux e a restare per Lucien Ledeur e per l’arcivescovo Dubourg un consigliere e un solido sostegno nelle loro difficili scelte a Ronchamp, ad Audincourt, a Besançon»65. Il secondo sostegno è quello de L’Art Sacré. Mathey ha il massimo rispetto per ciò che vi si scrive66; il seminario della Maîtrise vi è abbonato67, con un sistema di prestito di riviste che amplifica il suo impatto. Numerosi legami si stringono tra i membri della Commissione e i direttori della rivista. Da parte sua, L’Art Sacré fa spesso appello a Ledeur, che Régamey presenta come il perfetto rappresentante del sacerdote «d’animo generoso e di competente giudizio»68. A proposito del progetto abortito della Sainte-Baume Un progetto di basilica sotterranea nel massiccio della Sainte-Baume ha suscitato una passione piuttosto straordinaria tra il 1948 e il 1950, seguita da completo silenzio e oblio totale69. La sua ombra incombe sul progetto di Ronchamp e vale la pena richiamarlo brevemente alla memoria. Il progetto coincide pressappoco con le realizzazioni di Assy, di Audincourt e della cappella di Vence. Nello stesso momento si decide il destino della cappella di Ronchamp. Le Corbusier e Couturier vi sono coinvolti. L’idea stessa di basilica sotterranea viene da Claudel. Essa acquista una certa consistenza durante la guerra: Couturier in America la studia con l’architetto Raymond, vi si interessa Léger, che innesterà nel 1948 le proprie idee sulla proposta di Edouard Trouin. Quest’ultimo, giovane agente immobiliare originario di Marsiglia, spaccone, autodidatta, gioviale e appassionato, ha acquistato poco prima della Guerra una proprietà sul Plan d’Aups, uno stretto altopiano sormontato dal versante settentrionale del massiccio della Sainte-Baume da dove nasce la maggior parte dei fiumi di Provenza e dove si trova il roc du Saint-Pilon, un antichissimo luogo di culto dedicato a santa Maria Maddalena70. Nel 1295 un convento domenicano vi si stabilì e si sviluppò un pellegrinaggio penitenziale. Alla Liberazione, Trouin attua diversi tentativi di sfruttamento del terreno; voci sgradevoli corrono sul suo conto e si verificano delle frizioni con i vicini domenicani. Nel 1945 egli si reca a Parigi; prende contatto con Le Corbusier e va a trovare P. Régamey, il cui laconico racconto è che Trouin «si è messo in testa di fare una basilica internazionale per la quale si farà appello a della manodopera benevola venuta dal mondo intero»71; si lancia in seguito in una campagna di buffi «Manifesti», chiede udienza al vescovo della diocesi di Fréjus Monsignor Gaudel e indirizza numerose lettere al Provinciale dei domenicani di Tolosa. Non viene però preso sul serio. Nella primavera del 1948 Trouin, che si è nel frattempo convertito al cattolicesimo, si reca nuovamente a Parigi, contatta Le Corbusier e Léger ed espone loro un progetto di basilica sotterranea; questi ultimi ne informano Couturier, che trova Trouin 25
simpatico, lo crede sincero e lo difende dall’accusa di truffa di cui è incolpato. Dopo qualche mese, Trouin, che trova i suoi amici troppo discreti, scatena una campagna di stampa molto personale72; un breve articolo ne La Croix del 12 giugno 1948 informa dunque i lettori provenzali che un progetto patrocinato da alcune alte personalità sta per prendere il via nella loro regione. Risulta difficile farsi un’idea precisa del progetto, perché in realtà ve ne sono due: quello di Trouin e quello di Couturier. Quest’ultimo è ispirato da due principi: simboleggiare il desiderio di una pacificazione spirituale del mondo, e affidare il progetto «ai più audaci maestri dell’arte moderna, come una eclatante rivincita presa sull’arte cristiana decadente»73. L’estate del 1948 trascorre in molteplici scambi tra il vescovo, i domenicani di Tolosa, di Saint-Maximin e della Sainte-Baume, il Comitato della basilica, Trouin e Couturier. Gli oppositori74 scatenano però una violenta campagna di stampa, i cui articoli più duri sono quelli di Semailles (che insiste sul carattere «visto da Parigi», l’assenza di concertazione locale e i probabili danni ecologici) e de La Voix de Provence75. Il vescovo esita ma finisce col comunicare la sua decisione – negativa – in una lettera pastorale letta dal pulpito il 28 novembre76. Una battaglia di retroguardia si svolge a Parigi; nel febbraio del 1949 Couturier invia al Figaro una lettera dalla conclusione poco diplomatica, che descrive il progetto non approvato77. Il 26 aprile, un dispaccio di afp informa che l’Assemblea dei cardinali e dei vescovi condanna solennemente il progetto e disapprova qualunque appello che possa essere rivolto alla generosità dei cattolici. Arts fa allusione al tema il 6 maggio, dopo di che cade nuovamente il silenzio. A stravolgere il progetto non sono gli argomenti seri, che pure senza dubbio esistono, ma il fatto che esso è «paracadutato», insieme con il «buon» senso comune, che dichiara inutili le opere d’arte in nome dell’urgenza delle priorità materiali. Mathey è stato parzialmente coinvolto nella controversia perché, all’epoca dei tentativi messi in atto per fermare il progetto, arriva alla Direction de l’Architecture una lettera dell’archivista del convento di Saint-Maximin, che ricorda gli interventi di restauro rimasti in sospeso in quel monumento storico, ancora in attività. Mathey si imbatte per caso nella lettera, la mette provvisoriamente da parte e ne indirizza una copia a Régamey; la trova spiacevole, non essendosi il vescovo ancora pronunciato, ma condivide il sentimento dell’archivista: prima d’intraprendere una nuova costruzione, vi dovrebbe essere l’interesse a salvare Saint-Maximin. Lo sviluppo del progetto Il primo libro a far scoprire la cappella di Notre-Dame du Haut con un approccio da “pellegrino” è probabilmente quello di Jean Petit nel 1957, mentre il primo studio sistematico è quello di Danièle Pauly nel 1980. La storia della commessa, che si prolunga per vari anni, non è stata tuttavia sufficientemente indagata. Essa viene ricostruita qui a partire dalle testimonianze raccolte presso alcuni dei suoi protagonisti – i cui ricordi sono necessariamente corretti o completati con l’ausilio dei dati d’archivio. Il contesto del 1944 e i primi progetti La collina di Bourlémont, a 138 metri di altitudine, fa parte dei leggeri rilievi con cui termina la catena dei Vosgi; i villaggi di Ronchamp, Champagney, Recologne e Mourière sono costruiti ai suoi piedi. Si tratta di un antichissimo luogo di pellegrinaggio alla Vergine, attestato sin dal vii secolo. Fino al 1741 la cappella sulla collina serve da chiesa 26
parrocchiale per i villaggi di Ronchamp e Recologne; essa viene in seguito ricongiunta alla parrocchia di Ronchamp. Il 31 agosto del 1913, un incendio la devasta. La parrocchia fa ricostruire un edificio di stile neo-gotico, terminato nel 1936, ma solo nella primavera del 194478, quando il reverendo Henri Besançon diventa curato, la parrocchia finisce di pagare i suoi debiti. Lo stesso anno, gli eserciti alleati bombardano la collina. Si salva la statua, ma della chiesa restano solo i muri e lo scheletro del campanile; il borgo è distrutto al 50 o 60%79. Si ripara sommariamente la cappella e F. Mathey offre i suoi servizi al curato80. Nel 1946 le città di Porrentruy e Basilea si offrono di patrocinarne la ricostruzione, ma i parrocchiani scartano questa proposta e alcune personalità locali si lanciano in vari progetti. M. Bedou, architetto a Lure, appronta un progetto di restauro che la cdas respinge; vengono elaborati diversi progetti di ricostruzione, i cui stili vanno «dal gotico al costruttivismo»81. Allo stesso tempo, al momento della realizzazione del dossier riguardante i danni di guerra, ci si accorge che i titoli di proprietà non sono chiari. Divenuta bene nazionale con la Rivoluzione, la cappella è stata acquistata da un agente immobiliare, poi ricomprata il 2 giugno del 1799 da quarantacinque acquirenti «sotto l’egida di M. Beauchet, curato di Ronchamp dal 1896 al 1899 o sotto la guida di M. Pierchy che amministrò la parrocchia dal 1899 al 1903». Vengono cercati i loro discendenti; è nel 1949 che «venti legittimi (?) proprietari e tre nuovi venuti in paese, che però apportano una superficie importante di terreno», riuniti sotto l’egida del reverendo Besançon, davanti a Maître Carraud, notaio a Vesoul, definiscono gli statuti di una «Société Civile Immobilière de Notre-Dame du Haut» (sci), registrati a Lure il 27 ottobre del 194982. Il presidente della sci è il reverendo Besançon, il segretario è Alfred Canet e i suoi membri sono alcuni proprietari dell’antica cappella o di parcelle del sito83. La sua funzione principale consisterà nel raccogliere il denaro per la futura cappella, perché Mathey ha persuaso il curato della necessità di lasciare che la cdas cerchi il responsabile del lavoro. È una grande fortuna che Ledeur e Mathey siano nativi di Ronchamp e facciano parte della cdas, affinché i parrocchiani accettino questa situazione. La Commissione, che lavora immediatamente sulla questione84, si limita a una soluzione modesta: conservare i muri del coro anteriori al 1913 e costruire un edificio di tipo neo-classico, alla maniera della maggior parte delle piccole chiese della Franca Contea. Mathey propone Jean-Charles Moreux, architetto in capo dei Palais Nationaux85; costui prepara un progetto «di buon gusto», con un piccolo campanile a bulbo, dal preventivo poco costoso; ma, con stupore di Ledeur e di Mathey, Monsignor Dubourg non lo approva a causa della forma del campanile: «Ancora un casco a punta!». Moreux si rifiuta di eliminarlo e la Commissione deve mettersi alla ricerca di un altro architetto. La proposta di Le Corbusier La ricerca dura oltre un anno; provato dalla guerra, Dubourg si affida a Ledeur e a Mathey. Secondo il racconto di quest’ultimo, Ledeur e lui stesso hanno già pensato, come per una sorta di «sogno inconcepibile», di proporre Le Corbusier; così «quando, nel corso di una riunione, l’arcivescovo fa mostra di darci carta bianca, gli rispondo semplicemente: ‘Ma, c’è Le Corbusier !’ – Ah, risponde, ebbene, chiedeteglielo!». Questa versione deve essere messa a confronto con altri racconti e innanzitutto con quello, gustoso, fatto da Marie-Lucie Cornillot: «Moreux ha l’incarico di realizzare dei progetti: [...] cosa che non ci piace affatto. Dopodiché, Mathey e Ledeur si mettono d’accordo [...] 27
e mi si dice all’ultimo minuto: ‘abbiamo un’idea, è Corbusier’. – Oh! Io cado all’indietro. [...]. Monsignor Dubourg, già preparato a cambiare architetto dal canonico Ledeur, dice: ‘Eccoci di fronte a un progetto che non è meglio degli altri, questa cosa non può durare in eterno; dovremmo forse deciderci e prendere un nuovo architetto’. I due architetti presenti assumono un’aria di modestia. [...] Il canonico Ledeur dice: ‘E perché non prendere Corbusier?’ – ‘Ah!’ reazione di Jouvenne86 che con il suo metro e ottantacinque salta fino al soffitto [...]. E anche Monsignor Dubourg dice: ‘Ah mio Dio, ma è un protestante! Ma, dopo tutto, questo gli farà amare la Santa Vergine! Ecco come sono andate le cose... E la faccia di Mathey: beh, semplicemente sorrideva. [...] Era lui ad aver suggerito Le Corbusier, dunque era soddisfatto. [...] Tournier ha finito per dire di sì; e Jouvenne pure»87. La proposta viene ben studiata dai «due ladroni» e secondo Cornillot è Ledeur ad avanzarla, come segnala esplicitamente a D. Pauly nel marzo 197488. Risulta peraltro difficile stabilire quale dei due amici abbia pensato per primo a Le Corbusier. Sembrerebbe logico che sia stato Ledeur a pronunciarne il nome nella riunione, e verosimile che Mathey abbia avuto per primo l’idea ... Non riusciremo a saperne di più, ma tutti i testimoni concordano nell’attribuire alla coppia Ledeur-Mathey l’idea dell’appello a Le Corbusier e i passi successivi. L’Art sacré si limita a dire che Ledeur e Mathey «ebbero l’audacia di rivolgersi a Le Corbusier»89. Marcel Ferry, che data questa riunione decisiva all’aprile del 1950, conferma che costoro «desideravano da lungo tempo» far venire Le Corbusier, che bisognava procedere con la massima prudenza perché l’architetto era «celebre e contestato in tutti gli ambienti. I suoi progetti per Saint-Dié e per la Sainte-Baume erano stati oggetto di grandi discussioni, che si riaccendevano a proposito della casa di Marsiglia»90. Ferry ricorda un criterio diverso: il progetto appena scartato dalla cdas prevedeva l’uso di pietra da taglio; ora, L’Art sacré «ha recentemente pubblicato le fotografie dei mirabili pilastri portanti della casa di Marsiglia»91. «Se la pietra da taglio è troppo costosa, dove dobbiamo andare a cercare? – Rimane il cemento... – Ma chi è dunque capace di fare del cemento nobile, e non volgare? – Se ne conosce uno solo, Le Corbusier... – Perché lui? Risponde l’Arcivescovo, tutto animato»92. Il riferimento alla Ville radieuse suggerisce la possibilità di un «naturale» emergere del nome dell’architetto nel dibattito. La presa di contatto con Le Corbusier Esistono molteplici versioni circa il primo contatto con l’architetto. Mathey nel 1991 racconta che, incaricato dall’arcivescovo, si presenta da solo presso l’architetto; ma nel 1966, Maurice Jardot93 ha scritto di aver ricevuto da Mathey «il mandato [...] di chiedere a Le Corbusier se avrebbe accettato di ricostruire, sulla base di propri progetti, la cappella di Notre-Dame du Haut»94. D. Pauly scrive che il contatto viene preso con l’architetto «grazie all’intermediazione di M. Jardot: costui riferisce, poco dopo, il rifiuto di Le Corbusier, perché ‘non gli interessa di lavorare per una istituzione morta’»95. Nel 1987, Mathey precisa di aver chiesto a Jardot di prendere per lui un appuntamento con l’architetto. «Avevo in effetti bisogno di questa amichevole garanzia, dal momento che è verosimile che, senza di essa, Le Corbusier mi avrebbe messo alla porta… un ispettore dei Monumenti storici! Mi recai quindi un pomeriggio in rue Nungesser»96. L’agenda di Le Corbusier conferma che mercoledì 29 marzo 1950, alle 28
Da sinistra a destra: François Mathey, Jean Cassou, Le Corbusier, s.d.
9, egli ricevette insieme Mathey e Jardot97. Le Corbusier rifiuta la proposta. Mathey informa del suo insuccesso l’arcivescovo che, molto dispiaciuto, suggerisce di affidare la cappella al «suo amico Paul Tournon»; impulsivamente, Mathey dà le dimissioni e se ne va; passa ad informare Ledeur che, costernato, si precipita da Monsignor Dubourg. Alla fine, quest’ultimo autorizza un nuovo tentativo congiunto di Mathey e Ledeur, che prendono nuovamente appuntamento con Le Corbusier per «un lunedì mattina» alle «dieci in punto. Le Corbusier ci apre: ‘Ah, i tizi di Ronchamp! Venite per la cappella? Entrate!’ Non c’è più stato niente da dire. Niente! Questa è la cosa stupefacente. [...] Non c’era più bisogno di convincerlo, egli era convinto»98. Questo punto merita un approfondimento. L’incontro, stando all’agenda di Le Corbusier, ha luogo domenica 30 aprile 195099 e il cambiamento d’opinione di Le Corbusier può esser stato provocato da una discussione con Couturier, se si vuol dare credito alla testimonianza di André Wogenscky100. M.-L. Cornillot conferma i principali punti del racconto di Mathey: rifiuto dell’architetto in occasione di una prima visita, posizione riferita con mancanza di tatto all’arcivescovo per cui «hanno corso il rischio di far naufragare tutto», accordo ottenuto in occasione della seconda visita, affinché Le Corbusier realizzi «una chiesa utile al culto cattolico – e non la chiesa di Le Corbusier»101. Secondo D. Pauly, Ledeur ha perorato la causa in questi termini: «Non abbiamo granché da darvi, ma vi possiamo offrire questo: un magnifico paesaggio, e anche la possibilità di portare a termine il progetto. Io non so se dovete fare delle chiese, ma per farne una, le condizioni sono queste, e ci permettiamo di pensare che la causa non sia perduta in partenza e vi assicuriamo che vi sarà garantita una totale libertà di creazione»102. D. Pauly aggiunge che l’architetto ha confessato a Joseph Savina di aver accettato «per far piacere a sua madre [...]: egli è stato per prima cosa sedotto dal paesaggio, che era veramente bello, e poi ha pensato a sua madre, che era una donna di fede»103. Le Corbusier, affascinato dal sito e dalla storia del pellegrinaggio popolare, si reca di persona sul posto per un sopralluogo, il 19 e 20 maggio 1950104, in compagnia di Jardot e di due delegazioni di Besançon e di Ronchamp. «Si sono fermati nel punto da dove si cominciava a scorgere la cappella. È voluto salire a piedi fino alla cappella, tutto solo, come un pellegrino»105. «Dopo che ebbe ben osservato, ascoltato, preso appunti e fatto degli schizzi, un paesano gli domandò se aveva un’idea di quel che avrebbe fatto. 29
Le Corbusier si mise a ridere: ‘Per niente. Ruminerò tutto come una mucca e ne uscirà quel che ne uscirà. Voi l’accetterete o lo rifiuterete ma io non mi ci rimetterò daccapo»106. La riunione del 20 gennaio 1951 Un modellino107 in gesso viene realizzato nell’estate del 1950; Mathey lo vede in settembre e pure Ferry, che lo mostra a Bolle-Reddat108. Ledeur si reca allo studio e, al suo ritorno, il reverendo Besançon lo vede «pensieroso, preoccupato, quasi imbarazzato»; gli domanda a che cosa rassomigli: «Non lo so... [...] E io: È bello? L. Ledeur: – Non ne so niente...»109. È indubbio che il progetto abbia sorpreso i suoi committenti. Manessier incontra per caso a Parigi Lucien Ledeur all’uscita di casa Le Corbusier. «Mi dice: ‘Alfred, fermatevi’. Tira fuori una fotografia dalla tasca: ‘Che cos’è?’ Io la guardo e in maniera del tutto innocente, rispondo: ‘è una moschea’. [...] Lucien mi dice: ‘è la prima versione del progetto di Ronchamp fatta da Le Corbusier’. E se la rimette in tasca»110. La cdas si deve riunire alla fine dell’anno, ma Mathey chiede a Ledeur di rinviare l’incontro; Le Corbusier rifiuta di spostare il modellino e non vuole recarsi a Besançon «col rischio di ascoltare delle fesserie». Prepara un montaggio fotografico accompagnato da una «allocuzione» e da una «dichiarazione elogiativa» di «Claudius»111; Mathey ha prevenuto Alfred Canet e chiede a Ledeur di avvertire il reverendo Besançon112. La lettera indica senza ambiguità che il curato e i suoi parrocchiani non sono al corrente del progetto prima della riunione decisiva che si tiene all’arcivescovado il 20 gennaio 1951, in cui si discutono anche i progetti per la chiesa di Audincourt, fatto che spiega la presenza di Couturier. Il reverendo Besançon vi partecipa con una delegazione di parrocchiani: «(Io credo che), in assenza di Le Corbusier, sia stato il P. Couturier a presentare il progetto. [...] Davanti alle piante, mentre gli altri discutevano tra loro, ascoltavo con attenzione i due architetti ed ero incuriosito dal fatto di sentirli esclamare: ‘questa cosa non rassomiglia a niente... rettangoli che sono quadrati, linee diritte che sono curve, ecc. È inverosimile’. La parola tornava continuamente sulle loro labbra [...] Sempre più inquieto, ho azzardato timidamente una domanda: ‘ma, a vostro avviso, è così che la si deve fare?’ Ma certo che è così, rispondono quelli di comune accordo. [...] È stato questo a farmi prendere una decisione. Perché, in quel momento, ho visto con dispiacere che mi si lasciava da solo a decidere, in quanto, visto che l’accordo non era totale, nessuno voleva compromettersi. Allora, con la morte nell’anima, ho accettato»113. È Bolle-Reddat a mettere tra parentesi quel «Io credo che» relativo a Couturier e a sottolineare «la morte nell’anima»; ma il reverendo Besançon fa ulteriori considerazioni sulla riunione: gli architetti sono reticenti e il loro accordo è difficile da ottenere114. Le resistenze locali. La firma del contratto Le cause delle resistenze locali sono simili a quelle sollevate per la Sainte-Baume. La questione del finanziamento è tanto più acuta in quanto la regione è povera e le locali miniere di carbone minacciate di chiusura; d’altra parte, il progetto è percepito come qualcosa d’imposto dall’autorità gerarchica. Il reverendo Besançon propone di sborsare 20 milioni di franchi; gli si fanno pressioni perché arrivi fino a 30; ma Le Corbusier fa sapere di non poter fare niente con una somma simile. Affranto, Besançon fa domanda di essere sollevato dall’incarico. Gli vengono affiancati due vicari, ma egli 30
persiste nella sua decisione. Tuttavia, prima di lasciare la sua mansione, accetta, su richiesta dell’arcivescovo, di andare da Le Corbusier a fargli firmare il contratto, per evitare troppi ritardi. Vi si reca nel settembre del 1951115, accompagnato da Ledeur, Mathey e Ferry, e impegna così la sci116. Si rivolgono petizioni al vescovo e dopo le visite d’addio del curato, circolano voci di cui Mathey ha sentore117: saranno richiesti 80 milioni ai parrocchiani, l’arcivescovo non vuole dare un soldo per una cappella orrenda, Ledeur è sul punto di «tornare sui suoi passi» dopo aver visto l’orrore di Audincourt, non si può ammettere una chiesa «costruita da un Frammassone, si sa quel che vale il P. Régamey, ‘questo Protestante’, ci si è serviti ignobilmente del curato…». Il nuovo curato. Il gruppo locale. Il finanziamento Antoine Bourdin, vicario a Ronchamp, ne diventa curato il 21 ottobre 1951. Un piccolo gruppo compatto si forma intorno a lui; Alfred Canet diviene «il legame con Le Corbusier, il principale garante dei problemi e il tesoriere insieme a Marcellin Carraud, fino al 1976, di una povera cassa spalancata»118. Le Corbusier gli scriverà che l’azione che essi hanno «tutti insieme intrapreso» è stata «concretizzata e partorita» grazie a lui119. La gerarchia non interviene nel finanziamento. Monsignor Dubourg, che sta per lanciare un «appello per le chiese da costruire nei paesi operai della diocesi», informa il reverendo Bourdin dell’indifferenza, se non addirittura dell’ostilità, degli arcipreti della diocesi nei confronti del progetto. «Secondo il giudizio di tutti coloro che mi sono vicini – ed è anche il mio parere personale – non dovrei parlare di Notre-Dame du Haut nel mio appello». Lui stesso donerà «300.000 franchi dalla [sua] cassa personale, ogni anno»120. Il preventivo per i soli lavori di muratura ammonta a 80 milioni e in cassa vi sono soltanto 900.000 franchi. I danni di guerra hanno perduto il loro valore iniziale. È Eugène Claudius-Petit, ministro della Ricostruzione e amico di Le Corbusier, a trovare il modo di restituire loro un poco di valore (1/4 del preventivo iniziale)121. Disciolta nel febbraio del 1971, la sci diviene l’Association de l’Œuvre de Notre-Dame du Haut (aondh); al cappellano R. Bolle-Reddat viene attribuito il ruolo di segretario con delega in tutti i campi e funzioni di presidente e di tesoriere122. Essendo insufficienti le iniziative classiche (manifestazioni, spettacoli cinematografici ecc.), viene istituita la sarl «Les Amis de la chapelle»123, che accoglie i pellegrini, gestisce un commercio di souvenir e un ristorante. Più tardi, Bolle-Reddat inventerà il modesto «accesso a pedaggio». L’impegno della gerarchia Mathey ha steso un racconto affettuoso e buffo della visita di Monsignor Dubourg allo studio di Le Corbusier nel novembre del 1950, in compagnia sua e di Ledeur. Un arcivescovo in quell’epoca godeva della considerazione di un Prefetto. L’appuntamento con l’architetto viene preso in occasione di una delle sue visite a Parigi. Arrivati allo studio, la segretaria domanda loro di attendere; Mathey intravede che Le Corbusier è nel suo ufficio, da solo. Li fa attendere un buon momento e, quando arriva, sfoggia all’occhiello la rosetta di Commendatore della Legion d’onore124. L’arcivescovo la vede; «e lui, a titolo di ufficiale di complemento, ha la rosetta semplice d’ufficiale: gli è dunque inferiore! [...] Ho visto il gesto, e sono certo che questa cosa l’ha messo a disagio. Dopodiché, Le Corbusier gli tende la mano dicendogli: ‘Buongiorno, signor arcivescovo’! [Egli] ne è stato completamente smontato! Gli viene mostrato tutto e 31
questa parola, io non la posso soffrire, l’udienza è terminata!’ Ledeur [...] gli chiese il permesso di spiegarsi prima di andarsene. Disse a Le Corbusier [...] che per lui la vera umiltà traeva origine dall’acuta coscienza di una necessaria risoluzione faccia a faccia di un’opera da compiere, e dunque necessariamente sconosciuta – il che era appunto quello che lui, Ledeur [...], in ogni caso, era venuto a domandargli [...]. Che, davanti a questa misteriosa cappella, ancora inesistente, l’architetto e lui stesso non potevano che provare un sentimento d’umiltà (come esprimersi diversamente), di fronte all’affascinante consapevolezza di un’opera straordinaria da realizzare... Il canonico parla così per tre quarti d’ora [...]. Alla fine del discorso, Le Corbusier, visibilmente scosso, gli dice: ‘Ah! se voi intendete la parola in questo modo, siamo di nuovo d’accordo’»132. Numerose lettere testimoniano di scambi in cui Ledeur fornisce (sin dal 1950) la sua opinione, risponde ad alcune domande, invia della documentazione133. M.-L. Cornillot insiste sulla modestia di Le Corbusier che «accettò tutto», chiedendo che lo si «guidasse nella conoscenza della liturgia, comprendendo assai bene il rispetto che egli doveva avere per mettersi in sintonia [...] coi problemi di una chiesa di pellegrinaggio... Egli ha accettato che Ledeur gli fornisse spiegazioni, davvero come [a] un ragazzino, laddove si aveva spesso avuto a che fare con certi architetti d’un orgoglio!...»134. Alla morte di Lucien Ledeur, Bolle-Reddat lo definisce come un «padre» della cappella. «Le Corbusier lo chiamava: ‘l’incitatore’, colui che suggerisce, convince, che è determinante. [...] Nel corso di lunghi mesi, è con lui che Le Corbusier si rapportava per l’elaborazione di questa cappella. In questa difficile impresa, egli portava l’olio santo negli ingranaggi che faticano a girare»135.
dava l’impressione di interessarsi…, ma non ha più detto niente. E sulle scale, accomiatandosi, si avvicina a Lucien, e – ho sentito l’osservazione: ‘ebbene, mio caro Lucien, non è questa la volta che avrò il mio cappello da cardinale!...’ Sì, egli ha realizzato l’importanza e la posta in gioco e il rischio, e l’ha assunto; ma non si dice di no a un Commendatore della Legion d’onore!»125. A Besançon si fa pressione su Monsignor Dubourg. Un mattino, il Vicario generale Pinondel avvicina il canonico Ledeur: «Dovreste andare a vedere l’arcivescovo, il vostro progetto di Ronchamp sta per tramontare: l’hanno talmente sminuito...». Ledeur si precipita dall’arcivescovo che gli dice «con un tono malizioso: ‘venite per Ronchamp? Ebbene, la cosa si farà. Stanotte non riuscivo a dormire; ho recitato il mio rosario; tutto d’un tratto ho avuto l’idea: e se la Santa Vergine attendesse Le Corbusier a Ronchamp?»126. Mathey mette l’accento sull’adesione leale dell’arcivescovo «che ci accorda fiducia nonostante tutto ciò che il progetto di Le Corbusier poteva ispirargli di negativo da quando ne è venuto a conoscenza», e sulla «attiva complicità di Monsignor Béjot quando assume l’interregno dopo la morte di Monsignor Dubourg»127. Il Sant’Uffizio gli chiede conto: egli riceve una nota del cardinal Pizzardo «che gli domanda come sia possibile che si sia potuta affidare la costruzione di una cappella a un architetto materialista. Poco al corrente delle relazioni con le Congregazioni romane che avrebbero richiesto l’invio di un corposo dossier, io mi limitai a rispondere al cardinale, spiegandogli la complessità del programma, l’assenza di progetti soddisfacenti... Si era infine arrivati a presentare la richiesta all’architetto conosciuto a livello mondiale, che aveva accettato la sfida e vi aveva fatto fronte. Aggiunsi che, avendo frequentato personalmente Le Corbusier, il quale esprimeva spesso la sua ossessione dell’indicibile, io non potevo trovarmi d’accordo con la qualifica di materialista... se non per il fatto che egli aveva il senso del materiale»128. Il nuovo arcivescovo lo informerà che la sua risposta non è stata giudicata soddisfacente. Il ruolo di Lucien Ledeur presso Le Corbusier Mathey racconta che, in occasione della visita iniziale, Lucien Ledeur propone a Le Corbusier di «parlare» con lui del progetto. L’architetto reagisce in modo stizzito: «Sì, sì, volete farmi il catechismo?». Ledeur precisa che desidera ragguagliarlo su alcune questioni relative al programma. Le Corbusier si calma: «In tal caso, la cosa può richiedere tempo; venite a trovarmi». E prendono un appuntamento129. Mathey tornerà a più riprese su questo punto, convinto che l’architettura di Ronchamp sia «strettamente, profondamente dipendente da questo insegnamento»130. Nel 1981, scrive che Le Corbusier è stato «appositamente iniziato»: L. Ledeur va a Parigi «per almeno sei mesi [...] ogni mese, a passare un intero pomeriggio con Corbu, al quale impartisce veramente degli insegnamenti». Gli insegna «la funzione liturgica della chiesa, la spiritualità mariana», queste «lezioni private» spiegano l’assenza di qualunque nota sbagliata»131. Manessier abita in quest’epoca non lontano dallo studio dell’architetto; dopo le sue visite, Ledeur va da lui. All’inizio i contatti sono delicati, ogni parola diventa un ostacolo. Ledeur racconta una sera di aver «corso il rischio di mandare tutto a monte pronunciando davanti a Le Corbusier la parola ‘umiltà’. Questa parola [...] fece balzare Le Corbusier dalla sedia. ‘Per lui fu come un colpo [sic] e disse subito dopo: ‘Non proseguiremo oltre, voi siete venuto a parlare di umiltà a un architetto: 32
Benedizione della prima pietra, 25 giugno 1955. Da sinistra a destra: l’abate Lucien Ledeur, Mons. Georges Béjot (che firma), l’abate Antoine Bourdin, il curato di Ronchamp, Alfred Canet (alle spalle).
L’approvazione del progetto Domenica 4 aprile 1954, Monsignor Georges Béjot benedice la prima pietra della cappella, inaugura il Rifugio del Pellegrino e passa la serata «in grande amicizia» con Le Corbusier136. La Croix commenta l’avvenimento137: Monsignor Béjot ha realizzato un voto che stava molto a cuore a Monsignor Dubourg e i responsabili interpretano come un segno del cielo che questo «moderno reliquiario di un’antichissima statua di Nostra Signora» venga inaugurato nel corso dell’Anno mariano138. Il 31 luglio 1952, Le Corbusier invia confidenzialmente i primi documenti. La cosa trapela e le opposizioni finiscono col manifestarsi per tutta la durata dei lavori. Vengono attaccati tanto l’architetto che la sua opera. La polemica non si placherà che alla fine del decennio. L’accettazione da parte degli abitanti del posto è lenta. Dopo dodici anni di incarico come cappellano, Bolle-Reddat sottolinea che la cappella è stata «scoperta e apprezzata prima dagli stranieri» e che essi continuano «ad essere in maggioranza, laddove invece essa non è accettata [...] che da una esigua minoranza di abitanti di Ronchamp»139. Nel 1990 il sindaco di Ronchamp, Jean-Marie Maire, riconoscerà come la «prestigiosa cappella [...] abbia un poco schiacciato il villaggio»140. La cappella viene benedetta il 25 giugno del 1955 dal nuovo arcivescovo, Monsignor Marcel-Marie Dubois. All’inizio della cerimonia, Le Corbusier legge una lettera. 33
Da sinistra a destra: Mons. Béjot, Mons. Dubois, 1955.
Egli ha voluto «creare un luogo di silenzio, di preghiera, di pace, di gioia interiore»; il sentimento del sacro ha «animato» il suo sforzo. Alcune cose sono sacre; altre no, «siano esse religiose o meno». L’opera è «difficile, minuziosa, rude, forte nei mezzi impiegati, ma sensibile e animata da una matematica totale, creatrice dello spazio indicibile». Il «dramma cristiano ha ormai preso possesso del luogo. Eccellenza, io vi consegno questa cappella di semplice cemento, plasmata forse di temerarietà, certamente di coraggio, con la speranza che essa troverà in voi come in coloro che saliranno sulla collina, un’eco a ciò che tutti noi vi abbiamo inscritto». Monsignor Dubois ringrazia Le Corbusier di questo «grattacielo di Maria» che è, per parte sua, «un atto di ottimismo, un gesto di coraggio, un segno di fierezza, una prova di maestria. Voi ci consegnate questa cappella. Consegnando allo stesso modo, nel 1952, a M. Claudius-Petit, l’‘Unité d’Habitation di Marsiglia’, gli diceste che l’avevate ‘fatta per gli uomini’. Qui, Signore, voi avete lavorato per qualcuno di più grande [...] L’anima della vera ‘città radiosa’, si trova qui, su questa collina». La messa viene celebrata di fronte alla spianata, in presenza di numerose personalità e di quattro-cinquemila persone. «Per la prima volta [...] una messa all’aria aperta non dava l’impressione di svolgersi in una cornice provvisoria con installazioni di fortuna»141. Si inaugura insieme anche la piramide, memoriale della battaglia di Bourlémont; J-F. Mathey, che è presente, coglie l’accento «piuttosto militare (ufficiali decorati, musica, bandiere, abbondanza di vecchi combattenti e presenza del loro ministro)». Vi è pure la «famiglia corbusiana», gli operai del cantiere, l’equipe dei responsabili, alcuni parrocchiani di Ronchamp. Un pranzo viene servito sotto un tendone, e l’avvocato Carraud tiene il discorso ufficiale all’architetto. «Le Corbusier se ne andò discretamente con François Mathey, Jeanne Laurent e Maurice Jardot. [...] André Maisonnier offrì la coppa dell’amicizia al Rifugio del Pellegrino»142. Il pellegrinaggio tradizionale dell’8 settembre raccoglie tra gli otto e i diecimila fedeli. Se l’impressione dominante è la sorpresa, la gente «più o meno inconsciamente si è 34
Art Sacré, n. 1-2, settembre-ottobre 1955, p. 27, la piramide.
messa il cuore in pace. Come per meglio abituarsi, i gruppi si mettono allora a fare il giro di questa costruzione insolita. I più riluttanti si lasciano contagiare dalla curiosità. [...] A loro insaputa, partigiani e avversari giustificavano la creazione di Le Corbusier. L’architetto aveva davvero costruito una cappella di pellegrinaggio. Una cappella che fa venir voglia di girarci intorno [...] Una cappella di persone in cammino. [...] se ne ebbe l’evidenza con la grande processione del pomeriggio»143.
André Maisonnier, l’abate Ledeur, s.d.
Le Corbusier ritorna solo un’altra volta a Ronchamp, il 6 e 7 ottobre del 1959, in compagnia di Jardot, «in incognito, senza curiosi, soprattutto senza giornalisti»; egli vuole «provare la qualità spirituale di questa cappella, della quale ha voluto fare un ‘contenitore di silenzio’ – al di fuori del fiume dei visitatori». Sulla soglia, egli «dice semplicemente, come un’affermazione più che come una domanda: C’è del sacro, non vi pare?». Ritorna il giorno dopo, in mattinata, accompagnato da Jardot e Canet, e dichiara: «È la prima volta che una delle mie opere non si rovina». Egli scrive ad André Malraux: «Non avevo mai visto il lavoro finito. È qualcosa di commovente, ve lo assicuro. Da lontano, da vicino, in tutto si tratta di un luogo di silenzio creatore. Tutto è pulito e degno...»144. Controversia su padre Couturier Una teoria, sviluppatasi negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, riconduceva al solo Couturier tutte le iniziative d’arte religiosa del dopoguerra francese145. Questa focalizzazione troppo esclusiva è stata oggetto di critiche crescenti con il passare degli anni, ma talvolta l’esagerazione si trasferisce sul versante opposto. Gli effetti perversi dell’attenzione esclusiva concentrata sul ruolo di M.-A. Couturier si sono fatti sentire a Ronchamp: ci si è così 35
Art Sacré, n. 1-2, settembre-ottobre 1955, p. 21, fedeli in preghiera nella cappella.
irritati per il fatto di vedergli attribuire il progetto che, per effetto di bilanciamento, si è finiti col rimuovere troppo sistematicamente dalla storia. È ricorrente il discorso sulla necessità di conservare il segreto nei confronti dei domenicani affinché nulla filtrasse fino a Roma. Marcel Ferry ammette che «qualche tempo» prima della riunione del 20 gennaio 1951, «per amicizia», Ledeur ha «messo il P. Couturier al corrente del progetto e gli ha chiesto di sostenerne la causa in occasione di quella giornata decisiva»146. I «padri domenicani [...] furono tenuti fino alla fine dei lavori completamente all’oscuro del cantiere di Notre-Dame du Haut», scrive F. Mathey147. In realtà, essi sono stati messi al corrente, in maniera discreta, perlomeno fin dall’estate del 1950, da parte di Ledeur o di Le Corbusier148. L’amicizia di Couturier con l’architetto rende poco verosimile un silenzio totale, e gli archivi della Fondazione Le Corbusier conservano traccia di qualche «spintarella» data da Couturier presso il ministro della Ricostruzione per la revisione dei danni di guerra149. Una fotografia di Régamey in compagnia di Le Corbusier scattata sul posto150 attesta della sua venuta nel 1953, ed è tra coloro che, nell’aprile del 1954, appongono la loro firma sul documento sigillato nella prima pietra. I direttori de L’Art Sacré non sono i promotori del progetto151. Pertanto, essi ne sono stati messi a conoscenza e Couturier ha discretamente dato il suo sostegno. Cocagnac ricorda la sua storia nel bel numero consacrato all’edificio nel settembre del 1955: la cdas di Besançon si è recata da Le Corbusier per chiedergli di ricostruire la cappella di Ronchamp al fine di «esaudire i voti dei cristiani che, da vari secoli, si erano ostinatamente sforzati di resuscitare un luogo spirituale che il fulmine e le guerre si erano accanitamente dedicati a far scomparire». Egli stabilisce allo stesso modo la filiazione spirituale della cappella con la Sainte-Baume152. 36
«dopo il 1955» Dopo l’inaugurazione, il reverendo Bourdin è sopraffatto dall’afflusso di visitatori sul sito – molti stranieri e gruppi di giovani. Ferry fa appello a diversi sacerdoti amici nel 1956 e 1957, soprattutto d’estate, per assicurare le funzioni religiose. René Bolle-Reddat (1920-2000), che è da undici anni cappellano al liceo maschile di Vesoul e che parla il tedesco, si rivela essere la persona che «risponde meglio al profilo» e finisce col diventare il cappellano di Notre-Dame du Haut a tempo pieno. Nel gennaio del 1957, Monsignor Dubois gli propone la carica, che lo spaventa153 ma che accetta e Ferry lo introduce il 9 luglio 1958 presso Le Corbusier. Cappellano unico a partire dal 1962, egli è libero da qualunque impegno nei confronti del villaggio e della parrocchia e non dipende che dal vescovo. Nel novembre del 1977, un incidente d’auto lo priva dell’uso dell’anca e del ginocchio sinistro; riprende tuttavia claudicando la sua mansione. Un attacco di emiplegia lo colpisce nel 1987. Ritorna a Ronchamp nella Pasqua dell’anno successivo e riprende i suoi «compiti essenziali»154 fino alla morte. Viene sepolto sul posto. La cappella gli deve molto. La costruzione propriamente detta è appena terminata al momento dell’inaugurazione, i dintorni sono «malmessi» e la collina porta i segni della guerra: è necessario pulire, sistemare, valorizzare. Un «Giornale di bordo» testimonia, pagina dopo pagina, del suo impegno ostinato155, senza contare le questioni relative a una enclave autonoma che si trova a fianco dell’edificio, una servitù che egli impiega anni a far scomparire156. L’acqua costituisce un problema particolarmente grave: non vi è sul posto che una piccola cisterna, oltre al bacino che raccoglie l’acqua dal tetto della cappella157. Con l’aiuto e l’azione della sci egli riscatta alcuni edifici vicini, rimborsa, acquista vari altri terreni, dispone la costruzione del campanile158 e garantisce la manutenzione (recinti, adduzione dell’acqua, restauri, illuminazione, ecc.). L’inclusione della cappella nell’elenco dei Monumenti storici nel marzo del 1967 alleggerisce lievemente il peso delle incombenze. Uno dei problemi principali è la conservazione stessa del sito; nel 1966 «le ruberie dei vandali, l’incoscienza arrogante delle persone prive di spirito» inducono poco a poco il cappellano a limitare l’accesso alla cappella. Le cose migliorano lentamente. Nel 1969, la frequentazione della cappella si attesta tra i 250.000 e i 300.000 visitatori. Durante gli anni ’80, il numero pressoché costante si avvicina ai 120.000. Dopo l’incidente di Bolle-Reddat, il reverendo Ferry propone, in accordo con l’arcivescovo, di far venire alla cappella una piccola comunità di francescani, ma il cappellano rifiuta di farsi assistere; è sempre più menomato e ossessionato dal pensiero di preservare l’integrità del sito; l’accesso a quest’ultimo diventa più difficile, nascosto com’è dalla vegetazione159. La collina di Ronchamp La cappella di Ronchamp, «il monumento più discusso del nuovo irrazionalismo»160 viene definito come «il solo capolavoro di tutta la stagione della ricostruzione»161. È però anche necessario sottolineare che la sua realizzazione rappresenta l’estremo punto di arrivo della vena creativa della Commissione d’arte sacra. La disavventura della cripta della chiesa del Sacré-Cœur d’Audincourt fornisce un significativo chiarimento. Il suo progetto di sistemazione risale al 1952162. Nel 1955 il reverendo Louis Prenel ordina sedici vetrate a Le Moal, che sottopone i suoi schizzi alla cdas agli inizi del 1957163. Ledeur riferisce al curato della riunione in questi termini: il nuovo arcivescovo «non ha 37
frapposto alcun ostacolo» alla loro realizzazione, ma egli non è comunque sicuro «che questa forma d’arte incontri le sue preferenze»164. Le vetrate costituiscono la prima tappa del programma. Quest’ultimo viene bloccato dall’invio di Prenel a Pontarlier nell’agosto del 1960. Mathey ha lasciato la cdas nel 1953; il 1954 è stato per l’arte religiosa un anno nero, con la morte di Monsignor Dubourg e di Couturier e la messa in disparte di Régamey ne L’Art Sacré. Lo slancio viene spezzato, la cdas continuerà il suo eccellente lavoro di fondo ma non si occuperà più di nessuna grande realizzazione.
Veduta della collina di Ronchamp con la cappella ancora non finita.
Per dieci anni, nella diocesi di Besançon, vi è stato un connubio decisamente raro di elementi, tutti decisivi: una Commissione la cui competenza copriva i tre ambiti dell’istituzionale, dello spirituale e dell’artistico; una regione preparata ad accettare l’arte moderna; alcuni artisti rispettosi dei destinatari delle loro opere e personalmente coinvolti; parrocchiani (sacerdoti e fedeli) che «si sono spinti avanti»; sullo sfondo, il lavoro de L’Art Sacré165. Pochissime Commissioni si sono lanciate in azioni innovatrici e lo scarto rispetto alle altre cdas è impressionante166. L’unicità della cappella di Ronchamp dipende dal fatto che un architetto geniale abbia messo il proprio talento al servizio di committenti in grado di formulare una richiesta elaborata – richiesta da lui accettata, e alla quale ha dato risposta. Si deve sottolineare inoltre l’impegno dell’équipe che l’ha costruita e rendere omaggio al coraggio e la tenacia di coloro che, a Ronchamp, hanno permesso che il cantiere arrivasse a conclusione. La qualità del sito riflette la profonda storia di «amicizie» intrecciate tra i differenti attori. La cappella viene consacrata167 nel 2005; nel quadro delle celebrazioni organizzate per il cinquantenario della sua benedizione, si è svolto un convegno il cui titolo «Ronchamp, l’exigence d’une rencontre» riflette bene questa asserzione168. Régine du Charlat, che introduce l’incontro, fa notare: «Vi è di più, nella cappella di Notre-Dame du Haut, dell’incontestabile genio di un architetto. Vi è di più di una committenza ferma e audace. Vi sono questi dialoghi complessi, arrischiati, ferventi, esigenti, forse perfino assai modesti che, si può pensare, contribuiscono in maniera decisiva […] a questa ‘epifania sulla montagna’»169. Nello stato attuale, il sito continua a essere valorizzato, sotto la diligente supervisione dell’Œuvre de Notre-Dame du Haut. Il recente inserimento di un convento di clarisse, costruito dall’architetto Renzo Piano, evita il destino classico dei luoghi d’altura, la cui frequentazione è divenuta unicamente turistica170 e risponde al desiderio, di Lucien Ledeur e dei membri della Commissione, di beneficiare della presenza di una piccola comunità di preghiera. Quando s’intraprese la costruzione della cappella, non si aveva infatti «in alcun modo la volontà di compiere un gesto architettonico o di creare un evento mirato al turismo»171. Questo fatto essenziale è stato enunciato in termini quasi identici dal cappellano René Bolle-Reddat nel 1969172: il luogo «non è stato edificato per sorprendere o sconvolgere». Coloro che hanno avuto «l’ispirazione e il coraggio di costruire la nuova cappella avevano a cuore la salvaguardia del pellegrinaggio e il desiderio di rifare un santuario più bello possibile, pur nella miseria dei loro mezzi».
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La ricerca paziente
Sovraccoperta del volume Ronchamp. Les carnets de la recherche patiente, n. 2, Gisberger, Zürich 1957, composto da Le Corbusier.
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Le Corbusier è stato scrittore prolifico; dei libri si è servito per divulgare i propri principi in pittura, architettura e urbanistica1. Ne ha fatti scrivere alcuni, come la sua biografia firmata da Gauthier2 o l’Oeuvre complète3 in più volumi, sotto il suo controllo per documentare e insieme orientare l’interpretazione del proprio lavoro. In alcuni casi ha trovato consonanze con editori o curatori editoriali, come con Jean Petit4, che ha consentito eco ampia, anche per non specialisti ma mai banale, alle sue idee e alle sue opere. Quasi occasionalmente, in tutti questi casi, si è aperto a intime confidenze su genesi e sviluppo del meditato intreccio, fra produzione di pittura, scultura e architettura, che volle chiamare «lunga ricerca paziente»5. Raramente ha voluto esserne diretto interprete, non ha mai tolto l’alone di mistero dei suoi esiti, sorprendenti anche per lui, come sembra suggerire la ‘legge del meandro’ messa a punto osservando, dall’areo in volo sull’America del Sud, il movimento dei fiumi Paranà, Uruguay, Paraguay. Scrisse nel 1930: «Dall’aereo ho assistito a spettacoli che si potrebbe definire cosmici. […] Il corso di questi fiumi, in queste terre illimitate e piatte, sviluppa pacificamente l’implacabile conseguenza della gravità, della fisica; si tratta della legge della linea di maggior pendenza la quale, quando tutto diviene piatto, genera il teorema commovente del meandro. Io lo chiamo teorema perché il meandro che risulta dall’erosione è un fenomeno a sviluppo ciclico, assolutamente simile a quello del pensiero creativo, dell’invenzione umana. Disegnando dall’alto dell’aereo i lineamenti di un meandro, sono riuscito a spiegarmi le difficoltà dei processi umani, gli ostacoli in cui essi inciampano, le soluzioni apparentemente miracolose che risolvono situazioni inestricabili. Per mio uso ha battezzato questo fenomeno la legge del meandro»6. Per lui dunque, nell’uomo come nella natura vi è una misteriosa inclinazione costruttiva che occorre saper far affiorare, lasciando svolgere divagazioni ‘a meandro’ fino a che soluzioni all’apparenza miracolose stabiliscano esiti efficaci, nella corrispondenza tra i fattori in gioco, là dove prima si coglieva solo un intrigo. Di questo processo e delle sue interne mutazioni Le Corbusier non ha voluto dare comunicazione. Si è invece impegnato, per alcuni progetti d’architettura, a dettagliare i dati concreti di partenza, il programma e l’esito, quest’ultimo segnalato come esplosione, già compiuta nei caratteri fondamentali dopo lunga gestazione interiore, subito disponibile a essere perfezionata, dal punto di vista compositivo e costruttivo, nei disegni tecnici. È questa la procedura delineata nel libro che ha scritto nel 1957 su Ronchamp7, da lui organizzato e impaginato, e inserito nell’orizzonte della ricerca paziente. Lasciandovi indecifrate le matrici più squisitamente artistiche – nella planimetria e nel suo raccordo con gli alzati, nella disposizione delle vetrate e nei significati di molte figure, in esse e nella porta a smalto delle processioni – egli ha reso questa architettura disponibile a molte interpretazioni tuttora aperte sui suoi legami con altre opere dei diversi ambiti artistici da lui frequentati e ancor più con il vastissimo patrimonio di schizzi accumulato nei viaggi giovanili e nei carnets che lo hanno sempre accompagnato. Si è formata pertanto, attorno a Ronchamp eccezionale opera aperta, una trama fittissima e suggestiva di rimandi, storici e artistici, la cui sovrabbondanza preziosa rischia però di offuscare il nucleo delle ragioni del suo inventore. A queste ho voluto qui tornare, come a fonte imprescindibile e asse critico portante. Tra 1954 e 1957, mentre aveva in corso progetto e realizzazione della cappella, l’architetto mise a punto due piccoli libri: uno sulla casa progettata per i genitori, sviluppata in tutte le sue componenti prima di trovare il sito più adeguato8, l’altro su Ronchamp. 41
Li chiamò ambedue les carnets de la recherche patiente, collegandoli così alla legge del meandro e proponendoli come appunti analoghi a quelli dei carnets di viaggio. Nel quinto volume dell’Oeuvre complète9 pubblicato nel 1953 sotto il suo controllo, aveva già fornito alcuni dati del progetto in dieci pagine nelle quali, al breve testo che annunciava l’apertura del cantiere nella primavera dello stesso anno, facevano seguito schizzi e disegni in scala non definitivi di due versioni del progetto, resi necessari per il contenimento dei costi. Vi propose anche due maquettes, la seconda a fili in ferro per evidenziare direttrici e generatrici delle superfici sghembe. Due anni dopo, in Le Modulor 210 del 1955, identificò la cappella in fase di completamento, evento plastico e «fenomeno acustico introdotto nel dominio delle forme» retto da un integrale e calibrato utilizzo del Modulor, sorvegliandone «il gioco con la coda dell’occhio per evitare errori grossolani»11. In questi stessi anni stava anche elaborando Le poème de l’angle droit di cui diffusamente si tratta nell’ultimo capitolo di questo libro, ricco di figure, metafore e simboli presenti anche in Ronchamp. Quanto qui rapidamente ricordato consente di ipotizzare che lo stesso Le Corbusier concepisse le due piccole architetture, casa e chiesa di pellegrinaggio, come matrici di ricerca matura e soglia della propria interiorità che sondava le condizioni per riconciliare artificio umano e natura, intesa sempre quest’ultima, oltre che come paesaggio, come cosmo12 regolato da leggi anch’esse dialogiche con quelle della vita, degli uomini in primo luogo. Nel volume su Ronchamp l’architetto sviluppò la spiegazione del progetto accompagnandola con una ricca sequenza di foto in bianco e nero, per la maggior parte di Lucien Hervé13, ne commentò alcune con appunti a mano14 e con molti disegni, anche tecnici. Strutturò l’esposizione in tre sezioni, con l’aggiunta di una prefazione e di un annexe sull’assetto liturgico delle aree presbiteriali interna ed esterna, steso il 26 giugno 1957, mentre l’intero libro era stato composto, a Cap Martin, a fine dicembre 1956. Nella prefazione manifestò il fastidio causatogli dai commenti di giornalisti e critici (les bonzes), ai quali contrappose tre dati di fatto: la memoria viva delle sei settimane laboriose passate nel 1910 sull’Acropoli «autour du Parthénon» che aprì in lui «un drame» destinato a segnarlo per sempre; la propria complessità interiore («Je ne suis pas pur, je suis rempli de troubles et de torrents») che gli imponeva, quando dipingeva o progettava, di cercare silenzio e solitudine per lasciar emergere qualcosa che non poteva e non doveva essere analiticamente ‘spiegato’ («Je n’ai de ma vie jamais ‘expliqué’ un tableau»); il sito di Ronchamp testimone di un lungo lavoro di collaborazione, come un corpo solo, con l’équipe («Que Ronchamp me soit témoin: cinque années de travail avec Maisonnier et Bona et ses ouvriers, et les ingénierurs, tous isolés sur la colline …»). Propose dunque i dati di fatto di un costruttore che intendeva essere artista a pieno titolo nel richiamo alla lezione del Partenone, duro paragone per gli esiti futuri del proprio lavoro in quanto misura di riferimento; lasciò invece del tutto celati i contenuti propri del tema chiesa di pellegrinaggio, discussi a lungo con la committenza. Nel capitolo Dédicace riportò il testo pronunciato il giorno dell’inaugurazione della cappella il 25 giugno 1955, già citato da Caussé; nel successivo, La clef, sintetizzò, in versi liberi, il principio primo del progetto: «La chiave/è la luce/e la luce/illumina le forme/E queste forme hanno/una potenza emotiva/grazie al gioco delle proporzioni/al gioco dei rapporti/inattesi, stupefacenti/Ma anche grazie al gioco intellettuale/della ragion d’essere:/la loro autentica nascita,/la loro capacità di durare,/struttura/astuzia, ardimento/ cioè temerarietà, gioco/-fattori che sono/essenziali-/le componenti dell’architettura»15. 42
Articolò la terza, più ampia, sezione del libro in temi che offrivano, in estrema sintesi, le coordinate del percorso progettuale: dai contatti iniziali con i committenti Mathey e Ledeur, nel 1950, al primo sopralluogo, a giugno dello stesso anno, in cui decise, riscontrando l’isolamento del sito, di costruire con struttura portante in cemento armato e muratura di riempimento, usando le pietre calcinate della preesistente costruzione ridotta a rudere, e di formare un’équipe operativa solida, un seul corp de métier. Ricordò anche l’immediato affiorare in lui, per felice corrispondenza col luogo, delle forme definitive del progetto in immagini, appuntate in molti schizzi, che disse in parte persi16, nei quali orientò subito la pianta della cappella secondo i quattro punti cardinali, cui corrispondevano le quattro panoramiche del paesaggio circostante. Riportò nel libro solo due di questi schizzi planimetrici, il meno definito dei quali era del 4 giugno; fissò qui il principio primo del progetto, l’acoustique visuelle au domaine des formes già segnalato in Le Modulor 2, corrispondente all’andamento curvo delle pareti a est e a sud. Non segnalò invece, accanto alla planimetria definitiva presentata nelle pagine successive, un legame tra le planimetrie delle cappelle degli altari minori, dal profilo a orecchio, e le ‘sculture acustiche’ in legno, gli Ozon realizzati con lo scultore Savina17 già a partire dalla seconda metà degli anni quaranta, citazione ormai d’obbligo nella letteratura storico critica sulla cappella. Per l’importanza che l’espressione sinestetica acoustique visuelle ha assunto negli ultimi anni – in particolare per il riferimento al paesaggio18 – segnalo sia la non comune familiarità di Le Corbusier con la musica, essendo musicisti la madre e, per professione, il fratello, e avendo egli accolto nello studio, come collaboratore, il compositore e ingegnere Iannis Xenaxis19, sia l’assonanza della formula con studi, letterari e filosofici, pubblicati a Parigi, come il celebre libro di Paul Claudel, L’oeil écoute20, uscito nel 1946 ma contenente saggi degli anni trenta, premessa all’altrettanto celebre ma più tardo L’oeil et l’esprit21, di Maurice Merleau Ponty. L’autore del primo, grazie alla frequentazione della pittura olandese, vedeva nel legame tra visibile e invisibile, che l’opera d’arte offre, l’esito della totale immedesimazione sensoriale dell’artista nel suo tema. L’autore del secondo, condividendo questa simultaneità d’azione e reazione tra sensi corporei e opera, riconosceva, in particolare al pittore, il privilegio del silenzio sul tragitto della propria creatività. Era questo il privilegio di silenzio che Le Corbusier, pittore e architetto, rivendicava per il proprio lavoro contro le banalizzazioni interpretative ignare, potremmo dire, delle enormi fatiche nel cui alveo fiorisce, come dono del cielo, l’arte. Si trattava, in primo luogo, di difendere la sensibilità in azione: «La creazione artistica è innanzi tutto questione di sensibilità – affermava – Non è la ragione che inizia, ma l’intervento poetico. La ragione, in seguito, si precipita a confezionare l’opera, a nutrirla e certo è questione ragionevole. L’artista non si occupa del fenomeno poetico, lo subisce quando si manifesta spontaneamente; l’arte è modo di operare, in essa ci troviamo coinvolti in una fatica, in un’attività come quella di chiunque si guadagni da vivere»22. Come è noto, era allora in discussione anche una presa di distanza dell’arte dal predominio delle componenti figurative tradizionali e dal loro contenuto narrativo, a favore della libera effusione di relazioni psichiche tra realtà percepita e opera, con conseguente esaltazione del ruolo della sensibilità e dell’inconscio. È dunque il riverbero psichico in Le Corbusier del paesaggio, ordinato dai quattro orizzonti e visto dalla sommità della collina, dove la cappella venne collocata, la chiave di volta della sua formula, non un paesaggio totalmente oggettivato come recenti polemiche 43
Retablo di Boulbon, metà del xvi secolo, Musée du Louvre, Parigi.
sembrano proporre esigendone una fissazione storicistica d’immagine, spinta persino al ripristino della situazione contestuale originaria, peraltro impossibile. Restano certo impegni imprescindibili il rispetto del sito e della sua totale apertura sul vasto paesaggio circostante nonché il suo isolamento e l’attenzione per la continuità devozionale e liturgica. È ragionevole pertanto ritenere che il riverbero acustico e visivo del paesaggio evocato da Le Corbusier rimandi a una percezione sinestetica o multisensoriale fortemente interiorizzata, che ha generato, si potrebbe dire con Pallasmaa, una ‘intimità acustica’, un’interiore sonorità da lui trasferita all’architettura23. Essa è prezioso indizio di una con-mozione in senso etimologico, vale a dire di un processo di partecipazione con il cosmico respiro del luogo e con la religiosità che lo abitava da tempo immemorabile. Un filo diretto, inoltre, lega questo riverbero con la presa di coscienza del sacro, che avrebbe colpito lo stesso architetto in visita a Ronchamp a lavori conclusi, un sacro proprio di questa realizzazione ma anche di tutta la sua lunga ricerca paziente24. Fu l’evidenza di una ierofania registrata in prima persona a promuovere il suo rifiuto di forme di ospitalità affollata e la richiesta a Malraux, ministro della Cultura dal luglio di quello stesso 1959, di un vincolo di protezione25. Ulteriore e suggestivo momento di riflessione sul rapporto tra architettura e paesaggio corbusiano è offerto dall’interpretazione della costante opposizione polare – tra razionale e irrazionale, ordine e caos, uomo e natura, ragione e sentimento, rappresentata nel celebre disegno metà sole e metà Medusa – proposta da Valerio Casali26 nell’identificazione della natura come essenziale elemento del progetto dell’architetto, in quanto polo della dualità, che «gioca un ruolo di primordine legandosi, con un rapporto intimo, con l’esterno degli edifici e con i loro interni»27. Le Corbusier ne ha registrato l’attiva presenza in varianti volumetriche: dall’esclusivo impiego di angoli retti e prismi nei progetti di una prima fase, alla successiva introduzione di forme curve, infine nella «titanica trasformazione del prisma»28 in rapporto al paesaggio, con la Casa della Cultura a Firminy29. «Solo il caso di Ronchamp – afferma Casali – sembra fare eccezione al processo evolutivo. La cappella si presenta come oggetto poetico assoluto e forse è stata considerata da Le Corbusier come pura opera plastica»30. In effetti così la intese il suo autore, come scultura di natura plastica del 44
Foto del cantiere, murature dei due fianchi convergenti in punta.
Foto del cantiere, ponteggi dei due fianchi convergenti in punta.
tutto simile, da questo punto di vista, al Partenone, vertice dell’incontro tra due ‘libertà’, dell’uomo e del mondo naturale più vasto. Tornando ai primi schizzi planimetrici della cappella pubblicati da Le Corbusier, si nota che vi erano già individuate le due aree presbiteriali contrapposte a est, tramite i due altari, l’esterno e l’interno, necessari ai gruppi di fedeli in visita alla cappella di pellegrinaggio: «All’interno raccoglimento in sé – scrisse l’architetto – all’esterno 10.000 pellegrini davanti all’altare» (Dedans tête à tête/avec soi même/Dehors: 10.000/pélérins devant/l’autel). Segnalò anche, come secondo principio guida del progetto, la trasformazione in chiave costruttiva di un objet à réaction poétique, per ottenere una copertura leggera e solida: il guscio di granchio raccolto nel 1946 sulla spiaggia di Long Island presso New York, dove con l’artista Costantino Nivola31 aveva composto le celebri sculture in sand casting. Proposta in schizzi e disegni tecnici, la copertura a guscio doveva staccarsi di 10 cm dalle murature in alzato, in modo da ottenere un fascio di luce radente sotto il tetto in cemento scuro a vista, per levitarne peso e incombenza, per convessità, sullo spazio interno. Poco, invece, Le Corbusier scrisse sulle ragioni delle pareti perimetrali molto spesse e dei loro movimenti in superficie; tracciò anche solo un sintetico elenco dei materiali e dei temi iconografici delle vetrate e della porta delle processioni. Per la composizione delle due facce di quest’ultima richiamò l’importanza dei tracciati regolatori e del quadro di Boulbon32 col Christus patiens, atteggiato in modo da disegnare con braccia e spalle un pentagono regolare, figura che è topos geometrico del numero aureo, da Pitagora a Matila Ghyka33, da lui proposto nelle due versioni, il ‘convesso’ e lo ‘stellato’, insieme a sole, luna, uccelli, nuvole, meandri, finestra. Precisò che l’esito armonico unitario era conseguenza di attento controllo dimensionale – modulor partout, scrisse –, del volume esterno curvilineo (courbes, reglées par des génératrices rectilignes), dell’interno modellato a tutto tondo in cavità (ronde-bosse-en creux), del dinamismo coinvolgente le quattro pareti, il soffitto, il pavimento (les 4 parois, le plafond, le sol/tout est mobilisé). Indicò per nome tutti coloro che avevano condiviso con lui l’avventura: i due successivi arcivescovi di Besançon; il canonico Ledeur detto l’incitateur; padre Couturier le pro45
didascalie
fondeur; i componenti del Comitato di Ronchamp; il coordinatore generale dei lavori, l’architetto Maissonier, attivo nel suo studio in rue de Sèvres (Il a tout vue, tout fait); il direttore di cantiere Bona di Treviso; l’ingegnere Prouteau, l’ebanista e amico scultore Savina, i responsabili delle ditte per le lavorazioni in ghisa, ferro, smalto, pietra, legno; i fotografi; i difensori della cappella di contesto cattolico: l’abate Ferry, padre Régamey, il canonico Galloy, l’abate Ball. Concluse il racconto col ricordo del posizionamento della croce, a fine lavori, sulla torre periscopio più alta, quasi una cerimonia per la solennità con cui avvenne nella commozione generale dell’équipe di cantiere: «Da questo momento – aggiunse – Ronchamp non è più costruzione, non è più cantiere. Rompendo il silenzio dei muri, essa ora comunica la più grande tragedia vissuta su una collina, tempo fa, in Oriente»34. Il successivo, breve annexe sul definitivo assetto liturgico cui già si è fatto cenno dimostra l’estrema attenzione e la sicura conoscenza, da parte di Le Corbusier, degli orientamenti liturgici di cui si discuteva in quegli anni immediatamente precedenti al Concilio Vaticano ii35. Non soddisfatto della disposizione degli ‘elementi essenziali per il culto’ già predisposta per l’inaugurazione della cappella, elaborò, in cinque schizzi, le soluzioni definitive, capaci di restituire «l’ordine, la gerarchia, la dignità». In due di essi, con la variante del celebrante rivolto oppure no ai fedeli, stabilì l’ordine del presbiterio interno: il primato venne dato alla celebrazione «sull’altare sotto il segno della croce collocata sopra il tabernacolo in cima all’asse» (segnato, quest’ultimo, nel disegno della pavimentazione, con funzione di ordinamento architettonico); vicino all’altare e in diagonale rispetto ad esso, pose una croce a scala umana fissata nel pavimento, chiamata «il testimone» perché legno in memoria della crocifissione. Ristabilito così l’ordine, in un terzo schizzo segnalò la gerarchia dei «protagonisti»: al centro il segno della croce sopra l’altare, al suo fianco il testimone, più lateralmente e in alto la Vergine. In un quarto schizzo ripropose lo stesso ordine e la stessa gerarchia per il presbiterio esterno. Nel quinto, infine, disegnò una processione, aperta dal «testimone» sulla spalla di un pellegrino, in movimento davanti al presbiterio esterno, ripetendo il commosso omaggio alla passione di Gesù Cristo, il «più atroce dramma che ci sia mai stato». Il nucleo di temi proposti di proprio pugno da Le Corbusier, nel libro qui rapidamente riassunto, non fu più da lui ripreso in altre occasioni. In successivi libri su Ronchamp 46
Schizzo di Le Corbusier per l’area del presbiterio, disposizione dell’altare per celebrazione con il sacerdote che volta le spalle ai fedeli, da: Le Corbusier, Ronchamp. Les carnets de la recherche patiente, cit. Schizzo di Le Corbusier per l’area del presbiterio, disposizione dell’altare per celebrazione con il sacerdote che guarda verso i fedeli, da: Le Corbusier, Ronchamp. Les carnets de la recherche patiente, cit.
Schizzo di Le Corbusier per l’area del presbiterio esterno, sul fondo la processione con la croce del «testimone» portato a spalla, da: Le Corbusier, Ronchamp. Les carnets de la recherche patiente, cit. Schizzo, scritte di Le Corbusier e alzato fianco est, in: Le Corbusier, Ronchamp. Les carnets de la recherche patiente, cit.
vennero citate solo sue frasi. Merita tra tutti di essere segnalato quello del 1961, uno dei molti curati da Jean Petit36, con diversi saggi e una breve ma precisa descrizione di costruzione, cantiere e materiali, dell’architetto André Maissonier. Vi vengono da lui descritte le geometrie più rilevanti e la loro traduzione costruttiva. Il tetto a guscio, composto da due conoidi rovesciati e paralleli, venne realizzato come un monolito in nudo cemento armato e due superfici continue, ognuna dello spessore di 6 cm, tra loro distanti 2,26 m. Per l’irrigidimento, in analogia con quello delle ali di un aereo, il suo interno venne ritmato da sei travi maestre in allineamento col lato più corto, distanziate tra loro da circa 180 travetti ortogonali. Il tetto venne appoggiato solo sui pilastri, annegati nella muratura con esclusiva funzione di riempimento. Soluzione costruttiva autonoma ebbe la parete sud, con strutture portanti in cemento armato che seguivano la conformazione delle due superfici rigate, esterna e interna, la cui continuità fu ottenuta stendendo su di esse un foglio di rete metallica. Con il metodo di rivestimento detto gunite, che utilizzava una macchina ad aria compressa (canon à ciment), la rete venne completamente coperta a spruzzo da un impasto di calce fino a ottenere una superficie granulosa, successivamente imbiancata con un letto di malta di calce. Questo trattamento finale venne esteso a tutte le superfici delle pareti esterne ed interne della cappella37. In questo libro Le Corbusier, quasi in risposta alle polemiche che lo irritavano, scrisse: «La Cappella? Un vaso di silenzio, di dolcezza./Un desiderio? sì! Con il linguaggio dell’architettura raggiungere i sentimenti evocati./Sì, architettura soltanto. Perché l’architettura è Sintesi delle arti maggiori. /L’architettura è forma, volumi, colore, acustica, musica./Tre i tempi per questa avventura:/1. Integrarsi nel sito;/2. Nascita ‘spontanea’ (dopo incubazione) della totalità dell’opera, in una sola volta, d’un colpo,/3. Lenta esecuzione dei disegni, del disegno, delle piante e della stessa costruzione;/e/ 4. Una volta che il lavoro è stato concluso, la vita si è implicata nell’opera, si è totalmente coinvolta in una sintesi di sentimenti e di mezzi materiali di realizzazione./Mi resta ancora un’idea per portare a termine Ronchamp: che vi arrivi la musica (anche quando non c’è ascoltatore, se è il caso), musica automatica proveniente dalla cappella a ore regolari per raggiungere, dentro e fuori, l’eventuale sconosciuto ascoltatore»38. Con il compositore Edgar Varèse39 aveva immaginato uno strumento per la musica elettronica, un telaio metallico collocato all’aperto con funzione di basso campanile, presente nei primi disegni di progetto ma 47
Vista dall’alto della moschea di El Atteuf in Algeria.
in seguito abbandonato per mancanza di fondi. A Messiaen chiese inoltre, senza però arrivare a esiti concreti anche in questo caso, un intervento musicale elettronico per il giorno dell’inaugurazione della cappella40. Fonte importante per comprendere Ronchamp è anche il libro di Danièle Pauly pubblicato in prima edizione nel 198041, soprattutto per l’accurata ricostruzione, tramite esame filologico, della sequenza degli schizzi di Le Corbusier e dei disegni tecnici dello studio in rue de Sèvres, gli uni e gli altri custoditi presso la Fondazione Le Corbusier. La studiosa vi ha anche proposto un’interpretazione tuttora valida del processo ideativo e costruttivo di Ronchamp esaminandone piante, alzati, modelli tridimensionali, documenti d’archivio, pubblicazioni. A lei si deve l’individuazione di un esplicito riferimento corbusiano, in un appunto di pugno dell’architetto trovato tra le carte, al trou de mystère42 della luce spiovente dall’alto nel Serapeo della Villa Adriana a Tivoli, visitato in gioventù, come matrice del sistema luministico delle tre cappelle minori. A lei risale anche il rimando, sulla base degli schizzi di viaggio, ma in questo caso senza individuazione di puntuali conferme in appunti di Le Corbusier, all’architettura islamica d’Algeria, nella valle dello M’zab, in particolare al gioco di luci interne e di modellazione e scavo delle superfici nella moschea a El Atteuf. A questi due fondamentali riferimenti storici, utilizzati dall’architetto in chiave non storicistica ma di ‘fusione d’orizzonti’ tra testo e interprete, potremmo dire con il filosofo Gadamer43, Pauly stessa e diversi studiosi ne hanno aggiunti altri, non tutti caratterizzati da identica pertinenza44.
Foto del Serapeo nella Villa Adriana a Tivoli. Schizzi e appunti del Serapeo nella Villa Adriana a Tivoli, nel carnet n. 5 del Voyage d’Orient di Le Corbusier, con l’indicazione del trou de mystère.
Interno della moschea di El Atteuf.
né l’implicita e per qualche aspetto anche esplicita ammissione di quanto egli avesse ascoltato la committenza e corrisposto alle sue richieste. Da allora ad oggi non molto è cambiato da questo punto di vista. Per l’insieme di circostanze e di personalità in gioco, il progetto di Ronchamp – è questa una tesi condivisa dalle autrici del volume che si presenta – godette di una congiuntura d’eccezione per la sua definizione di servizio consapevole, che contribuisce a renderlo un unicum, un fatto a sé stante nella produzione di architettura a destinazione religiosa dell’architetto. Le si può avvicinare il convento domenicano nei pressi di Lione, che tuttavia non è aperto a una utilità collettiva altrettanto ampia e pubblica di quella della cappella. In questi ultimi anni si tende a presentare in modo unitario progetti ed edifici di Le Corbusier a destinazione religiosa46: con Ronchamp compaiono il progetto per la Sainte Baume47; il convento domenicano di Sainte-Marie de la Tourette al quale collaborò Xenaxis, per i pans de verres musicaux o ondulatoires; la chiesa parrocchiale incompiuta di SaintPierre a Firminy-Vert nella Loira, finita nel 2006 dall’allievo, l’arch. José Oubrerie48. Restano anche schizzi di mano Le Corbusier, del 1929, per una chiesa a Tremblay-lèsGonesse, uno dei progetti più audaci del periodo tra le due guerre, rimasto sulla carta49. Queste indagini tematiche sono certamente utili e interessanti purché, in ragione del genio e della vastità di cultura del loro inventore, si valorizzino di ognuna le peculiarità delle intenzioni di committenza e progettista, delle modalità di svolgimento e degli esiti progettuali.
Sono noti gli scoppi d’ira di Le Corbusier con i giornalisti che lo interpellavano per capire il senso di Ronchamp45 e la necessità di essere o non essere credente per un architetto costruttore di chiese cattoliche; si rammaricava ogni volta che fosse ignorato il racconto del progetto, da lui stesso scritto o in pubblicazioni da lui controllate. In effetti non vennero colte, in generale, la serietà professionale con la quale aveva affrontato il tema, 48
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Uno dei modelli di studio della cappella, realizzato in fil di ferro.
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Inizio del cantiere della cappella con la parte bassa tondeggiante (probabilmente della cappella principale a periscopio).
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Cantiere della cappella visto da ovest.
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Cantiere della cappella a est. In alto si nota la prima parte della copertura a guscio ancora incompleta.
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Il cantiere visto da nord.
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La punta della cappella verso sud est con il guscio sottostante della copertura già realizzato.
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Copertura della cappella a guscio in calcestruzzo armato in costruzione, completata solo per la parte inferiore e con armature in ferro predisposte per le travature trasversali.
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Copertura della cappella a guscio in calcestruzzo armato in fase di completamento.
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Struttura portante di setti in calcestruzzo della parete a sud.
Processione con il «testimone» davanti alla cappella.
La folla presente il giorno dell’inaugurazione della cappella.
Interno della copertura a guscio quasi finita.
Le Corbusier mentre parla e tra la folla nel giorno dell’inaugurazione della cappella.
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Spazio, forme, colori nella luce
Il foglio con disegni sintetici e dettagliata descrizione geografica e geologica del sito di Ronchamp.
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È la luce, nell’azione su superfici e volume esterno e nella modulazione dello spazio interno, la più immediata e sperimentabile condizione di verifica della religiosità del sito e della cappella di Ronchamp. Lo è fuori e dentro il suo spazio, nel suo bianco scintillio1 in toni sempre diversi sulle pareti granulose, nella sua polare e mobile corrispondenza con ombra e penombra, nell’attraversamento di forme, colori, trasparenze, nella giustapposizione modulata delle distinte componenti architettoniche cui fanno da controcanto suggestive occasioni di mescolanza dei colori. Il suo primato indiscusso, nei principi e nelle realizzazioni corbusiane in quanto ultima regola del gioco sapiente delle forme2, ne porta allo scoperto l’intenzione: provocare in chi guarda l’esperienza del passaggio dalla realtà visibile del luogo, simbolo cosmico perché aperto in modo illimitato sull’intorno e ordinato dai quattro punti cardinali, verso l’invisibile mistero di cui vive il mondo intero, e in esso l’architettura qui costruita, mistero non estraneo e non in contrasto con il messaggio cristiano. Qui l’espace indicible corbusiano non può, infatti, essere solo insieme di emotività e psichismo non verbalmente esprimibili3; con essi entra in gioco, per la destinazione funzionale e liturgica cui spazio e forme corrispondono, il rimando a una trascendenza. Lo esige l’ospitalità di devozione mariana e liturgica che il luogo attua: Le Corbusier non poteva non esserne consapevole e non sentirsene responsabile. La luce d’altro canto, benché spesso si affermi il contrario, solo parzialmente può essere concepita come materia speciale di un progetto dell’architettura4, il che vale anche per il paesaggio in cui essa viene inserita: l’una e l’altro sono invece sue condizioni indispensabili chiamate, da chi progetta, a un dialogo con le proprie forme. Lo ha fatto comprendere, e dovrebbe essere più spesso ricordato, John Ruskin quando ha affermato che all’architettura dovremmo guardare «nel modo più serio come all’elemento centrale e garante di questa influenza d’ordine superiore della natura sulle opere dell’uomo»5. In sintesi, paesaggio e luce sono soprattutto presupposti, dati a priori e non di natura passiva, nel progetto dell’abitare umano. Con la luce, in particolare, si registra nella storia dell’architettura una catena d’invenzioni nelle quali è stato, ogni volta, reinterpretato ex novo il passaggio dall’assecondare il suo servizio di illuminare, o far vedere, a quello di esaltare il far comprendere, o far conoscere ciò di cui essa è analogia o simbolo. L’esito architettonico di questo percorso ha spesso inaugurato il clou della novità artistica di un’epoca e ne è divenuto cifra identificativa. Ne è caso eccelso, per fare un esempio, la soluzione architettonica nel coro della cattedrale di Saint-Denis, nel xii secolo: l’ordinamento delle cappelle del coro, in successione continua e prossimità stringente, ha consentito, con l’eliminazione di quasi tutte le pareti divisorie, l’emergere di quella lux continua nella quale gli storici dell’arte hanno riconosciuto il principio fondamentale del gotico. Quel luminismo rinnovò, per il coro e la chiesa, il valore di simbolo della Gerusalemme celeste6 e come tale, prima e più ancora che sotto il profilo funzionale, luogo liturgico esemplare. Il passaggio dalle immagini al simbolo fu allora agevolmente consentito da una teologia che informava una cultura cristiana omogenea. Cultura artistica del xx secolo e mentalità di Le Corbusier non possono certo essere inscritti in una omogeneità dello stesso tipo e grado; non risultano tuttavia neppure del tutto estranei, mi pare, al percorso immaginativo che il medioevo ha alimentato; ne condividono anzi senz’altro, esprimendolo in linguaggio e forme inedite, la sintonia con le segrete armonie del cosmo e con il continuo rinnovarsi della vita. 61
Un foglio anonimo disegnato con cura a mano e col titolo Le site de Ronchamp nell’archivio della Biblioteca du Saulchoir a Parigi7 delinea, in parole e schizzi molto precisi, la collocazione geografica della cappella di Le Corbusier e i caratteri geologici e morfologici del sito. Lo richiamo qui come premessa visiva di contestualizzazione a una rapida visita ideale8. Nello stesso archivio, ho trovato anche una bozza di guida per il pellegrino ‘inesperto’: segnala il valore artistico eccezionale di quest’opera e il suo carattere non tradizionale. Avverte che chiunque, quale che sia il suo livello culturale, può comprenderla, essendo essa opera singolare ma non rebus né insieme bizzarro di simboli. Per capirne le forme non abituali occorre pensare, vi si dice, a oggetti dinamici contemporanei, come l’aereo, il battello, l’automobile. È un piccolo edificio, ma suscita impressioni di grandezza. È cappella di pellegrinaggio, per questo manca di battistero, di catafalco per i funerali, dei segni di devozione e della via crucis delle chiese parrocchiali. È da ritenere, in sintesi, snodo di geografia e storia, un carrefour di popoli, nazioni, civiltà, religioni. A chi oggi si accinge a visitarla, la cappella appare come piccola massa bianca, un minuscolo Partenone sul crinale verde della collina, dalla strada che costeggia la cittadina di Ronchamp. Percorrendo per raggiungerla il breve sentiero in salita dopo l’ingresso al sito, si notano a destra l’edificio per l’accoglienza dei pellegrini e a sinistra la dimora del cappellano, che Le Corbusier ha voluto come contrafforti spigolosi e protettivi, ma appartati, al luogo sacro. Allo sbocco del sentiero sulla cima del colle dove la cappella si trova, essa chiede, con l’impatto inaspettato del suo alto spigolo all’angolo fra due prospetti, la scelta tra due direzioni di visita; subito si coglie che le si dovrà girare attorno compiendo un’ampia promenade dall’esterno, standole vicino ma anche arretrando, per vedute d’insieme, e girandole le spalle per guardare il mutare del paesaggio circostante. Se si sceglie di muoversi in senso orario, ci si pone subito di fronte alla sua parete sud, caratterizzata, oltre che dall’incisione di aperture per le vetrate di diversa misura e profondità e dalla grande porta a smalto in colori squillanti cui è accostata la pietra di fondazione9, dal concorso di due suoi andamenti: una concavità della superficie, che si smorza da sinistra verso destra, e il suo innalzamento in verticale, in senso contrario. Il tetto sporge in alto, scuro e apparentemente leggero, quasi una tela gonfiata dal vento o l’ala di un grande aereo. Alla sinistra, una torretta senza aperture – è la cappella isolata che capta luce come un periscopio – dà avvio alla forma tondeggiante della parete ovest, stretta e bassa, definita in alto dal profilo a curva catenaria al cui centro sporge un «capolavoro di plastica», la «stupenda scultura» in cemento della grande gargouille, «doppio cartoccio» per il deflusso dell’acqua che cade in un bacino contenente tre essenziali solidi geometrici in cemento a vista, «biglietto da visita del suo autore». Il modellato della parete prosegue, senza soluzioni di continuità, a nord, dove si distende in un prospetto dalla superficie pacata, senza plastica sporgenza del tetto. Qui «il diapason» è nelle due torri semicilindriche in corrispondenza di altre due cappelle interne, posizionate «a dorso a dorso» in modo da lasciare un varco per l’ingresso quotidiano alla chiesa. Il raccordo d’angolo tra questa parete e quella a est avviene tramite un volume isolato tondeggiante che ospita un ripostiglio, dall’alto del quale spunta un pilastro in cemento armato, l’unico a vista dei tanti annegati nella muratura, che reggono il robusto tetto. La parete a est, la sola a poter «pretendere propriamente l’attributo di facciata», è fon62
Schema geometrico (tracée regolateur) del decoro dell’ingresso principale a sud, faccia esterna.
dale leggermente concavo del presbiterio all’aperto per celebrazioni con molti fedeli, con proprio arredo liturgico: qui esplode un «gioco di curve e controcurve; di concavità e di convessità; e, naturalmente, di ombre proprie e di ombre portate; di sfumature, cui la vibrazione possente dell’intonaco di spessore rilevantissimo […] fa da contrappunto insistente, simile a una nota tenuta». Il tetto a doppio guscio è fortemente sporgente e «sghimbescio» per favorire lo scivolamento dell’acqua piovana. Salendo sulla piramide antistante, monumento in memoria dei caduti dell’ultima guerra mondiale collocato nel sito ove era la precedente chiesa, si può cogliere la dilatazione, del volume della cappella verso il panorama antistante. Sotto la luce cangiante del giorno e delle stagioni che ruisselle10 sul bianco intonaco, la promenade restituisce la tensione tra plastica unità del volume, e differenti modulazioni di emergenze volumetriche e ombre nei prospetti, le più ampie, in due di essi, generate dalla poderosa emergenza del tetto scuro, la cui linea di congiunzione verso l’alto è orientata in direzione della città di Gerusalemme11. La stessa promenade architecturale, se condotta in senso antiorario, non restituisce l’efficacia plastica precedentemente percepita; si coglie meno l’unità dell’involucro ma diventano più evidenti le differenze tra i prospetti. Si legge ad esempio più nel dettaglio quello a nord, dopo la facciata per le celebrazioni all’aperto, sobrio, con una scaletta in metallo a due rampe, per accedere a una sala riunioni rialzata, brevi tratti a colore e finestre, ordinate con rigore e senza simmetrie, per la sacrestia, per l’areazione del guscio di copertura e, più a sinistra, per l’illuminazione dell’altare maggiore interno. Subito dopo emergono qui le tre torri, camini di luce per gli altari secondari interni, con aperture di forme diverse, quelle allungate in fasce continue orizzontali ritmate da brise-lumière. Proseguendo ancora in senso antiorario, il più breve prospetto a ovest, senza aperture, mostra in basso un’emergenza sulla continuità della muratura per ospitare il confessionale interno, mentre l’altisonante facciata a sud offre l’unica grande composizione 63
Schema geometrico del decoro dell’ingresso principale a sud, faccia interna.
esterna a colori nella grande porta quadrata che si apre ruotando attorno all’asse centrale, costruita con ossatura in acciaio rivestita su ogni lato da otto piastre smaltate, personalmente lavorate da Le Corbusier in officina. Squillante impaginazione di temi collegati alla religiosità della cappella, ma appartenenti anche a figure come la finestra o la mano da lui privilegiate in pittura, essa offre, nel tracciato regolatore della faccia esterna, due mani – la rossa benedicente, la blu in atto di accogliere o invocare – affiancate da una piramide e dalla stella a cinque punte, perfettamente inscritta nel pentagono. Si riconoscono anche il meandro, la finestra, le nubi, le montagne. La faccia interna della porta, con il medesimo tracciato regolatore ma ruotato di novanta gradi, ospita una rossa composizione ascendente conclusa da due mani congiunte, stilizzazione della Vergine dell’Apocalisse12, circondata da altre più piccole figure e, in basso, dalla firma di Le Corbusier. Entrando da questa porta ci si trova sul fondo della cappella, dove stanno i confessionali; si coglie da qui il volume dell’invaso in dilatazione verso l’altare, affiancato dal crocefisso da una parte, dal tabernacolo dall’altra. Il moto investe tutte le superfici interne, mai concepite come negativo di quelle esterne ma composte ognuna ex novo e in piena autonomia: si alza la copertura, si abbassa leggermente il pavimento, una parete si inclina, l’altra ospita il pulpito, in cemento a vista come quello di forme analoghe all’esterno, e si dilata per l’accesso alla sacrestia e al coro. Ci si percepisce in uno spazio più vasto di quanto esso non sia in realtà. Dal presbiterio interno si può uscire direttamente, tramite una porta laterale, verso quello all’esterno, così come al coro sopraelevato interno corrisponde, in diretta comunicazio64
ne, quello esterno. Non c’è distinzione di volume tra presbiterio e navata, separati tra loro solo dalla elegante balaustra. Il centro della chiesa, della capienza di circa duecento persone, è vuoto: la breve fila orientata verso l’esterno delle panche – Le Corbusier non le avrebbe volute13 – lo lascia infatti completamente sgombro. Già si è accennato all’estrema attenzione di Le Corbusier nel far coincidere l’armonica distribuzione dei poli liturgici e dell’arredo con la loro rispondenza alle norme ecclesiastiche avanzate dalla committenza. Identica fu la cura per i dettagli di disegno e per l’esecuzione di ogni componente, sempre sottoposta all’applicazione del modulor14. In pietra chiara e in forma di nudo parallelepipedo sono tutti gli altari, con faccia verso i fedeli leggermente inclinata, quello maggiore col piano della mensa sporgente; in forma di blocchi cilindrici verticali le solide acquasantiere; in cemento a vista le mensole esterne e interne. All’artigiano scultore Savina l’architetto commissionò l’esecuzione delle lavorazioni in legno, rifinite tutte a mano: la croce ‘testimone’, per la quale predispose un Cristo crocefisso da lui stesso lavorato a graffito su lastra metallica da inserire nell’apposito incavo; sedute e schienali delle otto file di panche, con struttura portante in cemento a vista; la piattaforma per il sopralzo delle panche stesse, in blocchetti; le ante del confessionale sul fondo; la porta di ingresso a nord. In bronzo fece realizzare quattro piccoli candelabri per l’altare maggiore e la robusta impugnatura delle porte a nord e a est; in ferro la balaustra smaltata in color grigio piombo, leggermente curvilinea e con comoda sezione per l’appoggio dei gomiti. Il tabernacolo, oggi sul fianco dell’altare maggiore ma concepito per stare sopra di esso secondo l’orientamento liturgico d’allora, è un cubo in ferro smaltato su tre supporti: le due facce laterali presentano, l’una farfalle e un uccello con quattro ali, l’altra una foglia e fiori; il riquadro sul retro ospita il profilo di un albero e lo schizzo del tramonto sul mare, mentre la porticina che apre la custodia eucaristica è ornata con l’immagine dell’agnello pasquale. Il cubo è sovrastato da croce con Cristo identico a quello presente nel ‘testimone’; piccole croci in bronzo stanno sopra gli altari delle cappelle secondarie. Entrando dalla porta a nord, ingresso di tutti i giorni per pellegrini isolati o visitatori, si è quasi soggiogati, appena la si varca, dall’immediato impatto frontale con la parete sud, che provoca stupore e invita a ruotare corpo e sguardo non centottanta ma a novanta gradi, scoprendo il muro di fondo della cappella. Costellato da dodici piccoli punti di luce – dodici buche pontaie di cantiere tenute aperte per evocare le dodici stelle che incoronano la Vergine dell’Apocalisse – esso è dominato dalla luminosa nicchia, con spessori di parete dipinti in verde, giallo e rosso vivi, che ospita la statua della Vergine miracolosa col Bambino, visibile anche dall’esterno. Da quest’ingresso si avverte la forte convessità della copertura, con effetto non di schiacciamento ma di spinta al movimento verso il centro dello spazio. Il fuoco dell’altare non perde la propria centralità assiale pur lasciando il primato dell’evidenza al vuoto interno, nel quale ci si muove inconsapevolmente guidati dalla luce. Si percepisce qualcosa che assomiglia a un abbraccio o a un’attrazione, che sollecita assenso immediato. Il direttore di Casabella – Continuità Ernesto Nathan Rogers, varcando questo ingresso nel 1955, provò un moto d’invidia per «coloro che sanno pregare» perché, scrisse, «per essi, ancor più che per me, è stato creato questo capolavoro»; ricordò di colpo il tributo di lode di Dante nella celebre preghiera che inizia con l’invocazione «Vergine madre, figlia del tuo figlio». In effetti si prova qui una immediata, forte emozione; non si colgono 65
da questa soglia obblighi di assialità, ma solo spaziosità avvolgente vivacemente accompagnata dagli sfondati colorati della parete sud, grazie ai quali «la respirazione diventa palpito e, probabilmente, mistico anelito» in sintonia coi segni delle vetrate dipinte a mano da Le Corbusier, «con sapiente ingenuità». Rogers non poté trattenersi a questo punto dal commentare: «Ortodosso o diverso che sia, immanentista o credente nella trascendenza, ogni uomo sensibile sente accrescere la sua potenziale religiosità entro lo spazio di questa architettura e poiché tale dovrebb’essere il fine d’ogni opera d’arte – qualsiasi ne sia il tema – è tanto più notevole il fatto che ciò si avveri qui: nella chiesa cattolica del calvinista Le Corbusier». Ho fin qui segnalato due esperienze percettive distinte. La prima è sostanzialmente guidata dall’assialità dello spazio verso l’altare principale e controbilanciata da asimmetrie laterali continue, ma comunque attiva nel percorso che segna il primato della liturgia. La seconda, catturata dalle luci quasi puntiformi e meno unitariamente coordinata della precedente, più festosa, ilare, quasi giocosa come un sentimento di affezione devozionale, fa approdare lo sguardo alla Vergine. Le due percezioni in realtà si mescolano tra loro molto rapidamente, anche per le ridotte dimensioni della cappella, mentre si è avvolti in una luce che penetra da varie parti attraverso tagli, fessure, finestrelle con ampi e profondi sguanci, che formano penombre in cui i colori dei vetri si sovrappongono, si accostano, sfumano d’intensità. Le vetrate nel mur lumière a sud, e nel tratto di muro a nord di fianco alla sacrestia, sono composte con frammenti di vetro colato a mano, inseriti direttamente nelle fessure del cemento delle pareti. Nei colori blu cobalto, rosso e giallo vivi, verde smeraldo, grigio, sulla parete a sud – dove qualche sguancio dello spessore murario è a sua volta dipinto in verde, rosso, blu e giallo – esse portano le figure, disegnate a mano da Le Corbusier, del sole, della luna dal volto umano schizzata a Chandigarh (con inserite data e firma), delle stelle, di mani, nuvole, uccelli. In queste sequenze e in quelle a nord sul fondo dell’intonaco colore viola, vi sono scritte di invocazioni alla Vergine riprese dal Cantico dei cantici, dal Libro della Sapienza, dall’Ave Maria: la mer, étoile du matin, brillante comme le soleil, bénie entre toutes les femmes, pleine de grâce, je vous salue Marie, Mère de Dieu. A tratti il vetro trasparente lasciato senza colori lascia intravedere il paesaggio esterno. Distribuzione e forme dei piccoli frammenti di vetro, loro collocazione a diverse profondità, colorazioni, alternanze di superfici coperte e superfici trasparenti: tutto appare spontaneo nell’evidente manualità e insieme molto controllato, secondo composizione che presenta identica struttura complessiva ma risultanti compositive diverse tra superficie interna e superficie esterna della cappella. Si scoprono in un secondo momento le cappelle minori per celebrazioni simultanee delle messe, ognuna con propria luce spiovente, con graduali passaggi a penombre e ombre, sull’intonaco granuloso. Nelle due gemelle, la torre che le sovrasta cattura luce piena lungo tutto il mattino, l’altra, dedicata alla pace e vicina alla sacrestia cui si accede dall’andito con parete color viola, assorbe luce intensa, da mezzogiorno, che esalta il rosso vivo dell’intonaco in graduale abbassamento fino al tramonto. La terza più emergente, isolata, affacciata sul lato sud e con le aperture in alto rivolte a nord, ha illuminazione pressoché costante lungo tutta la giornata. Ci si trova in uno spazio che non si può associare a nessun altro realizzato nelle tradizioni di matrice cristiana; la convessità del soffitto ha fatto pensare ad alcuni alle grotte naturali, a quelle delle apparizioni della Vergine in particolare15, in un paragone suggestivo anche 66
Disegno della planimetria del sito con individuazione del percorso d’accesso, della casa del custode e di quella del pellegrino, della cappella e della piramide, flc.
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Planimetria della cappella con il disegno dell’arredo liturgico interno e della pavimentazione. In nero pilastri e setti portanti in calcestruzzo armato, in grigio murature preesistenti recuperate. A fianco, schema bicolore del Modulor utilizzato per ogni componente della cappella.
N
per le evocazioni di primitivismo che esso facilita, ma poco pertinente a quest’architettura, collocata in cima a un colle ed elaborata, nei minimi particolari, in continue opposizioni polari tra chiuso e aperto, basso e alto, chiaro e scuro, sporgente e scavato, massiccio e diafano, retto e inclinato, vuoto e pieno. Il suo interno si presenta come esplicita presa di distanza dal tradizionale spazio della chiesa cristiana, occidentale e orientale, prevalentemente caratterizzata da luce spiovente dall’alto e con absidi, volte o cupole, intese come icone del cielo e per questo ricche di gloriose figurazioni di paradiso, che si gonfiano in aeree forme, concave verso l’interno, stimolando, anche grazie all’altezza solitamente rilevante dello spazio, ad alzare lo sguardo. Nella cappella di Ronchamp lo sguardo è invece stimolato a muoversi in rotazione quasi, prevalentemente in orizzontale oltre che, ma meno decisamente, verso l’esterno; è catturato contemporaneamente dalla mobile polifonia di punti e tagli di luce, in continuo cambiamento al mutare della luminosità esterna nel giorno e nelle stagioni. La qualità spaziale ha pertanto globalmente, anche grazie ai prestiti islamici non assunti meccanicamente, il tono di un festoso ma non chiassoso spazio domestico e invita all’intimità con sé stessi. Evoca un’interiorità che non si regge, per il forte contrasto, senza l’esteriorità di grande respiro del paesaggio. L’una e l’altro infatti vivono di reciprocità, intellettualmente registrata ed emotivamente sperimentata come habitat, come dimora ospitale e come luogo di attesa, luogo in cui può davvero non suonare estraneo, e insieme non meccanicamente intrinseco, l’annuncio: «Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23). Non si può non concordare con la lettura di Casali che, come si è visto, valorizza il vertice di plasticità in essa raggiunto e manda in secondo piano il complesso processo progettuale tettonico al quale, come si vedrà più avanti, dà invece giusta rilevanza l’importante lettura di Frampton. Particolarmente pertinente mi pare, dunque, il riferimento di Ronchamp proposto da Pauly alle sculture à ajours di Archipenko, Gabo, Pevsner, Lipchitz16. Questa cappella molto piccola è nocciolo genetico oltre che fondale della grande chiesa, a cielo aperto, all’esterno. Dovremmo pensare a quest’ultima in termini di Gerusalemme celeste, se volessimo spingere la riflessione messa in moto in questo capitolo fino alle estreme conseguenze. Insorge allora l’interrogativo se la cima di questa collina si proponga, nell’unità di chiesa all’aperto e cappella, come figura del centro del cosmo e della storia, immagine di una presenza di popolo all’esterno e di una presenza eucaristica all’interno. Che il suo luminismo possa essere segno esemplare, nell’area europea o mediterranea, del senso religioso contemporaneo latente eppure vivo in noi, uomini sempre più sradicati da confortanti appartenenze e qui chiamati a divenire pellegrini che chiedono di poterlo riaccendere, è ipotesi da non trascurare. Certamente la vivacità di assensi e dissensi che la cappella ha subito provocato e la continuità d’attenzione di cui è stata oggetto fino ad oggi, come segnalo nel prossimo capitolo, testimoniano l’emergenza con essa, nella modernità, di un segno insieme di contraddizione e di speranza. Così lo visse forse anche il suo progettista che reclamò: «Neppure per un minuto ho pensato di farne oggetto di meraviglia. La mia preparazione? Una simpatia per l’altro, per l’ignoto, e una vita che si è svolta nelle brutalità dell’esistenza, tra cattiverie, egoismo, debolezze e volgarità ma anche gentilezza, bontà, coraggio, slancio…»17.
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Cappella maggiore
Assonometrie della cappella scoperchiata con individuazione dei vani minori e dei componenti dell’arredo liturgico.
Due cappelle minori contrapposte Cappella della pace
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11 Ingresso principale o delle processioni
1 Setti brise-lumière
Sezione longitudinale del fianco nord della cappella sull’asse delle due cappelle minori a periscopio.
Porzione del fronte interno della parete sud a spessore variabile in altezza con la composizione delle vetrate.
Porta per il collegamento tra i due presbiteri
Porta per il collegamento tra i due presbiteri 5
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Legenda 1. Altare esterno 2. Altare interno 3. Coretto 4. Pulpito esterno 5. Nicchia 6. Presbiterio 7. Panche 8. Pulpito interno 9. Confessionale emergente 10. Confessionale incassato 11. Pietra di fondazione 12. Croce di simmetria nel pavimento
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3 Ingresso feriale
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Giunti costruttivi di dilatazione
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Veduta del lato sud della cappella.
Veduta da est della cappella con la punta alta rivolta verso Gerusalemme.
Veduta della valle sottostante dal lato sud della cappella.
Veduta da nord-est della cappella. In evidenza il presbiterio esterno.
Pagine seguenti: Veduta della cappella sulla collina. In primo piano il campanile del borgo a valle.
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Pagine seguenti:
Veduta da nord-est della cappella con la folla nel giorno dell’inaugurazione.
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Vista frontale dell’area presbiteriale esterna. Si vedono i vani per deposito oggetti liturgici, l’altare, la croce «testimone», il balconcino per il coro, il pulpito. Nel muro di fondo spiccano il vano che accoglie la statua della Vergine e i piccoli fori per il passaggio della luce.
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Particolare del presbiterio esterno con l’altare, la croce «testimone», il vano che custodisce la Vergine. Scorcio del presbiterio con altare, vano per la Vergine, balconcino per il coro, pulpito.
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Pagine seguenti: Porta di passaggio dal presbiterio esterno all’interno della cappella, sovrastato da setti in cemento briselumière.
Impugnatura della stessa porta in bronzo. Inserto di conchiglia nell’intonaco della porta.
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Veduta dal balconcino del coro e dello spiazzo di verde antistante il presbiterio esterno.
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Veduta dallo stesso balconcino verso sud-est.
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Veduta dell’interno della cappella dal balconcino del coro interno, simmetrico a quello del presbiterio esterno.
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Veduta del presbiterio esterno della cappella da nord-est. Emerge la forza plastica della copertura in cemento armato a vista.
Pagine seguenti: Prospetto nord con due cappelle periscopio, tra le quali si apre l’ingresso feriale alla cappella. La scala esterna porta a un vano per riunioni soprastante la sacrestia. Veduta nord-ovest che consente la visione simultanea delle tre cappelle periscopio e della grande gargouille (doccione) a ovest.
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Particolare del fianco ovest con la sporgenza del muro in corrispondenza del confessionale interno e la grande gargouille. Lato ovest con l’abbassamento del muro in corrispondenza della gargouille, dalla quale l’acqua cade nella vasca sottostante con i tre solidi geometrici in cemento armato a vista.
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Particolare della vasca.
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Particolare della gargouille.
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Particolare del fianco sud della cappella.
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La pietra di fondazione collocata a fianco dell’ingresso principale o per le processioni.
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Ingresso principale aperto, vista del decoro della faccia interna.
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Ingresso principale, vista del decoro della faccia esterna.
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Particolari dei decori a smalto della faccia esterna dell’ingresso per le processioni.
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Particolari del decoro a smalto della faccia esterna dell’ingresso per le processioni: a sinistra, il disegno del «meandro».
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Pagine seguenti: Particolari della faccia interna del portale d’ingresso.
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Le mani della Vergine dell’Apocalisse nella faccia interna del portale d’ingresso.
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AT1836 (dettaglio del pentagono della porta esterna)
Dettagli dei due pentagoni alla base della faccia interna del portale d’ingresso.
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Firma di Le Corbusier incisa nello smalto alla base della faccia interna del portale d’ingresso.
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L’interno della cappella dal fondo.
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Pagine seguenti: Particolare dell’interno con il vano che ospita la Vergine circondato dai piccoli fori luminosi.
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Giochi di luce tra esterno e interno sulla parete che separa i due presbiteri interno ed esterno.
Vista dall’alto dell’area presbiteriale definita dall’alzata di un gradino e dalla balaustra curvilinea in ferro scuro smaltato. Al centro l’altare, sul fianco destro la
croce «testimone» dietro la quale, in alto, è il vano quadrato che custodisce la Vergine, sul fianco sinistro il tabernacolo su alto sostegno, ancora più a sinistra il balconcino del coro con la scala di accesso.
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Pagine precedenti:
In queste pagine:
Pagine seguenti:
Vista dall’altare dell’interno della cappella. Evidente l’abbassamento della copertura in cemento armato a vista verso il fondo a ovest.
Interno della cappella della pace con la luce spiovente dall’alto sull’altare.
Textures dell’intonaco delle pareti realizzato con la tecnologia del canon à ciment e finiture a calce.
Vista zenitale del periscopio della cappella della pace.
Vista dell’interno del fianco nord. Nel pavimento è leggibile la croce dell’ordinamento simmetrico, un suo lato corto porta alla seconda cappella a periscopio a nord davanti alla quale sporge il piccolo vano del confessionale. Più oltre è il taglio
Vista sull’interno del fianco nord con il vano che porta alla cappella della pace con le pareti a intonaco rosso. Interno della cappella della pace.
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dell’ingresso feriale sovrastato dai setti in cemento brise-lumière. Dal tratto di parete successiva emerge il piccolo volume del pulpito in cemento armato a vista. In primo piano l’acquasantiera a fianco dell’ingresso delle processioni, a sud. Cappella periscopio sul fondo del fianco nord, con la luce spiovente dall’alto sull’altare.
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Riverberi di luce generati dai tagli brise-lumière nel periscopio della stessa cappella.
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Esterno dei periscopi delle due cappelle contigue a nord.
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Vista dall’interno della cappella periscopio più grande a sud verso la corrispondente cappella periscopio a nord. Pagine seguenti: Vista dal sotto in su del periscopio della cappella a sud. Altare della stessa cappella con la piccola croce smaltata di disegno di Le Corbusier. L’altare maggiore nel presbiterio della cappella. Pietra consacrata dell’altare maggiore.
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In queste pagine:
Pagine precedenti: Crocifisso in smalto di disegno di Le Corbusier inserito nella croce «testimone». Crocifisso a smalto sopra il tabernacolo, disegnato da Le Corbusier nelle dimensioni e nella forma di quello inserito nel «testimone».
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Il tabernacolo smaltato con la vista frontale con l’agnello e la vista di lato con farfalle e uccelli con quattro ali. Vista frontale del tabernacolo sovrastato dal piccolo crocifisso.
Vista del fianco del tabernacolo con farfalle e uccelli con quattro ali.
Vista della faccia superiore del tabernacolo.
Vista del fianco del tabernacolo con fiori e foglie.
Vista del retro del tabernacolo e della piccola croce soprastante: sotto il paesaggio e sopra il segno di Cristo.
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Vista dall’alto dell’area di accesso alla sacrestia con il balconcino del coro e sul fondo la parete intonacata color viola.
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Parete sud interna: luci, ombre, gioco di sguanci.
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Sezione della balaustra smaltata in acciaio che separa il presbiterio dal vano dei fedeli.
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Particolare delle panche in cemento e legno.
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Pavimento di supporto delle panche in masselli di legno nudo con nervature evidenziate.
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Pulpito interno sul lato nord.
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Contrasto tra parete sud inclinata verso l’alto e copertura in cemento armato a vista bombata verso l’interno e in forte abbassamento verso la parete ovest. Evidente il taglio rettilineo di luce che stacca parete da copertura.
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Pagine seguenti: I due confessionali, uno sporgente sul muro a nord, l’altro incassato nel muro a ovest. Parete in cemento del confessionale a nord. Texture del cemento a vista della parete del confessionale nord. Acquasantiera all’interno dell’ingresso principale.
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Texture della parete intonacata interna.
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Vista dall’alto dell’altare principale con testimone e, in alto, il vano che ospita la Vergine.
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Statua della Vergine miracolosa.
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Pagine seguenti: Interno ed esterno della parete sud.
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Giochi di luce e di colore dall’interno sulla parete sud.
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Particolare del vetro trasparente con scritta a mano sulla parete sud. Pagine seguenti: Particolare di composizione di vetri in un vano della parete sud. Vetro con luna e nuvola con data e firma, disegnati da Le Corbusier a Chandigarh, ridotti in frantumi nel 2014 da un atto vandalico.
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Vetri con scritte, disegni e trasparenze.
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Pagine seguenti: Particolari dei vetri.
Particolari dei vetri.
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Vetri con preghiere alla Vergine Maria nella parete a nord intonacata in viola all’interno.
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Veduta dall’ingresso principale dell’interno. In evidenza l’ingresso feriale, il pulpito e la sequenza delle panche. Pagine seguenti: Campanile esterno. Particolare della main ouverte su una campana con croce inserita nel palmo.
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In questa e nelle pagine precedenti: La casa dei pellegrini dal prato antistante la cappella.
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Ronchamp crocevia della modernità
È inevitabile per chi s’immerge nel mondo di un’opera d’arte, soprattutto quando ne avverte la misura di capolavoro, lasciarsi catturare dal «paradosso dell’atemporalità nel contesto del tempo storico»1 che innerva da sempre la cultura, mediterranea e occidentale, produttrice della nozione di monumentum. Oggi, il sito di Ronchamp non è per nulla datato come non lo è, ad esempio, il monumento della cattedrale di Chartres2, è anzi di un’attualità che interroga di continuo. Luogo ospitale, esso provoca infatti la «cortesia del domandare» il suo senso, in libertà, a chi crede, a chi è agnostico, all’architetto, all’artista, al clero cattolico, come condizione per potersi coinvolgere con l’architettura, col suo architetto, col Mistero qui ospitato. Per spontaneo contraccolpo a tanta bellezza, in un recente incontro a Ronchamp si è chiesto Jean-François Mathey: dove questa bellezza non c’è, «Come pregare nello squallore? […] il cattivo gusto è un difetto capitale? È compatibile con la fede?». Ha aggiunto: «Com’è possibile? eppure prego!»3. Nella loro nuda semplicità, questi interrogativi sono cruciali. Segnalano l’affinità tra arte e fede come esperienze e la loro tragica divaricazione, nel xx secolo, nell’enorme numero di chiese moderne «tra le più goffe e tristi che siano mai state erette», chiese così brutte, in Europa e nelle Americhe, «che tutti i cristiani – clero, fedeli, architetti, artisti – dovrebbero chinare la testa per la vergogna»4. Ha ammonito von Balthasar: «In un mondo senza bellezza […], in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza d’attrazione, l’evidenza del suo dover essere adempiuto: e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male»5. Vi è tuttora urgente bisogno di bellezza e di occhi che sappiano vedere e riconoscerne il messaggio. Il mondo senza bellezza, o popolato da uomini che non ne avvertono più il bisogno, è mondo di disperazione, in cui la preghiera tende a trasformarsi in grido di terrore, poiché: «Senza le arti la psiche umana rimarrebbe nuda davanti alla propria estinzione»6. Per converso l’arte, come la fede, porta speranza e domande di gratitudine e di lode. Non a caso dunque la storia di Ronchamp, dalla costruzione fino ad oggi, è storia di un domandare che non si è mai spento né abbassato di tono.
Pagine precedenti: Veduta della casa dei pellegrini in primo piano e, sul fondo, la cappella con lo spigolo alto verso Gerusalemme. In questa e nelle pagine seguenti: Renzo Piano, Monastero delle Clarisse, veduta dell’esterno, di un particolare dell’interno e della cappella per le celebrazioni.
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Era ovvio, in un certo senso, che Nikolaus Pevsner7, costruttore nel 1936 del primo profilo del Movimento Moderno d’architettura al cui vertice aveva posto pensiero e opere pionieristiche di Walter Gropius, lanciasse un drammatico grido d’allarme contro la cappella di Ronchamp, ritenendola manifesto del nuovo irrazionalismo. Per lui si trattava di restare fedele all’ipotesi critica iniziale, come infatti fece sempre senza nutrire dubbi. Per la generazione di critici e architetti che avevano ereditato ed elaborato personalmente il suo messaggio in Europa, Ronchamp era il segno inquietante della crisi della categoria critica e storiografica del razionalismo, così come era stata formulata fino a quel momento, e della urgente necessità di ripensarla, perché essa potesse avere continuità, nell’esercizio di una professione chiamata a dare un volto umano all’habitat contemporaneo, e impedire cadute regressive, storicistiche in particolare. Sigfried Giedion, autore di un profilo storico critico della modernità uscito in America nel 1941, non risentì del contraccolpo allo stesso modo: era molto vicino a Le Corbusier, era stato presente all’inaugurazione della cappella8, rimodulò le proprie interpretazioni 201
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della modernità proprio a partire da Ronchamp9. Ma le sue interpretazioni, peraltro importanti, non riuscirono a contrastare la crisi che si era aperta. A premessa delle riflessioni che seguono, segnalo che delineare il quadro storiografico entro cui il problema Ronchamp si collocò immediatamente è qui impossibile anche per ragioni di spazio. Prescindendone dunque, propongo solo le fiammate più alte dell’incendio che la cappella provocò subito. Inoltre, nell’impossibilità di discutere le interpretazioni della cappella da allora a oggi, nella seconda parte di questo capitolo mi limiterò a proporre un sintetico e provvisorio status quaestionis degli ultimi anni. La presa di coscienza della crisi esplosa con Ronchamp ebbe due epicentri: portavoce di quello anglosassone fu il giovane architetto James Stirling, allievo dello storico d’architettura Colin Rowe, che lo aveva reso sensibile alla ‘presenza del passato’ nella contemporaneità; l’altro, di matrice italiana, scoppiò tra membri della rivista Casabella – Continuità10 diretta da E.N. Rogers. Essa prese avvio dallo scontro tra Giulio Carlo Argan e Rogers intorno a Ronchamp e implicò la rottura dei rapporti del secondo con il più giovane architetto Giancarlo De Carlo, da lui chiamato in redazione e che sarebbe stato tra i protagonisti, di lì a poco, della crisi dei ciam, i Congressi Internazionali d’Architettura Moderna dei quali Le Corbusier era stato promotore, sospesi dal 1959. Ronchamp fu una vera mina che scosse il mondo internazionale dei critici di architettura. Lo mise in evidenza la redazione di Casabella – Continuità che segnalò, con tempestività, il moltiplicarsi di saggi su di essa nelle riviste di settore di varie nazioni11. È importante ricordare anche che era in corso un non indolore passaggio generazionale di cui s’iniziava ad avvertire il peso: Stirling e De Carlo possono essere ritenuti gli architetti moderni di terza generazione, dopo quelli della seconda in cui rientrava Rogers, il quale a sua volta individuò nei quattro grandi Maestri – Gropius, Wright, Mies van der Rohe, Le Corbusier – le prime stelle. Nel marzo del 1956 Stirling pubblicò in The Architectural Rewiew, un articolo, riferimento in area anglosassone da allora a oggi, dal titolo The Corbusier’s Chapel and the Crisis of Rationalism12. Iniziava denunciando lo scisma stilistico aperto, tra Europa e Nuovo Mondo, con la conclusione nel 1952 della Lever House13, il glass-box skyscraper di New York City, e l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Lo scisma consisteva nella divaricazione tra primato dato all’arte in Europa e fedeltà alla tecnologia in America. Conseguente era la crisi del razionalismo, come struttura ideologica unica del Movimento Moderno, dal quale la cappella di Ronchamp era già del tutto fuori. I protagonisti europei, avendo cercato il rinnovamento del proprio linguaggio nell’arte popolare, mediterranea in particolare, avevano avviato un percorso la cui modernità era tutta da discutere, oltre che segno di esitazione nei confronti dell’innovazione tecnologica, in ragione anche dell’esasperato primato artistico cercato nei loro progetti d’architettura. Essi avevano aperto una stagione analoga al manierismo postrinascimentale, in pieno contrasto con la continuità di progresso tecnologico perseguita dagli architetti americani, dai primi ritenuti comunque architetti meno maturi. L’enfasi plastica di Ronchamp parve a Stirling «un’innaturale configurazione di elementi naturali», che ricordava le steli ad anello di Stonehenge. Leggera, non monumentale, simile alla torre di Einstein a Postdam di Mendelsohn, invasa all’interno da una luce diffusa priva di riferimenti con quella sempre direzionata dell’architettura barocca, essa provocava un forte impatto emozionale nel congegno di forme e tecniche esecutive di grande maestria. 204
Come le altre realizzazioni del secondo dopoguerra di Le Corbusier, essa godeva di un grande appeal popolare, ma provocava un’emotività priva di echi intellettuali. Stirling chiudeva con un giudizio contrassegnato dalle sue incertezze: Le Corbusier a Ronchamp aveva prodotto «a masterpiece of a unique but most personal order». Era in corso, sembra di poter concludere oggi in sua vece, un cambiamento di rotta evidente ma imprecisabile nei termini e nelle prospettive. In Italia la polemica scoppiata tra Rogers e Argan prese le mosse da un articolo entusiasta del primo dopo la visita a Ronchamp, pubblicato su Casabella – Continuità col titolo Il metodo di Le Corbusier e la forma della «Chapelle de Ronchamp», che precedeva nella stessa rivista la sua presentazione, da parte di Le Corbusier, in un breve scritto con ampia documentazione fotografica e corpose didascalie esplicative14. Rogers vi affermò che, con la cappella, il funzionalismo moderno, anima del razionalismo, aveva raggiunto «coerentemente i suoi sviluppi di grado superiore», maturi nel «dialettico rapporto tra fattori razionali e irrazionali che compongono il fenomeno architettonico» perché, aggiungeva con realismo: «In certe epoche particolarmente travagliate, se un artista non credesse nella capacità di riscatto che i temi offertigli dalla vita hanno in virtù della sua azione, egli non potrebbe muovere un dito. Né Michelangelo, che pur conosceva le debolezze della corte papale, avrebbe potuto dipingere la Sistina o innalzare la Cupola; né Le Corbusier, che non è cattolico, in un certo senso non è credente, avrebbe potuto fare la più bella chiesa della storia contemporanea. Malafede? No, profonda immedesimazione nelle idealità altrui; potenziamento fino alla sublimazione di ogni simbolo che sia degno di un pensiero poetico. È proprio questo l’afflato che unisce nella sfera universale dell’arte, nella religiosità immanente delle opere le diverse aspirazioni degli uomini […]. Il problema di una chiesa e, probabilmente, in particolare, quello di una chiesa cattolica, carico di contenuti mitici, offre a un artista i più elevati traguardi e, credente o no, penso che la maggior parte degli architetti moderni ambirebbe di gareggiare in questo che è il più arduo dei cimenti. L’importante, appunto, non è di essere praticanti ma d’essere artisti, e cioè di interpretare il fatto religioso ‘come se’». Nella lettera di Argan a Rogers15, subito pubblicata sulla rivista da lui diretta con lunga risposta, i temi centrali, strutturati attorno al principio moralizzatore dell’architettura moderna, erano quattro. Il primo era il rifiuto, carico di sdegno, di riconoscere in Ronchamp un capolavoro, essendo al contrario la cappella maniera «abbastanza primitiva, addirittura druidica, di iniziare gli uomini alla contemplazione del divino, del sacro», magica quindi, idolatrica anzi secondo il canone cattolico. Il secondo riguardava l’offensiva ripugnante confusione, in essa, tra funzione architettonica e funzione religiosa, che imponeva di escluderla dalla storia dell’architettura moderna, fondata sul nesso inscindibile tra natura e società fissato dal pensiero illuminista, postulato sociale da cui discendevano i processi razionalistici e funzionalistici. Il terzo era il suo barocco alla d’Ors, «stile della barbarie persistente, permanente sotto la cultura». Infine, il quarto era il suo gusto per una profanazione, inconscia ma non per questo meno offensiva, nella mescolanza tra barocchismi (nella copertura e nelle due ‘orecchie’ della pianta ambiguamente biomorfica, materializzazione della «assai peregrina concezione ‘acustica’ del paesaggio») e l’invenzione della neoplastica parete bianca «del miglior […] Mondrian o, se preferisci, del più asettico Van der Leck» con le sue finestre grandi e piccole, abile incrocio di esterno e interno tramite «reversione dei limiti parietali». Era, questa parete, chiave di volta del «segreto del raccordo tra 205
architettura e paesaggio», fallito nello scontro tra la più «candida e disarmata utopia razionalista europea» e «l’esaltazione dell’estro, dell’irrazionalismo, del parenthyrsus». Concludeva: Ronchamp «non è opera religiosa, è politica», perché il suo progettista vi esprimeva una volontà di dominio – la stessa presente nell’Unité d’Habitation di Marsiglia -, simulandovi una fede che non aveva. Per Argan, un edificio con destinazione liturgica era esigenza sociale alla quale ogni architetto, anche se ateo, doveva civile rispetto e legittimo riconoscimento di presenza nel contesto abitato; occorreva però concepirlo solo come «luogo di riunione e, sia pure, di raccoglimento», in un «moderato programma» del quale il clero doveva accontentarsi. In risposta, Rogers non solo ribadì punto per punto quanto aveva affermato nel suo primo articolo; non solo ricordò che anche Gropius, guida di ambedue nell’esercizio morale dell’architettura moderna, riconosceva in Ronchamp un capolavoro; non solo rifiutò la «speciosa riserva mentale» di Argan nei confronti del ‘come se’, ma precisò anche che l’assunto funzionalista era esercizio, non di pura logica, ma di intelligente intuizione delle «vibrazioni dialettiche che contengono in sé stesse le diverse strutture storiche» e di capacità di tradurle «nella sintesi dell’utilità e della bellezza con i simboli del suo personale linguaggio figurativo». Ronchamp, in quanto composizione di due forze, Le Corbusier e cattolicesimo, era per lui «autentico documento della nostra epoca»; sarebbe divenuto, concludeva acutamente, «problema critico più scottante per i clerici che non per i laici». Nella redazione della rivista il clima doveva essersi arroventato se, due numeri dopo, De Carlo16 esponeva la propria argomentazione sia contro Argan che contro Rogers, in una lettera al secondo dal titolo Discussione sulla valutazione storica dell’architettura e sulla misura umana, in cui accusò Le Corbusier di «aspirazione metafisica» coltivata nell’arte, scopo che giustificava qualsiasi mezzo consentendogli di «lavorare con lo stesso impegno per l’Esercito della Salvezza, per lo Stato Sovietico, per la Chiesa Cattolica». Per De Carlo non c’era novità in Ronchamp; da molto tempo Le Corbusier, grande lirico, aveva rotto col razionalismo; egli era inoltre del tutto superato sul piano ideologico. Forse era il più grande genio artistico della prima metà del xx secolo ma, come Gaudí, portatore di «altissimi valori poetici» in opere però «lontane dai nostri problemi al punto da apparirci esotiche». Per inciso e per ricordare anche a me stessa quanto sia delicata la dialettica tra arte, critica e storiografia, segnalo che Le Corbusier aveva esplicitamente espresso ad Alberto Sartoris, già nel periodo tra le due guerre, la sua estraneità al filone del razionalismo17, fatto di cui sembra che Stirling, Rogers, Argan e De Carlo non avessero preso atto. La risposta di Rogers, scritta dall’America, dove si trovava per un ciclo di conferenze, fu ancora una difesa a tutto campo di Le Corbusier e di Ronchamp, questa volta puntando dritto contro l’attacco di De Carlo al senso stesso dell’architettura come arte, nell’astratta distinzione tra forza lirica e ideologia che separava forma da contenuto e sensibilità da ragione, pericolosa china sulla quale la società del tempo stava scivolando verso il basso. Riconobbe la necessità di rispondere a problemi generali della sua e della loro generazione, ma conservando l’onore ai Maestri per aver aperto il cammino. In un numero successivo della rivista, Rogers18 propose il testo di una delle conferenze svolte in America, in cui ribadì, per sé e per gli architetti contemporanei, il compito della ‘continuità’ col Movimento Moderno. Puntigliosamente segnalò che anche Mies van der Rohe, da lui interpellato, riteneva Ronchamp un capolavoro, pur prendendo 206
Pagine seguenti: Il sito della collina con la casa del custode, la casa dei pellegrini e la cappella, immersi nel verde. Poco visibile, in basso, l’ingresso e il monastero delle Clarisse, opera di Renzo Piano.
le distanze dalle scelte dell’architetto franco-svizzero poiché riteneva di doversi vietare «ogni atto della fantasia, ogni atto soggettivo». Quest’opzione per l’oggettività, con radici nella cultura artistica nord-europea, fu propria anche di Rudolf Schwarz19, architetto tedesco amico di Mies van der Rohe, costruttore di molti edifici religiosi di grande qualità e teorico di vaglia, che espresse però il suo totale rifiuto della cappella di Ronchamp. Ho voluto riportare i termini delle incertezze di Stirling e del fuoco di fila italiano, sempre citati ma trascurati nei contenuti, perché li ritengo nucleo fondamentale e tuttora vivo di tutta la trama complessa di pensieri e pratiche che la piccola chiesa sulla collina ha fatto esplodere. In Stirling e nel dibattito italiano emerse l’origine della maggior parte degli interrogativi su Ronchamp in quanto architettura matura di Le Corbusier e in quanto chiesa, interrogativi tuttora aperti, in Europa e nelle Americhe, sia nello specifico esercizio critico e storiografico disciplinare sia nelle riflessioni teologiche di contesto cattolico20. Inserisco nello stesso dinamismo culturale – di Rogers, Argan, De Carlo, Stirling – oscillante tra conferma o dissoluzione dell’omogeneità del Movimento Moderno, le interpretazioni proposte da Bruno Zevi, da Giovanni Klaus König, da Gio Ponti. Il primo, nel 1950, mentre Le Corbusier veniva incaricato del progetto per Ronchamp, diede alle stampe una Storia dell’architettura moderna che sarebbe stata testo storiografico di riferimento per molte generazioni fino agli anni Ottanta del Novecento. Nell’edizione del 1975, solo a Le Corbusier riconobbe «il supremo coraggio di registrare il crollo d’ogni speranza di riscattare il mondo con la ragione», dopo i campi di sterminio e le guerre. È il solo, scrisse, che rifiutò di «bendarsi gli occhi, seguitando a disegnare come se nulla fosse accaduto, e dell’inconcepibile tragedia prende coscienza nell’urlo della Chapelle [… che] tuona con rudezza medievaleggiante e furore tra barocco e espressionista, scavando uno ‘spazio indicibile’ compresso, schiacciato dal tetto incombente, poi dilatato nelle cappelle e risucchiato da fiabeschi condotti verticali di luce. […] Unicum dell’informale architettonico, scagliato sul colle: un non-finito, oppure un rudere, che grida nel silenzio del panorama l’irrevocabile condanna del destino umano, lo spavento, forse una fede disperata. Ronchamp chiude la partita con l’illuminismo, con le ‘idee universali’ assoldabili per qualsiasi finalità, anche con il razzismo hitleriano. […] Ronchamp comunica il delirio di tali contraddizioni, repelle e calamita negli anfratti incommensurabili e dolcissimi, in cui ogni suono diviene eco di se stesso, già memoria. Conversione apocalittica, che dimostra una statura intellettuale senza riscontri nella storia moderna. […] Evento irripetibile. Il convento La Tourette presso Lione torna infatti alla pianta quadrata e ai prismi»21. König, acuto indagatore del rapido invecchiamento dell’architettura moderna, a due anni dalla scomparsa di Le Corbusier costatò che l’arte del xx secolo, ricca di pionieri, aveva avuto pochi protagonisti e che un raro nodo di relazioni tra questi, esploso in Parigi e «capace di sconvolgere l’intero mondo dell’arte, era stretto da tre persone, nessuna delle quali era francese di nascita: Picasso, spagnolo; Le Corbusier, svizzero; Stravinskij, russo»22. Passando subito a Ronchamp segnalò che la sua comparsa aveva sconvolto i critici d’architettura ma non gli architetti perché: «Il loro occhio (come l’orecchio dei musicisti per l’ultimo Stravinskij) vide subito il nuovo modo di procedere di Le Corbusier verso un pre-possesso globale della forma architettonica, in modo da garantire un experiri intellettuale del fruitore, prima ancora di una analitica e funzionale esperienza»23. 207
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Per la maturità e l’eccezionale abilità compositiva del suo autore, uno dei tre enfants terribles della modernità con i quali risultava impossibile per principio tirar le somme – aggiunse –, aveva visto la luce un capolavoro di architettura religiosa, che portava anche a maturazione componenti espressioniste, emerse ma rimaste inattuate in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali. Concluse: «Anche in chiesa, come nelle favole medievali, il diavolo si era dimostrato il più bravo di tutti»24. Rileggendo oggi, alla luce dei contributi qui richiamati, l’entusiasmo espresso dai padri domenicani nella loro profonda adesione al progetto di Ronchamp25, si è colpiti dalla serenità con cui, anche con ingenuità critica, confidarono nel talento e nella serietà di Le Corbusier. Ne avevano tale certezza da affidargli nel 1952, mentre la costruzione della cappella sui Vosgi era appena avviata, il progetto per il loro convento a La Tourette, presso Lione, la cui chiave di lettura non può che essere inscritta, ancora una volta, nel virtuoso triangolo costituito da committenza, progettista e sito. Identico, sereno assenso espresse Gio Ponti, dapprima incerto ma convinto, dopo la visita, che la cappella di Ronchamp rispondeva in pieno ai valori che identificavano per lui un capolavoro, di invenzione formale, essenzialità, rappresentatività e illusività. Essa è «chiesa, eterna chiesa» dal fascino «potente […] che agisce con persuasioni severe»26. Il Movimento Moderno non è più oggi d’attualità. Inserita in un compatto quadro unitario dalla storiografia elaborata tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento27, la produzione che lo identificava ha perso la consistenza monolitica di modernità architettonica contrassegnata da radicale rinnovamento costruttivo e figurativo in rottura con le tradizioni, e da intenzionale convergenza di architettura e urbanistica in un unico progetto. Non è stato però abbandonato del tutto il mito di una potenzialità tecnologica concatenata al susseguirsi di fasi di innovazioni industriali, come risolutrice, per via di progresso continuo, degli squilibri insediativi ed ecologici oggi platealmente evidenti. Negli anni Ottanta divenne persino di moda sostenere l’idea che il Movimento Moderno era morto; fu in effetti solo moda, ma lasciò sul campo conflittualità di tendenze a tutt’oggi irrisolte. Summerson, registrandola, commentò: «Se presa sul serio è un’affermazione discutibile, ma è un’idea interessante, forse la prima idea nuova e ricca di ispirazione da quando il movimento è nato. È comunque liberatoria. Significa che può esserci di nuovo qualche utilità nell’analizzare il linguaggio architettonico, nel cercare di definire la natura e il valore della decorazione e nell’approfondire tutta la questione dell’architettura in quanto mezzo di comunicazione sociale»28. Summerson ebbe ragione da molti punti di vista: esplose infatti allora, e il processo è tuttora in corso, la lettura di percorsi diversi della modernità, in un dibattito sul suo inquadramento storico che ha rimesso parzialmente in discussione le origini, i protagonisti e le componenti. Oggi l’attenzione storico-critica è rivolta soprattutto, se non esclusivamente, al linguaggio dei singoli architetti moderni, del quale interessa l’autenticità della ricerca personale e l’esito in opere d’arte. Curtis in particolare, nel suo manuale di 700 pagine circa solo sul Novecento29, abbandona completamente nodi tematici precedentemente essenziali ritenendoli miti storiografici: quello avanguardistico, della natura tout court democratica dell’architettura moderna, dell’esistenza di un unico stile internazionale, della scomposizione della sua fenomenologia in ‘movimenti’ o ‘ismi’. 210
Conseguente e di notevole interesse la sua definizione dell’architettura come «arte complessa che abbraccia forma, funzione, simbolo e fine sociale, tecnica e fede», «radicata nei processi e nei paradossi della società» secondo procedure di assorbimento e modifica degli stessi «nella propria terminologia», in «regole parallele, non differenti» 30 . Non meno interessante le sue messe a fuoco di una tradizione del moderno e la loro affinità con il rapporto, fra tradizione e talento individuale, magistralmente segnalato da Thomas Eliot negli anni Venti31. Dagli anni Cinquanta a oggi Ronchamp è stata oggetto di continue indagini, che qui sintetizzo in quattro grandi tematiche registrandone solo i caratteri salienti: l’individuazione di una tettonica come arte della connessione o dell’intelaiatura nella costruzione, la sua mediterraneità, l’unità delle arti, il rapporto paesaggio-architettura. La preziosa collaborazione di Caussé a questo volume richiama in causa, con quello della committenza, anche un tema troppo trascurato dai critici d’architettura, quello della cultura francese della prima metà del Novecento. Ne ho trovato qualche stimolante cenno, sul fronte del progetto architettonico, in un saggio del 1986 di Tintori32 che rinviene, concomitante con la presenza a Parigi di Le Corbusier nel periodo tra le due guerre, un contesto culturale in cui emergono i nomi di Blondel, Mounier, Bachelard, soprattutto l’influsso enorme di Bergson e della sua durée, tempo irreversibile dell’esperienza concreta, tempo vissuto «in quanto accumulazione e compenetrazione di esperienze, cui dà impulso una gamma pluridirezionale di facoltà del ‘vivente’: istinto, intuizione, intelligenza»33 che facilitano le relazioni tra arti della visione (pittura, scultura e decoro), arte dello spazio (architettura), arte del tempo (musica). Protagonista della valorizzazione della tettonica nel progetto d’architettura è Kenneth Frampton34, che ha rivolto in più occasioni la propria attenzione a Ronchamp. Gli è riconosciuta una personale ricapitolazione della modernità, da Perret a Scarpa, nell’analisi critica di poetiche ancorate a esercizi sintattici garanti di specificità e autonomia dell’architettura, il cui progettista è il custode al di sopra della caducità delle mode, come quella postmoderna che, tra gli anni Sessanta e Ottanta come è noto, attraversò dapprima l’America e in seguito anche l’Europa. Charles Jencks, in questo frangente, dichiarò postmoderna la cappella di Ronchamp35. Frampton, tenendosi saldamente ancorato a problemi costruttivi, ha individuato forme tettoniche anche in Le Corbusier: le prime, in reciproca antitesi di pesantezza e leggerezza, nel progetto per la Casa Week-End del 1935, a Saint-Cloud presso Parigi; successivamente quelle per il Padiglione dei Tempi Nuovi del 1937, a struttura metallica. La modularità e la conformazione a tenda primordiale di questo Padiglione, richiamo del temenos a reticolo del tempio ebraico nel deserto proposto in Verso un’architettura del 192336, costituiscono, a suo parere, premessa alla sintesi tettonico-tipologica di Ronchamp, fase intermedia di una ricerca che avrebbe trovato compimento nel Padiglione Philips, progettato per l’Expo mondiale di Bruxelles del 1958. Sulla collina dei Vosgi i due volumi delle Case del pellegrino e del custode riprendono il tema di Casa Week-End, mentre la cappella quello del Padiglione dei Tempi Nuovi. Nella ricerca di un’espressività di forte impatto, conclude lo studioso, «ispirandosi alla 211
plasticità del calcestruzzo armato Le Corbusier trasporrà progressivamente il neoclassicismo del suo periodo purista in una sorta di arcaismo»37. La mediterraneità è grande, affascinante, tema trasversale a tutta la produzione di Le Corbusier, qualificata da due principali componenti. In primo luogo: le memorie dei luoghi mediterranei, custodite come prezioso frutto dei viaggi soprattutto giovanili, di cui Giuliano Gresleri38 si è occupato con rigore di metodo in più occasioni; per quelli in Italia ricchissimo è il recente volume curato da Marida Talamona, collegato all’omonima esposizione al Maxxi di Roma del 201239. Non meno importante è l’interiorizzazione dell’architettura antica, visitata e amata da Le Corbusier, dell’Antico da lui dichiarato suo unico vero maître, come già si è visto. Non meno affascinante e trasversale a tutta la produzione di Le Corbusier, ma accentuato con forza dopo la seconda guerra mondiale, è il tema della sintesi delle arti, in cui si inscrivono le complesse modulazioni del sacro, del rapporto tra arti e sacro, delle invenzioni di metafore e simboli personalissimi, in un percorso in cui rientra a pieno titolo anche il progetto per Ronchamp. Recenti scritti – di Moore, Krustrup, von Moos, J. Calatrava, Coombs40 – si avventurano in questo mondo dal quale traggono ipotesi interpretative fino a due decenni fa impensabili. La loro lettura mi ha ricordato la ricchezza semantica del simbolismo antico, di quello medievale in particolare, insieme di significati, dati a segni e figure, tanto ampio da sconfinare nella coesistenza di opposte identificazioni e da dar luogo a invenzioni di forme a prima vista incomprensibili. Che la disposizione delle aperture della parete sud della cappella di Ronchamp, ad esempio, possa richiamare un sistema di costellazioni o che le composizioni dei due lati della porta delle processioni contengano plurimi significati sono ipotesi interessanti, da trattare con prudenza e delicatezza ma non prive di fondamento. La loro esplorazione apre l’architettura di Le Corbusier anche al mondo della comunicazione, mettendo in evidenza campi di poesia non privi di interna razionalità, molti vicini a quelli che il fenomenologo Bachelard già esplorava negli anni Trenta41. Infine, il tema del rapporto tra architettura e contesto, nel più ampio quadro della relazione tra artificio umano e paesaggio, è quello più evocato da tutti coloro che, a vario titolo, hanno scritto di Ronchamp. Forse non casualmente in esso si annida l’interrogativo oggi più inquietante sul senso della cappella e del sito, che ruota attorno alla formula acustique visuelle, già ampiamente esaminata. Anch’esso tema trasversale a tutta la produzione corbusiana, come dimostra il bel saggio di Valerio Casali, La nature come paysage42, in Ronchamp ha fatto esplodere riverberi di sacralizzazione del paesaggio, legati a sensibilità contemporanee che meritano di essere attentamente prese in esame, perché attestazione di quell’insopprimibile presenza di senso del sacro nella coscienza umana segnalata da Mircea Eliade. Scrive von Moos nel 2009, richiamandosi alle prime reazioni di Stirling nel 1956: «In effetti, l’‘irrazionalismo’ di Ronchamp era tanto più inquietante in quanto sembrava 212
trascinare con sé il crollo delle categorie tradizionali che opponevano l’architettura ‘secolare’ a quella ‘religiosa’ – persino ‘architettura’ a ‘scultura’ e a ‘pittura’ – a favore di un primitivismo romantico potenzialmente sovversivo e di una concezione spazio temporale orientata verso un misticismo atavico della natura. Il carattere religioso di Ronchamp non proviene dal sacro o dal cultuale. Qui la natura acquista un grado di realtà che non era mai stato raggiunto dai luoghi sacri dei periodi precedenti. Se Karl Ledergerber, che ho citato, ha ragione, Notre Dame du Haut è costruzione ‘religiosa’ ma non ‘sacra’ (se si accetta la sua definizione di sacro come manifestazione politica della religione, pertanto diversa dalla distinzione puramente emozionale di Le Corbusier tra cose che sono sacre e altri che non lo sono). Pertanto da questo punto di vista, sembra che Le Corbusier abbia usato Ronchamp come poco più che un pretesto per realizzare finalmente il sogno fin de siècle di un ‘santuario dedicato alla natura’, che aveva ispirato gli studenti della Scuola d’arte a La Chaux-de-Fond, riuniti intorno al maestro L’Eplattenier mezzo secolo prima»43. L’interpretazione di von Moos, molto vicina a quanto espresso nel recente Manière de penser Ronchamp44, non è quella che si svolge in questo libro nel suo ultimo capitolo, ma i rapporti tra religione, sacro, arte e natura che essa propone sollevano problemi che chiedono, si potrebbe dire con Steiner, la ‘cortesia’ di un rinnovato corale domandare, nel quale ci si intenda sul senso delle parole religione, sacro, arte e natura, e sul retroterra di cultura di Le Corbusier, ma anche di ognuno degli interpreti che si sono succeduti nel tempo, attorno a quella acustique visuelle che è cifra di riferimento centrale, chiave per un significato dell’espressione espace indicible meritevole di ulteriori indagini. Il recente punctum dolens sta, a mio parere, nella sacralizzazione del paesaggio in termini di sua reificazione esasperata, non nella dinamica tra cappella e paesaggio, ben esplicitata già nel 1955 da Rogers come corrispondenza tra spazio «riassuntivo del panorama» e «concentrazione del mondo circostante» della prima, e «causa generante di quest’architettura» del secondo45. L’Associazione Oeuvre Notre-Dame du Haut ha provveduto, per la conservazione dell’integrità del sito e di una sua continuità di accoglienza, a far realizzare un nuovo monastero che ospita un piccolo gruppo di clarisse, un ridisegno dell’ingresso con sistemazione del verde circostante. Renzo Piano ha accettato l’invito in vista di un futuro di Ronchamp: «Occorre non solo lavorare per il passato, proteggere l’eredità di Le Corbusier – ha affermato –, ma anche volgersi al futuro […]. Non voglio operare né con né contro Le Corbusier ma con la mia risposta al sito, alla cappella, agli alberi, al cielo, al contesto. Occorre modestia alla presenza della natura e del luogo sacro»46. Il dato di fatto dell’intervento realizzato supera l’aspra polemica che la possibilità stessa dell’intervento aveva acceso; non chiude però la necessità di interrogarsi ancora su Ronchamp e su Le Corbusier.
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Ronchamp e il sacro oggi
Riconoscere valori d’arte in un’opera esige un’intensa corrispondenza tra soggetto e oggetto dell’esperienza estetica, una sintonia che può anche essere non immediata dal momento che il primo deve riuscire a sollevarsi al livello dell’altro. Per Ronchamp ma non solo per essa, nella vastissima letteratura storico-critica prodotta dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi su Le Corbusier, si registra, accanto al riconoscimento attualmente concorde dei suoi valori d’arte, anche il travaglio di comprensione in continuo svolgimento, perché coincidente, per molti aspetti, con l’interpretazione del senso stesso dell’abitare contemporaneo. Ciò accade perché l’architettura si distingue fra le arti non solo per l’imprescindibile utilità, ma anche in quanto «constructum abitato, un’eredità che ci comprende prima ancora che noi si tenti di pensarla»1, governata da sintassi, forme e funzioni, trascese dal suo arché, il fondamento dell’abitare che trascina sempre con sé miti, riti, religioni, culture orientando il constructum, con ruolo di ‘istituzione’, verso ‘luoghi’ non architettonici in ragione di «un solo e medesimo postulato: l’architettura deve avere un senso, deve presentarlo e pertanto significare»2. Se ne deduce che la grande, vera architettura è, per queste ragioni, simbolo. Affrontando il tema progettuale del luogo di culto cattolico, un architetto, essendo egli stesso abitante prima che costruttore, non può non porsi l’interrogativo di cosa in esso «ha luogo nel momento in cui, per esempio, l’evento eucaristico pervade una chiesa lasciandola impietrita»3; non può non cercare analogie di eventi simili nella propria memoria; non può non impegnarsi a captare, dalle richieste della committenza, l’anticipazione di esperienze che la sua architettura dovrà saper accogliere, in bellezza e armonia, ponendosi al loro servizio. Non solo l’edificio cultuale, ma ogni architettura, infatti: «Nella sua presenza non rappresentativa che, a differenza delle altre arti, sembra rimandare solo a se stessa, […] sarà stata destinata alla presenza degli uomini e degli dei»4. La grande, vera architettura, dunque, è qualificata anche da una dimensione sacrale con fondamento antropologico. Di questi due connotati, il sacro e il simbolo, l’architettura che attinge al livello dell’arte non può fare a meno. Gli equivoci e la confusione al riguardo sono tuttora rilevanti; evidenziarli, nell’esame del senso che Ronchamp ha acquisito nell’attuale cultura architettonica, è il compito di questo capitolo.
Lettera autografa di Le Corbusier scritta a padre Couturier, ricoverato in ospedale, per ringraziarlo dell’articolo su Ronchamp.
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Il luogo di culto L’accettazione di un progetto per Ronchamp da parte dell’architetto, oltre a tutte le motivazioni fin qui esposte nei precedenti capitoli, ebbe anche una premessa importante, narrata in modo suggestivo, dal collaboratore André Wogenscky: «Ho assistito quel giorno a una conversazione straordinaria, alla quale non posso fare a meno di ritornare con emozione. Io sto in silenzio. Mi trovo in testa al tavolo in marmo. A destra sta padre Couturier nel suo magnifico abito bianco. A sinistra, Le Corbusier, appoggiato al muro, difende il proprio punto di vista: ‘Non ne ho il diritto! Prendete un architetto cattolico!’. E padre Couturier gli spiega che la decisione di interpellare Le Corbusier è presa con cognizione di causa, sapendo che egli non è religioso. Finisce per dirgli: ‘Ma, Le Corbusier, io me ne infischio che voi non siate cattolico. Abbiamo bisogno di un grande artista, e l’intensità estetica, la bellezza che voi farete avvertire a coloro che verranno nella cappella, permetterà a chi ha la fede di ritrovare quanto vengono a cercare. Vi sarà convergenza di arte e spiritualità; voi raggiungerete il nostro scopo meglio di quanto potrebbe fare un architetto cattolico: egli si riterrebbe obbligato a produrre 215
una copia delle chiese antiche’. Le Corbusier rimase pensoso per qualche secondo e poi disse: ‘Allora, accetto’. E progettò la cappella di Ronchamp»5. Le Corbusier e Couturier condividevano due opzioni: la convergenza di arte e spiritualità, da una parte, il rifiuto dell’accademismo dall’altra. Il domenicano non riteneva indispensabile l’appartenenza cattolica, voleva un’architettura che facesse spazio, in termini di grande arte, a un’esperienza ignota a Le Corbusier, forse persino insignificante per lui fino a quel momento, ma essenziale per molti uomini, ragione di vita per lo stesso domenicano6. Già si sono dettagliati nei capitoli precedenti i rapporti tra novità di quest’opera d’arte e i suoi nessi col tema chiesa di pellegrinaggio e programma liturgico e devozionale. Vi fu però in Le Corbusier anche un riverbero degli esiti del progetto, mai comunicato in contesti pubblici nei quali mirava sempre a dare un’immagine di sé definita in toto della propria missione sociale. Il suo temperamento d’altro canto, di uomo «brusco e affettuoso, austero e sensuale, timido e aggressivo, aspro e generoso» come scrive Jenger7, favorì schiettezza e libertà d’espressione solo con parenti e amici, su ciò che gli era più caro, e irritazione con chi proponeva luoghi comuni o maldestramente invadeva il mondo delle intenzioni profonde. Riprendo le testimonianze più incisive a questo riguardo, nelle quali emerge che egli percepì un’eccezionale emergenza del sacro nel sito sulla collina, una ierofania che lo sorprese e che avvertì di condividere con i committenti e i padri domenicani in particolare. In una commovente lettera alla madre del 26 giugno 1955, poco dopo l’inaugurazione della cappella, scriveva: «Mia piccola cara mamma, tutto si è svolto in modo mirabile. Tutto è stato gioia, bellezza, splendore spirituale. Il tuo Corbu è onorato al massimo. Considerato, amato. Rispettato. Il compito era molto delicato. È la più rivoluzionaria opera d’architettura realizzata da molto tempo a questa parte. Sul piano religioso, cattolico, del rito. Ora, il rito è valorizzato al massimo, decantato, riportato ai Vangeli dalla mia architettura. Lo dicono i sacerdoti – quelli buoni, quelli veri –, è gesto di portata inattesa con effetti, nel bene e nel male, imprevedibili. Tutto è stato gioia e entusiasmo. Ma, il diavolo deve tramare in un angolo, ha l’abitudine di non restare inattivo. Roma guarda a Ronchamp. Attendo temporali. E, attenzione! villanie e bassezze»8. I timori erano inevitabili: l’opera, lo si è già visto, suscitò entusiasmo, immediate imitazioni, infuocate polemiche. In generale, non se ne compresero le intenzioni artistiche, si sottostimò il ruolo della committenza, non si colse la novità che sorprese persino l’autore, evidenziandogli una dimensione della coscienza in lui da sempre presente, ma prima non palese. Così, infatti, commentò il pensiero da lui stesso espresso nel discorso inaugurale – «il sentimento del sacro ha animato i nostri sforzi» – nella lettera del 10 luglio 1956 all’abate Marcel Ferry di Besançon: «Questa è una linea di condotta della mia vita, una volta ammessa. Non mi porta milioni in denaro, ma uno scopo alla direzione del cammino»9. 216
Busta della lettera di Le Corbusier a padre Couturier.
Qualche anno dopo avrebbe precisato questa scoperta di sé ai domenicani che gli avevano chiesto il progetto per il convento di La Tourette: «Un uomo che cerca l’armonia ha il senso del sacro. Vi sono cose che non si ha diritto di violare: così è per il segreto che è in ognuno – questo grande ordine illimitato nel quale si può o non si può custodire la propria nozione di sacro – individuale, totalmente individuale. Esso si chiama anche coscienza, strumento per misurare responsabilità e manifestazioni, che si estende da ciò che è catturabile a ciò che non lo è»10. Ronchamp dunque fu per lui qualcosa di più che una tappa significativa nella carriera professionale, lo toccò in profondità, come segnalano i seguenti due episodi. Una sola volta, dopo la conclusione dei lavori, riuscì a tornare sulla collina con l’amico Maurice Jardot e col cappellano, padre René Bolle-Redat, che ha lasciato il resoconto della visita. Arrivò nel pomeriggio del 6 ottobre 1959, girò intorno alla cappella e, commosso, disse: «È grande, non è vero? È immenso, senza misura …». Toccò l’intonaco bianco ad arriccio dei muri esterni, vi riconobbe la sapienza di operai esperti. Entrato nella cappella, osservò tutto in silenzio mentre il cappellano cantava un salmo biblico, poi commentò: «C’è del sacro, non vi pare?»; si soffermò in particolare sul Crocefisso; sulla lampada a fianco del tabernacolo «che i protestanti non hanno»; sulla statua della Vergine abbracciata dal sole; sulle vetrate; sulla porta delle processioni. La mattina successiva restò solo, per tre ore, in cappella; indicò al cappellano le figure del suo disegno sul tabernacolo, gli elementi cosmici dell’acqua e del fuoco legati « alla celebrazione della notte di Pasqua»; nel libro dei commenti per i visitatori scrisse: «Grazie a tutti voi che la utilizzate; sono ricompensato»11. Il cappellano segnalò persino, nel diario giornaliero, l’accenno a un suo sentimento di devozione mariana; scrisse infatti il 27 agosto 1965, giorno della sua morte: «Ho messo la foto di Le Corbusier nella cappella rossa, sull’altare a est. Mi aveva detto a dicembre: ‘Non ho tempo di fare un pellegrinaggio, metta la mia foto davanti alla Santa Vergine’. L’ho messa stasera, con i fiori della collina: coi fiori dei campi»12. Per indicare un assenso di fede non bastano queste preziose testimonianze del legame strettissimo di Le Corbusier con Ronchamp, in cui balena l’ipotesi di un’esplicita devozione alla Vergine, del resto manifestata anche nella piccola croce che egli realizzò, per la tomba propria e della moglie, in cui inserì, non il profilo del corpo di Gesù Cristo, ma quello della Madre. Questi fatti mostrano certo una familiarità, carica di affetto, con aspetti della fede cattolica. Non implicano, tuttavia, il pieno incontro della sua cultura moderna con essa né una forma di assenso; segnalano piuttosto l’apertura di un dialogo tra i due ambiti e invitano, per comprenderli meglio, a un’incursione nella cultura d’artista e d’architetto di Le Corbusier in questa fase di straordinaria fecondità, al cui centro stanno progetto e realizzazione di Ronchamp. Ricordo rapidamente, tra i progetti dell’arco temporale 1946-1955: il piano per la ricostruzione di Saint-Dié, non realizzato; l’Unité d’habitation di Marsiglia e la sua variante a Rézé-les-Nantes; il padiglione del Brasile nella Cité Universitaire di Parigi; l’inizio dei lavori a Chandigarh; il convento di La Tourette presso Lione; le case Jaoul; il Cabanon a Cap Martin. Tra gli scritti pubblicati in questi stessi anni: L’espace indicible, À propos d’urbanisme, Les Trois Établissements, Manière de penser l’urbanisme, Poésie sur l’Algerie, Modulor 1 e 2, Poème de l’angle droit. Molto intensa fu l’attività artistica, con produzione di dipinti, anche murali, incisioni, litografie, arazzi e sculture. Numerosi i viaggi. 217
Dibattito sul significato Recenti studi su Le Corbusier, lo si è visto, segnalano importanti sviluppi nell’interpretazione della sua produzione matura, che qui sintetizzo nel confronto critico tra due insiemi di scritti, cronologicamente poco distanti tra loro. Una prima, complessiva lettura di questa stagione è nell’encyclopedie13, voluminoso dizionario pubblicato nel 1987 legato all’esposizione al Centre Georges Pompidou in occasione del centenario della nascita dell’architetto, composto da voci relative a opere, personalità in contatto con lui, luoghi, temi generali come armonia, arte astratta, musica, standard, modernità, maturità. Il termine sacro non compare mai, occasionale è quello di simbolo. La struttura in più saggi propone la complessità del contributo di Le Corbusier alla modernità in tutti i registri da lui frequentati, senza preoccupazione di coerenza tra le interpretazioni né di bilancio unitario. Non a caso dunque vi emerge un ventaglio sfrangiato di posizioni, che intrecciano ammirazione senza riserve e denunce di incertezze nel delineare una visione retrospettiva e nel fissare l’eredità del maestro. A più di venti anni dalla sua scomparsa, appariva evidente quanto fossero penetrati in profondità il suo messaggio e il suo metodo di lavoro; soprattutto si registrava l’importanza di un suo retroterra di ricerca artistica, la cui connessione con le architetture restava però ancora indeterminata. Il richiamo in sintesi del contenuto di alcune voci dell’enciclopedia, senza preoccupazione di lettura sistematica, può darne qui ragioni sufficientemente esaustive. Reichlin14, ad esempio, ricostruì lucidamente la messa a punto da parte del maestro di una vera e propria ‘dottrina’ progettuale a partire dal periodo tra le due guerre mondiali, un architecturer che riproponeva l’antico primato della composition contro il moderno metodo funzionalista, il recupero di antichi tipi architettonici in chiave di validità soprastorica, l’analogia tra le selezioni formali corbusiane e il criterio della coincidenza tra correttezza ed eleganza, utilizzato dai matematici per risolvere i loro problemi. L’applicazione del metodo «al di qua dell’indicibile e delle sabbie mobili dell’estetico» aveva reso organismo ogni edificio dell’architetto franco svizzero, pertanto strumento di conoscenza e modello potenziale per altre soluzioni. Damisch15, invece, avvertiva l’incipiente vanificazione della proposta di habitation humaine corbusiana, quasi un annullamento «senza speranza di ritorno, per lasciar posto a una deriva di immagini fuori controllo». Esprimeva un senso di radicale smarrimento per la perdita della moderna prospettiva di miglioramento della condizione umana tramite l’architettura, travolta dalla incipiente produzione di immagini, sia storiciste che neo avanguardiste, astratte dalle urgenze della vita. A sua volta Curtis16 ricordò l’impatto mondiale, senza paragoni, delle opere della maturità di Le Corbusier – da l’Unité d’habitation al sito di Ronchamp, al convento de La Tourette, ai grandi edifici monumentali e simbolici di Chandigarh – e l’universale assimilazione delle sue ultime lezioni: l’uso in chiave brutalista del cemento armato e l’elaborazione dei temi dell’alloggio e dei tipi architettonici regionalisti. «Sembra che egli abbia cristallizzato – scriveva – la condizione spirituale del dopoguerra e un arcaismo che hanno profondamente sedotto architetti tra loro molto diversi, come il messicano Luis Barragán, l’americano Louis Kahn, il giapponese Kenzo Tange o il danese Jørn Utzon. In breve, Le Corbusier ha aperto nuovi campi espressivi, ben oltre lo stile internazionale che si stava indebolendo». Ronchamp, a suo parere, segnalava una religiosità panteista, richiami al surrealismo e a Picasso, in sintesi un universo di forme che lo lasciava perples218
so, perché «bizzarra originalità» e insieme «uno degli esercizi formali di Le Corbusier più controllati»17. Concludeva: «Verso la fine della vita Le Corbusier torna a riferirsi a se stesso […]. Le sue ultime opere sono enigmatiche e complesse, esprimono per lo più le sue ossessioni e i suoi paradossi. Scomparso il contesto ideologico in cui esse avevano visto la luce, restano solo le forme. È probabile che ispireranno ancora in modo inatteso degli artisti. Ma man mano che si inscrivono nella storia, la loro modernità ci colpisce meno della loro continuità con l’Antico, quello cui Le Corbusier si era mostrato tanto sensibile nei viaggi giovanili»18. Anche Pauly19 nell’enciclopedia sottolineava l’importanza della leçon du passé nel progetto della cappella: «Il linguaggio dell’architettura – scriveva – trova la propria originalità fondamentale a partire da una visione creativa e dinamica della storia». La creativa connessione del linguaggio con valori permanenti era per lei la ragione principale della familiarità percepita da molti tra coloro che frequentavano la cappella. Quest’intuizione suggestiva, che rimanda al celebre principio della vita delle forme di Focillon, non venne spinta fino a suggerire l’ipotesi di una sia pur acerba creatività interculturale di Le Corbusier di ambito mediterraneo. In due saggi, su spazio indicibile e sintesi delle arti maggiori, Rivkin20 affrontava invece la maturazione spirituale e artistica di Le Corbusier. «L’espace indicible», titolo di un articolo pubblicato nel 1946 e argomento di un libro non realizzato, segnalava a suo parere un’idea di spazio veicolo di emozione plastica non esprimibile in parole. Synthèse des Arts majeurs era formula corbusiana per indicare l’alleanza tra pittura, scultura e architettura, annunciata anch’essa nel 1946 come approdo di una lunga ricerca iniziata con la serie dei dipinti puristi nel movimento fondato con Ozenfant; proseguita, dal 1928 in poi, nei quadri con piccoli objets à réaction poétique, con segni sintesi di leggi della natura o di una loro storia; sviluppata ulteriormente nello studio della figura umana, soprattutto femminile, nell’invenzione dei bestiari e in alcuni importanti affreschi murali, oltre che nella scultura, soprattutto in legno, grazie all’amichevole collaborazione con Savina. Carica di sempre più vivace policromia, di forme libere che comportavano deformazioni dei corpi umani, di invenzioni di personaggi mutanti, di isolamento di singoli parti, l’orecchio ad esempio o le mani, in una ricerca mai esaurita di effetti choc, la continua produzione di opere, raramente fatta conoscere in pubblico21, stimolò in Le Corbusier, in costante contatto con i maggiori artisti, i pittori in particolare, il perseguimento della sintesi delle arti secondo modalità in continua evoluzione. Dapprima pensò all’apporto che pittura e scultura potevano dare all’architettura, svolgendo un ruolo non decorativo ma di «presenza di un ospite in casa»; in un secondo momento spostò il livello di sintesi alla loro fusione in una plastica architettonica attuata a Ronchamp e così descritta ne «L’espace indicible»: «Azione dell’opera (architettura, statua o pittura) sull’intorno: onde gridi o clamori (il Partenone sull’Acropoli), che esplodono come per irraggiamento, come se fossero azionati da un esplosivo, il sito lontano e vicino ne è scosso, colpito, dominato o accarezzato. Reazione del contesto: i muri dell’opera, le sue dimensioni, il luogo con i diversi pesi delle facciate, la distesa e le pendenze del paesaggio fino agli orizzonti, tutto viene a pesare su questo luogo in cui si trova l’opera d’arte»22. L’architecturer analiticamente controllato; la forza di immagini mai ripetute; la qualità di uno spazio indicibile in quanto in primo luogo ricco di ‘fisicità’ tramite la sua percezione, non secondo statica prospettiva rinascimentale, ma in un continuo rimando di azioni e reazioni, tra contesto e architettura, tra esterno e interno della stessa: erano 219
temi tutti sperimentati nel progetto di Ronchamp, Gesamkunstwerk di nuovo conio. I saggi dell’enciclopedia del 1987, raccolti i fattori in gioco nella fase matura – nel 1946 Le Corbusier aveva 59 anni -, non ne indicarono però la chiave di volta, il nodo generatore del nuovo orientamento che sulla collina di fronte ai Vosgi era esploso inatteso e sconvolgente. Occorreva mettere in campo altri criteri interpretativi, come alcuni studi parziali, ai quali si è fatto cenno in capitoli precedenti di questo libro, stavano già segnalando. Nel 2004, già lo si è visto, gli atti dell’undicesimo Rencontre de la Fondation Le Corbusier uscivano col titolo Le Corbusier. Le symbolique, le sacré, la spiritualité, importante apertura su nuovi temi, ma ancora insufficiente a inquadrare in modo diverso personalità e produzione dell’architetto. Vi era riproposto un ampio stralcio de L’espace indicible, che si conclude con la celebre frase: «Ignoro il miracolo della fede, ma vivo davanti a quello dello spazio indicibile, coronamento dell’emozione plastica»23. L’analogia tra fede e arte di lunga tradizione, evocata da Le Corbusier, non sollecitò i convegnisti, che s’impegnarono invece a far emergere spunti antropologici del sacro corbusiano. Non potendo qui svolgere un’analitica disanima degli scritti, ricordo almeno quello di Baudouï24, il primo a interpretare l’attenzione di Le Corbusier per l’islam: ne segnalò l’ammirazione per i suoi caratteri di civiltà raffinata, l’osservazione attenta del culto e dei comportamenti umani, l’acuta comprensione della sacralità di moschee e abitazioni. I giochi di luce e ombre degli interni islamici, l’andamento mosso e scavato dei muri si incisero nella memoria dell’architetto che, dalla visita all’architettura mozabita, in particolare da quella della moschea di Sidi Brahim d’El Atteuf – detta oggi anche moschea Le Corbusier – trasse spunti importanti per la cappella di pellegrinaggio nei Vosgi. Baudouï propone una lettura del senso del sacro di Le Corbusier come «delimitazione restrittiva del senso religioso» o sua «riduzione fenomenologica» tramite selezione di invarianti di sacralità, slegate da usi e pratiche cultuali per renderle disponibili a trasposizioni, in contesti diversi dall’originario, essendo dettagli da combinare con altri di varia provenienza. La riduzione ha consentito, ad esempio, il passaggio dal contesto sacro della Certosa di Ema a quello profano di progetti urbani, dal contesto sacro mussulmano della moschea d’El Atteuf a quello sacro cattolico di Ronchamp. Novità importanti e organiche, che illuminano in modo veramente determinante il nodo centrale della ricerca matura corbusiana, emergono nel lungo e denso saggio, pubblicato in prima edizione in Italia nel 2007, di Juan Calatrava: Le Corbusier e le Poème de l’angle droit: un poema abitabile e una casa poetica. Strutturato come libro, in pagine rette da sistema ternario – di immagini, nei bozzetti originali elaborate a papier collé, lettere, colori – accompagnato da versi liberi, il Poema è simbolica sintesi del modo di Le Corbusier di intendere l’architettura, dopo quaranta anni di attività e nel quadro di una personale filosofia dell’origine del cosmo, della relazione tra uomo e cosmo e dell’aspirazione a un rapporto armonico, non di dominio, con la natura. Il tema dell’angolo retto, da sempre presente nell’universo simbolico dell’architetto, è qui la cifra riassuntiva del metodo con il quale l’uomo da sempre costruisce il proprio habitat. La segmentata indagine della maturità corbusiana del 1987, trova, nell’interpretazione del Poema da parte di Calatrava, la sua sintesi nella lettura della spiritualità e religiosità dell’architetto; per gli anni giovanili fondamentale resta il collegamento con l’interpretazione di Turner25. La sintesi simbolica messa a punto da Le Corbusier ha carattere iniziatico, non semplice ma di grande suggestione; geniale è la metafora dell’iconostasi, soglia all’intimo 220
e insuperabile mistero della coscienza umana e racconto in una sequenza di riquadri, illustrati e commentati. Ai sette sull’asse verticale corrispondono, individuati da lettere, i temi (A- Milieu, B- Esprit, C- Chair, D- Fusion, E- Caractères, F- Offre, G- Outil) di una cosmogonia che è anche riflessione sulla creatività propria dell’uomo, della quale Le Corbusier si propone come testimone e protagonista. Rispetto alla verticale, in corrispondenza dei riquadri A e C si sviluppano simmetricamente sezioni orizzontali in cinque riquadri; per B e E in tre; mentre D, F, G presentano un solo riquadro. Il tutto configura un albero o una specie di croce. Il contenuto narrativo, ben delineato da Calatrava, non è qui riassumibile, anche perché esso risulta comprensibile, e per ora non lo è completamente, solo se collegato a quadri, sculture, architetture, testi dell’autore, come fa Calatrava utilizzando studi recenti su temi corbusiani diversi. Due sue considerazioni mi paiono importanti. Il sacro dell’architetto, scrive, è «questione ancora non sufficientemente chiarita […] Si tratta di un problema fondamentale per Le Corbusier, che non solo si traduce in proposte architettoniche come Ronchamp, la Tourette o il non realizzato complesso sacro-tellurico de la Sainte-Baume, ma che pervade la sua stessa concezione della creatività artistica […]. Ammettendo la difficoltà intrinseca di riflettere sul sacro partendo dall’interno della cultura contemporanea, il pensiero di Le Corbusier appare inizialmente impregnato di un’idea eterodossa della religione […]»26. In particolare il Poema è dominato da una visione dualista, che ha radici nella religiosità catara, sulla quale Calatrava si sofferma individuandone analiticamente i termini. Afferma inoltre: «la particolare religiosità di Le Corbusier non risponde a un sistema chiuso di dogmi e riti. Protestantesimo, cattolicesimo e cristianesimo ortodosso orientale sono presenti in modo complesso e diverso nella sua vita e nella sua opera, ma in una sintesi personalissima nella quale confluiscono anche il pensiero alchemico e il patrimonio della tradizione mitica […]. Questa concezione del sacro, pur non essendo circoscrivibile a una sfera di pietà personale, è inseparabile dall’idea stessa di architettura e dal ruolo creativo dell’uomo, e più in particolare dell’architetto, nel seno del cosmo»27. Il singolare legame di Le Corbusier con Ronchamp, con i suoi committenti, con i domenicani, con il suo cappellano, la religiosità popolare con cui egli riuscì a mettersi in sintonia tanto felicemente con il suo progetto, hanno dunque come sfondo un tumultuoso e complesso mondo di immagini, di idee, di sentimenti religiosi, di senso della sacralità intrinseca del proprio lavoro di cui cercava con ostinazione un ordine che ne regolasse la vitalità. In questo suo contesto termini come sacro, religione, simbolo, immagine, arte hanno un peso specifico molto importante, che attende di essere definito. L’architetto di Ronchamp è lo stesso uomo che ha immaginato e impaginato Le Poème de l’Angle Droit. Se questo è fuori discussione, come scrive Calatrava molto c’è ancora da comprendere a riguardo della sua sconvolgente e straripante creatività in un rinnovato studio, anche dal vivo, delle sue architetture, dei suoi libri – la cui forma retorica mi appare, ora più che mai, carica di intense e appassionate esperienze -, dei suoi disegni e carnets di viaggio, dei quadri, delle sculture, delle litografie e degli arazzi. Il luogo del sacro Un importante lavoro critico e storico resta ancora da fare, ma fin d’ora si può segnalare qualche novità interpretativa, meritevole di sviluppi ulteriori. Qui di seguito, in forma 221
di breve e provvisorio vocabolario commentato, propongo alcune possibili piste di ricerca, prendendo come riferimento privilegiato Ronchamp, oggetto di questo studio. Interculturalità e pace Le Corbusier ha viaggiato moltissimo; ha disegnato di continuo dall’aereo architetture, uomini, animali e cose, persino paesaggi di enorme estensione. Ha raccolto sassi, conchiglie, oggetti curiosi, senza spaventarsi come accadde invece al Socrate di Valéry quando non seppe riconoscere l’autore del modellato di un oggetto trovato in riva al mare28; le loro forme al contrario divennero per lui spunti per immaginare inedite componenti d’architettura. Ha assimilato, contaminato, rielaborato, trasfigurato ciò che gli occhi hanno visto, le mani hanno toccato e il cuore ha amato. Ha immaginato, tentato di realizzare, talvolta con impazienza e quasi sognando a occhi aperti, progetti urbani che favorissero solidarietà e pace, aspirazione infine riassunta nel simbolo della mano aperta del monumento a Chandigarh, la quale, scrisse, «contiene molto di ciò che è in fondo al mio piccolo cuore: una riflessione sul nostro soggiorno in questo mondo in cui siamo stati designati per creare il Paradiso che è, sarà e non può essere altro che terreno»29. Sono molte le mani disegnate da Le Corbusier; quelle nella porta delle processioni di Ronchamp significano accoglienza, corrispondenza tra chi offre e chi riceve, potrebbero persino essere, come suggerisce Coombs30, le mani dell’Angelo annunziante e della Vergine annunciata. Nel corso di questo studio mi sono chiesta più volte se la fase matura della sua ricerca artistica non sia stata contrassegnata da un’oscillazione tra volontà di un progetto d’ordine, calato dall’alto e quindi sostanzialmente demiurgico o paternalistico, sintonico col dinamismo espansionistico occidentale, e aspirazione a una multiculturalità dialogica, intravista dalla sua esasperata sensibilità artistica. Panikkar insegna che: «Interculturalità non significa relativismo culturale (una cultura vale l’altra), né frammentazione della natura umana. […] Detto filosoficamente, ci sono invarianti umane, ma non ci sono universali culturali»31. Le Corbusier ha fatto effettivamente dialogare in sé culture diverse attestate attorno al mare nostrum, al Mediterraneo. Ne ha intuito le interne pretese di verità nelle espressioni religiose, di cui ha colto l’invariante del sacro. La luce interna della cappella di Ronchamp, almeno in parte apparentata con quella di una moschea, ne è emblematica interpretazione architettonica. Il sacro, l’ambiente, il simbolo Il proprium del sacro è stato a lungo indagato, nel corso del xx secolo in Europa, in particolare nell’orizzonte dell’antropologia religiosa. Come ho già accennato nell’introduzione, seguo la linea di riflessioni che si svolge da Mircea Eliade a Julien Ries passando attraverso G. Bachelard, C.G. Jung, G. Durand, P. Ricoeur, J. Vidal, P. Tillich, G. Dumézil, H. Corbin, J. Chevalier. Per definire il significato di sacro, Ries è risalito alla radice sak- indoeuropea e ne considera la ripresa nel greco, in dialetti italici e germanici, nel latino. Da questa radice proviene il verbo sancire, che significa ‘dare validità e realtà a qualcosa, far sì che qualcosa esista’. Afferma pertanto Ries: «attraverso il vocabolario del sacro […] i popoli indoeuropei d’Asia e d’Europa […] hanno cercato di capire e di esprimere le strutture della realtà […]. Eliade non ha smesso di ripetere: ‘Il sacro è il reale’»32. Vi è inerenza sostanziale tra il sacro così definito e l’abitare e costruire degli uomini sul pianeta, secondo l’ordine di relazioni che esige l’artificio architettonico. Essenziale è, in 222
primo luogo, la relazione tra sacro e ambiente, poiché dall’incontro dell’uomo col cosmo è partito il cammino della coscienza, dell’immaginazione e della riflessione: «Sono le manifestazioni del cosmo che hanno permesso e stimolato questo cammino»33 e hanno consentito all’uomo, nella concatenazione tra memoria, immaginazione, linguaggio, mobilitata da intelligenza e creatività, di produrre simboli, persino di cogliere sé stesso come simbolo. Lo spazio indicibile di Le Corbusier, nella dinamica tra azione e reazione da lui individuata, mi sembra perfetta trascrizione del legame tra sacro e ambiente segnalato da Ries. Ronchamp può essere ritenuta simbolo princeps di un’esperienza nella quale, ha scritto Le Corbusier: «Un intimo rapporto si deve stabilire in ogni cosa, al fine di provocare l’irradiamento dello spazio indicibile»34. Immaginazione simbolica e creatività L’esercizio artistico di Le Corbusier può essere ritenuto meditazione mai conclusa sul simbolo, cifra della sua interiorità. Il simbolo, ha scritto Durand, assicura «la presenza della trascendenza all’interno del mistero personale»35; esso inoltre è tappa di un tragitto antropologico del sacro, prodotto dall’immaginazione simbolica nello scambio tra pulsioni soggettive assimilatrici e intimazioni oggettive provenienti dall’ambiente cosmico e sociale, poiché, questa precisazione è importante, il simbolo non funziona in base a oggetti ma ad immagini, pur essendo esso corporeo. Con parole più tradizionali ma pertinenti, Claudel ha ricordato che «Il corpo è opera dell’anima», dal momento che i sensi sono «il prodotto e la forma esteriore delle nostre facoltà interne e di quel bisogno che modella il nostro essere profondo alla visione di qualcosa fuori di noi, e che ci rende capace di percepirlo e di riceverne un’impronta»36. La nostra interiorità, la nostra percezione e la nostra esperienza sono, da sempre, esteriormente mediate dal corpo e dagli oggetti che ci circondano. Il rapporto con la realtà, come lo intendono Eliade e Ries, non può dunque prescindere dalla mediazione del simbolo. Le Corbusier ne era consapevole; lo segnala l’evoluzione della sua pittura, in particolare l’interessante incrocio di modalità e figure coscienti e ‘automatiche’ che la costellano. Lo segnala anche, in architettura, l’importanza sensoriale (acustica e visiva insieme) del paesaggio in cui il suo progetto è concepito. Bachelard e Durand, ricorda Ries, hanno valorizzato il ruolo dell’immaginazione come ‘dinamismo organizzatore’ e fattore di ‘omogeneità e rappresentazione’: immaginazione organizzatrice è quella che in Ronchamp ha elaborato il tetto dalla forma di ‘guscio di granchio’ in struttura portata, coerente con gli elementi portanti, in modo da risultare all’interno leggera, aerea, nonostante l’alto volume e la convessità. Straordinario organismo organizzatore presiede anche alla differenziazione, nella corrispondenza di vuoti e pieni, tra pareti interne e pareti esterne della cappella corbusiana. L’architetto artista come mediatore del sacro Poeti e filosofi del Novecento, d’area francese in particolare, segnalano che nella semplice dimora vissuta nella sua positività d’intimità e raccoglimento, nella casa, «memoria e immaginazione non si lasciano dissociare, l’una e l’altra lavorano al reciproco approfondimento»37. Bachelard, seguendo Victor Hugo, riconosce una consustanzialità, indicibile a parole, tra corpo umano e architettura, tra uomo e habitat38. Un lungo 223
dibattito, tuttora in corso, ha aperto sul tema dell’abitare il filosofo tedesco Heidegger,. Questa consustanzialità tra uomo e architettura diventa vita in Le Corbusier; scrive nel Poème de l’angle droit: «Fare un’architettura è/ fare una creatura. Essere/ riempito riempirsi essersi/ riempito scoppiare esultare/ freddo di ghiaccio in seno alle/ complessità divenire un giovane/ cane contento/ Divenire l’ordine/»39. Ci segnala così la matura consapevolezza che occorre un mediatore per l’attuazione di questo processo di simbolizzazione, che sia artista generatore di simboli e non demiurgo. Il ruolo di mediatore tra realtà e ambiente chiede all’artista, potremmo dire con Romano Guardini, lo «sforzo di portare all’aperto, in immagini e programmi perché possa essere efficacemente creato ciò che è ancora nascosto e si apra la strada nel divenire della storia»40. Le Corbusier scrisse L’espace indicible nel 1946, come atto di speranza dopo le tragedie delle due guerre mondiali. Aprì il pensiero al futuro, in una promessa di felicità. Il destino gli rispose consentendoli di costruire luoghi come Ronchamp. Sacro, religioso, cristiano Lungo tutto il xx secolo l’architettura di luoghi di culto è risultata per lo più nettamente distinta dalle altre costruzioni; si è valutato che il tema fosse specifica, esclusiva espressione del sacro, identificando di conseguenza in toto sacro e religioso in una sovrapposizione indebita di componenti antropologiche e di specificità, anche istituzionali, delle diverse confessioni. Tra gli studi di antropologia religiosa e indagini sul simbolo, da una parte e, dall’altra, l’imponente realizzazione di costruzioni ecclesiali, in particolare in aree a prevalente popolazione cattolica, si registrò uno iato di enorme rilevanza, dal quale il contesto dell’architettura e della sua produzione critica non è tuttora uscito. Il proprium del sacro, stabile costante universale della coscienza umana, non fu distinto dai contenuti di dottrina e di fede, e dai nessi tra sacro e fede nelle confessioni religiose cristiane. Nelle contraddizioni generate dalla divaricazione tra sacro e religioso, si può dire in sintesi, si è imbattuto e impigliato anche Le Corbusier, propenso a ritenere il sacro assolutamente individuale e da custodire con grande riservatezza. Alla luce di queste sintetiche precisazioni, risulta chiaro, mi pare, che quando Le Corbusier rifiutò alcuni incarichi di chiese – dopo Ronchamp realizzò la chiesa conventuale de La Tourette e quella parrocchiale di Firminy – affermando «Voglio realizzare alloggi per gli uomini, non diventare costruttore di chiese»41, pose un problema non solo suo, oltre a rifiutare di essere rinchiuso in una categoria di architetti specializzati, privilegiati dalle istituzioni ecclesiastiche come esperti. Chiesa cattolica e Ronchamp Nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale in cui Ronchamp venne costruita, si diffuse una generalizzata desacralizzazione della religione cristiana in tutte le sue confessioni, segnalata da esasperata distinzione tra fede e religione, quest’ultima tendenzialmente svalutata con conseguente svalutazione delle sue declinazioni espressive. D’altro canto, a causa delle profonde modifiche degli insediamenti umani e del consolidarsi di una militanza storiografica d’architettura votata all’esclusivo potenziamento del nesso tra questa e la società, il tema chiesa di contesto cristiano perse, nonostante importanti resistenze, le qualità di emergenza e di simbolo di centralità, consolidate in quasi duemila anni e tuttora godibili in molti contesti, in realizzazioni spesso di alto valore artistico. Fattori di questo tipo innestarono una querelle, a più riprese e tuttora molto vivace, 224
tra necessità di continuità o inevitabilità di rottura di nuovi edifici per il culto con le configurazioni planimetriche tradizionali (pianta basilicale, a croce greca, a croce latina, circolare, ellittica, ecc.), con le corrispondenti componenti in alzato (cupola, tiburio, volte, ecc.) o più generali (come l’orientamento a est), cariche di valenze simboliche divenute patrimonio immaginario comune. Nelle manifestazioni più aspre della querelle la difesa delle forme tradizionali intende affermare una propria, esclusiva validità teologica che non mi ha mai convinto; mi ha confortato trovare in Durand che: «Ogni convenzione, quand’anche animata dalle migliori intenzioni di ‘difesa simbolica’ è fatalmente dogmatica […]. L’immagine simbolica, incarnandosi in una cultura e in un linguaggio culturale, rischia di sclerotizzarsi in dogma e in sintassi. È a questo punto che la lettera minaccia lo spirito, quando la poetica profetica viene sospettata»42. Non sono, a mio parere, validi in sé né un rifiuto a priori né una valorizzazione a priori di forme tradizionali: è il senso della tradizione, come continuità di fattori essenziali e insieme accoglienza di cambiamenti, che deve essere chiamato in causa ed è il genio dell’artista che deve saper sia ridare vitalità a ciò che si eredita dal passato, sia innestare sull’Antico il Nuovo. In Ronchamp si intrecciano attualmente, in modo evidente, un indubbio senso del sacro secondo più accenti – del suo autore, della committenza, dei pellegrini – e la messa a punto di una novità di immagine che non ha riferimenti, nella sua globalità, nella tradizione cattolica, alla quale però corrisponde in senso liturgico e devozionale. L’incontro produttivo tra Nuovo e Antico la rende un’autentica e assolutamente inedita opera d’arte che pone un interrogativo teologico di enorme importanza. Esso riguarda, in termini analogici, in primo luogo, il rapporto tra istituzione e profezia all’interno di una confessione religiosa, nella fattispecie in quella cattolica, ma anche il valore dell’intenzionalità in un’opera d’arte insieme a quello della sua positiva ricezione. L’interrogativo, credo opportuno ricordarlo, non è solo teologico, è anche sociale, è anche inerente al mestiere d’architetto. Verso la fine di un testo ritenuto il suo testamento e scritto un mese prima del decesso in mare a Cap Martin, Le Corbusier ricordò, forse per far tacere quanto si agitava in lui, «questa frase meravigliosa dell’Apocalisse: «Si fece silenzio in cielo per circa mezzora …»43. Quel silenzio solenne e totale, nel libro dell’apostolo Giovanni sopravviene dopo l’apertura del settimo sigillo e segna il passaggio che apre un tempo nuovo. L’architetto fu invitato dalla frase balenatagli in mente a pensare a ciò che egli lasciava in eredità: il suo lascito era «il pensiero, nobiltà e frutto del lavoro», che poteva divenire «una vittoria sul destino oltre la morte o forse prendere un’altra direzione imprevedibile». Formulò dunque il proprio pensiero per i posteri: «Bisogna ritrovare l’uomo. Bisogna ritrovare la linea retta che segue l’asse delle leggi fondamentali: biologia, natura, cosmo. Linea retta inflessibile come l’orizzonte del mare. L’uomo di mestiere, anch’egli inflessibile come l’orizzonte del mare, deve essere uno strumento di misurazione che possa fare da livella, da riferimento in mezzo alle fluttuazioni e ai mutamenti. Quello è il suo ruolo sociale»44.
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Apparati
NOTE 5
6 Profilo della lettura storico-critica 1
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Il rapporto tra opera d’arte e committenza di contesto contemporaneo è tra i meno esaminati, benché risulti essenziale, nel caso dell’architettura, per comprendere sia la declinazione specifica di ogni suo tema in tempi e contesti peculiari sia la sua interpretazione da parte del progettista. Per le realizzazioni emblematiche d’architettura, ritenute opere d’arte, vien fatto valere lo stesso principio assunto per tutte le altre arti, visive e non: quello espresso nel processo astraente di una pura coscienza estetica. Esso implica, come ha scritto Gadamer, la perdita, nell’esperienza dell’opera da parte di critici e fruitori, «del suo posto e del mondo al quale appartiene». Coerente con questa posizione è il modo di leggere sia l’impegno dell’artista, ritenuto libero in quanto outsider e insieme provocato a una esorbitante missione redentiva, sia l’esperienza del fruitore, legata al nudo accento estetico della sua percezione. Quest’interpretazione, erede del culto del genio del xviii e della sacralizzazione dell’artista nella società borghese del xix secolo, è divenuta oggi mentalità ovvia e confuso stimolo collettivo. La dinamica tra artista e committenza è tuttavia questione di enorme rilevanza nel caso di Le Corbusier a due livelli: della elaborazione della sua coscienza estetica e della sua risposta progettuale a esigenze concrete postegli dalla committenza. L’architetto ha infatti vissuto in prima persona, ad altissimo grado di drammaticità, la domanda sul valore conoscitivo dell’arte, cioè sul suo contenuto di verità. Per un inquadramento del tema cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, pp. 193-135, pp. 201-225. P. Francastel, Art et technique aux xixe et xxe siècles, Minuit, Paris 1956, citato da: E. Tentori, Nota del curatore, in: Le Corbusier, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica…, a cura di F. Tentori, Laterza, Bari 1979, p. ix. Sintesi chiara ed equilibrata, degli atteggiamenti implicanti orientamenti politici e del complesso rapporto intrattenuto da Le Corbusier con personalità politiche di varie nazioni, è: J.-L. Cohen, Droite-gauche: ‘invite à l’action’, in: AA. VV., Le Corbusier. Une encyclopédie, Centre G. Pompidou, Paris, 1987, pp. 309-313. Cohen conclude le proprie riflessioni chiedendosi quale sia stato l’effetto delle passioni politiche di Le Corbusier sulla sua architettura; risponde affermando che la capacità di quest’ultimo di «interpretare, interiorizzare, rifrangere i temi politici nel prisma del progetto, rimane intera, e, al fondo, di una libertà non controllabile» (ivi, p. 313). G. Gresleri, in L’espace et le programe liturgique chez Le Corbusier, in: AA. VV., L’exigence d’un rencontre. Le Corbusier et la chapelle Notre Dame du Haut. Colloque, aondh, Fage, Lyon 2007, pp. 125-134, ha ricostruito un ben definito percorso di messa a fuoco del senso del sacro di contesto cattolico nella ricerca giovanile di
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Janneret, individuandone l’espressione chiave nella formula: «L’ossessione del simbolo è, nel fondo di me, […] l’espressione tipo del linguaggio» (ivi, p. 128). Gresleri ha selezionato più momenti di questa messa a fuoco, i più pregnanti dei quali furono la visita ai monasteri del Monte Athos e quella alla basilica di San Marco in Venezia. Importanti studi dello stesso autore sul tema sono: Id., Il viaggio in Toscana 1907, Marsilio, Venezia 1987; Id., Partir et revenir. Le voyage d’Italie, in: AA. VV., Le Corbusier et la Mediterranée, a cura di D. Pauly, Parenthèses, Marseille 1987, pp. 23-49; Id., Il viaggio d’Oriente, in: Le voyage d’Orient. Carnet, a cura di G. Gresleri, flc Electa, Milano-Parigi-New York-Berlino-Tokio 1987, pp. 35-85, ried. Mondadori Electa, 1989; Id., Dalla Villa alle Ville, in: AA. VV., L’Italia di Le Corbusier, a cura di M. Talamona, Mondadori Electa, Milano 2012, pp. 136-150. 5 Il disegno è qui riprodotto a p. 47. 6 Cfr. F. Tentori, Vita e Opere di Le Corbusier, Laterza, Bari 1999, p. 260. Le Corbusier è intervistato da Michel Ragon. 7 L’espressione è di Hannah Arendt, che, in Vita activa. La condizione umana (Bompiani, Milano 1996, p. 201, ed. orig.: The human condition, 1952) scrive: «Quali che siano i successi e i fardelli di un futuro ancora incerto, una cosa è sicura: anche se esso potrà influire, forse anche radicalmente, sul vocabolario e sul contenuto metaforico delle religioni esistenti, non abolirà né rimuoverà e nemmeno trasformerà l’ignoto che è la regione della fede». 8 G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, p. 9 (ed. orig.: La poétique de l’espace, puf, Paris 1957). 9 Ivi, pp. 25-26. 10 Ivi, p. 24 e p. 25. 11 È importante sottolineare che Janneret, grazie all’influsso dell’amico William Ritter, sviluppò presto un forte coinvolgimento emotivo con edifici e luoghi visitati, come ha segnalato G. Gresleri (Il viaggio d’Oriente, cit.). Tale paradigma ebbe il proprio focus nella dinamica tra domande al monumento visitato, con acquisto di dati essenziali, e risposta creativa nel proprio progetto, che strutturò lo specifico senso storico di Le Corbusier nel contesto della tradizione costruttiva mediterranea, senso storico che può sconcertare, come estraniante, chi si attiene, per l’Occidente, al più ristretto orizzonte della tradizione greco-romana. Intendo qui il termine tradizione in senso ampio, quindi anche come «appropriazione spontanea e produttiva del contenuto trasmesso» (cfr. H.-G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1974, p. 47). Sul rapporto amicale di Le Corbusier col passato cfr.: M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari 1968, pp. 62-63; D. Pauly, Ronchamp (Chapelle de): la leçon du passé, in: AA.VV. Le Corbusier, un’encyplopedie, Centre G. Pompidou, Paris 1987, pp. 351352; Id., «Ce passé qui fut mon seul maître», in: AA. VV., Le Corbusier et la Mediterranée, a cura di D. Pauly, Parenthèses, Marseille 1987, pp. 51-71; AA.VV., Le Corbusier e l’Antico, a
cura di B. Gravagnuolo, Electa, Napoli 1997. 12 P. e E. Merkle, R.Th. Stoll, Ein Tag mit Ronchamp, Johannes Verlag, Einsiedeln 1958, s.p. Traduzione del brano qui riportato di Elio Guerriero, teologo esperto del pensiero di von Balthasar. 13 Per il tema del sacro e della sua manifestazione in ierofania, nello specifico contesto dell’antropologia religiosa al quale qui ci si attiene in ragione dell’architettura corbusiana oggetto di studio, si veda l’ultimo capitolo di questo libro. Si anticipa qui che ierofania è esperienza individuata da Julien Ries (in molti testi, ma cfr. almeno: Simbolo. Le costanti del sacro, Jaca Book, Milano 2008, pp. 127-129) tramite tre elementi distinti e inseparabili: un oggetto visibile o un ambiente (contesto di dati naturali o opera umana) che assurge al valore di simbolo; un fattore invisibile (segnalato da nomi diversi: divinità, numinoso, trascendenza, ecc.); una dimensione riconosciuta all’oggetto o ambiente e chiamata sacralità o sacro. I simboli sacri generano esperienze di ierofania, accessibili a chi ascolta la dimensione sacrale, o di senso religioso, propria della coscienza umana.
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Il progetto, la genesi, i committenti 1
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Il ministero Combes applica con rigore la legge del 1901 sulle associazioni: numerose congregazioni religiose vengono sciolte e i loro beni confiscati. Nel 1905, la legge sulla libertà di culto mette fine unilateralmente al concordato stabilito sotto Napoleone i. Aristide Briand prepara un progetto di separazione che prevede la creazione di associazioni di culto incaricate di amministrare i beni delle parrocchie e delle comunità, ma papa Pio x lo rifiuta. La Chiesa di Francia non esiste più agli occhi della legge e scompare dalla vita pubblica nazionale. Histoire de la France religieuse, t. 4, Seuil, Paris 1992. Encicliche di Leone xiii Nobilissima gallorum gens (1884), Immortale Dei (1885), Rerum no varum (1891), Inter sollicitudines (1892). Joris-Karl Huysmans, Paul Bourget, Paul Claudel, Charles Péguy, Jacques e Raïssa Maritain, Francis Jammes, Max Jacob, André Gide, Julien Green, François Mauriac… Si costituisce una complessa rete di società, gruppi e corporazioni. La Société de St-Jean raggruppa tutti gli artisti; i Catholiques des Beaux-Arts raccolgono centinaia di architetti, pittori, scultori, artigiani del legno e del metallo, ecc. Gli Ateliers d’art sacré di Maurice Denis (1870-1943) e George Desvallières (1861-1950) sono concepiti sul modello delle corporazioni medievali. Vari piccoli gruppi gravitano attorno ad essi: l’Arche, gli Artisans de l’Autel, e alcune botteghe di vetrai, mosaicisti e tessitori. Cfr. F. Lenell, Henri de Maistre et les Ateliers d’Art sacré, ufr d’histoire de l’art, Université de Paris iv, 1993 e F. Caussé, Les artistes, l’art et la religion en France. Les débats
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suscités par la revue L’Art Sacré entre 1945 et 1954, thèse de doctorat, ufr d’histoire de l’art, Université de Bordeaux iii, 1999. Da Auguste Perret (1874-1954), vetrate di M. Denis, realizzate da Marguerite Huré, «il più bel pezzo di architettura religiosa dei nostri tempi», Pie-Raymond Régamey, L’Art Sacré (as), n. 23. I «Chantiers du Cardinal» (dal 1931 al 1939, a Parigi e in periferia) ne sono un buon esempio. Régamey scrive nel 1948 che sul piano artistico sono stati un fallimento pressoché completo: 120 chiese costruite senza che uno solo tra i grandi architetti francesi sia stato consultato. Camille Bourniquel e Jean Guichard-Meili, Les créateurs et le sacré. Textes et témoignages de Delacroix à nos jours, Cerf, Paris 1956, pp. 219-220. Presso Cerf, Art et liberté spirituelle (1958); Se garder libre (1962); L’Evangile est à l’extrême (1970). Ripreso in La vérité blessée, Plon, Paris 1984, ried. Cerf, Paris 1990. Pie-Raymond Régamey, in «Un ordre ancien dans le monde actuel. Les dominicains», Cahier Saint-Jacques, n. 25, Paris 1958, espone in maniera dettagliata questa missione: fondandosi sulla dimensione contemplativa, principio motore della loro vita, creare delle condizioni favorevoli alla comprensione della Verità evangelica, ricercare in tutti gli ambiti i «valori», cogliere i segni dei tempi. as, n. 7-8, 1951. P.-R. Régamey, conversazioni di F. Caussé del gennaio 1991. Sulla querelle, cfr. Caussé, Les artistes, l’art et la religion en France, cit. Leggi del dicembre 1942 e dell’aprile 1943, La Croix, 10 agosto 1943. Essa raggruppa le chiese del Doubs, dell’Alta Saona e del Territorio di Belfort. as, n. 11-12, 1952. Per gli statuti, cfr. A. Flicoteaux, Le chanoine Lucien Ledeur et la Commission d’art sacré du diocèse de Besançon de 1945 à 1955, mémoire de fin d’études, Institut des arts sacrés, Faculté de théologie et de sciences religieuses, Institut Catholique de Paris, 1998, pp. 13-15. Composizione nel 1952 (as, n. 11-12): Monsignor Dubourg; Monsignor Béjot; Monsignor Pfister; reverendi Quinnez, Ledeur, Garneret, Ferry; signori Parent (conservatore degli oggetti d’arte), Mathey, Jouvenne (architetto in capo dei Monumenti storici per il Doubs), Tournier (architetto, suo delegato a Besançon), Rey (scultore); signora Cornillot. Lettera di F. Mathey al reverendo Marcel Ferry, 2 agosto 1986. Archivi diocesani, Besançon. Lettera di M.-L. Cornillot a F. Caussé, 11 aprile 1991. «Noi fummo, io credo, un’eccellente coppia, il primo sul posto, stimato dai suoi confratelli, l’altro a Parigi con il prestigio dato dalla funzione», F. Mathey, lettera a Jean Genger, 10 ottobre 1987, archivi dell’aondh. Jean Capellades o.p. sottolinea la parte assai importante svolta dalla cdas, colloquio del 20 aprile 1993. M. Ferry, «Le vitrail moderne en FrancheComté», in Vitrea, n. 4, ii semestre 1989, p. 2. Monsignor Pinondel (Doubs), Pirolley (Alta Saona), Gaillard (Territorio di Belfort). La Croix, 2 febbraio 1954. La Croix, 25 aprile 1946. La Croix, 16 febbraio 1950. as, n. 11-12, 1952, pp. 2-3. Si definisce in questo modo l’École centrale des arts et manufactures. Jean Flory (1886-1949), cappellano al liceo di Besançon, cofondatore della jec (Jeunesse Étudiante chrétienne), lo incitava a terminare
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gli studi prima di entrare in seminario, cosa che era decisamente insolita. Mathey, testimonianza orale. Egli diviene nel 1956 vescovo ausiliario a Reims. «Intendo mantenere quell’atteggiamento di screto che le contingenze del momento mi hanno costretto ad adottare, se non quella clandestinità che ormai non s’impone più». Lettera a F. Caussé, 18 febbraio 1991. Jean-Marie Lhote, François Mathey, écrits, Réunion des Musées Nationaux, Seuil, Paris 1993, p. 11. Jean Hébert-Stevens (1888-1943) e sua moglie P. Peugniez (1890-1987), allievi degli Ateliers d’Art sacré, creano con Paul Rinuy un laboratorio di vetrate, in cui lavoreranno anche la figlia Adeline (1917-1998), suo marito Paul Bony (1911-1982) e suo fratello Jacques Bony (1918-2003). «La stessa P. Peugniez era in stretta relazione con il P. Régamey. È tramite lei, io penso, che F. Mathey ha conosciuto il P. Régamey». J.-F. Mathey, lettera e appunti del gennaio 2006. Est républicain, 5 gennaio 1993. Archivi diocesani di Besançon. F. Mathey, conversazione con F. Caussé del 1 marzo 1991. «Egli dava dei suggerimenti!» M.-L. Cornillot, conversazione con F. Caussé del 14 agosto 1991. «Quando si seppe più o meno la parte che avevo preso nell’affare di Ronchamp si ebbe gentilmente modo di farmi intendere che la mia carriera rischiava di esserne danneggiata… Essendo disponibile un posto da conservatore al Musée des Arts Décoratifs, io ne feci domanda e l’ottenni». F. Mathey, lettera a Jean Genger, 10 ottobre 1987, cit. Étienne Ledeur, fratello di Lucien, conversazione di F. Caussé del 9 agosto 1991. M.-L. Cornillot, lettera dell’11 aprile 1991, cit. Jean Sarrazin, collega di Ledeur alla Maîtrise, conversazione di F. Caussé dell’8 agosto 1991. Mathey chiese di essere terziario domenicano, can. Étienne Ledeur. «Non vi è teologia, vale a dire verità, al di fuori della bellezza. [...] Se L. Ledeur si è rivolto ai migliori, è perché sapeva nel profondo del suo animo che essi erano i più adatti a comprendere razionalmente e nel loro cuore il mistero della creazione cui egli li invitava a participare». F. Mathey, Un artisan de l’art sacré, le ch. Lucien Ledeur de Besançon, catalogo della mostra «Signes du sacré au xxe siècle», Dijon 1977, p. 4. Jean Le Moal, conversazione di F. Caussé del 23 luglio 1994. Marcel Ferry, conversazione di F. Caussé dell’8 agosto 1991. A lui è «estraneo il pensiero di lasciare il suo nome a un’opera». F. Mathey, Un artisan..., cit., pp. 10-11. In seguito diplomata di Stato delle Biblioteche e dell’École du Louvre, lettera del 13 marzo 1992. «Non esita a mettere in campo nei momenti difficili e importanti la sua autorità, il credito che le valgono la sua competenza e le sue funzioni. Ma noi le dobbiamo riconoscenza per la sua azione quotidiana. La cdas in effetti, non sarebbe in grado di realizzare, da sola, il lavoro d’informazione artistica del pubblico, che si considera necessario». as, n. 11-12, 1952. La conservatrice presenta in particolare Rouault nel 1950 (la mostra attira 2500 visitatori) e, nel 1951, una esposizione d’arte sacra costituita da opere presentate nel 1950 al Musée d’Art Moderne (mam) di Parigi. Archivi del Musée de Besançon. Cfr. nota 27.
48 Sigla delle classi preparatorie alle Grandes Écoles, che si scrive «Ca» a Lione e «kha» a Parigi. 49 Pubblica nel 1946 Vierges comtoises, André Cart, Besançon. 50 Fondata nel 1929, la pu riunisce gli insegnanti cattolici dell’insegnamento pubblico. La loro situazione non è agevole, e i loro cappellani hanno spesso una forte personalità. 51 Nell’aprile 1957, «300 insegnanti della Franca Contea accolgono 1374 colleghi della pu: un treno intero che si ferma a Ronchamp». Questi cattolici saranno i soli a sottoscrivere un prestito lanciato per finanziare la cappella, «più di 4 milioni su un prestito di 25 milioni che arrivò fino a 6», R. Bolle-Reddat, Journal de NotreDame du Haut, n. 83, dicembre 1988, p. 35. 52 J.-F. Mathey, lettera e appunti, gennaio 2006, cit. 53 L. Ledeur, as, n. 11-12, 1952. 54 Journal, cit.. n. 44, p. 13. 55 M.-L. Cornillot, as, n. 11-12, 1952, p. 28 e 30. 56 André Bouler s.j., articoli in France catholique, n. 2340, 1991; Etudes, giugno 1991. 57 Monsignor Daniel Pézeril (1911-1998), conversazione di F. Caussé del 16 febbraio 1994. Fedele amico di Maurice Morel sin dal seminario, fondatore della parrocchia di Saint-Séverin, in seguito vescovo ausiliario di Parigi, ritiratosi in pensione nel 1994. 58 La Croix, 27 gennaio 1973; egli “ha eccellenti rapporti con il suo vescovo”, Isabelle Rouault, conversazione di F. Caussé del 22 aprile 1993. 59 La mostra «Pour un art religieux» da lui organizzata alla galleria Drouin con molte delle sue opere è «la più importante di questi ultimi mesi e anzi di questi ultimi anni», P.-R. Régamey, as, n. 7, 1946. 60 In alcune strepitose conferenze tenute all’Università Sorbona di Parigi; Arts, n. 54, 1946. 61 «C’è voluto parecchio coraggio a un sacerdote per mantenere intatte le sue capacità creative […] Noi vorremmo vedere nell’esposizione del reverendo Morel [galleria Roques] il segno foriero di una restaurazione […] la poesia ammessa, onorata, sollecitata nella Chiesa». M. Cocagnac, as, n. 7-8, 1963. 62 Jean Bazaine, conversazione di F. Caussé del 23 aprile 1993. 63 Arts, n. 336, 1951, associa Régamey, Couturier e Morel, con tratto integralista, attaccando il Crocifisso di Germaine Richier per Assy. Cfr. anche Arts, n. 340. 64 B. Dorival (direttore del mam di Parigi dopo la guerra), conversazione di F. Caussé del 4 dicembre 1993. Si tratta della scultura di G. Richier. 65 Est républicain, 21 febbraio 1991. Archivi diocesani di Besançon. 66 «L’Art Sacré era il mio punto di riferimento e la mia guida», lettera a F. Caussé, 13 marzo 1991. 67 Lettera di Ledeur a Mathey, 17 novembre 1945, per rinnovare l’abbonamento alla rivista sospeso dal 1939. 68 as, n. 5-6, 1952, p. 14. 69 Sul progetto, cfr. Caussé, Les artistes, l’art et la religion en France, cit. Archivi della Provincia domenicana di Tolosa. 70 Una tradizione la fa arrivare in terra provenzale con Marta, Lazzaro e Massimino. 71 P.-R. Régamey, conversazioni di F. Caussé. Secondo Trouin, Le Corbusier, recatosi sul posto, progetta di costruire una basilica a forma di torre. 72 Una cattedrale sprofondata nelle foreste millenarie della Sainte-Baume è destinata a diventare la basilica della Pace. Trouin ha conquistato alla sua causa alcune centinaia di seguaci, in particolare la Chiesa nella persona del P. Couturier, e l’Architettura nella persona
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di Le Corbusier (L’Aube, 2 giugno). Egli ha progettato di edificare una basilica universale aperta a tutte le religioni e a tutte le forme di spiritualità. Il progetto è il più grandioso del secolo (Le Monde, 4 giugno). L’Ordine dei domenicani, custodi del sito di pellegrinaggio, accorda la sua simpatia agli uomini di buona fede che hanno deciso di ridare al luogo la sua notorietà. L’Epoque, 25 giugno 1948. Ai piedi dell’alta falesia, sessanta metri al di sotto della Grotta di Maria Maddalena, un tunnel conduceva ad una vasta caverna. «In questa notte oscura nient’altro che un altare di cristallo. Le forme architettoniche sarebbero dipese da ciò che si sarebbe trovato nella roccia. Le Corbusier diceva: ‘La poesia delle forme sgorgherà dalla terra stessa’ [...]. Tutto questo presentava alcuni rischi ma noi comunque sapevamo che è sempre all’estremo vertice dell’audacia e del rischio che si trovano anche le più belle occasioni. E quelli tra noi che erano cristiani, se ne rallegravano per l’onore della Chiesa». M.-A. Couturier, Le Figaro, 12-13 febbraio 1949. I più virulenti sono padre Danilo, domenicano dell’Hôtellerie del Plan d’Aups e custode della grotta, e il canonico Bouisson, membro di varie società del Var e proprietario di un terreno sul Plan d’Aups. Il primo, comparso a fine agosto, è ispirato da Danilo; il secondo, il 5 settembre 1948, è teleguidato da Bouisson. «In pieno accordo con il T.R. Padre provinciale dei domenicani della provincia di Tolosa, in accordo anche con NN. SS. gli arcivescovi e i vescovi del Sud-Est, con il clero e i fedeli di Provenza, noi riteniamo che è necessario garantire al pellegrinaggio della Sainte-Baume il carattere spirituale che ha sempre avuto e preservargli come unica meta la grotta». Cfr. nota 73. «Alcune opposizioni locali, certe povere argomentazioni di taluni possono, per qualche settimana, sembrare dei grandi ostacoli. Ma niente vale a incrinare la forza di una idea giusta: nessuno dura abbastanza a lungo in questo mondo per avere definitivamente ragione…». Journal, cit., n. 67, febbraio 1981, testimonianza del reverendo Besançon, 28 agosto 1979. La Croix, 6 aprile 1954, p. 4. Nella notevolissima lettera del 16 febbraio 1945. Archivi dell’aondh. Journal, cit., n. 67, febbraio 1981, pp. 13-14 (testimonianza di F. Mathey, 8 settembre 1980). Journal, cit., n. 72, marzo 1983, pp. 22-23 (reverendo Besançon). Oltre a Canet, J.-F. Mathey cita fra i più impegnati A. Clerget, A. Morey e soprattutto l’avvocato Carraud. J.-F. Mathey, lettera e appunti a F. Caussé, 5 gennaio 2006. Post Scriptum della lettera di Ledeur a Mathey, 17 novembre 1945: «Interessante quello che mi dici del progetto di Notre-Dame du Haut. Si potrebbe forse approfittare della riunione di giovedì per spingere l’affare, se tu puoi venire e portare con te lo schizzo di Moreux». Mathey era molto riconoscente a J.-Ch. Moreux (1889-1956) per averlo «preso, in certo qual modo, sotto la sua ala» al suo arrivo a Parigi, J.-F. Mathey, lettera e appunti a F. Caussé, 5 gennaio 2006, cit. Cfr. nota 15. M.-L. Cornillot, conversazione di F. Caussé e appunti di rilettura. D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, Association des publications près les universités de Strasbourg, Ophrys, Paris 1980, p. 26. as, n. 1-2, 1955, p. 26.
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90 M. Ferry, «Le vitrail moderne en FrancheComté», in Vitrea, n. 4, ii semestre 1989, cit., pp. 17-49. 91 as, n. 5-6, gennaio-febbraio 1950, «Devant l’art profane». 92 Espace [rivista del Comité National d’Art Sacré], iv trimestre 1980, pp. 23-24. 93 M. Jardot (1911-2002) «studente, come mio padre, al liceo di Belfort […] era soprattutto ispettore dei Monumenti storici, come pure mio padre, e dunque suo collega», J.-F. Mathey, lettera e appunti a F. Caussé, 5 gennaio 2006, cit. 94 Journal, cit., n. 19, dicembre 1965-gennaio 1966, p. 6. 95 Di ritorno da Chandigarh, si è fermato a Gerusalemme indignandosi per ciò che i cristiani hanno fatto di questo alto luogo. Egli ha inoltre dei pessimi ricordi della Sainte-Baume. D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, cit., p. 27. 96 F. Mathey, lettera a Jean Genger, 10 ottobre 1987, cit. 97 Agenda del 1950, p. 17: «9 h: Mathé – Jardot». Archivi Fondation Le Corbusier. 98 F. Mathey, conversazione con F. Caussé, 1 marzo 1991, cit. 99 Piuttosto che alla data del 23 aprile che pure figura sull’agenda. L’ipotesi è accreditata dalla lettera che Ledeur spedisce a Le Corbusier il 6 maggio. Archivi Fondazione Le Corbusier. 100 In Les mains de Le Corbusier, Grenelle, Paris 1987, Wogenscky testimonia di un pranzo nel corso del quale Couturier insistette perché Le Corbusier accettasse. 101 M.-L. Cornillot, lettera dell’11 aprile 1991, cit. 102 D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, cit., p. 27. 103 Ivi, p. 30. J. Savina ha realizzato tutte le boiseries della cappella. 104 Secondo l’agenda di Le Corbusier, p. 24, Archivi della Fondazione Le Corbusier. 105 Étienne Ledeur, conversazione; J.-F. Mathey rettifica: «La prima volta che Le Corbusier sale fino alla cappella, è solo. Mio zio Jean Godet (allora giovane ingegnere alla Centrale elettrica di Ronchamp) andò a cercarlo (con un altro abitante di Ronchamp) in Hotchkiss (la macchina di servizio della centrale) al posto di Alfred Canet, assente – e non a piedi. Jean Godet scattò una serie di foto per Le Corbusier. Quel giorno non vi era alcuna ‘delegazione’: forse l’indomani… a piedi, questa volta». J.-F. Mathey, lettera e appunti del gennaio 2006, cit. 106 Journal, cit., n. 68 (reverendo Besançon), p. 5. 107 Le Corbusier ne ha realizzati diversi; in plastilina (Ledeur lo vede nel luglio del 1950); in gesso (lettera di Le Corbusier al curato di Ronchamp, 11 giugno 1951, Archivi della Fondazione Le Corbusier); un modellino trasparente viene presentato in as, n. 11-12, 1953. 108 R. Bolle-Reddat, Un Evangile selon Le Corbusier, Cerf, Paris 1987, pp. 20-21. 109 Journal, cit., n. 68 (reverendo Besançon), p. 5. 110 A. Manessier, conversazione di F. Caussé del 22 giugno 1991. 111 Eugène Claudius-Petit, ministro della Ricostruzione, è un amico di Le Corbusier. 112 Lettera di Mathey a Ledeur, 10 dicembre 1950. Archivi diocesani di Besançon. 113 Journal, cit., n. 72, marzo 1983, pp. 21-22. 114 M.-L. Cornillot, lettera dell’11 aprile 1991, cit. 115 Le Corbusier è assente da Parigi in luglio e in agosto. Egli ringrazia il «Curato di Ronchamp» del primo versamento della sci, il 12 settembre 1951. Archivi della Fondazione Le Corbusier. 116 L’atto va al di là della sua persona, commenta con compassione Bolle-Reddat, Journal, cit., n. 72, marzo 1983, pp. 23-25.
117 Lettera a L. Ledeur, 17 ottobre 1951. Archivi diocesani di Besançon. 118 Journal, cit. n. 86, marzo 1990, pp. 35-36. Industriale locale la cui famiglia possiede non poco terreno sulla collina e deterrà un gran numero di quote nella sci. Assai intraprendente, Canet gode di agevolazioni nel chiedere prestiti alle banche, grazie alla fabbrica. Il suo ruolo è essenziale per il finanziamento della cappella. La costituzione, nel 1974, dell’aondh mette fine alla Société Immobilière di cui Canet era segretario e principale animatore. Egli lascia la regione verso il 1975. J.-F. Mathey, lettera e appunti del gennaio 2006, cit. 119 Le Corbusier, lettera del 19 giugno 1954, Journal, cit., n. 68, marzo 1981, pp. 7-8. 120 Lettera di Monsignor Dubourg al reverendo Bourdin, 10 novembre 1951, Journal, cit., n. 86, marzo 1990, p. 37. Dopo la sua morte, Monsignor Béjot realizza il suo voto a due riprese. R. Bolle-Reddat, conversazione di F. Caussé del 9 agosto 1991. 121 Numerosi scambi epistolari a tale riguardo sono conservati presso la Fondazione Le Corbusier, in particolare la lettera di Le Corbusier a Bourdin, 17 giugno 1951, e quella del 18 giugno 1951 a Claudius-Petit: «mi permetto di confermarvi quel che vi avevo già segnalato: che il Curato di Ronchamp cerca 10 milioni. Voi mi avete detto che questa questione attirava la vostra attenzione e che ne avevate preso nota. Penso che sarebbe utile dare un segnale di vita a questi Signori». 122 J.-F. Mathey, lettera e appunti del gennaio 2006, cit. 123 Journal, cit., n. 86, marzo 1990, p. 36. 124 Istituita da Napoleone Bonaparte nel 1802, è la più alta decorazione onorifica francese. 125 F. Mathey, conversazione con F. Caussé, 1 marzo 1991, cit. 126 R. Bolle-Reddat, conversazione di F. Caussé del 9 agosto 1991. 127 Journal, cit., n. 68, marzo 1981 (François Mathey), p. 5. 128 Ivi (Monsignor Béjot), pp. 7-8. 129 Sei visite sono attestate nel 1950 e altre sono probabili, come fa pensare la lettera di Ledeur del 27 maggio 1955: «Se mi è possibile incontrarvi, non mi rispondete – fissate solamente un’ora, che io chiederò per telefono alla vostra segretaria fin dal mio arrivo», archivi Fondazione Le Corbusier. 130 Lettera a F. Caussé, 13 marzo 1991, cit. 131 Journal, cit., n. 68, marzo 1981 (F. Mathey). 132 Un artisan…, cit. Testimonianza di A. Manessier, pp. 5-7. 133 Ad esempio, il 25 aprile 1955 Ledeur discute (tra le altre cose) la decorazione della porta. Egli invia «qualcuno dei titoli – simbolici o meno – nei quali la Chiesa ha espresso le proprie credenze relative a Maria. […] Forse vi potranno ancora servire per le vetrate. Parecchi, d’altro canto, non sono che un richiamo a quelli che già vi avevo detto. Troverete anche le iscrizioni per cinque delle lastre in metallo fuso […] Mi piacerebbe che voi possiate dichiarare l’origine dei testi. Il signor Maisonnier mi aveva chiesto alcune precisazioni relative agli altari […], gliele invierò quindi domani…». Archivi della Fondazione Le Corbusier. 134 Conversazione con F. Caussé e appunti di rilettura, cit. 135 R. Bolle-Reddat, Un Evangile selon Le Corbusier, cit., p. 293. 136 Journal, cit., n. 68, marzo 1981 (Monsignor Béjot), pp. 7-8. 137 La Croix, 6 aprile 1954. 138 Aperto solennemente il dicembre precedente, La Croix, 8 dicembre 1953.
139 Journal, cit., n. 21, p. 7. 140 La Croix, 11-12 novembre 1990. 141 as, n. 1-2, 1955, pp. 20-27. 142 Journal, cit., n. 86, marzo 1990, p. 5 e ss. 143 as, n. 1-2, 1955, pp. 27-28. 144 Journal, cit., n. 19, dicembre 1965-gennaio 1966, pp. 8, 10, 12. 145 Cfr. Caussé, Les artistes, l’art et la religion en France, cit., per la discussione. 146 M. Ferry, «Le vitrail moderne en FrancheComté», in Vitrea, n. 4, ii semestre 1989, cit. 147 Journal, cit., n. 68, marzo 1981 (F. Mathey), p. 5. 148 Lettera di Couturier a Ledeur, 26 agosto 1950: «Quanto a Le Corbusier, sapevo che la cosa andava avanti, e me ne rallegravo molto [...]. Ma egli non me ne parlava che a mezza bocca, rispettando la consegna del silenzio. E, per parte mia, nonostante i nostri rapporti di amicizia, io non intendevo parlargliene più apertamente». Archivi diocesani di Besançon. 149 Il 31 luglio del 1952 Le Corbusier scrive al reverendo Bourdin: «Ho ricevuto la visita del RP Couturier che mi ha riferito il piacere da lui provato nel vedervi e nel fare la vostra conoscenza, e mi ha pure espresso tutta la sua certezza circa il fatto che la nostra impresa si sarebbe realizzata felicemente, grazie al vostro prezioso contributo così come a quello del signor Canet. Il RP Couturier, il Canonico Ledeur e io stesso siamo dell’avviso che non si deve in nessun caso consegnare alla stampa i documenti fotografici del modellino di Ronchamp. […] Ho avuto una conversazione questa mattina con il ministro della Ricostruzione, il quale mi ha detto di aver recapitato al RP Couturier le precisazioni che saranno utili al signor Canet e a voi medesimo per assicurare il finanziamento della costruzione». Archivi Fondazione Le Corbusier. 150 Journal, cit., n. 86. Fotografia conservata negli Archivi della Provincia di Francia a Parigi. 151 Couturier lo scrive in modo netto: «Una volta di più, la diocesi di Besançon salirà dunque agli onori con quest’opera importante, i cui promotori sono stati S.E. Monsignor l’Arcivescovo di Besançon, S.E. Monsignor Béjot e il canonico Ledeur […]. La sua realizzazione materiale è ora assicurata dalle cure e dalla dedizione esemplari del reverendo Bourdin e da un comitato di parrocchiani alla testa del quale si trova il signor Alfred Canet». as, n. 11-12, 1953, p. 29. 152 as, n. 1-2, 1955, pp. 3-11. 153 Il reverendo Bourdin si ritiene «escluso e spossessato», Journal, cit., n. 86, marzo 1990, p. 36. 154 Journal, cit., n. 83, dicembre 1988, p. 2, p. 38 e ss. 155 «3 aprile 1968. Sono stati tagliati i salici e gli arbusti che chiudevano la Spianata a Nord, fino al limite del terreno che ci appartiene. Lo spazio rimane segnato anche oltre. Verso Est le terribili acacie finiscono di nuovo col cingere la cappella fatta per i grandi orizzonti, come in una radura» (Journal, cit., n. 28, dicembre 1968, p. 12). 1974. «Con Roger si sono puliti i dintorni, le tracce e i relitti dell’inverno sotto gli alberi, nelle vicinanze. Smontate alcune siepi divenute inutili, se ne sono impiantate altre, spostando indietro i cippi di confine della proprietà. Vi è questo grande prato di circa un ettaro, verso Ovest, che la giungla invade [...]. Aperta, la prospettiva discendente, in dolce pendenza verso la foresta, sarebbe gradevole. Sarebbe una nuova superficie da pulire, mantenere, falciare» (Journal, cit., n. 50, febbraio 1964, p. 10). 1975. «Dalla piazza delle campane la vista si spinge lontano verso Sud-Ovest, in direzione della costa e di Lure [...] A lungo le costruzioni che là s’innalzavano hanno coperto questo meraviglioso panorama.
Si era rinunciato ad esso e anche a valorizzare il prato [...]. Ci si attacca alle liane irte di spine di questa giungla aggressiva [...] La giungla, qui, non sarà arretrata che di una trentina di metri, rimanendo pronta al contrattacco. Ne avviso i miei successori» (Journal, cit., n. 58, febbraio 1976, pp. 3-4). 156 Dichiarata terreno comunale. Il guardiano della precedente cappella vi si è installato, ha costruito un riparo per i pellegrini e impiantato botteghe di articoli votivi. Egli affitta il terreno al comune che prende le parti dell’occupante. Journal, cit., n. 72, marzo 1983, pp. 23-24. 157 La questione è stata posta sin dagli inizi all’architetto. D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, cit., p. 31. 158 R. Bolle-Reddat ha «inutilmente supplicato Le Corbusier di fornirgli una soluzione architettonica». Nel 1964, egli opta per una costruzione modesta e si rivolge a Jean Prouvé, un vecchio compagno di Le Corbusier, Journal, cit., n. 50, febbraio 1974, p. 10. 159 Nel 1991 F. Mathey, Ferry e il reverendo Garneret, si rammaricarono «che non ci siano stati i francescani alla cappella», J.-F. Mathey, lettera e appunti, gennaio 2006, cit. 160 La Croix, 11-12 novembre 1990. 161 Gilles Ragot, in L’Art sacré au xxe siècle en France, Albaron, Boulogne-Billancourt 1993, p. 170. 162 Lettera di Couturier a Régamey, 1 luglio 1952. Archivi della Provincia domenicana di Francia. 163 L. Ledeur, in: «Vitraux modernes en FrancheComté et querelle de l’art sacré», Mémoires de la Société d’émulation du Doubs, n. 10, 1968, p. 54. Le Moal non vuole dare eccessiva pubblicità ed importanza alla vetrata, lettera al reverendo Prenel, «Giovedì 14» (poco dopo l’invio dei bozzetti delle vetrate). Archivi diocesani di Besançon. 164 Lettera del 29 marzo 1957. Archivi diocesani di Besançon. 165 Quando il reverendo Louis Ladey decide, nel 1953, di restaurare la sua piccola chiesa di Jancigny nei pressi di Dijon, si rivolge a Ledeur, poiché sa, grazie all’as, «che Besançon funziona bene», conversazione di F. Caussé del 28 luglio 1993. Lui stesso rinnova in seguito la Commissione di Digione. Allo stesso modo, l’impatto a Strasburgo della cdas e dell’as è evidente nel lavoro della Commissione della diocesi, Can. Jean Ringue, conversazione di F. Caussé del 7 agosto 1993. 166 Nel 1966 una sessione riunisce nel convento di La Tourette 140 membri della cdas; Cocagnac vi ricorda che rare sono le commissioni in grado di offrire l’esempio di un lavoro equilibrato, as, n. 1-2, settembre-ottobre 1955. 167 La Croix, 10-11 settembre 2005. 168 AA.VV., Ronchamp. L’exigence d’une rencontre. Le Corbusier et la chapelle Notre-Dame du Haut, Fage, Lyon 2007. 169 Id. R. du Charlat è direttrice onoraria dell’Institut des Arts sacrés, Facoltà di teologia, Parigi. 170 Nel 2004 l’aondh si ristruttura, si apre ad altri membri e rifonda i propri statuti. Essa riscatta gli edifici della società «Les Amis de la chapelle» [cfr. nota 133] e fonda una Entreprise unipersonnelle à responsabilité limitée (eurl), «la Porterie de Notre-Dame du Haut», la cui gestione è indipendente, ma permette all’aondh di fare assegnamento su alcune entrate (la biglietteria) al fine di far fronte agli oneri e al mantenimento della cappella. Jean-François Mathey, figlio di François Mathey e primo presidente dell’aondh, ha passato di recente le proprie funzioni a Noël Roncet, attuale presidente. 171 F. Mathey, lettera a F. Caussé del 13 marzo 1991, cit. 172 Journal, cit., n. 28, dicembre 1968, p. 13.
LA RICERCA PAZIENTE 1
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L’attività di le Corbusier come pubblicista fu per lui fondamentale oltre che abbondante. Al riguardo: C. de Smet, Le Corbusier. Un architecte et ses livres, Lars Müller, Strasbourg 2005. M. Gauthier, Le Corbusier. Biografia di un architetto, Zanichelli, Bologna 1987, introd. ed. it. G. Gresleri, pp. vii-xvii (ed. orig.: Le Corbusier ou l’architecture au service de l’homme, Denoël, Paris 1944). Gauthier, giornalista d’arte, ebbe lunghe conversazioni con Le Corbusier che volle un racconto in grado di affermare la propria unicità, il proprio valore di ultimo anello della tradizione francese, la verginità politico-intellettuale. Gresleri vi riconosce, con lo schematismo interpretativo, il merito di un primo riordino dell’avventura corbusiana e di una attualità (mi pare non tramontata) che: «[…] consente di verificare quanto la critica contemporanea sia stata orientata e dipenda ancora da posizioni maturate durante quei lontani eventi e ha anche il pregio indubbio di aver dato spessore storico a una materia che nell’Oeuvre complète appare ordinata solo cronologicamente e con criteri compilativi» (ivi, p. xvii). Attualmente la raccolta di Oeuvre complète è edita da Artémis, Zürich 1991; i volumi uscirono gradualmente e con editori diversi: Girsberger curò le edizioni del 1929 per gli anni 1910-1929; del 1935 per 1929-1934; del 1937 per 1934-1938; del 1953 per 1946-1952; del 1957 per 1952-1957. I volumi del 1965, per gli anni 1957-1965, e del 1970, per 1965-1969, uscirono presso Artémis, che ripubblicò una prima edizione completa nel 1967. Jean Petit fu a lungo in contatto con Le Corbusier sia come grafico che come editore della rivista da lui fondata a Ginevra nel 1952 Les Cahiers des forces vives, in seguito di una collana con lo stesso nome pubblicata dapprima a Ginevra poi a Parigi. I rapporti tra i due, per la realizzazione di una decina di libri, furono vivaci e segnati da schiettezza e fiducia. Cfr. C. de Smet, Le Corbusier. Un architecte et ses livres, cit., p. 63. Le Corbusier stesso volle dettagliare i termini della propria ricerca paziente in: Le Corbusier, L’atelier de la recherche patiente, Vincent et Fréal, Paris 1960, introd. di M. Jardot (in it.: La mia opera, Boringhieri, Milano 1960). Più volte è tornato sul tema; durante una registrazione radiofonica nel suo studio privato dove dipingeva, chiamò quest’ultimo atelier de la richerche patiente, nel quale egli lavorava nella più assoluta solitudine, condizione indispensabile per affrontare «tutti i problemi di pura invenzione», la più difficile perché costringe a scavare in sé e coincidente con la totale libertà di fronte alla pagina bianca, della pittura come del progetto d’architettura, dove solo all’apparenza i vincoli di budget sembrerebbero ridurre i rischi (G. Monnier, Le Corbusier, La Renaissance du Livre, Tournai 1999, pp. 162-163). Le Corbusier, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica…, cit., pp. 14-15. Le Corbusier, Ronchamp, les carnets de la recerche patiente, n. 2, Girsberger, Zürich 1957, copyright 1957 by Hatje, Stuttgart. Le Corbusier, Une petite maison, les carnets de la recherche patiente, n. 1, aout 1954, Girsberger, Zürich 1954. Sono suoi: composizione della copertina, impaginazione, testi e disegni, l’ultimo dei quali risalente al 1945, dedicato alla madre che nel 1954 compiva novantuno anni. L’architetto vi narrò le vicende della casa,
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progettata nel 1922 e costruita nel 1923, per i genitori in riva al lago Lemano presso Vevey, ufficialmente giudicata, per la scarna essenzialità, dal locale Consiglio comunale un crime de lèse-nature, allo scopo di impedire qualsiasi imitazione. La Chapelle de Ronchamp 1950-1953, in: Œuvre complète 1946-1952, cit., pp. 88-98. La breve descrizione propone dati di contenuto e tecnici molto sintetici e il tema dell’intervento acustico nel campo delle forme, che rende l’architettura fenomeno altrettanto «implacabile» della musica. Nei disegni e nella maquette del primo progetto l’esplanade di fronte alla cappella a est è definita da una piastra in cemento, sollevata ai bordi; compare anche un campanile a tralicci isolato. Il secondo progetto, di più modeste dimensioni, comprende lo studio della toiture-coque, una maquette a fili di ferro per la geometria variabile delle superfici e le dimensioni secondo Modulor. Successivamente altre schede sono in: Le Corbusier et son atelier rue de Sèvres 35, cit., pp. 16-43, e in: Le Corbusier 1910-1960, cit., pp. 240-249, con breve testo descrittivo e poche grandi foto dell’opera eseguita. Il Modulor, come è noto, è un sistema metrico doppio basato su misure umane, che risponde alla sequenza di Fibonacci e alla sezione aurea. Le Corbusier lo mise a punto in due momenti: Le Modulor nel 1948, seguito da Modulor 2 nel 1950. Si trovano ambedue in: Le Modulor 2, 1a ed. 1955 e riediz. De L’Architecture d’Aujourd’hui, Paris 1983. Lo utilizzò a fondo in alcuni edifici, in particolare nell’Unité d’habitation di Marsiglia, a Ronchamp, a Chandigarh. Sul tema cfr.: D. Matteoni, «La ricerca di un’idea di proporzione: il Modulor», in: Parametro, n. 85, aprile 1980, pp. 12-37; J. Linton, Le Corbusier et l’esprit mathématique, in: AA. VV., Le Corbusier. Le symbolique, le sacré, la spiritualité, flc La Villette, Paris 2004, pp. 55-65; M. Curti, L’idea di proporzione da Pitagora a Le Corbusier. Temi e problemi, Università «La Sapienza» di Roma, Roma 2004. Le Corbusier, Modulor 2, Mazzotta, Milano 1974, p. 254. Le Corbusier ha evocato in più occasioni l’angolo retto. «A scala cosmica viviamo in un mondo che non ha nulla di ortogonale: l’angolo retto non esiste. – scrive in un breve testo introduttivo il suo allievo André Wogenscky, in: Le Corbusier, Le poème de l’angle droit, flc-Connivences, Paris 1989 (rist. facs. ed. orig. Verve, Paris 1955) – […] Ma alla scala umano lo spazio è percepito e pensato nella ortogonalità. Il suo asse è la verticale, la traiettoria della caduta dei corpi, l’uomo e l’albero stanno in piedi […]. L’architettura concretizza e rende tangibile questa ortogonalità. Materializza le linee orizzontali e verticali e diviene il nostro principale sistema di riferimento, di posizionamento e di percezione dei movimenti. Ciò è particolarmente vero per Le Corbusier. L’angolo retto è la base del suo pensiero architettonico. […] Quando [Le Corbusier] alza nello spazio una forma architettonica, la carica di significato. L’angolo retto non è solo geometria, è anche simbolo. È caricato di valore mistico. Immagine dell’uomo in piedi per agire, sdraiato per dormire o morire. Il passaggio, l’oscillazione tra verticale e orizzontale è l’immagine della vita. L’angolo retto è ‘patto con la natura’». Lucien Hervé, o László Elkán (1910-2007), fotografo e intellettuale franco ungherese, incontrò Le Corbusier nel 1949 e divenne il più importante fotografo delle sue architetture in Francia e in India fino al 1965. Proseguì
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brillantemente la propria carriera come fotografo di architetti famosi, come Prouvé, Aalto, Niemeyer, Breuer. Cfr. Lucien Hervé, introd. O. Beer, Actes du Sud, Paris 2013. Gli appunti a mano accanto alle foto di una pagina del libro vogliono far cogliere il gioco di luci e ombre dell’esterno della cappella: «observez le jeu des ombres/ jouez le jeu …/ Ombres propres, -nettes ou fondues/ ombres portées: aigües/ Ombres portees – rigueur du tracé/ mais arabesque ou découpage si/ ensorcelant! Contrepoint/ et figure Musique/ Grande Musique!/ Essayer de regarder les images/ à l’envers, ou tournez-les d’1/4/ vous découvrirez le jeu!». Le Corbusier, Ronchamp, les carnets de la recerche patiente, cit., p. 22. Si tratta degli schizzi nel Carnet con sigla E18, ora pubblicato in: Carnets 1950-1954, vol. 2, ed. Electa, Milano 1981, a cura di F. de Franclieu. Oltre agli appunti del primo viaggio a Chandigarh, i molti schizzi di Ronchamp che esso contiene sono fondamentali per comprenderne la genesi (datati alcuni a giugno 1950, altri 12 febbraio 1951, altri 15 febbraio). Franclieu riporta anche uno scritto (da Le Corbusier, Textes et dessins pour Ronchamp, Forces vives, Paris 1965) importante per comprenderne il metodo di lavoro: «Quando mi è affidato un compito, ho per abitudine di accoglierlo nella memoria, cioè di non permettermi schizzi per mesi. La testa umana è fatta in modo da possedere una certa indipendenza: è una scatola nella quale si possono versare a caso gli elementi di un problema… In seguito, per interiore iniziativa spontanea, si produce lo scatto; si prende una matita, un carboncino, dei pastelli colorati (il colore è la chiave del passo che si prende) e ci si piega sul foglio: l’idea esce, il bambino esce: è venuto al mondo, è nato». Joseph Savina (1901-1983), ebanista bretone, conobbe Le Corbusier nel 1935 ma iniziò a lavorare con lui solo dal 1946. Le Corbusier gli passava i disegni che realizzava, in qualche caso l’architetto ne completava o sistemava alcune parti. Il primo lavoro fu la realizzazione di una piccola scultura in legno a partire da temi elaborati da Le Corbusier mentre era a Ozon presso i Pirenei, durante la seconda guerra mondiale. Si coinvolse direttamente con lui nella ricerca di ‘forme acustiche’. Realizzò anche sculture di grandi dimensioni, molti studi sulle mani, tema caro all’architetto, e tutti i lavori in legno di Ronchamp. Cfr. voce Savina (Joseph), di F. de Franclieu in AA. VV., Le Corbusier. Une encyclopédie, cit., pp. 364-365. Le Corbusier affermò anche, per esempio, che «Rochamp è una risposta al paesaggio, ai quattro orizzonti. È fenomeno acustico, fenomeno visuale di acustica o di acustica visuale» (Le Corbusier lui même, Panorama Forces vives, Genève 1970, p. 184). Altre formule sono: réponse acoustique paiysagère e acoustique paysagiste prénant les quatre horizons à temoin, in: G. Ragot, La colline et la chapelle de Ronchamp, p. 62 e p. 73, in: AA. VV., Manière de penser Ronchamp. Hommage à Michel W. Kagan, Fondation Le Corbusier, La Villette, Paris 2011. In questo volume è riportato in più saggi (J.-P. Dupron, J.-L. Cohen, M. Kagan e N. Règnier Kagan, B. Reichlin, S. von Moos, G. Ragot) l’insieme delle motivazioni opposte all’intervento, ora realizzato, di un nuovo ingresso e del piccolo monastero delle carmelitane progettati da Renzo Piano, che a sua volta espresse le proprie motivazioni in: «Ecco le mie ragioni», Il giornale dell’architettura, n. 63, giugno 2008, p. 5.
19 I. Xenakis (1922-2001), compositore e ingegnere greco naturalizzato francese, collaborò con Le Corbusier, per il convento di La Tourette e per il Padiglione Philips del 1958. Su di lui: A. Petrilli, Acustica e architettura: spazio, suono, armonia in Le Corbusier, Marsilio, Venezia 2001. 20 P. Claudel, L’œil écoute, Gallimard, Paris 1946, raccolta di saggi scritti tra 1934 e 1945. 21 M. Merlau Ponty, L’occhio e lo spirito, se, Milano 1989, ed. orig.: L’oeil et l’esprit, Gallimard, Paris 1964. 22 Le Corbusier, «Unité», in: L’architecture d’aujourd’hui, Le Corbusier, numéro hors séries, avril 1948 (direttore della rivista: André Bloc, redattore capo: Pierre Vago), p. 55. 23 J. Pallasmaa (in: Gli occhi della pelle. L’archi tettura e i sensi, Jaca Book, Milano 2007, p. 65) scrive: «La vista isola, laddove il suono incorpora; la vista è direzionale, laddove il suono è onnidirezionale. Il senso della vista implica esteriorità, mentre il suono crea un’esperienza di interiorità. Io guardo un oggetto, ma è il suono che si avvicina a me; l’occhio raggiunge mentre l’orecchio accoglie». 24 Cfr. qui nel v cap., a proposito della presa d’atto del tema sacro da parte di Le Corbusier a Ronchamp e a La Tourette. 25 Le Corbusier scrisse il 10 ottobre 1959 a André Malraux, segnalandogli che Ronchamp era luogo commovente: «Da lontano e da vicino qui tutto è luogo di silence producteur […] tutto è a posto e dignitoso. Se non si agisce, vedrete domani, o l’anno prossimo, alzarsi un albergo di gran turismo, che ucciderà la collina, l’haut-lieu». Cfr. Le Corbusier, Choix des lettres, Selection, introduction et notes par Jean Jenger, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2002, pp. 441-442. 26 V. Casali, La nature comme paysage, in: AA.VV., Le Corbusier. La nature, Rencontres de la Fondation Le Corbusier, La Villette, Paris 2004, pp. 63-73. 27 Ivi, p. 65. 28 Ivi, p. 64. 29 Ivi, p. 73. 30 Ivi, p. 64. 31 Costantino Nivola (1011-1988), pittore e scultore sardo, dopo aver abitato a Parigi, nel 1948 si stabilì a Long Island (New York), dove inventò la tecnica scultorea detta sand casting, realizzata tramite colate di cemento su sabbia modellata. Le Corbusier fu più volte suo ospite e lavorò con lui a queste sculture. Cfr. M. Mameli, Le Corbusier e Costantino Nivola: New York 1946 – 1963, FrancoAngeli, Milano 2012. 32 Pala d’altare, rappresentante la Trinità, quadro devozionale d’ignoto autore francese quattrocinquecentesco, oggi al Louvre. La posizione delle braccia in modo da formare pentagono regolare non è un unicum di questo quadro, la si ritrova anzi spesso nel Christus patiens. 33 Il principe Matyla Ghyka (1881-1965), matematico, filosofo e diplomatico rumeno in Inghilterra, scrisse Le nombre d’or. Rites et rythmes pythagoriciens dans le development de la civilisation occidentale, Gallimard, Paris 1931, con prefazione di Paul Valéry, suo grande estimatore, presto tradotto in molte lingue. 34 Le Corbusier, Ronchamp, les carnets de la recerche patiente, cit., p. 128. 35 Puntuali indicazioni, con riferimenti anche a testi d’epoca, sulla cura estrema di Le Corbusier nel seguire le normative liturgiche sono in: D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, Orphys, Paris 1980, pp. 90-104, cfr. anche le note. 36 Le Corbusier, chapelle Notre-Dame du Haut à ronchamp, Cahiers Forces Vives dirigés par
Jean Petit, Paris 1961. Il testo di Meissonier, senza titolo: pp. 22-60. 37 Interessanti note costruttive nel cap. Costruction di D. Pauly, Ronchamp, lecture, cit. pp. 56-65. 38 Ivi, p. 21. 39 Edgar Varèse (1883-1965) scrisse un Poème electronique diffuso con altoparlanti nel Padiglione Philips di Le Corbusier. 40 A Olivier Messiaen (1908-1992), celebre compositore in data 21 maggio 1955 Le Corbusier scrisse preannunciandogli una visita di Xenakis e chiedendogli se fosse disponibile a proporre qualche composizione «di sonorizzazione dentro e fuori della cappella, in emissione elettronica, davanti a un gran numero di autorità ecclesiastiche, di ministri e a un immenso pubblico religioso e laico. La cappella di Ronchamp è gesto molto importante in senso moderno (parlo d’architettura). Sarei sensibile per parte mia al fatto che la musica venga a portare la sua magistrale forza emotiva in questo alto luogo, paesaggio magnifico dove, da cinque anni, costruiamo qualcosa che sarà probabilmente un contributo architettonico. Musica e architettura sono arti molto vicine nella loro alta espressione». Cfr. Le Corbusier, Choix des lettres, cit., pp. 386-387. 41 D. Pauly è autrice di più testi legati a Ronchamp: Ronchamp, lecture, cit.; Ronchamp (Chapelle de): la leçon du passé, in: Le Corbusier et la mediterranée, cit.; La Chapelle de Ronchamp, The Chapel of Ronchamp, Birkäuser, Basel 2008; «Ce passé qui fut mon seul maître», cit.; Le Corbusier. Le dessein come outil, Fage, Lyon 2006; Ronchamp, une oeuvre d’art total, in: AA. VV., L’exigence d’un rencontre, cit.; «Le Corbusier – Albums d’Afrique du nord. Voyages au M’Zab, 1931 e 1933», Archives d’Architecture Moderne, 2013. 42 L’espressione trou de mystère è usata da Le Corbusier in un appunto del foglio n. 69, relativo al Serapeion di Villa Adriana a Tivoli, del carnet n. 5, cfr. Le Corbusier. Voyages d’Orient, cit. Lettura analitica in: E. Gentili Tedeschi, G. Denti, Le Corbusier a Villa Adriana. Un Atlante, Alinea, Firenze 1999. 43 Sul tema della fusione d’orizzonti cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 633, pp. 771-773, p. 811, p. 1038. 44 Oltre ai molti riferimenti indicati nei suoi scritti da D. Pauly, recentemente si è segnalato in una foto, senza commento, un confronto tra sguanci, nello spessore murario della parete sud interna di Ronchamp, e finestre di una parete interna della casa pompeiana dei Ceii. Cfr.: J. Quetglas, «Roma non è che un vasto monumento, Pompei un’antichità vivente», in: AA. VV., L’Italia di Le Corbusier, cit., p. 95. 45 Ad esempio, quando Ronchamp venne definita église forum du Bon Dieu, Le Corbusier irritato affermò: «Voi parlate male della chiesa. Ho fatto delle chiese, Ronchamp e poi La Tourette. Ne ho avuto una certa provocazione religiosa. Io non sono praticante, so soltanto che ogni uomo avverte il senso religioso di essere parte di una ricchezza umana (capital humain). Poco o tanto, ma infine ne è parte. Nel mio lavoro porto un’effusione e un’intensità di vita interiore tali da renderlo quasi religioso». Cfr. Le Corbusier lui même, cit., p. 183. 46 Affrontano globalmente l’architettura sacra di Le Corbusier: G. e G. Gresleri, Le Corbusier e il programma liturgico, Compositori, Bologna 2001; F. Samuel, I. Linder-Gaillard, Sacred Concrete. The churches of Le Corbusier, Birkhäuser, Basel 2013; H. Plummer, Cosmos of light: the sacred architecture of Le Corbusier, Indiana University Press, Indiana 2013.
47 Cfr. quanto qui scrive Caussé. 48 A. Eardley, K. Frampton, Le Corbusier’s Firminy Church, The Institute of Architecture and Urban Studies and Rizzoli, New York 1981; J. Oubrerie, M. Cavanaugh Novak, Architecture Interruptus, Wexner Center for the Arts, Ohio State University, Columbus, Ohio 2007; X. Guillot, Firminy: Le Corbusier en héritage, Université de Saint-Etienne, Saint-Etienne 2008. 49 G. Gresleri, Tremblay: l’idea ‘venuta … un bel giorno’, in: Id. (a cura di), Le Corbusier. Il programma liturgico, Compositori, Bologna 2001, pp. 38-45; cfr. anche: A. Mastrorilli, Verso una chiesa moderna in Francia: l’architettura del cemento scolpito, in: M.A. Crippa (a cura di), Luoghi e modernità. Pratiche e saperi del l’architettura, Jaca Book, Milano 2007, p. 182.
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Alla percezione multisensoriale di Le Corbusier intendo qui far corrispondere una lettura dell’interno e dell’esterno della cappella di Ronchamp quanto più possibile totalizzante. Le Corbusier in più contesti ha affermato che l’architettura si comprende camminandole intorno e al suo interno; la stessa nozione di promenade architecturale è indicativa al riguardo. La più celebre definizione di architettura di Le Corbusier è: «L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi nella luce» in: Le Corbusier, Verso un’architettura, a cura di P. Nicolin, P. Cerri, Longanesi, Milano 1979, p. 178 (ed. orig. Vers un’architecture, Crès, Paris 1923). Lo stesso Le Corbusier dà precise indicazioni al riguardo legando space indicible e senso religioso: «Ignoro il miracolo della fede, ma vivo sovente quello dello spazio indicibile, coronamento dell’emozione plastica» («L’espace indicible», in: L’Art, n. speciale di L’Architecture d’aujourd’hui, p. 10). Così definì inoltre tale spazio: «Quando un’opera è al suo massimo di intensità, di proporzione, di qualità di esecuzione, di perfezione, si produce un fenomeno di spazio indicibile: i luoghi si mettono a irraggiare» («J’étais venu ici», conversazione a La Tourette, in: L’Art Sacré, nn. 7-8, 1960, p. 126). Si può ovviamente anche dire che Le Corbusier ha trattato la luce come un materiale, dal momento che ne ha controllato le modulazioni. Tuttavia, il carattere naturale della luce, le sue variazioni nel giorno e nell’anno implicano anche un’imponderabilità compositiva con la quale l’architetto si è felicemente misurato. J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, Milano 1981, p. 211. H. Sedlmayr, La morte della luce, Rusconi, Milano 1970, p. 46. Il foglio è conservato presso l’archivio della biblioteca del convento domenicano du Saulchoir a Parigi nel faldone su Ronchamp. Ho composto la descrizione introduttiva a questo prendendo spunto dallo scritto di E.N. Rogers nel 1955, per la rivista Casabella – Continuità che dirigeva, di cui parlo qui nel capitolo successivo a questo; e da un dattiloscritto, di ignoto autore e per un pellegrino, meno colto del precedente ma tutt’altro che banale. Il dattiloscritto, di dodici pagine, è conservato presso l’archivio della biblioteca del convento domenicano du Saulchoir a Parigi nel faldone su Ronchamp. Dalle prime quattro pagine di E.N. Rogers, «Il metodo di Le Corbusier e la forma della Chapelle de Ronchamp», in: Casabella, sett.-ott. 1955, pp. 2-6, ho tratto i
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brani virgolettati. E.N. Rogers (1909-1969) è stato architetto, membro del celebre studio professionale bbpr, professore al Politecnico di Milano con vasti rapporti internazionali e proprio orientamento teorico, direttore di due importanti riviste di architettura, Domus, nel 1946-47, e Casabella, dal 1953 al 1965, dove si formò un gruppo di architetti (A. Rossi, V. Gregotti, G. Grassi, G. Aulenti, G. Stoppino, G. Canella, G. De Carlo e altri) che hanno influenzato profondamente la cultura architettonica internazionale. Il blocco in pietra della fondazione porta questo breve testo: Dediée à la Vierge Marie Notre-Dame du Haut cette chapelle voulue par S. E. monseigneur Dubourg conçue par l’architecte Le Corbusier a été construite en l’année mariale 1954. Monseigneur Bejot evêque de Cassandria en avait scellé la première pierre le 4 avril 1954 elle a été bénie par S. E. monseigneur Dubois archevêche de Besançon le 25 juin 1955. Successivamente venne aggiunto: elle a été consacrée par S. E. monseigneur Lacrampe archevêche de Besançon le 11 septembre 2005. Questa pietra sembra fare da contrappeso alla mensola in cemento a vista che sporge dal muro curvo della cappella. Le Corbusier, Ronchamp, les carnets de la recerche patiente, cit., p. 95. Prendo questa indicazione da Le Corbusier; in un’intervista egli afferma che a Ronchamp: «C’è il sole che si leva, l’indicazione, è l’asse di Gerusalemme», in: G. Monnier, Le Corbusier, cit., p. 181. Uno schizzo rintracciato da M. Krustrup, pubblicato da lui in: Ronchamp, negli abissi abita la verità, p. 114 (in: AA. VV., Le Corbusier. Il programma liturgico, cit.) consente di affermare con certezza che questa figura è sintetica immagine della donna vestita di sole dell’Apocalisse. L’architetto avrebbe voluto lasciare il vano completamente vuoto, esigendo che i pellegrini o stessero in piedi o si inginocchiassero alla balaustra, Cfr. D. Pauly, Ronchamp, lecture, cit., p. 99. Non sono mai state pubblicate le dimensioni, in metri, del volume della cappella e delle sue parti, in modo completo. In diverse occasioni Le Corbusier ha segnalato le seguenti: 2,26 m è la distanza tra le due pareti del guscio del tetto; il punto più basso in verticale della cappella, in corrispondenza del doccione, è di 4,52 m; l’aula interna per lo spazio dei fedeli è di 12,00 x 25,00 m; delle tre cappelle, una è alta 22,00 m, le due gemelle 15,00. I padri domenicani A.-M. Cocagnac e M.-R. Capellades in: La chapelle du Rosaire à Vence par Matisse et Notre-Dame-du-Haut à Ronchmp par Le Corbusier, Cerf, Paris 1955, riprendendo i testi già apparsi nei cahiers di L’Art Sacré, propongono una lettura affettuosa ed entusiasta delle due cappelle. Cocagnac (ivi, pp. 96-106) lega strettamente Ronchamp al progetto di Le Corbusier per la chiesa sotterranea della Sainte Baume e ne caratterizza l’interno come «antro spirituale», grotta analoga a quella delle apparizioni a Lourdes, immagine delle «viscere» della Vergine. Il suo esterno ha per lui plastiche «forme materne […] figura visibile dell’amore della Vergine per i suoi figli e del suo sorriso per i loro giochi innocenti». D. Pauly, Ronchamp, lecture, cit., p. 118, ivi anche la nota n. 39, nella quale riferisce dell’attenzione di Le Corbusier per le sculture di Pevsner, espressa nella conferenza a Roma del 1939. Le Corbusier, in: J. Petit, Le Livre de Ronchamp, Les Cahiers Forces Vives/Editec, Paris 1961, p. 18.
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RONCHAMP CROCEVIA DELLA MODERNITÀ 1
R. Steiner, Grammatica della creazione, Garzanti, Milano 2001, p. 237: «A un livello decisivo la nozione di progresso e di obsolescenza nel tempo storico risulta artificiale. Le opere serie non vengono superate né eclissate; l’arte importante non viene relegata nell’antiquariato. La cattedrale di Chartres non è datata. La differenza con la scienza e la tecnologia è essenziale. Nelle arti, nella letteratura, nella musica, la durata non è tempo». 2 Ivi, p. 308. Steiner chiude il libro con queste parole: «Siamo stati a lungo ospiti della creazione, e io credo che lo siamo ancora. Al nostro ospite dobbiamo la cortesia del domandare». 3 AA. VV., L’exigence d’un rencontre, cit., p. 148 e p. 182. 4 G.E. Kidder Smith, Nuove chiese in Europa, Ed. di Comunità, Milano 1964, p. 12. 5 H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teo logica, Jaca Book, Milano 1981, p. 11. 6 R. Steiner, Grammatica della creazione, cit., p. 238. 7 N. Pevsner (1902-1983), membro del comitato direttivo di Architectural Review, fu autore di molti libri d’architettura. Il più celebre fu: Pioneers of the modern movement from William Morris to Walter Gropius, Faber & Faber, London 1936. In An Outline of European Architecture, Pelican Books, London 1a ed. 1943, Gibbs S. Layton 2009 (in it. Storia dell’architettura europea, Il Saggiatore, Milano 1966), affermò che Le Corbusier cambiò ‘stile’ dopo il viaggio in Brasile, Rochamp, «manifesto del nuovo irrazionalismo», fu l’esito più compiuto di questo cambiamento (ivi, p. 429). 8 L. Roversi, Le Corbusier. La cappella di Ronchamp, Alinea, Firenze 1989. Ivi descrizione di Siegfried Giedion della cerimonia di inaugurazione che, nelle parole dell’arcivescovo, colse una coraggiosa posizione nei confronti della modernità, pp. 9-10. S. Giedion (1888-1968) storico dell’arte e dell’architettura, nel 1925 incontrò Le Corbusier e nel 1928 fu, con lui, tra i fondatori dei ciam. 9 S. Giedion, Spazio, tempo, architettura, Hoepli, Milano 1965 (ed. it. dalla 2a ingl., Space, time and Architecture, The Growth of a new tradition, Harvard University Press, Harvard 1954, la 1a ed., Cambridge Mass., è del 1941), con Presentazione alla seconda edizione italiana. L’architettura intorno al 1960, pp. xxv-xlvii: vi si coglie il suo ripensamento del Movimento Moderno dopo Ronchamp e Chandigarh. Opponendosi al clima svagato del convegno del 1961 al Metropolitan Museum di New York su Architettura Moderna: Morte o Metamorfosi?, egli afferma l’emergenza di «una nuova tradizione che è appena ai suoi inizi», segnalata da: tendenze plastiche che risvegliano «affinità emotive con le origini dell’architettura»; da componenti irrazionali e simboliche; dall’emergere di esigenze regionaliste e da un atteggiamento nei confronti col passato «per intime affinità». 10 In Casabella – Continuità, nel n. 207, sett.-ott. 1955, si trovano: E.N. Rogers, «Il metodo di Le Corbusier e la forma della Chapelle de Ronchamp», pp. 2-6, Le Corbusier, «La chiesa di Notre Dame du Haut a Ronchamp», pp. 7-27; nel n. 209, genn.-febbr. 1956: la lettera di Argan e la risposta di Rogers, pp. 1-6; nel n. 10, marzo-aprile: «Discussione sulla valutazione storica dell’architettura e sulla misura umana», lettera di G. De Carlo a Rogers e sua risposta, pp. 1-5; nel n. 211, giugno-luglio 1956: E.N. Rogers, «L’architettura moderna dopo la
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generazione dei Maestri», pp. 1-5. La lettera di Argan a Rogers è pubblicata anche in: G.C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 236-243. Nei numeri compresi tra 207 e 211 di Casabella – Continuità sono segnalati i seguenti articoli comparsi in varie riviste europee che qui riporto in ordine cronologico: F. Gutkind, «The new Corbusier», in: Architectural Record, n. 228, 1955; «Notre Dame du Haut a Ronchamp», annuncio di un prossimo articolo di Stirling, in: The Architectural Rewiew, n. 708, 1955; A. Blomstedt, P.J. Poullard, «Le Corbusier. La Chapelle de Ronchamp», in: Arkkitehti Arkitekten, n. 9, 1955 (rivista finlandese); P.H. Rieber-Mohn o.p., «Det gjenfundne tempel» (Questo tempio ritrovato), in: Bygggekunst, n. 8, 1955; K.L. Sijmons Dzn., «Ronchamp», in: Forum, n. 9. 1955; A. Roth, X. Von Moos, «Die Wallfahrtskapelle in Ronchamp», in: Werk, n. 12, 1955; J. Stirling, «Le Corbusier’s Chapel and the Crisis of Rationalism», in: The Architectural Rewiew, n. 711, 1956; U. Conrads, «Ronchamp oder die ‘Travestie der Unschuld’» (Ronchamp o il travestimento dell’innocenza), in: Baukunst und Werkform, n. 1, 1956; R. Schwarz, «Brief über Ronchamp», lettera a U. Conrads, in: Baukunst und Werkform, n. 9, 1956; P. Oldrich Stary, «Posledni Tvorba Le Corbusierova» (La recente opera di Le Corbusier), in: Architektura csr, n. 3, 1956. Questa segnalazione vuole solo dar ragione dell’esplosione dell’interesse nelle riviste specializzate; manca comunque uno spoglio per più anni e su più riviste. Segnalo anche: G. Samonà, «Lettura della Cappella a Ronchamp», in: L’architettura, n. 8, 1960; E.N. Rogers, Le Corbusier tra noi, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1966. J. Stirling, Le Corbusier’s Chapel, cit., ora anche in rete nel sito online di The Architectural Rewiew. Lever house, progettata da G. Bunshaft e N. de Blois dello studio Skidmore, Owings and Merrill, e completata nel 1952 è stato il primo glass-box skyscraper e il secondo curtain wall skyscraper, in New York City, dopo il palazzo dell’onu. E.N. Rogers, Il metodo di Le Corbusier, cit.; Le Corbusier, La chiesa di Notre Dame du Haut, cit. G.C. Argan, lettera a Rogers, cit. G. De Carlo, Discussione sulla valutazione storica dell’architettura e sulla misura umana, lettera a Rogers e sua risposta, cit. G. De Carlo (19192005), architetto e professore, tra i fondatori del Team X, nel ciam si oppose apertamente ai principi di Le Corbusier. Le Corbusier, Prefazione alla prima edizione (Parigi, 10 giugno 1931), in: A. Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna, 3a ed., Hoepli, Milano 1941, pp. 9-10. E.N. Rogers, L’architettura moderna dopo la generazione dei Maestri, cit. R. Schwarz, Brief über Ronchamp, cit.; cfr. anche: W. Pehnt, H. Strohl, Rudolf Schwarz 1897-1961, Electa, Milano 2000 (ed. orig. 1997), pp. 156-157. Ha scritto dom F. Debuyst, benedettino critico d’arte e d’architettura sacra, sostenitore di una linea minimalista: «Occorre avere il coraggio di richiamare qui il prezzo che abbiamo dovuto pagare per certe esperienze, per esempio per l’eccezionale riuscita di Ronchamp. In Francia, in Germania e forse soprattutto in Svizzera, essa ha provocato una vera esplosione di forme organiciste, una tendenza alla monumentalità [...]. Dopo Ronchamp tutto è divenuto pos-
sibile. L’hapax legomenon, fatto per essere ammirato e imitato (o trasportato) è divenuto locuzione comune». Cfr. Id., A’ la recherche d’une ‘troisième force’, in: AA. VV., Espace sacré, Cerf, Paris 1971, p. 128. Cfr. Anche la critica a La Tourette, in: F. Debuyst, Il genius loci cristiano, Sinai, Milano 2001, introd. M.A. Crippa, pp. 73-74. 21 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, 5a ed., Einaudi, Torino 1975, pp. 107-109. 22 G.K. König, Le Corbusier e la morte a Venezia, in: Id., Architettura del Novecento. Teoria, storia, pratica, critica, Marsilio, Venezia 1995, p. 162, già in: Id., L’invecchiamento dell’architettura e altre dodici note, lef, Firenze 1967, pp. 259-269). Anche D. Pauly (Ronchamp, lecture, cit., pp. 141-142) propone una lettura ‘espressionistica’ di Ronchamp, ritrovandovi tre componenti proprie degli espressionisti tedeschi: l’intenzione di massimo sfruttamento espressivo delle caratteristiche dei materiali in forme libere, la sintesi delle arti, il desiderio di costruire per la collettività. Sull’espressionismo tedesco: T. Borsi, G.K. König, Architettura dell’espressionismo, Vitali e Ghianda, Genova 1967; W. Pehnt, Expressionist Architecture, Thames and Hudson, London 1973; T. Benton, Expressionism, Open University Press, Milton Keynes 1975. 23 Ivi, p. 163. 24 Ivi. 25 Cfr. nota 15, cap. 3. 26 G. Ponti, «Invito ad andare a Ronchamp», in: Domus, n. 323, 1956, pp. 1-2. 27 Dopo i primi profili storiografici di forte militanza a favore dell’architettura moderna, di N. Pevsner del 1936 e di S. Giedion del 1941, si diffusero in tutto il mondo quelli molto più ampi e articolati di B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950, e di L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza, Bari 1960. Iniziò con essi la storiografia oggi messa in discussione, la cui prima revisione critica generale è stata elaborata da P. Tournikiotis in The historiography of Modern Architecture, mit (Massachussetts Institute of Technology), 1999. 28 J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura. Dal Rinascimento ai maestri contemporanei, Einaudi, Torino 2000, p. 67. 29 W. Curtis, Modern architecture since 1900, Phaidon, New Yor 1982, in it. L’architettura moderna dal 1900, 3a ed. riveduta, Phaidon, New Yor 2006. 30 Ivi, p. 11. 31 Ivi, pp. 685-689. 32 S. Tintori, Le Corbusier e la cultura francese, in: AA. VV., Le Corbusier. La progettazione come mutamento (a cura di C. Blasi e G. Padovano), Mazzotta, Milano 1986, pp. 41-69. 33 Ivi, p. 47. 34 K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1993 (1a ed. orig. ingl. 1980, 1a ed. it. 1982), pp. 268-270; Id., Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel xix e nel xx secolo, Skira, Milano 1999, pp. 377-381 (interessante qui anche il capitolo Jørn Utzon: forma transculturale e metafora architettonica, pp. 227-331); Id., Le Corbusier, Thames and Hudson, New York 2001 (i capitoli: 10, The Sacred and Profane: Le Corbusier and Spiritual Form 1948-1965, pp. 167-183; 13, Fin d’un Monde: The Last Works 1939-1965, pp. 214-229). 35 C. Jencks, Le Corbusier e la rivoluzione continua in architettura, ed. it. a cura di M.A. Crippa, Jaca Book, Milano 2002 (ed. or. ingl. 2000). 36 Le Corbusier, Verso un’architettura, cit., pp. 53-
56, il tempio primitivo è presentato nel capitolo sui tracciati regolatori. 37 K. Frampton, Tettonica e architettura, cit., p. 38. 38 G. Gresleri, v. nota n. 4, Introduzione. 39 AA. VV., L’Italia di Le Corbusier, a cura di M. Talamona, cit. 40 R.A. Moore, Le Corbusier: Myth and Meta Architecture. The late Period (1947-1965), in: AA. VV., Le Corbusier. Images and Symbols, Georgia State University, Atlanta 1977, pp. 1-42; R. A. Moore, «Alchemical and mythical themes in the Poem of the right angle», in: Oppositions, nn. 19-20, 1980, pp. 111-139; M. Krustrup, Porte email, Emaljeporten, Kunstakademiet, Kobenavn 1991; R. Coombs, Mystical Themes in Le Corbusier’s architecture in the Chapel Notre-Dame-du-Haut at Ronchamp. The Ronchamp riddle, Mellen, Lewinston New York (usa), Queenston Ontario (Canada) 2000; S. von Moos, Le Corbusier. Elements of synthesis – Revised and expanded, 010 Publishwers, Rotterdam 2009; J. Calatrava, Le Corbusier et Le Poème de l’angle droit: un poema abitabile, una casa poetica, in: Le Corbusier, Poème de l’angle droit, Electa, Milano 2012, pp. 173-209. 41 AA.VV., Bachelard e le provocazioni della materia, a cura di F. Bonicalzi, P. Mottana, C. Vinti, J.J. Wunenburger, Il melangolo, Genova 2012. 42 V. Casali, La nature comme paysage, cit. 43 S. von Moos, Le Corbusier. Elements of synthesis, cit., p. 249. 44 AA. VV., Manière de penser Ronchamp, cit. 45 E.N. Rogers, Il metodo di Le Corbusier, cit. 46 J.F. Mathey, En guise d’épilogue, in: AA. VV., L’exigence d’un rencontre, cit., p. 194.
RONCHAMP E IL SACRO OGGI 1
J. Derrida, Point de Folie – maintenant l’architecture, in: Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 2, Jaca Book, Milano 2009, p. 111. 2 Ivi. 3 Ivi, p. 116. 4 Ivi, p. 111. 5 A. Wogenscky, Les mains de Le Corbusier, cit., pp. 18-19. 6 Cfr. nel testo di Caussé il paragrafo Controversia su padre Couturier. 7 J. Jenger, Introduction, in: Le Corbusier, Choix de lettres, cit., p. 9-30. 8 Le Corbusier, Choix de lettres, cit., pp. 387-388. 9 Ivi, lettera all’abate Ferry del 10 luglio 1956, p. 399.
10 J. Petit, Le Couvent de Le Corbusier, Les Cahiers des forces vives, Minuit, Paris 1961, p. 19. 11 R. Bolle-Redat, Un Evangile selon Le Corbusier, cit., p. 158-159. 12 Ivi, p. 154. 13 AA. VV., Le Corbusier. Une encyclopedie, Centre Georges Pompidou, Paris 1987, diretto da J. Lucan. 14 Ivi, B. Reichlin, Solution élégante: «L’utile n’est pas le beau», pp. 369-377. 15 Ivi, H. Damish, Modernité. Les tréteaux de la vie moderne, pp. 252-259. 16 Ivi, W.J.R. Curtis, Maturité: Le moderne et l’arcaïque ou les denières œuvres, pp. 246-251. 17 Ivi, p. 248. 18 Ivi, p. 251. 19 Ivi, D. Pauly, Ronchamp (Chapelle de), cit. 20 Ivi, A. Rivkin, Indicible (Espace), p. 185; Id., Synthèses des Arts: un double paradoxe, pp. 386-391. 21 Il tema della sintesi delle arti aveva da anni rilievo internazionale condiviso responsabilmente da Le Corbusier: nell’Union pour l’art, del 1936 a Parigi, erano confluiti artisti Beaux-Arts e avanguardisti, essendo presidente A. Perret e vicepresidenti Le Corbusier, Matisse, Maillol; nel 1949 si costituì sempre a Parigi un’associazione per la Synthèse des Arts plastiques, di cui era presidente H. Matisse, primo vicepresidente Le Corbusier, secondo A. Bloch. Fra i membri vi era anche P. Picasso. Per essa Le Corbusier si impegnò a realizzare, in città, un padiglione per esposizioni itineranti dell’Unesco, in zona Porte Maillot, senza esiti. L’idea qui abbozzata fu più volte ripresa, infine realizzata nella Maison de l’homme oggi Centre Le Corbusier, a Zurigo. 22 Le Corbusier. L’espace indicible, in: AA. VV., Le Corbusier. Le symbolique, le sacré, la spiritualité, cit., pp. 8-11. 23 Ivi, p. 10. 24 R. Baudouï, Le regard sur l’islam, in: AA. VV., Le Corbusier. Le symbolique, le sacré, la spiritualité, cit., pp. 39-53. Cfr. Anche A. Gerber, «Le Corbusier et le mirage d’Orient. L’influence supposée de l’Algérie sur son œuvre architecturale», Révue du mond musulman et de la Méditerranée, n. 73, 1994, pp. 363-378. 25 P.V. Turner, La formazione di Le Corbusier: idealismo e movimento moderno, cura ed. it. M.A. Crippa (ed. orig. 1977), Jaca Book, Milano 2001. 26 J. Calatrava, Le Corbusier et le Poème de l’angle droit, cit., p. 191. 27 Ivi, p. 192.
28 P. Valéry, Eupalinos ou l’architecte, in Id., Œuvres, vol. ii, Dialogues, Gallimard, Paris p. 115. 29 Lettera di Le Corbusier a Carla Marzoli, del 6 aprile 1955, citata da J. Calatrava, Le Corbusier et Le Poème de l’angle droit, cit., p. 212 e n. 75. 30 R. Coombs, Mystical Themes in Le Corbusier’s architecture in the Chapel Notre-Dame-du-Haut at Ronchamp. The Ronchamp riddle, cit., pp. 22-23. A conferma della propria ipotesi Comb riporta la riproduzione del dipinto dell’Annunciazione di Botticelli nella Galleria degli Uffizi a Firenze, fig. 2. 31 R. Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book Alce Nero, Milano 2002, p. 12. 32 J. Ries, Il simbolo. Le costanti del sacro, cit., p. 125. 33 Ivi. 34 Le Corbusier, Modulor 2, cit., p. 252. 35 G. Durand, L’immaginazione simbolica, ipoc, Milano 2012 (ed. orig. 1964), p. 37. 36 P. Claudel, Presenza e profezia, Comunità, Roma 1947, p. 36. La sezione del volume in cui sono contenute le parole qui riportate, scritta a Washington nel 1933, è intitolata: Sensazione del divino. 37 G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, p. 33 (ed. orig. La poétique de l’espace, puf, Paris 1957). 38 Ivi, p. 115. 39 Le Corbusier, Le poème de l’angle droit, cit., p. 169. 40 R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 1954 (ed. orig. 1950), p. 196. 41 Le Corbusier rifiutò in due casi di costruire nuove chiese (cfr. A. Petrilli, Acustica e architettura, cit., p. 111). E. Claudius-Petit, in un dattiloscritto del 1966 conservato a Firminy, trascrisse: «Qualche giorno fa l’arcivescovo di Bologna mi ha chiesto di progettare una grande chiesa […]. Ho rifiutato. Voglio realizzare alloggi per gli uomini, non diventare costruttore di chiese. Questa di Firminy è l’ultima, la farò perché è per gli operai, per la gente che lavora e per le famiglie». Nello stesso periodo Le Corbusier rifiutò anche la proposta di realizzare una chiesa in Svizzera. Per l’avvio incerto di un’accettazione delle richieste bolognesi cfr. G. Gresleri, Le Corbusier e l’enigma Bologna, in: G. e G. Gresleri (a cura di), Le Corbusier. Il programma liturgico, cit., pp. 192-199. 42 G. Durand, L’immaginazione simbolica, cit., p. 36. 43 Le Corbusier, Mise au point, Lettera Ventidue, Salerno 2008, pp. 59-60. 44 Ivi, pp. 60-61.
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BIBLIOGRAFIA ORIENTATIVA
Indice dei nomi e dei luoghi
Le Corbusier, Ronchamp, les carnets de la recerche patiente, n. 2, Girsberger, Zürich 1957, copywright by Hatje, Stuttgart 1957
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P.V. Turner, La formazione di Le Corbusier: idealismo e movimento moderno, cura ed. it. M.A. Crippa (ed. orig. 1977), Jaca Book, Milano 2001
Aalto Alvar 232 America del Sud 41 Archipenko Alexander 68 Arendt Hannah 228 Argan Giulio Carlo 204-207, 234 Asia 223 Atene Acropoli, Partenone 42, 19 Audincourt (Franca Contea) – chiesa del Sacré-Cœur 18, 25, 30-31, 37 Aulenti Gae 233
Le Corbusier, Textes et dessins pour Ronchamp, Forces Vives, Genève 1965 D. Pauly, Ronchamp, lecture d’une architecture, Ophrys, Paris 1980 C. Blasi, G. Padovano (a cura di), Le Corbusier, la progettazione come mutamento, Mazzotta, Milano 1986 W. Boesiger (a cura di), Le Corbusier. Oeuvre complète, Les Editions d’Architecture, Zürich 1986 R. Bolle-Reddat, Un évangile selon Le Corbusier, Cerf, Paris, 1987 AA. VV., Le Corbusier et la Mediterranée, Parethèses, Marseille 1987 AA. VV., Le Corbusier enclyclopédie, Centre George Pompidou, Paris 1987 Le Corbusier. Il viaggio d’Oriente, in: Le voyage d’Orient. Carnet, a cura di G. Gresleri, flc Electa, Milano-Parigi-New York-Berlino-Tokyo 1987 Le Corbusier, Le poème de l’angle droit, Fondation Le CorbusierConnivences, Paris 1989 M. Krustrup, Porte email, Emaljeporten, Kunstakademiet, Kobenavn 1991 G. Monnier, Le Corbusier, Manufacture, Lyon 1996 B. Gravagnuolo (a cura di), Le Corbusier e l’Antico. Viaggi nel Mediterraneo, Electa, Napoli 1997 R. Coombs, Mystical Themes in Le Corbusier’s Architecture in the Cha-
AA. VV., Le Corbusier. La nature. Rencontres de la Fondation Le Corbusier, La Villette, Paris 2004 AA. VV., Le Corbusier. Le symbolique, le sacré, la spiritualitè, Fondation Le Corbusier, La Villette, Paris 2004 AA. VV., Ronchamp. L’exigence d’une rencontre. Le Corbusier et la Chapelle Notre Dame du Haut, Colloque, aonhd, Fage, Lyon 2007 Le Corbusier, Mise au point, Lettera Ventidue, Salerno 2008 S. von Moos, Le Corbusier. Elements of synthesis, revised and expanded, 010 Publishers, Rotterdam 2009 AA. VV., Manière de penser Ronchamp. Hommage à Michel W. Kagan, Fondation Le Corbusier, La Villette, Paris 2010 F. Caussé, La revue de l’Art Sacré, Cerf, Paris 2010 Le Corbusier, Poème de l’angle droit, Electa, Milano 2012 AA. VV., L’Italia di Le Corbusier, a cura di M. Talamona, Electa Mondadori, Milano 2012 F. Samuel, I. Linder-Gaillard, Sacred Concrete. The churches of Le Corbusier, Birkhäuser, Basel 2013 H. Plummer, Cosmos of light: the sacred architecture of Le Corbusier, Indiana University Press, Indiana 2013
Bachelard Gaston 12, 211-212, 223224, 228, 235 Ball Joseph, abate 46 Balthasar Hans Urs von 14, 201, 228, 234 Barragán Luis 219 Baudouï Rémi 220, 235 Bazaine Jean 18, 24, 229 Beauchet Antoine 27 Béjot Georges, vescovo 19-20, 3234, 229-231 Belfort (Franca Contea) 229-230 Benevolo Leonardo 235 Benton Tim 234 Bergson Henri 211 Besançon (Franca Contea) 9, 19-22, 24-25, 29, 32, 36, 38, 217, 229, 213 – Palais Gravelle 23 – preventorio dei Salins de Bregille 21 – seminario della Maîtrise 22 Besançon Henri 27, 30, 230 Blasi Cesare 235 Bloc André 232 Blois Natalie de 234 Blomstedt Aulis 234 Blondel Maurice 211 Boisselot Pierre o.p. 19 Bolle-Reddat René, cappellano 21, 30-31, 33, 37-38, 229-231 Bona, scultore ed ebanista 42, 46 Bony Jacques 229 Bony Paul 229 Borsi Franco 234 Botticelli Sandro 235 Bouler André s.j. 229 Bourdin Antoine 31, 33, 37, 230-231 Bourget Paul 228 Bourniquel Camille 229 Brasile 217, 234 Breuer Marcel 232 Briand Aristide 228 Brune Paul 23 Bruxelles – Padiglione Philips, Esposizione 211 Buchenwald 11 Bunshaft Gordon 234 Calatrava Juan 212, 220-222, 235 Canada 18 Canella Guido 233
236
Canet Alfred 27, 30-31, 33, 35, 230231 Capellades Jean o.p. 19, 229, 234 Cap Martin – Cabanon 217 Carraud Marcellin 27, 31, 34, 230 Casali Valerio 44, 68, 212, 232, 235 Caussé Françoise 42, 211, 229-231, 233 Cavanaugh Novak Megan 233 Champagney (Franca Contea) 26 Chandigarh (India settentrionale) 9, 10, 14, 66, 176, 217-218, 222, 230, 232, 234 Chartres – cattedrale di Notre-Dame 201, 234 Chenu Marie-Dominique 19 Chevalier Jean 223 Città del Vaticano Musei Vaticani – Cappella Sistina 205 – Museo d’Arte Religiosa Moderna 24 – Pinacoteca Vaticana 24 Claudel Paul 17, 25, 43, 223, 228, 232, 235 Claudius-Petit Eugène 30-31, 34, 230, 235 Cocagnac Maurice o.p. 19, 36, 229, 231, 234 Cohen Jean-Louis 228, 232 Congar Yves 19 Conrads Ulrich 234 Coombs Robert 212, 222, 235 Corbin Henry Corcelles-Ferrières (Franca Contea) – abbazia e Museo delle tradizioni popolari 23 Cornillot Marie-Luce 19, 21-23, 2729, 33, 229 Costantini Celso, cardinale 19 Couturier Marie-Alain o.p. 9, 17, 18-19, 24-26, 29-30, 35-36, 38, 46, 215-216, 229-231 Crippa Maria Antonietta 233-235 Curti Mario 232 Curtis William J.R. 210, 218, 235 Damisch Hubert 218 Dante 65 Debuyst Frédéric 234 De Carlo Giancarlo 204, 206-207, 233-234 Denis Maurice 17, 228-229 Denti Giovanni 233 Derrida Jacques 235 Desvallieres Georges-Olivier 17, 228 Digione 22, 231 Dorival Bernard 25, 229 D’Ouince René s.j. 24 Dubois Marcel-Marie, arcivescovo 33-34, 37, 233 Dubourg Auguste-René-Marie, cardinale 19-20, 23, 25, 27-29, 3133, 38, 229
Du Charlat Régine 38, 231 Dumézil Georges 223 Dupron Jean-Paul 232 Durand Gilbert 223, 225, 235 Eardley Anthony 233 Échenoz-la-Méline (Alta Saona) 23 El Atteuf (Algeria) – moschea 48-49, 220 Eliade Mircea 15, 212, 223-224 Eliot Thomas 211 Europa 17, 201, 204, 207, 211, 223, 234 Féret Henri-Marie 19 Ferry Marcel, abate 19, 21-23, 25, 28, 30-31, 36-37, 46, 217, 229231, 235 Firenze – Certosa di Ema 220 – Galleria degli Uffizi 235 Firminy (Loira) 49 – Casa della Cultura 44 – chiesa di Saint-Pierre 49, 225, 233, 235 Flory Jean, cappellano 20, 22-23, 229 Focillon Henri 219 Frampton Kenneth 68, 211, 233, 235 Francastel Pierre 10, 228 Franca Contea 21, 23, 25, 27, 229 Francia 17-18, 22, 24, 228, 231-232, 234 Franclieu Françoise de 232 Fréjus (Provenza-Alpi-Costa Azzurra) 25 Gabo Naum 68 Gadamer Hans-Georg 48, 228, 233 Garneret Jean 19, 23, 229, 231 Gaudel Auguste, vescovo 25 Gaudí Antoni 206 Gauthier Maximilien 41, 231 Genger Jean 229-230 Gentili Tedeschi Eugenio 233 Gerber Alex 235 Germania 210, 234 Gerusalemme 7, 12, 21, 61, 63, 68, 72, 201, 230 – École Biblique 21 Gesù Cristo 11, 20, 25, 46, 65, 152, 217 Ghyka Mitila 45, 233 Gide André 228 Giedion Sigfried 201, 234-235 Ginevra 231 Godet Jean 230 Gravagnuolo Benedetto 228 Green Julien 228 Gregotti Vittorio 233 Gresleri Giuliano 212, 228, 231, 233, 235 Gresleri Glauco 233, 235 Gropius Walter 201, 204, 206 Grünewald Matthias 25
Guardini Romano 224, 235 Guerriero Elio 228 Guichard-Meili Jean 229 Guillot Xavier 233 Gutkind Erwin Anton 234 Hébert-Stevens Jean 21, 229 Hervé Lucien (László Elkán) 42, 232 Hugo Victor 224 Huré Marguerite 229 Huysmans Joris Karl 17, 228 India 232 Inghilterra 233 Jacob Max 24, 228 Jammes Francis 228 Jancigny (Borgogna) – chiesa 231 Jardot Maurice 28-29, 34-35, 217, 230, 232 Jencks Charles 211, 235 Jouvenne, architetto in capo dei Monumenti storici 28, 229 Jung Carl Gustav 223 Kagan Michel 232 Kahn Louis 219 Kidder Smith George Everard 234 König Giovanni Klaus 207, 234 Krustrup Mogens 212, 233, 235 Ladey Louis 22, 231 L’Arbresle (Lione) – convento di Sainte-Marie de La Tourette 18, 49, 207, 210, 217-218, 221, 225, 231, 232234 Laurent Jeanne 34 Le Corbusier passim Ledergerber Karl 213 Ledeur Étienne 22, 230 Ledeur Lucien 19, 21-23, 25, 27-34, 36-38, 43, 46, 229-231 Léger Fernand 18, 24-25 Le Moal Jean 22, 37, 229 Leone XIII, papa 228 L’Eplattenier Charles 213 Les Bréseux (Franca Contea) – chiesa dei Bréseux 22, 25 Lhote Jean-Marie 229 Linder-Gaillard Inge 233 Linton Johan 232 Lione 49, 207, 210 – École Normale Supérieure 22 Lipchitz Jacques 68 Long Island 45, 233 Lourdes 234 Lucan Jacques 235 Maillol Aristide 235 Maire Jean-Marie 33 Maisonnier André 34, 42, 231 Malraux André 24, 35, 44, 232 Mameli Maddalena 233 Manessier Alfred 22, 25, 30, 32, 230
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Maria Vergine 11, 26, 28, 32, 46, 64-66, 68, 83, 86, 114, 122-123, 170, 184, 217, 222, 234 Maritain Jacques 228 Maritain Raïssa 228 Marsiglia 20, 25, 28 – Unité d’Habitation 34, 204, 206, 217, 232 Marzoli Carla 235 Mastrorilli Antonella 233 Mathey François 19-32, 34, 36, 38, 43, 229-231 Mathey Jean-François 23, 34, 201, 229-231, 235 Mathey Paul 21 Matisse Henri 18, 24, 234 Matteoni Dario 232 Mauriac François 228 Mendelsohn Erich 204 Merkle Esther 228 Merkle Paul 228 Merleau Ponty Maurice 43 Messiaen Olivier 48, 233 Michelangelo 205 Mies van der Rohe Ludwig 204, 206207 Mondrian Piet 205 Monnier Gérard 232-233 Monte Athos 228 Moore Richard Alle 212, 235 Morel Maurice 24-25, 229 Moreux Jean-Charles 27, 230 Morey, abate 230 Mounier Emmanuel 48, 211 M’zab (Algeria) 48, 233 Napoleone Bonaparte 228 Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) – case Jaoul 217 New York 45, 204, 233 – Lever House 204 – Metropolitan Museum 234 – palazzo dell’ONU 234 Niemeyer Oscar 232 Nivola Costantino 45, 233 Ornans (Franca Contea) 24 Oubrerie José 49, 233 Ozenfant Amédée 219 Ozon (Alti Pirenei) 43, 232 Padovano Gabriella 235 Pallasmaa Juhani 44, 232 Panikkar Raimon 222, 235 Paolo VI, papa 24 Parigi – Biblioteca du Saulchoir 62, 233
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– Centre Georges Pompidou 218 – École des Hautes Études 21 – École du Louvre 21, 23, 229 – Institut Catholique 21 – Liceo Louis-le-Grand 21 – Musée d’Art Moderne 229 – Musée des Arts décoratifs 21, 229 – Musée du Louvre 44 – Padiglione dei Tempi Nuovi, Esposizione universale 211 – Padiglione del Brasile, Cité internationale universitaire 217 – Université Paris-Sorbonne 21 Parrot André 21 Pauly Danièle 26, 28-29, 48, 68, 219, 228, 230-235 Péguy Charles 228 Pehnt Wolfgang 234 Perchet René 21 Perret Auguste 211, 229, 235 Petit Jean 26, 41, 47, 231, 233-234 Petrilli Amedeo 232, 235 Peugniez Pauline 21, 229 Pevsner Nikolaus 68, 201, 234-235 Pézeril Daniel, vescovo ausiliario 229 Pfister Pierre 229 Piano Renzo 38, 201, 207, 213, 232 Picasso Pablo 24, 207, 219, 235 Pichard Joseph 17 Pinondel Félix 32, 339 Pio X, papa 17, 228 Pio XI, papa 17 Pirolley Émile, vescovo 229 Pitagora 45 Pizzardo Giuseppe, cardinale 32 Plateau d’Assy (Alta Savoia) – chiesa di Nostra Signora delle Grazie 18, 25 Plummer Henry 233 Pontarlier (Franca Contea) 38 Ponti Giovanni, detto Gio 207, 210, 235 Porrentruy (Svizzera) 27 Postdam (Germania) – torre di Einstein 204 Poulleau Suzanne 21 Prenel Louis 37-38, 231 Prouteau Jean-Pierre 46 Prouvé Jean 231-232 Quetglas Josep 233 Ragon Michel 228 Ragot Gilles 231-232 Recologne (Franca Contea) 26-27 Régamey Pie-Raymond o.p. 9, 1719, 21-22, 25-26, 36, 38, 46, 229
Régnier-Kagan Nathalie 232 Reichlin Bruno 218, 232, 235 Reims 229 Rézé-les-Nantes (Loira) – Unité d’habitation 217 Richier Germaine 229 Ricoeur Paul 223 Rieber-Mohn Hallvard 234 Ries Julien 15, 223-224, 228, 235 Ringue Jean 231 Rinuy Paul 229 Rinuy Adeline 229 Ritter William 228 Rivkin Arnoldo 219, 235 Rogers Ernesto 65-66, 204-207, 213, 233-235 Roma 19-20, 36, 212, 216 Ronchamp (Franca Contea) – cappella di Notre-Dame du Haut passim Rossi Aldo 233 Roth Alfred 234 Rouault Georges 24, 229 Rouault Isabelle 24 Roversi Leonina 234 Rowe Colin 204 Rozo Janik 22 Ruskin John 61, 233 Saint-Cloud – Casa Week-End 211 Saint-Denis – cattedrale 211 Saint-Dié-des-Vosges (Lorena) 28, 217 Sainte-Baume, massiccio 25-26, 30, 36, 49, 221, 230, 234 – roc du Saint-Pilon 25 Saint-Maximin (Provenza-Alpi-Costa Azzurra) – conventi di Saint-Maximin 26 Samonà Giuseppe 234 Samuel Flora 233 Sarrazin Jean 229 Sartoris Alberto 206, 234 Savina Joseph 29, 43, 46, 65, 219, 230, 232 Scarpa Carlo 211 Schwarz Rudolf 207, 234 Sedlmayr Hans 233 Seine-Saint-Denis – chiesa di Notre-Dame du Raincy 18 Sidi Brahim (Algeria) – moschea Le Corbusier 220 Sijmons Dzn Karel 234 Smet Catherine de 231 Stati Uniti 18
Steiner Rudolf 213, 234 Stirling James 204-207, 212, 234 Stoll Robert Thomas 228 Stonehenge 204 Stoppino Giotto 233 Strasburgo 231 Stravinskij Igor´ Fëdorovi/ 207 Strohl Hilde 234 Summerson John 210, 235 Tafuri Manfredo 228 Talamona Marida 212, 228, 235 Tange Kenzo 219 Tillich Paul 223 Tentori Francesco 228 Tintori Silvano 211, 235 Tivoli Villa Adriana – Serapeo 48 Tolosa 25-26, 229 Tournier René 28, 229 Tournikiotis Panayotis 235 Tournon Paul 29 Tremblay-lès-Gonesse (Île-de-France) – chiesa di Seine-Saint-Denis non realizzata 49 Trouin Edouard 25-26, 230 Turner Paul V. 235 Turner William 221 Utzon Jørn 219, 235 Vago Pierre 232 Valéry Paul 222, 233, 235 Van der Leck Bart 205 Varèse Edgar 47, 233 Vence (Provenza-Alpi-Costa Azzurra) 18 – cappella del Rosario 25 Venezia – basilica di San Marco 228 Vesoul (Franca Contea) 27, 37 Vevey (Svizzera) – casa sul lago Lemano 232 Von Moos Stanislaus 212-213, 232, 234-235 Wogenscky André 209, 215, 230, 232, 235 Wright Frank Lloyd 204 Xenaxis Iannis 43, 49
CREDITI FOTOGRAFICI I numeri si riferiscono alla pagina
Per tutte le immagini:
© FLC e Association de Notre Dame du Haut, by SIAE 2014
La campagna fotografica della Cappella è di bamsphoto
Rodella
Per le altre immagini:
© FLC, 40, 46, 47, 48b, 59, 60, 67 © RMN-Grand Palais (musée du Louvre) / Daniel Arnaudet / Jean Schormans, 44 Archives aondh, 19c, 29, 33, 34 Archives aondh / Charles Bueb, 51-59 Archives cdas Besançon, 20, 23b Archives du Musée de Besançon, 23a Archivio Jaca Book, 49 Archivio Piero Spagnesi, 48a Droits réservés@Archives Bibliothèque du Chaulsoir, Paris, 16, 39, 45, 50, 83, 214, 216
Éditions du Cerf pour la revue l’Art Sacré, 19a-b, 24, 35, 36
Zevi Bruno 207, 234-235 Zurigo – Maison de l’homme (Centre Le Corbusier) 235
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