L’ARTE MEDIEVALE IN EUROPA
Liana Castelfranchi
L’ARTE MEDIEVALE IN EUROPA Con un contributo di Alessandro Conti
SOMMARIO
© 1993 / 2019 Editoriale Jaca Book, Milano tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana 1993 Nuova edizione aprile 2019
Premessa
Copertina e grafica Paola Forini/Jaca Book
Stampa e legatura Conti Tipocolor, Firenze marzo 2019
ISBN 978-88-16-60576-3
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
pag. 7
Capitolo quarto L’ARTE IN EUROPA INTORNO AL MILLE Lo «scriptorium» di Reichenau La miniatura mozarabica L’oreficeria ottoniana La Lombardia ottoniana Nota bibliografica
Capitolo primo L’EREDITÀ CLASSICA E LE PREMESSE DELL’ARTE MEDIOEVALE NEI SECOLI IV-VI pag. 9 Dalla crisi costantiniana alla «rinascita teodosiana» pag. 12 L’età teodoriciana da Ravenna a Roma pag. 23 pag. 26 Il vi secolo a Ravenna e a Roma Nota bibliografica pag. 36 Capitolo secondo LONGOBARDI E CELTI: I PRIMI LABORATORI DI FORME ALTOMEDIOEVALI La «Langobardia major» La miniatura celtica Nota bibliografica Tavole
Capitolo quinto LA NASCITA DEL ROMANICO NELL’OCCIDENTE EUROPEO Tradizione e rinnovamento architettonico nei paesi germanici Architettura normanna e anglo-normanna Architettura in Borgogna Le prime abbazie “bernardine” dei cistercensi La decorazione scultorea delle chiese in Aquitania e in Borgogna Nota bibliografica
pag. 39 pag. 42 pag. 45 pag. 49 pag. 50
Capitolo terzo L’ARTE CAROLINGIA E LA NASCITA DELL’ARTE MEDIOEVALE NELL’OCCIDENTE EUROPEO pag. 83 Il ruolo-guida delle arti decorative: miniature, avori, oreficerie pag. 86 La «Langobardia» carolingia pag. 94 Nota bibliografica pag. 100
Capitolo sesto IL ROMANICO IN ITALIA L’architettura romanica in Valle Padana «Inter scultores quanto sis dignus onore claret scultura nunc Wiligelme tua» I molti aspetti del Romanico italiano Nota bibliografica
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pag. 101 pag. 105 pag. 110 pag. 110 pag. 117 pag. 120
pag. 123 pag. 124 pag. 125 pag. 125 pag. 128 pag. 130 pag. 146
pag. 147 pag. 147 pag. 152 pag. 158 pag. 173
Capitolo settimo LE «ARTI DEL COLORE» NEL SECOLO XII La pittura in Francia, Spagna e Italia Smalti mosani, avori e miniature inglesi nel xii secolo Nota bibliografica Tavole Capitolo ottavo «OPERE FRANCIGENO»: LA NASCITA DEL GOTICO NELL’ÎLE-DE-FRANCE Aspetti storiografici e problemi di periodizzazione del Gotico Le cattedrali dell’Île-de-France nel primo periodo Gotico (1150-1230) I programmi scultorei delle cattedrali francesi La decorazione scultorea delle cattedrali tedesche Nicolas de Verdun e «l’arte intorno al 1200» Nota bibliografica
Problemi romani La miniatura nella seconda metà del Duecento Giotto: 1290-1305 Lo stile «padovano» di Giotto Alternative al discorso giottesco Gli inizi di Simone Martini Giotto e la sua bottega Ricerche spaziali in Pietro Lorenzetti e Simone Martini Gli anni di Giotto a Napoli (1328-1333) Il ritorno di Giotto a Firenze, soggiorni a Bologna e Milano La pittura verso il 1340 Nota bibliografica Tavole
pag. 175 pag. 175 pag. 184 pag. 192 pag. 194
pag. 227 pag. 227 pag. 228 pag. 234 pag. 242 pag. 244 pag. 248
Capitolo nono LA SCULTURA ITALIANA DEL DUECENTO E L’INTERPRETAZIONE DEL GOTICO IN ITALIA pag. 249 Benedetto Antelami e le premesse del gotico italiano pag. 249 L’arte federiciana pag. 260 Nicola e Giovanni Pisano pag. 265 Arnolfo di Cambio pag. 274 Lorenzo Maitani, Tino da Camaino, Andrea Pisano pag. 277 Nota bibliografica pag. 280 Capitolo decimo GIOTTO E LA PITTURA ITALIANA NELLA PRIMA METÀ DEL TRECENTO di Alessandro Conti pag. 283 La Basilica di Assisi pag. 283 Cimabue pag. 284
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pag. 286
Premessa
pag. 288 pag. 290 pag. 293 pag. 296 pag. 299 pag. 302 pag. 302 pag. 305 pag. 310 pag. 312 pag. 314 pag. 316
Capitolo undicesimo LA PITTURA DEL TRECENTO IN VALLE PADANA Rimini e Bologna Lombardia Veneto Nota bibliografica
pag. 349 pag. 349 pag. 356 pag. 361 pag. 364
Capitolo dodicesimo UN PERCORSO GOTICO INTERNAZIONALE: DA AVIGNONE ALL’«OUVRAIGE DE LOMBARDIE» Avignone La miniatura in Francia La miniatura in Lombardia Gentile da Fabriano Nota bibliografica
pag. 365 pag. 365 pag. 367 pag. 370 pag. 374 pag. 377
Documentazione grafica
pag. 378
Indice dei nomi
pag. 385
Indice dei luoghi e delle opere
pag. 389
Il testo di questo volume è la riedizione, con alcune integrazioni ed aggiornamenti bibliografici, del volume L’arte medioevale in Italia e nell’Occidente europeo, apparso nei mesi scorsi in una veste che si è voluta di proposito modesta, con l’intendimento di renderla più accessibile agli studenti universitari, che erano nell’intenzione dell’autrice i primi destinatari dell’opera. Il volume nasce infatti nel suo insieme da un’esperienza didattica e riflette il desiderio di fornire uno strumento formativo agli studenti di storia dell’arte medioevale, superando i limiti propri dei manuali, che rendono in genere difficile la chiara individuazione delle linee portanti di un percorso storico, la ricostruzione e la periodizzazione di dati e fenomeni artistici e il riconoscimento della problematica ad essi sottesa. Si è pensato che questi stessi criteri, proprio perché rivolti a superare certe angustie dei manuali, come pure l’attenzione portata alla circolazione europea dei vari fenomeni artistici, rendessero il volume utile o interessante anche per un pubblico più vasto di cultori e studiosi di storia dell’arte. Di qui la presente edizione che offre soprattutto un apparato illustrativo più chiaramente leggibile e godibile. Il mio grato pensiero va alla memoria del caro e compianto amico e collega Alessandro Conti, per il suo prezioso contributo sulla pittura giottesca. Rinnovo qui gli altri ringraziamenti: a Roberto Cassanelli per l’attenta revisione delle note bibliografiche che corredano ogni capitolo, a Cristina Quattrini per il reperimento del corredo iconografico, a Maria Grazia Balzarini per l’accurato allestimento degli indici. Liana Castelfranchi 1993
Più volte ristampato sia nella versione per studenti in bianco e nero e in brossura, sia nella versione rilegata con tavole a colori, tradotta in varie lingue, “L’arte medievale in Europa” resta un’opera di riferimento. Da considerarsi un “classico” del Ventesimo secolo per la storia dell’arte, è tra i primi approcci “globalmente europei” dello sviluppo di pittura, arti minori e architettura dell’epoca tardo antica alle soglie dell’Umanesimo. Il testo è immutato come la bibliografia, solo varie immagini in bianco e nero sono state riprodotte a colori, pur mantenendo l’impronta data dall’autrice, che ci ha lasciato nel 2013. 2019
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Capitolo primo
L’EREDITÀ CLASSICA E LE PREMESSE DELL’ARTE MEDIOEVALE NEI SECOLI IV-VI
Nota di lettura: i numeri in tondo a lato si riferiscono alle illustrazioni nel testo, quelli preceduti da “Tav.” alle tavole, e quelli in corsivo alle piante e assonometrie della sezione “documentazione grafica”
L’arte dei secoli iv-vi fu per lungo tempo «terra di nessuno» negli studi storico-artistici, di rado scelta come campo di ricerca dagli archeologi come dagli storici dell’arte medioevale. La stessa sua oscillante denominazione – talora chiamata «arte paleocristiana», talora «arte tardoantica» – riflette la complessa fisionomia di questo periodo artistico, difficilmente esauribile in una etichetta. Ed è pure significativo che per taluni storici il vero inizio dell’arte medioevale sia da collocarsi assai più tardi, con la fondazione del Sacro Romano Impero sotto Carlo Magno, nell’800. A questa affermazione si può obiettare che l’apporto più rilevante dell’arte dei secoli iv-vi consiste proprio nell’aver posto alcune premesse dell’arte medioevale, particolarmente in Occidente, dove più vistosa è la componente delle culture cosiddette «barbariche». Non sarebbe infondato scorgere nell’arte di questo periodo alcuni aspetti premedioevali che sottolineano il complesso sforzo di elaborazione di un nuovo linguaggio artistico. In una direzione simile si muovono ormai da tempo gli studi, eliminando il vecchio ma sempre persistente giudizio di «arte di decadenza», e ponendo invece l’accento sulla funzione assolta dall’arte di questo periodo di trasmettere i «modelli» della tradizione classica e insieme di rielaborarli in un linguaggio di fatto già premedioevale; di avviare, quindi, quella trasformazione grandiosa che, partendo dal naturalismo classico, approderà alla rappresentazione di un universo astratto e trascendente. Il punto di vista di antica matrice rinascimentale che il Medio Evo rappresenti un’oscura «età di mezzo» fra la civiltà classica e la sua rinascita nel xv secolo è in certo modo collegato con la tendenza a esaminare la produzione artistica di questo periodo nell’ottica di una trasgressione dagli schemi formali classici, quali la definizione dello spazio e della forma plastica e quindi nell’ottica di un inesorabile declino delle matrici classiche. L’inizio di una diversa impostazione degli studi si può almeno in parte far risalire alla figura e all’opera di uno studioso, Alois Riegl, conservatore del Museo di Vienna, il quale, partendo dall’esame degli oggetti riposti negli scaffali del museo, prodotti di un artigianato di livello industriale, sino ad allora considerati privi di significato artistico, ne fece oggetto di un’importante opera intitolata Spätrömische Kunstindustrie (Arte industriale tardoromana) pubblicata nel 1901. In essa Riegl, applicando i criteri allora in voga del relativismo storico, propose di intendere i mutamenti formali che si fanno più evidenti in certe epoche non come decadenza ma come il risultato di una diversa «volontà artistica» («Kunstwollen»). Anche se gli studi di Riegl sono ancorati in gran parte agli schemi interpretativi tipici del suo tempo, essi costituiscono il punto di partenza di un diverso atteggiamento critico nei confronti dell’arte di quei secoli. Gli studi degli ultimi decenni del xx secolo, per i quali ci limitiamo a citare i nomi di Ranuccio Bianchi Bandinelli e di Ernst Kitzinger,
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dimostrano che quel periodo fu eccezionalmente ricco di forza creativa e che il problema della complessa genesi dell’arte medioevale è tuttora quanto mai aperto. La complessità di questo processo artistico rende naturalmente del tutto convenzionale una sua data d’inizio, di solito fatta coincidere con l’editto di Milano del 313, che consentiva la libertà di culto alla religione cristiana, e con il trasferimento, subito dopo (324-330), della capitale dell’impero a Costantinopoli: date entrambe fondamentali a significare l’una una sorta di atto di nascita della cosiddetta «arte paleocristiana», l’altra lo spostamento verso Oriente del centro di gravità artistico, ovvero l’avvento di un polo artistico orientale di pari se non maggiore importanza di quello occidentale; due date comunque assai più significative di quella della caduta dell’Impero Romano nel 476, che sul terreno puramente storico segna ufficialmente l’inizio del Medioevo. In realtà, il lento processo culturale all’interno del quale si svolgono le vicende artistiche che stiamo per prendere in esame si avvia già all’inizio del iii secolo con l’incipiente incrinatura di schemi formali classici, in concomitanza con la crescente importanza che assumono le espressioni artistiche dei territori provinciali o della periferia dell’impero. È in questi territori che si manifestano forme di tipo popolare o «dialettale», destinate a entrare come componente spesso vistosa e determinante nelle opere dei secoli immediatamente successivi. Un semplice sguardo alla carta geografica dell’impero alla morte di Teodosio nel 395 fa balzare all’occhio l’enorme estensione a oriente dell’Impero Romano, dove l’Italia appare un’unità territoriale decisamente minore, la sola che occupi l’area che noi oggi chiamiamo Occidente. L’estensione a Oriente dell’impero, includendo tutta l’attuale Asia Minore, l’Egitto e la costa dell’Africa settentrionale, mette in evidenza che Costantinopoli rappresentava geograficamente il centro naturale dell’impero stesso. È importante soprattutto sottolineare che l’insieme dei territori che s’affacciavano allora sul bacino del Mediterraneo e che partecipavano al grande rivolgimento culturale e artistico dell’epoca avevano manifestato già nei secoli dell’Ellenismo una sensibilità assai diversa da quella del naturalismo greco e del realismo romano, essendo quei territori sedi di tradizioni artistiche locali assai più antiche, di carattere ieratico e ufficiale, quali quelle dell’Egitto e della Mesopotamia. Ed è noto che nelle città sorte con l’Ellenismo la forza dei culti misterici prima e lo stesso Cristianesimo dopo avevano posto l’accento su un mondo interiore, invisibile e spirituale. Inoltre sempre a Oriente, i popoli delle steppe, i più notevoli dei quali gli Sciti, non possedevano un’arte monumentale ma oggetti d’arte trasportabili, ricchi di disegni fantastici, destinati a entrare vistosamente nell’arte dei secoli successivi. L’arte classica era stata assimilata in quei territori non senza profonde trasformazioni del suo spirito. Per questa ricca produzione artistica di derivazione spesso polivalente, il Kitzinger ha coniato il termine di «sub-antico» («sub-antique») con il quale egli intende indicare una sottospecie dell’arte antica, ovvero una sua rielaborazione. Un termine che potremmo forse tradurre con «pseudo-antico», dato che nelle opere di quella provenienza le origini classiche vi appaiono sottilmente travisate in una mescolanza di classico e di anticlassico: per esempio, nella compresenza di realismo fisionomico e di dettagli decorativi stilizzati, con una sottolineatura in genere di espressività spiritualizzata. Si può così affermare che in modi diversi questi territori periferici elaborano una stilizzazione formale antitetica al naturalismo classico. Il crescente influsso di questo stile «sub-antico» sull’arte della metropoli sarà un fattore decisivo, anche se non unico, di trasformazione stilistica. In questo senso è giusto riconoscere che l’arte di questi secoli è in misura notevole il prodotto del profondo mutamento che lo stesso impero andava subendo sul piano politico. Roma, tuttavia, e in genere l’Italia conservano un’importanza cruciale nel complesso processo storico di adattamento e di trasmissione di un patrimonio antico. In particolare Roma continua a funzionare come un punto di arrivo e di convergenza delle voci più periferiche e quindi a esercitare un ruolo cruciale nel processo di adattamento e di rielaborazione di un patrimonio classico. Tutto questo, almeno, fino a quando non
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1. Roma, arco di Costantino, fregio e medaglioni sul lato settentrionale.
2. Roma, Museo del Laterano, Storie di Cristo e san Pietro, sarcofago «a teste allineate», inizio iv secolo.
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si verificherà un primo e decisivo declino di questo ruolo con le invasioni barbariche del v secolo, che non solo coincideranno con una forte diminuzione dell’attività artistica in generale, ma anche con un’aumentata dipendenza di Roma da Costantinopoli.
Dalla «crisi» costantiniana alla «rinascita teodosiana» 1
Poche opere nella storia dell’arte si prestano meglio dei fregi dell’arco di Costantino a incarnare la fine di un’epoca e gli inizi di un’altra. Si tratta del fregio che cinge i lati dell’arco dedicato nel 315 d.C. all’imperatore Costantino dal Senato di Roma per commemorare la vittoria del 312 sul rivale Massenzio. Le scene rappresentano due aspetti tipici del trionfo dell’imperatore, destinati a lunga fortuna iconografica, l’Allocuzione dell’imperatore e la Distribuzione dei sussidi o doni. La forza quasi brutale del distacco da un passato storico, che questi rilievi documentano, è resa ancora più eloquente dall’aggiunta, nello stesso arco, di rilievi di spoglio di epoca adrianea. In particolare colpisce il confronto con la stessa scena, la Distribuzione dei sussidi, nei tondi adrianei, di timbro ancora in tutto classico, nel gusto realistico del bassorilievo romano di soggetto storico e celebrativo. Nel rilievo costantiniano si noterà anzitutto l’intenso orizzontalismo, accentuato dal forte allineamento compositivo delle figure isocefale disposte su un unico piano. Questa distribuzione paratattica, la simmetria assiale, la frontalità, la scala variabile dei personaggi, tutti espedienti tipici di un’arte «primitiva», suscitano facilmente l’idea di un declino formale o addirittura di una decadenza artistica. Tale era, per esempio, il giudizio di Bernard Berenson, soprattutto rivolto alla negazione della spazialità tridimensionale e a una forma plastica resa con ripetitive e sommarie clausole tecniche nella fattura dei panneggi e delle barbe. Un più attento esame, libero da schemi visivi, rivela invece le intenzioni espressive dell’artista e principalmente la volontà di esprimere l’omaggio all’imperatore dei dignitari e del popolo nel modo, per così dire, più ideologizzato possibile: è l’ideologia della parvenza divina dell’imperatore che qui si manifesta e che determina largamente la struttura compositiva, l’iterazione dei personaggi, la frontalità e centralità dell’imperator, la distribuzione dei funzionari in proporzioni diverse a seconda dei ranghi. Il radicale capovolgimento dei valori estetici presenti nei rilievi costantiniani induce a chiedersi quale grado di consapevolezza vi fosse da parte degli artisti e dei committenti: problema, anzi, che si impone di fronte al reimpiego nell’arco stesso di parti più antiche giustapposte a quelle così clamorosamente nuove. Dobbiamo ammettere con Kitzinger l’ipotesi che i committenti e forse il pubblico dell’epoca fossero in real tà consapevoli del contrasto stilistico violento suscitato da quell’accostamento e dunque che gli artisti dei fregi «praticavano uno stile marcatamente popolare», esprimessero cioè con esso una sorta di protesta contro le tradizioni aristocratiche e filoelleniche. Per quanto importante, tuttavia, sia il ruolo dei committenti e delle loro scelte consapevoli, esso non può fornire più che una parziale spiegazione di un fenomeno molto complesso, il sovvertimento appunto del canone classico, il cui processo di incubazione si può far risalire almeno al iii secolo. D’altra parte la profonda innovazione e la deliberata scelta artistica di quest’opera non annullano il fatto che quanto di sommario e persino di rozzo si riscontra nell’esecuzione sia da ascriversi anche all’aumentato peso di questi substrati artistici popolari, da sempre presenti sul territorio italico sotto la copertura più o meno sottile di una matrice ellenizzante e ora rinvigoriti da apporti provinciali. Senza negare anche un certo declino effettivo di capacità tecniche e quindi una certa rozzezza di semplificazione, è tuttavia importante convincersi che l’abbandono della resa tridimensionale dello spazio e dello studio realistico della figura umana non portava automaticamente come risultato l’adozione di composizioni «piatte» e di rigide figure impersonali. Occorre piuttosto capovolgere l’assunto e affermare che l’abbandono del linguaggio classico coincide con un positivo interesse di nuove ricerche stilistiche (una nuova «Kunst-
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wollen» per usare il termine di Riegl) che possono già dirsi «medioevali». Si manifesta cioè una deliberata protesta verso il realismo classico o, per lo meno, una caduta d’interesse verso di esso e al suo posto una deliberata preferenza verso ciò che è remoto dalla sfera quotidiana della vita reale, verso il simbolico e trascendente. In altre parole, l’effettivo abbandono dei mezzi espressivi tradizionali è in gran parte sostituito da una nuova visione della realtà, dell’espressione di nuovi valori religiosi o di nuove ideologie. Il significato quasi emblematico che rivestono questi fregi costantiniani è confermato da altre opere del periodo. Di dieci o quindici anni anteriore all’arco di Costantino e al pari di quello opera ufficiale, è il gruppo in porfido dei Tetrarchi. Il gruppo giunse a Venezia (dove è ancora visibile all’esterno della basilica di San Marco) da Costantinopoli, quale bottino di una crociata (la quarta, 1204), e senza dubbio fu prodotto in qualche regione orientale dell’impero: il porfido era infatti materiale riservato all’uso imperiale e l’unica sua cava si trovava in Egitto. Con le loro figure squadrate e ripetitive, collegate due a due nell’abbraccio, i Tetrarchi esprimono con immediatezza visiva quasi brutale l’assoluta unità e inseparabilità politica che la Tetrarchia intendeva instaurare. Era dunque un messaggio politico di impetuosa urgenza quello affidato all’opera e ad esso si collega il rifiuto totale del canone classico. Un analogo messaggio si ravvisa nei ritratti degli imperatori di quell’epoca. Se nel ritratto colossale di Costantino del Palazzo dei Conservatori di Roma, probabilmente appartenente a una statua seduta che reggeva un globo, è impressa una fissità concentrata quasi animalesca, nel ritratto dello stesso Costantino del Museo di Belgrado l’antica forza ritrattistica dell’arte romana è ancora presente, anche se prevale la volontà di concentrare negli occhi dalle pupille dorate il senso di un’autorità divinamente ispirata e inaccessibile. Lo stesso significato traspare nelle effigi delle monete del tempo; sovente, anzi, l’audace stilizzazione raggiunge effetti di sorprendente modernità, come si vede in una moneta aurea di Massimino Daia (Washington, Dumbarton Oaks Museum) coniata ad Antiochia nel 310. Assai prossimo al «primitivismo» dei fregi dell’arco di Costantino è un gruppo di sarcofagi del tipo detto «a teste allineate», tanto che essi potrebbero a prima vista apparire come parti del fregio costantiniano. In un sarcofago del Museo del Laterano, per esempio, con Miracoli di Cristo e Scene della vita di Pietro ritroviamo il serrato allineamento di figure isocefale, le medesime proporzioni tozze e gli stessi panneggi crudamente incisi. Il ricco corpus di sarcofagi di soggetto cristiano rappresenta, a partire dal iii secolo, un osservatorio privilegiato per seguire il processo di trasformazione stilistica della scultura e poiché lo stesso processo compare in opere di committenza cristiana o pagana, si dovrà constatare che la trasformazione dell’arte classica in arte medioevale non fu semplicemente il portato del Cristianesimo: come è stato detto, l’arte divenne medioevale prima di diventare cristiana. Tuttavia anche la nuova iconografia cristiana in formazione e soprattutto la spiritualità ad essa sottesa concorrono all’elaborazione di una nuova forma. Sarebbe indubbiamente interessante seguire la lenta genesi di questa iconografia cristiana che a lungo attinge liberamente e largamente al repertorio mitologico e allegorico del paganesimo (Cristo in veste di Orfeo o di Ercole, per citare un solo esempio) nonché alle iconografie del potere imperiale (ad esempio, la Traditio Legis si rifà alla scena della Liberalitas dell’imperatore, ovvero la consegna dei doni). È importante soprattutto sottolineare in che modo l’urgenza e la concentrazione figurativa di questo nuovo messaggio cristiano provocheranno una rilevante novità nella composizione dei sarcofagi paleocristiani: in luogo della classica successione narrativa di avvenimenti, gli episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento si susseguono senza interruzioni, giustapposti l’uno all’altro senza alcun nesso narrativo. Così, per esempio, nel sarcofago già citato del Museo Pio Cristiano si vede Cristo che risuscita Lazzaro, moltiplica i pani e i pesci, guarisce il cieco, predice a Pietro il suo diniego, trasforma l’acqua in vino alle nozze di Cana. Questo tipo di iconografia, ad episodi affiancati l’uno all’altro senza un nesso narrativo, non ha precedenti nella scultura funeraria antica: evidentemente si vuole che il
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Tav. 1 6
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8. Washington, Dumbarton Oaks Museum, moneta di Massimino Daia, 310.
7. Monaco, Staatliche Münzsammlung, moneta di Costantino i.
3. Roma, Museo del Laterano, sarcofago «a teste allineate», inizio iv secolo, particolare.
4. Venezia, San Marco, gruppo in porfido dei Tetrarchi, 300 ca.
9. Roma, Museo del Laterano, sarcofago «dei due fratelli», 330-350 ca.
5. Venezia, San Marco, Tetrarchi, particolare, colossale di Costantino i.
6. Belgrado, Museo Nazionale, testa in bronzo di Costantino i.
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10. Roma, Vaticano, grotte di San Pietro, sarcofago di Giunio Basso, 356 ca.
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messaggio centrale di salvezza venga più volte ribadito. Il rilievo isocefalo si presta a unificare i diversi episodi in una sorta di «linea di scrittura», che sollecita la decifrazione da parte dello spettatore. Inoltre l’assenza di intervalli risparmia lo spazio e rende questo messaggio ancor più concentrato e quasi assillante. Come si è detto, la vasta produzione di sarcofagi ci consente di seguire le vicende stilistiche successive al periodo costantiniano, che porteranno nella seconda metà del iv secolo a un’inversione di tendenza, con un recupero di valori formali classici. Così per esempio nel sarcofago detto «dei due fratelli» (Museo del Laterano) gli episodi si susseguono su due registri sovrapposti; le figure fortemente scandite e quasi tridimensionali si distribuiscono nei due registri quasi fossero ripiani di una cassetta e l’azione animata si avvale di scorci e di diagonali. Nell’arco di pochi decenni, sul filo di questa tendenza di recupero formale, si giungerà allo splendido sarcofago di Giunio Basso dell’anno 359, uno dei pochi sarcofagi sicuramente datati. Non solo gli episodi rappresentati si svolgono entro cornici architettoniche alternativamente arcuate e trabeate, delicatamente decorate, ma ciascuna scena ricava dalla cornice ambiente e profondità, mentre la trattazione delle figure fluida e delicata, rifinita in alabastro, sottolinea la delicatezza sentimentale dei personaggi e dei loro gesti. Questi tratti stilistici fanno supporre che il sarcofago di Giunio Basso sia opera di una bottega orientale; esso rappresenta comunque un esemplare tipico di quel processo di rigenerazione formale di cui si diceva, quasi un «revival» culturale, promosso dai ceti aristocratici politicamente conservatori. Questo processo è talvolta designato con il termine di «rinascita teodosiana», perché legato al nome di Teodosio il Grande, che fu dopo Costantino il più capace ed energico imperatore del iv secolo. In realtà il termine di «rinascita teodosiana» si applica più esattamente all’arte coeva di Costantinopoli; vedremo infatti che la produzione occidentale, pur mossa da intenti analoghi, se ne differenzia. È certo, tuttavia, che in questo periodo si manifesta, tanto in Oriente che in Occidente, un forte influsso di sensibilità cristiana, anche in opere di committenza imperiale. Se si guarda infatti alla serie di rilievi che ornano i quattro lati della base cubica dell’obelisco innalzato da Teodosio al centro dell’ippodromo di Costantinopoli, si noterà subito l’analogia con i fregi costantiniani: il soggetto «imperiale», la rigida simmetria, l’allineamento delle figure e la perdita del senso dello spazio. Ma alla rudezza, si direbbe, popolare dell’esemplare romano subentra un’astrazione di tipo aristocratico, che delicatamente tornisce le figure, ovalizza i volti e quindi denuncia una tendenza tipicamente orientale, astratta e decorativa. Ancora meglio questa eleganza formale tipica dell’età teodosiana si potrà ammirare nel celebre piatto d’argento, il cosiddetto Missorium di Teodosio (Madrid, Academia de la Historia), sicuramente realizzato da una bottega del Mediterraneo orientale e inviato in dono a qualche alto funzionario in Spagna. La luce, resa più vibrante dal metallo, scorre sul bassorilievo delicato; Teodosio siede sulla soglia del suo palazzo, fiancheggiato dai suoi due co-imperatori e dalle guardie, e sta consegnando un diploma a un alto funzionario rappresentato in scala minore. Mentre questa parte superiore tenderà a fissare un’iconografia imperiale aulica per secoli, la parte inferiore racchiude invece un’immagine femminile allegorica, la Terra, florida Pomona «recumbens», in una posa elegantemente e artificiosamente snodata e tuttavia stupendamente vitale. Alla stessa eleganza si ispira la bella statuetta di Aelia Flacilla, moglie di Teodosio (Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles), che nel drappeggio elegante e nella sensibilità pensosa del volto, sotto la massa dei capelli raccolti nel diadema, raffigura un tipo di umanità fortemente spiritualizzata e aristocratica. In Occidente assistiamo a un trasferimento ancora più massiccio di pure forme classiche nell’ambito dell’arte cristiana. Si tratta probabilmente di un vistoso fenomeno sociale di una committenza cristiana desiderosa in certo modo di nobilitare la propria immagine figurativa, ovvero di creare iconografie che rispecchiassero la tendenza a un’eleganza di gusto retrospettivo. L’esempio più noto e più tipico di questa
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11. Liverpool, County Museum, dittico di Asclepio e Igea, tardo iv secolo, particolare.
12. Parigi, Musée de Cluny, dittico dei Nicomaci e Simmaci, tardo iv secolo, particolare.
13. Milano, Civico Museo del Castello Sforzesco, Le Marie al sepolcro, pannello eburneo, 400 ca.
14. Istanbul, base dell’obelisco di Teodosio i, Teodosio e il suo seguito.
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16. Madrid, Academia de la Historia, Missorium di Teodosio, 388, particolare della Terra.
17. Madrid, Academia de la Historia, Missorium di Teodosio.
18. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des MÊdailles, statua di Aelia Flacilla, 380-390 ca.
15. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum, Le Marie al sepolcro, Ascensione, pannello eburneo, 400 ca.
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12 tendenza è offerto dal dittico eburneo detto dei Nicomaci e dei Simmaci, perché commissionato in occasio-
ne del matrimonio della figlia di Aurelio Simmachus console con un Flavianus Nicomacus, ora diviso tra il Museo di Cluny a Parigi e il Victoria and Albert Museum di Londra. Le due valve rappresentano due sacerdotesse intente a un culto pagano in un boschetto sacro. Nonostante sottili scarti di prospettiva e di forma, 11 l’illusione di un rilievo dei tempi classici è quasi perfetta. Anche nel dittico raffigurante Asclepio e sua figlia Igea (Liverpool, County Museum) il ricorso agli dei pagani è altrettanto sottolineato e le figure hanno pose armoniosamente bilanciate, pur nel modellato più appiattito. Altrettanto eloquente esempio del raffinato artigianato di lusso del periodo è un dono di nozze, la cassetta argentea di Proiecta (Londra, British Museum), lavorata a sbalzo con immagini di Nereidi, Tritoni e una Venere che si pettina, con un accostamento audace di motivi pagani e cristiani, poiché Proiecta è sposa cristiana («Secondo e Proiecta possiate vivere in Cristo»). Nonostante l’intenso gusto retrospettivo di questi pezzi, la loro delicatezza di fattura non è lontana da 15 quella di una placchetta d’avorio di soggetto cristiano, raffigurante le Marie al sepolcro (Monaco, Bayerisches Museum), ispirata alla stessa dolcezza sensitiva e a un’atmosfera elegiaca. È probabile che questa produzione di avori provenga principalmente da botteghe di corte costantinopolitane: si noterà, per esempio, l’uso costante di cornici a palmette stilizzate, che tornerà anche nel dittico consolare di Probiano, vicario di Roma 19 (Berlino, Staatsbibliothek) dell’inizio del v secolo, come negli esemplari precedenti. Il dittico di Probiano fa parte di quei dittici eburnei che in un certo periodo furono usati dai consoli e da altri dignitari per essere
21.Roma, Santo Stefano Rotondo, 470 ca., interno.
19. Berlino, Staatsbibliothek, dittico di Probiano, 400 ca.
20. Liverpool, County Museum, Caccia al cervo nell’anfiteatro, valva di dittico, 400 ca.
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22. Roma, Santa Pudenziana, Cristo in trono nel consesso degli Apostoli, mosaico absidale, 402-417.
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distribuiti ad amici e colleghi in occasione della loro assunzione in carica, come un lussuoso status symbol. Questo dittico rappresenta uno dei più convincenti esempi di come anche in Occidente si potesse ricuperare una fattura stilistica di elaborata qualità anche se di spirito e di gusto diversi. Nel registro superiore le figure si presentano immobili e frontali secondo il principio astratto della persona che esercita il potere, mentre nel registro inferiore due coppie di funzionari di scala inferiore acclamano il console. L’elaborata qualità dell’architettura, quasi una definizione d’interno, la vivacità dei gesti e soprattutto la cura di definire lo spazio in cui le figure si inseriscono – si noti il piede di Probiano sporgente dal gradino – rivelano l’appartenenza di questo dittico al gusto raffinato dell’epoca. A questo dittico si può affiancare il bel pannello del Museo del Castello di Milano raffigurante le Marie al sepolcro. Si tratta certamente di una valva di dittico, come rivela la presenza di due evangelisti, eseguito in una bottega occidentale, anzi forse di produzione milanese, come è stato proposto. Il modello greve delle figure si accompagna a una esecuzione finissima del rilievo appiattito. Anche in questo caso l’artista rivela un acuto interesse per la definizione dell’architettura, pur eludendo sostanzialmente la spazialità reale: si veda la porta schiusa del tempietto, gli embrici della cupoletta e molti altri particolari. Un terzo esempio della ricca produzione occidentale di dittici può essere offerto da una scena di venatio, gara di arena con animali, raffigurata in un pannello eburneo del County Museum di Liverpool, a cavallo tra il iv e v secolo. La spazialità vi è assolutamente negata nella disposizione a registri sovrapposti, dove la curva dell’arena è vista come a volo d’uccello; eppure l’artista ha un senso vivacissimo della realtà, evidente nella tensione della lotta e nell’agonia dei cervi, come pure nel ripetuto motivo delle porte delle gabbie dischiuse. L’ipotesi che il pannello del Museo del Castello di Milano raffigurante le Marie al sepolcro sia stato prodotto in una bottega milanese è da mettere in relazione con l’alto livello della produzione artistica milanese nel iv secolo, quando Milano diventa, sia pur per breve tempo, capitale dell’impero. Con sant’Ambrogio vescovo la città diventa anche la capitale cristiana. Anzi, come giustamente è stato notato, la Milano di Ambrogio partecipa intensamente a un momento culturale particolarmente sensibile all’eredità classica: Ambrogio stesso nella stesura dei suoi inni liturgici rivela la sua familiarità con i grandi classici della letteratura latina. Un’intensa attività architettonica caratterizza questo secolo milanese. Già nel iv secolo Ambrogio aveva arricchito la città di una cintura di basiliche tra le quali quella che porta il suo nome. Nulla rimane dell’aspetto originario della basilica di Sant’Ambrogio se non alcune preziose suppellettili liturgiche, le porte lignee e un ricchissimo sarcofago, cose tutte che testimoniano l’alto livello artistico della basilica. Nonostante la sparizione o la profonda trasformazione degli alzati possiamo ancora intuire la pluralità di soluzioni planimetriche di queste basiliche milanesi: accanto alla basilica cruciforme di San Nazaro, abbiamo la pianta tetraconca della basilica di San Lorenzo, arricchita da due sacelli ottagoni, che rappresenta una delle più singolari creazioni architettoniche d’Occidente. Il sacello di Sant’Aquilino è ornato di preziosi mosaici: Cristo circondato da discepoli nel catino absidale della nicchia a destra dell’altare e due frammenti (in quella a sinistra) l’uno raffigurante un pastorello addormentato sui bordi di un ruscello e l’altro una quadriga che probabilmente rappresentava Elia rapito in cielo, come «tipo» dell’Ascensione di Cristo. Questi mosaici milanesi del iv secolo sono legati anche alla crescente importanza che in questo periodo va assumendo la decorazione musiva a pasta vitrea, come forma principale di decorazione pittorica delle pareti e delle volte. Nonostante la grande tradizione musiva, specie pavimentale, questa forma di decorazione è sostanzialmente nuova, in quanto diventa un tipo di rivestimento parietale duttile, che si fonde con lo spazio interno della stessa architettura e insieme ne cela la funzione statica e la esalta pittoricamente. Il più antico mosaico absidale giunto fino a noi è quello della chiesa di Santa Pudenziana a Roma, eseguito probabilmente agli albori del v secolo. Il mosaico raffigura Cristo in trono nel consesso degli apostoli ed è dominato ancora da un gusto illusionistico, memore delle decorazioni parietali romane, evidente soprattutto
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nel grande sfondo architettonico: l’intenso significato simbolico e specificamente ecclesiale della scena si impone invece nella croce gemmata, nei simboli degli evangelisti e delle due figure femminili, generalmente interpretate come la chiesa ebraica e quella dei gentili. Anche a Roma l’attività edilizia nel iv e nel v secolo è intensa. In epoca costantiniana si costruiscono San Pietro, San Giovanni in Laterano e numerose altre chiese, sorte in genere sui luoghi del martirio dei santi. Nonostante gli ampi rifacimenti è ancora possibile ravvisare nella basilica di Santa Sabina l’eco di quella rinascita che contrassegna la seconda metà del secolo iv nelle proporzioni eleganti e nella lineare purezza della ricca decorazione. Anche la chiesa di Santo Stefano Rotondo, eretta da papa Simplicio, rappresenta un’elegante semplificazione delle piante centrali imperiali, che già a metà del iv secolo si era trasmessa nella basilica a pianta centrale di Santa Costanza, sia pure in forme più massicce. In Santo Stefano Rotondo il recente restauro ha evidenziato il gioco spaziale dell’interno, dove un colonnato ionico interno crea una navata anulare e un vano circolare centrale.
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L’età teodoriciana da Ravenna a Roma Il trasferimento della capitale dell’Impero d’Occidente da Milano a Ravenna nel 402 fu decisa dall’imperatore Onorio, consigliato da Stilicone, il grande generale di origine vandala che resse di fatto l’impero d’Occidente e la corte di Milano in particolare. Il trasferimento doveva alleggerire la minaccia di Alarico e dei Visigoti grazie alla vicinanza di Ravenna all’Adriatico, che permetteva più diretti collegamenti con la capitale d’Oriente. Alla morte di Onorio il governo fu retto dalla sorella Galla Placidia in nome del figlio Valentiniano. E al nome di Galla Placidia è legato il ciclo musivo ravennate più antico in assoluto, giunto fino a noi nella cappella eretta tra il 424 e il 450 e annessa alla basilica di Santa Croce, nota con il nome improprio di mausoleo di Galla Placidia. La cappella è la prima costruzione che testimonia l’adeguarsi di Ravenna, sino ad allora priva di una rilevante tradizione culturale, al nuovo e improvviso ruolo di capitale. L’importanza di questa cappella imperiale sta nell’integrità straordinaria di tutti i suoi mosaici parietali, il cui splendore contrasta con la dimessa architettura esterna a croce greca in laterizio. Già in questo criterio di copertura
23. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia, San Lorenzo sulla via del martirio, 424-450.
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totale della muratura, quasi superbo tessuto, sta una novità carica di futuro. È un nuovo criterio decorativo puramente bidimensionale che viene qui suggerito, e che viene espresso nella distesa a fiori e stelle stilizzate su un fondo turchino, a intervalli regolari, scompartita da fasce decorative lungo il profilo degli archi e il perimetro delle pareti. Le scene invece che ornano le lunette ai quattro capicroce reintegrano per contrasto una certa tridimensionalità, pur caricandola di significati trascendenti. Vero e proprio emblema nel senso classico di quadro è, soprattutto, la scena del Buon Pastore, dove l’insistente simbologia del pastore con il bastone a croce, l’aureola e la stessa disposizione simmetrica delle pecore non arrivano a cancellare il tema tradizionale del paesaggio bucolico. Nel braccio opposto la scena di San Lorenzo avviato al martirio è ancora più carica di significativi allusivi. Il santo brandisce la croce, le fiamme divampano sotto la graticola e nell’armadio aperto si scorgono i Vangeli esposti sul ripiano. Questa alternanza tra astrazione simbolica e resa realistica di singole parti è ancora più radicale nelle lunette, dove i cervi assetati alla fonte, simbolo dell’anima fedele, sono resi con acuta attenzione naturalistica ma entro una raffinata decorazione di racemi di pura tradizione classica. Nella cupoletta, infine, trionfa la pura astrazione della croce che campeggia sul cielo trapunto di stelle, insieme con i quattro simboli apocalittici degli evangelisti. Se la decorazione di Galla Placidia è collocabile nel quarto decennio del secolo, la vasta decorazione della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma intorno al 430-40 rappresenta una sorta di «risposta» alla nuova visione della realtà che da poco si era inaugurata a Ravenna. Dal punto di vista architettonico la basilica di Santa Maria Maggiore conserva ancora oggi essenzialmente il suo volto originario, che risale a papa Sisto iii: essa dunque rappresenta la prima basilica eretta non dal potere imperiale ma da un papa. Come le altre basiliche, anche Santa Maria Maggiore riflette in sostanza il tipo della basilica civile tardoimperiale, che dopo molte varianti di uso e di struttura aveva assunto la forma a sala longitudinale scandita da colonnati interni. Santa Maria Maggiore, tuttavia, accentua un suo carattere di grandiosità monumentale, in concomitanza con un generale ritorno a un gusto più tradizionale di quel periodo; la navata è scandita da quaranta colonne ioniche, che sostengono una maestosa trabeazione architravata, sovrastata da un secondo ordine di lesene architravate; queste includevano finte nicchie, entro le quali sono inserite a modo di «emblemata» scene figurate a mosaico. Ciò che è sopravvissuto di questa decorazione colpisce per la sua grandiosità, eppure essa non rappresenta che una parte del vasto programma iconografico originario, che comprendeva ben 42 pannelli figurati, oltre al mosaico dell’arco trionfale e a quello dell’abside, distrutto nel xiii secolo. Non è solo la grandiosità dell’intero complesso che colpisce, ma anche l’organicità del vasto programma iconografico, che dalle Scene dell’Antico Testamento trascorre a quelle dell’Infanzia di Cristo nell’arco trionfale, per concludersi nel catino absidale dove era raffigurata con ogni verosimiglianza la Parousia, la seconda venuta del Cristo Giudice. Nel ciclo veterotestamentario della navata perdura un deliberato e marcato ritorno a un gusto tradizionale che gli studiosi hanno ricollegato allo stile dei manoscritti pagani della fine del iv secolo, usati dall’aristocrazia pagana, quali il codice vaticano dell’Eneide e delle Georgiche di Virgilio o l’Iliade della Biblioteca Ambrosiana: un confronto con le pagine di questi codici rivela infatti forti affinità di composizioni e di tipologie con i mosaici. Molte scene della navata di Santa Maria Maggiore si svolgono all’aperto e l’illusione dello spazio è ottenuta con varie sfumature del terreno, mentre, come nelle miniature, l’oro viene utilizzato per suggerire lo spazio aereo. Una vivace regia raduna i gruppi e li muove all’azione, alla quale i singoli personaggi partecipano con sguardi resi più intensi dalla tecnica usata: una tessera scura per la pupilla sul bianco della sclerotica. Volgendoci ora alla decorazione dell’arco trionfale noteremo che la sua vasta superficie è ripartita in ampie strisce orizzontali con una composizione, quindi, che accentua la bidimensionalità della scena. La scelta
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di uno stile sensibilmente diverso rispetto ai mosaici della navata non è da attribuire, come si riteneva, a un divario cronologico di esecuzione, ma riflette piuttosto una diversa intenzione. Si deve infatti tenere conto dello specifico luogo in cui le immagini erano collocate, esposte cioè a una visione frontale e simultanea, con un significato trionfale, relativo all’avvento di Cristo. Le scene si svolgono con un ritmo lento e solenne su un fondale dove predomina l’oro. Più volte si avverte il deliberato ricorso a iconografie di origine orientale, mentre nell’Annunciazione è fortemente accentuata la regalità di Maria, alla quale la basilica è dedicata e che era stata da poco proclamata «Madre di Dio» nel Concilio di Efeso del 431. A Ravenna la decorazione musiva più importante del v secolo è quella della chiesa del palazzo imperiale, più tardi chiamata Sant’Apollinare Nuovo, una delle maggiori imprese artistiche della febbrile attività edificatrice del regno di Teodorico. Già nella navata la fuga delle colonne, la semplificazione muraria delle pareti prive di cornici e di sagomature che la articolino plasticamente, l’elevata luminosità esprimono la volontà di alleggerire, anche visivamente, la costruzione e quasi smaterializzarla. La copertura delle pareti con distese di mosaici non è dunque che la coerente conseguenza di questa interpretazione. Il celebre Corteo di santi e di sante sulle due pareti non risale a questo periodo perché fu fatto eseguire dall’arcivescovo Agnello, circa la metà del secolo vi, in sostituzione delle solenni processioni cerimoniali e quindi profane della corte di Teodorico, che dovevano occupare la stessa navata. A testimonianza di questi mosaici più antichi restano le rappresentazioni del palazzo di Teodorico e della città portuale di Classe, dalle quali partivano le due processioni, accostando liberamente realtà storica e realtà trascendente. La zona superiore delle stesse navate è occupata da trentadue monumentali e statiche figure di santi aureolati, collocati su piedestalli erbosi privi di profondità, con in mano codici e rotoli che raffigurano la trasmissione dell’annuncio evangelico. Più interessante il terzo registro superiore, con la serie di scene evangeliche che potrebbero essere utilmente confrontate con i pannelli narrativi delle navate di Santa Maria Maggiore a Roma. Le scene ravennati, intervallate da motivi decorativi e simbolici, raffigurano Miracoli di Cristo e Scene della Passione e
24. Roma, Santa Maria Maggiore, mosaici della navata, 430-440 ca.
25. Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. F. 205 P. inf., Iliade, v sec., Nestore e Patroclo, ill. xxxvii, particolare.
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della Risurrezione. Sull’oro di fondo esse hanno una concisione narrativa che sacrifica i dettagli e privilegia i ritmi simmetrici; nonostante questa evidente tendenza a soluzioni non narrative, le scene conservano una vivacità di accostamenti cromatici e di suggerimenti realistici ben diversi dai successivi sviluppi del mosaico nel vi secolo. Come si è visto, il v secolo è contrassegnato da una varietà di iniziative nel campo artistico, se non addirittura di conflitti, che si polarizzano nei due centri di Roma e di Ravenna. Sarebbe semplicistico e riduttivo, tuttavia, limitare a questi due poli la fisionomia di quei secoli, escludendo tutti i territori provinciali. Questi sono sede, come già si è detto, di fenomeni collaterali spesso di grande interesse, ma anche di altri importanti fatti, come per esempio l’urto di successive invasioni barbariche che l’Occidente sostenne in questo secolo e che non restarono senza conseguenze anche nel campo artistico. Ogni esposizione unitaria non potrà dare dunque un quadro soddisfacente di una situazione artistica estremamente frammentaria e diversificata. Sarà soprattutto il ricchissimo campo di dittici in avorio a rispecchiare alcuni aspetti fra i più interessi santi della produzione artistica di questo secolo. Allo scadere del secolo iv si colloca il dittico di Stilicone (Monza, Museo del Duomo) che raffigura il condottiero vandalo, capo dell’esercito e figura di spicco della corte imperiale di Milano. La posa raffinata di Stilicone, l’elegante abbigliamento della moglie e del figlioletto vestito da giovane retore rispecchiano con grande evidenza la realtà storica di questi alti personaggi di provenienza barbarica romanizzati. Il rilievo sottile e appiattito esprime una visione bidimensionale, confermata dall’architettura complessa, che incornicia le figure ma non le accoglie. Altre opere in avorio denunciano nella varietà delle loro soluzioni le oscillazioni stilistiche di questo secolo e l’importanza che va assumendo questo materiale. Sovente appaiono, per esempio, proporzioni pesanti delle figure che riprendono modi del tempo costantiniano: le quattro tavolette, in origine forse parti di un cofanetto con Scene della Passione di Cristo, del British Museum, o i due pannelli con Scene della vita di Cristo, divise tra il Louvre e i Musei di Berlino, hanno composizioni animate, in funzione di una narrazione espressiva e realistica. Sembra essersi perduta la lirica delicatezza di certi rilievi anteriori, come quello delle Marie al sepolcro di Monaco, a vantaggio di una forza plastica che sembra talora anticipare di molti secoli la scultura romanica padana. Soluzioni stilistiche ancora diverse appaiono nei due piatti d’avorio di una coperta di libro conservata nel Museo del Duomo di Milano: le scene animate sono condotte con un rilievo piuttosto piatto, sommario e a spigoli taglienti; queste scene fanno da cornice ai riquadri centrali dei due lati della coperta, dove più tardi troveranno posto i simboli dell’Agnello e della Croce, composti in granati almandini «cloisonnés». Il dittico di Boezio (Brescia, Museo Cristiano), console nel 487 e padre del famoso filosofo Severino Boezio, autore del De Consolatione Philosophiae, rappresenta una soluzione quasi estrema dell’oscillazione stilistica tra realtà e astrazione tipica del v secolo. La figura del console, raffigurata tradizionalmente nel suo ruolo di donatore dei giochi, appare schiacciata dalla trabeazione, la testa enorme quasi appoggiata sul busto rachitico; l’intaglio è angoloso e duro, il panneggio inciso a scheggia, con una tecnica probabilmente barbarica, con un ornato di motivi geometrici stilizzati.
26. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo, Il palazzo di Teodorico e Corteo di santi, 500 ca.
Il vi secolo a Ravenna e a Roma Alla morte di Teodorico nel 526, le terribili guerre che si scatenarono per la successione, le cosiddette guerre gotiche, offrirono a Giustiniano il pretesto per la riconquista dell’Italia con una campagna militare. Ravenna fu il primo centro a cadere nelle mani dell’esercito di Bisanzio guidato da Belisario e venne promossa capitale dell’Esarcato. Essa diventava così una vera testa di ponte dell’Impero d’Oriente in Italia e tale era destinata a rimanere fino alla conquista da parte dei Longobardi. Se già nei disegni di Teodorico Ravenna 27. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo, Il bacio di Giuda.
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si avviava a essere una nuova Roma, l’avvento di Giustiniano doveva segnare una più forte spinta alla «renovatio» dell’Impero Romano, che si manifesta particolarmente nell’attività legislativa dell’imperatore. Si comprende quindi come l’avvento di Giustiniano al potere segni la prima fase aurea di quell’arte bizantina destinata a durare secoli in Oriente e anche, nel campo della pittura soprattutto, in Occidente. Tuttavia, sotto un altro profilo, l’arte di Giustiniano segna anche la conclusione di un’epoca che aveva continuamente cercato di elaborare una sintesi tra valori formali classici e una nuova visione trascendente. La fisionomia di questa età giustinianea nel campo artistico si presenta, quasi all’improvviso, nella basilica di San Vitale con una fusione altissima e raramente eguagliata nei secoli fra architettura e decorazione pittorica. Fondata dal vescovo di Ravenna, Ecclesio, e consacrata dal vescovo Massimiano nel 547, San Vitale è a pianta ottagonale con esedre interne a triforio che si aprono su possenti pilastri verso un ambulacro e sono sovrastate da un matroneo. Rapporti diretti e indiretti con Costantinopoli, e in modo particolare con la chiesa dei Santi Sergio e Bacco, sono evidenti; ma ciò che colpisce in San Vitale è la specifica sintesi tra antiche tradizioni occidentali di piante centrali (e basterà segnalare le assonanze con la basilica di San Lorenzo a Milano) e i caratteri fortemente orientali, soprattutto la pittorica leggerezza delle strutture, esaltata dal cromatismo profuso della decorazione musiva, dei marmi colorati e degli stucchi. Questa visione intensamente pittorica trova il suo apice nella fitta serie di raffigurazioni musive che coprono le pareti del presbiterio, centrate sul tema dell’agnello pasquale e del sacrificio eucaristico. L’Agnello pasquale, al centro della volta, è alla lettera la chiave di volta di questo programma iconografico che comprende le prefigurazioni veterotestamentarie di Cristo e del sacrificio eucaristico: Abramo e i tre Angeli, il Sacrificio di Isacco, Mose che riceve la legge, l’Uccisione di Abele e il Sacrificio di Melchisedec. Nei registri sottostanti, sulle due opposte pareti, Giustiniano e Teodora con le rispettive corti offrono in dono alla Chiesa preziose suppellettili liturgiche. Le scene veterotestamentarie sono incluse, a modo di «emblemata», in fasce decorative e sono quasi tutte ambientate in un paesaggio o contengono richiami naturalistici resi con vivacità di accostamenti cromatici, come il roveto ardente di Mosè o la quercia di Abramo: è la natura che ancora una volta offre un collegamento con la tradizione. Le scene delle due corti imperiali sono fra le più celebri immagini di quest’epoca e a prima vista si differenziano dalle scene dei registri superiori per la loro astratta immobilità. La staticità di questi personaggi isocefali è tuttavia più apparente che reale; essi muovono in lenta processione verso l’abside dove sono destinati i doni che essi recano per l’altare. Una sottile trama di rapporti reciproci lega fra loro le persone e i gruppi e persino l’allineamento delle figure è più apparente che reale: Giustiniano, per esempio, copre con il suo braccio il vescovo Massimiano, che di fatto risulta stare davanti a lui. I volti di Giustiniano e di Massimiano, come pure quello del dignitario che si intravede dietro ad essi, conservano una superba forza ritrattistica che vince la fissità degli sguardi. Ancora più ricco e variegato appare il gruppo delle dame di corte che circonda Teodora: l’artista si compiace a disegnare virtuosisticamente vestiti, ricami e gioielli e varie notazioni ambientali. Il radicalizzarsi di tendenze ed espressioni astratte che caratterizza l’età giustinianea si avverte anche a Roma, pur con notevoli differenze. Il mosaico che orna il catino absidale della chiesa dei Santi Cosma e Damiano, dove si vede Cristo avanzare su una scia di nubi policrome verso due gruppi di persone, mentre in basso un fregio di pecore simboleggia i fedeli, denuncia una schematizzazione compositiva e una rigidità ormai lontane dagli intenti espressi nel mosaico di Santa Pudenziana. E tuttavia la forza fisionomica di certi volti e il volume delle figure collegano ancora questo mosaico a una tradizione «romana», ben diversa da quella ravennate di marca costantinopolitana. Basterà infatti confrontare questo mosaico con quello di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, che presenta l’analogo tema ecclesiale di pecore sui verdi pascoli del cielo, per misurare la distanza che separa queste due esperienze parallele. 28. Ravenna, San Vitale, veduta dell’interno.
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29. Ravenna, San Vitale, 540-547 ca., mosaici della parete settentrionale del presbiterio.
31. Ravenna, Sant’Apollinare in Classe, Trasfigurazione, mosaico absidale, 549 ca.
30. Ravenna, San Vitale, La corte di Giustiniano, particolare.
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32. Roma, Santi Cosma e Damiano, mosaico absidale, 526-530.
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Quest’ultima opera tradisce però i limiti di ripetitività e di irrigidimento cui è fatalmente esposta l’esperienza dei mosaici ravennati. Per qualificare il livello artistico di quest’epoca, meglio rivolgersi a un capolavoro di epoca giustinianea, la cattedra eburnea di Massimiano (Ravenna, Museo Arcivescovile), che pur non essendo forse di produzione ravennate è intimamente connessa con la decorazione di San Vitale. Costruita come un tronetto con schienale ricurvo su quattro montanti, la sua superficie è interamente ricoperta di intagli con un horror vacui analogo a quello che caratterizza la decorazione musiva. I pannelli figurati – dieci laterali con Storie di Giuseppe, ventiquattro sullo schienale con Storie di Cristo e i quattro Evangelisti con Giovanni Battista sulla fronte – sono incorniciati da superbi bordi con motivi vegetali e animali simbolici, di intaglio lussureggiante. Mani probabilmente diverse ma tutte verosimilmente orientali hanno realizzato le storie con vivacità di intaglio, appiattendo invece e stilizzando al massimo le figure frontali, con schemi lineari che denotano una religiosità aulica, destinata a tramandarsi per secoli, specie in età ottomana. Giustiniano è presente in un altro avorio di altissima qualità, il cosiddetto dittico Barberini (Parigi, Louvre). Si tratta di un dittico a cinque parti, ossia con cinque raffigurazioni incluse in cornici, nel quale domina lo splendido pannello centrale con l’imperatore Giustiniano a cavallo in veste di conquistatore, ritratto audacemente con una serie di moti contrapposti e divergenti. Ai suoi piedi si vedono la Terra, il barbaro che tocca la lancia in segno di sottomissione, e sotto barbari e orientali in atto di offrire in dono zanne d’elefante; in alto il busto di Cristo benedicente affiancato da angeli rafforza l’immagine dell’imperatore come difensore della fede.
33. Ravenna, Museo Arcivescovile, cattedra di Massimiano, 547 ca.
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35. Parigi, Museo del Louvre, dittico Barberini, 540 ca.
34. Ravenna, Museo Arcivescovile, cattedra di Massimiano, particolare.
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36. Monza, Tesoro del Duomo, dittico del Poeta e della Musa, fine v sec.
37. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, L’Imperatrice Ariadne, valva di dittico, particolare
38. Monza, Tesoro del Duomo, dittico di Stilicone, inizio v sec.
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39. Roma, Santa Maria del Rosario a Monte Mario, icona di Santa Maria de Tempulo.
40. Roma, Santa Maria Nova (Santa Francesca Romana), imago antiqua.
42. Roma, Santa Maria in Trastevere, icona della Madonna della Clemenza.
41. Roma, Santa Maria ad Martyres (Pantheon), icona della Vergine Hodhigitria, 609 ca.
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Questa eccellenza di tecnica eburnea è presente in altri lavori del tempo e basterà ricordare il dittico detto del Poeta e della Musa (Monza, Museo del Duomo), ricco di elaborate architetture, di pose elegantemente artificiose, con una spazialità ambigua, suggerita e negata; oppure lo sportello di dittico raffigurante l’Imperatrice Ariadne (Firenze, Museo del Bargello), «basilissa» rigidamente frontale e del tutto iconica nello sfarzoso costume orientale, che ricorda da vicino quello dell’imperatrice Teodora in San Vitale. Questa rapida rassegna della produzione artistica nei secoli che corrono fra il tramonto della classicità e l’alba del Medio Evo, secoli, come si è visto, di impressionante vitalità, si conclude da ultimo ancora a Roma. A Roma infatti, intorno al vi secolo e comunque in periodo pre-iconoclasta, vengono dipinte delle immagini sacre o «icone», sentite come immagini potentemente vitali e quasi dotate di carattere soprannaturale. Di questa produzione, che ci è nota attraverso il Liber Pontificalis, ci sono giunti quattro esemplari, scoperti e restaurati tutti nel secondo dopoguerra. La più antica è l’icona di Santa Maria de Tempulo, oggi nella chiesetta di Santa Maria del Rosario, dal volto nobilissimo e tenero e dalle mani stupendamente impressionistiche, quasi non finite, grazie all’uso della morbida tecnica a encausto. A encausto su lino è anche l’imago antiqua di Santa Maria Nova (oggi Santa Francesca Romana), che rammenta quasi un lino dipinto del Fayyum nella piccola bocca color rosso chiaro e nei granai di occhi. Analoga dolcezza e analoghi ricordi si trovano anche nell’icona di Santa Maria ad Martyres, databile intorno al 609, quando il tempio del Pantheon fu trasformato in chiesa e consacrato alla «Theotokos» e a tutti i martiri. Qui il Bambino dalla testa vigorosamente modellata ha uno sguardo intenso e diretto come quello della Madre. Infine l’icona di Santa Maria in Trastevere, simile alla Madonna dello strato inferiore del noto palinsesto pittorico di Santa Maria Antiqua, si presenta come un’imponente «basilissa» bizantina che può confrontarsi nell’aspetto e nelle vesti con l’imperatrice del dittico del Bargello testé citato. In questa immagine stracarica di gioielli, seduta su un trono incrostato di gemme, si consuma la perfetta identificazione tra la Regina della Terra e quella del Cielo. Eppure sopravvive in questa figura l’antica dolcezza della forma, differenziando ancora una volta il modo occidentale di interpretare il trascendente rispetto all’Oriente.
Spirituality: a Symposium, a c. di K. Weitzmann, New York-Princeton 1980, e dello stesso Weitzmann l’introduzione al catalogo della mostra Age of Spirituality, New York-Princeton 1977-78. Per una trattazione d’insieme riccamente illustrata di questo periodo v. i due volumi di A. Grabar, Le premier art chrétien, 200-393, Paris 1967 (trad. it. L’arte paleocristiana, Milano 1967) e L’âge d’or de Justinien, Paris 1966 (trad. it. L’età d’oro di Giustiniano, Milano 1966). Una visione sintetica e integrata delle testimonianze religiose e di quelle civili è in G.A. Mansuelli, La fine del mondo antico, Torino 1988 (con bibliografia commentata, pp. 238 ss.). Per l’architettura a Roma alla fine dell’impero v. R. Krautheimer, Rome. Profile of a City, 312-1308, Princeton 1980 (trad. it. Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981) e dello stesso A. Early Christian and byzantine Architecture, Harmondsworth 1965 (trad. it. Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986) e il più recente Three Christian Capitals. Topography and Politics, Berkeley-Los Angeles-London 1983 (trad. it. Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987). Sui monumenti di Ravenna è fondamentale la grande catalogazione di F.W. Deichmann, Ravenna. Geschichte und Monumente, Wiesbaden 1969-74.
Nota Bibliografica Sulle origini storiche di una nuova valutazione del periodo tardo-romano v. l’opera di A. Riegl, Spätrömische Kunstindustrie (1901), trad. it. Industria artistica tardoromana, nota introduttiva di S. Bettini, appendice di O. Pächt, Firenze 1953 (altra ed., ridotta, col titolo Arte tardoromana, a c. di L. Collobi Ragghianti, Torino 1959). Le concezioni del Riegl furono in parte adottate e rielaborate dagli studi di R. Bianchi Bandinelli attento alle trasformazioni dell’arte tardoromana e alla conseguente elaborazione di un nuovo linguaggio artistico. V. soprattutto Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969, Roma. La fine dell’arte antica, Milano 1970, e, dello stesso autore, Organicità e astrazione, Milano 1956. Di fondamentale importanza negli studi sullo stesso periodo di passaggio dalla civiltà tardoantica a quella bizantina sono gli studi di E. Kitzinger, una sintesi dei quali è contenuta nel volume Byzantine Art in the Making. Main Lines of stylistic Development in Mediterranean Art. 3rd-7th century, London 1977 (trad. it. L’arte bizantina, con prefazione di M. Andaloro, Milano 1989). Un agile profilo dell’arte bizantina si deve a J. Beckwith, The Art of Costantinople, London 1961 (trad. it. L’arte di Costantinopoli, Torino 1967), da integrare con la più recente rassegna di A. Cutler, J.W. Nesbit, L’arte bizantina e il suo pubblico, Torino 1986. Sul tema specifico dell’iconografia cristiana e del suo formarsi esistono numerosi studi; la trattazione più approfondita si deve a A. Grabar, Christian Iconography: a Study of its Origins, Princeton 1968 (trad. it. Le vie della creazione nell’iconografia cristiana, Milano 1983); ma v. anche di E. Kitzinger, Christian Imagery: Growth and Impact, in Age of
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Capitolo secondo
LONGOBARDI E CELTI: I PRIMI LABORATORI DI FORME ALTOMEDIOEVALI
I secoli vi-viii, ritenuti fino a tempi relativamente recenti oscuri secoli di predominio barbarico, quasi privi di interesse culturale, vanno sempre meglio rivelando negli ultimi studi il fecondo intreccio nelle loro opere tra la cultura barbarica e l’assimilazione di altre tradizioni culturali presenti nei territori occidentali e in particolare in Italia. Il grandioso fenomeno delle invasioni barbariche è causato, come è noto, dalla spinta crescente di popoli nomadi che premono ai confini dell’impero e si riversano da Oriente a Occidente in ondate successive nel corso di secoli. Il primo violento sfondamento e traumatico scontro si può collocare all’inizio del v secolo, quando i Visigoti nel 410 giunsero a Roma, seguiti dai Vandali di Genserico e dagli Unni di Attila. Ed è pure ormai noto il fenomeno di una progressiva acculturazione di queste popolazioni barbariche, che si manifesta sul piano politico con l’inserimento in alte cariche di governo degli stessi generali barbari: già si è nominato il vandalo Stilicone, figura di primissimo piano nella Milano imperiale della fine del v secolo, e più ancora l’illuminato re goto Teodorico, che fino alla morte nel 526 testimonierà appunto come un personaggio di provenienza barbarica potesse essere investito di un mandato morale che faceva di lui il continuatore della grandezza imperiale romana. Le necropoli di popolazioni barbariche, come quelle dei Goti a Domagnano presso San Marino, quella degli Unni ad Altlussheim in Germania, o quella regale di Sutton Hoo in Inghilterra hanno restituito un ampio materiale di oreficeria, per molti versi omogeneo come repertorio di oggetti e di figurazioni. Esso costituisce un patrimonio largamente unitario in una vastissima area territoriale che va dalle regioni scandinave alla pianura padana. Si tratta di fibule a «S» o ad arco, di armi di difesa e di offesa, di ornamenti femminili o di significato religioso (le crocette) nei quali l’oro è largamente usato accanto all’argento e al bronzo, mentre la decorazione è affidata a raffinate variazioni dell’intreccio lineare, di antica provenienza caucasica e danubiana, che compongono audaci stilizzazioni di forme animali e vegetali. Spesso l’oro incastona paste vitree, gemme, oppure forma un reticolo continuo di cellette nelle quali vengono inserite pietre preziose, in particolare granati detti «almandini» (dal nome Alabanda nell’Asia Minore). Opere di grande raffinatezza come l’impugnatura di spada della tomba di Childerico (Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles), le fibule a forma di aquila del Museo di Norimberga o quella del Museo di Bonn mostrano l’eccellenza delle varie tecniche di lavorazione dei metalli, quali l’agemina, ottenuta abbinando in solchi incisi un metallo prezioso con il ferro, la niellatura, ottenuta inserendo il niello nei solchi incisi dell’oro o dell’argento, la filigrana, formata da palline d’oro saldate alle lastrine. È appunto questa oreficeria sia di intreccio sia di stilizzazione zoomorfa, genericamente definita «germanica», che accompa-
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gna l’ingresso dei Longobardi in Italia a metà del vi secolo. Particolarmente interessanti le crocette in sottile lamina d’oro che venivano cucite sulla stoffa, decorate con intrecci nastriformi, bruscamente interrotte alle estremità, talora anche decorate con immagini umane o di animali, come la notevole croce di Gisulfo del Museo di Cividale. Ma già verso la metà del secolo vii, come dimostra il patrimonio di oreficeria ritrovato a Stabio (Canton Ticino), e in particolare la decorazione dello scudo di parata (ora all’Historisches Museum di Berna), la fase della proliferazione lineare dello stile additivo è superata, anche per la probabile suggestione del mondo bizantino. La figura maggiore, quella del cavaliere con la lancia e dei due cani che voltano la testa, secondo un’iconografia di caccia nota al mondo cristiano e pagano, mostra un magistrale contorno, sottolineato da sottili punzonature, di grande forza evocativa. Questo processo di acculturazione si manifesta anche nella nota lamina di bronzo, in origine dorata, trovata in Valdinievole e detta lamina di Agilulfo (Firenze, Museo del Bargello). Essa rappresenta infatti un tema direttamente ripreso dall’antichità, la cosiddetta «acclamatio» imperiale: qui la figura dell’imperatore è affiancata simmetricamente da due soldati in posizione di parata, due Vittorie, due coppie di offerenti e, infine, due edifici a torre. Ben tre iscrizioni latine esplicitano la scena e testimoniano la volontà di comunicare con parole latine un’iconografia prettamente romana, ancorché espressa con una rozzezza che scade quasi a balbettio formale (il termine «barbaro» significa appunto «colui che balbetta una lingua»): la prima, dn agilu regi (Domino Agilulfo regi) si riferisce probabilmente all’incoronazione di Agilulfo nel 591, mentre la parola victuria appare incisa due volte sui labari. Questa volontà di tradurre in termini longobardi una tradizione illustre conferisce a tutta la scena quasi l’aspetto di un’allegoria delle idee politiche di Agilulfo. Una posizione a parte occupano alcuni preziosissimi oggetti che risalgono al tempo della regina Teodolinda, e dunque all’inizio del vii secolo, e che provengono da doni di papa Gregorio Magno alla regina. La croce di Adaloaldo è in oro purissimo, con l’immagine di Cristo crocefisso in niello. Altrettanto raffinata una coperta d’evangeliario, di solito identificata con la Theca Persica, menzionata in una lettera di Gregorio Magno. Secondo le ricerche più recenti il termine «persica» alluderebbe però a una rilegatura in pelle riccamente decorata,
43. Londra, British Museum, Tesoro di Sutton Hoo, fibula aurea, vii sec.
44. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles, impugnatura della spada di Childerico (morto nel 481).
45. Bonn, Rheinisches Landesmuseum, fibula ornata di pietre dure e vetro colorato con preziose decorazioni in filigrana, proveniente da una tomba femminile a Iversheim.
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46. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, lamina di Agilulfo (591-616).
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comunque non in metallo. La coperta d’evangeliario d’oro con smalti e gioielli conservata nel Tesoro non sarebbe quindi quella originaria inviata dal papa ed è invece probabile che sia stata eseguita su ordine della regina. Si tratta comunque di un’opera di squisita bellezza: il motivo dei granati almandini alveolati che incornicia la coperta viene qui impiegato con un gusto classico di delimitazione di spazi e quindi di armoniosa misura; così pure la ricca croce gemmata che divide la coperta in quattro campi dove sono collocati cammei classici di riuso. Altrettanto singolare e prezioso è il gruppo famoso della Chioccia con i pulcini, il cui significato ha avuto varie interpretazioni. Fra queste appare convincente quella che collega il gruppo a un brano del Vangelo di Luca (13,34) e precisamente all’esclamazione di Gesù: «Gerusalemme, Gerusalemme […] quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come la gallina i suoi pulcini […]», immagine non infrequente negli ambienti secolari più che in quelli religiosi. Non è certo, ma sembra che anche i pulcini come la chioccia siano di epoca longobarda e proprio del periodo teodolindeo. Altri pezzi celebri di questo eccezionale nucleo di oreficeria longobarda, conservato nel Museo del Duomo di Monza – eccezionale anche per la qualità raffinata dell’esecuzione, rara in questo periodo – sono la corona votiva con madreperle, zaffiri e acquamarine in eleganti castoni circolari e quadrati e la croce votiva di Agilulfo, che impiega varie oreficerie barbariche di altissimo livello tecnico.
La «Langobardia major» L’area longobarda è stata definita un’area campione di quel fenomeno che Hans Belting (1967) chiama «la questione italiana», riferendosi alla duplice radice latina e barbarica che caratterizza l’arte italiana altomedioevale e, in fondo, tutta l’arte dell’Occidente europeo medioevale: area campione perché nei territori longobardi si coglie al vivo l’intreccio tra queste due culture diverse. Nel 369 i Longobardi, dopo un lungo periodo di stanziamento in Pannonia, irrompono nel Friuli, intenzionati a installarsi nel territorio della valle Padana. Lo scontro vittorioso con i Bizantini che si ritirano nella laguna, pur non risolto in modo totale, porterà alla nascita di due vasti domini longobardi, la «Langobardia major», comprendente tutta la valle Padana e la Liguria, e la «Langobardia minor», comprendente il ducato di Benevento, più il ducato di Spoleto, cosicché alla morte di Liutprando l’Italia risulterà separata in due
49. Cividale, Museo Cristiano, altare del duca Ratchis (già in San Martino), 737-744, Majestas Domini.
50. Pavia, Musei Civici, lastra detta del sarcofago della badessa Teodote (da Santa Maria della Pusterla), viii sec.
47. Berna, Historisches Museum, lastra di guarnizione di scudo, metà del vii sec.
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48. Monza, Tesoro del Duomo, corona votiva, inizio vii sec.
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grandi tronconi da un corridoio che grossomodo va da Ravenna a Roma. I saccheggi e le distruzioni operate dai Longobardi dopo le guerre gotiche e la breve riconquista bizantina segnano, come è stato detto, il vero precipitare dell’Italia nel Medio Evo. Anche se le fonti di Paolo Diacono sono da considerare spesso del tutto fantasiose, resta tuttavia il fenomeno del cosiddetto «vuoto» del vii secolo, ossia della scomparsa di tutte le testimonianze che Paolo Diacono e altre fonti attestano, il che ha fatto ritenere che in realtà ogni progetto di cultura dei Longobardi non potesse essere che di ricostruzione. In questo senso la scelta di Agilulfo come sposo da parte di Teodolinda risponderebbe a una precisa scelta politica, culturale e religiosa in direzione «romana» e Agilulfo stesso sceglierà per sé il titolo di «rex unius Italiae». Lo stesso editto di Rotari del 643 mette in evidenza come le consuetudini germanico-longobarde codificate nell’editto stesso risentano dell’influenza del diritto romano, non solo nell’aspetto formale e nella lingua latina ma nell’adozione di termini giuridici latini. Benché i Longobardi fossero entrati in un paese devastato e non scegliessero la città come tipo di insediamento definitivo, Alboino aveva fissato la sua sede a Verona, facendone la prima capitale longobarda. Successivamente Pavia fu costituita capitale del regno fino al 774. Sparita ogni traccia del palazzo reale di Liutprando a Corteleona, restano a Pavia alcune testimonianze interessanti di architettura longobarda, come lo schizzo leonardesco e l’incisione settecentesca relativi alla chiesa di Santa Maria delle Pertiche; la sua pianta centrale ottagonale e l’alto corpo centrale a cupola rivelano da un lato una matrice paleocristiana e dall’altro rappresentano un interessante precedente della cappella imperiale di Aquisgrana. La testimonianza più alta e complessa di architettura longobarda resta la chiesa di Santa Sofia a Benevento, nella «Langobardia minor», fondata da Arechi ii tra il 758 e il 787 come santuario del principe e della nazione longobarda. Già nel nome essa si richiama alla tradizione della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, ma con audaci varianti planimetriche e di alzato: il perimetro è zigzagato con l’inserzione di uno schema stellare e di tre conche absidali poco profonde, cui corrisponde in alzato una straordinaria articolazione di volte quadrate, triangolari e trapezoidali con cupola al centro. Particolare importanza rivestono gli affreschi che ornano due absidi. La loro precoce datazione accentua maggiormente la patetica grandezza del loro stile e li colloca fra le prime testimonianze di quell’arte beneventana che si svilupperà nel territorio con cicli di affreschi e miniature fino al ix-x secolo. Nella «Langobardia major», nel corso della prima metà dell’viii secolo, la cosiddetta «rinascenza liutprandea» è contrassegnata da opere di alto livello, nelle quali si manifesterebbe l’alto grado di assimilazione e di integrazione della cultura latina raggiunto dai Longobardi. Il maggior monumento del tempo liutprandeo a Cividale è l’altare fatto realizzare dal duca Ratchis tra il 737 e il 744 e dedicato al padre (Cividale, Museo Cristiano). L’altare reca scolpita sulla fronte 49 la Majestas Domini e sui fianchi l’Adorazione dei Magi e la Visitazione. Le immagini sono definite da linee a solco che ricordano lo stile lineare delle oreficerie barbariche; tutto l’altare, anzi, può essere inteso come «un’opera di oreficeria tradotta in pietra» (Romanini) la cui rozzezza è solo apparente: basti guardare, infatti, il profilo angoloso ed elegante delle ali degli angeli della Majestas Domini, il comporsi nello spazio delle loro lunghissime braccia, per riconoscere nell’ignoto artista una forza espressiva che scaturisce appunto da una quasi parossistica linearità. Analogamente sapiente è la deformazione che rende quasi irriconoscibili i simboli dei quattro evangelisti nel pluteo di Sigvaldo, murato su un lato del parapetto del Battistero di Callisto, sempre nel Museo Cristiano di Cividale. Più evidente, invece, è la rielaborazione di motivi tradizionalmente classici o paleocristiani – il tralcio vegetale, i pavoni – nelle lastre della cosiddetta lastra di Teodote (un pluteo, probabilmente, di recinzione presbiteriale), proveniente dal monastero di Santa Maria della Pusterla a Pavia (Pavia, Musei Civici). Nella raffinata precisione dei particolari, nel nitido intaglio dei contorni si riconosce un’originale assimilazione culturale, la stessa che spicca nelle lastre iscritte del tempo, abbastanza numerose. Assai bella, per esempio, è la lapide di Aldo (Milano, Museo del Castello), solcata dalla croce in tutta la sua lunghezza; assai più nota è la lapide
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di san Cumiano a Bobbio, contenente un elogio in onore di san Cumiano e firmata in basso da un «Johannes magister», di singolare bellezza nel disegno e nel ritmo delle lettere dell’iscrizione; l’intera iscrizione è contenuta entro un fregio decorativo, che risulta curiosamente capovolto (in relazione forse alla collocazione a terra). La riprova più emblematica dell’alto livello culturale raggiunto verso il termine dell’età longobarda sta in un gruppo di opere che significativamente sono state attribuite alternativamente all’ultima età longobarda o all’inizio di quella carolingia, ma che gli ultimi studi tendono piuttosto ad assegnare a quest’ultima. Fra queste vi è la decorazione in stucco della chiesa di Santa Maria in Valle a Cividale, chiesa che sorgeva in origine nel luogo di residenza del gastaldo, cioè del rappresentante reale, e aveva quindi funzione di cappella di palazzo. Le fasce decorative di rosette e di astragali che la ornano e la cornice particolarmente ricca di tralci e di grappoli intorno alla nicchia-finestra basterebbero da sole a documentare la qualità raffinata della tecnica a stucco in epoca altomedioevale, una produzione probabilmente più ricca di quella documentata dai pochi esemplari superstiti. Colpisce soprattutto l’eleganza delle sei figure femminili, di cui quattro incoronate e con una seconda corona in mano sormontata da una piccola croce e due con il capo velato rivolte verso la nicchia finestra. Nulla sembra esservi di bizantino in queste sante, né nel costume né nelle corone di cui si cingono la testa. Sebbene a prima vista la carnosità dei volti e la monumentalità delle figure sembrino predominanti, a un esame più attento si noterà che tutta la composizione è giocata su una semplice scansione di spazi e che le figure si appoggiano alla parete ma non creano con essa un reale rapporto di piani plastici. L’apparente realismo dei particolari non giunge quindi a cancellare lo spirito genericamente «orientale» dell’intera composizione. Se poi si ricorderà che gli stucchi dovevano essere policromi ed erano inseriti in cicli di affreschi oggi quasi del tutto perduti, si coglierà meglio il carattere singolarissimo dell’intera decorazione. Collegabili con gli stucchi di Cividale sono quelli della chiesa di San Salvatore a Brescia, probabilmente risalenti al ix secolo e contemporanei ai nobili frammenti d’affreschi presenti nella stessa chiesa. Qualche curiosa affinità iconografica con gli stucchi di Cividale presentano anche gli affreschi scoperti e restaurati dell’ex monastero di Torba, presso Castelseprio. Al piano superiore della torre, adattato a cappella, sono raffigurati Cristo, la Vergine e una Teoria di santi e monache, queste ultime a grandezza quasi naturale, allineate come icone sul muro. I nomi longobardi delle suore e la paleografia di un graffito dichiarano la piena appartenenza di questi affreschi votivi all’area longobarda. Essi rivelano una franchezza di tratto quasi brutale, ma anche una freschezza «longobarda» di lumeggiature che fa di essi, come è stato detto, «quasi l’antitesi di Castelseprio» (Bertelli).
La miniatura celtica La grande importanza che la miniatura riveste per la storia della pittura è facilmente comprensibile solo che si rifletta sulle ingenti e irreparabili perdite subite dalla pittura ad affresco e, d’altra parte, sugli stretti rapporti che dovevano esistere tra le due tecniche, come già si è visto, per esempio, nel caso dei mosaici di Santa Maria Maggiore a Roma. A quel tempo, e cioè nel corso del v secolo, era già praticamente compiuto il decisivo trasferimento dei testi classici e cristiani dal rotolo di papiro al codice di pergamena: avvenimento questo di fondamentale importanza per la conservazione e trasmissione del patrimonio culturale classico, anche se i criteri di tale conservazione rispondono a precise scelte culturali del tempo. Nei secoli dell’alto Medio Evo furono le grandi abbazie ad assumere il ruolo di centri di produzione e di diffusione dei manoscritti miniati. Fra questi centri una posizione di particolare importanza spetta all’abbazia di Bobbio, fondata nel 612 dal monaco irlandese san Colombano e dal re Agilulfo, collocata geograficamente
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51. Cividale, tempietto di Santa Maria in Valle, stucchi sulla parete d’ingresso, viii sec.
52. Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco, lapide di Aldo, viii sec.
53. Bobbio, Museo dell’abbazia di San Colombano, lapide di San Cumiano, viii sec.
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54. Parigi, Bibliothèque Nationale, sant’Ambrogio, Hexameron (da Corbie), viii sec.
55. Lichfield, Tesoro della cattedrale, Libro di St. Chad, prima metà viii sec., pagina a tappeto.
56. Amiens, Bibliothèque Municipale, Salterio di Corbie, 800 ca., Beatus vir.
57. Berlino Deutsche Staatsbibliothek, Codice di Egino (da Verona), fine viii sec., San Gregorio.
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in una posizione chiave dell’Appennino fra Pavia e la Liguria, allora ancora bizantina. Quanto ci è rimasto della biblioteca di Bobbio, a quel tempo ricca di 700 codici, testimonia una notevolissima originalità. La grafia è comunque irlandese ed è composta da tipiche iniziali zoomorfe con uccelli e pesci o antropomorfe, oppure da elementi geometrici complicati da intrecci. Il significato originario delle iniziali zoomorfe è ancora oscuro, poiché non è provato che il motivo del pesce sia legato al simbolo eucaristico né è sicura la provenienza tardoarmena di tali iniziali. Il Pächt ritiene che in genere il polimorfismo dell’iniziale miniata può esser visto come un tratto specificamente anticlassico nel panorama artistico medioevale, in quanto proveniente da una dinamica che porta a snaturare ciò che per essenza dovrebbe essere leggibile, appunto l’iniziale. Nell’viii secolo il sistema di trasformare l’iniziale in una composizione di uccelli e di pesci si trasferisce in Francia, a Luxeuil e a Corbie (Hexaemeron, Parigi, Bibliothèque Nationale), centri di grande attività intellettuale e religiosa; così pure dall’Italia longobarda si trasferisce a Luxeuil e a Corbie il motivo decorativo della pagina a frontespizio con un arco e colonne e la grande croce interna. Gli scrivani insulari, cioè irlandesi e inglesi, manifestano sin dall’inizio la tendenza a conferire un’importanza crescente all’iniziale, trasferendola verso la colonna del testo e scrivendo le prime righe della pagina in grandezza decrescente, sino a una grandezza normale. Intorno al 680 nasce il primo di una serie di quattro esemplari dei Vangeli manoscritti di insuperata originalità e bellezza, che portano tradizionalmente il nome delle abbazie alle quali vengono riferiti: il Libro di Durrow (Dublino, Trinity College Library), il Libro di Echternach (Parigi, Bibliothèque Nationale), il Libro di Lindisfarne (Londra, British Library), e quello di Kells (Dublino, Trinity College Library). La struttura dell’iniziale si sviluppa in un incredibile intreccio di ornati curvilinei di antica ascendenza celtica, il cui rapporto con l’oreficeria sassone, ad esempio con i reperti di Sutton Hoo, è evidentissimo. In queste iniziali l’occhio è come catturato in un labirinto decorativo; come scrive acutamente Pächt, «il soffocamento della lettera da parte dei motivi ornamentali, che ricorda i tatuaggi delle popolazioni primitive, l’inesorabile offuscarsi della sua leggibilità, il conflitto tra la funzione razionale della lettera e il valore dell’iniziale come simbolo magico documentano un singolare fenomeno storico: lo scontro e la compenetrazione di due antiche culture, la barbara e la mediterranea e il trionfo, o per lo meno la rinascita di uno stile preistorico applicato ad un oggetto di culto cristiano, il libro dei Vangeli, che era un lascito del cristianesimo classico». Nel Libro di Kells, il monogramma del Cristo «Chi-Ro» (il «XP» greco) è «un accordo musicale di fortissimo che si esaurisce in un graduale diminuendo». In questi esemplari il calligrafo miniatore non si preoccupa della leggibilità ma soprattutto di «dare espressione visiva all’emozione suscitata dal suono mistico dei nomina sacra. Le parole si comportano estaticamente come fossero figure viventi nelle immagini» (Pächt). Nei manoscritti insulari si trovano anche pagine riempite di un fitto schema ornamentale, le cosiddette pagine «a tappeto» (Libro di St. Chad) e le stesse figure degli evangelisti a piena pagina subiscono un radicale processo di riduzione a puro ornamento, poiché le stesse caratteristiche fisiche rispondono a forme ornamentali canoniche: in una parola, la stessa immagine diventa calligrafia e a questo proposito conviene ricordare che scrivano e miniatore erano spesso a quell’epoca una sola persona. La figura umana si irrigidisce in un modello astratto e tuttavia ricco di una singolare potenza rappresentativa. L’iniziale specificamente antropomorfa di origine, come si è detto, bobbiense trova una sua raffinata variante e tardiva rielaborazione in un testo di grande importanza, il Salterio di Corbie dell’800 circa, e quindi cronologicamente di epoca già carolingia. Nei grandi campi formati dalle curve e dalle aste delle iniziali trovano posto intere scene sacre con vivace libertà compositiva, ma anche scene di vita monastica di quotidiano realismo, non privo talora di tocchi umoristici. In terra italiana la vitalità e varietà del libro miniato nell’viii secolo conta almeno due testimonianze: i manoscritti dell’abbazia di Nonantola, le cui iniziali rappresentano una sintesi del nuovo naturalismo e della
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tradizione bobbiense, e i codici della Biblioteca Capitolare di Verona: il grande omiliario, oggi nella Staatsbibliothek di Berlino, appartenuto al vescovo Eginone (769-799) e detto appunto Codice di Egino è un’opera di alto livello e di sorprendente complessità. Oltre alle iniziali ricchissime, quattro miniature a piena pagina raffiguranti Padri della Chiesa hanno lo splendore di una pittura su tavola a fondo oro. La scena, per esempio, di Agostino che detta allo scrivano ha una ricchezza compositiva e un tipo di realismo immediato, che già si salda con la produzione carolingia. Un così grande patrimonio decorativo di bordi, iniziali e in generale della composizione della pagina trapasserà, infatti, nell’imminente stagione carolingia.
Nota Bibliografica Per una trattazione complessiva d’insieme dell’arte di questo periodo in Italia è sempre valida l’opera fondamentale di P. Toesca, Il Medioevo, Torino 1927 [ma 1913-27], ried. Torino 1965, il cui primo volume abbraccia i secoli iv-xi, opera che qui si cita una volta per tutte. Assai utile, specie per la parte della miniatura e delle arti suntuarie e per il suo ricco apparato illustrativo, il volume di J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Europe des invasions, Paris 1967 (trad. it. L’Europa delle invasioni barbariche, Milano 1968), come pure M. Durliat, Dès Barbares à l’An Mil, Paris 1985. Inoltre v. le pagine relative a questo periodo nell’ampio saggio problematico di C. Bertelli, Traccia allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana, in Storia dell’arte italiana, 5, Dal Medioevo al Quattrocento, Torino 1983, pp. 3 e sgg. D’obbligo è infine il rinvio alle voci dell’Enciclopedia dell’arte medievale, voll. i e sgg., Roma 1992 e sgg. Moltissimo materiale utile è contenuto negli «Atti» delle Settimane e dei Convegni organizzati dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto (dal 1951 in poi). Per l’arte longobarda in Italia v. il catalogo della mostra di Cividale-Passariano I Longobardi, Milano 1990, con aggiornamento bibliografico. Di fondamentale importanza per l’impostazione problematica dell’arte in Italia in questi secoli è il saggio di H. Belting, Probleme der Kunstgeschichte Italiens im Frühmittelalter, in «Frühmittelalterliche Studien», 1, 1967, pp. 94-143; un’utile sintesi è quella di A. Peroni, L’arte nell’età longobarda. Una traccia, in Magistra Barbaritas, Milano 1984, pp. 229 sgg. Sull’area lombarda v. in particolare A. Peroni, Pavia capitale longobarda. Testimonianze archeologiche e manufatti artistici, in I Longobardi e la Lombardia. Saggi, Milano 1978, e il catalogo della mostra San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo i, Brescia 1978, 2 voll. (da integrare con gli atti del convegno S. Giulia di Brescia, Brescia 1992). Spunti felici in particolare sui problemi della committenza sono contenuti nei saggi di M. Cagiano de Azevedo raccolti in due volumi: Cultura e tecnica artistica nella Tarda antichità e nell’Alto Medioevo, a cura di S. Lusuardi Siena e M.P. Rossignani, Milano 1986; Casa, città e campagna nel Tardo antico e nell’Alto Medioevo, a cura di C.D. Fonseca, D. Adamesteanu, F. D’Andria, Galatina 1986. Sempre attenta al rapporto tra Occidente medievale e Oriente è la ricerca di G. De Francovich, i cui studi principali sono riuniti nel volume Persia, Siria e Bisanzio nel Medioevo artistico europeo, a cura di V. Pace, Napoli 1984. Sulla pittura beneventana v. H. Belting, Studien zur beneventanischen Malerei, in «Forschungen zur Kunstgeschichte… der Universität Mainz», Wiesbaden 1968, pp. 3 e sgg., 137 e sgg. Il tesoro di Monza è stato riconsiderato da M. Frazer, in Il Duomo di Monza, vol. ii, I tesori, Milano 1990. Per la miniatura celtica v. J.J. Alexander, Insular manuscripts from the 6th to the 9th Century, Oxford 1978. Una trattazione problematica d’insieme di grande efficacia sulla miniatura medioevale è costituita dall’opera di O. Pächt, Buchmalerei des Mittelalters, Eine Einführung, München 1984 (trad. it. La miniatura medievale. Una introduzione, presentazione di J.J. Alexander, Torino 1987), cui si rinvia anche per i periodi successivi. Metodologicamente aggiornato è il manuale di J.J.G. Alexander, Medieval Illuminators and their Methods of Work, London-New Haven 1993. Sulla produzione artistica del monastero di Bobbio cfr. i contributi di M. Tosi e R. Cassanelli, in Storia di Piacenza, vol. i/1, Piacenza 1990.
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Tav. 1. Roma, Palazzo dei Conservatori, testa colossale di Costantino i. Tav. 2. Roma, Santa Maria Maggiore, mosaici dell’arcone centrale, 430-440 ca.
Tav. 15. Wolfenbüttel, Niedersächisches Staatsarchiv, diploma di matrimonio della principessa Teofano e di Ottone ii (6 Urk 11), 972.
Tav. 3. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia, braccio settentrionale con il mosaico del Buon Pastore, 424-450.
Tav. 16. Cividale, Museo Archeologico Nazionale, Salterio di Egberto, 980, c. 20v, David.
Tav. 4. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia, 424-450, veduta della cupola. Tav. 5. Ravenna, San Vitale, La corte di Teodora, particolare, 540-547 ca.
Tav. 18. Bamberga, Staatsbibliothek, msc. bibl. 140, Apocalisse, 1020 ca., c. 46r, L’Angelo con la pietra molare.
Tav. 6. Ravenna, San Vitale, Abramo e i tre angeli e Sacrificio di Isacco, parete settentrionale del presbiterio.
Tav. 19. Bamberga, Diözesanmuseum, mantello di consacrazione di Enrico ii, 1020 ca.
Tav. 7. Monza, Tesoro del Duomo, legatura dell’Evangeliario di Teodolinda, inizio vii sec.
Tav. 20. Léon, cattedrale, cod. 6, Bibbia del 920, c. 209r, Incipit del Vangelo secondo san Marco.
Tav. 8. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum, fibula in forma di aquila, seconda metà v-vi sec.
Tav. 21. Monaco, Residenz Schatzkammer, Croce della regina Gisela d’Ungheria, 1006 ca.
Tav. 9. Lichfield, Tesoro della cattedrale, Libro di St. Chad, prima metà viii sec., San Luca.
Tav. 23. Parigi, Musée de Cluny, antependium di Basilea, 1019 ca.
Tav. 10. Londra, British Library, Cotton Nero Div, Libro di Lindisfarne, fine vii sec., Chi-ro. Tav. 11. Parigi, Bibliothèque Nationale, Vangeli di Echternach, 710 ca., Leone simbolo di San Marco.
Tav. 24. Aquisgrana, Tesoro della cattedrale, secchiello liturgico, intorno al 1000; Milano, tesoro del Duomo, situla di Gotofredo, 980 ca.; Londra, Victoria and Albert Museum, situla Basilewski, tardo x sec.
Tav. 12. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Vangeli dell’Incoronazione, fine viii-inizio ix sec., San Matteo.
Tav. 25. Bonanno Pisano, porta di San Ranieri, Pisa, cattedrale, 1180 ca., particolare, Fuga in Egitto.
Tav. 13. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 1, Prima Bibbia di Carlo il Calvo, 846 ca., David danza e suona il salterio.
Tav. 26. Roma, Museo di Palazzo Venezia, Madonna col Bambino, prima metà xiii sec.
Tav. 14. Milano, Sant’Ambrogio, altare d’oro, faccia anteriore, Cristo in Maestà.
Tav. 28. Venezia, San Marco, ricostruita nella seconda metà del xii sec., interno.
Tav. 17. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24, Codex Egberti, 983 ca., c. 9v, Annunciazione.
Tav. 22. Hildesheim, San Michele, colonna trionfale di Bernoardo, particolare, Scene bibliche.
Tav. 27. Volterra, cattedrale, Deposizione, prima metà xiii sec.
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Capitolo terzo
L’ARTE CAROLINGIA E LA NASCITA DELL’ARTE MEDIOEVALE NELL’OCCIDENTE EUROPEO
La vittoria dei Franchi sugli eserciti arabi a Poitiers nel 732, segnando l’arresto di una pericolosa avanzata che minacciava di sommergere l’Occidente, aveva contribuito a conferire ai Franchi quasi l’alone di nuovo popolo di Dio e a Carlo Magno quello di un novello Davide, l’unto del Signore. L’incoronazione solenne a imperatore, avvenuta nell’800 per mano del pontefice Leone iii, era destinata a dare un sacro avallo alle sue imprese; d’altra parte suggellava il potere temporale con un’autorità spirituale, ponendo così le premesse di uno storico conflitto destinato a dominare tutte le vicende politiche medioevali. È significativo che non pochi studiosi facciano coincidere l’inizio della storia dell’arte medioevale, anziché con la caduta dell’Impero Romano o con l’editto di Costantino nel 313, con la nascita del Sacro Romano Impero nell’800. Si è ritenuto infatti che con questo avvenimento, volto a rifondare l’antica «pax romana», «faceva in realtà il suo ingresso quasi furtivo nella storia il concetto di una giovane Europa» (Beckwith). Alla fine dell’viii secolo l’antico costume migratorio di continua spinta verso ovest viene a cessare e Carlo Magno fissa ad Aquisgrana la residenza permanente della propria corte. Il suo palazzo, chiamato «Laterano», a ricordo del palazzo regalato da Costantino alla Chiesa, era arricchito nel cortile da una statua equestre forse di Teodorico, proveniente da Ravenna, a imitazione della statua di Marco Aurelio allora in Laterano e ritenuta di Costantino, mentre nel vestibolo del palazzo l’immagine di una lupa ricordava quella capitolina. La planimetria del palazzo, caratterizzata da una serie di ordinate misure e proporzioni, è stata individuata solo in tempi recenti. La cappella del palazzo, progettata da Oddone di Metz e consacrata da Leone iii nell’803, è l’unica parte largamente intatta di tutto il complesso originario. Al centro della facciata la cappella presenta una profonda nicchia che ricorda quella del palazzo dell’Esarcato a Ravenna; il materiale di costruzione era ricavato in parte da monumenti antichi e in parte era trasferito da Ravenna. La pianta ottagonale, coperta da cupola e con al centro un perimetro di colonne, ricorda quella della basilica di San Vitale, ma la pesantezza delle strutture portanti ne modifica profondamente l’estetica: massicci pilastri reggono pesanti gallerie a volta e conferiscono alla costruzione un gusto tipicamente medioevale, opposto alla leggerezza pittorica ravennate. Infine il profondo corridoio d’ingresso, fiancheggiato da scale a chiocciola, richiama la tipica soluzione del «Westwerk» carolingio. All’interno della cappella il messaggio del potere imperiale era fortemente evidenziato: come già nel Crysotriclinion di Costantinopoli, infatti, la galleria sottostante la cupola era ornata di mosaici raffiguranti il Cristo apocalittico in trono e ospitava il trono di Carlo Magno, con un significato che non lasciava dubbi sulla concezione sacrale del potere imperiale. Nelle regioni settentrionali della Francia e in quelle occidentali della Germania nascono nel giro di pochi decenni imponenti monasteri, di cui sono sopravvissuti pochissimi resti. Tuttavia quanto i documenti Tav. 28 83
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ci tramandano è sufficiente ad avere un’idea di quella che dovette essere un’imponente attività costruttiva, rivolta principalmente alla creazione di potenti complessi abbaziali, uno degli aspetti più importanti del feudalesimo nascente. È significativo, per esempio, che l’abbazia di Centula, oggi Saint-Riquier, vicino ad Abbeville, sia del tutto contemporanea alla costruzione del palazzo di Aquisgrana, perché conferma i profondi legami che intercorrono tra l’organizzazione del potere profano e quello religioso. Il grandioso complesso di Centula, paragonabile per l’estensione e per il numero dei monaci a quello della potente abbazia di Cluny, sorse come istituzione di Stato sotto l’abate Angilberto, soprannominato «Omero» nei circoli di corte, e fu condotto a termine in tempi assai brevi sotto il diretto patrocinio di Carlo Magno. Come per il palazzo di Aquisgrana, furono usate per la sua costruzione colonne e modanature portate dall’Italia senza risparmio di spesa. Da un disegno precedente la sua distruzione risulta che la chiesa era costruita «romano opere», cioè con planimetria basilicale e che presentava ad ovest un secondo transetto affiancato da torri ottagonali – il «Westwerk» appunto – a sua volta preceduto da un vestibolo coperto da volte che s’affacciava all’esterno con ampie arcate sovrapposte e retrocesse in altezza. Altrettanto grandiosa, nella Germania occidentale,
58. Corvey, abbazia, ix sec., facciata.
59. San Gallo, Stiftsbibliothek, planimetria dell’abbazia di San Gallo, prima dell’829.
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60. Aquisgrana, cappella Palatina, consacrata nell’805, interno.
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doveva essere la chiesa abbaziale di Corvey, fondata nell’822; la sua facciata testimonia ancora oggi la straordinaria spinta verticale di queste architetture carolinge. La biblioteca del monastero di San Gallo, in Svizzera, conserva un documento di grande interesse: il disegno eseguito su cinque pezzi di pergamena cuciti che raffigura la planimetria di un complesso monastico ideale, inviato all’abate di San Gallo Gozberto prima dell’829. Dal disegno si ricava non solo la tipica planimetria delle chiese abbaziali carolinge a doppia abside, ma la grandiosa immagine dell’enorme numero di edifici che formavano un’abbazia, comprendente le abitazioni per i monaci, le foresterie di varia destinazione, i laboratori, le abitazioni dei servi: un organismo perfettamente autosufficiente entro un perimetro di oltre 230 metri di lato. Al pari della chiesa di Centula, anche la chiesa abbaziale di Saint-Denis, presso Parigi, era a pianta basilicale e presentava nella facciata uno dei più precoci esempi di «Westwerk». Sede delle tombe dei sovrani franchi e di preziose reliquie, Saint-Denis sarà destinata a rivestire un’importanza maggiore della stessa cappella palatina di Aquisgrana e a diventare meta di pellegrinaggi; gli abati che la reggevano avevano posizioni di grande prestigio come consiglieri e diplomatici del re. Se la distruzione di questi grandiosi complessi o la loro pesante trasformazione ci permette a stento di intuire la straordinaria spinta costruttiva impressa da Carlo Magno nel corso del suo regno, ancora più tenue è l’idea che ci possiamo fare della decorazione pittorica o musiva delle chiese carolinge, sui pochissimi esemplari giunti fino a noi. Fra questi alcuni affreschi della cripta di Saint-Germain ad Auxerre, consacrata nell’865, raffigurano Scene della vita di santo Stefano con una forza dinamica di contorni e con un’immediata vivacità pittorica che ricorda la pittura romana tardoantica. L’oratorio di Germigny-des-Près, fatto costruire sul modello della cappella di Aquisgrana da Teodulfo, uno dei personaggi più illustri della corte di Carlo Magno, soprannominato Pindaro, è ornato da un mosaico di fattura elegante e delicata, che richiama esemplari costantinopolitani di classe. Il mosaico raffigura l’Arca dell’Alleanza vegliata da angeli; l’accuratezza dei particolari iconografici e l’iscrizione sottostante, che precisa la committenza di Teodulfo, hanno fatto avanzare l’ipotesi che tutto il mosaico rifletta con molta precisione un capitolo dei Libri Carolini.
umanistico, e non solo una moda transitoria della cultura classica, una «renovatio» che si espresse in una serie di grandi impulsi artistici, amministrativi e liturgici. Certo non si potrebbe concepire capovolgimento più radicale di posizioni di quella di un Alcuino di York, che poneva in testa al «curriculum» degli studi la grammatica, la retorica e la legge, in confronto a un san Gerolamo, che all’inizio del v secolo temeva il contatto con i testi classici per la salvezza della sua anima. Uno dei compiti maggiori di questa élite intellettuale di corte fu l’accrescimento del patrimonio librario e di pari passo la sua correttezza filologica. Anche la scrittura fu riformata e resa nitida, abolendo quindi le fantasiose trasformazioni introdotte dalla miniatura irlandese e adottando la «scrittura carolina» minuscola derivata dalla scrittura romana minuscola, che fu adottata in seguito dagli umanisti del Quattrocento. All’origine di questo sforzo di redazione di nuovi codici sta anche la costruzione di nuove chiese e di grandi abbazie che richiedevano un numero crescente di testi liturgici – i più numerosi della produzione carolingia – evangeliari, salteri, bibbie e sacramentari (libri contenenti le formule recitate dal sacerdote durante le celebrazioni liturgiche). Fra il 784 e il 791 furono chiesti a papa Adriano una copia delle leggi ecclesiastiche e un sacramentario autentico di Gregorio Magno, che fu dato come modello alle chiese franche; le copie di questo modello recavano l’autentica papale; questa preoccupazione di autenticità riassume in certo modo lo spirito della riforma culturale carolingia. Le prime bibbie carolinge recano immagini solo nelle pagine iniziali mentre altre illustrazioni a bande figurate si possono considerare alla pari di estratti iconografici di più vasti cicli pittorici. Né va sottovalutato il fatto che i frequenti viaggi
Il ruolo-guida delle arti decorative: miniatura, avori, oreficerie Già abbiamo accennato al fatto che la scarsità delle opere pittoriche di quest’epoca giunte fino a noi, rende ancora più prezioso il ricco patrimonio di opere miniate, che rappresenta il contributo più importante della civiltà carolingia alla cultura europea dell’alto Medio Evo. All’origine della vasta produzione di manoscritti carolingi si intrecciano motivazioni culturali, politiche e religiose: esse muovono dalla fondamentale intuizione di Carlo Magno stesso o della sua corte che l’autorità della Chiesa fosse strettamente legata al livello culturale del clero e, d’altra parte, che non esistesse cultura che non fosse direttamente o indirettamente debitrice alla cultura classica. Di qui la necessità di operare sul patrimonio letterario e religioso trasmesso dai secoli una severa operazione di emendamento filologico che eliminasse la corruzione dei testi. Fu probabilmente di Carlo Magno stesso l’intuizione che una riforma culturale del genere implicasse anche un aspetto politico, perché direttamente collegata con una classe di governo, consiglieri, diplomatici, grandi abati e vescovi, che doveva essere in grado di amministrare e di legiferare in modo chiaro e corretto. E fu certamente merito di Carlo Magno aver chiamato a realizzare questo imponente programma culturale i migliori ingegni e dotti maestri da vari paesi, come l’anglosassone Alcuino di York o l’italiano Pietro da Pisa. Quella che i contemporanei chiamarono «renovatio» fu un reale rinnovamento, quasi un precedente del movimento
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61. Epernay, Bibliothèque Municipale, Vangeli di Ebbone, entro l’823, San Matteo.
62. Parigi, Bibliothèque Nationale, Prima Bibbia di Carlo il Calvo, Il conte Viviano offre la Bibbia a Carlo il Calvo.
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a Roma dei dotti ecclesiastici dell’impero dovevano fornire spunti e aggiornamenti continui in tema di decorazione pittorica. L’Evangeliario di Godescalco della scuola palatina di Aquisgrana, commissionato allo scriba Godelscalco per commemorare la visita di Carlo Magno a Roma nella Pasqua del 781 e il battesimo del figlio Pipino per mano del papa, è scritto a lettere d’oro e d’argento a significare lo splendore del cielo, su un vello porporino che qualificava la committenza imperiale. Il codice è però ancora lontano dall’eccellenza stilistica raggiunta dalla miniatura nei decenni successivi, quando appunto Aquisgrana divenne sede di un circolo culturale eccellente e probabilmente di uno «scriptorium». A miniatori di corte si deve attribuire una prima serie di manoscritti di alta qualità, classificati un tempo sotto il nome di «Ada», perché uno di essi, un Vangelo di Treviri, contiene un poema che si riferisce a una «mater Ada ancilla Dei», supposta sorella di Carlo Magno, in realtà nome assai comune all’epoca in quei territori. Di questo gruppo, eseguito prima della morte di Carlo Magno nell’814, fanno parte i Vangeli della British Library (Harley Ms. 2788), i Vangeli di Saint-Médard a Soissons (Parigi, Bibliothèque Nationale) e i Vangeli di Saint-Riquier (Abbeville, Bibliothèque Municipale). Tutti questi codici presentano gli evangelisti a piena pagina ritratti in atto di scrivere. Una complessa ambientazione architettonica, largamente ispirata a modelli antichi, accomuna queste immagini, come pure la sottile e intensa animazione dei gesti di questi personaggi. Si veda, per esempio, nel manoscritto londinese, la figura di san Marco entro un’abside marmorea multicolore, vegliato dal leone con un codice tra le zampe, in atto di intingere la penna nel calamaio collocato su un alto leggio con una curiosa mossa stravolta. Caratterizza questo gruppo di codici un colorismo piuttosto piatto e sommesso con accostamenti raffinati di verdi, turchini e rosa. Un secondo gruppo di codici, tra cui i celebri Vangeli dell’Incoronazione, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, presenta invece una forte ripresa della più aristocratica e antica tradizione, quella che il Kitzinger chiama «l’eterno Ellenismo». I Vangeli dell’Incoronazione, così chiamati perché trovati, secondo una tradizione, durante una ricognizione ordinata da Ottone iii nella tomba di Carlo Magno nel Mille, presentano anch’essi quattro fogli dedicati alle figure degli evangelisti, come nel gruppo precedente. I particolari ornamentali, come la ricca cornice a fogliame, le iniziali e altri caratteri codicologici inducono a datare questo gruppo agli stessi anni del gruppo di codici detti di «Ada» e cioè tra la fine dell’viii e l’inizio del ix secolo. Qui però la figura è collocata all’aria aperta su uno sfondo di paesaggio definito con pennellate vivacemente sommarie. Gli evangelisti sono intenti, come sempre, a scrivere; in particolare san Marco, vestito di una classica toga, la testa dai corti capelli secondo la moda classica, stagliata contro l’ampissima aureola, vuole apparire assai più un personaggio classico, un retore, che non un personaggio specificamente cristiano; e anche la trattazione a larghe pennellate è di gusto classicamente «compendiario». Un quarto di secolo più tardi, e precisamente entro l’823, l’arcivescovo Ebbone di Reims riprende il tema di questo gruppo di Vangeli, ma li traduce in senso non più classico, bensì medioevale. Il codice redatto da un certo Pietro, abate del monastero di Hautvilliers vicino a Reims (Epernay, Bibliothèque de la Ville), riprende il tema dell’evangelista entro un paesaggio in atto di redigere il suo Vangelo, ma la definizione delle figure e dello sfondo è affidata interamente a una linea sussultante e ripetitiva secondo un gusto visionario destinato a una larga fortuna nei territori anglosassoni del x e xi secolo. La stretta corrispondenza tra questo stile e quello di un altro assoluto capolavoro carolingio, il Salterio di Utrecht (Utrecht, Biblioteca dell’Università), induce ad attribuire anche questo codice al terzo decennio del ix secolo e alla stessa scuola di Reims. L’eccezionalità del Salterio di Utrecht sta innanzitutto nella sua completezza, poiché esso contiene tutti i 150 salmi del salterio e inoltre il Credo Apostolico e il Padre Nostro. Anche il testo è insolitamente redatto, come nei codici antichi, su tre colonne e con un inchiostro rosso bruno; a inchiostro su pergamena non colorata sono tutti i disegni in testa alla pagina. Il carattere straordi-
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63. Utrecht, Biblioteca Universitaria, ms. 32, Salterio, terzo decennio del ix sec., c. 6v, Salmo xi.
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nario di questi disegni risiede nella fantastica sequenza di immagini che traducono passo a passo il testo del Salmo, utilizzando fedelmente tutte le metafore di cui si serve il salmista nel suo linguaggio poetico. Così, per esempio, quando il salmista nel Salmo 68 invoca l’aiuto divino perché «l’acqua mi giunge alla gola», il copista raffigurerà realisticamente un naufrago, mentre il Signore incarica uno scrivano di cancellarne il nome dall’elenco dei vivi, come allude il versetto seguente. O ancora: nel Salmo 11 il versetto «gli empi muovono in cerchio», cioè senza soste, è reso con un gruppo di persone che ruotano intorno a un piatto rotondo. Quando il salmista (Salmo 43) invoca il Signore con le parole: «Svegliati, perché dormi?», si vede un sontuoso letto a baldacchino in cui Dio è sdraiato. E la pagina del Credo Apostolico illustra con ricchezza di particolari, di evidente sapore storico, un concilio di vescovi con segretari e scrivani. Una simile, travolgente fantasia si esprime con una velocità quasi stenografica di segno, che non esita a ripetere identiche «silhouettes» dinoccolate con ritmi velocissimi, in una spazialità visionaria, senza cornici, né ordine di lettura, né pause divisorie. Questo stile narrativo così peculiare verrà tradotto in altre tecniche, e soprattutto negli avori di una serie di coperte di libri liturgici dell’epoca di Carlo il Calvo, in registri narrativi più compatti ma con lo stesso estro visionario e lo stesso dinamismo nelle figure dinoccolate. Con Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno, che regna tra l’840 e l’877, l’arte carolingia sprigiona il suo più alto e ultimo splendore. Mecenate appassionato, Carlo il Calvo lega il suo nome a una serie di capolavori miniati negli «scriptoria» di Corte, distribuiti a Reims, Tours, Metz e Saint-Denis, nonché a splendidi oggetti di oreficeria. L’imperatore si era assicurato l’artista più prestigioso del tempo, che il Porcher ha denominato “il Remsese”, riconoscendo la sua mano in un gruppo di codici miniati con uno stile rapido e fantasioso, ricco di geniali invenzioni ed erede delle più colte tradizioni del passato. Da uno «scriptorium» di corte esce per esempio il Sacramentario detto dell’Incoronazione (Parigi, Bibliothèque Nationale), forse redatto in occasione dell’incoronazione di Carlo a re di Lotaringia, avvenuta a Metz nell’869. Un foglio tra i più belli di questo codice raffigura un principe, incoronato dalla mano divina, tra due ecclesiastici. Le figure sono dipinte con eleganza di colori sfumati e sovrapposti che s’addicono all’atmosfera raffinatamente aristocratica cui è improntato tutto il codice. Dalla scuola di Tours usciranno bibbie a un solo volume destinate a restare esemplari per tutto il Medio Evo; le loro miniature, peraltro non numerose, recano gli echi di antichi prototipi. Nella Bibbia del Conte Viviano, nota anche con il nome di Prima Bibbia di Carlo il Calvo (Parigi, Bibliothèque Nationale), il numero delle illustrazioni appare raddoppiato e la qualità stilistica si fa altissima. Nel foglio iniziale è raffigurato Carlo il Calvo in trono circondato da dignitari in atto di ricevere l’omaggio della Bibbia dalle mani dell’abate, conte Viviano, in presenza di altri monaci; una scena di grande eleganza e al tempo stesso di sapore acutamente storico anche per la precisa osservazione di costumi. Nella stessa Bibbia è da citare un’altra splendida pagina, di sapore classico: vi è rappresentato al centro Davide che danza e suona accompagnato da quattro musici, due guardie del corpo e ai quattro angoli le quattro virtù imperiali, Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperanza. La raffinatezza della cultura imperiale della corte carolingia in questo periodo si esprime bene anche in un foglio dei Vangeli di Lotario (Parigi, Bibliothèque Nationale) nel quale è raffigurato il ritratto dell’imperatore dai lunghi baffi sottili alla moda dei Franchi, la figura elegantemente drappeggiata in una tunica lumeggiata d’oro. Altri codici, usciti come questo dalla scuola di Tours, presentano veri e propri recuperi di tecniche antiche trasposte in pittura, come la tecnica della foglia d’oro su vetro; ad essa si richiama, per esempio, il Sacramentario di Marmoutier (Autun, Bibliothèque de la Ville) nella curiosa pagina che raffigura l’omaggio del popolo all’abate di Marmoutier, Raganaldo, in un medaglione centrale circondato da quattro tondi con le Virtù. Caratteri del tutto insoliti presenta anche lo splendido Sacramentario di Drogone (Parigi,
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64. Parigi, Bibliothèque Nationale, Sacramentario dell’Incoronazione, 870 ca.
65. Parigi, Bibliothèque Nationale, Vangeli di Lotario, 849-851 ca., Lotario in trono.
66. Parigi, Bibliothèque Nationale, Sacramentario di Drogone, 850 ca., iniziale “D”.
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Bibliothèque Nationale), commissionato dall’arcivescovo di Metz, Drogone, figlio illegittimo di Carlo Magno e cappellano di Lotario. Il sacramentario presenta grandi iniziali in forma di classici racemi d’acanto dorati, all’interno dei quali si dispongono piccole scene evangeliche, schizzate con freschi colori acquerellati. Chiudiamo questa breve rassegna di codici carolingi con l’esemplare più fulgido e lussuoso, il famoso Codex Aureus di St. Emmeram (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek), ancora una volta legato alla committenza di Carlo il Calvo. A favore di una provenienza del codice dallo «scriptorium» di St-Denis deporrebbe l’uso dovizioso dell’oro, che giustifica il nome attribuitogli. Questo impiego profuso dell’oro è stato messo in relazione con gli scritti dello Pseudo-Dionigi, tradotti in latino a St-Denis sotto l’abate Hilduino tra l’832 e l’835 e poi da Scoto Eriugena tra l’833 e l’858, per incarico appunto di Carlo il Calvo e destinati a larga fortuna nel pensiero medioevale per la metafisica della luce di matrice plotiniana. Il foglio più noto del Codice di St. Emmeram raffigura la scena Agnello apocalittico osannato dai ventiquattro anziani, scena resa con un’audacia pittorica forse senza precedenti per gli accostamenti di toni aranciati e rosati sullo sfondo turchino, per il dinamismo lineare delle figure, che concorre con la dilagante luminosità dell’oro a conferire alla pagina una sorta di vibrazione dinamica. Certamente sotto Carlo il Calvo la produzione di codici miniati dovette andare di pari passo con una serie di lussuosi «ornamenta Ecclesiae», di oggetti cioè destinati ad arricchire la Chiesa: calici, croci, corone votive, tutto un patrimonio di oreficeria giunto a noi purtroppo gravemente depauperato. Per l’abbazia di
68. New York, Pierpont Morgan Library, seconda coperta dell’Evangeliario di Lindau, 870 ca.
67. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, coperta dell’Evangeliario dell’abbazia di Lorsch, 810 ca.
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St-Denis, alla quale Carlo era devotissimo, furono commissionati oggetti di inestimabile valore: la grande croce d’altare alta due metri, tempestata di perle e di gemme, e l’altare d’oro con bordi di smalti, opere entrambe perdute ma a noi note attraverso un dipinto del xv secolo raffigurante la Messa di St. Gilles (Londra, National Gallery). Perduto è anche un reliquiario di eccezionale fattura, detto Escrain de Charlemagne, a forma di grande portico con gemme e perle, che noi conosciamo da un acquerello del xviii secolo dipinto prima della sua distruzione durante la Rivoluzione francese. Tra gli «ornamenta Ecclesiae» carolingi un posto particolare spetta ai doviziosi lavori in avorio, in genere coperte di libri liturgici. Alcuni di essi, eseguiti nei primi anni dell’800, come la coperta dell’Evangeliario dell’abbazia di Lorsch (Roma, Biblioteca Vaticana) dimostrano ancora una volta come l’arte carolingia ami ispirarsi al passato. Ai dittici del v secolo arieggia per esempio il dittico di Aerobindo (Parigi, Louvre) con la singolarissima scena di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre colmo di animali; e il magnifico flabello di Saint-Philibert di Tournus (Firenze, Museo del Bargello) di un sapore squisitamente antico nelle scene che raffigurano le sei Egloghe di Virgilio. Alcune coperte di codici del tempo di Carlo il Calvo particolarmente ricche hanno ampie cornici di gemme e filigrane intorno al pannello centrale in avorio; questi pannelli, adottano, come si è detto, lo stile
69. Monaco, Residenz Schatzkammer, altare portatile di Arnulfo, 870 ca.
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70. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, flabello di St-Philibert de Tournus, metà del ix sec.
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concitato e guizzante del Salterio di Utrecht, colmando l’esiguo spazio con più episodi biblici, con un’abilità tecnica sorprendente che libera completamente le figure dal fondo. Altri codici hanno coperte di pura oreficeria: tra i pochi e preziosissimi esemplari rimastici vi è la seconda coperta del Codex Aureus di Lindau (New York, Pierpont Morgan Library) dell’870 circa, dove esili figure guizzano nei quattro campi formati dalla croce centrale. Infine un rarissimo pezzo di oreficeria è rappresentato dall’altare portatile di Arnulfo, databile anch’esso intorno all’870 (Monaco, Residenz-Schatzkammer), che agli angoli degli archi e del timpano ospita scene sbalzate in oro della vita di Cristo, di uno stile animato e nervoso, con un linearismo sapiente che preannuncia soluzioni stilistiche più tarde.
La «Langobardia» carolingia
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La vittoria di Carlo Magno sui Longobardi nel 774, con l’assedio di Pavia, segna la fine della «Langobardia major» e insieme lo spostamento culturale del territorio lombardo in area transalpina e cioè entro il più vasto contesto europeo. La stretta continuità storica degli ultimi eventi artistici longobardi e di quelli carolingi rende talvolta problematica l’assegnazione di opere all’uno o all’altro periodo. I frequenti viaggi di Carlo Magno e della sua corte a Roma spiegano la presenza di chiese e monasteri lungo i passi alpini, punti di sosta quasi obbligati nei viaggi tra nord e sud. È il caso della piccola chiesa di San Benedetto a Malles, al passo di Resia: la struttura architettonica semplicissima presenta tre piccole absidi simili ad altissime nicchie decorate ad affresco, probabilmente prima dell’880. Spiccano soprattutto per un inedito sapore realistico due personaggi ai lati dell’abside centrale, con aureola quadrata, che li identifica come donatori e persone viventi, l’uno con la barba e i baffi alla maniera franca e con la spada, il secondo un ecclesiastico in atto di offrire il modello della chiesa. Assai più importanti e oggetto di molteplici studi e rinnovati interventi di restauro sono gli affreschi della chiesa di San Giovanni a Müstair, nei Grigioni, pochi chilometri a sud del passo di Resia, in una regione strategica, la Rezia, tra Coira, San Gallo e la Baviera. La Rezia, di cui facevano parte sia Malles sia Müstair, era stata ceduta dopo l’829 all’Alemagna. La difficile lettura stilistica di questo importante ciclo d’affreschi
71. Müstair, San Giovanni, Guarigione dell’emorroissa, 829-840 ca.
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è legata alle vicissitudini subite: un primo tentativo di strappo degli affreschi di epoca carolingia, sopra i quali erano stati dipinti altri affreschi nel xii secolo, diede risultati in gran parte negativi. Gli affreschi strappati ed esposti nel Landesmuseum di Zurigo, come pure quelli ancora parzialmente visibili a Müstair, furono oggetto di successivi interventi di restauro. L’eccezionale importanza del ciclo risulta anzitutto dalla sua vastità, che comprende quasi un centinaio di scene con Storie di Cristo e di David, collocate lungo le pareti della chiesa in registri sovrapposti con una distribuzione accuratissima e con rigore di collegamenti allegorici. Una cornice di fiori e di foglie a ghirlande intrecciate inquadra le scene; la tecnica pittorica mista, a fresco e a secco secondo un procedimento di tipo bizantino, fa uso di una gamma pittorica ristretta, dove predominano il giallo, l’ocra, l’azzurro pallido e il grigio, accompagnati da lumeggiature continue o frazionate a «fila di perle»; questo tipo di lumeggiature è il mezzo espressivo per eccellenza dell’ignoto artista e dei suoi collaboratori. La datazione delle pitture di Müstair trova una sua convincente collocazione tra la dieta di Worms (829) e la morte di Ludovico il Pio (840) perché le vicende carolinge di quegli anni toccavano in modo speciale la Rezia e la diocesi di Coira. Ben diverso dallo stile di Müstair è quello dei celebri affreschi della chiesetta di Santa Maria di Castelseprio. Dalla loro scoperta fortuita nel 1944 essi non hanno cessato di rappresentare uno dei più affascinanti enigmi sia per la loro cronologia sia soprattutto per il loro stile. Ricerche recenti hanno chiarito che la chiesa di Santa Maria di Castelseprio non era né sede vescovile «foris portas», come invece era stato supposto, né
72. Malles, San Benedetto, Donatore, inizio ix sec., particolare degli affreschi.
73. Castelseprio, Santa Maria foris portas, Storie dell’Infanzia di Cristo, particolare.
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sede di monastero ma doveva appartenere al conte Leone di Seprio, che nell’823-24 divenne conte di Milano. A Leone succedette nel 844 il figlio Giovanni, che risulta in rapporto con il vescovo Angilberto e con la corte di Ludovico il Pio e quindi partecipe dell’onda culturale ellenofila di questi. Il conte Giovanni di Seprio potrebbe essere appunto colui che aveva fatto erigere una fortificazione intorno alla chiesa e decorare la chiesa stessa. Gli affreschi, infatti, risultano dipinti in un tempo successivo alla costruzione dell’edificio, eretto con ciottoli di fiume, con una pianta ad aula unica triconca. Gli affreschi, giunti incompleti fino a noi, si stendono su due registri nella parte absidale e raffigurano le Storie dell’infanzia di Cristo, comprendendovi almeno una scena tratta da vangeli apocrifi. Accanto agli insistenti riferimenti all’incarnazione di Cristo, impliciti nel tema stesso, vi sono quelli relativi alla sua natura divina, come il Cristo pantocratore al centro e la visione simbolica della croce in trono adorata da angeli. Lo stile degli affreschi è altissimo e fa di questo ciclo la testimonianza pittorica più importante di tutto l’alto Medioevo. La tavolozza dove predominano ocra e azzurro è raffinata, le tinte sono accostate e sovrapposte con straordinaria sicurezza e le figure sono delineate con audace rapidità, muovendosi entro uno spazio suggerito con geniale sicurezza. I personaggi appaiono quasi reinventati nella loro iconografia, pervasi di mistico ardore ma anche di sottile malinconia. Nonostante sia impossibile definire con sicurezza la provenienza del maestro di Castelseprio, la sua cultura è certamente di estrazione orientale; ma è probabile che si tratti di un maestro lombardo (un’indicazione in questo senso verrebbe da certe iscrizioni greche tradotte imperfettamente in latino), il quale poteva avere attinto questa cultura orientale a Costantinopoli o altrove, seguendo la tendenza antichizzante della cultura carolingia. Del resto, nella stessa Lombardia erano sotto gli occhi di tutti nobilissimi esempi di cultura tardoantica, come i mosaici di Sant’Aquilino presso San Lorenzo e di San Vittore in Ciel d’Oro presso Sant’Ambrogio. D’altra parte ancora, gli affreschi di Castelseprio non appaiono più alla luce di studi recenti un caso enigmaticamente isolato. Gli affreschi frammentari della metà del secolo viii e le splendide sinopie della chiesa di San Salvatore a Brescia con Storie di Maria e di Cristo sembrano ormai sicuramente collegabili con gli affreschi di Castelseprio, di cui anzi riecheggiano in tono appena minore alcuni temi, come L’Adorazione dei pastori. Mentre Pavia viene confermata capitale dell’impero di Carlo Magno, che si proclama re dei Longobardi, Milano intraprende una serie di interventi artistici gravitanti intorno al culto di sant’Ambrogio, in armonia con quanto avveniva per il culto dei santi in altre città, a Pavia stessa con il trasporto della salma di sant’Agostino e a Venezia con quello di san Marco. Per volere di Carlo Magno viene istituito in Sant’Ambrogio un monastero di patrocinio imperiale e viene decisa la riunione dei corpi di Ambrogio, Gervasio e Protasio in un’unica tomba, sopra alla quale fosse collocato un nuovo altare, quello appunto noto con il nome di altare d’oro. La tomba si trovava, come si è detto, nella “confessione” sottostante ed era visibile aprendo gli sportelli che chiudono la parte centrale del tergo dell’altare. Fronte e tergo dell’altare sono spartiti ciascuno in tre campi da ricche cornici di smalti, gemme e filigrane, sostanzialmente simili tra loro, cosicché tutto l’altare appare concepito unitariamente, sebbene lavorato da due mani diverse. Sulla fronte verso il coro una complessa iscrizione in bellissimi caratteri romani eseguiti a niello circonda i tre campi in orizzontale e in verticale, facendo coincidere come in un acrostico le lettere nei due sensi. L’iscrizione avverte che quanto lo spettatore vede – e cioè lo splendore dell’oreficeria – è poca cosa rispetto allo splendore nascosto nell’opera stessa, secondo un’immagine retorica cara all’oreficeria di quei secoli; segue il nome del committente, il vescovo Angilberto (824-859) e un’invocazione a sant’Ambrogio perché guardi («aspice») quanto gli viene offerto. La fronte dell’altare verso il popolo reca in oro sbalzato dodici Scene della vita di Cristo e al centro la figura di Cristo giudice entro una grande «mandorla» di filigrana; essa stessa è al centro di una croce, i cui bracci formano quattro campi minori, dove trovano posto quattro gruppi di tre apostoli ciascuno. La figura
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74. Castelseprio, Santa Maria foris portas, Storie dell’Infanzia di Cristo, particolare.
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di Cristo è solo in apparenza ieratica perché la posa leggermente divaricata delle ginocchia le imprime una forte vitalità e il panneggio ne lascia scorgere la struttura sottostante. La vitalità si fa poi quasi sfrenata nei simboli degli evangelisti nei bracci della croce che richiamano le oreficerie carolinge del periodo di Carlo il Calvo. Questo ciclo cristologico, fra i primi se non il primo dopo secoli di iconoclastia, mostra una notevole ricchezza di fonti iconografiche, molte delle quali legate a una lettura drammatica della storia di Cristo, maturata nei secoli dell’iconoclastia. Gli elementi architettonici di ricordo classico, presenti sullo sfondo e visti talvolta a volo d’uccello, suggeriscono una spazialità resa più suggestiva dalla luminosità dell’oro. La trattazione delle figure e la dinamicità delle scene è tale da suggerire a una certa distanza quasi un brulichio impressionistico. Sul lato dell’altare verso il coro dodici scene narrano la Vita di sant’Ambrogio, ciascuna esplicitata da un «titulus» che comincia con la parola «ubi». Fonte dell’iconografia è la vita di sant’Ambrogio narrata da Pao lino, salvo la scena della partecipazione di Ambrogio ai funerali di san Martino a Tours, scena che ricorre, forse per volontà di Angilberto stesso, anche nel mosaico dell’abside. Le scene illustrano non solo le gesta del santo ma le sue vicende spirituali e personali, come la morte solitaria confortata da Cristo e il viaggio a cavallo come incaricato imperiale. Un forte parallelismo collega a coppie le scene: la nascita fisica e quella spirituale con il Battesimo, la «profectio», cioè il mandato politico, e il ritorno con il mandato ecclesiale. Viene così tracciata una sorta di biografia esemplare dove il ruolo del vescovo, il messaggio antiariano e il significato eucaristico si intrecciano sottilmente. Nei due medaglioni inferiori della parte centrale appare due volte lo stesso Ambrogio, una volta nell’atto di incoronare Angilberto, che con il nimbo quadrato del donatore vivente gli offre l’altare stesso, e una seconda volta mentre incorona «Vvolvinius magister phaber», cioè l’autore dell’opera, il quale si presenta a lui con le mani nude in atto di sottomissione. A giudicare dall’abito che indossa, Vuolvinio sembra un semplice monaco ed è premiato al pari del committente, onore insolito che pone vescovo e artista sullo stesso livello. Può darsi che questo onore sia stato riservato all’autore delle sole Storie di sant’Ambrogio; resta comunque forte la differenza stilistica tra queste storie e quelle cristologiche della fronte. Rispetto al sapiente crepitìo di luci e alla nervosa trattazione di forme della fronte, lo stile di Vuolvinio appare quasi antitetico: egli organizza le scene con un minimo di personaggi e di elementi scenici e la stessa essenzialità viene impiegata nel modellare le figure, che hanno un’evidenza plastica tutta diversa, vorremmo dire «classica». Nonostante il palese germanesimo del nome, la cultura di «Vvolvinius» appare nel suo insieme lombarda: la «gravitas» delle sue figure richiama quella degli avori lombardi del v e del vi secolo e anticipa quella dei successivi avori lombardi di epoca ottoniana. Una conferma indiretta del carattere lombardo delle Storie di sant’Ambrogio viene anche da alcuni libri illustrati lombardi dell’inizio del ix secolo e soprattutto dai codici di diritto canonico conservati a Vercelli (Biblioteca Capitolare) che illustrano con analoga vivacità narrativa e robustezza di modellato la storia dei concili. Nel panorama della Lombardia carolingia un posto rilevante spetta al sacello di San Satiro, raffinata costruzione sorta per volontà testamentaria del vescovo Ansperto (868-888) come «cella memoriae» dedicata a san Satiro, a suo fratello sant’Ambrogio e a san Silvestro papa, destinata cioè a preghiere di suffragio oltre che ad opere di assistenza caritativa svolte da otto monaci. Il sacello è a pianta centrale tricora con tre strette e profonde absidi, aperte su un quadrato centrale e limitate da colonne. Nonostante le trasformazioni subite nel xv secolo, la planimetria, le colonne e i capitelli rivelano una complessa concezione architettonica, di ricordo tardoantico. I frammenti della decorazione ad affresco, recentemente restaurata, confermano la stessa raffinata interpretazione della tradizione.
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75. Milano, Sant’Ambrogio, altare d’oro, commissionato dal vescovo Angilberto (824-859 ca.), faccia posteriore, particolare dell’iscrizione dedicatoria.
76. Milano, Sant’Ambrogio, altare d’oro, faccia posteriore, Vuolvinio, Morte di sant’Ambrogio.
78. Milano, Sant’Ambrogio, altare d’oro, faccia posteriore, Vuolvinio, Vuolvinio incoronato da Sant’Ambrogio.
77. Vercelli, Biblioteca Capitolare, ms. clxv, testi di diritto canonico, prima metà ix sec., Costantino fa bruciare i libri eretici.
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Nota Bibliografica Sulla rinascita carolingia v. il capitolo che le dedica il noto volume di E. Panofsky, Renaissance and Renascences in Western Art, Stockholm 1960 (trad. it. Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Milano 1971). Un’ottima e agile impostazione d’insieme del periodo carolingio come pure del periodo ottoniano è presentata nel volume di J. Beckwith, Early Medieval Art, London 1964; ed. rivista London 1969. Per l’architettura v. C. Heitz, L’architecture carolingienne, Paris 1982. Per le arti decorative e per la miniatura in particolare, per la ricchezza dell’apparato illustrativo, si raccomanda il volume di J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Empire carolingien, Paris 1968 (trad. it. L’impero carolingio, Milano 1969), e l’ampia sintesi di P. Lasko, Ars sacra, 800-1200, Harmondsworth 1972. Per l’arte carolingia, ottomana e romanica nei paesi germanici v. i cataloghi di due importanti mostre: Rhein und Maas. Kunst und Kultur 800-1400, Köln 1972 (2 voll.), e Ornamenta Ecclesiae, Köln 1985 (3 voll.). Per i fatti lombardi di questo periodo, oltre il già cit. volume del Toesca, Il Medioevo, v. l’importante saggio di C. Bertelli, Sant’Ambrogio da Angilberto ii a Gotofredo, in Il Millennio ambrosiano, ii, La città del vescovo dai carolingi al Barbarossa, Milano 1988, pp. 16 sgg., in particolare le pagine riguardanti l’altare d’oro di Vuolvinio. Per la pittura ad affresco di questo periodo v. il saggio di C. Davis Weyer, Müstair, Milano e l’Italia carolingia, in Il Millennio ambrosiano, i, Milano capitale da Ambrogio ai Carolingi, Milano 1987, pp. 202 sgg. Per la ricca bibliografia relativa al ciclo d’affreschi, v. innanzitutto l’opera di chi li scoprì: G.P. Bognetti, G. Chierici, A. De Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948; inoltre K. Weitzmann, The Fresco Cycle of Santa Maria di Castelseprio, Princeton 1951; G.P. Bognetti, Castelseprio, Guida storico-artistica, Vicenza 1960 (e succ. rist.); A.M. Romanini, Note sul problema degli affreschi di Santa Maria foris portam di Castelseprio, in I Longobardi e la Lombardia. Saggi, cit. Il convegno Castelseprio 1287 prima e dopo (Torba-Castelseprio-Varese 1987), Castelseprio 1990, aggiorna sulle ricerche e sugli accertamente scientifici avviati. Per l’altro grande enigmatico complesso di Santa Maria in Valle a Cividale si dispone della monumentale edizione di H. Torp e H.P. L’Orange, Il Tempietto longobardo di Cividale, Roma 1977-79.
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Capitolo quarto
L’ARTE IN EUROPA INTORNO AL MILLE
La deposizione di Carlo iii dal trono nell’887 coincide con un impero carolingio già molto indebolito dalle incessanti incursioni di Normanni e Danesi dal nord e quindi con un processo di frammentazione politica in corso. Nell’896 il re dei Germani Arnolfo di Carinzia assume il titolo imperiale insieme con le insegne esterne del potere, che comprendevano l’altare portatile d’oro e il Codex Aureus. Una nuova ondata di incursioni, cui s’aggiungono nell’899 i temibili Ungari, fu fronteggiata dal primo re teutonico di stirpe sassone, Enrico i. La supremazia della dinastia sassone – che riunisce sotto la stessa corona la Lotaringia, la Sassonia, la Franconia, la Baviera e l’Alemannia – viene sanzionata dalla battaglia di Lechfeld nel 955, vinta dal figlio di Enrico, Ottone i, che si conferma così difensore della fede nei confronti dei barbari d’Oriente. Eletto re ad Aquisgrana alla morte del padre nel 936 e successivamente nel 962 imperatore a Roma, Ottone i appare subito il protagonista di una politica di vasto respiro che ne fa l’erede dei Carolingi, alla testa della cristianità d’Occidente. La solenne dichiarazione con la quale Ottone i viene nominato successore di Pipino e quindi della dinastia carolingia è redatta in lettere d’oro in un sontuoso diploma imperiale su pergamena color porpora (Archivi Vaticani). Il lusso di questo diploma è superato ancora da un altro contenente la lista dei doni in occasione del matrimonio del figlio Ottone ii con la principessa greca Teofano (Wolfenbüttel, Niedersächsischen Staatsarchiv): la cornice vi è trattata a sottili disegni di animali stilizzati, oro su porpora, come nei lussuosi tessuti bizantini. Tutti gli atti del potere politico si circondano in questa epoca di un cerimoniale sacralizzato, che si esprime anche attraverso la stupefacente ricchezza degli «ornamenta Palatii», gli arredi del palazzo imperiale e in particolare i «regalia» o insegne del potere politico (la corona, lo scettro, il globo, la spada) di fronte ai quali il popolo si prosternava. L’immagine stessa dell’imperatore assume una forte carica sacrale, tanto che negli stessi libri liturgici non si esita a rappresentarlo in trono vegliato dall’eterno Padre, quasi novello Cristo. I riferimenti ideologici di questa sacralizzazione dell’idea imperiale si trovavano già nell’antica cultura bizantina, ed è questa stessa cultura bizantina che entrerà ampiamente anche nelle espressioni artistiche. All’interno dell’impero i più forti alleati del potere imperiale restano ancora i grandi ecclesiastici, vescovi e abati, spesso membri dell’aristocrazia feudale. Il loro apporto all’amministrazione civile e alla resistenza contro i tentativi di alleanze feudali è ancora maggiore che non nel periodo carolingio: basti pensare a figure quali Brunone, arcivescovo di Colonia, fratello di Ottone i, duca di Lotaringia, a Egberto, arcivescovo di Treviri, cancelliere di Ottone ii, a Bernoardo, vescovo di Hildesheim, tutore di Ottone iii, a Matilde, badessa di Quedlinburg e sorella di Ottone ii, ad Adelaide e Sofia, figlie di Ottone ii, badesse di
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Gandersheim e di Essen. La diretta continuità della politica carolingia sotto gli Ottoni si rispecchia anche nell’attività architettonica. Perdurano tutti i temi carolingi e in particolare le varie soluzioni che nascono dal «Westwerk»; ma l’architettura ottomana appare dominata da una concezione ancora più grandiosa dell’edificio religioso, che si manifesta nel trattamento massiccio della muratura, arricchita di nuove strutture che per molti aspetti preludono al romanico. Fu soprattutto in area germanica che nel giro di pochi decenni a cavallo dell’anno Mille sorge con stupefacente rapidità tutta una serie di cattedrali e di chiese di imponenza monumentale, purtroppo andate distrutte o, più spesso, rifatte in epoca successiva, ma che possiamo almeno in parte conoscere attraverso le planimetrie. La grande cattedrale di Magdeburgo, centro del potere ottomano, iniziata nel 955 e successivamente distrutta da due incendi nel 1008 e nel 1049, ricostruita e nuovamente distrutta nel 1208, era una basilica a doppio coro, doppio transetto, atrio e battistero. A pianta basilicale con doppio coro e doppia abside era anche l’importante cattedrale di Magonza, distrutta in un incendio nel giorno stesso della sua consacrazione nel 1009 e ricostruita nel 1186. Sotto l’arcivescovo Brunone furono costruite le più antiche chiese di Colonia, Sant’Andrea, Santa Maria in Campidoglio e San Pantaleone. La sola costruzione in Germania precedente il Mille, che ancora può trasmetterci un’idea abbastanza fedele di una chiesa ottoniana, è la chiesa abbaziale di San Ciriaco a Gernrode, fondata nel 961 e terminata da Ottone ii e poi da Teofano nel 991: le novità sono riconoscibili soprattutto nell’ispessimento della muratura che si arricchisce all’esterno di una serie di arcate semicieche e all’interno di gallerie sopra la navata centrale, mentre il muro della navata stessa è retto alternativamente da colonne e pilastri. Sono queste novità, certamente comuni a molti edifici religiosi ottomani, che abbastanza rapidamente trasformeranno nel corso del secolo xi l’aspetto dell’edificio religioso con caratteri che si possono definire protoromanici. Benché in rovina, si possono ancora riconoscere i caratteri ottoniani dell’abbazia benedettina di Limburg-an-der-Haardt, fondata da Corrado ii nel 1025 e completata nel 1042, grandiosa nell’altezza della muratura animata da semipilastri. Significativa per le premesse al romanico è anche la cattedrale di Treviri, ricostruita dopo il Mille dall’arcivescovo Poppo di Stavelot e ampliata in direzione ovest, nella parte cioè tuttora esistente, con una facciata di tipo salico, la cui altezza supera quella delle prime cattedrali gotiche. Ma certamente la chiesa ottoniana più importante è la cattedrale di Spira, costruita all’apice del potere imperiale sotto Corrado i nel 1030 e destinata a pantheon degli imperatori salici, poi ricostruita tra la fine del secolo xi e l’inizio del xii. Si sono fatti molti tentativi di risalire alla prima immagine della cattedrale; si ritiene che essa non dovesse apparire molto dissimile da quella attuale, con la grande cripta sottostante il coro e la copertura a volte delle navate laterali; grandi arcate cieche dovevano solcare la parete della nave centrale includendo le alte finestre. È questo un esempio, al pari dell’importante chiesa abbaziale di San Michele a Hildesheim, di come in questi territori renani e ad est del Reno l’architettura imperiale sia già di fatto protoromanica. Un’osservazione analoga si può estendere alla Normandia, che intorno all’anno Mille presenta alcune interessanti costruzioni. Nel 1002 viene chiamato in Normandia dalla Borgogna Guglielmo di Volpiano, una delle più grandi personalità monastiche di formazione cluniacense, imparentato con i Capetingi e con gli Ottoni. La sua opera di costruttore si rivela soprattutto nella chiesa abbaziale di Bernay, iniziata dopo il 1027, dove compaiono elementi nuovi: pilastri compositi, matronei lungo le navate e archi a doppia ghiera. Capolavoro dell’architettura intorno al Mille in Normandia è la chiesa abbaziale di Jumièges, iniziata nel 1028 e consacrata nel 1067. Nella navata maggiore, fortunatamente conservataci, l’articolazione plastica dei volumi, l’alternanza di pilastri maggiori e minori, la copertura a volte delle navate minori, i matronei e i semipilastri addossati alla muratura esterna conferiscono alla chiesa un aspetto di forza imponente e soprattutto di poderoso slancio verticale che si direbbe già «in nuce» gotico prima ancora di essere romanico.
79. Gernrode, San Ciriaco, 961-991, interno.
80. Hildesheim, San Michele, 1010-1333, esterno.
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Lo «scriptorium» di Reichenau Come già per l’età carolingia, la perdita quasi totale del patrimonio d’affreschi che certamente ornava molte di queste chiese ci preclude la possibilità di una reale conoscenza della pittura ottomana. A parte le testimonianze in terra lombarda, di cui si dirà oltre, il solo ciclo completo giunto fino a noi in territori d’oltralpe è quello della chiesa di San Giorgio a Oberzell, nell’isola di Reichenau. Nastri geometrici a meandro circondano le Scene della vita di Cristo, scandite da pause spaziali e da sfondi architettonici di ricordo antico. I personaggi hanno un metro quasi gigantesco; la forte schematizzazione dei volti e dei gesti, l’astrazione linearistica dei panneggi con forti lumeggiature contrastano con un’enfasi gestuale che va oltre la narratività carolingia per sfociare in un’espressività caricata. Come già in epoca carolingia, la miniatura ottomana rappresenta dunque una testimonianza figurativa insostituibile. Essa discende ovviamente da quella carolingia e come quella proviene dalla committenza di corte o di grandi dignitari ecclesiastici, che si rivolgevano di preferenza ai maggiori «scriptoria», Reichenau, San Gallo, Fulda, Echternach. Quanto al tipo di produzione ottomana di libri liturgici, si nota una diminuzione di sacramentari e di salteri, mentre gli evangeliari presentano un numero di scene decisamente più alto che non nei codici carolingi. Quando presumibilmente veniva dipinto il ciclo di affreschi nella chiesa di Oberzell, nella seconda metà del secolo x, lo «scriptorium» di Reichenau cominciava a produrre codici di alta qualità e di uno
81. Hildesheim, San Michele, 1010-1333, interno.
82. Treviri, cattedrale, x e fine xi sec.
83. Spira, cattedrale, cripta, consacrata nel 1061 (Spira i).
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84. Reichenau-Oberzell, San Giorgio, affreschi, fine x sec., Cristo placa la tempesta.
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stile tipico. L’importanza di questo «scriptorium» è legata anche alla posizione strategica che l’abbazia occupava sull’isoletta di Reichenau sul lago di Costanza, in un crocevia tra Germania e Italia. Reichenau era abbazia imperiale e gli abati, il più illustre dei quali Witigowo, pur soggetti all’autorità imperiale, godevano di un rango privilegiato pari alle più alte cariche ecclesiastiche. Oltre ai privilegi imperiali Reichenau beneficiava anche di privilegi papali e alcuni studiosi ritengono che Reichenau fosse sede anche della cancelleria imperiale. Il problema dei codici provenienti dallo «scriptorium» di Reichenau è complesso sia per le diverse fasi stilistiche, legate al nome dei tre scribi, Eburnant, Ruodprecht e Liuthar, che si succedono tra il 980 e il 1020 circa, sia per la presenza negli stessi codici di stilemi propri ad altri centri miniatori, che ne rendono incerta la provenienza. È il caso, per esempio, dell’importante Salterio di Egberto (Cividale, Museo Archeologico Nazionale), la cui provenienza oscilla appunto tra Reichenau e Treviri. Il codice è così chiamato perché era stato donato nel 983 all’arcivescovo di Treviri Egberto da Ruodprecht. Esso presenta una serie di fogli con i ritratti di quattordici predecessori di Egberto, a cominciare da san Pietro, patrono di Treviri, fino a Egberto stesso, rappresentato in trono con il nimbo quadrato. Queste figure sono tracciate e colorite con uno straordinario vigore plastico e un forte dinamismo di linee curve e di panneggi lumeggiati d’oro. L’ipotesi che privilegia Reichenau come sede di redazione troverebbe conferma in un altro famoso codice eseguito per l’arcivescovo Egberto, il cosiddetto Codex Egberti (Treviri, Stadtbibliothek); si tratta di un libro di pericopi, ossia di brani evangelici relativi alle messe. L’arcivescovo stesso è raffigurato nella pagina iniziale in trono con il nimbo quadrato, fiancheggiato da due monaci che il «titulus» identifica per «Keraldus» e «Heribertus» «augugenses», cioè di Augia Fausta, nome latino di Reichenau. Splendidi motivi decorativi in porpora e oro, che raffigurano animali fantastici di antico ricordo celtico, circondano la pagina. Le mani di almeno tre miniatori si alternano nel codice; uno di questi, cui si possono attribuire sei fogli, si rivela il più elegante e sensibile alla tradizione classica, tanto che queste pagine appaiono singolarmente vicine a qualche manoscritto del v secolo, per esempio al famoso Virgilio della Biblioteca Vaticana. Nella scena dell’Annunciazione le figure si dispongono su un terreno ondulato sullo sfondo di un edificio; i delicati accostamenti di bianchi e viola chiaro sono addolciti da trapassi luminosi che delineano delicatamente la forma. Molti studiosi tendono ormai ad attribuire questo gruppo di fogli al grande pittore anonimo itinerante, conosciuto con il nome di «Maestro del Registrum Gregorii», che risiedette per un certo tempo anche a Treviri. Il manoscritto da cui prende il nome questo ignoto maestro, il Registrum Gregorii, fu donato dall’arcivescovo Egberto alla cattedrale di Treviri subito dopo il 983. Il codice è perduto, ma due fogli miniati che gli appartenevano sono conservati rispettivamente nella Biblioteca municipale di Treviri e al Museo di Chantilly. Nel foglio di Treviri si vede Papa Gregorio al lavoro davanti allo scrittoio, ispirato dalla colomba dello Spirito Santo che gli parla all’orecchio; una tenda lo separa dall’amanuense e questi, incuriosito dagli intervalli di silenzio, occhieggia da un foro della tenda. La scena supera lo schema della pagina ornata e si presenta come una sorta di quadro, unificato da una complessa architettura; così pure l’intensa schematizzazione lineare è sostituita da un senso delicato della forma delle figure, caratterizzate da un tipo di testa piccola. Questa trattazione della forma di ricordo classico torna anche nell’altro foglio che raffigura Ottone ii o iii in trono, in atto di ricevere l’omaggio delle quattro province dell’impero, Germania, Alemannia, Franconia e Italia. L’ipotesi che questo grande miniatore anonimo possa essere il pittore citato da una cronaca della prima metà dell’xi secolo come «Johannes italicus» è molto allettante, tanto più che un’altra cronaca del xii secolo lo specifica «lombardus, ordine episcopus et arte pictor egregius». Egli sarebbe cioè lo stesso pittore che Ottone iii chiamò ad Aquisgrana per decorare di affreschi ora perduti il palazzo: una scelta che rivela la tendenza ad assumere artisti dall’Italia per le imprese culturali più legate all’ideale imperiale. E infatti la cultura classica e letteraria del «Maestro del Registrum Gregorii» si rivela nei codici che egli non solo decora
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ma restaura, emenda e completa. Se, come pare, egli lavorò oltre che a Treviri e Aquisgrana, anche a Liegi, Lorsch, Echternach e forse Reichenau nel Codex Egberti, egli avrebbe di fatto esercitato una forte influenza in un vasto raggio territoriale. A cavallo del Mille, Reichenau si avvia al suo apogeo con il gruppo di codici detti di Liuthar, dello stesso miniatore che in un Evangeliario del 990 circa (Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale) figura nell’atto di offrire il codice a Ottone iii. In questa pagina, tutta giocata nei colori trascendenti della porpora, del bianco e dell’oro, Ottone iii è raffigurato in trono sotto la mano dell’Eterno fra i quattro simboli degli evangelisti, con un’iconografia in tutto uguale a quello di Cristo: l’imperatore infatti è “Cristomimete”, immagine di Cristo, secondo un’antica tradizione orientale che risale a Eusebio di Cesarea e all’imperatore Costantino; ma l’imperatore è anche a capo di una corte terrena, come si vede dalle guardie imperiali che, con Liuthar, gli rendono omaggio. Vivacità di pennellate e fluidità cromatiche, personaggi minuti e aggraziati caratterizzano lo stile di Liuthar, che nelle scene del Nuovo Testamento ha invenzioni che rinnovano l’illusionismo pittorico tardoantico. Sempre per Ottone iii intorno al Mille nasce a Reichenau un altro codice con i Vangeli (Monaco, Staatsbibliothek) che offre il più vasto repertorio di scene. Le pagine iniziali con le figure degli evangelisti stupiscono per audacia inventiva di composizioni: l’evangelista vi è ritratto a guisa di Atlante che regge sul capo nubi solidificate dalle quali spuntano testine di profeti e di angeli. I fogli che raffigurano scene evangeliche tendono a enfatizzare il ruolo astratto della linea; vi si aggiunge un cromatismo audace e scintillante tipico della produzione più tarda di Reichenau. Sui fondi oro, colori rari e sovente freddi concorrono a dare alla scena un carattere quasi liturgico e i personaggi dai grandi occhi sgranati e dalle grandi mani si esprimono con una sorta di enfasi cristallizzata, di grande suggestione. Dopo la morte di Ottone iii il codice passò a Enrico ii e questi, ultimo imperatore sassone senza figli, «facendo di Cristo il proprio erede», consacrò nel 1007 tutti i suoi beni al vescovo di Bamberga, concentrando così in quel luogo il più ricco patrimonio di manoscritti del tempo. A Bamberga pervennero anche un libro di pericopi eseguito per Enrico ii e un codice dell’Apocalisse, entrambi alla Staatsbibliothek di Monaco, che nel secondo decennio del secolo concludono con uno stile potentemente visionario e una tecnica di gelida bellezza la grande stagione di Reichenau. Nel primo quarto del secolo xi il centro miniatorio più importante è Colonia. Verso quell’epoca i manoscritti coloniesi abbandonano i manierismi alla Reichenau e adottano un elegante eclettismo di modi bizantini e di corte. Lo stesso arcivescovo della città, Eriberto (999-1021), intimo amico di Ottone iii, era in stretto contatto con quel pensiero ascetico greco che tanto dovette influire sull’imperatore al termine della sua vita. Il capolavoro di questa scuola coloniese sono i Vangeli della badessa Hitda (Darmstadt, Hessische Landesbibliothek), di una libertà e fantasia compositiva certamente ignote a Reichenau. Le scene dipinte in uno stile pittorico fluidissimo sono ricche di pathos e di vitalità. Al di fuori di questi «scriptoria» ottomani, non si potrà tacere almeno dell’originalissima produzione di codici nei centri dell’Inghilterra meridionale, impropriamente chiamati della «scuola di Winchester». In queste miniature è subito riconoscibile il forte influsso della scuola di Reims e in particolare il segno grafico irrequieto e quasi sussultante tramandato dal Salterio di Utrecht, una copia del quale viene in questo tempo redatta a Canterbury (Londra, British Library). Sotto questo aspetto si potrebbe anzi definire la miniatura anglosassone quasi una tardiva fioritura dello stile carolingio reimsiano, la cui sostanza classicheggiante viene assunta ora in un sistema di valori medioevali. Nel sacramentario forse proveniente dall’abbazia di Ely, noto con il nome di Messale di Roberto di Jumièges (Rouen, Bibliothèque de la Ville), il dinamismo trascendente dello stile altera profondamente le proporzioni delle figure, con esiti che si potrebbero dire espressionisti, grazie anche a un gioco di astratte iridescenze cromatiche, con una concitazione quasi «barocca» che travolge gli schemi tradizionali del rapporto tra decorazione e pagina.
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85. Treviri, Stadtbibliothek, «Registrum Gregorii», 984 ca., «Maestro del Registrum Gregorii», San Gregorio Magno e il suo scriba.
87. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Vangeli di Ottone iii, Gesù lava i piedi a Pietro e agli apostoli.
86. Treviri, Stadtbibliothek, Codex Egberti, 983 ca., c. 2v, Egberto.
89. Darmstadt, Hessische Landesbibliothek, Vangeli della badessa Hidta, inizio xi sec., c. 117r, Cristo placa la tempesta.
90. Rouen, Bibliothèque de la Ville, Messale
di Roberto di Jumièges, 1016-1030 ca.
91. Beatus, Commentario, cattedrale di Burgo de Osma.
88. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Vangeli di Ottone iii, 1000 ca., c. 139r, Incipit del Vangelo di san Luca.
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La miniatura mozarabica
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Nella Spagna del Nord sotto la spinta ideale della “Reconquista” impressa da Alfonso iii (866-912), e cioè del riscatto del territorio occupato dagli arabi da due secoli, sorge una stagione miniaturistica di assoluta originalità, la miniatura mozarabica (il termine antico di “mozarabo” sembra definire in genere i cristiani vissuti sotto la dominazione islamica o forse, più precisamente, «coloro che si sono arabizzati»). Centri di questa miniatura furono gli scriptoria dei grandi monasteri del Nord del paese, primi fra tutti quello di Valeranica in Castiglia e di Tavara nel regno di Léon. A differenza di altri scriptoria, i codici mozarabici recano dettagliati colophon che ci informano non solo sul luogo di origine ma anche sul nome degli artisti e sulla data; è così possibile ricostruire il gruppo di codici che risalgono a uno stesso scriptorium e ai suoi maestri come Magius, l’«archipictor» di Tavara, o Florentius di Valeranica, Sarracinus di Albelda. Lo stile inconfondibile di questi codici, difficilmente classificabile nelle sue origini culturali, definisce le figure scomponendole in bande di colore, contornandole di sottili linee curve – quasi come “cloisons” di smalti, con effetti di pura bidimensionalità, accentuata dall’accesa policromia. Grandi motivi ornamentali di gusto astratto e di probabile derivazione araba giocano una parte determinante nell’economia della pagina. Apre la serie dei grandi codici miniati la Bibbia scritta nel 920 ad Albares dai monaci «Vimara» e «Johannes», ma nelle successive il corredo illustrativo si accresce sensibilmente, testimonianza dell’entusiastico sforzo di questi scriptoria. La Bibbia più importante è quella datata 960 illustrata da «Florentius» e dal suo allievo «Sanctius» e oggi conservata nella collegiata di Sant’Isidoro a Léon. Le scene liberamente inserite nei margini o all’interno della colonna di scrittura hanno una collocazione che suggerisce la sopravvivenza di antichissimi modelli, mentre l’estrema stilizzazione delle forme ritagliate a colori vivaci e compatti non ha paragoni in Occidente, come pure la totale scomparsa di valori plastici e spaziali. Grande fortuna ebbe nella miniatura mozarabica l’illustrazione del Commentario dell’Apocalisse, un testo scritto dal monaco Beatus nelle Asturie, bastione della lotta all’Islam; il grande interesse per questo commentario è forse legato agli oscuri messaggi politici, di cui l’Apocalisse è ricca; ma il monaco Beatus non si proponeva tanto di trarre dal testo un fine didattico quanto un significato religioso del testo stesso, letto come lettura liturgica tra Pasqua e Pentecoste. Più dei terrori apocalittici, egli privilegia il tono lirico e contemplativo delle visioni. Capolavoro di tutto il gruppo dei commentari del Beatus (se ne contano tra il x e il xiii secolo addirittura 31 esemplari) è l’Apocalisse della cattedrale di Gerona, composta probabilmente a Tavara nel 970 e conservata a Madrid (Archivo Histórico Nacional). Chiari, intensi luminosi colori creano un clima spirituale spogliato di ogni orrore e di grande armonia cromatica. Ma bisognerà ricordare ancora il Commentario della cattedrale di Burgo de Osma, che accoglie anche un altro testo visionario, il libro di Daniele e altre immagini cosmologiche e storiche, tra cui una fantasiosa carta del mondo.
92. Vienna, Kunsthistorisches Museum, corona del Sacro Romano Impero, 1000 ca.
93. Essen, Tesoro della cattedrale, prima Croce della badessa Matilde (973-1011).
L’oreficeria ottoniana Altrettanto e forse più ricca della produzione miniatoria è quella dell’oreficeria ottoniana, che nel suo insieme rappresenta forse il più ricco patrimonio di oreficeria appartenente a una sola epoca; esso, infatti, è concentrato in poco più di mezzo secolo a cavallo del Mille e in un raggio geografico relativamente ristretto. La vastità di questa produzione è strettamente legata al fasto sacrale ovvero alla sacralizzazione del lusso di cui si investono le dinastie ottoniane e saliche, nonché la Chiesa. Spetta dunque all’oreficeria un ruolo di primissimo piano nell’espressione artistica di questo periodo, un ruolo difficilmente valutabile. Materiali costosi e rari, esecuzione raffinatissima sono caratteri comuni a tutti gli oggetti in metallo prezioso, come
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94. Essen, Tesoro della cattedrale, Madonna col Bambino, intorno al 1000.
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pure all’intaglio in avorio e ai tessuti. L’enorme valore venale dei materiali, tra i quali un posto d’onore spetta all’oro, assume nella sensibilità dell’epoca un significato trascendente che gli autori medioevali non si stancheranno di sottolineare, ammonendo che il vero valore dell’opera è segreto e interiore e conferisce all’oggetto quasi un potere spirituale. Gli «ornamenta Ecclesiae» e gli «ornamenta Palatii» sono le due grandi categorie che distinguevano le suppellettili chiesastiche (strettamente parlando, l’«ornamentum» si riferiva solo a ciò che non era direttamente attinente al culto) dagli oggetti destinati al palazzo imperiale. Identica è però l’ispirazione: l’ideologia imperiale che congiunge missione temporale e missione spirituale. Non per nulla nel visitare una diocesi l’imperatore era accolto liturgicamente, secondo una tradizione stabilita da Bisanzio. Di questi «ornamenta Palatii» sono giunti fino a noi alcune corone, spesso ridotte per essere adattate alle teste di statue-reliquiari. La più importante è quella del Sacro Romano Impero (Vienna, Kunsthistorisches Museum) che risale circa al Mille, formata da una serie di placche d’oro ad arco ornate di perle, gemme e smalti e sovrastata da una croce e da un arco più tardo. Del 1020 circa è il mantello di consacrazione di Enrico ii (Bamberga, Diözesanmuseum), ricamato in oro su fondo turchino scuro, costellato di medaglioni d’oro
95. Berlino, Staatliche Museen, Mosè riceve le tavole della Legge e L’incredulità di san Tommaso, valve di dittico, fine x sec.
96. Liegi, Musée Curtius, legatura dell’Evangeliario del vescovo Notker, intorno al 1000.
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97. Magonza, Altertumsmuseum, Madonna col Bambino, avorio, intorno al 1000.
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come un cielo notturno con soggetti religiosi e segni dello zodiaco, qui intesi come simboli dell’universo. Gli esemplari più alti nel campo dell’oreficeria vengono dalla scuola di Colonia, la cui stagione si apre con un «pezzo» esemplare, la prima croce della badessa Matilde (973-1011) del convento della Santa Trinità a Essen (Essen, Tesoro della Cattedrale). Tempestata di gemme, smalti e filigrane, essa reca al centro il corpo del Cristo in oro, il cui viso smagrito, dalle palpebre gonfie, circondato da lunghe ciocche di capelli, si impone quasi come un ritratto di pathos dolente e indagatore. Un altro Crocifisso, fatto eseguire dalla regina Gisela d’Ungheria in memoria della madre (Monaco, Residenz-Schatzkammer), è invece delineato con una rigorosa stilizzazione anatomica del torace e del perizoma, pungente simbolo di immolazione divina. Sempre di scuola coloniese e legata alla committenza imperiale è la magnifica croce detta di Lotario (Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale) perché incorpora il sigillo di Lotario in un cristallo di rocca. Essa reca al centro anziché il corpo di Cristo un superbo cammeo augusteo, secondo l’uso medioevale di reimpiegare in un oggetto sacro un prezioso reperto antico destinato a conferire maggiore valore all’oggetto. Infine ricordiamo una preziosa coperta di codice, proveniente da Regensburg e appartenente alla badessa Uta di Niedermünster (Monaco, Staatsbibliothek), al centro della quale un solenne Cristo in maestà è modellato con una compattezza plastica e una qualità monumentale che contrastano con la fitta incrostazione di gemme dell’aureola e dello sgabello su cui siede. Questo avviarsi della sensibilità verso effetti di scultura monumentale pur nelle ridottissime dimensioni dell’oreficeria è avvertibile in altre opere: per esempio nella statuetta in lamina d’oro sbalzato su anima di legno, di una Madonna con il Bambino, databile intorno all’anno Mille, pure di fattura coloniese (Essen, Tesoro della Cattedrale); nuova è la tridimensionalità del gruppo che già si apre al romanico e lo colloca a metà strada tra un’opera di oreficeria – nella modellazione sensibilissima dell’oro – e un’opera di scultura; e nuovo appare il rapporto affettuoso tra la madre e il bimbo. Incerta è la provenienza di una delle massime opere d’oreficeria e quasi sintesi dell’estetica ottoniana, l’antependium d’altare (Parigi, Museo di Cluny) donato alla cattedrale di Basilea da Enrico iii in occasione della consacrazione della cattedrale stessa nel 1019. L’antependium è suddiviso in una serie di arcate; in quella centrale è Cristo, ai cui piedi si prostrano Enrico e Cunegonda, mentre ai lati si dispongono Michele, Raf faele, Gabriele e san Benedetto. Le figure sono allungate e astratte e su di esse il panneggio gioca con suprema
98. Hildesheim, San Michele, Crocifisso di Bernoardo (993-1022).
99. Colonia, cattedrale, Crocifisso dell’arcivescovo Gerone, 980 ca.
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100. Hildesheim, San Michele, porte bronzee, prima del 1015.
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eleganza senza suggerire la forma, immagini esemplari di un universo di forme di splendida trascendenza. Non raggiungono lo stesso livello qualitativo altre opere pure di straordinaria esecuzione come l’ambone d’oro di Enrico ii, nella cattedrale di Aquisgrana, nel quale vengono inseriti avori antichi di fattura egiziana e di soggetto mitologico. Né raggiunge la stessa importanza il pur sorprendente reliquiario della Maestà di santa Fede, donato dall’abate di Conques a Clermont (Conques, abbazia): vero e proprio idolo rivestito di gemme dai grandi occhi di smalto. Questo busto fa parte di tutta una serie via via più vasta di reliquiari antropomorfici, che raffigurano cioè la parte del corpo del santo che vi è custodita. Tra i molti reliquiari antropomorfici spicca quello del piede di sant’Andrea (Treviri, Tesoro della Cattedrale): il piede è a grandezza naturale e intensamente naturalistico, avvolto in lacci gemmati e posato su una cassetta d’avorio e di smalti. Una produzione di particolare importanza nel periodo ottoniano è rappresentata dagli avori. Treviri, che già abbiamo visto sede di importanti committenze miniatorie, è anche centro di produzione di un gruppo di avori con caratteristiche stilistiche così simili da farli risalire forse alla mano di uno stesso maestro, conosciuto con il nome di «Maestro di Echternach». Una doppia valva di dittico (Berlino, Staatliche Museen) raffigura da un lato Mosé che riceve la Legge e dall’altro l’Incredulità di Tommaso. Le scene sono racchiuse entro spazi esigui limitati da colonne, dove i personaggi si incuneano a fatica, con mani e piedi sproporzionati e grosse teste che ne accentuano l’espressività forte in contrasto con la raffinata esecuzione e i preziosi dettagli decorativi delle vesti e della ricca cornice fogliacea di sapore antico. Anche il vigoroso San Paolo del Museo di Cluny a Parigi ha la stessa magistrale esecuzione e gli stessi forti caratteri nel pesante volto contadinesco, quasi un ritratto. Forse un poco più tardo ma della stessa bottega è un secchiello liturgico in avorio del Tesoro della cattedrale di Aquisgrana: l’interessante iconografia di questa «situla» raffigura una cerimonia liturgica e al tempo stesso imperiale, che si svolge su due registri: in quello superiore un imperatore (un’iscrizione ora coperta specificava «Otto») con barba e baffi di tipo germanico, un papa, due arcivescovi, due vescovi e un abate siedono in mezzo a colonne e tendaggi, mentre nel registro inferiore sentinelle armate di lance e di scudi fanno la guardia al palazzo, che si identifica forse con la città celeste. La qualità dell’intaglio è finissima, come si può vedere dalle modellazioni delle mani, né mancano richiami colti alla classicità nelle cornici e nelle teste fantastiche ai lati dei manici. Assegnata in genere a Treviri o a Magonza, ma recentemente e da più parti riconosciuta vicina anche agli avori milanesi del tempo ottoniano, è una Madonna in avorio con il Bambino (Magonza, Altertumsmuseum). Pur nelle minime dimensioni (cm 22x10), essa è concepita con una pienezza quasi monumentale che rifiuta le stilizzazioni lineari troppo insistenti, specie nel viso carnoso e quasi sorridente. Lasciando per il momento da parte il secondo gruppo importante di avori, quello appunto milanese, occorrerà fare almeno un cenno agli avori di Liegi. Lo stile di Liegi, idealizzante e pittorico nel modellato sensibile, sembra rifarsi soprattutto al delicato ellenismo della scuola di Reims: si veda appunto il piatto di evangeliario raffigurante la Visione di Ezechiele, Cristo con i quattro simboli degli evangelisti (Liegi, Musée Curtius) e intorno un’elegante iscrizione nella quale il vescovo di Liegi, Notker, raccomanda la sua anima a Dio. Nel ricco panorama ottoniano di arti decorative trova posto anche la lavorazione di oggetti in bronzo, la cui tecnica era già nota sotto i carolingi ma che ora trova una sua stagione specifica, nella quale emergono gli «ornamenta» commissionati dall’abate Bernoardo di Hildesheim (993-1022). Alla sua committenza si devono le splendide porte bronzee della cattedrale, le prime fuse in un pezzo solo in Occidente, secondo l’uso romano e non a placche secondo l’uso di Costantinopoli, dove generalmente venivano commissionate. Sui due battenti sono raffigurate Storie della Genesi e Storie di Cristo, modellate certamente da almeno due artisti diversi, ma sempre affascinanti per geniale libertà d’invenzione. I personaggi sottili e animati si sporgono dal fondo quasi a tutto tondo e si muovono sulla scena animatamente, con eloquenza di gesti tra alberi e architetture fantastici, che reinterpretano liberamente antichi modelli.
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Ancora più ambiziosa ma di fattura assai meno fine è la rievocazione classica nel candelabro pasquale in forma di colonna con fregio a spirale, sempre della cattedrale di Hildesheim. Invece il Crocifisso in argento di Bernoardo può collocarsi in quel gruppo di opere già segnalate nelle quali l’astrazione delle stilizzazioni tende ormai a trasformarsi: questo Cristo infatti nella testa insaccata e nel gioco realistico della muscolatura raggiunge una rappresentazione del dolore di pungente realismo. Significative sono le analogie tra questo piccolo Crocifisso e il grande Crocifisso ligneo eseguito probabilmente per l’arcivescovo Gerone (Colonia, Cattedrale) circa il 980 ma che in passato era assegnato al xii secolo: il morbido materiale mette in evidenza la sapiente trattazione del nudo, le curve ondulate del torace, la sensazione di peso nella testa abbandonata.
La Lombardia ottoniana Nel corso della prima campagna d’Italia nel 951 Ottone i aveva conquistato il regno di Lombardia e si era proclamato «rex Francorum et Longobardorum», stabilendo il fondamento politico e culturale della continuità con la tradizione carolingia. Nel 966, quattro anni dopo la sua incoronazione a Roma, Ottone torna
101. Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco, placca in avorio con l’iscrizione “otto imperator”, tardo x sec.
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102. Cleveland, Museum of Art, Missione degli apostoli, seconda metà del x sec.
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in Italia, conquista gran parte dell’Italia meridionale e nel 972 sposa il figlio Ottone ii alla principessa greca Teofano. Sulla via del ritorno al nord Ottone risiede a Milano, nel palazzo annesso alla basilica di Sant’Ambrogio. A questa visita è forse collegata la situla di Gotofredo (Milano, Tesoro del Duomo), un secchiello liturgico con il quale si apre una serie di opere in avorio di produzione lombarda e di grande importanza. La situla di cui Gotofredo fu il committente è la sola opera di sicura documentazione dell’epoca in quanto reca un’iscrizione nella quale si dichiara che Gotofredo fece dono della situla alla basilica ambrosiana «veniente… Cesare», cioè in occasione della venuta di un imperatore. Non è certo che l’imperatore di cui parla l’iscrizione sia Ottone ii venuto a Milano nel 980 con il figlioletto Ottone iii, perché Gotofredo era morto un anno prima nel 979; tuttavia non è da escludere che la situla fosse stata effettivamente già commissionata da Gotofredo. Il secchiello liturgico è decorato con la figura frontale della Vergine con il Bambino e a lei convergono da una parte e dall’altra le figure di profilo degli evangelisti in atto di scrivere sotto un arco. Le ricche cornici, le sapienti iscrizioni, le forme massicce ma abilmente plasmate richiamano l’illustre tradizione milanese dei lavori in avorio. Molto vicina a quest’opera è una placca d’avorio (Milano, Museo del Castello) che reca l’iscrizione «Otto imperator»: rappresenta due figure incoronate con diademi germanici e un bambino pure incoronato, prostrati ai piedi del Cristo, al quale sono presentati dalla Vergine e da san Maurizio. Questa scena di omaggio sacrale (proskynesis) è di tradizione orientale, mentre l’associazione di angeli e patroni ai membri della famiglia imperiale è tipicamente ottomana. Strettamente affine è un altro prezioso secchiello, la cosiddetta situla Basilewsky del Victoria and Albert Museum di Londra, anch’essa dedicata sul bordo inferiore a un «Otoni augusto». Ben dodici scene fitte di personaggi si distribuiscono sui due registri del secchiello, raffiguranti la Passione e la Resurrezione di Cristo; in esse iconografie antiche si mescolano a eleganze stilistiche tipicamente ottomane e lombarde. A questo gruppo molto omogeneo di avori bisogna aggiungere ancora il San Matteo del Victoria and Albert Museum di Londra, di eleganza bizantineggiante e la Missione degli Apostoli del Museo di Cleveland, nella quale la severa figura del Cristo centrale è circondata dai busti dei dodici apostoli, una rara iconografia. La tipologia di questo Cristo dai grandi occhi, i capelli a calotta sulla fronte, la barba a punta ritorna costantemente in un’importante serie di sedici pannelli divisi tra vari musei, attribuibili alla committenza di Ottone i nel decennio 963-973 e di fattura milanese. Essi provenivano da un unico antependium smembrato, forse quello della cattedrale di Magdeburgo, e per questo sono noti con il termine di «pannelli di Magdeburgo». In origine essi dovevano essere in numero di 55; nel brevissimo spazio di ciascuno (cm 11x10) una sapiente composizione su un fondo lavorato a intreccio o a scacchiera o a trafori decorativi rende leggibilissime scene assai complesse, come quella di Gesù che insegna nel tempio o l’Incredulità di Tommaso, o Cristo davanti a Pilato. Le tipologie delle figure, corpose e quasi atticciate, sono come si è detto simili a quelle degli avori milanesi. Somiglianze significative, nonostante le differenze di scala, sono state ravvisate tra questi avori e gli stucchi del ciborio di Sant’Ambrogio, opera fra le più importanti di scultura monumentale in stucco sullo scadere del x secolo. Il ciborio presenta quattro facce trapezoidali con quattro scene di tre personaggi ciascuna, legate da un programma iconografico: sulla fronte verso i fedeli Cristo consegna la legge a Pietro e Paolo, sulla fronte opposta l’Elezione di Ambrogio a vescovo, «nondum baptizatus», come si può vedere dagli abiti civili che indossa, con i santi Gervasio e Protasio. Sulla fronte verso l’epistola la Vergine con due figure femminili, una velata e l’altra con la corona, probabili membri della famiglia imperiale, e sul quarto lato un Vescovo omaggiato da due figure maschili con corona, che raffigurano forse Ottone i e Ottone ii. Il senso di questa iconografia, nonostante la non certa identificazione dei personaggi, è palese e insistente: si vuole sottolineare l’autorità della Chiesa apostolica, raffigurata in Pietro, Paolo, Ambrogio e in un vescovo, ai quali il potere profano fa omaggio.
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103. Milano, Sant’Ambrogio, ciborio, 972, Vergine con due figure femminili.
104. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum, «pannelli di Magdeburgo», Incredulità di Tommaso, 963-973.
105. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum, «pannelli di Magdeburgo», Cristo davanti a Pilato, 963-973.
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Certamente il fondo era campito di colore ora scomparso e anche la coloritura attuale degli stucchi non riflette quella originale. I confronti stilistici legano, come si è detto, questi stucchi agli avori milanesi per la rigorosa distribuzione dei personaggi, la compattezza del modellato, il tipo dei panneggi e dei volti; ma lo stile degli stucchi non è lontano neppure, come è stato sottolineato, dallo stile del «Maestro del Registrum Gregorii», accostamento che costituisce indirettamente una conferma delle radici culturali italiane, forse anzi lombarde, di quest’ultimo. Altre testimonianze dell’importanza della Lombardia in età ottomana si hanno nel campo degli affreschi. Particolarmente interessanti, nella scarsità di testimonianze del tempo pervenute fino a noi, sono quelli della basilica di San Vincenzo a Galliano presso Cantù, basilica restaurata e consacrata nel 1007 da Ariberto, che più tardi, nel 1018, diventerà arcivescovo di Milano; vi è raffigurato nell’abside Cristo in Maestà circondato da arcangeli, profeti e santi: Michele con la supplica – «Peticio» –, Gabriele con la preghiera – «Postulano» – ed Ezechiele. Ai doni del paradiso alludono le cornucopie del fregio sottostante, dalle quali escono, come a Müstair, girali d’acanto, frutti e uccelli. Altri affreschi, con sottile riferimento dottrinale all’ultimo Giudizio e all’ascensione di Cristo, rappresentano la Visione di Ezechiele e l’Ascensione di Elia. Le figure degli arcangeli Michele e Gabriele, meglio conservate, l’iconografia orientale della proskynesis di Geremia e di Ezechiele ricordano le miniature ottoniane e in particolare quella di Reichenau, nell’impianto monumentale delle figure, nella tipologia dei visi e nelle intense lumeggiature. Di eccezionale importanza sono anche gli affreschi del Battistero del Duomo di Novara, collocabili all’inizio dell’xi secolo, che raffigurano una delle pagine più impressionanti dell’Apocalisse, l’Apertura dei Sette Sigilli. Le connessioni con la miniatura ottomana sono evidenti, specie con il codice dell’Apocalisse di Bamberga che presenta la stessa sequenza iconografica. Le otto drammatiche scene dei flagelli che s’abbattono al suono della tromba si succedono entro un loggiato architravato definito da nastri geometrici con una ritmica rigorosa ed equilibrata e ampie scansioni iterate. Lo stile dei panneggi è più complesso e insieme più pittoricamente fluido che non a Galliano. Questi due cicli e gli avori di fattura milanese documentano l’importanza dell’attività artistica lombarda in epoca ottoniana e confermano quindi i profondi legami che legano la Lombardia all’impero.
106. Novara, battistero della cattedrale, Scene dell’Apocalisse, inizio xi secolo, La Donna Celeste e il Drago.
Nota Bibliografica Per la stretta contiguità del periodo carolingio e di quello ottoniano si rinvia per le trattazioni generali alla nota bibliografica del capitolo precedente. Una trattazione d’insieme del periodo ottoniano con ricco apparato illustrativo è nel volume di L. Grodecki, F. Mütherich, J. Taralon, F. Wormald, Le siede de l’an Mil, Paris 1973 (trad. it. Il secolo dell’anno Mille, Milano 1974), che si raccomanda soprattutto per la parte relativa agli avori e all’oreficeria. Di L. Grodecki ricordiamo ancora Au seuil de l’art roman. L’architecture ottonienne, Paris 1938. Sempre per l’architettura si v. l’esemplare censimento di F. Oswald, L. Schaefer, H.R. Sennhauser, Vorromanische Kirchenbauten. Katalog der Denkmäler bis zum Ausgang der Ottonen, München 1990-91, 2 voll. Sulla miniatura mozarabica v. J. Fontaine, L’art mozarabe, St. Léger Vauban 1983 (trad. it. Mozarabico. L’arte, Milano 1983), J. Williams, The Illustrated Beatus: a Corpus of Illustrations of the Commentary on the Apocalypse, 5 voll., London 1993 e il cat. della mostra, The Art of Medieval Spain A.D. 500-1200, New York 1994. Per i problemi relativi alla scultura v. di A. Peroni, Gli stucchi decorativi della basilica di S. Salvatore in Brescia. Appunti per un aggiornamento critico nell’ambito dei problemi dell’arte altomedievale, in Kolloquium über frühmittelalterliche Skulptur (Heidelberg 1968), Mainz 1969, oltre naturalmente al «Corpus della Scultura Altomedievale italiana»
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107. Galliano, San Vincenzo, Geremia, particolare degli affreschi, inizio xi sec.
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promosso dal Centro Italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto (1959 sgg.), che supplisce con la capillarità del censimento alla disomogeneità delle aree esplorate (prevalentemente del centro-nord). Sull’importante produzione di avori di questo secolo v. D. Gaborit Chopin, Ivoires du moyen-âge, Fribourg 1979; J. Beckwith, The Basilewsky Situla, London 1963; sulla produzione lombarda C.T. Little, Avori milanesi del x secolo, in Il Millennio ambrosiano, ii, cit., pp. 82-101; nello stesso vol. v. anche l’importante saggio di C. Nordenfalk, Milano e l’arte ottomana. Problemi di fondo sinora poco osservati, pp. 102-123, con una messa a punto del problema del «Maestro del Registrum Gregorii». Un’importante occasione di studio e confronto è stata offerta dalla mostra Bernward von Hildesheim, Hildesheim 1993, con cat. in 2 voll. Una sintesi problematica in L. Castelfranchi Vegas, Le arti minori nel Medioevo, Milano 1994. Sulla pittura in Lombardia del periodo intorno al Mille v., sempre nel medesimo volume, il saggio di A. Segagni Malacart, Affreschi milanesi dall’xi al xii secolo, pp. 196-211. Sulla plastica in stucco v. l’importante saggio di A. Peroni, La plastica in stucco nel S. Ambrogio di Milano. Arte ottomana e romanica in Lombardia, in Kolloquium über frühmittelalterliche Skulptur (Heidelberg 1972), Mainz 1974, e di C. Bertelli, Il ciborio di S. Ambrogio, Milano 1981.
Capitolo quinto
LA NASCITA DEL ROMANICO NELL’OCCIDENTE EUROPEO
Quasi che l’immagine ormai superata di un Medio Evo statico abbia lasciato il posto a un’immagine dinamica o addirittura rivoluzionaria del Medio Evo stesso, non vi è aspetto, si può dire, del vivere umano al quale, varcato il Mille, non sia stato attribuito dalla recente storiografia un carattere quasi rivoluzionario: si parla di rivoluzione urbana, di rivoluzione agraria e così via. Non si tratta ovviamente di svolte repentine ma certamente di un processo costante di ripresa, passati i notevoli sconvolgimenti connessi variamente con le ondate di grandi immigrazioni. Tutti gli storici concordano anzitutto nel fatto che intorno e subito dopo il Mille ha inizio una forte crescita demografica e che questa si connette con una forte espansione di un’economia sostanzialmente agraria attuata con vasti piani di bonifiche e di disboscamenti in tutta Europa, dalla Spagna alla Germania orientale, dalla pianura padana al territorio parigino. Numerosi documenti parlano inoltre di nuovi insediamenti programmati o di potenziamenti di centri murati, castello, monastero o borgo fortificato, in un vasto processo di urbanizzazione dell’Europa medioevale, che include l’evoluzione in senso urbano del «castrum» come sede signorile o come insediamento di carattere economico. Pur rimanendo l’agricoltura per tutto il corso del Medio Evo la base di tutta l’economia europea, a partire dall’xi secolo assumono progressivamente importanza le attività commerciali e manifatturiere. I centri urbani dimostrano una straordinaria dinamicità, disponendo, soprattutto quelli eminenti, di cospicui mezzi finanziari. Alla metà del xiii secolo Brunetto Latini nel suo Trésor, operetta di carattere enciclopedico scritta in francese, definiva così le città: «Cités est uns assemblements de gens a abiter en un lieu et vivre a une loi», una definizione che, nonostante sia debitrice ad antichi stereotipi, si adatta bene alla realtà di persone «che abitano in uno stesso luogo e sotto la medesima legge» e cioè alla realtà urbana. Il comune è un nuovo organismo a proposito del quale il dibattito storiografico non riesce a dare una spiegazione unitaria, trattandosi di un fenomeno capillarmente diversificato, almeno nei territori francesi, in Germania, nella Fiandra e in Inghilterra, il cui carattere di base sembra essere la conquista della libertà della persona e dei beni dai vincoli signorili. Tra le cause economiche e sociali che sottendono il grande movimento artistico dell’età romanica si deve includere anche il fenomeno dell’espansione romano cristiana nel Mediterraneo fra riconquista e guerra santa e il fenomeno delle crociate (la prima predicata nel 1095) come pellegrinaggio armato permanente, con il conseguente potenziamento dei traffici con l’Oriente. Fra queste trasformazioni economiche e sociali e la nascita di un nuovo panorama artistico, imponente per vastità e intreccio culturale, esiste naturalmente uno strettissimo nesso. La ricchezza del patrimonio architettonico e scultoreo tra la metà dell’xi e la metà del xiii secolo rende particolarmente difficile la sua
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ricapitolazione unitaria, che non sacrifichi la varietà delle forme e al tempo stesso colga l’unità di ispirazione che esiste sotto questa varietà. Per quanto riguarda la sempre difficile periodizzazione dei fenomeni artistici e i diversi tempi di sviluppo nei vari territori europei, vi è da notare che se gli inizi del Romanico si manifestano più o meno contemporaneamente in tutti i territori d’Europa a partire circa dalla metà del secolo xi, lo sviluppo del Romanico stesso subisce una radicale diversificazione: mentre nei territori d’oltralpe e particolarmente in alcuni territori francesi, del Medio Reno e dell’Inghilterra, fanno la loro apparizione forme protogotiche già alla metà del secolo successivo, in altri territori, e massime in Italia, il Romanico dura più a lungo e con varietà diverse, che reagiscono sul substrato culturale classico. Ancora più che per altri periodi l’arte romanica si sottrae a interpretazioni culturali generalizzate: così, per esempio, appare solo genericamente reale lo stretto legame, un tempo assai sottolineato, tra il Romanico e la nascita delle lingue romanze dal comune ceppo tardolatino; così pure è solo parzialmente vera la contrapposizione tra lo stile aulico di corte dell’arte carolingia e ottomana e lo stile «popolare» del Romanico. Volendo da un lato evitare la troppo rapida segnalazione dei monumenti romanici di un dato territorio europeo e dall’altro tracciare una mappa storico-artistica di questo fenomeno dal quale risulti possibilmente l’assimilazione, il prestito e lo scambio di modelli largamente comuni, sarà necessario privilegiare i «momenti forti» del Romanico europeo; individuare, per esempio, quelli che il Kubach definisce «pae saggi architettonici», ossia la fisionomia particolare dell’architettura in un dato territorio, ovviamente inscindibile dallo sviluppo della decorazione plastica.
Tradizione e rinnovamento architettonico nei paesi germanici
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Si è già visto come assai per tempo, nel corso dei decenni a cavallo dell’anno Mille, nei territori lungo il Reno e a oriente del Reno la cultura artistica ottomana aveva segnato nel campo dell’architettura alcune precoci e radicali novità, soprattutto nel trattamento della muratura rafforzata e plasticamente animata da pilastri e mezze colonne addossate che la solcano in altezza, da archi ciechi, loggette e lesene, morfologicamente già romanici. Naturalmente la maggior parte di queste chiese ha subito imponenti rifacimenti e ricostruzioni, e non è facile precisare quanto risalga alla primitiva costruzione. È il caso della grande cattedrale imperiale di Spira, dove le novità romaniche sono presenti in forma più organica e grandiosa; l’umanista tedesco Wimpfeling scriveva ancora nel Cinquecento: «Spirensis corona omnium ecclesiarum». Profonde modifiche furono introdotte sotto Enrico iv tra il 1092 e il 1106: coro e navate furono coperte a volta e le volte sorrette da pilastri rafforzati da semicolonne, mentre all’esterno altre arcate cieche e loggette enfatizzavano lo spessore della muratura. In questa volontà di subordinare ogni parte a un coerente sistema architettonico, Spira appare la versione «imperiale» di un nuovo stile romanico, destinato a influenzare profondamente l’architettura normanna e anglonormanna. Molte altre imponenti cattedrali e chiese abbaziali lungo il Reno e a est del Reno portano il segno di questo grandioso rinnovamento costruttivo: oltre al Duomo di Treviri, già citato, occorrerà ricordare quelli di Magonza, di Worms, di Strasburgo, di Basilea, di Santa Maria in Campidoglio a Colonia. Da segnalare, per quest’ultima, l’interessante soluzione absidale trilobata del coro e dei bracci del transetto che bene esprime la grandiosità e la novità delle soluzioni adottate. Nel campo altrettanto ricco delle chiese abbaziali nate agli albori del Romanico, ma rinnovate in epoca successiva, spicca la chiesa benedettina di San Michele a Hildesheim, iniziata sotto l’arcivescovo Bernoardo nel 1001 ma distrutta parzialmente da un incendio l’anno successivo e interamente ricostruita nel 1186. Il piano generale riflette probabilmente
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nella sua astratta purezza la grandiosa concezione originale e cioè lo schema basilicale a tre navi con due transetti e due cori absidati di identica altezza. Un ritmo perfetto governa il corpo longitudinale, dove due pilastri si alternano a due colonne.
Architettura normanna e anglo-normanna La facciata a due torri, comune nell’alto Reno, fu adottata in Normandia, dove un gruppo di costruzioni importanti presenta alcune caratteristiche simili e molte radicali novità. La chiesa abbaziale di Notre-Dame a Jumièges è la costruzione normanna più antica e presenta un’interessante spartizione della navata in alzato; alle arcate si succedono i matronei, fiancheggiati a coppie da semicolonne addossate, che attraversano in altezza la nave. Altre interessanti novità compaiono a Caen negli stessi anni, tra il 1060 e il 1080 circa, nelle chiese abbaziali di La Trinité e di Saint-Étienne, sorte per volere di Guglielmo il Conquistatore e di sua moglie Matilde in espiazione del loro matrimonio fra consanguinei. Queste due chiese adottano volte a crociera nelle navate minori, mentre la nave maggiore doveva essere coperta a capriate. Le grandi arcate della nave si raddoppiano in altezza nei matronei; nella parte superiore il muro si scompone in una sottile parete esterna, dove si aprono le finestre, e in una galleria che si apre verso la nave e che prende il nome di cleristorio. Le semicolonne di rinforzo dei pilastri, che si prolungano per tutta l’altezza della nave completano il sistema architettonico, ormai pienamente romanico e, anzi, per certi aspetti già precorritore del sistema gotico della triplice suddivisione della parete. Il trasferimento in Gran Bretagna di queste novità è una conseguenza immediata dell’invasione normanna. Architetti normanni costruiscono circa tra il 1050 e il 1065 l’abbazia di Westminster, la più grandiosa del paese con le sue torri occidentali, le sei campate della nave, il sistema di cappelle absidate nel lato orientale. La conquista normanna produsse una vasta fioritura di nuove costruzioni: Winchester iniziata nel 1079, Ely iniziata negli anni 1080-90, Norwich, iniziata nel 1096 e Peterborough, iniziata nel 1118, che si distinguono per la loro enorme estensione longitudinale e imponenza, oltre che per la forte strutturazione delle pareti. Queste chiese riflettono tutte il tipo dell’alzato normanno presente a Caen e tuttavia anche con dettagli di provenienza germanica e in particolare da Spira, come le cripte e i capitelli cubici. È stato anche osservato che, per la prima volta, la cattedrale di Durham, iniziata nel 1093 ma completata solo nel 1133, è interamente coperta a volta e che riflette la matrice di Spira più ancora che non quella normanna. Le proporzioni verticali di Durham sono diverse che non a Caen; la complessità dei pilastri a fasci di colonne, alternati ai pilastri cilindrici con decorazioni geometriche, la riduzione del matroneo a un triforio, e soprattutto i forti costoloni delle volte, tutto tende a concentrare l’attenzione appunto sul sistema di copertura a volte costolonate, con un forte anticipo di quello che sarà il sistema gotico.
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Architettura in Borgogna Intorno al 1088 sorgeva nel sud della Francia la seconda abbazia di Cluny, in aperta rivalità con Spira ii (e più ancora poi Cluny iii), ai tempi in cui l’abbazia era sotto la guida dell’abate sant’Ugo; erano i tempi in cui Cluny rappresentava la punta di diamante non solo della riforma cluniacense, con un grande aumento di monaci e di visitatori, ma anche della resistenza dell’ordine cluniacense al potere imperiale e della riconquista delle terre islamizzate. Il primo dei grandi committenti della chiesa fu il re di Spagna Alfonso iv, che dopo la conquista di Toledo inviò all’abbazia un dono di diecimila talenti e un cospicuo sussidio annuale in
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108. Spira, cattedrale, 1031-1106, veduta dell’abside.
109. Worms, duomo, iniziato nel 1000, veduta dall’abside.
112. Norwich, cattedrale, iniziata nel 1096, interno.
110. Caen, Saint-Étienne, 1060-1080 ca., navata centrale.
111. Ely, cattedrale, torre di crociera e transetto, 1200 ca.
113. Durham, cattedrale, fondata nel 1093-1133 ca., navata centrale.
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114. Autun, Saint-Lazare, 1120-1130 ca., interno.
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oro. La chiesa abbaziale, consacrata da papa Innocenzo ii nel 1130, era a cinque navate con due transetti, entrambi forniti, come il coro, di una serie di cappelle terminali, e un vasto nartece sul lato occidentale. La costruzione del complesso del monastero si protrasse per circa un secolo: con la sua grandiosa basilica, oggi non più esistente, e le sue mura protette da 15 torri, l’abbazia doveva rappresentare agli occhi dei monaci quasi l’immagine tangibile della Gerusalemme celeste; echi di questa vita abbaziale si colgono negli straordinari capitelli con i toni della musica gregoriana giunti sino a noi. Questa grandiosa potenza dei maggiori ordini religiosi e in genere della Chiesa si rispecchia quasi ovunque nell’Occidente europeo, spesso in corrispondenza con le stazioni di tappa delle grandi strade di pellegrinaggio: così per esempio San Martino a Tours, Saint-Sernin a Tolosa, e a Santiago di Compostela, quest’ultima dedicata all’apostolo san Giacomo, di cui custodiva la tomba. La chiesa di Santiago di Compostela, fondata nel 1078 e sostanzialmente condotta a termine entro il 1124, fu eretta con una grandiosità di intenti, in parte solo giustificata dall’enorme afflusso di pellegrini, in realtà con l’ambizione di rappresentare, con Roma e Gerusalemme, il terzo centro più importante per i pellegrinaggi cristiani. Al pari di altre chiese sorte nei centri di pellegrinaggio, anche Santiago presentava un ampio transetto a tre navate corredato da cappelle e anche il coro si apriva in una serie di cappelle destinate sia a ospitare le reliquie sia a permettere le numerose celebrazioni liturgiche contemporanee. Nella grande varietà di «paesaggi architettonici» un posto a parte spetta allo splendido gruppo di chiese borgognone: Paray-le-Monial, Autun, Tournus, La Charité-sur-Loire, Saint-Benoit-sur Loire, Vézelay, Saulieu – per citare solo le maggiori – che cronologicamente si spingono sino alla metà del xii secolo e dunque quasi alle soglie del nascente gotico francese; esse si impongono per l’ampiezza audace della loro costruzione e per l’inconfondibile armonia della loro concenzione, di sapore quasi classico. La copertura di queste chiese è in generale a botte, sia a tutto sesto come a Tournus, sia a sesto acuto come a Paray-le-Monial; lungo la navata di quest’ultima pilastri addossati e scanalati si intersecano con costoloni rettilinei dando un ritmo armoniosamente equilibrato che frena lo slancio verticale ardito delle colonne addossate o dei pilastri polistili di gusto già pregotico, come quelli all’incrocio del transetto. Anche la chiara, triplice suddivisione delle pareti – archi, gallerie a triforio e finestre – suggerisce un’esigenza di articolazione spaziale maggiore che non altrove e anch’essa anticipatrice del verticalismo gotico.
Le prime abbazie “bernardine” dei cistercensi La nascita dell’architettura cistercense in Francia è un evento di grande importanza artistica e di grande significato culturale che si colloca nella prima metà del xii secolo ma che è destinata a un’ampissima diffusione per tutto il Duecento. Protagonista indiscusso di questa prima fioritura cistercense è la grande figura di san Bernardo di Chiaravalle, approdato a Citeaux poco più che ventenne nel 1112. Alla sua direzione e predicazione si deve l’inconfondibile qualità di rigore costruttivo e di spoglia austerità che renderanno ovunque riconoscibili le abbazie cistercensi. A venticinque anni, nel 1113, Bernardo impiantava già a Clairvaux un’abbazia figlia di Citeaux. Nel 1134 – quando Suger si apprestava a ingrandire con splendida magnificenza l’abbazia di Saint-Denis – Bernardo emanava per la prima volta nel capitolo generale le regole dell’arte sacra e descriveva il modello cui dovevano conformarsi le abbazie cistercensi: viene proscritta ogni decorazione scolpita o dipinta; proibito l’uso delle vetrate, limitate persino la decorazione dei libri sacri alle sole iniziali in chiaroscuro. Tanta austerità è la proiezione di un sogno di perfezione morale che sembra accomunare in un solo appassionato ideale etico e combattivo le due forze del mondo feudale, la cavalleria e il monachesimo. Ogni parte del complesso abbaziale è in funzione della vita monastica comunitaria, divisa tra la preghiera comune in coro sette volte al giorno, le riunioni quotidiane nel capitolo, i pasti nel refettorio, il lavoro nelle
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115. Paray-le-Monial, interno, xii sec.
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grange o nelle forge. Il grande chiostro quadrato funge da spazio unificatore ed è insieme spazio simbolico che allude al paradiso. È noto che i cistercensi furono grandi costruttori, poiché il cantiere architettonico nasceva all’interno della stessa comunità monastica ed era diretto e costituito dai monaci stessi. Al primo entrare in una chiesa abbaziale si resta immediatamente colpiti dal rigore e dalla nitidezza eloquente delle strutture portanti e di copertura, dalla perfezione del taglio delle pietre. Le maestose rovine cui sono ridotte buona parte delle centinaia di chiese abbaziali cistercensi mettono talora in maggiore evidenza la nuda bellezza del suo scheletro. Come dice Duby: «La chiesa cistercense è incarnata. Ma è anche scarnita, ridotta alla muscolatura, allo scheletro, ed è proprio questo che commuove nel profondo». L’architettura cistercense mutua dalle chiese borgognone le strutture fondamentali quali l’arco acuto, le prime volte a ogiva, i pilastri compositi, e cioè quel linguaggio architettonico che va rapidamente evolvendo verso un protogotico. Elementi tipicamente cistercensi, invece, e ben riconoscibili nel gruppo di edifici più antichi sono il transetto piatto e, subito successivamente, il deambulatorio rettangolare con cappelle inglobate nel muro, come pure l’impiego sapiente della luce nuda, non rivestita dai colori delle vetrate, che entrava da aperture moderate distribuite con attenta misura nel lato orientale e occidentale della costruzione. Infine, tipicamente cistercense è l’edificio adibito al lavoro, la grangia o la forgia, ancora più spoglia con nudi contrafforti murari all’esterno e all’interno con coperture a capriata in travature lignee, povere ma sovente di straordinaria bellezza. L’espansione dell’ordine cistercense ha una rapidità e una vastità impressionanti; dalle case-madri di Citeaux, Clairvaux, Pontigny, Morimond, La Ferté nel corso di tre generazioni, centinaia di costruzioni sorsero in tutta Europa, fino alla lontana Polonia a est, la Scozia a nord, il Portogallo a ovest e a sud l’Italia (dove le abbazie cistercensi sono portatrici di un linguaggio precocemente gotico), particolarmente in valle Padana e nel Lazio. Ovunque esse sono riconoscibili per l’uguale distribuzione planimetrica degli edifici, anche se l’originaria austerità originaria subisce graduali allentamenti. Non mancano soprattutto gli adattamenti locali, nell’uso del materiale soprattutto o nei particolari della sobria decorazione plastica dei capitelli, dei peducci, dei chiostri.
116. Fontenay, abbazia, prima metà del xii sec., navata.
117. Fossanova, abbazia, 1163-1208, navata.
La decorazione scultorea delle chiese in Aquitania e in Borgogna Come si è voluto riconoscere nella coordinazione sistematica delle strutture di sostegno e di copertura uno dei criteri fondanti dell’architettura romanica, così si è voluto individuare anche per la scultura un principio unitario nel rapporto che lega la decorazione scultorea all’architettura; si è sottolineata, cioè, la costante localizzazione delle parti scolpite entro precise cornici architettoniche, come le lunette dei portali, gli architravi, i capitelli. Tale principio, tuttavia, che Henri Focillon teorizzò con il termine di «loi du cadre» («legge della cornice»), oltre al fatto di non essere esclusivo, rischia di subordinare la scultura all’architettura e di negare alla prima indipendenza e libertà di concezione. Appare anche superato il concetto, in voga fino a tempi relativamente recenti, che la scultura romanica rappresenti una sorta di «volgare» artistico, un «sermo humilior» che rispecchia la nuova realtà sociale che sta dietro il Romanico, di contro al linguaggio aulico dell’arte «di corte» della precedente età ottomana e dunque che il suo sorgere presenti analogie con quello delle lingue romanze. Il fascino della scultura romanica risiede soprattutto nella sua ricchezza comunicativa, a sua volta legata alla sua enorme ricettività nei confronti di nuove tematiche o di tradizioni culturali rivissute in chiave nuova; la scultura romanica viene così a creare un patrimonio di immagini che riflettono forse meglio di qualsiasi altra espressione artistica quello che si è soliti chiamare l’immaginario collettivo di un’epoca: la sensibilità
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118. Ter Doest (Belgio), capriata lignea della grangia, xii sec.
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119. Lépau, orditure a capriata della grangia.
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religiosa centrata sulla potenza del male e sull’opera di redenzione, la forza fantastica che sollecita alla metamorfosi e alla deformazione. Soprattutto alla scultura romanica sembrano applicarsi certi atteggiamenti estetici che Meyer Schapiro ha messo molto bene in luce e che trapelano da alcuni testi, contro l’opinione comune che l’arte medioevale sia un’arte strettamente religiosa, simbolica e devozionale e quindi sottratta al piacere estetico. Nella celebre polemica di Bernardo di Chiaravalle, il quale mette in guardia i suoi monaci dal pericoloso fascino che possono esercitare le sculture che ornano i chiostri, i termini di «curiositates» e «curiosum» stanno proprio a indicare la gratuità del puro godimento estetico; e quando tuona contro la stravaganza di quelle sculture gli sfugge in realtà un giudizio ammirativo quando parla di «sorprendente deforme bellezza e ad un tempo bella deformità». Un problema di non facile soluzione per gli studiosi è quello suscitato dalla quasi simultanea apparizione di un nuovo linguaggio plastico in vari territori, nei quali si riconoscono frequenti analogie stilistiche e talvolta persino soluzioni quasi identiche, donde la difficoltà di stabilire priorità o possibili contatti tra un cantiere e l’altro. È indubbio che a favorire una circolazione di temi e di interpretazioni stilistiche doveva concorrere una certa mobilità di artisti e di cantieri, senza dimenticare, più in generale, che ogni circolazione culturale veniva favorita dalle grandi strade di pellegrinaggio che solcavano l’Europa verso Roma e Gerusalemme. Le tappe francesi di pellegrinaggio provenienti dal nord della Francia, dal Mont Saint-Michel e da Saint-Denis, quelle da Vézelay e Autun, da Le Puy a Moissac e Conques, da Saint-Gilles du Gard per Tolosa si univano a Santiago de Compostela; e da Santiago il «camino francès» raggiungeva la Navarra, attraversava la Galizia, le Asturie, Léon e la Castiglia, si collegava attraverso i passi del Monginevro e del Gran San Bernardo con «la via francigena» o «romea» e scendeva attraverso Novara e Piacenza fino a Modena e di lì a Lucca. Come per l’architettura, anche il panorama della scultura romanica europea presenta varietà di soluzioni e di aspetti in molti territori; tuttavia in due regioni particolari della Francia del sud-ovest e del centro-sud, in Aquitania e in Borgogna, la scultura romanica ha un’importanza particolare sia per la precocità del suo apparire, sia per l’elevata qualità stilistica, e costituisce il nucleo più riconoscibile del linguaggio plastico romanico, tanto che si è voluto collegare a queste esperienze francesi molte altre espressioni della scultura romanica (per esempio in Valpadana). Il sorgere di questa scultura aquitanica si può collocare a Tolosa all’inizio del xii secolo, in un gruppo di sculture create per la chiesa di Saint-Sernin, tappa importante di pellegrinaggio. Si tratta di un Cristo in Maestà, inserito nel deambulatorio della chiesa, di sei altre figure nello stesso deambulatorio e del timpano della porta di Miègeville. Le grandi novità, in parte ancora potenziali, insite in queste sculture non devono tuttavia far passare sotto silenzio i legami in esse esistenti con la precedente arte ottomana. Per questo sarà bene esaminare due notevolissime sculture della stessa zona, immediatamente precedenti: il Cristo di Rodez, ora al Museo Fénaille, e la lastra tombale dell’abate Isarne (Marsiglia, Musée Borély). Alto all’incirca 60 cm e quindi di dimensioni ridotte rispetto alla scultura monumentale, il Cristo di Rodez è realizzato con uno stile grafico molto raffinato che lo apparenta alla miniatura carolingia o ottomana: il corpo è un torso schematico e geometrico, una massa percorsa da pieghe stratificate in piani astratti, il cui epicentro è l’ombelico. Dello stesso giro d’anni è la lastra tombale dell’abate Isarne: il defunto abate appare coperto da una lastra tombale, percorsa da un’epigrafe in bellissime lettere capitali, ora fitte ora rade, ora sovrapposte; dalla lastra restano scoperti solo i piedi fortemente realistici e la testa di costruzione massiccia, che collocata entro l’incavo della pietra, denuncia già una nuova volontà plastica. Queste due opere trovano un loro seguito immediato nel Cristo in Maestà di Saint-Sernin. Infatti anche questo Cristo rivela forti ascendenze nella miniatura e nell’oreficeria ottomane, sia per lo schema compositivo entro la mandorla con i quattro simboli apocalittici degli evangelisti, sia per lo schematismo lineare della tunica; ma la compattezza plastica della figura che si delinea sotto il panneggio e il volto imberbe car-
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120. Tolosa, Saint-Sernin, porta di Miègeville, Ascensione, 1118 ca.
121. Tolosa, Saint-Sernin, deambulatorio, Cristo in Maestà, fine xi-inizio xii sec.
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noso rivelano la nascita di una ricerca autenticamente plastica. Nello stesso deambulatorio della chiesa di Saint-Sernin entro sei pannelli marmorei si allineano quattro Figure angeliche e due figure di Apostoli, tutte a grandezza naturale entro arcate; esse sono attribuite a Gilduino, per analogia con la tavola d’altare della stessa chiesa, firmata appunto da un Gilduino. La posizione dei corpi frontale e le teste alternativamente rivolte di fronte o di profilo danno un’impressione di arcaismo e insieme un nuovo senso di monumentalità. Talune di queste teste sono incorniciate dalle grandi ali, evidentemente ispirate a qualche modello antico, come pure i volti carnosi con chiome fluenti. Il timpano della porta di Miègeville può farsi risalire ca. al 1118; esso rappresenta una delle prime, se non la prima, delle composizioni a scena unica entro la lunetta del timpano. Vi si vede il Cristo ascendere, sorretto sotto le ascelle da due angeli, mentre altri quattro angeli lo fiancheggiano in atteggiamenti quasi danzanti
122. Rodez, Musée Fénaille, Cristo in Maestà, 1050 ca.
123. Marsiglia, Musée Borély, lastra tombale dell’abate Isarne, 1050 ca.
124. Tolosa, Saint-Sernin, deambulatorio, Bernardo Gilduino, Angelo, fine xi-inizio xii sec.
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125. Moissac, Saint-Pierre, rilievi sui pilastri del chiostro, Sant’Andrea, 1100 ca.
126. Moissac, Saint-Pierre, rilievi sui pilastri del chiostro, L’abate Durandus, 1100 ca.
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di stupore e di meraviglia, che si ritrovano nei dodici apostoli allineati sull’architrave col capo levato verso l’alto. Le pieghe semplificate e rilevate dei panneggi enfatizzano le posizioni e i loro bordi ondulati e stratificati preludono già alle capitali novità che si riveleranno poi pienamente a Moissac. Sempre a Tolosa, infine, nel capitolo di Saint-Étienne lo scultore Gilabertus firma tra il 1120 e il 1130 una serie di figure allungate di Apostoli collocate su peducci entro esili colonne, dai panneggi elaboratissimi, che per la loro collocazione sembrano anticipare da lontano le statue degli strombi dei portali di Saint-Denis e di Chartres, e che, d’altra parte, sembrano ispirare direttamente alcune figure dello scultore emiliano Nicolò. Alcuni studiosi hanno collegato questo gruppo di sculture tolosane con altre sculture spagnole, in particolare di Santiago de Compostela: c’è chi ha ritenuto anzi della stessa mano o almeno della stessa bottega le sculture che raffigurano i Segni zodiacali, ora al Musée des Augustins di Tolosa, e alcune statue del portale sud, detto «de las Platerias» (degli orefici) di Santiago. Anche se è certo che almeno un maestro tolosano era ricordato fra i tagliapietre che operavano nella cattedrale tra il 1122 e il 1128, va detto però che la qualità e l’importanza della scultura aquitanica supera notevolmente quanto viene prodotto in Spagna; né le sculture di Santiago de Compostela né l’elegante e famoso chiostro di Santo Domingo de Silos, verso il 1130, possono rivaleggiare con la grandiosa drammaticità delle sculture aquitaniche. Le novità stilistiche apparse a Tolosa si collegano a distanza di pochi anni con quelle, ancora più notevoli, che appaiono nella stessa regione aquitanica a Moissac, Souillac, Beaulieu e Charlieu. Questi centri erano situati generalmente su importanti corsi d’acqua e dalla pesca fluviale traevano redditi cospicui, tanto che le grandi abbazie della regione funzionavano come centri amministrativi con propri progetti di bonifica e di costruzione. Moissac, in particolare, godeva di un alto grado di indipendenza municipale. La parte più antica dell’imponente complesso scultoreo di Moissac è rappresentata dalle sculture del chiostro, costruito circa il 1100. Sulle facce dei quattro pilastri d’angolo sono scolpite le figure degli Apostoli, incorniciate da colonne e archi e accompagnate dall’iscrizione del nome. Le figure hanno un rilievo leggero, tanto che sembrano disegnate più che scolpite. Anche se il ridotto spessore della lastra sembra essere la causa dell’appiattimento delle figure, l’artista rivela una sua forte personalità. Nonostante alcuni arcaismi nelle posizioni di fronte e di profilo, il modellato dei visi appare molto delicato, le fisionomie individualizzate da particolari talora minimi di capigliatura, barbe, sopraccigli. Ancor più notevole è la figura dell’Abate Durandus, la cui figura frontale in atto di benedire è di un tipo commemorativo che conserva il ricordo delle figure scolpite su lastre tombali. Le linee perpendicolari e le ipotenuse delle pieghe della dalmatica, il disegno smerlato delle scarpe poste in verticale, la stessa costruzione del volto di Durandus, dalla corona tonsurata dei capelli alle linee che uniscono bocca e naso, e molti altri dettagli rivelano una straordinaria coerenza compositiva, che si estende persino alle lettere dell’iscrizione. Le sculture che ornano il portale e il portico sud della chiesa di Moissac rappresentano il più ricco e complesso documento scultoreo di tutta la regione e una delle più alte testimonianze di tutta la scultura romanica. Dall’ammirazione di cui erano circondate queste sculture abbiamo un’eco nelle parole stupite che gli dedica Aymeric, monaco archeologo, nella sua Cronaca dell’Abbazia scritta nel xiv secolo. Si può affermare che nel portico di Moissac la scultura romanica diventa monumentale, a cominciare dal gigantesco rilievo semicircolare, di oltre cinque metri e mezzo di diametro, che orna il timpano del portale, cui si aggiungono il trumeau scolpito, statue laterali e sculture sui fianchi del portico: ne risulta un insieme grandioso che è stato paragonato alle ricche decorazioni degli antichi archi di trionfo. Il solo timpano è formato da ventotto blocchi di pietra e ha come unico tema quella del Cristo Giudice, secondo il testo del capitolo iv dell’Apocalisse: il Cristo, grandiosamente immobile e frontale, è circondato dai quattro simboli apocalittici degli evangelisti, da due angeli con rotoli e da sei serafini, figure via via decrescenti secondo l’antica concezione gerarchica. A destra e a sinistra del Cristo, su tre registri stanno assisi i ventiquattro vegliardi con strumenti musicali e
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127. Moissac, Saint-Pierre, timpano del portale sud, Cristo Giudice con i simboli degli Evangelisti e gli anziani dell’Apocalisse.
128. Santiago di Compostela, portale de las Platerias, Re David, 1130 ca.
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129. Moissac, Saint-Pierre, trumeau del portale sud, Geremia. 130. Souillac, Sainte-Marie, frammenti del portale rimontati sul retro della facciata, Isaia, 1130-1140 ca.
131. Moissac, Saint-Pierre, trumeau del portale sud, rilievo con leoni e leonesse.
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132. Moissac, Saint-Pierre, portico, rilievi a fianco del portale ovest, 1120-1140 ca.
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coppe; essi volgono energicamente la testa verso Cristo e con i movimenti delle gambe accavallate suggeriscono un moto impetuoso, quasi di onde periferiche. La dinamicità della scena è accentuata dalla violenta e singolare compressione dei piani plastici sovrapposti nei panneggi elaboratissimi, nonostante che il rilievo schiacciato risulti minimo. Altrettanto violenta è la plastica con la quale gli animali vengono definiti in ogni loro particolare: basti vedere il piumaggio dell’aquila simile a una corazza o la testa quasi mostruosa del leone. La loro concentrata vitalità rivela una così perfetta coerenza stilistica che essi possono essere annoverati tra i capolavori dei bestiari scolpiti di tutti i tempi. A tanta ricchezza fantastica si aggiungono la cornice a meandro intorno alla scena e l’architrave a medaglioni fogliati di gusto arabo-ispanico. Nuova e di qualità altissima è anche la decorazione plastica del trumeau, ossia del pilastro di sostegno al centro dell’architrave, che i contemporanei ritenevano addirittura opera miracolosa più che di mano d’uomo. Sulle due facce laterali sono raffigurati per tutta l’altezza del trumeau il Profeta Geremia e San Paolo; queste figure allungatissime, dal rilievo attenuato, avvolte in drappeggi sinuosi e mosse da un elegante e febbrile passo di danza sono anch’essi capolavori del Romanico e ne esprimono la visione estatica e al tempo stesso il gusto dell’esagerazione paradossale. Sulla facciata esterna del trumeau tre coppie sovrapposte di leoni e leonesse s’affrontano in lotta e incrociando le teste e le cosce formano un intreccio inestricabile, intensificato dal sovraccarico di dettagli decorativi: figurazioni misteriose che il Mâle definiva «più assiri degli animali dell’arte assira». Infine, sul muro che fiancheggia il portico, sono scolpite scene evangeliche e moralistiche (la Parabola di Lazzaro e Epulone, la Punizione di Avarizia e Lussuria) entro archi a trifoglio retti da colonnine; là dove il 134-5. Cluny, Musée Lapidaire, capitelli del deambulatorio con i toni del canto gregoriano, 1120 ca. (?).
133. Charlieu, Saint-Fortunat, timpano del portale, prima metà del xii sec.
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136. Portale di Cluny iii, Giudizio universale, incisione del xviii sec.
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137. Autun, Saint-Lazare, Gislebertus, timpano, del portale ovest, Giudizio Universale, 1120-1135.
138. Autun, Saint-Lazare, Gislebertus, timpano del portale ovest, particolare, Gli eletti.
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139. VĂŠzelay, Sainte-Madeleine, portale ovest, timpani con la Missione degli Apostoli, 1120 ca.
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rilievo è meglio conservato, come nella Visitazione, si ammira ancora l’elegante sicurezza e al tempo stesso la libertà inventiva di queste figure e il loro rapporto con l’architettura, creata per loro dallo scultore stesso. Soprattutto nasce nelle scene moralistiche un’iconografia nuova, rivolta a una sorta di catechesi sul peccato e sulla redenzione, destinata a diventare un «topos» dell’arte romanica, anche per la comparsa del tema demoniaco, che tanto spazio avrà in tutta l’arte romanica. Non è qui possibile illustrare le altre tappe della scultura aquitanica contemporanee o di poco successive, come il portale di Souillac, di Beaulieu o il timpano di Charlieu: in quest’ultimo un genio solitario e diverso crea una straordinaria accolta di temi e di personaggi, dal Giudizio alle Nozze di Cana. Prima di lasciare questo territorio così ricco di manifestazioni si dovrà almeno ricordare, già a metà strada verso la Borgogna, la decorazione scultorea di Cluny iii, di cui è giunto fino a noi solo un gruppo di capitelli, probabilmente scolpiti intorno al 1120, per taluni anche una ventina d’anni prima. L’iconografia di questi capitelli testimonia della spontanea fusione, tipica del Romanico, di temi profani e religiosi: oltre alle Virtù teologali e cardinali e ad alcune Scene della Genesi, si vedono infatti I fiumi spirituali che irrigano il Paradiso, allegoria trasparente della vita monastica, intesa come ritorno all’Eden. Due capitelli raffigurano sulle quattro facce Gli otto toni della musica gregoriana personificata da suonatori, tra fogliame d’acanto di gusto classico e iscrizioni esplicative. Mentre questi «titilli» rivelano una corretta dottrina musicale, lo scultore si è ispirato nelle sue figure ai tipi dei «jongleurs», musicisti popolari che suonavano nelle corti e sulle piazze, introducendo così accanto al tema dotto una figurazione vivacemente realistica e popolare. Un’incisione del xvii secolo ci conserva almeno un’idea di come appariva la composizione del portale di Cluny, raffigurante un Cristo giudice, sorretto da angeli e circondato dai simboli apocalittici degli evangelisti, tema dunque centrale e quasi d’obbligo per i portali romanici francesi della prima metà del xii secolo, dove questo tema escatologico suonava di ammonimento a chi entrava nelle chiese più importanti, spesso frequentate da folle di pellegrini. Ritroveremo infatti questo tema in Borgogna nelle due grandi chiese di Saint-Lazare a Autun e della Sainte-Madeleine a Vézelay. Ad Autun la scena del timpano è firmata dallo scultore Gislebertus, fra il 1120 e il 1135. Gislebertus ha uno stile inconfondibile e ardito, fondato sull’esilità estrema delle figure, quasi allungatissimi manichini, avvolti in panneggi percorsi da un linearismo finissimo. Gislebertus non esita a mettere in scena una rappresentazione del Giudizio degli eletti e dei reprobi ricca di episodi a forti contrasti, dalla pesata delle anime eseguita da san Michele di fronte al diavolo, alla raffigurazione mostruosa dei demoni e delle pene infernali, accanto a scene di felicità e tenerezza tra gli eletti. Se a questa mescolanza di carattere visionario e di realismo sentimentale si aggiunge l’audace stilizzazione formale si comprenderà il fascino di questo Giudizio, tra i più famosi di tutto il Romanico. Altrettanta novità iconografica e sentimentale è nella ricchissima serie di capitelli, che ospitano complesse scene scritturali e leggende di santi con inesauribile fantasia di composizioni; ricorderemo tra i più noti quelli che raffigurano episodi dell’Infanzia di Cristo, di mano probabilmente di Gislebertus stesso, che di nuovo crea freschissime immagini pervase di sorridente tenerezza. Assai più complessa, severa e grandiosa è la scena che orna il timpano del portale della Sainte-Madeleine a Vézelay, per la quale in passato era stato proposto lo stesso nome di Gislebertus. Il tema escatologico vi è presentato con soluzioni così grandiose e complesse, anche iconografiche, da farlo ritenere ispirato da Pietro il Venerabile, che fu priore di Vézelay prima di essere abate di Cluny nel 1122, in anni quindi in cui le crociate sembravano rinnovare i fasti degli apostoli; e proprio a Vézelay nel 1146 Bernardo di Chiaravalle predicherà la seconda crociata. Il tema centrale della lunetta è quello del Cristo che dopo la sua Ascensione invia in missione i dodici apostoli, dando loro lo Spirito Santo. Qui lo Spirito è espresso dai raggi che collegano la sua figura con quella degli apostoli che lo affiancano. Questa missione universale è resa esplicita dalla sfilata dei popoli della terra che si svolge sull’architrave, ciascuno dei quali fantasticamente caratterizzato nell’a-
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spetto, vedi, per esempio, gli Sciti dalle grandi orecchie, secondo il gusto delle cronache dei viaggi esotici che abbondavano in descrizioni fantasiose e persino mostruose. Una doppia cornice concludeva il timpano con scene del Vangelo, figurazioni dei segni zodiacali e dei mesi. Nonostante certe analogie stilistiche con Gislebertus, come l’allungamento abnorme delle figure, lo scultore di Vézelay esalta il carattere visionario della scena e soprattutto imprime alle sue figure una tensione ben lontana dalla serenità contemplativa di Gislebertus, arriccia i panneggi affilati e li incide più profondamente. Ad anni immediatamente posteriori, fra il 1135-40 (ma c’è chi ritiene tra il 1175-80) si deve probabilmente la grandiosa decorazione plastica della facciata di Saint-Gilles in Provenza. Occorrerà tenere presente la singolare posizione artistica che la Provenza occupa nel quadro del Romanico francese per le forti reminiscenze classicheggianti, legate al ricco patrimonio di opere romane presenti nel territorio. Tutta la facciata di Saint-Gilles appare nel suo insieme concepita come un’opera di scultura, non solo per la ricchezza di statue e di rilievi, ma anche per i tre grandi portali a strombo collegati fra loro da architravi a rilievi che sembrano ispirarsi a un arco di trionfo. Anche l’idea di inserire entro cornici architettoniche una serie di figure qui a grandezza quasi naturale ricorda soluzioni classiche e in particolare i sarcofagi tardoantichi e paleocristiani. Due di queste statue di apostoli, San Matteo e San Bartolomeo, sono firmate da un «Brunus» e per la ricchez-
140. Vézelay, Sainte-Madeleine, portale ovest, San Pietro e san Paolo.
141. Saint-Gilles-du-Gard, Saint-Gilles, facciata, «Brunus», Gli apostoli Matteo e Bartolomeo, 1135-1140.
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za del panneggio e la delicatezza del rilievo giustificano l’ipotesi, peraltro non condivisa da tutti, che si tratti di quel Petrus Brunus che i documenti testimoniano presente a Gard tra il 1171 e il 1186. In questo caso la facciata di Saint-Gilles sarebbe già contemporanea alla nascita della scultura gotica in terra francese. Alcuni accenti di questa scultura provenzale si ritrovano nelle prime opere di Benedetto Antelami, il che ha fatto supporre una sua conoscenza diretta di queste sculture.
Capitolo sesto
IL ROMANICO IN ITALIA
Nota Bibliografica Una trattazione d’insieme dei vari aspetti dell’arte romanica in Europa si ha nei due volumi di F. Avril, X. Barral i Altet, D. Gaborit Chopin, Les temps des Croisades, Paris 1982 e Les royaumes d’Occident, Paris 1983 (trad. it. Il tempo delle Crociate, Milano 1983, e I regni d’occidente, Milano 1984); ricco materiale iconografico è raccolto in M. Durliat, L’art roman, Paris 1982. Accanto all’ancora fondamentale opera di A.K. Porter, Medieval Architecture, Its Origins and Development, New Haven 1912, 2 voll., è opportuno ricordare, per una trattazione d’insieme sulla storia dell’architettura romanica in Europa, oltre che per il suo sviluppo nei vari «paesaggi architettonici», il volume di H.E. Kubach, Architettura romanica, Milano 1972. Sempre utile, inoltre, la sintesi di K.J. Conant, Carolingian and Romanesque Architecture 800-1200, Harmondsworth 1966. Sulla nascita dell’architettura cistercense v. M. Aubert, L’architecture cistercienne en France, Paris 1947, 2 voll.; L. Fraccaro de Longhi, L’architettura delle chiese cistercensi italiane, Milano 1958; A.M. Romanini, Le abbazie fondate da san Bernardo in Italia e l’architettura cistercense primitiva, in Studi su S. Bernardo di Chiaravalle nell’viii centenario della canonizzazione, Roma 1971, pp. 281-298; G. Duby, Saint Bernard. L’art cistercien, Paris 1976 (trad. it. San Bernardo e l’arte cistercense, Torino 1982) e l’ampia bibliografia offerta nel saggio di A.M. Romanini e M. Righetti Tosti-Croce, Monachesimo medievale e architettura monastica, in Dall’eremo al cenobio, Milano 1987, pp. 425 sgg. Cfr. inoltre Bernard de Clairvaux…, a cura di L. Pressouyre, Paris 1992. Per la scultura sempre stimolante è la lettura dell’ormai «classico» volume di H. Focillon, L’art d’Occident. Le moyen âge roman, Paris 1938 (trad. it. Arte dell’Occidente, a cura di J. Bony, Torino 1987), e, dello stesso A., L’art des sculpteurs romans. Recherches sur l’histoire des formes, Paris 1931 (trad. it. Scultura e pittura romanica in Francia, Torino 1972). Sulla scultura romanica in Francia e in Spagna v. la serie di saggi di M. Schapiro, raccolti nel vol. Romanesque Art, New York 1974 (trad. it. Arte romanica, Torino 1982) (particolarmente interessanti i saggi su L’atteggiamento estetico nell’arte romanica e sulle sculture di Moissac). Ad A.K. Porter si deve una monumentale indagine sulla scultura romanica delle «vie dei pellegrinaggi» a San Giacomo di Compostela: Romanesque Sculptures of the Pilgrimage Roads, Boston 1923, 10 voll., tuttora fondamentale (un aggiornamento bibliografico sul controverso problema è nel grande catalogo della mostra Santiago de Compostela. 1000 ans de pèlerinage européen, Gand 1985). Sull’iconografia romanica v. l’opera «classica» di E. Mâle, L’art religieux du xii siècle en France. Etude sur les origines de l’iconographie du Moyen âge, Paris 1928, come pure quella di J. Baltrušaitis, La stylistique ornamentale dans la sculpture romane, Paris 1931. Inoltre M.M. Davy, Initiation à la symbolique romane, Paris 1977. Sulla figura dell’artista e sui programmi iconografici ricco di riferimenti alla documentazione, in particolare epigrafica, è il contributo di P. Skubiszewski, L’intellectuel et l’artiste face à l’oeuvre à l’époque romane, in Le travail au Moyen âge. Une approche interdisciplinaire, Atti del Convegno (Louvain-la-Neuve 1987), Louvain-la-Neuve 1990, pp. 263-321. Su Cluny iii v. da ultimo il catalogo dell’esposizione Cluny iii. La maior ecclesia, Cluny 1988.
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L’architettura romanica in Valle Padana L’elaborazione dell’arte romanica in Lombardia appare ancora una volta secondo una secolare tradizione strettamente legata alle vicende del romanico d’Occidente. In particolare è stato sottolineato da taluni studiosi come per certi aspetti e caratteristiche strutturali il Romanico lombardo si presenti quasi come una variante importante dei «paesaggi architettonici» d’oltralpe e in particolare dell’architettura del medio e basso Reno. Bisogna tuttavia subito precisare che lo sfondo sociale e politico della cattedrale romanica italiana si distingue per la sua committenza spesso comunale, non aristocratica né feudale e non esclusivamente ecclesiale. Così pure si manifesta in Valle Padana meglio che altrove la realtà importantissima del cantiere, sia architettonico sia scultoreo, un fenomeno sul quale gli studi hanno fatto parecchia luce. E appunto alla forte presenza del cantiere che si deve quella profonda unità e al tempo stesso ricchezza di ispirazioni diverse che costituisce il fascino inconfondibile di alcune maggiori cattedrali romaniche padane. In anni assai precoci, tra il 1025 e il 1040, nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Lomello compaiono nella navata centrale, coperta a capriate, grandi archi trasversali in corrispondenza dei pilastri con semicolonne addossate; viene così introdotto il ritmo della campata, che spezza l’uniforme successione degli archi di tradizione basilicale. Le navate laterali sono coperte da volte a crociera costolonate. Questa diversa copertura delle navi richiama l’originaria copertura di Spira, come pure gli archi a doppia ghiera e i rinforzi sulle pareti longitudinali. Rapporti stretti tra Lombardia e chiese germaniche lungo il Reno e la Mosa si ravvisano anche nella forte articolazione della muratura e nei matronei; ma la scomparsa di molte importanti cattedrali del tempo, come quella di Pavia, di Novara e di Vercelli, non permettono di rintracciare le varie soluzioni architettoniche. Anche la cattedrale di Modena, originariamente coperta a capriate nella navata centrale, la cattedrale di Piacenza o la cripta della cattedrale di Parma rivelerebbero analoghi rapporti. Tutta la storia del romanico in Lombardia si accentra intorno alla basilica di Sant’Ambrogio. Un primo ampliamento della costruzione originaria, non più esistente, era già avvenuto forse già tra il secolo ix e il x quando l’antica abside paleocristiana viene sostituita da una struttura più ampia aperta da tre grandi finestre, poi coronata da una serie di fornici sotto il tetto. All’interno l’abside stessa viene preceduta da un coro voltato a botte, mentre sul fianco della basilica veniva eretta una torre campanaria. Nel corso della prima metà del secolo xii la basilica subisce una profonda trasformazione: all’interno la navata centrale viene suddivisa in tre campate all’incirca quadrate cui s’aggiunge una quarta campata coperta dal tiburio; a ogni campata maggiore corrispondono nelle navate due campate minori, anch’esse, come le maggiori, quadrate
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145. Pavia, San Michele, xi-xii sec., facciata.
146. Como, San Fedele, xi-xii sec., portale posteriore.
142. Milano, Sant’Ambrogio, xi-xii sec., interno.
143. Milano, Sant’Ambrogio, 1098, facciata con il quadriportico.
144. Lomello, Santa Maria Maggiore, 1025-1040, interno.
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147. Piacenza, cattedrale, interno, rilievi con le Corporazioni, seconda metà xii sec.
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e coperte da volte a crociera costolonate. Il ritmo tra campate maggiori e campate minori è sottolineato dall’alternanza di pilastri maggiori, con colonne addossate, e pilastri minori. Nell’alzato della navata maggiore alle campate succedono i matronei, che si aprono con arcate doppie verso la navata maggiore; oltre che esercitare una funzione statica scaricando il peso soprastante, essi raddoppiano la superficie disponibile, lasciando sgombra la navata per le processioni. Davanti alla chiesa, in posizione assiale, si sviluppa un atrio a quadriportico che reca la data 1098, con volte a crociera su pilastri cruciformi di dimensione uguale alle campatelle interne, cosicché i lati del portico risultano in stretta continuità della basilica stessa; il quarto lato del portico è addossato alla facciata della chiesa e si presenta a due piani con una loggia superiore a tre grandi archi di altezza decrescente. Questa sommaria descrizione è sufficiente a mettere in evidenza la profonda organicità strutturale e spaziale della basilica di Sant’Ambrogio, che fa di essa la chiesa tipo del romanico lombardo, pur tenendo sempre presente, come si è detto, che importanti cattedrali romaniche non più esistenti ci sottraggono i necessari confronti. La coerenza strutturale di Sant’Ambrogio si esprime nella robusta sensibilità plastica, rilevabile ovunque, nei costoloni, nelle colonne addossate, nei capitelli pensili, nelle doppie cornici degli archi. La concezione fortemente ritmata dello spazio introdotta dalle campate interviene anche nella differenziazione dei livelli della chiesa, che nella parte absidale è sopraelevata grazie alla cripta sottostante. Anche la distribuzione della luce è ineguale: assai ridotta lungo le navate, si intensifica sotto il tiburio e nella facciata. Volte a crociera, matronei, absidi a galleria, facciate a capanna o a «salienti» compaiono in tutto il territorio lombardo, talvolta in forme pure come a San Sigismondo di Rivolta d’Adda (la cui costruzione è riferibile al papato di Urbano ii, 1088-1099), talaltra in forme più mescolate o in parte rimaneggiate, come a San Fedele di Como o a San Savino di Piacenza, consacrata nel 1107. Anche la chiesa di San Michele a Pavia ha subito profondi cambiamenti: la sua parte più antica e autentica è la facciata in pietra, di raffinata composizione nei fasci di colonnine che la suddividono in altezza, nelle loggette lungo gli spioventi del tetto, nel gruppo di finestre concentrate al centro e nelle bande orizzontali di sculture «erratiche» che la traversano orizzontalmente. La muratura interna, come a San Fedele di Como, si presenta a intercapedine agibile, ossia è penetrata da scale e corridoi. L’originalità di San Fedele è invece piuttosto nella planimetria rara, nella quale una breve navata si innesta in un vasto corpo absidale a tre conche, di cui la centrale poligonale; le volte a crociera proseguono dalla navata al corpo absidale con un singolare anticipo di future soluzioni. Queste chiese lombarde presentano un tipo di decorazione plastica assai interessante, certamente più arcaica e meno coerente della grande plastica emiliana contemporanea e che attende ancora di essere meglio approfondita nei suoi caratteri e nei suoi legami culturali. Si tratta in generale di soggetti svincolati da un chiaro programma iconografico e che attingono soprattutto al repertorio di figurazioni di animali e di motivi vegetali o fantastici e, in misura molto minore, alla figura umana. Queste sculture ornamentali sembrano ricollegarsi ancora all’antico patrimonio decorativo longobardo o della tradizione miniatoria; esse si dispongono lungo gli stipiti delle porte o negli sguanci delle finestre, nei pulpiti e in misura via via crescente nei capitelli. Alcune di queste decorazioni scultoree, pur nel loro arcaismo formale e compositivo, presentano una forte vitalità plastica. In particolare nel pulpito di San Giulio d’Orta la figurazione simbolica dei quattro Evangelisti ha uno sbalzo nitido e una compattezza di forme che sono state paragonate alle sculture in metallo della Bassa Sassonia; il pulpito di Sant’Ambrogio a Milano che unisce figurazioni fantasiose alla rappresentazione dell’Ultima Cena, come pure le sculture del portale posteriore di San Fedele, sono fra i più interessanti testi di questa più antica scultura lombarda. Un posto a parte, parzialmente legato alla plastica romanica emiliana occupano le raffigurazioni delle corporazioni artigiane – mercanti di stoffe, calzolai, carradori e così via – che ornano mura e pilastri di cattedrali romaniche padane, tra le quali ci limitiamo a ricordare quelle di Lodi e di Piacenza; esse costituivano una sorta di targa di benemerenza verso chi aveva
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contribuito alle spese per la costruzione della chiesa. La precisa rappresentazione del lavoro, pur nell’ingenuità dell’esecuzione, getta una luce interessante sull’intervento diretto di questa committenza laica e della crescente importanza del ceto mercantile. Nel 1099 per decisione del capitolo e dei maggiorenti della città fu fondata la cattedrale di Modena: il cantiere di Modena è esemplare di questo intervento della committenza comunale e dunque laica. L’architetto Lanfranco, «reggitore e maestro», viene citato in una lapide elogiativa, segno di un consapevole omaggio alla figura dell’artista come organizzatore del cantiere; egli è citato anche nella relazione per la traslazione del corpo di san Geminiano, dove è detto «mirabilis artifex, mirificus aedificator». L’interno del Duomo, costruito interamente in mattoni con una perfetta padronanza di questa tecnica, è diviso in campate, ma originariamente era coperto nella navata centrale e in quelle laterali a capriate. Questa rinuncia alla copertura a volte rappresenta una scelta deliberata, mentre si affida la suddivisione in campate all’alternanza tra pilastri rafforzati da colonne addossate e semplici colonne e soprattutto alla presenza di arcate trasversali aperte da bifore; il matroneo, invece, segnato lungo la navata da coppie di
148. Milano, Sant’Ambrogio, pulpito, xi sec., ricomposto durante il xii sec., particolare.
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trifore, è finto e la sua funzione, analoga a quella dei muri diaframma, è di traforare la parete. La facciata esterna, fortemente marcata dall’intervento di Wiligelmo, si impone subito per la forza degli aggetti e delle cavità, i primi marcati dai robusti contrafforti, dal protiro e dalle arcate cieche, le seconde soprattutto dal tema del loggiato che, racchiuso in arcate cieche, percorre non solo la facciata ma i fianchi per tutta lunghezza e il giro delle tre absidi.
«Inter scultores quanto sis dignus onore claret scultura nunc Wiligelme tua»
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Le epigrafi del Duomo di Modena testimoniano dell’alto prestigio che godeva a quel tempo la scultura. Già nella lastra dedicata all’architetto Lanfranco sull’abside si parla dei «bei marmi scolpiti che fanno brillare la casa» («marmoribus sculptis domus haec micat undique pulchris»). L’epigrafe sulla facciata, con la data 1099, dedicata a Wiligelmo e retta dai due profeti Enoch ed Elia – che conobbero l’immortalità e sono quindi garanti di una fama eterna – tributa a Wiligelmo un altissimo elogio: «inter scultores quanto sis dignus onore claret scultura nunc Wiligelme tua», dove i termini di «scultore» e di «scultura» sono termini colti di origine classica, non molto impiegati fuori d’Italia. Lo stesso Wiligelmo dovette soprintendere all’architettura della facciata non in qualità di architetto-scultore, secondo la tradizione nordica, ma come scultore-architetto, inaugurando così una illustre tradizione italiana che proseguirà per tutto il Duecento e l’inizio del Trecento con Nicola, Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. Sarebbe dunque da ascrivere a Wiligelmo anche il forte ritmo chiaroscurale della facciata, nella quale compaiono numerosi pezzi scolpiti. La loro collocazione originaria e quindi la loro sequenza programmatica non è sempre ricostruibile con chiarezza, anche se molte di esse, e massime le Storie della Genesi, furono in origine eseguite per la facciata. Sebbene non tutte le sculture della facciata siano state attribuite con unanimità a Wiligelmo, gli studi più recenti tendono ad allargare l’autografia di Wiligelmo quasi a tutte. Fra queste sculture il primato spetta alle quattro lastre con Storie della Genesi, che forse un tempo si presentavano allineate e quindi con più imponenza, anziché come ora su due diversi livelli a destra e a sinistra del portale. La loro esecuzione è collocabile fra la data dell’epigrafe del 1099 e il 1106, data della traslazione del corpo di san Geminiano e comunque entro il 1110. Ogni lastra misura m. 1 x 1,86 e comprende episodi della Genesi, dalla creazione di Adamo all’arca di Noè, distribuiti a gruppi di tre per lastra in sapiente sequenza compositiva sotto una robusta cornice aggettata di archetti pensili. È probabile che Wiligelmo si sia ispirato in parte anche a qualche sarcofago antico, come si vede dai motivi decorativi delle cornici. Il ritmo narrativo è lento e solenne, come si conviene agli eventi fondanti della storia religiosa dell’umanità. La forza dei volumi emergenti dal fondo e sapientemente stondati infonde ai personaggi una «gravitas» faticosa e quasi dolente, del tutto libera, però, da impaccio formale o da arcaica ingenuità; al contrario, il torpido ergersi di Adamo, il dialogo degli sguardi e dei gesti nel Peccato, il faticoso convergere dei gesti nel Lavoro dei Progenitori, il violento abbattersi del corpo di Abele sotto il colpo di Caino e altri esempi ancora rivelano in Wiligelmo un grande e geniale maestro, pari ai massimi scultori romanici d’Occidente. Molte ipotesi sono state avanzate per collegare certe soluzioni formali dello stile di Wiligelmo alla scultura aquitanica e in particolare tolosana, come ad esempio l’impiego della piega cordonata nei panneggi; ma è più probabile che simili codici formali circolassero nei cantieri di scultura, veicolati da altre forme d’arte e favoriti dalla mobilità delle maestranze stesse di cantiere. Le numerose scritte che accompagnano le scene della Genesi confermano il carattere colto delle opere di Wiligelmo; si tratta di scritte dell’Antico e del Nuovo Testamento; altre, come la scritta accanto al telamone
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149. Modena, cattedrale, 1099-inizio xiii sec., facciata.
150. Modena, cattedrale, interno.
151. Modena, cattedrale, Wiligelmo, Storie della Genesi, 1099-1110 ca.
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153. Modena, cattedrale, Wiligelmo, stipiti del portale, particolare, Filippo, 1099-1110 ca.
154. Modena, cattedrale, ÂŤMaestro delle MetopeÂť (Wiligelmo?), metopa cosiddetta degli antipodi, 1099-1110 ca.
155. Modena, cattedrale, Wiligelmo, capitello.
156. Modena, cattedrale, Wiligelmo, Nascita di Eva, 1099-1110 ca.
152. Modena, cattedrale, Wiligelmo, prima lastra, particolare, Creazione di Adamo, 1099-1110 ca.
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che regge la mandorla dell’Eterno («hic premit, hic pulsai, hic gemit [...]»), spiegano il senso cristiano della figura, che riprende il tema pagano dell’Atlante; in un altro caso la scritta «dum deambularet in Paradisum» si trova identica nel testo del più antico dramma liturgico, il Jeu d’Adam, il che ha fatto ritenere (C. Frugoni) che Wiligelmo si sia servito di quel testo. Si tende oggi ad attribuire quasi tutte le sculture della facciata alla mano di Wiligelmo, e così pure si tende a ritenere che esse siano state originariamente pensate per la facciata, anche se la posizione di talune, e principalmente dei quattro Simboli degli evangelisti, chiaramente non risponde a quella originaria. La solenne sequenza di dodici Profeti che orna l’intradosso degli stipiti del portale apre in certo modo il programma iconografico della facciata, relativo alla redenzione dell’uomo. Queste figure collocate saldamente nella cornice architettonica sono veri prototipi dell’umanità di Wiligelmo, nel loro aspetto solenne e austero e nel loro vigoroso risalto dal fondo, accentuato dal muoversi in diagonale della figura e dei piedi. Di Wiligelmo sono anche i Genietti funebri con la face rovesciata, di evidente ispirazione classica, nonché la figura di Sansone che smascella il leone e i bellissimi quattro Simboli degli evangelisti nella parte superiore della facciata. Il forte squadro geometrico delle loro figure fa supporre che esse dovevano essere inscritte in qualche cornice architettonica. A Wiligelmo appartiene probabilmente la massima parte dei capitelli della facciata, al sommo delle colonne addossate e negli archi del loggiato. Le figurazioni di questi capitelli sono tratte in alcuni casi dal repertorio classico dei personaggi metà uomo e metà bestia, come i centauri e le sirene, ma Wiligelmo arricchisce questa tematica con altre immagini fantastiche o mostruose, evidenti allusioni all’uomo deformato dal peccato. L’originalità compositiva di questi capitelli, che non ha riscontri altrove, sta nel piegare l’immagine alla forma cubica del capitello, attraverso la simmetrica ripetizione dell’immagine stessa, le cui braccia, gambe o teste segnano appunto gli angoli del capitello. Nonostante un’attribuzione a Wiligelmo (Quintavalle) del bellissimo gruppo delle cosiddette «metope» collocate originariamente sui contrafforti del cleristorio, il loro autore resta del tutto anonimo. Nello spazio quasi quadrato della lastra si dispongono armonicamente figure misteriose, in passato interpretate come giocolieri e acrobati e di recente, più plausibilmente, avvicinate ai personaggi fantastici e alle mitiche razze che popolavano le cronache dei viaggiatori di terre lontane. La morbidezza delicata del rilievo, la raffinatezza di alcuni particolari di vesti e di capelli ha fatto pensare a un artista forse borgognone, ma il giudizio è reso difficile dalle cattive condizioni di queste sculture, logorate dal tempo. Ancora più gravemente compromesso è, sul fianco sud, il gruppo della Lotta di Giobbe con l’angelo e del Veridico che strappa la lingua alla frode, nella concitazione dei personaggi e nell’allungamento abnorme della figura principale queste sculture fanno pensare a un artista non italiano presente nel cantiere wiligelmico. Di artisti dello stesso cantiere modenese sono anche le sculture dei due portali della Pescheria e dei Principi. Quest’ultimo, rivolto verso la città, narra con stile fresco e vigoroso le Storie di san Geminiano con un esplicito ricordo della crociata del 1099 e della riconquista di Gerusalemme. Più complessa l’iconografia della porta della Pescheria, rivolta alla campagna, per i temi inediti tratti dalla «chanson de geste» (il ciclo di Re Artù) e dai racconti moralistici dei «fabliaux» francesi. Il popoloso cantiere di Modena e lo stesso Wiligelmo si dovettero spostare da un luogo all’altro nella regione in un giro d’anni assai ristretto, anzitutto nella vicina chiesa abbaziale di Nonantola e nella cattedrale di Cremona. Le sculture del portale di Nonantola venivano assegnate comunemente ad anni successivi a quelli di Modena, mentre si deve ritenere che la loro esecuzione risalga agli anni in cui fu concluso il primo edificio nel 1103 (rifatto più tardi nel 1121); precisamente sono ormai assegnate a Wiligelmo le forti sculture della lunetta del portale – in origine collocate altrove – con il Cristo Giudice e i quattro Simboli degli evangelisti, come pure i leoni stilofori. Ancora a Wiligemo sono state assegnate anche alcune Storie dell’infanzia di Cristo che ornano il portale, accanto alle Storie di Astolfo, che appartengono invece all’autore della porta dei Principi.
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157. Nonantola, portale dell’abbazia, Cristo giudice fra i simboli degli Evangelisti, 1103 ca.
158. Nonantola, portale dell’abbazia, Anselmo e l’abbazia di Nonantola, 1103 ca.
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A Cremona i lavori della cattedrale cominciarono esattamente al termine dei lavori di Modena, e cioè nel 1106, e dovevano essere compiuti nel 1117, quando la cattedrale subì i danni del terremoto. Numerose sono le reminiscenze dirette di Wiligelmo, per esempio nella lastra dedicatoria sorretta, come a Modena, dalle figure di Enoch ed Elia; da respingere è invece l’attribuzione a Wiligelmo per i quattro bellissimi Profeti che ornano gli stipiti del portale; l’incisività affilata e quasi crittografica dei panneggi appiattiti e sfogliati, delle barbe e dei folti capelli, l’assenza di cornici architettoniche portano piuttosto a un altro grande maestro anonimo, forse non italiano. Tre decenni circa separano questa intensa stagione wiligelmica dall’attività di un altro grande scultore, Nicolò o Nicolao, che per la sua attività itinerante e per la singolarità di stile è da considerare, dopo Wiligelmo e prima della comparsa dell’Antelami, la personalità più spiccata della scultura romanica padana. Già la sua presenza, probabilmente giovanile, nella porta dello Zodiaco alla Sagra di San Michele in Val di Susa pone la questione dei suoi legami con la terra francese e di suoi possibili viaggi a Tolosa, per i tratti lombardeggianti misti a echi tolosani del suo stile. Le sculture della Sagra sono di alto interesse iconografico in quanto rappresentano il più antico ciclo romanico dello Zodiaco, cui s’aggiunge una serie di altre dodici Costellazioni che non hanno parallelo se non nei manoscritti di Arato. Il nome di Nicolao è presente su uno dei pilastri della porta dello Zodiaco con un’epigrafe latina che ne attesta l’attività. La sua ricca attività in varie città dell’Italia settentrionale lo fa ritenere a capo di una vasta bottega itinerante. Egli «firma» il portale maggiore del Duomo di Ferrara, fondato nel 1135: abbiamo così un importante riferimento cronologico per le sculture del portale, che probabilmente seguono quelle del portale di Piacenza. Nel portale di Ferrara la lunetta con il San Giorgio a cavallo nell’atto di uccidere il drago è figura di raffinata esecuzione e di gusto intensamente cavalleresco; mentre le formelle con le Storie di Cristo sull’architrave sono elaborate con un rilievo compresso e un linearismo sottile e tortuoso tipico di Nicolò. E si potrà anche notare che la collocazione delle sculture nella lunetta e nell’architrave è assai più frequente in Francia che non in Italia. Gli echi aquitanici appaiono particolarmente intensi nella serie di figure di Profeti sugli stipiti del portale, collocate su piedestalli triangolari e quasi incastrate entro brevi nicchie, tanto che sembrano preludere alle figure negli strombi dei portali di Saint-Denis e di Chartres. Figure simili di Profeti compaiono anche nel portale del Duomo di Verona; nelle modanature esterne dello stesso portale montano la guardia due figure di paladini in armi (di nuovo un tema cavalleresco, come pure poi nel portale di San Zeno). L’insistenza del linearismo inciso e minuzioso si riflette anche nell’elaborata decorazione delle colonne e dei piedistalli degli strombi; questo vigore inciso di Niccolò appare placarsi solamente nelle Scene della Genesi del portale di San Zeno, dove un Guglielmo della sua stessa bottega firma le Storie di Cristo a sinistra.
159. Ferrara, cattedrale, Nicolao, lunetta del portale maggiore, San Giorgio e il drago, 1135 ca.
I molti aspetti del Romanico italiano 161
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Se l’architettura della basilica di San Zeno a Verona rappresenta una versione in chiave veneta, raffinata e pittorica, della cattedrale modenese per la leggerezza degli aggetti e per la delicata policromia, l’architettura a Venezia e in laguna assimila solo alcuni tratti romanici, cosicché il fondamento inconfondibilmente orientale mescolato a ricordi ravennati risulta predominante. Prettamente orientale è la planimetria di Santa Fosca a Torcello, a croce greca inscritta in un ottagono. La cattedrale di Torcello restaurata entro il 1031 rinnova la tradizione basilicale ravennate in cotto e presenta all’interno preziose colonne antiche collegate con travature di legno all’uso bizantino. Il monumento veneziano di assoluta preminenza, attorno al quale si accentra tutta la storia del romanico veneziano, è naturalmente la basilica di San Marco: già basilica martiriale fondata quando giungevano a
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160. Ferrara, cattedrale, Nicolao, stipiti del portale maggiore, 1135 ca.
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Venezia nell’829 le reliquie di san Marco e nel contempo cappella annessa al palazzo dogale, la sua ricostruzione è tradizionalmente fissata nel 1063; più precisamente essa fu iniziata sotto il doge Domenico Contarini (1042-1071) e portata a termine sotto il doge Vitale Falier (1086-1096). Il modello orientale di San Marco è la chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli, costruita dagli stessi architetti di Santa Sofia: il tema è quello di una croce greca sormontata da una cupola maggiore all’incrocio dei bracci e da quattro cupole minori alle estremità, tutte a tamburo rialzato. La basilica è preceduta da un atrio importante e contiene all’interno alcune notevoli varianti rispetto allo schema a pianta centrale: in luogo della perfetta simmetria dei bracci della croce, il braccio orientale presenta la tripartizione tipica di una zona presbiteriale con cripta sottostante e coro a tre absidi. Le gallerie della navata centrale, anziché a loggiato si presentano a balconata lasciando scorgere le grandi volte a botte che le coprono. Inoltre i poderosi pilastri di sostegno alla cupola sono scavati e divisi da un’apertura in quattro pilastri ad arco. Nonostante le raffinate colonne e lo sfarzo decorativo dei mosaici che lo rivestono quasi interamente, l’interno di San Marco presenta quindi una scala quasi gigantesca di membrature e una forza poderosa tutta romanica nei pilastri e nelle volte: è anche da questo contrasto che San Marco trae la sua unicità d’immagine. Il profondo mutamento di gusto che si avverte nel passaggio dall’Italia settentrionale alle regioni dell’Italia centrale è da ascriversi per la massima parte al vario ma costante rapporto con la tradizione classica, talvolta mediata attraverso l’Oriente, che costituisce la matrice culturale di queste regioni, pur con infiltrazioni e imprestiti provenienti dal Romanico padano, liberamente utilizzati e inseriti in un contesto sostanzialmente diverso. Non cessa di stupire in questo senso la profonda classicità del Battistero di Firenze, costruzione interamente romanica, consacrata nel 1039, anche se di probabile fondazione tardoantica. Il richiamo all’antico è già nella pianta ottagona e all’interno nell’alternanza del motivo dell’architrave e dell’arco nell’ordine inferiore, cui succedono un ordine superiore a loggiato e una cupola a spicchi. Altrettanto insistente il richiamo antichizzante nel doppio ordine esterno; esterno e interno sono poi interamente ricoperti dal ricco paramento murario a disegno geometrico, opera dell’Arte di Calimala (da Carrara a Firenze, il marmo caratterizza fortemente il volto dell’architettura romanica toscana): è questo un tipo di decorazione destinato a una lunga fortuna nella cerchia fiorentina, dominato da una severa razionalità nella scansione geometrica degli spazi. Allo stesso periodo appartiene la costruzione della chiesa del monastero benedettino di San Miniato al Monte, che risulta già compiuta nel 1063. Alcuni elementi romanici lombardi dell’interno, quali i pilastri cruciformi, l’alta cripta e le arcate diaframma che segnano il ritmo della campata, appaiono interamente tradotti in linguaggio fiorentino, sia per la classicità delle bellissime colonne, sia per la copertura a travature decorate, sia per la bellissima abside ad archeggiature chiuse da lastre marmoree. La stessa chiarezza spaziale, che sembra addirittura preludere al gusto del primo Rinascimento, è nelle altre chiese fiorentine sorte nel giro di pochissimi anni, la chiesa dei Santi Apostoli di pure forme basilicali (1073) e San Pietro a Scheraggio, consacrata nel 1068. Tutto il gruppo delle chiese fiorentine appare tuttavia come un caso fortemente isolato e culturalmente circoscritto se si passa a considerare l’altissimo capitolo dell’architettura pisana, i cui esiti si ripercuoteranno invece in una vasta cerchia toscana e in particolare nella Lucchesia. Capolavoro assoluto di questa architettura e si può dire dell’architettura di tutti i tempi è il Duomo di Pisa, cui si affiancano nel corso del secolo xiii le costruzioni del Battistero, del Camposanto e del campanile, componendo un insieme di maestosa e candida bellezza marmorea, posata sull’ampia superficie erbosa. Fondata nel 1063, dopo la vittoria della flotta pisana sui saraceni nei pressi di Palermo e consacrata una prima volta nel 1118 da papa Gelasio, ma completata solo nel xiv secolo, la cattedrale di Pisa si potrebbe
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161. Verona, San Zeno, xii sec., facciata.
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162. Firenze, Battistero di San Giovanni, consacrato nel 1059, interno.
163. Firenze, Battistero di San Giovanni, esterno.
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164. Firenze, chiesa dei Santi Apostoli, 1075, interno.
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addirittura definire una variante di basilica mediorientale. In realtà le influenze, sin troppo evocate, armene, siriache, mesopotamiche vengono profondamente rielaborate e fuse in una versione di sapore sostanzialmente classico-bizantino, che rappresenta la raffinata variante pisana dell’architettura romanica. Il piano originale della cattedrale è opera dell’architetto Buscheto, esaltato da un’iscrizione alla stregua del mitico Dedalo, la cui arca è posta all’ingresso del tempio come quella di un fondatore di città. L’attuale facciata con il prolungamento di tre campate è però opera più tarda, tra il 1150 e il 1160, dell’architetto Rainaldo. L’impianto della cattedrale è basilicale a cinque navate; quella centrale divisa da colonne monolitiche di marmo nero con capitelli antichi o di gusto antico, sopra ai quali corre un matroneo suddiviso da bifore. Numerosi, si è detto, gli echi bizantini o islamici: gli alti piedritti, le bande bianche e nere, destinate a larga fortuna in Toscana; inoltre gli archi a sesto acuto che separano la nave dal transetto e la cupola ellittica, richiamano il modello di San Demetrio a Salonicco, ma tutto appare ripensato in una interpretazione «moderna» e originale, con una geniale mescolanza culturale. Anche all’esterno inserti di tipo lombardo come le gallerie cieche di cui si cinge l’abside sono liberamente accostati ad elementi decorativi di origine orientale e nel paramento murario numerose lastre antiche di riuso appaiono un deliberato omaggio alla classicità. La cattedrale pisana avrà, come si è detto, un ruolo egemone nel territorio, con numerose varianti, spesso notevoli o in versione semplificata nella campagna pisana e soprattutto a Lucca (San Frediano e San Michele).
166. Cagliari, cattedrale, pulpito di maestro Guglielmo, 1152-1162.
167. Pisa, Battistero, seconda metà xii sec., rilievi del portale.
168. Pisa, cattedrale, Bonanno Pisano, porta di San Ranieri, 1180 ca., Visitazione.
165. Pisa, veduta del Campo dei Miracoli.
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Nel campo della scultura, invece, il pur ricco laboratorio pisano di Guglielmo, che si vantava di essere «prestantior arte modernis», non offre sicure indicazioni per la definizione di uno stile originale autenticamente pisano. Autore del pulpito pisano ora nella cattedrale di Cagliari, il suo stile appare certamente interessante ma fin troppo culturalmente mescolato di gusto antichizzante e di lombardismi, che talora sono stati interpretati come influssi provenzali; e altrettanto si può dire dei suoi allievi, Gruamonte, autore dell’architrave del portale di Sant’Andrea a Pistoia, e Roberto, autore della vasca battesimale di San Frediano a Lucca. La testimonianza, in apparenza più modesta ma forse più consona al gusto pisano, è da cercarsi piuttosto nella ricca decorazione del portale del Battistero di Pisa, dove, stretti tra colonne con classici racemi, si levano gli stipiti decorati a formelle figurate; nei Mesi drappeggiati all’antica o nelle coppie di Apostoli si trova un’eleganza nitida di profili e di panneggi classicheggianti, un’atmosfera di raffinata cultura, talora una grazia esile che quasi sembra preludere alle prime espressioni del gotico. Altrettanto originali le celebri porte bronzee della cattedrale, fuse nel 1180 da Bonanno, «civis pisanus»: le scene delle Storie di Cristo sono narrate entro i nitidi riquadri decorati a rosette con una sciolta freschezza di modellato, lontana da bizantinismi ma anche da ricordi classici, pari alla freschezza delle soluzioni compositive e narrative. Difficile distinguere le radici di queste iconografie e di questo stile, tra popolare e colto, che in parte ricordano lo spirito dei bronzi renani dell’epoca. Assai diversa che non a Pisa è la mescolanza di sensibilità classica e romanica nell’architettura umbra. Essa sembra concentrare la sua attenzione alle facciate, caratterizzate da un’originale spartizione mediante cornici verticali e orizzontali, e dunque con un suggerimento sempre di riposata misura di sapore classico, come si vede, ad esempio, nel San Pietro di Spoleto o nel San Rufino di Assisi; ma anche con una costante inserzione di elementi scultorei di carattere decorativo e di sapore intensamente romanico: un gusto che si ritroverà anche in alcune chiese del Lazio settentrionale e principalmente in San Pietro e in Santa Maria Maggiore a Tuscania. Nel Lazio stesso, infine, e a Roma in particolare, la vicenda romanica troverà naturalmente un nesso ancor più intenso con l’antica tradizione paleocristiana, favorita dall’opera di ricostruzione parziale o totale di molte chiese nel corso del xii secolo. Questo rapporto viene originalmente rivissuto nell’opera dei marmorari attraverso il largo ricorso a una particolare decorazione delle facciate, dei chiostri e degli arredi liturgici, come altari, amboni, plutei d’iconostasi, ceri pasquali: questa decorazione, che prende il nome di cosmatesca dai presunti fondatori di questa corrente, i Cosmati, è una decorazione fortemente cromatica di tessere di marmi colorati e dorati, a fasce, nastri, riquadri geometrici. È soprattutto questa decorazione a dare tono a facciate e interni semplicissimi, di intenso ricordo paleocristiano, come Santa Maria in Trastevere o la basilica inferiore di San Clemente e, fuori di Roma, la bella facciata del Duomo di Civita Castellana. Le testimonianze scultoree umbre e laziali sono spesso strettamente subordinate all’architettura e abbastanza raramente raggiungono livelli straordinari; tuttavia si deve rilevare una molteplicità di materiali usati – dal legno alla pietra al marmo – maggiore che in Val Padana, cui corrisponde un ventaglio di espressioni sconosciute al nord: gruppi lignei, decorazioni plastiche di arredi liturgici, campi quindi apparentemente secondari, dove spesso si trovano le testimonianze più originali. Una nuova affascinante mescolanza e quasi giustapposizione di reminiscenze classiche e di rusticità romanica è appunto nella ricchissima decorazione plastica della facciata di San Pietro di Spoleto e nelle chiese di Tuscania. Nel Lazio la scultura è spesso legata alle suppellettili liturgiche che richiedevano parti scolpite, come ceri pasquali, amboni o cattedre vescovili, senza elaborare un vero e proprio stile. Ma nel Lazio stesso, come già nella Toscana meridionale, la scultura romanica ha una sua espressione solo apparentemente minore, qualitativamente invece assai alta nel campo della plastica lignea. Il numero di esemplari tramandatoci è certamente assai ridotto, data la deperibilità del materiale, e la policromia originaria è nella maggior parte dei casi perduta o gravemente compromessa.
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169. Spoleto, San Pietro, xii sec., facciata.
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Tuttavia la nobiltà di queste immagini – Madonne, crocifissi e scene di crocifissioni – talvolta a grandezza quasi naturale, sta anzitutto nella loro dignità di statuaria a tutto tondo, in contrasto con la povertà del materiale. Una classicità trovata si direbbe istintivamente e un realismo nuovo e immediato, nonostante le numerose inflessioni di ricordo bizantino, formano il fascino di questo stile. Fra le opere lignee più singolari ricorderemo la Madonna con il bambino del Museo di Palazzo Venezia a Roma, risplendente di colori e di cristalli, la Madonna del Duomo di Alatri, di gentile rusticità arcaica; e tra i gruppi lignei sono da annoverarsi come autentici capolavori la Deposizione del Duomo di Tivoli e quella del Duomo di Volterra, che ha conservato la policromia originaria. Si tratta di opere che cadono nella prima metà del Duecento e come tali spiritualmente già appartenenti, almeno in parte, a un successivo versante artistico. Talora, come nella citata Deposizione di Tivoli o nelle due figure di Maria e di Giovanni presenti nel Museo di Cluny a Parigi, esse sembrano già risentire di quel momento raro di equilibrio tra realtà e idealità che è proprio del primo gotico francese intorno al Duecento. Nel 1059 il normanno Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo prestava a papa Niccolò ii un giuramento di fedeltà nel quale egli si dichiarava duca di Puglia e di Calabria, toccategli in successione, e, con l’aiuto di Dio, re della Sicilia ancora da conquistare; la conquista fu compiuta nel corso di una trentina d’anni ad opera soprattutto di Ruggero i, fratello di Roberto. Si compiva così un evento fondamentale per la storia del Mezzogiorno d’Italia, l’unificazione della Sicilia con tutte le altre regioni della penisola a sud del ducato di Spoleto e delle terre papali. A Bari la costruzione della cattedrale di San Nicola è connessa con l’arrivo nel 1087 delle reliquie del santo, come già per San Marco a Venezia. La chiesa presenta una tale ricchezza e complessità di soluzioni architettoniche da porsi a capo del folto gruppo di splendide chiese romaniche pugliesi e da rispecchiare la singolare situazione culturale locale nel xii secolo e nel primo Duecento. Inconsueta nel panorama italiano è già la presenza delle due torri in facciata, di sapore oltremontano e qui specificamente normanno; sul fianco massicci arconi sormontati da loggette raccordano la facciata con i bracci del transetto, fungendo anche da sostegno alle volte interne. Le absidi sono chiuse all’esterno da un’alta cortina muraria del tutto insolita, creando una sorta di seconda facciata. Un certo vocabolario architettonico lombardo – le loggette, gli archetti pensili e le lesene, i portali con animali stilofori, e all’interno l’alternanza dei sostegni e le volte – finisce per predominare sugli altri elementi stilistici. Emerge nel ricco panorama delle cattedrali pugliesi la cattedrale di Trani, fondata nel 1097, con una facciata di tipo pisano e un alto transetto con tre absidi semicircolari di proporzioni così slanciate da ricordare costruzioni nordiche; e anche il motivo delle colonne binate all’interno è rintracciabile nelle chiese francesi del Nord più che in terra italiana. La scultura pugliese, quasi esclusivamente rivolta alle decorazioni architettoniche, portali, capitelli e animali stilofori, ha caratteri di vigoroso plasticismo non lontani dalla scultura lombarda. Nella base della cattedra episcopale di San Nicola a Bari i telamoni hanno un’accentuata enfasi espressiva, mentre la spalliera e lo schienale traforati hanno caratteri bizantineggianti. Talora questi caratteri bizantini sono esclusivi, come nel caso delle decorazioni di porte bronzee; nella cattedrale di Trani le porte bronzee, opera di uno scultore locale Barisano (autore anche delle porte di Ravello e di Monreale), hanno ornati fusi a stampo chiaramente desunti da modelli decorativi di stoffe e ricami bizantini; entro nitidi riquadri si dispongono in prevalenza figure singole di arcieri, con un gusto decorativo e un procedimento tecnico già usati un secolo prima nelle porte bronzee della cattedrale di Augsburg. Come si è detto, la conquista normanna della Sicilia nel corso dell’xi secolo, formalmente completata nel 1130 con il raggiungimento da parte di Ruggero ii del titolo regio, fu un avvenimento decisivo per le sorti dell’isola anche sul piano culturale: da un lato la dinastia normanna introduce forme normanne in architettura, dall’altro assume riferimenti culturali bizantini e islamici, come dimostrano gli oggetti suntuari prodotti
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170. Roma, San Clemente, xii sec., interno.
171. Tuscania, San Pietro, xii sec., facciata.
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dall’officina di corte, ma soprattutto il sontuoso paramento musivo delle grandi costruzioni regie, massime la cappella Palatina. Il primo e più significativo atto di questa politica artistica è appunto la fondazione della cappella di San Pietro annessa al Palazzo Reale di Palermo, portata a termine nel 1140. Di schietta derivazione islamica sono le colonne classiche su archi acuti, la cupola affiancata da due volte a botte, il soffitto ligneo dipinto. La stessa matrice islamica trionfa nella sontuosa serie di mosaici eseguiti da maestranze bizantine. Questa ricca decorazione fu portata avanti in due tempi: il primo è relativo ai mosaici del presbiterio, tipici dell’età comnena dell’inizio del xii secolo; mentre quelli della navata, pur entro la stessa sfera culturale, hanno un tono più aspro e una linearità tormentata, con moduli compositivi più spezzati. La seconda grande impresa artistica di Ruggero ii fu, sempre nello stesso quarto decennio del xii secolo, la fondazione della cattedrale di Cefalù, concepita come luogo di sepoltura dinastica. Un primo progetto grandioso, mai condotto a termine, è testimoniato dalle due arcate trionfali all’incrocio fra il transetto e la navata centrale, alla quale appartengono le tre navate più basse attuali. Cefalù fu anche il primo cantiere di scultura legato a una vasta produzione di capitelli di gusto pugliese. Il vasto programma iconografico dei mosaici di Cefalù prevede la rappresentazione di figure singole disposte secondo raggruppamenti seriali su quattro registri. Le successive vicende artistiche siciliane saranno profondamente segnate dalla politica di Ruggero ii. A Palermo la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, la Martorana, fondata dal grande ammiraglio del regno, Giorgio d’Antiochia, e completata nel 1143, ha una sua planimetria originaria, ora manomessa, a pianta qua-
174. Bari, San Nicola, fondata nel 1087, esterno.
172. Bari, San Nicola, cattedra del vescovo Elia, 1105 ca.
173. Trani, cattedrale, Barisano, porte bronzee, xiii sec., particolare.
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175. Bari, San Nicola, interno.
176. Trani, cattedrale, fondata nel 1097, interno.
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drata triabsidata con cupola al centro e volte a botte sui bracci; la sua decorazione musiva richiama la fase più antica della decorazione della cappella Palatina. Infine, per ricordare solo le imprese più significative, la chiesa di San Cataldo a Palermo trasforma originalmente un modello a tre navate in un gusto arabeggiante, segnato dalle tre cupole sulla nave centrale. L’attività architettonica siciliana continuerà per tutto il xii secolo, producendo ancora importanti costruzioni come la cattedrale di Monreale, voluta da Guglielmo ii; il suo intenso carattere normanno, presente nel doppio transetto si accompagna a una vistosa decorazione esterna ad archi intrecciati di gusto arabeggiante. La cattedrale di Palermo sarà l’ultimo grande cantiere siciliano alla fine del xii secolo, di cui è testimonianza sia la ricca serie di capitelli del chiostro sia il più vasto ciclo musivo. Sebbene eseguito da artisti constantinopolitani, esso riflette la dimensione «latina» o romana della seconda fase decorativa della cappella Palatina, cioè quella più dinamicamente concitata, caratterizzata dall’enfatizzazione lineare e dalla frammentazione luministica del colore. La chiusura di questo grande cantiere palermitano sembra aver provocato una vera e propria diaspora di artisti bizantini nei territori dell’Italia meridionale.
Nota Bibliografica
177. Palermo, San Cataldo, xii sec.
178. Cefalù, cattedrale, 1131-1170 ca., interno.
179. Monreale, cattedrale, mosaici dell’abside con il Cristo Pantocratore, seconda metà xii sec.
180. Palermo, Santa Maria dell’Ammiraglio, terminata nel 1143, Dormitio Virginis, particolare dei mosaici.
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Oltre al già cit. volume del Toesca, Il Medioevo, v. O. Demus, Bizantine Art and the West, New York-London 1970. Per un approccio problematico al tema v. il cit. saggio di C. Bertelli, Traccia allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana e J. Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia medioevale (sec. x-xv), in Storia d’Italia, Annali, 5, Torino 1982. Di prima consultazione sono i quattordici volumi (di valore discontinuo) della collana Italia romanica (versione italiana della francese Zodiaque), Milano 1978 sgg. Per il romanico architettonico in Lombardia resta fondamentale A.K. Porter, Lombard architecture, New Haven 1915-17, 4 voll.; si aggiunga ora E. Arslan, L’architettura romanica milanese, in Storia di Milano, Milano iii, 1954, da aggiornare con le ricerche di A. Peroni in Il Millennio ambrosiano ii, cit.; A. Peroni, San Michele di Pavia, Milano 1967. Per le altre aree geografiche v. A.C. Quintavalle, La Cattedrale di Modena. Problemi di romanico emiliano, Modena 1964, 2 voll.; O. Demus, The Church of San Marco in Venice, Washington 1960; M. Salmi, L’architettura romanica in Toscana, Roma-Milano 1928; P. Sanpaolesi, Il Duomo di Pisa e l’architettura romanica toscana delle origini, Pisa 1975; P. Belli D’Elia, Il romanico, in AA.VV., La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980; W. Krönig, Il Duomo di Monreale e l’architettura normanna in Sicilia, Palermo 1965 (grande monografia integrata da R. Salvini, Il chiostro di Monreale, Palermo 1962, e E. Kitzinger, I mosaici di Monreale, Palermo 1960, rist. aggiornata 1991). Sulla scultura romanica nell’Italia padana v. A.C. Quintavalle, Romanico padano civiltà d’Occidente, Firenze 1969. Su Wiligelmo R. Salvini, Wiligelmo e le origini della scultura romanica, Milano 1956. Per il cantiere architettonico e scultoreo di Modena fondamentali sono i saggi contenuti nel volume Lanfranco e Wiligelmo. Il Duomo di Modena, Modena 1984, e in particolare W. Sauerländer, Wiligelmo e l’Europa, A. Peroni, L’architetto Lanfranco e la struttura del Duomo, E. Castelnuovo, Marmoribus sculptis domus haec micat undique pulchris, C. Frugoni, Le lastre veterotestamentarie e il problema della facciata (a questo volume, catalogo della mostra tenutasi a Modena nel 1984, fanno seguito altri tre volumi, dedicati rispettivamente ai restauri dell’edificio e all’atlante grafico e fotografico) e gli atti del convegno Wiligelmo e Lanfranco nell’Europa romanica, Modena 1989. Sui rapporti tra iconografia e riforma gregoriana è fondamentale la raccolta di saggi H. Toubert, Un art dirigé, Paris 1990. Sullo scultore Nicolò v. gli Atti del Seminario internazionale (1981) Nicholaus e l’arte del suo tempo, a c. di A.M. Romanini, Ferrara 1985.
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Capitolo settimo
LE «ARTI DEL COLORE» NEL SECOLO XII
La pittura in Francia, Spagna e Italia Il panorama della pittura romanica può apparire a un primo sguardo assai meno carico di novità e di forze di rinnovamento che non quello dell’architettura e della scultura. La causa di questa apparente minore vitalità veniva tradizionalmente attribuita alla persistenza della pittura bizantina, che nei suoi processi secolari di adattamento e di diffusione attraverso canali colti o provinciali aveva assunto via via alcuni caratteri occidentali, ma veniva pur sempre trasmessa con il suo patrimonio di iconografie e soprattutto con una sua visione della realtà traducibile in codici formali. Con il sopraggiungere del Romanico, le forme di questa pittura appaiono ancora più remote rispetto alla nuova concretezza di visione e di forme propria del Romanico. E tuttavia uno sguardo più attento all’intero panorama pittorico dei secoli xi e xii porta anche a considerazioni diverse, tenendo anzitutto presente che la nostra conoscenza della pittura monumentale ad affresco è così radicalmente ridotta, che quella che noi oggi conosciamo è solo una «campionatura» di un patrimonio assai più vasto e irrimediabilmente perduto, e spesso ciò che ci resta è solo eco o riflesso di cicli assai più importanti. Già il passaggio, ormai da tempo generalizzato, dal mosaico all’affresco favorisce il distacco dalla strettissima guaina stilistica che si era trasmessa per secoli; un distacco che avviene in modo paradossale attraverso la forzatura spesso stravolta dello stesso grafismo bizantino per esprimere con drammatica forza nuovi contenuti di realtà vitale e drammatica con i quali vengono interpretate scene bibliche e della vita di martiri e di santi. Da questa predilezione per le azioni drammatiche, e insieme dal persistere di clausole formali di estrazione bizantina, ma forzate o stravolte, nasce un linguaggio di fatto nuovo. Un quadro d’insieme della pittura di questi secoli non può prescindere dall’intrinseco legame che esiste fra la pittura stessa e le altre espressioni connesse con il colore, prima fra tutte la miniatura. Nonostante le strette parentele e in molti casi le derivazioni tra pittura e miniatura, non si può negare tuttavia che la pittura sia rivolta a ricerche che le sono strettamente proprie, e sono aperte al futuro forse più che non la miniatura, legata a gloriose tradizioni e a prerogative saldamente proprie come i vincoli decorativi imposti dalla pagina del manoscritto. La vasta scala degli affreschi introduce ovviamente di per sé per una dilatazione che altera profondamente certe clausole stilistiche e le ampie pareti propongono una organizzazione spaziale nuova e diversa. La pittura ad affresco romanica fa ricorso a soluzioni tecniche che solo in parte conosciamo attraverso qualche raro trattato di tecnica pittorica anteriore al xiii secolo giunto fino a noi, come le Mappae clavicula, il De coloribus et artibus Romanorum, tradizionalmente
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trascritto e pubblicato sotto il nome di Eraclio, e soprattutto la Diversarum artium Schedula del monaco Teofilo all’inizio del xii secolo. Sembra che l’affresco romanico potesse essere dipinto con diverse tecniche, che solo in parte rientrano in quella tecnica che noi chiamiamo «a buon fresco», nella quale cioè il colore viene steso sull’intonaco bagnato: rientra più o meno in questa categoria la pittura cosiddetta a fondo chiaro diffusa soprattutto nel nord-ovest della Francia, caratterizzata da una gamma assai ristretta di colori, ocra, turchino, vermiglio e raramente verde. La tecnica, invece, cosiddetta «alla greca» è su fondo nero o blu scuro: il disegno veniva steso in ocra e a pennello dopo una minuziosa preparazione di strati successivi, l’ultimo dei quali mescolato con una sostanza grassa che ne garantiva la levigatezza e la resistenza eccezionale. Le scoperte, i restauri e gli studi che continuano ad accrescere le nostre conoscenze di pittura romanica non compensano, come si è detto, se non in piccola parte le enormi perdite subite, che spesso riguardavano monumenti di primaria importanza e dunque presumibilmente di qualità elevata. Di essi possiamo talvolta avere notizie solo indirette da altri cicli nati sotto il diretto influsso di quelli. È il caso per esempio degli affreschi di Berzé-la-Ville, che ci illuminano in parte sui perduti affreschi della vicina Cluny o di quelli di Sant’Angelo in Formis, nati sotto l’influsso di quelli perduti di Montecassino. Nonostante la Francia sia ancor oggi il paese più ricco di testimonianze di pittura murale, le 140 chiese che presentano affreschi, spesso in stato frammentario o di grave degrado sono appunto la spia dell’entità imponente del patrimonio perduto. La distribuzione di questi affreschi è inoltre fortemente e misteriosamente ineguale: del tutto assenti in Normandia e in Bretagna, quasi inesistenti in Linguadoca, pure ricca di sculture, essi sono invece numerosi nel centro-ovest e particolarmente nella regione del Poitou. In questo vasto ma così frammentario panorama, il ciclo della chiesa di Saint-Savin-sur-Gartemps a est di Poitiers emerge come testimonianza eccezionale per l’ampiezza del programma iconografico, distribuito lungo tutta la volta a botte della navata oltre che nell’abside. Il vastissimo programma iconografico è quello tipico della storia sacra «ante legem» dalla Genesi al Sinai, «sub lege» da Mosè a Cristo e «sub gratia» dalla nascita di Cristo alla Parousia. È probabile che la collocazione a un’altezza molto elevata della maggior parte delle pitture abbia favorito l’impiego di
181. Saint-Savin-sur-Gar-temps, chiesa abbaziale, Martirio dei santi Savino e Cipriano, particolare degli affreschi della cripta, 1100 ca.
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182. Vendôme, chiesa della Trinité, sala capitolare, Apparizione di Cristo sul lago di Tiberiade, 1100 ca.
184. Sigena, monastero, sala capitolare, Tentazione di Eva (affresco distrutto nel 1936), 1180-1190 ca.
183. León, Sant’Isidoro, Panteón de los Reyes, Cristo benedicente e i simboli degli Evangelisti, inizio xii sec.
185. Poitiers, battistero di Saint-Jean, L’imperatore Costantino a cavallo, particolare degli affreschi, 1100 ca.
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moduli figurativi grandiosi nei quali gli antichi linearismi sono tradotti con audaci pennellate, con quella «finezza di getto» come diceva Focillon, che osa articolare e deformare i corpi in astratte sovrapposizioni di linee e di archi. Gli affreschi della cripta con Scene della vita di san Savino e di san Cipriano sono invece condotti con una minuta raffinatezza di pennellate, oltre che con vivacità narrativa, che ricorda la miniatura contemporanea. Vicini a un lezionario cluniacense, e quindi presumibilmente derivati direttamente dai perduti affreschi della vicina Cluny, sono gli affreschi della piccola chiesa di Berzé-la-Ville; nell’abside fra bordi decorativi assai belli si distinguono per grandiosità di forme e raffinatezza compositiva le Scene del martirio di san Lorenzo e di san Vincenzo. La varietà di scelte stilistiche presenti, a un attento sguardo, negli affreschi francesi rivela una grande ricchezza di sperimentazioni: da soluzioni di tipo tradizionale, di ispirazione classicheggiante, come gli Imperatori a cavallo del battistero di Saint-Jean a Poitiers, a soluzioni del tutto nuove e francamente «espressioniste», quali gli affreschi della cripta della chiesa di Saint-Nicolas a Tavant, in Turenna: in questi appare anche il tema raro della Psicomachia, dove l’immagine della Lussuria, in particolare, ha una violenza grafica deformante che impressiona. La recente, spettacolare scoperta degli affreschi della sala capitolare della Trinité di Vendôme non fa che confermare la ricchezza di questo panorama della pittura francese: la loro vicinanza per certi tratti agli affreschi di Saint-Savin-sur-Gartemps non impedisce che il linguaggio si faccia qui più intensamente narrativo e quindi romanico. Anche per la Spagna, e forse in misura maggiore che per la Francia, quanto ci rimane della pittura ad affresco non è che piccola parte del patrimonio originale. È significativo che la maggior parte delle testimonianze, perduti gli affreschi dei centri urbani, provenga dalle valli più alte dei Pirenei e comunque da piccoli centri. Queste testimonianze sono state da tempo staccate e raccolte nel Museo d’arte catalana di Barcellona, con una possibilità dunque di studio e di confronti diretti ma non più nel loro contesto architettonico originale. L’apogeo di questa pittura catalana ad affresco è da collocarsi tra la fine del secolo xi e l’inizio del xii ed essa si presenta stilisticamente e iconograficamente omogenea, tanto da far supporre l’esistenza di gruppi di artisti itineranti. Gli esempi più interessanti e notevoli di questa pittura sono gli affreschi delle chiese di San Clemente e di Santa Maria a Tahull, quest’ultima consacrata nel 1123. La monumentalità ieratica di questi personaggi è resa ancor più possente dallo spessore della linea nera di contorno. Avviene così che formule stilistiche certamente mutuate dalla tradizione bizantina diffusa in Europa assumano per questa enfatizzazione un significato diverso, che rovescia l’astratta stilizzazione in vitalità estrema, anche se con un accento aspro, severo e triste tipico di una certa sensibilità spagnola, come ad esempio la Vergine dell’abside di Santa Maria di Tahull. Da questo carattere genialmente «popolare» della Catalogna si distingue la produzione più colta e aperta a influenze francesi della pittura della Castiglia. I celebri affreschi del Panteón de Los Reyes a León sono da soli sufficienti a esprimere la carica innovatrice della pittura romanica, nonostante la persistenza di modelli tipologici e di schematismi tradizionali. Si tratta di un vastissimo ciclo dipinto sulle volte di un edificio a portico, innestato alla collegiata di Sant’Isidoro e che doveva servire da pantheon della famiglia reale di León. La cronologia di questi affreschi è stata ragionevolmente spostata agli inizi del xii secolo ed è quindi contemporanea ai cicli catalani. La poetica attenzione alla rappresentazione della natura e degli animali e la fresca plasticità nei volti rendono immediatamente il gusto romanico di questi affreschi. Un posto a parte in questo panorama spagnolo occupano gli affreschi della collegiata di Sigena, purtroppo distrutti nella guerra civile del 1936 e quindi noti solo dalla documentazione fotografica. Il Pächt ha dimostrato che il loro autore è un pittore di provenienza inglese, probabilmente uno dei miniatori della
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186. Novalesa, cappella di Sant’Eldrado, Sant’Eldrado coltiva la terra, prima metà del xii sec.
187. Grissiano, San Jacopo, Sacrificio di Abramo, xii-xiii sec.
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188. Castel d’Appiano, cappella del castello, Le vergini folli, xii-xiii sec.
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grande Bibbia di Winchester, un fatto illuminante sulla circolazione culturale tra Spagna e Inghilterra in quei secoli. Ancora una volta nel campo della pittura romanica la Lombardia sembra collocarsi in una situazione culturale in certo modo staccata dal panorama italiano e più affine invece a situazioni transalpine. Si può anzi affermare che per certi suoi aspetti innovatori la Lombardia vanta già una sua importante tradizione che va dal grande episodio di Galliano, all’inizio dell’xi secolo, all’attività documentata del pittore «Johannes», lombardo, chiamato ad Aquisgrana da Ottone iii, e di quel Nivardo che verso il 1030 viene pure chiamato in Francia dall’abate Gauzlino di Saint-Benoît-sur-Loire. Sta di fatto che la Lombardia con il vicino Piemonte e, all’estremo opposto, l’area delle Alpi retiche tra Merano e Bolzano, possiedono una serie di affreschi che, pur assai diversi fra loro, nel loro insieme presentano forti istanze innovative. Nel sottotetto della collegiata dei Santi Pietro e Orso ad Aosta frammenti di affreschi con Storie di san Giacomo e altri recentemente portati alla luce lungo le navate, assai precoci, nella prima metà dell’xi secolo hanno una forza massiccia nei grevi contorni e un realismo di gesti quasi brutale. Altrettanto importanti, per quanto si può giudicare dai resti rimastici, gli affreschi con Storie di san Eldrado nella cappella omonima dell’abbazia della Novalesa, vicino a Susa, dove un nuovo e vitale senso della realtà si accompagna a un fresco senso della natura e a un vivace gusto decorativo che si estende alle grandi fasce ornamentali. Bisognerà tuttavia sottolineare ancora una volta il carattere periferico di queste manifestazioni, che ne sottintendono altre probabilmente più colte e ampie in centri maggiori. Almeno una di queste ci è conservata negli affreschi bellissimi dell’oratorio di San Siro a Novara, databili almeno alla metà del xii secolo. Nei fatti della vita del santo le scene non hanno solo una nuova intensità drammatica, ma rivelano la capacità di organizzare lo spazio ovvero una recuperata chiarezza spaziale. L’episodio più alto della pittura romanica padana, il più complesso e completo, è rappresentato dagli affreschi dei cicli pittorici di Civate presso Como, quello della chiesa di San Calogero al Piano e quello, assai più noto, della chiesa di San Pietro al Monte. Sarebbe suggestivo collegare, come è stato proposto, l’esecuzione dei due cicli alla presenza a Civate dell’arcivescovo di Milano in esilio, Arnolfo de’ Capitani, che nel 1096 vi fu sepolto; questa comunque dovrebbe essere la datazione degli affreschi. Il programma dei due cicli potrebbe, anzi, essere unitario, dalle Storie bibliche di Mosè ed Aronne alle Storie di Giosuè e dei Giudici di San Calogero fino ai temi apocalittici ed escatologici di San Pietro al Monte. Qui, nell’atrio, i Santi Gregorio e Marcello, nei modi ancora degli affreschi ottomani di Galliano, accolgono i fedeli con versetti derivati dal salmo 33, allusivi alla cerimonia della riammissione dei peccatori del Giovedì Santo. Tra le molte scene di questo ciclo spicca quella della Gerusalemme celeste nella prima campata dell’atrio, con un’iconografia rara e complessa che parla di tradizioni tardoantiche rinnovate dalla miniatura bizantina del x secolo: essa raffigura entro le porte della città murata dodici angeli con nomi di pietre preziose che contemplano l’Eterno sul globo e l’Agnello dal quale scorrono quattro rivi, gli evangelisti. Pennellate morbide e pastose, ricchezza di quinte arboree di sapore tardoantico, freschezza e vivacità di invenzioni figurative, ritmo incalzante della narrazione, fanno di questi affreschi un esemplare d’eccezione nel panorama pittorico, non solo lombardo, del tempo. Di un diverso maestro più legato alla tradizione locale, intrisa di bizantinismi di tipo ottomano, è l’altra scena assai nota, la Sconfitta del drago apocalittico, trafitto dalle schiere angeliche, mentre la Donna celeste è distesa su un giaciglio tra sole e luna. Importanti riscoperte e restauri nel corso degli anni ’80-’90 hanno ulteriormente arricchito il panorama della pittura ad affresco nell’Italia settentrionale. È il caso soprattutto dell’imponente decorazione della chiesa di San Tommaso di Acquanegra, in provincia di Mantova, che faceva parte di un insediamento be-
nedettino. Tracce consistenti di affreschi ci permettono di riconoscere che la chiesa era decorata in ogni sua parte, compresi i pilastri e i sottarchi, l’abside, gli archi trionfali e la controfacciata. Quasi interamente conservata è la serie di gigantesche figure di Re e profeti dell’Antico Testamento lungo la navata; dipinti su fondo bianco, si distinguono nella varietà degli atteggiamenti e nel profilo nervoso dei lembi svolazzanti, che li apparenta alle figure profetiche miniate nelle bibbie giganti dell’Italia centrale. Restauri recenti hanno restituito a una migliore leggibilità anche quanto resta di un importante ciclo di affreschi, purtroppo assai mutili, del refettorio abbaziale di Nonantola con Storie di san Pietro e di san Paolo, circondati da una bella «greca» decorativa, e riferibili alla fine dell’xi secolo. La materia pittorica fine e l’elaborata grafia dei panneggi, il tono più distaccato e sottilmente aulico di questi affreschi, con un effetto di stoffe leggere che assecondano il movimento, li collocano vicino a quelli di Civate e soprattutto a quelli della chiesa di San Calogero. La ricchezza del panorama pittorico dell’Italia settentrionale comprende ancora un gruppo di affreschi nella regione delle Alpi retiche, tra Merano e Bolzano, caratterizzati da grande espressività e talora di forza quasi grottesca. Se a Grissiano, a Termeno e a Burgusio si potrà parlare di pittura «popolare» nel senso di pittura non colta – e tuttavia carica di nuova fantasia e volontà narrativa, specie nelle straordinarie scene dell’arco trionfale con l’Offerta d’Abele e il Sacrificio di Abramo di Grissiano – nella cappella del castello di Castel d’Appiano, vicino a Bolzano, gli affreschi con la Parabola delle vergini sagge e folli e il gruppo dell’Annunciazione offrono una straordinaria «tranche de vie» di costume, espressa con una vivacità cromatica inedita che ha richiamato paralleli con la lirica d’amore del tempo. Difficile, in genere, salvo rari casi di documentazione, stabilire la datazione di questi affreschi dell’Italia settentrionale, talora oscillanti di quasi un secolo, tra la metà del xii fino alla metà del xiii secolo. A una cronologia più avanzata, tra la fine del xii secolo e i primi decenni del Duecento spettano gli interessantissimi mosaici che ornano il portico esterno della basilica di San Marco. Essi infatti superano di un balzo quella situazione che è stata definita di dipendenza «coloniale» dall’arte bizantina e che caratterizza i mosaici dell’interno, quella corrente «neoclassica» greca presente nei mosaici dell’abside principale di San Marco. Nel corso del xii secolo infatti i modi del mosaico si occidentalizzano e si avverte un distacco deciso dalle concitazioni lineari precedenti verso una pienezza e compostezza di forme realistiche
189. Venezia, San Marco, navata destra, Orazione nell’orto dei Getsemani, mosaico, fine xii secolo.
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che non si può definire se non romanica. Essa già trapela nella sequenza dell’Orazione nell’orto del Getsemani nella navata destra. In questa direzione si muove con molto maggiore novità, intorno alla metà del xiii secolo, il mosaicista che distribuisce in cerchi concentrici la narrazione della Genesi nella prima delle cupolette dell’atrio esterno. La fonte probabile di questo ciclo è indicata da tempo in una bibbia classica alessandrina, la cosiddetta Genesi Cotton (Londra, British Library): accanto ad Adamo ed Eva, modelli di nuova umanità greve e concreta, si affollano immagini di animali, che ricordano gli «emblemata» dei pavimenti a mosaico classici per la precisione dei particolari realistici. Le ultime Storie di Giuseppe, eseguite alla ripresa dei lavori decorativi dell’atrio, dopo che nel 1258 un editto dogale aveva richiamato a Venezia i mosaicisti che se ne erano allontanati, vedono via via accentuarsi questa classicheggiante pienezza di forme, che giustamente, anche per parallelismo cronologico, è stata paragonata al pulpito del Battistero pisano, opera di Nicola. Durante l’ultimo terzo dell’xi secolo, quasi contemporaneamente alla ricostruzione dell’abbazia di Montecassino, si delinea a Roma un rinnovamento dell’attività pittorica, unitamente a un risveglio degli «scriptoria». Tra gli aspetti significativi di questa pittura vi è la consapevole ripresa di motivi decorativi del patrimonio antico. Solo frammenti ci restano delle decorazioni ad affresco eseguite a Roma; ma almeno un complesso di notevole qualità e ampiezza ci resta nella chiesa inferiore di San Clemente, databile intorno al 1100 perché dipinto sui muri di rinforzo costruiti dopo il Sacco del Celio del 1084 ad opera di Roberto il Guiscardo. I quattro affreschi con Storie di san Clemente e di sant’Alessio svelano qualità genialmente narrative, che sembrano assumere i modi delicatamente lirici della nuova poesia romanza, come osservava già il Toesca. Con altrettanta originalità il pittore rievoca gli effetti cromatici della decorazione muraria ellenistica, con ornati brillanti di ocra su fondo nerastro, velari bianchi con frutta e uccelli dipinti in modo felicemente sommario. Sono assai note ma non per questo meno sorprendenti le scene del Ritrovamento miracoloso del bimbo sul fondo marino, della Messa di san Clemente e dell’Accecamento di Sisinnio, dipinte con tinte chiare e lievi su superfici scure e con fantastiche e aggraziate quinte spaziali, chiaramente desunte dall’antichità. L’ignoto maestro di San Clemente si colloca come la punta emergente di una cultura che per lungo tempo si è voluto associare alla cultura cassinense ma che in realtà dovette essere autonoma. Essa si manifesta anche nella colta grazia decorativa del mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere, eseguito al tempo di Innocenzo ii (1130-1143), tutto percorso da freschi e delicati girali d’acanto. Un ramo umbro di questa corrente romana è presente nell’abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo, che affianca episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento; ricorderemo in particolare la scena in cui Adamo dà il nome agli animali, nella quale il primo uomo «tutto nudo come una statua classica, sembra evocato poco meno che nei termini del vecchio mito di Orfeo, forse per il riferimento volontario a qualche figurazione greco romana» (F. Bologna). Tra il 1066 e il 1071 la ricostruzione e la decorazione dell’abbazia di Montecassino, promossa dall’abate Desiderio, rappresenta senza dubbio uno degli eventi più significativi per le vicende artistiche meridionali, poiché si proponeva, in linea con le esigenze culturali della Chiesa, il recupero di una dimensione antichizzante. La decorazione oggi scomparsa del quadriportico di Montecassino, per la quale Desiderio chiamava i celebrati maestri costantinopolitani, esperti «in arte musuaria et quadraturaria», nonché i codici dello «scriptorium» cassinese, dovettero fungere da modelli per molte cattedrali campane fondate sul finire dell’xi secolo. Una fondazione desideriana fu certamente quella della chiesa di Sant’Angelo in Formis, ricostruita tra il 1072 e il 1087, e Desiderio fu anche il promotore della ricca decorazione interna, facendosi raffigurare in veste di donatore ai piedi della Maestà di Cristo nell’abside centrale con l’aureola quadrata che spetta ai personaggi viventi. Il ciclo di affreschi di Sant’Angelo in Formis è fra i più vasti 190. Roma, San Clemente, chiesa inferiore, Ritrovamento miracoloso del bimbo in fondo al mare, 1100 ca.
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in assoluto di quelli giunti fino a noi, comprendendo ben 60 scene veterotestamentarie e cristologiche dipinte sulle pareti delle navate su tre registri e il Giudizio Universale nella controfacciata. A monte di questi affreschi sta la conoscenza della pittura costantinopolitana, diversamente interpretata dalle varie personalità dei pittori che intervengono negli affreschi, come pure l’attività di mosaicisti e di miniatori: una tradizione quindi complessivamente aulica. Ma gli affreschi di Sant’Angelo in Formis ci sorprendono per la forza espressiva dei personaggi, il calibro delle figure tarchiate, l’uso dei colori marcati, dove predominano l’azzurro e l’ocra, la modellazione semplificata dei volti. Si ha l’impressione che si faccia strada un linguaggio pittorico nuovo che trasforma i modi bizantini più che assimilarli, flettendoli a una drammaticità più autentica, che sfocia talora in un «volgare» pittorico.
Smalti mosani, avori e miniature inglesi nel xii secolo
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Nel corso di tutto l’alto Medio Evo fino al Mille le attività artistiche che impropriamente sono dette «minori» – oreficeria, miniature, avori – avevano in realtà avuto un ruolo eminente, se non addirittura preminente, nel panorama artistico. La loro importanza non è soltanto dovuta al fatto che esse coprono almeno in parte le larghe perdite nelle cosiddette «arti maggiori», ma perché in esse si esprimono ai più alti livelli il gusto e la raffinata cultura artistica di un’epoca. La fortissima spinta creativa che contraddistingue il volgere dell’anno Mille riporta in primo piano le attività tradizionalmente considerate maggiori, profondamente rinnovate. Nondimeno per tutti i secoli xi e xii le arti decorative continuano a esprimersi in modo fortemente autonomo, che in molti casi coincide con un profondo legame con la tradizione precedente. La ricchezza di questo patrimonio nei secoli xi e xii è tale da rendere necessario trasceglierne solo alcuni aspetti più significativi, in particolare quei tipi di produzione artistica destinati a una vasta diffusione, come gli smalti della regione mosana o la miniatura anglo-normanna, i cui modi si rifletteranno in tutte le «arti del colore» come la vetrata o gli smalti. L’area intorno alla Mosa con centro Liegi, favorita anche dalla prosperità economica del territorio, ha dato vita nel corso del xii secolo a una vera e propria «arte mosana», nella lavorazione del metallo, nell’oreficeria e nella produzione di smalti. Si tratta di un’arte di committenza e tradizione ancora imperiali o delle altissime cariche della Chiesa, come era stato per tutto il periodo ottomano: Liegi stessa era frequentata da imperatori fino all’inizio del xii secolo. Apre la serie di capolavori mosani la grande vasca battesimale in bronzo, commissionata dall’abate Hellinus (1107-1118) per la chiesa di Notre-Dame di Liegi, ora nella chiesa di San Bartolomeo. In una cronaca più tarda il nome dell’autore è citato come «Renierus aurifaber Hoyensis». La vasca ha una forma cilindrica con cinque scene in altorilievo raffiguranti altrettanti Episodi di Battesimo, a cominciare da quello di Cristo al Giordano. Dodici tori reggono il bacino della vasca, con una chiara allusione a quelli che nell’atrio di Salomone reggevano il mare, figura del Battesimo. Le immagini si stagliano nitide dal fondo quasi ad altorilievo, con nobile calma di atteggiamenti, limpidezza di forme, fluidità di panneggi che denunciano uno stile naturalmente «classico»; uno stile che suona in certo modo un anticipo sul grande Nicolas de Verdun, ma che tuttavia appare in questo momento del tutto isolato. Tra i grandi committenti dell’arte mosana un posto del tutto eccezionale spetta a Wibaldo, abate dell’abbazia di Stavelot, fra Treviri e Liegi (1130-1158), e anche abate per un certo tempo di Montecassino, inoltre cancelliere e consigliere di tre imperatori, Lotario ii, Corrado iii e Federico i. Eccezionalmente colto e dotato, grande ammiratore di Cicerone e grande mecenate, Wibaldo commissiona parecchie opere
191. Sant’Angelo in Formis, duomo, affresco raffigurante l’abate Desiderio di Montecassino che regge il modello della chiesa di Sant’Angelo.
192. Sant’Angelo in Formis, duomo, Arcangelo Michele, xi sec., particolare.
193. Ferentillo, San Pietro in Valle, Adamo dà il nome agli animali, xii sec.
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importanti; è probabile che uno degli artisti al quale Wibaldo fa riferimento in una sua lettera come «aurifaber G.», fosse Godefroy de Huy. Nel 1145 Wibaldo deponeva le reliquie di sant’Alessandro nella testa reliquiario, di forte sapore classicheggiante, che aveva fatto preparare per riceverle (Bruxelles, Musées Royaux). Gli smalti «champlevé» (alla lettera «en champ levé», cioè in campo rilevato, poiché il contorno delle immagini era formato da un rialzo metallico e nella cavità della lamina era versato lo smalto) della base di questo reliquiario sono i più antichi datati e presentano un tracciato fermo e spoglio. Alla committenza di Wibaldo si deve anche un trittico in rame dorato, smalti «champlevé» e gemme (Liegi, chiesa di Santa Croce, ora New York Pierpont Morgan Library) creato per contenere nella parte centrale due piccoli reliquiari bizantini della Vera Croce che Wibaldo aveva ottenuto durante la sua prima missione diplomatica nel 1154 presso l’imperatore Manuel. Di analoga fattura tipicamente mosana le quattro statuette in bronzo dorato degli evangelisti, che reggono l’altare portatile di Stavelot (Bruxelles, Musées Royaux), terza opera eseguita per Wibaldo. L’altare è ornato da Storie della Passione di Cristo e degli ante-tipi di Cristo, cioè quei personaggi dell’Antico Testamento che prefigurano Cristo. L’opera che doveva sovrastare tutte le altre per importanza e varietà di tecniche impiegate era la pala detta di san Remaclo che circondava l’urna del santo nell’abbazia di Stavelot. L’opera è purtroppo perduta e nota solo attraverso un disegno del xvii secolo; di questa grandiosa opera di oreficeria sono giunte fino a noi solo due piccoli tondi con smalti, che recano le figure rispettivamente della Fides e dell’Operatio a indicare nella fede e nelle opere gli strumenti della salvezza (Francoforte, Museum für Kunsthandwerk e Berlino, Kunstgewerbemuseum). Anche se isolate da un complesso così eccezionale, queste due figure colpiscono per la loro naturale classicità: la nobile grazie del gesto e la purezza dell’ovale si impongono sulla grafia un po’ appesantita dei contorni, ravvivata dagli accostamenti preziosi di azzurro, verde e oro. Come già l’altare di Stavelot, così il trittico di Alton Towers (Londra, Victoria and Albert Museum), databile verso il 1150, mostra un riflesso dell’approccio filosofico e letterario del tempo. Le scene figurate, distribuite in eleganti cornici a rombi e cerchi riprendono i temi della Passione di Cristo in parallelo con gli Ante-tipi di Cristo, come per esempio Isacco o Abele, secondo una tradizione iconografica che risale sino all’arte bizantina, ma la cui diffusione sistematica nell’oreficeria e nella miniatura testimonia una ricchezza di esegesi biblica riservata a una élite colta. Analoghi e complessi programmi iconografici si ammirano infatti nella contemporanea miniatura mosana, come nel Vangelo di Averbode (Liegi, Biblioteca dell’Università) o nella Bibbia di Floreffe (Londra, British Library). L’influsso di questi «ateliers» di orafi mosani si estende verso la Renania e verso il nord della Francia. Suger, il grande abate di Saint-Denis, scrive infatti di aver affidato la lavorazione a smalti del piede della grande croce dell’altare di Saint-Denis, oggi interamente scomparsa, a gruppi di orafi stranieri, che egli chiama «barbari», quasi sicuramente della Lotaringia, il cui compenso era superiore a quello pattuito per orafi francesi. Analogie profonde con lo stile degli smalti della pala di san Remaclo, e quindi sempre con 195 l’atelier di Godefroy de Huy, presentano anche le scene in smalto dell’urna di sant’Eriberto a Deutz, eseguita tra il 1160 e il 1170 per custodire i resti del santo fondatore dell’abbazia di Deutz presso Colonia. Con l’urna di sant’Eriberto siamo ormai cronologicamente e stilisticamente vicini a un importante gruppo di reliquiari dell’ultimo quarto del secolo, per i quali opererà anche il grande Nicolas de Verdun nei decenni a cavallo del Duecento. Nonostante la preminenza dell’arte mosana, almeno un’altra rilevante personalità sembra opporsi al gusto colto e classicheggiante di Renier de Huy, quella di Ruggero di Helmershausen, orafo della Westfalia: nella straordinaria coperta di evangeliario conservata nel Tesoro del Duomo di Treviri, del 1110 circa,
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194. Londra, Victoria and Albert Museum, trittico di Alton Towers, 1150 ca.
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le figure degli evangelisti a sbalzo hanno un vigoroso realismo e un gioco grafico che si apprezza soprattutto nelle lunghe ali simili a cespugli. A Ruggero di Helmershausen sono attribuibili altre opere come l’altare portatile di Abdinghof (Paderborn, chiesa di San Francesco); alcuni studiosi, inoltre, ritengono possibile identificare Ruggero di Helmershausen con il monaco Teofilo autore del trattato De diversibus artibus, poiché Ruggero mostra di mettere in pratica nell’altare per il vescovo di Paderborn quasi tutte le tecniche di oreficeria commentate da Teofilo. Nel xii secolo la miniatura inglese conosce una stagione di grande creatività e tocca apici stilistici fra i maggiori di tutto il Romanico. Già nel periodo della dinastia sassone, dal 900 al 1066 circa, l’Inghilterra registra una produzione di alta qualità, nutrita di apporti carolingi e profondamente segnata dal capolavoro della scuola di Reims, il Salterio di Utrecht, la cui presenza a Canterbury segna fortemente gli ateliers insulari, prima di irrigidirsi in formule stereotipe. Verso la metà del xii secolo Winchester, già sede di un’antica scuola miniatoria, conosce un’altra superba fioritura e altri importanti «scriptoria» sono attivi presso le abbazie di St. Albans, Bury St. Edmunds e presso la cattedrale di Canterbury. La cattedrale di Canterbury, per tradizione legata da rapporti di scambio continui con il continente, sotto l’arcivescovo sant’Anselmo di origine aostana (1033-1109) è in stretto contatto con le scuole renana e mosana. L’Evangeliario di Liessies, ora ad Avesnes (Société archéologique), scritto in fiammingo ma illustrato dallo stesso artista inglese che aveva miniato la bellissima Bibbia di Lambeth Palace (1130 ca.), presenta pagine con un tripudio ornamentale che, si è detto, ricorda addirittura l’Art Nouveau. Da Canterbury proviene anche il Salterio di Edwine (Cambridge, Trinity College Library) del 1147 circa, con lo straordinario ritratto dello scriba, un calligrafo della Christ Church, che orgogliosamente si proclama «scriptor scriptorum princeps». Altri manoscritti ancora provengono da Canterbury, come i Vangeli della Pierpont Morgan Library di New York, nei quali gli evangelisti sono bizzarramente raffigurati seduti sui loro simboli. Dal centro artistico di Canterbury proviene anche la già citata Bibbia di Lambeth Palace (Londra, Lambeth Palace Library), che mescola audaci stilizzazioni inglesi di gusto ottomano con cromatismi scintillanti che testimoniano contatti con l’arte mosana. Tuttavia non è a Canterbury ma nell’abbazia di St. Albans, a nord-ovest di Londra, che si compie il passaggio decisivo verso una nuova miniatura romanica, con lo splendido Salterio (1121-1123) oggi conservato presso la chiesa di San Godeardo a Hildesheim, ricco di ben quarantadue miniature a piena pagina. Nelle trentasette scene evangeliche si concentra la forza di novità del codice, la sua originalità narrativa, la tipica stilizzazione delle figure tubolari, il loro cromatismo scintillante, dove prevalgono i fondi turchini come smaltati. Nell’abbazia di Bury St. Edmunds opera un maestro Alexis in un importante manoscritto, certamente prodotto dall’abbazia intorno al 1130, una Vita di sant’Edmondo (New York, Pierpont Morgan Library), che rinnova le audacie cromatiche e stilizzatrici della Bibbia di Lambeth Palace. Ma il capolavoro in assoluto dello «scriptorium» di Bury St. Edmunds e forse di tutta la miniatura romanica inglese è la Bibbia (Cambridge, Corpus Christi College) miniata da un maestro Hugo fra il 1130 e il 1140, eccezionale artista forse non inglese al servizio del grande abate Anselmo di Bury. Una cultura di matrice italo-bizantina è evidente nella realizzazione delle pagine illustrate della Bibbia, nelle quali compare una tipica calligrafia dei panneggi che si incollano al corpo come se fossero bagnati («damp fold style»). Dove maestro Hugo abbia tratto questo stile, se dall’Italia o da centri come Cluny, fortemente dominati da una cultura italo-bizantina, non è dato di sapere, ma è certo che questo tratto stilistico sarà destinato a larga fortuna. La miniatura inglese della seconda metà del xii secolo sarà dominata da un’altra grande figura di committente, Henry de Blois, vescovo di Winchester. La grande Bibbia di Winchester (Winchester, Biblioteca Capitolare), iniziata verso il 1130 e proseguita fino al 1180 con l’intervento di almeno sei artisti che rispecchiano le varie tendenze del periodo storico, riassume in certo modo gli orientamenti della miniatura
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196. Avesnes, Société Archéologique, Evangeliario di Liessies, metà del xii sec., San Giovanni evangelista e l’abate Wedric.
197. Londra, Lambeth Palace Library, Bibbia di Lambeth Palace, 1150 ca., Scene del Libro di Ezechiele.
198. Hildesheim, San Godeardo, tesoro, Salterio di Saint Albans, 1121-1123, Maria Maddalena annuncia il Cristo risorto.
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inglese, dalle antiche convenzioni di St. Albans alla vitalità monumentale di Bury St. Edmunds e agli stilemi italo-bizantini. Si è già detto come una scoperta dovuta a Otto Pächt abbia permesso di identificare uno dei maestri della Bibbia di Winchester nel pittore che dipinge un importante ciclo pittorico spagnolo, quello della collegiata di Sigena, distrutto durante la guerra civile del 1936. È questo un interessante e sicuro esempio della circolazione dello stile inglese in territori anche assai lontani e ad un tempo dello stretto legame tra miniatura e pittura, in posizione, come si diceva, di credito e non di debito dell’arte «minore» verso l’arte «maggiore». La dominante personalità di maestro Hugo e la sua attività a Bury St. Edmunds è fra i fatti artistici più interessanti e ancora aperti agli studi: per la committenza dell’abate di Bury St. Edmunds, Anselmo (1121-1148), si ha notizia di porte in bronzo destinate al portale occidentale che sarebbero state scolpite da maestro Hugo e il suo nome si fa pure per una delle più importanti opere romaniche del xii secolo, la grande croce d’altare in avorio di tricheco (New York, Cloisters Collection), eseguita con molta probabilità per l’abbazia di Bury St. Edmunds, per le evidenti connessioni con le miniature nate in quello scriptorium e per il suo forte carattere letterario che l’apparenta più alle miniature che non alla tradizione scultorea. La straordinaria fattura della croce è pari allo spessore teologico che soggiace al programma iconografico, spessore che presuppone un ambiente intellettuale di grande levatura teologica e scritturale. La ricchezza di questa programma è tale da radunare audacemente nello spazio della croce, alta circa ses-
199. Londra, Victoria and Albert Museum, candelabro di Gloucester, 1104-1113.
200. Novgorod, Santa Sofia, porta bronzea (dalla cattedrale di Plock), 1152-1154, particolare.
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201. Verona, San Zeno, porta bronzea, metà xii sec., particolare.
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santa centimetri, un centinaio di figure e 60 iscrizioni. Il «titulus» di re dei Confessori, in luogo di re dei Giudei, che compare sul recto della croce e che dà il nome alla croce stessa, è come il punto di partenza di una complessa sequenza iconografica che allude alla Passione di Cristo e alle relative profezie; è questa iconografia che fa supporre si trattasse probabilmente di una croce processionale destinata in particolare alla liturgia del Venerdì Santo. Infatti, nel medaglione centrale del recto della croce Mosè innalza il serpente di bronzo, segno della futura salvezza di Cristo crocifisso; la figura del Cristo, un tempo appeso alla croce, è ora da considerarsi perduta, poiché difficilmente si può identificare, come è stato proposto, con un Crocifisso in avorio del Museo di Oslo, che sembra più tardo. Sul retro della croce, oltre al medaglione centrale raffigurante l’Agnello, diciannove busti di profeti dai volti protesi e dalle barbe appuntite si allineano sui bracci della croce e con i loro cartigli dispiegati che profetizzano la passione formano un intricato schema lineare ondulato. Se la croce dei Confessori è da collegare con maestro Hugo e comunque con gli stilemi della miniatura di Bury St. Edmunds, la sua cronologia toccherebbe la metà del xii secolo. Altri avori inglesi di quel tempo o leggermente posteriori, come un pastorale del Victoria and Albert Museum di Londra o un bracciolo di poltrona a racemi abitati del Museo del Bargello di Firenze, svelano le stesse audacie compositive nell’adattamento dei corpi all’oggetto, anche se nessuno di essi si può paragonare alla croce dei Cloisters. Un ultimo settore merita di essere ancora menzionato: si tratta della lavorazione di oggetti in metallo, che assume nel corso del xii secolo le più varie manifestazioni: crocifissi, lastre tombali – ormai assimilabili alla scultura – oggetti decorativi d’ottone (le cosiddette «dinanderies», dalla città di Dinant nel Belgio, centro di produzione e di esportazione), elaborati oggetti liturgici come lo straordinario incensiere firmato da un Gozbertus (Treviri, Tesoro della cattedrale), in forma di complesso monumento con torrette, o lo splendido candelabro del monastero di Gloucester (Victoria and Albert Museum, 1104-1113) che trasferisce in metallo, con superba fattura, i grovigli lineari cari alla miniatura. In questo contesto si può collocare una fra le opere in metallo più singolari e ancora aperte agli studi: le imposte bronzee di San Zeno, che si preferiscono citare qui per il loro profondo collegamento con la produzione d’oltralpe. Le imposte sono formate da settantatré formelle in bronzo parzialmente dorato, assemblate su un’anima di legno e circondate da cornici semicilindriche ornate da teste umane e di animali. Tre mani diverse sono state individuate nella loro esecuzione, ma il geniale maestro maggiore (per il quale era stata proposta un’identificazione con uno Stephanus Lagerinus, ormai abbandonata) si distingue per il modo di modellare le sue figure audacemente disarticolate e tuttavia con straordinaria immediatezza gestuale, proiettandole quasi dal fondo liscio. L’ipotesi che l’autore o gli autori della porta veronese siano collegabili a un’area transalpina sembra confermata dal fatto che uno dei maestri (o la sua bottega) della porta di San Zeno avrebbe eseguito anche le porte della cattedrale di Plock sulla Vistola, tra il 1152 e il 1154, per il vescovo Alessandro di Magdeburgo, ivi rappresentato; le stesse porte furono divelte poi in epoca sconosciuta e rimontate nel xiv secolo in Santa Sofia a Novgorod.
romane, Paris 1961 (tr. it. Affreschi romanici, Milano 1962). In particolare sulle vetrate v. L. Grodecki, Le vitrail roman, Fribourg 1977. Per la pittura italiana in generale v. F. Bologna, Pittura italiana delle origini, Roma 1962. Per l’Italia settentrionale, oltre alla grande monografia di O. Demus sui mosaici di San Marco (Chicago-London 1984, 4 voll.), v. A. Segagni Malacart, Affreschi milanesi dall’xi al xii secolo, in Il Millennio ambrosiano, ii, cit., pp. 196-211, e U. Chierici, Il Battistero di Novara, Novara 1966; C. Segre Montel, F. Zuliani, La pittura nell’abbazia di Nonantola, Nonantola 1991. Per la pittura a Roma G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, Roma 1963-66 (nuova ed. a cura di M. Andaloro e F. Gandolfo, Roma 1987), e, dello stesso A., Mosaici medioevali delle chiese di Roma, Roma 1967, 2 voll., nonché gli studi contenuti nel catalogo Fragmenta picta. Affreschi e mosaici del medioevo romano, a cura di M. Andaloro, A. Ghidoli, A. Jacobini, S. Romano, A. Tomei, Roma 1990; per l’Italia meridionale v. E. Kitzinger, I mosaici di Monreale, Palermo 1960 (ristampa 1991). Sugli smalti mosani v. soprattutto il già citato catalogo della mostra Rhein und Maas, come pure i volumi della mostra Ornamenta ecclesiae cit., e in particolare M.M. Gauthier, Lmaux du moyen-âge Occidental, Fribourg 1972. Per la miniatura in generale v. C. Nordenfalk, L’enluminure – l’époque romane, Génève 1938; per la miniatura italiana M. Salmi, La miniatura italiana, Milano 1936; per quella francese J. Porcher, La miniatura francese, Milano 1939. Sulla Croce dei Confessori v. il catalogo della mostra II re dei Confessori: dalla croce dei Cloisters alle croci italiane, con saggi di C. Little e E. Parker, Milano 1984.
Nota Bibliografica Per una trattazione generale sulla pittura di questo periodo v. E.B. Garrison, Studies in the History of Medieval Italian Painting, Firenze 1933/62, e O. Demus, M. Hirmer, Romanische Wandmalerei, München 1968 (trad. it. Pittura murale romanica, Milano s.d.); per la pittura romanica in Francia v. di R. Oursel, Révelation de la peinture romane, Zodiaque St-Léger, 1980 (trad. it. La pittura romanica, Milano 1980). Un agile ma completo volumetto sulla pittura ad affresco nell’Occidente europeo, ma specialmente in Francia, è quello di P.H. Michel, La fresque
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TAVOLE
Tav. 29. Venezia, San Marco, mosaici dell’atrio con Storie della Genesi, metà xiii secolo.
Tav. 44. Cimabue, Crocifisso, Firenze, Museo di Santa Croce.
Tav. 30. Berzé-la-Ville, priorato, Martirio di san Lorenzo, inizio xii sec.
Tav. 45. Pietro Cavallini, Giudizio universale, Roma, Santa Cecilia in Trastevere, particolare, Due santi.
Tav. 31. Barcellona, Museo de Arte Antigua de Cataluña, La Vergine che regge un calice, dalla volta di San Clemente de Tahull, 1123 ca.
Tav. 46. Giotto, Crocifisso, Rimini, Tempio Malatestiano.
Tav. 32. Aosta, Santi Pietro e Orso, Angeli tubicini, inizio dell’xi secolo.
Tav. 48. Giotto, Ascensione di san Giovanni Evangelista, Firenze, Santa Croce, cappella Peruzzi.
Tav. 33. Civate, San Pietro al Monte, Gerusalemme celeste.
Tav. 49. Giotto, Cattura di Cristo, Padova, cappella degli Scrovegni.
Tav. 34. Renier de Huy, vasca battesimale commissionata dall’abate Hellinus, Liegi, San Bartolomeo, 11071118.
Tav. 50. Duccio di Buoninsegna, Maestà, Siena, Museo dell’Opera del Duomo, particolare, Natività.
Tav. 35. Berlino, Kunstgewerbemuseum, Operatio, dalla pala di san Remaclo, seconda metà xii sec. Tav. 36. Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire, altare portatile di Stavelot, 1145 ca.
Tav. 47. Giotto, Miracolo della fonte, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.
Tav. 51. Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1285. Tav. 52. Duccio di Buoninsegna, Tentazione sul monte, New York, The Frick Collection.
Tav. 37. Londra, Victoria and Albert Museum, trittico di Alton Towers, 1150 ca.
Tav. 53. «Maestro del codice di San Giorgio», San Giorgio e il drago, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Capitolare di San Pietro C. 129, c. 85r.
Tav. 38. Maestro Hugo, Bibbia di Bury St. Edmunds, Cambridge, Corpus Christi College, Parker Library, ms. 2, 1130-1140, c. 94r, Mosè e Aronne spiegano la Legge agli Israeliti.
Tav. 54. Simone Martini, Sogno di sant’Ambrogio (detto anche San Martino in meditazione), Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco, cappella di San Martino.
Tav. 39. New York, The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters Collection, Croce dei Confessori, metà del xii sec., faccia anteriore decorata con otto scene vetero e neotestamentarie.
Tav. 55. Simone Martini, Sant’Agostino, Cambridge, Fitzwilliam Museum.
Tav. 40. Nicolas de Verdun, cassa dei Re Magi, Colonia, Tesoro della cattedrale, particolare, Gioacchino. Tav. 41. Nicolas de Verdun, altare di Klosterneuburg, Klosterneuburg, abbazia, 1181, particolare, La regina di Saba e Salomone. Tav. 42. Parma, Battistero, portale del Giudizio Universale, Opere di Misericordia, particolare. Tav. 43. «Maestro dei Mesi di Ferrara», Mese di Settembre, Ferrara, Museo del Duomo,1230 ca.
Tav. 56. Giotto e collaboratori, trittico Stefaneschi, Città del Vaticano, Pinacoteca. Tav. 57. Pietro Lorenzetti, L’Ultima Cena, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco. Tav. 58. Puccio Capanna, Miracolo di san Stanislao, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco, 1341 ca. Tav. 59. «Maestro degli Angeli ribelli», Caduta degli angeli ribelli, Parigi, Museo del Louvre.
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Capitolo ottavo
«OPERE FRANCIGENO»: LA NASCITA DEL GOTICO NELL’ÎLE-DE-FRANCE
Aspetti storiografici e problemi di periodizzazione del Gotico Poco prima della metà del xii secolo, e quindi in un tempo che siamo soliti considerare ancora pienamente Romanico, vedono la luce in Francia, e precisamente nell’Île-de-France, alcune radicali trasformazioni delle forme romaniche, in architettura e in scultura, per le quali si può dire che sia ormai nato un nuovo stile, che poi si chiamerà Gotico, destinato a essere ben presto «esportato» non solo in varie regioni francesi ma anche fuori di Francia. Nel 1280 circa un cronista tedesco,riferiva che la chiesa di Wimpfen-im-Tal era costruita «opere francigeno» o, come diremmo oggi, alla maniera francese. Tuttavia il termine Gotico, applicato soprattutto all’architettura, comparirà con una connotazione fortemente negativa (gotico=barbarico) in scritti italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento. Vasari parlerà, per esempio, della «maniera trovata da i Gothi», riferendosi tuttavia, come gli altri scrittori, piuttosto al Gotico tardo. Non meraviglia che un’attenzione entusiastica allo stile Gotico e specificamente all’architettura si abbia soltanto in epoca romantica o preromantica e soprattutto nei paesi nordici, in concomitanza con il recupero delle radici medioevali della propria cultura nazionale. In Francia la scoperta quasi sconvolgente della cattedrale gotica come opera d’arte avverrà con la generazione del 1830, la quale vedrà fuse ed esaltate nella cattedrale gotica la potenza della fede cristiana e quella della monarchia. E in Germania agli albori del xix secolo – sulla scia di Goethe, che già nel 1773 aveva proclamato il Gotico come essenzialmente e autenticamente tedesco e indicava la cattedrale di Strasburgo come simbolo dell’anima tedesca («von der deutscher Baukunst») – Schlegel faceva appello al completamento della cattedrale di Colonia come un debito quasi morale verso la nazione. Sarebbe interessante ripercorrere, soprattutto nella letteratura francese, il formarsi di una sorta di mito della cattedrale gotica. Basterà ricordare che questo mito troverà la sua focalizzazione in Notre-Dame, cantata dal romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo: in esso la cattedrale viene romanticamente concepita quasi come un essere vitale e vibrante, «prodotto miracoloso di tutte le forze di un’epoca», e non più come un freddo edificio mutilato dalla Rivoluzione. Di qui una concezione di ordine spirituale che persiste nella storiografia artistica fino a tempi recenti con Mâle, e di cui è in parte debitore anche uno storico francese come il Focillon; la creazione della cattedrale è sentita come un’opera sociale, collettiva: essa appartiene «alla immaginazione, alla poesia, al popolo» (Victor Hugo); e dalla viva coscienza dell’appartenenza di questi monumenti alla storia spirituale di una nazione discenderà anche l’opera instancabile di restauro di quel patrimonio condotta nel secolo scorso da Viollet-le Duc. Tav. 59 227
Nonostante l’area del Gotico attraversi da nord a sud tutta l’Europa, dalle Isole Britanniche ai Paesi Bassi, agli stati dell’Impero Germanico, prolungandosi fino a tutto il xiv secolo e addirittura alla metà del xv, ci limiteremo a prendere in considerazione il momento formativo di questo stile dalla metà del xii secolo fino alla sua maturazione entro la metà del xiii secolo, e cioè tra la chiesa di Saint-Denis e la Sainte Chapelle di Parigi, perché è nel giro di questo secolo e particolarmente nell’Île-de-France che l’architettura gotica raggiunge il suo sviluppo più coerente e sistematico, in un contesto storico e culturale quasi paradigmatico. Dopo questa data il Gotico tenderà piuttosto a perdere che non a rinnovare quella serrata coerenza e a lasciare che un’esuberanza decorativa prenda via via il sopravvento. Prima di ricostruire brevemente il profilo di questa prima genesi gotica, occorrerà richiamare alcune considerazioni sulla diversa periodizzazione dello stile gotico a nord e a sud delle Alpi. La precoce nascita del Gotico in Francia e il suo pieno sviluppo entro la metà del xii secolo contrastano fortemente con il suo percorso in Italia, dove per tutto il xii secolo e fino alla metà del xiii si parlerà ancora il linguaggio romanico, nonostante i primi consistenti riflessi dell’Île-de-France nella scultura dell’Antelami e, prima ancora, nelle costruzioni dirette da architetti cistercensi. Il gotico italiano non accoglierà, se non con parsimonia, quel gusto, sottraendosi al fascino della verticalità quasi smisurata, della «diafanità» della muratura, della profusione decorativa. Queste diverse caratteristiche hanno avvalorato in passato certe interpretazioni nazionalistiche, sostenute dal Sedlmayr, di una radice «antimediterranea» del gotico. Quello che qui però preme sottolineare è solo, o soprattutto, una radicale diversità nel percorso stilistico del Gotico a nord e a sud delle Alpi, diversità cronologica anzitutto, ma anche di interpretazione; sarebbe tuttavia errato sottovalutare la partecipazione ricca e diramata che l’arte italiana darà di questo fenomeno nel Trecento, con un contributo di estrema importanza specie nella pittura all’inizio del xiv secolo.
Le cattedrali dell’Île-de-France nel primo periodo Gotico (1150-1230)
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È un fatto quasi eccezionale nella storia dell’arte che l’inizio di un grande movimento stilistico sia legato a un’opera specifica e a una data precisa, in questo caso la facciata e il coro della chiesa abbaziale di Saint-Denis, nei dintorni di Parigi. È tuttavia altrettanto vero che non pochi elementi strutturali del Gotico avevano già fatto la loro apparizione in architetture romaniche, specie in Normandia, come le volte a ogiva o l’organizzazione della parete in tre registri successivi. È comunque certo che l’architettura gotica come evento culturale globale, che interessa sia la sua compagine strutturale, sia l’interpretazione dello spazio, sia un insieme di realtà economiche, politiche, sociali; nasce appunto nell’Île-de-France poco prima della metà del xii secolo e si svilupperà rapidamente fino a giungere a una pienezza espressiva e a un suo apice costruttivo nella prima metà del xiii; ed è vero che l’architettura gotica fa parte integrante di una Francia che nel xiii secolo è il paese più moderno d’Europa quanto a cultura, mezzi economici e amministrazione. È invece un errato luogo comune quello che contrappone l’età romanica come l’età del monachesimo all’età gotica come quella delle cattedrali urbane: lo stesso Saint-Denis, culla «ufficiale» del Gotico, è chiesa abbaziale benedettina e si sa quanto l’ordine cistercense, nato in Borgogna, contribuì alla capillare diffusione in Europa del suo particolare linguaggio gotico, e anche gli ordini mendicanti che gravitavano su Parigi come centro culturale adottarono prontamente questo stile. La chiesa abbaziale di Saint-Denis, luogo sacro alla monarchia francese sin dai tempi dei Merovingi, che albergava le tombe reali, deve alla straordinaria figura dell’abate Suger un geniale rinnovamento: nel 1140 nasce la facciata con nuove caratteristiche, il rosone centrale, i tre portali e le due torri laterali; e subito dopo, entro il 1145, il primo coro a deambulatorio, saldato al transetto da una serie di cappelle radiali, che appunto
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202. Saint-Denis, chiesa abbaziale, 1140-xiii sec.
203. Noyon, cattedrale, secondo quarto xii sec., navata centrale e abside.
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trasformano l’antica croce latina in uno spazio potenzialmente più vibrante, dinamico e luminoso, grazie alle quattordici finestre che inondano il coro di luce. Queste finestre vengono espressamente citate da Suger in uno scritto, dove parla di una «lux mirabilis et continua». È nella luce infatti – secondo un’estetica di discendenza neoplatonica e agostiniana, diffusa dagli scritti dello pseudo Dionigi – che Suger vede il mezzo per elevare l’anima a Dio, luce inaccessibile. Completata solo nel xiii secolo, Saint-Denis non è però la prima costruzione interamente gotica. Lo è invece la cattedrale di Saint-Étienne a Sens, dalla quale dipendevano numerosi vescovadi, tra cui quelli di Chartres e di Parigi. Fondata nel 1140, essa risulta completata nel 1176, ad eccezione della facciata. La sua nitida planimetria a tre navi, che proseguono senza transetto nel coro a deambulatorio, con un alzato interno a tre piani ha una sua grandiosa monumentalità di ricordo ancora romanico, come pure di ricordo romanico è l’alternanza tra pilastri compositi e colonne gemine. Ricadono in gran parte entro il xii secolo le cattedrali delle province di Sens e di Reims, come Laon, Noyon, Senlis, tutte messe in cantiere tra il 1135 e il 1180, e inoltre Notre-Dame di Parigi, a partire dal 1160. Sono queste le cattedrali in cui raggiunge il suo pieno sviluppo quell’organico insieme di strutture che costituisce il sistema costruttivo gotico. Esso si fonda, come è noto, sulle coperture a volte ogivali (nelle quali, cioè, le ogive agiscono da archi di sostegno che si incrociano nella chiave di volta) il cui peso si scarica su pilastri, rafforzati in genere da fasci di colonne. La localizzazione delle spinte delle volte sulla muratura è resa evidente dal rafforzamento della muratura stessa con fasci di colonnette che ne scaricano il peso proseguendo fino ai pilastri di sostegno, consentendo un progressivo alleggerimento della muratura della nave. All’esterno la muratura è rafforzata non solo dai pesanti contrafforti ma da archi rampanti che dalle navate laterali raggiungono quella centrale. Questo sistema strutturale elastico e dinamico, che porta a un progressivo innalzamento delle volte, ha indotto una critica di tipo positivistico nel xix secolo a spiegare globalmente lo stile gotico come un «funzionalismo costruttivo» (nel Gotico, secondo la definizione di Viollet-le-Duc, «tutto è in funzione della struttura»). Una spiegazione per così dire meccanicistica dello stile gotico è tuttavia solo parzialmente vera; una spiegazione solo funzionale non può soddisfare lo storico, che ne tenterà una più globale, una certa interpretazione formale e spaziale, sottolineando soprattutto la potenziale illimitatezza del Gotico sia in planimetria sia nel verticalismo espresso attraverso fasci lineari. Come è stato giustamente notato, la stessa spazialità gotica appare fortemente dominata anche da criteri di rigorosa suddivisione di tutte le sue parti, una suddivisione evidente soprattutto nelle pareti, frutto di misurazioni geometriche, documentate anche dagli studi d’architettura del taccuino di Villard de Honnecourt. Sotto questo aspetto il Gotico è uno stile quasi «additivo», con un gioco di prospettive multiple, longitudinali e trasversali. Panofsky, sottolineando questo aspetto in un lucido saggio, ricollega strettamente lo stile gotico al procedimento mentale della filosofia Scolastica, sorta contemporaneamente all’ombra delle scuole delle cattedrali, come quelle di Parigi o di Chartres. Paragoni del genere vanno certamente accolti con misura, come pure, e più ancora, quelli che vedono nella suggestiva illimitatezza del Gotico, nella diafanità della muratura perseguita con tanta coerenza, il riflesso di una sensibilità religiosa mistica. Essa tuttavia traspare nell’uso sempre più esteso delle vetrate e dei rosoni, reso possibile dallo svuotamento progressivo della muratura. Questa sensibilità è presente, per esempio, negli scritti di Suger, in cui egli eleva quasi un inno alla luce, riflesso del divino, che irrompe dalle grandi vetrate colorate. Il gruppo di cattedrali citate, Noyon, Parigi, Laon e Soissons è, come si è detto, particolarmente omogeneo e cronologicamente contiguo: comuni sono la copertura a ogive e il coro a deambulatorio e anche gli alzati della navata a quattro livelli, arcate, tribune, triforio e finestre, e un carattere generale grafico, leggero e nitido. Di questo primo gruppo di costruzioni la cattedrale di Notre-Dame a Parigi resta la testimonianza più notevole sotto vari aspetti e quella giustamente più famosa. Messa in cantiere dal vescovo Maurice
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204. Sens, cattedrale, 1140-1176, interno.
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de Sully verso il 1160, essa sostituisce una precedente cattedrale doppia già presente da secoli a Parigi. La planimetria di Notre-Dame è a cinque navate con un transetto allineato alla nave, anche per mancanza di spazi laterali. Su questa pianta grandiosa si eleva l’alzato più raffinato delle chiese con tribune, nel quale una delicata serie di rosoncini a traforo sostituiscono il triforio. Il principio del muro sottile è evidente nel modesto strombo delle varie parti della parete, come pure è evidente un richiamo classico nell’insolito uso di grandiose, semplici colonne di sostegno, con ricchi capitelli a fogliame in sostituzione dei pilastri a fascio. Accenti di equilibrio classico si notano anche nella rigorosa e armoniosa spartizione della facciata. Accanto alla raffinatezza costruttiva di Notre-Dame, occorrerà sottolineare anche l’enorme importanza della cattedrale di Laon, dalla quale deriveranno si può dire tutte le cattedrali della regione settentrionale della Francia per alcuni decenni e persino fuori della Francia, in Renania. La cattedrale di Laon assomiglia a Notre-Dame di Parigi, di cui ha all’incirca gli stessi tempi di costruzione; ma l’articolazione delle campate vi è più vigorosa e imponente, con un coro allungato e rettilineo e un ampio transetto con navate laterali sormontate da tribune e al centro una lanterna, alla maniera normanna. Da Laon, più ancora che da Parigi, dipende dunque in parte anche la successiva fase del Gotico, che in uno stupefacente crescendo costruttivo vede sorgere uno dopo l’altro i grandi capolavori del Gotico cosiddetto maturo o «classico»: la cattedrale di Chartres, ricostruita dopo l’incendio del 1194, Reims, iniziata nel 1211, Le Mans nel 1217, Amiens nel 1220. Sono gli anni che coincidono con il consolidamento della monarchia attraverso il regno trionfale di Filippo Augusto (1179-1223), quando la Francia, dopo la vittoria di Bouvines contro il re d’Inghilterra, diventa il primo stato europeo. La crescente grandiosità delle imprese, le misure via via più ardite sembrano voler esibire questa supremazia politica e risorse economiche quasi illimitate. In effetti una potenza costruttiva di questa entità è resa possibile da un’accresciuta organizzazione del cantiere della cattedrale e da una sua maggiore razionalizzazione. Vengono introdotti metodi di standardizzazione che consentono la più rapida preparazione di cornici, profili e ogive: progetto ed esecuzione diventano due momenti distinti. Per ricostruire la cattedrale di Chartres, santuario mariano del regno, distrutta da un rovinoso incendio nel 1194, si quotano aristocrazia e popolo con uno slancio unanime, raramente verificatosi per altre costruzioni. Chartres ha campate orizzontali e volte quadripartite; le amplissime finestre sono suddivise per ragioni tecniche in due archi a reticolato con un rosone di ben sei metri di diametro: grandioso motivo che si ripete ben trentaquattro volte nella nave e nel transetto, svuotando completamente la muratura. Questa immensa decorazione vetraria occupa una superficie di oltre duemila metri e fu eseguita nell’arco di circa trent’anni. Essa comportava un complesso insieme di operazioni: acquisto di vetri colorati, taglio secondo il disegno preparatorio, applicazione del disegno a «grisaille», cottura, piombatura, preparazione dell’armatura. L’influsso esercitato da Chartres fu immediato e vasto: Soissons e soprattutto Reims e Amiens ne sono la prova. Tutte adottano l’alzato a tre anziché a quattro spartizioni, abolendo le tribune e ingrandendo enormemente le finestre, arricchite dal rosone, e tutte adottano il pilastro cilindrico con colonne addossate. Anche la cattedrale di Reims, come Chartres, è un monumento di eccezionale valore storico, sede di una vastissima diocesi e chiesa di consacrazione dei re di Francia. Ben quattro nomi di architetti sono ricordati accanto al grande labirinto disegnato sul pavimento della chiesa, che allude al mitico architetto Dedalo. La cattedrale di Reims segna anche l’avvento di una più diffusa, ricchissima decorazione plastica che si estende su ogni parte dell’architettura. Al tempo stesso non si arresta la tendenza a una sorta di gigantismo delle misure: se la volta più alta di Chartres misura 38 metri, quella di Reims ne misura 40, quella di Amiens 42. Nonostante le enormi misure (la sua nave è lunga 130 metri), la cattedrale di Amiens possiede un senso di armonia e di chiarezza che Viollet-le-Duc non esitava a definire classiche. Questo periodo straordinario si conclude in certo modo con la costruzione della Sainte Chappelle di Parigi, iniziata nel 1241 e consacrata
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205. Parigi, Notre-Dame, 1160-1200 ca., interno.
206. Chartes, cattedrale, xi-xii sec., volte della navata centrale.
207. Parigi, Notre-Dame, facciata.
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nel 1248 per volontà del re san Luigi ix, che aveva riportato da Costantinopoli una reliquia della corona di spine. Ad aula unica, questa grande cappella appare posata su un ridotto piedestallo murario, sul quale si eleva un sottile scheletro di pilastri a fascio. Essi racchiudono immense vetrate, nelle quali sono dipinti un centinaio di pannelli narrativi con un cromatismo squillante e un rigoroso programma iconografico che allude alla reliquia custodita nella cappella. L’eccezionale slancio creativo di questi decenni è tuttavia accompagnato in numerosi casi da difficoltà crescenti e da conflitti perduranti tra capitolo e vescovo, causati dalle enormi difficoltà economiche implicite in progetti così smisurati; esse portano spesso a stasi e interruzioni destinate a restare definitive, come nel caso del coro di Beauvais rimasto incompiuto. Sauerländer parla di un certo declino di questo tipo di cattedrali giganti, destinate, egli dice, ad apparire quasi irreali «dinosauri» che si elevano sull’intrico di piccole vie e di bassi edifici medioevali. In una città come Laon, la cui cinta muraria è rimasta ancor oggi intatta, il carattere irreale di queste cattedrali-grattacielo si impone subito allo sguardo.
I programmi scultorei delle cattedrali francesi
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Nel Gotico architettura e scultura entrano in un rapporto più organico tra loro che non nell’età romanica: le dimensioni senza precedenti e sempre crescenti delle chiese offrono nuovi spazi alla scultura, che a sua volta si arricchisce di nuovi e complessi programmi iconografici. I temi centrali sono affidati ai portali e si articolano con ampiezza dalle lunette all’architrave e alle fasce degli archivolti. Soprattutto nel primo Gotico, i profondi strombi dei portali si popolano di personaggi biblici o di santi a figura intera. Oltre a questo preminente ruolo scultoreo dei portali, altre parti scolpite erano affidate alle finestre, ai capitelli, ai doccioni e più tardi alle guglie. Tanta mole di lavoro veniva ovviamente assolta da un cantiere, che operava sotto la guida di un «maestro» scultore, spesso nominato nei documenti. Una vetrata di Chartres e alcuni fogli di codici miniati illustrano i metodi di lavorazione: il blocco da scolpire veniva adagiato su un piano inclinato, veniva lavorato sulla faccia anteriore e ai fianchi, con il mazzuolo, lo scalpello e infine il cesello. Non esistevano cartoni preparatori né bozzetti né modelli. Infine la statua veniva generalmente colorata; di questa colorazione originaria non esistono ormai che deboli tracce e questo naturalmente non può che alterare la nostra visione della scultura medioevale. Lo schema tipico della facciata gotica, luogo principale della decorazione scultorea, è offerto ancora una volta dalla chiesa di Saint-Denis: facciata a tre portali con due torri laterali e un rosone centrale. A lungo le chiese gotiche resteranno fedeli a questo schema, che troverà a Reims il suo apogeo. La facciata di Saint-Denis inaugura anche la nuova decorazione plastica dei portali, giunta a noi gravemente mutilata: nel 1771 tutte le statue dello strombo furono rimosse e ora possiamo solo rivederne le immagini dalle incisioni assai precise che ne aveva tratto il Montfaucon nel 1729. È appunto questa decorazione degli strombi dei portali che rappresenta la maggiore novità di Saint-Denis: venti grandi statue erano collocate lungo gli strombi ed erano scolpite nello stesso blocco delle colonne: di qui il loro nome tradizionale di «statue colonne», termine tuttavia impreciso. Esse raffiguravano Re e regine, patriarchi e profeti dell’Antico Testamento, con una probabile allusione all’unità dei due poteri, quello regale e quello sacerdotale. Questo tipo di decorazione dall’Île-de-France si diffonderà poi nell’Anjou, nel Maine, in Borgogna e nella Champagne, ma resterà comunque sempre una creazione francese. Nella lunetta del portale centrale di Saint-Denis è raffigurato il Giudizio Universale, il primo del nuovo stile gotico: la scena che raffigura al centro il Cristo a braccia distese e a lato Maria e gli apostoli, presenta infatti una nuova chiarezza distributiva delle parti, ignota in precedenza, che diverrà via via più sistematica,
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208. Parigi, Sainte-Chapelle, 1241-1248, interno.
209. Saint-Denis, chiesa abbaziale, lunetta del portale centrale, 1140-1144, Giudizio Universale.
210. Chartres, cattedrale, braccio nord del transetto, portale destro, particolare, verso il 1220.
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211. Chartres, cattedrale, facciata occidentale, portale Reale, 1145-1155 ca.
212. Chartres, cattedrale, prospetto occidentale, portale Reale, particolare dell’archivolto, La Musica.
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secondo il gusto estetico del Gotico. In questo Giudizio le scene del Paradiso e dell’Inferno sono confinate nell’archivolto e tutto sembra più ammonire che spaventare. La grande facciata di Chartres, capolavoro della prima scultura gotica, sorse nel 1145, quando si decise di creare, a conclusione della nave romanica, una facciata a tre portali racchiusa fra le due torri secondo il nuovo tipo gotico. Le sculture dovettero dunque essere collocate sui portali fra il 1145 e il 1155. Delle ventiquattro statue che in origine occupavano l’intera area degli strombi – non solo gli spazi diagonali ma anche gli angoli dei contrafforti e degli stipiti – ne restano diciannove e rappresentano Re, regine, profeti e patriarchi dell’Antico Testamento. Queste severe figure, ricavate da lunghi e stretti blocchi di pietra, poggiano su piccoli piedestalli con i piedi puntati in avanti e sono sormontate da un «baldacchino» architettonico ad archetti acuti. Gran parte del fascino di queste figure sta nel contrasto tra una forma altamente stilizzata, accentuata dalla rigida assialità e dal panneggio a fitte pieghe verticali parallele, e una loro quasi misteriosa vitalità e sensibilità, che si esprime nel modo più alto nelle figure dello strombo di sinistra del portale centrale. Qui opera certamente il maestro migliore di tutta la facciata, al quale è attribuito anche il Cristo in maestà della lunetta centrale. È importante notare che questa iconografia del Cristo circondato dalle quattro bestie apocalittiche e dai ventiquattro vegliardi, secondo il testo del capitolo quarto dell’Apocalisse, era già apparsa assai simile nella distrutta lunetta del portale di Cluny, a noi nota attraverso un disegno: testimonianza interessante di un precedente romanico in terra borgognona della scultura gotica dell’Île-de France. Anche il fitto panneggio del Cristo Giudice presenta stilizzazioni paragonabili ai tipi borgognoni di Cristo Giudice, soprattutto a Vézelay e ad Autun. Profondamente nuova, invece, è nel Cristo di Chartres l’affascinante mescolanza di vitalità e di stilizzazione, di severa frontalità e di dinamismo.
213. Parigi, Notre-Dame, timpano del portale di sant’Anna, 1160-1180 ca.
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216. Chartres, cattedrale, portale Reale, timpano.
214. Chartres, cattedrale, transetto nord, portale dell’Incoronazione della Vergine, 1210-1220 ca., archivolto, Dio e Adamo, particolare.
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215. Chartres, cattedrale, portale Reale, «statue-colonna» 1145-1155.
217. Parigi, Notre-Dame, portale del Giudizio Universale, archivolto, I Cavalieri dell’Apocalisse, particolare.
218. Chartres, cattedrale, antico iubé, 1220 ca., Natività.
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Per la prima volta a Chartres il tema del Giudizio è accompagnato dalle Vergini sagge e Vergini folli – in attesa appunto dello Sposo-Cristo – con un arricchimento teologico del programma iconografico. Anche negli archivolti dei portali laterali fanno la loro apparizione temi del tutto nuovi: a sinistra nella lunetta dell’Ascensione sono raffigurati i Segni dello zodiaco e del calendario, a destra le Arti liberali (Trivium e Quadrivium) e cioè il curriculum di studi ereditato dall’antichità classica, un tema che rispecchia la realtà delle scuole delle cattedrali. Questo «Maestro degli archivolti» di Chartres ama impiegare nelle figure proporzioni insolitamente robuste e nei volti dei personaggi e negli atteggiamenti un realismo che contraddistinguerà sempre più il gusto gotico. Vicino a questo maestro è l’artista che scolpisce la più antica delle porte di Notre-Dame a Parigi, la porta di sant’Anna, contemporanea al portale reale di Chartres. Essa fa parte della ricostruzione «a fundamentis» della cattedrale di Notre-Dame promossa dal vescovo Maurice de Sully, iniziata circa il 1160, anche se il portale stesso fu installato probabilmente più tardi. Se lo stile della porta di sant’Anna richiama quello del «Maestro degli archivolti» di Chartres, si avverte nondimeno una levigatezza maggiore, quasi un gusto più aristocratico. È da notare comunque che il tema della Vergine «Nicopoia» (La Vergine che mostra il Bambino) accompagnata da altri episodi mariani diventa ora tema preferito, mentre il tema apocalittico del Giudizio tende a scomparire e quello della Majestas Domini scompare interamente dopo il 1170. Anche a Senlis il programma iconografico è centrato sulla Vergine, raffigurata nella lunetta come Regina del cielo con scettro e corona alla destra di Dio, mentre nell’architrave sono rappresentate la Dormitio Virginis e l’Assunzione e nell’archivolto le Genealogie di Cristo e di Maria, tra flessibili racemi che alludono all’albero di Jesse. In questo primo gruppo di sculture tra il 1160 e il 1180 circa, quelle di Senlis presentano un’intensificazione dinamica nei panneggi annodati e nella gesticolazione, secondo un gusto che è stato avvicinato a quello delle oreficerie mosane. A partire dal 1190 circa ha inizio un nuovo e grandioso capitolo della scultura gotica francese, parallelo allo sviluppo dell’architettura. Tra il 1200 e il 1220 la scultura dell’Île-de-France persegue una ricerca di armonia e di equilibrio, che ha dato luogo al termine di «classicismo gotico» o di «Gotico classico»: un termine che allude appunto a un raro equilibrio tra realismo e sensibilità umana da un lato e bellezza ideale dall’altro. Imponenti cicli di sculture contrassegnano l’estrema vitalità di questo periodo; si pensi, solo per restare alle cose maggiori, alla complessa decorazione dei portali del transetto nord e di quello sud di Chartres, situabili tra il 1210 e il 1220, ai portali della facciata di Notre-Dame e di Amiens. A queste si devono aggiungere altre opere famose, ora in gran parte distrutte, come il grande «jubé» di Chartres e a Parigi la Galerie des Rois, ossia l’insieme di statue che attraversano orizzontalmente la facciata. Questa straordinaria fioritura si conclude idealmente verso il 1235-40 con la fitta decorazione plastica di Reims, che si arricchisce ormai di una folla di statue decorative, liberamente disposte sulle strutture architettoniche. Ciascuno di questi grandi cicli meriterebbe una prolungata attenzione; ma è principalmente a Chartres, nella grandiosa sequenza dei portali dei due transetti, e nella facciata di Notre-Dame che si può ripercorrere lo sviluppo e l’apogeo di questa prima scultura gotica. Nei sei portali dei transetti nord e sud di Chartres una vera e propria proliferazione di statue allinea una varietà di santi, martiri, papi, arcivescovi, ciascuno dei quali contrassegnato da caratteri individuali, di fisionomia e di costume. Per quanto riguarda i rilievi, la splendida sequenza delle Storie della Genesi nell’archivolto del portale centrale del transetto nord basterebbe da sola a illustrare l’enorme mutamento che si è verificato nella resa della realtà: per ciascuno dei vari momenti della creazione che si susseguono nelle fasce dell’archivolto l’anonimo artista ha genialmente inventato un’iconografia nuova; la fresca varietà della natura occupa un posto dominante e mette in evidenza tutta l’importanza di questa riscoperta del reale, senza mai scadere in un descrivittismo decorativo. Altre immagini del tutto nuove, ricche di significati culturali emblematici e di insegnamenti
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219. Parigi, Musée de Cluny, Testa di re (dalla Galleria dei Re di Notre-Dame), 1220 ca.
220. Reims, cattedrale, facciata occidentale, portale centrale, Annunciazione, 1220-1230 ca.
221. Reims, cattedrale, cappelle radiali esterne, Angelo, 1220-1230 ca.
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morali, si trovano nella serie di figure che illustrano la Vita attiva e la Vita contemplativa negli archivolti del portale di Giobbe. All’interno della cattedrale di Chartres il deambulatorio era recinto da un alto parapetto marmoreo detto «jubé», distrutto nel 1763 e riportato parzialmente alla luce nel secolo scorso. Non ci rimangono che alcune scene frammentarie dell’Infanzia di Cristo: nella più nota di esse, la Natività, la Madonna si sporge dal giaciglio e avanza la mano verso il viso del Bimbo con un gesto di toccante umanità che verrà frequentemente ripreso anche nell’arte italiana, da Nicola e Giovanni Pisano e dallo stesso Giotto. Negli stessi decenni dei transetti di Chartres, cioè presumibilmente intorno al 1220, anche gli scultori che nel portale centrale di Notre-Dame a Parigi raffigurano il Giudizio rivelano un arricchimento iconografico e soprattutto un’intensificazione realistica. In particolare si veda nell’archivolto la vitalità quasi sfrenata della sequenza dei Cavalieri dell’Apocalisse, scolpita con straordinaria perizia. Sempre nella facciata di Notre-Dame ricorderemo anche una varietà di altre immagini sugli stipiti e sui basamenti, di carattere più profano, di grande fantasia iconografica, talora di difficile identificazione, e di libera scioltezza realistica; nelle immagini dei Mesi gli strumenti agricoli sono resi con precisione straordinaria. Nel 1977 venivano fortunosamente recuperate ventun teste, già appartenenti alla Galerie des Rois sulla facciata di Notre-Dame e abbattute durante la Rivoluzione francese. Queste teste, ora al Museo di Cluny, che pure alludono al connubio tra potere regale e sacerdotale e quindi rivestono un carattere fortemente simbolico, hanno tuttavia un’intensità umana straordinaria, grazie anche a una modellazione ricca e sapiente. La loro bellezza tende classicamente a un’esaltazione della dignità e della grandezza umane, e giustamente sono state giudicate fra i più alti esemplari del classicismo gotico. Questo gusto quasi classico della statuaria si coglie anche nella serie degli Apostoli addossati ai pilastri interni della Sainte Chapelle di Parigi (di cui tre soli attualmente sono originali, mentre altri quattro sono al Museo di Cluny): le loro misure, l’ampio drappeggio dei manti colorati, la dignità dei loro volti, tutto tende a fare di questi personaggi quasi i prototipi di un’umanità rinata. Questa ricerca di equilibrio tra realtà umana e realtà ideale sarà tuttavia di breve durata. Già infatti la ricchissima decorazione scultorea della cattedrale di Reims, benché di poco posteriore a quelle di Chartres e di Parigi, denuncia la svolta della scultura verso temi e sensibilità sempre più umanizzati e apre la strada a quella ricerca di grazia e di bellezza decorativa che, col trascorrere dei decenni, diventerà l’aspetto più noto del Gotico. Nel celebre gruppo della Visitazione di Reims i volti della Vergine e di Elisabetta sono caratterizzati psicologicamente, quasi dei ritratti: e gli Angeli che ornano il deambulatorio sorridono flettendo il capo in una mossa graziosa. Una tecnica raffinata è ormai lo strumento docile per rendere tutte le sottili variazioni di questa nuova umanità che popola all’esterno le cappelle del deambulatorio, angeli ad ali spiegate, atlanti, maschere grottesche, mentre nei portali una sontuosità senza precedenti allinea ben cinque registri scolpiti. La sistematicità compositiva dei primi portali chartriani appare ormai lontana.
La decorazione scultorea delle cattedrali tedesche La grande stagione scultorea che ha come epicentro i primi decenni del Duecento nell’area tra Parigi, Chartres e Reims avrà una notevole forza d’espansione, specie nei territori tedeschi lungo il Reno (Friburgo, Strasburgo, Colonia) e soprattutto più a oriente, a Bamberga, Naumburg, Magdeburgo, sotto il regno del grande e coltivatissimo Federico ii, imperatore di Germania e re di Sicilia (1220-1250). Nelle grandi cattedrali fondate dagli ordini militari o dagli ordini mendicanti fiorisce una ricca stagione scultorea che arricchisce i grandi portali a strombo di statue, di affollati archivolti e timpani. All’interno delle stesse cattedrali
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222. Parigi, Sainte-Chapelle, Apostolo, 1241-1248.
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altri gruppi statuari, di gusto monumentale e di forte realismo espressivo, collocati nei recinti del coro, sui pilastri, confermano questa netta predilezione della scultura tedesca alla statuaria monumentale. Nel 1237 veniva consacrata la cattedrale di Bamberga, fedele nelle strutture architettoniche a soluzioni romaniche, ma per la sua decorazione plastica il vescovo e il capitolo si rivolgono a Reims. Essa è di una vastità e di una portata da potersi considerare la maggiore in terra germanica. Nel portale di destra o porta della Misericordia (Gnadenpforte) le grandi statue a grandezza naturale dell’imperatore Enrico ii, fondatore della cattedrale, e della moglie Cunegonda, entrambi canonizzati, adorano la Vergine, presente sul timpano. Il confronto tra questa statua di Enrico ii e le 14 statue di re che ornano i pinnacoli del transetto di Reims o le teste della Galleria dei Re a Notre-Dame non lascia dubbi sulla profonda unità dell’ispirazione e della fattura stessa, tanto da chiedersi se non siano presenti, a Bamberga, maestranze direttamente reimsesi. Come già a Reims, anche a Bamberga si vuole soprattutto dar vita a immagini di sapore ideale e al tempo stesso di forte carica umana, tipiche del primo gotico “classico”. All’interno della cattedrale la celeste statua del Re Cavaliere, nella quale taluni riconoscono la figura di Federico ii vuole suggerire l’immagine ideale, umanamente bella e armoniosa della regalità, con un evidente richiamo alle statue equestri classiche. Pochi anni dopo il 1250 si apre un altro grande cantiere di scultura nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Naumburg. Un grande ignoto «maestro di Naumburg» crea all’interno un gruppo di statue nello stesso spirito di nobile grandiosità, ma con una più intensa sottolineatura realistica e con un’inflessione feudale di gusto tedesco. Le dodici statue policrome a grandezza naturale su pilastri addossati alla ricaduta delle volte possono infatti richiamare come collocazione le grandi statue policrome degli Apostoli nella Sainte Chapelle di Parigi; ma qui si tratta di personaggi reali anche se non tutti identificabili dai cartigli, probabilmente i benefattori della cattedrale vestiti in abiti del tempo, dai volti caratterizzati ed espressivi. Qui il naturalismo gotico si spinge fino al ritratto, nell’eleganza raffinata e nella femminilità del gesto della celebre Uta, sposa del margravio Ekkehard ii di Meissen, come pure nel gesto e nel volto romanticamente corrucciati del conte Guglielmo di Kamburg. Questa carica emotiva si dispiegherà anche nelle Storie della passione raffigurate nel jubé del coro, l’unico del tempo pervenutoci intatto. Tuttavia le maggiori novità della scultura tedesca intorno alla metà del Duecento riguarderanno ancora la grande statuaria. Già a Reims i volti assumevano spesso un’espressività sentimentale: si pensi al celebre sorriso dell’Angelo annunciante; ma in Germania questa espressività si caricherà subito di un’emotività accentuata. Si veda nel portale della cattedrale di Magdeburgo il riso apertamente malizioso e la drammatica disperazione rispettivamente delle Vergini sagge e delle Vergini folli; o l’aperto riso infantile dei beati nel timpano del giudizio nel portale del Duomo di Bamberga; o la veemenza dolorosa del celebre gruppo della Dormizione della Vergine su un portale del transetto della cattedrale di Strasburgo, o il concitato colloquio delle coppie di Profeti nel recinto del coro del Duomo di Bamberga. In questi ultimi anche il linearismo gotico assume una cifra fortemente stilizzata e tagliente, di gusto già gotico maturo e quasi memore del remoto gusto ottoniano e salico.
223. Bamberga, duomo, L’imperatore Enrico ii e l’imperatrice, 1220-1230 ca.
224. Naumburg, cattedrale, Uta contessa di Gerburg, verso il 1250.
225. Bamberga, duomo, I profeti Giona e Osea, 1230 ca.
226. Naumburg, cattedrale, Il conte Wilhelm von Kamburg, verso il 1250.
Nicolas de Verdun e «l’arte intorno al 1200» L’opera di questo grandissimo artista appartiene, sotto il profilo strettamente storico e tecnico, al capitolo dell’oreficeria mosana, capitolo di cui segna ad un tempo l’apice e la conclusione. Tuttavia preferiamo inserire la sua figura e la sua opera all’interno dell’arte del gotico nascente, perché l’opera di Nicolas de Verdun, che spazia tra il 1180 e il 1203, risulta straordinariamente anticipatrice di questa sensibilità potentemente
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classica e intensamente vitale e inaugura quell’arte intorno al 1200, che rappresenta appunto il vitale inizio della scultura gotica. La prima opera firmata e datata di Nicolas de Verdun è del 1181 e fu eseguita a Klosterneuburg, nei pressi di Vienna. Si trattava in origine di un monumentale ambone, trasformato sin dal 1330 in un trittico d’altare. Come oggi appare, l’opera è composta di ben 31 scene coronate da archetti trilobi e divise da pilastrini, dove sono narrati altrettanti episodi della storia sacra dell’umanità «ante legem», cioè prima della legge mosaica, «sub lege», cioè sotto la legge mosaica, e «sub gratia», dopo la venuta di Cristo. I personaggi sono ricavati in oro su sfondo smaltato azzurro, quindi abbandonando la policromia tipica degli smalti mosani precedenti; smalti policromi e oro sono invece nelle cornici che rilegano le scene. L’effetto complessivo è di incomparabile sontuosità e tuttavia la grandezza dell’arte di Nicolas de Verdun, al di là della somma perizia della tecnica, sta nella magistrale organizzazione delle scene, scene di drammatico movimento, e nella capacità di creare personaggi di classica monumentalità, come la Regina di Saba e Salomone o Sansone che smascella il leone. Basterà confrontare questi smalti di Nicolas con quelli di pochi decenni precedenti di Godefroy de Huy per comprendere quale «salto» storico Nicolas de Verdun realizzi, passando quasi da un universo bidimensionale a uno plastico e tridimensionale. Questa vocazione plastica di Nicolas de Verdun si manifesta appieno nella cassa dei re Magi (Colonia, Tesoro della Cattedrale), a lui universalmente attribuita, contenente le reliquie dei re Magi che nel 1164 Rainaldo di Dassel aveva portato da Milano e che Ottone iv aveva fatto costruire, offrendo per essa tre corone e facendosi raffigurare, come «quarto re», nella scena dell’Adorazione dei Magi. Benché in parte rimaneggiata, la cassa rivela l’inconfondibile arte di Nicolas e rappresenta uno dei suoi raggiungimenti più alti nella serie di Profeti che, seduti su
227. Bamberga, duomo, Il re cavaliere, prima del 1237.
228. Magdeburgo, duomo, Le vergini folli, 1225 ca.
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troni gemmati, circondano i fianchi della cassa. Il gusto antichizzante e la potenza maestosa di questi barbuti profeti supera l’ambito dell’oreficeria per collocarsi piuttosto nella produzione scultorea vera e propria. La forza drammatica di Nicolas si esprime nell’impeto passionale che anima questi profeti e che li fa muovere nella nicchia del trono. Un’ultima opera, firmata e datata 1205, chiude la carriera di Nicolas de Verdun a noi nota, la cassa di Maria (Tournai, Cattedrale di Notre-Dame), purtroppo assai rimaneggiata e in parte rifatta. Sicuramente autografi sono i gruppi con Storie dell’Infanzia di Cristo che ornano i fianchi: scegliendo dunque la tridimensionalità, abbandonando la figura singola per il gruppo, Nicolas de Verdun dichiara ancora una volta la sua vocazione integralmente scultorea, nonostante le misure ridotte e la tecnica dell’oreficeria.
Capitolo nono
LA SCULTURA ITALIANA DEL DUECENTO E L’INTERPRETAZIONE DEL GOTICO IN ITALIA
Nota Bibliografica Sui caratteri generali della nascente arte gotica v., oltre al «classico» studio di H. Focillon, L’Art d’Occident, cit., G. Duby, Le temps des cathédrales. L’art et la société 980-1240, Paris 1976, e O. Von Simson, The Gothic Cathedral, Princeton 1988 (trad. it. La cattedrale gotica, Bologna 1988); in particolare sull’estetica architettonica v. il saggio di E. Panofsky, Gothic Architecture and Scholasticism, Latrobe 1951 (trad. it. Architettura gotica e filosofia scolastica, Napoli 1986). Per una trattazione generale sull’arte gotica v. soprattutto A. Erlande-Brandenburg, L’art gothique, Paris 1983, e W. Sauerländer, Le siècle des cathédrales, Paris 1989 (trad. it. Il secolo delle cattedrali, Milano 1990). Per l’architettura una sintesi molto puntuale è offerta dal volume di L. Grodecki (con la collaborazione di A. Prache e R. Recht), Architettura gotica, Milano 1976. Sulla figura dell’architetto e la tecnica architettonica v. la sintesi di P. du Colombier, Les chantiers des cathédrales, Paris 19922 e J. Gimpel, Les bâtisseurs de cathédrales, Paris 1980 (trad. it. Costruttori di cattedrali, Milano 1982), il catalogo della mostra Les bâtisseurs des cathédrales gothiques, Strasburgo 1989, e la recente edizione del «Taccuino» di Villard de Honnecourt, A. Erlande-Brandenburg, R. Pernoud, J. Gimpel, R. Bechmann, Carnet de Villard de Honnecourt, Paris 1986 (trad. it. Villard de Honnecourt, Disegni, Milano 1988). Sui programmi scultorei delle grandi cattedrali francesi v. soprattutto W. Sauerländer, La sculpture gothique en France, 1140-1270, Paris 1972, e M. Aubert, La sculpture française au moyen-âge, Paris 1946. Sulle vicende della basilica di St-Denis e in particolare sul suo Tesoro v. il catalogo della mostra Le Trésor de Saint-Denis, Paris 1991. Sull’abate Suger, ricostruttore di St-Denis, v. E. Panofsky, Abbot Suger on the Abbey Church of St-Denis and its Art Treasures, Princeton 1946 (trad. it. dell’introduzione Suger abate di Saint-Denis, in Il significato delle arti visive, Torino 1962, e Suger abate di Saint-Denis, Palermo 1992). Per la scultura gotica tedesca v. il volume di E. Steingräber, Deutsche Plastik der Frühzeit, Königstein in Taunus 1961; il capitolo dedicato alla Germania («Le Saint Empire romain germanique») da W. Sauerländer in Le siècle des cathédrales 1140-1260, cit. e gli atti del convegno di Magdeburgo (ottobre 1986), AA.VV., Der Magdeburger Dom. Ottonische Gründung und staufischer Heubau, Leipzig 1989. Sull’arte intorno al 1200 v. soprattutto i saggi contenuti nel catalogo della mostra The Year 1200, New York 1970, e gli atti del relativo convegno: The Year 1200-A Symposium, New York 1975. Per le arti decorative e in particolare per l’opera di Nicolas de Verdun v. E. Castelnuovo, Nicolas de Verdun, Milano 1966, e i citati cataloghi Rhein und Maas e Ornamenta ecclesiae.
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Benedetto Antelami e le premesse del gotico italiano È consuetudine dei manuali di storia dell’arte collocare alla metà del xiii secolo l’inizio di una vicenda italiana, aperta alle novità gotiche d’oltralpe, facendola coincidere con l’attività di Nicola Pisano. Senza negare al grande Nicola la posizione di capofila nelle ricchissime vicende scultoree del nostro Duecento, si deve ammettere che i primi importanti contatti con il gotico francese dell’Île-de-France sono già presenti nella scultura di Benedetto Antelami, a cavallo del Duecento, pur convivendo con un substrato romanico padano. Appare ormai sempre più chiaramente che «dall’Antelami discende e si diffonde una cultura artistica che insieme con la cultura artistica meridionale di Federico ii costituirà le fondamentali premesse al sorgere della nuova cultura gotica» (Gnudi). Non che si interrompa in Italia, naturalmente, la tradizione romanica nei primi decenni del Duecento, ma essa viene avviata in una direzione che già di fatto appartiene al versante della cultura gotica, della sua prima diffusione in Italia e al contempo della sua rielaborazione. E infatti nelle opere dell’Antelami si avverte già quel freno tutto italiano alla sensibilità del gotico d’oltralpe, che consiste in un’istintiva misura e in un equilibrio tra compattezza di forma e dinamica lineare. Se dunque, per citare ancora Gnudi, la strada che porta ad Arnolfo di Cambio, e quindi alla più compiuta espressione del gotico italiano, parte dall’Antelami, occorrerà subito anche sottolineare fortemente questa posizione preminente che la scultura riveste nell’Italia del Duecento e anzi il fatto, non sufficientemente ancora messo in risalto, che quasi tutti i protagonisti di questa vicenda sono attivi contemporaneamente nel campo della scultura e dell’architettura, operando quindi nella loro stessa persona quella fusione tra scultura e architettura che è uno dei temi maggiori del gotico italiano. Un certo accento nordico o «francese» presente già nelle prime opere di Benedetto Antelami ha orientato da tempo gli studiosi a ipotizzare almeno un primo viaggio dell’Antelami stesso in Provenza, se non addirittura a individuare la sua presenza nel chiostro di Saint-Trophime ad Arles. Questa ipotesi appariva anche sostenuta dal fatto che Benedetto Antelami nasceva come artista all’interno di quella corporazione di architetti e lapicidi itineranti, nota con il nome di «magistri antelami», provenienti dalla zona della Val d’Intelvi nel Comasco; e anzi che si poteva riconoscere nel Duomo di Genova la prima testimonianza a noi nota della sua attività di scultore in un leone stiloforo. Riflessi provenzali si sono voluti riconoscere anche nella sua prima opera firmata e datata 1178 giunta fino a noi, la Deposizione del Duomo di Parma, un’opera che rivela una personalità matura e di altissimo livello. L’insistenza con la quale, nell’iscrizione che corre lungo la cornice della lastra, l’autore dell’opera è detto due volte «scultore» può essere messa in relazione alla sua
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229. Parma, cattedrale, Benedetto Antelami, Deposizione, 1178.
232. Parma, cattedrale, Benedetto Antelami, cattedra episcopale.
233. Fidenza, cattedrale, Benedetto Antelami, Madonna col Bambino.
230. Parma, cattedrale, Benedetto Antelami, Deposizione, particolare.
231. Parma, Galleria Nazionale, Benedetto Antelami, capitello (proveniente dalla cattedrale).
234. Parma, Battistero, 1196-intorno al 1260-70, esterno.
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provenienza dalla corporazione di architetti di cui si è detto; resta comunque il fatto che la lastra di marmo, ora murata nel braccio destro del transetto ma di incerta provenienza, presenta un intreccio culturale raffinato, dagli echi insistiti della tradizione colta classicheggiante (le rosette, i racemi niellati, le personificazioni del Sole e della Luna) alla composizione rigorosamente scandita in un clima di sacra rappresentazione. A sinistra si allineano le pie donne e Nicodemo, a destra il gruppo dei soldati che si spartiscono la tunica di Cristo, cui si aggiungono altri personaggi distribuiti ritmicamente a destra e a sinistra, i due angeli, la Chiesa e la Sinagoga, il Sole e la Luna. Nei personaggi di sinistra, allineati verso la Croce, vi è una sottigliezza raffinata di panneggi e al tempo stesso una compostezza quasi architettonica della figura che ricorda, pur nella misura molto ridotta, le statue dello strombo del portale orientale di Chartres compiute da pochi lustri. È purtroppo impossibile ricostruire tutti gli interventi dell’Antelami all’interno della cattedrale di Parma, perché l’arredo liturgico fu manomesso nel xvi secolo; ma i tre capitelli che originariamente dovevano far parte del pontile, dal quale proviene probabilmente la stessa Deposizione, richiamano capitelli del portale reale di Chartres e confermerebbero quindi l’ipotesi di contatti precoci con l’Île-de-France. All’Antelami inoltre è universalmente attribuita anche la cattedra episcopale dello stesso Duomo di Parma, che offre il primo esempio di quella concezione strettamente unitaria di architettura e scultura tipica della sua opera: tutte le parti scolpite, le scene sui due fianchi con la Conversione di san Paolo e il San Giorgio che uccide il drago, i due telamoni, i due mastini, i due leoni assecondano lo schema quasi cubico della cattedra e sono saldamente contenute entro limiti architettonici. Conchiusa l’attività per la cattedrale di Parma, l’Antelami dovette prestare la sua opera come architetto e scultore della facciata del Duomo di Fidenza, allora importante tappa di pellegrinaggio sulla via che portava a Roma, che risulta già in costruzione nel 1179. Quale fosse il progetto originario della cattedrale di Fidenza, la durata e il numero degli interventi dell’Antelami sono ancora oggetto di studio e di diverse opinioni perché lo stato attuale della facciata è così alterato da rifacimenti da avere l’aspetto quasi di un cantiere abbandonato. Alcuni elementi della facciata, i portali, le colonne addossate, richiamano sia la facciata della chiesa di St. Gilles in Provenza sia, nelle previste torri laterali, lo schema delle facciate dell’Île-de-France. Ancora più difficile risulta l’ascrizione all’Antelami del complesso programma iconografico della facciata, centrato sul tema del pellegrinaggio, evidente nei rilievi delle due Famiglie di pellegrini che convergono verso la porta. Le due figure di Profeti in nicchia ai lati del portale e rivolti col capo verso di esso, di una mirabile fattura energica e affilata e di un gusto statuario di intensa classicità, tradizionalmente assegnate all’Antelami, sono state invece attribuite a uno scultore a lui vicino (Quintavalle). All’Antelami è invece universalmente data la Madonna con il Bambino, ora collocata all’interno della Cattedrale stessa; la forza massiccia del volto squadrato, la saldezza del suo impianto quasi architettonico sono in tutto antelamiche e richiamano infatti da vicino la Madonna al centro della prima lunetta eseguita dall’Antelami per il Battistero di Parma. II Battistero di Parma, come attesta l’iscrizione sull’architrave del portale settentrionale, fu iniziato nel 1196. L’Antelami vi attese sia come architetto sia come scultore almeno da tale anno fino al 1216, quando il Battistero risulta già funzionante, anche se non ancora consacrato. Per questa stretta fusione di scultura e di architettura, propria solo all’Antelami, il Battistero di Parma rappresenta una delle maggiori imprese del Duecento italiano e si colloca all’inizio del secolo come opera colta, che riecheggia le più recenti tendenze culturali europee. Di pianta ottagonale all’esterno e decaesagonale all’interno, il Battistero è coperto da una cupola a vele non visibile all’esterno, eseguita più tardi probabilmente tra il 1260 e il 1270, da maestranze campionesi. All’esterno, all’alto basamento con archi ciechi, colonne addossate e tre portali, segue una quadruplice serie di logge architravate, che danno a tutto l’edificio un’insistita orizzontalità e insieme un senso di slanciata leggerezza. Imponente appare il programma scultoreo del Battistero, che comprende la decorazione dei tre portali esterni e all’interno delle quattro lunette e la serie di Mesi e Stagioni; infine, ancora
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235. Fidenza, cattedrale, Il profeta Ezechiele e rilievi con la Famiglia del pellegrino povero.
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236. Parma, Battistero, portale della Vergine, lunetta, 1196.
238. Parma, Battistero, interno, lunetta con Presentazione al Tempio.
239. Parma, Battistero, Benedetto Antelami, Salomone e la regina di Saba. 237. Parma, Battistero, portale del Giudizio Universale, lunetta.
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all’esterno, altre tre coppie di statue e una fascia zodiacale. Già la distribuzione delle parti scolpite nei tre portali esterni rappresenta una novità rispetto alla tradizione romanica perché mette in evidenza, come nei portali francesi, lo stretto collegamento iconografico tra lunetta, architrave e archivolto, cui s’aggiungono anche gli stipiti scolpiti, come già nella tradizione romanica. La lunetta con la Vergine e il Bambino al centro e ai lati il Sogno di Giuseppe e l’Adorazione dei Magi reca nell’architrave le Storie del Battista, nell’archivolto dodici Profeti e negli stipiti del portale la Genealogia di Giacobbe e di Jesse. Domina in ogni parte una limpida distribuzione dei temi, con ritmi spaziali evidenti e pur non rigidi, con variazioni sapienti che evitano ripetizioni e schematismi. È questa sapienza compositiva che richiama le lunette del primo gotico francese. Nella lunetta del Cristo giudice, dove intorno alla figura del Cristo si dispongono ordinatamente gli angeli con i simboli della Passione, le somiglianze iconografiche con il portale centrale della facciata di Notre-Dame sono evidenti, ma la fermezza del modellato, le nitide
240. Milano, Broletto, Benedetto Antelami (?), statua equestre di Oldrado da Tresseno, inizio xiii sec.
241. Vercelli, Sant’Andrea, benedetto Antelami, Martirio di sant’Andrea.
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242. Parma, Battistero, interno, Mese di Giugno.
243. Vercelli, Sant’Andrea, 1219-1224, facciata.
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pause, lo sbalzo netto dal fondo contraddistinguono lo stile dell’Antelami e rivelano le radici romaniche del suo stile. Già nell’architrave la Chiamata degli eletti, che sorgono e camminano dai loro sepolcri, rappresenta una novità iconografica rispetto ai Giudizi precedenti; più ancora i due stipiti del portale, che contengono sapienti allusioni al Giudizio misericordioso di Cristo nella rappresentazione della Parabola della vigna e delle Opere di misericordia, sulle quali l’uomo sarà giudicato, secondo il testo evangelico di Matteo. In questi rilievi le rispondenze tra i gruppi, sei in ciascun stipite, i morbidi e pur stilizzati tralci della vite che includono le piccole scene della parabola basterebbero da soli a dare la misura della genialità antelamica; ma soprattutto è da sottolineare la straordinaria capacità di esprimere in sintesi il significato di un gesto o l’identità di un personaggio e dunque il nuovo interesse verso un’umanità più differenziata sentimentalmente e realisticamente. Questo processo di umanizzazione proprio del gotico si avverte anche nel tono narrativo delle lunette interne, tre delle quali – la Fuga in Egitto, la Presentazione al Tempio e Davide fra suonatori e danzatori – corrispondono alle lunette esterne e sono state scolpite sui medesimi blocchi di pietra, come hanno appurato le ricerche in occasione dei recenti restauri del Battistero. Per le restanti sculture del Battistero molti problemi di attribuzione e soprattutto della loro collocazione originaria sono ancora aperti. Come si è detto, l’Antelami dovette abbandonare la direzione del cantiere nel 1216, quando la costruzione era stata portata a circa 14 metri di altezza. Alcune delle statue ora all’esterno del Battistero dovettero ricevere quindi una loro collocazione successiva, ma non si può dubitare che il gruppo della Regina di Saba e Salomone, come pure i Profeti Davide e Isaia siano di mano dell’Antelami e siano, anzi, fra le espressioni più alte e mature del suo stile. Soprattutto la Regina di Saba e Salomone nella loro dignità di statue a tutto tondo sono da annoverarsi pienamente in quella definizione di «classicismo gotico» che è stata data allo stile del primo Duecento francese. I problemi maggiori di autografia e di collocazione riguardano invece la serie dei Mesi e delle Stagioni collocata all’interno del Battistero. Appoggiate su lastre, le figure dovevano essere destinate a essere immurate, in modo probabilmente simile a come sono collocati i Mesi sul protiro del Duomo di Cremona, opera di uno stretto collaboratore dell’Antelami. Assai diversa è l’opinione degli studiosi sull’autografia di questa serie dei Mesi del Battistero: tra chi, cioè, li assegna quasi totalmente a collaboratori, per un certo impaccio e rigidità semplificatrice, e chi invece tende a vedere in molti, o in quasi tutti, la diretta partecipazione dell’Antelami. Si potrà anche notare la stretta vicinanza tra il Mese di Maggio, raffigurato come un giovane a cavallo, e la bellissima statua equestre di Oldrado da Tresseno nel Palazzo della Ragione di Milano, assegnata a un collaboratore dell’Antelami: un’assegnazione che sembra tuttavia riduttiva rispetto al rigore stilistico di questo gruppo equestre, che rappresenta un’intelligente rievocazione in chiave comunale della tradizione imperiale della statua equestre. Un’ultima importante attribuzione all’Antelami riguarda la chiesa abbaziale di Sant’Andrea a Vercelli dei monaci della scuola di San Vittore di Parigi, iniziata nel 1219 e terminata nel 1224. La facciata di marmo verde, stretta fra due torri e aperta da tre portali, con un rosone centrale e percorsa da fasci di colonnine, rappresenta un’originale rielaborazione di schemi francesizzanti e di temi romanici (le loggette, la facciata a capanna) e anche all’interno si intrecciano strutture gotiche d’oltralpe e altre italiane. La lunetta del portale dove è raffigurato il Martirio di sant’Andrea rivela un’accentuazione gotica e tuttavia anche un minore rigore stilistico rispetto alle lunette parmensi. L’insieme dell’opera dell’Antelami rappresenta, come si è detto, «la chiave di volta che immette il romanico padano nel più ampio respiro della più moderna cultura gotica che congiunge Francia e Italia» (Gnudi). La diffusione di queste novità antelamiche nel corso della prima metà del Duecento è ancora in parte da ricostruire; ma già nel decennio immediatamente successivo, intorno al 1230, una notevole personalità appare tra Forlì e Ferrara, un geniale scultore che appunto continua la lezione antelamica, approfondendo
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244. Forlì, San Mercuriale, Maestro dei Mesi, Adorazione e sogno dei Magi, 1230 ca.
245. Ferrara, Museo del Duomo, Maestro dei Mesi, Mese di Febbraio, 1230 ca.
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l’indagine della realtà umana. Si tratta dell’ignoto maestro che scolpisce la lunetta con l’Adorazione dei Magi nel San Mercuriale di Forlì e che lega il suo nome provvisorio alla serie dei Mesi scolpiti per il Duomo di Ferrara e ora nel Museo del Duomo. Anche se i motivi iconografici sono spesso simili a quelli antelamici, l’ignoto maestro si rivela un appassionato indagatore delle più minute realtà dell’uomo e della natura: le venature delle foglie di vite, i travicelli sul focolare, i salami che pendono dal soffitto e i chiodi degli zoccoli nel Febbraio. L’antica tradizione romanica del lavoro agricolo dell’uomo si apre qui a un vero e proprio piccolo poema bucolico di realtà umili, ma rese con una raffinatezza di esecuzione sensibile alla luce e dunque di un maestro e non già di un semplice seguace dell’Antelami. Lo stesso maestro ha probabilmente eseguito a Venezia una Adorazione dei Magi (Seminario Patriarcale) poiché il san Giuseppe appare in tutto simile a quello del San Mercuriale di Forlì. Non lontano dallo stesso maestro è anche il gruppo con il Sogno di Giuseppe del Museo Marciano. Lo stesso portale centrale di San Marco, scolpito in tre fasce di arconi sia nell’intradosso sia nell’estradosso, presenta la più straordinaria varietà di indirizzi culturali, tra i più avanzati di tutto il panorama italiano, e anche una ricchezza senza uguali di temi iconografici. L’insieme di queste sculture raffigurano infatti quella «cultura delle cattedrali» che il Demus ha felicemente definito «speculum mundi»: nel primo arcone una serie di soggetti profani in girari vegetali; nel secondo i Mesi, le figure di Virtù teologali e cardinali, infine nel terzo arcone la celebre sequenza di Tredici lavori delle arti delle corporazioni veneziane, e nell’estradosso otto figure di Profeti. Questo ricchissimo complesso figurativo offre una sorta di spaccato della cultura artistica veneziana in un giro d’anni che si può racchiudere tra il 1230 e il 1270 e che intreccia le più recenti esperienze plastiche padane postantelamiche con la cultura locale veneziana, tendenzialmente orientale, e infine le più recenti esperienze francesi. Nessuna personalità definita può essere riconosciuta nel gruppo di artisti che hanno cooperato all’esecuzione di un’opera così complessa, salvo probabilmente, nell’estradosso del primo arcone, quel «Radaunus» che poi lavorerà nel Duomo di Traù. Giustamente famosa e ammirata nell’intradosso del terzo arcone la serie dei Mestieri realmente presenti, come attestano i documenti, nella Venezia quotidiana del tempo: pescivendoli, barbieri, bottai, fabbri, lattai svolgono il loro lavoro con una vivacità di dettagli che supera ogni altro esempio, ma anche con una ricchezza plastica, una profondità di intaglio e una disposizione di figure che è stata paragonata a quella del pulpito del Battistero pisano, all’incirca contemporaneo. Ma accanto a queste straordinarie immagini dei Mestieri si dovranno valutare attentamente anche le figure di Virtù nell’estradosso del secondo arcone dove richiami classici (la Fortezza) si mescolano a inflessioni che ricordano le sculture del transetto nord di Chartres. Come si è detto, non si può ritenere ancora completata la ricca mappa della scultura padana del Duecento; a Ferrara, per esempio, nella parte superiore della facciata un ignoto maestro, forse già oltrepassata la metà del Duecento, scolpisce una grandiosa scena di Giudizio universale in modi iconografici di chiaro gusto francesizzante.
246-7. Venezia, San Marco, portale maggiore, metà del xiii sec. ca., particolari del primo e del secondo arco.
248-9. Venezia, San Marco, portale maggiore, particolari del secondo e del terzo arco.
L’arte federiciana Nel 1220 Federico ii di Hohenstaufen, nipote di Federico i Barbarossa e figlio di Costanza d’Altavilla, unica erede della dinastia normanna, veniva incoronato a Roma re di Sicilia. Egli veniva così a riunire nella sua persona la corona reale tedesca e la dignità imperiale; il suo lungo e splendido regno, durato quasi un trentennio (morirà infatti nel 1250), ebbe come teatro artistico le terre predilette di Puglia e di Sicilia. Nell’intensa politica artistica che caratterizza il suo regno, Federico non prese a modello la ricercatezza islamica, accolta dai re normanni suoi predecessori e piegata nei programmi iconografici sontuosi a esaltare
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250. Venezia, San Marco, Museo Marciano, Sogno di Giuseppe, 1230 ca.
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la potenza monarchica; la sua ambizione fu piuttosto quella di risuscitare l’immagine imperiale attraverso un recupero delle radici culturali tardoantiche dell’arte occidentale e quindi dell’antica mediazione tra Oriente e Occidente. Altrettanto importante appare la posizione di Federico ii nel campo architettonico per l’intensa attività costruttiva che realizza un’altra mediazione, in questo caso tra Nord e Sud. Un censimento del tempo sul territorio del suo regno elencava ben 225 castelli e palazzi reali; anche calcolando che non tutte fossero costruzioni «ex novo», è evidente l’imponente programma costruttivo, tanto più importante perché manifesta l’apertura a strutture e planimetrie strettamente legate all’impiego di maestranze cistercensi. Fra i castelli fatti erigere da Federico un posto di particolare rilievo spetta a Castel del Monte presso Andria. La perfetta simmetria della sua pianta ottagona, coronata da torri angolari poligonali, l’impiego di coperture a volta a crociera, di archi a sesto acuto e, negli ambienti del piano superiore, di fasci di colonne che raccolgono le spinte delle volte sono certamente il frutto di costruttori provenienti dal nord. Questa matrice cistercense si fa evidente nella distribuzione delle parti scolpite, peducci, capitelli, chiavi di volte, telamoni; ma nella loro esecuzione sono riconoscibili suggestioni «reimsiane» per la vitalità plastica che le anima. Le maggiori costruzioni federiciane sviluppano il
252. Capua, Museo Provinciale Campano, statua acefala di imperatore (dalla porta di Capua), 1234-1239.
253. Barletta, Museo Civico, busto di imperatore.
254. Capua, Museo Provinciale Campano, statua di giudice (dalla porta di Capua), 1234-1239.
251. Castel del Monte (Andria), iniziato nel 1240.
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tema del mastio, ovvero della residenza fortificata, adatta a contenere guarnigioni ma anche residenza signorile, di pianta generalmente quadrata con torri angolari e uno sviluppo del cortile interno simile ai chiostri. Opera di grande valore rappresentativo e addirittura simbolico era quella porta di Capua che si elevava all’ingresso della città, rivolta verso il fiume Volturno, che segnava il confine tra il Regno di Sicilia e lo Stato della Chiesa. Da alcuni disegni del Quattro e del Cinquecento e dai frammenti scultorei che ci rimangono emerge l’immagine di una potente rielaborazione del tema antico della porta di città, munita di torrioni semicircolari, dotata di una serie di aperture e ornata da numerose statue, probabilmente collegate iconograficamente. Dai frammenti che ci restano infatti traspare l’evidente intento di esaltare l’idea della giustizia civile: la statua dell’Imperatore acefala che sedeva al centro, la testa della Giustizia (la cosiddetta Capua Fidelis), due busti di Giudici e la testa cosiddetta dello Zeus, chiave di un arco. Le profonde differenze stilistiche che si avvertono nei vari frammenti testimoniano la presenza di maestri di estrazione culturale diversa e confermano la ricchezza delle istanze culturali federiciane, da quella «eroica», imperiale e classica, a quella goticamente sensibile e umanizzata, come nella bella testa della Capua fidelis. L’appassionato collezionismo di oggetti coltivato da Federico ii, rivolto soprattutto alle gemme, ai cammei, ai sigilli e alle monete, ha invece un predominante gusto antichizzante o addirittura archeologico, che si spinge fino alla creazione di oggetti di gusto antiquario al limite della contraffazione, con una raffinatezza imitativa che supera quella del Rinascimento o del Neoclassicismo. Questo aspetto «archeologico» della politica artistica di Federico ii non è tuttavia, come si tendeva un tempo a ritenere, il suo aspetto maggiore, anche se il più vistoso. Egli resta l’interprete colto di una pluralità di tendenze che si facevano strada a quel tempo, e quindi affatto «moderne», rivolte a una realtà che urgeva. Si pensi al ruolo avuto da Federico nella rinascita del ritratto, attraverso l’utilizzazione della propria immagine, anzitutto nelle monete,
255. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters Collection, capitello proveniente dalla cattedrale di Troia.
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256. Capua, Museo Provinciale Campano, testa cosiddetta della Capua fidelis (dalla porta di Capua), 1234-1239.
ma anche in scultura: il busto conservato al Museo di Barletta, frammento di una statua equestre, è forse un suo «criptoritratto», che trova corrispondenza nella statua equestre di Bamberga. Tutt’affatto nuovo appare anche l’interesse di Federico ii per la scienza: i numerosi codici scientifici, di zoologia, medicina, farmacopea, di provenienza federiciana rivelano il desiderio di un nuovo approccio alla realtà attraverso la scienza; Federico stesso redige il noto codice De arte venandi, un trattato sulla caccia nel quale ciò che interessa veramente è l’attenzione al dato naturale. È significativo il proposito espresso da Federico di rappresentare ciò che esiste come è («ea quae sunt sicut sunt»). Tanta ricchezza culturale e spinta propulsiva in tutti i campi culturali si concluderà sostanzialmente con la morte di Federico stesso. Il ruolo del figlio Manfredi fu soprattutto quello di contribuire a diffondere le grandi novità di questa politica, nell’atto stesso in cui ne disperdeva il patrimonio. Ma gli esiti più importanti dell’arte federiciana andranno piuttosto cercati in quel processo di goticizzazione della scultura italiana che ha numerose testimonianze nelle mensole di Castel del Monte e negli stupendi capitelli provenienti da Troia, ora al Metropolitan Museum, di sapore intensamente «reimsiano».
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Nicola e Giovanni Pisano È ormai certo che su quegli esempi federiciani «Nicola de Apulia» dovette formarsi nella sua giovanile permanenza in quella terra. L’attribuzione (Bagnoli) delle mensole della cupola del Duomo di Siena come opere giovanili di Nicola, per la loro vicinanza ai capitelli di Castel Del Monte, colloca l’arrivo di Nicola in Toscana a una data più precoce di quanto non si pensasse, prima cioè della morte di Federico ii, forse addirittura nel 1245. Del resto il pulpito del Battistero di Pisa, la prima opera firmata e datata nel 1260 da Nicola «Pisano», presuppone già il recupero da parte di Nicola delle radici nauralistiche e umanistiche del gotico attraverso la sua cultura federiciana, rinnovata a contatto con i marmi pisani classici. È stato detto, anzi, che questo pulpito presuppone l’intero percorso dei primi cento anni di scultura gotica francese (Gnudi). Il pulpito del Battistero di Pisa si presenta come opera nuova e diversa già nella stessa struttura architettonica esagonale, con le specchiature divise da colonnine, appoggiate ad archi trilobi. La decorazione plastica del pulpito appare così saldamente inscritta entro spazi architettonici, mentre l’impiego di marmi diversi introduce anche stacchi cromatici. Le scene delle cinque specchiature – Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione al tempio, Crocefissione e Giudizio – raffigurano le tappe fondamentali della storia della salvezza. In questi rilievi Nicola si presenta, come si diceva, nella sua posizione storica di vero e proprio fondatore di una nuova civiltà artistica in Italia, di un nuovo corso gotico in versione originalmente italiana. Già il Vasari segnalava i «modelli» antichi di alcune figure del pulpito, e cioè la diretta ispirazione dei sarcofagi classici presenti nel Camposanto pisano; ma al di là delle quasi citazioni classiche isolate, è evidente un diretto richiamo alla tradizione tardoantica, e in particolare dei sarcofagi, nella composizione delle figure allineate al fondo e che occupano tutta l’altezza della scena; l’afflato eroico e la concezione monumentale delle figure richiamano l’arte federiciana e così pure la viva rappresentazione di animali, ben diversa da quella romanica, presente nei leoni stilofori. In un’Europa assai più unita culturalmente di quanto non si possa pensare è più che probabile che Nicola avesse anche presente quel filone di scultura che va dall’ultimo Nicolas de Verdun al «classicismo gotico» francese. Certi panneggi affilati e triangolati, certi sviluppi plastici potentemente chiaroscurati e, in genere, una trattazione sapientissima della superficie marmorea sarebbero impensabili senza l’esperienza a monte di un intero secolo di gotico francese, che era andato via via sciogliendo in una più fluida e mobile espressione la sua ricerca plastica.
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257. Nicola Pisano, pulpito del Battistero di Pisa, 1260.
258. Nicola Pisano, pulpito del Duomo di Siena, 1265-1268, Madonna col Bambino.
259. Nicola Pisano, pulpito del Battistero di Pisa, 1260, Adorazione dei Magi.
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260. Nicola Pisano, pulpito del Duomo di Siena, 1265-1268, Le Arti Liberali.
261. Nicola Pisano e collaboratori, Fontana di piazza di Perugia, 1275-1278.
262. Nicola Pisano, pulpito del Duomo di Siena, 1265-1268, Crocifissione.
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All’interno di questo straordinario sforzo – la creazione di un nuovo linguaggio formale che avesse la dignità di lingua colta, dopo l’esaltazione dei singoli dialetti regionali del secolo precedente – va letto lo sviluppo successivo dello stile di Nicola, cioè il pulpito del Duomo di Siena e forse la lunetta a bassorilievo con una Deposizione, in un portale del Duomo di Lucca. Quanto al bassorilievo di Lucca, che secondo il Bottari è da collocare in un intervallo dei lavori per il pulpito di Pisa, prima delle ultime due specchiature, la composizione sapientissima e serrata allaccia le figure in un ampio fraseggio continuo entro la lunetta dalle cornici fortemente aggettate, come una nicchia. Per quanto riguarda il pulpito di Siena, esso è sempre stato visto alla luce di un incremento gotico dello stile di Nicola. Questo incremento è certamente evidente ma non è da intendersi come un supposto passaggio di Nicola da un linguaggio classico a un linguaggio gotico; e ancora meno si deve dedurre che questo passaggio sia stato provocato dalla presenza accanto a Nicola del giovane figlio Giovanni. Giovanni era allora assai giovane e dai documenti risulta come ultimo dei collaboratori del pulpito, dopo Arnolfo di Cambio, Lapo e un certo Donato. La presenza di questi collaboratori esalta il ruolo di maestro e di guida esercitato certamente da Nicola: non è senza significato che la parte dell’uno e dell’altro di questi collaboratori sia difficilmente individuabile e comunque senza vera certezza. È però innegabile che nel pulpito di Siena si verifichi un incremento in senso gotico e che questo appaia tanto più sensibile in quanto pochi anni separano il pulpito di Pisa da quello di Siena: commissionato nel 1265, esso risulta infatti già terminato nel 1268. È inoltre interessante che nei documenti relativi Nicola sia detto «de Apulia» e non più «pisano», quasi a pubblico riconoscimento delle sue origini culturali. Il pulpito ha forma ottagonale e quindi presenta un incremento di superfici scolpite, accentuato dalla scomparsa delle colonnine divisorie, sostituite da figure angolari. Ai piedi delle colonne figure diverse di animali stilofori suonano ancora un omaggio all’animalistica, cara a Nicola, di ricordo federiciano. Le maggiori novità compaiono, comunque, all’interno delle specchiature, dove Nicola abbandona la maestosa composizione di timbro classico a un solo «ordine» di figure. I personaggi si muovono su vari registri formando, con grande sapienza compositiva, diverse scene; netta appare l’intensificazione dinamica e lineare, la vivacità del gesto, l’identificazione dei singoli personaggi. Questa individualità del personaggio appare esaltata nelle bellissime statue angolari, che sono da annoverarsi fra i più alti esemplari di quello stile che si suole chiamare «gotico classico». A questo «aggiornamento» di Nicola in senso gotico può avere contribuito il fatto che fra’ Melano, responsabile dell’Opera del Duomo, fosse un cistercense di San Galgano; ma è indubbio che la grandezza di Nicola nel pulpito di Siena sta nell’aver trovato i modi di questo aggiornamento, piegando il suo stile a una sapiente duttilità e coordinando il gruppo dei suoi collaboratori con un rapporto di lavoro che appare nuovo e diverso rispetto alla bottega o al cantiere romanici. Anche le altre opere note di Nicola – l’arca di san Domenico a Bologna e la fontana di piazza di Perugia – sono eseguite in collaborazione: ma l’arca di san Domenico, ricomposta e completata con gli interventi di Niccolò dell’Arca e poi del giovane Michelangelo, appare opera assai problematica e di gusto in parte diverso per l’intervento dominante del più anziano fra’ Gugliemo accanto a Lapo e Arnolfo. La fontana di piazza di Perugia, portata a termine nel 1278, appare come un’amplificazione del tipo medioevale di vasca con alto stelo mediano: la formano due vasche concentriche, quella inferiore a venticinque facce gemine, divise da statue angolari, quella superiore a dodici facce. La varietà di immagini che esse contengono esigerebbe uno studio iconografico approfondito, tale è la ricchezza e la commistione di immagini allegoriche e simboliche, religiose e profane, come in un’enciclopedia laica e popolare, dove non mancano riferimenti a realtà locali del passato e del presente. Con la fontana di piazza di Perugia sembra compiersi il passaggio di direzione dal padre al figlio la cui presenza appare qui, se non dominante, almeno cospicua. Ancora più sensibile questo passaggio di direzio-
263. Giovanni Pisano, Madonna col Bambino, Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.
264. Giovanni Pisano, Maria di Mosè (dalla facciata del Duomo), Siena, Museo dell’Opera del Duomo.
265. Giovanni Pisano, Duomo di Siena, parte inferiore della facciata, 1284-1295.
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ne è nel rimaneggiamento e nella ripresa conclusiva del Battistero di Pisa, avvenuta nel 1278, come risulterebbe da un’epigrafe all’interno del Battistero. All’esterno il coronamento di archetti e cuspidi con busti di profeti e altre statuette recano il segno sicuro della presenza dominante, se non esclusiva, di Giovanni Pisano, riconoscibile ormai per l’intensità del gesto e del sentimento dei suoi personaggi, resi con un’esecuzione impetuosa e quasi insofferente di indugi. La presenza del padre Nicola accanto a Giovanni cessa tuttavia solo con la sua morte, avvenuta prima del 1284. La sola opera certa compiuta da Giovanni prima della morte del padre è la Madonna con il Bambino che ornava una porta del Duomo di Pisa (Pisa, Museo del Duomo), che inaugura la serie delle madonne di Giovanni, imperniate sul tema prediletto del colloquio di sguardi tra madre e figlio: la Vergine porta sopra il velo del capo la corona come «Regina coeli», al pari delle madonne francesi, e presenta già quel trattamento sommario dei panneggi e la forza artigliata delle mani, che denunciano la tensione emotiva di Giovanni. Giovanni, vissuto così all’ombra del padre per quasi vent’anni, si trasferisce dopo la morte di questi a Siena, dove per oltre un decennio, dal 1284 al 1295, presta la sua opera come scultore e come architetto nella facciata del Duomo di Siena. Egli la porterà avanti per tutta la parte inferiore, allorché interromperà bruscamente la collaborazione per contrasti con i committenti. È nel giro di questi anni e fino al pulpito di Sant’Andrea a Pistoia che Giovanni Pisano darà il meglio di sé, presentandosi come il più personale e geniale degli scultori europei del suo tempo. E con sensibilità di scultore egli opera anche nella facciata del Duomo di Siena: ne viene esaltato quel ruolo di arte-guida che la scultura italiana manterrà per tutto il Duecento e che, nel caso particolare di Siena, altera profondamente il tradizionale rapporto di subordinazione della scultura all’architettura. Lo schema della facciata a tre profondi portali coronati da cuspidi – con richiami quindi agli schemi francesi – appare infatti dominata da una vibrante modellazione già di per sé scultorea, senza l’intervento della scultura, che invece viene originalmente sottratta ai suoi luoghi deputati: né le lunette, né gli archivolti, né gli architravi recano infatti sculture. Esse invece sono collocate in posizione anomala, sopra ai portali in forma non di rilievi ma di una serie di statue a tutto tondo che si dispongono sulla facciata e lungo l’inizio dei fianchi, mentre all’attacco delle lunette sopra i portali sono raffigurati sei animali (due cavalli, due leoni, un bue e un grifone). Gli spostamenti subiti nel corso dei secoli in seguito a restauri rendono difficile ricomporre l’originaria collocazione e il loro programma iconografico, legato al culto della Vergine e ai profeti connessi, cui s’aggiungono i filosofi pagani Platone e Aristotele. Il confronto fra le diverse statue mette in evidenza lo sviluppo stilistico che esiste fra le prime e le ultime, pervase queste da un più intenso fuoco profetico che le fa divergere dal proprio asse, impetuosamente rivolte verso un invisibile interlocutore. Nel 1301 Giovanni pone mano a quella che è considerata la sua opera maggiore, il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, e certamente fra le maggiori del secolo in questi anni pure densi di capolavori di scultura e di pittura. Che lo stesso Giovanni fosse consapevole della grandezza della sua impresa lo si deduce dalla orgogliosa iscrizione che orna il pulpito, dove si dichiara migliore del padre («Figlio di Nicola, beato per la sua abilità superiore […]»). Dal padre Nicola egli riprende la struttura del pulpito senese e le sue stesse iconografie; ma quell’esperienza del gotico che Giovanni aveva fatto da giovane col padre, trentacinque anni prima, viene nel pulpito di Pistoia portata avanti, fino a superare quel limite di classicità ancora così forte a Siena: l’equilibrio tra gotico e classico si spezza in una crisi che sarà anche la sua grandezza e la sua originalità. Se a Siena la narrazione si leggeva in uno svolgimento chiaro e coerente, qui essa procede per nuclei drammatici e dinamici e tuttavia in una sequenza ininterrotta, quasi in una visione simultanea, perché da una parte all’altra della specchiatura la dinamica delle figure è la stessa. Questo superamento dell’eleganza formale, ancora così viva nel pulpito di Siena, è rivolta a un’intensificazione di sensi drammatici che approda quasi a una ricerca dell’«antigrazioso» e segna il punto stilistico di Giovanni più lontano dal gusto italiano e più vicino, se mai, 266. Giovanni Pisano, Pistoia, Sant’Andrea, pulpito, 1301.
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267. Giovanni Pisano, Pistoia, Sant’Andrea, pulpito, Adorazione dei Magi, 1301.
268. Giovanni Pisano, Pistoia, Sant’Andrea, pulpito, Strage degli innocenti, 1301.
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269. Giovanni Pisano, Margherita di Brabante, frammento del monumento funebre, 1312-1313, Genova, Museo di Sant’Agostino.
271. Arnolfo di Cambio, monumento funebre al Cardinal De Braye, Orvieto, San Domenico, dopo il 1282, particolare.
270. Arnolfo di Cambio, Scriba (dalla Fontana di piazza), Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 1275-1278.
272. Arnolfo di Cambio, Pietro, statua bronzea, Roma, San Pietro, prima del 1296.
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a certa scultura gotica tedesca, che Giovanni forse conosceva. Tuttavia proprio nel pulpito successivo, quello del Duomo di Pisa, l’esasperazione di questi principi finirà per compromettere la coerenza stilistica; l’esecuzione sommaria tende a slittare in un non-finito, a slegare la composizione in un troppo audace e sussultante avvicendarsi di vuoti e di pieni. Le ultime commissioni di Giovanni, tra il 1312 e il 1313, sono due commissioni imperiali. L’una è la Vergine in trono fiancheggiata un tempo dalla personificazione della città di Pisa (ora al Museo dell’Opera) e dall’imperatore Arrigo vii di Lussemburgo, figura ora perduta. La seconda commissione è quella della Tomba di Margherita di Brabante, moglie di Arrigo vii, scolpita per la chiesa di San Francesco di Castelletto a Genova (Genova, Museo di Sant’Agostino), di cui ci sono giunti solo alcuni frammenti. Il maggiore raffigura la defunta sorretta da due angeli: è il tema della «elevatio animae», in tutto simile a quello della «Dormitio Virginis», dal quale deriva. Alla base del sarcofago erano probabilmente quattro Virtù, di cui una sola – la Giustizia – a noi pervenuta.
273. Arnolfo di Cambio, Assetato (dalla Fontana di piazza), Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 1275-1278.
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Se Giovanni Pisano si colloca sulla linea più estrema del gotico italiano, nel senso di una sensibilità accesa e quasi esasperata, la figura di Arnolfo grandeggia come il creatore di un linguaggio gotico vorremmo dire più specificamente italiano, che è stato paragonato a una sorta di «dolce stil nuovo» (Romanini). Quasi tutti i documenti parlano di lui come «Arnolfo architetto» sebbene egli si dedichi all’architettura solo nell’ultimo periodo della sua attività artistica. In realtà tutte le opere di scultura di Arnolfo sono state concepite per essere inserite in una cornice architettonica che appare ad esse costitutiva. Purtroppo nella maggior parte dei casi tale dominante cornice architettonica è andata perduta, cosicché non ci è dato di poter giudicare l’opera nella sua completezza. Arnolfo appare sulla scena artistica, come si sa, accanto a Nicola nel pulpito del Duomo di Siena, e dunque tra il 1263 e il 1268; egli è anzi il primo ad essere nominato nel contratto ed era probabilmente di qualche anno maggiore di Giovanni. Nel 1277 il comune di Perugia, avendo sentito celebrare quel «subtilissimum magistrum de Florentia» (Arnolfo era nato a Colle Val d’Elsa), gli affida l’esecuzione della fontana «in pede plateae», cioè nella parte inferiore della piazza di Perugia; per la sua esecuzione fu necessario richiedere l’autorizzazione di Carlo d’Angiò, al servizio del quale dunque Arnolfo già si trovava. Questa notizia è di grande importanza per metter a fuoco la personalità di Arnolfo e per capire le sue aperture verso il gotico «rayonnant» francese, che trionfava a Parigi negli anni 1270-80. Carlo d’Angiò, re delle Due Sicilie, prosegue, infatti, per certi aspetti le aperture culturali di Federico ii, per il rinnovato contatto con i cantieri cistercensi italiani e francesi e soprattutto per i diretti rapporti con la corte di Luigi ix, suo fratello, e quindi con il gotico «rayonnant». Ma a differenza di Federico ii, Carlo d’Angiò era anche legato a Roma, essendo stato eletto senatore dal partito guelfo, carica che egli tenne quasi senza interruzioni tra il 1268 e il 1284. E Roma fu per Arnolfo il luogo praticamente ininterrotto della sua attività per circa un quarto di secolo e di molteplici committenze papali e della curia. La prima opera dunque interamente di sua mano giunta fino a noi è la frammentaria fontana di piazza di Perugia: manomessa già nel Trecento se ne conservano solo tre figure adagiate di «Assetati» e due «Scribi» seduti, così chiamati convenzionalmente anche se è stato supposto (Romanini) che i primi siano personaggi di racconti evangelici connessi con l’acqua (il giovane sarebbe il paralitico della piscina probatica, la donna con la brocca sarebbe la samaritana e gli scribi raffigurerebbero due dei quattro evangelisti). Le figure sedute su piattaforme geometriche a spigolo e le figure sdraiate o inginocchiate contro un parapetto fanno supporre
274. Arnolfo di Cambio, Cerimonia liturgica, fregio, Roma, chiostro di San Giovanni in Laterano.
275. Arnolfo di Cambio, Vergine della Natività, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
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che la vasca della fontana fosse poligonale. Sin da questa prima opera appare evidente il proposito di Arnolfo di sottolineare il rapporto tra figura e architettura, mentre le figure stesse richiamano la statuaria classica e forse più ancora, nei larghi e lenti piani plastici, quella adagiate sui sarcofagi etruschi. Data cardine per questo primo tratto dell’attività di Arnolfo è quella del monumento sepolcrale eretto per il cardinale De Braye nella chiesa di San Domenico a Orvieto, databile subito dopo il 1282. Un rimaneggiamento secentesco e la perdita di una parte cospicua dell’architettura non permettono di ricostruire con sicurezza la forma originaria del monumento. Certamente il letto a cortinaggi dove giace il defunto poggiava su un doppio basamento architettonico di stile cosmatesco, mentre la parte superiore, dove il defunto risorto viene presentato alla Vergine in trono da san Domenico, era probabilmente coronata da cuspidi gotiche. Ancora più frammentato e quindi incerto nel suo aspetto originario è il monumento Annibaldi (Roma, chiostro di San Giovanni in Laterano). Incerta, per esempio, è la collocazione del bel fregio con figure di officianti in processione su uno sfondo cosmatesco; come già nella figura del cardinale De Braye, e come già negli Assetati, Arnolfo costruisce i suoi personaggi con robusta concretezza, sottolineata da panneggi profondi e affilati, ma senza indugiare nei particolari, anzi quasi sgrossando la forma là dove essa non rientrava in una veduta rigorosamente frontale. L’adesione di Arnolfo al gotico «rayonnant» parigino è dominante nei due cibori eseguiti a Roma, il primo per la chiesa di San Paolo fuori le Mura, collocabile verso il 1283-4, e il secondo per la chiesa di Santa Cecilia, quest’ultimo datato e firmato 1293. Il tema del ciborio di San Paolo, desunto da quello della Sainte Chapelle di Parigi, è sostanzialmente quello di una struttura cuspidata traforata da un rosoncino e ornata da «gattoni», chiamata ghimberga o gable, poggiante su un arco trilobo e su colonnine; ogni faccia del ciborio viene ripetuta esattamente sui quattro lati, con una geometria secca e cristallina. Entro questa struttura trovano posto con ritmo altrettanto rigoroso quattro statue angolari, quattro coppie di angeli e quattro coppie di profeti nei peducci degli archi. Tanta nitida geometria si avvale anche della ricca decorazione cosmatesca, omaggio alla tradizione romana di arredi liturgici. Sottesa all’ispirazione gotica è tuttavia sempre presente in Arnolfo anche la tradizione classica. La si avverte, per esempio, nel tema degli Angeli in volo come Vittorie alate nelle cuspidi; la si avverte ancora più forte nelle più riposate proporzioni – come se fosse superato il momento più «rayonnant» – del ciborio di Santa Cecilia e, sempre in Santa Cecilia, nella figura angolare di San Tiburzio a cavallo. Il monumento arnolfiano che ha subito una più grave demolizione è il sacello di Bonifacio viii: lo stesso papa lo aveva fatto preparare «sibi vivens», quando era ancora in vita, prima del 1296, facendolo decorare con un suo ritratto, ed era addossato alla controfacciata della basilica vaticana sul lato settentrionale. Un documento del tempo precisa che esso era costruito «cuspidatum germanici operis e marmore», ossia era goticamente a cuspidi. Il disegno conservato nella Biblioteca Vaticana, tratto dall’album di Giacomo Grimaldi, mostra la forte successione di archetti e colonnine tortili, sormontati da cuspidi e fiancheggiati da guglie, e al centro una cupola estradossata, interessante anticipo di quella cupola che con tutta probabilità Arnolfo dovette in seguito progettare per Santa Maria del Fiore. L’intensa attività romana di quegli anni comprende ancora il Presepio di Santa Maria Maggiore e la ben nota statua in bronzo di San Pietro, nella basilica Vaticana, che nonostante pareri discordi, appare sicuramente di mano arnolfiana. Arnolfo lasciò Roma nel 1296 per attendere a Firenze a un’opera della massima importanza, di committenza laica e profana, cioè del comune di Firenze: la costruzione di una nuova basilica dedicata alla Vergine in sostituzione dell’antica basilica di Santa Reparata. Un documento del primo aprile 1300 del Consiglio dei Cento di Firenze esonerava Arnolfo di Cambio dalle tasse come segno di gratitudine e di onore per quella costruzione che andava sorgendo «magnifico et visibili principio». Il progetto arnolfiano dovette interrompersi per la morte di Arnolfo, avvenuta di lì a pochi anni, e venne poi ingrandito da Francesco Talenti tra
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il 1331 e il 1360; fu però rispettata la geniale impostazione spaziale e prospettica di Arnolfo, che inseriva la planimetria longitudinale delle tre navi in un coro a tre corpi poligonali uguali, di fatto una pianta centrale, sormontata da cupola. Recenti scavi archeologici hanno messo in luce massicce costruzioni in corrispondenza del termine della primitiva navata, che quindi dovevano essere destinate alla copertura a cupola. Il Manetti ricorda ancora esistente ai tempi del Brunelleschi un «modello piccolo» della cupola, dal quale il Brunelleschi affermava che non ci si doveva scostare. Vi è inoltre il precedente della cupola estradossata del sacello di Bonifacio viii, per cui è lecito pensare che la cupola poi innalzata dal Brunelleschi si ispirasse direttamente al modello arnolfiano. Quanto alla facciata, una pessima sorte si accanì a cancellare e distruggere quell’alto basamento portato avanti da Arnolfo fino alla sua morte e che sussisteva ancora nel Cinquecento, come risulta da un disegno del 1587. Il disegno è una preziosa testimonianza di come Arnolfo avesse concepito la facciata ornata da una ricca decorazione di statue collocate entro nicchie e nelle lunette. Ciò che ci resta delle tre lunette – la Vergine in trono, la Vergine della Natività e la Dormitio Virginis, con evidente riferimento alla dedicazione della cattedrale alla Vergine – è ora al Museo dell’Opera del Duomo (la Dormitio purtroppo in calco perché l’originale, già nel Museo di Berlino, è perduto), ancora una volta avulso dalla sua collocazione originaria e da quel profondo legame con l’architettura previsto da Arnolfo. Queste tre lunette rappresentano uno dei più alti raggiungimenti di Arnolfo e di tutta la scultura gotica italiana: una pienezza e purezza di forme che si direbbe nuova sembra talora anticipare persino certe opere di scultura del primo Quattrocento, tale è la sensibilità classica che le anima, pur nel persistere di affilati panneggi gotici. La testa dell’accolito ai piedi della Vergine nella Dormitio, o il volto della santa Reparata, immagine di giovane fiorente fanciulla, sono fra i documenti più alti dell’intima classicità del gotico italiano. Non si conosce la data della morte di Arnolfo, avvenuta, secondo una notizia indiretta e quanto mai vaga, tra il 1302 e il 1310, e nulla si sa di preciso della sua attività architettonica fiorentina. Un documento riporta che il comune di Firenze volle che il celebre Palazzo Vecchio fosse eretto dallo stesso «subtilissimus et ingeniosus magister», Arnolfo di Cambio; ma gli sono assegnate anche la chiesa di Badia e soprattutto la basilica francescana di Santa Croce. Molte e importanti sono le tracce dello stile arnolfiano in quest’ultima. L’interno a pianta «mendicante», arditamente nudo e povero nelle secche linee geometriche dei pilastri poligonali e del «ballatoio» rettilineo, potrebbe confermare l’antica formazione cistercense di Arnolfo, mentre all’esterno l’abside poligonale e le altre cappelle sono sormontate tutte da una serie di cuspidi, con il gusto tipicamente arnolfiano per i profili taglienti. L’importanza dell’opera di Arnolfo è difficilmente sopravvalutabile nel pur ricchissimo panorama artistico italiano della fine del Duecento: egli appare accanto a Giotto come il protagonista di un momento artistico di ineguagliabile ricchezza e importanza. Ciò che collega profondamente Arnolfo a Giotto, al di là di certi precisi richiami, nel ciclo franceschiano di Assisi, è il comune sentire dei problemi della forma e dello spazio, uno spazio misurabile nel quale si colloca la persona. E simile è anche la soluzione italiana che del gotico danno Arnolfo e il giovane Giotto ad Assisi: la soluzione, cioè, di una forma saldissima nel suo volume ma altrettanto intensamente esaltata dalla tensione della linea che la racchiude o al suo interno la specifica.
Lorenzo Maitani, Tino da Camaino, Andrea Pisano Anche dopo la scomparsa di Giovanni Pisano e di Arnolfo di Cambio, il panorama della scultura toscana presenta ancora per un’intera generazione una grande vitalità, quasi a testimoniare il ruolo propulsore che la scultura aveva avuto lungo tutto il Duecento; al contempo le vicende della scultura rivelano alcuni sensi-
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276. Arnolfo di Cambio, ciborio di San Paolo fuori le Mura, Roma, 1283-1284 ca.
277. Arnolfo di Cambio, ciborio di Santa Cecilia, Roma, 1293.
278. Arnolfo di Cambio, ciborio di Santa Cecilia, Roma, particolare.
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280. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo, disegno della facciata di Santa Maria del Fiore (1587).
281. Tino di Camaino, monumento del vescovo Orso, particolare, Firenze, Santa Maria del Fiore.
282. Andrea Pisano, L’aratura, formella del campanile di Giotto, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
279. Arnolfo di Cambio, Madonna col Bambino, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo, 1300 ca.
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bili paralleli con la grande pittura contemporanea dei senesi e dei giotteschi. Le sculture del senese Tino da Camaino (nato circa il 1285 e già morto nel 1338) racchiudono in una linea levigata e fluente volumi espansi, talora squadrati e quasi astratti, con una vena meditativa e lirica che può ricordare la pittura dei Lorenzetti. Egli inizia la sua attività a Pisa, la prosegue a Siena e a Firenze e la conclude a Napoli. Non è tanto al vasto repertorio dei suoi monumenti sepolcrali che si affida la sua fama (ma varrà la pena almeno di ricordare l’imponente – purtroppo frammentario – monumento funebre di Arrigo vii con i suoi consiglieri del Camposanto di Pisa) quanto piuttosto ad alcune singole statue, veri capolavori, come quella del Vescovo Orso (Firenze, Duomo) raffigurato nel suo monumento funebre seduto e placidamente dormiente; oppure la Carità del Museo Bardini, o la Madonna Sedes Sapientiae nel Museo del Bargello. Il loro fascino risiede soprattutto nei volumi dilatati e leggeri sostanzialmente non tridimensionali, analogamente a come Pietro e Ambrogio Lorenzetti avevano inteso interpretare Giotto. Il senese Lorenzo Maitani (nato prima del 1270 e morto nel 1330) trascorre ad Orvieto vent’anni della sua carriera, a partire almeno dal 1310, quando è nominato capomastro della Cattedrale. Egli progetta la facciata sia per la parte architettonica sia per la parte scultorea come già Giovanni Pisano a Siena. Certamente sua è l’idea felicissima della decorazione dei quattro poderosi pilastri fittamente ornati con Storie della Genesi, di Cristo e del Giudizio Universale, racchiusi entro eleganti tralci vegetali. Incerto è il numero dei suoi collaboratori e i limiti del loro intervento; ma là dove il Maitani è sicuramente presente, nelle scene della Genesi e del Giudizio, l’eleganza fluidissima della sua linea di gusto certamente senese, anche se impropriamente talora paragonata a quella di Simone Martini, e soprattutto la cesellata finezza esecutiva fanno di lui un esponente di spicco di un gusto intensamente gotico e al tempo stesso di armonia classicamente idealizzata. Più strettamente legato alla pittura, e specificamente alla pittura di Giotto, è Andrea Pisano, morto probabilmente nel 1348-9. Dal 1330 al 1335 il suo nome è ricordato ripetutamente dai documenti per la porta bronzea del Battistero di Firenze; e si dovrà sottolineare il tempo relativamente breve impiegato nell’esecuzione delle ventotto formelle entro quadrilobi gotici con Storie di Giovanni Battista, in confronto ai venticinque anni che il Ghiberti impiegherà per eseguire la seconda porta dello stesso Battistero. In stretto contatto con Giotto dovette operare Andrea nella decorazione del campanile del Duomo, di cui assunse la direzione dopo la morte di Giotto, nel 1336. Il Vasari ripete l’affermazione del Ghiberti che fu Giotto stesso a eseguire i disegni delle formelle decorative, sebbene il loro stile riveli profonde affinità con i rilievi della porta del Battistero. Ciò che non cessa di stupire nei ventuno rilievi della parte inferiore, che raffigurano le Arti, le Scienze e i Lavori dell’uomo, è la sintesi compositiva spesso magistrale che racchiude nello spazio esiguo degli esagoni la precisione degli strumenti, degli oggetti e dei gesti che vogliono esprimere l’intelligenza creativa dell’uomo.
Nota Bibliografica Su Benedetto Antelami resta fondamentale l’unica opera monografica dedicatagli, quella di G. De Francovich, Benedetto Antelami architetto e scultore e l’arte del suo tempo, Milano-Firenze 1952, 2 voll.; per un aggiornamento sui problemi della scultura e dell’architettura antelamica v. A.C. Quintavalle, Benedetto Antelami, Milano 1990 (catalogo della mostra, Parma 1990) e Battistero di Parma, Parma 1992, i, con saggi di G. Duby, C. Frugoni e G. Romano. Sul Maestro dei Mesi di Ferrara v. C. Gnudi, Il Maestro dei Mesi e la lunetta di San Mercuriale, in «Paragone», 317-9, 1976, ristampato in C. Gnudi, L’arte gotica in Francia e in Italia, Torino 1982, pp. 86-95. Per l’arte federiciana nell’Italia meridionale v. gli atti del convegno Federico ii e l’arte del Duecento italiano, Galatina 1980, e ivi in particolare C. Gnudi, Considerazioni sul gotico francese, l’arte imperiale e la formazione di Nicola Pisano (ora in L’arte gotica cit., pp. 102 sgg.). Per un’impostazione sull’arte gotica in Italia con particolare attenzione alla scul-
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283. Lorenzo Maitani, Storia della Genesi, Orvieto, Duomo.
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tura v. l’importante saggio di E. Castelnuovo, Arte della città e arte delle corti tra xii e xiv secolo, in Storia dell’arte italiana, v, Dal medioevo al Quattrocento, Torino 1983, pp. 167-227. Sugli scultori della seconda metà del Duecento e del Trecento in Italia v. J. Pope-hennessy, Il Gotico, Milano 1963 (La scultura italiana, i). In particolare su Nicola Pisano, oltre al già cit. saggio di C. Gnudi, e agli studi di G. Nicco Fasola (Nicola Pisano, Roma 1941; La fontana di Perugia, Roma 1951), v. E. Castelnuovo, Nicola Pisano, Milano 1966; S. Bottari, Saggi su Nicola Pisano, Bologna 1969, e il volume di M. Testi Cristiani, Nicola Pisano architetto e scultore, Pisa 1987. Su Giovanni Pisano v. C. Gnudi, Il pulpito di Giovanni Pisano a Pistoia, negli atti del convegno Il Gotico a Pistoia (ora in L’arte gotica cit., pp. 9-20); su Giovanni e la facciata del Duomo di Siena v. E. Carli, Il Duomo di Siena, Genova 1979. Su Arnolfo di Cambio la monografia fondamentale è quella di A.M. Romanini, Arnolfo di Cambio e lo «stil novo» del gotico italiano, Milano 1969 (rist. Firenze 1980), e, della stessa A., Nuove ipotesi su Arnolfo di Cambio, in «Arte medievale», i, 1983, pp. 157 sgg., e ancora La cattedrale gotica: il caso di Arnolfo e Santa Maria del Fiore, in Storia dell’arte italiana, 12, Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 5-45. Su Tino di Camaino v. il saggio di G. Previtali, «Un’arca del 1272 ed il sepolcro di Bruno Beccuti in Santa Maria Maggiore di Firenze, opera di Tino di Camaino, in Studi di storia dell’arte in onore di Valerio Mariani, pp. 81-89, Napoli 1972, ora in Id., Studi sulla scultura gotica in Italia, Torino 1991, pp. 105-114. Su Andrea Pisano v. il volume di I. Toesca, Andrea e Nino Pisani, Firenze 1950; mentre per Lorenzo Maitani v. le pagine di E. Carli in Gli scultori senesi, Milano 1980.
Capitolo decimo
GIOTTO E LA PITTURA ITALIANA NELLA PRIMA METÀ DEL TRECENTO di Alessandro Conti
La Basilica di Assisi Sul luogo in cui san Francesco aveva voluto essere sepolto già poco dopo la sua canonizzazione (1228) cominciò a sorgere una chiesa, la cui costruzione si protrasse fino a metà del secolo: è la famosa Basilica di Assisi che, come la Sainte Chapelle di Parigi, si articola in due chiese sovrapposte e si afferma, con la sua autorità di santuario, come importante modello per la diffusione dell’architettura gotica in Italia. Al momento della consacrazione, nel 1253, doveva essere già costruita anche la Basilica Superiore, mentre il campanile (ancora legato a tradizioni di architettura «lombarda») era finito verso il 1239. L’architettura non è unitaria e non è possibile formulare un’attribuzione; il nome di frate Elia tramandato dalle fonti si riferisce a un direttore dei programmi o, se davvero era stato architetto e aveva lavorato per Federico ii, solamente alle prime fasi dei lavori. La Basilica Inferiore è coperta da ampie volte a vela e si mostra ancora improntata a un gusto per la muratura solennemente romanico; la ravviva una ricchissima policromia dovuta al «Maestro di San Francesco». La Basilica Superiore ha invece un interno perfettamente gotico. I pilastri che sorreggono le quattro campate dell’unica navata si articolano in fasci di colonne che continuano nei costoloni che dividono le volte in vele, e con lo stesso sistema sono realizzati l’abside e le due campate del transetto. Rispetto ai modelli gotici francesi, dove pareti così disponibili avrebbero accolto ampie vetrate, solamente nel transetto troviamo grandi finestre composte da bifore abbinate; lungo la navata è una sola bifora che si apre nelle pareti a ogni campata, mentre la loro parte inferiore, al di sotto del camminatoio che gira attorno a tutta la chiesa, offre una grande superficie unitaria, quasi che fin dalla progettazione si fosse pensato a grandi spazi disponibili per affreschi. La prima decorazione a essere realizzata è costituita dalle vetrate (il complesso più importante del xiii secolo in Italia) che iniziano con l’attività di maestranze tedesche e francesi e rivelano, poi, la collaborazione del «Maestro di San Francesco». Sistemate, prioritariamente (anche per motivi pratici), le finestre, la pittura delle pareti della Basilica Superiore iniziò nel transetto destro con un «Maestro Oltremontano», un pittore gotico di origine forse inglese, con la Trasfigurazione e gli altri affreschi nella parte nel transetto destro. Prosegue con Cimabue nelle altre parti del transetto e nell’abside, con Storie degli apostoli Pietro e Paolo, della Vergine, un ciclo dedicato a due grandi affreschi con la Crocefissione, dei quali è tanto famoso quello nel transetto meridionale; suoi sono i maestosi Evangelisti nelle vele della crociera al centro del transetto.
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La decorazione continua nella parte superiore delle navate con Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, inizia con una maestranza diretta dal romano Jacopo Torriti, fino alle due campate più vicine alla facciata, dove a capo dell’impresa troviamo non più Cimabue ma il «Maestro di Isacco», cioè il giovane Giotto. Il cambio nella direzione dei lavori dovette essere improvviso, tanto che alcuni dei pittori che lavorano col Torriti (come il «Maestro della Cattura di Cristo») collaborano poi col «Maestro di Isacco» nella conclusione delle Storie bibliche. Se la successione nel tempo dei vari cicli di affreschi di Assisi si individua con facilità, ben lontano è un accordo sulla loro cronologia assoluta e, conseguentemente, sull’identificazione di molti dei maestri che vi collaborano. La cronologia di Cimabue viene discussa in rapporto alle dispute fra le due ali degli spirituali, pauperisti e contrari al fasto delle decorazioni, e dei conventuali in cui era diviso l’ordine francescano, e in rapporto alla presenza di stemmi Orsini (del papa regnante, o del senatore di Roma?) rappresentato sul Palazzo Capitolino nella raffigurazione di Roma della Volta degli Evangelisti. L’orientamento che sembrava predominare negli studiosi italiani (1278-80 per l’inizio della decorazione cimabuesca) adesso è stato messo in discussione con un’analisi molto ben argomentata compiuta da Luciano Bellosi, secondo la quale si deve avvicinare l’esecuzione di questi dipinti a quelli giotteschi che, a loro volta, devono essere considerati liberi dal rapporto col generalato di fra’ Giovanni da Murro (1296-1305), ricordato dal Vasari come committente del ciclo; si dovrebbero perciò datare le Storie di san Francesco nella prima metà dell’ultimo decennio del Duecento. La stessa partecipazione di Giotto è però messa in discussione sia per la sua identificazione col «Maestro di Isacco» che per il ciclo francescano; il suo stile diverso da quello più tipico di Padova (1303-1305) ha infatti creato un comprensibile disagio nel doverlo accettare come opera dello stesso pittore a una data che la cronologia suggerita dal Vasari imponeva posteriore al 1296. Tutta una corrente di studi, che ha trovato in Fritz Rintelen e Richard Offner i suoi interpreti di maggior respiro, ha negato la direzione da parte di Giotto delle Storie di san Francesco, abbassandone variamente la data. Il «Maestro di Isacco», invece, è stato spesso considerato un pittore romano, secondo il filone di studi che per le origini della nuova pittura contrappone Roma a Firenze, contro la tradizione che risale al Vasari.
284. Giotto, Esaù respinto da Giacobbe, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.
285. Cimabue, Maestà, Parigi, Museo del Louvre.
Cimabue
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La prima figura che incontriamo nella Basilica Superiore di Assisi, dopo Giunta e il «Maestro di San Francesco», è Cimabue. La citazione documentaria più antica che lo ricorda lo mostra a Roma nel 1272, mentre la sua prima opera nota è la Croce in San Domenico ad Arezzo, anteriore a quella data, dove il maestro si esprime ancora secondo le forme chiuse della tradizione giuntesca e si compiace di preziosità tradizionali come il perizoma «cardato» di lamelle d’oro come in uno smalto. Le figure hanno un carattere fortemente espressivo e mostrano una forza nella resa dei sentimenti estranea al carattere un po’ grottesco che hanno le figure di Giunta o del «Maestro di San Francesco». Il carattere aspro e le fisionomie accigliate di Cimabue tornano nella Maestà del Louvre, il prototipo delle grandi tavole a scomparto unico che si affermeranno nella pittura toscana, dove le forme monumentali mostrano un attento esame della scultura di Nicola Pisano e i colori modellano i panneggi secondo le norme di una stesura chiaroscurata che valorizza la pittura in quanto tale, e non come imitazione di uno smalto o di un’oreficeria. A un momento non lontano appartiene il Crocifisso di Santa Croce e già prima del 1276 questo messaggio appassionato e drammatico si unisce ai moduli eleganti con cui si abbinano i colori (il verde nella figu-
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286. Cimabue, Crocifissione, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.
287. Cimabue, San Giovanni Evangelista, mosaico, Pisa, Duomo, 1302, particolare.
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ra di Cristo morto, l’azzurro della Croce, l’oro ecc.) e si compongono le forme nella curva studiatissima, formata dalla figura di Cristo. La tavola del Louvre e la Croce di Firenze ci mostrano il momento forse più alto della pittura di Cimabue, le sue elaborazioni più personali, di un carattere ancora tutto duecentesco in cui non si sono inserite le attenzioni alla costruzione spaziale degli affreschi di Assisi. In un momento successivo si pone una prima attività di Cimabue ad Assisi, alla quale risalgono la Madonna della Basilica Inferiore e il San Francesco di Santa Maria degli Angeli. Ma tornando alla Basilica Superiore, certi modi di comporre i fregi architettonici con attenzioni di assonometria, il carattere più «prospettico» di certi troni di Cimabue, nascono da un’elaborazione originale o non riflettono già le prime esperienze di Giotto? Queste novità s’accordano con lo spirito medievale, appassionato, «jacoponico» della famosa Crocifissione o con la nobile severità degli Evangelisti, oppure non ci mostrano un maestro che cerca di adeguarsi alle novità per cui Dante, nel suo viaggio nell’oltretomba immaginato nel 1300, poteva far dichiarare a Oderisi (Purgatorio, xi, vv. 93-97) che già Cimabue era stato superato da Giotto? Questo stesso stile, che possiamo definire di Cimabue 1290, lo troviamo anche nella Maestà di Santa Trinita agli Uffizi e si riconosce nella figura a mosaico di San Giovanni Evangelista nell’abside del Duomo di Pisa, la sola opera documentata del maestro, nel 1302, a una data in cui lo stile giottesco era ormai pienamente formato.
rarlo una guida vincolante, si sottintende alla proposta di ricostruzione storica la convinzione che la nuova pittura nasca da uno studio dell’antico nella sede che, dopo il Rinascimento, appare la più naturale, Roma. Si finisce anche per dimenticare che l’artista più classico del xiii secolo, Nicola Pisano, recupera l’antico non da Roma ma attraverso una profonda permeazione di cultura gotica dell’Île-de-France. L’antico, cioè, recupera la sua forza per la funzionalità di modello che ha dove esiste una nuova cultura figurativa, non per la sua vicinanza topografica. Le principali commissioni romane di fine secolo vanno al Torriti o a Filippo Rusuti (mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore; mosaico all’esterno di San Crisogono), pittori che mostrano i primi riflessi delle novità assisiati, come i maestri (di cui un Conxolus lascia la firma) che a fine secolo eseguono il ciclo
Problemi romani
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Cimabue era presente a Roma nel 1272 e, se più ricche ci fossero pervenute le testimonianze della pittura duecentesca nella città papale, potremmo forse individuare un suo ruolo non dissimile da quello di Arnolfo come guida nel rinnovamento che coinvolgeva i più timidi artisti locali. Attualmente si scopre un riflesso del suo stile negli affreschi del Santa Sanctorum presso la Scala Santa. La stessa commissione di Assisi è un’emanazione della corte pontificia e, se vogliamo comprendere l’ambito delle committenze legate alla curia papale, non si deve dimenticare che negli anni che precedono l’esilio avignonese, questa si spostò spesso da una città all’altra dell’Umbria. Non a caso la Basilica di San Francesco assume un ruolo centrale nel rinnovamento della pittura e ci ricorda che non si deve inserire questa vicenda figurativa in un contesto semplicemente «romano», da contrapporre agli eccessi di fiorentinismo del Vasari, ma in una diramata articolazione di committenze e di artisti, i principali dei quali sono tuttavia Arnolfo e Cimabue. Se esaminiamo il rapporto fra Cimabue e Jacopo Torriti (nelle sue opere migliori come il bel mosaico sulla porta laterale dell’Aracoeli o quelli famosi nell’abside di Santa Maria Maggiore), ci accorgiamo di una situazione non dissimile da quella di Arnolfo e dei suoi collaboratori cosmateschi, lontani da quel senso dello spazio che gli permetteva di essere un artista moderno e non più il rappresentante di un colto revivalismo medievale, incapaci di quel balzo di qualità, ma colti e attenti ai modelli antichi, che in pittura saranno quelli tardoantichi che si ammiravano nelle basiliche romane. Nei mosaici firmati del 1293 dell’abside di Santa Maria Maggiore il Torriti sa realizzare con tanta raffinatezza girari e motivi fluviali tratti dell’antico che si è pensato che fossero parti della decorazione precedente risparmiate nel suo rifacimento; vi si ritrovano le stesse notazioni «naturalistiche» che costituiscono le parti più vive dell’affresco con la Creazione nella Basilica Superiore di Assisi. Quando si insiste sul valore di precedente insostituibile che Pietro Cavallini avrebbe avuto per Giotto, al di là di un intreccio cronologico che troppo si deve affidare a deduzioni e interpretazioni per conside-
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288. Jacopo Torriti, Incoronazione della Vergine, mosaico, Roma, Santa Maria Maggiore.
289. Pietro Cavallini, Adorazione dei Magi, mosaico, Roma, Santa Maria in Trastevere.
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con Storie di san Benedetto nel Sacro Speco di Subiaco. La sola data certa del Cavallini è il 1308 in cui è ricordato a Napoli (affreschi con Storie della Maddalena in San Domenico Maggiore) e le proposte di date arretrate nel penultimo decennio del xiii secolo dimenticano che egli si dovette affermare dopo il periodo di maggior successo del Torriti o del Rusuti, cioè verso il 1300. L’affresco sulla tomba del Cardinal Matteo d’Acquasparta all’Aracoeli (morto nel 1302) mostra che il Cavallini ha già rielaborato gli spunti che ha tratto dalle opere assisiati di Giotto, con la dolcezza di impasti e il modellato morbido che fanno capire come si sia voluto vedervi un precursore, piuttosto che un primo e dotatissimo seguace di Giotto. Le sue opere principali sono certamente anteriori: la più antica sembra l’affresco nel catino absidale di San Giorgio in Velabro, mentre più avanzata è la data dei resti del Giudizio finale, dipinto all’interno della facciata di Santa Cecilia in Trastevere, e altri frammenti di una decorazione che dovette accompagnare il rinnovamento della chiesa in occasione del quale fu costruito il ciborio di Arnolfo. Le forme degli apostoli che fiancheggiano Cristo Giudice sono ancora avvolte in un chiaroscuro che dà un senso della profondità un po’ torpido, lontano dalla lucida scansione spaziale di Giotto. Forse il maestro romano è più felice nei mosaici di Santa Maria in Trastevere, che una volta si ritenevano eseguiti nel 1291, ma che difficilmente sono anteriori a quelli di Jacopo Torriti in Santa Maria Maggiore. Qui certe difficoltà di visione spaziale si risolvono nella stesura smagliante del mosaico con forme calibratissime, le cui incertezze sono attutite dalla ricchezza di superficie del materiale musivo. Un bel riflesso di moduli cavalliniani è quello che si trova nella Bibbia, ms. A. 72, della Biblioteca Civica di Catania.
La miniatura nella seconda metà del Duecento 290
L’opera più affascinante che gli scriptoria italiani ci danno poco prima il 1270 è la cosiddetta Bibbia di Corradino, ms. W. 152 della Walters Art Gallery di Baltimora, il codice nel quale Roberto Longhi pensava si potesse identificare il misterioso Oderisi da Gubbio della citazione dantesca. Alla vivacità delle figurazioni si accompagna un gusto straordinario per la decorazione, viva, pulsante, che anima le bellissime pagine. Le altre opere del maestro (frammenti della stessa Bibbia di Baltimora, miniature ritagliate da un corale di provenienza pisana, la Bibbia Bassetti, ms. 2868 della Biblioteca Comunale di Trento), se danno indizi utili sui centri in cui il misterioso maestro ha lavorato, non sono però un indice chiaro della sua origine.
290. «Miniatore della Bibbia di Corradino», Combattimento dei Maccabei, Baltimora, Walters Art Gallery, ms. 152.
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291. Miniatore umbro-romano, Vangelo Apocrifo, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 2866, c. 7, Gesù e gli animali.
292. Jacopino da Reggio, inizio del Vangelo secondo Giovanni, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 18, c. 373.
293. «Primo miniatore di Perugia», Ascipiens a longe, Perugia, Biblioteca Augusta, corale F, c. 3.
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Un riflesso del più antico stile cimabuesco si riscontra nel Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, ms. latino 2866 della Bibliothèque Nationale di Parigi, dove il maestro delle prime miniature sembra un attento interprete del primo Cimabue. In questo manoscritto un altro maestro umbro-romano ci mostra una cultura diversa dal filone classicista Torriti-Cavallini col quale di solito si finisce di identificare la pittura romana, è legato piuttosto a quanto ci lasciano vedere i resti di affreschi profani dell’abbazia delle Tre Fontane o gli eleganti affreschi già in San Salvatore Piccolo del Museo Campano di Capua. Ma l’esperienza più continua nell’ambito della decorazione libraria è quella legata agli scriptoria che sono cresciuti attorno all’università di Bologna. Una miniatura bolognese si enuclea già a metà del secolo con le origini del «primo stile», una maniera rapida, corsiva – se ci si può esprimere così –, legata a esperienze occidentali. A questa miniatura si accompagna poi quella del «secondo stile», di colto classicismo bizantino, che si intreccerà a varie esperienze più vernacolari, e agli stessi maestri della vecchia scuola negli anni a cavallo del nuovo secolo. Dopo la Bibbia Vaticana latina 20, è con Jacopino da Reggio che questo stile trova la forma più compiuta che, in pittura, si può mettere in parallelo al classicismo del «Maestro di Isacco». Oltre alla sua collaborazione al Decretum Gratiani Vaticano latino 1375 (opera firmata), si ricorderanno le Bibbie Additional Manuscript 1872 della British Library e Latin 18 della Bibliothèque Nationale. Probabilmente più antico è il «Miniatore di Gerona», di stile più mosso e vivace, autore delle miniature della cosiddetta Bibbia di Carlo v della Biblioteca Capitolare della città catalana, di un’altra Bibbia (ms.a.i.5) nella biblioteca dell’Escorial, di varie miniature di corali, fra cui quelle provenienti dal monastero di Ripoli del Museo di San Marco a Firenze, in passato messe erroneamente in rapporto con Cimabue. Le altre esperienze più significative nel modo dell’illustrazione libraria si hanno con la prima parte del Livio, ms. Latin 5690 della Bibliothèque Nationale, un codice appartenuto a Francesco Petrarca. Il suo autore è lo stesso di un messale della cattedrale di Salerno, e la sua provenienza meridionale sembra preferibile a quella romana che è stata recentemente proposta. Il completamento del codice avviene poi in ambiente curiale, ma probabilmente già ad Avignone. Un ultimo grande maestro, legato ancora a esperienze duecentesche, si individua in Umbria nel «Primo miniatore di Perugia» nei corali da San Domenico della Biblioteca Augusta, con le miniature dei mss. 281 e 283 e con la piccola croce a due facce in pinacoteca, spesso riferita a un «Maestro della Croce di Gubbio».
294. Giotto, Il dono del mantello, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco, particolare.
295. Neri da Rimini, Decollazione del Battista, Londra, Collezione Amati.
Giotto: 1290-1305
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Tornando alla Basilica Superiore di Assisi, la parte inferiore della navata viene infine affrescata col ciclo famoso delle Storie di san Francesco eseguito sotto la direzione di Giotto. I ventotto affreschi seguono la narrazione della Legenda maior di san Bonaventura (di qui la scomparsa di alcuni episodi che avevano caratterizzato le tavole duecentesche dedicate al santo) e sono riuniti tre per campata e presentati da colonne tortili, mentre al di sotto è dipinto un velario. Dall’insieme si staccano il primo e gli ultimi tre affreschi verso il transetto, fortemente caratterizzati da collaboratori e probabilmente un poco più tardi; anche le due storie famose della controfacciata con Il miracolo della fonte e La predica agli uccelli si distinguono per un cromatismo diverso, dall’intonazione bruna e violetta, rispetto a quello molto semplice e vivace della maggior parte degli affreschi. Nelle Storie di san Francesco si assiste al passaggio dalla pittura romanica, che costruisce l’immagine per campiture compatte e grandi tratti di colore, al tratteggio fitto che modella le forme plasticamente
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296. Giotto, La Giustizia, Padova, cappella degli Scrovegni.
297. Giotto, «cappella segreta», Padova, cappella degli Scrovegni.
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(caratteristica la testa del santo nel Dono del mantello); spesso i collaboratori si riconoscono proprio per il legame che hanno con i vecchi moduli di stesura. Giotto, dopo la frammentaria Madonna recentemente scoperta sotto una ridipintura (Borgo San Lorenzo, pieve) e il Crocifisso di Santa Maria Novella (dal cromatismo ancora duecentesco nei capelli fulvi e nel tono verdastro della figura principale), si volge all’indomani degli affreschi di Assisi a un orientamento gotico, nella Madonna di San Giorgio alla Costa, o nella grande tavola del Louvre (da San Francesco a Pisa) con le Stimmate di san Francesco, dove le storie in calce alla scena principale sperimentano questo nuovo carattere in maniera assai spiritosa. Recentemente è stata messa in rapporto a questo momento di Giotto anche una bella scultura lignea con una Madonna col Bambino (collezione privata), dove uno certo spirito arnolfiano convive con le squisitezze della scultura francese. Nell’ambito di queste esperienze il polittico di Badia (Uffizi) ci mostra il maturare di un rapporto con Arnolfo nel presentare le mezze figure dei santi quasi attraverso un loggiato gotico; Arnolfo è l’architetto al quale era affidata la ricostruzione dell’antica chiesa benedettina nel centro di Firenze. Vicino a questa nuova sensibilità all’immanenza delle forme si pone un capolavoro di classicismo gotico come lo splendido Crocefisso del Tempio Malatestiano, unica sopravvivenza di un’attività riminese di Giotto, da cui nacque la prima scuola locale di impronta decisamente giottesca. Lo stile «riminese» di Giotto è ricordato anche dai frammenti di affreschi nel capitolo del Santo a Padova, di data un po’ più avanzata, ma comunque anteriori agli affreschi famosi della Cappella degli Scrovegni. Il miniatore Neri da Rimini nel foglio della Collezione Cini datato 1300 mostra già di seguire un modello giottesco in due figure della Vergine e San Giovanni che derivano da quelle perdute nei terminali del Crocifisso del Tempio Malatestiano; il suo stile elabora una serie di sperimentazioni cromatiche luminose e leggere che tendono a smaterializzare le figure, spesso con una vivacità che ci può apparire quasi umoristica. Fra questi primi maestri, Giuliano da Rimini è l’autore del dossale datato 1307, proveniente da Urbania, del Gardner Museum di Boston. Le firme e i ricordi documentari permettono di ricostruire le figure di Giovanni da Rimini, dell’espressivo Pietro (affreschi in Santa Chiara a Ravenna), di Francesco da Rimini, accanto agli anonimi «Maestro dell’Arengo», «Maestro del coro di Sant’Agostino». Talvolta si ha la sensazione che questi non rappresentino che un momento dell’attività dei maestri noti e le attribuzioni sono complicate dalle possibili opere di collaborazione. L’attività dei riminesi interessa la costa adriatica dalle Marche (Cappellone di San Nicola a Tolentino) al Veneto, oltre alla Romagna, e si estingue verso il 1340 (polittico datato di Giovanni Baronzio nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino). Si datava probabilmente in occasione del Giubileo del 1300 il grande mosaico la Navicella degli apostoli eseguito nell’atrio di San Pietro a Roma, l’opera di Giotto ai suoi tempi più famosa, che ci è nota da varie copie e dal rifacimento seicentesco dell’originale. Restano anche due frammenti con figure di Angeli, conservati nelle Grotte Vaticane (deturpati da un recente restauro) e nella chiesa di San Pietro Ispano a Boville Ernica (Frosinone), che sembrano suggerire una datazione in questo momento piuttosto che quella legata a un documento del 1313 che accenna a un recente soggiorno romano di Giotto. A Firenze lo stile più gotico di Giotto trova un riflesso nel «Maestro della Santa Cecilia» (dalla tavola con questa santa e storie della sua vita degli Uffizi), il pittore che per molti anni è stato il referente per tutte le più arcaiche opere giottesche, e che si è a lungo individuato come un collaboratore nelle ultime storie di Assisi, dove meglio si riconosce l’umbro «Maestro della Croce di Montefalco». Negli anni che immediatamente precedono il soggiorno padovano di Giotto si collocano il Crocifisso di San Felice in Piazza (con interventi della bottega) e, probabilmente, la Maestà di Ognissanti degli Uffizi, tavola di arcaico formato cuspidato, con la Vergine che segue ancora le leggi di una dimensione gerarchica
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rispetto alle figure dei santi e degli angeli, dove però Giotto sperimenta effetti delicatissimi di colore, una maestosa resa plastica e complesse situazioni di avanti e indietro tra le varie figure dei santi.
Lo stile «padovano» di Giotto Chi legga la Cronica di Dino Compagni e ricordi le turbolenze della lotta fra Bianchi e Neri capirà i motivi per cui un artigiano qualificato, come Giotto, nei primi anni del Trecento, cogliesse volentieri le occasioni per lavorare fuori Firenze, lontano da tante violenze. Gli affreschi della Cappella degli Scrovegni sono certamente finiti nel 1305, quando le croci di consacrazione vengono dipinte sui finti marmi del basamento. L’architettura della cappella (talvolta attribuita a Giotto stesso) consiste in un vano coperto a botte con alcune monofore che si aprono sul lato destro; la piccola abside è costruita in un secondo momento. La cappella era una volta inserita in tutto l’insieme del palazzo degli Scrovegni che le era addossato a nord e probabilmente era preceduta da un portico; era abbastanza diversa dalla cappella (con transetto) quale è rappresentata da Giotto nel Giudizio Finale, dove Enrico Scrovegni ne fa omaggio alla Vergine e san Giovanni. Gli affreschi (il Giudizio Finale sull’intera parete di ingresso) sono Storie della Vergine e di Cristo distribuite su tre ordini, con quello più in alto che invade la curvatura della volta a botte, e sono presentati attraverso una ricca incorniciatura di finti marmi di gusto arnolfiano; la volta, dai clipei con la Madonna col Bambino, il Redentore, Profeti, è campita di azzurro oltremarino a stelle d’oro: l’azzurro è il colore dominante per chi entri nel sacello. Una particolare attenzione viene tributata da Giotto ai finti marmi del basamento (la parte più vicina allo spettatore), raramente riprodotti; con le loro simmetrie e i colori squisiti sono una delle realizzazioni di più alta qualità della cappella, tra loro sono inseriti i finti bassorilievi con i Vizi e le Virtù, che sono un po’ la quintessenza del plasticismo giottesco, da quando Berenson e Proust ci hanno insegnato a vederli come tali. In quest’area di forte illusionismo si inseriscono anche le «cappelle segrete», secondo la definizione di Roberto Longhi, che dedicò loro il memorabile saggio Giotto spazioso: due vani a volta che Giotto finge si aprano ai lati dell’abside, rappresentati con mirabile illusionismo, con un unico punto di fuga calcolato sullo spettatore che sta al centro della cappella. Quello che è possibile in questa zona di imitazioni illusionistiche, non narrative, non è però compatibile con le «sacre memorie di spazj» delle Storie di Cristo o della Vergine, nonostante i tanti particolari di mirabile bravura prospettica; a sottolineare questa diversa dimensione Longhi richiamava proprio le edicole, prospetticamente sfasate, in cui è ambientata L’Annunciazione. Negli affreschi giotteschi la storia viene sempre delimitata in margine da una banda di uno o più colori, che la distacca, quasi, da quest’area di mimesi ottica, ribadendo il carattere di «sacra memoria di spazj» che hanno le storie. Giotto non avrebbe mai rinunciato a queste zone di passaggio fra il mondo di ciò che vediamo e la superficie a cui affidava la storia, quasi una preparazione graduale alla recezione di uno spazio simile a quello reale, ma finto. La narrazione è molto più articolata che nelle Storie di san Francesco ad Assisi, vi sono alcuni ambienti ricorrenti (la casa di sant’Anna, il Tempio di Gerusalemme, la capanna di Giovacchino tra i pastori) che permettono di riconoscere gli episodi che avvengono nello stesso luogo; l’espressione dei sentimenti trova nuove realizzazioni ora pacate, come nel Ritorno di Giovacchino tra i pastori, ora fortemente drammatiche (Compianto su Cristo morto); tutto un filone espressivo convive poi con la più nota monumentalità plastica
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giottesca, in figure come l’apostolo che si riallaccia i sandali nella Lavanda dei piedi, il levita nella Cattura di Cristo o la figura di Malachia nella volta. In particolare i volti del Redentore costituiscono una serie di immagini dall’espressione pacata e mirabile, sia nelle rappresentazioni fontali (Cristo davanti a Caifa, Andata al Calvario) che di profilo: Cacciata dei mercanti dal Tempio, Lavanda dei piedi, Cattura di Cristo, Ascensione. Negli affreschi di Assisi i colori erano spesso usati con un gusto quasi di rubricatura (se si può richiamare il mondo degli scriptoria) destinata a differenziare una figura dall’altra: si considerino la distribuzione del colore nei mantelli degli astanti nel Presepio di Greccio, o nelle case dalle quali fuggono i diavoli di Arezzo, oppure si pensi ai prelati ammantati di azzurro, di rosso e rosa della corte di Onorio iii. Quando l’insieme cromatico si fa più intonato, come nel Miracolo della fonte o nella Predica agli uccelli, assume un’intensità quasi da smalto dove dominano oltremare, violetto, marrone. La cappella degli Scrovegni ci mostra invece una nuova fiducia nei mezzi tecnici della pittura murale, nella sua capacità di lasciar respirare la parete, di servirsi (nell’ambito obbligato che non è quello del riquadro, ma di quanto ritaglia al suo interno la campitura d’oltremarino) di terre che si intonano in una gamma calda e abbassata di rossi, bruni, gialli e arancioni. È un grande passo verso la piena autonomia delle possibilità espressive della propria arte, la pittura, che non riconosce più come arti guida le tecniche più ricche, si appresta invece ad assumere lei stessa un ruolo assolutamente egemone. Quando si osservano particolari ravvicinati della cappella degli Scrovegni, ci si accorge della presenza di aiuti che eseguono alcune figure con una stesura particolarmente amorfa; si veda la famosa figura della donna in atto di coprirsi il volto nell’Incontro alla Porta Aurea. Diversamente da Assisi dove si riconoscono alcuni collaboratori, fino a identificarli con Memmo di Filippuccio o col «Maestro della Croce di Montefalco», a Padova queste figure sono completamente assorbite dalla personalità di Giotto, sono evidenti solamente per vizi di forma o di stesura. Una derivazione dello stile degli affreschi degli Scrovegni si incontra nella miniatura bolognese; e i frequenti soggiorni di miniatori bolognesi a Padova spiegano la facilità di questa recezione. Un miniatore che è ben presente nella città veneta, il «Miniatore di Gherarduccio», nei corali del Duomo di Padova copia direttamente composizioni del ciclo giottesco; già messe in rapporto con un pagamento del 1306, queste miniature sono invece opera del secondo decennio, databili verso il 1317. Questo maestro trasferisce i moduli di giottismo padovano anche nella miniatura profana col Roman de Troie, cod. 2571 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Ancor più interessante è la figura di Nerio, che si firma nel codice ms. lat. 8941 della Bibliothèque Nationale di Parigi, che, verso il 1315, propone uno stile personale, paragiottesco, partendo dalla tradizione duecentesca di Jacopino da Reggio e si volge poi a esperienze dove lo stile e l’iconografia mostrano lo studio della Cappella degli Scrovegni (Londra, British Library, miniatura ritagliata di soggetto evangelico, Additional 35058). Nella prima metà del terzo decennio la situazione è ben rappresentata dai maestri che partecipano alla decorazione dei corali di San Domenico a Bologna (ivi e fogli tagliati a Venezia, Collezione Cini); all’arcaico «Miniatore di Seneca» si accompagnano un «Maestro del Graziano di Napoli» (dal ms. xii. A. 1 di quella Biblioteca Nazionale), Nerio e il «Maestro del 1328» ai suoi esordi. Questo miniatore, un po’ di routine ma estremente vivace, è, prima della matricola da cui prende il nome, autore delle miniature del Decretum Gratiani Vitr. 21-2 della Biblioteca Nacional di Madrid, dove alcune composizioni mostrano chiaramente di seguire moduli da pittura a fresco. Non esiste in Toscana un’opera di Giotto equivalente alla cappella degli Scrovegni; un esempio di pittura su tavola coevo è dato dalla figura del Redentore inserita nella storia della Missione a Gabriele
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298. Nerio, Codice, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 8941, c. 4, particolare, Incoronazione della Vergine.
299. Giotto, Due apostoli, disegno, Parigi, Museo del Louvre.
300. Giotto, Ritorno di Giovacchino tra i pastori, Padova, cappella degli Scrovegni.
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nell’arco trionfale della cappella padovana (più tardo, del secondo decennio, è invece il Crocifisso oggi nel Museo Civico di Padova), mentre in un disegno mirabile del Louvre (n. 2664), attribuito a Maso di Banco dal Degenhart e dalla Schmitt, Luciano Bellosi ha riconosciuto, molto plausibilmente, un saggio del periodo «padovano» di Giotto. La maniera padovana in forma un po’ più dura, quale si segue dalla tavola con l’Eterno, convive con uno stile cromaticamente più delicato negli affreschi della cappella della Maddalena della Basilica Inferiore di Assisi, sulla cui esecuzione dà un punto di orientamento un documento che ricorda Giotto in Umbria nel 1309. Questo stile si riconosce ancora nei danneggiati frammenti di affreschi (testa di pastore, l’architettura probabilmente di una Presentazione della Vergine) della Badia fiorentina che già fanno pensare alla cappella Peruzzi in Santa Croce. Questo ciclo di sei dipinti (tre Storie di san Giovanni battista, tre dell’Evangelista), non essendo stato eseguito ad affresco, avendo subito una scialbatura e poi un cattivo recupero da sotto l’intonaco, è molto danneggiato, ma è comunque l’opera in cui Giotto esprimeva al meglio il suo senso plastico della forma; erano ancora ammirati alla fine del Quattrocento – esiste un disegno del giovane Michelangelo (Louvre, Inv. 706) che riprende alcune figure dell’Ascensione di san Giovanni Evangelista. Le forme dilatate di questi dipinti, oltre a richiamarci con molta efficacia i «valori tattili» berensoniani, ci ricordano il famoso apprezzamento del Boccaccio su Giotto (Decameron, quinta novella della sesta giornata): «Niuna cosa dà la natura madre di tutte le cose e operatrice, col continuo girare de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che non simile, anzi piuttosto dessa pareva, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si trova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degli ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi dipingendo, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote […]». Per la cappella Peruzzi si pone il problema dei critici che vogliono vedere in questa pienezza della forma il punto di arrivo dell’esperienza giottesca e ne pongono i dipinti alla fine del percorso del maestro. In realtà il legame che ancora sussiste con gli affreschi di Padova, e lo stile dei seguaci che sono legati a questo momento di Giotto (Jacopo del Casentino e lo stesso Bernardo Daddi, agli inizi), inducono a preferire una datazione fra il 1310 e il 1315.
Mentre la grande vetrata absidale del Duomo di Siena mostra un disegno di Duccio non lontano dalla Madonna Rucellai, un nuovo stile attento ai ritmi di Giovanni Pisano si rivela nella piccola Madonna dei francescani (Siena, Pinacoteca Nazionale); ma è col nuovo secolo che il maestro matura la sua maniera più tipica volgendosi al modello dell’arte bizantina, e rivelando, con questo, la sua mentalità di artista medioevale: la sua Maestà del 1311 è comunque posteriore di diversi anni alla Madonna d’Ognissanti di Giotto, la si voglia datare prima o dopo gli affreschi degli Scrovegni. Dipinta su due facce, la Maestà di Duccio rappresenta sul lato anteriore la Madonna fra santi e angeli (e, soprattutto in questi, si riconoscono vari collaboratori), a tergo le Storie della Passione. Il complesso in origine comprendeva un coronamento con Storie di Cristo e della Vergine dopo la Resurrezione e al centro l’Incoronazione della Vergine (frammento a Budapest); quale fosse l’esatta disposizione di queste storie è difficile da ricostruire, dato che fin dal 1376 la Maestà ebbe un nuovo «cappello», un coronamento di gusto certamente più gotico di quello che poteva essere stato realizzato al tempo di Duccio. La predella è posteriore all’inaugurazione del 1311, nella parte anteriore (Storie dell’infanzia di Cristo e
Alternative al discorso giottesco
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Ma il secondo decennio più che dall’esperienza difficile di questi dipinti giotteschi è caratterizzato, in tutta la Toscana, dal trionfo delle qualità decorative della Maestà di Duccio (Siena, Museo dell’Opera del Duomo): una pittura squisitamente medievale nell’esaltare la bellezza dei materiali, più che la forma o lo stile. La Maestà viene inaugurata nel 1311 quando Duccio era ormai un anziano maestro, il caposcuola riconosciuto dei pittori senesi. Le sue origini risalgono al cimabuismo degli anni 1280 e il primo documento lo mostra impegnato, nel 1285, alle realizzazioni della Madonna Rucellai (Uffizi, ritenuta a lungo sulla traccia del Vasari opera di Cimabue), dipinta per Santa Maria Novella, una grande tavola con la Vergine circondata da angeli e un’ampia cornice con piccoli clipei con santi, sul tipo della Madonna del Louvre di Cimabue. Rispetto alla pittura espressiva di Cimabue, Duccio tende a un’eleganza di ritmi lineari di origine gotica e a un colore scelto con squisito senso decorativo col quale, e con vari trattamenti dell’oro, imita le qualità preziose della seta e dei vari materiali.
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301. Duccio di Buoninsegna, Maestà, Siena, Museo dell’Opera del Duomo, 1311, particolare.
303. Duccio di Buoninsegna, Madonna dei francescani, Siena, Pinacoteca Nazionale.
302. Duccio di Buoninsegna, Resa di Giuncarico (?), Siena, Palazzo Pubblico, 1314 (?), particolare.
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Profeti) mostra il momento più felice della pittura di Duccio, che viene a contatto proficuo col mondo giottesco senza rinunciare alle sue doti di grande decorazione; la predella posteriore (variamente dispersa: Londra; New York, Frick Collection; Washington; Madrid, Collezione Thyssen) si deve poi datare agli ultimi anni dell’attività del maestro, che muore nel 1319, e mostra l’attenzione per le sperimentazioni spaziali dei maestri senesi delle nuove generazioni, con scorci bellissimi di interni velati di ombra (Tentazione sul Tempio, Siena) o le splendide città-reliquiario della Tentazione sul monte (Collezione Frick). A questo nuovo clima appartengono anche i due trittici gemelli della National Gallery di Londra e del Museum of Fine Arts di Boston (al centro rispettivamente la Madonna col Bambino e una Crocifissione) e l’affresco con la Resa di Giuncarico (?) recentemente scoperto in Palazzo Pubblico a Siena che, se è giusta l’identificazione del castello, fu fatto dipingere nel 1314. Il successo di Duccio porta all’affermazione di stili molto decorativi anche fuori di Siena. Il fiorentino Lippo di Benivieni, ad esempio, dopo un primo momento più giottesco già enucleato come «Maestro della Croce dei Filicaia» (Museo dell’Opera di Santa Croce) e riferibile al primo decennio del secolo, si volge a ritmi che mostrano senz’altro l’influenza del maestro senese. Se poi si dovesse riconoscere in Lippo anche l’autore della stupenda e patetica Deposizione del Museo Civico di Pistoia e delle tavolette (Strasburgo; Cambridge, Mass.; già Bruxelles, Collezione Stoclet) che rivelano la stessa temperie, si dovrebbe pensare a un suo rapporto con la scultura fortemente espressiva di Giovanni Pisano. Ritenuto umbro da Roberto Longhi («Primo Miniatore di Perugia»), autore di queste opere è un fiorentino o, giusta il rapporto che rivela col grande scultore pisano, un pistoiese; cronologicamente sembra poi sovrapporsi
alla fase di Lippo di Benivieni conosciuta come «Maestro della Croce dei Filicaia», e quindi cade ogni possibilità di identificarlo con lui. Dall’incontro di questo gusto decorativo con un discorso più giottesco hanno origine il cosiddetto «Miniatore daddesco» (in quanto si credeva un seguace di Bernardo Daddi di data più avanzata di quella che gli compete) e il grande «Maestro del codice di San Giorgio». Questi è presente con vari miniatori fiorentini nei corali destinati alla Badia a Settimo, di cui uno sottoscritto nel 1315 (Roma, basilica di Santa Croce in Gerusalemme), ed è l’autore di alcune deliziose tavolette (Firenze, chiesa del Carmine; dossalino diviso fra il Museo del Bargello e i Cloisters di New York). Il suo capolavoro è il manoscritto capitolare di San Pietro C. 129 della Biblioteca Apostolica Vaticana, eseguito ad Avignone, dove nel San Giorgio e il drago la lotta col mostro è vista quasi come un elegante torneo, con gli spettatori che si entusiasmano sulle mura della città. Una volta si pensava che questa miniatura riecheggiasse un perduto affresco di Simone Martini ad Avignone; la datazione del codice, senz’altro entro il terzo decennio del Trecento, fa adesso escludere la vecchia ipotesi. Il «Maestro del codice di San Giorgio» è il primo dei grandi maestri italiani che si recano nella città papale e la provenienza francese dei suoi codici fa pensare che vi si sia poi stabilito in maniera permanente. Un altro notevole maestro fiorentino è il «Maestro di Figline», o «Maestro della Pietà Fogg», da una tavoletta con Deposizione nel Fogg Museum di Cambridge, Mass.; talvolta è impropriamente identificato col maestro di vetrate umbro Giovanni di Bonino. In lui le forme giottesche vengono sviluppate per ritmi lineari e con moduli serenamente allargati; è significativo che la splendida vetrata nella cappella di San Martino ad Assisi sia di attribuzione discussa fra lui e Simone Martini. Sempre ad Assisi è autore di una Madonna e santi nella sagrestia della Basilica Inferiore. È poi attivo per Santa Croce (Crocifisso) e per il centro valdarnese da cui trae il nome con la Madonna (come sedes sapientiae) e santi della Collegiata; la Pietà Fogg e i santi provenienti dallo stesso polittico (Worcester, Mass. e Roma, collezione privata) probabilmente superano ormai il 1330.
Gli inizi di Simone Martini
305. Maestro martiniano, Madonna col Bambino, Asciano, Museo d’Arte Sacra.
304. «Maestro di Figline», San Francesco, Worcester, Art Museum.
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Un altro grande maestro, senese, Simone Martini, ci è noto nel secondo decennio del Trecento con due importanti capolavori: la Maestà di Palazzo Pubblico a Siena e gli affreschi della cappella del cardinale Gentile di Montefiore nella Basilica Inferiore di Assisi. L’attività anteriore di Simone non ci è nota e dei vari tentativi che sono stati fatti per proporre una preistoria duccesca, o per riconoscere Simone tra gli aiuti di Giotto ad Assisi, nessuno appare del tutto convincente. In queste due opere si rivela un maestro ormai pienamente formato, ricercato da committenti di prestigio come il comune della sua città e gli Angioini di Napoli, esecutori testamentari del cardinale. Il suo inserimento nella professione è molto solido, sposando (1324) la figlia di Memmo di Filippuccio, pittore civico a San Gimignano, e avendo a disposizione una bottega nella quale lavorano cognati e fratelli. Di questo il solo riconoscibile per stile e qualità di stesura è Lippo Memmi, autore, nel 1317, di una replica della Maestà di Palazzo Pubblico nel palazzo comunale a San Gimignano. Non è però che queste prime opere ad affresco di Simone pongano in maniera particolare il problema della bottega. La Maestà di Siena, datata 1315, presenta le teste principali rifatte dallo stesso Simone nel 1321, sostituendo allo stile più austero un’eleganza gotica di artista che è stato alla corte di Napoli. Interamente finita a tempera, è una pittura di tono notturno, caratterizzata dal tono scuro del fondo di oltremare. Gli affreschi di Assisi hanno origine dal lascito del cardinale Gentile di Montefiore che muore nel 1312; come termine di orientamento cronologico serve poi la presenza fra i santi affrescati nel vano di ingresso
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di Ludovico di Tolosa, canonizzato nel 1317. La prima decorazione a essere realizzata è la bella vetrata (su disegni attribuiti allo stesso Simone o al «Maestro di Figline»), dove fra i molti santi Ludovico ancora non è presente; con i suoi fondi decorati e le figure vivissime è la più bella fra le vetrate della Basilica Inferiore. Per comprendere l’avvicinamento a Giotto e al tempo stesso il mondo diverso rispetto a quello del maestro fiorentino di Simone, si presta in maniera mirabile l’architettura del Sogno di sant’Ambrogio, apparentemente così simile alle Cappelle segrete degli Scrovegni; se analizziamo gli elementi che la compongono (il cui effetto di illusionismo inizia nel campo libero dalle figure), ci accorgiamo che segue ancora una grammatica assisiate. Rispetto alle potenzialità di sviluppo in uno spazio prospettico che ha Giotto, qui la prospettiva resta un fatto d’arte, qualcosa di «fictum», come è sempre per la costruzione spaziale in Simone: si pensi alla sfasatura prospettica nel trono dell’Annunciazione degli Uffizi o al paese di rocce e fortezze sbalzate del Guidoriccio. Lo spazio limitato di una storia giottesca potrebbe continuare al di là dell’indefinito del fondo d’oro fino ai risultati di una costruzione prospettica; le storie di Simone raccolgono invece la loro costruzione spaziale secondo una logica di piani rialzati, di forti convergenze che le racchiudono in una specie di nicchia alla quale non è data nessuna possibilità di sviluppo. I principi giotteschi di mimesi non sono certamente estranei a questo mondo, ma a chi avesse troppo insistito (giusto l’apprezzamento di Giotto nel Decameron) sull’intelletto dei savi e gli occhi degli ignoranti, è probabile che Simone avrebbe fatto notare che la bellezza non era schematizzabile in pregi di «disegno» e «colorire», ma (e qui poteva cadere anche un ricordo della dottrina di san Tommaso d’Aquino) era qualità naturale dei corpi e degli individui: chi mai, e con quale arte, avrebbe potuto fare che una campitura gialla fosse più bella di un fondo oro? Nel 1317 l’artista è a Napoli per una nuova prestigiosa commissione da parte degli Angiò, la pala che celebrava la canonizzazione di san Ludovico di Tolosa collocata in origine in San Lorenzo Maggiore (Napoli, Museo di Capodimonte). Il santo vi è rappresentato nell’atto di incoronare Roberto d’Angiò (era stato col suo ritiro nella vita religiosa che questi si era aperto l’accesso al trono), mentre la predella sviluppa in forma abbreviata le stesse costruzioni spaziali di Assisi. Non ben conservata, la pala è consunta nel colore e ha perduto gran parte dei cabochons che l’arricchivano come un prezioso oggetto di oreficeria; restano però alcuni frammenti di stesura mirabile come il gradino del faldistorio del santo con intarsi alla certosina mirabilmente imitati anche nella consistenza materica. Già dalle prime tavole martiniane si presenta il problema dei collaboratori, come nel politico smembrato proveniente da San Gimignano (Colonia, Wallraf Richartz Museum; Cambridge, Fitzwilliam Museum; Firenze, collezione privata), dove il Sant’Agostino di Cambridge rivela la più perfetta autografia; è la tavola più antica, sicuramente anteriore al 1320, dove compaia la doratura del fondo completamente lavorata a punzoni. Del 1319-1320 è il polittico di Pisa (Museo di San Matteo, da Santa Caterina), danneggiato da un incendio, che nelle parti meglio conservate, come la figura di Santa Caterina, rivela una stesura e una tecnica splendide. Al 1320 risalgono anche gli scomparti di polittico del Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, dove l’intervento dei collaboratori è palese nella Madonna, generalmente ritenuta di Lippo Memmi, e nell’elegante maestro del San Paolo, mentre Simone si riconosce soprattutto nel San Pietro. Un’ulteriore attività pisana, dopo il 1320, vede la grande ma affaticata tavola di bottega col Trionfo di san Tommaso d’Aquino, tuttora nella chiesa domenicana di Santa Caterina, e gli Apostoli seduti su faldistori (Pisa, Museo di San Matteo; Palermo, Collezione Chiaromonte Bordonaro; Altenburg, Lindenau Museum), probabilmente provenienti da San Paolo a Ripa d’Arno, una volta attribuiti a Barna da Siena, sono opera di un collaboratore squisitamente gotico attivo nella bottega martiniana fin verso il 1330, l’autore, forse, della Madonna nel Museo di Arte Sacra di Asciano.
306. Giotto, La conferma della regola, Firenze, Santa Croce, cappella Bardi.
307. «Parente di Giotto», Adorazione dei Magi, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco.
309. Giotto, Crocifissione, Monaco, Alte Pinakothek.
308. Giotto, Santo Stefano, Firenze, Museo Horne.
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Giotto e la sua bottega
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Anche la bottega di Giotto nel corso del secondo decennio del Trecento fa sentire la sua presenza in tutta la sua importanza, soprattutto negli affreschi della Basilica Inferiore di Assisi con le Storie dell’infanzia di Cristo (transetto destro) e con le vele con Allegorie francescane. Di datazione discussa, per le vele si pensa anche al 1330, i due cicli sembrano però databili entro il 1320, con precedenza (confermata dalla soprammissione degli intonaci) dell’Infanzia di Cristo; buoni indizi suggeriscono che questo ciclo fosse compiuto entro il 1317. La grande novità – e diversità rispetto alle opere di più tipica autografia giottesca – è costituita dal compiacimento per un colore chiaro e ricco, dove sono presenti rosa, gialli, bei bianchi di calce; inoltre il «Parente di Giotto» mostra un’attenzione tutta particolare per le sperimentazioni prospettiche, nella Disputa coi dottori o nella capanna dell’Adorazione dei Magi, «dove – osserva Roberto Longhi – i travi sono scorciati in una complessità di congegno che Paolo Uccello non avrebbe più raggiunto». Più grevi sono gli affreschi su fondo oro con le Allegorie francescane, prevalentemente del «Maestro delle Vele»; Berenson nel 1909 aveva buon gioco nel tessere l’elogio del Sassetta e delle sue Storie di san Francesco partendo dall’esame di questi affreschi e della loro estraneità allo spirito di povertà francescana. Nelle parti marginali (Cavalieri dell’Apocalisse) si ritrovano comunque quei colori intensi e cremosi, con apici di espressività molto marcati, che caratterizzavano le Storie dell’infanzia di Cristo. La pittura su tavola vede Giotto al tempo della cappella Peruzzi impegnato nella Dormitio Virginis del Museo di Berlino Dahlem, dove le figure viste di spalle tendono a costituire una specie di introduzione spaziale alla piccola storia, e nel dossale, diviso fra Monaco, il Metropolitan Museum, la National Gallery di Londra, il Gardner Museum di Boston e la Collezione Berenson, con Storie di Cristo. Storiette mirabili (come in stesura non autografa anche certe parti del trittico Stefaneschi) per come Giotto sappia individuare la superficie quale referente pittorico: le campiture di colore si dispongono nella costruzione di un’ordinata profondità, anche se non ancora di uno spazio geometrico, con una logica da pittura moderna che lascia all’oro un ruolo del tutto secondario. Il problema dei collaboratori si ripropone per il trittico Stefaneschi, destinato all’altar maggior della basilica di San Pietro in Vaticano (Pinacoteca Vaticana); il trittico a due facce fu dipinto verso il 1320 (se non al tempo del soggiorno napoletano di Giotto), con i santi presentati a figura intera. I colori sono chiari e festosi, gli interessi di sperimentazione prospettica si realizzano nello scorcio del pavimento presso la figura del Redentore in trono, o nel paesaggio bellissimo in cui è inserita la Decapitazione di san Paolo. Che l’esecuzione del polittico non sia riferibile direttamente a Giotto lo constatiamo in opere immediatamente precedenti o posteriori al trittico Stefaneschi, come il Santo Stefano del Museo Horne di Firenze decorato nella dalmatica dai più ingegnosi intrecci giotteschi, il Crocifisso Perkins della Pinacoteca di Perugia, la Crocefissione di Berlino, dove i colori della pala di San Pietro convivono con tutta l’evidenza plastica che ci attendiamo da Giotto. Il terzo decennio vede la realizzazione anche della cappella Bardi in Santa Croce, dove agli affreschi del registro più alto (Conferma della Regola e Rinuncia agli averi) ancora legati alla cromia ricca e cremosa delle grandi opere di bottega dipinte sul ’20, subentra nelle storie degli ordini inferiori quella «gotica pressura formale» che vi notava Roberto Longhi; probabilmente gli affreschi sono di poco anteriori al 1328, quando Giotto si stabilisce per alcuni anni presso la corte angioina di Napoli.
maestro senese era già presente nella Toscana orientale con la Madonna del Museo Diocesano di Cortona, dove figure dai moduli legati al mondo degli orafi senesi (reliquiario di San Galgano da Frosini, ora presso l’Opera del Duomo di Siena) vengono inserite in una forte struttura spaziale. Nel 1320 Pietro Lorenzetti aveva ricevuto la commissione da parte del vescovo ghibellino di Arezzo, Guido Tarlati, di un polittico per la pieve di quella città, tuttora ivi conservato, ma privo della predella e malamente abraso in molte parti del colore originale. Il suo stile è analogo, come già aveva notato il Cavalcaselle, a quello degli affreschi assisiati, che quindi vengono datati immediatamente prima o dopo. Il ciclo è noto per gli esperimenti di prospettiva e per le ombre portate e che compaiono per effetto della luce artificiale (il fuoco nel cammino della cucina) nell’Ultima cena, mentre il fondo di oltremarino è trasformato in qualcosa di naturale nella Cattura di Cristo, dove diviene un cielo notturno costellato di stelle. La nota principale che caratterizza queste prime opere di Pietro Lorenzetti è però l’espressività delle figure: si pensi alla Madonna col Bambino e al modo in cui si svolge il loro dialogo, al dolore pacato dei dolenti nella Deposizione, agli angioletti della Crocifissione, con le loro espressioni disperate. Questi, con le varianti di azzurro con cui sono resi, ci fanno apprezzare il colore ricco di Pietro Lorenzetti, che in questo ciclo è particolarmente vivace forse per adeguarsi alla cromia delle Storie dell’infanzia di Cristo giottesche. Quando incontriamo Pietro in una nuova opera datata, il polittico del Carmine del 1329 (Siena, Pinacoteca; musei delle università di Princeton e New Haven), si mostra arricchito di un’immanenza, di una nuova plasticità, che hanno fatto pensare a un rapporto con Maso di Banco. In realtà Maso a questa data non ci è ancora noto con opere che giustifichino un rapporto fra i due artisti; resta la maturazione in senso giottesco (ma svolta verso un’attenzione all’ambiente che non è più giottesca) che lo porta alla bellissima predella con Storie carmelitane, dove l’ambientazione tradizionale fra le rocce diviene un paesaggio in cui i personaggi si dispongono liberamente e le architetture si articolano in quinte che regolano con efficacia lo spazio rappresentato. Queste attenzioni alla resa di un ambiente complesso in cui disporre la narrazione compaiono anche nella tavola col Beato Agostino Novello di Simone Martini (Siena, Sant’Agostino, in deposito presso la
Ricerche spaziali in Pietro Lorenzetti e Simone Martini 310. Pietro Lorenzetti, Storie carmelitane, Siena, Pinacoteca Nazionale, 1329, I carmelitani alla fonte di Elia.
Verso il 1320 un altro grande maestro è presente ad Assisi, nel transetto sinistro della Basilica Inferiore, Pietro Lorenzetti, con il ciclo, parallelo a quello dell’Infanzia di Cristo, dedicato alle Storie della Passione. Il
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311. Simone Martini e Lippo Memmi, Annunciazione, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1333.
Pinacoteca Nazionale), che mostra un momento di avvicinamento alle tematiche di ambientazione lorenzettiane, la quale troverà seguito mirabile, dopo il 1330, nelle sperimentazioni spaziali del «Maestro degli Angeli ribelli», il misterioso autore della tavoletta del Louvre con la Caduta degli angeli ribelli e l’Elemosina di san Martino. Ma Simone Martini con la splendida Annunciazione (Uffizi, destinata al Duomo di Siena) ripropone tutte le bellezze dell’oro, con nuove sperimentazioni tecniche di grande finezza (oro coperto da colore, poi «trovato» radendo il colore stesso) che faranno da modello alla tecnica dei pittori senesi per tutto il secolo; l’angelo annunziante ha un mantello tutto dipinto a vernice sull’oro, con effetto di trasparenza estremamente raffinata. Datata 1333, la tavola è firmata sia da Simone Martini che da Lippo Memmi, che si riconosce bene nelle due figure laterali con Sant’Ansano e Santa Giulitta per la stesura tratteggiata e regolare e per la tendenza a interpretare i moduli martiniani secondo una certa regolarità giottesca. Al di là delle geniali invenzioni tecniche, Simone sembra riconoscibile nel tondo con la vivacissima figura di Isaia nella cornice. Probabilmente la doppia firma voleva richiamare l’attenzione su Lippo Memmi in vista del trasferimento di Simone presso la corte papale di Avignone e sul passaggio a lui della direzione della bottega; dopo un periodo in cui può aver fatto la spola tra Siena e la città provenzale (fin verso il 1333), Simone vi si stabilisce definitivamente, trovando un clima colto allietato dall’amicizia di Francesco Petrarca; l’artista muore «in curia» nel 1344. Le opere avignonesi di Simone si distinguono per l’alto livello di autografia: le tavolette con Storie della Passione divise fra il Louvre, Berlino Dahlem e il museo di Anversa (dipinte per un vescovo di casa Orsini) o quella col Ritorno dopo la disputa coi dottori della Walker Art Gallery di Liverpool. Ma è soprattutto la miniatura eseguita per Francesco Petrarca nel Virgilio Ms. S.P. 10.27 della Biblioteca Ambrosiana che ci introduce al nuovo ambiente in cui Simone si trova in Avignone. Simone è citato nel Canzoniere per aver dipinto un ritratto di Laura di Sade (cfr. Sonetti, lxxvii e lxxviii); nella miniatura milanese la confidenza col Petrarca trova un’espressione del tutto letteraria con la rappresentazione del commentatore, Servio, che mostra il poeta a un guerriero (Eneide), mentre in basso un contadino pota le viti (Georgiche) e un pastore è in atto di mungere una pecora (Bucoliche). Siamo davanti non a un’illustrazione, ma a un’immagine di accompagnamento di un testo; con i suoi colori bassi e caratterizzati dall’azzurro, che tendono al monocromo, i due distici inseriti nel riquadro che spiegano il ruolo di Servio e quello in calce che celebra il pittore: «Mantua Virgilium qui talia carmina finxit/Sena tulit Simonem digito qui pinxit». Mentre Simone raccoglie l’elogio del Petrarca (la miniatura è databile fra il 1338 e il 1343) e i successi avignonesi, la bottega memmiana esegue i famosi affreschi con Storie della vita di Cristo nella navata destra della Collegiata di San Gimignano (dopo il 1333), tradizionalmente attribuiti a Barna da Siena, ma chiaramente opera di un gruppo nel quale si distinguono più maestri: Lippo Memmi probabilmente si riconosce in figure come quella di Cristo nella Crocifissione o la fante nell’Annunciazione, un raffinato maestro di gusto più grafizzante caratterizza la Flagellazione, mentre il cattivo ladrone, ancora nella Crocefissione, presenta effetti di resa plastica che ne fanno una delle figure più interessanti di tutto il Trecento senese. Quindi Barna era probabilmente uno di questi maestri; un Barna di Bertino infatti compare citato in un documento del 1340, e non essendo maestro autonomo ma un lavorante di Lippo Memmi, il suo nome non può figurare né in contratti né in note di pagamento.
Gli anni di Giotto a Napoli (1328-1333) 312. Simone Martini, miniatura virgiliana, Milano, Biblioteca Ambrosiana.
313. Simone Martini, Il Beato Agostino Novello ed episodi della sua vita, Siena, Soprintendenza, particolare, Miracolo del bambino caduto dal balcone.
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Gli anni dal 1328 al 1333 sono caratterizzati dall’assenza di Giotto dalla Toscana, e lo vedono impegnato in una serie di imprese per la corte angioina delle quali non restano che pochi frammenti, nella cappella
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314. «Maestro dell’Annunciazione Spinola», Annunciazione Spinola, Torino, collezione privata, particolare. 315. Puccio Capanna, Annunciazione, Assisi, Istituto San Giuseppe, 1341 ca., particolare. 318. Taddeo Gaddi, Annuncio ai pastori, Firenze, Santa Croce, cappella Baroncelli.
319. Bernardo Daddi, Madonna col Bambino, particolare del trittico, Firenze, Museo del Bigallo, 1333.
316. Maso di Banco, Madonna della Cintola, Berlino-Dahlem, Gemäldegalerie. 317. Maso di Banco, trittico, New York, Brooklyn Museum.
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320. Ambrogio Lorenzetti, San Nicola dota le fanciulle povere, Parigi, Museo del Louvre, particolare.
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di Castelnuovo e nel coro di Santa Chiara. A Firenze si delinea una situazione nuova, aperta ad artisti di varia estrazione. Oltre a Bernardo Daddi e al colorito «Maestro di San Martino alla Palma» che già lavoravano nel terzo decennio, iniziano un’attività autonoma Taddeo Gaddi e Maso di Banco, mentre da Siena vengono entrambi i Lorenzetti; il Vasari ricorda anche opere di Simone Martini, ma essendo perdute, non possiamo valutare l’attendibilità dell’attribuzione né, tantomeno, se erano riferibili a questo momento. Il maestro più vivo che esce dall’ambito giottesco è certamente il Puccio Capanna, ricostruito da Longhi col nome vasariano di «Stefano Fiorentino». Il reperimento di un documento del 1341 relativo all’affresco da eseguire sulla porta di San Ruffino ad Assisi (frammento nella Pinacoteca Comunale della cittadina umbra) mostra che il misterioso maestro del «dipingere unito» andava però identificato col Capanna; evidentemente il Vasari era depositario di una tradizione che a metà Cinquecento aveva già confuso il nome del maestro. È il solo pittore che sappia coniugare lo stile della cappella Peruzzi con le sperimentazioni cromatiche che il «Parente di Giotto» proponeva nelle Storie dell’infanzia di Cristo o nel trittico Stefaneschi; è dubbio se la splendida tavoletta dell’Annunciazione Spinola – e le sue compagne – sia sua o di un altro maestro che sperimenti un discorso analogo fin dal secondo decennio; certamente possiamo riconoscere Puccio-«Stefano» nell’altra tavoletta a scomparti della Pinacoteca Vaticana con la Madonna fra varie sante, alla soglia del quarto decennio. Il gruppo delle opere di Assisi è stilisticamente molto omogeneo e si deve datare attorno al 1341 del documento noto. L’opera di Puccio più impegnativa è il grande affresco della Crocefissione nell’aula capitolare del Sacro Convento, poi, l’Incoronazione della Vergine, incompiuta nella cantoria della Basilica inferiore; nell’intradosso dell’arco in cui questa è inserita sono affrescate due piccole Storie di san Stanislao, con scorci ed effetti di distanza in cui la pittura «unita» è usata per effetti di dolce scansione spaziale. Ma sono soprattutto i frammenti dell’Istituto San Giuseppe che, da Assisi, rimandano a quella che dovette essere la presenza di Puccio Capanna a Firenze (si veda la bellissima Vergine Annunziata) dopo il 1330, quando sperimentazioni di questo genere dovettero essere di guida nella formazione dello stile più caratteristico di Maso di Banco, dal quale studiosi come Berenson o Toesca non distinguevano «Stefano Fiorentino»-Puccio Capanna. Maso, dopo un possibile soggiorno nella bottega napoletana di Giotto, ci è noto con tre tavolette con le Storie della Sacra Cintola (Chantilly, Budapest e Berlino), incantevoli pezzi di bravura che si possano collocare verso il 1330. Le stesure sono quanto mai «abbreviate» (secondo la definizione del Ghiberti, per cui Maso «abbreviò» l’arte della pittura): la Madonna della Cintola di Dahlem è infatti un capolavoro di sintetismo nella composizione non meno che nel colore. Sul 1333 si data la frammentaria Incoronazione della Vergine di Santa Croce, dato che lo stile pieno, maestoso, maturato da Maso in quest’affresco trova un riflesso nel trittico datato di quest’anno di Bernardo Daddi del Museo del Bigallo. Si deve osservare che, sempre nel ’33, il Daddi datava il San Paolo di Washington, dove è ancora legato a moduli del decennio precedente che si conoscono nel «Maestro di San Martino alla Palma»; nel corso dell’anno con la tavoletta del Bigallo si volgerà allo stile più masesco da «usignolo meccanico» della pittura fiorentina con cui sarà popolare negli anni ’30 e ’40 del Trecento. I famosi affreschi di Maso della cappella Bardi di Vernio in Santa Croce con le Storie di san Silvestro vengono eseguiti in seguito al testamento di Gualtieri de’ Bardi che muore nel 1336. Ragioni sia araldiche che pratiche, nel rapporto tra i dipinti e il monumento in marmo che vi viene addossato, dimostrano che furono eseguiti subito dopo il mandato testamentario, forse prima ancora della morte di Giotto. Gli affreschi di Santa Croce si pongono quasi come punto di passaggio fra il primo Maso, tutto appassionato nelle sue ricerche di colore, e lo stile più largo del maestro che troviamo nelle opere più tarde; stilisticamente
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l’ipotesi di Gert Kreytenberg che egli sia da identificarsi con lo scultore dei Sacramenti del Campanile non è che giustificata da questa evoluzione verso soluzioni più plastiche, più «massive», come si dice in inglese per maestri giotteschi. Dopo le attenzioni archeologiche (nel fondo una torre rotonda allude con un elemento ricalcato sul vero alle mura di Roma) del Miracolo di san Silvestro della cappella Bardi, l’iconografia di alcuni particolari del trittico mirabile del Brooklyn Museum sembra rivelare un’attenzione alla scultura antica: la Madonna della Natività, con la gamba piegata, rivela una posizione da naiade, che va ben oltre quanto aveva proposto Andrea Pisano nella porta del Battistero, mentre anche il Bambino nudo sembra rimandare a un modello classico. Delle tavole di Maso si è soliti riferire al 1341 la Madonna di Berlino Dahlem che si accompagnava al Sant’Antonio da Padova del Metropolitan Museum, al San Giovanni battista e al Sant’Antonio Abate andati distrutti nella seconda guerra mondiale, identificandola con «figura et immago gloriose Virginis Marie» che, con un San Giovanni e un San Francesco, fu sequestrata da Ridolfo de’ Bardi e soci in quell’anno. Ma sarà da vedervi piuttosto un momento immediatamente precedente alle Storie di san Silvestro, con certi sintetismi ancora legati allo stile delle prime opere. Per il quinto decennio resta invece il polittico di Santo Spirito, con la figura bellissima della Maddalena; la nuova tendenza monumentale di Maso fa però presagire gli sviluppi, non sempre felici, che la pittura fiorentina dei decenni successivi troverà con gli Orcagna. Taddeo Gaddi, dopo un preludio costituito dagli affreschi nella cappella del castello dei conti Guidi a Poppi e dalla copia frammentaria della Maestà di Giotto in Santa Verdiana a Castelfiorentino, ci è noto dagli affreschi della cappella Baroncelli nel transetto destro di Santa Croce; la Madonna affrescata nell’arcosolio decorato da Giovanni di Balduccio nel 1328 dà un indizio di cronologia che non sempre è stato messo in rapporto con tutta la decorazione della cappella, che cade comunque negli anni in cui Giotto è a Napoli. Con stile un po’ duro Taddeo qui realizza alcune mirabili sperimentazioni di illusionismo e, soprattutto, di luce nel notturno dell’Annuncio ai pastori, ma ancor di più nelle Virtù della volta, «quasi da raggiungere effetti di bianco e nero», commentava Roberto Longhi nel 1939. Dopo la frammentaria Deposizione che faceva da riscontro all’Incoronazione di Maso in Santa Croce e il trittico datato 1334, compagno di quello del Bigallo di Bernardo Daddi (Berlino Dahlem), troviamo Taddeo Gaddi, prima del 1343, nelle Storie di Giobbe del Camposanto di Pisa, ritenute a lungo, sulla scorta del Vasari, opera di Giotto e che ancora al Toesca (1931) apparivano di qualità troppo alta per essere sue. Qui nella «mirabile veduta lacustre» della Missione a Satana si trova, come osserva Longhi, «la distanza più intensa, più meditata, più veramente lontana che il Trecento ci abbia lasciato». Una cronologia delle opere più avanzate del Gaddi (si hanno sue notizie fino al 1366) è estremamente difficile per la costanza di stile che dimostra dopo il ’40; fra le sue opere su tavola si ricorderanno l’Annunciazione del Museo Bandini di Fiesole e la splendida Croce scoperta da Massimo Ferretti a Monte San Quirico, alle porte di Lucca. Nella pittura di Bernardo Daddi è stata spesso visto un influsso senese; in realtà questo maestro, su una base di stile gentile che si era formato in parallelo al «Maestro di San Martino alla Palma», unisce (nel ricordato trittico del 1333) la conoscenza di Maso, che caratterizzerà le sue opere fino alla sua scomparsa nella peste del 1348, in un’attività gradevole ma un po’ stereotipata (Trittico dei Magi Seilern, Londra Courtauld Institute), apprezzabile soprattutto in opere ben conservate come lo scomparto con San Giovanni Battista del grande polittico dipinto per la chiesa di San Pancrazio oggi agli Uffizi. I senesi a Firenze sono però presenti di persona con Pietro e Ambrogio Lorenzetti, negli anni dell’assenza napoletana di Giotto. Va datata in questo momento la pala di Pietro con la Beata Umiltà e Storie della sua vita (Uffizi, salvo due scomparti a Berlino Dahlem), la sola opera fiorentina del maestro che ci sia rimasta.
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Ambrogio invece ha un rapporto più stretto con Firenze, fin dal 1319, data della sua prima opera nota, la Madonna proveniente da Sant’Angelo a Vico l’Abate (Firenze, costituendo museo diocesano), una chiesa del Chianti fiorentino presso Mercatale Val di Pesa. Nel terzo decennio Ambrogio ci è noto per gli affreschi di San Francesco a Siena, San Luigi di Tolosa davanti al papa e il Martirio dei francescani, poi, a Firenze, si trovano le due tavole con Storie di san Nicola (Uffizi). Qui l’esperienza del polittico del Carmine del fratello Pietro porta una visione delle architetture, dell’ambiente, dello spazio, che non accompagna più le figure (com’era ancora in Pietro) ma che costruisce un ambiente in cui si viene a disporre la «storia». Il polittico di san Procolo (Uffizi, 1332) ci mostra Ambrogio in una routine che caratterizza opere anche impegnative come la Maestà di Massa Marittima, mentre per ammirarlo nella sua genialità un po’ anarchica, si può ricorrere alle tavolette gemelle del Louvre e dell’Università di Yale a New Haven con San Nicola che dota le fanciulle e San Martino e il povero, veri capolavori di ambientazione e caratterizzazione delle figure. 322. Ambrogio Lorenzetti, Buongoverno, Siena, Palazzo Pubblico, 1338-1340, particolare, L’uscita dalla città.
Il ritorno di Giotto a Firenze, soggiorni a Bologna e Milano Il ritorno di Giotto a Firenze avviene nel 1334, su invito del comune che desiderava avvalersi della sua esperienza in vista soprattutto di lavori di architettura (nel novembre del 1333 la città era stata sconvolta da un’inondazione che aveva travolto le mura, distrutto ponti e strade); nel luglio viene fondato il nuovo campanile della cattedrale, il campanile di Giotto; l’edificio quale fu iniziato dal maestro aveva gravi difetti strutturali che furono corretti dal suo successore, Andrea Pisano. Probabilmente resta un ricordo del progetto di Giotto in una pergamena dell’Opera del Duomo di Siena che, nella parte costruita al tempo della sua direzione dei lavori, corrisponde al campanile di Firenze. L’attività pittorica del maestro, e della sua bottega, procede però in maniera piuttosto stanca, col polittico bolognese per Gera Pepoli (Bologna, Pinacoteca Nazionale), con l’Incoronazione Baroncelli (Santa Croce), dipinta per la cappella affrescata da Taddeo Gaddi, con l’affresco con la Madonna nella sala ter-
323. Ambrogio Lorenzetti, Buongoverno, Siena, Palazzo Pubblico, particolare.
321. Buffalmacco, Il Trionfo della Morte, Pisa, Camposanto.
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324. Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano alla presa di Montemassi, Siena, Palazzo Pubblico, 1330.
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rena del Palazzo del Podestà; qui anche la cappella è decorata «da Giotto», soltanto che lo stemma del podestà in carica risale alla fine del 1337, e il maestro era morto all’inizio dell’anno: è un’opera quindi della bottega di cui ci mostra la capacità di procedere con uno stile giottesco anche in assenza del maestro. Due soggiorni in altre città caratterizzano questi ultimi anni di Giotto: a Bologna e a Milano. Nella città lombarda si reca al servizio di Azzone Visconti (1333) e nel suo palazzo esegue, probabilmente a monocromo, una Gloria mondana, cioè la gloria circondata da cavalieri ed eroi dell’antichità. Già distrutta nel 1362, si è voluto vedere una sua derivazione nel disegno di Jacopo Avanzi del 1379 e nella miniatura a monocromo di Altichiero dei manoscritti latini 6069 I e F della Bibliothèque Nationale di Parigi, ma queste derivazioni non hanno la mimica che caratterizzerebbe l’azione in un dipinto giottesco; derivano probabilmente da semplici descrizioni verbali dell’affresco perduto. Un bellissimo riflesso del soggiorno di Giotto a Milano, dovuto alla sua bottega o a maestri autonomi, è la danneggiata Crocefissione di San Gottardo in Corte, di una cultura legata a Puccio Capanna e al maestro del perduto affresco con l’Assunta del Camposanto di Pisa. Più complessi sono i problemi legati al soggiorno a Bologna, dove esisteva una scuola locale di pittura, non solo di miniatura, in via di formazione. Il soggiorno di Giotto, che esegue gli affreschi della cappella della fortezza di Galliera, va posto entro il 1334, quando la fortezza stessa fu distrutta; quindi Giotto si era recato a Bologna non dalla vicina Firenze ma, data l’importanza del lavoro (il cardinal Bertrando del Poggetto pensava di trasferire la curia stessa a Bologna), interrompendo il soggiorno napoletano. La situazione bolognese, verso il 1330, è dominata dalla personalità dello «Pseudo Jacopino», un maestro che, quando si datava nella seconda metà del Trecento, era stato identificato con Jacopino de’ Bavosi. La cronologia dello «Pseudo Jacopino» è molto incerta, ma è sicuramente dopo il soggiorno di Giotto a Bologna che evolve verso una maggiore regolarità plastica e, in opere come il Crocifisso di San Giovanni in Monte o il grande affresco di San Giacomo alla battaglia di Clavijo della Pinacoteca di Bologna, raggiunge risultati paralleli a quelli di Vitale. Di Vitale solamente la tavoletta della Collezione Longhi con Storie di santa Caterina d’Alessandria può suggerire una data anteriore al soggiorno bolognese di Giotto. Lo stile di Vitale, di un plasticismo pulsante, splendido ed espressivo, è maturo verso il 1340 con il turbinante affresco della Natività dipinto nella controfacciata dell’oratorio di Mezzaratta e oggi in Pinacoteca Nazionale di Bologna.
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Il superamento di Giotto, che pure resta un modello inevitabile per la nuova pittura, caratterizza la vicenda più viva della pittura verso il 1340. Collegati all’espressività dei bolognesi (tanto che Longhi aveva pensato a un maestro emiliano) sono gli affreschi del Camposanto di Pisa con il Trionfo della Morte, il Giudizio finale e le Scene di vita eremitica. Citati dal Vasari come opera dell’Orcagna (che aveva dipinto un soggetto analogo in Santa Croce), riferiti nell’Ottocento ai Lorenzetti, dopo l’ipotesi bolognese e un’attribuzione al pisano Francesco Traini, gli affreschi hanno trovato una nuova interessante attribuzione a Buffalmacco (l’artista delle novelle del Decameron boccacciano) da parte di Luciano Bellosi. Ma più che il nome dell’artista è importante lo spostamento nel quarto decennio del grande ciclo di affreschi, con la revisione di tutta la cronologia della pittura italiana che ha comportato: questi affreschi, o le opere dello «Pseudo Jacopino», si pongono come un forte apice espressivo nel quarto decennio del Trecento, non nel sesto o nel settimo; ci mettono di fronte a un’espressività ancora gotica, non a un preludio del mondo tardogotico.
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A Buonamico di Martino, Buffalmacco, le fonti riferiscono i deperitissimi affreschi della cappella di San Jacopo nella Badia a Settimo, riferendoli al 1315; nelle loro parti più leggibili, si scorge un riflesso dello stile della cappella Peruzzi di Giotto. Lo stile di Buonamico quale ci è noto nei grandi affreschi di Pisa (sulla loro cronologia orienta un documento che lo vede abitare in città nel 1336) deve essere maturato dopo il 1320; un affresco a monocromo scoperto alcuni anni fa nella chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze, un Sant’Onofrio, e attribuito da Millard Meiss al «Maestro di Figline», è probabilmente suo e dà una traccia preziosa per capire i moduli gotici, non giotteschi, su cui poté maturare il suo stile. Il Trionfo della Morte e le altre storie del Camposanto pisano si presentano come grandi affreschi-tabellone, privi di un punto di coordinamento prospettico (anche se senza contraddire una visione spazializzata della realtà), e, data la loro grandezza, sono indipendenti dall’introduzione spaziale della cornice. Questo modo di costruire grandi affreschi che non si abbracciano con un solo sguardo caratterizza ormai sia il Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti (1338-40) che, in parte, le Storie di Giobbe di Taddeo Gaddi a Pisa. L’origine di questo tipo di rappresentazione si può forse individuare nelle grandi Crocifissioni, di Pietro Lorenzetti ad Assisi e di maestri vicini a Francesco Traini nello stesso Camposanto di Pisa. Lo stesso Simone Martini nel Guidoriccio (1330; la data iscritta sull’affresco, del 1328, si riferisce al fatto celebrato) giunge all’abolizione, quasi, della cornice, di cui non resta che una piccola fascia con stemmi del comune di Siena e, nonostante l’immanenza spaziale degli edifici rappresentati, realizza una rappresentazione non prospettica. Chi raggiunge, in un affresco di destinazione civile, il risultato più ammirevole in questa nuova formula di rappresentazione è Ambrogio Lorenzetti con gli affreschi della sala della Pace in Palazzo Pubblico a Siena dipinti fra il 1338 e il 1340. Al di sotto del soffitto a travicelli corre un fregio nel quale sono inseriti compassi con figure allegoriche (i Pianeti, le Stagioni), con il bellissimo Inverno che tiene in mano una palla di neve o l’Estate con un mazzo di spighe e di agli. La parete breve contiene le figure allegoriche del Buongoverno (in parte, come una piccola porzione della rappresentazione della città, dovute a un restauro di Andrea di Vanni), con la Pace vestita di un camicione che doveva richiamare una veste all’antica; a sinistra è sviluppata la danneggiata raffigurazione del Cattivo governo, sia nei suoi effetti che con le figure allegoriche. A destra, infine, c’è la grandiosa raffigurazione della città ben governata, con i suoi traffici e i suoi svaghi, e della sua campagna; un vero capolavoro nel rendere gli effetti spaziali senza un unico punto di fuga, e una rappresentazione realistica che rinuncia alle rocce della convenzione giottesca per darci una visione dall’alto di un vasto territorio. È probabilmente ammirando lo stile di questo momento (come i frammenti del Martirio dei francescani a Tana, Siena, Rettorato dell’Università, da San Francesco) che Lorenzo Ghiberti considerava Ambrogio Lorenzetti il più grande dei pittori senesi, anche rispetto a Simone Martini. Questa libertà nell’affrontare nuovi soggetti, non previsti dai canoni della pittura sacra o profana del primo Trecento, porta a ulteriori sperimentazioni, come quella dei due piccoli Paesaggi attribuiti ad Ambrogio della Pinacoteca di Siena; ma un certo accademismo caratterizza Ambrogio, non meno di Pietro Lorenzetti, negli anni dopo il 1340. Si veda, pur con i suoi efficaci effetti spaziali, la Presentazione al Tempio dipinta da Ambrogio nel 1342 per il Duomo di Siena (Galleria degli Uffizi), o si consideri la celebratissima Annunciazione (1344) della Pinacoteca di Siena, dal pavimento in prospettiva elaborato in maniera «troppo vistosa», come notava il Toesca, e senza coordinamento con le figure. Pietro in questi suoi ultimi anni ci dà la Natività della Vergine (1342, Siena, Museo dell’Opera del Duomo), con i suoi facili effetti di prospettiva, e la stanca Madonna col Bambino e angeli dipinta per San Francesco a Pistoia (Galleria degli Uffizi), con una data non perfettamente leggibile posteriore al 1340, ma anche il forte affresco con Un armato ai piedi della Vergine della chiesa di San Domenico a Siena.
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La peste del 1348 infierirà sui pittori di Firenze e Siena; da Pistoia si chiedono informazioni su quali sono i migliori pittori sopravvissuti nelle due città, in vista dell’esecuzione di un polittico per San Giovanni Fuorcivitas: a Firenze si segnalano Taddeo Gaddi (che avrà la commissione), Stefano, l’Orcagna e Nardo di Cione, Puccio di Simone e un misterioso Francesco (che stava presso l’Orcagna); Jacopo di Mino del Pellicciaio, Bartolomeo Bulgarini (il «Maestro di Ovile» o «Ugolino Lorenzetti») e un Pavoluccio di Lazzerino da Lucca, di cui non ci sono note le opere, sono i maestri ormai disponibili a Siena. Si ha l’impressione di un panorama estremamente sfasato della pittura toscana a metà Trecento. Il destino nella seconda metà del secolo è quello di una scuola senese con alcuni buoni pittori ma che non sono più grandi personalità. A Firenze le grandi figure di Giovanni da Milano e di Giottino non riescono a imporre un livello di produzione costante, e si assiste non solo al successo degli Orcagna (il maestoso Andrea, il più gentile Nardo di Cione) ma alla scelta per la commissione di polittici anche importanti di artisti dell’assoluta mediocrità di un Giovanni del Biondo: una crisi completa, più che negli artisti, nel gusto e nell’occhio dei committenti.
Nota Bibliografica L’opera fondamentale sull’arte del xiv secolo è Il Trecento (Torino 1951) di P. Toesca; a questo si accompagnano i vari saggi di R. Longhi riuniti nel vii volume (Firenze 1974) delle sue Opere complete. Carattere di maggiore sistematicità hanno alcuni studi di F. Bologna, La pittura delle origini (Roma, 1962) e il bellissimo I pittori alla corte angioina di Napoli, 1266-1414 (Roma 1969), mentre sono sempre una lettura stimolante i saggi di Berenson sui pittori fiorentini e i pittori dell’Italia centrale ristampati nelle varie edizioni de I pittori italiani del Rinascimento. Fra le opere straniere la più pregevole è R. Oertel, Die Frühzeit der italianischen Malerei (Stuttgart 1957, trad. inglese, Londra 1966); mentre un buon sommario delle opinioni della scuola americana è dato da B. Cole con Giotto and Fiorentine Painting 1280-1375, New York 1976. Per opere filologicamente più aggiornate si veda il volume di L. Bellosi, La pecora di Giotto (Torino 1985), che ha rivisto la cronologia degli affreschi di Assisi, e le parti curate da F. Todini sulla miniatura nel discontinuo catalogo della mostra Francesco d’Assisi (Perugia, Todi, Foligno, Milano 1982); mentre, in generale, sulla miniatura italiana del Duecento il catalogo di F. Avril e M.T. Gousset (Manuscrits enluminés d’origine italienne, ii, xiiime siecle, Paris 1984) può servire da ottimo punto di riferimento. Sulla miniatura bolognese cfr. il mio La miniatura bolognese. Scuole e botteghe 1270-1340, Bologna 1981. Vedi anche: E. Castelnuovo, Arte delle città, arte delle corti tra xii e xiv secolo, in Storia dell’arte italiana, 5, Torino 1983, e L. Bellosi, La rappresentazione dello spazio, ivi, 4, 1980. Un’opera a cui fare riferimento per Giotto è Giotto e la sua bottega di G. Previtali (Milano 1967 e 1974; ed. aggiornata a cura di A. Conti e G. Ragionieri, Milano 1993); sulla pittura riminese cfr. C. Volpe, La pittura riminese del Trecento, Milano 1965; sulla spazialità giottesca si torni sempre al Giotto spazioso (1952 ristampato nel citato vii volume delle Opere complete) di R. Longhi. Sulla pittura a Siena v. Il Gotico a Siena, catalogo della mostra (Siena), Firenze 1982, il catalogo della mostra Simone Martini e «chompagni» (Siena 1985), gli Atti del convegno senese del 1985 «Simone Martini» (Firenze 1988) e la bella monografia di A. Martindale (Simone Martini, London 1987). Per Duccio costituisce un buon punto di riferimento, nonostante la veste divulgativa, la monografia di G. Ragionieri (Duccio, Firenze 1989); sull’affresco con la probabile rappresentazione di Giuncarico si vedano i contributi di M. Seidel e L. Bellosi sul n. 28 (gennaio 1982) di «Prospettiva». Sui maestri di tendenza gotica del secondo e terzo decennio del Trecento si veda la discussione di M. Boskovits nella nuova edizione (Firenze 1984) del ix volume della sezione iii del corpus della pittura fiorentina di R. Offner, l’articolo di C. Bertelli sul Maestro del Codice di San Giorgio («Paragone», n. 249, 1970) e Un pittore del Trecento, il Maestro di Figline, cat. della mostra (Figline Valdarno), Firenze 1980.
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Sui Lorenzetti cfr. il volume postumo di C. Volpe, Dietro Lorenzetti, Milano 1989, e il catalogo di Berlino del Boskovits (Frühe italienische Malerei, Berlino 1987) con importanti precisazioni di cronologia. Sugli allievi di Giotto e i maestri attivi fin verso il 1340 si segnalano i saggi di Longhi su Stefano Fiorentino (1951) e Taddeo Gaddi (1959) ristampati nel ricordato volume vii delle Opere complete. Lo studio più sistematico è offerto da C. Volpe [Il lungo percorso del «dipingere dolcissimo e tanto unito», in Storia dell’arte italiana, 5, Torino 1983); inoltre v. il libro di L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte (Torino 1974), con le sue nuove aperture sulla cronologia di tutta la pittura italiana. Si tengano anche presenti l’articolo di M. Ferretti su Taddeo Gaddi (nn. 317-19 di «Paragone», 1976), e quello dove G.H. Kreytenberg («The Burlington Magazine», cxxi, 1979) ha riaffrontato il tema di Maso scultore, mentre per gli ultimi anni di Giotto e il suo insuccesso come architetto si legga: M. Trachtenberg, The Campanile of Florence Cathedral, New York 1971. Sulla pittura bolognese si vedano gli scritti di R. Longhi raccolti in Lavori in Valpadana, vi vol. delle Opere complete, Firenze 1973, e il volume che riunisce quelli di F. Arcangeli, Pittura bolognese del Trecento. Scritti di Francesco Arcangeli, Bologna 1978, e, recentemente, il catalogo della mostra Francesco da Rimini e gli esordi del gotico bolognese, Bologna 1990. Fra le opere generali si deve poi segnalare un importante corpus grafico: B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, Berlin 1968 e segg., e vedine la recensione di Luciano Bellosi («Bollettino d’Arte», 1985). Infine su settori particolari vorrei ricordare due miei interventi, sulle tecniche, Tempera, oro, pittura a fresco: la bottega dei primitivi, in La pittura in Italia, Duecento e Trecento, ii ed., Milano 1986; e sulla posizione sociale dell’artista (controllata soprattutto attraverso i contratti), L’evoluzione dell’artista, in Storia dell’arte italiana, 2, Torino 1979.
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Tav. 60. Taddeo Gaddi, Patto di Satana con Dio, Pisa, Camposanto. Tav. 61. Maso di Banco, Miracolo di san Silvestro, Firenze, Santa Croce, cappella Bardi di Vernio. Tav. 62. Ambrogio Lorenzetti, Storie di san Nicola, Firenze, Galleria degli Uffizi. Tav. 63. Giovanni da Rimini, Crocifisso, Mercatello sul Metauro, San Francesco, 1309. Tav. 64. Giovanni da Rimini, Madonna col Bambino e santi, Faenza, Pinacoteca Civica. Tav. 65. Pietro da Rimini, Cena dell’abate Guido, Pomposa, abbazia, refettorio. Tav. 66. Tommaso da Modena, Il cardinale Ugo di Billon, Treviso, Capitolo dei domenicani, 1352. Tav. 67. Vitale da Bologna, San Giorgio e il drago, Bologna, Pinacoteca Nazionale. Tav. 68. Vitale da Bologna, Madonna dei Denti, Bologna, Museo Davia Bargellini, 1345. Tav. 69. Giusto de’ Menabuoi, Incoronazione della Vergine, Londra, The National Gallery, particolare del trittico, 1367. Tav. 70. «Maestro del 1333», Crocifissione, Parigi, Museo del Louvre, 1333. Tav. 71. Giovanni da Milano, Pietà, Firenze, Accademia, 1365. Tav. 72. Giovanni da Milano, polittico di Ognissanti, Firenze, Galleria degli Uffizi, predella, Coro delle Vergini. Tav. 73. Giusto de’ Menabuoi, Annunciazione, Padova, Battistero, 1374-1378 ca. Tav. 74. Giusto de’ Menabuoi, Creazione del mondo, Padova, Battistero, 1374-1378 ca. Tav. 75. Altichiero, Decollazione di san Giorgio, Padova, oratorio di San Giorgio. Tav. 76. Jacopo Avanzi, La nave guidata dall’angelo e Il seppellimento del santo, Padova, chiesa del Santo, cappella di San Giacomo, 1374-1379. Tav. 77. Matteo Giovannetti, Profeti, Avignone, Palazzo dei Papi, sala dell’Udienza. Tav. 78. Jacquemart d’Hesdin, Salita al Calvario, foglio staccato, Parigi, Museo del Louvre.
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Tav. 79. Melchior Broederlam, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto, pannello dipinto del polittico della certosa di Champmol, Digione, Musée des Beaux Arts. Tav. 80. Jean Malouel, «Grande Pitié ronde», Parigi, Museo del Louvre. Tav. 81. Pol e Jean de Limbourg, Très Riches Heures du Duc de Berry, Chantilly, Musée Condé, Mese di Giugno. Tav. 82. «Maestro delle Ore del Maresciallo Boucicaut» (Jacques Coene?), Parigi, Musée Jacquemart André, ms. 2, c. 73v, Adorazione del bambino. Tav. 83. «Maestro del Guiron le Courtois», Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. nouv. acq. 5243, c. 3v. Tav. 84. Michelino da Besozzo, Libro d’Ore, New York, Pierpont Morgan Library, ms. 944, San Luca evangelista. Tav. 85. Michelino da Besozzo, Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 5888, 1408, Gian Galeazzo Visconti incoronato da Gesù. Tav. 86. Giovannino de’ Grassi, Offiziolo Visconti, Firenze, Biblioteca Nazionale, Banco Rari 397, c. 1v, Elemosina di Gioacchino e Anna. Tav. 87. «Maestro del Libro d’Ore Latin 757», Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 757, c. 350r, Sant’Orsola e le compagne. Tav. 88. Gentile da Fabriano, polittico di Valle Romita, Milano, Pinacoteca di Brera, particolare, Incoronazione della Vergine. Tav. 89. Pisanello, San Giorgio e la principessa, Verona, Sant’Anastasia. Tav. 90. Pisanello, La Vergine con il bambino e i santi Giorgio e Antonio Abate, Londra, The National Gallery. Tav. 91. Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1423.
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Capitolo undicesimo
LA PITTURA DEL TRECENTO IN VALLE PADANA
La straordinaria diffusione del nuovo linguaggio di Giotto, alimentata dai frequenti spostamenti e dalle numerose commissioni in vari territori della penisola, trova in Valle Padana una sua vicenda particolarmente ricca e originale. In Emilia, nel Veneto, in Lombardia, infatti, l’esperienza giottesca agisce come fermento di maturazione di un linguaggio artistico locale profondamente diverso, contrassegnato da una cordiale adesione alla realtà umana dei fatti concreti, dell’ambiente, del costume, dei sentimenti; un linguaggio che dall’antica e radicata esperienza del romanico si volge alle nuove raffinatezze gotiche, che crescono nell’intenso clima culturale dello studio bolognese e delle corti aristocratiche di Milano, Verona e Padova. Relativamente recente è il recupero critico di questa peculiare fisionomia del Trecento padano: per molti secoli esso subì, salvo pochissime eccezioni, la pesante limitazione di una visione toscanocentrica che risale ancora al Vasari, il quale scriveva che «il poco lume d’arte giunto a rischiarare questa disgraziata valle», ossia la Valle Padana, era soltanto il riflesso della grande arte toscana. Ancora nell’Ottocento e persino nel primo Novecento, dal Cavalcaselle al Berenson, questi territori erano considerati poco meno che difettosa periferia artistica, arte «minore» rispetto a quella toscana; fa eccezione per la Lombardia la grande opera del Toesca (1912). Il noto corso universitario di Roberto Longhi nel 1934/5, le grandi mostre dell’arte bolognese del 1950 e di quella lombarda nel 1958 rappresentano le tappe di un recupero critico e filologico, proseguito senza soste e ancora apertissimo.
Rimini e Bologna Il percorso di questa pittura padana inizia a Rimini, in coincidenza significativa con il primo spostamento del giovane Giotto dopo la grande impresa di Assisi; dovette quindi cadere nei primissimi anni del Trecento, se non prima, la presenza di Giotto a Rimini, documentata già in una cronaca di Riccobaldo Ferrarese del 1313, che parla di opere di Giotto «in ecclesiis Assisii, Arimini, Paduae». Di queste opere riminesi, legate al nome potente dei Malatesta, distrutti gli affreschi della chiesa di San Francesco, non rimane nella stessa chiesa (ora Tempio Malatestiano) che il mirabile Crocefisso, vero e proprio prototipo di un folto gruppo di Crocifissi riminesi. Non è difficile immaginare che a Rimini si compiesse per Giotto il primo superamento dell’asprezza e della tensione formale di Assisi a favore di un modellato più dolce e fuso, perché questo mutamento si avvertiva già nelle ultime storie francescane di Assisi. E poiché Tav. 91 349
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nessuna pittura riminese prima della fine del Duecento è giunta fino a noi, ma solo qualche incerto nome di pittore riminese, non si può spiegare se non con la stimolante presenza di Giotto questa improvvisa fioritura pittorica, destinata a un raggio di azione assai vasto, che si estende verso le Marche, le Prealpi venete e Bologna, ma con una parabola relativamente breve. Il carattere fortemente unitario della produzione pittorica riminese è tale da configurarsi come una vera e propria «koiné» figurativa (non a caso tutti i nomi dei pittori noti sono accompagnati dalla qualifica «da Rimini») ed è quindi giustificato in questo caso l’appellativo di «scuola riminese». Al tempo stesso questo carattere unitario ha creato forti problemi attributivi, tuttora aperti, che hanno indotto spesso a designare con il termine anonimo di «Maestro di» pittori forse riconducibili a personalità note. Fortunatamente firmato e datato è il più antico e assai importante paliotto giunto fino a noi, con la Madonna in trono, il Bambino e santi, già nella chiesa dei Morti a Urbania e ora a Boston (Museo Gardner), dipinto da Giuliano da Rimini nel 1307. Le finte colonne tortili divisorie come pure il pannello con le Stimmate di san Francesco sono chiari ricordi assisiati; ma assai diverso è il tipo di queste personaggi, di pesantezza arcaica e quasi irsuti e tuttavia impreziositi da delicate invenzioni, dall’esecuzione attenta di stoffe preziose e da una gamma cromatica raffinata di rossi smaltati e bianchi perlacei, di rosa e ori. La data del 1307 del dossale di Boston costituisce anche il termine «post quem» più probabile (nel 1308 Rimini fu devastata da un terremoto) per l’esecuzione di una vasta serie di affreschi nella chiesa di Sant’Agostino a Rimini, dipinti probabilmente nei primi anni del secondo decennio, fondamentali per la conoscenza della pittura riminese, ormai già pienamente maturata. Nella cappella attigua al coro un altro pittore, nel quale si può riconoscere Giovanni da Rimini, dipinge le Storie della Vergine con figure slanciate dai gesti delicati, ambientandole sotto architetture eleganti, con una spazialità di derivazione certamente giottesca ma trasformata in una gabbia di esili colonnine. Forse sotto la guida dello stesso Giovanni da Rimini sarebbero dipinti secondo Boskovits alcuni affreschi del coro della stessa chiesa, la grande Deesis, la Vergine in trono con il Bambino, il Noli me tangere, collocati nell’abside in originale sequenza verticale; a un anonimo «Maestro dell’Arengo» viene generalmente assegnato il grandioso Giudizio Universale, un tempo sull’arco trionfale della chiesa di Sant’Agostino, collocato sino a pochi anni or sono nel Palazzo dell’Arengo e ora al Museo Civico di Rimini. Qui le monumentali figure degli apostoli hanno un timbro scopertamente classico, affine a quello del romano Cavallini, ma come rasserenato dalla fusa dolcezza degli impasti cromatici. Diverso invece è il timbro sentimentale del pittore delle Storie di san Giovanni evangelista, sempre nel coro di Sant’Agostino, di una vivacità narrativa che lo porta a comporre audacemente scene brulicanti di personaggi e ad accavallare gli episodi in maniera asintattica, con un gestire iperbolico o soffermandosi su particolari realistici: un gusto, nell’insieme, che ritroveremo in molta pittura bolognese. Non meno importante per comprendere l’eminente ruolo di Giovanni da Rimini nell’ambito della «scuola» riminese è la sua produzione su tavola: nei Crocifissi, dal più antico di San Lorenzo a Talamello, a quello di San Francesco a Mercatello sul Metauro, datato 1309, a quello del Museo Civico di Rimini; in essi il prototipo giottesco viene mano a mano a mutarsi e si trasforma infine in una dolcezza elegiaca e in una qualità pittorica di diafana bellezza. È soprattutto nella pittura su tavola che emergono le squisitezze cromatiche e sentimentali di cui è capace Giovanni. Nel dittico con Storie di Cristo, diviso tra la Galleria Nazionale di Roma e la collezione del duca di Northumberland (Alnwick Castle) le scene hanno un carattere contemplativo, dove riaffiorano lontane radici bizantine e raffinate preziosità decorative di manti e di stoffe; nella tavola con la Vergine, il bambino e santi della Pinacoteca di Faenza la ieraticità dei santi sottostanti convive con la sorridente spontaneità sentimentale del gruppo centrale. Pietro da Rimini doveva essere più giovane di Giovanni di circa una decina di anni; gli si possono, infatti, assegnare gli affreschi del refettorio di Pomposa, eseguiti probabilmente tra il 1316 e il 1320, una Deesis,
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l’Ultima Cena e la Cena dell’abate Guido, nei quali compare la caratteristica tipologia dei suoi personaggi: grandiosi, allungati, avvolti in panneggi voluminosi, dalle piccole teste issate su colli cilindrici. Una qualità più patetica del narrare e del sentire qualifica lo stile di Pietro da Rimini, sia nelle tavolette di piccole dimensioni, come la Deposizione del Louvre, sia nella ricca produzione ad affresco. Oltre al ciclo d’affreschi in Santa Chiara a Ravenna e a quelli, ora distrutti, già in Santa Maria in Porto fuori pure a Ravenna, gli si possono assegnare anche quelli dell’abside di San Pietro in Sylvis di Bagnacavallo, dove la Crocifissione di struggente patetismo si può accostare a quella in Santa Chiara di Ravenna. A Bagnacavallo le figure quasi smisurate degli Apostoli che si allineano nell’abside accanto alla Crocifissione richiamano, come ha notato giustamente Gnudi, il classicismo gotico della statuaria francese del Duecento. Nella vasta decorazione del cappellone di San Nicola a Tolentino, eseguita tra il 1325 e il 1330, la passione drammatica di Pietro appare attenuarsi in movimenti più lenti e in toni più morbidi. Questi affreschi segnano anche il chiudersi della fase più vitale della pittura riminese prima del suo rapido declino, in concomitanza quasi precisa con l’aprirsi del ricco e intenso capitolo della pittura bolognese. Studi recenti (Bellosi, Laclotte) hanno anticipato in modo decisivo le tappe più significative della pittura bolognese tra il 1330 e il 1360, di contro alla cronologia proposta da Longhi e Arcangeli, che si addentrava nella seconda metà del Trecento. Grazie a questo arretramento cronologico l’esperienza pittorica bolognese si colloca tra le più avanzate e precoci del gotico padano e di quello europeo. Del resto l’ambiente internazionale che di fatto esisteva a Bologna grazie al suo celebre studio poneva la città in una posizione privilegiata di crocevia culturale. Alla presenza dell’università è certamente legata la ricca e precoce produzione miniatoria che in età ancora pregiottesca va maturando rapidamente in una serie di personalità e di capolavori miniati scalabili nel primo quarantennio del secolo. Se poco prima del 1330 lo stile padovano caratterizza i corali di Santa Maria dei Servi («Miniatore di Esaù» e suoi collaboratori), la sintassi spaziale e narrativa di Giotto si rispecchia nella Matricola dei Merciai del 1328 (ms. 633 del Museo Civico di Bologna) che dà il nome al «Maestro del 1328». Si assiste infatti a una normalizzazione prospettica del suo stile nella Disputa coi dottori (Pierpont Morgan Library, m. 891), nel Libro vi delle Decretali della Biblioteca di Vienna (ms. 2040) e soprattutto nel Digesto della Biblioteca Reale di Torino, il suo capolavoro ormai verso il 1340, dove il maestro si presenta come un parallelo, ma più pacato e solenne del cosiddetto «Illustratore», il probabile Tommaso di Galvano. Il suo stile concitato ed espressivo, moderno, trova soluzioni spaziali che scardinano l’ordinato spazio giottesco nei numerosi codici giuridici, di cui divide la decorazione con altri maestri (l’Infortiatum della Biblioteca Malatestiana di Cesena, S. iv.2; il ms. Vat. lat. 1430; il ms. Vat. lat. 1389; e il ms. Vat. lat. 1366 della Biblioteca Apostolica Vaticana); una maggiore regolarità caratterizza il Digesto (ms. Vat. lat. 1409) e le Costituzioni di Clemente v, sottoscritte nel 1343 (Padova, Biblioteca Capitolare), con le famose Storie di santa Caterina. Vera chiave di volta dei precoci inizi della pittura bolognese è il trittico proveniente anticamente dalla chiesa bolognese di San Vitale, oggi al Louvre, che reca sul retro la data 1333 e raffigura al centro la Crocifissione e l’Incoronazione di Maria. Già nella sua composizione a sportelli, insolita da noi, ma frequente oltralpe, esso dimostra una complessa cultura nell’iconografia mariana, nutrita di succhi nordici; un bordo in finto marmo rilega le scene affollate e di grande intensità psicologica, dalla Crocifissione prossima «alla ferocia dei Calvari nordici» (Volpe) all’immobile, possente Madonna della Misericordia, alla Natività scivolante in uno spazio bloccato. Qui è presente un grande anonimo pittore, che usa gamme rare e insoliti accostamenti di colore. Tale è la forza di questo capolavoro da assegnare forse al suo autore quel ruolo di vero caposcuola che è consuetudine assegnare a Vitale. La qualità espressiva di questo «Maestro del 1333» non è lontana da quella del cosiddetto «Pseudo Jacopino», un pittore che era stato erroneamente identificato con Jacopino di Francesco de’ Bavosi, documen-
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tato invece notevolmente più tardi, dal 1360 al 1383. Lo «Pseudo Jacopino» ci appare nelle sue opere più giovanili del terzo decennio, come la Crocifissione del Museo di Avignone, piuttosto legato ai modi patetici prossimi a Pietro da Rimini. A una fase forse più matura e più intensamente bolognese appartiene il Crocifisso su tavola di San Giovanni in Monte, dove i volti del Cristo, di Maria e di Giovanni hanno un’asprezza psicologica quasi deformante, solo apparentemente popolare. Agli inizi degli anni quaranta si collocano i due noti polittici della Pinacoteca di Bologna con al centro rispettivamente l’Incoronazione della Vergine e la Presentazione al Tempio. Ancora più fosco e violento si fa talora il linguaggio dello Pseudo Jacopino»,
325. «Maestro del Coro di Sant’Agostino», Il terremoto di Efeso, Rimini, Sant’Agostino.
326. «Maestro dell’Arengo», Giudizio Universale, Rimini, Museo Civico, particolare.
327. Pietro da Rimini, Crocifissione, Ravenna, Santa Chiara, particolare.
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328. «Maestro del 1328», Digesto, Torino, Biblioteca Reale, ms. E.I.1, c. 310, La vita coniugale.
329. «L’Illustratore», Decretum Gratiani, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms. vat. lat. 1366, c. 198, La fuga dal convento.
330. «Pseudo Jacopino», polittico dell’incoronazione della Vergine, Bologna, Pinacoteca Nazionale, particolare, Santo cavaliere.
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percorso da umori quasi volutamente dialettali ma con soluzioni compositive, accensioni fantastiche e interpretazioni di personaggi arditissime. L’attività di Vitale degli Equi è accertata dai documenti a partire già dal 1330; perdurano tuttavia oscillazioni talora rilevanti nella cronologia delle sue opere. Se palese è il carattere giovanile della Crocifissione di Philadelphia, ancora legata ai modi riminesi, la celebre tavoletta con San Giorgio e il drago della Pinacoteca Nazionale di Bologna rivela la straordinaria capacità di Vitale nel cogliere un’azione improvvisa e violenta. La sua furia slogata e selvaggia è in realtà tenuta sul filo controllatissimo di uno stile quasi cifrato, come la sigla del nome «Vitale» stampata a guisa di marchio sul cavallo. Ciò che particolarmente attrae in Vitale è la capacità di esprimersi sui due registri in apparenza antitetici: quello della narrazione impulsiva, tradotta in spazialità irrazionale e sghemba – vedi soprattutto le Storie di sant’Antonio abate della Pinacoteca Nazionale di Bologna – e quello di sottile eleganza culturale, di gusto aristocratico e di tenerezza sentimentale, come la ben nota Madonna dei Denti del 1343 (Bologna, Museo Civico Davia Bargellini) o la Madonna del Ricamo, identificata nel 1978 sulla collina bolognese (ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna), o l’Adorazione dei Magi della Galleria Nazionale di Edimburgo. Quanto alla grande decorazione ad affresco della cappella di Mezzaratta (ora staccata e conservata in Pinacoteca a Bologna), Vitale contribuisce probabilmente a iniziarla intorno al 1343, con il famoso Presepio e con l’Annunciazione sulla parete d’ingresso. La composizione del Presepio sembra squadernarsi quasi per ondate concentriche intorno alla figura della Vergine, dalle figure degli angeli danzanti ai pastori, con straordinaria ricchezza di moti e una gesticolazione quasi incontrollata. La fecondità dell’opera di Vitale, morto tra il 1359 e il 1361, registra ancora importanti opere di commissione ecclesiastica come il polittico della chiesa di San Salvatore a Bologna; in questo ultimo tratto egli sembra privilegiare i toni dell’affettazione cortese e ornata, quasi aulica e così nella Madonna Poldi Pezzoli, in consonanza con quella cultura di timbro senese che era in atto ad Avignone. A Vitale, infine, sono legati cicli di affreschi fuori di Bologna, nel coro della chiesa abbaziale di Pomposa con Storie di sant’Eustachio e quelli nella più 331. «Pseudo Jacopino», polittico della Presentazione al Tempio, Bologna, Pinacoteca Nazionale, particolare, Sant’Agostino nello studio.
332. Dalmasio, Crocifissione, Bologna, Pinacoteca Nazionale.
333. Vitale da Bologna, Adorazione dei Magi, Edimburgo, National Gallery.
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334. Vitale da Bologna, affreschi di Santa Maria a Mezzaratta, ora a Bologna, Pinacoteca Nazionale, particolare.
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lontana Udine, nel Duomo, databili tra il 1349 e il 1351, che testimoniano la forza propulsiva della scuola bolognese verso la metà del secolo. Fuori di Bologna opererà anche il pittore Dalmasio, documentato nel 1342 e già morto nel 1377. Gli affreschi in San Francesco a Pistoia e quelli in Santa Maria Novella a Firenze, come pure altre opere su tavola, rivelano un accento toscano che rinforza i chiaroscuri e regola la composizione, sovrapponendosi all’originario accento bolognese. La Crocifissione della Pinacoteca Nazionale di Bologna potrebbe testimoniare il suo rientro tardo a Bologna. Il messaggio di questa scuola, già frequentemente presente fuori dell’area bolognese, sarà più tardi trasferito nel Veneto da Tommaso da Modena. La «galleria» di Ritratti di domenicani allo scrittoio (Treviso, Capitolo dei Domenicani) e le famose Storie di sant’Orsola della chiesa di Santa Margherita, ora al Museo Civico di Treviso, già nel 1350-1351 dichiarano che il realismo impulsivo e talora sfrenato della pittura bolognese si va assestando in un realismo piano, quasi sorridente, in composizioni limpide e affollate di tipi umani, secondo un gusto di realismo narrativo che connoterà tutta la pittura padana della seconda metà del Trecento. L’esistenza in Boemia di due opere su tavola di Tommaso nel castello imperiale di Karlstejn, di gusto insolitamente quasi miniaturistico e di una grazia più morbida, apre la possibilità di una diretta presenza di Tommaso in Boemia, forse tra il 1356 e il 1358.
Lombardia
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Un notevole gruppo di affreschi, collocabili tra il secondo e il terzo decennio del Trecento, testimoniano forti novità presenti nel territorio lombardo già prima della venuta di Giotto a Milano. Il grande ciclo di affreschi dell’abside di Sant’Abbondio a Como rivela una massiccia forza plastica nelle figure e un intenso realismo. Nell’affresco votivo della tomba Fissiraga (Lodi, San Francesco), per il quale la data di morte del committente, 1327, è piuttosto da considerarsi una data «ante quem», il gruppo della Vergine con il Bambino, di sapore quasi scultoreo, è collocato entro un’edicola architettonica ornata di chiaro sapore giottesco, anche se prospetticamente scoordinata. Una nuova concretezza formale e sentimentale di gusto lombardo è presente anche nei noti affreschi con Storie delle sante Faustina e Liberata (Como, Museo Civico). L’arrivo di Giotto in Lombardia, chiamato da Azzone Visconti nel 1335, e dunque un Giotto già avanzato negli anni e circondato da numerosi allievi, dovette segnare una rapida maturazione se non addirittura una svolta nelle vicende pittoriche lombarde. Perduta è la decorazione giottesca con una «Gloria mondana» nel salone del palazzo visconteo, come pure la decorazione della cappella viscontea di San Gottardo, che il cronista Galvano Fiamma ricorda rilucente di ori e di lapislazzulo. Nella stessa cappella di San Gottardo figura un vasto tabellone votivo con una Crocifissione, un tempo presente sulla parete alla base del campanile e ora collocato all’interno. L’equilibrio compositivo, il superbo calibro delle figure, la dolcezza dell’impasto pittorico che sopravvivono in alcuni lembi dell’affresco, ormai terribilmente deperito, fanno ritenere a quasi tutti gli studiosi (con la notevole eccezione di Volpe che ritiene lombardo il suo autore) che qui sia all’opera uno dei maestri migliori della stretta cerchia di Giotto, come un Puccio Capanna, aperto anche all’indagine sentimentale e alla qualità umana dei personaggi. In questa fase di crescita ricettiva della pittura lombarda prima della metà del secolo non mancano altri echi culturali, da quelli intensamente bolognesi del Liber Pantheon (Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. lat. 4895), miniato per i Visconti nel 1331, a quelli misteriosamente affini ad affreschi del Camposanto pisano del pittore che sovrintende alla complessa decorazione con Storie della Vergine, angeli e santi del tiburio di Chiaravalle, dipinta probabilmente nel quinto decennio del secolo.
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335. Lodi, San Francesco, affresco votivo sulla tomba di Antonio Fissiraga.
336. Milano, San Gottardo, Crocifissione, particolare.
337. Como, Pinacoteca Civica, Maestro di Santa Margherita, Storie delle sante Faustina e Liberata, particolare (già nel monastero di Santa Margherita).
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Si giunge così agli affreschi dell’ultima campata della chiesa abbaziale di Viboldone, che si aprono con la grande lunetta votiva datata 1349 della Madonna in trono e santi, qui un pittore lombardo traduce la cultura toscana nell’architettura ornata del trono e nella cordiale dignità della Madonna e dei santi che la circondano. Sulle altre pareti della stessa campata è all’opera un pittore di più elaborata cultura, da tutti riconosciuto come Giusto de’ Menabuoi, fiorentino d’origine ma stabilmente presente nell’Italia padana. Nella scena del Giudizio universale, di chiara derivazione giottesca, nei Padri della Chiesa al lavoro nei loro studi è presente un’intelligenza dello spazio che segna un decisivo distacco dalle esperienze lombarde precedenti e soprattutto una diversa monumentalità della forma, ricavata per via di una soffice trattazione del colore. È difficile affermare con certezza, come è stato proposto da Volpe, che l’educazione di Giusto sia avvenuta in Lombardia, data la lucidità prospettica delle sue composizioni e la purezza formale del suo stile; certo è che le più antiche opere su tavola di Giusto giunte fino a noi furono certamente dipinte in Lombardia: il polittico di Isotta di Terzago datato 1363, attualmente smembrato e disperso tra vari musei (il pannello centrale con la Vergine e il Bambino in trono è ora al Museo Nazionale di Pisa), e il trittico a sportelli del 1367 con al centro l’Incoronazione della Vergine della National Gallery di Londra. Specie in quest’ultimo le piccole dimensioni favoriscono un tono più intimo nelle storiette, mai disgiunto tuttavia da una preziosità ornata di alta estrazione stilistica. Si vedrà più avanti quanto la presenza di Giusto abbia agito in profondità sulla pittura e sulla miniatura lombarda contemporanee. Rinviando per il momento l’esame delle opere padovane di Giusto, sembra opportuno a questo punto inserire la vicenda di Giovanni da Milano, vicenda perfettamente speculare a quella di Giusto de’ Menabuoi. Infatti Giovanni, dopo una sua probabile formazione lombarda, risulta stabilmente trasferito a Firenze, sin dal 1346, e in Toscana svolgerà per un ventennio circa la sua attività. Nulla di lui ci resta in Lombardia, all’infuori di una lunetta affrescata con una Madonna fra due santi, nella piccola chiesa di Santa Maria delle Grazie presso Mendrisio (Canton Ticino), che gli è stata attribuita. Se la formazione pittorica di Giovanni si può collocare in Lombardia, essa appare nutrita misteriosamente anche di succhi extra lombardi, in cui risuonano echi di preziosità miniaturistica e di quella cultura raffinatamente gotica che si sviluppa ad Avignone entro la prima metà del Trecento. Un gusto nordico affiora nella rastremata eleganza della linea e nel patetismo intenso della Pietà già Martin le Roy ora Du Luart a Parigi, che si può ritenere giovanile; così pure echi miniaturistici si ravvisano nella squisita tavoletta della Galleria Nazionale di Roma, suddivisa in pannelli di poco maggiori di una pagina miniata, dove predominano azzurri e rossi intensi e figure di santi e sante di squisita eleganza di costume e di sentimenti. Stesse preziosità sono presenti nel grande polittico firmato della Galleria Comunale di Prato, dipinto per lo Spedale della Misericordia, forse già prima del 1354, poiché la Madonna al centro viene ripresa da Puccio di Simone in una Madonna del 1354 (Washington, National Gallery). Soprattutto le scene della doppia predella rivelano la straordinaria attenzione, tutta lombarda, alla realtà delle cose e una stupenda resa di effetti luminosi e pittorici, le fiamme del Martirio di san Barnaba, il sangue della pelle scuoiata di san Bartolomeo. In una Firenze terribilmente impoverita, culturalmente ed economicamente, dalla peste del 1349 la pittura di Giovanni da Milano appare di una levatura del tutto eccezionale e le importanti commissioni che gli vengono affidate confermano la sua preminenza sulla scena toscana. Delle opere su tavola eseguite per Firenze la più importante è il polittico realizzato per la chiesa degli Ognissanti, del potente ordine degli Umiliati. E a Maria Regina di tutti i santi allude il complesso programma iconografico: esso si articola intorno al tema principale dell’Incoronazione della Vergine, che doveva occupare il pannello centrale (la tavola è stata individuata in anni recenti allo stato frammentario a Buenos Aires, Instituto di Telia), fiancheggiato da pannelli con coppie di santi, dei quali cinque su sei giunti fino a noi e conservati agli Uffizi. Completa il polittico la predella, con i bellissimi Cori di vergini, profeti, apostoli, patriarchi e martiri: una folla di perso-
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338. Viboldone, chiesa abbaziale, «Madonna del 1329».
339. Giusto de’ Menabuoi, Giudizio Universale, Viboldone, chiesa abbaziale, particolare.
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naggi verissimi, di spirituale aristocrazia, nei quali trionfa la poetica tipica di Giovanni, che è stata definita sacramentale, quasi liturgica e insieme mondana. L’intensa attività di Giovanni da Milano come pittore su tavola è confermata dai resti di un altro grande polittico dipinto per Prato, ora smembrato in vari musei, al cui centro doveva figurare il Cristo giudice già Contini Bonacossi (Milano, Pinacoteca di Brera); inoltre dalla drammatica Pietà, firmata e datata 1365 (Firenze, Accademia) e da una Madonna in trono con il bambino, recentemente identificata in San Bartolo in Tuto a Scandicci. Nel campo dell’affresco l’attività di Giovanni è legata all’importante ciclo con Storie della Vergine e della Maddalena per la cappella Guidalotti, poi Rinuccini, nella chiesa di Santa Croce, cui attese verso il 1365, completato da Matteo da Pacino. Stupisce in questi affreschi il sapore lombardo pur nel rigore spaziale delle scatole prospettiche che inquadrano le scene, la capacità di individuare tipi umani, fisionomie, ambienti: un gusto che differenzia profondamente questi affreschi dalla meccanica cifra stilistica di tanti pittori fiorentini di quegli anni. La notizia che nel 1366 Giovanni ottiene la cittadinanza fiorentina e che nel 1369 si reca a Roma rende ancora più difficile l’ipotesi di un suo ritorno al termine della carriera in Lombardia, ipotesi basata su una notizia del Vasari; resta sempre aperta la possibilità di un suo ritorno precedente, intorno al 1350, come la lunetta affrescata di Mendrisio lascia supporre. Si verrebbero così a spiegare certi echi di Giovanni che molti studiosi, a cominciare da Longhi, intravedono nella ricca produzione lombarda ad affresco del terzo quarto del Trecento e in particolare nelle Crocifissioni (Viboldone, Lentate) di composizione assai simile al bellissimo disegno di Giovanni con una Crocifissione conservato al Gabinetto dei disegni di Berlino. Questi affreschi lombardi, presenti oltre che in chiese milanesi in un gruppo di oratori gentilizi della campagna lombarda a Mocchirolo (ora Milano, Pinacoteca di Brera), Solaro, Lentate, Albizzate, risentono altrettanto
340. Giovanni da Milano, Scene dalla vita della Maddalena, Firenze, Santa Croce, cappella Rinuccini, 1365 ca., particolare.
341. Milano, Pinacoteca di Brera, affreschi dell’oratorio Porro di Mocchirolo, Nozze mistiche di Santa Caterina.
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se non maggiormente dell’influsso di Giusto de’ Menabuoi. L’interesse di questi cicli sta nel rapido maturare in essi di un gusto narrativo ricco di notazioni di costume e di ambiente, che si ritroverà di lì a pochi anni nelle pagine della miniatura lombarda di committenza aristocratica. Si può anzi affermare che in taluni di questi cicli, in particolare negli affreschi della chiesa di Sant’Antonino a Piacenza (ora al Museo Civico di Piacenza) e in quelli della chiesa di Santa Maria in Selva presso Locarno, siano attivi pittori che operano anche come miniatori.
Veneto Come si è detto, Giusto de’ Menabuoi dovette trasferirsi stabilmente dalla Lombardia a Padova subito dopo il 1370, dove era già in atto una stagione pittorica particolarmente ricca, suscitata dall’ambiente culturalmente raffinato della città e dal mecenatismo della corte carrarese. La pittura di Guariento, attivo dal quarto decennio del Trecento fino al 1369 – appunto l’anno prima dell’arrivo di Giusto – offre già un’anticipazione di questa cultura padovana, ancora toccata da raffinati bizantinismi veneti trasformati in un linguaggio gotico in rapida crescita. Questo passaggio in Guariento si può misurare confrontando le tavolette per soffitto con Angeli (Padova, Museo Civico) con le raffinate decorazioni a monocromo dei Pianeti e delle Età dell’uomo, che concludono la decorazione ad affresco della chiesa degli Eremitani. Troviamo Giusto de’ Menabuoi subito impegnato negli affreschi della cappella funebre di Tebaldo Cortellieri, morto nel 1370. La serie straordinaria, pur tanto deperita, delle Virtù e delle Scienze, figure monumentali, statiche e pur dolcissime, incluse in vani architettonici, già ci introduce nel mondo dotto e quasi arcano di Giusto padovano. Dai frammenti di questa decorazione emersi dopo la guerra, si può dedurre che Giusto intendesse dipingere tutto il vano della cappella con una composizione simmetrica e una connessione di significati, preludio alla grande impresa del Battistero padovano. Questa gli fu affidata, probabilmente tra il 1374 e il 1378, da Fina Buzzacarina, moglie di Francesco Carrara il Vecchio. Giusto colma d’affreschi tutto lo spazio del Battistero, dando fondo con fervore quasi eroico a tutta la storia sacra, dalle prime Storie della Genesi all’Apocalisse, e facendo convergere nella cupola la visione fulgidissima del Paradiso in fitti cerchi concentrici di angeli e santi, attraversati dalla gigantesca figura della Vergine e culminante nel tondo del Cristo Giudice. Un gusto di intellettuale rivisitazione di antiche culture domina soprattutto le prime Scene della Genesi, per poi trascorrere a più ampie e complesse scene della Vita di Cristo; tuttavia l’azione appare sempre disciplinata, i sentimenti pacati, i personaggi distribuiti in severi spazi architettonici. Raffinatezze cromatiche chiare e quasi fluorescenti, che il recente restauro ha restituito, alleggeriscono questa materia severa e confermano le straordinarie qualità di affrescatore di Giusto. Un’analoga grandiosità di intenti è nel grande polittico multiplo, di composizione insolita, presente nello stesso Battistero; esso comprende oltre alla Madonna con il Bambino centrale, dodici scene con Storie di Giovanni Battista, una predella con dodici Apostoli e una serie di nove tavolette apicali. La preziosità di luci scivolanti, certe delicatezze intimistiche e, nei santi, qualche indugio su costumi aristocratici mostrano qui un Giusto collegato più da vicino alla cultura del suo tempo. Nel 1382 Giusto de’ Menabuoi porta a termine l’ultimo lavoro commissionatogli a Padova, la decorazione della cappella del beato Luca Belludi nella chiesa del Santo. Gli affreschi fortemente deperiti, ma recentemente restaurati, testimoniano l’intatta fedeltà di Giusto a quel gusto raziocinante che fa di lui «un pittore che i critici del Settecento avrebbero amato definire “pittore filosofo”» (Longhi). Come si diceva, la produzione padovana ad affresco nel corso di meno di un ventennio, a partire dai primi anni settanta, appare del tutto eccezionale, se si pensa che in parallelo all’intensa attività di Giusto si svolge
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la non meno intensa attività del veronese Altichiero. Egli appare il massimo protagonista di una poetica tutta padana, sostanziata di realismo umano, di un linguaggio che per essere immediatamente «leggibile» non è meno controllato, nobilitato da accenti di protoumanesimo padano. Non si dimentichi, a questo proposito, la lunga presenza del Petrarca nell’Italia settentrionale nel corso del settimo decennio e in particolare a Padova, presso Francesco Carrara, suo grande ammiratore, tra il 1361 e il 1362 e nel 1368. Di sapore intensamente umanistico è la serie dei Medaglioni di imperatori, dipinti a monocromo nei sottarchi di quella che doveva essere la loggia del palazzo di Cansignorio, dove l’attività di Altichiero è ricordata anche dal Vasari con ammirazione. Tracce anche più dirette di questo gusto petrarchesco è nei frontespizi miniati dei due esemplari del De Viris Illustribus del Petrarca (Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. lat. 6069 F e 6069 I), ormai stabilmente collegati al nome di Altichiero. Lo stretto legame che nella pittura di Altichiero unisce questo gusto umanistico al gusto cavalleresco, e anzi lo sovrasta, si coglie nell’affresco votivo per la famiglia Cavalli nella chiesa di Sant’Anastasia: scena di vero omaggio feudale di cavalieri armati ai piedi della Vergine in trono circondata da angeli, collocata domesticamente nel cortile d’onore di un grande palazzo a doppio loggiato. A partire dal 1374 Altichiero è impegnato insieme con il bolognese Jacopo Avanzi nella decorazione della cappella di San Giacomo al Santo di Padova, eretta per volontà di Bonifacio Lupi, potente marchese di Soragna, vicino alla corte carrarese. La parte avuta dal bolognese Avanzi, ormai chiarita dalla critica, occupa le prime quattro lunette e la sesta, dove sono raffigurate Storie di san Giacomo tratte da Jacopo da Varagine. Lo stile di Jacopo Avanzi porta gli echi della grande tradizione bolognese, di cui egli è un esponente tardivo, in un tratto incisivo, talora aspro, con invenzioni e scenografie talvolta fantasiose (si veda, ad esempio, la quarta lunetta con il Seppellimento del santo e la nave guidata dall’angelo). Sebbene il linguaggio di Jacopo Avanzi appaia in sostanza integrato con quello di Altichiero, l’apparizione di Altichiero in tre delle lunette segna tuttavia una differenza sostanziale e svela da subito quella suprema capacità di grande «romanziere naturalista», la cui complessità stilistica non è forse facile da percepire a prima vista, per l’immediatezza narrativa che la contraddistingue. La complessità dello stile di Altichiero si rivela, ad esempio, nella scena del Consiglio della Corona, una scena che si direbbe colta dal vero in quei giorni stessi, come una cronaca di corte: i personaggi, veri e propri ritratti, si dispongono entro un finto loggiato di impeccabile prospettiva, con intenti scenografici, come poi sempre Altichiero amerà fare. Questa sapiente regia che sa padroneggiare e muovere una folla di personaggi ha un suo apice nella grandiosa Crocifissione gremita di personaggi; essa si snoda dietro a tre arcate, che la spartiscono come in un gigantesco trittico senza interromperla. La potenza dei volumi, quasi un recupero giottesco, è temperata da una trama cromatica chiara, quasi primaverile e dalla umana semplicità e verità di ogni personaggio. Nella complessa decorazione che ricopre tutta la cappella di San Giacomo vi sono altre figurazioni minori ma non meno alte, come i santi e le sante che popolano gli oculi degli archivolti, di un realismo penetrante e pur così misurato che non esiteremmo a chiamare «classico». Il seguito dell’attività di Altichiero è legato soprattutto alla decorazione dell’oratorio di San Giorgio, cappella funebre fatta costruire da un altro membro della famiglia Lupi, Raimondino, sul sagrato della chiesa del Santo, quasi ad emulare la Cappella degli Scrovegni. Le Storie di santa Caterina, di san Giorgio e di santa Lucia si susseguono sulle pareti laterali, mentre sulla parete di fondo domina una grandiosa Crocifissione sovrastata da una Incoronazione di Maria. Altichiero rinnova qui la sua poetica naturalista, con un’accentuazione forse più «borghese» e con una scelta cromatica più forte, talora persino dissonante; soprattutto con un uso ancor più spinto di complicati ambienti e grandi architetture a logge praticabili, dove si affacciano e si muovono gruppi di personaggi come in grandiose quinte sceniche. La straordinaria sapienza registica di Altichiero è qui spinta al suo massimo, talvolta quasi forzata; ma essa brilla in tutta la sua forza drammatica in una scena come la Decollazione di san Giorgio, nella quale ogni sguardo della folla si appunta sulla testa del santo inginocchiato e tutta l’azione sembra sospesa nel silenzio dell’attesa.
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343. Guariento, Angelo, Padova, Museo Civico.
342. Giovanni da Milano, polittico di Ognissanti, Firenze, Uffizi, particolare, I santi Lorenzo e Stefano.
344. Altichiero, Il Consiglio della Corona, Padova, chiesa del Santo, cappella di San Giacomo, 1374-1379.
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Nota Bibliografica Sulla pittura padana del Trecento in generale mancano esposizioni complessive se si eccettua il vol. di L. Coletti, I Primitivi. I Padani, Novara 1947, necessariamente in parte superato. Sempre utile per la parte riguardante la pittura padana l’opera di P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951. Per la rivalutazione critica di queste aree artistiche, per le indagini su singoli artisti e per l’importanza dei singoli contributi restano fondamentali gli scritti dedicati alla Valpadana di R. Longhi, raccolti nel vol. vi delle Opere complete di Roberto Longhi. Lavori in Valpadana, Firenze 1973. Per la pittura riminese la sola opera monografica, tuttora validissima, è il volume di C. Volpe, Pittura riminese del Trecento, Milano 1965, cui si può aggiungere per la parte relativa a Rimini il saggio di D. Benati, Pittura del Trecento in Emilia e Romagna, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, pp. 193-232. V. inoltre gli interventi sul tema negli Atti del Convegno «La pittura tra Romagna e Marche», Mercatello 1987, in «Notizie da Palazzo Albani», xvi, 1988 e ivi in particolare l’intervento di M. Boskovits, Da Giovanni a Pietro da Rimini, pp. 35-50. Per la pittura in Emilia, oltre i fondamentali studi di R. Longhi, Momenti della pittura bolognese, in «L’Archiginnasio», xxx, 1-3, 1935 e la Prefazione alla mostra della «Pittura Bolognese del Trecento», Bologna 1950, raccolti nel già cit. volume vi delle Opere complete, v. Pittura bolognese del Trecento, Scritti di Francesco Arcangeli, a cura di P.G. Castagnoli, A. Conti, M. Ferretti, Bologna 1978. Per la sostanziale revisione della cronologia della pittura bolognese del Trecento, cfr. C. Volpe, La pittura emiliana del Trecento, in Tommaso da Modena e il suo tempo, Atti del Convegno di studi tenuto a Treviso nel 1979, Treviso 1980, pp. 237-248, e, dello stesso autore, la raccolta di scritti La pittura nell’Emilia e nella Romagna, Modena 1993. Su Vitale da Bologna, v. la monografia di C. Gnudi, Vitale da Bologna, Bologna 1962. Per gli ultimi studi su Vitale da Bologna, v. Vitale da Bologna, a cura di R. d’Amico e M. Medica, Bologna 1986. Sui vari cicli pittorici del Battistero parmense v. AA.VV., Battistero di Parma. La decorazione pittorica, ii, Parma 1993. Sulla miniatura bolognese, v. l’esauriente monografia di A. Conti, La miniatura bolognese. Scuole e botteghe 1270-1340, Bologna 1981. Per la pittura lombarda del Trecento, resta fondamentale il volume del Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, Milano 1912 (Torino 1966 e 1987). V. anche il catalogo della mostra Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza, Milano 1958 (con introduzione di R. Longhi) e M. Boskovits, Pittura e miniatura a Milano: Duecento e primo Trecento, in Il Millennio ambrosiano, iii, La nuova città dal Comune alla Signoria, Milano 1989, pp. 26-69. Un’esposizione d’insieme della pittura lombarda è quella di M. Salmi, La pittura e la miniatura gotiche in Lombardia, in Storia di Milano, Milano 1955, vol. vi, pp. 767-857. Per gli affreschi lombardi del Trecento assai utili le schede e l’ampia documentazione fotografica a cura di S. Matalon, in Affreschi lombardi del Trecento (introduzione di G.A. Dell’Acqua), Milano 1963, come pure per le miniature, le schede e la documentazione fotografica di L. Cogliati Arano, Miniature lombarde dall’viii al xiv secolo (introduzione di M.L. Gengaro), Milano 1970. Assai importante per i rapporti tra pittura toscana e pittura lombarda il saggio di C. Volpe, Il lungo percorso del dipingere dolcissimo e tanto unito, in Storia dell’arte Italiana, 5, Torino 1983, pp. 28-308. I risultati complessivi degli studi sul territorio lombardo si trovano negli ampi saggi territoriali del recente volume di AA.VV., La pittura in Lombardia. Il Trecento, a cura di V. Terraroli, Milano 1992. Su Giovanni da Milano v. A. Marabottini, Giovanni da Milano, Firenze 1950 e M. Boskovits, Giovanni da Milano, Firenze 1966. Di M. Gregori, v. l’importante saggio sul polittico Ognissanti, Giovanni da Milano: storia di un polittico, in «Paragone», xxiii, 265, 1972, pp. 3-35. Sulla miniatura lombarda dell’ultimo quarto del Trecento v. L. Castelfranchi Vegas, Il percorso della miniatura lombarda nell’ultimo quarto del Trecento, in AA.VV., La pittura in Lombardia. Il Trecento cit. 1992, pp. 297-321. Per la pittura nel Veneto v. gli ampi saggi territoriali e monografici contenuti nel vol. La pittura nel Veneto. Il Trecento, Milano 1992. Su Giusto de’ Menabuoi, oltre alla monografia di S. Bettini, Giusto de’ Menabuoi e l’arte del suo tempo, Padova 1944, v. AA.VV., Giusto de’ Menabuoi nel Battistero di Padova, Trieste 1989, con un riesame critico dell’intera decorazione dopo il restauro e ivi in particolare il saggio di A.M. Spiazzi Giusto a Padova. La decorazione del Battistero. Su Altichiero v. il catalogo della mostra Da Altichiero a Pisanello, a cura di L. Magagnato, Venezia 1958, e la monografia di G.L. Mellini, Altichiero e Jacopo Avanzi, Milano 1965.
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Capitolo dodicesimo
UN PERCORSO GOTICO INTERNAZIONALE: DA AVIGNONE ALL’«OUVRAIGE DE LOMBARDIE»
Avignone Poche vicende nella storia dell’arte appaiono più avvincenti di quell’intrecciarsi di voci che a partire all’incirca dagli anni intorno al 1380 si snoda in Europa per oltre mezzo secolo, la vicenda appunto del lungo e splendido tramonto dell’arte medioevale, nota con il nome di «Gotico internazionale». Questa denominazione appare più precisa di altre usate in passato per indicare il medesimo fenomeno, come «arte cortese», perché indica il carattere specificamente «multinazionale», per così dire, del fenomeno: il fatto, cioè, che questo linguaggio è caratterizzato almeno in parte da apporti di diversa provenienza: la mobilità di artisti e di opere d’arte – arazzi, piccole tavole, oreficerie e soprattutto codici miniati – instancabilmente richiesti dal collezionismo quasi maniacale dei committenti di corte e aristocratici ma anche di una nuova borghesia ricca e colta, gli stretti collegamenti dinastici fra le varie corti d’Europa sono le cause che concorrono a questo diramato, ricchissimo fenomeno. Punto di partenza di questa vicenda è Avignone, dove si è trasferita la corte papale nel 1309 in seguito allo scisma di Occidente e ivi rimasta fino a quando Urbano v nel 1366 si ristabilirà a Roma. Avignone ebbe così l’importante funzione di crocevia culturale, punto d’incontro di personalità d’altissimo rango culturale, umanisti, teologi, scienziati, giuristi, letterati, provenienti da vari paesi e dunque anche luogo di diffusione di cultura internazionale, provocando quella che fu chiamata dall’Ullmann una cross fertilization. La costruzione di un palazzo papale interamente nuovo fu iniziata poco prima del 1340 da Benedetto xii, un palazzo di dimensioni inusitate e di straordinaria ricchezza quasi a sfida della maestà di Roma. Questa impresa impegna un imponente cantiere di sculture e pitture, di addobbi e di vetrate, dove operano innanzitutto artisti francesi ma anche inglesi e italiani. La fine del quarto decennio del Trecento, quando la città si ingrandisce rompendo i limiti delle antiche mura, segna l’arrivo dei pittori italiani; prima il grande miniaturista noto con il nome di «Maestro del codice di San Giorgio», poi Simone Martini, oltre ad altri senesi a noi noti solo perché citati dai documenti. Un’altra svolta fondamentale si produsse quando, verso la metà del secolo, Clemente vi (1342-1352) decise di aggiungere al palazzo papale un nuovo e grandioso corpo e di decorarlo con vasti cicli pittorici di cui ci rimangono pochi ma fondamentali esempi: i dipinti per la camera del papa, i cicli della camera della Guardaroba, delle cappelle di San Marziale e di San Giovanni e di parte della sala dell’Udienza. La decorazione della camera della Guardaroba, ad opera probabilmente di artisti francesi dell’«atelier» papale simula un padiglione vegetale popolato di uccelli, i cui rami si stagliano sull’azzurro cupo con un vero tripudio vegetale: idea stupenda che fa avanzare la pittura profana e
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naturalistica in Europa. Il 22 settembre 1343 è citato per la prima volta nei documenti il pittore viterbese Matteo Giovannetti, la personalità artistica di maggior rilievo, presente costantemente ad Avignone per un venticinquennio e protagonista delle massime imprese artistiche avignonesi. Gli affreschi per la cappella di San Marziale e per la cappella di San Giovanni, entrambe nel Palazzo dei Papi, restano fra le testimonianze più nuove di tutto il Trecento, il contributo più originale della pittura avignonese al Gotico internazionale che sta per schiudersi. Nelle Storie di san Marziale il cromatismo sonoro, la profusione di stoffe e addobbi sontuosi, l’incessante esplorazione di spazi architettonici interni ed esterni, che hanno per protagonisti una folla vivacissima di prelati, popolani, borghesi, hanno una libertà nuova e un’immediatezza che appare persino un felice disordine: Matteo Giovanetti sembra spinto da una curiosità insaziabile per tutto ciò che rende varia e ricca la vita quotidiana della strada e del palazzo. La cappella di San Giovanni con le Storie dei due san Giovanni rinnova seppure in modo meno concitato la ricchezza vitale e il senso della natura della cappella di San Marziale. Infine Matteo Giovannetti lascia nella decorazione della sala dell’Udienza, anch’essa commissionata da Clemente vi, ma terminata dopo la morte di questi nel 1352, una grandiosa composizione, che ci è nota da documenti e descrizioni e dai pochi frammenti sopravvissuti al vandalismo ottocentesco. Fortunatamente ci restano sulla volta venti figure di Profeti, re e patriarchi dell’Antico Testamento con lunghi cartigli, fra le creazioni più alte e liriche della fantasia di Matteo Giovannetti: «vegliardi
345. Matteo Giovannetti, Miracolo di san Marziale, Avignone, Palazzo dei Papi, cappella di San Marziale, particolare.
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evanescenti, serpentini, guizzanti, che emergono, fantastiche ed effimere apparizioni, nel cristallino splendore delle vetrate gotiche, esempi per eccellenza del linguaggio gotico più puro ed avanzato che mai fino ad allora fosse stato tentato da un artista italiano» (Castelnuovo). È giusto chiedersi se l’esplicitarsi di questo vivaio di idee nuove sarebbe stato possibile fuori di Avignone. Avignone infatti, grande crocevia d’Europa, funge da cassa di risonanza delle novità della pittura trecentesca italiana e della sua cultura protoumanistica in vari territori e massime naturalmente in Francia, dove il messaggio di Avignone è destinato a fruttificare per tutta la seconda metà del Trecento.
La miniatura in Francia Nella Parigi di Carlo v si verificano ancora una volta le condizioni più favorevoli per un nuovo intreccio di forze artistiche europee. Già Jean Pucelle, autore nel 1326 di una celebre Bibbia (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 11935) e delle Petites Heures de Jeanne d’Evreux (New York, Cloisters) fonde la più pura tradizione lineare di marca francese, fragile e appuntita, con la nuova rappresentazione dello spazio d’origine toscana. Alla raffinata stilizzazione francese di Pucelle e ai rischi di una sua involuzione artificiosa reagisce una nuova e diversa attenzione alla realtà portata da artisti nordici chiamati da Carlo v: primo fra tutti quel Jean Bondol di Bruges che nel frontespizio della Bibbia, offerta al Re da Jean de Vaudetar (Aja, Museum Meermanno-Westreenianum), ci lascia due ritratti di stupefacente vivezza del tutto nuova.
346. Jean Bondol, frontespizio della Bibbia di Jean de Vaudetar, L’Aja, Museum MeermannoWestrenianum, Jean de Vaudetar offre la Bibbia a Carlo v.
347. Parement de Narbonne, Parigi, Museo del Louvre.
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Di commissione reale, intorno al 1375, è anche lo straordinario Parement de Narbonne (Parigi Louvre), grande pannello dipinto su seta «a grisaille», lungo quasi tre metri destinato a ornamento d’altare, con scene della Passione di Cristo. La tradizione di Pucelle vi è sempre presente ma l’ignoto artista (forse Jean d’Orléans) abbandona i gracili arabeschi a favore di tipologie più verticali e soprattutto di gesti e sentimenti più drammatici. Straordinaria è la concatenazione dei gruppi e la composizione delle scene, ritmata e contenuta entro le finte architetture. È dunque a questo punto che si verifica lo stacco netto tra la produzione miniatoria di libri liturgici nella tradizione di Pucelle e i miniatori di testi profani. Non si tratta soltanto di timidi suggerimenti di spazi e di natura, magari su fondi quadrettati; è ormai un nuovo atteggiamento di fronte alla realtà che si fa strada nel corso di una lunga stagione miniatoria di sbalorditiva ricchezza e che domina le corti francesi per tre o quattro decenni a partire circa dal 1390, auspice soprattutto il grande mecenate, il duca Jean de Berry, fratello di Carlo v. In questi decenni la presenza di artisti provenienti da regioni del nord e in particolare dalla Fiandra diventa ormai un fenomeno vistoso, così che è pienamente giustificato il termine di miniatura o pittura franco-fiamminga che connota questa ricchissima produzione. Un manipolo di personalità di primo piano opera dunque in terra francese e soprattutto a Parigi: André Beauneveu di Valenciennes, architetto e scultore alla corte di Carlo v, poi dal 1384 circa al servizio del duca Jean de Berry, per circa 35 anni. Per il duca Beauneveu minia il suo capolavoro, un Salterio in latino e francese (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 13091) che reca la stupenda serie di dodici profeti e di dodici apostoli in trono, dipinti con una «grisaille» finissima, che ricorda la statuaria, e con un’estrema eleganza e ricchezza di panneggi. Al servizio del duca di Berry, tra il 1384 e il 1409 è anche un altro grande artista, Jacquemart d’Hesdin, che nel suo capolavoro le Très Belles Heures di Notre Dame (Bruxelles, Bibliothèque Royale, ms. 11060/1) mescola italianismi spaziali e iconografici al suo realismo nordico e alla delicata definizione della forma. Se davvero gli appartiene il bellissimo grande foglio staccato da un codice perduto con la Salita al Calvario (Parigi, Louvre), le consonanze con l’analogo soggetto dipinto per il polittico Orsini da Simone Martini sono evidentissime. I rapporti con la Fiandra si intensificano nella corte di Digione, dove Filippo l’Ardito, terzo fratello di Carlo v, è in contatto politico con quei territori attraverso il matrimonio con la figlia del conte di Fiandra. Operano a Digione Jean de Beaumetz, pittore di corte dal 1375 fino alla morte nel 1390, e soprattutto Melchior Broederlam, che dipinge i celebri sportelli per l’altare scolpito da Jacques de Baerze. In queste scene famose, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto, la robustezza vigorosa e quasi plebea di alcuni personaggi si mescola con una straordinaria resa pittorica, densa e sonora, e con una ricchezza di indicazioni spaziali di eco senese. Tra il 1397 e il 1415 è attivo a corte anche Jean Malouel, originario della Gheldria, al cui nome sono legate alcune tavole, la più importante delle quali, detta La Grande Pitié ronde (Parigi, Louvre), rivela, oltre la splendida fattura di precisione miniatoria, l’intensità sentimentale dei fiamminghi. Questa è dunque la pittura che immediatamente precede nello stile lo scrutinio epidermico della pittura fiamminga ormai alle porte. Si deve probabilmente a Jean Malouel, zio dei fratelli Poi e Jean de Limbourg, se questi entrano al servizio di Filippo l’Ardito nel 1402, impegnandosi per quattro anni alla decorazione di una «très belle et notable Bible» non identificata. Nel 1410-11 essi passano al servizio del duca di Berry, succedendo nella carica di pittori di corte a Jacquemart d’Hesdin; e per il duca di Berry decorano le Belles Heures del Museo dei Cloisters a New York e soprattutto le celeberrime Très Riches Heures du Duc de Berry del Museo Condé di Chantilly. I fratelli Limbourg sommano nella loro arte un’impeccabile tecnica miniaturistica capace di tradurre pittoricamente scene complesse, vasti spazi e un’osservazione instancabile della realtà. Aprono le Ore di Chantilly gli incantevoli fogli del Calendario (dove peraltro due fogli sono da attribuire a Barthélemy d’Eyck, il pittore di re Renato d’Angiò, che li eseguì intorno al 1450): il mutare della natura nello svariare delle stagioni, gli sfondi di città e i campi arati, la neve invernale, la vastità dei cieli inalterabilmente azzurri, tutto fa presagire
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ormai imminente lo splendore del microcosmo fiammingo. Jean e Pol di Limbourg e un terzo fratello Hermann muoiono vittime della pestilenza del 1416, che vede anche la morte del loro patrono, il duca di Berry. L’ambiente di corte di Parigi e l’aristocrazia parigina continuano nel corso dei primi due decenni del Quattrocento a fungere da committenti di personalità artistiche, soprattutto miniatori, di grande levatura di varia provenienza, inglesi, italiani, mosani, renani. Il contributo dei maestri franco-fiamminghi resta peraltro del tutto dominante, per numero e statura artistica; basti pensare ai tre miniatori, molto legati tra loro con mutuazioni e collaborazioni, e tuttavia ciascuno con una fisionomia ben specifica, che in questo giro di anni miniano una serie di manoscritti di altissima qualità. I loro nomi non sono conosciuti per cui essi sono contraddistinti dall’opera maggiore uscita dalla loro bottega e dal nome del committente: il «Maestro delle Ore del Maresciallo Boucicaut», il «Maestro delle Ore del Duca di Bedford» e il «Maestro delle Ore di Rohan». Se toccherà al «Maestro di Bedford» (il codice da cui prende il nome è alla British Library di Londra, Add. mss. 18850) di sopravvivere più a lungo degli altri due maestri con i quali spesso è in collaborazione, la sua arte pure squisita e di tipica estrazione franco-fiamminga resta più estranea alle novità che ormai urgono nelle miniature del «Maestro delle Ore Boucicaut». Quanto al «Maestro delle Ore di Rohan», il suo fascino singolare sta nell’appassionata scelta di un’interpretazione drammatica con accesi toni visionari, che lo distingue da ogni altro miniatore. Lo splendido
348. André Beauneveu, Parigi, Bibliothèque Nationale, Salterio, ms. fr. 13091, Profeta.
349. «Maestro delle Ore di Rohan», Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 9471, 159r, L’Eterno e un morente.
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manoscritto dal quale prende il suo nome (Heures de Rohan, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9471), originariamente dipinto per un membro della casa d’Anjou intorno al 1420, presenta fogli con un’impaginazione decorativa originale e diversa. Quasi sempre questo miniatore ama caricare passionalmente le sue scene, rivelando un genio tormentato ed estroso fino a rasentare una violenza irreale; basti vedere la pagina in cui l’Eterno Padre si china come un grande vegliardo pietoso sulla figura di un morente nudo che raccomanda la sua anima a Dio; ma anche in scene non drammatiche come l’Annuncio ai pastori o l’Annunciazione, le volute sproporzioni delle immagini in rapporto allo spazio suggeriscono effetti di inquietante irrealtà. Abbiamo lasciato per ultimo la figura del grande «Maestro delle Ore del maresciallo Boucicaut», che da tempo molti studiosi identificano con l’artista Jacques Coene, perché la sua figura si inserisce in un capitolo di rapporti particolarmente fitti e interessanti tra Parigi e la Lombardia negli anni a cavallo del secolo. In questi anni un certo Alcherius, probabilmente un francese, Jean Aucher, ma di origine genovese, si spostava frequentemente tra Parigi, la Lombardia e il Veneto per raccogliere informazioni sul materiale e sulle tecniche sia scrittorie sia pittoriche. Ed è proprio su segnalazione dell’Alcherio che la Fabbrica del Duomo di Milano il 13 aprile 1399 chiama Jacques Coene, fissandogli un salario come ingegnere. In quella occasione Jacques Coene dovette forse incontrare a Genova il Maresciallo Boucicaut, che vi si trovava ancora nel 1401; non è improbabile che questi gli commissionasse a Genova il famoso codice delle Ore (Parigi, Museo Jacquemart André), uno dei massimi capolavori della miniatura del tempo. Ricerche spaziali più insistenti che non nei maestri contemporanei, ma soprattutto una sapienza compositiva e un gusto che il Meiss definisce «profondamente italianizzante», caratterizzano queste Ore. Al «Maestro delle Ore Boucicaut» – alias Jacques Coene – Gian Galeazzo Visconti dovette forse assegnare l’esecuzione di un piccolo codice ora nella Biblioteca Reale di Torino (ms. var. 77).
La miniatura in Lombardia Quando avvenivano questi fatti allo scadere del secolo, la miniatura lombarda aveva già alle spalle un venticinquennio di storia e anzi si era già inserita fruttuosamente nel dialogo della pittura gotico internazionale. Questo venticinquennio è quasi interamente legato all’ambiente di corte dei Visconti, dominato dalla figura di Gian Galeazzo Visconti e dalla sua instancabile politica di prestigio e di potere, che attraverso un’audace serie di campagne di guerra lo porterà a minacciare direttamente Firenze, se la morte non lo avesse improvvisamente colto nel 1402. Nel campo culturale il nome di Gian Galeazzo è legato alle grandi imprese della fondazione del Duomo di Milano, destinato a diventare un attivissimo cantiere di scambi artistici sul piano internazionale, e della Certosa di Pavia; nel campo pittorico il suo nome è legato allo straordinario sviluppo della biblioteca del castello di Pavia, iniziata dal padre Galeazzo ii, forse con la diretta consulenza del Petrarca, più volte presente alla corte dei Visconti tra il 1363 e il 1371. La biblioteca pavese raggiungerà agli inizi del xv secolo l’imponente numero di 988 volumi – diventando così la seconda biblioteca in Europa dopo quella di Carlo v – la maggior parte dei quali entrata sotto Gian Galeazzo, benché solo pochi di essi si possono ascrivere alla sua committenza. All’interesse bibliofilo di Bianca di Savoia, la madre di Gian Galeazzo, è legato il primo codice miniato di gusto schiettamente lombardo, un Libro d’Ore ora nella Biblioteca Nazionale di Monaco, terminato dopo la morte del marito Galeazzo avvenuta nel 1378, come è stato recentemente precisato. Nel codice, miniato da Giovanni di Benedetto da Como, si avverte una ricerca ancora incerta di modi propriamente miniaturistici e insieme evidenti rapporti con la pittura ad affresco locale, in particolare con il ciclo della cappella gentilizia di Solaro. Intorno agli stessi anni dovette essere miniato un altro volume che reca il monogramma e lo stem-
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ma di Bernabò Visconti; si tratta di un romanzo cavalleresco del ciclo arturiano, il Guiron le Courtois (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. nouv. acq. 5243) di una raffinata qualità compositiva e di uno stile nettamente distinto da quelli della bottega di Giovanni di Benedetto da Como, così da apparire addirittura un capolavoro del tutto isolato nella stessa Lombardia del tempo. Stupiscono nella successione delle numerosissime scene le geniali variazioni sui temi sempre ricorrenti di duelli, incontri, ambascerie, scene d’interno, dipinti con delicate stesure di colori lievi e sfumati dove dominano gli azzurri e i verdi freschissimi. Si può dire che la miniatura lombarda raggiunga una sua piena maturità solo negli anni ottanta con il ben noto Libro d’Ore-Messale della Biblioteca Nazionale di Parigi, ms. lat. 757, che per ampiezza di illustrazioni, numero di collaboratori e qualità dello stile appare senza dubbio il manoscritto miniato più importante di quel decennio e il punto di riferimento di un gruppo di volumi nati negli stessi anni ad opera della stessa bottega. Col Libro d’Ore-Messale lat. 757 la miniatura lombarda acquisisce maturità stilistica e una sua fisionomia precisa: questa si esprime in una cromia squillante e smaltata e in un’eleganza più sofisticata della linea e della composizione, di gusto pienamente gotico internazionale, pur restando intatta la spontaneità di osservazione realistica tipicamente lombarda. Saranno queste, probabilmente, le qualità che renderanno la miniatura lombarda conosciuta sul piano internazionale, come si deduce dagli inventari francesi del Robinet all’inizio del Quattrocento, in cui alcuni codici della biblioteca di corte sono specificamente indicati con il termine di «ouvraige de Lombardie». La presenza nel ms. lat. 757 di varie mani, così ben omologate da rendere assai difficile l’attribuzione dei vari fogli, denuncia la presenza di una vera e propria bottega miniatoria di corte. Intorno alla bottega del ms. lat. 757 gravita un gruppo di quattro codici tra cui il romanzo cavalleresco del Lancelot (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 343), che al Guiron si ispira direttamente in molte composizioni, e un Tacuinum Sanitatis (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. nouv. acq. lat. 1673). Questo è il più noto e maggior esemplare di un gruppo di codici di scienza botanica e di medicina spicciola nati in un giro d’anni abbastanza stretto. Il carattere didascalico di questo Tacuinum sanitatis è ben evidente sia nelle spiegazioni in calce all’immagine, sia nella descrizione precisa dell’erbaggio, spesso accompagnata da una scena di vita quotidiana. Già il Toesca proponeva di riconoscere in un altro di questi «taccuini» lombardi, la Historia Plantarum della Biblioteca Casanatense di Roma, la mano del grande Giovannino de’ Grassi e della sua scuola; Giovannino dovette infatti essersi formato nelle botteghe miniatorie di Gian Galeazzo nel nono decennio del secolo, ma la sua posizione nell’ambiente artistico milanese dovette presto essere eminente, poiché dal 1391 figura nei documenti come capomastro e scultore del Duomo di Milano. Capolavoro di Giovannino de Grassi è quell’Offiziolo miniato per Gian Galeazzo Visconti (Firenze, Biblioteca Nazionale, Banco Rari 397 e Landau Finaly 22), condotto avanti fino alla morte nel 1398 con la collaborazione del figlio Salomone e poi terminato sotto Filippo Maria Visconti da Belbello di Pavia. Con il raffinatissimo Offiziolo di Gian Galeazzo la miniatura lombarda segna un ulteriore accrescimento in direzione internazionale, con accostamenti alle decorazioni dei bordi francesi e probabilmente anche boemi e con quelle acutezze lineari che Longhi chiamava «le forbicette francesi», ma anche con certe accensioni fantastiche e soluzioni decorative del tutto inedite, specie nei capilettera figurati e nei bordi affollati di stemmi e monogrammi. La sua rara lievità pittorica risplende anche nei fogli a lui attribuibili del Taccuino di disegni conservato alla Biblioteca Civica di Bergamo, che raccoglie fogli destinati probabilmente a servire di modello: alcuni di questi, come per esempio, il cervo, il gruppo di artisti e di coristi hanno una finezza esecutiva senza precedenti, una lievità «puntinista» e insieme una straordinaria vivacità naturalistica. Alla morte di Giovannino de’ Grassi nel 1398 era già attivo almeno da alcuni anni il genio precoce di Michelino da Besozzo, che aveva esordito a Pavia poco più che adolescente, come attesta l’umanista Pier Candido Decembrio. Perdute sono le sue prime opere documentate a Pavia, gli affreschi con scene della Vita
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di sant’Agostino nel chiostro della chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro dei frati agostiniani e l’ancona d’altare per la chiesa di Santa Mustiola del 1394, commissionata da un professore dell’università, Filippo de Ursis da Pescia. È importante ricordare che proprio in San Pietro in Ciel d’Oro aveva lasciato un ciclo d’affreschi anche quel Jean D’Arbois («Giovanni degli Erbosi»), già pittore di corte di Filippo l’Ardito e ricordato ai primi del Quattrocento assieme con Michelino e con Gentile da Fabriano tra i pittori più celebri del tempo. Jean d’Arbois risulta ancora attivo nel 1392 e quindi dovette certamente rappresentare un tramite di cultura francese nell’ambiente locale e per Michelino in particolare. In questa stretta rete di rapporti tra ambienti religiosi e università, Michelino dovette entrare in contatto con i Visconti. Di questo precoce rapporto con i Visconti ci resta fortunatamente un documento di fondamentale importanza, perché datato 1403, le miniature dell’Elogio funebre di Gian Galeazzo, scritto da Pietro da Castelletto (Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. lat. 35888). Il primo foglio reca in alto la scena dell’Incoronazione in Paradiso di Gian Galeazzo Visconti per mano di Gesù Bambino. Lo circondano dodici damigelle elegantissime – le Virtù – e altri angeli paggi in tunichetta e calzari appuntiti con stemmi e insegne araldiche, cosicché il tema da funebre si sposta, come nel seguito dei fogli, in una celebrazione delle glorie viscontee. Nella stessa pagina il tema funebre è richiamato nella scenetta in turchino, nero e oro contenuta nell’iniziale, dove Pietro da Castelletto pronuncia l’orazione funebre: un’iconografia frequente nei manoscritti francesi e specie nelle opere miniate del «Maestro delle Ore Boucicaut». L’intensa attività di Michelino da Besozzo, durata oltre mezzo secolo (egli è documentato, infatti, ancora attivo nel 1445 per la decorazione di Palazzo Borromeo a Milano), ci è nota solo in parte; particolarmente lacunosa è l’attività tarda, che induce a sospettare un indebolimento stilistico. Non è forse un caso che le sue opere migliori siano, con tutta probabilità, opere giovanili o della prima maturità: ricordiamo il delizioso Libretto d’Ore conservato alla Biblioteca Comunale d’Avignone, dipinto con una tecnica mista originale, a «grisaille» con integrazioni di colore acquarellato. Nella scarsissima pittura su tavola di Michelino giunta fino a noi spicca il Matrimonio mistico di santa Caterina della Pinacoteca di Siena, di un sapore un poco esotico, vagamente renano. Un capolavoro della miniatura che regge il confronto con i migliori manoscritti franco-fiamminghi è il Libro d’Ore già Bodmer e ora conservato alla Pierpont Morgan Library di New York, ricco di 47 fogli miniati, che si può attribuire al primo decennio del Quattrocento per certe intense affinità con l’Elogio funebre di Gian Galeazzo. Le incantevoli bordure di fiori naturali – pervinche, viole, aquilegie, ciclamini – sostituiscono le decorazioni di tipo francese più sofisticate, con un sapore freschissimo memore degli erbari e dei taccuina; gli stessi fiori dei bordi si ripetono a tappezzeria dietro le figure dei santi a piena pagina. La misura della grandezza di Michelino è suggerita dalla vastità della sua influenza. Anche in questo caso si direbbe che gli influssi più profondi e stimolanti sono i più precoci, quelli che risultano dal suo prolungato soggiorno nel Veneto, durato forse più di un decennio e concluso solo nel 1418; anzitutto su Stefano da Verona, il figlio di quel Jean d’Arbois tanto celebrato ai suoi tempi. È significativo che per l’opera più nota e più tipica del sognante lirismo di Stefano, la Madonna del Roseto del Museo di Castelvecchio, sia stata proposta (Boskovits) la paternità di Michelino. Gli esiti maggiori dunque della vicenda gotico internazionale non si avranno tanto in Lombardia – dove tranne l’estro visionario di Belbello che concluderà l’Offiziolo Visconti della Biblioteca Nazionale di Firenze, tutti entreranno nel solco aperto da Michelino, via via però più indebolito e ripetitivo – quanto appunto nel Veneto, dove dal secondo decennio del secolo confluiscono le più importanti esperienze gotico internazionali, da quelle di Stefano a quelle di Pisanello, sotto l’influsso non solo del prolungato soggiorno di Michelino ma anche di quello di Gentile da Fabriano, l’esponente più alto del gotico internazionale in Italia,
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350. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. nouv. acq. lat. 1673, Tacuinum Sanitatis, f. 20r.
352. Michelino da Besozzo, Libro d’Ore, Avignone, Bibliothèque Municipale, ms. 111, c. 22r, Adorazione dei Magi.
351. Giovannino de’ Grassi, Taccuino di disegni, Bergamo, Biblioteca Civica, ms. D.vii.14.
353. Giovannino de’ Grassi, Taccuino di disegni, Bergamo, Biblioteca Civica, ms. D.vii.14.
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presente a Venezia già nel 1408. Pisanello inizia la sua carriera a Verona e già nell’Annunciazione giovanile in San Fermo (1426) e, un decennio più tardi, nell’affresco di San Giorgio e il drago nella chiesa di Sant’Anastasia egli rivela una qualità della linea fondamentalmente diversa, più indagatrice e incisa che non melodica, che troverà la sua espressione forse più alta nei ritratti famosi di Lionello d’Este (Bergamo, Accademia Carrara) e della Principessa Estense (Parigi, Louvre); il fascino di quest’ultimo ritratto sta nell’accostamento tra la forza realistica dei tratti somatici e il significato araldico ed emblematico delle farfalle e dei fiori che tappezzano lo sfondo. È sempre la linea a dominare nelle numerose medaglie del Pisanello che a partire dal quinto decennio segnano i suoi passaggi nelle corti rinascimentali padane, da Ferrara a Mantova e infine a Napoli; e grande maestro della linea Pisanello è anche nei disegni, molti dei quali raccolti nel cosiddetto Codice Vallardi (Parigi, Louvre), dove egli si rivela «ultimo guardarobiere di corte, inventarista di costumi, di selle e di finimenti; di rarità botaniche nei broli e animalistiche nelle riserve di caccia» (Longhi).
Gentile da Fabriano
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In un contesto lombardo sembra collocarsi, secondo un’ipotesi assai dibattuta e recentemente ripresa (De Marchi), la formazione pittorica del più raffinato esponente del gotico internazionale in Italia, Gentile da Fabriano. E tuttavia le sue opere più giovanili, come la pala con la Madonna, santa Caterina e san Nicola con donatore (Berlino, Gemäldegalerie), la Madonna in trono con il Bambino e gli angeli musicanti della Galleria Nazionale di Perugia e il polittico di Valle Romita, ora a Brera, provengono tutte dalle native Marche. L’intensa attività nota di Gentile, attività poco più che ventennale di pittore itinerante nei maggiori centri italiani, come già ricordava il Vasari, le commissioni di importanti mecenati e la qualità di estrema raffinatezza del suo stile ne fanno un artista di prima grandezza, fra i massimi del suo tempo, che «portò l’arte cortese alle sue estreme possibilità» (Sterling). La pala già citata di Berlino, probabilmente la prima opera giunta a noi, presenta caratteristiche specifiche della miniatura lombarda, specie il sottile puntinismo con effetti di cangiantismo prezioso nei tessuti, le verità botaniche e certe drôleries come gli alberelli carichi di angeli. Nelle opere successive e massime nel polittico di Valle Romita, Gentile s’incontra sempre più sulla strada di raffinatissime tecniche miste della lavorazione dell’oro – a massello o a foglia, graffito e a velature di colore – come pure di un lento scrutinio di epidermidi, di stoffe e di ogni altra materia, secondo un gusto singolarmente vicino a quello della pittura cortese d’oltralpe. Nel polittico di Valle Romita, sopra al pannello centrale con l’Incoronazione della Vergine e sopra i Santi laterali, prende posto insolitamente un secondo ordine di piccole Scene della vita dei santi Gerolamo, Francesco, Domenico e Maddalena, completate al centro da una Crocifissione. Perduto l’affresco eseguito nel 1410 per la sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale a Venezia, perduti, salvo pochissimi lembi, gli affreschi eseguiti per la cappella Malatesta nel Broletto di Brescia, per i quali riceve pagamenti fra il 1414 e il 1419, ritroviamo Gentile a Firenze nel 1420. Ma subito prima, forse, esegue il doppio stendardo con le Stimmate di san Francesco (Fondazione Magnani, Traversetolo) e l’Incoronazione di Maria (Paul Getty Museum), di sicura destinazione fabrianese. Le Stimmate di san Francesco si arricchiscono di straordinari effetti di luce radente e di ombre portate che non hanno corrispettivi in altri pittori. La venuta a Firenze è legata all’importante commissione di Palla Strozzi per un’Adorazione dei Magi (Firenze, Uffizi), opera di grande mole che sarà terminata solo nel 1423 e di inesauribili invenzioni legate alla cavalcata dei Magi, che inizia nelle tre lunette superiori per concludersi nei primi piani, dove figurano anche Palla Strozzi e il figlio Lorenzo. Nelle predelle, specie nella Fuga in Egitto, Gentile mostra di quali apici di realismo poetico luminoso egli è capace nella resa del paesaggio; ma sin da questa prima opera
354. Stefano da Verona, Madonna del Roseto, Verona, Museo di Castelvecchio.
355. Pisanello, Principessa Estense, Parigi, Museo del Louvre.
356. Pisanello, Disegno di moda, Bayonne, Musée Bonnat.
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fiorentina egli dimostra anche la sua capacità di assimilazione di formule stilistiche fiorentine di grande attualità, come i profetini di timbro ghibertiano nelle cornici. Su questa strada di intelligente assimilazione egli proseguirà anche nelle altre opere fiorentine: la Madonna in trono con san Lorenzo e san Giuliano (New York, coll. Frick) e soprattutto il grande polittico Quaratesi, firmato e datato 1425, con al centro la Madonna in trono e il Bambino (Londra, collezioni reali) – che sembra addirittura anticipare, per certi tratti, il Tabernacolo dei Linaioli dell’Angelico – e i quattro Santi laterali (Firenze, Uffizi): queste figure presentano un’accresciuta monumentalità pur nella strepitosa raffinatezza di certi particolari, come la dalmatica di san Nicola, e nelle predelle un intimismo poetico, specie nella scena dei Pellegrini alla tomba di san Nicola (Washington, National Gallery).
357. Gentile da Fabriano, scomparti del polittico Quaratesi, Firenze, Galleria degli Uffizi, Maddalena e San Nicola.
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L’attività di Gentile da Fabriano proseguirà nello stesso 1425 a Orvieto, dove lascerà l’affresco di una Maestà all’interno del Duomo e subito dopo, nel 1426, a Roma, chiamato dal papa Martino v per la decorazione ad affresco di San Giovanni in Laterano. E a Roma la morte lo colse nel 1427, immerso in questa grandiosa impresa che prevedeva, come si ricava da un disegno secentesco, grandi figure di Profeti dipinte in monocromato entro finte nicchie architettoniche, con scene sottostanti.
Nota Bibliografica Sul centro artistico di Avignone e la sua pittura v. M. Laclotte, L’école d’Avignon, Paris 1960, e la nuova edizione, profondamente trasformata, M. Laclotte e D. Thiebaut, L’école d’Avignon, Paris 1983. In particolare sulla figura di Matteo Giovannetti, v. lo studio fondamentale di E. Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel secolo xiv, Torino 1962 (nuova edizione con nuovi capitoli e aggiornamenti bibliografici, Torino 1991). Per la stagione pittorica e in particolare miniaturistica in Francia nell’ultimo quarto del sec. xiv e ai primi del Quattrocento, v. C. Sterling, La peinture médiévale à Paris, 2 voll., Paris 1987 e 1989. Di fondamentale importanza per la miniatura francese di questo periodo è l’opera in tre voll. di M. Meiss, French Painting in the time of Jean de Berry: Late fourteenth century and the patronage of the Duke, London 1967; The Boucicaut Master, London 1968; The Limbourgs and their contemporaries, New York 1974. Per una sintetica visione d’insieme dello stesso periodo v. di E. Castelnuovo, Il gotico internazionale in Francia e nei Paesi Bassi, Milano 1966. Sulla pittura lombarda nel momento gotico internazionale, v. oltre l’opera ormai «classica» e pionieristica di P. Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, 1912 (ristampa con aggiornamento bibliografico, Torino 1966 e 1987); M. Salmi, La pittura e la miniatura gotiche, in Storia di Milano, vol. vi, Milano 1955, pp. 767-857. L. Castelfranchi Vegas, Il gotico internazionale in Italia, Roma 1966. Per gli aggiornamenti degli studi di questo periodo e nuove proposte, v. le schede del catalogo della mostra Arte in Lombardia tra Gotico e Rinascimento con ampio saggio introduttivo di M. Boskovits (Milano 1988). In particolare sulla miniatura sotto Gian Galeazzo Visconti v. oltre il già cit. volume Miniature lombarde dall’viii al xiv secolo, Milano 1970, con schede di L. Cogliati Arano, di F. Avril, le schede del catalogo della mostra Dix siècles d’enluminure, Paris 1984. Inoltre il saggio di K. Sutton, Codici di lusso a Milano. Gli esordi, in Il Millennio ambrosiano. Dal Comune alla Signoria, Milano 1989, pp. 104-139, con importanti proposte riguardanti la cronologia e la committenza dei codici. Sugli stessi argomenti ma con proposte diverse, v. E.W. Kirsch, Five illuminated manuscripts of Gian Galeazzo Visconti, London 1991. Per una ricostruzione dell’intera vicenda miniaturistica, v. L. Castelfranchi Vegas, Il percorso della miniatura lombarda nell’ultimo quarto del Trecento, in La pittura in Lombardia. Il Trecento, Milano 1992, pp. 297-321. In particolare su Giovannino de’ Grassi e l’Offiziolo Visconti, v. M. Meiss e E.W. Kirsch, The Visconti Hours, New York 1972. Su Michelino da Besozzo, C. Eisler, The Prayer Book of Michelino da Besozzo, New York 1981; G. Algeri, Per l’attività di Michelino da Besozzo nel Veneto, in «Arte Cristiana», lxxv, 1987, 718, pp. 17-32. Su Gentile da Fabriano, oltre al volume di A. De Marchi, Gentile da Fabriano, Milano 1992, v. la monografia di K. Christiansen, Gentile da Fabriano, Ithaca, N.Y. 1982.
358. Gentile da Fabriano, Madonna col Bambino, san Lorenzo e san Giuliano, New York, The Frick Collection.
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DOCUMENTAZIONE GRAFICA
2. Milano, San Lorenzo, iv-v sec.
3. Roma, San Pietro, 400 ca.
4. Roma, San Stefano Rotondo, 470 ca.
5. Pavia, Santa Maria delle Pertiche, viii sec. 1. L’Europa ai tempi di Carlo Magno (da Beckwith). 6. Costantinopoli, Santa Sofia, 532-7.
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DOCUMENTAZIONE GRAFICA
12. Milano, San Satiro, ix sec.
7. Acquisgrana, cappella Palatina, fine viii-inizio ix sec.
8. Corvey, abbazia, ix sec.
13. Hildesheim, San Michele, 1010-1333, schema assonometrico.
9. Abbazia di Saint-Denis, ix sec.
14. Spira, cattedrale, ricostruzione dello stato prima del 1061.
10. Benevento, Santa Sofia, viii sec.
15. Treviri, planimetria della cattedrale, 1010-1047 e fine xi sec.
11. Abbazia di Centula (odierna Saint-Riquier), ix sec.
16. Spira, cattedrale, 1030-1106, ricostruzione dell’interno.
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DOCUMENTAZIONE GRAFICA
17. Colonia, Santa Maria in Campidoglio, consacrata nel 1065.
Como, San Fedele, xi-xiii sec. 22. Torcello, Santa Fosca, restaurata entro il 1031, planimetria.
23. Venezia, San Marco, ricostruita nella seconda metĂ del xii sec.
24. Pisa, cattedrale, 1063-1118, planimetria.
25. Fontenay, abbazia, 1138-47.
19. Cluny, terza abbazia, consacrata nel 1130, ricostruzione
21. Santiago di Compostela, cattedrale, 1078-1124.
20. Milano, Sant’Ambrogio, ix-xii sec.
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DOCUMENTAZIONE GRAFICA
26. Parigi, Notre-Dame, 1160-1200 ca.
29. Castel del Monte, iniziato nel 1240.
27. Reims, cattedrale, xiii-xiv sec.
28. Amiens, cattedrale, 1220-1264.
30. Ricostruzione della pianta di Santa Maria del Fiore secondo il progetto di Arnolfo di Cambio.
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INDICE DEI NOMI
Acquasparta, Cardinal Matteo d’, 288 Adelaide, badessa di Gandersheim, 101 Adriano, papa, 87 Agilulfo, 41,42, 44, 45, 81 Agnello, arcivescovo di Ravenna, 25 Agostino, santo, 49, 96 Alarico, 23 Alboino, 44 Alcherius (o Jean Aucher), 370 Alcuino di York, 86, 87 Alessandro, santo, 186 Alessandro di Magdeburgo, vescovo di Plock, 192 Alfonso iii, 110 Alfonso iv, 125 Altichiero, 312, 362, 364 Ambrogio, santo, 22, 96, 98, 118 Andrea di Vanni, 313 Andrea Pisano, 277, 280, 309, 310 Angilberto, 84, 96, 98 Angioini, 299 Anselmo, abate di Bury St. Edmunds, 188, 190 Anselmo di Aosta, santo, arcivescovo di Canterbury, 188 Ansperto, 98 Antelami Benedetto, 146, 158, 228, 249, 252, 258, 260 Arato, 158 Arcangeli Francesco, 351 Arechi ii, 44 Ariberto d’Intimiano, 120 Arnolfo de’ Capitani, 180 Arnolfo di Cambio, 152, 249, 268, 274, 276, 277, 286, 288, 292 Arnolfo di Carinzia, 101 Arrigo vii di Lussemburgo, 274, 280 Astolfo, 1586 Attila, 39 Avanzi Jacopo, 312, 362 Aymeric, 136
Bagnoli Alessandro, 265 Bardi, Gualtieri de’, 308 Bardi, Ridolfo de’, 309 Barisano da Trani, 168 Barna da Siena (o Barna di Bertino), 300, 305 Baronzio Giovanni, 292 Beato Angelico (Giovanni da Fiesole), 376 Beatus, monaco, 110 Beauneveu André, 368 Beckwith John, 83 Belbello da Pavia, 371, 372 Belisario, 26 Bellosi Luciano, 284, 296, 312, 351 Belludi Luca, beato, 361 Belting Hans, 42 Benedetto xii, 365 Berenson Bernard, 12, 293, 302, 308, 349 Bernardo da Chiaravalle, 128, 132, 144 Bernoardo, vescovo di Hildesheim, 101, 116, 124 Bertelli Carlo, 45 Bianchi Bandinelli Ranuccio, 9 Boccaccio Giovanni, 296 Boezio Severino, 26 Bologna Ferdinando, 182 Bonanno Pisano, 166 Bonaventura, santo, 290 Bondol Jean (o Jean de Bruges), 367 Bonifacio viii, 276, 277 Boskovits Miklós, 350, 372 Bottari Stefano, 268 Boucicaut, maresciallo, 369, 370, 372 Broederlam Melchior, 368 Brunelleschi Filippo, 277 Brunone, arcivescovo di Colonia, 101, 102 Brunus, 145, 146 Buffalmacco (o Buonamico di Martino), 312, 313
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Bulgarini Bartolomeo (o Maestro di Ovile o Ugolino Lorenzetti), 314 Buscheto, 164 Buzzacarina Fina, 361 Calimala, Arte di, 160 Capanna Puccio, 308, 312, 356 Carlo d’Angiò, 274 Carlo il Calvo, 90, 92, 93, 98 Carlo Magno, 9, 83, 84, 86, 88, 90, 92, 94, 96 Carlo iii, 101 Carlo v, 290, 367, 368, 370 Carrara Francesco il Vecchio, 361, 362 Castelnuovo Enrico, 367 Cavalcaselle Giovati Battista, 303, 349 Cavalli, famiglia, 362 Cavallini Pietro, 286, 288, 290, 350 Cicerone, 184 Cimabue, 283, 284, 286, 290, 296 Clemente v, 351 Clemente vi, 365, 366 Coene Jacques, 370 Colombano, santo, 45 Compagni Dino, 293 Contarini Domenico, doge, 160 Conxolus, 287 Corrado i, 102 Corrado ii, 102 Corrado ii, 184 Cortellieri Tebaldo, 361 Cosmati, 166 Costantino, 12, 13, 16, 83, 107 Costanza d’Altavilla, 260 Cumiano, santo, 45 Cunegonda, moglie di Enrico ii, 114, 244 Daddi Bernardo, 296, 299, 308, 309
Dalmasio, 356 Dante, 286 De Braye, cardinale, 276 Decembrio Pier Candido, 371 Degenhart Bernhard, 296 De Marchi Andrea, 374 Demus Otto, 260 Desiderio, abate di Montecassino, 182 Donato, 268 Drogone, arcivescovo di Metz, 94 Duby George, 130 Duccio di Buoninsegna, 296, 297, 298 Durandus, abate di Moissac, 136 Ebbone, arcivescovo di Reims, 88 Eburnant, 106 Ecclesio, vescovo di Ravenna, 28 Egberto da Reichenau, arcivescovo di Treviri, 101, 106 Eginone, vescovo, 49 Ekkehard ii, margravio di Meissen, 244 Elia, frate, 283 Enrico i, 101 Enrico ii, 107, 112, 116, 244 Enrico iii, 114 Enrico iv, 124 Eraclio, 176 Eriberto, santo, arcivescovo di Colonia, 107, 186 Este, Lionello d’, 374 Eusebio di Cesarea, 107 Eyck Barthélemy d’, 368 Falier Vitale, doge, 160 Federico i Barbarossa, 184, 260 Federico ii di Hohenstaufen, 242, 244, 249, 260, 262, 264, 265, 274, 283 Ferretti Massimo, 309 Filippo Augusto, 232 Filippo l’Ardito, 368, 372 Fissiraga Antonio, 356 Focillon Henri, 130, 178, 227 Francesco, pittore fiorentino, 314 Francesco, santo, 283 Francesco da Rimini, 292 Frugoni Chiara, 156 Gaddi Taddeo, 308, 309, 310, 313, 314, 315 Galgano da Frosini, santo, 303 Galla Placidia, 23 Galvano Fiamma, 356 Gauzlino, abate di Saint-Benoît-surLoire, 180 Gelasio, papa, 160 Geminiano, santo, 151, 152 Genserico, 39
Gentile da Fabriano, 372, 374, 377 Gerolamo, santo, 87 Gerone, arcivescovo di Colonia, 117 Gervasio, santo, 96 Ghiberti Lorenzo, 280, 308, 313 Gilabertus, 136 Gilduino, 135 Giorgio di Antiochia, 170 Giottino, 314 Giotto, 242, 277, 280, 283, 284, 286, 288, 290, 292, 293, 294, 296, 297, 299, 300, 302, 305, 308, 309, 310, 312, 313, 349, 350, 351, 356 Giovannetti Matteo, 366 Giovanni, conte di Seprio, 96 Giovanni da Milano, 314, 358, 360 Giovanni da Murro, fra’, 284 Giovanni da Rimini, 292, 350 Giovanni del Biondo, 314 Giovanni di Balduccio, 309 Giovanni di Benedetto da Como, 370, 371 Giovanni di Bonino, 299 Giovanni Pisano, 152, 242, 265, 270, 274, 277, 280, 297, 298 Gislebertus, 144, 145 Giuliano da Rimini, 292, 350 Giunta Pisano, 284 Giustiniano, 26, 28, 33 Giusto de’ Menabuoi, 358, 361, 362 Gnudi Cesare, 249, 258, 265, 351 Godefroy de Huy, 186, 247 Goethe Johann Wolfgang, 227 Gotofredo, 118 Gozberto, abate di San Gallo, 86 Gozbertus, orafo, 192 Grassi, Giovannino de’, 371 Grassi, Salomone de’, 371 Gregorio Magno, papa, 41, 87, 106 Grimaldi Giacomo, 276 Gruamonte, 166 Guariento, 361 Guglielmo, fra’, 268 Guglielmo, scultore (Storie della Genesi, portale di San Zeno, Verona), 158 Guglielmo, scultore (pulpito del Duomo di Cagliari), 166 Guglielmo ii, re di Sicilia, 173 Guglielmo da Volpiano, 102 Guglielmo il Conquistatore, 125 Guidalotti, cappella, 360 Guidi, conti, 309 Guidoriccio da Fogliano, 299, 313 Hellinus, abate di Notre Dame des Fontes a Liegi, 184 Henry de Blois, vescovo di Winchester, 188 Heribertus Augugenses, 106
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Hilduino, abate di St. Denis, 92 vedi Maestro H., Hugo Victor, 227 Illustratore (o Tommaso di Galvano), 351 Innocenzo ii, papa, 128, 182 Jacopino da Reggio, 290, 294 Jacopino de’ Bavosi (o Pseudo Jacopino), 312, 351, 352 Jacopo da Varagine, 362 Jacopo del Casentino, 296 Jacopo di Mino del Pellicciaio, 314 Jacquemart d’Hesdin, 368, 370 Jacques de Baerze, 368 Jean d’Arbois, 372 Jean de Beaumetz, 368 Jean de Berry, 368 Jean de Vaudetar, 367 Jean d’Orléans, 368 Johannes, monaco di Albares, 110 Johannes, pittore, 180 Johannes italicus, miniatore, 106 Johannes Magister, scultore, 45 Keraldus, 106 Kitzinger Ernst, 9, 10, 12, 88 Kreytenberg Gert, 309 Kubach Hans Erich, 124 Laclotte Michel, 351 Lanfranco, 151, 152 Lapo, 268 Latini Brunetto, 123 Laura di Sade, 305 Leone, conte di Seprio, 96 Leone iii, papa, 83 Limbourg Hermann, 369 Limbourg Jean, 368, 369 Limbourg Pol, 368, 369 Lippo di Benivieni (o Maestro della Croce dei Filicaia), 298, 299 Liuthar, 106, 107 Liutprando, 42, 44 Livio, 290 Longhi Roberto, 288, 293, 298, 302, 308, 309, 312, 349, 351, 360, 361, 371, 374 Lorenzetti Ambrogio, 277, 280, 308, 309, 312, 313 Lorenzetti Pietro, 277, 280, 302, 303, 308, 309, 312, 313 Lorenzetti Ugolino (o Maestro di Ovile o Bartolomeo Bulgarelli), 346 Lotario, 92, 114 Lotario ii, 184
Ludovico di Tolosa, santo, 300 Ludovico il Pio, 95, 96 Luigi ix, re santo, 234, 274 Lupi Bonifacio, 362 Lupi Raimondino, 362 Maestro Alexis, 188 Maestro degli Angeli ribelli, 305 Maestro degli Archivolti, 240 Maestro del Codice di San Giorgio, 299, 365 Maestro del Coro di Sant’Agostino, 292 Maestro del Graziano di Napoli, 294 Maestro del Registrum Gregorii, 106, 120 Maestro della Cattura di Cristo, 284 Maestro della Croce dei Filicaia (o Lippo di Benivieni), 298, 299 Maestro della Croce di Gubbio, 290 Maestro della Croce di Montefalco, 292, 294 Maestro della Pietà Fogg, 299 Maestro dell’Arengo, 292, 350 Maestro della Santa Cecilia, 292 Maestro delle Ore del Duca di Bedford, 369 Maestro delle Ore del Maresciallo Boucicaut, 369, 370 Maestro delle Ore di Rohan, 369 Maestro delle Vele, 302 Maestro del 1328, 294, 351 Maestro del 1333, 351 Maestro di Echternach, 116 Maestro di Figline, 299, 300, 313 Maestro di Isacco, 284, 290 Maestro di Ovile (o Ugolino Lorenzetti o Bartolomeo Bulgarelli), 314 Maestro di San Francesco, 283, 284 Maestro di San Martino alla Palma, 308, 309 Maestro Florentius di Valeranica, 110 Maestro Hugo, 188, 190, 192 Maestro Magius di Tavara, 110 Maestro Oltremontano, 283 Maestro Sarracinus di Albelda, 110 Maitani Lorenzo, 277, 280 Malatesta, 349 Mâle Emile, 140, 227 Malouel Jean, 368 Manetti (Antonio di Tuccio o Giannofe?), 277 Manfredi, 265 Manuel, 186 Marco, santo, 88, 96, 160 Marco Aurelio, 83 Martini Simone, 280, 299, 300, 302, 303, 305, 308, 313, 365, 368 Martino, santo, 98 Martino v, papa, 377
Maso di Banco, 296, 303, 308, 309 Massenzio, 12 Massimiano, 28, 33 Massimino Daia, 13 Matilde, badessa di Quedlinburg, 101 Matilde di Fiandra, 125 Matteo da Pacino, 360 Maurice de Sully, 230, 231, 240 Meiss Millard, 313, 370 Melano, fra’, 268 Memmi Lippo, 299, 300, 305 Memmo di Filippuccio, 294, 299 Michelangelo, 268, 296 Michelino da Besozzo, 371, 372 Miniatore daddesco, 299 Miniatore di Esaù, 351 Miniatore di Gerona, 290 Miniatore di Gherarduccio, 294 Miniatore di Seneca, 294 Montfaucon Bernard de, 234 Montefiore, cardinal Gentile di, 299 Nardo di Cione, 314 Neri da Rimini, 292 Nerio, 294 Niccolò ii, papa, 168 Niccolò dell’Arca, 268 Nicola Pisano, 152, 182, 242, 249, 265, 268, 270, 274, 284, 287 Nicolas de Verdun, 184, 186, 244, 247, 248, 265 Nicolò (o Nicolao), 136, 158 Nivardo, 180 Notker, vescovo di Liegi, 116 Novello Agostino, beato, 303
Pepoli Cera, 310 Petrarca Francesco, 290, 305, 362, 370 Petrus Brunus, 146 Pietro, santo, 106 Pietro da Castelletto, 372 Pietro da Pisa, 86 Pietro da Rimini, 292, 350, 352 Pietro di Hautvilliers, 88 Pietro il Venerabile, 144 Pipino, 88, 101 Pisanello, 372, 374 Poggetto Bernardo del, cardinale, 312 Poppo di Stavelot, arcivescovo di Treviri, 102 Porcher Jean, 90 Primo miniatore di Perugia, 290, 298 Protasio, santo, 96 Proust Marcel, 293 Pseudo-Dionigi, 92, 230 Pseudo Jacopino (o Jacopino de’ Bavosi), 312, 351, 352 Puccio di Simone, 314, 358 Pucelle Jean, 367, 368 Quintavalle Arturo Carlo, 156, 252
Oddone di Metz, 83 Oderisi da Gubbio, 286, 288 Offner Richard, 284 Onorio, 23 Onorio iii, 294 Orcagna Andrea, 309, 312, 314 Orsini, 284, 305, 368 Orso, vescovo, 180, 280 Ottone i, 101, 117, 118 Ottone ii, 101, 102, 106, 118 Ottone iii, 88, 101, 106, 107, 118, 180 Ottone iv, 247
Radaunus, 260 Raganaldo di Marmoutier, 90 Rainaldo, 164 Rainaldo di Dassel, 247 Remsese, 90 Renato d’Angiò, 368 Renier de Huy, 184, 186 Riccobaldo Ferrarese, 349 Riegl Alois, 9, 13 Rintelen Fritz, 284 Roberto, scultore, 166 Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, 168, 182 Roberto d’Angiò, 300 Roberto di Jumièges, 107 Robinet d’Estampes, 371 Romanini Angiola Maria, 44, 274 Ruggero i, 168 Ruggero ii, 168, 170 Ruggero di Helmershausen, 186, 188 Ruodprecht, 106 Rusuti Filippo, 287, 288
Pächt Otto, 48, 178, 190 Panofsky Erwin, 230 Paolino, 98 Paolo, santo, 118 Paolo Diacono, 44 Paolo Uccello, 302 Parente di Giotto, 300, 308 Pavoluccio di Lazzerino da Lucca, 314
Sanctius, allievo di Maestro Florentius, 110 Sassetta, 302 Satiro, santo, 98 Sauerländer Willibald, 234 Savoia, Bianca di, 370 Scala, Cansignorio della, 362 Schapiro Meyer, 132
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INDICE DEI LUOGHI E DELLE OPERE
Schlegel August Wilhelm von, 227 Schmitt Annegrit, 296 Scoto Eriugena, 92 Scrovegni Enrico, 293 Sedlmayr Hans, 228 Servio, 305 Silvestro, santo e papa, 98 Simplicio, papa, 23 Sisto iii, papa, 23 Sofia, badessa di Essen, 101 Stefano da Verona, 372 Stefano Fiorentino, 308 Stephanus Lagerinus, 225 Sterling C., 374 Stilicone, 23, 26, 39 Strozzi Lorenzo, 374 Strozzi Palla, 374 Suger, abate di St. Denis, 128, 186, 228, 230 Talenti Francesco, 276 Tarlati Guido, vescovo di Arezzo, 303 Teodolinda, 41, 44 Teodora, 28, 36
Teodorico, 25, 26, 39 Teodosio, 10, 16 Teodulfo, 86 Teofano, 101, 102, 118 Teofilo, 176, 188 Terzago Isotta di, 358 Tino di Camaino, 277 Toesca Pietro, 182, 308, 309, 313, 349, 371 Tommaso da Modena, 356 Tommaso d’Aquino, santo, 300 Tommaso di Galvano (o Illustratore), 351 Torriti Jacopo, 284, 286, 287, 288 , 290 Traini Francesco, 312, 313 Ugo, santo, abate di Cluny ii, 125 Ullmann Berthold Louis, 365 Umiliati, 358 Urbano iii, papa, 150 Urbano v, papa, 365 Ursis, Filippo de’, 372 Uta, badessa di Niedermünster, 114
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Valentiniano, 23 Vasari, Giorgio, 227, 265, 280, 284, 286, 296, 308, 309, 3312, 349, 360, 362, 374 Villard de Honnecourt, 230 Viollet le Duc Eugène, 227, 230, 232 Virgilio, 24, 93, 305 Vimara monaco di Albares, 110 Visconti Azzone, 312, 356 Visconti Bernabò, 371 Visconti Filippo Maria, 371 Visconti Galeazzo ii, 370 Visconti Gian Galeazzo, 370, 371 Vitale degli Equi (o Vitale da Bologna), 355 Viviano, 90 Volpe Carlo, 351, 356, 358 Vuolvinio, 98 Wibaldo, abate di Stavelot, 184, 186 Wiligelmo, 152, 156, 158 Wimpfeling, 124 Witigowo, abate di Reichenau, 106
Abbeville: Bibliothèque Municipale, Vangeli di Saint Riquier, 88 Abdinghof, altare di, 186 Acquanegra (Mantova): San Tommaso, affreschi, 180 Aja: Museum Meermanno Westreeninum, Bibbia di Carlo v, 367, 346 Alatri: Duomo, Madonna (scultura lignea), 168 Albares: scriptorium, 110 Albelda: scriptorium, 110 Albizzate: oratorio visconteo, affreschi, 360 Alnwick Castle: Northumberland Collection, dittico, Giovanni da Rimini, 350 Altenburg: Lindenau Museum, Apostoli, bottega di Simone Martini, 300 Altlussheim, necropoli unna, 39 Alton Towers, trittico di, 186 Amiens: Bibliothèque Municipale, Salterio di Corbie, 48, 56 Cattedrale, 232, 240 Andria, 262 Antiochia, 13 Anversa: Museo, Storie della Passione, Simone Martini, 305 Aosta: Santi Pietro e Orso, affreschi, 180, tav. 32 Aquisgrana, 83, 84, 88, 101, 106, 107, 180 Cappella Palatina, 44, 86, 60 Cattedrale, ambone di Enrico ii, 116
Tesoro della Cattedrale, Croce di Lotario, 114; Evangeliario da Reichenau, 107; secchiello liturgico in avorio, 116, tav. 24 Arezzo, 294, 303 San Domenico, Crocifisso, Cimabue, 284 Arles: Saint Trophime, 249 Asciano: Museo d’Arte Sacra, Madonna, bottega di Simone Martini, 300, 305 Assisi, 277, 283, 284, 286, 290, 292, 293, 294, 296, 299, 300, 302, 308, 314, 349 Istituto di San Giuseppe, Annunciazione, Puccio Capanna, 308, 315 Pinacoteca Comunale, affresco (frammento), dalla Porta di San Rufino, Puccio Capanna «Stefano Fiorentino», 308 Sacro Convento, Crocifissione, affresco, Puccio Capanna, 308 San Francesco, 286 Basilica Inferiore, Adorazione dei Magi, Parente di Giotto, 302, 307; cappella della Maddalena, affreschi, 296; cappella di San Martino, affreschi, Simone Martini, 299, tav. 54; Incoronazione della Vergine, affresco, Puccio Capanna, 308; Madonna, Cimabue, 286; sacrestia, Madonna e santi, Maestro di Figline, 299; Storie dell’Infanzia di Cristo, Allegorie francescane, 302, 303, 308; Storie di san Stanislao, Puccio Capanna, 308, tav. 58; Storie della Passione, Ultima Cena, Pietro Lorenzetti, 302, 303, tav. 57; vetrata, Simone Martini (?), Maestro di Figline (?), 299, 300 Basilica Superiore, Apocalisse, Cimabue, 283; Creazione, Jacopo
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Torriti, 286; Crocifissione, Cimabue, 284, 286, 286; Storie bibliche, Maestro della Cattura di Cristo e Maestro di Isacco, 284; Storie degli apostoli Pietro e Paolo e della Vergine, Cimabue, 283; Esaù respinto da Giacobbe, Giotto, 284, 284; Storie di san Francesco, 284, 290, 293, 302, 294, tav. 47; Trasfigurazione, Maestro Oltremontano, 283; vetrate, Maestro di San Francesco, 283; Volta degli Evangelisti, Cimabue, 284, 286 Santa Maria degli Angeli, San Francesco, Cimabue, 286 San Rufino, 166, 308 Augsburg: Cattedrale, porte bronzee, 168 Autun, 128, 132 Bibliothèque de la Ville, Sacramentario di Marmoutier, 90 Saint-Lazare, 144, 237, 114, 137, 138 Auxerre: Saint-Germain, 86 Averbode, Vangelo di, 186 Avesnes: Société Archéologique, Evangeliario di Liessies, 188, 196 Avignone, 290, 299, 305, 355, 358, 365, 366, 367 Biblioteca Comunale, Libro d’Ore, Michelino da Besozzo, 372, 352 Musée du Petit Palais, Crocifissione, Pseudo Jacopino, 352 Palazzo dei Papi, affreschi, Matteo Giovannetti, 365, 366, 367, 345, tav. 77
Bagnacavallo: San Pietro in Sylvis, affreschi, Pietro da Rimini, 351
Baltimora: Walters Art Gallery, Bibbia di Corradino (ms. W. 152), 288, 290 Bamberga, 107, 242 Apocalisse di, 120, tav. 18 Cattedrale, 244, 265, 223, 225, 227 Diözesanmuseum, mantello di consacrazione di Enrico ii, 112, tav. 19 Barcellona: Museu de Arte Antigua de Catalunya, affreschi (da San Clemente de Tahull), 178, tav. 31 Bari: San Nicola, 168, 172, 174, 175 Barletta: Museo, busto di Federico ii, 265, 253 Basilea: Duomo, 124 Bayonne: Musée Bonnat, Disegno di moda, 356 Beaulieu, 136, 144 Beauvais: Cattedrale, 234 Belgrado: Museo Nazionale, ritratto di Costantino, 13, 6 Benevento, 42 Santa Sofia, 44 Bergamo: Accademia Carrara, Ritratto di Lionello d’Este, Pisanello, 374 Biblioteca Civica, Taccuino di Disegni, Giovannino de’ Grassi, 371, 351, 353 Berlino: Deutsche Staatsbibliothek, Codice di Eginone, 49, 57; dittico consolare di Probiano, 20, 22, 19 Gemäldegalerie (Dahlem), Crocifissione, Dormitio Virginis, Giotto, 302; Madonna della Cintola, Maso di Banco, 308, 316; Madonna, santa Caterina e san Michele con donatore, pala, Gentile da Fabriano, 374; Pala della Beata Umiltà (scomparti) Pietro Lorenzetti, 309; Storie della Passione, Simone Martini, 302, 305; Trittico del Bigallo, Bernardo Daddi, 308 Kunstgewerbemuseum, Pala di san Remaclo, 186, tav. 35 Kupferstichkabinett, Crocifissione (disegno), Giovanni da Milano, 360 Staatliche Museen, dittico eburneo, Maestro di Echternach, 116, 95; Scene detta vita di Cristo (pannelli eburnei), 26 Berna: Historisches Museum, lastra di guarnizione di scudo, 41, 47
Bernay: chiesa abbaziale, 102 Berzé-la-Ville, affreschi, 176, 178, tav. 30 Bisanzio, 26, 112 Bobbio: abbazia, biblioteca, 48 Museo, Lapide di san Cumiano, 45, 53 Bologna, 290, 310, 312, 349, 350, 355, 356 Galliera, fortezza di, affreschi perduti, Giotto, 312 Museo Civico Davia Bargellini, Madonna dei Denti, Vitale da Bologna, 355, tav. 68; Matricola dei Merciai, ms. 633, 351 Pinacoteca Nazionale, affreschi da Mezzaratta, 312, 355, 334; Crocifissione, Dalmasio, 356, 332; Madonna del ricamo, Vitale da Bologna, 355; polittici, Pseudo Jacopino, 355, 330, 331; polittico per Gera Pepoli, Giotto, 310; San Giacomo alla battaglia di Clavijo, Pseudo Jacopino, 312; San Giorgio e il drago, Vitale da Bologna, 355, tav. 67; Storie di sant’Antonio abate, Vitale da Bologna, 355 San Domenico, arca di, 268; corali, 294 San Giovanni in Monte, Crocifisso, Pseudo Jacopino, 312, 352 Santa Maria dei Servi, corali, 351 San Salvatore, Polittico dell’Incoronazione,Vitale da Bologna, 355 San Vitale, 351 Bolzano, 180, 181 Borgo San Lorenzo: pieve, Madonna, Giotto, 292 Boston: Gardner Museum, dossale Giotto (parte), 302; dossale, Giuliano da Rimini, 292, 350 Museum of Fine Arts, Trittico della Crocifissione, Duccio, 298 Bouvines, vittoria di, 232 Boville Ernica (Frosinone): San Pietro Ispano, affreschi, 292 Brescia: Broletto, Cappella Malatesta, affreschi perduti di Gentile da Fabriano, 374 Museo Cristiano, Dittico di Boezio, 26 San Salvatore, sinopie, 96; stucchi, 45 Bruges, 367 Bruxelles: Bibliothèque Royale, Très Belles Heures di Notre Dame, 368 collezione Stoclet (già), tavole, Lippo di Benivieni (?), 298 Musées Royaux, altare di Stavelot,
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186, tav. 36; testa reliquiario di sant’Alessandro, 186 Budapest: Museo, coronamento della Maestà, Duccio, 297 Storie della Sacra Cintola (parte), tavoletta, Maso di Banco, 308 Buenos Aires: Instituto de Telia, centrale del polittico di Ognissanti, Giovanni da Milano, 358 Burgo de Osma: Cattedrale, 110 Commentario dell’Apocalisse, 110, 91 Libro di Daniele, 110 Burgusio, 181 Bury St. Edmunds: abbazia, 188, 190 Caen: La Trinité, 125 Saint-Étienne, 125, 110 Cagliari: Duomo, pulpito, Guglielmo, 166, 166 Cambridge: Christ Church, 188 Corpus Christi College, Bibbia di Bury St. Edmunds, maestro Hugo, 188, tav. 38 Trinity College Library, Salterio di Edwine, 188 Fitzwilliam Museum, Sant’Agostino, Simone Martini, 300, tav. 55; Deposizione (parte) tavoletta, Lippo di Benivieni (?), 298 Cambridge (Mass.): Fogg Art Museum, Deposizione, Maestro di Figline, 299 Canterbury, copia del Salterio di Utrecht, 107, 188 Cattedrale, scriptorium, 188 Capua: Museo Provinciale Campano, affreschi da San Salvatore Piccolo, 290; Capua fidelis, 264, 256; Giudice, 264, 252; statua acefala di imperatore, 264, 252; c.d. Testa di Zeus (chiave di arco), dalla Porta di Capua, 264 Carrara, 160 Castel del Monte (Andria), 262, 265, 251 Castelfiorentino: Santa Verdiana, copia della Maestà di Giotto, Taddeo Caddi, 309 Castel d’Appiano (Bolzano), 181, 188 Castelseprio, 45 Santa Maria foris portas, 95, 96, 73, 74
Catania: Biblioteca Civica, Bibbia, ms. A, 288 Cefalù: Cattedrale, 170, 178 Centula (Saint-Riquier), 84, 86 Cesena: Biblioteca Malatestiana, Infortiatum, 351 Chantilly: Musée Condé, pagina del Registrum Gregorii, 106; Très Riches Heures du Duc de Berry, 368, tav. 81; Storie della Sacra Cintola (parte) tavoletta, Maso di Banco, 308 Charlieu, 136, 144, 133 Chartres: cattedrale, 136, 158, 230, 232, 234, 237, 240, 242, 252, 260, 206, 210, 211, 212, 214, 215, 216, 218 Chiaravalle: abbazia, affreschi, 356 Citeaux, 128, 130 Civate: San Calogero al Piano, affreschi, 180, 181 San Pietro al Monte, affreschi, 180, tav. 33 Cividale: Museo Archeologico Nazionale; Croce di Gisulfo, 41; Salterio di Egberto, 106, tav. 16 Museo Cristiano, altare di Ratchis, 44, 49; Battistero di Callisto, 44; pluteo di Sigvaldo, 44 Santa Maria in Valle, stucchi, 45, 51 Civita Castellana: Duomo, 166 Clairvaux, 128, 130 Classe, 25 Cleveland: Museo, Missione degli Apostoli (avorio), 118, 102 Cluny i, 84 Cluny ii, 125 Cluny iii, 125, 144; affreschi perduti, 176, 178; portale, 237, 136 Musée Lapidaire, capitelli, 134, 135 Coira, 94, 95 Colle Val d’Elsa, 274 Colonia, 101, 107, 186, 242 Cattedrale, 227, 255; Crocifisso di Gerone, 117, 99 Sant’Andrea, 102 Santa Maria in Campidoglio, 102, 124 San Pantaleone, 102 scriptorium, 107, 114 Tesoro della Cattedrale, Cassa dei re Magi, Nicolas de Verdun, 247, tav. 40 Wallraf Richartz Museum, polittico
da San Gimignano (parte), Simone Martini, 300 Como: Pinacoteca Civica, affreschi dal monastero di Santa Margherita, 356, 337 San Fedele, 150, 146 Sant’Abbondio, affreschi, 356 Conques, 132 Sainte-Foy, reliquiario di santa Fede, 116 Corbie, 48; Salterio di, 48 Corteleona, palazzo di Liutprando (perduto), 44 Cortona: Museo Diocesano, Madonna, Pietro Lorenzetti, 303 Corvey: abbazia, 86, 58 Costantinopoli, 10, 12, 13, 16, 28, 96, 116, 234 Crysotriclinion, 83 obelisco di Teodosio, 16, 14 Santi Apostoli, 160 Santi Sergio e Bacco, 28 Santa Sofia, 44, 160 Costanza, 106 Cremona: Cattedrale, 156, 158; sculture, 258 Darmstadt: Hessische Landesbibliothek, Vangeli della badessa Hitda, 107, 89 Deutz (Colonia): abbazia, Urna di sant’Eriberto, 186, 195 Digione: Musée des Beaux Arts, Presentazione al tempio, Fuga in Egitto, Melchior Broederlam, 368, tav. 79 Dinant, 192 Domagnano, necropoli gota, 39 Dublino: Trinity College Library, Libro di Durrow, Libro di Kells, 48 Durham: Cattedrale, 125, 113 Durrow, libro di, 48 Echternach, libro di, 48, scriptorium, 105, 107 Edimburgo: National Gallery, Adorazione dei Magi, Vitale da Bologna, 355, 333 Efeso, concilio di, 25 Ely: Cattedrale, 107, 125, 111 Epernay: Bibliothèque de la Ville, Vangeli di Ebbone, 88, 61
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Escorial: biblioteca, Bibbia, 290 Essen: Tesoro della Cattedrale, Croce della badessa Matilde, 114, 93; Madonna col Bambino, 114, 94 Santa Trinità, 114 Faenza: Pinacoteca, Madonna col Bambino e santi, Giovanni da Rimini, 351, tav. 64 Ferentillo: San Pietro in Valle, 182, 193 Ferrara, 258, 374 Duomo, 158, 159, 160 Museo del Duomo, Mesi, 260, 245, tav. 43 Fidenza: Duomo, 252, 235; Madonna col Bambino, Benedetto Antelami, 252, 233 Fiesole: Museo Bandini, Annunciazione, Taddeo Gaddi, 309 Figline Valdarno: Collegiata, Madonna e santi, Maestro di Figline, 299 Firenze, 160, 276, 277, 280, 284, 292, 308, 309, 310, 312, 314, 358, 370, 374 Accademia, Pietà, Giovanni da Milano, 360, tav. 71 Badia, 277; affreschi, 294 Battistero, 160, 162, 163; prima porta, Andrea Pisano, 280, 309, 318; seconda porta, Lorenzo Ghiberti, 280 Biblioteca Nazionale, Offiziolo Visconti, 371, 372, tav. 86 Carmine, tavole, Maestro del Codice di San Giorgio, 299 collezione Berenson (Settignano), dossale, Giotto, 302 collezione Longhi, Storie di santa Caterina d’Alessandria, Vitale da Bologna, 312 collezione privata, parte del polittico di san Gimignano, Simone Martini, 300 Duomo, 276, 292; campanile, 280; campanile di Giotto, 310; statua del vescovo Orso, Tino di Camaino, 280, 281 Museo Bardini, Carità, Giovanni Pisano, 280 Museo del Bargello, braccio di poltrona in avorio, 192; dittico di Ariadne, 36, 37; dossale, Maestro del Codice di san Giorgio, 299;
flabello di Saint-Philibert di Tournus, 93, 70; lamina di Agilulfo, 41, 46; Madonna Sedes Sapientiae, Giovanni Pisano, 280 Museo del Bigallo, trittico, Bernardo Daddi, 308, 309, 319 Museo dell’Opera del Duomo, sculture dal Duomo, Arnolfo di Cambio, 276, 275, 279; disegno della facciata di Santa Maria del Fiore, 276, 280; formelle del campanile di Giotto, Andrea Pisano, 280, 282 Museo dell’Opera di Santa Croce, Croce dei Filicaia, 298; Crocifisso, Cimabue, 284 Museo Diocesano (costituendo), Madonna da Vico l’Abate, Ambrogio Lorenzetti, 310 Museo di San Marco, corali da Ripoli, 290; Tabernacolo dei Linaioli, Beato Angelico, 376 Museo di Santa Croce, Crocifisso, Cimabue, 284, 286, tav. 44 Museo Horne, Santo Stefano, Giotto, 302, 308 Palazzo del Podestà, Madonna, Bottega di Giotto, 312 Palazzo Vecchio, 277 San Felice in Piazza, Crocifisso, 292 San Giorgio alla Costa, Madonna, Giotto, 292 San Miniato al Monte: monastero benedettino, 160 San Pietro a Scheraggio, 160 Santa Croce, 277, 312; cappella Bardi, affreschi Giotto, 302, 306; cappella Bardi di Vernio, affreschi, Maso di Banco, 308, 342, tav. 61; cappella Baroncelli, affreschi, Taddeo Gaddi, 309, 310, 318; Incoronazione, Giotto, 308; cappella Guidalotti, poi Rinuccini, affreschi, Giovanni da Milano, 360, 340; cappella Peruzzi, 296, 302, 308, 313, tav. 48; Crocifissione, Maestro di Figline, 299; Deposizione, Taddeo Gaddi, 309; Incoronazione, Maso di Banco, 309 Santa Maria Novella, 296; affreschi, Dalmasio, 356; Crocifissione, Giotto, 292 Sant’Ambrogio, Sant’Onofrio, Buffalmacco (?), 313 Santa Reparata, 276 Santi Apostoli, 160, 164 Santo Spirito, polittico, Maso di Banco, 309 Uffizi, Adorazione dei Magi, Gentile da Fabriano, 374, tav. 91; Annun-
ciazione, Simone Martini, 300, 305, 311; Madonna col Bambino e angeli, Pietro Lorenzetti, 313; Madonna Rucellai, Duccio, 296, tav. 51; Maestà Ognissanti, di Giotto, 292, 296; Maestà di Santa Trinita, Cimabue, 286; Pala della Beata Umiltà, Pietro Lorenzetti, 309; polittico, Maestro della Santa Cecilia, 292; polittico di Badia, Giotto, 290; polittico di San Procolo, Ambrogio Lorenzetti, 310; polittico di Ognissanti, Giovanni da Milano, 358, 342, tav. 72; polittico Quaratesi (laterali), Gentile da Fabriano, 376, 357; Presentazione al tempio, Ambrogio Lorenzetti, 313; San Giovanni Battista, Maestro di San Martino alla Palma, 309; Storie di san Nicola, Ambrogio Lorenzetti, 310, tav. 62 Floreffe, Bibbia di, 186 Fontenay: abbazia, 116 Forlì: San Mercuriale, sculture, 260, 244 Fossanova: abbazia, 117 Francoforte: Museum für Kunsthandwerk, urna di san Remaclo, 186 Friburgo, 242 Fulda, scriptorium, 105 Galliano: San Vincenzo, affreschi, 120, 180, 107 Gandersheim, 102 Genova: Duomo, 249 Museo di Sant’Agostino, momumento funebre di Margherita di Brabante, Giovanni Pisano, 274, 269 San Francesco di Castelletto, 274 Germigny-des-Pres: oratorio, 86 Gernrode: San Ciriaco, 102, 79 Gerona: Biblioteca Capitolare, Bibbia di Carlo v, 290 Gerusalemme, 128, 132, 156 Gloucester, candelabro di, 192, 199 Grissiano, affreschi, 181, 187 Hildesheim, 102 San Godeardo, Salterio di St. Albans, 188, 198
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San Michele, 102, 124, 80, 81; colonna trionfale di Bernoardo, 117, tav. 22; Crocifisso dell’arcivescovo Bernoardo, 117, 98; porte bronzee, 116, 100 Intelvi, Val d’, 249 Instanbul, vedi Costantinopoli Jumièges: abbazia, 102 Notre-Dame, 125 Karlstejn, tavole, Tommaso da Modena, 356 Kells, libro di, 48 Klosterneuburg, altare di, Nicolas de Verdun, 247, tav. 41 La-Charité-sur-Loire, 128 La Ferté, 130 Laon: Cattedrale, 230, 232 Le Mans: Cattedrale, 232 Lentate sul Seveso: oratorio, affreschi, 361 León, 132 Collegiata di Sant’Isidoro, Bibbia da Albares, 110; Bibbia del 920, 110, tav. 20; Panteón de los Reyes, affreschi, 178, 183 Lépau: grangia, 119 Le-Puy, 132 Lichfield: Tesoro della Cattedrale, Libro di Saint Chad, 81, 55, tav. 9 Liegi, 107, 184 Biblioteca dell’Università, Vangelo di Averbode, 186 Musée Curtius, legatura dell’Evangeliario di Notker, 116, 96 Notre-Dame des Fontes, 184 San Bartolomeo, vasca battesimale, Renier de Huy, 184, tav. 34 Santa Croce, 186 Liessies, Evangeliario di, 188 Limburg an der Haardt: abbazia, 102 Lindau, Codex Aureus di, 94 Lindisfarne, Libro di, 48 Liverpool: County Museum, avorio con scena di venatio, 22, 20; dittico di Asclepio e Igea, 20, 11
Walker Art Gallery, Ritorno dopo la disputa coi dottori, Simone Martini, 305 Locarno: Santa Maria in Selva, affreschi, 361 Lodi: cattedrale, 150 San Francesco, Tomba Fissiraga, affresco, 356, 335 Lomello: Santa Maria Maggiore, 147, 144 Londra: British Library, Add. Ms. 1872, 290; Add. Ms. 18850, 369; Add. Ms. 35058, 294; Bibbia di Floreffe, 186; copia del Salterio di Utrecht, 107; Genesi Cotton, 182; Libro di Lindis farne, 48, tav. 10; Vangeli, 88 British Museum, cassetta argentea di Proiecta, 20; cofanetto eburneo con Scene della Passione di Cristo, 26; Fibula aurea, 43 Collezione Amati, Decollazione del Battista, Neri da Rimini, 295 Collezioni reali, Madonna in trono e il Bambino (scomparto centrale del polittico Quaratesi), Gentile da Fabriano, 376 Courtauld Institute, Trittico dei Magi Seilern, Maestro di San Martino alla Palma, 309 Lambeth Palace Library, Bibbia di Lambeth Palace, 188, 197 National Gallery, dossale, Giotto, 302; Messa di S. Gilles, 93, 297; Trittico dell’Incoronazione, Giusto dei Menabuoi, 358, tav. 69; Vergine con il bambino e santi, Pisanello, tav. 89 Victoria and Albert Museum, candelabro di Gloucester, 192, 199; dittico dei Nicomaci e dei Simmaci, 20; pastorale, 192; San Matteo (avorio), 118; Situla Basilewsky, 118, tav. 24; Trittico di Alton Towers, 186, 194, tav. 37 Westminster, abbazia di, 125 Lorsch, 107; coperta dell’Evangeliario di, 93 Lucca, 132 Duomo, Deposizione, Nicola Pisano (?), 268 San Frediano, 164, 166 San Michele, 164 Luxeuil, 81 Madrid: Academia de la Historia, Missorium di Teodosio, 16, 16, 17
Archivio Histórico Nacional, Apocalisse della Cattedrale di Gerona, 110 Biblioteca Nazionale, Decretum Gratiani (Vitr. 21-2), 294 Collezione Thyssen, Maestà, Duccio (parte della predella), 298 Magdeburgo, 242; pannelli eburnei di, 118; cattedrale, 102, 244, 228 Magonza: Altertumsmuseum, Madonna col Bambino (avorio), 116, 97 Cattedrale, 102, 124 Malibu: Paul Getty Museum, Incoronazione di Maria, Gentile da Fabriano, 374 Malles: San Benedetto, affreschi, 94, 72 Mantova, 374 Marmoutier, Sacramentario di, 90 Marsiglia: Musée Borély, lastra tombale dell’abate Isarne, 132, 123 Massa Marittima, Maestà, Ambrogio Lorenzetti, 310 Meissen, 244 Mendrisio (Canton Ticino), Santa Maria delle Grazie, lunetta affrescata, Giovanni da Milano, 358, 360 Merano, 180, 181 Mercatale Val di Pesa, 310 Mercatello sul Metauro: San Francesco, Crocifisso, Giovanni da Rimini, 350, tav. 63 Metz, 90 Milano, 22, 23, 39, 96, 118, 120, 247, 310, 312, 349, 356 Biblioteca Ambrosiana, Iliade, 24, 25; Virgilio del Petrarca (ms. S.P. 10.27), 337, 312 Fabbrica del Duomo, 370, 371 Musei Civici del Castello Sforzesco, avorio con le Marie al sepolcro, 22, 13; avorio con la scritta Otto Imperator, 118, 101; lapide di Aldo, 44, 52 Museo Poldi Pezzoli, Madonna col Bambino, Vitale da Bologna, 355 Palazzo Borromeo, affreschi, Michelino da Besozzo, 372 Palazzo della Ragione (Broletto), statua equestre di Oldrado da Tresseno, 258, 240 Palazzo Visconteo, Gloria mondana, affresco perduto, Giotto, 312, 356 Pinacoteca di Brera, affreschi da Mocchirolo, 360, 341; Cristo Giudice, Giovanni da Milano, 360; polittico di Valle Romita, Gentile da Fabriano, 374, tav. 88
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San Gottardo in Corte, Crocifissione, 312, 356, 336; cappella Viscontea, decorazione perduta, 356 San Lorenzo, 22, 28, 96 San Nazaro, 22 San Satiro, 98 Sant’Ambrogio, 22, 96, 147, 150, 142, 143; altare d’oro, 96, 98, tav. 14, 75, 76, 78; ciborio, 118, 103; pulpito, 150, 148 Sant’Aquilino, 22, 96 San Vittore in Ciel d’Oro, 96 Tesoro del Duomo, coperta di libro, 26; Situla di Gotofredo, 118, tav. 24 Mocchirolo, oratorio di, 360 Modena: Cattedrale, 132, 147, 151, 152, 156, 158, 149-156 Moissac: Saint-Pierre, 132, 136, 137, 125-127, 129, 131, 132 Monaco: Alte Pinakothek, Crocifissione, Giotto, 302, 309 Bayerisches Nationalmuseum, avori da Magdeburgo, 118, 104, 105; avorio con le Marie al sepolcro, 20, 26, 15 Bayerische Staatsbibliothek, Apocalisse, 107; Codex Aureus di St. Emmeram, 92; coperta del codice della badessa Uta di Niedermünster, 114; libro d’Ore, Giovanni di Benedetto da Como, 370; Pericopi di Enrico ii, 107; Vangeli di Ottone iii, 107, 87, 88 Residenz-Schatzkammer, altare portatile di Arnulfo, 94, 69; Croce di Gisela d’Ungheria, 114, tav. 21 Staatliche Münzsammlung, moneta di Costantino i, 7 Monreale: Duomo, 168, 173, 179 Montecassino, 176, 182, 184 Mont Saint-Michel, 132 Monte San Quirico (Lucca), Croce, Taddeo Caddi, 309 Monza: Museo del Duomo, corona ferrea, 42, 48; croce di Adaloaldo, 41; croce votiva di Agilulfo, 41; dittico del poeta e della Musa, 36, 36; dittico di Stilicone, 26, 38; legatura dell’Evangeliario di Teodolinda, 41, 42, tav. 7; Chioccia con i pulcini, 42 Morimond, 130 Müstair: San Giovanni, affreschi, 94, 95, 120, 71
Napoli, 280, 299, 300, 302, 305, 309, 374 Biblioteca Nazionale, Decretum Gratiani (ms. X.A. 1), 294 Castelnuovo, cappella, affreschi (frammenti) Giotto, 308 Museo di Capodimonte, San Ludovico di Tolosa, Simone Martini, 300 San Domenico Maggiore, Storie della Maddalena, affreschi, Pietro Cavallini (?), 288 Santa Chiara, affreschi (frammenti), Giotto, 308 Naumburg, 242 cattedrale, 244, 224, 226 New Haven: Yale University Art Museum, polittico del Carmine, Pietro Lorenzetti (scomparti), 303, 310; San Martino e il povero, Pietro Lorenzetti, 310 New York: Brooklyn Museum, trittico, Maso di Banco, 309, 317 Frick Collection, Madonna in trono con san Lorenzo e san Giuliano, Gentile da Fabriano, 376, 358; Maestà, Duccio (parte della predella), 298, tav. 52 Metropolitan Museum, dossale, Giotto (parte), 302; Sant’Antonio da Padova, Maso di Banco, 309; «The Cloisters Collection», capitelli della cattedrale di Troia, 265, 255; Belles Heures du Duc de Berry, 368; Croce dei Confessori, 192, tav. 39; dossale (parte), Maestro del Codice di San Giorgio, 299; Petites Heures de Jeanne d’Evreaux, 367 Pierpont Morgan Library, coperta del Codex Aureus di Lindau, 94, 68; Libro d’Ore già Bodmer, Michelino da Besozzo, 372, tav. 84; Vangeli da Canterbury, 188; Vita di sant’Edmondo, 188; Ms. 891, 351; Reliquiario della Vera Croce (trittico), dalla Chiesa di Santa Croce in Liegi, 186 Nonantola: abbazia, 156, 181, 157, 158 codici, 48 Norimberga: Germanisches Nationalmuseum, fibula barbarica, 39, tav. 8 Norwich: Cattedrale, 125, 112 Novalesa: abbazia, affreschi, 180, 186 Novara: Battistero, affreschi, 120, 106
Cattedrale, 132, 147 San Siro, affreschi, 180 Novgorod: Santa Sofia, porte bronzee, 192, 200 Noyon: Cattedrale, 230, 203 Oberzell (Reichenau): San Giorgio, affreschi, 105 Orta: San Giulio, pulpito, 150 Orvieto: Duomo, Storie della Genesi, Lorenzo Maitani 280, 283; Maestà, affresco, Gentile da Fabriano, 377 Museo dell’Opera del Duomo, scomparti di polittico, Simone Martini, 300 San Domenico, monumento funebre del Cardinal De Braye, Arnolfo di Cambio, 276, 271 Oslo: Museo, Crocifissione (avorio), 192 Paderborn: San Francesco, altare di Abdinghof, 188 Padova, 284, 294, 349, 361, 362 Battistero, polittico multiplo e affreschi, Giusto de’ Menabuoi, 361, tav. 73, tav. 74 Biblioteca Capitolare, Costituzioni di Clemente v, 351 Cappella degli Scrovegni, 292, 293, 294, 299, 362, 296, 297, 300, tav. 49 Duomo, corali, 294 Eremitani, affreschi, Guariento, 361 Museo Civico, Angeli, Guariento, 361, 343; Crocifisso, 296 Oratorio di San Giorgio, affreschi, Altichiero, 362, 364, tav. 75 Palazzo di Cansignorio, Loggia, Medaglioni di imperatori, affreschi, Altichiero, 362 Santo, capitolo, affreschi (frammenti) affreschi di Giotto, 292; cappella del beato Luca Belludi, affreschi, Giusto de’ Menabuoi, 361; cappella di San Giacomo, affreschi, Altichiero e Jacopo Avanzi, 362, 344, tav. 76 Palermo, 160 Cappella Palatina, 170, 173 Cattedrale, 173 collezione Chiaromonte Bordonaro, Apostoli, bottega di Simone Martini, 300
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Martorana (Santa Maria dell’Ammiraglio), 170, 180 San Cataldo, 173, 177 Paray-le-Monial, 128, 115 Parigi, 230, 274, 368, 369, 370 Bibliothèque Nationale, Bibbia (ms. lat. 18), 290; ms. lat. 6069 F e 6069 I, 362; ms. lat. 11935, 367; De Viris Illustribus del Petrarca, Altichiero, 312, 362; Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, 372, tav. 85; Guiron le Courtois, 371, tav. 83; Hexaemeron, 48, 54; Heures de Rohan, 369, 349; Lancelot, 371; Liber Pantheon, 356; Libro di Echternach, 48, tav. 11; Livio del Petrarca, 290; ms. lat. 18, 290, 292; ms. lat. 757, 371, tav. 87; ms. lat. 8941, 294, 298; Prima Bibbia di Carlo il Calvo (o Bibbia del conte Viviano), 90, 62, tav. 13; Sacramentario dell’Incoronazione, 90, 64; Sacramentario di Drogone, 90, 66; Salterio (ms. fr. 13091), 368, 348; Tacuinum Sanitatis, 371, 350; Vangeli di Lotario, 90, 65; Vangeli di Saint Médard a Soissons, 88; Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, 290, 291 Cabinet des Medailles, Aelia Flacilla, 16, 18; spada di Childerico, 39, 44 Collezione Du Luart, Pietà, Giovanni da Milano (già Martin Le Roy), 358 Louvre, Caduta degli angeli ribelli, 305, tav. 59; Codice Vallardi, 374; Deposizione, Pietro da Rimini, 351; disegno, Giotto (?) Maso di Banco (?), 296; disegno, Michelangelo (Inv. 706), 296; Dittico Barberini, 33, 35; dittico di Aerobindo, 93; Elemosina di san Martino, Maestro degli Angeli ribelli, 305; Grande Pitié ronde, Jean Malouel, 368, tav. 80; Maestà, Cimabue, 284, 286, 285; Parement de Narbonne, 368, 347; Ritratto di una principessa Estense, Pisanello, 374, 355; Salita al Calvario, Jacquemart d’Hesdin (?), 368, tav. 78; San Nicola dota le fanciulle povere, Ambrogio Lorenzetti, 342, 320; Scene della vita di Cristo (pannelli eburnei), 26; trittico, Maestro del 1333, 351, tav. 70; Stimmate di san Francesco, Giotto, 292; Storie della Passione, Simone Martini, 305 Museo di Cluny, antependium di Basilea, 114, tav. 23; Apostoli dalla Sainte Chapelle, 242, 244; dittico
dei Nicomaci e dei Simmaci, 20, 12; Maria, Giovanni (sculture lignee), 168; San Paolo (avorio), 116; Teste di Re dalla Galerie des Rois di Notre-Dame, 242, 244, 219 Museo Jacquemart André, Ore del maresciallo Boucicaut, 369, 370, tav. 82 Notre-Dame, 227, 230, 232, 240, 242, 256, 205, 207, 213, 217; porta di Sant’Anna, 240, 79, 213 Sainte Chapelle, 228, 283, 208; Apostoli, 242, 244, 222; ciborio, 276 San Vittore, 258 Parma: Battistero, 252, 256, 258, 234, 236239, 242 Duomo, cattedra episcopale, Benedetto Antelami (?), 252, 232; cripta, 147 Deposizione, Benedetto Antelami, 249, 229, 230; sculture, 252, tav. 42 Pavia, 44, 48, 94, 96, 371 Castello, 370 Cattedrale, 147 Certosa, 370 Musei Civici, lastra di Teodote, 44, 50 San Michele, 150, 145 San Pietro in Ciel d’Oro, affreschi perduti, Michelino da Besozzo, 372 Santa Maria della Pusterla, 44 Santa Maria delle Pertiche, 44 Santa Mustiola, pala perduta, Michelino da Besozzo, 372 Perugia: Biblioteca Augusta, corali da San Domenico, 290, 293 fontana di piazza, 268, 274, 261 Galleria Nazionale dell’Umbria, Assetato, Arnolfo di Cambio, 274, 273; Scriba, Arnolfo di Cambio, 274, 270; Croce, Maestro della Croce di Gubbio (?), 290; Crocifisso Perkins, 302; Madonna col Bambino, Gentile da Fabriano, 374; Mss. 281 e 283, 290 San Domenico, 290 Peterborough: abbazia, 125 Philadelphia: Musco, Crocifissione, Vitale da Bologna, 355 Piacenza: Cattedrale, 132, 147, 150, 158, 147 Museo Civico, affreschi da Sant’Antonino, 361 San Savino, 150 Pisa, 160, 166, 274, 280
Battistero, 160, 166, 182, 260, 265, 270, 167; pulpito, Nicola Pisano, 265, 268, 270, 257, 259 Campanile, 164 Camposanto, 160, 265, 313, 165; affreschi, Buffalmacco, 312, 313, 321; Assunta, 312; Storie di Giobbe, Taddeo Gaddi, 309, 313, tav. 60; tomba di Arrigo vii, 280 Duomo, 160, 164, 274, 286, 168, tav. 25; pulpito, Giovanni Pisano, 270; San Giovanni Evangelista, Cimabue, 286, 287 Museo dell’Opera del Duomo, Madonna col Bambino (dal Duomo), Giovanni Pisano, 270, 263; Vergine in trono, Pisa, Arrigo vii, Giovanni Pisano, 274 Museo di San Matteo, Apostoli, bottega di Simone Martini, 300; Madonna col Bambino, Giusto de’ Menabuoi, 358; polittico, Simone Martini (da Santa Caterina), 300 San Francesco, 292 San Paolo a Ripa d’Arno, 300 Santa Caterina, Trionfo di san Tommaso, bottega di Simone Martini, 300 Pistoia: Museo Civico, Deposizione, Lippo di Benivieni (?), 298 Sant’Andrea, 166; pulpito, Giovanni Pisano, 270, 266-268 San Francesco, 313; affreschi, Dalmasio, 356 San Giovanni Fuorcivitas, 314 Plock: Cattedrale, porte bronzee, 192 Poitiers, 83, 176 Saint-Jean, affreschi del battistero, 178, 185 Pomposa: abbazia, refettorio, affreschi, Pietro da Rimini, 350, 355, tav. 65 Pontigny, 130 Poppi: castello dei conti Guidi, affreschi, Taddeo Gaddi, 309 Prato: Galleria Comunale, polittico, Giovanni da Milano, 358, 360 Spedale della Misericordia, 358 Princeton: University Art Museum, polittico del Carmine, Pietro Lorenzetti, 303 Quedlinburg, 101
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Ravello: Cattedrale, porte bronzee, 168 Ravenna, 23, 25, 26, 28, 44, 83 Mausoleo di Galla Placidia, 23, 24, 23, tav. 3, tav. 4 Museo Arcivescovile, cattedra di Massimiano, 33, 33, 34 Santa Chiara, affreschi, Pietro da Rimini, 292, 351, 327 Santa Croce, 23 Santa Maria in Porto fuori, affreschi perduti, Pietro da Rimini, 351 Sant’Apollinare in Classe, mosaico absidale, 28, 31 Sant’Apollinare Nuovo, 25, 26, 26, 27 San Vitale, 28, 33, 36, 83, 28-30, tav. 5, tav. 6 Reichenau, 106, 107, 120 San Giorgio a Oberzell, affreschi, 105, 84 scriptorium, 105, 106 Reims, 88, 90, 107, 116, 230, 232, 234, 240, 242, 244, 220, 221 Rimini, 349, 350 Museo Civico, Crocifisso, Giovanni da Rimini, 350; Giudizio Universale, affresco da Sant’Agostino, Maestro dell’Arengo, 350, 326 Sant’Agostino, affreschi, 350, 325 Tempio Malatestiano, Crocifisso, Giotto, 292, 349, tav. 46 Ripoli: Monastero, 290 Rivolta d’Adda: San Sigismondo, 150 Rodez: Musée Fénaille, Cristo, 132, 122 Roma, 10, 12, 28, 36, 39, 44, 88, 94, 101, 118, 128, 166, 182, 252, 262, 274, 284, 286, 287, 360, 365 Abbazia delle tre Fontane, affreschi, 290 Aracoeli, mosaico, Jacopo Torriti, 286; tomba del Cardinal d’Acquasparta, 288 Archivi Vaticani, diploma di Ottone i, 101 arco di Costantino, 12, 13, 1 Biblioteca Apostolica Vaticana, Bibbia (vat. lat. 20), 290; disegno del sacello di Bonifacio viii, 276; Eneide, 24; Georgiche, 24; coperta dell’Evangeliario di Lorsch, 93, 67; Decretum Gratiani (vat. lat. 1375), 290; Digesto (vat. lat. 1409), 351; ms. Capitolare di San Pietro C. 129, Maestro del Codice di San Giorgio, 299, tav. 53; mss. vat. lat. 1366, 1389, 1430, 351, 329; Virgilio, 24, 106
Biblioteca Casanatense, Historia Plantarum, 371 collezione privata, Santo, Maestro di Figline, 299 Galleria Nazionale, dittico, Giovanni da Rimini, 350; polittico, Giovanni da Milano, 358 Grotte Vaticane, Angeli, Giotto, 292; sarcofago di Giunio Basso, 16, 10 Museo del Laterano, sarcofago “a teste allineate”, 13, 2, 3, sarcofago detto “dei due fratelli”, 16, 9 Museo di Palazzo Venezia, Madonna col Bambino (scultura lignea), 168, tav. 26 Palazzo dei Conservatori, ritratto di Costantino, 13, tav. 1 Pinacoteca Vaticana, Madonna e santi, tavoletta, Puccio Capanna, 308; Trittico Stefaneschi, Giotto, 302, 308, tav. 56 San Clemente, 166, 182, 170; affreschi, 182, 190 San Crisogono, mosaico, Filippo Rusuti, 287 Sancta Sanctorum, affreschi, 286 San Giorgio in Velabro, affreschi dell’abside, 288 San Giovanni in Laterano, 23; chiostro, monumento Annibaldi, Arnolfo di Cambio, 276, 274 San Paolo fuori le Mura, ciborio, Arnolfo di Cambio, 276, 276 San Pietro, 23, 302; atrio, mosaico, Giotto, 292; sacello di Bonifacio viii, Arnolfo di Cambio, 276; statua di San Pietro, Arnolfo di Cambio, 276, 272 Santa Cecilia in Trastevere, Giudizio Universale, affresco, Pietro Cavallini, 288, tav. 45; affreschi, Jacopo Torriti, 288; ciborio, Arnolfo di Cambio, 276, 277, 278 Santa Costanza, 23 Santa Croce in Gerusalemme, corale, 298 Santa Francesca Romana, Imago antiqua di Santa Maria Nova, 36, 40 Santa Maria ad Martyres (Pantheon), icona, 36, 41 Santa Maria Antiqua, affreschi, 36 Santa Maria del Rosario, Icona di Santa Maria de Tempulo, 36, 39 Santa Maria in Trastevere, 166; icona, 36, 42; mosaico, Pietro Cavallini 288, 289 Santa Maria Maggiore, 24, 25, 45, 286, 287, 288, 24, tav. 2; mosaici, Jacopo Torriti, 286, 287, 288, 288; Presepe, Arnolfo di Cambio, 276
Santa Pudenziana, mosaico absidale, 22, 28, 22 Santa Sabina, 23 Santi Cosma e Damiano, 28, 32 Santo Stefano Rotondo, 23, 21 Rouen: Bibliothèque de la Ville, Messale di Roberto di Jumièges, 107, 90 Saint-Benoît-sur-Loire, 128, affreschi, 180 Saint-Gilles-du-Gard, 132, 145, 146, 252, 141 Saint-Riquier (Centula), 84; Vangeli di, 88 Saint-Savin-sur-Gartempe, affreschi, 176, 178, 181 Salerno: Cattedrale, messale, 290 Salonicco: San Demetrio, 164 San Galgano, 268 San Gallo, 86, 94, 105, 59 San Gimignano, 299, 300 Collegiata, affreschi, 305 Palazzo Comunale, Maestà, Memmo di Filippuccio, 299 Sant’Angelo in Formis (Caserta), affreschi, 176, 182, 184, 191, 192 Santiago de Compostela, 128, 132, 136, 128 Saulieu, 128 Scandicci: San Bartolo in Tuto, Madonna col Bambino, Giovanni da Milano, 360 Senlis, 230, 240 Sens: Saint-Étienne, 230, 204 Settimo: Badia, corali per, 299; cappella di san Jacopo, affreschi, Buffalmacco (?), 313 Siena, 270, 280, 297, 303, 305, 308, 313 Duomo, 305; facciata, 270, 265; mensole della cupola, 265; pulpito, Nicola Pisano, 265, 268, 270, 274, 258, 260, 262; vetrata absidale, 296 Museo dell’Opera del Duomo, Maria di Mosè, Giovanni Pisano, 264; Maestà, Duccio, 296, 297, 301, tav. 50; Natività, Pietro Lorenzetti, 313; pergamena con il progetto del campanile di Giotto, 310; reliquiario di San Galgano da Frosini, 303 Palazzo Pubblico, affreschi, Ambrogio Lorenzetti, 313, 322, 323; Guidoriccio da Fogliano, Simone
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Martini, 299, 313, 324; Maestà, Simone Martini, 299; Resa di Giuncarico, Duccio, 297, 298, 302 Pinacoteca Nazionale, Annunciazione, Ambrogio Lorenzetti, 313; Beato Agostino Novello, Simone Martini (in deposito da Sant’Agostino), 303, 313; Madonna dei francescani, Duccio, 296, 303; Matrimonio mistico di santa Caterina, Michelino da Besozzo, 372; Paesaggi, Ambrogio Lorenzetti, 313; Storie carmelitane, Pietro Lorenzetti, 303, 310 Rettorato dell’Università, Martirio dei francescani a Tana, Ambrogio Lorenzetti (da San Francesco), 313 San Domenico, affreschi, Pietro Lorenzetti, 313 San Francesco, affreschi, Ambrogio Lorenzetti, 310, 313 Sant’Agostino, 303 Sigena: collegiata, affreschi, 178, 190, 184 Silos: Santo Domingo, 136 Soissons: Cattedrale, 230, 232 Saint-Médard, Vangeli di, 88 Solaro: oratorio, affreschi, 360, 370 Soragna, 362 Souillac, 136, 144, 130 Spira: Cattedrale, 102, 124, 125, 147, 83, 108 Spoleto: San Pietro, 166, 169 Stabio (Canton Ticino), 41 St. Albans: abbazia, 188; Salterio di, 188 Stavelot: abbazia, 184, 186; altare di, 186 St. Chad, Libro di, 48 St.-Denis, 86, 90, 92, 93, 128, 132, 136, 158, 228, 230, 234, 237, 202, 209; scriptorium, 90, 92, 239 St. Emmeram, Codex Aureus di, 92 Strasburgo: Cattedrale, 124, 227, 242, 244 Tavoletta, Lippo di Benivieni (?), 298 Subiaco: Sacro Speco, Storie di San Benedetto, 288 Susa: San Michele, 158 Sutton Hoo, 39, 48, 51 Tahull: San Clemente, affreschi, 178
Santa Maria, affreschi, 178 Talamello: San Lorenzo, Crocifisso, 350 Tavant: Saint-Nicolas, affreschi della cripta, 178 Tavara: scriptorium, 110 Ter Doest: grangia, 118 Termeno, 181 Tivoli: Duomo, Deposizione (scultura lignea), 168 Toledo, 125 Tolentino: San Nicola, cappellone, affreschi, Pietro da Rimini, 292, 351, 354 Tolosa: Capitolo di Saint-Étienne, 136 Saint-Sernin, 128, 132, 135, 158, 120, 121, 124 Torba, affreschi, 45 Torcello: Santa Fosca, 158 Torino: Biblioteca Nazionale, Digesto, 351, 328; ms. var. 77, 370 collezione privata, Annunciazione Spinola, 308, 314 Tournai: Notre-Dame, Cassa di Maria, Nicolas de Verdun, 248, 263 Tournus, 128; flabello di Saint Philibert di, 93, 70 Tours, 90; scuola di, 90 San Martino, 98, 128 Trani: Cattedrale, 168, 173, 176 Traù: Duomo, 260 Traversetolo: Fondazione Magnani, Stimmate di San Francesco, doppio stendardo, Gentile da Fabriano (?), 374 Trento: Biblioteca Comunale, Bibbia Bassetti, 288 Treviri, 101, 102, 106, 107, 116, 120, 184 Cattedrale, 102, 124, 82 Stadbibliothek, Codex Egberti, 106, 107, 86, tav. 17; pagina del Registrum Gregorii, 106, 85 Tesoro della Cattedrale, Coperta di Evangelario, 186; Incensiere di Gozbertus, 192; Reliquiario del piede di sant’Andrea, 116 Treviso: Museo Civico, affreschi, Tommaso da Modena, 356; Storie di
sant’Orsola, affreschi, Tommaso da Modena, 356 Santa Margherita, 356 San Nicolò, Capitolo dei domenicani, affreschi, Tommaso da Modena, 356, tav. 66 Troia: Cattedrale, 265 Tuscania: Santa Maria Maggiore, 166 San Pietro, 166, 171
Udine: Duomo, affreschi, Vitale da Bologna, 356 Urbania: Chiesa dei Morti, 350 dossale proveniente da, Giuliano da Rimini, 292, 350 Urbino: Galleria Nazionale delle Marche, polittico, Giovanni Baronzio, 292 Utrecht: Biblioteca dell’Università, Salterio di Utrecht, 88, 94, 107, 188, 63 Valdinievole, 41 Valenciennes, 368 Valeranica: scriptorium, 110 Vendôme: Trinité, affreschi, 178, 182 Venezia, 96, 158, 182, 260 Collezione Cini, miniature, 294; pagina miniata, Neri da Rimini, 292 San Marco, 13, 158, 160, 168, tav. 28; Tetrarchi, 13, 4, 5; mosaici, 181, 182, 189; sculture, 260, 246-249 Museo Marciano, Sogno di san Giuseppe, gruppo scultoreo, 260, 250 Palazzo Ducale, sala del Maggior Consiglio, affresco perduto, Gentile da Fabriano, 374 Seminario Patriarcale, Adorazione dei Magi, Benedetto Antelami (?), 260 Vercelli: Biblioteca Capitolare, codici di diritto canonico, 98, 77 Cattedrale, 147 Sant’Andrea, 258, 241, 243 Verona, 44, 349, 372 Biblioteca Capitolare, codici, 49 Duomo, 158 Museo di Castelvecchio, Madonna del Roseto, Stefano da Verona, 372, 354 Palazzo di Cansignorio della Scala, affreschi della loggia, 362
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San Fermo, Annunciazione, Pisanello, 372, 374 Sant’Anastasia, San Giorgio e il drago, Pisanello, 374, tav. 90; affresco votivo della famiglia Cavalli, Altichiero, 362 San Zeno, 158, 225, 161, 201 Vézelay, 128, 132 Sainte-Madeleine, 144, 145; sculture, 237, 139, 140 Viboldone: abbazia, affreschi, Giusto dei Menabuoi, 358, 339; Crocifissione, 360; Madonna del 1349, 358, 338 Vico l’Abate: Sant’Angelo, 310 Vienna, 9, 247 Kunsthistorisches Museum, corona del Sacro Romano Impero, 112, 92; Vangeli dell’Incoronazione, 88, tav. 12 Österreichische Nationalbibliothek, Decretali, 351; Roman de Troie, 294 Volterra: Duomo, Deposizione (scultura lignea) 168, tav. 27 Washington: Dumbarton Oaks Museum, moneta aurea di Massimino Daia, 13, 8 National Gallery, Madonna, Puccio di Simone, 358; polittico Quaratesi, Gentile da Fabriano (predella), 376; predella della Maestà, Duccio (parte), 296; San Paolo, Bernardo Daddi, 308 Wimpfen im Tal, 227 Winchester, 125, 188 Biblioteca Capitolare, Bibbia di, 180, 188, 190 codici della scuola di, 107, 188 Wolfenbüttel: Niedersachsischen Staatsarchiv, diploma di matrimonio di Ottone ii e Teofano, 101, tav. 15 Worcester (Mass.): Art Museum, San Francesco, Maestro di Figline, 299, 304 Worms: Cattedrale, 124, 109 Zurigo: Landesmuseum, affreschi da San Giovanni a Müstair, 95
REFERENZE FOTOGRAFICHE
Nota: i numeri rinviano alle illustrazioni e alle tavole
ILLUSTRAZIONI © Alamy Foto Stock: 79 (Bildarchiv Monheim GmbH / Alamy Foto Stock); 238 (David Keith Jones / Alamy Foto Stock) © Archivi Alinari, Firenze: Concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali / Raffaello Bencini / Archivi Alinari, Firenze: 70 Archivio Jaca Book / Domenico Ventura: 288-289 Archivio Jaca Book / Arnaldo Vescovo: 21, 32 BAMS foto Rodella: 22-23, 26-31, 33-34 Biblioteca Apostolica Vaticana: 67 Bibliothèque de la Ville, Rouen: 90 BNF, Parigi: 62, 348-350 Hirmer Fotoarchiv, Monaco di Baviera: 296, 306, 340 Metropolitan Museum of Art, New York: 255 Photo © Luisa Ricciarini / Bridgeman Images: 259 Pierpont Morgan Library, New York: 68 © Shutterstock: 1 (Tim Daugherty); 14 (prdyapim); 51, 179 (Mazerath); 58 (LaMiaFotografia); 60 (Uwe Aranas); 80 (Shandos Cleaver); 82 (foto-select); 108 (chbaum); 109 (Tobias Arhelger); 110 (Pack-Shot); 111 (martin garnham); 112 (Christophe Cappelli); 115 (DyziO); 127 (Rosa Jaume); 129 (Anibal Trejo);
133 (PHB.cz Richard Semik); 137-8 (Philippe Beurgaud); 143 (Catarina Belova); 145 (Walencienne); 146 (clivewa); 149 (milosk50); 151-152, 156, 168, 210, 213, 239 (Zvonimir Atletic); 160 (Fabrizio Conte); 161 (ArtMediaFactory); 162 (Jerome Paris); 163 (Nataly Reinch); 165 (D.Bond); 167 (Goran Jakus); 168 (Del Cavallo Stefano); 171 (Buffy1982); 173 (forben); 174 (Nicola Simeoni); 175 (posztos); 176 (trabantos); 177 (Valery Bareta); 178 (Philou 1000); 186 (Pix4Pix); 200 (FotograFFF); 201 (Joaquin Ossorio Castillo); 202 (DreamSlamStudio); 206, 215 (Luis Pizarro Ruiz); 207 (TTstudio); 209 (Premier Photo); 211, 216 (Valery Egorov); 227 (footageclips); 234 (Borisb17); 236 (Renata Sedmakova); 237 (Vladimir Korostyshevskiy); 242 (Stefano Ember); 252 (canadastock); 257 (Anna Pakutina); 260 (Cristina Jurca); 265 (Songquan Deng); 266 (maudanros); 272 (S.Tatiana); 277 (JLOrtin) © Wikimedia Commons: 5, 148 (Giovanni Dall’Orto); 7 (Dietrich. Klose); 18, 47, 72, 154, 157-159, 231, 244-245, 260, 262, 269, 275, 278-279, 331-332, 356 (Sailko); 62, 63 (Utrecht University Library); 69 (by Szilas in Schatzkammer Munich); 71, 321, 355 (The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DvdRom), distributed by Directmedia Publishing GmbH); 81 (Z Thomas); 83 (Harro52); 84 (Hiroki Ogawa); 102 (Daderot); 114 (PMRMaeyaert); 116 (Zairon); 150 (Username.Ruge); 153, 155 (Mongolo1984); 166 (Giova81); 170 (Dnalor01); 180 (Jastrow); 196 (onditmedievalpasmoyenageux.fr); 198 (albani-psalter.de); 208 (Andre.o.mob); 240 (Welleschik); 241 (Laurom); 263 (Joan Banjo); 268 (jollyroger); 276 (livioandronico2013); 302, 307, 310, 342, 357 (Web Gallery of Art); 308, 358 (www.aiwaz.net); 324 (Google Cultural institute); 345 (Jean-Marc Rosier); 354 (www.patriziasanvitale.com)
TAVOLE © Alamy Foto Stock: 29 (Duchesseart / Alamy Foto Stock); 56 (ART Collection / Alamy Foto Stock) Archivio Jaca Book / Mauro Magliani, Padova: 27, 43, 73-74, 89 Archivio Jaca Book / Domenico Ventura: 2 BAMS foto Rodella: 3-6 BNF, Parigi: 13, 83, 85 Hirmer Fotoarchiv, Monaco di Baviera: 20, 30, 40, 49 Museo de Arte Antigua de Cataluña, Barcellona: 31 Pierpont Morgan Library, New York: 84 © Schutterstock: 25, 42 (Zvonimir Atletic); 28 (Viacheslav Lopatin) © Wikimedia Commons: 1 (© José Luiz Bernardes Ribeiro / CC BY-SA 4.0); 50 Andrew W. Mellon Collection); 69, 71 (Sailko)
Le immagini qui non menzionate provengono dall’Archivio Jaca Book